Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

FEMMINE E LGBTI

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

PRIMA PARTE

 

Diversità di genere.

I LGBTQIA+.

Comandano Loro.

Il Potere nel Telecomando.

I Drag Queen.

Il Maschio.

Il Maschilismo.

I Latin Lover.

Il Femminismo.

Gli Omosessuali.

I Transessuali.

I Bisessuali.

Gli Asessuali.

I Fictiosessuali.

Gli indistinti.

I Nudisti.

L’Amore.

Sesso o amore?

Gli orecchini.

Il Pelo.

Le Tette.

Il Ritocchino.

Le Mestruazioni e la Menopausa.

Il Feticcio.

Bondage; Fetish: Il Feticismo.

Mai dire… Porno.

Mai dire …Prostituzione.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

SECONDA PARTE

 

La Truffa Amorosa.

La Molestia.

Lo Stupro.

Il Metoo.

Il Revenge Porn.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

TERZA PARTE

Le Violenze di Genere: Maschicidi e femminicidi.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

QUARTA PARTE

 

La Gelosia.

L’Infedeltà.

Gli Scambisti.

Gli Stalker.

Il body shaming. 

Le Bandiere LGBTQ.

San Valentino.

La crisi di Coppia.

Mai dire…Matrimonio.

Mai dire Genitori.

Mai dire…Mamma.

Mai dire…Padre.

Mai dire…Figlio.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

QUINTA PARTE

Il Figlicidio.

Le Suocere.

Il Sesso.

Il Kama Sutra. 

Prima del Sesso.

Durante il Sesso.

Dopo il Sesso.

Il Sesso Anale.

La Masturbazione.

L’Orgasmo.

L’ecosessualità.

L'aiutino all'erezione.

Il Triangolo no…non l’avevo considerato.

Il Perineum Sunning: Ano abbronzato.

Il Sesso Orale.

Il Bacio.

Amore Senile.

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI

TERZA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le Violenze di Genere: Maschicidi e femminicidi.

I femminicidi invisibili: quando a essere ammazzata è una prostituta. Sono decine le sex worker uccise ogni anno. Ma è una strage che rimane lontana dai riflettori dell’opinione pubblica. E così, schiavizzate in vita, le vittime sono condannate a rimanere “non persone” anche nella morte. Luana De Francisco su L’Espresso il 6 Dicembre 2022.

Ci sono stati periodi in cui la percentuale delle prostitute vittime di omicidio ha rappresentato quasi un quarto del totale delle donne uccise. Eppure, di quella porzione di delitti, laddove ne sia stato dato conto, si è parlato in termini e con enfasi diversi dai toni usati per il resto dei femminicidi. Quasi si trattasse di un segmento dell’universo femminile confinato ai margini di una società che, nel rifiutarle, ha scelto anche di ignorarne i diritti e le sorti.

Nessun uomo e neppure un dio.. può rubare, depredare il cuore e il destino di una donna. Stella Fanelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Novembre 2022.

Nel suo tentativo di farsi racconto totale del mondo, il mito ci racconta molto, forse tutto di noi, di come ad esempio si siano strutturate le gerarchie dei sessi e si siano naturalizzate quelle disuguaglianze che ancora determinano rapporti di dominazione e violenza che le donne subiscono da sempre, da quando di loro si innamoravano gli dei. Sono agitati da passioni al pari degli uomini gli dei: quando amano, si prendono quello che vogliono!

Per soddisfare un impulso sessuale, che è insieme esercizio di potere, un dio ingannava, rapiva, stuprava. Zeus il più infedele dei mariti, il più insaziabile degli amanti, è un dio che sceglie il «travestimento» per avere le donne mortali che seduce, insegue, possiede e poi abbandona. Innumerevoli sono le metamorfosi che consentono al signore dell’Olimpo di manipolare la preda e sfuggire all’ira della moglie tradita: cigno, toro, aquila ma Zeus è anche capace di assumere l’aspetto di un uomo, come Anfitrione, per entrare nel suo letto ed unirsi alla moglie Alcmèna, prendendosi l’amore che questa aveva riservato al marito; o di una dea, come Artemide, per avvicinare Callisto senza insospettirla e perfino di una pioggia per penetrare nella stanza in cui è rinchiusa Danae.

Ma il mito ci racconta che gli dei sanno pure estorcere con la violenza e non solo con l’inganno, l’amore e il piacere che gli vengono negati: Zeus rapisce e stupra Europa, Latona, Elettra, con la forza afferra Ganimede, seppellisce viva Elara e divora, ingoiandola, Metis quando questa minaccia di spodestarlo col figlio che porta in grembo. Anche il dio del mare Poseidone ordina ai delfini di catturare contro la sua volontà Anfitrite e Apollo rapisce Creusa, insegue e molesta Dafne, e ancora Ade rapisce Persefone e quanti satiri e centauri scopriamo protagonisti di aggressioni sessuali! In nome di quell’amore che ancora oggi umilia, oltraggia e offende la dignità della donna gli dei punivano chi non voleva sottomettersi al loro volere: Cassandra e Coronide subiranno la vendetta del dio che non hanno accontentato, Demetra e Dafne devono rinunciare a vivere nel proprio corpo di donna per sfuggire agli attacchi predatori che le tormentano.

Ma i Greci sanno indicarci anche la via d’uscita dalla violenza, dal Male. Nella tragedia ad esempio la figura femminile arrivava a prendersi tutto lo spazio che le veniva negato nella realtà e nella vita in cui era condannata alla subordinazione e al silenzio. Nel teatro greco le donne sono titani che sfidano l’autorità e l’uomo: Antigone, Medea, Clitennestra emergono eroine statuarie nel loro dolore, nella risolutezza dei loro sentimenti con cui spaventano chi ancora oggi si sente minacciato dalla Bellezza, dalla forza, dal talento delle donne libere che devono rivendicare libertà e parità e affrancarsi da quella soggezione in cui l’uomo e la Storia l’hanno obbligata a essere vittime di quell’amore che non ama ma offende e uccide. Che il Mito, che ci racconta la prevaricazione dell’uomo sulla donna e la sua infinita pena e solitudine nella Storia, ci insegni che c’è un amore dal quale si deve fuggire, dal quale ci si deve salvare: perchè nessun uomo e neppure un dio.. può rubare, depredare il cuore e il destino di una donna.

Da "l’uomo è cacciatore" a "donna-danno". La violenza dei luoghi comuni. Nella pubblica opinione, sui media e perfino sulle sentenze: gli stereotipi contribuiscono a una narrazione molesta. Espressioni apparentemente benevole e altre decisamente pericolose riaffermano maschilismo e patriarcato. Ecco le parole da bandire. Simone Alliva su L’Espresso il 18 Novembre 2022.

«Quando mi diceva che non valevo niente, quando a cena con amici se ne usciva con quelle frasi, io ridevo. Ci ho messo del tempo. Anni di violenza psicologica. Poi è esplosa quella fisica. Non è stato facile risalire l’abisso che ti inghiotte. Ti salvi solo se tendi la mano e qualcuno la afferra. Io sono risalita da qui». Qui è la Casa internazionale delle donne. Dafne si racconta di fronte a un’intera parete tappezzata di nomi di donne morte per femminicidio. Nella «casa di tutte» ha sede anche l’associazione Cco, Crisi come opportunità che insieme a Urban Vision ha realizzato la campagna #laviolenzanonèunluogocomune, ideata da Celeste Costantino, coordinatrice dell’Osservatorio sulla parità di genere del ministero della Cultura: «La campagna gioca su un doppio livello di falsa narrazione ai danni delle donne: da una parte ci sono gli stereotipi "benevoli", quelli più vicini a dei proverbi piuttosto che a dei giudizi ragionati, e che costituiscono un ostacolo all’emancipazione dell’immagine della donna nella società italiana. Dall’altra parte invece ci sono quelli esplicitamente pericolosi, quelli che comprendono o addirittura giustificano la violenza sulle donne», spiega Costantino. La lingua indirizza il modo di pensare. Modi di dire come «chi dice donna dice danno», riverberano una visione patriarcale spiega Giulia Minoli, presidente di Cco: «In Italia il 67 per cento delle donne si occupa della cura della casa, il 37 per cento non ha un conto corrente intestato, una donna su due non ha lavoro, ogni tre giorni un femminicidio. Nel 2022 sono state uccise 77 donne. Il dato è drammatico, il momento è difficile ma la crisi è opportunità. Ci mette alla prova. Noi ci siamo».

#laviolenzanonèunluogocomune sarà proiettata su tutti gli impianti pubblicitari digitali di Urban Vision, dislocati sul territorio italiano. «L’obiettivo è incoraggiare le donne a denunciare, a rompere il silenzio e chiedere aiuto prima che sia tardi», dice l’amministratore delegato Gianluca de Marchi. I pensieri, le intenzioni, la memoria e le emozioni si formano sulle parole, spesso si guastano. Lo si può vedere con l’abisso che si è spalancato davanti ai nostri occhi e che parla soprattutto agli uomini, racconta quanto il mondo fuori sia cresciuto deforme dentro di loro. La questione femminile non è altro che una questione maschile: sono gli uomini i primi a doversene occupare. Fermarsi, non solo il 25 (Giornata internazionale contro la violenza) e il 26 novembre (Manifestazione nazionale a Roma) ma ogni giorno, guardarsi dentro e riflettere. Riconoscere i volti della violenza - fisica, verbale, psicologica - e liberarsene.

La donna non si tocca neanche con un fiore

L’ex presidente della commissione parlamentare sui femminicidi e senatrice del Pd, Valeria Valente scorre l’elenco della campagna e si sofferma sul primo luogo comune che incornicia il femminicidio: «Una violenza che non ha conosciuto nessuna battuta di arresto anche se è cresciuta la consapevolezza nella società. Sono molti i passi avanti sulle leggi, ma qualsiasi norma deve essere applicata da uomini e donne».

Non c’è altro modo che non sia quello di cominciare dall’educazione. Dal rifinanziamento dei centri antiviolenza che sono luoghi per ribaltare la cultura della sopraffazione, per evitare quando vai a denunciare il tuo ex che ti perseguita o il tuo compagno che ti massacra, che non ci sia, come è successo, qualcuno al commissariato che dica: «Torni a casa». «Questi uomini e queste donne sono anche loro espressione della società. Portatori di stereotipi. Nelle aule di giustizia si fa fatica a credere alle donne. Nei processi di separazione spesso il giudice non considera gli attestati di violenza. Un’indagine Istat del 2019 dice che il 74 per cento delle donne vittime non si racconta neanche a un’amica. Leggere prima la violenza conta. L’aggressione, quando arriva, non è un fulmine a ciel sereno, il tormento di mesi o di anni ha rilevanza». 

La donna è l’angelo del focolare

«La questione è semplice: senza autonomia economica, non ci può essere una reale indipendenza». È netta Daniela Santarpia, presidente di E.v.a la cooperativa sociale nata nel 1999 a Casal di Principe in un bene confiscato alla camorra e che forma e trova lavoro alle donne in uscita dalla violenza. Fondata da Lella Palladino, E.v.a custodisce storie luminose, come quella di Giusi: «Non avevo nessuna competenza, pensavo di non poter fare nulla. Ho denunciato mio marito dopo anni di violenze fisiche, psicologiche ed economiche. A cinquant’anni sono arrivata sotto protezione al centro antiviolenza. Non pensavo di poter fare niente. Gli anni con lui mi avevano annullata». Giusi che per anni aveva gestito il bar del marito senza percepire un centesimo, si è riscoperta. «Adesso è un nuovo inizio». 

Mogli e buoi dei paesi tuoi

Nelle rotte dei migranti ci sono i trafficanti, stupri, botte, abusi, mutilazioni. Donne trasformate in giocattoli, fino a che non si rompono. «Spesso sono giovanissime. Quando arrivano qua in Italia sono già devastate. La nostra sensazione è che di loro non importi più nulla a nessuno», dice Oria Gargano, presidente di BeFree, la cooperativa sociale nata nel 2007 per contrastare tratta, violenza e discriminazione.

«Negli anni 90 erano tutte bianche, venivano dall’Europa, oggi sono per lo più ragazze provenienti dall’Africa. Per la gran parte dalla Libia. Torturate e costrette a prostituirsi. Partono da Benin City, poi attraversano tutto il deserto del Niger, arrivano nella Libia settentrionale e lì vengono messe in case chiamate Africa house e che in genere sono gestite dalla mafia nigeriana che spesso collabora con la mafia libica. Destinazione Lampedusa. Queste donne riescono ad arrivare in Italia convinte di trovare accoglienza e invece vengono messe in strada. È un copione rigido: non conoscono la lingua ma vengono istruite per chiedere subito il modulo C2, per il diritto d’asilo, per non essere espulse». Sostenere queste ragazze dopo, aiutarle a ripartire non è mai facile ma è possibile: «Di recente, tra le tante, due ragazze giovanissime sono diventate operatrici anti-tratta. Ci vuole tanta competenza, empatia. Evitare la ri-vittimizzazione. Ci sono molte strade aperte per chi riesce a salvarsi, bisogna dar loro la possibilità di percorrerle». 

Donna al volante, pericolo costante

L’avvocata Teresa Manente da 30 anni assiste le donne dell’Ufficio legale di Differenza Donna. Da qui sono passate 48 mila donne ospitate in centri antiviolenza e case rifugio. Conosce bene il coraggio delle donne quando decidono di denunciare, le loro paure, la vergogna del sentirsi a un tratto carnefici e non più vittime, il dover fuggire per evitare il peggio. E le contraddizioni della giustizia: «I pregiudizi contro le donne sono talmente radicati nella nostra cultura e in tutti noi da non permettere di riconoscere la gravità dei fatti denunciati e applicare le leggi. Questo è visibile nelle condanne della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia. Quattro negli ultimi mesi.

L’ultima, emessa su nostro ricorso pochi giorni fa, ha condannato l’Italia per aver violato l’articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e non protetto i figli di una madre costringendoli per tre anni a incontrare il padre accusato di maltrattamenti, nonostante lo stesso continuasse a esercitare violenza e minacce». Madri ancora oggi considerate alienanti, manipolatrici, malevole. «Mentre gli uomini vengono considerati disperati dall’essere stati "abbandonati" o "delusi" dal comportamento della donna che si è sottratta al loro potere». 

L’uomo è cacciatore. La carne è carne

«Ancora oggi le nuove generazione ritengono, a seguito di un’acquisizione stereotipata del mito dello stupro, che l’uomo agisce in base a impulsi naturali e incontenibili mentre la donna scatena questi impulsi». Nella sua carriera di magistrata, Paola Di Nicola si è occupata a più riprese di reati di violenza contro le donne e di pari opportunità. «È ancora radicatissimo il principio per cui l’uomo è cacciatore e la donna è preda. Ci sono vari livelli. C’è quello culturale dove è salda la difficoltà nel riconoscere il valore del consenso: i maschi considerano che non debba essere espresso perché nella rappresentazione che si fa del sesso il consenso non c’è mai, è presunto». Nel Codice penale la parola "consenso" è assente. «I termini ricorrenti sono violenza, minaccia, induzione. Andrebbe riformato. La parola delle donne sul consenso non è mai stata realizzata. La gran parte delle violenze avvengono senza alcuna minaccia. Pensiamo al caso della studentessa di un liceo avvicinata da un adulto. La condizione è di tale soggezione che si resta immobilizzati». Errato anche parlare di violenza sessuale. «La gran parte dei casi avvengono senza violenza e non hanno a che vedere con il sesso. È un atto di potere esercitato da un uomo nei confronti di una donna, sulla sfera intima e senza, bisogna ribadirlo, il consenso». 

Chi dice donna dice danno

«È una frase estremamente subdola che si insinua all’interno del nostro cervello con una facilità che addirittura superiore a quella di altre locuzioni, per la struttura fonica e ritmica che ha», commenta Francesca Dragotto, direttrice del centro di ricerca "Grammatica e sessismo" dell’Università di Roma "Tor Vergata". «Sono modi di dire che creano una sorta di cantilena nel cervello, vengono immagazzinate e si riattivano tutte le volte che sentiamo donna e sentiamo danno. Avere ancora nella nostra cultura un’affermazione come questa e come le altre favorisce che nei più piccoli si crei da subito l’idea che vi sia un pericolo nella donna». 

La mia donna ha due palle così

La storia delle donne è quella della società intera. Sembra dire Loretta Bondi, presidente di Archivia-archivi biblioteche e centri di documentazione, una vita per il femminismo, con esperienze anche internazionali. Ora che si mette in discussione anche il diritto all’aborto, ora che i fondamentalismi cattolici tornano con prepotenza in campo. Ora che per le nuove generazioni, soprattutto per le ragazze giovanissime, il futuro è così incerto bisogna guardarsi indietro per capire da dove ripartire: «In passato la violenza contro le donne veniva concepita come un reato contro la morale. Da qui abbiamo iniziato una riflessione e una battaglia per vederlo come un reato contro la persona. È stato quello che ha aperto la strada a tutte le declinazioni. Le donne si sono sempre dovute battere contro vecchie e nuove forme di violenza: la tratta, i matrimoni forzati, l’infibulazione. Oggi c’è una maggiore consapevolezza che non sempre le nuove generazioni traducono in impegno, come accadeva negli anni ’70.

Archivia custodisce 30 mila volumi ma anche 600 pubblicazioni. Ecco, una volta ci si riuniva intorno a testate come "Effe", "Noi Donne", ora sembra che basti un post social. Dentro questo tempo serve un ritorno dei corpi in contrapposizione rispetto a quello che già questo governo sta esprimendo e in contrapposizione con il patriarcato e non in mediazione. Un 25 e 26 novembre costante, che diano luce a un tempo nuovo.

(ANSA il 24 novembre 2022. ) "Le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne. Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner (57,8% nel 2020 e 61,3% nel 2019). I minorenni sono uccisi da persone che conoscono". Lo dicono i dati Istat sulle Vittime di omicidio nell'anno 2021 diffusi oggi.

"Nel 2021 gli omicidi risultano in lieve calo, ne sono stati commessi 303 (315 nel 2019, 286 nel 2020). In 184 casi le vittime sono uomini e in 119 sono donne. Si arresta il calo degli omicidi di donne e sono in lieve aumento quelli di uomini, che erano invece diminuiti nel 2020 (170)". 

Lo affermano i dati Istat diffusi oggi relativi al 2021. "È straniero il 19,1% delle vittime, dato stabile nel tempo - spiega l'istituto di ricerca -, nella maggior parte dei casi (63,8%) uomini. Tra gli italiani i maschi sono il 60% del totale. Ancora in diminuzione gli omicidi dovuti alla criminalità organizzata: 23 nel 2021, pari al 7,6% del totale (29 nel 2019 e 19 del 2020)". (ANSA) 

Allarme maschicidi: ogni tre giorni un uomo viene ucciso da una donna. Ma nessuno fa niente. Uomini ammazzati con una ferocia e una violenza inaudita. L’ultima killer è un’insegnante…Federica Passarella su matesenews.it il 17 Ottobre 2022 

L’Italia non è un Paese sicuro per tutti. Non lo è per gli uomini, visto che, proprio in queste ore, si è tornato a parlare di maschicidi, aggiornando ancora una volta il lungo e triste elenco degli uomini vittime della violenza delle donne. Nell’ultimo anno 2021, complice il Covid e il lockdown forzato, sta diventando una vera e propria strage che non accenna a fermarsi. Uomini ammazzati con una ferocia e una violenza inaudita. Chi nella propria casa e chi in mezzo alla strada in pieno giorno sotto gli occhi dei passanti; spesso la furia omicida delle donne non risparmia neanche i figli e le persone vicine alle vittime. Sono le stragi atroci e silenziose degli uomini nel nostro Paese.

Carlo è la quindicesima vittima dall’inizio dell’anno e la quarta in poco meno di una settimana. L’architetto cinquantenne ucciso stamattina con più di 15 colpi di arma da fuoco dalla ex compagna, che non accettava la fine della loro relazione, si era confidato qualche giorno prima con un amico dicendo di non sentirsi più al sicuro e di temere il peggio. La killer è un’insegnante con gravi problemi economici con la quale la vittima aveva avuto una relazione. Nel pomeriggio di ieri ha raggiunto l’uomo all’interno dello studio in cui lavorava, e forse al culmine dell’ennesimo litigio ha sparato quindici colpi, di cui quelli al collo e al petto sono risultati fatali. Per lui non c’è stato niente da fare; è morto poco dopo l’arrivo in ospedale. È l’ennesima vittima dell’amore malato di una donna che non voleva saperne di una relazione finita. È boom di maschicidi: Carlo, Mario, Giovanni, Antonio, Francesco. Storie simili sono l’epilogo di un’idea distorta dell’amore che si trasforma in possesso, una strage senza fine che non sembra possibile arrestare. Non basta, come sta accadendo in questi mesi, chiedere agli uomini di fare più attenzione o di non rientrare a casa tardi la sera da soli, perché, come dimostrano anche gli ultimi casi, la maggior parte delle volte l’assassina ha le chiavi di casa, è una moglie, una fidanzata, una ex, ma anche una madre, una sorella, un’amante o una pretendente respinta. Donne che pensano di essere padrone delle vite degli uomini, di possederle e di poterne decretare la fine. 

Il 17 marzo, a essere vittime erano stati Giovanni e Antonio, di 45 e 78 anni, rispettivamente padre e figlio. A ucciderli Lucia, la donna di 44 anni che ha ucciso suocero e marito colpendoli ripetutamente con un coltello e poi ha telefonato al 112 confessando il duplice omicidio. "Venite, ho ucciso mio marito e mio suocero", queste le sue parole prima di chiudere la telefonata, salire in auto e fuggire. Quando i carabinieri sono giunti sul luogo del delitto, si sono trovati di fronte all’orrore. Alla base del gesto, mentre si continua a indagare, ci sarebbero ragioni economiche, un appartamento che l’uomo avrebbe dovuto ereditare dall’anziano padre e una relazione extraconiugale della donna. 

Aveva solo 17 anni, invece, Mario, su cui di recente le indagini hanno subito una svolta dopo che sono emersi ulteriori particolari. Il suo corpo è stato trovato alcuni giorni dopo la sua scomparsa. Il corpo era nascosto in una fossa nel terreno di una campagna non lontana da una strada provinciale. Così si è conclusa tragicamente la vicenda di Mario Russo, una risata contagiosa e il sogno di diventare pizzaiolo. Il ragazzo della provincia di Roma era scomparso a fine febbraio dal piccolo comune in cui viveva con la sorella e i genitori. A indicare dove si trovasse il cadavere dell’adolescente è stata la sua fidanzatina sedicenne, che davanti agli inquirenti, dopo numerosi tentativi di discolparsi, è poi crollata confessando tutto. Mario è stato ucciso probabilmente con uno o più colpi di pietra, uno dei quali lo ha raggiunto alla testa. Diverse tracce di sangue sono infatti state trovate sul luogo del ritrovamento del cadavere. La giovane avrebbe tentato di occultare il corpo del diciassettenne nascondendolo in un fosso tra i cespugli, ma ci sono molti particolari ancora da chiarire e non si esclude che la ragazza possa aver agito con un aiuto esterno. 

Nel frattempo, emergono nuovi particolari sulla vicenda forniti dai familiari della vittima. Secondo un cugino, l’adolescente era vittima di continue violenze da parte della fidanzata, abusi fisici e verbali per i quali però mai nessuno era intervenuto. I familiari della vittima accusavano la sedicenne di ripetute violenze nei confronti del ragazzo; in uno di questi episodi il giovane era stato chiuso in casa per tre giorni per impedirgli di partecipare a una serata tra amici. La madre ha dichiarato che lei era possessiva e gelosa, e non voleva che il figlio vedesse altre persone; ha anche raccontato agli inquirenti che dopo quell’episodio il giovane si era recato in caserma insieme ai genitori per denunciare quanto accaduto con ancora i segni della violenza sul volto, ma non era stato fatto nulla. I genitori del ragazzo temevano per la sorte del figlio, che da un anno frequentava la giovane, e avevano chiesto ai magistrati di intervenire. Una vicenda che ricorda molto quella di Francesco, il ragazzo diciannovenne che proprio tre mesi fa a Napoli veniva investito dalla ex ragazza in circostanze ancora da chiarire al culmine di una lite scoppiata per uno sguardo di troppo a un’altra ragazza. Per la ragazza, che non ha ancora mostrato alcun segno di pentimento per quanto fatto, il Pm ha formulato la richiesta di condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario, ma il gip del Tribunale di Napoli nord ha condannato la giovane soltanto a 4 anni e 8 mesi di reclusione. 

Storie di istituzioni assenti, di ritardi e di ingiustizia, vicende che si assomigliano un po’ tutte, con uomini che subiscono in silenzio, già nelle mura di casa, isolati piano piano dal mondo e dagli affetti più cari, per scontare spesso un calvario di violenze accanto alle loro aguzzine. Morti annunciate che riempiono ormai le pagine dei giornali e le prime notizie dei telegiornali senza che si riesca a capire come fare per fermare questa strage e per non lasciare gli uomini da soli. A volte soli e rassegnati a tal punto da essere lucidamente consapevoli di quello che li aspetta. Giovanni, il muratore di trentasette anni ucciso dalla moglie a inizio anno, due settimane prima di morire si era andato a pagare il funerale da solo. Non voleva gravare sul padre anziano e malato: "forse aveva capito che sarebbe finita male", ha detto durante l’interrogatorio agli inquirenti un collega della vittima.

 Dall’Italia  "Maschicidio" e "femminicidio": esiste davvero un’emergenza a senso unico? Ecco i dati...

"Maschicidio" e "femminicidio": esiste davvero un’emergenza a senso unico? Ecco i dati presentati da Libero. Maria Mento il 29/01/2020 newnotizie.it.

In Italia si esaspera il fenomeno del femminicidio? Esiste, cioè, un numero pari di uccisioni in cui le vittime siano di sesso maschile e di cui non si parli abbastanza? Libero ha presentato delle cifre in merito

Uomini che vengono uccisi esattamente come le donne, se non addirittura in numero superiore. Eppure, è di femminicidi che in Italia si sente parlare quasi ogni giorno e non di "maschicidi". Anche se si dovrebbe parlare di "omicidi", di qualunque sesso sia la vittima e qualunque siano le circostanze della sua morte, senza fare distinzioni di sorta e soprattutto per evitare di attribuire a un delitto connotazioni fuorvianti.

Libero Quotidiano ha deciso di affrontare la questione in un suo articolo e ha fornito dei dati nel tentativo di cercare di comprendere come realmente stiano le cose. Le domande che bisogna porsi sono sostanzialmente due. La prima: in Italia vengono uccisi più gli uomini rispetto alle donne? La seconda: nel caso in cui si risponda di sì alla prima domanda, si sente parlare in via esclusiva di femminicidio? Di seguito, dunque, i dati e le conclusioni a cui è pervenuta la redazione di Libero.

In Italia ci sono più "maschicidi" o più "femminicidi"? Le cifre del 2017 in un report redatto da Barbara Benedettelli

Il documento che Simona Pletto cita nel suo articolo per Libero Quotidiano è il report "Violenza domestica e di prossimità: i numeri oltre il genere". Il report è stato curato da Barbara Benedettelli, che riveste la carica di vicepresidente dell’Osservatorio Nazionale Sostegno delle Vittime. Si tratta della stessa professionista che ha aiutato a redigere il cosiddetto "Codice Rosso", il codice contenente le norme e le condanne afferenti all’ambito dei delitti di genere.

Il documento parla di 355 omicidi commessi in Italia nel 2017: di queste 355 persone, 236 sono quelle che hanno perso la vita per mano di familiari, amici, vicini di casa, compagno/a di vita e colleghi. Ancora, andando a "sezionare" questo numero 236 si vede che le vittime di sesso femminile sono state 120 e che quelle di sesso maschile sono state 116 (si arriva al pareggio, quindi alla cifra tonda di 120, considerando anche quattro omicidi di uomini italiani compiuti all’estero).

Questo valore sta a significare che– scrive Simona Pletto- "se si prendono in considerazione gli omicidi avvenuti nell’ ambito delle relazioni più significative (in termine tecnico si definiscono proprio Relazioni Interpersonali Significative, RIP), donne e uomini vengono uccisi nello stesso numero".

In Italia ci sono più "maschicidi" o più "femminicidi"? Il problema della corretta catalogazione degli omicidi

Continuando nell’analisi di questi dati, si mette in evidenza come – guardando la questione dal punto di vista delle uccisioni commesse da squilibrati, rapinatori e persone sotto l’effetto di stupefacenti– gli uomini sarebbero addirittura in numero superiore: 133 vittime di sesso maschile contro le 128 del sesso femminile.

Il problema, quindi, non sarebbero i dati raccolti ma la loro catalogazione: spesso, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica, vengono erroneamente inclusi nel novero dei femminicidi anche delitti che nascondono una dinamica diversa da quella che ha spinto a catalogare le uccisioni di donne come tali. Scrive ancora Simona Pletto: " (…) E attenzione, non si tratta affatto di sminuire il fenomeno delle donne maltrattate e uccise, ma proprio di poterlo valutare in base a dati credibili e quindi con equilibrio(…)".

Le donne killer (assassine o mandanti)– di cui non si sente parlare se non di rado- prendono di mira altre donne nel 31% dei casi. La restante percentuale riguarda vittime di sesso maschile. Prendendo in esame la forbice dei dati riguardanti i casi di rapporti sentimentali finiti male ci viene restituita una media  di tre uomini uccisi per ogni donna a cui è stata tolta la vita.

In Italia ci sono più "maschicidi" o più "femminicidi"? Violenze e molestie su 3 milioni e mezzo di uomini

Questo senza contare che esistono anche numerosi casi di violenza ai danni di uomini e che non per forza questa violenza sfoci poi in omicidio: violenza fisica, sessuale e psicologica. L’Istat ha stimato, tramite dati recentemente diffusi, che siano circa 3 milioni e 574mila gli uomini italiani che hanno subito questo tipo di violenze. Meno rispetto alle donne, ma si tratta di un problema che comunque non va ignorato né sottovalutato. Maria Mento

È giusto continuare a parlare di femminicidi (e non invece di maschicidi)? Una risposta a Franca Leosini

Fabio Giuffrida su Open.it il 7 giugno 2022.  

Hanno fatto discutere le parole di Franca Leosini che, in un’intervista a Open, ha definito il termine femminicidio «una brutta parola». In Italia ogni anno oltre 100 donne vengono uccise. Perchè donne

Femminicidio non significa semplicemente omicidio di una persona di sesso femminile. Femminicidio è l’uccisione di una donna in quanto tale, in una società che, dispiace dirlo, in alcuni casi le considera "oggetti" di cui si è proprietari, un "qualcosa" da controllare che, se sfugge al proprio controllo, diventa l’elemento scatenante dell’azione criminosa. Guai a parlare di omicidi "passionali". No, non si uccide per amore. Quello è possesso. Ed è d’accordo anche Franca Leosini, giornalista e conduttrice, che stasera torna in tv con "Storie maledette", programma di Rai 3 che, proprio nella prima puntata, racconterà il delitto di Dina Dore, soffocata con un nastro da imballaggio davanti alla figlia di 7 mesi nel marzo del 2008. Il marito, Francesco Rocca, è stato condannato all’ergastolo per essere stato il mandante dell’omicidio. 

«Mi vengono i brividi a sentire la parola femminicidio»

Un passaggio della intervista a Open di Franca Leosini, però, ha suscitato polemiche. A un certo punto, la conduttrice di "Storie maledette" ha detto: «Basta parlare di femminicidio. Mi vengono i brividi a sentire questa parola, è proprio brutta dal punto di vista lessicale. Si tratta di un omicidio. E poi, mi scusi, ma esiste il maschicidio?». 

«Un’affermazione di questo tipo ci riporta indietro di 20 anni»

A risponderle è Antonella Veltri, presidente di Di.Re, la rete nazionale dei Centri antiviolenza: «Ci sono dei motivi ben precisi per cui è stato coniato il termine femminicidio negli anni Novanta, e rigettarlo come una "brutta parola" non cambia la realtà dei fatti, anzi finisce solo per contribuire a occultarla. Un’affermazione di questo tipo ci riporta indietro di 20 anni e rafforza solo chi continua a negarlo».

Sono oltre 100 i femminicidi ogni anno in Italia, un numero che, purtroppo, «non accenna a diminuire al contrario degli altri reati violenti»: «Secondo una ricerca dell’Eures il 78% delle donne assassinate è stato ucciso tra le mura domestiche, principalmente da compagni o ex partner, già denunciati dalle vittime nel 28% dei casi. Non c’è confronto con gli omicidi degli uomini, che continuano a essere uccisi soprattutto da altri uomini, per motivi non legati al genere, ma piuttosto alla criminalità», spiega ancora la presidente di D.i.Re.

«Emergenza nazionale»: 103 donne uccise nel 2019

E il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, lo ha confermato nel suo intervento durante l’inaugurazione dell’ultimo anno giudiziario parlando di «emergenza nazionale». Nonostante il calo degli omicidi con uomini come vittime «è ancora più drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur in diminuzione, i cosiddetti femminicidi». Le donne uccise nel 2017 sono state 131; 135 nel 2018 e 103 nel 2019: «Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi di uomini, in maniera davvero impressionante». Nel 2012 erano state 157, nel 2013 179, nel 2014 152, nel 2015 141, nel 2016 145. L’ambiente in cui si consumano questi reati è soprattutto quello delle mura domestiche e gli omicidi avvengono sempre per mano di mariti e fidanzati.

«L’amore non è possesso»

La parola femminicidio, dunque, «indica l’uccisione di una donna in quanto donna, da parte di un uomo che la considera di sua proprietà e che per questo ritiene di poter decidere tutto, anche se deve vivere o morire» spiega Antonella Veltri. Questo significa riconoscere una natura culturale e strutturale alla violenza maschile contro le donne. E, senza andare troppo lontano, a parlare è la cronaca. Il 19 aprile, in pieno lockdown, una donna è stata uccisa dal suo compagno per motivi di gelosia. Lei avrebbe voluto interrompere la loro relazione ma, dopo le misure imposte dal governo per contenere la pandemia del Coronavirus, ha lasciato che l’uomo trascorresse la quarantena a casa sua. Ed è lì che è stata uccisa nel peggiore dei modi. Con un coltello.

«L’amore non è violenza o possesso» come ha detto a Open Marika, oggi 19enne che, nell’agosto 2014, quando aveva appena 14 anni, è stata accoltellata dal padre nel sonno. La sorellina, Laura, è morta, lei si è salvata in extremis. Il papà voleva ucciderle entrambe non perché le odiasse ma solo per punire la moglie, Giovanna, che aveva osato prendersi una pausa di riflessione dopo aver scoperto una sua presunta relazione extraconiugale. Un movente da far rabbrividire.

«Nel paese in cui vivo mi hanno fatto credere che quasi quasi me la fossi cercata. Che se fossi stata zitta, che se non lo avessi affrontato quando ho scoperto tutto, allora Lauretta oggi sarebbe qui con me. Queste parole mi hanno ferita, sono ingiuste» ha raccontato la mamma delle bimbe a Open.

Le donne che hanno chiesto aiuto durante la quarantena forzata

Attenzione: femminicidio indica anche «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte». Non c’è solo la violenza fisica ma anche quella psicologica.

Durante il lockdown molte sono le donne che hanno chiesto aiuto ai centri antiviolenza, spesso «mentre buttavano la spazzatura o sussurrando dal bagno dopo aver aperto l’acqua della doccia» per non farsi scoprire dai mariti violenti costretti a stare a casa. Dati alla mano, tra il 6 aprile e il 3 maggio 2020 è cresciuto il numero di donne che per la prima volta si sono rivolte a un centro antiviolenza della rete D.iRe per chiedere sostegno. Sono state 2.956, di queste 979 per la prima volta, pari al 33% del totale.

I femminicidi e i duemila figli che sono rimasti senza madre e padre. Storia di Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022.

Matteo ha 4 anni, oggi non va a scuola. Mamma e papà litigano da quando hanno aperto gli occhi. Matteo sta facendo colazione quando papà prende mamma per i capelli. Beve il latte quando papà tira fuori un coltello e lo affonda nel petto della mamma. Poi papà apre la finestra e si butta giù. Passano dieci minuti e i carabinieri arrivano sul pianerottolo di Matteo: lui è seduto sul divano, ha ancora il pigiama e sta giocando con due pupazzetti. La sua mamma è sdraiata qualche metro più in là, coperta di sangue, senza vita. «Immaginate un vulcano che erutta dentro un ghiacciaio. Matteo vive una sorta di congelamento che all’esterno lo fa sembrare indifferente. In realtà è una reazione al trauma: prova a evitare il confronto con l’inimmaginabile», dice Maria Grazia Foschino, psicologa consulente del progetto RE.S.P.I.R.O. e Matteo è un orfano speciale. Speciale perché ha l’immensa sfortuna di perdere la madre, spesso per mano del padre, e, di conseguenza perdere anche lui, perché in alcuni casi si suicida e se non lo fa finisce in prigione. In Italia, di Matteo ce ne sono almeno duemila. Esiste la legge dell’11 gennaio del 2018 che tratta degli aspetti assistenziali e patrimoniali degli orfani come lui. «È una buona legge che prevede un risarcimento, un contributo alle famiglie affidatarie, un percorso psicologico, il cambio di cognome, l’eredità. Ma come spesso capita, dalla richiesta di presa in carico all’attuazione passa troppo tempo», dice Teresa Manente, avvocata di Differenza Donna Aps.

Fedele Salvatore, presidente della cooperativa sociale Irene 95, che sta seguendo circa ottanta orfani speciali nel Sud Italia con il progetto RE.S.P.I.R.O, finanziato dall’associazione Con I bambini, spiega che da troppo poco tempo ci si occupa di questo tema, motivo per cui mancano gli operatori specializzati. «I bambini non sono un effetto collaterale del femminicidio. L’attenzione è concentrata solo sul gravissimo lutto».

Fedele racconta che non esiste un sistema di presa in carico strutturato in tutte le regioni che aiuti le famiglie nel momento dell’emergenza e che li segua nella crescita del minore. Non esistono banche dati con i nomi dei ragazzi e nei tribunali non sono distinti dagli altri casi: «Vorremmo si costituisse un’anagrafe e un osservatorio nazionale».

Gli operatori con cui parliamo confermano quanto sia importante che questi orfani speciali vengano seguiti da subito anche perché spesso assistono all’omicidio. «È un’esperienza devastante. Sono al tempo stesso figli delle vittime e degli autori». Foschino continua raccontando che i familiari quando si trovano davanti a minori molto piccoli preferiscono mentire su quello che è successo, pensando di difenderli. «Ma va detta la verità. Noi li aiutiamo a partecipare al funerale della madre, scegliendo con loro il vestito, la collana. Tenerli lontano dal dolore crea un pericoloso scollamento dalla realtà». Oltre al lavoro con i minori, è fondamentale aiutare le famiglie affidatarie e le comunità, luoghi spesso devastati da questi tsunami di violenza.

Giulio De Santis per il "Corriere della Sera – ed. Roma" il 30 novembre 2022.

Gli ha fatto trovare i vestiti nei bidoni della spazzatura. È il primo di una lunga lista di dispetti escogitati da una moglie per chiarire al marito di volerlo cacciare di casa. Obiettivo: sostituirlo in fretta con l'amante. Missione compiuta perché l'uomo ha abbandonato la casa coniugale, sfiancato dalle provocazioni continue della moglie. Almeno questa è la ricostruzione dell'accusa che ha ottenuto la condanna di Valentina Potenza, 42 anni, a un anno di carcere per stalking.

La donna, però, non avrebbe mai potuto portare a termine il suo intento senza avere due alleati. Uno: l'amante, Roberto Di Guida, condannato a un anno e otto mesi di reclusione anche per lesioni perché ai dispetti dell'imputata ha aggiunto un pugno in faccia al marito, restio a lasciare la sua casa. L'altro alleato è stato un insospettabile, cioè il figlio sedicenne della coppia - non indagato - che ha sostenuto la mamma, rendendo la vita impossibile al papà. La sentenza ha riflettuto la ricostruzione del pm Andrea Beccia, che aveva chiesto al condanna di entrambi.

Il braccio di ferro risale all'estate del 2017 e la casa contesa si trova in via di Porta Furba, sulla Tuscolana. Una sera la donna, senza giri di parole, intima al marito, F. N., di andarsene da casa. Lui rimane impietrito. Lì ci abita. La coppia, per altro, ha tre figli.

Due più grandi e uno adolescente. Ma la moglie è irremovibile. Se ne deve andare.

Altrimenti, grida, gli getterà i vestiti nei secchioni dell'immondizia. Il marito crede alla minaccia e nasconde gli abiti nel ripostiglio, che chiude a chiave. Poi va al lavoro. Quando torna lo aspetta una sorpresa: gli abiti spuntano da sotto i coperchi dei bidoni della spazzatura. Da casa, però, non si sposta. Segue una lite furibonda. Le urla si sentono ovunque. Finché N. tronca la discussione e va a fare una doccia. D'altronde è piena estate e litigare fa sudare.

Quando esce dal bagno, c'è l'amante della moglie ad aspettarlo. Quest' ultimo gli prende il cellulare, i due discutono, finché il nuovo amore della donna assesta un rovescio al marito. Che si ritrova con il naso rotto.

Il padrone di casa, però, non desiste. L'appartamento è anche suo. Di alzare bandiera bianca non ha alcuna intenzione. Di tanta ostinazione la moglie si avvede. Così insieme all'amante va a comprare dell'acido, che versa sul furgone del cognato. Lasciando anche una scritta offensiva. Ma niente, N. non molla. La lista dei dispetti per indisporre il coniuge è però ancora lunga. N. una mattina esce, intenzionato stavolta a non rientrare.

La giornata è lunga e prende una camicia. Decisione alquanto avventata. La moglie infatti lo richiama furibonda. Gli urla che la camicia non avrebbe dovuto prenderla, perché lei l'aveva stirata per l'amante. Il marito se ne infischia. Resiste. Ma quando torna a casa, trova le pareti della sua camera da letto scarabocchiate. Chi le ha imbrattate? Il figlio sedicenne, istigato dall'amante della madre. Rimanere ancora diventa impossibile. N. prende i vestiti, quelli non ancora finiti nella spazzatura, e li carica in macchina. Epilogo della storia d'amore tra l'amante e l'imputata: i due non stanno più insieme da tempo.

Morengo (Bergamo), uccide il compagno con una coltellata e chiama il 112. Storia di Redazione Tgcom24 il 26 novembre 2022.

Tragedia a Morengo, in provincia di Bergamo. Una 51enne, Sandra Fratus, è stata arrestata dai carabinieri con l'accusa di aver ucciso nella notte il compagno di 31 anni Ernest Emperor Mohamed. È stata la stessa donna, italiana a chiamare il 112 e a dare l'allarme. L'uomo, di nazionalità nigeriana, è stato ucciso con una coltellata al petto al culmine di una lite.

L'accusa nei confronti della donna, condotta in carcere, è di omicidio volontario aggravato da futili motivi. Al momento del delitto, i due si trovavano nella casa in cui convivono, in via Umberto I, nel centro del paese. Secondo gli investigatori, la Fratus ha afferrato un coltello molto affilato dai cassetti della cucina e si è scagliata contro il compagno.

Omicidio a Morengo, Sandra Fratus accoltella il compagno dopo una lite: arrestata. Redazione Bergamo online e Pietro Tosca su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Contestato l’omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Sandra Fratus, 51enne del paese, è in carcere. La vittima è Ernest Emperor Mohamed, nigeriano trentenne. L’avvocato: «Non escluso che si stesse difendendo»

Un’unica pugnalata al petto, letale. Omicidio, intorno alle 23 di venerdì (25 novembre 2022), in una casa a Morengo, nella Bassa Bergamasca. Sandra Fratus, disoccupata 51enne, madre di due figli, ha colpito con un coltello da cucina il compagno Ernest Emperor Mohamed , trentenne nigeriano. I carabinieri del Nucleo operativo della compagnia di Treviglio, coordinati dal pm Emma Vittorio, l’hanno arrestata. Al momento, l’accusa è di omicidio volontario aggravato dai futili motivi.

Il litigio

L’aggressione è avvenuta al culmine di una lite fra la coppia, dovuta a motivi a quanto sembra banalissimi. I due si trovavano nella casa in cui convivono, in via Umberto I, nel centro del paese. Nell’abitazione non c’erano altre persone in quel momento. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, Fratus ha afferrato un coltello da cucina molto affilato e si è scagliata contro il trentenne. Sarebbe stato il secondogenito 23enne della donna, giunto pochi istanti dopo il delitto, a chiamare il 118. All’arrivo, i soccorritori hanno trovato Fratus accanto alla vittima, mentre cercava di fare il massaggio cardiaco per salvarlo. Ma anche l’intervento dei medici è stato inutile.

Il legale: «Non è escluso che si stesse difendendo»

L’arrestata è stata sentita nella notte dal pm Vittorio. Ha risposto e tentato di chiarire la sua posizione. Ora si trova in carcere in attesa dell’interrogatorio di convalida, che dovrebbe tenersi tra lunedì e martedì. L’assiste l’avvocato d’ufficio Vanessa Bonaiti, che parla di una condizione di «fragilità e profondo disagio» vissuta da Fratus e di un rapporto da tempo incrinato con il compagno. «Non è escluso — precisa il legale — che il suo sia stato un tentativo di difesa. Questa notte era molto provata, piangeva e stava male».

Antonio Borrelli per “il Giornale” il 27 novembre 2022. 

Il litigio. Poi la pugnalata al petto. Un unico colpo, ma letale. Pochi secondi dopo il disperato tentativo di salvarlo, quando ormai è troppo tardi. Così Sandra Fratus, disoccupata 51enne, ha ucciso il compagno Ernest Emperor Mohamed, nigeriano di 30 anni, in un venerdì sera trasformatosi in un incubo. Siamo a Morengo, nella Bassa Bergamasca: i due si trovavano nella casa in cui convivevano, nel centro del paese, che conta meno di 2.500 anime. 

La coppia discute, sempre più animatamente, comincia a litigare. La situazione però degenera. Sono ormai le 23 quando la donna, madre di due ragazzi, afferra un coltello da cucina affilato e si scaglia contro il compagno.

La lama colpisce in pieno il petto del 30enne. Non trascorre molto quando il secondogenito 23enne della donna, giunto pochi istanti dopo il delitto, si ritrova davanti agli occhi uno scenario orribile: la donna in stato confusionale e l'uomo a terra in una pozza di sangue. È lui a chiamare il 118 e a chiedere l'intervento dei soccorsi. 

Quando il personale sanitario mette piede nell'abitazione, Fratus sta provando a fare un massaggio cardiaco per salvare Mohamed. Non c'è però nulla da fare, l'uomo muore in casa. La 51enne viene invece arrestata dai carabinieri del Nucleo operativo della compagnia di Treviglio, coordinati dal pm Emma Vittorio, con l'accusa di omicidio volontario aggravato dai futili motivi.

Nella notte tra venerdì e sabato, poche ore dopo il delitto, Fratus è stata ascoltata dal pubblico ministero. La donna ha risposto alle domande tentando di chiarire la propria posizione. E un'indicazione di ciò che avrebbe detto agli inquirenti la offre l'avvocato d'ufficio Vanessa Bonaiti, che parla di una condizione di «fragilità e profondo disagio» vissuta da Fratus e di un rapporto da tempo incrinato con il compagno. 

«Non è escluso - ha precisato la legale - che il suo sia stato un tentativo di difesa.

Quella notte era molto provata, piangeva e stava male». Ora Sandra Fratus si trova nel carcere a Bergamo in attesa dell'interrogatorio di convalida, che dovrebbe tenersi tra domani e martedì. Per gli inquirenti resta da ricostruire l'esatta dinamica dei fatti accaduti quella notte, se la Fratus abbia agito per legittima difesa o se invece abbia deliberatamente voluto colpire il compagno. 

Ciò che invece in queste ore si vocifera in paese e tra i vicini della coppia è che i due avessero da tempo dei dissidi. Nella piccola comunità di Morengo non si parla d'altro che dell'omicidio di Ernest Emperor Mohamed per mano della donna, ma lo si fa sottovoce, provando a non farsi risucchiare dal vortice delle polemiche e della spettacolarizzazione.

Anche nei gruppi social in cui si raccolgono e si confrontano i residenti del paese solo qualcuno fa riferimento all'episodio di cronaca, ma la maggior parte lascia scorrere. E a proposito di virtuale, ci sono alcuni elementi inquietanti della vicenda da verificare: pare infatti che il figlio della donna sia rientrato in casa dopo che la madre ha scritto su Facebook di essere vedova. Ma su questo aspetto non sono ancora arrivate conferme. Sul profilo social della donna, in effetti, risulta indicato lo stato sentimentale «vedova», ma con una data: 10 marzo 2011. Spetterà agli investigatori chiarire anche questo aspetto. Le restanti informazioni pubbliche sulla pagina di Sandra Fratus sono arricchite da molte immagini di lei, con i figli o col compagno. E poi una sola parola a corredo della propria presentazione social: «psicopatica».

Perché c’è ancora chi nega l’esistenza dei femminicidi. Loredana Lipperini su L’Espresso il 22 novembre 2022. 

Quella della violenza sulle donne, nonostante dati e statistiche, è una realtà troppo spesso ignorata o sottovalutata. E ci dice molto sulla nostra società

Qualche giorno fa la presidente del Consiglio ha risposto alle non poche polemiche relative al decreto anti-rave con queste parole: «È una norma che rivendico e di cui vado fiera perché l’Italia – dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità – non sarà più maglia nera in tema di sicurezza».

In verità, se andiamo a consultare i dati forniti a dicembre scorso dalla Polizia criminale, i reati calano: «Sono in lieve crescita (5,4 per cento) in Italia nel 2021 rispetto al 2020, caratterizzato dal calo verticale dei reati, ma comunque in calo del 12,6 per cento in confronto al 2019». Tranne che per i femminicidi: «116, come nel 2020, a fronte dei 110 del 2019, su un totale di 289 omicidi». Continuiamo con i numeri, per favore. Se consultiamo i dati forniti da Istat relativi al 2020, vediamo che gli omicidi con vittime maschili sono diminuiti in 26 anni (da 4,0 per 100.000 maschi nel 1992 a 0,7 nel 2018), mentre le vittime donne di omicidio sono rimaste complessivamente stabili (da 0,6 a 0,4 per 100.000 femmine). Significa che nel caso degli uomini ci sono stati progressi, mentre per le donne le cose sono andate peggiorando proprio perché rimaste identiche.

Per quanto riguarda l’anno in corso, secondo il dossier annuale del Viminale, tra il primo agosto 2021 e il 31 luglio 2022 nel nostro Paese sono state uccise 125 donne, in aumento rispetto alla rilevazione precedente.

Inoltre, sono state registrate 15.817 denunce per stalking, 3.100 ammonimenti del questore e 361 allontanamenti per lo stesso reato. Difficile dire quali siano i numeri reali, perché, secondo Istat, i tassi di denuncia «riguardano il 12,2 per cento delle violenza da partner e il 6 per cento di quelle da non partner».

La sicurezza, già. Qualche mese fa, su questo giornale, ricordavo quanto scritto da Paolo Del Debbio in Appunti per un programma conservatore, bozza su cui Fratelli d’Italia avrebbe costruito il proprio programma: lo Stato, diceva, deve garantire sicurezza perché «non è possibile accettare che una donna non possa tornare a casa da sola senza essere importunata». Il problema è che la violenza o la morte avvengono non in strada e non per mano di un estraneo: sempre Istat ci ricorda che «delle116 donne uccise nel 2020, il 92,2 per cento è stata uccisa da una persona conosciuta. Per oltre la metà dei casi le donne sono state uccise dal partner attuale, in particolare il 51,7 per cento dei casi, corrispondente a 60 donne, il 6,0 per cento dal partner precedente, pari a 7 donne, nel 25,9 per cento dei casi (30 donne) da un familiare (inclusi i figli e i genitori) e nell’8,6 per cento dei casi da un’altra persona che conosceva (amici, colleghi, ecc.)».

Se avete letto fin qui, sapete che questi sono appunto numeri e fatti, e che questi numeri e questi fatti non sono una novità, perché da anni vengono resi pubblici, commentati, diffusi. Ma con ogni probabilità sapete anche che tutto questo non basta per far comprendere che la violenza sulle donne è un problema reale: è molto più semplice credere alla periferia degradata e al molestatore ignoto che comprendere che l’assassino e spesso lo stupratore sono persone che le donne conoscono già, si tratti di un familiare o di un amico che sembrava tanto per bene. Faccenda antica.

Nel 2007, dopo la morte di Giovanna Reggiani a Roma si scatenò una caccia al rumeno, complici certe improvvide dichiarazioni politiche: e anche allora si parlò di emergenza sicurezza. L’emergenza, in quell’anno, non c’era: gli omicidi e i reati erano ai livelli più bassi rispetto a tutto il ventennio precedente. Mentre crescevano tragicamente i reati commessi fra le pareti domestiche: uno su quattro degli omicidi avveniva in casa. Sette volte su dieci la vittima era una donna.

Oggi siamo ancora in stallo. Leggiamo i nomi. Alexandra, Giulia, Carol, Simona, Rosa. Conosciamo i modi: per arma da fuoco, per martello, per coltello, per soffocamento, per acqua e per fuoco. Ma dal punto di vista dell’immaginario, al di là delle manifestazioni che vengono organizzate per il 25 novembre (e, certo, nonostante l’enorme lavoro dei Centri antiviolenza e dei femminismi), non riusciamo a costruire un’alternativa: che, per esempio, parta dalle scuole e permetta di introdurre corsi di educazione sentimentale e sessuale per poter ragionare sul maschile e sul femminile, senza che qualcuno blocchi tutto evocando lo spettro del gender. Succede continuamente, succederà in futuro.

Già la stessa parola, femminicidio, fatica ancora oggi a diffondersi, a circa trent’anni dal suo conio: è brutta, è cacofonica, non ha senso, non mi piace, è scorretta, dicono, e chiunque l’abbia pronunciata o scritta su un social conosce le reazioni. Che in molti casi si accompagnano alla negazione del fenomeno: gli uomini muoiono di più, viene detto. Le donne sono ugualmente violente, si insiste. E quasi nessuno accetta un’evidenza semplicissima: se abbiamo davanti un’incidenza percentuale che ci dice che, a differenza di altri delitti, il femminicidio non cala come gli altri crimini, si dovrebbe concludere – e sarebbe logico farlo – che abbiamo un problema. I tanti presunti fact-checker che si sono espressi negli anni e rialzano la testa alla prima occasione utile concludono, invece, che non lo abbiamo.

Bisognerebbe agire sul prima, o quanto meno capire com’è, quel prima. Come hanno fatto, per esempio, le due studiose Lucia Bainotti e Silvia Semenzin nel libro “Donne tutte puttane”, pubblicato da Durango, e nei loro successivi lavori: spiegano molto bene come i gruppi Whatsapp o Telegram di ragazzi che si scambiano video intimi di ragazze senza il loro consenso siano determinanti per la costruzione di un maschile tossico.

Che non necessariamente sfocerà in violenza fisica, certo, ma che incide pesantemente sulla formazione di quella mascolinità. Le due studiose sostengono che la struttura stessa di alcune piattaforme favorisca la creazione di gruppi di soli maschi basati sulla solidarietà reciproca. Una forma di conferma e rassicurazione davanti alla crescente libertà delle donne, e una forma spietata di oggettivazione dei loro corpi. Qualcosa di simile avviene, a pensarci bene, nelle ondate di odiatori che si rivolgono sui social a donne autorevoli e visibili per annichilirle: recentemente, Laura Boldrini ha postato sui suoi profili una serie di interventi violentissimi che lascia senza fiato. Non è violenza fisica, ma è violenza comunque.

Il che fare va al di là delle leggi repressive. Bisognerebbe superare le cronache. Bisognerebbe, anche, saper raccontare al di là del libriccino d’occasione. Come fece colui che trasformò in letteratura l’inchiesta di Sergio González Rodríguez, “Ossa nel deserto”, condotta sul luogo da cui nacque la stessa parola femminicidio. Ciudad Juárez, nello Stato messicano del Chihuahua, dove le donne morirono a centinaia. Lo fece, in “2666”, Roberto Bolaño, che alla domanda su come si immaginasse l’inferno, rispose: «Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri».

Franca Nebbia per “la Stampa” il 25 novembre 2022. 

Marina Mouritch, 53 anni originaria della Lettonia, è morta accoltellata. Non da un marito o un compagno violento, ma dal figlio che nutriva un rancore profondo verso di lei e l'accusava di ignorarlo e di avere attenzioni e progetti solo per il fratello minore. 

Così, Antonio Cometti, 25 anni, ha ucciso la madre in un alloggio di viale Roma 7 a Gabiano, nel cuore della Valcerrina, in provincia di Alessandria. Un femminicidio nell'imminenza della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. 

«Ho fatto una brutta cosa» ha detto ai carabinieri, quando è andato a costituirsi, non prima di aver cercato di nascondere il corpo della mamma in un sacco dell'immondizia, poi lasciato in cucina.  Aveva la camicia e le mani ancora sporche di sangue, non si sa neppure se si rendesse bene conto di ciò che aveva appena fatto, lui che da qualche tempo era in cura per problemi psichiatrici e di depressione.

L'omicidio si è consumato in seguito a un litigio avvenuto nella cucina della casa che si trova sotto il castello di Gabiano. L'arma è un coltello da cucina di circa 30 centimetri che ha tranciato la giugulare della donna. Altre ferite sono presenti sul corpo di Marina Mouritch, presumibilmente perché ha tentato di difendersi dall'attacco del figlio, non riuscendoci. 

Il fendente mortale l'ha raggiunta alla gola, mentre si era girata verso Antonio che aveva cominciato a colpirla dappertutto. Marina Mouritch, occhi chiari e fisionomia abbastanza caratteristica dell'Europa dell'Est, viveva con il figlio Antonio e con il marito Pasquale, fattore al castello del paese nella grande tenuta ricca di orti e giardini. Il secondo figlio vive in Toscana, dove aveva abitato anche la famiglia, prima di trasferirsi in Piemonte, nel Monferrato Casalese.

Ora si cerca di capire e, soprattutto, di ricostruire bene i fatti. I carabinieri della stazione del paese sono affiancati da quelli della Compagnia di Casale, alla seconda indagine per omicidio in poche settimane, dopo quella sul branco che aveva picchiato a morte Cristian Martinelli. 

Il sacco con il cadavere della donna era in cucina, non lontano anche il coltello. È intervenuta poi la Scientifica dei carabinieri con le tute bianche. La casa è stata posta sotto sequestro per capire se all'interno ci fossero altre tracce rilevanti. Il giovane è stato arrestato e condotto prima in caserma a Casale poi al carcere di Vercelli, dove si attende la convalida del provvedimento. Per ordine del pm, Anna Caffarena sarà disposta l'autopsia della donna, che potrebbe avvenire già domani.

Il casalese Fabrizio Amatelli, nominato avvocato d'ufficio, racconta che «Antonio Cometti da tempo si sentiva perseguitato». Aveva la convinzione che la madre preferisse il fratello, accusato di spiarlo tramite i social, da cui erano sparite alcune presunte "prove" della congiura contro di lui. E della sparizione di alcune chiavette Antonio incolpava la madre, con cui covava rancore. Davanti ai carabinieri avrebbe detto: «Ero arrivato a tal punto di rabbia che avrei fatto qualcosa contro me stesso oppure contro di lei». 

Ha scelto la seconda strada. Da un po' di tempo Cometti era in cura da uno specialista, una situazione che si trascinava dai tempi del basket, sport che aveva praticato in gioventù. Lui era nato a Chiusi in Toscana, dove i genitori volevano aprire un locale, forse un agriturismo oppure un ristorante per dare prospettive ai due figli, soprattutto ad Antonio che era disoccupato. Ma anche questa eventualità sembrava per il giovane un'opportunità data più al fratello minore che non a lui. Il paese di Gabiano, poco più che mille anime, è attonito. Tutti quanti tengono le bocche cucite e si allontanano dai carabinieri che hanno bloccato l'ingresso a Viale Roma.

Il sindaco Domenico Priora e il vice Stefano Bacino parlano dei Cometti come «di una famiglia molto riservata» e di un uomo, Pasquale, il marito di Marina, «gran lavoratore». Gli altri dipendenti del castello non dicono nulla, così come la gente a testa bassa e incredula: guarda nel vuoto, forse senza accorgersi del Belvedere stupendo sulla catena delle Alpi innevate, che suona come una beffa perché si affaccia proprio sulla casa del delitto.

Da corrieredelmezzogiorno.corriere.it l’8 novembre 2022. 

Ha confessato di aver ucciso la nonna, trafiggendola con un coltello. Ma anche detto ai carabinieri che sarebbe stata l’anziana a colpirla per prima. Non è ancora chiara la dinamica della morte di una 76enne, ieri sera 7 novembre a Paestum, uccisa dalla nipote 16enne. Effettivamente, l’adolescente ha riportato ferite da taglio a un braccio ed è stata medicata all’ospedale di Eboli, dove è tuttora ricoverata e piantonata in stato di fermo.

La nonna, invece, è deceduta per una serie di coltellate - 4 alla schiena, 3 in altre parti del corpo - che le sono state sferrate. Poi, la ragazza, in evidente stato di choc, è corsa fuori casa. Iniziando a piangere e a disperarsi sul marciapiede di casa con i vestiti sporchi di sangue. Sono stati alcuni vicini ad avvertire i carabinieri

Il delitto sarebbe maturato nell’ambito di una lite familiare, nell’abitazione del centro della cittadina in provincia di Salerno, ma le motivazioni che hanno scatenato lo scontro non sono ancora chiare. Ora si attende l’esame autoptico sul corpo della 76enne e i risultati dei rilievi della Scientifica - che hanno anche recuperato l’arma del delitto, un coltello a scatto che apparteneva al nonno della ragazza- per avere un quadro chiaro della vicenda e ricostruire la dinamica di questo omicidio.

Il dramma nel Salernitano. Nonna uccisa a coltellate dalla nipote 16enne, l’omicidio al culmine di una lite: ragazza sotto choc piantonata in ospedale. Fabio Calcagni su Il Riformista l’8 Novembre 2022

L’ha colpita con un coltello alla schiena, uccidendola. Così una ragazza di 16 anni ha ucciso nella serata di lunedì l’anziana nonna di 76 anni nell’abitazione di quest’ultima in via Tavernelle a Capaccio Paestum, in provincia di Salerno.

L’adolescente è stata sottoposta a stato di fermo e trasportata in stato confusionale all’ospedale di Eboli, dove è piantonata dalle forze dell’ordine. Ancora sconosciuti i motivi del gesto, con l’omicidio che pare essere scaturito al culmine di una lite tra la ragazza e la nonna Ermenegilda Candreva, da tutti conosciuta come Gilda. L’inchiesta sull’omicidio della 76enne è affidata ai carabinieri della compagnia di Agropoli e del reparto operativo del comando provinciale di Salerno, diretti dai comandanti Fabiola Garello e Luigi Aurelli.

Secondo testimonianze raccolte dall’Ansa, la 16enne dopo l’omicidio della nonna, avvenuto intorno alle 19 di lunedì, sarebbe uscita di casa piangendo e sotto choc, per poi sedersi in strada con gli abiti ancora sporchi di sangue ed una ferita al braccio, ricevuta probabilmente durante una colluttazione con la nonna.

L’arma del delitto è stata sequestrata. Dopo i rilievi della scientifica, il magistrato di turno presso la Procura della Repubblica di Salerno ha disposto l’esame esterno a cura del medico legale sulla salma dell’anziana, sequestrata e trasportata all’obitorio dell’ospedale di Eboli.

L’omicidio è maturato all’interno dell’abitazione di proprietà di Ermenegilda Candreva, una delle strade più note e frequentate di Capaccio: la vittima, sottolinea l’Ansa, era una persona nota e stimata nella comunità e in città c’è sconcerto e stupore per quanto accaduto, nessuno riesce a spiegarsi cosa abbia spinto la nipote a compiere un gesto simile.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere

Da ilrestodelcarlino.it il 9 novembre 2022. 

Abusato sessualmente da un ragazzo conosciuto su una App per incontri, un 20enne si sarebbe visto rifiutare l’aiuto dal Centro antiviolenza perché uomo. A denunciare la vicenda accaduta a Vicenza è l’avvocato della vittima, Alessandra Bocchi, che definisce “davvero incredibile che un servizio di supporto pubblico, specie per determinati casi, non venga estesa anche a soggetti maschi”. 

“Violenza accertata, aiuto rifiutato”: legge sotto accusa

“Il ragazzo è molto timido e in condizioni economiche non in grado di consentirgli attraverso una struttura privata un percorso di elaborazione della violenza subita”, racconta la legale Bocchi. “Si è recato al pronto soccorso, dove la violenza sessuale è stata riscontrata. 

Ma in mancanza di una legge che contemplasse anche gli uomini non è scattato il codice rosa o rosso”, aggiunge l’avvocato. Sotto accusa è la legge regionale 5 del 2013, istituita quando è diventato focale il tema dei femminicidi, che prevede la possibilità per la vittima di abuso di ricevere assistenza pubblica solo se si tratta di una donna.

Il giovane ha tentato inutilmente ogni iter pubblico. “Si è recato al Ceav, il Centro di aiuto per la violenza – sostiene la legale – che ha sede a Vicenza, ma gli è stato detto che non ha diritto ad alcun aiuto perché la legge regionale non contempla gli uomini. Gli è stato suggerito di sentire il consultorio familiare, ma a mio avviso non è la struttura giusta per gestire un caso di questo genere”. La richiesta dell’avvocata, che assiste due uomini nella medesima situazione, è pertanto “che si crei un tavolo di lavoro per poter assistere in loco le vittime di abusi sessuali di qualunque sesso attraverso un percorso idoneo terapeutico e psicologico”. 

La denuncia: “Supporto anche agli uomini”

“Sto preparando una istanza scritta indirizzata alla Regione del Veneto, specificatamente agli assessori Lanzarin e Donazzan, per armonizzare la normativa regionale che deve coinvolgere nelle azioni di supporto non solo le donne, ma anche gli uomini vittime di violenza sessuale”. Ad annunciarlo è la legale Alessandra Bocchi di Vicenza, in relazione al caso di un 20enne violentato da un ragazzo poco più grande conosciuto attraverso una app di incontri. 

La legale dice di seguire due ragazzi vittime di violenza sessuale “che il sistema lascia scoperti”, sottolinea. All'origine del problema, secondo Bocchi, vi sarebbe la legge regionale a contrasto della violenza sulle donne dell'aprile 2013, che prevede che i centri antiviolenza o le strutture protette possano accogliere solo donne maggiorenni vittime di violenza, con servizio pubblico e gratuito. Tra i servizi offerti, colloqui preliminari, percorsi personalizzati di uscita dalla situazione di violenza, consulenze legali, formazione degli operatori, iniziative pubbliche di prevenzione e sensibilizzazione al problema.

Quando la vittima è il maschio. Redazione L'Identità il 26 Ottobre 2022 di Elisabetta Aldovrandi

Femminicidio è un termine introdotto per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell in un articolo del 1992, per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini, per il fatto di essere donne. In pratica, una sorta di marchio che segna il destino della persona per la sua appartenenza di genere indipendentemente dalla sua condotta, dalle sue opinioni, dalla sua origine. In Italia viene commesso un femminicidio ogni due giorni, ora più ora meno.

Si tratta di un dramma sociale figlio di mentalità retrograde che vedono nella donna non una persona da amare bensì un oggetto da possedere, che a volte non si riesce né a contrastare né a prevenire in modo efficace. Ma in ambito domestico non sono soltanto le donne, a cadere vittime del più truce dei reati. Anche gli uomini vengono uccisi.

Si parla, in questo caso, di maschicidio. Un fenomeno sicuramente più raro, ma esistente e sottovalutato nella sua gravità e nelle conseguenze che comporta per i superstiti.

Come nel caso dei femminicidi, anche nei maschicidi si crea il fenomeno degli orfani dei crimini domestici, con la differenza che i figli minori rimangono orfani di padre perché ucciso, e della madre perché assassina del padre.

Il maschicidio non esula dalle dinamiche tipiche dell’omicidio in ambito familiare: si consuma sia in modo violento, senza risparmiare figli che assistono al fatto, sia in modo più subdolo, senza spargimenti di sangue ma utilizzando sostanze venefiche o simulando suicidi. Si è di fronte, in questo caso, a donne manipolatrici, prevaricatrici, dal forte impulso dominatore e prive di empatia di fronte alla sofferenza altrui.

E non di rado si sì tratta di delitti preceduti da situazioni di maltrattamenti in famiglia, spesso non denunciati. Perché, se già è complicato per una donna rivolgersi alle autorità e dover ammettere di essere vittima di violenza in famiglia, per un uomo lo è ancora di più.

Per una mentalità sociale che lo vede come la parte forte della coppia, che non può aver timore di una moglie ancorché arrogante e incline all’uso delle mani, avendo egli la potenza fisica sufficiente per potersi difendere.

E perché, in una società che confonde la virilità con la mascolinità, la forza con la violenza, è inaccettabile pensare che un uomo si ritrovi lividi o graffi perché la partner usa violenza fisica su di lui. O che soffra di depressione perché viene quotidianamente mortificato nelle sue aspettative e denigrato nelle sue capacità. O che non abbia disponibilità del suo denaro perché gestito interamente dalla compagna di vita.

Eppure, lo strumento del cosiddetto “codice rosso”, introdotto con la legge 69/2019, vale per tutti, senza distinzione di genere.

Si tratta di una forma di tutela anticipata per chi denuncia maltrattamenti in famiglia, atti persecutori o violenza sessuale, e che dà diritto alla vittima di essere riascoltata nelle settantadue ore successive all’acquisizione del fascicolo da parte del Pubblico Ministero, allo scopo di verificare la necessità di adottare misure limitative della libertà nei confronti della persona denunciata.

Anche gli uomini hanno diritto di accedervi, e non si deve cadere nella rete di una comunicazione fuorviante, che lo identifica come un mezzo di tutela per le donne vittime di violenza. Perché invece, è per tutte le vittime di violenza. Anche questa, si chiama uguaglianza.

Se le donne fanno politica calano i femminicidi: lo dimostra una ricerca italiana. Applicare le quote rosa nei consigli comunali riduce drasticamente il numero dei casi di violenza mortale. «Votare con le norme per la parità di genere modifica alla radice la cultura e la consapevolezza della popolazione nei confronti del corpo femminile». In anteprima per L’Espresso i dati dell’indagine Gssi. Gloria Riva su L'Espresso il 27 Luglio 2022.

Persino la violenza è discriminatoria nei confronti delle donne. Dice l'Istat che negli ultimi dieci anni gli omicidi si sono quasi dimezzati, passando da 0,8 casi ogni centomila abitanti nel 2012 a 0,5 nel 2019 (c'è il dato 2021?). Tuttavia, se consideriamo i femminicidi, ovvero l'uccisione violenta di donne per mano di un famigliare o di qualcuno che ha un legame affettivo con la vittima, allora le morti passano dal 30 al 50 per cento nell'ultimo decennio. Si tratta di una media di una donna uccisa ogni tre giorni. Più di mille donne dal 2012 al 2020, con una media di 115 donne uccise ogni anno.

Un'anomalia che la Scuola Superiore Universitaria aquilana Gran Sasso Science Institute (Gssi) ha indagato per capirne le cause e provare ad abbozzare una soluzione attraverso l'inchiesta scientifica “The Councilwoman's Tale. Countering Intimate Partner Homicides by electing women in local councils”, “Il racconto della Consigliera. Contrastare i femminicidi eleggendo più donne nei consigli comunali”, condotta dalla ricercatrice ed economista Daria Denti e del prorettore alla Ricerca del Gssi, Alessandra Faggian. L'Espresso racconta in anteprima l'esito di quell'indagine. Già il titolo svela molto: «Abbiamo scoperto che nei comuni in cui sono state elette più donne nei consigli comunali, il volume di violenze su di loro si attenua», racconta la ricercatrice Daria Denti. Ma andiamo con ordine.

La prima novità di questa indagine è che per la prima volta è stato realizzato un database comunale dei casi di violenza mortale ai danni di donne. Finora, infatti, era possibile avere contezza dei femminicidi solo grazie ai dati raccolti dall'Istat e dal Ministero dell’Interno, che tuttavia sono su base nazionale, al più regionale. Risultato: «Grazie a questo database è stato possibile evidenziare che esistono alcuni comuni, alcuni distretti, in cui si concentrano maggiormente i crimini, ma complessivamente non è possibile dire che ci siano dei pattern geografici, come una distinzione Nord-Sud o aree urbane-aree rurali. Ci siamo quindi domandate perché in alcuni municipi si concentra un altro numero di casi e perché in altri non si verifichino».

Le ricercatrici hanno scoperto che i femminicidi non si spiegano guardando la situazione reddituale della famiglia. Nonostante vi sia un'ampia letteratura scientifica di origine americana che imputa i femminicidi a situazioni di disagio economico che colpiscono la coppia o la famiglia, come la perdita del lavoro e disuguaglianze reddituali fra partner, il fenomeno italiano sembra rispondere ad altre motivazioni: «Non c'è corrispondenza fra questi due dati in Italia, quindi le ragioni sembrano essere altre. Non c'è neppure corrispondenza con il grado di istruzione, la tipologia di nucleo familiare, il tasso di crimini violenti nel luogo di residenza, la percentuale di popolazione straniera.

Un'altra ipotesi vagliata è quella degli stereotipi di genere, ovvero i pregiudizi radicati nella cultura di un popolo, secondo cui il corpo della donna può essere oggetto di maltrattamenti per il semplice motivo che c'è un retaggio culturale che le assegna un ruolo inferiore rispetto all’uomo. Bingo. In Italia funziona proprio così: «Il radicamento di una cultura machista e di norme di genere, ovvero di regole ataviche secondo cui l'uomo ha maggiore valore della donna, favoriscono i femminicidi. Si tratta di un grave problema, perché gli stereotipi culturali si instillano profondamente nella società e sono difficilissimi da eradicare, come hanno dimostrato diversi studi condotti da importanti economisti italiani, a partire da Paola Giuliano ed Alberto Alesina, con il loro studio del 2013, “Le donne e l'Aratro”», dice Denti.

Alesina e Giuliano, studiando i cambiamenti delle millenarie pratiche agricole, avevano scoperto che nelle aree in cui l'innovazione in agricoltura aveva estromesso le donne dal lavoro nei campi, relegandole a un ruolo domestico, queste erano più soggette a stereotipi di genere anche a distanza di secoli.  

«Abbiamo creato una mappa delle disuguaglianze storiche che evidenzia le aree più soggette agli stereotipi di genere e l’abbiamo sovrapposta alla nostra mappa dei femminicidi e abbiamo scoperto che i dati corrispondevano, dimostrando come l'uccisione di donne ha ragioni storiche molto profonde e siano quindi difficili da sradicare», conferma Denti.

Dunque, come sconfiggere il pregiudizio di genere al fine di ridurre i femminicidi?

La seconda parte della ricerca si concentra sull'importanza dell'empowerment femminile nella società, ovvero come la possibilità per la donna di emanciparsi, attraverso il lavoro, lo studio, la politica, e di apparire con un ruolo di rilievo o di potere nella società civile favorisce un cambio culturale complessivo, fino alla riduzione della violenza estrema sulle donne.

Le ricercatrici hanno infatti evidenziato che nei comuni in cui ci sono più donne nei consigli comunali il numero di femminicidi diminuisce drasticamente: «Succede soprattutto nei comuni in cui le donne siedono più numerose fra i consiglieri comunali. Ci siamo domandati se questo effetto fosse dovuto a maggiori investimenti nelle politiche sociali stimolati da una maggiore presenza di donne elette, ma abbiamo scoperto che no, in realtà è il riconoscimento che le donne sono capaci soggetti istituzionali da parte della comuni a fare la differenza », dice la ricercatrice, che continua: «Nonostante gli stereotipi di genere siano duri a morire, abbiamo scoperto che nei comuni al di sopra dei 5mila abitanti, a cui dal 2013 si applica la norma per la parità di genere per favorire la presenza femminile nei consigli comunali sono aumentate le donne elette e diminuiti i femminicidi, a parità di altre condizioni tra cui le richieste di aiuto per violenza di genere».

In effetti in quella tornata elettorale il numero di donne nei comuni è aumentato di ben 22 punti percentuali rispetto alla media dei comuni con meno di 5mila abitanti. L’aumento delle donne ingaggiate nelle liste durante le campagne elettorali consente di aggiornare stereotipi e preconcetti attraverso il reale agire delle donne candidate: «Abbiamo osservato che nei comuni con più di cinquemila abitanti, dal 2013 a oggi, l’aumento dell’1% delle donne elette riduce l’incidenza dei femminicidi del 80 per cento. Al contrario non si è verificata una simile riduzione né nei comuni al di sotto dei cinquemila abitanti, dove non esisteva tale norma, né nei comuni sopra ai 5000 abitanti fino a quando non è arrivata la scadenza amministrativa che ha imposto di votare con le norme per la parità di genere», hanno scoperto le ricercatrici. Un dato importante perché mette la parola fine rispetto all'utilità delle quote rosa in politica e in economia: «La nostra indagine dimostra come l'applicazione delle quote di genere favorisce una riduzione dei casi di femminicidio, perché modifica alla radice la cultura e la consapevolezza della popolazione nei confronti delle donne. L'effetto si riscontra nei consigli comunali, rispetto alle istituzioni politiche regionali o nazionali, perché quella è l'istituzione più prossima, quella in cui ci si riconosce di più che riflette meglio prospettiva di genere di una comunità. Altri studi, su paesi diversi dall’Italia, hanno mostrato che ci sia anche un effetto fra la presenza di consigliere comunali e la spinta a una maggiore denuncia nei confronti del partner violento: di nuovo, la presenza di donne nelle istituzioni locali sembra agire facendo sentire le donne più riconosciute, aiutandole a superare alcune delle barriere che bloccano le denunce ».

L'indagine scientifica non si ferma qui. Il prossimo passo sarà quello di analizzare l'effetto delle quote rosa nel mondo economico, per verificare se la legge Golfo-Mosca del 2011, che ha istituito le quote rosa, ovvero che almeno il 30 per cento dei membri dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate in borsa e delle società a controllo pubblico sia riservato al genere meno rappresentato, cioè alle donne: «Andremo a valutare l'impatto delle quote rosa sulla cultura di genere», promette l'economista Daria Denti.

Abusi sulle donne, cala l’età di chi denuncia: «Lo fanno per sé e per i genitori». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.  

Telefono Rosa ha raccolto in un report di cento pagine un’analisi del fenomeno: i dati dimostrano come il 65 per cento delle donne sia a rischio. 

«Affermare che il 2021, rispetto al precedente, sia stato un anno di ripresa post-pandemia può essere parzialmente vero per alcuni settori. Per la violenza maschile sulle donne possiamo invece affermare che nulla è cambiato».

Parte da questa premessa la riflessione offerta da Telefono Rosa, che ha raccolto in un report di cento pagine un’analisi puntuale del fenomeno lontano dall’essere fermato: i dati dimostrano come il 65 per cento delle donne sia a rischio, possa in sostanza ritrovarsi a vivere in un contesto violento. Nel 2021 sono state 744 le vittime accolte dall’associazione coordinata dalla presidente Lella Menzio e dall’avvocato Anna Ronfani (vicepresidente), ma sono state ben 5.017 quelle che hanno preso contatti con le volontarie.

Sconvolge constatare che sono 30 le ragazzine sotto i 16 anni che hanno trovato la forza di chiedere aiuto. Accanto a loro, altre 173 donne di età compresa tra i 16 e i 29 anni hanno deciso di ribellarsi. In sostanza, poco meno di un terzo di coloro che hanno subito violenza ha meno di 30 anni. «Quando citiamo questi dati non pensiamo mai sia opera del caso — si spiega nella relazione —. Spesso, a seguito delle diverse iniziative di formazione rivolte al mondo giovanile, assistiamo a un incremento di contatti da parte di ragazze: lo fanno per sé, a volte per la loro madre o per altri familiari. Molte più giovani hanno consapevolezza dell’abuso subito». Ma l’odio e l’arroganza maschile investono tutte le fasce di età, anche le più avanzate: sono 21 le vittime che hanno più di 70 anni.

II 40 per cento delle donne che si sono rivolte a Telefono Rosa è nubile, il 34 è sposata o convive, il 22 invece è separata. Il 41 per cento è diplomata, il 36 ha la licenza media e il 15 è laureata. E ancora il 30 per cento ha un lavoro stabile, mentre il 20 è precaria. Statistiche che non vogliono essere l’identikit di chi subisce violenza — «la vittima perfetta non è esiste, è inutile e fuorviante andare alla ricerca del prototipo di donna persone offesa» —, ma mettere in luce la trasversalità delle dinamiche violente che serpeggiano nella nostra società. Una società — si fa notare nel rapporto — in cui spesso le adolescenti ritengono normale che il fidanzato vieti loro di uscire con le amiche o che controlli il cellulare. Una società in cui la differenza di genere non è rimarcata solo tra le mura domestiche, ma anche negli ambienti di lavoro o scolastico. In aumento è la violenza psicologica.

La sottomissione della compagna, moglie e figlia passa sempre attraverso lo svilimento della persona e delle sue capacità di prendersi cura di sé, della famiglia, dell’attività professionale. Ben il 27 per cento delle donne racconta alle volontarie umiliazioni, insulti e mortificazioni. Certo, ci sono anche le botte, gli schiaffi e i calci, che spesso vanno di pari passo con la violenza economica che priva la vittima di una forma di sostentamento: il 63 per cento di chi che ha intrapreso il percorso per allontanarsi dal proprio aggressore non aveva un’autonomia economica.

Le donne che si rivolgono a Telefono Rosa lo fanno con imbarazzo, paura, tenendo gli occhi bassi per la vergogna. Nutrono sensi di colpa, come se a sbagliare fossero state loro. E ancor prima che per se stesse temono per i propri figli, vittime al loro volta del vivere in un ambiente tossico: nel 37 per cento dei casi i bambini hanno assistito a scene di violenza familiare. Dal rapporto trapela l’ennesima conferma che la violenza «possiede le chiavi di casa». I numeri, infatti, ci dicono anche che gli aggressori sono per il 65 per cento il coniuge, il convivente, il fidanzato e ovviamente gli ex. E nel 58 per cento dei casi sono insospettabili: non hanno dipendenze da alcol e droga e nessun precedente penale.

La strage delle donne: 50 vittime di femminicidio in Italia dall'inizio dell'anno. Oriana Liso su La Repubblica il 23 Giugno 2022.  

"Nel periodo 13 - 19 giugno 2022 risultano 7 omicidi, con 6 vittime di genere femminile, tutte uccise in ambito familiare affettivo; di queste, 3 hanno trovato la morte per mano del partner o ex partner. Alla data odierna, relativamente al periodo 1 gennaio - 19 giugno 2022 sono stati registrati 131 omicidi, con 56 vittime donne, di cui 49 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 29 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (nel 2022 le vittime di omicidio volontario commesso dal partner/ex partner sono tutte di genere femminile)".

La storia di Elisa Pomarelli, strangolata da un amico che non voleva accettare un no. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Massimo Sebastiani sapeva che lei era omosessuale, ma si era convinto di poterla «cambiare». Quando la ragazza capì e provò ad allentare i rapporti, la portò in un pollaio e la uccise. E si inventò che «voleva i miei soldi». 

Elisa Pomarelli, 28 anni, insieme con l’allora amico Massimo Sebastiani: l’uomo l’ha strangolata il 25 agosto del 2019, poi è fuggito nascondendosi nelle campagne. Catturato, è stato condannato a 20 anni

Non è successo che tre estati fa ma l’auspicio è che si possa stabilire un prima e un dopo la fine inaccettabile di Elisa Pomarelli. Un prima, nel quale una parte dell’informazione ha lavorato col paraocchi del pregiudizio e ritenuto di farsi bastare stralci di notizie per confezionare una storia travisata: quella di una «coppia scomparsa» e poi, a crimine rivelato, di un «gigante buono» che, «per troppo amore», aveva tolto la vita a una ragazza «che si era negata», ovviamente «colto da un raptus». E un dopo, in cui di quella versione addomesticata dei fatti si possa conservare solo la verità: che l’omicida aveva deciso, disgraziatamente, di strozzarla nel pollaio della sua cascina e poi di buttarla via come un rifiuto, in una boscaglia. Con la più retriva e disgustosa delle scusanti: o mia, o morta.

Identikit

Massimo Sebastiani aveva quasi vent’anni più di Elisa, la cui vita è durata ventotto anni. Abitava per conto suo in una casa di Campogrande di Carpaneto, in provincia di Piacenza. Un po’ operaio tornitore, un po’ contadino, talora spaccone ma innocuo, la gente del posto lo conosceva così. Un tizio grande e grosso dall’esistenza semplice. Frequentando la famiglia Pomarelli, si era invaghito di una delle due figlie di Maurizio, Elisa; con gli amici, ne parlava come della sua fidanzata. Ma non era vero: lei gli aveva spiegato chiaramente quali fossero i suoi gusti sessuali. Non c’era alcuna possibilità che provasse sentimenti diversi dall’affetto, Elisa.

Lei e Massimo passavano molto tempo insieme, quello sì. Condividevano passioni e interessi, passeggiate, alcuni lavori tipici di quelle zone rurali. Elisa aiutava il padre nella professione di mediatore finanziario ma non disdegnava il versante bucolico della sua vita incardinata nelle campagne piacentine, il fascino del trattore e della legna.

L’ossessione

Sebastiani, tuttavia, non si arrendeva al ruolo di fratellone confidente. Alle conoscenze più strette, consapevoli del fatto che Elisa fosse lesbica, lui rispondeva risoluto che sì, la situazione era effettivamente tale, ma da attribuirsi allo smarrimento tipico della sua età. Prima o poi, si sarebbe schiarita le idee e avrebbe ceduto alle sue profferte. Tanto era radicata la sua convinzione che ci aveva provato pure rivolgendosi a uno psicologo, al quale aveva chiesto cosa avrebbe potuto fare «perché lei cambiasse idea». A una delle sorelle di Elisa, Debora, Sebastiani aveva rivolto la stessa domanda. Quasi si trattasse di una patologia in attesa di cura. Il tarlo dell’ossessione, nel caso Pomarelli, ha lavorato sottotraccia. Né la famiglia di lei, né la cerchia affettiva di lui ebbero mai motivi di ritenere che quell’omaccione potesse rappresentare un pericolo per Elisa, anche perché la ragazza sembrava trarre soddisfazione da quel rapporto di amicizia intima. 

L’ultimo pranzo

Il 25 agosto 2019 era un giorno come un altro per passare un po’ di tempo con Elisa, per Sebastiani. Un messaggio sul telefono al mattino presto, per informarla che stava arando il campo ma «a mezzogiorno sono da te». L’uomo passò a prenderla e la portò a pranzare in trattoria, dove i titolari non notarono alcunché di anomalo. Poi a casa sua, per farsi aiutare nel pollaio. Da quel momento in poi, di Elisa Pomarelli non si è più avuta notizia. Di Sebastiani sì: il benzinaio del posto lo vide - e la telecamera lo registrò - mentre riempiva il serbatoio e si lasciava andare alla più classica excusatio non petita: «Oggi volevo andare a fare un giro con la mia ragazza, ma lei ha cambiato idea e allora me ne torno a casa a fare qualche lavoro». L’unico lavoro da ultimare, invece, era l’occultamento del cadavere del suo amore impossibile, con la più bieca delle giustificazioni: siccome non posso appropriarmene, tanto vale ucciderla.

L’allarme

Quella stessa sera, da casa Pomarelli partì l’allarme destinato ai carabinieri. Sospettando il rapimento o l’omicidio, Sebastiani e la vittima vennero cercati con elicotteri, droni e cani molecolari mentre qualcuno raccontava un altro lembo di storia tossica: la fantavventura del Rambo dei boschi, un uomo capace di nutrirsi di bacche e cacciare cinghiali con armi fabbricate da sé, e quindi di resistere all’addiaccio a tempo indeterminato. Anche questa circostanza sarebbe poi stata smentita dagli inquirenti: per coprirsi la fuga, Sebastiani aveva individuato la casa delle vacanze della famiglia di una sua ex fidanzata, e di quella si serviva per trovare riparo durante la latitanza. Dopo tredici giorni fu il proprietario del casolare a vedere Sebastiani e a chiamare le forze dell’ordine. Catturato, confessò. Salvo tentare di costruirsi una sorta di schermo difensivo, una storia di sfruttamento economico - falso - che avrebbe spiegato la sua volontà omicida. Invece Elisa Pomarelli era morta perché, dopo tre anni di amicizia pressante, quel giorno aveva spiegato al suo assassino che non era più il caso di vedersi tanto spesso. Forse non le facevano più piacere le tante attenzioni che comprendeva bene a quale fine fossero orientate.

L’ingiustizia

Ha senso che la produzione originale Uccisa due volte - Il caso Pomarelli, in onda su Crime+Investigation (canale 119 di Sky) e a disposizione su Sky on demand, si occupi della vicenda ora, nonostante il procedimento penale debba ancora esaurirsi giacché il processo di appello è partito il 6 luglio. Perché punta non tanto sulla sconsolante tragicità della storia di Elisa, quanto sull’immaturità di una società. Che ha previsto, nel sistema repressivo, aggravanti per il femminicidio ma a maglie larghe: tanto che il rapporto Pomarelli-Sebastiani, non essendo sentimentale se non univocamente, non è ricompreso nella lettera della legge. Il femminicidio richiede un rapporto di matrimonio, di convivenza o comunque un legame stabile.

I legali della famiglia hanno tentato di convincere l’accusa a contestare a Sebastiani i motivi futili e abietti, la premeditazione e la crudeltà. Ma il magistrato non ha ritenuto di sposare le loro tesi, limitandosi a riconoscere l’aggravante comune della minorata difesa - che non prevede l’ergastolo e ha permesso all’imputato di accedere al rito abbreviato, con uno sconto di pena tale da stabilire in primo grado una sentenza a vent’anni di reclusione. Movimenti di opinione come la Onlus Non una di meno hanno reagito al caso Pomarelli manifestando davanti ai tribunali e ricordando, con uno slogan non banale, «Non è malato ma figlio sano del patriarcato». Una risposta indignata alla richiesta di perizia psichiatrica sull’assassino, come se non si ammettesse la possibilità che un uomo sano di mente uccida una donna perché non riesce a ottenere ciò che desidera. Come se la società si incaricasse ancora di scovare alibi ai maschi che sopprimono femmine per pura volontà di dominio. Debora Pomarelli, la sorella, ha partecipato a una loro iniziativa nel tentativo di riscrivere il lessico di fatti criminali come quello che le ha rovinato la vita: non si chiama troppo amore ma è violenza, non è sentimento ma è possesso, non è raptus ma coscienza omicida.

Due destini

Con una beffa ulteriore: dopo certa stampa inizialmente indulgente col carnefice, mentre Sebastiani veniva condannato a una pena che la famiglia Pomarelli definisce irricevibile, in un’aula attigua del tribunale di Piacenza un marito si prendeva l’ergastolo per aver assassinato la moglie. Due vite spezzate dalla prevaricazione in maniera tanto simile, due pene tanto diverse.

Elisa Pomarelli, il caso della ragazza lesbica assassinata nel 2019: storia di un femminicidio non riconosciuto. Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.

Elisa Pomarelli è stata assassinata il 24 agosto 2019 a Piacenza. Aveva 28 anni e ad ucciderla è stato Massimo Sebastiani, 45 anni, che lei credeva un amico. Il motivo? L’uomo, reo confesso dopo una fuga di alcuni giorni sulle colline, non riusciva ad accettare che Elisa non volesse una relazione di coppia con lui, nonostante lei gli avesse detto di essere lesbica. Sebastiani è stato condannato a 20 anni con il rito abbreviato, una sentenza che ha fatto esplodere la protesta delle associazioni impegnate contro la violenza di genere, dal centro Città delle donne/Telefono Rosa di Piacenza, che si è costituito parte civile, a Non una di meno, fino all’organizzazione internazionale Eurocentralasian Lesbian* Community (EL*C).

A quasi tre anni dal delitto, il caso viene raccontato adesso nello speciale «Uccisa due volte - Il caso Pomarelli» (da martedì 28 giugno alle 22.55, in prima tv, su Crime+Investigation, canale 119 di Sky) che ripercorre tutta la vicenda mostrando le difficoltà del nostro sistema giudiziario e mediatico nel proteggere e tutelare le persone LGBTQ+.

Il nodo principale: il mancato riconoscimento del femminicidio.

«In casi simili all’omicidio Pomarelli, in cui l’accusato è il marito o il compagno della vittima, il rito abbreviato è escluso completamente - aveva spiegato in questo articolo, proprio il giorno del funerale di Elisa, Ilaria Todde, esperta giuridica di EL*C -. Eppure il femminicidio non è l’omicidio della moglie o della compagna in quanto tale, ma l’omicidio di una donna in quanto donna, e questo deve includere le donne lesbiche ammazzate perché “non disponibili” alle attenzioni di un uomo». «Il fatto che l’ordinamento italiano compia questa differenziazione - aveva continuato Todde - è esemplificativo di due cose: una comprensione parziale del fenomeno del femminicidio e l’invisibilità delle lesbiche quando si scrivono le leggi».

«Uccisa due volte» è una produzione Indigo Stories per A+E Networks Italia. Prodotto da Alessandro Lostia per Indigo Stories. Produttore Esecutivo Ariens Damsi. Scritto da Matteo Festa e diretto da Alessandro Galluzzi.

Andrea Pistore e Nicola Rotari per corriere.it il 24 Ottobre 2022.

Cruento delitto nel Trevigiano dove un’anziana è stata trovata priva di vita all’interno di un appartamento in via Einaudi a Paré di Conegliano. La donna, Maria Luisa Bazzo (per tutti Gina) di 87 anni, è stata rinvenuta in una pozza di sangue, con diverse ferite di arma da taglio sul corpo e in particolare all’altezza della gola. A ucciderla sarebbe stato il figlio Ippolito Zandegiacomo.

L’aggressione

Sul posto il nucleo investigativo dei carabinieri di Treviso oltre ai militari di Conegliano e alle ambulanze: ancora da chiarire la dinamica di quello che sembra a tutti gli effetti un omicidio in ambito familiare. Il figlio di 57 anni l’avrebbe sgozzata, uccidendo anche il gatto della madre: non è chiaro, al momento, quale sia il movente del delitto. A chiamare i carabinieri è stato proprio il figlio convivente che ha urlato al telefono: «Venite, l’ho ammazzata».

L’uomo, che era in cura ai servizi sociali, ha aggredito i militari intervenuti per arrestarlo: si è prima barricato in casa, poi si è arreso solo quando le forze dell’ordine sono entrate nell’abitazione e l’hanno immobilizzato. Al momento del fermo era seminudo e in stato confusionale, tanto da essere ricoverato in ospedale. 

L’hotel di Auronzo

Il cadavere dell’anziana era a terra nella sua camera da letto e sopra a un comodino è stato trovato un coltello insanguinato. Squartato il gatto che viveva con la donna. Alle 8 i vicini di casa hanno sentito delle urla e hanno dato l’allarme. Il marito, Solima Bruno Zandegiacomo, era morto due mesi fa: insieme alla vittima avevano gestito l’albergo Belvedere di Auronzo di Cadore nel Bellunese

Antonella Gasparini e Giacomo Costa per il “Corriere del Veneto” il 22 novembre 2022.

È stata la figlia quindicenne a chiamare il 118: rincasando si è trovata di fronte il corpo ormai senza vita del compagno della madre, pugnalato a morte sul pavimento del garage. Poi è toccato ai carabinieri controllare il resto della casa, scoprendo così al primo piano il cadavere di Mynevere «Vera» Myrtaj, anche lei uccisa a colpi di coltello. 

Il responsabile del massacro è stato trovato dai militari solo all'alba, impiccato all'interno del capannone della ditta di Oriago di Mira (Venezia) per cui lavorava: Viron Karrabolaj, 41 anni, era l'ex marito di Myrtaj, i due erano separati ormai da tre anni e, per quanto l'antipatia di lui per il nuovo compagno della donna non fosse un segreto, niente a quanto pare lasciava presagire la tragedia che due giorni fa si è abbattuta sulla famiglia.

Domenica sera, quando entrambe le figlie erano fuori casa, Karrabolaj si è infatti introdotto nella villetta dell'ex moglie, a Spinea, nel Veneziano, e ha assassinato lei e il compagno, Flonino Merkuri, 23 anni; poi ha messo in moto l'auto della donna, ha raggiunto il suo luogo di lavoro e si è ucciso. Un duplice omicidio culminato in un suicidio, a distanza di soli due mesi dall'omicidio di Lilia Patranjel, la 40enne romena assassinata dal marito il 22 settembre, sempre a Spinea. 

Sposati con due figlie, Myrtaj e Karrabolaj vivevano separati ormai da tre anni e lei aveva mantenuto la casa che ora condivideva con Merkuri, di origini albanesi come lei; la separazione non era stata priva di tensioni, ma niente è arrivato al tribunale penale, e infatti non era insolito che l'uomo passasse a recuperare le figlie per trascorrere la giornata con loro. Lo stesso ha fatto domenica pomeriggio, prendendo con sé la più piccola - 12 anni - per poi lasciarla da amici o parenti.

A distanza di ore, in serata, sicuro che non avesse avuto il problema della presenza delle figlie, l'uomo è tornato nella villetta di Spinea per sterminare l'ex moglie e il suo compagno: non è chiaro chi abbia aggredito per primo, i vicini non avrebbero sentito nulla, il corpo del 23enne è stato trovato in garage, le pugnalate sia alle spalle che al petto raccontavano un tentativo di resistenza, mentre Myrtaj è stata rinvenuta a terra al primo piano, i segni del coltello quasi solo sulla schiena; su questo, comunque, farà chiarezza l'autopsia, già disposta dalla procura di Venezia. 

Allo stesso modo saranno esaminati con maggiore cura diversi coltelli da cucina trovati sul luogo del delitto, anche se l'arma usata per il duplice omicidio sarebbe stata già individuata dagli investigatori. Dopo la mattanza, presumibilmente consumata in serata o nel tardo pomeriggio stando alle ricostruzioni delle forze dell'ordine, Karrabolaj ha preso l'auto dell'ex moglie per andare a togliersi la vita, dietro di sé non avrebbe lasciato alcun biglietto o messaggio.

E infatti alle 22 la figlia 15enne, tornando a casa (anche preoccupata per non aver sentito la madre per ore), non poteva sapere cosa si sarebbe trovata davanti. Da quel momento, alle 22 di domenica, sono subentrati i carabinieri e la pm di turno, Daniela Moroni, che hanno passato al setaccio tutti i luoghi abituali dell'ex marito della vittima - immediatamente individuato come il principale sospettato per la strage - fino a scoprirne il corpo privo di vita ormai alle prime luci dell'alba.

Ora entrambe le figlie sono affidate alle cure dei parenti - la rete sociale della famiglia era piuttosto fitta, fortunatamente - mentre gli inquirenti cercano di chiarire le ultime ore dell'omicida e quali possano essere i moventi che l'abbiano portato a compiere un simile orrore: in questo senso la procura ha già anticipato approfondimenti, se è vero che dopo la separazione non ci sarebbero stati provvedimenti di allontanamento che testimonino un temperamento dell'uomo, è comunque possibile che gli scontri tra i due abbiano in qualche modo interessato il tribunale civile.

A. Ga. per il “Corriere del Veneto” il 22 novembre 2022.

I mignoli incrociati di due mani in segno di unione, e le iniziali dei loro nomi con un cuore tatuati uguali sulle braccia. È stato questo l'ultimo simbolo dell'affetto e dell'amore che stava legando l'uno all'altra, giorno dopo giorno. Mynevere Karabollaj e il giovane Flonino Merkuri vivevano ormai assieme in via Leopardi a Spinea dalla scorsa estate. 

Lei, per tutti Vera, madre di due ragazzine di 14 e 13 anni, aveva ritrovato con questo nuovo amore, nato circa un anno e mezzo fa, il sorriso e la voglia di vivere dopo la fine del suo matrimonio difficile e violento con l'ex marito Viron Karabollaj. Lui, che proprio non poteva sopportare questa ritrovata felicità della ex moglie, domenica sera si è trasformato in un furibondo assassino e suicida. Tre esistenze spezzate in poche ore. 

Un bilancio di violenza inaccettabile per questa città che si è svegliata sotto choc ieri mattina. «Lei era un angelo, viveva per le figlie, diceva "loro sono tutto per me"», raccontano le amiche e clienti Mihaela e Alina. «Avevo appuntamento da Vera oggi per farmi i capelli ma sono arrivata qui e al telefono non rispondeva, perciò ho chiamato Alina e lei mi ha raccontato tutto. Sono sconvolta. Sto tremando ancora», dice Mihaela.

La giovane mamma, dopo diversi anni di lavoro a Venezia come cameriera ai piani negli alberghi, con il Covid nel 2020 era entrata in difficoltà. Per questo, per riuscire a tirare avanti, aveva cominciato a ricevere alcuni clienti a domicilio offrendo servizi come il taglio di capelli, la manicure e la pedicure. 

Un giro di lavoro diventato sempre più importante. Da lei tramite il passaparola arrivavano anche da Noale per il colore o la piega. Così faceva fronte alle spese e alle esigenze delle sue piccole, la più grande studentessa al Levi Ponti di Mirano e la piccola alunna di terza media della scuola Ungaretti di Spinea. Per il sostegno alla disabilità della figlia minore erano entrati in campo i servizi sociali del Comune, inoltre Vera poteva fare affidamento sulla rete di amici e parenti, primi fra tutti i suoi fratelli Bledar e Ylli Grisi Myrtaj, che più di 10 anni fa l'avevano aiutata a venire in Italia.

Era arrivata dalla Grecia prima dell'ex marito e, tramite il ricongiungimento, aveva aperto le porte di Spinea anche a Viron Karabollaj. Comprata e sistemata la villetta di via Leopardi, avevano cominciato la nuova vita, ma presto il matrimonio aveva iniziato a fare acqua da tutte le parti. «Lui non aveva un bel carattere - racconta un amico di Vera, imprenditore - Lei invece è sempre stata una brava persona. Aveva legato subito con mia moglie e insieme facevano le feste di compleanno». 

Ketty, la vicina di casa, e il suo papà Bruno la raccontano con commozione. «Quando mia mamma Anna era viva - dice Ketty - stravedeva per le bambine. La famiglia ha sempre avuto un rapporto bellissimo e solidale con la mia, tanto che si scambiavano spesso dei doni». E il nuovo legame, quello di Vera con Flonino, Nino per tutti, era iniziato quasi sotto voce. «Un bravo ragazzo, bello, educato - commentano dalla tabaccheria e dal fruttivendolo di piazza Rosselli, dove ormai da quasi un anno si erano abituati a vederlo - Grandi occhi scuri, moro e dal viso pulito».

Sabato alle 14.30 è prevista a Spinea la posa di una panchina rossa in via Mantegna dove il 23 settembre scorsa rimase uccisa per mano del marito la 41enne Lilia Patraniel. (ha collaborato G. Zanierato)

Delitto di Venezia: chi era Vera Myrtaj, uccisa dall’ex marito. La trentasettenne tre anni fa aveva lasciato il marito. Lavorava come estetista in casa per non far mancare nulla alle sue due figlie: «Le adorava: erano tutto per lei». Antonella Gasparini e Matteo Riberto su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022

Si era separata dal marito tre anni fa e viveva con le due figlie a Spinea (Venezia). Da un anno e mezzo aveva un nuovo compagno. Una relazione che potrebbe aver scatenato la gelosia dell’ex che domenica 20 novembre li ha uccisi entrambi per poi togliersi la vita. Le vittime sono Vera Myrtaj di 37 anni e Flonino Merkuri di 23. Entrambi albanesi, come l’assassino: il quarantunenne Viron Karabollaj.

«Era un angelo: le sue figlie erano tutte per lei»

Vera Myrtaj era arrivata in Italia, dalla Grecia, circa otto anni fa; pare su suggerimento dei due fratelli che già da tempo lavoravano nelle Penisola. Dopo poco la donna era stata raggiunta dall’ex marito per il quale aveva chiesto il ricongiungimento. I due, nel 2016, si erano quindi trasferiti a Spinea dove avevano preso casa: un’ampia abitazione in via Leopardi. Una casa su cui, negli anni, avevano investito migliaia di euro per adeguarla alle esigenze della figlia più piccola di 13 anni costretta in carrozzina. La coppia, inizialmente, da quanto riportano alcuni vicini, pare fosse spensierata. Poi i primi problemi, diventati sempre più gravi. Lui avrebbe più volte alzato le mani sulla donna che alla fine aveva trovato la forza di lasciarlo e ricominciare una nuova vita. Vera Mirtaj si era quindi rimboccata le maniche, lavorando ancora più di prima in diversi alberghi del centro storico di Venezia. Il Covid – e la chiusura di diverse strutture nei mesi più duri della pandemia - le aveva però scompigliato i piani costringendola a reinventarsi. Per non far mancare nulla alle sue due figlie - di 13 e 15 anni - aveva quindi iniziato a fare l’estetista in casa: unghie, capelli. Era riuscita a crearsi un vasto giro di clienti, alcune delle quali si era affezionate alla trentasettenne che non negava mai un sorriso. «Ho scoperto stamattina quanto è successo – racconta Michaela, una cliente – aveva appuntamento con lei oggi ma non rispondeva e sono quindi venuta qui. Sono sconvolta: era un angelo, non meritava tutto questo. Non parlava mai dell’ex marito ma sempre e solo delle sue due figlie. Ripeteva sempre: “Sono tutto per me”».

Karabollaj e il lavoro nell’impresa edile

Da qualche mese, nella casa di Spinea, si sarebbe trasferito il nuovo compagno della trentasettenne. Sarebbe questa, forse, la miccia che ha fatto scattare la rabbia dell’assassino. Un uomo violento, secondo le prime ricostruzioni, che avrebbe picchiato più volte la donna quando vivevano insieme. Viron Karabollaj aveva comunque mantenuto i contatti con la sua famiglia e periodicamente veniva a prendere le due figlie per passare del tempo con loro. L’uomo lavorava da anni per la «Venetoponteggi», impresa edile di Chirignago con sede legale a Mirano.

Il femminicidio a Capoterra: l'uomo ritrovato con il coltello a serramanico insanguinato ancora in mano. Urla interrompono cerimonia in piazza, ritrovata una donna uccisa a coltellate: arrestato il compagno. Vito Califano su Il Riformista il 6 Novembre 2022

I carabinieri lo hanno ritrovato ancora con il coltello, insanguinato, in mano. Si sta configurando come un caso di femminicidio l’omicidio di Capoterra, nella città metropolitana di Cagliari. Che si è consumato a CasaMelis, una struttura di accoglienza per migranti situata in via Gramsci. A Capoterra si stava celebrando una giornata in ricordo dei caduti nelle guerre, un corteo sino alla chiesa parrocchiale per la messa e poi la deposizione delle corone di alloro ai monumenti dei caduti in Piazza Brigata Sassari.

All’arrivo dei soccorsi la donna era già morta. Si chiamava Metusev Slobodanka, 48 anni, di nazionalità serba. Così come l’uomo, Stevan Sajn, serbo di 50 anni. Erano arrivati la scorsa estate a Capoterra, occupavano la stessa stanza. L’allarme è stato dato dagli altri ospiti della struttura: la donna è stata ritrovata stesa in una pozza di sangue. Secondo quanto ricostruisce l’Unione Sarda l’uomo è stato ritrovato seduto su un gradino, con in mano ancora il coltello a serramanico insanguinato. Si è consegnato ai carabinieri ed è stato tratto in arresto nella caserma del paese prima di essere trasferito. Si tratta del 46esimo femminicidio dall’inizio dell’anno, il secondo in Sardegna.

Sul posto sono accorsi anche gli agenti della polizia locale che con i carabinieri erano di scorta alla cerimonia per la commemorazione dei caduti in guerra. “Abbiamo sentito le urla e confusione – ha detto all’Ansa il sindaco Beniamino Garau – poi l’uomo si è rifugiato a Casa Melis che avevamo lasciato aperta perché al termine della cerimonia saremmo dovuti rientrare lì. Poi abbiamo capito cosa era accaduto e l’uomo è stato fermato dalle forze dell’ordine e abbiamo interrotto le celebrazioni”.

Femminicidio Ilaria Sollazzo, la giovane mamma crivellata dall’ex in auto: “Perché non vuoi tornare con me?”

Una testimone algerina, ospite della Casa, ha raccontato di aver sentito spesso la coppia litigare. Casa Melis ospita una decina di migranti, tra cui anche bambini che frequentano le scuole. Sul posto, oltre al magistrato di turno, ai carabinieri del Ris e a quelli della stazione locale, anche molti cittadini sgomenti dalla tragedia che si è consumata. L’uomo è stato trasferito in carcere a Uta, a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il magistrato di turno, Diana Lecca, ha aperto il fascicolo per omicidio.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

L’allarme lanciato dai familiari dell’uomo. Alexandra uccisa in casa e avvolta in una coperta, si cerca il marito in fuga. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Ottobre 2022

Il corpo senza vita di Alexandra Elena Mocanu, 35 anni originaria dalla Romania, avvolto in una coperta. È questa la macabra scena che si sono trovati davanti gli agenti della polizia intervenuti nell’appartamento in viale Trieste a Bolzano. Poco prima il marito della donna, di origine albanese, aveva fatto perdere le sue tracce. Un giallo che però per gli investigatori non avrebbe troppe sfumature. Subito sono partite le ricerche dell’uomo.

L’ennesimo femminicidio questa volta si è consumato a Bolzano. Lì viveva Alexandra dove lavorava come barista. Non è ancora chiaro cosa sia successo. Sul corpo è stata disposta l’autopsia. L’allarme è scattato ieri nel tardo pomeriggio dopo una segnalazione dei parenti del marito Avni Mecje. L’uomo durante una telefonata avrebbe annunciato di dover scappare perché ricercato.

Secondo quanto riportato dall’Ansa, l’uomo si sarebbe allontanato da Bolzano con la macchina e il telefono della moglie e potrebbe essere diretto in Albania, il suo paese d’origine. Nell’appartamento in viale Trieste 42 la polizia ha trovato la salma della giovane donna avvolta in una coperta. Sul posto sono anche intervenuti la scientifica e la pm Claudia Andres, che coordina l’inchiesta.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Carlo Macrì per corriere.it il 25 ottobre 2022. 

Era stato archiviato come un suicidio. Oggi, si scopre, però, che Lisa Gabriele, all’epoca ventenne, è stata uccisa. Per quel delitto, avvenuto nel gennaio del 2005, martedì mattina i carabinieri di Rende hanno arrestato un ex poliziotto della stradale, Maurizio Mirko Abate, 50 anni, ex amante della ragazza. Il corpo di Lisa Gabriele, originaria di Rose (Cosenza,) fu trovato all’interno della sua Fiat 500, alla periferia di Montalto Uffugo. All’epoca la giovane aveva una relazione con Abate, che era sposato. 

Attorno all’autovettura gli inquirenti trovarono bottiglie di whisky, psicofarmaci e un biglietto d’addio. Le indagini all’epoca furono rapidamente chiuse e il caso archiviato come suicidio. Nel 2019, il colpo di scena. In procura, a Cosenza arrivò una lettera anonima, di un sedicente «poliziotto onesto della stradale», nella quale si indicava Maurizio Abate come l’assassino della ragazza. 

Addirittura l’anonimo scriveva anche che la ragazza era stata soffocata con un cuscino, lo stesso che aveva addosso quel giorno, per simulare una gravidanza. Lisa Gabriele, insomma, si sarebbe presentata all’appuntamento con l’amante, fingendo di essere incinta. Una simulazione che avrebbe dovuto spingere Abate a fare una scelta definitiva, lasciando la moglie per andare a vivere con lei. 

Invece, stando alle indagini, l’ex poliziotto di fronte a quella scelta, avrebbe deciso di uccidere la sua amante, facendo apparire il decesso come un suicidio. La lettera giunta in Procura, era infatti ricca di particolari inediti. 

Questo ha spinto il sostituto procuratore Antonio Bruno Tridico, ad affidare ai carabinieri una serie di accertamenti sul corpo della giovane. Il cadavere fu esumato, il telefonino della ragazza fu nuovamente esaminato dai tecnici informatici. «Le risultanze di questa nuova fase investigativa, complessivamente valutate – scrivono i carabinieri —, hanno consentito di verificare, in maniera più approfondita, quanto raccolto nella prima fase, colmando alcune lacune investigative e facendo emergere un quadro indiziario significativamente grave e tale da collegare il reato contestato alla persona dell’indagato».

Da leggo.it il 25 ottobre 2022.

Omicidio Lisa Gabriele, arrestato l'ex poliziotto Maurizio Abate a 17 anni dal delitto. I carabinieri del Comando Compagnia di Rende (Cosenza) hanno arrestato il 50enne in esecuzione di un'ordinanza di misura cautelare emessa dal Gip di di Cosenza, in accoglimento delle richieste avanzate dalla Procura locale. 

Maurizio Abate all'epoca dei fatti era in forza alla Sottosezione della Polizia stradale di Cosenza Nord: è accusato dell'omicidio doloso premeditato, aggravato dai futili motivi ed in concorso con altro soggetto allo stato ignoto, di Lisa Gabriele (22 anni), avvenuto il 7 ottobre del 2005. L'ex poliziotto è accusato anche di spaccio e cessione di marijuana nei confronti del figlio.

Suicidio inscenato

La ragazza venne trovata priva di vita in un bosco con accanto al corpo degli psicofarmaci, una bottiglia di whisky insieme a un biglietto di addio. Un suicidio inscenato, dunque, ma l'autopsia accertò che Lisa, in realtà, non si era suicidata ma era stata soffocata, probabilmente con un cuscino, in un luogo diverso da quello del ritrovamento del cadavere. 

Inoltre, gli accertamenti calligrafici stabilirono che a scrivere il biglietto d'addio non era stata la giovane Lisa. Ora la svolta nelle indagini con l'arresto dell'ex agente. 

Cold case riaperto dopo un esposto anonimo

Il caso, archiviato dopo le prime indagini nell'ottobre del 2009, è stato riaperto nell'ottobre del 2018, quando alla Procura di Cosenza è pervenuto un esposto anonimo nel quale si ripercorreva la vicenda della morte di Lisa Gabriele e venivano indicati particolari veritieri noti soli agli inquirenti. 

I primi riscontri, effettuati dai carabinieri di Rende, hanno consentito alla Procura di riaprire le indagini. Gli inquirenti hanno così effettuato ulteriori acquisizioni documentali, una lunga serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali, plurime escussioni di persone informate sui fatti e nuove consulenze medico legali attraverso la riesumazione del cadavere della vittima. 

Ciò che è emerso dalla nuova fase investigativa ha consentito di verificare, in maniera più approfondita, quanto raccolto nella prima fase, colmando quelle che gli investigatori definiscono 'lacune investigativè, e facendo così emergere un quadro indiziario grave e tale da collegare il reato contestato all'indagato. Quanto acquisito sul piano investigativo, dunque, ha permesso alla Magistratura inquirente e giudicante di valutare gli elementi indiziari raccolti come convergenti, gravi, univoci e coerenti. 

Le indagini

Le indagini, nello specifico, hanno consentito di inquadrare l'omicidio nell'ambito di una relazione sentimentale intrattenuta dalla vittima con l'uomo, già impegnato in altra stabile relazione, ritenuta sbilanciata, ossessiva e connotata da episodi di reiterate violenze e brutalità - come anche da dichiarazioni di un collaboratore di giustizia - emersi dalle dichiarazioni di persone informate sui fatti che hanno tratteggiato un quadro degradato fatto anche di serate a base di sesso, droga e perversioni.

Inoltre, stando agli inquirenti, è emerso che il movente dell'omicidio sarebbe da ricondurre all'esasperata volontà dell'indagato di interrompere la relazione allontanando definitivamente da sé la vittima, determinata a frequentare l'uomo nonostante la moglie di quest'ultimo avesse partorito un figlio ed alla luce del rischio che la moglie sapesse della relazione extraconiugale sottraendogli, così, il neonato.

Inoltre, gli inquirenti avrebbero ricostruito l'ultimo periodo di vita della vittima, connotato dai tentativi della stessa di trattenere nella relazione l'uomo, temendo, tuttavia, di subire ancora violenze ed arrivando a temere per la propria vita anche a seguito di strani accadimenti, quali danneggiamenti all'autoveicolo ed ai cavi elettrici dell'abitazione, nonché la morte sospetta della cagnolina deceduta appena dieci giorni prima di Lisa.

Sono, inoltre, state intercettate frasi ritenute parziali ammissioni dell'indagato ed altre propalazioni di parenti dell'uomo fortemente indizianti, nonché conversazioni con linguaggio criptato che attesterebbero l'acquisizione, la suddivisione e l'occultamento del narcotico e lo spaccio dello stupefacente. 

Quanto alla droga, infine, è stato accertato l'utilizzo della cassetta delle lettere come deposito temporaneo dove la droga poteva essere prelevata dal figlio avvisato dal padre circa l'arrivo di una «bolletta» o «raccomandata»; e sarebbero anche stati accertati plurimi acquisti di marijuana (denominata «gelato») effettuati dall'uomo e conseguenti cessioni in favore del figlio a cui veniva sequestrato dai Carabinieri di Rende, nel 2020, una modica quantità di stupefacente del tipo marijuana. Il procedimento pende nella fase delle preliminari.

Cosenza, ex poliziotto accusato di femminicidio nel 2005: arrestato dopo 17 anni. La Repubblica il 25 Ottobre 2022.

Il fascicolo su Maurizio Mirko Abate erano state archiviate nel 2009. Le indagini sull'assassinio della 22enne Lisa Gabriele sono state riaperte sulla base di un esposto anonimo nel 2018 

I carabinieri della Compagnia di Rende hanno arrestato un uomo di 50 anni, Maurizio Mirko Abate, ex agente della polizia stradale, con l'accusa di avere ucciso nel 2005 a Montalto Uffugo, nel Cosentino, soffocandola con un cuscino, una ragazza di 22 anni, Lisa Gabriele, con la quale, pur essendo sposato, aveva una relazione. Le indagini sul conto di Abate, in un primo tempo archiviate, vennero riaperte sulla base di un esposto anonimo inviato alla Procura della Repubblica di Cosenza. Esposto che consentì la riapertura delle indagini che hanno portato adesso all'arresto dell'ex poliziotto.

L'Osservatorio femminicidi

L'arresto di Abate é stato fatto in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip di Cosenza su richiesta della Procura della Repubblica. L'ex poliziotto é accusato di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione. Dopo l'archiviazione delle indagini, decisa nel 2009, l'esposto anonimo pervenuto alla Procura della Repubblica di Cosenza nel 2018 ha consentito agli investigatori di riaprire il caso. Nello scritto, infatti, erano riferiti alcuni particolari della vicenda, veritieri e noti solo agli inquirenti.

Il cadavere riesumato

Sono state così effettuate ulteriori acquisizioni documentali, una lunga serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali, sentite numerose persone informate sui fatti ed acquisite nuove consulenze medico legali attraverso la riesumazione del cadavere di Lisa Gabriele.

Un grave quadro indiziario

 do"Le risultanze di questa nuova fase investigativa, complessivamente valutate - è detto in una stampa dei carabinieri - hanno consentito di verificare, in maniera più approfondita, quanto raccolto nella prima fase, colmando alcune lacune investigative e facendo emergere un quadro indiziario significativamente grave e tale da collegare il reato contestato alla persona dell'indagato. Quanto globalmente acquisito sul piano investigativo ha consentito alla magistratura inquirente e giudicante di valutare gli elementi indiziari raccolti come convergenti, gravi, univoci e coerenti e non confutati da ricostruzioni alternative plausibili, idonei a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulle responsabilità dell'indagato".

Omicidio di Lisa Gabriele, mistero risolto dopo 17 anni: arrestato un ex agente di polizia. Il Quotidiano del Sud il 25 Ottobre 2022.

Ci sarebbe un movente passionale all’origine dell’omicidio di Lisa Gabriele avvenuto il 7 ottobre 2005.

È quanto avrebbero accertato i carabinieri del comando compagnia di Rende (Cs) che stamane hanno arrestato, in esecuzione di un’ordinanza di applicazione di misura cautelare personale emessa dal Gip del Tribunale di Cosenza, un uomo di 50 anni, Maurizio Mirko Abate, appartenente all’epoca dei fatti alla Sottosezione della Polizia stradale di Cosenza Nord per l’omicidio doloso premeditato, aggravato dai futili motivi ed in concorso con un’altra persona ignota, perpetrato nei confronti.

L’uomo è accusato anche di spaccio e cessione di sostanza stupefacente nei confronti del figlio. Il fatto era stato archiviato contro ignoti nell’ottobre del 2009.

La svolta investigativa il 22 ottobre 2018 quando era giunto alla Procura della Repubblica di Cosenza un esposto anonimo nel quale si ripercorreva la vicenda della morte di Lisa Gabriele e venivano indicati particolari noti soli agli inquirenti, risultati veritieri. I primi riscontri, operati dai carabinieri di Rende, hanno permesso alla Procura della Repubblica di riaprire le indagini.

Le risultanze di questa nuova fase investigativa hanno permesso di verificare, in maniera più approfondita, quanto già era emerso, colmando alcune lacune investigative, e facendo emergere un quadro indiziario tale da collegare il delitto all’indagato. Le indagini avrebbero consentito di inquadrare l’omicidio nell’ambito di una relazione sentimentale intrattenuta dalla vittima con l’uomo, già impegnato in un’altra relazione stabile, “ritenuta – scrivono gli inquirenti – sbilanciata, ossessiva e connotata da episodi di reiterate violenze e brutalità – come anche da dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – emersi dalle dichiarazioni di persone informate sui fatti che hanno tratteggiato un quadro degradato fatto anche di serate a base di sesso, droga e perversioni”.

Il movente dell’omicidio sarebbe da ricondurre all’esasperata volontà dell’indagato di interrompere la relazione allontanando definitivamente da sé la vittima, determinata a frequentare l’uomo nonostante la moglie di quest’ultimo avesse partorito un figlio ed alla luce del rischio che la moglie sapesse della relazione extraconiugale sottraendogli, così, il neonato.

L’ultimo periodo di vita della vittima sarebbe stato caratterizzato dai tentativi della donna di continuare la relazione l’uomo, temendo, tuttavia, di subire ancora violenze ed arrivando a temere per la propria vita anche a seguito di strani accadimenti come danneggiamenti dell’autoveicolo ed ai cavi elettrici dell’abitazione della vittima nonché la morte sospetta della cagnolina deceduta appena dieci giorni prima di Lisa.

Gli inquirenti avrebbero intercettato frasi ritenute parziali ammissioni dell’indagato e conversazioni di parenti ritenute rilevanti ai fini della ricostruzione della vicenda. Le conversazioni in codice intercettate riguardavano anche l’acquisto, la suddivisione e lo spaccio di droga. La cassetta delle lettere era il deposito temporaneo dove la droga poteva essere prelevata dal figlio avvisato dal padre circa l’arrivo di una “bolletta” o di “raccomandata”. Diversi acquisti di marijuana (denominata  in codice “gelato”) sarebbero stati effettuati dall’uomo con la  conseguente cessione di droga in favore del figlio a cui era stata sequestrata dai Carabinieri di Rende, il  29 agosto 2020, una modica quantità di marijuana.

L'ex poliziotto incastrato 17 anni dopo: aveva inscenato il suicidio dell'amante. Lei fingeva la gravidanza, lui l'aveva soffocata con un cuscino. Stefano Vladovich il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Per la famiglia, per una persona speciale, scusami». Sembrava un suicidio quello di Lisa Gabriele, trovata senza vita in un bosco di Montalto Uffugo, nel Cosentino, il 9 gennaio 2005. Ma nel casolare abbandonato l'assassino aveva lasciato troppe tracce. Dopo 17 anni la Procura riapre il caso e arresta il suo carnefice, Maurizio Mirko Abate, ex poliziotto della Stradale, già cacciato dalla polizia per aver rubato la pistola a un collega e accusato di spaccio di droga al figlio minorenne. I carabinieri, che indagano su quella morte assurda, da subito non credono all'estremo gesto della ventenne, disperata per amore. Quello, appunto, con l'indagato numero uno, Abate. Con lui Lisa aveva una relazione nonostante l'uomo, all'epoca 33enne, fosse sposato e da poco padre di un bambino.

Le chiavi dell'auto, una Fiat 500, a pochi metri dal cadavere, scomparse, la bottiglia di whisky mezza vuota appoggiata a terra e senza uno straccio di impronta, due confezioni di un farmaco a base di benzodiazepine con 28 compresse mancanti, il cellulare senza sim. Qualcuno vuol far credere che Lisa si sia impasticcata dopo aver bevuto alcol. Il movente? Abate vuole interrompere la relazione, ma la ragazza non è d'accordo. L'autopsia conferma: la vittima, dopo esser stata tramortita con gli psicofarmaci, viene soffocata con un cuscino. Ma le prove contro Abate non sono sufficienti e il caso viene chiuso.

Nel 2018 è una lettera anonima, firmata «un poliziotto onesto della Stradale», a dare la svolta. Nell'esposto ci sono particolari «noti solo agli investigatori», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Letizia Benigno. L'anonimo, vincendo il senso di colpa per aver taciuto anni, fornisce gli elementi mancanti. Ha il terrore di «subire gravi ripercussioni» perché Abate è vicino a esponenti della mala locale e assuntore di droga. L'arma del delitto? Lo stesso cuscino usato dalla ragazza l'estate precedente quando, fingendo di essere incinta, lo nasconde sotto i vestiti. Abate la picchia selvaggiamente davanti ai colleghi tanto che Lisa viene portata in ospedale da una pattuglia della stradale. Sull'informativa si racconta anche che i genitori della donna avevano assunto un investigatore privato, costretto a mollare il caso perché «Abate è protetto sia dalla malavita che dalla polizia».

Non solo. L'uomo avrebbe avuto anche dei complici, almeno uno sulla scena del delitto, sui quali la Procura di Cosenza indaga ancora. Un personaggio di rilievo, scrive l'anonimo, un sovrintendente della polizia stradale che aveva dichiarato pubblicamente di sapere tutto ma non ha mai riferito al magistrato. Anche un'amica di Lisa, parrucchiera, sapeva dell'appuntamento con Abate quella sera, ma non lo ha mai raccontato. Infine si accusa un maresciallo dell'Arma, «di origini pugliesi», che ha partecipato alle prime indagini, molto legato ad Abate. Illazioni? Per la Procura quanto basta per fare intercettazioni, riesumare il corpo, sentire testimoni e produrre prove. Quelle che portano all'arresto di Abate nonostante depistaggi e la cortina di omertà.

Come il mistero della sim, trovata dai carabinieri in una borsa termica, ma mai messa agli atti. O i vestiti della 22enne restituiti ai genitori e, paradossalmente, sequestrati dopo 5 giorni. Dalle intercettazioni si capisce tutto: «Abate avrebbe fatto parte di una loggia massonica».

Una lettera anonima fece riaprire il caso. Lisa Gabriele, il mistero della 20enne morta a Cosenza nel 2005: ex poliziotto arrestato 17 anni dopo Maurizio Abate. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Ottobre 2022 

Il Corpo si Lisa Gabriele, 22enne di Rende, fu trovato senza vita nel gennaio 2005 all’interno della sua Fiat 500 alla periferia di Montalto Uffugo. Attorno c’erano bottiglie di whisky, psicofarmaci e un biglietto di addio. Un caso agghiacciante che era stato archiviato nel giro di poco come suicidio. Diciassette anni dopo la triste vicenda di Lisa Gabriele potrebbe avere un epilogo diverso, anche se non meno drammatico: la 22enne non si sarebbe suicidata ma sarebbe stata uccisa dal suo amante, soffocata con un cuscino. Per quel delitto martedì mattina i carabinieri di Rende hanno arrestato un ex poliziotto della stradale, Maurizio Mirko Abate, oggi 50 anni, che all’epoca aveva una storia con la ragazza pur essendo sposato con un’altra donna. L’ex agente, secondo quanto appreso dall’Ansa, avrebbe negato ogni addebito.

La lettera anonima che fece riaprire il caso

A far riaprire il caso è stata una lettera anonima arrivata in Procura firmata “poliziotto onesto della stradale”. Nella lettera c’erano numerosi dettagli e veniva in dicato Maurizio Abate come assassino della ragazza. Secondo quanto riportato dall’Ansa, nello scritto, infatti, erano riferiti alcuni particolari della vicenda, veritieri e noti solo agli inquirenti. Ed è stato questo a far riaccendere il sospetto. Sono state così effettuate ulteriori acquisizioni documentali, una lunga serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali, sentite numerose persone informate sui fatti ed acquisite nuove consulenze medico legali attraverso la riesumazione del cadavere di Lisa Gabriele.

“Le risultanze di questa nuova fase investigativa, complessivamente valutate – è detto in una nota dei carabinieri – hanno consentito di verificare, in maniera più approfondita, quanto raccolto nella prima fase, colmando alcune lacune investigative e facendo emergere un quadro indiziario significativamente grave e tale da collegare il reato contestato alla persona dell’indagato. Quanto globalmente acquisito sul piano investigativo ha consentito alla magistratura inquirente e giudicante di valutare gli elementi indiziari raccolti come convergenti, gravi, univoci e coerenti e non confutati da ricostruzioni alternative plausibili, idonei a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulle responsabilità dell’indagato”. L’arresto di Abate é stato fatto in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip di Cosenza su richiesta della Procura della Repubblica. L’ex poliziotto é accusato di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione.

La fine dell’amore tra Lisa e l’ex poliziotto

Abate, secondo la ricostruzione fatta dai militari della Compagnia di Rende sotto le direttive della Procura della Repubblica di Cosenza, aveva deciso di lasciare Lisa Gabriele in concomitanza con la nascita del figlio avuto dalla moglie. La giovane, però si sarebbe opposta con tutte le sue forze alla fine della relazione. Lei non voleva perderlo e così avrebbe messo in scena una presunta gravidanza, mettendo sotto la maglietta un cuscino per simulare una pancia. Lo stesso cuscino che l’uomo avrebbe utilizzato per ucciderla. L’uomo avrebbe poi messo in scena il suicidio, ipotesi a cui per anni hanno creduto gli investigatori. Per questo motivo Abate é accusato anche di avere tentato di fare credere che la giovane si fosse suicidata.

Secondo quanto è emerso dalle indagini, Abate avrebbe scritto un biglietto, lasciato accanto al corpo senza vita di Lisa Gabriele trovato in un bosco di Montalto Uffugo e risultato poi apocrifo, sulla base di una perizia calligrafica, in cui la giovane esprimeva il proposito di suicidarsi, dicendo addio a familiari ed amici. Vicino il cadavere, inoltre, furono trovate alcune confezioni di psicofarmaci e bottiglie di whisky. L’autopsia effettuata sul corpo della ragazza dopo la presentazione dell’esposto alla Procura della Repubblica di Cosenza accertò che, in realtà, Lisa Gabriele non aveva bevuto alcool e non aveva assunto psicofarmaci.

L’esame smentì, inoltre, che la giovane si fosse suicidata, ma che, in realtà, era stata soffocata con l’ausilio, presumibilmente, di un cuscino. L’omicidio sarebbe stato commesso nell’appartamento in cui la giovane s’incontrava con l’ex poliziotto. Il cadavere della ragazza fu poi rimosso dal luogo in cui fu commesso l’assassinio e portato, per sviare le indagini, nel bosco in cui fu poi ritrovato, con accanto le bottiglie di whisky e le confezioni di psicofarmaci lasciate volutamente dall’assassino sul posto per fare credere che la giovane si fosse suicidata.

L’ipotesi di un complice e del coinvolgimento di logge deviate

Una persona di cui non è stata accertata, al momento, l’identità avrebbe aiutato Maurizio Mirko Abate nelle fasi che hanno fatto seguito all’omicidio di Lisa. Il complice, in particolare, avrebbe aiutato Abate a rimuovere il corpo senza vita della giovane dall’appartamento in cui fu commesso l’omicidio ed a trasportarlo nel bosco di Montalto Uffugo in cui poi fu ritrovato, a bordo dell’automobile di proprietà della giovane. Le indagini dei carabinieri della Compagnia di Rende proseguono, dunque, per identificare il complice di Abate. L’ex poliziotto, inoltre, è accusato di cessione e spaccio di sostanze stupefacenti in quanto avrebbe consegnato a più riprese marijuana al figlio, facendogliela trovare nella cassetta delle lettere. Nel 2019 Abate fu congedato dalla Polizia di Stato perché avrebbe rubato la pistola ad un collega.

E c’è un altro filone che si fa strada nell’indagine per chiudere il cerchio intorno a quella drammatica morte. C’è anche l’ipotesi di possibili favoritismi e coperture da parte di logge della massoneria deviata, che avrebbero consentito all’indagato di evitare inizialmente di essere incriminato, nel fascicolo dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Cosenza sul caso. È proprio il Gip che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di Abate a fare riferimento ad “anomalie investigative” nell’indagine che fu condotta a carico dell’ex poliziotto subito dopo l’assassinio della giovane. Anomalie che vengono attribuite ad ambienti investigativi vicini a logge deviate di cui faceva parte lo stesso ex poliziotto, che non ha mai nascosto, peraltro, la sua appartenenza alla massoneria. Si fa l’ipotesi, inoltre, che l’autore dell’esposto inviato nel 2019 alla Procura della Repubblica di Cosenza che ha consentito la riapertura delle indagini sul conto di Abate, in un primo tempo archiviate, possa essere stato un collega dell’ex poliziotto. Una persona che era a conoscenza, oltre che della relazione di Abate con Lisa Gabriele, di molte circostanze riguardanti la sfera privata e personale dell’uomo.

Chi era Lisa Gabriele e la relazione ossessiva con l’ex poliziotto

Secondo quanto ricostruito la vita di Lisa Gabriele non è stata una vita facile. Nata in Germania da padre calabrese e madre tedesca, la giovane, dopo la separazione dei genitori, fu abbandonata dalla mamma ed affidata ad una zia paterna. Dalle indagini è emerso che quella tra Lisa Gabriele ed Abate fu una relazione improntata a violenza da parte dell’uomo. “Una relazione – riferiscono inquirenti ed investigatori in una nota – sbilanciata, ossessiva e connotata da episodi di reiterate brutalità. Una relazione fatta anche di serate a base di sesso, droga e perversioni”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Omicidio Siragusa. Condanna all'ergastolo per il fidanzato. Nel 2020, Pietro Morreale aveva stordito e bruciato viva la studentessa di 17 anni. Valentina Raffa il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Avrà il tempo di meditare in carcere sulle atrocità commesse Pietro Morreale, 20 anni, condannato ieri all'ergastolo dalla sezione seconda della Corte di Assise del Tribunale di Palermo per l'omicidio della fidanzata diciassettenne Roberta Siragusa, avvenuto a Caccamo, nel Palermitano, nella sera tra il 23 e 24 gennaio 2021.

La Corte d'Assise, dopo 12 ore di camera di consiglio, ha pienamente accolto la richiesta del pubblico ministero Giacomo Barbara, che ha coordinato le indagini condotte dai militari dell'Arma.

Il corpo di Roberta, che fu trovato «dilaniato», come è scritto nell'ordinanza cautelare del gip per Morreale, reclamava giustizia, e l'aguzzino, che il gip ha descritto dotato di «uno spessore criminale che va immediatamente contenuto», non è rimasto impunito, anche se i suoi legali potranno impugnare la sentenza. Lei voleva lasciarlo per un altro e lui, estremamente geloso, non perdonò. La uccise in maniera atroce. La sera del 23 gennaio, dopo essersi allontanati insieme da casa di amici, la aggredì colpendola al volto coi pugni e con una pietra, poi le diede fuoco mentre era ancora viva, ma non riuscì nell'intento di far sparire il corpo. Il fuoco, infatti, bruciò solo la parte superiore del corpo, che era senza vestiti, ma non scalfì i jeans, lasciati abbassati a metà glutei. Questi dettagli fecero comprendere subito agli inquirenti che non fosse stata Roberta a darsi fuoco da sola. Dopo avere tentato di distruggere il corpo della fidanzata col fuoco, Pietro caricò Roberta sulla sua Fiat Punto e la gettò in un dirupo dal monte San Calogero a Caccamo, dove poi la fece rinvenire, la mattina successiva, ai Carabinieri, pensando di dare a bere la versione che Roberta si fosse suicidata prima appiccandosi il fuoco e poi gettandosi nel vuoto. Pietro tentò anche di crearsi un alibi con sms e telefonate a conoscenti, e raccontò a un amico e alla mamma di Roberta di averla accompagnata a casa nelle prime ore del mattino. A smentire la sua verità ci sono non solo gli esiti dell'autopsia, ma c'è anche un video che lo incastra. Il filmato, ripreso da una telecamera di sorveglianza di un privato vicino al campo sportivo del paese, è stato mostrato in aula. Immortala gli ultimi attimi di vita di Roberta, la sua agonia durata oltre cinque minuti. Si vede la fiammata che la avvolge, lei che cammina avvolta dalle fiamme e poi si accascia al suolo. Sullo sfondo l'auto di Pietro. Per gli inquirenti lui era lì ad assistere alla scena, poi l'ha caricata in auto e si è disfatto del corpo. Nei giorni scorsi gli avvocati di parte civile hanno chiesto alla Corte di trasmettere gli atti alla procura affinché si possa continuare a indagare sull'eventuale presenza di complici (per l'occultamento del cadavere), possibilità che era stata vagliata anche nel corso delle indagini effettuate. «È stato un processo lungo, perché sono stati approfonditi tanti aspetti, ma si è finalmente giunti a una conclusione giusta commenta subito dopo il verdetto l'avvocato Giuseppe Canzone -. Abbiamo avuto riscontro all'idea che ci eravamo fatti sin dall'inizio. Oggi trova finalmente giustizia un costrutto accusatorio molto solido che mostrava una responsabilità evidente».

La ragazza morì un anno fa in circostanze ancora da chiarire. Dora Lagreca, il dolore della sorella della 30enne caduta dal balcone: “Non si è uccisa, vogliamo la verità”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Ottobre 2022 

Era la notte tra l’8 e il 9 ottobre 2021 quando Dora Lagreca, 30 anni, di Montesano sulla Marcellana in provincia di Salerno, morì dopo essere caduta dal balcone della casa in cui viveva con il fidanzato a Potenza. Quest’ultimo è stato indagato per istigazione al suicidio, in questo modo ha potuto anche nominare un perito di parte per l’autopsia sul corpo della giovane valdianese. Le ipotesi più accreditate sono che Dora si possa essere tolta la vita o che possa essere accidentalmente caduta. Ma a questa ipotesi la famiglia non crede e chiede risposte certe a distanza di un anno esatto dalla morte di Dora.

“Da un anno viviamo il dolore per la perdita di Dora. Da un anno chiediamo spiegazioni, risposte. Nulla ci restituirà la nostra amata Dora, ma almeno sapremo la verità su cosa sia accaduto quella maledetta sera a Potenza”, ha detto Michela Lagreca, sorella di Dora più grande di due anni, intervistata dal Mattino. La famiglia per un intero anno ha taciuto e si è tenuta lontana dai riflettori sebbene il caso fosse diventato estremamente mediatico. Ma il silenzio su quelle indagini per loro è intollerabile.

Dora precipitò dal quarto piano della palazzina. Quando fu trovata era completamente nuda. Secondo l’autopsia Dora sarebbe morta per un’emorragia “massiva”. L’esame rilevò anche “lesioni multiple” oltre all’emorragia. I risultati dell’autopsia non escludono quindi al momento alcuna ipotesi nella dinamica della morte di Dora. La 30enne fu soccorsa dal personale del 118 e trasportata all’Ospedale San Carlo di Potenza dove morì poco dopo il ricovero, intorno alle 2:00 di notte. Il suo fidanzato si trovava in casa con lei al momento della tragedia. Antonio Capasso ha 29 anni e al momento risulta indagato per istigazione al suicidio. La coppia aveva trascorso la serata con amici in alcuni locali del capoluogo della Basilicata.

Il 29enne nell’interrogatorio ai Carabinieri raccontò che quella sera ci fu un diverbio, non proprio una lite, con la sua fidanzata. Secondo la sua versione, quando tornarono a casa la ragazza si sarebbe buttata nel vuoto dal balcone della mansarda nel Rione Parco Aurora. “Ho cercato di fermarla – ha detto il ragazzo – ma era troppo tardi”. Ma la famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio o dell’incidente: “Mia sorella amava troppo la vita per decidere di togliersela – continua Michela – Si era vista qualche ora prima con mamma e papà ed era serenissima. A me parlava sempre di sogni e progetti futuri, di voler diventare mamma. Poi la conoscevo: non lo avrebbe mai fatto. E non credo neanche alla tesi dell’incidente. Con i miei genitori vogliamo delle risposte proprio per capire cosa sia accaduto, perché da un anno attendiamo risposte e la nostra vita, a differenza di quella di altre persone coinvolte, è stata stravolta”.

Michela ricorda quella drammatica notte in cui i carabinieri l’avvisarono che Dora aveva avuto un incidente. “Con il mio compagno siamo partiti verso Potenza e ho provato più volte a chiamare Antonio per capire cosa fosse accaduto. Mi ha riposto al quarto tentativo con una chiamata su messenger, mi ha solo detto: ‘Dora è caduta dal terzo piano’, poi ha chiuso e da allora non l’ho più sentito, così come i miei genitori. Mai una chiamata di spiegazione, di scuse, di condoglianze”. Racconta che il rapporto tra i due era burrascoso, fatto di liti e gelosie, “un rapporto, secondo me, morboso” ma “mai ci ha riferito di azioni violente nei suoi confronti, ma ci ha sempre detto che verbalmente la offendeva e cercava di farla sentire sbagliata”.

La sorella descrive Dora come una persona solare, che amava la vita e divertirsi in compagnia. Lavorava a scuola ma era molto brava con la manicure. Michela spiega quali sono i dubbi sulla vicenda da parte della sua famiglia: “Mia sorella aveva sempre le mani in ordine e se ha perso un’unghia (fu trovata all’interno dell’appartamento, ndr) qualcosa è accaduto. Da quanto ricostruito grazie al supporto del nostro legale, Antonio dopo la caduta ha chiamato prima la mamma e poi il 118. Per quale motivo? E poi: perché mia sorella era completamente nuda? A Potenza faceva freddo e Dora non sarebbe mai andata sul terrazzo senza vestiti. E ancora: solo un giornalista ha trovato il dispositivo di mia sorella sul terreno, tre giorni dopo la tragedia. La mia famiglia da un anno è distrutta. Vogliamo delle risposte, le vogliamo per la nostra amata Dora”. Per ricordare Dora a un anno dalla sua scomparsa, ci sarà una fiaccolata nel suo paese di origine per chiedere giustizia e soprattutto verità. “La ricordiamo ogni ora del giorno, la cerchiamo in ogni angolo della casa”, conclude Michela.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ancona, Ilaria morta per le botte in casa. Il marito fermato: «È caduta». Alfio Sciacca, inviato ad Ancona,  su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2022.

L’uomo era ai domiciliari per droga. Nell’appartamento c’erano le due figlie di 8 e 5 anni. Sul corpo della donna contusioni compatibili con le botte. La famiglia era aiutata dai servizi sociali. 

L’avrebbe colpita con violenza al volto, per poi scaraventarla giù dalle scale. Ilaria Maiorano, 41 anni, era mamma di due figlie di 8 e 5 anni, e sarebbe stata uccisa in casa mentre le sue bambine erano nella loro camera. Non avrebbero visto nulla, ma sicuramente avranno sentito le urla della donna. Come ha intuito qualcosa l’amica che alle 10,20 ha chiamato, terrorizzata, il 112. Ilaria era con lei al telefono proprio quando c’è stato l’innesco di quella che sembrava una lite. Ad un tratto ha interrotto bruscamente la conversazione e quando l’amica l’ha richiamata al telefono non rispondeva più nessuno.

Il medico legale

Sul corpo della donna il medico legale ha riscontrato segni evidenti delle contusioni provocate dalla rovinosa caduta e «compatibili» anche con le botte. Tutti i sospetti ricadono sul marito, Tarik El Gheddassi, 40 anni, originario del Marocco ma da anni residente in Italia: è stato fermato nella serata dell’11 ottobre dopo un lungo interrogatorio.

Quando i carabinieri sono arrivati sul posto lo hanno trovato in casa. Ha raccontato che la moglie è morta cadendo dalle scale e che lui non c’entra nulla. Lo ha ripetuto per tutto il pomeriggio anche quando è stato accompagnato nel comando di Compagnia dei carabinieri di Osimo, dove è pure andato in escandescenza, tanto che è dovuta intervenire un’ambulanza. Ed ha continuato a respingere ogni accusa anche davanti al sostituto procuratore di Ancona Daniele Paci: «È stato solo un incidente».

Ricostruito, invece, il contesto in cui è maturato quello che sembra l’ennesimo femminicidio. L’uomo era già noto alle forze dell’ordine: ha precedenti per spaccio di droga e altri reati, ed attualmente era agli arresti domiciliari.

Il sindaco

Tra i primi ad arrivare davanti al casolare dove viveva Ilaria, alla periferia di Padiglione di Osimo, il sindaco della città Simone Pugnaloni e l’Imam della moschea cittadina Chafi Abblebir. Entrambi conoscevano benissimo la vittima. «È stata mia compagna di scuola alle elementari —dice al sindaco—, era una donna dolcissima, sempre con il sorriso sulle labbra. Forse era un po’ fragile, non vorrei che si fosse fatta trascinare in un contesto difficile».

L’imam

L’Imam, invece, la conosceva perché «tutte le domeniche mattina portava le figlie nella moschea per studiare l’arabo». Ma spiega «né lei né il marito frequentavano il centro islamico». Anche se Ilaria non mancava mai di accompagnare le figlie portando il velo sul capo. «Era una donna deliziosa, l’avevo vista proprio ieri (domenica, ndr)— aggiunge l’Imam— . Ma per carità non dite che questa la sua morte abbia a che fare con questioni di religione perché lui è marocchino. In moschea lui non l’ho mai visto, lo conoscevo solo di vista. Un saluto e basta». Si tratta comunque di un contesto familiare disagiato. Dieci anni fa il matrimonio con rito civile. Lei era casalinga. Lui, prima degli arresti, aveva svolto solo lavori saltuari come manovale. Ogni tanto ricevevano sostegni economici dal Comune per le spese correnti e la loro situazione era nota ai servizi sociali.

STEFANO VLADOVICH per il Giornale il 12 ottobre 2022.

«Non vuoi andare alla moschea?». E giù botte. È stata uccisa a calci e pugni Ilaria Maiorano, 41 anni, madre di due bimbe. Massacrata al culmine di una lite esplosa ieri mattina dopo le 9 in un casolare nelle campagne di Osimo, Ancona. Una tragedia cui, fortunatamente non hanno assistito le figlie, da poco entrate a scuola, una alla materna, l'altra alle elementari. Arrestato il marito, Tarik El Gheddassi, originario del Marocco, 41 anni, pregiudicato, agli arresti domiciliari per una storia di droga e già condannato a 5 anni e mezzo per stupro. È il 2016 quando Tarik violenta una 20enne di Ancona che gli aveva chiesto un passaggio per andare a Osimo dal fidanzato ucraino. 

Pena ridotta a 3 anni e otto mesi con il rito abbreviato nel 2017 nonostante Tarik si sia presentato successivamente dal ragazzo armato di machete e gli abbia rotto una bottiglia in testa. 

Succede tutto in una manciata di minuti, ieri, quando la vittima riceve una telefonata da una zia. La lite è già al culmine, la vittima taglia corto e chiude bruscamente la conversazione. La donna ci riprova più volte a mettersi in contatto con Ilaria ma il telefono squilla sempre a vuoto. Si preoccupa, teme che in casa stia accadendo il peggio, chiama il 112.

Quando i sanitari del 118 arrivano in via Montefanese 146, a Padiglione di Osimo, la poveretta è a terra, priva di vita. Non una goccia di sangue sul pavimento, tanto che dal primo esame del medico legale Ilaria sarebbe morta per le percosse. Picchiata e uccisa a mani nude. 

L'uomo, alla vista dei militari, tenta una giustificazione: «È caduta, ha battuto la testa», dice. Ma i segni sul corpo dicono altro. Portato in caserma, incalzato dalle domande, l'uomo prima va in escandescenza, poi accusa un malore. L'interrogatorio davanti al magistrato, il pm Daniele Paci, comincia nel pomeriggio e va avanti fino a sera. Dai carabinieri anche il medico legale, Francesco Busardò, con la perizia sul cadavere mentre gli uomini del reparto scientifico effettuano i rilievi nel casolare. 

Sposati da 10 anni, una famiglia all'apparenza tranquilla nonostante il fattaccio dello stupro. 

«Una donna splendida, sempre sorridente ma dall'animo fragile», ricorda il sindaco Simone Pugnaloni, suo ex compagno alle elementari. Però Ilaria si vergognava della situazione familiare. Il carcere 5 anni prima, il nuovo arresto per droga, le visite quotidiane dei carabinieri, il chiacchiericcio della gente. Da tempo non vuole più farsi vedere in giro, tantomeno recarsi alla moschea di Osimo, al centro culturale islamico Assalam. Eppoi, secondo gli amici e conoscenti, i problemi dei soldi, la parcella dell'avvocato e la disoccupazione del marito erano sempre più pressanti. Tanto che la famiglia era seguita dai servizi sociali. Incredulo dell'uxoricidio l'Imam di Osimo, accorso sul luogo della tragedia: «Una famiglia a posto, frequentavano tutti la moschea». 

Cosa sia accaduto esattamente ieri mattina, cosa abbia fatto esplodere tanta violenza contro la moglie, Tarik El Gheddassi lo dovrà spiegare bene agli inquirenti, che per il momento avrebbero emesso un decreto di fermo nei suoi confronti per omicidio volontario aggravato, visto che il delitto si è consumato nella sfera familiare. «Le nostre famiglie - continua il sindaco - si conoscono da sempre. Il padre, scomparso recentemente, era un finanziere. Ogni tanto incontravo la madre di Ilaria ma non mi ha mai accennato a problemi particolari. Loro li incontravo a passeggio sul corso, la domenica». 

Con la morte di Ilaria Maiorano salgono tristemente a 43 i femminicidi avvenuti in Italia dall'inizio dell'anno, mentre solo nelle Marche, negli ultimi 5 anni, le donne assassinate sono 12. Nelle 287 vittime di stragi familiari in 10 anni nove volte su dieci a uccidere è un uomo.

 L'uomo era ai domiciliari: ora è accusato di omicidio volontario. Ilaria uccisa di botte dal marito, il femminicidio mentre era al telefono con la zia: “Ora devo attaccare”. Redazione su Il Riformista il 12 Ottobre 2022. 

Uccisa di botte dal marito dopo aver accompagno le figliolette di 6 e 8 anni. E’ morta così Ilaria Maiorano, la 41enne trovata senza vita in un casolare di Osimo (Ancona) dove viveva con il marito Tarik El Ghaddassi, cittadino marocchino sottoposto nella serata di martedì 10 ottobre a fermo con l’accusa di omicidio volontario aggravato e trasferito in carcere. E’ la 43esima donna vittima di femminicidio dall’inizio dell’anno.

“E’ caduta” aveva spiegato l’uomo ai carabinieri intervenuti nell’abitazione dopo la segnalazione di una zia della vittima preoccupata dall’aggressione subita dalla nipote mentre parlavano al telefono, con la conversazione bruscamente interrotta dalla 41enne. Tarik, in passato condannato per violenza sessuale (e della vicenda se ne sono occupati anche i servizi sociali), stava scontando gli arresti domiciliari per vicende relative alla droga.

Chi indaga è convinto che sia lui il responsabile e che le ferite sul corpo di Ilaria non siano compatibili con una caduta: da un primo esame medico legale, la vittima sarebbe morta per violenti colpi subiti. Dopo il ritrovamento del corpo, il marito è stato portato in caserma dai carabinieri e lì trattenuto per ore: dapprima ha dato in escandescenze e ha accusato un malore, tanto che sul posto è intervenuto il 118.

“La donna apparteneva alla nostra comunità ed era una brava persona. Portava sempre le sue bambine in moschea e l’ultima volta l’ho vista solo ieri pomeriggio”, afferma l’imam della Moschea di Osimo, che conosceva i coniugi: “Sembrava una bella famiglia. L’ultima volta che l’ho vista? Ieri pomeriggio alle 18. Quella di Ilaria era una bella famiglia. Il marito, Tarik, ogni tanto lo vedevo in moschea con lei”.

Il femminicidio a Osimo. Picchiata a morte in casa, trovata senza vita mamma di due bambini: il compagno portato via dai carabinieri. Redazione su Il Riformista l'11 Ottobre 2022 

Uccisa, massacrata a suon di botte probabilmente dal marito con cui aveva due figli piccoli. È morta così una donna di 41 anni, Ilaria Maiorano, di nazionalità italiana, trovata senza vita nella sua casa di Padiglione di Osimo, in provincia di Ancona.

A trovarla sono stati gli operatori del 118, inviati dai carabinieri, allertati a loro volta da una parente della vittima, secondo quanto riferisce l’edizione on line del Resto del Carlino: quando sono arrivati i militari e i soccorritori il marito Tariq El Gheddassi era ancora lì. L’uomo è stato portato via dai carabinieri che conducono l’indagine, condotto in caserma per essere sentito dalle forze dell’ordine. Sul posto, un casolare di campagna in via Montefanese, sono giunti i familiari di quest’ultimo e anche l’imam della comunità islamica di Osimo. Il religioso ha parlato di una “famiglia tranquilla” che frequentava la moschea locale.

La donna uccisa “apparteneva alla nostra comunità. Si chiamava Ilaria ed era una brava persona. Ci è stato detto che è stata trovata morta a casa sua. Portava sempre i suoi due bambini in moschea, L’ultima volta l’ho vista ieri alle 18“, ha spiegato all’agenzia LaPresse il religioso.  “Era una bella famiglia, il marito Tariq ogni tanto veniva in moschea con lei“, ha raccontato ai cronisti.

Il marito si sarebbe giustificato con i militari dicendo che la moglie avrebbe battuto la testa durante una caduta ma, da una prima ispezione cadaverica, le ferite non sembrano compatibili con una caduta ma con delle percosse. 

Nell’abitazione sono in corso i rilievi della polizia scientifica, mentre il corpo della vittima sarà esaminato da un medico legale per l’autopsia. Tariq El Gheddassi era noto alle forze di polizia, scrive l’Ansa, era agli arresti domiciliari per una questione di droga: lui e Ilaria erano sposati civilmente da dieci anni.

All’Ansa ha invece parlato il sindaco di Osimo, Simone Pugnaloni, che non appena sentite le prime notizie si e’ precipitato nel casolare in via Montefanese a Padiglione. 

La morte di Ilaria “è un grande dolore per tutta la comunità di Osimo ma anche per me in particolare”. “Eravamo compagni di scuola alle elementari – ha detto all’Ansa il primo cittadino -, quando eravamo bambini le nostre famiglie si frequentavano, negli ultimi anni ci si incontrava per il corso cittadino la domenica. E’ un grande dolore – ha ribadito – spero che le indiscrezioni che si riconcorrono da stamane non siano vere…. Perdere una mamma di due bambine, giovane. E’ un momenti difficile per tutta Osimo, ci stringiamo intorno al dolore della famiglia“.

Caso Scagni, l’ex fidanzata di Alberto: «Voleva uccidere anche me, mi sono lanciata dall’auto in corsa». R.I. su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022

La testimonianza raccolta dai magistrati che indagano sulla morte di Alice, sorella del killer. Per la perizia psichiatrica il 42enne era seminfermo di mente. Nelle carte spunta anche una seconda ex che sarebbe stata strangolata

Non solo la sorella Alice, uccisa sotto casa a Genova l’1 maggio 2022 dopo mesi di minacce. Alberto Scagni, 42 anni, avrebbe voluto ammazzare anche l’ex fidanzata. L’elemento emerge da alcuni interrogatori contenuti come allegato alla perizia psichiatrica sul killer voluta dal gip. La perizia ha stabilito una sostanziale seminfermità mentale dell’uomo, cosa che potrebbe garantirgli uno sconto di pena, ma non di tale portata da evitargli di andare a processo.

Il documento

Nel corposo documento viene ricordato a più riprese come una ex fidanzata di Scagni avesse raccontato alla sorella Alice di essere stata strangolata da lui. Ma se quello è un racconto «riportato» da terzi ancora più significativa è la testimonianza diretta, resa pochi giorni dopo l’omicidio, di un’altra donna che con Scagni aveva avuto una lunga relazione. «Eravamo in macchina insieme, faceva discorsi strani, notai che stava prendendo delle deviazioni dal percorso stabilito, non ricordo precisamente le sue parole ma mi fece chiaramente capire che aveva intenzione di uccidermi, era in preda a una sorta di follia lucida», racconta la ex fidanzata. Ciò che accadde oltre cinque anni fa era legato al contesto di una relazione tossica, dove Alberto Scagni viene descritto come «ossessivo, geloso e controllante», dove la ragazza dice di essersi trovata «soggiogata psicologicamente» tanto da smettere di mangiare e non riuscire a interrompere la storia «per timore delle sue reazioni violente».

Relazione tossica

L’episodio dell’auto avviene all’indomani di un pranzo in famiglia: «Alberto per scherzo mi chiese di sposarlo, davanti ai suoi genitori, con un anello che poi si era rivelato finto, io abbozzai ma in quel momento mi resi conto che volevo fuggire da quella situazione, lui percepì il mio disagio e il giorno dopo mi chiese di incontrarci per chiarire». Anche i colloqui di Scagni con gli psicologi, in carcere, coincidono con quanto rivelato dalla ex. «La vicenda dell’anello le aveva aperto gli occhi, giustamente» racconta lui sminuendo però l’importanza della relazione.

La fuga

La donna che in quell’occasione era riuscita a scappare dall’auto grazie a una coincidenza fortuita (un’altra auto che si è messa di mezzo, rallentando la corsa di Scagni e permettendole di lanciarsi fuori), getta racconta anche di avere cercato aiuto rivolgendosi alle forze dell’ordine: «Mi informai su come avrei potuto procedere nei suoi confronti e soprattutto su come proteggermi da situazioni analoghe ma poi lasciai perdere, mi pareva di aver enfatizzato l’episodio o forse perché le forze dell’ordine a cui mi ero rivolta avevano sminuito la portata dell’evento». Sull’omicidio di Alice Scagni la procura di Genova ha aperto due inchieste, una per omicidio e una su possibili omissioni da parte della polizia e dell’igiene mentale, visto che i genitori di Alberto accusano entrambe le istituzioni di non avere ascoltato le loro richieste di aiuto, persino il giorno del delitto.

Il delitto di Alice Scagni: «Anche i vicini avevano segnalato che il fratello era pericoloso e fuori controllo». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2022.

Anche alcuni vicini avevano segnalato che Alberto Scagni era «pericoloso» e «ormai incontrollabile». . Le segnalazioni sarebbero arrivate almeno due settimane prima del delitto ed erano state indirizzate alla polizia municipale di Genova e al centro di salute mentale della Fiumara. Questo ed è altro è contenuto in un nuovo dossier che il legale della famiglia Scagni consegnerà nei prossimi giorni alla Procura della Repubblica di Genova.

Da mesi i genitori della ragazza, Antonella Zarri e Graziano Scagni, sostengono che gli inquirenti dovrebbero procedere anche per il reato di «morte come conseguenza di altro reato». E individuare le responsabilità di quanti quel delitto potevano evitarlo, perché erano state preventivamente informate sulla pericolosità di Alberto Scagni. Sulla morte di Alice attualmente la Procura ha avviato due diverse inchieste. Una per omicidio volontario, in cui l’unico indagato è il fratello della vittima, Alberto Scagni. L’altra, per omessa denuncia e omissione di atti d’ufficio, nell’ipotesi che ci siano responsabilità da parte di chi pur sapendo della pericolosità di Alberto Scagni non intervenne tempestivamente. Circostanza che, secondo la madre di Alice, Antonella Zarri, avrebbe potuto salvare la vita della figlia.

Da settimane i genitori di Alice e il loro nuovo legale Fabio Anselmo (lo stesso che si è occupato del caso di Stefano Cucchi) stanno dando battaglia sulle troppe omissioni da parte di chi era stato informato della pericolosità di Alberto e non intervenne. «Alla luce di ciò che pensava e viveva anche chi non era parente di Alberto, e che scopriamo si tradusse in allarmi persino alla Salute mentale, — ha dichiarato il legale— l’equilibrio psichiatrico di quell’uomo era evidentemente già compromesso. E non comprendiamo come il perito incaricato dal gip possa essere orientato, come ha lasciato intendere, a certificare la sua piena capacità d’intendere e volere al momento della tragedia». Questo è uno snodo decisivo. Se infatti le perizie dovessero confermare che era sano di mente sarebbe più arduo dimostrare che ci sino dei responsabili per l’omesso controllo dopo le segnalazioni arrivate, non solo dalla famiglia, ma anche dai vicini di casa.

Alice e Alberto Scagni, lei uccisa, lui omicida: la storia e le vite non parallele di due fratelli. Jacopo Storni su Il Corriere della Sera il 02 ottobre 2022.

La storia di Alice Scagni e del fratello Alberto, che l’ha uccisa: lei brava a scuola, realizzata sul lavoro, madre felice; lui trascinato sempre più a fondo dai suoi fantasmi: «Sono diventato come Van Gogh». I genitori: «Quando capirà ciò che ha fatto si ammazzerà. Lui è colpevole, certo, ma lo è anche lo Stato inefficiente»

Estate 1993, una foto sbiadita. Fratello e sorella sul gommone in mezzo al mare. Alberto ha 13 anni, Alice 5. Lui impugna i remi, sorride festante di essere il timoniere della sorellina. La protegge in mezzo all’acqua. Gli occhi vigili: prima sul mare, poi su di lei per assicurarsi che non si sporga. Rema piano, sferza la corrente, asseconda il ritmo delle onde. Le onde pacifiche di Varigotti, costa ligure di Ponente, dove i genitori hanno appena comprato una casa dopo una vita di sacrifici. «Eravamo felici» dice mamma Antonella guardando quella foto. Fa male quella foto, a rivederla oggi, 29 anni dopo. Fratello e sorella non ci sono più. Alberto ha ucciso Alice con 17 coltellate, lo scorso 1° maggio. Lei è morta, lascia un bambino di 2 anni. Lui è in carcere. E i genitori sono qui, dentro casa, quartiere Sampierdarena, Genova popolare. Distrutti. E arrabbiati. Hanno denunciato i carabinieri e i servizi di salute mentale. «Avrebbero potuto salvare nostra figlia». Una frase ricorrente: «Nostra figlia è stata uccisa dall’inefficienza dello Stato». E un reato ipotizzato: «Morte come conseguenza di omissione dolosa».

Gli ultimi giorni

Alberto negli ultimi mesi era impazzito. Ossessivo, paranoico. Assediava sorella e genitori con telefonate aggressive. Chiedeva soldi, sfogava rabbia. A inizio marzo i genitori contattano gli specialisti di salute mentale, passano giorni (molti giorni) prima di un appuntamento. A quell’incontro Alberto non va, ci vanno i genitori con la sorella. Smarriti, sfiniti. Hanno paura che il comportamento del figlio possa degenerare. Sta diventando pericoloso. Vorrebbero un Tso, ma non si può. «Semmai chiamate i carabinieri», dicono i medici. È fine aprile, sono gli ultimi giorni. A fine aprile Alberto vandalizza i campanelli dei palazzi sotto casa. Il 29 aprile viene incendiato il portone della nonna. Il 30 aprile l’irruzione intimidatoria nell’appartamento dei genitori. Una collera torrenziale. E infine il 1° maggio. La mattina Alberto chiama il padre Graziano. Lo insulta, vuole soldi, minaccia: «Lo sai dove sono Alice e suo marito? Lo sai dove cazzo sono?». Il padre avverte il figlio: «Guarda che chiamiamo il 112». Lo chiamano davvero, più volte, ma inutilmente. «Signò, non famola tragica», rispondono gli agenti. E non arriva nessuna pattuglia. Alle 20.45, Alberto arriva a casa di Alice. Lei scende a portare fuori il cane. Lui la colpisce con ferocia inaudita. Il cane abbaia, Alberto scappa, Alice muore, 29 anni dopo quella foto nel mare di Varigotti. Allora lui la proteggeva, oggi la uccide.

Una famiglia felice

Nel mezzo, la vita di una famiglia. Due fratelli felici al mare. Oppure in montagna, nella casa di Bardonecchia. Scatti di famiglia: una foto del 1995, lago d’Arpy, Valle d’Aosta. Alberto e Alice indossano un cappellino, sorridono e abbracciano il padre. L’amore tra fratelli, due vite parallele. Che poi divergono. Lentamente, inesorabilmente. Lei madre felice, presidente di una società di consulenza. Lui insoddisfatto cronico, senza famiglia, con lavori saltuari. Inappagato dalla vita, tormentato. Sempre più instabile. Crescono insieme, poi cambiano direzione. La nonna materna Ludovica: «Alice aveva un marito splendido, un lavoro da avvocata, un figlio bellissimo e si era comprata una casa meravigliosa. Aveva tutto e sapeva tutto, Alberto questo non riusciva a sopportarlo. Lui voleva sempre i soldi da lei, perché era diventato ossessivo». Per arrivare qui, c’è un percorso lungo vent’anni. C’è l’amore che diventa odio. E due genitori: Antonella e Graziano. Sono seduti al tavolo del soggiorno, Antonella stringe il polso di Graziano. Una casa modesta, un grande terrazzo che affaccia sui palazzi di Sampierdarena. Hanno due cani e due gatti: Cili e Rocky, Babu e Blackie. Graziano argomenta con voce flebile, il pallore nel viso, all’improvviso si porta le mani in faccia e dice «basta, basta». Ripercorrono gli anni con dolore. Cercano risposte dentro al vuoto, scavano nei ricordi. Che sono macigni.

L’esame di maturità

Estate di 23 anni fa, liceo scientifico Enrico Fermi, esame di maturità, terza prova. Alberto è in classe, scrive sul foglio a protocollo. All’improvviso perde lo sguardo, si divincola, cade, ha un attacco epilettico, non può terminare gli esami. E viene bocciato, l’anno da ripetere. Un’umiliazione. Fu esonerato da educazione fisica, si sentiva escluso dai compagni. Eppure praticava karate, era cintura marrone. Ripete l’anno. E ritorna il giorno dell’esame. «È stato male tutta la notte, me lo ricordo come fosse adesso» racconta la madre. E il padre: «Ad ogni prova dell’esame siamo rimasti in auto accanto alla scuola per paura che potesse capitargli un altro attacco epilettico». Alberto si diploma, l’esame non va benissimo: 67 su 100. Si iscrive a Scienze politiche: «Portai personalmente la sua iscrizione in facoltà» ricorda il padre. Alberto prova a studiare, frequenta a intermittenza, non si appassiona. Si registra a un’agenzia interinale. Diventa barista all’occorrenza, pizzaiolo per necessità. Il lavoro non lo conquista, preferisce i libri. Ne comprava tanti, adorava Murakami, i testi sul Giappone, la filosofia orientale. Scriveva poesie, voleva diventare uno scrittore. Si rifugiava spesso nella casa di campagna, a Pozzol Groppo. Spaccava legna, dipingeva, amava Van Gogh. Il disincanto dal mondo, l’anima dissidente.

Il binario sbagliato

Aveva comprato gli acquerelli e una macchina fotografica. Restava ore in contemplazione delle stelle. Chiedeva al padre di fare come lui. «Perché non stai qui a vedere le stelle?» La vita, però, non era fatta solo di stelle. Bisognava lavorare. Il padre direttore amministrativo in una scuola, la madre dirigente quadro in banca. «Mi sono diplomata col massimo dei voti a ragioneria, a 21 anni ero già cassiera, ero nessuno e sono diventata quadro di secondo livello in Carige. Alberto mi rimproverava di non essere la mamma casalinga. Dal pediatra e dai professori ci andava mio marito. Uscivo la mattina alle 7 e tornavo la sera alle 20, ho dedicato moltissime energie al lavoro cercando di tenere in piedi lavoro e famiglia». Alberto trova lavoro come impiegato amministrativo. Tempo indeterminato, apprezzamenti dai dirigenti. «Lavorava per spaccarsi la schiena e arrivare la sera e crollare dal sonno. Non viveva per lavorare, lavorava per vivere, non aveva l’ambizione del successo» racconta papà Graziano. Nel frattempo Alice si diploma. A scuola lei è bravissima: diploma con 97 su 100. Poi Giurisprudenza, si laurea con 92. Entra in uno studio di commercialista, si fidanza col suo futuro marito, inizia la carriera. «Alice ha preso tutti i binari della vita» ripetono i genitori «Alberto invece no, non eravamo entusiasti, avremmo voluto che entrambi i figli trovassero una sistemazione secondo binari prestampati».

L’inizio della fine

Il treno di Alberto deraglia, a lui non piacciono i binari. Mentre è in ufficio, un nuovo, inaspettato attacco epilettico. Finisce in ospedale, quando esce si licenzia. «Per lui era diventato insostenibile produrre per gli altri». Spirito ribelle. Finisce anche la relazione con la storica fidanzata, Roberta. E lui crolla. I genitori si fanno in quattro per aiutarlo nel lavoro. La madre Antonella gli trova uno studio legale, lo assumono. «Vedere mio figlio andare in giacca e cravatta a lavorare era bellissimo» dice Graziano. Ma è un’illusione. Lui si sente stretto in quei vestiti. Dimentica scadenze, sbaglia contratti, viene licenziato, gli ritirano la patente per guida in stato di ebrezza. Alice invece diventa presidente del Cda dell’azienda. «Ci dette la notizia proprio qui, su questo divano, fu bellissimo» ricorda Antonella. Poi Alice si sposa. La scelta del vestito a Torino, è l’ultima gita della famiglia tutta insieme. «Quando Alberto la vide vestita da sposa, aveva gli occhi lucidi dalla commozione». E poi arriva il Covid, Alberto sprofonda. Andava in palestra, ma le palestre chiusero. Gira per strada senza mascherina. Non sopporta l’autorità, l’imposizione. Parcheggia l’auto sul marciapiede, fioccano le multe, il padre si arrabbia, però le paga. A marzo 2021 nasce Alessandro, il figlio di Alice. L’estrema gioia, per lei. Alberto però è indifferente, avaro di carezze per il nipotino. Diventa aggressivo, i suoi atteggiamenti si fanno preoccupanti. A settembre liquida il fondo pensione di 15mila euro donato dai genitori. Scoppiano i litigi.

Il delirio

«Almeno usali bene». E invece no, spende tutto in tre mesi: alcol, donne, forse droga. Ancora soldi: arriva anche il reddito di cittadinanza. Poi però non arriva più, Alberto si perde nei gangli della burocrazia. E si arrabbia, lo sguardo monolitico. Non è più lucido. Incolpa i genitori. A Natale, per la prima volta in vita sua, non partecipa al pranzo familiare in campagna. «Alice aveva suo figlio neonato di 7 mesi tra le braccia ma era triste perché vedeva suo fratello soffrire, non mangiò quasi niente». Alberto delira. Chiede ai genitori 120mila euro, li implora, li spaventa. Diventa irascibile, inavvicinabile. Teme di essere escluso dall’eredità, crede di essere spiato. Fa bonificare il suo appartamento convinto che qualcuno lo possa spiare. La famiglia vuole mandarlo dallo psicologo, lui non vuole. Partono le richieste di aiuto ai servizi di salute mentale, i tempi si allungano, passano i giorni. Il neurologo dice che Alberto è grave. «Ci disse che era diventato come Van Gogh» dicono i genitori. Il riferimento al pittore olandese arriva in qualche modo ad Alberto, che il 28 aprile, sulla sua pagina Facebook, pubblica un post: «Fossi Van Gogh, negli ultimi cinque anni avrei dipinto questo» e incolla un’immagine di cromosomi. Il giorno prima aveva postato una foto scattata al killer di Marta Russo, la studentessa di 22 anni uccisa venticinque anni fa da un colpo di pistola alla Sapienza di Roma. E il giorno prima ancora, il 26 aprile, il post con la sua busta paga da impiegato del marzo 2010. E un commento: «Bei ricordi».

Brutti segnali

Il marito di Alice ha paura, compra un estintore per difendersi, propone alla moglie di trasferirsi in una casa di campagna. Lei dice no: «Alberto non mi farà mai del male, lui mi vuole bene». Però Alberto insulta tutti. Si rivolge al padre così: «Sei un coglione, mongoloide, deficiente, pedofilo». Ormai non si vedono più, parlano solo per mail. O per telefono, come quell’ultima volta col padre. «Fra 5 minuti io controllo il conto, se non c’ho i soldi stasera il marito di Alice e tua figlia sai dove cazzo sono, lo sai dove cazzo sono?». Si susseguono frenetici i messaggi di famiglia. Alice scrive alla madre: «Alberto non è più in grado di ragionare. Ma non possiamo andare via tutti?! Cioè non si può vivere così!». I genitori chiamano i carabinieri, sedici minuti al telefono per implorare un intervento e proteggersi dal figlio. «Abbiamo creduto che chiamare il 112 servisse a qualcosa. Abbiamo sbagliato, ne sono convinta» dice Antonella. «C’erano tutte le avvisaglie ma nessuno ha voluto ascoltare».

Il delitto

E Alberto esplode, la furia sul corpo della sorella, sotto casa di lei. «Ha ucciso lei per punire noi» dice papà Graziano. Mamma Antonella accarezza il cagnolino Cili: «Non possiamo prendercela con Dio perché ci ha dato tanta felicità». Lo ripete: «Eravamo una famiglia felice». Una famiglia normale. Poi qualcosa si è rotto. Alberto è uscito dai binari, è scappato dalla vita: «Ma noi l’abbiamo amato tantissimo. Anche Alice lo amava, e lui amava Alice, quando si renderà conto di quello che ha fatto si ucciderà». Vogliono andare a trovarlo nel carcere di Marassi. «È pur sempre nostro figlio». E chiedono giustizia. Balena rabbia negli occhi di Antonella: «Mio figlio impugnava l’arma, è colpevole, ma poteva essere fermato. Anche lo Stato è colpevole». Adesso resta il piccolo Alessandro, 2 anni. Nei giorni scorsi, guardando la foto di Alice, ha sussurrato “mamma”. Non potrà riaverla indietro. Crescerà col padre Gianluca, rimasto vedovo. E con i nonni paterni, e quelli materni. Adesso sono nonni. «Preferivo essere madre» dice Antonella. Adesso è madre solo di Alberto. Vedrà Alice negli occhi di Alessandro, imparerà a cercarlo, imparerà ad amarlo, come un faro nel buio, sorgente di vita che non muore.

Omcidio-suicidio a Scalea. Femminicidio Ilaria Sollazzo, la giovane mamma crivellata dall’ex in auto: “Perché non vuoi tornare con me?” Redazione su Il Riformista il 2 Ottobre 2022 

Ha ucciso la sua ex fidanzata in auto, poi si è rivolto la pistola contro e si è tolto la vita. Dramma in provincia di Cosenza, dove sul litorale di Scalea, un giovane di 25 anni, Antonio Russo, di professione guardia giurata, ha ammazzato la scorsa notte la “sua” donna, la 31enne Ilaria Sollazzo, insegnante precaria, con la pistola di ordinanza.

L’omicidio-suicidio è avvenuto in via Borsellino, sotto casa della donna. I due, che si erano lasciati da poche settimane e avevano una figlia di due anni, si sarebbero incontrati probabilmente per un chiarimento ma la situazione è degenerata e il 25enne ha deciso prima di uccidere la compagna sparando numerosi colpi d’arma da fuoco, poi di farla finita. Il tutto all’interno di una Lancia Ypsilon bianca parcheggiata a bordo strada.

Secondo una prima ricostruzione, Russo non riusciva ad accettare la separazione e nelle ultime settimane i litigi tra i due erano stati frequenti. Le indagini sono state avviate dai carabinieri della Compagnia di Scalea e del Reparto operativo del Comando provinciale di Cosenza.

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2022.

Tre mesi fa si erano lasciati, senza drammi, dopo diversi anni di convivenza. Un'unione, quella tra Ilaria Sollazzo, 31 anni, e Antonio Russo, 25, lei insegnante di sostegno, lui guardia giurata, titolare della Metropol, entrambi di Scalea (Cosenza), vissuta tra alti e bassi, nonostante la nascita, due anni fa, di una bambina (che viveva con la madre). 

Sabato notte la tragedia che nessuno si aspettava, perché a quanto pare non c'era stata alcuna avvisaglia. Intorno alle due Antonio Russo, dopo aver seguito Ilaria con la sua Audi, l'ha raggiunta sotto casa, è sceso dall'auto e le ha scaricato addosso sei colpi di pistola mentre lei si trovava ancora al posto di guida della sua Lancia Y. Poi ha rivolto l'arma contro di sé e, con l'ultimo proiettile rimastogli, si è ucciso.

Don Cono Araujo, parroco della chiesa di San Giuseppe Lavoratore di Scalea, conosceva entrambi. «Conoscevo i ragazzi e le loro famiglie. Spesso venivano in parrocchia, insieme alla bambina». Dice che erano una coppia affiatata, che si volevano bene. «Anche dopo la separazione il clima tra i due pareva normale. Qualcosa, però, si è rotto», ragiona don Cono. Ilaria aveva vinto il concorso nella scuola e preso servizio, a settembre, al liceo Metastasio di Scalea. 

Don Araujo, a questo punto, racconta una storia che troppo spesso accompagna i femminicidi, come se fosse un'assurda giustificazione: «Credo che Antonio non vedesse di buon occhio l'autonomia economica della compagna, che la sua indipendenza l'avesse fatto infuriare». 

Sabato sera Ilaria è andata in parrocchia a far visita ai catechisti. «Lei adorava stare con i bambini, per anni ha insegnato catechismo. Come al solito ci siamo messi a chiacchierare. Era abbastanza serena, sorridente, mi aveva detto che sarebbe andata a un compleanno di amici. Ilaria amava la vita e aveva tantissimi amici», ricorda don Cono.

La fine della relazione con Antonio, però, Ilaria l'ha vissuta con sofferenza, soprattutto per sua figlia. Lui, nel frattempo, con la morte del padre, aveva ereditato l'azienda di famiglia, la Metropol, insieme alla madre e al fratello. «Forte» anche di questo aveva cercato di riconquistare Ilaria, ma senza successo. Ilaria, riferisce chi li conosceva, respingeva con garbo i suoi tentativi di riavvicinamento. 

Ma lui la seguiva. Ilaria si sarebbe confidata con le sorelle e con il fratello, ma non ha presentato nessuna denuncia per stalking o per minacce. Sabato, Ilaria ha passato la serata con degli amici. Verso le due è rientrata sotto casa dei suoi genitori, in via Paolo Borsellino. Qui, ha incrociato la sagoma del suo ex che, dopo essersi avvicinato all'auto, ha tentato di aprire lo sportello lato guida per farla scendere.

Alla scena non ha assistito alcun testimone, ma è presumibile che Ilaria, spaventata, si sia chiusa dentro l'abitacolo. Un gesto che, però, non le ha salvato la vita. La guardia giurata ha premuto sei volte il grilletto della sua pistola, puntandola contro la madre della sua bambina. Ha sparato attraverso il finestrino e l'ha uccisa all'istante. Poi, ha poggiato la rivoltella alla tempia e ha esploso l'ultimo colpo.

La 40enne uccisa in casa aveva un figlio di 4 anni. Lilia massacrata a coltellate, aveva appena denunciato il compagno: “Dopo le scuse aveva ritirato tutto”. Vito Califano su Il Riformista il 24 Settembre 2022

Lilia Patranjel poche settimane fa aveva chiamato i carabinieri, aveva denunciato il compagno per tre episodi di violenza domestica che si erano verificati dal 2016 fino all’ultimo più recente. Quelle accuse le aveva ritirate pochi giorni dopo. Alexandru Ianosi ha confessato ieri ai carabinieri di aver ucciso a coltellate la compagna. L’omicidio, l’ennesimo femminicidio consumato tra le mura domestiche, a Spinea, in provincia di Venezia.

L’uomo ha chiamato i carabinieri intorno alle cinque del mattino. Lilia Patranjel, 40 anni, moldava, aveva un figlio di quattro anni. “La mamma è caduta”, diceva il bambino mentre l’uomo parlava con i militari secondo quanto riportato da Il Corriere della Sera che ricostruisce il delitto. Il cadavere della donna uccisa poco dopo la mezzanotte è stato ritrovato nel soggiorno dell’appartamento di via Mantegna. Ianosi è stato trasportato in caserma mentre nell’appartamento la Scientifica effettuava i rilievi. Il piccolo è stato portato all’ospedale e affidato alle cure della Pediatria per precauzione.

Solo la dirimpettaia ha raccontato di aver sentito molto rumore la sera prima provenire dall’appartamento. Una vicina di casa ha detto al quotidiano di quando poche settimane prima erano arrivati i carabinieri. “Poche settimane fa, li aveva chiamati Lilia. Poi mi aveva raccontato che Alexandru l’aveva picchiata in testa e su un fianco, e allora i militari le avevano consigliato di farsi refertare al Pronto soccorso”, ha riferito la donna. La 40enne aveva denunciato non maltrattamenti continui ma tre episodi singoli.

Sarebbe stato questo aspetto a impedire ai militari di procedere nelle indagini dal punto di vista giuridico. L’uomo era un operaio che lavorava come saldatore. La donna assisteva un’anziana di un paese vicino, aveva avuto altre due figlie da una precedente relazione. Una delle due aveva provato a trasferirsi in Italia. La coppia era arrivata a Spinea nel 2017, erano integrati nella comunità. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano la donna aveva ritirato la denuncia dopo le scuse dell’uomo.

La situazione però era drasticamente peggiorata nelle settimane successive. Lei gli aveva detto apertamente di volerlo lasciare. L’autopsia stabilirà con precisione con quante coltellate è stata uccisa la donna. Ianosi dopo la confessione al telefono si è avvalso in caserma della capacità di non rispondere. Ha detto di essere svenuto dopo l’omicidio, si è detto devastato dai sensi di colpa.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Bari, Cassazione conferma 26 anni di carcere all'ex amante killer di Bruna Bovino. Dopo otto anni messa la parola fine alla vicenda processuale sulla morte della estetista 29enne italo-brasiliana, uccisa nel suo centro estetico a Mola di Bari il 12 dicembre 2013. Colamonico dovrà tornare in cella. Isabella Maselli su La Gazzetta Del Mezzogiorno il 23 Settembre 2022

Antonio Colamonico è colpevole di aver ammazzato l'ex amante Bruna Bovino, ferendola a morte con 20 colpi di forbici e strangolandola. Il corpo della donna fu poi trovato semicarbonizzato, fra brandelli di indumenti e sangue. Dopo otto anni la Cassazione ha messo la parola fine alla vicenda processuale sulla morte della estetista 29enne italo-brasiliana, uccisa nel suo centro estetico a Mola di Bari il 12 dicembre 2013.

I giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso fatto dalla difesa di Colamonico, la cui condanna a 26 anni e 6 mesi di reclusione diventa così definitiva. Colamonico dovrà andare quindi in carcere per scontare quello che resta della sua pena. L'uomo era stato arrestato nell'aprile 2014 con l'accusa di omicidio volontario e incendio doloso, appiccato secondo l'accusa per cancellare le prove del delitto appena compiuto.

In primo grado, nel luglio 2015, era stato condannato a 25 anni di reclusione. In appello, nel novembre 2018, era stato assolto e scarcerato, dopo più di quattro anni in cella. Nel settembre 2021, poi, dopo l'annullamento con rinvio da parte della Cassazione, un nuovo collegio della Corte di Assise di Appello di Bari aveva ribaltato la sentenza dichiarandolo colpevole e aumentando la pena precedentemente inflitta. Oggi quella condanna è diventata definitiva e dovrà tornare in cella.

Nel processo erano costituite parti civili la madre della vittima, l'ex marito con la figlia minorenne e le associazioni antiviolenza Safiya Onlus e Giraffa.

Enea Conti per corriere.it il 22 settembre 2022.

Quando, martedì scorso, il suo avvocato le ha telefonato per dirle che il Tribunale di Rimini aveva condannato il suo ex fidanzato a quattro anni e otto mesi di reclusione per lesioni personali e maltrattamenti, l’incubo che aveva vissuto per quasi due anni tra Londra e Milano è sembrato finire. Almeno per un po’. E almeno in parte, perché lui è ancora libero, sebbene lontano. 

Violenze

Valentina ha ventisette anni, è ancora scossa e non vuole parlare delle violenze e delle minacce subite per mesi senza poter fare nulla. È il suo legale, Umberto De Gregorio, a parlare per lei, riferendo il suo stato d’animo. «La mia cliente — spiega — ha ritrovato nella sentenza un po’ della serenità che aveva smarrito. Giustizia è stata fatta e finalmente anche il giudice ha creduto che nulla fosse frutto di sue esagerazioni o esasperazioni». 

Perché i racconti di Valentina hanno trovato riscontro nelle indagini della polizia di Rimini. Indagini che hanno ricostruito sofferenze e vessazioni. 

Sfregio

Nel 2019 Valentina aveva 24 anni e da Rimini si era trasferita a Milano per lavoro. Era una aspirante modella. È qui che la ventisettenne aveva conosciuto Aiaz Hussain Shah, trentotto anni. Lui le aveva raccontato di fare il broker a Londra, le aveva parlato di un mondo dorato e pieno di possibilità. I due si fidanzarono, lui la invitò a trasferirsi in Inghilterra e lei lo seguì. Qui, nella capitale britannica, la loro relazione cambiò. 

 In peggio, per Valentina, precipitata suo malgrado in una spirale di violenze fisiche e psicologiche che sarebbero andate avanti per due anni. Il periodo peggiore, quello della pandemia. Un giorno — ha raccontato la vittima — lui la minacciò con un coltello, glielo puntò addosso mentre con l’altra mano riprendeva la scena con lo smartphone. 

Voleva immortalare il terrore sul volto della ragazza. I giorni più duri — ha riferito sempre Valentina — sono stati quelli del lockdown della primavera 2020. Chiusa in casa, subiva angherie di ogni tipo. «Ti faccio uccidere, ti faccio stuprare per sfregio. Poi, con i soldi che ho mi compro tutti gli avvocati che voglio così nessuno mi potrà fare niente, continuerò a fare quello che sto facendo», le diceva Hussain. 

Ferro da stiro

Martedì, in aula, sul banco del pubblico ministero Davide Ercolani era appoggiato un ferro da stiro. È diventato purtroppo l’emblema di questa storia drammatica: un oggetto domestico trasformato in un’arma. Era il novembre del 2020, la coppia si trovava a casa quando, durante, una lite Shah le bloccò il braccio per poi appoggiarci sopra quel ferro incandescente. 

Qualche giorno dopo, quasi a voler rincarare la dose, lui le sferrò un pugno proprio sull’ustione, facendola quasi svenire dal dolore e cadere a terra. I due si trovavano fuori casa, lui salì a bordo della sua Lamborghini e minacciò di investirla. 

La Lambo

La Lamborghini è l’altro simbolo di questa storia. Un’auto di lusso, da milionari quale lui è. Ma non solo. Nel dicembre del 2020 la ventisettenne, ormai esasperata, decise di fare ritorno a Rimini a casa dei suoi genitori: non poteva immaginare che di lì a pochi giorni Shah sarebbe arrivato fin sotto casa sua a bordo di quell’auto color oro con la quale a Londra aveva provato a investirla. 

Quel giorno, fu l’avvocato Umberto De Gregorio a chiamare la polizia dopo le richieste di aiuto della sua assistita. L’arroganza di Shah non si placò neppure di fronte agli agenti. «Non potete farmi nulla, non mi succederà nulla perché in questo Paese posso comprare chi voglio», urlava sicuro di sé. Ma, almeno per il momento, non è andata così.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 22 settembre 2022.

Da quando erano morti i genitori con i quali aveva vissuto da sempre, Carla Cintelli, 46 anni, non era più la stessa. Riservata sino all'inverosimile, si era ancor più arroccata nel suo mondo. Viveva da sola, non aveva amici, diffidava di tutto e tutti, anche dei vicini che la conoscevano da 40 anni. E negli ultimi tempi usciva poco, non lavorava, i soldi dell'eredità erano finiti e non riusciva ad andare avanti economicamente.

L'hanno trovata senza vita al terzo piano del suo piccolo appartamento in un condominio di Signa, comune dell'hinterland di Firenze, uno stabile a due passi dalla stazione. E di quella morte adesso è sospettato il fratello interrogato per ore dai carabinieri del reparto operativo di Firenze.

«Aveva la cassetta della posta piena di reclami e bollettini che non riusciva a pagare. Temeva che le portassero via la casa», rivela un vicino.

Chiedeva spesso aiuto al fratello Marco, un elettricista cinquantenne sposato con un figlio adolescente, ma le discussioni sembra fossero continue e insanabili e la situazione negli ultimi mesi era precipitata. L'ultimo litigio, violento e fatale, è accaduto probabilmente venerdì quando il fratello ha deciso di andarci a parlare. Stavolta non era preoccupato soltanto per le continue richieste di pagamento delle utenze della casa dove viveva Carla che erano a lui intestate. Secondo alcune indiscrezioni l'uomo avrebbe ricevuto un avviso di pignoramento del suo stipendio per far fronte ai debiti della sorella.

«Vado da Carla, ci starò qualche giorno, poi ci sentiamo al telefono», aveva detto alla moglie prima di uscire di casa. Ma quella telefonata non l'ha mai fatta e la donna, preoccupata dell'assenza del marito che non rispondeva al cellulare, prima ha avvertito alcuni parenti che hanno cercato inutilmente l'elettricista e poi martedì si è presentata alla caserma dei carabinieri preoccupatissima per denunciare la scomparsa del marito. 

Troppo tardi. Era già tutto accaduto nel piccolo appartamento di via don Minzoni 18. Quando i militari sono entrati nella casa hanno trovato la donna morta, probabilmente strangolata dal fratello. Il corpo di Carla era riverso sul pavimento della camera da letto, sembra che avesse dei segni sul corpo come se ci fosse stata una colluttazione, ma il particolare non è stato confermato ufficialmente dagli investigatori. Sul pavimento ancora ricevute non pagate e avvisi di pagamento.

Le ricerche del fratello sono proseguite sino a quando l'elettricista è stato trovato in un capanno vicino a casa. Era immobile, seminascosto, sembrava sotto choc, non ha pronunciato neppure una parola. È stato fermato e interrogato per ore: è sospettato di omicidio volontario. L'uomo pare soffrisse di depressione e in passato aveva manifestato propositi suicidi. Con la sorella i rapporti erano tesi da sempre e si erano aggravati dopo la morte dei genitori.

Ad alcuni conoscenti aveva confessato di essere molto preoccupato per la sorella che prima o poi lo avrebbe mandato in rovina. Le indagini proseguono. Gli indizi, raccolti dai carabinieri della compagnia di Signa insieme alla Sezione investigazioni scientifiche del reparto operativo di Firenze, sono schiaccianti ma servono prove certe su dinamica e movente.

Da today.it 12 settembre 2022.

Marco Manzini tredici anni fa ha ucciso la moglie, Giulia Galiotto poi ha cercato di nascondere l'omicidio inscenando un suicidio. Per il delitto era stato condannato a diciannove anni di carcere ma oggi il 48enne è già in semilibertà, affidato in prova ai servizi sociali. Una possibilità di redenzione, ma un gesto ora fa discutere. 

Attraverso i propri avvocati ha infatti scritto ai genitori della donna offrendo loro cinquanta euro al mese "in ottica di manifestazione della volontà di avvicinamento ad un'ipotesi di mediazione penale", ovvero una sorta di riavvicinamento tra le parti. Un gesto tutt'altro che ben accolto dai genitori di Giulia. 

La madre Giovanna Ferrari, che dal giorno dell'omicidio della figlia sta conducendo una personale battaglia sul tema dei femminicidi, ha commentato con parole dure. In una intervista all'Ansa la madre della trentenne uccisa torna proprio alla notte del delitto, l'11 febbraio del 2009. Marco Manzini, allora perito elettronico di Sassuolo, fissò un appuntamento con la moglie nella casa dei genitori di lui, a San Michele dei Mucchietti.

Al culmine di una lite, l'ennesima, l'omicidio: Giulia Galiotto venne colpita al capo con una pietra, nel garage della casa. Manzini gettò poi il corpo della giovane nel fiume Secchia, tentativo di inscenare un suicidio e per fare ciò scrisse anche un biglietto d'addio, facendolo passare come opera della moglie per confermare il gesto estremo. 

"Dopo aver ammazzato nostra figlia ci ha chiamato prendendoci in giro - denuncia Giovanna Ferrari - Abbiamo assistito alle schifezze che ha detto su di lei in tribunale e non ha mai mostrato pentimento. Oggi - continua - noi non sappiamo dove sia e chi lo controlli, mentre lui sa tutto di noi. Metti caso che noi avessimo paura? Chi ci garantisce che questo individuo non ci venga a cercare?".

Ferrari si era già più volte espressa contro la giustizia che non ha riconosciuto la premeditazione dell'omicidio e che già ha anticipato il fine pena del 48enne al 2025 anziché al 2028 per la buona condotta durante la detenzione. "Noi non accettiamo alcuna mediazione - le parole della madre di Giulia Galiotto - se Manzini mi vuole incontrare lo faccia per dirmi la verità e non le frottole che ha raccontato in tribunale". 

"È già stato fortemente aiutato e ora ci arriva questa lettera per metterci al corrente che, essendo lui in questa situazione di fine pena ma in misura alternativa alla detenzione, è tenuto a dimostrarsi ben disposto verso la famiglia della vittima. A noi non interessano i soldi, abbiamo scoperto che lavora a tempo indeterminato in un'azienda, quindi la giustizia continua a prendere in giro chi ha subito".

Sdegno viene espresso in rete anche dalla sorella di Giulia, una delle prime a sollevare dubbi nel 2009 sull'ipotesi che Giulia Galiotto si fosse uccisa. "Ciao Giulia - scrive Elena Galiotto - oggi ho saputo che il tuo assassino è stato liberato. Ecco, il mio cervello ha davvero difficoltà a concepire questi due dati di fatto: tu non esisti più e il tuo assassino è libero".

Campobasso, la donna segregata per 22 anni: «Siete venuti a liberarmi? Potevo lavarmi una volta al mese. Schiaffi e insulti se parlavo». Alessandro Fulloni su il Corriere della Sera il 13 settembre 2022.La 67enne rinchiusa in un tugurio dal fratello e da sua moglie: «Mangiavo ciò che mi davano, richieste fatte a voce dalla finestra...». Nella stamberga in cui è stata detenuta per 22 anni non c’era il riscaldamento e «d’inverno usavo vecchi vestiti pesanti»

La donna era rinchiusa in un piccolo magazzino vicino alla legnaia: poteva lavarsi di rado con un vecchio lavandino per i panni

«Ma davvero siete venuti qui per liberarmi? Io in questo posto non voglio più starci...». Quando i carabinieri della compagnia di Bojano hanno aperto la porta della sua «prigione», questa donna di 67 anni — che subito agli uomini dell’Arma è apparsa terrorizzata, gli occhi sgranati, il corpo esile — sulle prime non voleva parlare. Ma poi le parole rassicuranti — «signora, non abbia paura, siamo qui per lei» — l’hanno convinta. Allora «ha sorriso per qualche istante per poi iniziare a piangere, un pianto liberatorio» racconta uno degli investigatori che venerdì ha preso parte al blitz nel casolare alle pendici della collina su cui è arroccato il borgo medievale di Casalciprano.

Dal 1995, rimasta vedova, la donna viveva qui con il fratello e la moglie che da un giorno all’altro avevano deciso di toglierle la libertà, trasformandola in una reclusa, in quel tugurio sporco ricavato accanto a una legnaia: la prigione da cui l’hanno portata via i carabinieri. Lucida e chiara, in audizione protetta, assistita dalla psicologa nominata dalla procura, ha cominciato il suo racconto così: «Non mi facevano fare nemmeno il bagno... Potevo lavarmi una volta al mese nella vasca del bucato». La donna ha riferito di essere stata segregata, «ridotta al silenzio, erano schiaffi e insulti se parlavo senza che prima mi dessero il permesso». E poi: «Mangiavo ciò che mi davano, richieste fatte a voce dalla finestra...». Nella stamberga in cui è stata detenuta per 22 anni non c’era nemmeno il riscaldamento e «d’inverno, per riparami dal freddo, usavo delle coperte... Poi indossavo gli abiti che avevo con me quando mi trasferii. La televisione? No, non c’era».

Il capitano Edgard Pica, al quale è stata indirizzata direttamente la lettera anonima che ha permesso di aprire l’inchiesta, di questa donna «messa a dura prova» è rimasto colpito dalla «capacità di “resilienza”. In lei ha vinto la capacità di sopportare le gravissime privazioni subite, dalla libertà personale a quella di parola e di autonomia, mostrando un desiderio di vivere e di uscire dall’incubo in cui ha vissuto». Non solo. La vedova «in ogni occasione chiedeva aiuto con tentativi rimasti per troppo tempo inascoltati». Lo ha fatto forse contattando, chissà come, qualche conoscente: magari proprio uno di quelli che ha inviato la segnalazione anonima.

Eliseo Castelli, 47 anni, sindaco di Casalciprano, assicuratore di professione e vicepresidente regionale dell’Anci, adesso si dice «rasserenato per il fatto che questa vicenda è emersa e che a questa donna è stata ridata la libertà». Il primo cittadino racconta orgoglioso che «sono stati i nostri servizi sociali ad avere preparato la relazione che ha permesso di avviare gli accertamenti ufficialmente». Quanto alla vedova, «faccio il sindaco da 12 anni ma ricordo di averla vista solo qualche volta, da giovane. Poi non ho più saputo nulla di lei. Chi avrebbe dovuto segnalare eventuali problemi? Forse il medico di base». Ma il fratello e sua moglie? «Due persone affabili, cordiali: devo dire che se mi avessero raccontato ciò che poi ho appreso non lo avrei mai creduto».

Campobasso, segregata in casa per 22 anni dal fratello e dalla cognata. La Repubblica il 12 settembre 2022. 

Viveva in una piccola stanza senza riscaldamento, le era concesso di lavarsi una volta al mese nella vasca del bucato. Non poteva uscire sola né parlare con qualcuno. I carabinieri la hanno liberata dopo una segnalazione.

Ventidue anni di prigionia, in una stanza piccola e fredda. Costretta lì da chi avrebbe dovuto volerle bene, un fratello e una cognata, diventati i suoi carcerieri. Fino a che i carabinieri di Bojano, provincia di Campobasso, pochi giorni fa, non l'hanno liberata.

La storia inizia nel 1995 quando la donna, allora di 40 anni, rimane vedova e per non rimanere sola accetta l'invito del fratello di ospitarla nella stanza che era stata dei loro anziani genitori. I primi anni di convivenza trascorrono in tranquillità, ma dopo poco la donna inizia a diventare un peso e viene costretta a spostarsi in una stanza ricavata di fianco alla legnaia, senza riscaldamento.

Un ambiente accessibile solo tramite una scala a chiocciola esterna che può essere chiusa da fuori seppur in modo rudimentale - uno spago resistente legato a un chiodo ancorato sul muro - che riesce però nello scopo di impedire alla donna di uscire in assenza dei coniugi.

Per anni la donna non ha avuto accesso a cure mediche, sporadicamente veniva accompagnata da una parrucchiera sorvegliata a vista dalla cognata. Non è mai più uscita da sola neanche per andare sulla tomba del marito e non le è stato mai concesso di fare due chiacchiere con alcuno. Aveva la possibilità di lavarsi nella vasca del bucato una volta al mese, non le era concesso nemmeno l'utilizzo del bagno.

Qualche mese fa una segnalazione è arrivata ai carabinieri che hanno effettuato un sopralluogo e scoperto la storia della donna, oggi 67enne. Accompagnata qualche giorno fa in caserma, è stata sentita dal maresciallo alla presenza di un consulente nominato dalla Procura di Campobasso che segue le indagini a carico dei due coniugi. "Nonostante quello che ha vissuto è stata molto lucida e precisa nel racconto", hanno detto i carabinieri.

Rassicurata sul fatto che non avrebbe più fatto ritorno in quell'abitazione e lei così ha raccontato oltre vent'anni di privazioni e vessazioni psicologiche e fisiche, botte e schiaffi. "La 'resilienza' della donna - evidenziano i carabinieri - è stata messa a dura prova negli anni, ma ha vinto la sua capacità di sopportare le gravissime privazioni subite, dalla libertà personale, a quella di parola e di autonomia, mostrando un desiderio di vivere e uscire da tale situazione, cercando in ogni occasione di chiedere aiuto, con tentativi rimasti per troppo tempo inascoltati". Ora la donna si trova in una struttura protetta dove è stata curata.

Domenico Romeo: «Vidi mio padre sparare a mia madre, di lei mi è rimasto solo un diario. Soffrirò per sempre». Jacopo Storni su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.

La prima volta Domenico aveva 5 anni: stava giocando quando lui, che girava armato, cominciò a urlare contro la moglie e il figlio. A un tratto gli puntò la pistola alla tempia. «Quel momento durò un’eternità. Dal carcere mi ha scritto decine di lettere. Sono in una scatola, non le ho aperte. Forse un giorno lo farò» 

Quella sensazione di freddo alla tempia la rivive ogni giorno. Sono passati 25 anni, ma quel tocco d’acciaio è ancora qui. Domenico Romeo aveva 5 anni, era in cucina con nonni e genitori. Stava giocando al Game Boy, o forse erano i modellini, magari i Pokemon. Non ricorda a cosa stava giocando, ricorda invece che suo padre cominciò a urlare contro sua madre, poi contro di lui, lo prese in braccio con violenza, tirò fuori una pistola e gliela puntò in testa. «Non ricordo quanti secondi durò, ricordo che fu un’eternità». Da quel giorno Domenico è dislessico, quel terrore trafisse il suo cervello. Ancora oggi, fatica a pronunciare le parole più difficili. E poi quella volta sul letto, aveva 8 anni. «Ero un piccolo monello come tutti i bambini a quella età. Tiravo le tende in casa, rovesciavo l’acqua dai bicchieri. Quella volta cambiai la combinazione alla ventiquattr’ore di mio padre». E suo padre si arrabbiò. «Mi buttò sul letto a pancia in giù e cominciò a picchiarmi, schiaffi e calci sul sedere. Mi feci pipì e popò addosso».

La rabbia in corpo

Aveva la rabbia in corpo, Natale Romeo. Piccolo imprenditore di Siderno, provincia di Reggio Calabria. Aveva in casa la pistola. Uomo padrone, dallo sguardo greve. Sfogava i problemi nel lavoro sulla famiglia. Eppure a volte sorrideva, come quella volta a Gardaland. C’è una foto in fondo alla cascata del Colorado boat, tutta la famiglia insieme: Domenico e suo fratello Luigi, mamma Tiziana e papà Natale. Sorridono tutti, gli schizzi in faccia e gli occhi serrati, le mani inchiodate alla barca di legno.

Il ritratto di una famiglia che corregge le imperfezioni, maschera la ferocia. Ricordi opachi, memorie da cancellare. Come le botte a Tiziana, i lividi sul volto, nelle braccia, sul collo. «Mio padre picchiava mia madre, però mia madre diceva che dovevo voler bene a mio padre». Mai una denuncia, per salvare l’onore. Poi la separazione, inevitabile, pretesa dai genitori di Tiziana. Ma lui non ci sta, una storia già vista. Ancora la rabbia. Fino al 4 settembre 2004. È tutto vivido, negli occhi di Domenico.

Giorno di festa

«Era la festa patronale di Porto Salvo, quel giorno in cui per cena si va a mangiare il panino con la salsiccia sul lungomare. Mia madre ci venne a prendere a casa di mio padre. Mio padre scese in strada, mia madre in auto, una Punto bianca. Cominciarono ad urlare, io dietro, stavo caricando i libri di scuola nel bagagliaio. Vidi mio padre che stese mia madre sui due sedili anteriori, poi tre colpi. Pensavo fosse la lupara giocattolo di mio fratello, invece no, guardai avanti, vidi la testa di mia mamma che sanguinava, il buco del proiettile sulla guancia».

Arresto, carcere, morte

Grida Domenico, ha 13 anni, ricorda tutto. Grida e scappa insieme al fratellino, dice «non ucciderci» a suo padre diventato assassino. Scappa in casa, lui li insegue, poi si arrende. L’ambulanza, i carabinieri. E Tiziana che muore, aveva 35 anni. Domenico e Luigi orfani di femminicidio, crescono con i nonni, senza più madre e senza padre, rinchiuso nel carcere di Lucca. È morto anche lui, tre anni fa. Domenico non è andato al funerale, però ha chiesto pace all’anima sua. «Ho perdonato la sua anima, ma non ho perdonato il fatto che mi ha tolto mia madre, era la cosa più preziosa che avevo». Dal carcere, il padre gli ha scritto decine di lettere. Domenico non le ha mai lette, però le conserva, sono laggiù, in un cassetto della cantina. «Ogni volta che entro in cantina guardo quel cassetto, forse un giorno sarò pronto per aprirle». Oggi no, non è pronto. Oggi c’è spazio soltanto per Tiziana, la mente gravida di ricordi indelebili. Quella volta al pianoforte, lei suonava Beethoven, il piccolo Luigi sul passeggino, la testa di Domenico reclinata sulla spalla della madre. «Era bellissima mentre suonava, è il ricordo più dolce che ho». Domenico conserva un diario di mamma, dove racconta i primi giorni di lui. Pagine sacre, parole di vita. «Il mio piccolo adora i gatti». E poi la prima poppata, il primo giorno che sorride.

Il diario che Tiziana Romeo iniziò a tenere dopo la nascita del figlio Domenico: quando fu uccisa aveva 35 anni

Il diario

Mamma Tiziana rivive qui, nell’inchiostro che trasuda amore. E poi nella canzone di Ligabue Ogni volta che vieni a prendermi sulla tragedia di Dendermonde, in Belgio, dove due bambini sono stati uccisi in un asilo. Ascolta quelle parole e rivede la madre che non ha mai avuto: «Mia madre che ha insistito che facessi colazione» dice la canzone. Ogni volta che Domenico vede una madre col passeggino, gli sale il groppo in gola: «Penso a quello che non è stato: la cresima, poi il diploma, all’esame mi misero un brutto voto, poi capirono che avevo problemi di apprendimento. E poi la laurea, il matrimonio: mia madre non c’era mai». Si è sposato pochi giorni fa con Nancy: «L’ho conosciuta quando avevo 19 anni, stiamo insieme da 11, è una donna meravigliosa, me l’ha mandata mia madre dal cielo». In prima fila davanti all’altare, Tiziana quel giorno non c’era, e quando Domenico ha baciato la sposa si è messo a piangere. «All’orecchio le ho sussurrato che adesso siamo felici tutti e tre».

«Il ricordo più dolce che ho di mia madre è quello di un giorno in cui stava suonando Beethoven al pianoforte»

Domenico Romeo bambino con la madre Tiziana

Lacrime liberatorie, spasimi di gioia e dolore. Mentre racconta, si gratta le unghie mangiate. Però sorride, i raggi negli occhi. È felice Domenico, ha 31 anni, ha studiato economia e commercio, sta diventando commercialista. «Faccio questo lavoro perché amo sbrogliare i problemi della gente». Uno psicologo della contabilità, proprio lui che di psicologi ne ha visti tanti durante l’infanzia. «Mi hanno aiutato a rinascere, nessuno dovrebbe avere paura di chiedere aiuto». Oggi Domenico è testimonial del progetto Respiro, promosso dall’associazione calabrese Sinapsi nell’ambito del progetto finanziato dall’associazione “Con i Bambini” all’interno del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Un progetto che intende promuovere un modello di intervento e cura per garantire una risposta efficace per proteggere i bambini quando si verifica un crimine domestico, affinché i più piccoli e i loro familiari non siano più soli, ma vengano accompagnati in un percorso di sostegno.

Quel rumore

È felice però soffre, soffre ancora. Il passato che ritorna. Come quando sente un rumore improvviso. Rintocchi nell’anima. Si gira verso quel rumore, si scuote per dire che no, non è stato uno sparo. E poi le sirene delle forze dell’ordine, quando vede i carabinieri ha un sussulto. Il dolore che viene, il dolore che poi sfuma. E quell’instabilità: a volte s’innervosisce, quella rabbia atavica che scaturisce, forse, dai suoi cromosomi. «Come mio padre e come mio nonno, che ancora oggi pensa di essere l’uomo alfa, l’uomo calabrese che non deve chiedere mai».

La violenza

Ecco, Domenico vuole combattere proprio questo: «Perché la violenza è dentro di noi, e per combatterla serve partire da noi stessi». Ancor prima che fuori, le ragioni della guerra sono dentro di noi. Lo diceva anche Tiziano Terzani: «Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità... lentamente bisogna liberarcene». Come prova a fare Domenico, ogni giorno della sua vita: «Bisogna imparare a gestire la violenza della nostra quotidianità: io per esempio qualche anno fa ho smesso di bestemmiare». Per lui, smettere di bestemmiare non è un gesto qualsiasi: «È come salvare mia madre, lei non voleva che lo facessi, quando andavamo in chiesa voleva che prendessi la comunione». Adesso Domenico ha ritrovato la fede, va in chiesa con sua moglie. E in chiesa si è sposato. Forse in chiesa battezzerà anche suo figlio. «Se nascerà femmina, la chiamerò Tiziana, sarà come rinascere».

Bimbo di 10 anni chiama il 112 e salva la madre: “Papà la picchia, cosa posso fare?” Chiara Nava il 12/09/2022 su Notizie.it.

Un bambino di 10 anni ha chiamato il 112 chiedendo aiuto per salvare la madre dalla violenza del padre. 

Un bambino di 10 anni ha salvato la sua mamma dalle violenze del padre, chiamando il 112 in piena notte, chiedendo cosa doveva fare e dando tutte le informazioni utili. 

Bimbo di 10 anni chiama il 112 e salva la madre: “Papà la picchia, cosa posso fare?”

Un bambino di 10 anni, nella serata di sabato 10 settembre, ha contattato le forze dell’ordine per chiedere aiuto per la sua mamma. “Papà la sta picchiando” ha detto con un filo di voce. Caterina Lorenzoni, operatrice del 112 che ha risposto al telefono, ha cercato i calmare il bambino. L’agente gli ha detto di nascondersi per spiegare cosa stava succedendo. Il piccolo ha spiegato che il padre stava picchiando la madre e che stava per prendere a calci e pugni anche le due sorelline.

L’operatrice è riuscita a farsi dare le informazioni necessarie per inviare una volante dei carabinieri.

Il racconto

“Erano circa le 3 di notte e alla centrale regionale del 112 è arrivata questa telefonata. La voce era di un bimbo che lucidamente ha chiesto aiuto per la sua mamma. Gli ho chiesto di fornirmi tutte le informazioni necessarie per raggiungere casa sua. E lui ha eseguito” ha raccontato l’operatrice. “Il bimbo è stato un vero eroe.

Mi ha spiegato tutto in maniera chiara e pulita. Parlava sottovoce ma era tranquillo, ha mantenuto un sangue freddo incredibile. I ragazzini qualche volta ci fanno degli scherzi, ma sicuramente non alle 3 di notte. I rumori in sottofondo poi erano inequivocabili” ha aggiunto. L’operatrice ha trasmesso le informazioni alle forze dell’ordine, che sono subito intervenute. “Ho voglia di dirti che sei davvero un eroe e vorrei farti i miei complimenti” è il messaggio dell’operatrice al bambino.

Giuseppe Baldessarro per bologna.repubblica.it il 14 ottobre 2022.

L’ha uccisa con almeno venti colpi al volto e al capo, provocandole una dozzina di fratture. Sono queste le conclusioni a cui è arrivato il medico legale Guido Pelletti, incaricato dalla Procura di far luce sulle cause e la dinamica della morte di Alessandra Matteuzzi, assassinata sotto casa la sera del 23 agosto dall’ex compagno Giovanni Padovani, calciatore dilettante. 

L’uomo, accusato di omicidio aggravato e stalking, attese la donna nel cortile di casa e la colpì con calci, pugni e martellate. Poi le scaraventò contro anche una panchina di ferro che stava nel giardinetto del condominio. Colpi feroci, non solo alla testa ma anche a torace, braccia e gambe. Alessandra morì all’ospedale Maggiore poco prima di mezzanotte. Padovani, secondo le indagini, la uccise quando Alessandra decise di interrompere la relazione tra di loro, denunciandolo per i suoi comportamenti persecutori. 

L’indagine della squadra Mobile è coordinata dalla procuratrice aggiunta Lucia Russo e dal pm Domenico Ambrosino che, nei giorni scorsi, hanno deciso di sviluppare ulteriori approfondimenti tecnici con l’analisi di altri due telefoni sequestrati dopo l’omicidio.

Apparecchi che vanno ad aggiungersi a quelli trovati e consegnati ai periti il giorno del delitto. Tutto questo per tentare di avere un quadro più completo possibile dei trascorsi tra i due e verificare la presenza di chat e messaggi dello stesso tenore di quelli già scoperti. 

Da questi “dialoghi” traspare la morbosa, ossessiva gelosia di Padovani e gli inutili tentativi di lei di allontanarlo dalla sua vita. L’indagato, in carcere dal giorno dell’omicidio, è difeso dagli avvocati Denise Mondin ed Enrico Buono, mentre i familiari della vittima sono seguiti dagli avvocati Chiara Rinaldi e Antonio Petroncini.

Omicidio Alessandra Matteuzzi, la sorella: “La vidi il giorno che Giovanni l’ha uccisa, era disperata”. Chiara Nava il 12/09/2022 su Notizie.it.

La sorella di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa a coltellate a fine agosto dall’ex compagno, ha raccontato cosa è successo quel giorno. 

Stefania Matteuzzi, sorella di Alessandra, 56enne uccisa a coltellate dall’ex compagno, Giovanni Padovani, è stata ospite di Mara Venier a Domenica In e ha parlato di quello che è accaduto quel giorno.

Omicidio Alessandra Matteuzzi, la sorella: “Ero al telefono con lei quando l’ha uccisa”

Stefania Matteuzzi, sorella di Alessandra, uccisa a martellate a 56 anni dall’ex compagno, il calciatore 27enne Giovanni Padovani, è stata ospite di Mara Venier a Domenica In e ha raccontato cosa è accaduto quel giorno. “Ero a telefono con lei quando è stata uccisa. Sentivo le sue urla e quelle dell’assassino. L’avevo anche vista quel giorno, era disperata per Giovanni” ha dichiarato la donna. “Era molto bella, ma anche una persona semplice al di là di quello che si può pensare vedendo i social.

Condividevamo molto, come se avessimo vissuto nella stessa casa. Tutti i giorni ci raccontavamo quello che ci succedeva. L’avevo spinta io a cercare di conoscere un uomo, a lei non interessava dopo i problemi di salute dei nostri genitori” ha spiegato Stefania. “Alessandra mi ha parlato di Giovanni sin da subito. L’aveva trovato su Facebook. All’inizio lei è rimasta colpita perché lui gli aveva raccontato di un problema di salute che aveva avuto in passato.

Le era dispiaciuto. Mi ricordo che spesso mi diceva he lo apprezzava perché cercava di andare avanti nonostante le difficoltà. Fino a Ferragosto dello scorso si è comportato bene, era molto amorevole anche con la mia mamma” ha aggiunto la donna. 

Omicidio Alessandra Matteuzzi, la sorella: “La vidi il giorno che Giovanni l’ha uccisa, era disperata”

Dopo Natale l’atteggiamento di Giovanni è cambiato. “Ha cominciato a comportarsi in maniera strana.

Mi contattava continuamente, lui era convinto che mia sorella lo tradisse e voleva che io lo appoggiassi. Poi è diventato aggressivo, urlava e ho detto basta. Alessandra mi dava ragione ma a fatica ne ha preso le distanze anche se lui provava a riavvicinarsi. Poi pian piano ha trovato la forza, si è resa conto che faceva cose sempre più gravi” ha raccontato Stefania Matteuzzi. “Quella sera sono andata a casa sua con una scusa. Noi ci eravamo allontanate in quel periodo, io avevo paura del comportamento di questa persona, lei però continuava a dargli una possibilità. Lei ha confessato che era disperata. Il 29 luglio è andata a fare la denuncia. Ha fatto finta finta di andare in vacanza per far vedere che non era a casa” ha spiegato la donna. “Quel giorno lì io l’ho vista. Voleva parlarmi. Mi disse che era disperata per Giovanni, che il giorno prima si era presentato di nuovo sotto casa e le aveva staccato la luce. Lei era convinta che lui non ci fosse quella sera, che fosse in Sicilia con la squadra. Volevo che restasse da me ma lei doveva dare da mangiare al cane. Eravamo a telefono insieme, prima ancora che entrasse dal condominio. Poi a un certo punto ho sentito solo urla di lei e di lui incomprensibili. Non c’è stato dialogo. Ho chiamato subito i carabinieri con il telefono del mio compagno e intanto al telefono sentivo ancora le urla. Mi sono precipitata da lei, ma quando sono era arrivata era già troppo tardi” ha concluso. 

(ANSA il 24 agosto 2022) - Una donna di 56 anni è stata uccisa ieri sera a Bologna, colpita con una mazza e altri oggetti contundenti, in via dell'Arcoveggio, periferia della città. Si sarebbe trattato di un femminicidio. 

Secondo le prime informazioni raccolte i sospetti si concentrerebbero su un uomo che da tempo la importunava e che sarebbe stato preso in consegna dalla Polizia. Il sospettato è un italiano di 27 anni che aveva già una misura cautelare. Ieri sera avrebbe atteso la vittima per almeno due ore sotto casa, dove poi l'ha aggredita, appena fuori dalla porta della palazzina dove viveva.

(ANSA il 24 agosto 2022) - È stato arrestato un giovane di 27 anni, Giovanni Padovani, che ieri sera ha aggredito e ucciso una donna a Bologna, Alessandra Matteuzzi, in via dell'Arcoveggio, nel cortile condominiale. Secondo quanto riferito dalla Polizia si tratta del compagno, che avrebbe utilizzato anche un martello. L'intervento delle volanti è delle 21.30, per la segnalazione di una violenta lite. La donna era riversa a terra e ferita alla testa in stato di incoscienza. Trasportata in ospedale, è morta poco dopo. Sul posto era presente anche l'aggressore, arrestato per omicidio aggravato su disposizione della Procura.

Da leggo.it il 24 agosto 2022.

Quando Alessandra Matteuzzi, la donna di 56 anni uccisa ieri sera a Bologna, è stata aggredita a morte dall'ex compagno, il calciatore Giovanni Padovani, in quel momento era la telefono con la sorella. «È scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l'ha massacrata di botte», ha detto la donna in lacrime al Tgr Rai Emilia Romagna.

«C'era stata una denuncia e anche delle integrazioni, erano stati sentiti dei testimoni e nominato un pm», spiega ancora la sorella in un video pubblicato dal quotidiano Il Resto del Carlino. 

«Hanno avuto una frequentazione a distanza, perché lui faceva il calciatore in Sicilia, quindi si sono visti poche volte - ha aggiunto la sorella della vittima - era poco più di un anno che si conoscevano, però è dallo scorso gennaio che ha cominciato ad avere delle ossessioni verso di lei». 

«Si vedevano una volta al mese, poi hanno passato qualche giorno insieme, durante il periodo di pausa calcistica, lui è stato qua con lei - ha detto ancora - A quel punto però le sono successe delle brutte cose, lui aveva rotto piatti e bicchieri, si era arrampicato dalla terrazza, staccava la luce generale del suo appartamento, e le faceva degli agguati sulle scale», ha spiegato la donna. 

Il club: «Lo avevamo già allontanato»

Intanto la Sancataldese, squadra che milita nel campionato di Serie D, precisa che Padovani era già stato allontanato dalla squadra. «Condanniamo senza se e senza ma ogni violenza e femminicidio. Non riusciamo a trovare le parole per commentare i fatti che si sono verificati ieri sera a Bologna, per la furia e la ferocia subita da Alessandra Matteuzzi.

Ciò che proviamo in questo momento è shock e sgomento», fa sapere in una nota il club di San Cataldo (Caltanissetta). «La Società Sancataldese Calcio - continua la nota - tiene a puntualizzare che il calciatore Giovanni Padovani già lo scorso sabato 20 agosto era stato messo fuori rosa a causa del suo ingiustificato allontanamento. La dirigenza verde amaranto si stringe al dolore della famiglia della vittima, certi che la legge faccia il suo corso».

Omicidio di Bologna, Alessandra assassinata dal suo stalker. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno su il 24 Agosto 2022

La sorella della vittima: “Era al telefono con me e urlava ‘no Giovanni, ti prego’” Arrestato il killer che la vittima aveva già denunciato e che aveva il divieto di avvicinarsi: è un calciatore ed ex modello di Senigallia

A nulla sono servite le denunce, il divieto di avvicinamento imposto dal giudice, le raccomandazioni con i vicini e le urla: Alessandra Matteuzzi, 56 anni, detta Sandra, è stata uccisa ieri sera a martellate dal suo stalker ed ex fidanzato Giovanni Padovani. Si erano frequentati per lo più a distanza per un annetto, visto che lui faceva il calciatore in Sicilia. Da gennaio era scattata l’ossessione per Alessandra e lei lo aveva denunciato per stalking. Lui 26 anni, di Senigallia è un calciatore dilettante ed aspirante fotomodello: l’ha attesa sotto casa in via dell’Arcoveggio, nella prima periferia di Bologna. È arrivato alle 19, è rimasto appostato sino alle 21 quando la donna è rincasata: prima l’ha strattonata urlando, poi l’ha colpita a martellate nella notte tra martedì e mercoledì, fino a renderla in fin di vita, accasciata sul marciapiede dopo averla colpita senza pietà e senza lasciarle scampo. 

“Era al telefono con me. E’ scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l’ha massacrata di botte” ha raccontato al Tg3 Emilia-Romagna la sorella della vittima.

L’uomo si è costituito all’arrivo delle forze dell’ordine, ed è stato fermato con l’accusa di omicidio volontario. Alessandra Matteuzzi è stata soccorsa, ma è morta poco dopo l’arrivo in ospedale. Nel pomeriggio Padovani verrà sottoposto all’interrogatorio di garanzia. 

Il calciatore e modello diventato assassino

Nato a Cesano di Senigallia (Ancona) Padovani ha alle spalle una breve e mediocre carriera calcistica in Serie D, dove ha giocato per il Troina Calcio, il Giarre, e ora la siciliana Sancataldese. L’approdo per la prossima stagione alla Santacataldese è durato poco, visto che 8 giorni fa è stato messo “fuori rosa a causa del suo ingiustificato allontanamento”.

A descrivere il comportamento degli ultimi giorni di Padovani  è l’avvocato Salvatore Pirrello, dirigente e legale della Sancataldese, squadra di calcio di Serie D: “Giovanni Padovani era arrivato alla Sancataldese circa 10 giorni fa. Sebbene nei giorni trascorsi in albergo per il ritiro con i compagni avesse avuto un comportamento normale, e con loro aveva anche instaurato un buon rapporto, sembrava un ragazzo un po’ solitario. Avevamo intuito – aggiunge – che avesse dei problemi e che non era sereno. Spesso si isolava, tant’è che sabato aveva lasciato improvvisamente il ritiro dicendo all’allenatore che per problemi personali doveva andare via. Lunedì ci aveva ricontattato per chiedere di rientrare in squadra. Ma il fatto che fosse andato via senza nessuna spiegazione la sera prima della partita di domenica, contro il Catania – ricostruisce l’avvocato Pirrello – per noi era un fatto grave e quindi non lo abbiamo più reintegrato in squadra comunicandogli che per quanto ci riguardava poteva cercare una nuova società. Certo nessuno poteva aspettarsi fatti simili. La notizia ci ha sconvolti”. 

Circa un anno fa era iniziata la relazione con la Matteuzzi, ma i due si vedevano poco, proprio a causa del fatto che il giovane giocava in Sicilia. La breve convivenza non era andata bene. «Lui aveva rotto piatti, staccato la luce dell’appartamento dal quadro generale», ha spiegato al Resto del Carlino la sorella della vittima. A gennaio erano iniziati gli atti persecutori e Alessandra l’aveva denunciato per stalking ai carabinieri. Padovani era arrivato ieri a Bologna in aereo dalla Sicilia, per poi andare ad attendere la donna sotto casa.

La donna per lui era diventata una vera ossessione. “Non vedo mai la mia fidanzata Alessandra e questo un po’ mi dà fastidio”, aveva sottolineato persino in un’intervista rilasciata il 14 dicembre scorso a Mondocalcionews.it, uno dei siti di riferimento per gli appassionati di calcio. 

A dare l’allarme, ieri sera, è stato un residente nella stessa palazzina, che ha sentito le urla disperate della donna. Sarebbe arrivato in aereo dalla Sicilia per aggredire la ex. “Sandra mi aveva detto: se suona quel ragazzo, per favore non gli apra – racconta la vicina di casa – Quando ieri sera l’ho visto qui sotto sono entrata e ho chiuso la porta perché non entrasse. Ultimamente era diventato molto insistente“. Quando sono arrivati i soccorsi la donna era riversa a terra, ferita alla testa, incosciente. Trasportata in ospedale, è morta poco dopo.

Da gennaio 77 femminicidi

Sono 77 i femminicidi, di cui 67 donne uccise in ambito familiare o affettivo. Di queste, 40 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex. Rispetto allo scorso anno, l’incremento è del 5% circa. E’ quanto emerge dal confronto con il report settimanale del Viminale (22 agosto), in relazione all’ultimo femminicidio avvenuto ieri a Bologna. “I dati diffusi dal Viminale riportano un aumento dei femminicidi. Non pochi commessi da soggetti gravati dal divieto di avvicinamento alla vittima. Questa blanda misura non funziona da anni. Non serve a frenare chi è accecato da sentimenti di possesso, rancore o rivalsa. Da sempre penso che la misura minima da applicare dovrebbero essere gli arresti domiciliari con automatica conversione in custodia carceraria al primo accenno di ulteriori attenzioni verso la vittima” dice Valter Giovannini, magistrato in pensione, ex coordinatore reati a sfondo sessuale della Procura di Bologna.

L’allarme dei vicini di casa

Questa mattina, i vicini di casa di Sandra hanno raccontato, al diffondersi della notizia e di fronte a un selciato che ancora portava le tracce del delitto, che Padovani aveva avuto una relazione con la Matteuzzi: una volta terminata, ripetutamente respinto da lei, aveva cominciato a perseguitarla, al punto che Alessandra lo aveva denunciato, ottenendo un decreto di restrizione nei suoi confronti. 

La vittima e il suo profilo social

L’ultima foto di Alessandra postata tre giorni fa su Instagram è quella di uno specchio in cui si legge “Fuck normal, I want magic”. La 57enne, piuttosto attiva sul social network dedicato alla fotografia, contava su Instagram oltre mille follower: sul suo profilo, a poche ore dalla morte, ora compaiono tanti messaggi di cordoglio e incredulità per la sua scomparsa. La stessa cosa accade sul suo profilo Facebook, dove l’ultimo post della 57enne, pubblicato il 20 agosto, la ritrae in costume. Diverse le immagini di vita quotidiana pubblicate dalla donna, nel tempo, insieme alla madre. Tra gli amici, compare anche Padovani.

Alessandra Matteuzzi, massacrata a martellate dall’ex: l’agguato avvenuto mentre era al telefono con la sorella. Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022

Il femminicidio è avvenuto a Bologna. La sorella: «Gridava disperata. Non è stata protetta: da parte delle forze dell’ordine non era arrivato alcun provvedimento»». Un mese fa aveva denunciato il suo ex. 

«Gridava, disperata: “No Giovanni, no Giovanni…”, poi le urla strazianti...». Le trema la voce e non trattiene le lacrime. Stefania è la sorella di Alessandra Matteuzzi, la donna di 56 anni uccisa dal suo ex. Era proprio con lei al telefono mentre lui la colpiva ripetutamente con un martello che gli si è spezzato tra le mani mentre la uccideva. Un delitto vissuto in diretta al telefono, dopo settimane di angoscia e denunce rimaste inascoltate. «Da quando lui aveva preso a molestarla avevamo l’abitudine di stare al telefono mentre rientrava — spiega Stefania —, mi raccontava tutto passo passo: “Sono scesa dall’auto”, “ho aperto il portone”, “sono a casa”».

Una sequenza che martedì sera si è interrotta in anticipo. Per la paura Alessandra evitava anche di andare nel garage condominiale. Lasciava l’auto nello spiazzo davanti all’ingresso. E qui il suo ex, nascosto tra le aiuole, l’ha attesa per oltre due ore. Appena l’auto ha varcato il cancelletto che si affaccia su via dell’Arcoveggio, alla periferia di Bologna, le ha lasciato il tempo di aprire la portiera. Quindi ha cominciato a colpirla a calci e pugni. Ha infierito con il martello che si era portato dietro e poi le ha lanciato contro anche una panchina in ferro. Una furia bestiale. Quindi si è rivolto a un ragazzo richiamato in cortile dalle urla: «Tranquillo, non ce l’ho con voi. Ora mi arrestano e finisce tutto».

Alessandra ha avuto la forza di trascinarsi fino al portico all’ingresso del palazzo. Qui è stramazzata a terra. La polizia è arrivata immediatamente, allertata dalla sorella e dai vicini. Lui ha atteso che lo arrestassero, mentre Alessandra moriva in ospedale. Ieri mattina la sua auto e la grossa chiazza di sangue erano ancora lì, a testimonianza di una notte di ferocia.

Stando ai vicini una morte annunciata: «Aveva paura e ci aveva raccomandato: se vedete quell’uomo non dovete farlo entrare». Lo conferma la sorella. «Da gennaio era ormai fuori di testa» e aveva reso la vita di Alessandra un inferno. «Voleva sempre conoscere la sua posizione, la tempestava di messaggi». E poi c’erano gli atti di vera e propria persecuzione. «Spesso staccava la luce dal contatore. Entrava dalla terrazza, oppure se lo trovava sulle scale. Per mia sorella era un incubo». Da qui le denunce.

Le prime segnalazioni a giugno. «Poi, il 29 luglio abbiamo presentato formale denuncia ai carabinieri, ma non è stato fatto nulla». Perché? Stando a fonti della Procura il primo agosto era stato aperto un fascicolo a carico di Padovani, indagato per stalking. Dieci giorni dopo i carabinieri avevano inviato una prima informativa, riservandosi di presentare un rapporto completo entro fine mese, dovendo ancora interrogare altri testimoni. Nel frattempo non è scattata alcuna misura a tutela della donna. E viene da pensare che il clima di ferie abbia fatto la differenza nel tragico esito di questa storia.

E così Padovani, 26 anni, ha messo in atto l’agguato contro quella donna, di 30 anni più grande, che a quanto pare voleva troncare la relazione. L’uomo ha abbandonato il ritiro della squadra forse sperando in una riconciliazione. Qui le ricostruzioni divergono. Lui racconta di averla incontrata lunedì e di essere tornato l’indomani sotto casa, perché lei non gli rispondeva più ai continui messaggi.

Diversa la versione della sorella che racconta che la sera prima lui era entrato nel palazzo staccando la luce. Tanto che il suo legale le aveva detto di integrare con questo particolare le precedenti denunce. «Era ossessionato che lei lo tradisse. La sera prima mia sorella mi aveva chiamato demoralizzata. Oltre alla paura c’era anche lo stupore perché da parte delle forze dell’ordine non arrivava alcun provvedimento». E ora anche Stefania vive nell’angoscia: «Ho paura. Se lo lasciano libero sono sicura che verrà ad ammazzarmi o ucciderà qualcuna delle persone vicine a me».

Giovanni Padovani e il femminicidio di Alessandra Matteuzzi a Bologna: le loro vite parallele sui social (e i pochi incontri). Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022

La relazione tra Giovanni Padovani e la donna che ha assassinato risale al 2021. Dalla società di calcio dove giocava lui: «Non era sereno. Spesso si isolava e sabato ha lasciato improvvisamente il ritiro»

«Vivo di gesti, non di chiacchiere... solo quelli apprezzo veramente», per lui era questo il vangelo da duro, tutto muscoli e tatuaggi. Mentre lei preferiva citare Coco Chanel: «Si può essere splendidi a trent’anni, affascinanti a quarant’anni e irresistibili per il resto della tua vita». Due vite, quelle di Alessandra Matteuzzi, detta Sandra, e del suo assassino Giovanni Padovani , ampiamente declinate sui social con centinaia di foto, anche se nessuna di loro due insieme. E proprio sui social si erano conosciuti nell’estate di un anno fa.

Una relazione «molto aperta», raccontano gli amici e anche la sorella. Di quelle in cui non ci dovrebbe essere spazio per manie di possesso. Lui di mestiere faceva il calciatore. Attualmente militava con la Sancataldese, nel campionato di serie D. Sempre in Sicilia aveva giocato con il Giarre e il Troina. E dal semiprofessionismo pare fosse già pronto per il salto in serie C. Sul suo talento da difensore aveva già messo gli occhi anche il Carpi. Ma oltre al calcio ha sempre avuto la fissa per il mondo dello spettacolo e della moda.

Alessandra invece nella moda ci lavorava da anni, come rappresentante di vendita di uno showroom con sede anche a Milano. Lo confermano le tante foto di lei in posa davanti allo specchio, mentre prova scarpe e vestiti. Si vedevano nei momenti liberi, tra un impegno calcistico e l’altro. Lui faceva la spola tra la Sicilia, Senigallia (la sua città d’origine) e Bologna. Solo per un breve periodo avevano vissuto insieme. Del resto Alessandra era stata duramente segnata dalla malattia della madre, affetta da Alzheimer, che ha accudito in casa fino all’ultimo. Un anno fa aveva perso anche il padre.

La differenza di età pare non fosse un problema nella loro relazione. «Del resto lei era una donna solare e piena di vita» afferma la sorella. «La cattiveria mi stupisce sempre. Quando la subisco, rimango lì a fissarla come fosse una bestia dalla quale non mi so difendere». Uno dei suoi tanti post che oggi sembra una premonizione. Padovani invece sembrava inquieto e alla ricerca di qualcosa oltre al calcio. Si muoveva come chi sognava una vita da influencer, nonostante i pochi follower a seguire i suoi profili, gravidi di foto in mille pose da macho. In mezzo anche i link di società di casting e persino le sequenze di quello che sembra uno spot pubblicitario, con lui in costume da bagno. Un culto del fisico maniacale, ma nessun segnale che lasciasse prevedere la tragedia. Tutt’altro. Nel novembre 2021 aveva postato: «Stop alla violenza sulle donne» e, sempre lui, che sferra un calcio al pallone.

Nessun apparente segnale di allarme. Fino all’ultimo post muto di due giorni fa: un’auto lungo l’autostrada. Proprio il giorno del suo rientro dalla Sicilia. Sabato era letteralmente scappato da San Cataldo, abbandonando la squadra e rinunciando al match con il Catania. «Avevamo intuito che non era sereno — dicono dalla società —. Spesso si isolava e sabato ha lasciato improvvisamente il ritiro. Lunedì ci ha contattato chiedendo di rientrare in squadra. Ma è grave che sia andato via senza spiegazioni. Non lo abbiamo più reintegrato, comunicandogli che poteva cercarsi una nuova società».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2022.

Procuratore Giuseppe Amato, una donna uccisa nonostante la denuncia. Avete qualcosa da rimproverarvi?

«Penso di no. Ovviamente l'esito infausto nessuno lo poteva, ragionevolmente, prevedere. I fatti ci lasciano sconcertati, ma noi abbiamo fatto tutto con impegno e celerità.

La denuncia è stata immediatamente iscritta e assegnata a una collega che, pur essendo in ferie, ha fatto partire gli accertamenti per i riscontri. La denuncia, va chiarito, evocava episodi di stalking semplicemente molesto». 

La denuncia è stata presentata il 29 luglio. Perché attendere il 30 agosto per il rapporto dei carabinieri?

«Era il tempo necessario per ulteriori accertamenti. È stato fissato fine agosto perché alcune delle persone da interrogare erano in ferie. Noi abbiamo aperto subito il fascicolo e attendevamo il lavoro dei carabinieri. In ogni caso la collega aveva specificato, in caso di accadimenti urgenti, di avvertirci per procedere di conseguenza. Questo risulta per iscritto. In questi casi il nostro ufficio segue una procedura molto rigorosa e documentata». 

Nessun ritardo?

«Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. L'episodio che poi si è verificato è stato qualcosa di diverso e imprevedibile rispetto al contenuto della denuncia che, ripeto, rappresentava episodi di molestie, spesso via social. Non di violenza». 

Ma ritrovarsi un ex nelle scale di casa, dopo che ha staccato la luce, non era motivo di allarme?

«Guardi, la Procura si muove con richieste di misure cautelare che vanno al Gip. Le nostre richieste devono essere riscontrate. Se poi ci sono situazioni emergenziali è la polizia giudiziaria che deve intervenire e, nel caso, procedere all'arresto. L'ordinamento non si può stravolgere» 

Quindi non c'erano gli estremi per un divieto di avvicinamento o per far scattare una vigilanza sotto casa?

«Non c'erano. La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c'era la rappresentazione di una possibile violenza. 

Il fatto che si è verificato è totalmente sganciato dal fatto denunciato. Se vogliamo fare polemica la facciamo. Poi il giorno che un arrestato viene assolto comincia la polemica di segno opposto. Molti parlano solo, ma noi dobbiamo cercare i riscontri.

Se poi nelle more si fossero verificati fatti pericolosi allora era la polizia giudiziaria che doveva intervenire. Molti Soloni dimenticano che i giudizi vanno rapportati alla situazione ex ante. Dopo un omicidio sono tutti bravi a fare i professori». 

È stato rispettato il codice rosso? Alessandra è stata ascoltata entro tre giorni?

«I termini sono stati sicuramente rispettati, anche se il fascicolo non lo conosco nel dettaglio... presumo di si» 

È possibile che il periodo di ferie abbia influito nell'esito di questa storia?

«Ripeto, abbiamo dato corso alla denuncia dopo un solo giorno e aspettavamo i carabinieri che dovevano ascoltare dei testi. Quelli sì in ferie». 

La sorella dice che Alessandra era amareggiata perché dopo un mese non aveva saputo nulla della denuncia...

«Mi dispiace ma non funziona così. Non è che quando si presenta una denuncia si viene informati sul suo iter». 

C'è chi dice che servono più risorse per essere più celeri. È d'accordo?

«Se valuto questo caso specifico dico di no. Non penso ci sia un problema di forze. Forse sarebbe utile lavorare sulla prevenzione. Non si risolve tutto con polizia e magistratura. Bisogna intervenire anche in campo culturale, partendo da scuola e famiglie» 

Gli strumenti giuridici a disposizione sono sufficienti?

«Credo di si. Se vogliamo un elemento in più si potrebbe prevedere il braccialetto elettronico come misura autonoma, mentre oggi è una misura accessoria agli arresti domiciliari. Ciò permetterebbe di monitorare meglio soggetti pericolosi. Ma poi servirebbe che lo Stato si impegnasse a trovarli questi benedetti braccialetti elettronici».

Francesco Mazzanti per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2022.  

«Non credo ci sia bisogno della violenza fisica per attivare una protezione maggiore. In questo caso nella denuncia ci sono delle molestie gravi: l’uomo le aveva messo lo zucchero nella serbatoio dell’auto, aveva tagliato le gomme della macchina di Alessandra e le aveva sottratto le chiavi di casa». 

Parole di Sonia Bartolini, avvocata del foro di Modena, esponente dell’associazione «Donna e giustizia» e cugina di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa a martellate martedì sera di fronte al portone della sua casa in via dell’Arcoveggio. «Il problema — aggiunge l’avvocata — è nelle falle normative. Se viene sporta una denuncia per atti persecutori e nel contempo non c’è una protezione, continueranno i femminicidi». 

Fiori davanti al portone di casa

Ieri, di fronte al portone dove Sandra è stata ammazzata, vicini e conoscenti hanno portato dei mazzi di fiori e lasciato lettere di condoglianze per la famiglia. Lì, mercoledì mattina, era ancora presente la scia di sangue della donna colpita con calci, pugni e colpi di martello dal suo ex Giovanni Padovani, calciatore 26enne originario di Senigallia. 

La gravità delle molestie

A sottolineare la gravità delle molestie subite dalla donna prima di essere uccisa è lo stesso legale della famiglia Matteuzzi, Giampiero Barile, che spiega come quello di Padovani «era un atteggiamento persecutorio che riguardava tutta la vita della donna». 

Nella denuncia presentata ai carabinieri lo scorso 29 luglio, «integrata per due volte — spiega il legale riferendosi alle parole di Bartolini — tutti i fatti sono stati precisati e la fattispecie di stalking era molto grave». La convinzione della famiglia, quindi, è che si poteva fare qualcosa in più per tutelarla. 

Il lavoro nello showroom

Sandra lavorava in uno showroom di moda a Castel San Pietro Terme. Era appassionata di abbigliamento e viaggi e condivideva le sue passioni anche sul suo profilo Facebook. Tra i due, conosciutisi nella primavera del 2021, c’è una differenza di 30 anni. 

Una relazione a distanza, la loro, durata fino al Natale dello scorso anno, quando il calciatore si trasferisce per pochi giorni a Bologna. La decisione della donna di interrompere la relazione non viene accettata da Padovani, che inizia così a molestarla con messaggi e appostamenti, fino a scrivere anche alla sorella di lei. Dopo alcuni mesi, Sandra non ci sta più. E decide di denunciare.

L’ispezione della Guardasigilli

Ieri, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto agli uffici dell’Ispettorato di «svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all’esito, valutazioni e proposte». Come da prassi è stata richiesta una relazione alla Procura generale. Padovani, arrestato con l’accusa di omicidio aggravato dallo stalking, si trova alla Dozza. Questa mattina, alle 11, si terrà l’udienza di convalida dell’arresto.

A richiederla il pm Domenico Ambrosino, che oltre alla convalida ha chiesto la custodia cautelare in carcere per il calciatore di origini marchigiane, difeso dall’avvocato Enrico Buono. L’udienza è stata fissata davanti al gip Andrea Salvatore Romito. Il medico legale Guido Pelletti ha ricevuto invece l’incarico per l’autopsia. 

L’esame inizierà oggi pomeriggio e la difesa ha nominato come consulente di parte Giuseppe Fortuni. Anche Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, esprime vicinanza alla famiglia di Sandra. «Questo dramma — sostiene il cardinale — ripropone urgentemente la necessità di un’azione etica, culturale e pure di prevenzione, che coinvolge certamente le forze dell’ordine, ma anche tutta la comunità».

Alessandra Matteuzzi denunciò: «Lo assecondo sempre perché ho paura di scatenare la sua ira». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.

La donna uccisa dal suo ex, Giovanni Padovani, lo aveva raccontato ai carabinieri nella denuncia presentata a luglio. 

«Lo assecondo sempre perché ho paura di scatenare la sua rabbia». Alessandra Matteuzzi era letteralmente terrorizzata dal suo ex. Lo racconta ai carabinieri nella denuncia presentata il 29 luglio. «Riesce sempre a entrare di nascosto nel condominio dove abito e io ho il timore di ritrovarmelo davanti ogni volta che torno a casa o apro le finestre».

Il video

Poi racconta dei video che Giovanni Padovani la costringeva a mandargli per controllarla e localizzarla. «Era ossessionato perché dubitava della mia fedeltà. Anche un semplice post sui social con la foto delle mie scarpe sul cruscotto dell’auto era per lui motivo per fare scenate». Un atteggiamento maniacale che, come scrive il Gip nell’ordinanza di convalida del fermo, è all’origine dell’agguato, la sera del 23 agosto. Nonostante la loro fosse una storia finita da un mese, Padovani ha atteso Alessandra sotto casa e l’ha uccisa perché lei non rispondeva più ai suoi messaggi. E questo dopo che il giorno prima avevano trascorso il pomeriggio insieme. Ma perché Alessandra aveva accettato di vederlo? Probabile, e lo dice pure la sorella Stefania, ancora una volta per assecondarlo. Perché era terrorizzata da quell’uomo che la vessava sabotandole l’auto, oppure staccandole la luce in casa, per poi farsi trovare sulle scale del condominio.

La denuncia

Ha cercato di tranquillizzarlo dando risposte evasive anche quando lui ha chiesto della denuncia nei suoi confronti. Denuncia che non aveva prodotto il risultato che sperava, allontanandolo da lei. La bestiale ritorsione di Padovani al tentativo di Alessandra di riprendersi la propria vita è arrivata prima della risposta degli inquirenti. Il medico legale ha accertato che è morta per i «colpi al cranio e al torace» sferrati con un martello, ma anche con calci, pugni e persino una grossa panchina in ferro.

A. Sc. per il "Corriere della Sera" il 27 agosto 2022.

«Sin dall'inizio della relazione ha adottato comportamenti frutto di incontenibile desiderio di manipolazione e controllo (su Alessandra, ndr ), tradottisi nella progressiva privazione di margini di libertà». Questo il profilo di Giovanni Padovani, secondo il gip Andrea Salvatore Romito. 

Nelle 9 pagine di ordinanza con le quali ieri ne ha convalidato il fermo, il magistrato ricostruisce l'ossessione di controllo sulla compagna. «Fino a controllarne i movimenti e le frequentazioni... ma anche manipolando il cellulare e i suoi profili social». «Pretendeva che lei gli mandasse un video ogni 10 minuti, in cui comparissero l'ora e il luogo in cui si trovava, facendo scenate in caso di violazioni di tali prescrizioni». Gli aveva «persino carpito le password di posta elettronica e di messaggistica per controllarne le conversazioni con terzi».

Le ossessioni di «un soggetto animato da irrefrenabile delirio di possesso e incapace di accettare le normali dinamiche relazionali... sia di attivare l'ordinario sistema di freni inibitori delle proprie pulsioni aggressive».

Nell'ordinanza vengono riportate anche le deliranti «giustificazioni» fornite dall'assassino alla polizia, subito dopo l'arresto: «Sospettavo che lei mi tradisse». Ieri mattina, invece, nel corso dell'udienza di convalida si è avvalso della facoltà di non rispondere. Scortato dalla polizia penitenziaria si è presentato davanti al gip in pantaloncini e maglietta. 

Stando alla ricostruzione della polizia, riportata nell'ordinanza, il 22 agosto (il giorno prima di uccidere Alessandra) lui l'aveva attirata in una trappola, con il solito espediente di staccarle la luce di casa. «Di mattina la donna era stata costretta a scendere nell'atrio per riattivare il contatore» e lì si è ritrovata davanti il suo ex, con il quale aveva interrotto la relazione a fine luglio. In quel modo Padovani «voleva convincerla a riprendere la relazione». Nonostante la loro fosse una storia ormai finita lui continuava, in modo maniacale, a controllarla sui social.

«E nel periodo della separazione - si legge ancora nell'ordinanza - si sarebbe accorto che lei aveva aggiunto sui suoi profili anche suoi ex compagni di squadra. Per questo pretendeva dei chiarimenti». Da qui la decisione di abbandonare in fretta e furia la squadra dove giocava, per precipitarsi a Bologna per quello che, nella sua ossessione, doveva essere un incontro per avere spiegazioni.

La trappola della luce staccata la mattina del 22 agosto uno stratagemma che si aggiungeva alle altre vessazioni che aveva consumato nel tempo ai danni della donna, come «tagliargli i pneumatici o mettere lo zucchero nel serbatoio». Nel pomeriggio dello stesso giorno Alessandra, magari per paura o non riuscendo a immaginare altre vie d'uscita alla sua insistenza aveva asseconda la sua richiesta «e trascorrono assieme l'intero pomeriggio». Lui le chiede anche della denuncia nei suoi confronti.

«Ma mia sorella era stata evasiva - ha detto Stefania - e lui, a garanzia della sua fedeltà, aveva anche preteso un giuramento sulla tomba di nostro padre, dove si erano recati insieme». Tutto sarebbe precipitato l'indomani mattina perché, ha raccontato Padovani, «lei non rispondeva più ai miei messaggi e mi sono sentito usato e manipolato». Così è ripartito da casa della madre, a Senigallia, «armato di martello». Perché lo ha portato con sé? Questa la sua spiegazione che gli ha evitato, forse inspiegabilmente, l'aggravante della premeditazione dell'omicidio: «Era per difendermi dal compagno della sorella con il quale in passato aveva avuto dei diverbi».

E siamo alla sera del delitto, le 21.35. Lui la affronta appena scesa dall'auto, mentre è al telefono con la sorella. Il medico legale, nell'autopsia, ha accertato che è stata raggiunta da un solo colpo di martello e poi finita a calci e pugni, dopo averle scagliato contro una grossa panchina in ferro. 

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 25 agosto 2022. 

Stefania Matteuzzi ha appena lasciato l'appartamento che la sorella Alessandra divideva con Maria, la loro madre, e scende le scale fino a tornare sul posto in cui nelle ultime ventiquattrore sono accadute alcune cose per lei sconvolgenti. 

Dal portico del palazzo, ha sentito Sandra gridare nel vivavoce del telefono sotto i colpi di martello sferrati dall'ex fidanzato. Poi, uno di questi colpi ha rotto il cellulare e la linea è caduta. 

Ha chiamato la polizia, si è precipitata, ma quando martedì notte è arrivata in quello stesso posto in cui si trova ora, ha avuto la certezza che ormai era tardi. E all'indomani, è stata lei a dover usare uno spazzolone da pavimento per pulire i segni del delitto insieme agli altri parenti. Finito il lavoro, sospira e parla della sorella: «Lei aveva denunciato e voglio dire che anche se questo non l'ha salvata, se ci sono donne che si sentono minacciate e hanno paura di un uomo, devono trovare la forza di cercare aiuto, devono fare la stessa cosa». 

Anche Alessandra aveva paura di Giovanni Padovani. «Io stessa ne avevo e ne ho ancora adesso, perché se penso che potrebbe uscire di galera, so che mi verrebbe a cercare», dice. Poi, la moglie di suo cugino le chiede se ha piacere di passare la notte a casa loro. «Non ce n'è bisogno, ce la faccio», risponde. Deve andare in Questura a ratificare la sua testimonianza, e ci resterà fino a tarda sera. 

Stefania, lei era al telefono con Alessandra quando è stata uccisa?

«Mi ha chiamato mentre entrava con la macchina, per stare più tranquilla. Aveva paura che Giovanni la stesse aspettando sotto casa, come infatti è stato. All'improvviso ha smesso di parlarmi e l'ho sentita gridare, chiedere aiuto. Sentivo i colpi, poi lui ha spaccato il telefono e non ho sentito più nulla. È morta qui dove mi trovo adesso». 

Lei è stata subito sicura che ad aggredirla fosse Giovanni Padovani?

«Certo. L'ho sentita supplicarlo: "No, Giovanni, no, ti prego". Poi, chi poteva essere altrimenti? Lei parcheggiava qui davanti proprio per evitare di essere sorpresa da lui nel parcheggio sul retro». 

Cos' ha fatto dopo che è caduta la linea?

«Ho chiamato la polizia e ho detto loro di correre qui. Io abito in provincia di Ferrara, sono una trentina di chilometri da qui. Mi sono messa in strada subito. Quando sono arrivata, ormai era tardi. Un ragazzo mi ha detto di essere corso giù per fermarlo, ma di non aver fatto in tempo». 

Lei conosce personalmente Giovanni Padovani?

«Lui e mia sorella si sono frequentati a partire dall'estate scorsa, ma si vedevano sì e no una volta al mese, con il fatto che lui giocava a calcio in Sicilia. Lo scorso Natale è venuto a passare le feste con noi e abbiamo avuto modo di conoscerlo meglio. E lì ha iniziato a mostrare quanto fosse geloso e prepotente».

Cosa faceva?

«Chiamava continuamente mia sorella, me, mia madre, accusando Sandra di tradirlo e di mentire. Voleva che lei gli mostrasse delle prove, voleva fare delle videochiamate per vedere dove si trovava. Pretendeva che gli inviasse gli screenshot dei messaggi.

Una volta, Sandra era impegnata con degli ordinativi di lavoro nel negozio di abbigliamento in cui lavorava e non gli ha risposto subito. Lui ha chiamato le colleghe, che non conosceva per niente, e ha iniziato a fare domande anche a loro».

È stato per questo che lei ha interrotto la relazione?

«Sì. Ha tentato di interromperla, ma lui si è messo a perseguitarla ancora di più. Staccava il contatore della luce dell'appartamento per obbligarla a scendere e si appostava nell'androne delle scale per sorprenderla. Una volta, si è arrampicato sulla palazzina ed è entrato in casa dalla finestra». 

Era violento anche fisicamente?

«Io non l'ho mai visto alzare le mani su mia sorella e lei non mi ha mai detto niente. Per quanto ne so, la violenza era solo verbale e c'erano questi comportamenti di abuso, come quello di buttare per terra piatti e bicchieri durante le liti. Era accecato dalla gelosia. Questo però mi ha sempre spaventata molto e così era anche per mia sorella». 

Alessandra aveva firmato una denuncia per stalking e ha aveva ottenuto un divieto di avvicinamento contro di lui?

«Sandra era esasperata, disperata e lo aveva denunciato, ma questa cosa che ci fosse una restrizione nei suoi confronti, noi non la sapevamo. 

Non la sapevo io, non la sapeva Sandra, non la sapeva neanche il suo avvocato. Certo, c'è poco da fare se uno ti assale e ti massacra di botte in un attimo, ma a quanto pare lui è rimasto qui ad aspettarla a lungo e poteva essere allontanato».

Gli inquirenti le hanno detto qualcosa in merito alla posizione di Padovani?

«No, non so nulla. Io devo andare in Questura per ratificare la mia testimonianza e ci sono altri testimoni. Spero solo che non lo lascino uscire, perché se accadesse, sono sicura che verrebbe a cercarmi» 

Uccisa a Bologna, il procuratore: "Denuncia non riguardava episodi violenti". Mancato rapporto dei Cc "perché in ferie alcuni testimoni". Redazione Tgcom24 il 26 agosto 2022. 

"Ciò che è accaduto ci lascia sconcertati, ma noi abbiamo fatto tutto con impegno e celerità". A ribadirlo è il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, in merito all'omicidio di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa dall'ex fidanzato che lei a luglio aveva denunciato per stalking. "Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. L'episodio che poi si è verificato è stato qualcosa di diverso e imprevedibile rispetto al contenuto della denuncia che rappresentava episodi di molestie, spesso via social. Non di violenza".

La questione sul mancato divieto di avvicinamento

- Il fatto che il rapporto dei carabinieri fosse atteso per fine agosto, un mese dopo la denuncia, è "perché alcune delle persone da interrogare erano in ferie", spiega. Oltretutto, a suo dire, non c'erano gli estremi per un divieto di avvicinamento o per far scattare una vigilanza sotto casa: "La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c'era la rappresentazione di una possibile violenza". "Molti Soloni dimenticano che i giudizi vanno rapportati alla situazione ex ante - conclude -. Dopo un omicidio sono tutti bravi a fare i professori".

Femminicidio Alessandra Matteuzzi, Cartabia chiede accertamenti. La Repubblica il 25 Agosto 2022

Il ministro della Giustizia ha chiesto agli uffici dell'Ispettorato di svolgere verifiche. Il procuratore di Bologna: "In questa vicenda non si può parlare di malagiustizia". Il dolore dei familiari. Zuppi: "Vicenda che scuote le coscienze"

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, attraverso il suo Gabinetto, ha chiesto agli uffici dell'Ispettorato di "svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all'esito, valutazioni e proposte". Un'iniziativa presa a fronte delle ricostruzioni di stampa sul femminicidio di Alessandra Matteuzzi a Bologna, uccisa dall'ex compagno Giovanni Padovani. E' quanto si apprende da fonti di via Arenula.

"Non è malagiustizia"

"In questa vicenda non si può affatto parlare di malagiustizia", dice intanto al Gr1 il procuratore di Bologna Giuseppe Amato. "La denuncia è stata raccolta a fine luglio, il primo agosto è stata iscritta e subito sono state attivate le indagini che non potevano concludersi prima del 29 agosto perché alcune persone da sentire erano in ferie. Quello che potevamo fare lo abbiamo fatto". Dalla denuncia, secondo Amato, "non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era la tipica condotta di stalkeraggio molesto". E in merito all'utilizzo del braccialetto elettronico per contrastare i casi di violenza di genere, Amato ha aggiunto: "Il problema è quello dei costi. Già oggi potremmo utilizzarli per alcuni reati, ma quando li vai a richiedere non si trovano. Quindi ci vuole la norma, ma poi anche la forza di poter creare dal punto di vista economico gli strumenti che quella norma la fanno funzionare".

Il pm chiede il carcere

Il pm Domenico Ambrosino ha chiesto la convalida dell'arresto e la custodia cautelare in carcere per Padovani, accusato di omicidio aggravato dallo stalking. L'udienza è stata fissata davanti al Gip Andrea Salvatore Romito per domani mattina, l'indagato è difeso dall'avvocato Enrico Buono. In mattinata è stato conferito al medico legale Guido Pelletti l'incarico per l'autopsia, esame che comincerà domani pomeriggio. La difesa ha nominato come consulente di parte Giuseppe Fortuni.

Il dolore dei familiari

"Quello che è successo non è stato affatto un fulmine a ciel sereno perché c'erano stati segnali precedenti, tanto è vero che c'era stata una denuncia. Il problema è nelle falle normative. Se viene sporta una denuncia per atti persecutori e nel contempo non c'è una protezione, continueranno i femminicidi", ha detto la cugina di Alessandra Matteuzzi, l'avvocato modenese Sonia Bartolini. Con lei c'era anche il nipote della donna uccisa, Matteo Perini: "Mia zia era una persona di cuore e non si meritava tutto questo, spero che questo episodio serva a cambiare le cose. Mi aspetto che lui marcisca in galera, ma che non paghi una persona sola, altrimenti succederà di nuovo".

Mazzi di fiori sono stati portati in mattinata da vicini e conoscenti all'ingresso del palazzo di via dell'Arcoveggio, periferia di Bologna, dove abitava Alessandra. "Per la famiglia Matteuzzi" si leggeva nel biglietto che accompagnava uno dei mazzi. Il piccolo portico dove, martedì sera, è avvenuto l'omicidio è stato nel frattempo ripulito dalle macchie di sangue, rimaste a terra fino a ieri. Manca ancora la panchina sulla quale la donna è stata massacrata, a botte e martellate, e che era stata rimossa dalla polizia subito dopo il fatto.

Quel messaggio contro la violenza

Padovani, 27 anni, a novembre 2021 aveva condiviso sui social una campagna contro la violenza sulle donne della squadra di calcio in cui giocava all'epoca. Il 25 novembre 2021, giornata internazionale sul tema, aveva rilanciato su Instagram un messaggio del Troina Calcio, dove appariva lui, con la fascia da capitano, davanti al messaggio "Stop violenza sulle donne. Il Troina Calcio dice no alla violenza di genere e in genere!"

Il cordoglio di Zuppi

"È un tragico evento che scuote Bologna, l'Italia e le nostre coscienze e ci chiede di non restare indifferenti davanti ai casi di femminicidio e alle varie forme di violenza di cui molte donne sono quotidianamente vittime, spesso in maniera silenziosa. Questo dramma ripropone urgentemente la necessità di un'azione etica, culturale e pure di prevenzione, che coinvolge certamente le Forze dell'Ordine ma anche tutta la comunità". Lo ha detto  l'arcivescovo di Bologna e presidente della Cei Matteo Zuppi, intervenendo con una nota di cordoglio per la morte di Alessandra Matteuzzi. Per il cardinale "occorre comprendere e ritrovare il vero significato del legame uomo-donna, fatto di reciprocità, dono di sé, progettualità condivisa, mutuo sostegno, rispetto. L'amore è vita e non può mai diventare violenza, persecuzione e morte". L'Arcivescovo riprende anche le parole di Papa Francesco che recentemente "ha esortato a impegnarsi ancor più per far crescere la cultura del rispetto di ogni persona e la cura delle relazioni nei vari ambiti della società, per promuovere la famiglia e proteggere le donne, sottolineando che 'ferire una donna è oltraggiare Dio, che da una donna ha preso l'umanità'".

(ANSA il 26 agosto 2022) - Polemica per un commento sui social da parte del direttore della Croce bianca dell'Emilia-Romagna sul femminicidio di Alessandra Matteuzzi, assassinata martedì sera a Bologna dall'ex compagno. 

"Comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso", ha scritto Donatello Alberti. "Non esiste giustificazione alcuna per un atto così efferato e aberrante, che ha spento un'altra vita, piegato nel dolore un'altra famiglia e tutta la comunità cittadina", ha scritto l'assessore regionale alla Sanità Raffaele Donini. 

"Per questo - aggiunge - sono sdegnato dalle parole di Donatello Alberti. Parole avvilenti, inaccettabili, prive di ogni rispetto nei confronti della donna, vittima dell'ennesimo femminicidio. In molti me lo state chiedendo. Croce Bianca non ha alcun rapporto con il Servizio Sanitario dell'Emilia-Romagna. 

Ma ad avere proferito quel commento, sprezzante e privo di umanità, non è un'associazione, ma una persona. Un uomo che spero possa avere un sussulto di coscienza e dignità e chiedere scusa ad Alessandra, alla sua famiglia, alla nostra comunità cittadina".

Giuseppe Baldessarro per repubblica.it il 26 agosto 2022.  

A luglio lo aveva denunciato per stalking perché viveva con l'incubo di trovarselo sotto casa. E così purtroppo è stato. Martedì sera Giovanni Padovani, 27 anni, ha aspettato all'ingresso del civico 42 di via dell'Arcoveggio (periferia di Bologna), la sua ex Alessandra Matteuzzi, 56 anni, e l'ha uccisa a martellate. "L'ho sentita urlare Aiuto, Giovanni ti prego, no!", ha detto la sorella Stefania che era con lei al telefono al momento dell'omicidio. 

Quando i poliziotti sono arrivati, chiamati dai vicini che hanno sentito le grida, l'assassino era ancora lì, con il martello in mano.Il primo a intervenire dopo l'aggressione è stato un ragazzo, figlio di un altro vicino di casa, al quale Padovani non avrebbe opposto la minima resistenza: "Non ce l'ho con voi, ce l'ho con lei - avrebbe detto a chi lo ha bloccato - non vedo l'ora che arrivi la polizia che voglio finire tutto". Padovani, originario di Senigallia (Ancona), calciatore di serie C e D, che giocava in Sicilia con la Sancataldese, è ora accusato di omicidio aggravato.

Lei lo aveva lasciato dopo alcuni episodi di violenza. Non era stata mai aggredita fisicamente, ma in più occasioni lui aveva rotto piatti, lanciato bicchieri. […] Il 29 luglio, ormai esasperata, Alessandra Matteuzzi lo ha denunciato. La procura ha aperto un fascicolo, ma nei confronti dell'uomo non sono mai stati adottati provvedimenti restrittivi. I carabinieri stavano preparando un'informativa per i magistrati, ma aspettavano di completarla interrogando testimoni che erano in ferie. 

I fatti dicono che c'è stata una sottovalutazione. La vittima, agente di commercio per alcune case di moda, però aveva chiesto spiegazioni.  […] Che la 56enne avesse paura lo dicono in tanti. Ad alcune vicine aveva raccomandato di non aprire il portone al suo ex. A un ragazzo che abita nello stesso palazzo aveva chiesto il numero di telefono "per chiamarlo in aiuto in caso di necessità".

Iacob, che vive a due passi, spiega: "Inizialmente, a dispetto della differenza d'età, sembravano stare bene assieme. Poi lei mi ha detto delle incursioni che gli faceva, chiedendomi in caso lo vedessi sotto casa di chiamare subito la polizia". Una coppia da copertina, molto presente sui social (le foto assieme sono state però tutte cancellate nelle ultime settimane). Sabato Padovani ha lasciato la squadra di calcio all'improvviso ed è partito per Bologna. Lunedì dalla Sicilia gli hanno detto di cercarsi un altro team: licenziato. Il pm Domenico Ambrosino ha ordinato l'autopsia e a breve Padovani, assistito dall'avvocato Enrico Buono, andrà davanti al giudice per l'udienza di convalida.

Uccisa a martellate dall'ex denunciato. L'uomo l'ha attesa e colpita sotto casa. I vicini: "Aveva paura". La sorella: "Gridava aiuto". Antonio Borrelli il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'ultima storia su Instagram Giovanni Padovani la pubblica alle 21 di martedì: una foto in bianco e nero che mostra l'autostrada dal parabrezza di un'auto. Forse stava raggiungendo l'abitazione della 56enne Alessandra Matteuzzi a Bologna: proprio lì dopo pochi minuti avrebbe massacrato l'ex compagna a colpi di mazza e martello. Secondo la ricostruzione degli inquirenti il 27enne sarebbe arrivato in aereo dalla Sicilia, dove giocava in serie D per la Sancataldese, e poi avrebbe atteso la donna sotto casa per almeno due ore. Sono le 21.30 quando una volante arriva in via dell'Arcoveggio, alla prima periferia di Bologna, per la segnalazione di una violenta lite. A chiamare i carabinieri è proprio la sorella di Alessandra, che in quel momento era al telefono con la donna.

«È scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare ha raccontato lei in lacrime -. Diceva: No Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ho chiamato i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l'ha massacrata di botte». Pugni, colpi di mazza e di martello, anche sulla testa. Una brutale aggressione epilogo di un climax di violenza, sfociata nell'ennesimo femminicidio. Sotto casa di Alessandra sono momenti drammatici, urla e rumori vengono sentiti dai vicini, che lanciano un secondo allarme dopo pochi secondi. Un'anziana residente assiste a tutta la scena e racconta la sua testimonianza: «Lui era già qui sotto casa alle 19.15 quando sono arrivata. Sono entrata, lui voleva entrare anche se io chiudevo la porta. Alle 21 è arrivata Alessandra, ripeteva che lui se ne doveva andare. Ma lui rispondeva sì e non andava via. Le è andato sempre più vicino, l'ha fatta cadere nel cortile, poi l'ha trascinata sotto il portico».

Il primo a intervenire dopo l'aggressione è un ragazzo, ma Padovani non oppone la minima resistenza e anzi sussurra: «Non ce l'ho con voi, ce l'ho con lei, non vedo l'ora che arrivi la polizia che voglio finire tutto». Quando gli agenti arrivano sul luogo del massacro trovano la donna agonizzante e riversa a terra nel cortile condominiale, appena fuori dalla porta della sua palazzina. Morirà pochi minuti dopo, prima dell'arrivo dell'ambulanza. All'arrivo degli agenti c'è anche l'assassino, Giovanni Padovani, subito fermato e arrestato per omicidio aggravato su disposizione della Procura. Una vicina di Alessandra ha raccontato che pochi giorni fa la 56enne le avrebbe chiesto di non aprire nel caso in cui «quel ragazzo» avesse suonato: «Quando ieri sera l'ho visto qui sotto casa, sono entrata e ho chiuso la porta perché non entrasse. Ultimamente era diventato molto insistente». Ma le testimonianze sull'incubo vissuto da Alessandra si susseguono: «Lui le aveva staccato il contatore e si era appostato all'ultimo piano - rivela un altro vicino -, una volta si era anche arrampicato fino al suo terrazzo, lei mi chiese di scambiarci i numeri per sicurezza, si vedeva che era una donna preoccupata».

D'altronde proprio a fine luglio la donna aveva presentato denuncia contro l'ex compagno, dal quale si era lasciata da qualche mese, e il ragazzo aveva ricevuto il divieto di avvicinamento dal giudice. Una misura cautelare che non è servita, perché dopo gli appostamenti, le insistenze e le minacce, lo stalking è ben presto diventato violenza. Si consuma alla fine di questa successione di eventi il 77esimo femminicidio dall'inizio dell'anno, 40 dei quali per mano di partner o ex. Un'emorragia senza fine.

Estratto dall'articolo di Antonio Borrelli per “il Giornale” il 25 Agosto 2022

L'ultimo post scattato dall'auto, poco prima di andare ad ammazzare Alessandra. Predicava bene Giovanni Padovani, ma razzolava male. Qualche tempo fa aveva persino pubblicato anche un post come testimonial di una campagna contro la violenza sulle donne, scrivendo: «No alla violenza, Respect». Sotto alle sue foto da modello e da atleta numerosi i commenti delle fan: donne e ragazze che gli riservano complimenti per il suo aspetto e per le doti sportive.

 Evidentemente in pochi tra i suoi follower sapevano che era stato denunciato per stalking da Alessandra Matteuzzi e che era soggetto a un divieto di avvicinamento disposto dal giudice. Ancora un post, con una massima che a rileggerla fa orrore a cui si ispirava: «Vivo di azioni non di chiacchiere». […]

Il successo sportivo da giocatore professionista in serie D l'aveva raggiunto militando in varie squadre tra cui il Foligno, il Troina, Giarre e ora la Sancataldese, squadra siciliana. E proprio dalla Sicilia martedì è partito per arrivare a Bologna a tendere un agguato alla ex compagna. Molto attivo sui social, sul suo profilo Instagram pubblicava decine di scatti al mare o durante gli allenamenti, sempre con frasi motivazionali: «L'eleganza non è essere notati, ma essere ricordati», «Vivi la vita che ami, ama la vita che vivi».

E poi quel post per la campagna del Troina Calcio contro la violenza sulle donne che sa di beffa. La società della Sancataldese, che milita in serie D, ha intanto fatto sapere che Padovani «già il 20 agosto era stato messo fuori rosa a causa del suo ingiustificato allontanamento. La dirigenza si stringe al dolore della famiglia della vittima. Condanniamo senza se e senza ma ogni violenza e femminicidio».

Anche l'avvocato del club, Salvatore Pirrello, rivela le tensioni nei giorni scorsi a testimoniare che qualcosa il calciatore stava già covando dentro sé: «Dopo che sabato aveva abbandonato il ritiro senza dire niente e domenica non si era fatto sentire, lunedì abbiamo provato a contattarlo. Poi ci ha chiamato lui, al pomeriggio: gli abbiamo detto che non c'era bisogno che ritornasse e che doveva cercarsi un'altra squadra». 

Della relazione tra il 27enne e la 56enne, invece, non c'è traccia sui social. Quel che è certo è che Giovanni e Alessandra avevano avuto una relazione e da qualche mese si erano lasciati. Da quel momento era cominciato l'incubo della donna, alle prese con agguati, aggressioni verbali, litigi violenti. Comportamenti sempre più allarmanti che l'avevano spinta a ricorrere ad un provvedimento restrittivo.

Soltanto lo scorso dicembre, in un'intervista rilasciata a «Mondocalcionews», il difensore diceva del suo trasferimento in Sicilia: «Mi trovo bene, l'unica cosa un po' brutta è la distanza dalle mie zone. Non vedo mai la mia fidanzata e questo un po' mi dà fastidio». Una frase normale, che però oggi assume tutt'altro valore. 

Dalla cronologia delle sue pubblicazioni social, unico suo libro aperto, non sembrano emergere gli strascichi velenosi di una relazione ormai finita né la frustrazione della sua effettiva condizione di stalker. A dominare sono tatuaggi, calcio e bella vita. Quella vera era invece nascosta sotto i filtri di Instagram.

"Voleva un video ogni 10 minuti": l'ossessione del killer di Alessandra. Convalidato l'arresto di Giovanni Padovani con l'accusa di omicidio aggravato dal reato di stalking. L'ordinanza del gip: "Nutriva desiderio ossessivo per la vittima". Rosa Scognamiglio il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

Giovanni Padovani, l'ex fidanzato di Alessandra Matteuzzi, resta il carcere. Il gip del tribunale di Bologna Andrea Salvatore Romito ha confermato l'arresto del 27enne, calciatore e modello di Senigallia, con l'accusa di omicidio aggravato dal reato di stalking nei confronti della 56enne. "La gravità dei fatti è attestata dalla ampia estensione temporale della condotta persecutoria, - si legge nel testo dell'ordinanza - posta in essere a fronte di un rapporto sentimentale di modesta durata e ridotta frequentazione e, dunque, indicativa del desiderio ossessivo nutrito dal detenuto e della sua incapacità di accettare la cessazione della relazione, dalla quotidianità ed intensità delle molestie e dalla multiformità delle condotte assunte".

La convalida del fermo

Durante l'interrogatorio di convalida del fermo Giovanni Padovani, assistito dall'avvocato Enrico Buono, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il pm Domenico Ambrosino aveva chiesto la convalida del fermo dell'indagato con l'ipotesi di reato per omicidio aggravato. L'istanza è stata accolta dal gip di Bologna che, questa mattina, ha convalidato l'arresto del 27enne spiegando che il carcere "è l'unico presidio in grado di tutelare la collettività (e, in particolare, i familiari della Matteuzzi, esposti al rischio di ritorsioni o gesti connotati da pari carica aggressiva) dal ripetersi di gesti analoghi". A margine dell'udienza, il legale del 27enne non ha voluto rilasciare dichiarazioni: "Non è il momento, è molto provato", ha detto riferendosi al suo assistito.

I video

A pochi giorni dal delitto, emergono dettagli sempre più inquietati sulla relazione tra Giovanni Padovani e la ex fidanzata. Lo scorso 29 luglio, Alessandra Matteuzzi aveva denunciato il 27enne per stalking. Pare, infatti, che il ragazzo fosse solito chiedere alla compagna "un video ogni 10 minuti", da inviare su Whatsapp, per verificare i suoi spostamenti. L'indagato, così come ha confermato anche la sorella della vittima, era ossessionato dall'idea di un possibile tradimento. Al punto da molestare la donna con messaggi, telefonate e appostamenti sotto casa.

L'omicidio

Nel corso dell'interrogatorio di oggi, il gip ha ricostruito la dinamica del truce omicidio. Secondo gli inquirenti, prima di partire da Senigallia per arrivare a Bologna, Giovanni Padovani avrebbe preparato uno zainetto "all'interno del quale metteva un martello, - scrive il giudice nel testo dell'ordinanza -trovato sulle scale di casa, giustificando tale condotta con una presunta eventuale necessità di difesa. Entrato nel giardino condominiale toglieva il martello dallo zaino e lo appoggiava ad un albero". Proprio con quel martello, il 27enne ha massacrato la ex compagna.

«Hanno lasciato Alessandra sola fino alla tragedia». Le accuse dell’avvocata Sonia Bartolini, cugina di Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa martedì scorso a martellate dal suo ex prima di rientrare in casa a Bologna. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 28 agosto 2022.

«Una donna che presenta una denuncia per atti persecutori nei confronti del suo compagno, non può poi essere lasciata sola in attesa dei provvedimenti della magistratura: servono strutture di supporto, luoghi protetti». A dirlo è l’avvocata Sonia Bartolini, cugina di Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa martedì scorso a martellate dal suo ex prima di rientrare in casa a Bologna. Ieri il gip di Bologna Andrea Salvatore Romito ha convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere per Giovanni Padovani, il calciatore e modello, che si è presentato in udienza accompagnato dal suo legale, Enrico Buono. Di fronte alle richieste di chiarimento del gip, ha preferito restare in silenzio e avvalersi della facoltà di non rispondere. Per lui il pm Domenico Ambrosino, titolare delle indagini, ha ipotizzato i reati di omicidio aggravato dallo stalking. Padovani si è presentato in Tribunale in tenuta sportiva e con il volto tirato. Ad attenderlo fuori dall’aula c’era anche la madre. Dettagli utili alle indagini emergeranno anche dall’autopsia, eseguita nel pomeriggio di ieri sul corpo della 56enne.

L’avvocata Bartolini per un triste gioco del destino, fa parte dell’associazione modenese “Donne e giustizia” che si occupa proprio di fornire assistenza alle donne in condizioni di disagio familiare e personale. «Mia cugina non mi aveva avvertito della decisione di voler denunciare il suo ex. Si era rivolta ad un altro legale, forse perché si sentiva in imbarazzo per questa storia», precisa l’avvocata Bartolini. Alessandra Matteuzzi, dopo essersi consultata con il suo legale, lo scorso 29 luglio si era recata presso il comando dei carabinieri per formalizzare la denuncia contro Giovanni Padovani. Dopo la denuncia era scattato il Codice rosso ed il primo agosto la donna era stata risentita dai militari dell’Arma. Alessandra, in particolare, aveva raccontato le terribili persecuzioni subita da Padovani: una infinità di telefonate, messaggi, appostamenti, danneggiamenti, come lo zucchero versato nel serbatoio dell’auto. I carabinieri avevano quindi ascoltato parenti ed amici. Prima di Ferragosto, poi, Alessandra era tornata nuovamente dai carabinieri e questa settimana era previsto che dovesse integrare la denuncia.

I vicini di casa e gli amici più stretti erano tutti a conoscenza della situazione. Una vicina, ad esempio, aveva sorpreso nelle scorse settimane Padovani lungo le scale e gli aveva intimato di allontanarsi.

Per capire come sia stato possibile che in tre settimane non sia però stato emesso alcun provvedimento restrittivo nei confronti di Padovani, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha deciso di inviare gli ispettori.

Il procuratore di Bologna, Gimmi Amato, in una serie di interviste, ha affermato che la querela della donna “evocava un tema di molestie più che di violenze” e che prima di emettere un provvedimento restrittivo serviva acquisire altri elementi ed erano in corso accertamenti, ad esempio sentire delle persone che però in questi giorni erano “in ferie”.

Una affermazione che ha provocato la reazione stizzita da parte di chi conosceva Alessandra. «La Procura di Bologna poteva delegare i carabinieri del luogo dove costoro si trovavano in vacanza, senza perdere giorni preziosi”, ha affermato un amico di Alessandra.

«Siamo sconcertate dalle dichiarazioni del procuratore Amato: il terribile femminicidio accaduto è la palese rappresentazione che il sistema giudiziario non è ancora in grado di proteggere le soggettività femminili dalla violenza di genere», ha commentato la consigliera comunale bolognese Simona Larghetti. «Amato dovrebbe chiedere scusa a nome del sistema che rappresenta anziché affannarsi a dire che è stato fatto tutto il possibile, ammettendo, di fatto, che una donna che denuncia comunque non può essere al sicuro dal suo persecutore. Chi sta nelle istituzioni deve continuare a interrogarsi sul da farsi anziché autoassolversi», ha quindi aggiunto la consigliera.

Il sindaco di Bologna, comunque, ha già fatto sapere che il Comune si costituirà parte civile nel processo.

«Serve garantire la scorta, come si fa ai pentiti di mafia, alle donne che denunciano», ha dichiarato invece Gessica Notaro, sfregiata con l’acido nel 2017 dal suo ex.

«Comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso», il commento totalmente fuori luogo, prima di fare marcia indietro, di Donatello Alberti, dg della Croce Bianca Emilia Romagna.

«Mia cugina era una donna seria. Aveva avuto poche storie e si era sempre dedicata ai suoi anziani genitori. Se aveva postato delle foto con abiti particolari era solo per motivi di lavoro», la replica dell’avvocata Bartolini. 

Il femminicidio di Bologna. Sandra massacrata mentre era al telefono con la sorella, il calciatore scappato dal ritiro: “Non vederla mi dà fastidio”. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

Uccisa mentre era al telefono con la sorella. Aggredita a mani nude prima e poi con un martello che le ha provocato un trauma cranico risultato alla fine fatale. E’ la cronaca dell’ennesimo femminicidio. E’ morta così Alessandra Matteuzzi, la 56enne che lavorava nel settore della moda. E’ morta nel cortile della sua abitazione a Bologna dove ha trovato ad aspettarla, da circa due ore, il suo ex compagno, il calciatore dilettantistico Giovanni Padovani, 26enne originario di Senigallia (Ancona), fuggito nei giorni scorsi dal ritiro della propria squadra in Sicilia e arrivato ieri sera, 23 agosto, in auto nel capoluogo emiliano (così come emerge dalle storie Instagram) dove si è poi consumata la tragedia.

A raccontare gli ultimi istanti di vita di Sandra è la sorella Stefania, intervistata dal Tgr Emilia Romagna: “E’ scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l’ha massacrata di botte perché non è riuscita neanche a entrare qua, dentro al portone” ha detto la donna in lacrime mentre a poca distanza i poliziotti raccoglievano orecchini e preziosi che la donna ha perso durante l’aggressione. Il calciatore era stato denunciato alla fine del mese di luglio per stalking ma nei suoi confronti, rispetto a quanto emerso inizialmente, non erano stati adottati provvedimenti restrittivi.

“C’era stata una denuncia e anche delle integrazioni, erano stati sentiti dei testimoni e nominato un pm” spiega in un video pubblicato da Il Resto del Carlino la sorella di Alessandra. I due “hanno avuto una frequentazione a distanza, perché lui faceva il calciatore in Sicilia, quindi si sono visti poche volte, era poco più di un anno che si conoscevano” ma “è dallo scorso gennaio che ha cominciato ad avere delle ossessioni verso di lei. Si vedevano una volta al mese, poi hanno passato qualche giorno insieme, durante il periodo di pausa calcistica, lui è stato qua con lei. A quel punto però le sono successe delle brutte cose, lui aveva rotto piatti e bicchieri, si era arrampicato dalla terrazza, staccava la luce generale del suo appartamento, e le faceva degli agguati sulle scale“, ha spiegato la sorella.

Nella denuncia presentata a fine luglio da Sandra venivano riferiti atteggiamenti molesti, telefonate continue e appostamenti ma non era stata menzionata alcuna violenza fisica. I carabinieri, coordinati dalla Procura, avevano avviato le indagini a inizio agosto, sottolineando poi di dover ancora ascoltare altre persone che però visto il periodo festivo al momento erano lontano da Bologna. La 56enne aveva contattato poi i carabinieri per sapere se c’erano stati sviluppi nella vicenda e nei giorni scorsi aveva anche chiamato il legale che la assisteva per dirgli che Padovani si era presentato nuovamente sotto casa sua. L’avvocato le aveva consigliato di integrare quindi la denuncia e la donna avrebbe dovuto farlo in questi giorni.

Intanto il pm Domenico Ambrosino, che si occupa dell’omicidio della 56enne, conferirà domani mattina l’incarico per l’autopsia, affidata al medico legale Guido Pelletti. Alessandra Matteuzzi è morta in seguito al grave trauma cranico riportato per i colpi ricevuti da Padovani che i vicini di casa avevano sorpreso sotto l’abitazione già a partire dalle 19, due ore prima dell’omicidio.

“Sandra mi aveva detto: se suona quel ragazzo, per favore non gli apra. Lui – ha raccontato la vicina sempre a Il Resto del Carlino – la stava già aspettando davanti al portone dalle 19.15, voleva entrare ma abbiamo chiuso quando siamo rientrati in casa. Da tempo era diventato insistente, lei provava a calmarlo, a parlargli, ma in casa non lo faceva mai salire. Ieri sera abbiamo poi sentito le grida della donna che gli urlava di andarsene e abbiamo visto che lui la trascinava sotto al portico”.

La fuga dalla squadra in Sicilia – Padovani, di ruolo difensore e aspirante modello, era arrivato alla Sancataldese (squadra in provincia di Caltanissetta e che milita in serie D) circa 10 giorni fa. A descrivere il comportamento degli ultimi giorni del calciatore è l’avvocato Salvatore Pirrello, dirigente e legale del club: “Avevamo intuito che avesse dei problemi e che non era sereno. Spesso si isolava, tant’è che sabato aveva lasciato improvvisamente il ritiro dicendo all’allenatore che per problemi personali doveva andare via. Lunedì ci aveva ricontattato per chiedere di rientrare in squadra. Ma il fatto che fosse andato via senza nessuna spiegazione la sera prima della partita di domenica, contro il Catania – ricostruisce l’avvocato Pirrello – per noi era un fatto grave e quindi non lo abbiamo più reintegrato in squadra comunicandogli che per quanto ci riguardava poteva cercare una nuova società. Certo nessuno poteva aspettarsi fatti simili. La notizia ci ha sconvolti”.

Padovani ha giocato sia in Lega Pro che, soprattutto in serie D in numerose quadre italiane, con una parentesi di un anno (nel 2011-12) nel settore giovanile del Napoli (in Campania ha poi militato nel Pomigliano). In una intervista rilasciata nel dicembre 2021 a Mondocalcionews.it lamentava la distanza dalla “mia fidanzata Alessandra”. “Mi trovo bene. L’unica cosa un po’ brutta è la distanza dalle mie zone. Io ero a Rieti, poi sono andato a Foligno, poi alla Correggese. Adesso sono arrivato al Troina in Sicilia. Non vedo mai la mia fidanzata Alessandra e questo un po’ mi dà fastidio“.

Era già stato denunciato. Sandra uccisa a martellate dal suo stalker calciatore, vicini di casa passivi: “La stava aspettando da due ore”. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

L’ha attesa per ore sotto casa, uccidendola a colpi di martello e con altri oggetti contundenti appena fuori il portone d’ingresso della palazzina dove viveva. Orrore a Bologna dove martedì sera, 23 agosto, una donna di 56 anni, Alessandra Matteuzzi, è stata ammazzata intorno alle 21 in via dell’Arcoveggio, zona periferica del capoluogo emiliano. A nulla è valso l’intervento dell’ambulanza e della polizia, chiamata da alcuni vicini preoccupati dalle urla che venivano dalla strada.

Secondo una prima ricostruzione, a compiere l’omicidio sarebbe stato un giovane di 26 anni, già fermato dalla polizia, che da tempo importunava la vittima. Il suo nome, scrive il Corriere della Sera, è Giovanni Padovani: il 26enne calciatore e modello, ha militato in varie squadre di serie D tra cui il Giarre e il Troina Calcio, era già stato sottoposto in passato a una misura cautelare (divieto di avvicinamento) dopo la denuncia presentata dalla vittima per stalking.

Quando la polizia è intervenuta in via dell’Arcoveggio, intorno alle 21.30, ha trovato la donna agonizzante e l’aggressore ancora sul posto. Per la 56enne non c’è stato nulla da fare, è deceduta poco dopo l’arrivo dei sanitari del 118: troppo gravi le lesioni riportate alla testa.

Stando a quanto raccontato da una vicina di casa al “Resto del Carlino“, Sandra, così come veniva chiamata, nei giorni scorsi aveva avvisato la donna di non aprire mai a quel ragazzo che da tempo la perseguitava.

“Sandra mi aveva detto: se suona quel ragazzo, per favore non gli apra. Lui – ha raccontato la vicina – la stava già aspettando davanti al portone dalle 19.15, voleva entrare ma abbiamo chiuso quando siamo rientrati in casa. Da tempo era diventato insistente, lei provava a calmarlo, a parlargli, ma in casa non lo faceva mai salire. Ieri sera abbiamo poi sentito le grida della donna che gli urlava di andarsene e abbiamo visto che lui la trascinava sotto al portico”.

Resta da capire se è stata avvisata la 56enne della presenza dell’uomo sotto casa e, soprattutto, perché non è stato sollecitato l’intervento delle forze dell’ordine. Un femminicidio, l’ennesimo, che forse poteva essere evitato.

Le polemiche sul femminicidio di Bologna. Omicidio di Alessandra Matteuzzi, la Procura si assolve: “Non c’era rischio di violenza”, ma Cartabia invia gli ispettori. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Il sistema giudiziario italiano poteva salvare Alessandra Matteuzzi ed evitare il suo omicidio, avvenuto martedì sera per mano del suo ex fidanzato, il calciatore e modello Giovanni Padovani?

Per la Procura di Bologna sulla denuncia presentata dalla 56enne vittima di stalking proprio dell’ex non vi sarebbe stata alcuna sottovalutazione del pericolo, poi manifestatosi nell’agguato mortale a colpi di martello avvenuto sotto l’abitazione della donna.

“In questa vicenda non si può parlare di mala giustizia. La denuncia è stata accolta a fine luglio, il primo agosto è stato immediatamente aperto il fascicolo e subito sono state delegate le indagini. Si attendeva un rapporto completo entro fine 29 agosto semplicemente perché alcune delle persone da interrogare erano in ferie. Noi quello che potevamo fare lo abbiamo fatto”, ha spiegato Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna, rispondendo di fatto anche ai dubbi della sorella della vittima, Stefania, che aveva sottolineato come ad un mese dalla denuncia non fosse stato preso alcun provvedimento nei confronti di Padovani.

Al Corriere della Sera Stefania ha raccontato che il 29 luglio sua sorella aveva sporto denuncia ai carabinieri. “Lei diceva che questo uomo la perseguitava – le parole di Stefania – Ricordo anche che, pochi giorni prima della denuncia, Alessandra aveva chiamato la polizia dicendo che quest’uomo la minacciava e aveva mostrato anche gli screenshot delle conversazioni ai carabinieri”.

Il procuratore bolognese ha ricordato infatti che “dalla denuncia della vittima non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era piuttosto la tipica condotta di stalkeraggio molesto”, e che in molti casi “si trattava anche di molestie via social, che andavano riscontrate e per le quali ci siamo mossi tempestivamente”.

Parole che evidentemente non sono bastate per evitare una ‘reazione’ da parte del Ministero della Giustizia. La Guardasigilli Marta Cartabia, attraverso il suo Gabinetto, ha chiesto agli uffici dell’Ispettorato di “svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all’esito, valutazioni e proposte”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Per i pm Giovanni Padovani era ossessionato dalla mania di controllo. Chat spiate e il delirio di possesso, le paure di Alessandra: “Temo di scatenare la sua rabbia”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Agosto 2022. 

“Tutte le volte in cui io ho accondisceso alle richieste di Padovani è stato per paura di scatenare la sua rabbia”. Sono queste le parole di Alessandra Matteuzzi, 56enne uccisa a Bologna, massacrata con un martello dall’ ex compagno Giovanni Padovani, 26enne originario di Senigallia, in una denuncia fatta ai carabinieri. Dopo le tremende liti avute con l’uomo a giugno aveva avuto paura, tanto da decidere di sporgere denuncia il 29 luglio. Il 23 agosto Padovani era ancora una volta sotto casa sua, l’ha aggredita e uccisa mentre era al telefono con la sorella.

“Alla luce di tutte le occasioni in cui è riuscito ad accedere al condominio dove abito, ho sempre timore di ritrovarmelo davanti ogni volta che torno a casa, o quando apro le finestre”, aggiungeva la donna, come riportato dall’Ansa. Il dramma di Alessandra è stato ricostruito nelle 9 pagine di ordinanza con cui il gip Andrea Salvatore Romito stabilisce la convalida del fermo per Padovani, bloccato sul luogo del delitto mentre aveva ancora in mano il martello con cui si è scagliato sulla donna. “Sin dall’inizio della relazione ha adottato comportamenti frutto di incontenibile desiderio di manipolazione e controllo (su Alessandra, ndr), tradottisi nella progressiva privazione di margini di libertà”, si legge, come riportato dal Corriere della Sera.

Questa mania del controllo Alessandra l’aveva raccontata anche ai carabinieri a cui aveva denunciato di essere controllata costantemente sui social dal compagno. Oltre alle richieste continue di inviargli foto e video per dimostrare dove si trovava. A febbraio aveva anche scoperto che le password dei suoi profili erano state modificate. “Ho potuto constatare – raccontava – che erano state modificate sia le email che le password abbinate ai miei profili, sostituite con indirizzi di posta elettronica e password riconducibili a Padovani”. Inoltre “ho rilevato anche che il mio profilo Whatsapp era collegato a un servizio che consente di visualizzare da un altro dispositivo tutti i messaggi da me inviati. Ne ho quindi dedotto che che nei giorni in cui era stato da me ospitato era riuscito a reperire tutte le mie email e le mie password che avevo memorizzato nel telefono”.

Padovani, calciatore che da giovane ha giocato nelle giovanili del Napoli e in serie D con il Pomigliano, era geloso e convinto che la donna avesse un altro. Raccontava ancora Alessandra ai carabinieri: “Il nostro rapporto si basava sempre sull’invio da parte mia dei video che lui mi aveva chiesto e di videochiamate, ma questo non è bastato a frenare la sua gelosia, perchè i dubbi sulla mia fedeltà non sono mai passati. Anche una semplice foto da me postata sui social e che inquadrava le mie scarpe appoggiate sul cruscotto dell’auto al rientro da una trasferta di lavoro era stata motivo di una sua scenata”.

Nei confronti dell’uomo non erano state disposte misure cautelari. Nella denuncia Alessandra ha riferito dei controlli a cui era sottoposta, delle volte in cui lui si è presentato sotto casa. A parte una volta, in Sicilia, in cui l’aveva spintonata facendola cadere su un letto, non c’erano state mai aggressioni fisiche. Anche a metà luglio, quando i due avevano avuto un riavvicinamento dopo un periodo di crisi: tra il 14 e il 22, metteva a verbale la vittima “è stato più volte aggressivo nei miei confronti, non ha mai usato violenza fisica, sfogando la sua rabbia, sempre dovuta alla gelosia, con pugni sulla porta”.

Nell’ordinanza del gip le ossessioni di Padovani: “un soggetto animato da irrefrenabile delirio di possesso e incapace di accettare le normali dinamiche relazionali… sia di attivare l’ordinario sistema di freni inibitori delle proprie pulsioni aggressive”. Tra le ‘giustificazioni’ fornite dopo l’arresto: “Sospettavo che mi tradisse”. Durante l’udienza si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Stando alla ricostruzione della polizia, riportata nell’ordinanza, il 22 agosto (il giorno prima di uccidere Alessandra) lui le aveva staccato il contatore della luce come aveva già fatto in passato. Una trappola per costringerla a uscire di casa per andare a riattivarlo. Lui era lì, nelle scale, ad attenderla. La loro storia era finita a fine luglio ma lui non si dava pace: voleva convincerla a riprendere la relazione. E intanto continuava a controllare i suoi social.

“E nel periodo della separazione — si legge ancora nell’ordinanza — si sarebbe accorto che lei aveva aggiunto sui suoi profili anche suoi ex compagni di squadra. Per questo pretendeva dei chiarimenti”. Da qui la decisione di abbandonare in fretta e furia la squadra dove giocava in Sicilia, per precipitarsi a Bologna per quello che, nella sua ossessione, doveva essere un incontro per avere spiegazioni. Nelle settimane prima di essere uccisa brutalmente, Alessandra aveva subito numerose vessazioni come “tagliargli i pneumatici o mettere lo zucchero nel serbatoio”.

Nel pomeriggio dello stesso giorno Alessandra, magari per paura o non riuscendo a immaginare altre vie d’uscita alla sua insistenza aveva assecondato la sua richiesta “e trascorrono assieme l’intero pomeriggio”. Lui le chiede anche della denuncia nei suoi confronti. E qui la sorella Stefania rivela forse uno dei dettagli più agghiaccianti: “Mia sorella era stata evasiva – ha detto , come riportato dal Corriere – e lui, a garanzia della sua fedeltà, aveva anche preteso un giuramento sulla tomba di nostro padre, dove si erano recati insieme”.

Tutto sarebbe precipitato l’indomani mattina perché, ha raccontato Padovani, “lei non rispondeva più ai miei messaggi e mi sono sentito usato e manipolato”. Così è ripartito da casa della madre, a Senigallia, “armato di martello”. Perché lo ha portato con sé? “Era per difendermi dal compagno della sorella con il quale in passato aveva avuto dei diverbi”. La sera del delitto, verso le 21.35, lui la affronta appena scesa dall’auto, mentre è al telefono con la sorella. Il medico legale, nell’autopsia, ha accertato che è stata raggiunta da un solo colpo di martello e poi finita a calci e pugni, dopo averle scagliato contro una grossa panchina in ferro.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Gessica Notaro dopo il femminicidio Matteuzzi: “Scorta alle donne”.  Fabrizia Volponi il 26/08/2022 su Notizie.it. 

Gessica Notaro dopo il femminicidio di Alessandra Matteuzzi: lo sfogo contro le istituzioni.

Alessandra Matteuzzi è l’ennesima donna uccisa per mano di un uomo che non accettava la fine della loro relazione. I casi di femminicidio, al pari della violenza per mano delle baby gang, sono all’ordine del giorno. E’ per questo che Gessica Notaro, che porta sulla sua pelle i segni della follia dell’ex fidanzato, ha postato un lungo sfogo sui social, sottolineando che le donne hanno bisogno della scorta come i pentiti di mafia.

Gessica Notaro dopo il femminicidio Matteuzzi

Tramite il suo profilo Instagram, Gessica Notaro ha detto la sua sull’ennesimo femminicidio che ha sconvolto l’Italia. Stiamo parlando di Alessandra Matteuzzi, uccisa da Giovanni Padovani a colpi di martello. L’uomo, di professione calciatore, non accettava la fine della loro relazione e, nonostante la denuncia, continuava a perseguitare la donna. La Notaro ha esordito:

“È morta un’altra donna che aveva denunciato. E voi (alle istituzioni, ndr) che continuate a imporre misure cautelari come il divieto di avvicinamento mi fate ridere. Siete ridicoli“.

Gessica Notaro: scorta alle donne come ai pentiti

La Notaro, che da anni si batte contro il femminicidio, sa benissimo cosa significa vivere con l’incubo di un ex che non si rassegna alla fine di un rapporto. Anni fa, Gessica è stata sfregiata con l’acido dall’ex compagno, attualmente in carcere per scontare una pena di quindici anni. Ha proseguito:

“Sono 5 anni che ve lo ripeto, garantite a queste donne la scorta come fate coi pentiti di mafia, e allora sì che cambieranno le cose. E smettetela di chiamarmi ogni volta che muore una donna per chiedermi cosa ne penso e cosa bisogna fare. Tutta fuffa. Questa che vi ripeto da anni è l’unica soluzione”.

L’affondo di Gessica Notaro alle istituzioni

Gessica ha concluso:

“E siccome nonostante io abbia smosso il mondo siete ancora lì a chiacchierare, non chiedetemi più niente perché non mi mescolo con chi promette e non mantiene. Se capitasse a vostra figlia diventereste certamente più efficienti”.

La conclusione della Notaro è chiara: le istituzioni continuano a promettere, ma non muovono un passo contro il femminicidio. La situazione, forse, cambierebbe se la vittima fosse una “figlia” di qualcuno dei piani alti.

Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.

Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona). 

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.

In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.

Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. 

Il riferimento al gip

Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».

Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.

Da corriere.it il 4 dicembre 2022.

«Non commento le sentenze, parlano da sole. Io so solo di avere difeso una giovane donna che è stata sfregiata e che in conseguenza di ciò ha perso un occhio». Così Maurizio Costanzo, 84 anni, al «Corriere della Sera» in merito alla condanna inflittagli dal tribunale di Ancona a un anno di reclusione con la sospensione della pena, subordinata al pagamento di 40 mila euro come risarcimento danni per diffamazione nei confronti del gip che si era occupato di Gessica Notaro, sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato Edson Tavares.

Durante la puntata del suo «Maurizio Costanzo Show» andata in onda il 20 aprile 2017, il conduttore aveva ospitato Gessica Notaro, che rispondendo alle domande di Costanzo aveva ripercorso le tappe della sua drammatica vicenda, ricordando come il gip avesse chiesto per Tavares, che Notaro aveva già denunciato per stalking, il solo divieto di avvicinamento e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari. «L’ho denunciato sperando che la facesse finita — aveva raccontato Gessica —. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari».

Costanzo aveva preso le difese della giovane, «complimentandosi» ironicamente con il giudice: «Complimenti a questo gip — aveva commentato il conduttore —, vogliamo fare il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm (il Consiglio Superiore della Magistratura, ndr): fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». Il nome del togato — Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini — non era in realtà mai stato fatto da Costanzo, ma il riferimento era inequivocabile. Tanto che il giudice aveva prima diffidato Costanzo (che lo aveva invitato in trasmissione offrendogli il diritto di replica) e poi lo aveva querelato.

Una denuncia accolta, che ha portato alla condanna di Costanzo, benché i legali del conduttore avessero sottolineato che non c’era stata alcuna volontà diffamatoria nelle parole del loro assistito e che comunque, hanno fatto sapere, ricorreranno in appello. Nelle poche parole riferite da Costanzo al« Corriere», c’è anche l’invito a prendere nota di una ricerca pubblicata dal quotidiano «Libero» oggi in edicola. Secondo quanto riportato dal giornale, gli autori dell’indagine, i professori Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich, hanno preso in esame tutte le sentenze, circa 700, emesse dal Tribunale di Roma negli anni 2015-2020 in materia di diffamazione.

Le sentenze di accoglimento erano state solo il 36%, con un importo complessivo a titolo di risarcimento di circa 20 mila euro. Quando la denuncia era stata presentata da un magistrato, le sentenze di accoglimento salivano però a quasi l’80%, con un quantum risarcitorio attestato su circa 40 mila euro, superiore alla media degli importi riconosciuti a qualsiasi altra categoria (politici, professionisti, imprenditori, medici, docenti universitari, giornalisti).

Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa

Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.

Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show”  per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.

Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.

Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello.  Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.

Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .

L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947

Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.

«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.

Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 4 dicembre 2022.

Un matrimonio tormentato, la decisione di lasciare il marito e, dopo qualche giorno, l’acido: 28 maggio 2012, lui glielo gettò addosso e per lei fu il buio. Viso, collo, braccio, mani, gambe. Bruciò il corpo e bruciò l’anima, e Filomena Lamberti ne uscì sfigurata fuori e dentro, una delle prime donne in Italia a subire questa atroce violenza. Ma proprio per il fatto che era un tipo di aggressione poco noto, la sua storia è stata per lei un susseguirsi di eventi drammaticamente unici.

Nel giro di un mese, il 25 giugno 2012, lui riuscì a patteggiare una condanna ad appena 18 mesi con il nulla osta della procura di Salerno, senza che lei potesse dire nulla visto che si trovava ancora in terapia intensiva (gli aggressori di Lucia Annibali e Jessica Notaro, giusto per fare due esempi, furono condannati a 20 e 15 anni).

Finale ingiusto

E poi il finale, beffardo: lui libero che torna alla sua occupazione e lei che vive con una pensione di invalidità di 300 euro e non riesce ad arrivare alla fine del mese. Tanto da chiedere aiuto: «Andrei a fare qualsiasi lavoro pur di non essere costretta a chiedere la carità per pagare le bollette». Vita difficile quella di Filomena che oggi ha 64 anni e convive con uno dei suoi tre figli. In questi giorni si trova in Liguria per una serie di incontri nelle scuole, nelle biblioteche e nei Comuni assieme alla sua avvocata, Adele De Notaris, del Centro antiviolenza Linearosa Spaziodonna di Salerno. 

Cosa chiede, signora?

«Di poter vivere con dignità, di non essere sempre, costantemente in affanno». 

Un lavoro?

«Alla mia età e nelle condizioni in cui mi trovo la vedo un po’ dura. Ho un braccio più corto dell’altro per le cicatrici, non lo posso alzare, anche la vista è compromessa. Forse potrei fare la bidella o l’usciera ma chi me lo dà un lavoro?». 

Prima che cosa faceva?

«Lavoravo in pescheria con mio marito, non ci mancava nulla, si pagavano le bollette. Non avevo la possibilità di accedere al suo conto ma, insomma, ci dava i soldi per mangiare e anche per la scuola. Diciamo che i problemi con lui erano altri». 

Quali?

«Quando beveva diventava aggressivo. Io volevo aiutarlo, pensavo di cambiarlo ma è stata una pia illusione. Erano solo insulti e botte. Ho lottato a lungo contro i suoi spettri ma alla lunga l’amore si è trasformato in odio. L’ho lasciato e qualche giorno me lo sono visto davanti: “Guarda che cosa ti do”. Era una bottiglia di acido solforico».

Com’è possibile che si sia arrivati a un patteggiamento?

«Il mio avvocato di allora non mi ha difeso molto bene e comunque la Procura non si è opposta. Altri tempi. Pensi che non sono mai stata vista né ascoltata da nessuno». 

Cosa pensa quando vede le pesanti condanne dei casi come il suo?

«Mi fa piacere per le altre donne, ma mi fa sentire una cittadina di serie Z». 

Si è rifatta una vita?

«No e non lo voglio nemmeno, io ho chiuso con gli uomini, non voglio più che qualcuno mi impedisca di vivere, non vado a mettermi una persona a fianco che mi toglie la libertà, proprio ora che l’ho riconquistata. Lo so, ce ne sono di migliori di lui ma io non ho proprio voglia di ricominciare. E poi, diciamolo, difficilmente trovo un uomo che mi avvicina, anche l’occhio vuole la sua parte.... Sì, d’accordo, ci saranno anche quelli che non guardano l’aspetto fisico, ma a me verrebbe comunque da pensare che gli faccio pena».

Che rapporto ha con lui?

«L’ho cancellato, ora è lui ad avere paura di me, mi dicono. Una cosa senza senso». 

Cosa sogna?

«Una vita dignitosa».

Imma Rizzo: “Mia figlia sepolta viva a 16 anni, tradita anche dalla giustizia”. Caleria d’Autilia su La Stampa il 26 agosto 2022.

«La legge non tutela davvero le donne che denunciano. E quanto accaduto a Bologna, con l’ennesimo femminicidio, ne è un’ulteriore e drammatica conferma». Imma Rizzo è la mamma di Noemi Durini, sepolta viva a 16 anni, sotto un cumulo di pietre nelle campagne leccesi. Era il 2017. «Picchiata e accoltellata» dirà l’autopsia. Il corpo venne trovato dopo dieci giorni dalla scomparsa. Fu il fidanzato, minorenne come lei, ad indicare, dopo un lungo interrogatorio, dove l’aveva nascosto. E ora parlare di Alessandra Matteuzzi, uccisa dal suo ex compagno che aveva denunciato per stalking, significa scavare in una ferita aperta. «Ogni giorno una donna muore per mano di un uomo». Imma ha altre due figlie, a loro insegna soprattutto il valore del rispetto. «Sentivo che nel ragazzo di Noemi c’era qualcosa che non andava, poi arrivò anche a picchiarla. Ho detto tutto ai carabinieri, più volte. E, dopo qualche mese, si è trasformato nel suo assassino». Il 3 settembre saranno passati cinque anni dalla morte della ragazza salentina, originaria di Specchia. «Nessuno ha fatto niente per fermarlo, nonostante i miei appelli. Siamo state abbandonate». Lucio Marzio- all’epoca dei fatti minorenne e reo confesso- è stato condannato con sentenza definitiva a 18 anni e 8 mesi di carcere, mentre Imma ha cercato di trasformare il dolore in forza, la rabbia in testimonianza. Che effetto fa sentir parlare con questa frequenza di uomini che si trasformano in carnefici? «Da quando mia figlia è morta, guardo poco la tv. Fa male ascoltare queste notizie che sono ormai all’ordine del giorno. Lo Stato dovrebbe intervenire subito. Nel mio caso non è successo. Eppure parlavamo delle richieste di una mamma e, per di più, su una minore. Inascoltate. Sono stata più volte dai militari e i miei segnali d’allarme sono caduti nel vuoto. Soltanto dopo, ho saputo che - prima del delitto - il suo fidanzato era stato sottoposto anche a trattamenti sanitari obbligatori. Si arrabbiava senza motivo, iniziò anche a minacciarmi, diceva che voleva stare con Noemi e non dovevo intromettermi. “Fatti i fatti tuoi”. Poi le alzò anche le mani e i carabinieri mi dissero che bisognava aspettare una comunicazione formale da parte del giudice. Alla luce di quanto accaduto, ho deciso di denunciare l’intera caserma. Sono stata anche a Potenza, chiamata a testimoniare. Poi so che ci sono state verifiche del Csm e l’invio di ispettori, in quel periodo, da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ma, ad oggi, non credo abbiano portato a nulla. E nessuno mi ha mai chiesto scusa». Come si sente? «Sono 5 anni senza Noemi. Mi chiedo dov’erano le istituzioni. Io ho sempre sostenuto che il fidanzato non può aver agito da solo. Inizialmente sono stati indagati anche i suoi genitori per occultamento di cadavere, ma poi la loro posizione è stata archiviata. Purtroppo, non è stato fatto tempestivamente ciò che andava fatto. Le mie richieste non sono state ascoltate ed è finita così». Che ragazza era Noemi? «Sempre solare, pronta ad aiutare chi era in difficoltà. Nella sua classe aveva legato molto con un compagno autistico. Quando i genitori dovettero spiegargli che era stata uccisa, per lui non fu facile. Mi regalò un disegno: lei era il sole che continuava a splendere. Poi ci sono i ricordi di vita insieme, tantissimi. Uno di questi, sembra incredibile, erano le nostre litigate. Sempre per lo stesso motivo, la imploravo di lasciare quel ragazzo con cui aveva una relazione. Ci arrabbiavamo, lei sapeva anche che avevo raccontato tutto alle forze dell’ordine. Poi facevamo pace, non mi diceva mai “ti voglio bene”, mi diceva “mamma ti amo”». Con l’associazione “Casa di Noemi” sensibilizzate contro la violenza sulle donne. Soprattutto nelle scuole. «Quando incontro i ragazzi è come vedere lei. A loro dico di denunciare e non aver paura. È un messaggio trasversale, sia per le donne sia per gli uomini. Ognuno deve essere libero di vivere la propria vita, il possesso non è amore. Nessuno deve ritrovarsi con il dito puntato per il modo di vestirsi o di truccarsi. Perché questa è già una limitazione che deve far riflettere. Alle vittime dico di trovare il coraggio di chiedere aiuto. Quando nascono un sorriso, delle lacrime o un abbraccio spontaneo, penso che forse sono riuscita a scuotere qualche coscienza e ho davanti giovani che vogliono costruire un mondo migliore. E allora penso che forse Noemi non è morta invano».

Omicidio di Alessandra Matteuzzi, un femminicidio usato per attaccare il garantismo e l’inappellabilità delle assoluzioni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Condannate a morte e anche destinate a essere usate. Il destino delle donne. Con l’ultima uccisione di Alessandra a Bologna siamo a 67 dall’inizio dell’anno, vittime di uomini che non sapendo amare, uccidono pur di non perdere la preda della loro possessività. Ma pare anche destino che questa tragedia venga sistematicamente usata, anche da qualche tecnico del diritto, per sparare contro progetti di riforma che con il cosiddetto “femminicidio” nulla hanno a che fare.

E’ già capitato nel mese di giugno durante la campagna elettorale per i referendum sulla giustizia, quando era stato preso di mira quello sulla custodia cautelare. E per tre giorni di fila il Fatto aveva gridato che era una proposta contro le donne e a favore degli stalker. Il tentativo si ripete oggi dopo che non solo Silvio Berlusconi, ma anche Carlo Nordio e soprattutto l’Unione delle Camere penali hanno rilanciato la proposta di rendere inappellabili le sentenze di assoluzione. L’allarme viene lanciato da un magistrato sulle colonne del Manifesto proprio nei giorni dell’ennesima violenza, un fatto particolarmente angosciante perché la donna uccisa aveva denunciato e stra-denunciato quel ragazzo violento che la perseguitava, e aveva chiesto aiuto a familiari, amici e vicini, perché le segnalassero qualunque avvicinamento dell’uomo alla sua casa.

Invece lui era riuscito a correre dalla Sicilia fino a Bologna, pare pazzo di gelosia, per mettere fine alla vita dell’ex fidanzata. Clima di tragedia, dunque. Nel quale ben vengano parole di proposte concrete come quelle del presidente vicario del tribunale di Milano Fabio Roia che, intervistato da Repubblica, invoca “più magistrati e agenti esperti che lavorino a tempo pieno sui femminicidi”. Certo, bisognerebbe avere più personale nei tribunali e nelle questure, e anche avere maggiore specializzazione. Ma se poi si parla con le responsabili dei Centri antiviolenza, che ogni anno accolgono circa 20.000 donne e conoscono i loro problemi e soprattutto le loro difficoltà, il discorso cambia. La paura a lasciare il marito, prima di tutto. La scarsa consapevolezza del salto veloce che la violenza compie nel passare dallo schiaffo alle botte e poi all’omicidio, soprattutto.

Ma anche, e qui dovrebbero subentrare la specializzazione e la sensibilità di chi raccoglie le loro denunce, il fatto che troppo spesso le donne non vengono credute, il loro grido di aiuto viene sottovalutato. E che strumenti banali ma più utili ancora del carcere come i braccialetti elettronici non vengono quasi mai usati. La scarsa valutazione del rischio da parte delle istituzioni, nonostante una riforma come quella del “Codice rosso” e il tentativo di andare oltre da parte della ministra Cartabia, ecco il problema. Ma c’è, a quanto pare, uno scarso uso delle misure cautelari come il divieto di avvicinamento o l’allontanamento dalla casa familiare, e soprattutto sono scarsi i controlli, che sarebbero molto facili se si usassero i braccialetti elettronici.

Invece si passa dalla sottovalutazione del rischio alla richiesta di più carcere preventivo, come è capitato durante la campagna elettorale sui referendum. Ma anche ora sta succedendo. E stupisce il fatto che sia un giudice di Milano, Fabrizio Filice, dell’esecutivo di Magistratura democratica e anche membro della commissione pari opportunità dell’ Anm, a sfruttare l’occasione dell’ultima tragedia che ha colpito una donna, per scagliarsi contro la proposta di rendere inappellabile il ricorso del pm contro l’assoluzione, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’imputato nel processo di primo grado. Sopra il titolo “L’assurda inappellabilità di quelle assoluzioni”, sul Manifesto, l’occhiello è piuttosto esplicito, “Violenza sessuale”. Ancora una volta così si accomunano i fatti tragici che hanno colpito queste donne, violentate o uccise, alla contrapposizione politica.

Sì, politica, perché la premessa per polemizzare con l’Unione Camere penali, che si è sempre dichiarata d’accordo con la proposta, che era stata già oggetto della “legge Pecorella” poi modificata nella sostanza dalla Corte Costituzionale, non è certo tecnico-giuridica. Scrive infatti il gip milanese che “è un tema controverso”. Ma aggiunge che occorre “abbandonare il linguaggio fazioso di chi ha in odio il controllo giudiziario, ritiene il processo una persecuzione e l’affermazione dei diritti una posa della sinistra”. Dopo di che, non senza aver sottolineato che la proposta ha il sapore di un tentativo di vittoria “politica” contro la magistratura (chissà con chi ce l’ha), parte all’attacco delle Camere penali, accusandole di chiudere gli occhi nei confronti delle vittime.

Dando una visione dei processi per violenza sessuale, domestica e di genere, che pare ferma alla sub-cultura maschile, di avvocati e magistrati, dei tempi del famoso “processo per stupro” di cinquant’anni fa. E ferma anche ai tempi in cui si assolveva più che condannare. Se è vero che sia capitato che la donna non sia stata creduta dopo aver denunciato la violenza, o che il pm non abbia raccolto sufficienti prove per dimostrarlo, questo fa parte delle dinamiche del processo. Ed è veramente strumentale ritenere che l’imputato assolto oltre ogni ragionevole dubbio, come dice la Costituzione, debba essere trascinato in appello a ogni costo, dando per scontato che nei processi di violenza sessuale non esistano mai innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca. No, non è proprio questo il modo di affrontare il dramma delle donne vittime di violenza. Questo uso strumentale e demagogico delle tragedie lasciamolo a Travaglio, non è degno di chi indossa la toga.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L’illusione salvifica della giustizia. Perché il femminicidio di Alessandra Matteuzzi non poteva essere previsto: inutile sparare sui pm. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 27 Agosto 2022 

Il Procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, è notoriamente un magistrato serio, equilibrato e rispettoso delle regole del processo. La sua intervista al Corsera merita dunque attenzione, e sollecita utili riflessioni sul fenomeno degli stalkers che infine, e spesso inopinatamente, si trasformano in brutali assassini delle vittime della loro persecuzione. Più in generale, è utile riflettere su ciò che sia ragionevolmente legittimo attendersi dalla legge penale e dalla sua applicazione in funzione di prevenzione del crimine.

Il Procuratore Amato risponde alle accuse di “malagiustizia” avanzate dai familiari della vittima, una signora brutalmente assassinata a martellate dal suo compagno, ossessionato -a quanto leggiamo- da una gelosia patologica. L’accusa è chiara: la macchina giudiziaria si è mossa tardi e male, quell’omicidio poteva e doveva essere evitato posto che la sventurata vittima aveva denunciato il compagno per le sue condotte persecutorie appena un mese prima. Il dolore dei familiari delle vittime e la loro legittima aspettativa di giustizia meritano rispetto e concreta tutela. Ma è altrettanto legittima l’aspettativa che tutti i cittadini, perfino quelli colpiti da tragedie così orrende, sappiano misurarsi con i limiti invalicabili della ragionevolezza, prima ancora che con la comprensione delle regole che governano la repressione dei fenomeni criminali.

Il dottor Amato dice, con onestà intellettuale e senza indulgere in ipocrisie, una verità molto semplice, con la quale è bene che il dibattito che già si sta scatenando sulla vicenda faccia i conti con eguale onestà intellettuale. La querela per stalking non segnalava atti di violenza o minacce la cui natura consentisse di preconizzare esiti così drammatici. Se questo è vero -e non dubito che lo sia- occorre trarne le conseguenze. Se una donna denuncia atti persecutori (in questo caso, telefonate ossessive di controllo a lei ed ai familiari, pretese di screenshot della messagistica, fino ad un distacco della corrente per sorprenderla nel portone di casa) mai connotate da indici apprezzabili di violenza fisica o almeno di minaccia alla integrità fisica della vittima secondo la stessa narrazione di quest’ultima, è del tutto ovvio che la reazione della macchina giudiziaria sia proporzionata alla natura delle condotte denunziate.

La ottusa, proterva idea proprietaria coltivata purtroppo diffusamente nei confronti di mogli e compagne si traduce troppo spesso in condotte persecutorie di tipo ossessivo, di sicura rilevanza penale perché idonee a stravolgere la vita e la libertà morale della vittima in modo anche più devastante della pur odiosa violenza fisica, e merita punizioni proporzionate alla straordinaria gravità del fatto. Ma la ragionevole prevedibilità di un esito omicidiario, e dunque l’impegno investigativo e cautelare che quella prevedibilità certamente esige, è tutta un’altra storia. A tragedia consumata, dice con chiarezza il Procuratore Amato, sono tutti bravi a dire che essa andasse prevenuta. Ma immaginare che per ciascuna delle migliaia di denunce per stalking possa seguire una reazione del sistema giudiziario idoneo a prevenire esiti omicidiari è semplicemente una insensata illusione.

La prevenzione (che peraltro, non potrà comunque mai assicurare con certezza la salvezza della vittima di una ossessione patologica) deve essere garantita dal sistema quando il fatto denunciato prospetti, con adeguati e consistenti riscontri indiziari, fatti e condotte del carnefice che facciano ragionevolmente temere o addirittura prevedere la precipitosa evoluzione della persecuzione in omicidio o comunque in attentato alla vita ed alla integrità fisica della vittima. Naturalmente, la “ragionevole prevedibilità” non è una unità di misura oggettiva, come il metro del sarto. Da quando l’uomo ragiona di queste drammatiche difficoltà della funzione giudicante, si indica non a caso, come dicevano i latini, l’ “id quod plerumque accidit”, cioè il criterio del “ciò che accade nella maggior parte dei casi”.

I comportamenti, certamente odiosi ed inaccettabili, di un uomo che secondo la stessa denunzia non aveva però mai tradotto la persecuzione in atti di violenza o di minaccia alla vita o alla integrità fisica, rendevano prevedibile l’esito omicidiario? La risposta non va trovata nel dolore incommensurabile dei familiari della vittima, o nella nostra civile indignazione, o peggio ancora in convincimenti di natura culturale o ideologica; ma in quella antica regola di razionalità e di civiltà non a caso sopravvissuta attraverso i secoli nella esperienza giudiziaria di noi esseri umani. Ed è piuttosto di questo quotidiano nostro allontanarci da quella misura di giudizio, di questa sempre più incontenibile pretesa di scardinarla in nome del dolore e della indignazione, che dovremmo molto seriamente discutere, e con il dovuto allarme..  

Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane

Ida Artiaco per fanpage.it il 12 settembre 2022.

"Ero a telefono con lei quando è stata uccisa. Sentivo le sue urla e quelle dell'assassino. L'avevo anche vista quel giorno, era disperata per Giovanni". 

A parlare è Stefania Matteuzzi, sorella di Alessandra, uccisa a martellate a 56 anni il 29 agosto a Bologna dall'ex compagno, il calciatore 27enne Giovanni Padovani. La donna ha raccontato il calvario vissuto da Alessandra intervenendo come ospite di Mara Venier a Domenica In.

Stefania ha cominciato a ricordare la sorella: "Era molto bella, ma anche una persona semplice al di là di quello che si può pensare vedendo i social. Condividevamo molto, come se avessimo vissuto nella stessa casa. Tutti i giorni ci raccontavamo quello che ci succedeva. L'avevo spinta io a cercare di conoscere un uomo, a lei non interessava dopo i problemi di salute dei nostri genitori". 

Stefania ha anche ricordato quando ha conosciuto Giovanni: "Alessandra mi ha parlato di Giovanni sin da subito. L'aveva trovato su Facebook. All'inizio lei è rimasta colpita perché lui gli aveva raccontato di un problema di salute che aveva avuto in passato. Le era dispiaciuto. Mi ricordo che spesso mi diceva he lo apprezzava perché cercava di andare avanti nonostante le difficoltà. Fino a Ferragosto dello scorso si è comportato bene, era molto amorevole anche con la mia mamma". 

Stefania Matteuzzi a Domenica In.

Poi, dopo Natale, qualcosa è cambiato: "Ha cominciato a comportarsi in maniera strana. Mi contattava continuamente, lui era convinto che mia sorella lo tradisse e voleva che io lo appoggiassi. Poi è diventato aggressivo, urlava e ho detto basta. Alessandra mi dava ragione ma a fatica ne ha preso le distanze anche se lui provava a riavvicinarsi. Poi pian piano ha trovato la forza, si è resa conto che faceva cose sempre più gravi".

Fin quando il 22 luglio non ha deciso di lasciarlo. "Quella sera sono andata a casa sua con una scusa. Noi ci eravamo allontanate in quel periodo, io avevo paura del comportamento di questa persona, lei però continuava a dargli una possibilità. Lei ha confessato che era disperata. Il 29 luglio è andata a fare la denuncia. Ha fatto finta finta di andare in vacanza per far vedere che non era a casa". Poi, un mese dopo, la tragedia.

"Quel giorno lì io l'ho vista. Voleva parlarmi – ha spiegato Stefania -. Mi disse che era disperata per Giovanni, che il giorno prima si era presentato di nuovo sotto casa e le aveva staccato la luce. Lei era convinta che lui non ci fosse quella sera, che fosse in Sicilia con la squadra. Volevo che restasse da me ma lei doveva dare da mangiare al cane. Eravamo a telefono insieme, prima ancora che entrasse dal condominio. Poi a un certo punto ho sentito solo urla di lei e di lui incomprensibili. Non c'è stato dialogo. Ho chiamato subito i carabinieri con il telefono del mio compagno e intanto al telefono sentivo ancora le urla. Mi sono precipitata da lei, ma quando sono era arrivata era già troppo tardi".

 La famiglia dice: "Basta!". Denunciati gli hater di Alessandra Matteuzzi. La 56enne di Bologna era stata uccisa barbaramente dall'ex compagno. Da quel momento i "leoni da tastiera" hanno lasciato commenti di odio nei profili della donna, così i familiari hanno deciso di mettere un punto alla situazione. Laura Lipari il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

Neanche dopo la morte ha ottenuto un po' di pace Alessandra Matteuzzi, la donna di 56 anni vittima di femminicidio per mano dell'ex compagno 27enne. Decine i commenti aggressivi e offensivi sotto le foto che la donna postava sui social.

Il caso

Alessandra Matteuzzi viveva a Bologna e aveva da poco chiuso i rapporti con il fidanzato Giovanni Padovani, calciatore ed ex modello. L'uomo, però, non aveva preso bene la separazione e aveva cominciato a scriverle e chiamarla ogni giorno: motivo per cui era stato denunciato per stalking. Nonostante ciò, non si era dato per vinto e il 23 agosto l'aveva raggiunta sotto casa. Dopo una breve lite il giovane si era accanito su di lei con calci, pugni e martellate, uccidendola.

Uccisa in strada a colpi di martellate dallo stalker che aveva denunciato

Dopo la tragedia molti erano stati i messaggi di cordoglio alla famiglia da parte di amici e conoscenti. Altrettanti numerosi, però sono stati i commenti degli hater che hanno giudicato l'età e il vestiario della donna, come se fosse quello il motivo del suo assassinio. "In generale, ci vorrebbe rispetto per chi non c'è più, ma bisogna che le persone comprendano anche che non ci si può comportare sui social come se ci si trovasse in un saloon del Far West e che dovranno rispondere delle loro azioni, cui come sempre corrisponde una reazione adeguata", ha commentato l'avvocato, Chiara Rinaldi, che rappresenta la famiglia di Alessandra.

I genitori e i parenti della donna hanno infatti proceduto con la denuncia di alcuni utenti e i reati ipotizzati sono diffamazione e, in alcuni casi, incitamento all'odio. L’obiettivo dichiarato è quello di "perseguire gli hater uno a uno".

Da leggo.it il 2 settembre 2022.

Un italiano di 41 anni, Sebastiano Ciara, è morto in Francia, ucciso dalla compagna nel corso di una lite domestica. È successo il 31 agosto a Evry, in provincia di Essonne, a sud di Parigi, ma la notizia è stata resa nota solo oggi: l'uomo, originario della Ciociaria, sarebbe stato ammazzato con una coltellata dalla convivente, una donna di 38 anni, che è stata arrestata. 

A darne notizia è Luigi Vacana, vicesindaco di Gallinaro, centro in provincia di Frosinone, paese dove vivono i parenti della vittima. «La nostra comunità scioccata - scrive Vacana su Fb - si stringe intorno ai genitori di Sebastiano, nello straziante dolore per questa tragedia».

In base a quanto si apprende l'uomo viveva da tempo in Francia. Le autorità transalpine, spiegano i media francesi, hanno avviato una indagine per chiarire la dinamica di quanto accaduto.

Da leggo.it l'1 settembre 2022.

Omicidio-suicidio nel brindisino, a Villa Castelli, dove una donna di 47 anni è stata uccisa a colpi di pistola dal suo ex compagno, che si è poi suicidato impiccandosi nella sua abitazione. È accaduto questa mattina: secondo una prima ricostruzione dell'accaduto, la donna stava andando a lavorare in un'azienda tessile quando l'uomo l'ha raggiunta per ucciderla. 

La vittima si chiamava Giuseppina Fumarola e aveva due figli nati da una precedente relazione con un altro uomo. Sul luogo dell'omicidio, a pochi metri dall'ingresso dell'azienda tessile dove lavorava la vittima, sono intervenuti i carabinieri e la polizia locale di Villa Castelli. L'assassino, che è stato ritrovato impiccato nella propria abitazione, si chiamava Vito Sussa. Secondo gli inquirenti l'uomo non accettava la fine della relazione con la vittima.

A casa di Vito Sussa sarebbero stati ritrovati e sequestrati tre fucili e una pistola. Gli inquirenti hanno anche acquisito le immagini delle telecamere di videosorveglianza esterna dell'azienda tessile nei pressi della quale è stata uccisa la donna mentre stava andando al lavoro. Alcune colleghe della vittima hanno accusato un malore dopo la scoperta dell'omicidio.

ORRORE ALL'ALBA. Uccisa a colpi di fucile dall'ex compagno: femminicidio a Villa Castelli. L'uomo si è impiccato dopo averle tolto la vita. Il sindaco Barletta: « La conoscevo, è inaccettabile». Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Settembre 2022.

Una donna di 47 anni, Giuseppina Fumarola, è stata uccisa a colpi di pistola questa mattina a Villa Castelli (Brindisi) dal suo ex compagno che poi si è suicidato impiccandosi nel garage della propria abitazione.

La donna stava andando a lavorare in un’azienda tessile di via Galilei quando l’uomo, Vito Sussa, l’ha raggiunta per ucciderla. Subito dopo averle sparato è scappato. Lo hanno trovato le forze dell'ordine già morto nel garage della sua abitazione. Secondo gli inquirenti non accettava la fine della relazione con Giuseppina Fumarola che aveva due figli, una di 27 anni e un altro di 21, nati da una precedente relazione con un altro uomo. 

Sul luogo dell’omicidio, a pochi metri dall’ingresso dell’azienda tessile dove lavorava la vittima, sono intervenuti i carabinieri e la polizia locale di Villa Castelli. Sul posto anche gli operatori del 118, che se non hanno potuto fare nulla per la donna hanno dovuto invece soccorrere alcune colleghe della vittima. Dopo aver capito che la loro amica era morta hanno accusato un malore.

Stando alla ricostruzione degli investigatori Giuseppina Fumarola è stata uccisa con due colpi di un fucile che l'hanno raggiunta al braccio e al torace. Sussa, di 52 anni, l'ha attesa davanti all’azienda tessile in cui lavorava, a poca distanza dall’appartamento in cui viveva. Le ha sparato ed è fuggito a piedi. Alcune colleghe della vittima, sentendo gli spari, sono scese in strada e hanno visto l'assassino fuggire.

Sul luogo dell’omicidio sono intervenuti i carabinieri di Francavilla Fontana (Brindisi) e il medico legale. A quanto si è appreso non dovrebbe essere disposta l’autopsia. Secondo quanto riferito dagli investigatori la donna non avrebbe mai denunciato di essere stata minacciata o molestata dall’ex che oggi l’ha uccisa.

A casa di Vito Sussa sarebbero stati ritrovati e sequestrati tre fucili e una pistola. Gli inquirenti hanno anche acquisito le immagini delle telecamere di videosorveglianza esterna dell’azienda tessile nei pressi della quale è stata uccisa la donna. 

LE REAZIONI

«C'è tanto sgomento nella nostra comunità per quanto avvenuto. E’ tutto inaccettabile. Facciamo tanti convegni, tante iniziative, ed ancora purtroppo dobbiamo assistere a dei ragazzi poco più che 20enni privati della loro madre in maniera così dolorosa». Così il sindaco di Villa Castelli (Brindisi) Giovanni Barletta, dopo l'omicidio di Giuseppina Fumarola. «Conoscevo personalmente la donna - prosegue il sindaco - mai avrei pensato che potesse accadere quanto avvenuto. Come amministrazione continueremo a dare sempre più valore ad iniziative che possano sensibilizzare sul tema». «Questo - conclude - è però il momento del silenzio. Siamo vicini alla famiglia ed ai due figli della donna».

Angela Balenzano per il “Corriere della Sera” il 2 settembre 2022.

Era appena scesa dall'auto e stava raggiungendo l'ingresso della sartoria a Villa Castelli, nel Brindisino, dove lavorava da 25 anni. Il suo ex compagno era lì ad attenderla e senza darle nemmeno il tempo di dire una parola le ha sparato due colpi di fucile. 

Uno al braccio e l'altro al petto. È morta così Giuseppina Fumarola, 48 anni, assassinata dall'ex compagno Vito Sussa, 52 anni, ieri mattina intorno alle 7. Poi l'uomo, muratore di Brindisi con la passione per la caccia, si è impiccato nel garage della sua abitazione a 50 metri dal luogo dell'omicidio. La vittima aveva due figli di 27 e 21 anni nati da una precedente relazione.

I carabinieri ritengono che Sussa non avesse accettato la fine della relazione con la 48enne ma stanno vagliando anche altre piste. Nell'ultimo post condiviso su Facebook appena pochi giorni fa, Sussa scriveva: «Un amico delinquente ti aiuta sempre, ma un amico pazzo ha bisogno di aiuto». E nei giorni precedenti aveva postato altri messaggi: «Solo una persona stupida commette errori, la persona saggia sa quando deve muoversi». Poi, riferendosi probabilmente alla sua ex compagna: «Non ho vinto battaglie, né ho perso una guerra, ma ho salvato la mia vita lontano da lei».

I carabinieri hanno ricostruito le fasi dell'omicidio grazie anche alle immagini delle telecamere di videosorveglianza dell'azienda tessile dove lavorava Giuseppina: il killer ha camminato a piedi da casa sua fino alla sartoria impugnando il fucile con il quale ha fatto fuoco. Poi è tornato nel suo appartamento, è sceso in garage e si è impiccato. In casa dell'uomo c'erano tre fucili e due pistole.

A trovare la donna in una pozza di sangue nel parcheggio dell'azienda sono state alcune colleghe che stavano andando al lavoro: hanno chiamato i soccorsi ma era ormai troppo tardi. Le indagini avrebbero accertato che la vittima non avrebbe mai denunciato minacce o molestie da parte dell'uomo: i colleghi di Giuseppina avrebbero però riferito che da giorni era preoccupata per alcuni messaggi intimidatori che Sussa le avrebbe inviato.

Rivelazioni che la donna avrebbe fatto in sartoria; tutti sapevano che era stata lei ad interrompere quella relazione tormentata e durata circa un anno. Lui però avrebbe continuato a cercarla e ieri mattina, ben conoscendo gli orari di lavoro della sua ex, ha aspettato che arrivasse davanti all'azienda per ucciderla. I carabinieri hanno raccolto le testimonianze dei parenti e degli amici più stretti allo scopo di approfondire ogni aspetto della loro relazione. 

«C'è tanto sgomento nella nostra comunità per quanto avvenuto. È tutto inaccettabile - ha detto il sindaco di Villa Castelli, Giovanni Barletta - facciamo tanti convegni, tante iniziative contro la violenza sulle donne e i femminicidi e, purtroppo, ci troviamo davanti a dei ragazzi poco più che ventenni privati della loro madre in maniera così dolorosa.

Conoscevo personalmente la donna e mai avrei pensato che potesse accadere quanto avvenuto. Come amministrazione continueremo a dare sempre più valore ad iniziative che possano sensibilizzare sul tema». «Quella di oggi è la settantottesima donna uccisa dall'inizio dell'anno. Una storia che si ripete senza soluzione di continuità, che potrebbe essere stata generata - afferma Elisabetta Aldrovandi, presidente dell'Osservatorio nazionale sostegno vittime - da violenze domestiche non denunciate».

Brindisi, uccide l'ex compagna 47enne a colpi di fucile e si suicida: l'agguato davanti all'azienda tessile dove lavorava la donna. Lucia Portolano su La Repubblica l'1 Settembre 2022.

E' accaduto a Villa Castelli. La donna, Giuseppina Fumarola, stava andando a lavorare in una sartoria. Il suo ex viveva a 80 metri dal luogo di lavoro della vittima

Una donna di 47 anni, Giuseppina Fumarola, è stata uccisa a colpi di fucile questa mattina a Villa Castelli dal suo ex compagno 52enne, Vito Sussa, che poi si è suicidato impiccandosi nella propria abitazione. Secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, appena la donna è scesa dall'auto per entrare nella sartoria in cui era impiegata, intorno alle 7, Sussa le avrebbe sparato due colpi all'altezza del petto.

Lui viveva a 80 metri dall'azienda tessile nella quale lavorava Fumarola e le telecamere di videosorveglianza, acquisite dai carabinieri, avrebbero ripreso l'agguato. Per lei non c'è stato nulla da fare. Il 52enne, muratore appassionato di caccia, ha poi raggiunto la sua abitazione e si è impiccato.

Stando ai primi accertamenti dei militari, il fucile era regolarmente detenuto. E i due, in base alle prime testimonianze, avevano avuto una relazione della quale l'uomo non ne accettava la fine. Non risultano denunce. A casa di Sussa sarebbero stati ritrovati e sequestrati tre fucili e una pistola.

La donna aveva due figli nati da una precedente relazione con un altro uomo. Sul luogo dell'omicidio, a pochi metri dall'ingresso dell'azienda tessile dove lavorava la vittima, sono intervenuti i carabinieri e la polizia locale di Villa Castelli, coordinati dalla pm della procura di Brindisi, Paola Palumbo. Alcune colleghe della vittima hanno accusato un malore dopo la scoperta dell'omicidio.

Il sindaco

"Come genitore sono arrabbiato e sconvolto, non si possono sentire queste notizie. Tutta la comunità di Villa Castelli è sconvolta per quello che è successo". Così il sindaco di Villa Castelli, Giovanni Barletta, commenta la tragedia che ha scosso la sua comunità. "Ci eravamo incontrati credo non più tardi di tre-quattro giorni fa, in occasione di una evento musicale in paese", prosegue.

"Qui ci conosciamo tutti, siamo poco più di 9mila abitanti", va avanti. "In questo momento voglio esprimere la vicinanza, la mia personale, e quella di tutto il comune ai due figli e alla famiglia della donna. E allo stesso tempo voglio lanciare un appello alla riflessione: occorre lavorare quotidianamente sui rapporti umani e in modo particolare sul rispetto delle donne", dice il primo cittadino."Non sono sufficienti le giornate come quella dell'8 marzo", aggiunge. "Occorre uno sforzo di tutti. Non è possibile che continuino ad accadere tragedie come quella di oggi".

Il femminicidio in provincia di Brindisi. Spara all’ex compagna e si impicca, Giuseppina uccisa a colpi di fucile mentre andava a lavorare. Vito Califano su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Stava andando a lavorare quando il suo ex compagno l’ha raggiunta. Era quasi arrivata in azienda quando l’uomo ha aperto il fuoco su di lei, la sua ex, colpi di arma da fuoco che non le hanno lasciato scampo, a pochi metri dall’ingresso della fabbrica tessile. Giuseppina Fumarola è morta così, uccisa a colpi di arma da fuoco a Villa Castelli, in provincia di Brindisi. Il suo ex compagno si chiamava Vito Sussa. Dopo l’omicidio si è suicidato impiccandosi nella propria abitazione.

La donna aveva 47 anni. Aveva due figli di 27 e 21 anni, nati da una precedente relazione della donna con un altro uomo. Circa un anno fa aveva cominciato il nuovo rapporto con Sussa. Non aveva mai denunciato violenze o molestie da parte dell’ex compagno. La relazione era finita recentemente e secondo gli inquirenti l’uomo non avrebbe mai accettato la fine di quella storia. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e la polizia locale di Villa Castelli.

Le forze dell’ordine hanno ritrovato in casa dell’uomo tre fucili e una pistola, acquisite le immagini delle telecamere di sorveglianza dell’azienda tessile, situata nella zona artigianale del paese, nei pressi della quale è stata uccisa la donna mentre stava andando al lavoro. Dopo la scoperta dell’omicidio alcune colleghe della vittima hanno accusato un malore. Villa Castelli, paese di circa novemila abitanti, è sconvolto dal femminicidio.

“C’è tanto sgomento nella nostra comunità per quanto avvenuto. È tutto inaccettabile. Facciamo tanti convegni, tante iniziative, ed ancora purtroppo dobbiamo assistere a dei ragazzi poco più che 20enni privati della loro madre in maniera così dolorosa – ha detto all’Ansa il sindaco di Villa Castelli, Giovanni Barletta – Conoscevo personalmente la donna, mai avrei pensato che potesse accadere quanto avvenuto. Come amministrazione continueremo a dare sempre più valore ad iniziative che possano sensibilizzare sul tema. Questo è però il momento del silenzio. Siamo vicini alla famiglia ed ai due figli della donna”.

Tantissimi i messaggi di cordoglio sui social che ricordano la donna e si uniscono al dolore della famiglia. Alcuni utenti hanno preso a scrivere, a insultare, sulla bacheca dell’uomo, nei commenti ai post criptici che quest’ultimo aveva postato recentemente. “Un amico delinquente ti aiuta sempre, ma un amico pazzo ha bisogno di aiuto”, si legge in uno di quei post grotteschi. “Solo una persona stupida commette errori, la persona saggia sa quando deve muoversi”, recitava un altro. “Non ho vinto battaglie ne ho perso una guerra, ma ho salvato la mia vita lontano da lei”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

In vacanza uccide l'amica dopo una lite. Le urla della donna sentite dai vicini. Arrestato un 30enne lombardo. I due erano già stati sentiti discutere. Redazione il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

Uccisa al culmine di un litigio scoppiato nella casa dove stavano trascorrendo le vacanze in Croazia. È morta così una donna ucraina di 40 anni, che da anni abitava regolarmente in Italia, morta per mano di un giovane amico lombardo di 10 anni di meno residente a Medole, nel Mantovano.

Adesso lui è in carcere e c'è attesa per l'esito del test alcolemico e antidroga a cui è stato sottoposto per poter ricostruire la dinamica di un delitto che al momento appare senza spiegazione. L'omicidio è avvenuto tre notti fa a Umago, all'interno del villaggio di Zacchigni, una localtà croata a tre chilometri dal mare dove la donna era solita trascorrere le vacanze con il marito nello stesso appartamento al primo piano preso in affitto. Un luogo che la coppia frequentava da dieci anni, tanto che nel tempo si era creato un rapporto di amicizia con i proprietari.

Quest'anno però il marito della vittima era impegnato per lavoro in Ucraina e la donna si era presentata nella stessa casa con un amico, tanto che in un primo momento si era creduto che fossero una coppia. Secondo le prime ricostruzioni della questura istriana, che indaga per competenza territoriale, i due turisti avrebbero litigato all'alba di giovedì. Una lite molto accesa, che sarebbe andata avanti per quasi tutta la notte, al culmine della quale il giovane lombardo avrebbe sopraffatto l'amica. Non sarebbe stata trovata nessuna arma, sembra la donna sia stata colpita con corpo contundente preso in casa, ma l'appartamento era devastato, con le finestre rotte e l'arredamento danneggiato. Sarebbe stata proprio una persona legata alla proprietaria della casa ad avvertire il marito della vittima, una volta resasi conto che la violenta discussione tra i due aveva avuto sviluppi gravi. «Ho sentito dei forti colpi e dei vetri andati in frantumi», ha raccontato agli investigatori. Appena è stato dato l'allarme sul posto è arrivata immediatamente un'ambulanza e la polizia. I sanitari hanno tentato in vari modi di salvare la donna che agonizzava ma le ferite erano troppe, diffuse lungo il corpo, e troppo profonde. E i soccorsi si sono rivelati purtroppo inutili. Alcuni vicini hanno raccontato che nei giorni precedenti al delitto avevano sentito i due litigare più volte. Qualche giorno fa la quarantenne aveva presentato l'amico alla proprietaria di casa dicendo che era venuto a vedere l'appartamento perché era interessato ad affittarlo per trascorrerci le vacanze l'anno prossimo.

Sul posto è intervenuto il pubblico ministero Andrea Stefekov che ha fa arrestare e portare in carcere il trentenne, disponendo che fosse sottoposto tra l'altro al test alcolemico e antidroga di cui non si conosce ancora il risultato. Secondo quanto si è appreso, sul corpo della vittima sarebbero già stati effettuati gli esami autoptici, ma anche in questo caso i risultati non sono stati ancora resi noti. Sul caso stanno indagando gli uomini della polizia di Umago con i colleghi della sezione di Buie.

Gli investigatori hanno effettuato un sopralluogo e perquisito anche la casa al piano terra, occupata da una famiglia croata, e tutti gli appartamenti vicini. Da quello della vittima e da quello al piano di sotto è stato sequestrato del materiale, portato via dalla scientifica.

Antonio Andreotti per corrieredelveneto.corriere.it il 29 agosto 2022.

Svolta nelle indagini sull’omicidio del 71enne Shefki Kurti, il pensionato albanese ucciso e fatto a pezzi a fine luglio in Polesine. La moglie Nadire, 68 anni, è piantonata in Psichiatria all’ospedale di Rovigo con l’accusa di omicidio volontario aggravato e soppressione di cadavere. 

La donna non è in carcere, perché ricoverata dallo scorso 12 agosto all’ospedale rodigino. Il macabro omicidio, stando a quanto ricostruito dai carabinieri del Comando provinciale di Rovigo, sarebbe scaturito dal timore di Shefki Kurti - timore infondato, va precisato - di essere lasciata dal marito.

Il delitto

La notte tra il 21 e il 22 luglio scorso la 68enne avrebbe colpito Shefki Kurti con un’ascia mentre i due erano in camera da letto. Poi avrebbe trascinato il corpo in bagno, facendolo a pezzi con l’ascia stessa e tre coltelli, ritrovati a Badia, nel canale Adigetto, la scorsa settimana. A quel punto, Nadire avrebbe messo i resti in alcuni sacchetti della spazzatura gettandoli nell’Adigetto. 

A corroborare la ricostruzione c’è un’ammissione della donna, avvenuta durante un interrogatorio del pm Maria Giulia Rizzo lo scorso 18 agosto in ospedale, e delle telefonate intercettate tra la 68enne ed i due figli, del tutto estranei all’accaduto. 

Il ritrovamento

La vicenda inizia la mattina del 28 luglio scorso quando, in prossimità delle chiuse del canale Adigetto a Villanova del Ghebbo, alcuni tecnici addetti alla pulizia del canale hanno trovato una gamba umana. Lo stesso giorno, più a monte del corso d’acqua, e precisamente a Lendinara, vengono trovati due sacchetti. Dentro ci sono la testa e il busto di un uomo. Il terzo ritrovamento avviene nel pomeriggio dello stesso giorno. 

A Villanova del Ghebbo, poco lontano da dove era stata trovata la gamba, in altri due sacchetti vengono trovate due braccia. Tre giorni dopo, il 31 luglio e sempre nell’Adigetto tra Lendinara e Villanova, viene trovata anche la gamba mancante. La famiglia di Kurti, che non lo vedeva da domenica 24 luglio, giorno in cui l’anziano se ne era andato di casa dopo un litigio con la moglie, ha formalizzato la denuncia di scomparsa. Il corpo è stato attribuito con certezza a Shefki Kurti da un segno particolare, ovvero un tatuaggio che l’albanese aveva in una gamba, l’ultima ritrovata nell’Adigetto.

La coppia

Shefki Kurti e la moglie Nadire erano arrivati in Italia nel 1991. Inizialmente erano andati ad abitare a Villanova del Ghebbo, e Kurti aveva iniziato subito a lavorare come manovale. La coppia poi si è trasferita a Badia Polesine, sopra il capannone di una rimessa, in un dignitoso appartamento ristrutturato. 

I due hanno avuto due figli, Alketa che vive in Svizzera e Arben detto Benny che abita a Masi. Quest’ultimo lavora come dj nelle discoteche del posto. Arben ha preso in gestione il Manfredini, la storica sala da ballo di Badia, che poi è stata trasformata nel club Malibù che sotto la sua guida è diventata «Il Babylon».

Da Ansa il 19 agosto 2022.

Aveva denunciato la scomparsa di suo marito il 30 luglio scorso ai carabinieri di Giffoni Valle Piana, nel Salernitano. A distanza di 18 giorni una donna è stata fermata dai carabinieri, insieme a due suoi figli, di cui uno minorenne: sono tutti indiziati di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e di occultamento di cadavere. 

La vicenda ha avuto inizio a fine luglio quando la donna ha detto agli investigatori che non aveva più notizie del marito. Ma dalla visione delle immagini di videosorveglianza è emerso che l'uomo sarebbe stato colpito in maniera cruenta nel corso di una lite da moglie e figli.

Il racconto della donna, come informano gli inquirenti in una nota, aveva ingenerato il sospetto che la ricostruzione dell'accaduto non corrispondesse a quanto verificatosi. Così gli investigatori hanno puntato da subito alla visione delle immagini riprese dagli impianti di videosorveglianza della casa dell'uomo. Sono emersi dettagli agghiaccianti. Il delitto sarebbe avvenuto sotto gli occhi di un altro figlio della donna, un ragazzino di appena 11 anni.

La vittima sarebbe stata colpita più volte. Colpi inferti anche quando era a terra, ormai inerte. E poi dopo l'omicidio all'uomo sarebbe stata amputata una gamba infilata poi in un sacchetto di plastica. Al momento sono in corso le ricerche del cadavere. Gli investigatori stanno setacciando, con la collaborazione dei vigili del fuoco e soccorso alpino, un dirupo sulle montagne di Giffoni. Gli investigatori stanno lavorando anche per stabilire le cause che hanno scatenato la violenta lite poi sfociata nella brutale aggressione. 

Felice Naddeo per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 19 agosto 2022.

Monica Milite, nel ruolo di una moglie disperata, il 30 luglio si era recata alla stazione dei carabinieri di Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno. In lacrime, aveva chiesto aiuto ai militari: «Mio marito è scomparso». Il coniuge, Ciro Palmieri, panettiere 43enne nel paese vicino, Giffoni Sei Casali, uomo abitudinario, al massimo della trasgressione avrebbe fatto una chiacchierata con gli amici al bar sorseggiando qualcosa. 

Addirittura, la consorte si era rivolta al programma Rai «Chi l’ha visto» nel tentativo di avere informazioni del marito. Tutto molto strano, insomma. A tal punto che il racconto della coniuge non aveva convinto i militari: «Mi ha detto di preparargli una busta con i vestiti del lavoro - erano state le parole della donna - e se li è fatti consegnare davanti al cancello d’ingresso di casa».

Ma dopo due settimane di indagini, i carabinieri hanno ricostruito un quadro agghiacciante: Ciro Palmieri è stato ammazzato dalla moglie e da due figli, uno ventenne, Massimiliano Palmieri, e l’altro di appena quindici anni. E il cadavere lanciato in un dirupo. Tutto sotto gli occhi del terzo figlio, di appena undici anni. Il movente è una reazione alle violenze domestiche dell’uomo. Che anche quando è stato ammazzato stava inveendo contro la moglie. I tre sono ora in stato di fermo, accusati di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e di occultamento di cadavere: i due maggiorenni in carcere, il 15enne in un istituto di pena minorile. 

Le coltellate

I carabinieri hanno ottenuto le prove, e soprattutto le immagini del cruento omicidio, dai sistemi di sorveglianza dell’abitazione. Il video era stato sovrascritto, ma i tecnici dell’Arma sono comunque riusciti a recuperare i frame originali. E la visione è stata agghiacciante. In casa era scoppiata una lite, Ciro Palmieri si era scagliato contro la moglie, che ha reagito lanciandosi a sua volta contro il marito armata di coltello. I due figli l’hanno seguito nell’aggressione, anche loro con lame alla mano. L’hanno colpito più volte. L’uomo, già esamine a terra, ha ancora subito un gran numero di coltellate da parte dei tre. Il tutto sotto lo sguardo del terzo figlio di undici anni. 

L’occultamento

Agli assassini restava il compito di nascondere il cadavere dell’uomo. Troppo grande e pesante da poter trasportare. A quel punto gli hanno amputato una gamba e l’hanno chiusa in una grande busta di plastica, per poi buttarla in un dirupo sulle montagne vicino Giffoni. 

Nello stesso posto, alla fine, è stata lanciata la parte rimasta del corpo. In quella gola, dopo che i tre fermati hanno rivelato la zona dell’occultamento, i carabinieri hanno cercato quel che resta del corpo senza vita di Ciro Palmieri. Sono bastate poche ore per rinvenire, in località Curticelle, tra i monti di Giffoni Valle Piana, il cadavere del panettiere.

Il sindaco: «Uno choc per tutti»

«Questa è una di quelle giornate che un’intera comunità non vorrebbe vivere mai - ha detto il sindaco Antonio Giuliano - tanto sgomento per un dramma incredibile, uno choc per tutti. La notizia di questa mattina mi ha lasciato un grande dolore. Pensare che la nostra comunità e in particolar modo la tranquillità di una frazione come quella di Curticelle possa venir scossa in maniera così atroce lascia veramente tanto dolore e rammarico, con un gesto lontano anni luce da quanto la mente umana possa anche soltanto immaginare».

Estratto dell’articolo di Marina Lucchin per “Il Messaggero” il 30 Agosto 2022.

«Sono stata io a uccidere e a fare a pezzi mio marito. Lui voleva lasciarmi e portare la sua amante a vivere in casa nostra». Ma l'amante dell'uomo, in realtà, esisteva solo nei vaneggiamenti della sua mente annebbiata, nelle farneticazioni di una donna malata, ossessionata dalla paura di venire abbandonata e lasciata senza mezzi di sussistenza.

Così, come nelle più macabre storie mitologiche dell'antichità, si è conclusa in modo agghiacciante l'indagine sull'omicidio del pensionato 71enne di Badia Polesine, Shefki Kurt, il cui cadavere orrendamente smembrato è stato ripescato nel canale Adigetto tra il 28 e il 31 luglio scorsi.

Lo spietato killer non è - come avevano pensato in un primo momento gli inquirenti, vista la brutalità dell'omicidio - un criminale assassino, magari affiliato a qualche banda malavitosa che voleva farla pagare alla famiglia Kurti per qualche debito non saldato. No. L'atroce delitto è stato compiuto dalla moglie della vittima, Nadire, 68 anni, albanese come lui, da trent' anni residente in Polesine, con qualche acciacco che le impedisce di camminare agevolmente e disturbi psichiatrici che l'affliggono da anni. (…)

IL LITIGIO Tutto sarebbe partito dall'ennesimo litigio che i due avrebbero avuto. «Mio marito aveva un'altra, aveva anche un microchip nell'orecchio con cui le parlava sempre. Anche io sentivo la voce di lei. Voleva avere 90mila euro da Shefki».

«Mi ha puntato un coltello qui (indicando la pancia, ndr) e allora io l'ho colpito». Per farlo, ha usato un'accetta, quella che il marito utilizzava per spaccare la legna. L'ha affondata nella nuca. Lui è caduto sul letto già mortalmente ferito. Ma lei ha continuato ad accanirsi su Shefki, l'uomo che aveva sposato più di 40 anni fa in Albania e con cui aveva avuto due figli, fin quasi a staccagli la testa.

Poi, ha trascinato con un lenzuolo il cadavere fino in bagno, trasformandolo in un mattatoio: qui con folle lucidità l'ha smembrato, ha infilato ogni parte - una per una - nei sacchi neri della spazzatura e ha messo tutto nel freezer di casa, in attesa che calasse la notte. Quindi, col favore delle tenebre, portando con sé volta per volta parte del macabro fardello, è scesa per le due rampe di scale fino ad arrivare alla strada, ha percorso la sessantina di metri che la separavano dall'argine dell'Adigetto e ha gettato i miseri resti del marito, la mannaia e i coltelli con cui l'ha fatto a pezzi dentro al canale. Una volta a casa ha ripulito tutto, poi ha chiamato il figlio, dicendo che il padre l'aveva maltrattata e dopo la litigata se n'era andato di casa.

(…) Dopo le ultime verifiche, sabato mattina la donna è stata arrestata. Una perizia, già disposta, ne verificherà le condizioni psichiche. Intanto è piantonata nel reparto di Psichiatria accusata di omicidio e distruzione di cadavere.

Estratto dall’articolo di Michela Allegri per “Il Messaggero” il 21 agosto 2022.

Anni di violenze e di vessazioni e, il 29 luglio, l'epilogo più cruento: una lite furibonda che culmina con l'omicidio di Ciro Palmieri, 43 anni, ucciso e fatto a pezzi dalla moglie e da due figli, uno dei quali di soli 15 anni. Ed è stato proprio lui, il più piccolo, sentito informalmente dalla Procura dei minori di Salerno, a commentare lucido e freddo di non essere pentito e di sentirsi addirittura sollevato dalla morte del padre. 

Gli interrogatori di convalida degli indagati, Monica Milite, il figlio Massimiliano, 20 anni, e il quindicenne, sono stati fissati per lunedì. I tre sono stati fermati due giorni fa con l'accusa di omicidio aggravato dalla crudeltà e occultamento di cadavere.

Il corpo di Palmieri, panettiere di Giffoni valle Piana, in provincia di Salerno, è stato fatto a pezzi con un machete e infilato in sacchi di plastica. I suoi familiari lo hanno tenuto in casa per un giorno prima di gettare i resti in un dirupo. Poi, hanno nascosto le armi utilizzate in un giardino poco lontano dalla casa di via Marano. 

Il 30 luglio, la Milite ha denunciato la scomparsa del marito, ma la sua versione non aveva convinto i carabinieri. A insospettire gli inquirenti, i rapporti difficilissimi all'interno della coppia, di cui vicini e amici erano a conoscenza, così come il parroco del paesino. 

Anche le forze dell'ordine sapevano: nel 2015 la Milite aveva chiamato il numero antiviolenza chiedendo aiuto e dicendo che il marito era aggressivo e la maltrattava. Aveva sporto denuncia e ne erano scaturiti prima un provvedimento cautelare - il divieto di avvicinamento - e poi un processo a carico di Palmieri. Durante le udienze, però, la donna aveva completamente ritrattato le accuse. […]

È il pomeriggio del 29 luglio quando in casa Palmieri va in scena l'ultima lite, violentissima, ripresa dal sistema di sorveglianza. Il video, che era sovrascritto, è stato recuperato da un consulente tecnico nominato dalla Procura e ha permesso di ricostruire l'orrore, fotogramma dopo fotogramma. 

Le telecamere immortalano il panettiere mentre lancia del liquido - andrà chiarito di cosa si tratti - in faccia alla donna. Lei afferra una mazza e inizia a colpire il marito. Poi, lo accoltella e i figli si uniscono alla mattanza. La violenza è totale: i colpi sono decine e proseguono anche mentre il panettiere è in terra senza vita. Utilizzando un machete, i tre iniziano a fare a pezzi il suo corpo. Infilano una gamba dentro a un sacco della spazzatura. Il ragazzino di 11 anni stringe forte a sé il cagnolino di famiglia. [...] 

Per il momento, nessuno degli indagati avrebbe mostrato segni di pentimento. In attesa dell'interrogatorio di lunedì, madre e figlio maggiorenne sono nella casa circondariale di Fuorni, a Salerno, sorvegliati a vista. «Lei mi diceva: se n'è andato, non è tornato, sono venuti a prenderlo delle persone di un brutto giro. Penso che il mostro non sia lui - ha detto al Tg3 Luca Palmieri, fratello della vittima - Non giustifico e non ammetto le violenze, ma non è possibile arrivare da uno schiaffo ad una atrocità del genere».

Felice Naddeo per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

«La vittima vera di questa storia terribile è il piccolino, che resterà scioccato per tutta la vita... siamo tutti in pena per lui, testimone di un orrore indescrivibile». Luca Palmieri, 40 anni, è uno dei fratelli di Ciro, il panettiere ucciso - nel pomeriggio del 29 luglio nel suo casolare a Giffoni, nel Salernitano - dalla moglie Monica Milite e da due dei quattro figli, il ventenne Massimiliano e il terzogenito quindicenne. 

«Lo hanno tenuto fermo, massacrato a coltellate...» racconta Luca, il cui primo pensiero è per quel nipotino che, richiamato dalle urla del padre, lo ha visto morire in cucina. «Siamo cinque fratelli, Ciro compreso, uniti, affiatati. Compatibilmente con la decisione che prenderà il Tribunale dei Minori - l'undicenne per ora è affidato i servizi sociali del Comune, ndr - noi siamo pronti ad accoglierlo. Siamo con lui». 

Nel descrivere i due nipoti coinvolti nel delitto, Luca usa parole meditate: «Ragazzi in gamba, affiatati con il padre.

Ciro, uomo di campagna, ne era orgoglioso, aveva insegnato loro a cavalcare, portare il trattore, i segreti dei boschi.

Sgobbava per farli studiare e ne era stato ripagato. Massimiliano è un bravo studente, appassionato di cinema, d'estate lavorava al Festival di Giffoni. Anche l'altro è bravo». Luca, poi, rivolge «un pensiero a mia madre, la loro nonna: non so come ho trovato il coraggio per dirle tutto, Era incredula, ho pensato che sarebbe morta per il dolore».

L'indagine ruota in gran parte attorno a quanto mostrato dalle telecamere di sicurezza volute in casa da Ciro per controllare ogni movimento della moglie alla quale consentiva di uscire, al massimo, per fare la spesa. I vicini hanno raccontato ai carabinieri di aver sentito spesso la coppia litigare e urlare. Sette anni fa lei aveva anche denunciato lui per maltrattamenti. Ma non sarebbero mai scattati provvedimenti per un successivo ripensamento dovuto, è l'ipotesi, a pressioni di altri familiari.

Sono le 14 del 29 luglio: il video mostra l'ennesimo alterco tra i due. Ciro tira una lattina contro la moglie che reagisce colpendolo inizialmente con una scopa ma poi apre un cassetto, tira fuori un grosso coltello e lo pugnala. Alle urla accorrono i due figli, hanno pure loro delle lame e infieriscono. L'uomo viene afferrato da dietro, viene colpito più volte anche quando è agonizzante a terra. Tutto dura venti minuti. E poi le riprese mostrano madre e due figli intenti nel pulire la cucina. Addirittura segano una gamba per trasportare più agevolmente il cadavere, infilato in un sacco della spazzatura e gettato in un dirupo a tre chilometri da casa. Alle 4 e 30 della mattina - circa 15 ore dopo - i tre escono trascinando il corpo e fanno ritorno mezzora più tardi, dopo essersene sbarazzati.

A insospettire subito gli investigatori è, anche, il taglio che la donna ha sulla mano; non riesce a spiegare come se lo sia procurato: poi le immagini chiariranno che è una conseguenza della furiosa colluttazione. Nel video c'è pure la scena dell'undicenne che entra in cucina richiamato dalle urla del padre, restando impietrito per quel che vede. Il bimbo, assistito dagli psicologi del Comune, adesso è terrorizzato. Persino a chiedergli se abbia fame non risponde. E se lo fa è solo a monosillabi.

Dopo l'arresto, venerdì, madre e figli hanno confessato, permettendo di ritrovare il cadavere. Sono stati recuperati pure i tre coltelli sotterrati non lontano dall'abitazione. Filtra pochissimo dagli interrogatori. «Papà era buono e, assieme, cattivo; picchiava spesso mamma quando si arrabbiava, spaccando tutto» avrebbe detto il quindicenne. Eppure segnalando la presunta scomparsa il 30 luglio, ai carabinieri la donna aveva detto: «Siamo una coppia felice, non so spiegarmi la sua scomparsa».

La donna denunciò la scomparsa: le telecamere cristallizzano l'orrore di Giffoni. Omicidio Ciro Palmieri, ucciso e fatto a pezzi da moglie e due figli davanti a bimbo di 11 anni. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Ucciso a coltellate dalla moglie e dai due figli, uno dei quali di appena 15 anni, davanti agli occhi attoniti dell’altro figlio undicenne. Dopo l’omicidio, il cadavere è stato fatto a pezzi, raccolto in sacchi di plastica e gettato in un dirupo. E’ la ricostruzione dell’orrore avvenuto in un’abitazione di Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno, dove a fine luglio è stato brutalmente ucciso Ciro Palmieri, panettiere della zona.

A cristallizzarla le immagini delle telecamere di videosorveglianza dell’abitazione che moglie e figli avevano provato a sovrascrivere ma un consulente tecnico nominato dalla procura di Salerno è riuscito a recuperare. Per il delitto sono stati fermati nelle scorse ore Monica Milite e i due figli, uno dei quali minorenne. Dovranno rispondere di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e occultamento di cadavere. Ad eseguire il provvedimento emesso dalla procura di Salerno e dalla procura per i Minorenni sono stati i militari in servizio presso la stazione dei carabinieri di Giffoni Valle Piana, insieme al personale della compagnia di Battipaglia.

Le indagini sono partite il 30 luglio scorso dopo la denuncia di scomparsa di Palmieri da parte della stessa moglie. La versione fornita dalla donna non ha convinto sin da subito i militari dell’Arma, generando il sospetto che la ricostruzione della scomparsa non corrispondesse a quanto realmente accaduto. Così è stato disposto il sequestro del registratore dell’impianto di videosorveglianza dell’abitazione con diverse telecamere interne.

Nonostante in un primo momento le riprese del 29 e 30 luglio risultassero già sovrascritte è stato nominato un consulente tecnico per il tentativo di recupero delle immagini. Dalla visione delle immagini reali, che donna e figli avevano provato ad occultare, è emerso un quadro raccapricciante: Palmieri è stato infatti ucciso in seguito a una violenta lite familiare. Aggredito da moglie e figli armati di coltelli, l’uomo è stato pugnalato più volte anche quando era a terra. Il tutto davanti al terzo figlio della coppia, di undici anni.

La furia della donna e dei due figli è proseguita anche dopo la morte dell’uomo: le immagini hanno immortalato l’amputazione di una gamba della vittima, il suo posizionamento all’interno di una busta di plastica e il successivo trasporto, per l’occultamente. Al momento del fermo la donna e i figli hanno indicato il luogo dove avevano gettato il cadavere, un dirupo impervio delle vicine montagne di Giffoni Valle Piana.

Il corpo è stato individuato dalla squadra del distaccamento locale dei Vigili del fuoco e recuperato con il supporto dei reparti speciali speleo-alpino-fluviali e del personale del Cnsas.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Incastrati dai video. Ucciso e fatto a pezzi da moglie e figli, dietro l’omicidio di Ciro Palmieri anni di violenze domestiche. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Agosto 2022.

Anni di violenze domestiche e sopraffazioni. Sarebbe stato questo il contesto in cui è nato il brutale omicidio di Ciro Palmieri, panettiere di 43 anni di Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno, ucciso con più di trenta coltellate dalla moglie Monica Milite, dal figlio 18enne Massimiliano, e dal terzogenito di 15 anni.

Dopo l’omicidio, avvenuto il 29 luglio scorso, il cadavere è stato fatto a pezzi, raccolto in sacchi di plastica e gettato in un dirupo. A cristallizzarla le immagini delle telecamere di videosorveglianza dell’abitazione che moglie e figli avevano provato a sovrascrivere ma un consulente tecnico nominato dalla procura di Salerno è riuscito a recuperare.

Le indagini sono partite il 30 luglio scorso dopo la denuncia di scomparsa di Palmieri da parte della stessa moglie. La versione fornita dalla donna non ha convinto sin da subito i militari dell’Arma, generando il sospetto che la ricostruzione della scomparsa non corrispondesse a quanto realmente accaduto. Così è stato disposto il sequestro del registratore dell’impianto di videosorveglianza dell’abitazione con diverse telecamere interne.

Dalla visione delle immagini reali, che donna e figli avevano provato ad occultare, è emerso un quadro raccapricciante: Palmieri è stato infatti ucciso in seguito a una violenta lite familiare. Aggredito da moglie e figli armati di coltelli, l’uomo è stato pugnalato più volte anche quando era a terra. Il tutto davanti al terzo figlio della coppia, di undici anni.

La furia della donna e dei due figli è proseguita anche dopo la morte dell’uomo: le immagini hanno immortalato l’amputazione di una gamba della vittima, il suo posizionamento all’interno di una busta di plastica e il successivo trasporto, per l’occultamente.

Sono immagini, quelle restituite dalle telecamere, definite “agghiaccianti e cruente” dagli stessi procuratori di Salerno, ordinario e minorile, che in mattinata hanno emesso un fermo d’indiziato di delitto nei confronti della donna e dei due figli

La donna e il figlio 18enne, Massimiliano, sono ora in carcere, mentre il 15enne è in un istituto ed è stato sentito dalla Procura minorile: dovranno rispondere di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e occultamento di cadavere.

Proprio i figli della coppia, scrive Repubblica, non hanno negato i fatti e hanno raccontato come il padre picchiava spesso la madre, rompendo tutto nei frequenti momenti di rabbia. Diversi anni fa proprio Ciro Palmieri era stato colpito da un provvedimento cautelare di allontanamento da casa per violenze, salvo poi farci ritorno.

I tre sono difesi dall’avvocato Damiano Cantalupo: nei prossimi giorni il primo a venire ascoltato dal gip sarà il figlio 15enne, poi sarà la volta della madre e del fratello maggiore. Si è chiuso nel silenzio invece il bambino 11enne che ha assistito all’omicidio, mentre il fratello della vittima sui social ha pubblicato un duro post contro gli assassini.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

«Loretta a 84 anni portata in carcere di notte senza nemmeno farle prendere la dentiera». Paolo Foschi

su Il Corriere della Sera il 15 Agosto 2022.

La denuncia di Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti a Roma: «Ha accoltellato il marito per difendersi. Perché non è stata trovata una misura alternativa?». La donna è stata sarta di Sofia Loren e Mastroianni. 

«Mi hanno preso di notte, ero in camicia da notte, non mi hanno dato nemmeno il tempo di vestirmi e mi hanno portato in carcere a Rebibbia»: è il racconto di Loretta, una donna di Roma di 84 anni, ex sarta che in passato ha cucito abiti anche per Sofia Loren e Marcello Mastroianni, arrestata il 9 agosto scorso per aver accoltellato il marito durante una lite familiare. La storia è stata raccolta e resa nota sui social da Gabriella Stramaccioni , Garante dei detenuti del Comune di Roma. «Io parlavo, parlavo, mio marito mi diceva di smettere, ma io continuavo e lui ha cominciato a picchiarmi. Mi sono rifugiata in cucina, ma lui è riuscito a entrare e mi sono difesa con un coltello» ha confidato la donna alla Garante dei detenuti. L’uomo ha riportato ferite varie ed è stato ricoverato in prognosi riservata, ma non è in pericolo di vita. E la donna, per ordine del Gip, è stata trasferita in carcere non avendo altro posto dove andare: «Non ho figli, l'unica parente che è una sorella ma è malata di tumore».

«Oggi Ferragosto nelle Rebibbie» ha scritto Gabriella Stramaccioni su Facebook -. C’è attesa per la visita del capo del Dap - scritto sul social -. Fra i vari incontri di questa mattina mi ha colpito quello con Loretta all’ infermeria del femminile. Loretta ha 84 anni . È stata portata in questi giorni. Prelevata dalla sua casa in pigiama senza la possibilità di prendere nulla. Neanche la dentiera. Certo, forse in quel momento non vi erano alternative, ma le alternative vanno pensate a costruite. A partire dai Consigli di aiuto Sociale. In un momento così drammatico per il carcere come si può pensare di recludere una donna di 84 anni ? Certo che la faremo uscire . Ho preso impegno con lei per la ricerca di un alloggio. Ma altrettanto vero che la signora non doveva entrare. Della serie: una telefonata allunga la vita. Anche quella che le istituzioni preposte possono fare per attivare i servizi dedicati».

Contattata al telefono dal Corriere, Gabriella Stramaccioni nel pomeriggio ha poi rivelato di aver già individuato una casa di accoglienza di suore pronta a ospitare la donna. «È una storia di solitudine e di disagio sociale, ma la risposta dello Stato non può essere mandare in carcere una donna di 84 anni, che peraltro ha solo cercato di difendersi. Dopo l'accoltellamento era molto agitata e continuava a minacciare il marito e questo ha complicato la situazione, ma non si può trattare così una persona a quell'età e che vive in una condizione di disagio». E aggiunge: «In carcere per fortuna ha trovato in altre detenute degli angeli che l’accudiscono: nei primi giorni era in isolamento come misura cautelare per il Covid, adesso è in infermeria dove una ragazza se ne prende cura come se fosse sua nonna. E altre detenute le hanno offerto ciò di cui ha bisogno: un maglioncino, il dentifricio e le altre piccole cose indispensabili».

Da gazzettadiparma.it l'11 agosto 2022.

La sua violenza è esplosa definitivamente in strada, quando si è accorto che la donna - nella sua fuga dopo la lite - aveva chiesto aiuto ai carabinieri. Lo sparo davanti agli occhi dei militari, la moglie che si accascia colpita a una spalla: per lei - una 52enne di Soragna - la corsa verso il Maggiore con una ferita che fortunatamente non la mette in pericolo di vita, per lui - un 62enne del paese, le manette immediate. 

E' un femminicidio solo sfiorato quello che la scorsa notte alle 2 ha avuto come teatro Soragna. Un litigio acceso nell'abitazione in cui abita la coppia, poi lei che - spaventata- scappa in auto.

Si dirige verso la stazione carabinieri di Soragna e nel frattempo chiama il 112 e parla con la centrale operativa di Fidenza, che manda l'auto in servizio - quella dei militari di Busseto - nello stesso luogo in cui sta arrivando la donna. 

Nel frattempo anche il marito prende l'altra auto, porta con sè la pistola che detiene regolarmente e la insegue: manovre pericolosissime per costringerla a fermarsi. Ci riesce in via 7 Fratelli Cervi, ormai davanti alla caserma dei carabinieri. La donna sa che i militari stanno arrivando in suo aiuto e scende dall'auto. 

L'uomo torna alla sua contestazione verbale, poi quando vede avvicinarsi la gazzella del 112 è questione di pochissimi secondi: si lancia verso l'auto, prende la pistola e spara alla moglie colpendola alla spalla. 

A quel punto i carabinieri si gettano verso l'uomo, gli impediscono di sparare un eventuale secondo colpo e lo bloccano. Immediata la richiesta di soccorso al 118: la donna è stata trasportata al Maggiore e fortunatamente non è in pericolo di vita e non sarà nemmeno necessario un intervento chirurgico, il proiettile era già fuoriuscito. L'uomo invece è stato arrestato per tentato omicidio. 

Ivrea, la prescrizione cancella 22 anni di violenze. La vittima: «Io, senza protezione. Sono amareggiata». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022.

Agli atti restano le parole contenute nelle querele depositate tra il 2014 e il 2015, quando la donna ha trovato il coraggio di ribellarsi al marito. 

«Sono amareggiata, ma sapevo che poteva accadere». Ci sono delusione e rabbia nelle parole della donna che ora deve fare i conti con anni di violenze e maltrattamenti cancellati da una sentenza in cui a decidere è stato il tempo. La prescrizione ha parlato prima ancora che venissero analizzate le prove e che la vittima, una madre di 48 anni, avesse modo di raccontare i 22 di abusi subiti da un marito che non le ha risparmiato alcuna umiliazione. «Ci scusiamo tutti», ha detto il giudice Stefania Cugge prima di lasciare l’aula del Tribunale d’Ivrea. Agli atti restano le parole contenute nelle querele depositate tra il 2014 e il 2015, quando la vittima ha trovato il coraggio di ribellarsi. «All’epoca ho avuto molta paura, non mi sentivo protetta. Oltre alla famiglia, l’unica persona che mi ha sostenuto è stata la mia avvocata, Sonia Maria Cocca. Ricordo che a volte quando mi recavo dai carabinieri, mi dicevano “di nuovo qui!” Era sconfortante anche se loro, quando li chiamavo, intervenivano subito».

Il capo d’imputazione contro l’ex marito 57enne (ora prosciolto) è un elenco di soprusi e vessazioni: le impediva di lavorare, di scegliere gli abiti da indossare. Non solo, la pedinava e la costringeva a un’intimità che lei non desiderava. E poi le botte con cadenza regolare, anche quando era incinta della loro prima figlia. In un’occasione, dopo averle rubato il cellulare, l’ha costretta a raggiungerlo al cimitero dove giace la tomba del suo primogenito, deceduto a 14 anni in un incidente stradale. E lì le ha urlato: «Se rivuoi il telefono, giura sulla tomba di tuo figlio che vuoi stare come». Nel 2010 l’ha spinta verso un tentativo di suicidio. Tutto cancellato da un colpo di spugna.

«Ho divorziato, cambiato casa, numero di cellulare e con il tempo le tensioni sono diminuite — racconta —. Ho riacquistato un po’ di serenità, ma continuo ad essere arrabbiata. Non solo lui non è stato condannato, ma non mi risarcirà neanche i danni. E le conseguenze di quanto ho vissuto le porto ancora sulla pelle». Ci sono ferite che non si cancellano: «Ancora adesso rabbrividisco al ricordo dei giuramenti sulla tomba del mio primo figlio. Dico “mio” perché il padre non era il mio ex marito. È morto a 14 anni e tra pochi giorni sono 17 che è mancato». Seppur con fatica, la signora si stava preparando a testimoniare, a rivivere quei tormenti. Invece, «oltre al danno, la beffa»: «In seguito ai maltrattamenti ho avuto malattie serie: tumore, setticemie, svenimenti. Ora devo pagare le visite e le medicine e ho solo un lavoro part-time a causa dei problemi di salute». Il procedimento risale al 2015, prima del «codice rosso», e all’epoca la prescrizione era fissata a 6 anni (ora a 12). «Oggi con questa nuova legge le donne sono più tutelate — spiega l’avvocata Cocca —. Certi reati adesso seguono un percorso prioritario».

La sentenza mette in luce anche le difficoltà in cui lavora la Procura di Ivrea. «Qui la situazione è drammatica. C’è da stupirsi non quando i fascicoli vanno in prescrizione, ma quando non ci vanno», sottolinea il procuratore capo Gabriella Viglione. «In questo momento — spiega — ci sono 17 mila fascicoli pendenti, non considerando quelli a carico di ignoti. I pm, secondo la pianta organica, dovrebbero essere nove. Ma ce ne sono cinque, quattro dei quali arrivati nel 2021. Ognuno di loro, quindi, deve trattare una media di più di tremila casi a fronte delle poche centinaia che spettano ai colleghi di altre sedi».

Da corriere.it il 9 agosto 2022.

È stato arrestato l’uomo che il 27 luglio ha picchiato una donna in una palestra di Pescara. Un’aggressione violenta documentata dalle telecamere interne. L’uomo si chiama Edmond Xhafa, albanese, 50 anni, e i carabinieri di Pescara guidati dal colonnello Riccardo Barbera gli hanno notificato la custodia cautelare in carcere, perché era già detenuto per altri reati.  L’ordinanza è stata disposta dal gip del Tribunale di Pescara, Nicola Colantonio, su richiesta della pm, Benedetta Salvatore. 

La giovane vittima frequentatrice della palestra era stata colpita dal culturista con un forte pugno al viso. Una volta finita a terra era stata trascinata per i capelli, l’uomo gli aveva lanciato un peso di 12 chili senza colpirla, poi l’aveva inseguita e tenuta chiusa in un locale della palestra. 

Alla donna, visitata in ospedale, era stata data una prognosi di 22 giorni. Il reato contestato a Xhafa è aggravato in base all’articolo 612 bis (cosiddetto codice rosso). I carabinieri hanno infatti ricostruito che i motivi dell’aggressione «sarebbero riconducibili alla gelosia».

Tra i due non c’è stata mai alcuna relazione sentimentale, ma l’uomo avrebbe provato sentimenti non corrisposti dalla ragazza. Il cinquantenne avrebbe messo in atto nei confronti della vittima «reiterate condotte persecutorie — viene chiarito in una nota — consistite nell’aggredirla verbalmente ogni qualvolta la vedeva in palestra intenta a parlare con un ragazzo, pretendendo spiegazioni a riguardo, nel controllarla continuamente, dicendole che doveva starsene a casa e che non sarebbe dovuta uscire con nessuno se non con lui».

E ancora «nell’insultarla con parole del tipo “schifosa di m...”, nel minacciarla che se l’avesse vista in giro con qualche ragazzo le avrebbe sparato ad una gamba, così non avrebbe potuto più allenarsi, precisandole che non aveva niente da perdere».

Estratto dell'articolo di Paolo Mastri per “il Messaggero” l'11 agosto 2022.

Lei, Alessia, 21 anni, fisico scolpito da lunghe ore di allenamento, fa la parte del fantasma: entrata in scena per una manciata di secondi, tanto è durata la tremenda aggressione a calci e pugni ripresa dalle telecamere della palestra Audacia di Pescara il 27 luglio scorso, e subito inghiottita da una nebulosa in cui si mescolano paura, riserbo di amici e investigatori, ma anche indifferenza dei più e incertezza di ruoli. Nonostante le evidenze e l'eloquenza delle immagini, non è stata lei a denunciare. Per procedere, i carabinieri hanno dovuto attendere un referto medico di aggravamento, che ha spianato la strada all'intervento di ufficio della Procura, con la corsia preferenziale del Codice rosso.

A lui, Edmond Xhafa, 48 anni, nome d'arte Edi, culturista piuttosto noto, una montagna di muscoli prestata al servizio d'ordine di discoteche e locali notturni, in questa storiaccia di cieca violenza di genere spetta di diritto il ruolo del cattivo. Non soltanto per l'accusa di «atti persecutori continuati», stalking secondo la definizione in voga, contenuta nell'ordinanza di custodia adottata dal Gip Nicola Colantonio dopo le indagini lampo sul pestaggio in palestra, immagini diventate virali in poche ore scatenando in città un serrato dibattito sul livello della sicurezza pubblica.

A completare il ritratto di un uomo senza scrupoli e senza freni è anche il fatto che il provvedimento ha raggiunto in carcere Edi, ancora oggi un mito per tanta parte del mondo delle palestre: l'albanese era già dentro per una storia di cocaina e anabolizzanti, condita dal possesso di una pistola risultata rubata anni fa a Francavilla, effetto collaterale dell'aggressione dal momento che droga e arma sono saltate fuori nel corso di una perquisizione dei carabinieri. (…)

Meno netto, nonostante i progressi delle indagini e il punto fermo dell'arresto, è il contesto dell'aggressione. La voce che vuole i due legati da un rapporto malato, lei fortemente presa, lui visceralmente geloso, si scontra con la versione ufficiale dei carabinieri, che parlano di un corteggiamento insistente da parte dell'albanese, mai corrisposto dalla ragazza. Non spiega fino in fondo la determinazione a non sporgere denuncia, anche se a cose fatte, via Facebook, Xhafa è stato esplicito con i presenti: «Se mi denunciate vi ammazzo».

Venaria (Torino), uccide a bastonate la moglie dopo una lite: arrestato. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.

In via Natale Sandre sono intervenuti i carabinieri: a dare l’allarme i vicini, che hanno sentito le urla della coppia (73 e 74 anni)

L’ennesimo femminicidio nel Torinese si è verificato questa mattina, 7 agosto, a Venaria, in via Natale Sandre 14. Intorno alle 10.30 Giovenale Aragno, 73 anni, originario di Fossano, ha ucciso la moglie Silvana Arena, di 74, colpendola alla testa con un bastone di legno. L’allarme è stato dato dai vicini, che hanno sentito la coppia litigare.

Sul posto sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Venaria Reale. I militari hanno trovato la donna ormai priva di vita e accertato le responsabilità del marito. Al termine delle attività coordinate dalla Procura di Ivrea, il 73enne verrà trasferito in carcere.

«Una famiglia perbene, persone tranquille e molte riservate, non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere». Sono sconvolti i residenti di via Sandre 14, l’elegante complesso residenziale a due passi da Torino. A sentire le prime urla che arrivano dall’appartamento del primo piano, verso le 10.15, sono state alcune vicine che si trovavano in cortile: «La signora gridava “aiuto”, ma non si capiva da dove venissero — raccontano —. Abbiamo chiamato il 112 e poi c’è stato il silenzio». Dopo aver massacro la moglie a bastonate, anche Aragno ha avvisato le forze dell’ordine, parlando di una generica aggressione e poi è uscito dalla camera da letto per aspettare l’arrivo dei carabinieri.

La coppia ha due figlie e, in base alle prime ricostruzioni degli investigatori della compagnia di Venaria, sembra che questa mattina marito e moglie abbiano litigato per questioni relative alla gestione della più grande, che è ricoverata in una struttura fuori dal Piemonte. Aragno ha colpito la moglie con numerosi colpi inferti con un bastone lungo 66 centimetri, sequestrato dai carabinieri. Forse lo stesso con il quale il 73enne, che appena poteva «fuggiva» in montagna in sella alla sua bicicletta, batteva sul soffitto per invitare i vicini ad abbassare il volume della televisione. «Ha un carattere un po’ particolare — raccontano —. Ma non è mai successo nulla che potesse far pensare a un epilogo così drammatico».

Venaria, pensionato uccide la moglie di 73 anni a bastonate. Arrestato dai carabinieri. Cristina Palazzo,  Sarah Martinenghi su La Repubblica il 7 Agosto 2022. 

E' successo questa mattina, l'allarme lanciato dai vicini che hanno sentito le urla nell'appartamento

Tragedia questa mattina a Venaria. Un uomo di 73 anni ha ucciso la moglie, Silvana Arena, pensionata di 73 anni probabilmente a bastonate. Il femminicidio è stato commesso poco dopo le 10,30 all’interno dell’appartamento della coppia di anziani. L’uomo è stato arrestato dai carabinieri che sono al lavoro per ricostruire la dinamica. L’allarme é stato lanciato dai vicini di casa che hanno sentito la coppia litigare e hanno avvertito le forze dell’ordine. All'origine della tragica lite ci sarebbe stata una discussione sulla gestione di una figlia ospite di una struttura a Terni. 

Giovenale Aragno, il marito, avrebbe atteso in casa, ancora insanguinato, l’arrivo dei carabinieri e avrebbe subito ammesso prima di essere portato via, nel carcere di Ivrea. Nel condominio di via Natale Sandre 14/1, i condomini hanno appreso la notizia con sgomento: “Mai ci saremmo aspettati una cosa del genere, mai da una coppia come loro“ racconta la vicina del terzo piano, mentre l’altra del piano di sopra ogni tanto aveva a che ridire proprio con Aragno. “Non sopportava il volume della televisione e sbatteva sul soffitto con il bastone, per farcelo abbassare. Ma non li abbiamo mai sentiti litigare”. 

La coppia ha due figlie, che da tempo vivono fuori casa. La vittima su Facebook rivolgeva sempre un pensiero alle persone in difficoltà. “Gli auguri più belli a chi in questo momento non sta tanto bene” aveva scritto solo poche ore prima di essere uccisa dal marito che l’ha ripetutamente colpita con un bastone di legno al corpo e alla testa. Forse in quell’augurio c’era una disperata richiesta di aiuto, oppure si trattava  solo di un gesto di sensibilità, visto che tutti nel condominio l’hanno descritta come una persona estremamente gentile e sempre disponibile.

Litiga con la moglie poi la uccide a bastonate: pensionato arrestato. L'uomo l'ha colpita spaccandole la testa. I vicini: "Si sa che discutevano da tempo". Tiziana Paolocci l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

Una parola di troppo nel corso dell'ennesima discussione è stata fatale. Così ha preso un bastone e chiuso la lite, colpendo la moglie ripetutamene fino a ucciderla.

Ieri Venaria, piccolo paese in provincia di Torino, è stato sconvolto dall'omicidio di Silvana Arena, 74 anni. A toglierle la vita è stato il marito Giovenale Aragno, 73 anni, che l'ha massacrata nel loro appartamento in via Natale Sandre, al civico 14. L'omicidio è avvenuto quando erano da poco passate le 10.30. A occuparsi delle indagini sono i carabinieri di Venaria, guidata dal capitano Silvio Cau, ma la dinamica sembra ormai ben definita.

La donna e il marito erano entrambi pensionati. Lui, è originario di Fossano, in provincia di Cuneo, città in cui era nata la vittima. Ieri mattina hanno iniziato a discutere, sembra per motivi legati probabilmente alla gestione della figlia, che da tempo non viveva più con loro. La lite è stata sentita anche dai vicini. Parole grosse, urla e offese. Ad un certo punto l'uomo ha afferrato un bastone e si è scagliato contro la moglie, raggiunta alla testa da diversi colpi.

A dare l'allarme sono stati i vicini di casa, che hanno chiamato i carabinieri. Quando i militari e l'ambulanza sono giunti sul posto per la 74enne non c'era più nulla fa fare. Giaceva a terra con il cranio fracassato. Nell'appartamento è stato trovato e recuperato anche il bastone che il marito aveva usato per ucciderla.

Giovenale Aragno, al termine delle attività coordinate dalla Procura della repubblica di Ivrea, è stato portato in carcere a Ivrea. «Girava voce che litigassero da tempo, ma credo che nessuno potesse immaginare una cosa simile», ha raccontato una vicina di casa, sconvolta dal delitto. Stando alle voci dei vicini, che riferiscono di dicerie e non di fatti a cui abbiano assistito personalmente, pare che tra i due pensionati già da tempo non scorresse buon sangue.

«Un pensiero commosso lo rivolgiamo alla vittima e alla sua famiglia per questo gesto di follia che lascia allibita e sconvolta tutta la nostra comunità cittadina», ha commentato il sindaco di Venaria, Fabio Giulivi.

A Soragna, nel Parmense invece, un uomo di 60 anni ha inseguito la moglie, di dieci di meno, sparandole addosso dei colpi di pistola. Prima ha cercato di speronare la sua auto, poi l'ha ferita con un proiettile a una scapola, con una pistola regolarmente detenuta. Lei impaurita ha telefonato al 112 dirigendosi verso la caserma, dove erano state fatte convergere due pattuglie. E proprio davanti ai militari, l'uomo ha sparato altri due colpi. È stato così arrestato in flagranza per tentato omicidio.

L'accoltellatore di Marta liberato (e già a Londra) per un errore giudiziario. Inesatta la notifica. Il 15enne colpì con 23 fendenti: pena di 5 anni. Fuori dopo 16 mesi. Tiziana Paolocci il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Sedici mesi fa ha massacrato con 23 coltellate Marta Novello, una donna che non aveva mai visto prima e aveva scelto a caso per procurarsi i soldi per comprare il «fumo». E ora è libero, libero di colpire ancora o anche solo di passare un'estate tranquilla, tanto che è volato a Londra con la mamma.

È polemica attorno alla scarcerazione del quindicenne, condannato per aver ferito la 26enne, che faceva jogging nella periferia di Mogliano Veneto. Una vicenda che aveva scosso l'opinione pubblica. L'efferatezza dell'aggressione e la giovane età della vittima avevano lasciato senza parole gli abitanti del Trevigiano, che adesso tuonano alla notizia che è fuori prigione per un errore burocratico.

Il quindicenne il 22 marzo 2021 aveva deciso di rapinare una persona a caso, per avere i soldi per comprare l'hashish. Al giudice aveva raccontato che con gli amici era arrivato a farsi nell'ultimo anno nove canne al giorno. Così era salito in bicicletta e aveva inseguito la ragazza che faceva jogging nel verde. Prima l'aveva trascinata in un fossato ai lati della strada, poi l'aveva colpita ventitré volte con un coltello. Per fortuna lei si era salvata, dopo essere stata sottoposta a diversi interventi chirurgici.

Il colpevole in primo grado era stato condannato dal Tribunale dei Minori di Venezia a sei anni e otto mesi di reclusione. Pena ridotta successivamente in Appello a 5 anni. Il 21 luglio, in attesa del terzo grado di giudizio, il minore era stato scarcerato per scadenza dei termini per la custodia cautelare in prigione. Il giudice aveva così disposto il trasferimento in una comunità, ma tale decisione non è stata tempestivamente notificata al ragazzo, che si è quindi ritrovato libero.

Nella compilazione dei documenti, infatti, sarebbe stata erroneamente indicata la data del 20 settembre, anziché il 20 luglio, come termine ultimo per la comunicazione. «Da quel che sappiamo si troverebbe a Londra con la madre - ha spiegato il legale di Marta, l'avvocato Alberto Barbaro -. Per la studentessa, i suoi familiari e l'intera comunità sono stati giorni di preoccupazione, considerando che le sentenze hanno riconosciuto la pericolosità sociale del soggetto». «Lo Stato riuscirà a riportare in Italia l'aggressore affinché sconti quella pena definitiva che dovrebbe avere lo scopo di recuperarlo? - ha aggiunto Barbaro -. Per Marta non è facile accettare l'idea che appena sedici mesi dopo averle inferto 23 coltellate, il responsabile sia già a piede libero».

Una perizia ha riconosciuto l'adolescente affetto da una parziale infermità e il suo legale ha presentato ricorso in Cassazione per annullare la condanna. Ma le sbarre del carcere il ragazzo potrebbe non vederle mai più, magari scegliendo di rendersi irreperibile. Indignata anche la comunità di Mogliano Veneto. «Povera Marta - tuonano i vicini della donna - beffata dalla giustizia che avrebbe dovuto proteggerla ora».

«La notizia appare sconcertante e crea evidente disorientamento nella opinione pubblica - sottolinea il deputato forzista Pierantonio Zanettin - appare inaccettabile che tale soggetto, la cui pericolosità sociale è evidente, sia già a piede libero».

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intanto attraverso gli uffici del suo gabinetto, vuole vederci chiaro e ieri ha chiesto all'Ispettorato di svolgere «i necessari accertamenti preliminari, formulando all'esito valutazioni e proposte» per far luce sul caso.

Chiara Gualzetti: al killer 16 anni. Il padre: «Fatta giustizia, ma volevo di più». Luca Muleo su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.

Il dolore del papà della ragazzina uccisa da un amico nel giugno dell’anno scorso: «Ora però bisogna cambiare la legge sui minori»

«Bella domanda. Dai, possiamo dire di sì, anche se la giustizia è altro, possiamo dire che è stata fatta». Il sorriso amaro di Vincenzo Gualzetti è una naturale smorfia interrotta da un lungo sospiro, prima di rispondere alla domanda se sia stata fatta giustizia. Il 17enne omicida della figlia Chiara, poco più di un anno dopo e a nove ore dall’inizio dell’udienza con il rito abbreviato nel tribunale minorile del Pratello, a Bologna, è stato appena condannato a 16 anni e 4 mesi di reclusione dal gup Anna Filocamo. Solo due mesi in meno di quanto chiesto dal pm Simone Purgato, quasi il massimo della pena.

«Sentenza esemplare»

«Sentenza esemplare per quello che poteva essere. Chiara però non c’è più, si sarebbe voluto di più ma dobbiamo capire che questo per la legge era il massimo e ritenerci comunque soddisfatti». Lo dice il padre della 16enne uccisa senza un movente reale nel giugno di un anno fa a due passi da casa, nel parco dell’Abbazia di Monteveglio, sull’Appennino bolognese. Lo ribadisce l’avvocato della famiglia, Giovanni Annunziata, che sottolineando il lavoro della Procura invita a «una riflessione. Non sulla sentenza ma sulla legislazione. Dove c’è efferatezza e premeditazione è difficile restare alle sacrosante tutele predisposte per i minori». È la battaglia per cambiare le leggi di cui la famiglia della vittima si fa portavoce e che dopo questa sentenza, sostiene il papà, «continuerà ancora di più, sperando che chi si troverà nella nostra situazione otterrà risultati migliori».

L’attesa

Vincenzo ha passato l’attesa con famigliari e sostenitori, una decina in tutto. All’uscita dal Tribunale della madre del giovane assassino, volto coperto da foulard, hanno urlato «brava, brava», e battuto le mani in segno di scherno. «La giustizia si fa in tribunale, anche questa signora sta soffrendo. La famiglia e il ragazzo hanno sempre espresso dispiacere. E da un anno sono sottoposti a insulti e minacce a cui non hanno mai replicato», ribatte Tanja Fonzari, legale del condannato che annuncia appello. «Era molto scosso», replica a chi ha raccontato un imputato freddo e impassibile. Il giorno prima era finito su tutti i social, ripreso dallo scatto del compagno di cella a mimare la «V» di vittoria nel carcere minorile. La Procura ha aperto un’inchiesta sulla vicenda.

Il diavolo dalla tv

I giudici non hanno creduto alla versione del ragazzo secondo cui a spingerlo a uccidere Chiara era stato Samael, il Diavolo della serie tv Lucifer. Era il 27 giugno del 2021, con un messaggio la sera prima le aveva dato appuntamento, voleva consegnarle un regalo aveva detto. Chiara esce di casa domenica mattina, le telecamere di videosorveglianza la riprendono felice, saltella quando lo vede, aveva una cotta per lui. L’allora 16enne la porta sulla collina, a non più di 200 metri da casa. La fa girare di spalle, estrae il coltello e la colpisce quattro volte, poi infierisce a calci e pugni. Prova a depistare ma lo arrestano quasi subito. Parla dei demoni che lo tormentano, ma per le numerose perizie che hanno preceduto l’udienza di ieri era capace di intendere e di volere. Lucido e spietato.

Selfie dal carcere, l'ultimo oltraggio del killer di Chiara. Il padre della vittima: "Ha postato foto in segno di vittoria e messaggi offensivi verso mia figlia". Stefano Vladovich il 26 Luglio 2022 su Il Giornale.

Si scatta un selfie con un compagno di cella mentre fa il segno della vittoria. Ma il ragazzo che posta l'immagine su Instagram non è uno qualsiasi. È il killer di Chiara Gualzetti, la quindicenne massacrata di coltellate e gettata a calci in una scarpata a Monteveglio, Bologna, un anno fa da un 16enne. La foto, zeppa di frasi oltraggiose nei confronti della vittima, è stata scattata nel carcere minorile del Pratello di Bologna. E la Procura dei Minori apre un fascicolo per chiarire l'accaduto.

Com'è possibile che in una struttura di detenzione non ci sia controllo sui mezzi di comunicazione con l'esterno, in particolare tablet, utilizzati per i colloqui con i parenti, le lezioni e gli esami universitari? A denunciare la storia è il papà di Chiara, Vincenzo Gualzetti. «È sicuramente lui - spiega - mi sembra assurdo che si possano usare i social così da una struttura detentiva». Il ragazzo, reo confesso, agli inquirenti raccontò di esser posseduto dai demoni, come nella serie Netflix Lucifer. Tanto che per lui si era parlato di personalità dissociata, a dir poco squilibrata. Ma proprio la scorsa settimana la perizia psichiatrica disposta dal gup Anna Filocamo chiarisce ogni dubbio: il ragazzo, oggi 17enne, è perfettamente capace di intendere e di volere. Perizia che sarà esposta in aula questa mattina durante un'udienza del processo contro il baby killer accusato di omicidio premeditato aggravato. «I ragazzi in carcere non possono usare il telefono e pubblicare contenuti sui social liberamente - conclude Gualzetti - c'è qualcosa che non quadra. Ho sporto denuncia, ai carabinieri ho consegnato tutto il materiale che ho ricevuto e che è pubblico. Vorrei che venissero presi provvedimenti anche verso i commenti lesivi della dignità di mia figlia».

Chiara esce di casa domenica 27 giugno 2021 per incontrarsi con il suo assassino, un ragazzo di un anno più grande di lei del quale si era innamorata. Nemmeno mezz'ora dopo viene gettata in una scarpata ai piedi dell'Abbazia di Monteveglio, a due passi da casa. A prenderla a calci in faccia e a darle una serie di coltellate per finirla è un ragazzino che davanti al magistrato che lo interroga si dice «posseduto». «Mi infastidiva, perché si era invaghita di me» mette a verbale con la freddezza di un killer davanti ai carabinieri di Borgo Panigale e al pm Simone Purgato. Ma ancor prima della confessione a inchiodarlo sono le chat estrapolate dal suo telefono, nonostante il ragazzo avesse tentato di cancellarle. «Sentivo delle voci dentro. Voci che mi dicevano di fare cose sempre più cattive. Dicevano di uccidere Chiara» racconta ancora nel corso degli interrogatori. Durante la convalida del fermo, davanti al gip aggiunge sempre con una freddezza impressionante: «Alcuni giorni prima volevo ucciderla, ma assieme a noi c'erano altri ragazzi e ho dovuto rinviare. La colpivo ma lei non moriva mai».

Remzije Veseli era terrorizzata dall’ex che le ha sparato: «Ci aggredì anche due giorni prima». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 28 luglio 2022.

È salva per miracolo. Il killer suicida Salvatore Stefano Solazzo aveva minacciato lei e i familiari. Lei non ha denunciato perché non voleva farlo infuriare: aveva paura soprattutto per la sua bambina. 

Remzije Veseli, ferita gravemente dall’ex compagno Salvatore Stefano Solazzo, che ha ucciso il nuovo compagno di lei Daniele Morello e si è suicidato

Quella pistola non era nel cruscotto per sicurezza personale; il proprietario della semi-automatica, il killer suicida Salvatore Stefano Solazzo, nella sua quotidianità ormai da uomo solitario, rabbioso, vendicativo, non doveva difendersi da pericoli. Non incombevano minacce. Era lui, lo sparatore dapprima dell’amico Daniele Morello, poi dell’ex fidanzata Remzije Veseli, a portare il terrore nelle esistenze del prossimo. Soprattutto della donna, che ricoverata nell’ospedale di Lugano migliora progressivamente; i medici hanno telefonato ai parenti annunciando che presto potrebbero incontrarla nella stanza.

Ecco, i parenti. La famiglia è originaria del Kosovo. Remzije ha due sorelle e due fratelli. Il primogenito, negli anni Ottanta, era emigrato tra Svizzera e Italia; gli altri lo avevano seguito. Il Corriere ha parlato con uno dei fratelli, e il racconto permette di ricostruire la situazione antecedente la scia sanguinaria di lunedì tra Cantello, paese al confine con Varese, e Stabio, a sette chilometri di distanza, all’ingresso del Canton Ticino. Alle 18 Solazzo, operaio specializzato, 51 anni, si era accodato in macchina a Morello, 47enne piccolo imprenditore, settore dei trasporti, gli aveva abbagliato, quello l’aveva riconosciuto allo specchietto, si era accostato e Solazzo, a sua volta affiancatosi, gli aveva sparato contro uccidendolo. Mezz’ora dopo, in via ai Bagni a Stabio, davanti all’ingresso delle terme, il killer aveva esploso un proiettile contro Remzije, 45 anni, raggiunta all’addome; convinto fosse morta anche lei, era entrato nella struttura e aveva riservato a sé l’ultimo proiettile, alla nuca.

Le condizioni della donna, che ha una figlia da una precedente relazione con un connazionale, erano state definitive drammatiche dalla polizia locale; l’immediato arrivo dei soccorritori, il trasporto nel pronto soccorso e la bravura dei dottori, avevano nel corso della nottata invertito il quadro clinico. Dunque, il fratello. «Quell’uomo e Remzije sono rimasti insieme quattro anni. Due mesi fa, lei aveva deciso che la relazione era terminata. Basta. Non ce la faceva più. Solazzo era pesante. Con la fine della storia, e il nuovo legame di Remzije, la situazione era, se possibile, ancor peggiorata».

Risulta che il killer avesse incaricato Morello di far da mediatore per convincere Remzije a ripensarci; e risulta che la donna e l’imprenditore avessero iniziato a frequentarsi. O forse erano i «fantasmi» di Solazzo che si amplificavano. Non accettava lo stato dei fatti. Ovvero che era per sempre fuori dalla vita di Remzije. «Due giorni prima, quell’uomo si era presentato davanti al palazzo di Remzije. Voleva entrare a tutti i costi. Tutti i costi... Non c’era verso... Lei non gli apriva il portone, e Solazzo si era messo a citofonare a chiunque nel condominio ordinando di farlo salire. Non era avvenuto, e dopo aver minacciato a destra e sinistra, se ne era andato. Ma era soltanto una pausa. Solazzo era comparso vicino alle terme. Forse aveva pedinato Remzije. Oppure si era appostato». Nell’attesa che arrivasse per attaccare il turno delle pulizie nelle terme. «Come noi in famiglia, Remzije ha il culto del lavoro. Precisa, ordinata, rigorosa: non abbiamo lasciato il Kosovo per venire in vacanza. Ci siamo guadagnati le nostre posizioni con la fatica, giorno per giorno. Con la determinazione e il rispetto delle regole. Ora, non sappiamo quando Remzije potrà tornare alle terme. Cioè, in quali condizioni sarà all’uscita dall’ospedale».

Stavamo parlando dell’irruzione di Solazzo... «Aveva preso per i capelli Remzije, le aveva messo il terrore addosso... Remzije giustamente temeva anche per la bambina, casomai quello...». Non avete denunciato gli episodi di quel giorno? «Non l’abbiamo fatto. Dovevamo? Remzije credeva che una denuncia avrebbe fatto solo infuriare Solazzo. E credeva che al contrario, calmandolo a parole, tentando di placarlo, indurlo alla ragione, si sarebbe fermato».

Tiziana Paolocci per “il Giornale” il 27 luglio 2022.

Era capace di intendere e di volere l'assassino di Chiara Gualzetti quando l'ha accoltellata e poi presa a calci e pugni con lucida freddezza fino a ucciderla. È quanto emerge chiaramente dalla perizia che ha contributo ieri a spingere il gup, Anna Filocamo, del tribunale per i minorenni di Bologna a condannare l'imputato, oggi diciassettenne, a 16 anni e quattro mesi per omicidio pluriaggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla minore età della vittima. 

Chiara era stata uccisa il 27 giugno 2021 e il suo corpo era stato ritrovato a poca distanza da casa, ai margini del bosco vicino all'Abbazia di Monteveglio. L'amico, quello che spesso prendeva il pullman con lei, le aveva dato appuntamento per fare una passeggiata invece l'aveva barbaramente assassinata, con un coltello portato nello zaino. Al momento dell'arresto aveva raccontato di aver agito dietro la spinta di un demone che non gli concedeva tregua e gli chiedeva insistentemente di uccidere la 15enne. Il gup ieri ha dato ragione al pm, che aveva chiesto la stessa pena.

Solo due giorni fa la Procura per i minorenni di Bologna aveva aperto un fascicolo, al momento senza ipotesi di reato, dopo la denuncia sporta da Vincenzo Gualzetti, il papà della vittima, che aveva ricevuto post pubblicati sui social dall'imputato, con parole offensive nei confronti di Chiara e un selfie scattato dal ragazzo insieme a un suo compagno di cella: con le dita mimava il segno «vittoria».

Il papà di Chiara al funerale aveva chiesto una sentenza esemplare, così da non vanificare la morte della figlia. E ieri ha detto: «Ormai siamo arrivati ad un punto fermo della situazione e in base a quello che è l'ordinamento ci dobbiamo ritenere soddisfatti di questa sentenza». «È chiaro - ha aggiunto - comunque che Chiara non c'è più, fondamentalmente avremmo voluto di più, però, ripeto, forse può essere una sentenza esemplare. Giustizia è altro, ma possiamo dire è stata fatta giustizia». 

Poi ha ringraziato la Procura e si è lasciato andare alla lacrime. «È un periodo che non sto andando più a trovare Chiara - ha confessato - perché sto entrando nell'ottica delle cose che Chiara non è là, c'è solo il suo corpo. Sto cercando di vivere ritrovando Chiara nel cuore e non sottoterra, sto prendendo coscienza che la sua tomba è solo un punto dove abbiamo sepolto il corpo, ma lei vive con noi, cerco di viverla più nel presente. Le battaglie dell'associazione andranno avanti per cambiare qualcosa».

Soddisfatto il suo legale, Giovanni Annunziata, che parla di pena in linea con l'ordinamento minorile. «È stato accertato che l'imputato è capace di intendere e di volere - ha aggiunto - quindi non si può essere che soddisfatti di come è andato il processo. È chiaro che è un processo minorile, con tutte le pericolosità, e lo dico tra virgolette, che ha un processo minorile, che da una parte riconosce le garanzie dovute e costituzionalmente riconosciute ai minori, ma dall'altra non ha tenuto conto del momento storico, nel quale c'è una presenza massiccia di reati minorili, quindi uno spunto di riflessione va fatto». 

La madre del condannato, invece, volto coperto e cappello in testa quasi a proteggersi, finita l'udienza si è allontanata in fretta dall'aula, accompagnata da applausi di scherno da parte di parenti e amici della vittima. 

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2022.

La stessa pistola. Tre differenti luoghi e obiettivi. Due uomini deceduti, una donna in condizioni disperate. A Cantello, cinquemila abitanti in provincia di Varese, l'italiano 51enne Salvatore Stefano Solazzo, professione operaio, ha sparato all'attuale fidanzato dell'ex compagna, Daniele Morello, un 47enne sempre italiano, imprenditore. Erano le 18 di ieri. Gli aveva dato appuntamento a ridosso di uno dei boschi dello spaccio di droga. Solazzo l'ha freddato colpendolo al petto.

Risalito in macchina, il killer ha percorso la breve distanza (sette chilometri) che separa Cantello dal paese di Stabio, dopo il confine con la Svizzera, subito all'inizio del Canton Ticino. Entrato nel centro termale dove la donna, una 45enne anch' ella italiana e con la quale due mesi e mezzo fa era terminata la relazione, lavora come impiegata, ha esploso nuovi colpi riducendola in fin di vita. Ha fatto irruzione tra altri dipendenti e turisti che credevano a un attacco terroristico. Infine è scappato; in macchina, si è scaricato addosso l'ultimo proiettile.

OMICIDIO CANTELLO

Le indagini sono condotte dalla polizia cantonale e dai carabinieri del Comando provinciale, impegnati in queste ore, senza sosta, a trovare l'assassino di Carmela Fabozzi, vedova e pensionata di 73 anni massacrata venerdì nel suo trilocale di Malnate. In un'iniziale fase si era sparsa la voce che in qualche modo vi potesse essere un collegamento. La scia sanguinaria tra Canton Ticino e Italia è invece storia a sé.

Che il punto di partenza e quello finale siano a Stabio, è un fattore legato all'altissima densità, in quella zona, di pendolari varesini e comaschi, per la diffusa presenza di negozi e aziende. Le autorità cantonali hanno inviato nel centro termale, che ha sede in via Bagni ed è un luogo noto, un team di psicologi per gestire le reazioni dei testimoni della sparatoria. Risulta che l'assassino abbia mirato e subito raggiunto con i proiettili la donna, quasi a dimostrare un «allenamento» nelle armi; anche nel primo agguato i colpi contro Morello hanno devastato punti vitali.

A notte inoltrata i medici non si esprimevano su possibili scenari legati al futuro della 45enne, di origini kosovare; dalla Procura elvetica confermano appunto un quadro clinico gravissimo. Le residenze sia dei due uomini che della donna hanno come geografia il Varesotto. Gli investigatori hanno riferito che nelle ultime settimane Solazzo ha cercato con rabbia, disinteressandosi del totale parere negativo dell'ex, di riavviare il rapporto. Allo stesso tempo, pare che l'imprenditore abbia accettato l'incontro nel bosco per invitare l'altro a smetterla una volta per tutte. Forse i due si conoscevano.

Orrore tra Varese e Canton Ticino. Uccide il compagno della ex, riduce la donna in fin di vita nel centro termale e si ammazza. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Luglio 2022. 

Ha dato appuntamento al compagno della sua ex, freddandolo nei boschi di Cantello, nel Varesotto, poi si è messo in auto, ha superato il confine, raggiungendo Stabio, nel Canton Ticino, è entrato in un centro termale e ha provato ad ammazzare la donna a colpi di pistola, che lavora lì come impiegata, seminando il panico tra i clienti e il personale presente. Infine si è puntato l’arma alla testa, togliendosi la vita. E’ quanto accaduto nel tardo pomeriggio di lunedì 25 luglio tra Lombardia e Svizzera, in un fazzoletto di pochi chilometri.

Protagonista Salvatore Stefano, 51enne operaio di Varese, che ha “vendicato” così la fine della propria relazione con una donna di 45 anni, di origini kosovare, anche lei residente nel comune lombardo. Il primo a morire è stato Daniele Morello, un 47enne imprenditore della zona, ucciso nei boschi di Cantello con un colpo d’arma da fuoco da Stefano che poi è salito in auto e si è recato nel centro termale di Stabio dove ha ridotto in fin di vita la sua ex, ricoverata in condizioni disperate in ospedale, prima di togliersi la vita. Attimi di panico si sono vissuti nella struttura, dove i presenti hanno pensato a un attacco terroristico.

“Sul posto – si legge in una nota – agenti della Polizia cantonale e in supporto la Polizia comunale di Stabio, della Polizia città di Mendrisio e quella di Chiasso oltre ai soccorritori del SAM. Al fine di consentire le verifiche e i rilievi del caso, l’intera zona è stata isolata e messa in sicurezza. Per prestare sostegno psicologico è stato richiesto l’intervento del Care Team”.

L’inchiesta per chiarire la dinamica dell’accaduto e i collegamenti con l’omicidio – presumibilmente del ‘rivale’ in amore – avvenuto nel pomeriggio in provincia di Varese è coordinata dalla Procuratrice pubblica Valentina Tuoni in collaborazione con le Autorità italiane, fa sapere ancora la Svizzera, che invita eventuali testimoni a contattare la Polizia cantonale allo 0848 25 55 55.

L’imprenditore, secondo una prima ricostruzione, ha accettato di incontrare l’ex della 47enne proprio per chiarire la situazione e invitarlo a non ostacolare il nuovo rapporto. Stefano infatti nelle ultime settimane non accettava la fine della storia con la 45enne che adesso lotta per non morire in ospedale. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute. 

(ANSA il 27 luglio 2022) – La polizia ha fermato per omicidio il figlio 15enne di Valentina Giunta, la 32enne ferita mortalmente con colpi di arma da taglio nella sua abitazione a Catania. Il provvedimento è stato emesso dalla Procura per i minorenni ed eseguito dalla squadra mobile che indaga. Secondo quanto si è appreso, i rapporti tra madre e figlio erano tesi da tempo e il delitto sarebbe maturato al culmine di una lite. 

Il corpo di Valentina Giunta è stato trovato dalla polizia nella tarda serata di due giorni fa nella sua abitazione, nella zona del Castello Ursino nello storico rione di San Cristoforo. Agenti delle volanti erano intervenuti dopo la segnalazione da parte di un familiare della vittima che ha detto di temere la donna potesse essere in pericolo. Sul posto è intervenuto personale medico del 118, ma Valentina Giunta, madre di due figli maschi minorenni, è deceduta poco dopo.

La squadra mobile della Questura, che ha indagato, ha puntato subito su una 'pista' interna alla famiglia e sono stati eseguiti accertamenti sul compagno della vittima, che negli anni scorsi era stato denunciato per maltrattamenti dalla donna, che poi aveva ritirato la querela. Ma l'uomo è detenuto per furti di automobili da tempo in un carcere della Sicilia. 

Le indagini si sono spostate su altri possibili sospettati, compreso il figlio quindicenne della vittima che, secondo quanto si appreso, aveva da tempo dei contrasti con la madre che sarebbero sfociati nell'ennesima lite.

Sospetti che, col passare delle ore, hanno trovato sempre più consistenza. Così, conclusi gli atti urgenti, la Procura distrettuale, diretta da Carmelo Zuccaro, ha trasmesso il fascicolo a quella per i minorenni di Catania, coordinata dalla procuratrice Carla Santocono, che ha disposto il fermo del quindicenne, eseguito dalla squadra mobile.

(ANSA il 27 luglio 2022) – Era legato al padre, detenuto nell'ambito di un'inchiesta su un'organizzazione specializzata in furti d'auto, e temeva che la madre lo volesse allontanare da lui e dal nonno paterno, anche lui rimasto coinvolto nell'inchiesta della Procura di Catania. Sarebbe stato questo uno dei moventi delle liti tra Valentina Giunta e il figlio 15enne, adesso fermato dalla procura per i minorenni di Catania per l'omicidio della madre.

I contrasti tra i due sarebbero stati frequenti e, secondo l'accusa, che deve passare al vaglio del Giudice per le indagini preliminari, sarebbe in questo contesto che potrebbe essere da inquadrare il movente del delitto.

Valentina Giunta, uccisa a coltellate dal figlio 14enne dopo l’ennesima lite. Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.

Catania, la donna è riuscita solo a chiamare i soccorsi, ma è morta prima del loro arrivo. Aveva cambiato casa portando con sé il bambino più piccolo. La trentaduenne aveva già denunciato per maltrattamenti l’ex marito, al momento in carcere. 

Stava per vendere casa: un modo per spezzare per sempre i legami con un passato doloroso e portare via almeno il figlio più piccolo. Valentina Giunta, 32 anni, catanese, ha avuto una vita difficile: un compagno violento finito in carcere per furti d’auto e per tentato omicidio, suoceri che sarebbero riusciti a plagiare il maggiore dei suoi ragazzi, cresciuto adorando un genitore col quale da anni condivideva solo le videochiamate dalla cella. Valentina voleva andarsene e ricominciare da zero. Glielo ha impedito il figlio, 15 anni non ancora compiuti, accoltellandola quattro volte e lasciandola a terra in una pozza di sangue nella camera da letto di quella che era stata la sua casa, due stanze nel quartiere popolare di San Cristoforo, a Catania.

Un giallo durato poche ore, tanto è servito alla Squadra Mobile per capire cosa fosse accaduto e per rintracciare il giovane. La polizia lo ha trovato, seguendo i dati del suo cellulare, mentre vagava per strada ancora sotto choc. Nell’appartamento in cui ormai da tempo viveva da solo c’erano i vestiti sporchi di sangue che s’era tolto dopo il delitto. Portato alla Mobile, il ragazzo ha confessato tra i singhiozzi e la rabbia, è stato fermato con l’accusa di omicidio volontario e trasferito al centro di prima accoglienza di Catania.

Una storia tragica fatta di degrado e dolore, con una vittima, Valentina, uccisa con quattro coltellate alla gola e alle spalle da quel figlio che per mesi ha covato rabbia e risentimento e ha vissuto come un tradimento insopportabile la scelta della madre di chiudere con il passato. E con un bambino di 10 anni, che la sera del delitto era a casa dei nonni, e ora è senza mamma.

A chiamare i soccorsi è stata la stessa vittima. Ha telefonato alla sorella dicendole di essere stata aggredita, non è chiaro se abbia anche fatto il nome del figlio. La ragazza ha avvertito alcuni familiari che sono corsi nell’appartamento che Valentina aveva lasciato da mesi per trasferirsi in una nuova casa affittata a Librino. Forse era tornata a prendere delle cose e aveva trovato il ragazzo col quale era scoppiata l’ennesima lite. All’arrivo dei parenti, che hanno immediatamente informato la polizia, la giovane donna era sul pavimento: inutili i soccorsi, è morta lunedì notte poco dopo l’arrivo dell’ambulanza.

Gli inquirenti hanno cominciato a indagare ricostruendo il contesto familiare a partire dall’ex compagno, arrestato nel 2018 e ancora detenuto per una storia di furti d’auto e un tentato omicidio. Insieme al padre aveva messo su una banda che rubava macchine e le rivendeva. Un violento che Valentina aveva più volte denunciato per maltrattamenti, con alle spalle l’accusa di aver sparato a un uomo per vendicare l’onore della sua famiglia. Le testimonianze di familiari e vicini hanno portato gli investigatori sulla pista giusta.

La famiglia era andata in pezzi dopo che Valentina aveva scelto di cambiare casa e portare con sé il figlio piccolo. Le liti erano continue: col maggiore dei due ragazzi e con i suoceri che abitavano nello stesso stabile. Un clima pesantissimo che preoccupava molto la sorella e il padre della ragazza. La vittima ne aveva parlato anche con le amiche, tutti conoscevano il clima che c’era in famiglia. «T’ha ucciso tuo figlio, l’uomo che più amavi», ha scritto una amica su facebook.

Forse già oggi il ragazzo, al quale la Procura dei Minori contesta l’omicidio con dolo d’impeto, dato che confermerebbe che il delitto è avvenuto dopo una lite, potrebbe comparire davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia.

Laura Anello per “La Stampa” il 28 Luglio 2022.

Viveva nel terrore, Valentina. Minacce, aggressioni, insulti, messaggi anonimi. Tanto da avere venduto la casa di famiglia nel quartiere di San Cristoforo e avere affittato un alloggetto dove sperava di portare presto i suoi due figli per sottrarli al destino che le sembrava scritto. 

Via, da quei vicoli dove tutto era successo, da quella casa in cui era andata a vivere con il padre dei suoi figli, Angelo, il compagno che dal 2016 entrava e usciva dal carcere, prima accusato di avere sparato a un pregiudicato, poi sfuggito per miracolo alla vendetta del figlio di quell'uomo che lo aveva riempito di proiettili, e dopo ancora condannato per essere stato a capo dell'organizzazione che rubava e rivendeva auto in mezza Sicilia.

Operazione Wax, l'avevano chiamata gli investigatori, e il compagno ne sarebbe stato il bersaglio principale, assieme al padre Matteo. Una struttura criminale complessa, gente che nelle intercettazioni parlava un dialetto strettissimo pieno di frasi in codice. I poliziotti erano «i tedeschi». 

E invece Valentina Giunta, che voleva sottrarre i due figli a quel destino, proprio dal maggiore di quasi 15 anni è stata colpita e uccisa a coltellate sulle scale della casa già venduta, nella via Salvatore di Giacomo dove è nato il boss mafioso Nitto Santapaola, la casa della famiglia ormai a pezzi in cui lunedì sera era andata a chiudere gli scatoloni per il trasloco dell'indomani. 

Il giovane ha confessato davanti al giudice che ha convalidato il fermo e ha disposto il trasferimento in un istituto penitenziario per minori. Ha fatto trovare i vestiti sporchi di sangue (sequestrati) e ha raccontato quel che tutti sapevano: l'amore incondizionato per il padre, che era il suo modello, il suo esempio, il suo mito. Quel padre che riempiva di parole di dedizione e fedeltà sul profilo Facebook, quel padre che riempiva di fotografie il suo album di ragazzino, quel padre che lo baciava sulla bocca come faceva con il fratello più piccolo, suggello di appartenenza, di intimità, di potere.

Lei, Valentina, è morta a soli 32 anni, unica donna di una famiglia tutta al maschile, donna che soccombe a un destino di morte che sentiva sempre più vicino, tra denunce per maltrattamenti all'ex compagno - due, ritirate - l'ostilità della famiglia di lui e soprattutto il conflitto lacerante con quel figlio maggiore amatissimo che però aveva scelto la legge del padre. «Siamo forti», «Ti aspetto», «Sei il mio leone», «Sei la mia vita», scriveva su Facebook il figlio al padre, lui che aveva scelto di vivere dalla nonna, la suocera che Valentina odiava, sicura che lo avesse plagiato. 

Un destino scritto. I familiari temevano per la sua vita e avevano cercato di convincerla a trasferirsi in Germania. «Sapevamo che rischiava - dice la cugina, Cristina Bonanzinga -. Avevamo paura, la incitavamo ad andare via». Una donna, una madre, sola contro tutti, come un'eroina della tragedia greca. Una donna che vuole ribellarsi all'ambiente in cui è immersa, una donna - per usare un termine di Leonardo Sciascia - che voleva sottrarsi al «contesto». 

«Valentina Giunta - dice il suo avvocato, Salvatore Cannata - viveva da anni nella paura che qualcosa di grave le sarebbe potuto accadere. Ci sono stati vari episodi di violenza, anche gravi, che hanno visto come persone offese lei e la sua famiglia e come protagonista attiva la famiglia del suo ex convivente. Le responsabilità di questa terribile vicenda non si possono limitare al solo fatto di sangue che si è verificato la sera del 25 luglio».

Già, perché è stato lunedì scorso che il figlio ha affrontato la madre nell'ennesimo litigio, la madre che provava a proteggerlo. E questa volta nelle mani il ragazzo aveva un coltello. Alla polizia è arrivata una telefonata anonima, una voce femminile, ma quando gli agenti sono arrivati era troppo tardi. Il primo sospetto, quello che fosse stato il compagno, è stato subito smentito dal fatto che fosse in galera: così poi lo sguardo è caduto sul figlio maggiore che intanto era scappato e che è stato ritrovato l'indomani mattina. 

 Lontane, per lui adesso, le merende alla Nutella e i dolciumi che mostrava orgoglioso su Facebook con parole di gratitudine, manicaretti preparati dalla nonna, la custode dei valori paterni, l'unica donna della famiglia cui si rivolgeva con amore. Oggi verrà conferito l'incarico per l'autopsia. Ma secondo il medico legale, Valentina è stata colpita «con un'arma da punta e taglio al collo, al fianco e alla spalla sinistra che le ha cagionato la lesione di grossi vasi sanguigni con shock emorragico, che ne ha determinato la morte». Un'arma impugnata da un figlio poco più che bambino.

Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.  

Di Valentina, Cristina sapeva tutto: segreti, problemi e l'incubo degli ultimi mesi vissuti nel terrore di essere uccisa. «Cercava di farsi forza, ma aveva paura. Era costretta a guardarsi le spalle, a vivere tra minacce e aggressioni e con la consapevolezza che il rapporto con il figlio più grande era ormai compromesso», racconta Cristina. 

«Quando mi hanno detto che era morta ero a Pavia, prima di partire le avevo chiesto di venire con me, ma voleva sistemare le ultime cose legate alla vendita della casa. Mi ha detto che ci sarebbe stato tempo per stare insieme». E invece Valentina, accoltellata e uccisa dal figlio quattordicenne lunedì notte, il tempo non l'ha avuto. «Devo fare i conti con tutta la rabbia che ho dentro - dice la cugina con la voce rotta - perché quel che è successo era prevedibile, ce lo aspettavamo: perciò non la lasciavamo mai sola. C'erano stati tanti, troppi segnali, sapevamo che prima o poi il ragazzo o la famiglia del padre le avrebbero fatto del male».

E così è stato. M., il figlio maggiore, l'ha raggiunta nella casa che la vittima aveva deciso di lasciare per allontanarsi da un contesto terribile e l'ha ammazzata con quattro coltellate. Il compagno, da anni in carcere per furti d'auto e tentato omicidio, le impediva di rifarsi una vita: «La minacciava con messaggi anonimi che le faceva arrivare da cellulari che non siamo mai riusciti a rintracciare - raccontano alcuni familiari - e la suocera aveva ormai plagiato totalmente il figlio più grande che aveva sviluppato un odio profondo nei confronti della madre e non accettava che potesse rifarsi una vita andando via con il fratello minore. Negli ultimi tempi, però, anche il piccolo stava cominciando a cambiare. Riferiva ai parenti del padre tutto quello che Valentina faceva, chi incontrava. Mia cugina cercava di fargli capire che era pericoloso, ma forse perché è ancora bambino, non si rendeva conto dei rischi».

Poi i danneggiamenti: l'auto rigata, l'appartamento distrutto da una spedizione punitiva dei parenti dell'ex a cui aveva assistito anche il figlio maggiore, che da mesi ormai era andato via di casa e aveva lasciato la scuola. E otto mesi fa le violenze. «Mio zio, il padre di Valentina - racconta la cugina - era stato pestato a sangue dai familiari del genero e M. aveva visto la scena senza far nulla. Lo avevano portato in ospedale col setto nasale rotto». 

A quel punto Valentina, convinta dai suoi, aveva sporto denuncia, salvo ritirarla poco dopo. Come aveva ritirato quella fatta dopo gli sms anonimi di minacce. Amava il figlio, aveva paura per sé e per i suoi familiari - la sorella 15 anni fa era stata accoltellata da una parente dell'ex compagno - e si sentiva sotto assedio, circondata da nemici in un quartiere, San Cristoforo, dove il degrado e la violenza sono a ogni angolo, dove i vicini si giravano dall'altra parte facendo finta di non sapere. Il quartiere dove aveva conosciuto quello che poi sarebbe diventato il padre dei suoi due figli.

«S' era innamorata che era solo una ragazza, era stata la classica fuitina, ma lui è stato sempre possessivo - racconta Cristina -. Non l'ha fatta neppure venire al mio matrimonio e per poter avere una foto insieme sono andata vestita da sposa a casa sua prima delle nozze e me la sono fatta fare». «Appena maggiorenne ha avuto il primo figlio con il quale per anni tutto è andato bene, ma nell'ultimo periodo era totalmente cambiato - ricorda -. Si è schierato dalla parte del padre che idolatrava e che intanto era finito in carcere». 

Dopo la denuncia seguita all'aggressione del padre, il tribunale dei minori ha aperto un procedimento per valutare la capacità genitoriale di Valentina e del compagno e la giovane donna è stata sentita dai servizi sociali. «Le hanno detto che il ragazzo poteva continuare a stare con la nonna paterna perché gli voleva bene», racconta Cristina. «Valentina ha cercato di spiegare che non era un ambiente sano e che il ragazzo non andava più a scuola, ma non è accaduto nulla. Come può un assistente sociale fare un errore del genere?», si chiede.

Quando parla di M. le trema la voce. «Vogliamo risposte dalla giustizia», dice dopo aver saputo della convalida del fermo del cugino, finito in cella poche ore dopo l'omicidio. E a chiedere giustizia, attraverso il loro legale, l'avvocato Salvo Cannata, sono anche il padre e la sorella della vittima. «Noi abbiamo due obiettivi- spiega - salvare il figlio minore di Valentina da un contesto deviato e deviante e accertare la verità fino in fondo, capire cioè come un ragazzino sia arrivato a nutrire un odio simile per la madre e chi, anche solo psicologicamente, abbia armato la sua mano».

Il padre è in carcere: 15enne uccide la madre che vuole cambiare vita. Valentina muore accoltellata dal figlio che celebrava il papà sui social: "Sei un leone". Valentina Raffa su Il Giornale il 28 Luglio 2022.  

«Sei stata tradita da chi amavi più della tua vita». Chi conosceva bene Valentina Giunta, 32 anni, di Catania, sa quanto amasse i due suoi figli, di 10 e 15 anni. Il più grande, però, era tutto per papà, un padre che si trova da tempo in carcere e che era anche stato denunciato per maltrattamenti da Valentina, anche se poi la denuncia era stata ritirata.

L'atmosfera in casa, nel difficile quartiere San Cristoforo di Catania, nella zona del Castello Ursino, dove Valentina abitava coi due suoi figli, era pesante. E lunedì sera, al culmine dell'ennesima lite tra mamma e figlio, il 15enne ha ucciso la madre colpendola più volte con un'arma da taglio. Alcuni fendenti hanno raggiunto Valentina al collo e alla schiena. È stata ritrovata nella stanza da letto in una pozza di sangue. I sanitari del 118 che sono intervenuti hanno compreso subito la gravità della situazione. La donna è, infatti, morta poco dopo il loro arrivo. Nei prossimi giorni sarà effettuata l'autopsia all'ospedale Cannizzaro di Catania. Ad allertare le forze dell'ordine è stata una parente che non riusciva a mettersi in contatto con lei e, conoscendo la situazione delicata in cui si trovava la donna, temeva per la sua vita.

Le indagini, inizialmente coordinate dalla procura di Catania, e svolte dalla squadra mobile, hanno subito puntato sulla sfera familiare. Una volta verificato l'alibi di ferro dell'ex compagno, gli investigatori si sono concentrati sul figlio 15enne, per cui il fascicolo è passato alla procura dei Minorenni. Ieri il ragazzino è stato fermato con la terribile accusa di avere ucciso volontariamente la madre e adesso l'accusa deve passare al vaglio del gip. Secondo gli inquirenti il movente è da ritrovare nel suo timore che la mamma volesse separarlo dal padre e dal nonno, a cui si sentiva tanto legato al punto che i video postati su TikTok sono dediche a loro due, con tanto di foto. «Sei la mia forza, ti amo leone, presto fuori insieme. Nel bene e nel male non ti abbandonerò mai con riferimento alla scarcerazione e, lo scorso 11 aprile - Tanti auguri di buon compleanno, papà, sei stato il papà migliore, ti amo tanto e anche se sei lontano da me, ti penso sempre e con il cuore sono vicino a te».

Aveva idealizzato il padre, mentre per Valentina, che pure tutti gli amici descrivono come una donna forte che amava i figli più di se stessa, non c'è una parola. Lei, invece, nel suo profilo Facebook ha le foto di entrambi i figli. «Sarà sempre la mia ragione di vita» scriveva parlando del più grande. La sua vita difficile è riassunta in post in cui si evince la sua voglia di sentirsi libera dall'essere giudicata: «La gente ha il brutto vizio di giudicare, tu sorridi, perché in fondo sai di essere migliore di loro». Voleva andarsene da Catania per ricominciare, lontano dall'ex compagno e, non riuscendo ad avere un rapporto sereno con il figlio più grande, pensava di portare con sé quello di 10 anni, temendo che venisse plagiato dalla famiglia paterna come riteneva che fosse accaduto con l'altro. Una decisione che non era stata ben digerita dall'altra parte e dal 15enne. «Chi tene a mamma è ricche e nun o sape» recita un video postato sul suo profilo Fb dalla stessa Valentina per il suo compleanno con un collage di foto di lei e del figlio più piccolo. E adesso non solo lui è senza l'amore della sua mamma, che gli verrà ricordata ogni giorno dalla famiglia materna, ma certamente anche il 15enne si ritrova più povero.

Il dramma familiare di Catania. Uccisa dal figlio 14enne, Valentina Giunta voleva cambiare casa e vita: sui social il ‘culto’ del ragazzo per il padre in carcere. Redazione su Il Riformista il 28 Luglio 2022. 

Il suo progetto era quello di vendere la casa di Catania in cui è stata trovata morta, un modo per spezzare ogni legame rimasto con l’ex marito, con la sua famiglia, e rifarsi una vita. Un piano che si è infranto nelle coltellate, almeno quattro, che le ha inferto il figlio di 14 anni.

È la storia, drammatica, dietro l’omicidio di Valentina Giunta, la 32enne catanese uccisa lunedì notte da quel figlio con cui i rapporti erano tesi e logori da tempo. Un adolescente che sarebbe stato ‘plagiato’ dai familiari del padre, recluso in carcere per furti d’auto: proprio al genitore, con cui da anni condivideva solo videochiamate, il ragazzo dedicava messaggi di ammirazione sui social network.

“Sei un leone, sarò sempre al tuo fianco”, scriveva il 14enne. E ancora: “Tanti auguri di buon compleanno papà, sei stato il papà migliore, ti amo tanto tanto anche se sei lontano da me ti penso sempre e con il cuore sono sempre vicino a te”, scriveva l’11 aprile scorso.

Solo rabbia e risentimento invece per la madre Valentina, rea ai suoi occhi di volerlo strappare a quell’ambiente, a quella casa nel quartiere popolare di San Cristoforo.

Sarebbe stata proprio questa rabbia, al culmine dell’ennesima lite in casa, a spingerlo a prendere un coltello e a sferrargli quattro fendenti alla gola e alle spalle, per poi lasciarla a terra riversa in una pozza di sangue. La Squadra Mobile di Catania ci ha impiegato poche ore a risolvere l’omicidio, rintracciando il figlio di Valentina per strada grazie ai dati del suo cellulare. Nell’appartamento gli agenti avevano trovato anche i suoi vestiti, ancora sporchi di sangue.

Ora il ragazzo è in stato di fermo con l’accusa di omicidio volontario, trasferito al centro di prima accoglienza di Catania. A chiamare i soccorsi era stata la stessa Valentina, con le ultime forze: una telefonata alla sorella in cui le raccontava di esser stata aggredita, non è chiaro al momento se facendo anche il nome del figlio.

Un omicidio avvenuto nella casa che Valentina aveva lasciato da alcuni mesi per trasferirsi in un nuovo appartamento affittato a Librino. Forse la 32enne era tornata a prendere delle cose e aveva trovato il ragazzo, poi lo scoppio dell’ennesima lite e l’omicidio.

Sullo sfondo il rapporto teso anche col padre del ragazzo. Valentina lo aveva denunciato per violenze e maltrattamenti, per poi ritirare la querela. Andava regolarmente agli incontri in carcere per accontentare il figlio, ma la situazione si era fatta poi non più tollerabile per la 32enne, intenzionata a cambiare vita. Già oggi il figlio potrebbe comparire davanti al Gip per l’interrogatorio di garanzia.

Il femminicidio di Catania. Uccisa dal figlio 15enne, la cugina di Valentina Giunta: “Le chiedevo di scappare con me, il ragazzo plagiato dalla nonna”. Redazione su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

Una tragedia che tutti sapevano potesse accadere: “In famiglia sapevamo che correva dei rischi ed avevamo paura, per questo la incitavamo ad andare via”. Parla così Cristina Bonanzinga, la cugina di Valentina Giunta, la giovane mamma di 32 anni uccisa con quatto coltellate alla schiena e alla gola al culmine di una lite dal figlio di 15 anni, il maggiore dei due figli avuti a una età così giovane.

“Quello che è successo era prevedibile, ce lo aspettavamo, per questo non la lasciavamo mai sola. Sapevo che prima o poi quel figlio che lei amava le avrebbe fatto del male”, racconta oggi la cugina di Valentina, cresciuta assieme a lei in un rapporto quasi da sorelle, al Corriere della Sera.

Un delitto che secondo Cristina, e gli inquirenti, è frutto del complesso contesto familiare in cui viveva la vittima e il figlio. Il padre era da tempo recluso in carcere per furti d’auto, in passato era stato denunciato da Valentina per violenze e maltrattamenti, salvo poi ritirare la querela. Per allontanarlo da quell’ambiente la 32enne aveva deciso di lasciare l’abitazione di nel quartiere popolare di San Cristoforo per andare a vivere in un nuovo appartamento in affitto a Librino, altro quartiere della città.

La cugina voleva però che Valentina lasciasse la Sicilia. “Quando Valentina è stata uccisa ero a Pavia; prima di partire le avevo detto di venire con me ma voleva sistemare le ultime cose per la vendita della casa“, ricorda oggi Cristina al Corriere. Di segnali di un possibile epilogo drammatico dei problemi familiari ve n’erano già stati, sottolinea la cugina: “Il figlio maggiore era stato totalmente plagiato dalla nonna paterna con la quale viveva mentre padre e nonno sono in carcere”, accusa Cristina Bonanzinga.

“Il ragazzo – sottolinea la cugina al Corriere della Sera – aveva sviluppato un odio profondo nei confronti della madre e, come suo padre, non accettava che volesse rifarsi una vita andando via da Catania con il fratello minore di 10 anni. Si era schierato dalla parte del padre, che idolatrava“.

Ma il clima di odio e tensione non si era placato neanche con la reclusione in carcere. Proprio mentre era recluso, il marito della giovane madre “la minacciava con messaggi anonimi che le faceva arrivare da numeri non rintracciati; auto rigata; appartamento distrutto dalla spedizione punitiva dei parenti dell’ex; mio zio pestato a sangue sempre dai parenti e portato in ospedale con il setto nasale rotto”.

Ora la famiglia di Valentina chiede “risposte dalla giustizia” con due obiettivi: “Salvare il figlio minore di Valentina da un contesto deviato e deviante e accertare la verità fino in fondo: chi ha armato di odio la mano di un ragazzino?”. 

Omicidio Kristina Gallo: arrestato ex fidanzato 44enne che la perseguitava. Kristina Gallo su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.  

La trentenne fu trovata morta in casa dal fratello il 26 marzo 2019. Il caso fu riaperto sulla base dei nuovi elementi raccolti dai Ris che evidenziavano il coinvolgimento dell'indagato. Nel suo cellulare 6.000 file audio delle telefonate alla donna.

Svolta nel caso dell'omicidio di Kristina Gallo, la trentenne trovata morta in casa dal fratello il 26 marzo 2019. I carabinieri di Bologna, nella serata di ieri, hanno arrestato e tradotto in carcere un 44enne del posto, con l'accusa di omicidio aggravato essendosi già reso responsabile di atti persecutori nei confronti della vittima. Il provvedimento cautelare, adottato dal Gip del Tribunale di Bologna, ha accolto le richieste avanzate dalla Procura felsinea, di cui ha condiviso integralmente le valutazioni e le risultanze delle articolate e complesse indagini delegate ai carabinieri. 

Il cadavere della ragazza fu rinvenuto dal fratello all'interno della propria abitazione, dove giaceva da diversi giorni in compagnia del suo rottweiler. Gli elementi raccolti in sede di sopralluogo e le prime valutazioni medico-legali rendevano compatibile il decesso con cause naturali. Nel frattempo i militari avviavano indagini sulla personalità e sulle relazioni intrattenute della vittima. La donna era madre di una bambina affidata al padre, aveva lavorato presso un centro scommesse ed aveva avuto negli ultimi tempi una relazione sentimentale problematica con l'arrestato, che, negando ogni coinvolgimento, riferiva, allora, di aver interrotto la relazione circa una settimana prima del decesso. 

Il Tribunale, anche su richiesta dei familiari della ragazza, disponeva ulteriori indagini di natura medico legale e tecnico scientifiche sul luogo del reato. Tuttavia, nel frattempo, il cadavere era stato cremato, mentre l'abitazione, dove la ragazza viveva in affitto, era stata restituita al proprietario. Venivano comunque effettuati ulteriori esami sui campioni biologici prelevati nel corso dell'esame autoptico da parte di consulenti nominati dalla Procura nonché venivano effettuati esami incrociati da parte dei Ris di Parma sui profili genetici estratti dal materiale repertato in sede di sopralluogo. Sulla base dei nuovi elementi raccolti veniva anche effettuata la ricostruzione in 3D della scena del crimine da parte dei Ris che evidenziava il coinvolgimento dell'indagato nella morte della donna, avvenuto per asfissia meccanica. 

Le indagini hanno continuato anche con accertamenti tecnici sui cellulari e sulle utenze in uso alle persone coinvolte. In particolare l'analisi dei tabulati telefonici confermavano la presenza dell'indagato presso l'abitazione della donna anche nella settimana precedente il decesso (smentendo quanto inizialmente dichiarato). Tale circostanza veniva confermata dal rinvenimento delle chiavi dell'autovettura in uso all'indagato nella camera da letto dove era stato rinvenuto il cadavere. 

Inoltre nonostante l'indagato avesse disinstallato l'applicazione dal cellulare, sono stati acquisiti circa 6.000 file audio relativi alle registrazioni delle sue telefonate, in cui emerge "con ragionevole certezza" la personalità dell'indagato e della vittima e la natura "burrascosa" della loro relazione. In particolare trovavano riscontro le numerose testimonianze rese da amiche, colleghi e vicini di casa della vittima circa le ripetute e costanti violenze fisiche e psicologiche subite dalla ragazza per la smisurata gelosia dell'indagato.

Metropolis/146 - "Moscow rule". Il retroscena sui rapporti Lega-Mosca, il Pd nella rete dei veti incrociati. Ospiti: Ascani, Centinaio, Costa e Serra. Con Bei e Iacoboni (integrale)

Da bolognatoday.it il 29 luglio 2022.

C’è un arresto per omicidio nel caso della morte di Kristina Gallo, donna di trent’anni trovata morta in via Andrea Da Faenza nel marzo 2019 in casa sua, dopo giorni. I Carabinieri di Bologna, nella serata di ieri, hanno arrestato e tradotto in carcere un 44enne del posto, l'ex compagno di lei, con l’accusa di omicidio aggravato, essendosi secondo quanto emerso già resosi responsabile di atti persecutori nei confronti della vittima. 

Il provvedimento cautelare, adottato dal GIP del Tribunale di Bologna, avrebbe accolto in toto le richieste avanzate dalla Procura felsinea, di cui ha condiviso integralmente le valutazioni e le risultanze delle articolate, complesse e variegate indagini delegate ai Carabinieri. 

Cold case a una svolta: in manette l'ex compagno

Il cadavere nudo, della ragazza fu rinvenuto dal fratello, in stato di decomposizione, il 26 marzo 2019, all’interno della propria abitazione, dove giaceva da diversi giorni in compagnia del suo rottweiler. Gli elementi raccolti in sede di sopralluogo e le prime valutazioni medico-legali rendevano compatibile il decesso con cause naturali.

Nel frattempo i militari hanno avviato indagini sulla personalità e sulle relazioni intrattenute dalla vittima. La donna era madre di una bambina, affidata al padre, aveva lavorato presso un centro scommesse ed aveva avuto negli ultimi tempi una relazione sentimentale con l’arrestato. Quest'ultimo, negando ogni coinvolgimento, riferì allora di aver interrotto la relazione circa una settimana prima del decesso della trentenne. 

Indagini andate avanti su richiesta dei familiari

Il Tribunale, anche su richiesta dei familiari della ragazza, ha disposto però ulteriori indagini di natura medico legale e tecnico scientifiche sul luogo del reato. Nel frattempo però il cadavere era stato cremato e l’abitazione dove la ragazza viveva in affitto era stata restituita al proprietario.

A disposizione sono rimasti però i campioni biologici prelevati dall'autopsia oggetto di ulteriori approfondimenti. Esami poi incrociati da parte dei Ris di Parma sui profili genetici, questi ultimi estratti altresì dalla scena di quello che ora ha assunto i contorni di un crimine. Scena ricostruita in 3D, dove è emerso il coinvolgimento dell’indagato nella morte della donna, avvenuto per asfissia meccanica. 

"Lei soffocata": la scena ricostruita dal Ris in 3D

Anche l'analisi dei tabulati telefonici avrebbe confermato la presenza dell’indagato presso l’abitazione della donna, anche nella settimana precedente il decesso (smentendo quanto inizialmente dichiarato dal 44enne). Ulteriore prova a Carico dell'arrestato sono le chiavi dell’auto, trovate nella camera da letto dove era stato rinvenuto il cadavere.

Inoltre nonostante l’indagato avesse disinstallato l’applicazione dal cellulare, sono stati acquisiti circa 6.000 file audio relativi alle registrazioni delle sue telefonate, in cui emerge “con ragionevole certezza” la personalità dell’indagato. In particolare hanno trovato riscontro le numerose testimonianze rese da amiche, colleghi e vicini di casa della vittima circa le ripetute e costanti violenze fisiche e psicologiche subite dalla ragazza per la smisurata gelosia dell’indagato.

Sirio Tesori per bolognatoday.it il 29 luglio 2022.

Tu vieni con me fino alla fine", "ti apro la testa", "ti massacro di botte". Sono alcuni dei tanti, tra messaggi e frasi, rivolti a Kristina Gallo alcuni mesi prima della sua morte, che ora gli inquirenti hanno ipotizzato essere avvenuta per mano del suo ultimo ex compagno, un 44enne arrestato ieri dai carabinieri di Bologna al termine di una fase investigativa che si è protratta per ben tre anni. 

A tanto si è dovuti arrivare infatti per un delitto che inizialmente era stato declassato a morte per cause naturali. Durante le prime indagini, durate per ben un anno poco o nulla si è potuto ricavare dagli indizi conosciuti sino a quel momento. Sono state le nuove indagini disposte dal Gip, insieme con l'ausilio dei tecnici del Ris di Parma e della polizia postale, insieme a nuovi esami sui campioni biologici e a una ricostruzione in 3D della scena del delitto a fare luce sul caso, dando un volto a un sospettato. 

Oltre 6mila audio cancellati, ma gli inquirenti recuperano tutto

Di più hanno anche fatto le oltre seimila tracce audio recuperate dal telefono dell'indagato stesso, riferite da un anno prima sino a qualche mese dopo il decesso della ragazza. In mezzo, un quadro fatto di angherie e soprusi quotidiani, secondo quanto evidenziato nell'ordinanza. I frammenti sonori -salvati da una App che registrava tutte le telefonate dell'indagato- sono stati eliminati dopo qualche mese, ma i tecnici sono riusciti lo stesso a recuperarne il contenuto, aprendo la strada a nuovi, determinanti, approfondimenti. 

Atti persecutori continuati: "Kristina costretta a licenziarsi per gelosia"

Il giudice Roberta Dioguardi, nelle 25 pagine di ordinanza, ripercorre tutto l'iter investigativo, specificando che da quanto raccolto emerge un quadro di "perdurante assoluta condizione di soggezione e paura per la propria incolumità " fino a uno stato di "segregazione morale".

Tra le condotte che hanno contribuito a rafforzare l’accusa di atti persecutori -oltre a quella di omicidio aggravato- vi è la testimonianza di numerose persone che affermano come Gallo abbia dovuto licenziarsi per non incorrere nelle ire dell'indagato, ossessionato dalle frequentazioni con i colleghi maschi della sala scommesse dove la donna era impiegata. 

Non solo, la vittima è stata "ripetutamente privata per lunghi periodi dell'uso di telefoni cellulari che sistematicamente sottraeva alla vittima distruggendoli". Almeno uno di questi apparecchi -si legge nel documento- sarebbero poi stati rinvenuti nelle disponibilità di alcuni spacciatori, con i quali lo steso indagato aveva frequenti contatti. 

Queste deprivazioni erano estese anche alla possibilità di vedere la figlia avuta da una precedente relazione. Infatti il padre della bimba doveva telefonare al 44enne per farle sapere i giorni nei quali poteva vedere la piccola. Infine, quando Kristina ha fatto sapere di non volerne più sapere di lui l'indagato "la tempestava in ogni ora del giorno e della notte di telefonate, messaggi o chiamate". […]

Genova, uccide la moglie e chiama i carabinieri. Si stavano separando. Giulia Mietta su Il Corriere della Sera il 27 Luglio 2022.

È successo a San Quirico, frazione dell’entroterra genovese, nel tardo pomeriggio. I militari lo hanno tenuto al telefono a lungo per individuarlo. Due giorni fa la tragedia di Valentina di Mauro. 

Ha ucciso la moglie e poi ha chiamato i carabinieri per denunciare quanto appena successo. È accaduto nel tardo pomeriggio di oggi a San Quirico, località dell’entroterra genovese. A due giorni dalla morte di Valentina di Mauro, 33 anni, uccisa dal compagno Marco Campanaro, un altro femminicidio: Sebastiano Cannella, 58 anni, operaio, ha strangolato la moglie coetanea, Marzia Bettino, nella casa dove abitavano e, dopo aver girovagato per la Valpolcevera, ha telefonato alle forze dell’ordine. Sul posto sono subito accorsi i militari del nucleo investigativo e radiomobile. 

Secondo quanto appreso dai primi rilevamenti degli investigatori, sembra che da tempo tra i due ci fossero frizioni ed è per questo la coppia si stava separando. I militari hanno fatto parlare al telefono a lungo l’uomo per avere indicazioni sul luogo da dove stesse chiamando. Quando è stato individuato, è stato raggiunto da più pattuglie. L'uomo è stato trasferito a Forte San Giuliano, sede del comando provinciale dei carabinieri, per essere interrogato.

A carico dell’uomo non c’erano mai state denunce relative a violenze in famiglia. Secondo quanto trapela dai militari, invece, era stato proprio il 58enne in passato a denunciare la donna per presunte minacce. I due avevano un figlio.  

Genova, strangola la moglie e poi chiama i carabinieri. Giuseppe Filetto e Marco Lignana  La Repubblica il 27 Luglio 2022. 

La coppia, entrambi italiani e di 58 anni, residenti sulle alture del quartiere di Bolzaneto, era in fase di separazione

Ha ucciso la moglie, a seguito di un violento diverbio con ogni probabilità originato da una separazione in corso. Secondo le prime notizie, l'uomo, Sebastiano Cannella di 58 anni, l'avrebbe strangolata con le mani al culmine della lite.

Poi è uscito di casa, ha girovagato tra i quartieri della Valpolcevera, entroterra di Genova, infine con il suo telefonino si è deciso a chiamare i carabinieri. Ed ha detto: "Ho ucciso mia moglie, venite a prendermi". Ha ammazzato Marzia Bettino, sua coetanea, la donna con la quale ha avuto due figli maschi. Appena fermato dai militari ha aggiunto: "Non ce la facevo più".

In un primo momento i militari dell'Arma lo hanno trattenuto al telefono, temendo che l'uomo potesse fare qualche altro gesto violento anche contro se stesso. Inoltre, gli hanno parlato a lungo per avere indicazioni da dove stesse chiamando. Quando è stato individuato il luogo, è stato raggiunto da alcune pattuglie che lo hanno bloccato. 

Dalle prime notizie che trapelano da ambienti investigativi, l'uomo, un escavatorista non ancora in pensione, non accettava la separazione. Secondo quanto raccontano i vicini di casa, tra i due da tempo ci sarebbero state delle frizioni, soprattutto dovute alle proprietà dei due. A quanto pare Marzia Bettino avrebbe ereditato una delle palazzine in cui abitava dai genitori, ma poi la casa sarebbe stata costruita e ristrutturata dal marito.

Sul posto oltre i carabinieri del Nucleo Radiomobile e del Nucleo Investigativo, si sono portati anche i soccorritori del "118",  mentre il magistrato di turno Federico Panichi sta interrogando l'uomo in caserma.

Arrestato in flagranza il fidanzato. Uccisa a coltellate, Valentina massacrata a 33 anni in casa: fermato il compagno. Vito Califano su Il Riformista il 25 Luglio 2022.

Valentina Di Mauro scriveva in uno dei suoi ultimi post sui social che aveva “sempre pensato che essere forti significasse ‘andare avanti’, invece voleva dire ‘andare oltre’”. È stata uccisa a coltellate nella sua abitazione, aveva 33 anni e per la sua tragica fine è stato fermato in flagranza di reato il suo compagno, Marco Campanaro, di 37 anni. Lunedì mattina presso l’appartamento a Cadorago, in provincia di Como, sono intervenuti i sanitari del personale del 118. Per la giovane donna non c’era però ormai niente da fare.

I carabinieri della compagnia di Cantù erano intervenuti sul posto allertati dai vicini insospettiti dalle urla che arrivavano dalla casa della donna. Di Mauro lavorava in Canton Ticino, svolgeva mansioni da collaboratrice domestica. Il compagno, magazziniere originario di Senago, lavorava anche lui in Svizzera. È incensurato. Non ci sono altri indiziati per l’omicidio. La coppia conviveva da un paio di anni in quell’appartamento di via Leopardi.

Quando sono arrivati sul posto i militari la 33enne giaceva senza vita, ferita da numerosi colpi sferrati con un’arma da taglio. Il compagno della giovane era nello stesso appartamento. Secondo quanto emerso finora la tragedia potrebbe essere scaturita da una lite scatenata da motivi di gelosia. Gli stessi vicini di casa, due coniugi, dopo aver sentito la coppia litigare intorno alle 5 di mattina, erano scesi al primo piano nel tentativo di porre fine all’aggressione. Nessuno dall’appartamento ha aperto loro la porta di casa e quindi a quel punto hanno allertato i carabinieri.

Secondo quanto riporta il media locale La Provincia di Como, ad aprire la porta ai militari sarebbe stato lo stesso Campanaro. L’uomo avrebbe avuto le mani e i vestiti sporchi di sangue. Il corpo della 33enne giaceva in bagno, straziato dai fendenti, ormai senza vita in una pozza di sangue. Alcuni dei colpi fatali, scagliati a quanto emerge con un coltello da cucina, avrebbero raggiunto la giovane donna alla schiena e al torace. Non risultano al momento segnalazioni o denunce per maltrattamenti e altre violenze da Codice Rosso da parte della vittima. Sul posto sono al lavoro i militari della compagnia di Cantù e del nucleo radiomobile per procedere con i rilievi del caso e per ricostruire la dinamica della tragica vicenda. Responsabile delle indagini è il pm della Procura di Como Mariano Fadda.

Sul cadavere della vittima sarà condotto nelle prossime ore l’esame autoptico. Secondo i dati del Viminale nei primi sei mesi dell’anno dal primo gennaio al tre luglio sono stati registrati 144 omicidi, con 61 vittime donne, 53 uccise in ambito familiare o affettivo. Di queste 53 vittime 33 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Le vittime di omicidio volontario commesse da un partner o da un ex partner, precisa il ministero dell’Interno, sono tutte di genere femminile.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Malnate, pensionata di 73 anni uccisa in casa. I vicini: la cercava uno sconosciuto. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.

L’omicidio di Carmela Fabozzi, 73 anni, è avvenuto venerdì sera a Malnate, in provincia di Varese. L'assassino non ha rubato nulla: l'ipotesi è che il killer sia entrato nell'abitazione mentre la vittima ritirava i panni stesi

Una vecchia e popolare corte sotto il campanile, ultima scala, trentun gradini, secondo piano, ballatoio, e sulla destra l’ingresso del piccolo trilocale dove è stata uccisa Carmela Fabozzi, 73 anni, la proprietaria. 

La porta era chiusa. Prima anomalia: la donna la lasciava aperta per far girare l’aria anche di sera, sicura che non vi fossero pericoli. Sui fili esterni mancavano i vestiti messi ad asciugare, ma non le mollette. 

Seconda anomalia: nella sua quotidianità routinaria, l’anziana rinvenuta senza vita alle 19 di venerdì dal figlio in via Sanvito, a Malnate, osservava una rigorosa procedura. Ovvero uscire, ritirare gli abiti, sistemarli, uscire ancora e afferrare le mollette. Nell’intervallo tra le azioni, l’assassino si sarebbe infilato nell’abitazione e avrebbe ucciso Carmela con un’arma forse improvvisata — un generico «corpo contundente» — contro viso e capo. 

In un comò, banconote della pensione: il killer nemmeno le ha cercate. Ma il killer potrebbe essere l’uomo misterioso? 

Ci dice una vicina: «Sarà stato mezzogiorno, e un tizio sui sessant’anni, nessun segno particolare, uno insomma per me normalissimo, ha suonato il campanello e ha chiesto se sapessi dov’era “la signora Carmela”». Della presenza ha parlato un secondo vicino, confermando l’età apparente e l’aspetto «assai anonimo». 

Dunque l’altroieri l’uomo misterioso era qui, e forse anche in passato a sentire un terzo vicino che ricorda di averlo visto «le settimane addietro accompagnarsi con la donna». Scoprire chi sia questa persona, se collegata all’omicidio oppure una falsa pista, è compito dei carabinieri del Comando provinciale di Varese, città con cui il paese di Malnate confina. 

Per cominciare gli investigatori hanno lavorato sui seguenti temi: la collocazione geografica del figlio, che in conseguenza di una «relazione non serena», da un mese si appoggiava alla mamma; il cellulare di quest’ultima; le frequentazioni dell’anziana. 

Ebbene, al momento la posizione del figlio, imprenditore edile in Svizzera, sarebbe «comprovata» rispetto all’estraneità al delitto ma le verifiche proseguono; il telefonino non ospitava un intenso traffico di chiamate e messaggi (nel senso di sospetti); le frequentazioni di Carmela Fabozzi, quelle note, «ufficiali», veicolano a coetanee con le quali lei, vedova, si fermava a parlare al cimitero e al supermercato, e ad amicizie fra i Testimoni di Geova. 

Il medico legale, tenendosi ampie riserve a dopo l’autopsia, non ha fornito un’ora precisa dell’omicidio comunque collocandolo tra tarda mattinata (più probabile) e pomeriggio. Sparita l’arma, manovrata con furia e insistenza. Il killer ha infierito sull’anziana a terra agonizzante. 

Nessun elemento, quale ad esempio un bicchiere per gli ospiti depositato sul tavolo o nel lavello, e in generale tracce nette, lascia ipotizzare una sosta prolungata (e anche attesa) dell’ospite. Non ci sarebbero telecamere «utili» nella corte, popolata da italiani imparentati e stranieri. Decine di abitanti che sostano sui ballatoi e girano in cortile. Situazione che negli inquirenti genera dubbi su di un «esterno» che si sarebbe avvicinato e allontanato quando c’erano movimenti (i bimbi giocavano, gli adulti rincasavano per la pausa pranzo, altri adulti parcheggiavano dopo la spesa nei molti posti a disposizione...). 

Al solito, in un’indagine nulla e nessuno viene escluso. Non risultano rancori di Carmela con i residenti: i carabinieri vogliono capire l’esistenza di uno scenario opposto.

Telefono e uomo misterioso. È caccia al killer di Carmela. Paola Fucilieri il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Scomparso il cellulare della vittima, non si trova l'arma. I vicini: "Uno sconosciuto la cercava"

Un telefonino introvabile, uno sconosciuto sparito nel nulla (come, del resto, l'arma del delitto, che potrebbe essere una spranga o qualcosa di molto simile) e un'ipotesi che, con il passare delle ore, assomiglia sempre più a una certezza. Sarebbe stata uccisa, con grande rabbia e determinazione, infatti, da qualcuno che la conosceva piuttosto bene Carmela Fabozzi, la 73enne trovata morta nella sua abitazione a Malnate, sette chilometri a sud est di Varese, venerdì sera dal figlio 49enne che, dopo aver scoperto il cadavere della madre - a terra, con il cranio spaccato e tanto sangue intorno - ha lanciato l'allarme. Nessuno tra i vicini in quelle ore ha sentito la donna - che viveva al secondo piano di una palazzina di cortile nel centro del paese, in via Sanvito - gridare o lamentarsi, nemmeno litigare, come avrebbe fatto qualora si fosse trovata un estraneo in casa all'improvviso.

Come hanno verificato i carabinieri del nucleo investigativo di Varese che conducono le indagini, nel pomeriggio un uomo sui sessant'anni, che era già stato visto lì più volte ma che nessuno nella corte sembra conoscere personalmente, aveva chiesto a una vicina, dopo averle suonato il campanello di casa, se sapeva dove fosse «la signora Carmela» visto che la porta della sua abitazione era chiusa e lei non rispondeva. «A quell'ora forse però la donna era già morta» spiegano gli investigatori dell'Arma. Che in casa di Carmela Fabozzi non hanno trovato elementi che possano ricondurre a una visita prolungata, come tazzine da caffè o bicchieri nel lavabo. La casa era in perfetto ordine e anche i contanti della pensione della donna sono stati rinvenuti in un cassetto. Elementi questi che farebbero escludere, almeno all'apparenza, un tentativo di rapina finito male.

Quella dell'uomo che chiede notizie della 73enne ai vicini potrebbe essere quindi una messinscena? Non è escluso visto che lo sconosciuto in questione, di cui è stata data una sommaria descrizione («un tipo del tutto anonimo» assicura la vicina della 73enne uccisa), non si è ancora fatto vivo con gli investigatori per raccontare la sua versione dei fatti.

Ma i misteri non finiscono qui. Il figlio della signora Fabozzi ha spiegato ai carabinieri che la madre aveva un telefonino che però usava raramente e che adesso non si trova anche se la casa è stata perquisita da cima a fondo. L'uomo - che passa la maggior parte del tempo in Svizzera per lavoro e, separato dalla moglie da diverso tempo, ogni tanto trascorre dei periodi con la madre, nella vecchia casa di famiglia a Malnate - si dice certo che la «chiave» per arrivare al responsabile dell'omicidio della madre potrebbe trovarsi proprio nel cellulare dell'anziana e quindi nelle ultime chiamate fatte dalla donna prima di venire uccisa.

Il giallo a Malnate. Massacrata a sprangate in casa, il cadavere di Carmela Fabozzi ritrovato dal figlio. Vito Califano su Il Riformista il 23 Luglio 2022

È stato il figlio a scoprire il cadavere di Carmela Fabozzi nella casa dove viveva con la madre. Senza vita, ferita, colpita più volte con un oggetto contundente. Al momento è un giallo quello della 73enne trovata morta a Malnate, in provincia di Varese. Sul caso indagano i carabinieri. Per omicidio.

Il figlio era tornato a viveva da circa un mese con la madre. Si era separato dalla compagna. Secondo le prime informazioni riportate dall’Ansa sul corpo della donna sono state rinvenute diversi segni di aggressione. La donna è stata colpita ripetutamente con un corpo contundente, forse una spranga.

Ricostruisce il quotidiano Il Giorno che la porta dell’appartamento era aperta, il cadavere per terra in mezzo a una pozza di sangue. Nessun segno di scasso, la donna ha presumibilmente aperto la porta a chi è entrato. L’appartamento è stato messo sotto sequestro così come il cellulare della donna.

Fabozzi era una persona riservata, era in pensione dopo aver lavorato per tanti anni in Svizzera. In un primo momento gli inquirenti avevano preso in considerazione la pista dell’incidente domestico: un malore che avrebbe fatto cadere e urtare la donna contro un mobile e per terra. Le ferite però raccontano un’altra storia. Sul corpo è stata disposta l’autopsia.

I carabinieri del Nucleo Investigativo di Varese sono intervenuti ieri sera, dopo l’allarme lanciato dal figlio, sul luogo del delitto. Non si esclude la pista di una rapina culminata nel massacro mortale. Al vaglio le immagini delle telecamere di sorveglianza della zona per ricostruire la dinamica dell’accaduto.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

In viaggio dopo il delitto, preso il killer di Malnate. Carmela Fabozzi uccisa con un vaso da un conoscente che aveva fatto volontariato con lei. Paola Fucilieri il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

Milano. «Vive in balia di un pressante bisogno di denaro. La sera dell'omicidio è partito per le vacanze, dove è rimasto fino al 17 agosto, abbandonando poi l'albergo senza pagare il conto».

Viene descritto così, nell'ordinanza di custodia in carcere della Procura di Varese l'italiano di 66 anni arrestato ieri per l'omicidio di Carmela Fabozzi, la 73enne uccisa nella sua casa di Malnate (Varese) il 22 luglio. L'uomo ha già alle spalle numerosi precedenti penali, in particolare per reati contro il patrimonio, ricettazione e truffe ad anziani.

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori - i carabinieri della compagnia di Varese guidati dal colonnello Gianluca Piasentin - la donna è stata uccisa con dei violenti colpi al cranio sferrati con un pesante vaso in vetro, che conteneva fiori secchi. Il vaso è stato poi ritrovato su un mobile vicino all'ingresso dell'abitazione, mentre i fiori sono stati rinvenuti sotto il cadavere della donna.

Il resto lo hanno fatto i rilievi del Ris di Parma che hanno permesso di rinvenire nel vaso le impronte dell'indagato - presente negli archivi delle forze dell'ordine proprio a causa della sua lunga lista di precedenti - e di stabilire che lo stesso vaso aveva numerose tracce di sangue, riconducibili proprio alla signora Fabozzi.

Secondo l'ipotesi investigativa l'omicidio sarebbe arrivato al culmine di una discussione dopo una insistente richiesta di soldi all'anziana da parte del 66enne. Dalla casa però non è stato portato via nulla, tanto meno il denaro della pensione che è stato ritrovato in un cassetto del soggiorno.

«Gli ambienti domestici erano in ordine senza alcun segno che potesse far supporre l'ingresso da parte di alcuno che avesse rovistato affannosamente alla ricerca di valori per ipotizzare un furto o una rapina» scrive ancora la Procura. Gli unici oggetti mancanti, infatti, erano i due telefoni cellulari della vittima che contenevano contati riconducibili all'assassino, ben conosciuto dalla vittima, fatto che è apparso subito chiaro dalle prime battute dell'indagine. La Fabozzi aveva infatti utilizzato i servizi offerti da una cooperativa sociale che aiuta gli anziani della zona, presso la quale l'uomo prestava servizio come volontario.

Al responsabile del delitto i carabinieri sono arrivati grazie alle testimonianze di due vicini che avevano notato l'uomo (peraltro già visto in zona qualche mese prima) intorno a mezzogiorno nel giorno del delitto, sulle scale e che bussava alla porta della Fabozzi.

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 20 agosto 2022.

Dunque il presunto killer di Carmela Fabozzi è proprio lui: quel «sessantenne» del quale, prima con i carabinieri il giorno stesso dell'omicidio, il 22 luglio, e l'indomani con il Corriere, aveva parlato una vicina di casa. Si chiama Sergio Domenichini, di anni esatti ne ha 66; un balordo dai vari precedenti per furti e truffe. Con la colpevole cecità, forse fisiologica, di un'associazione per la terza età frequentata dall'anziana, Domenichini si era riciclato volontario. Una copertura per scegliere nuove vittime e colpirle. Consegnava pasti e accompagnava in macchina gli anziani negli ospedali.

La signora Carmela, uccisa all'interno del suo trilocale, al secondo e ultimo piano di una corte popolare di Malnate, paese confinante con Varese, lo aveva fatto entrare oppure quello si era intrufolato di nascosto. Forse sorpreso a rovistare nei cassetti, l'aveva colpita più volte al capo. Con accanimento, anche quand'era agonizzante sul pavimento.

Si pensa che Domenichini abbia agito con un vaso di fiori, su cui gli esperti del Ris hanno isolato impronte dello schedato killer. Un killer che si è lasciato dietro una lunga catena di errori, pur convinto di non venire mai rintracciato: la sera stessa del 22 luglio (a mezzogiorno l'assassinio, alle 19 la scoperta del cadavere da parte del figlio dell'anziana), era andato in ferie a Lignano Sabbiadoro, per tornare mercoledì scorso. Di ieri pomeriggio l'arresto: Domenichini è apparso assai stupito della visita dei carabinieri del Comando provinciale di Varese, che con pazienza e metodo l'hanno «collocato» sulla scena del crimine. L'uomo s' è trincerato nel silenzio, si vedrà il comportamento nell'interrogatorio. Ma come detto il quadro accusatorio risulta solido.

Del resto ci sono la sovrapposizione tra la fotografia del suo volto e il ricordo della vicina; due telefonate alla vittima alle 11.47 e alle 11.59 di quel 22 luglio, un venerdì; la sosta, a bordo della macchina, nelle vicinanze della corte; lo spostamento verso un autolavaggio alle 12.48 per una insistita pulizia dell'abitacolo nonostante avesse noleggiato la vettura poche ore prima; una successiva e anomala ricomparsa nel centro storico di Malnate, filmato da telecamere di videosorveglianza, per passeggiare curiosando; la conferma da parte degli altri volontari di una datata conoscenza tra Domenichini, residente in provincia, e la signora Carmela, vedova e pensionata dopo una vita a faticare in Svizzera; e ancora ci sono ulteriori tracce della presenza del killer nel trilocale, nonché il tentativo di costruirsi un alibi: nel percorrere il cortile per allontanarsi, aveva chiesto a dei residenti se sapessero dove fosse l'anziana.

Voleva far intendere che la stava andando a visitare, ma non avendola trovata aveva desistito. Non sembra esser stato un delitto premeditato, anche se la Procura non esclude che Domenichini stesse mettendo in atto un tentativo per estorcere denaro. L'ennesimo raggiro di un'esistenza da randagio. Nell'hotel di Lignano Sabbiadoro, finito il pernottamento, era fuggito di nascosto senza pagare. 

Uccisa in casa nel Varesotto, lo strano legame del presunto omicida con Olindo e Rosa (e la strage di Erba). Redazione Web su Il Mattino il 20 agosto 2022.

Un ulteriore mistero nel mistero grava sulla storia di Carmela Fabozzi - uccisa a Malnate (Varese) - e riguarda il suo presunto omicida. L'uomo che, secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti, l'avrebbe uccisa nella sua abitazione e poi è partito tranquillamente per le vacanze. Una rapita finita male? No perché Sergio Domenichini, 66 anni, dalla casa dell'anziana ha prelevato solo due telefoni, staccati il giorno del delitto perché, secondo il gip, con «ogni evidenza contenenti messaggi e contatti riconducibili all'aggressore».

Il legame con Olindo e Rosa

Sergio Domenichini, 66 anni, arrestato per l'omicidio della pensionata Carmela Fabozzi, 73 anni - uccisa nella sua casa di Malnate con dei colpi di un vaso per fiori alla testa - aveva deposto nel 2008 davanti alla Corte d'assise di Como nel corso del processo sulla strage di Erba (quattro morti tra cui un bambino di due anni e un ferito grave) che portò alla condanna definitiva dei coniugi Olindo Romano e Rossa Bazzi. «Ero nella cella di fronte - disse allora in aula Domenichini, detenuto per droga - non mi ha mai accennato a quello di cui era accusato, lo seppi dai giornali. Mi disse sempre di essere innocente e che non aveva fatto niente». Domenichini, che aveva conosciuto la pensionata per via della sua attività presso un'associazione di volontariato a favore degli anziani, era partito per le vacanze al mare il giorno stesso del delitto, il 22 luglio, ed era tonato da Lignano Sabbiadoro il 17 agosto, senza pagare il conto dell'albergo. Ora è in attesa dell'interrogatorio di garanzia.

Carmela Fabozzi, tutto quello che sappiamo sull'omicidio

Carmela Fabozzi, 73 anni, vedova da tempo, era «una persona cordiale ma schiva e riservata», aveva «lavorato una vita intera in Svizzera» e percepiva «una pensione che le consentiva di vivere comodamente senza preoccupazioni di carattere economico». Una vita «piccola» la sua, scrive il gip che ha disposto l'arresto del suo presunto omicida, «prevalentemente spesa a Malnate tra i negozi dove faceva i suoi acquisti e le visite quasi quotidiane al cimitero». Perché questa vita «piccola», ordinaria, sia stata stroncata con oltre nove colpi di un corpo contundente alla testa, un vaso di fiori, dovrà spiegarlo Sergio Domenichini, 66 anni con precedenti per reati contro il patrimonio, ricettazioni e truffe anche in danno di persone anziane. Domenichini viveva di espedienti ed è stato arrestato al suo ritorno dalle vacanze, dove era rimasto dal giorno dell'omicidio, lo scorso 22 luglio, fino al 17 agosto lasciando l'albergo in cui si trovava senza pagare il contro. Il movente non è una rapina finita male, Domenichini, dalla casa ha preso solo due telefoni, staccati il giorno del delitto perché, secondo il gip, con «ogni evidenza contenenti messaggi e contatti riconducibili all'aggressore». I carabinieri del Reparto operativo Nucleo investigativo di Varese avevano individuato l'uomo anche sulla scorta delle testimonianze dei vicini della vittima. Era volontario per un'associazione che assiste anziani nei trasporti, nel portare loro cibo o medicinali e Carmela Fabozzi l'aveva già incontrato perché in alcune occasioni, aveva usato questo servizio. Dalle indagini erano emersi altri indizi. 

Strage di Erba, i giudici alla difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi: no a nuovi reperti della scena del delitto

La donna era stata uccisa nell'ingresso dell'abitazione, vicino ad un mobile con un pesante vaso di fiori secchi, trovati sotto il corpo della donna, mentre il vaso era al suo posto. Gli accertamenti del Ris di Parma hanno consentito di trovare all'interno del vaso le impronte dell'arrestato, all'esterno tracce di sangue. Il piccolo appartamento appariva in ordine, con letto rifatto, la zona soggiorno sostanzialmente intatta. L'anziana era vestita con cura e aveva indosso anche qualche gioiello. Sulla sedia quasi accanto al punto in cui è stata uccisa, due borsette e sul tavolo un piccolo portafogli con una tessera bancomat e denaro contante. I carabinieri del RIS hanno trovato impronte di sangue, invisibili a occhio nudo, lasciate da scarpe da ginnastica dalla suola molto particolare, del tutto simile a quella indossate dall'uomo nei video delle telecamere intorno all'abitazione della vittima quella mattina. Scarpe trovate nella sua auto e sulle quali vi erano macchie di sangue. ora oggetto di esame. La presenza di Domenichini sul luogo del delitto emerge dalle immagini delle telecamere intorno all'abitazione della vittima che aveva cercato prima al telefono due volte senza ottenere risposta. Nel pomeriggio, a bordo dell'auto che aveva fatto lavare, aveva effettuato continui passaggi nella zona, senza apparente motivo, fino alla sera, quando era partito con la compagna per le vacanze.

Giallo a Napoli, trovata morta una 25enne lucana. Il Quotidiano del Sud il 23 Luglio 2022.

Studiava Giurisprudenza all’Università di Napoli. Ma Silvia Sabato, studentessa di 25 anni, quegli studi purtroppo non potrà portarli a termine. Il corpo della ragazza, infatti, è stato trovato privo di vita giovedì scorso nell’appartamento in cui viveva, nel centro storico di Napoli. La giovane, originaria di San Cataldo, frazione di Bella, era a Napoli all’Università dal 2017.

Da diversi giorni sembra che le amiche e i familiari non riuscissero più a mettersi in contatto con lei: hanno provato a chiamarla più e più volte, ma Silvia non rispondeva. Allarmati per il prolungato silenzio, si sono così rivolti ai carabinieri, per capire se le fosse successo qualcosa.

E quando i carabinieri sono entrati nell’appartamento del centro storico di Napoli in cui la ragazza viveva, non hanno potuto che constatarne il decesso. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e i sanitari del 118, ma per la 25enne non c’è stato niente da fare.

Cosa sia accaduto in quell’appartamento è ora motivo d’indagine e sembra vi sia il più stretto riserbo.

Sconosciute al momento le cause della morte. Le indagini non escludono la pista di un malore che avrebbe stroncato la ragazza, ma solo successivi esami potranno accertare la dinamica dei fatti. Il magistrato di turno della Procura di Napoli ha disposto il sequestro dell’appartamento e la salma della ragazza è stata condotta in obitorio. La Procura ha anche disposto l’autopsia sul corpo, che verrà effettuata nei prossimi giorni.

E sconvolta è la piccola comunità di Bella: «Una terribile notizia – ha scritto sulla pagina Facebook del Comune, il sindaco Leonardo Sabato – ha colpito, ancora una volta, la nostra comunità. Dolore e sgomento per la morte di un’altra giovane vita strappata alla famiglia, ai parenti e agli amici. La morte è sempre un mistero, ma quando essa colpisce una giovane ragazza si perde ogni equilibrio. Per ora non ci resta che il silenzio e stringerci al dolore della famiglia. Riposa in pace Silvia».

Una giovane vita spezzata, in una piccola comunità è una notizia sempre dolorosa. Ma il mistero attorno alle ultime ore di vita di Silvia rende questa vicenda ancora più tragica.

DI ORIGINI LUCANE. Mistero a Napoli: studentessa di Bella trovata morta nella sua abitazione. La giovane frequentava l'Università. A dare l'allarme la famiglia che non riusciva a mettersi in contatto con lei da troppe ore. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Luglio 2022

Èavvolta nel mistero la morte di Silvia Sabato, 26 anni, di Bella, trovata morta nel suo appartamento nel centro storico di Napoli la sera di giovedì. A trovarla i carabinieri della Compagnia di Napoli, allertati dalla famiglia della ragazza che non riusciva a mettersi in contatto con lei da troppe ore. Silvia era iscritta dal 2017 all’Orientale di Napoli e frequentava la triennale di Archeologia. La famiglia abita a San Cataldo di Bella, una piccola comunità che ha accolto la notizia con particolare sconcerto.

I carabinieri, una volta fatta irruzione nell’abitazione, trovato il corpo senza vita della studentessa, hanno avvisato il magistrato di turno che ha disposto il sequestro dell’appartamento. La salma è stata invece trasferita all’obitorio dove nelle prossime ore sarà eseguita l’autopsia. Al momento, non sono ancora chiare le cause della morte. Gli investigatori mantengono il più stretto riserbo.

Il sindaco di Bella Leonardo Sabato ha interpretato lo sgomento della comunità: «Dolore e sgomento per la morte di un’altra giovane vita strappata alla famiglia, ai parenti e agli amici. La morte è sempre un mistero, ma quando essa colpisce una giovane ragazza si perde ogni equilibrio. Per ora non ci resta che il silenzio e stringerci al dolore della famiglia. Riposa in pace Silvia».

Arrestato poliziotto a Gallipoli, picchiava per gelosia la propria compagna davanti alla figlia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Luglio 2022

"Cattivo, cosa hai fatto alla mamma? Chiamo i Carabinieri" ripeteva una bambina davanti al compagno della madre che, picchiava la donna quasi quotidianamente dentro casa.

Un agente della Polizia di Stato, originario di Gallipoli, è stato arrestato su richiesta della Pm Rosaria Petrolo e posto ai domiciliari con l’applicazione del braccialetto elettronico così come disposto dal Gip Angelo Zizzari, rispondendo delle accuse di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali aggravate e minaccia. La misura di custodia è stata confermata dal Gip dopo una prima istanza di scarcerazione depositata subito dopo l’udienza di convalida in cui il poliziotto ha negato gli addebiti. “Cattivo, cosa hai fatto alla mamma? Chiamo i Carabinieri” ripeteva una bambina davanti al compagno della madre che, picchiava la donna quasi quotidianamente dentro casa.

Adesso la richiesta di scarcerazione passerà ora al vaglio del Tribunale del Riesame dove l’avvocato difensore del poliziotto ha già depositato il proprio ricorso. Nel frattempo l’agente ha messo a disposizione della pm Petrolo volontariamente i propri telefoni cellulari per far effettuare un accertamento tecnico irripetibile. 

La donna dopo anni di soprusi e angherie ha deciso di denunciare tutto ai Carabinieri sostenendo nella propria denuncia di essere stata picchiata ripetutamente dal compagno-poliziotto che aveva nei suoi riguardi atteggiamenti autoritari e prevaricatori impedendole persino l’utilizzo dei social network. Offese continue, insulti e persino la pretesa di verificare in tempo reale gli spostamenti della donna controllando la fondatezza dei movimenti attraverso la sua posizione gps. Persino episodi di violenza fisica quando un collega di lavoro della donna le aveva fatto delle avances invitandola a cena.

Una violenza fisica e mentale ormai insostenibile che ha indotto la donna persino a rassegnare le dimissioni dal posto di lavoro per l’eccessiva gelosia del poliziotto. L ‘agente avrebbe aggredito la donna in una circostanza nell’ agosto 2021, in quanto non era soddisfatto della pulizia della casa mentre aspettavano degli ospiti per cena. Ma anche poi calci e pugni soltanto perché un collega della sua compagna l’aveva salutata dicendole “Ciao bella, sei arrivata?“.

La donna è dovuta ricorrere alle cure dei sanitari dell’ospedale lo scorso 20 gennaio ed il 19 giugno , con prognosi rispettive di dieci e sette giorni. Ma la violenza psicologica sarebbe continuata, secondo quanto denunciato, anche quando la donna decise di abbandonare l’abitazione familiare per fare rientro nel proprio paese di origine. Messaggi e telefonate continue a tutte le ore del giorno e della sera. Secondo il giudice Zizzari, le dichiarazioni della donna superano senza alcun di dubbio, la verifica dell’ attendibilità e credibilità del suo racconto, le dichiarazioni cui hanno trovato riscontro in tali atti d’indagine se si considera che gli atti di violenza si verificavano persino in presenza della figlia piccola. Redazione CdG 1947

«Marianna si è suicidata», il Tribunale di Lecce scagiona il marito. Posta la parola fine sulla tragedia di Novoli del 30 novembrina 2016. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

“È possibile serenamente assumere l’estraneità di Emanuele Montinaro nella morte della moglie Marianna Greco, per come emergente dalle indagini espletate, che sono state svolte in modo ineccepibile, sondando ogni aspetto della vicenda, approfondendo e scandagliando la vita privata dell’indagato, andando oltre la diligenza per fugare ogni dubbio investigativo”. Si tratta solo di uno stralcio dell’articolata ordinanza di archiviazione con la quale il gip Alessandra Sermarini scrive definitivamente la parola fine sull’inchiesta per la morte di Marianna Greco, trovata morta con 5 coltellate alla gola nella sua abitazione di Novoli la mattina del 30 novembrina 2016. Fu un suicidio, scrive il gip accogliendo in pieno le argomentazioni del pubblico ministero Simona Rizzo. Emanuele Montinaro non ha avuto alcun ruolo nella vicenda, la povera Marianna fece tutto da sola. Il provvedimento, depositato ieri di cui la Gazzetta riporta stralci in esclusiva, smonta punto per punto tutte le argomentazioni contenute nell’ opposizione presentata dai familiari, che pare non volessero proprio rassegnarsi al fatto che Marianna avesse compiuto un gesto estremo.  Al riguardo il magistrato parla di un vero e proprio “accanimento “. In più aggiunge che le prospettazioni dell’opponente appaiono “inutili e impraticabili”. 

Primo punto: dall’esame medico legale si può dedurre senza indugio che la donna si sia inferta le coltellate da sola. “Tanto il ctu Roberto Vaglio, quanto il prof. Introna chiamato a distanza di anni dal fatto per procedere all’ esumazione della salma, certificano senza alcun dubbio che la morte di Marianna è riconducibile alla sola mano della stessa, escludendo l’intervento di terzi”.  C'è poi l’aspetto più doloroso di questa vicenda, e cioè la grave sindrome depressiva di cui soffriva la donna, tormentata dal fatto di non riuscire a concepire un figlio. Appena qualche giorno prima del suicidio, Marianna seppe che il tentativo di fecondazione assistita in Spagna non era riuscito. Inoltre, proprio per avere maggiori possibilità di far attecchire l’embrione, proprio nel 2016 aveva sospeso gli psicofarmaci. 

Le numerose persone sentite a sit e gli ulteriori accertamenti hanno smentito l'ipotesi che Montinaro potesse avere delle relazioni extraconiugali. In realtà l’imprenditore ha allacciato un nuovo rapporto sentimentale solo dopo la morte della moglie. 

Questa, in sostanza, la sintesi delle 18 pagine di cui è composto il provvedimento. L’indagato era difeso dagli avvocati Luigi Rella e Antonio De Mauro, la famiglia Greco dall’avvocato Francesca Conte. 

Laura Tedesco per corriere.it il 22 luglio 2022.

«Lui mi minacciava sempre dicendomi che se avessi raccontato che mi picchiava nessuno mi avrebbe creduto, e così ha fatto anche ieri, ripetendomi sempre che non ho i documenti». Così la 36enne brasiliana Edlaine Ferreira ha confessato di aver ammazzato il marito autotrasportatore Francesco Vetrioli di 37 anni la notte tra martedì e mercoledì, a distanza di appena 3 mesi e 18 giorni dalle loro nozze celebrate con rito civile dal sindaco in municipio a Bussolengo. 

«Alle 3:30 circa si è messo a letto - ha raccontato la donna rendendo spontanee dichiarazioni ai carabinieri quando si è costituita10 ore dopo aver assassinato il neomarito nella loro camera matrimoniale al civico 37/A di via San Valentino a Bussolengo -, io ho preso un martello e un coltello e l’ho colpito mentre dormiva».

Triplice aggravante

Ora l’omicida rea confessa è in stato di fermo in carcere a Montorio dove il 22 luglio, difesa dall’avvocata Veronica Villani, affronterà l’udienza di convalida davanti alla gip Paola Vacca: il pm Carlo Boranga l’accusa di aver tolto la vita al coniuge, originario di Verona, «colpendolo in camera da letto, mentre questi dormiva, con un martello da carpentiere al cranio per 4 volte e poi con un coltello per 18 volte al torace ed alla schiena».

Un’accusa pesantissima, che rischia di tradursi in ergastolo vista la triplice aggravante che le viene contestata dalla Procura scaligera, «l’avere commesso il fatto con premeditazione, l’avere agito contro il coniuge e l’avere approfittato di circostanze tali da ostacolare la privata difesa, avendo colpito la vittima mentre dormiva». 

Davanti al giudice la sudamericana, se non si chiuderà nel silenzio, potrebbe aggiungere nuovi particolari alla confessione rilasciata in lacrime agli investigatori mercoledì pomeriggio quando ha suonato al campanello del comando di polizia locale per costituirsi dopo essere rimasta chiusa in casa per dieci ore con il corpo del marito in boxer e calzini scuri riverso sul pavimento ai piedi del letto in una pozzanghera di sangue.

I presunti tradimenti

«Ieri sera attorno alle 23 circa ero a casa da sola - ha ripercorso i drammatici eventi Edlaine, che ha difficoltà ad esprimersi in italiano e necessita di un interprete di portoghese -, allora gli ho telefonato e gli ho chiesto dove fosse e mi ha detto che si stava fermando in banca e poi sarebbe tornato. Quando è rincasato abbiamo iniziato a litigare perché pensavo che poco prima mi avesse mentito».

A detta della neosposa assassina, il marito Francesco le ripeteva «sempre che non ho i documenti, che non ho nessuno perché anche mio padre era morto, e che al mondo mi rimaneva solo lui quindi ero costretta a fare quello che mi diceva». È entrata anche nel merito dei presunti tradimenti da parte di Vetrioli: «Una volta gli ho guardato il telefono, ho visto che scambiava messaggi relativi a prestazioni sessuali con trans e altre donne - ha rivelato la 36enne -. In quella circostanza gli ho detto che se era gay poteva lasciarmi stare e andarsene. Lui si è arrabbiato tantissimo, mi afferrato la testa e l’ha sbattuta contro il muro». 

Le nozze e i documenti

Stando alla versione della Ferreira, la vittima avrebbe ripetutamente alzato le mani su di lei: «Era un uomo geloso e violento, non mi lasciava uscire di casa se non insieme a lui, se uscivo di casa da sola e non gli davo tutti i dettagli di dove ero stata e con chi, si arrabbiava e mi picchiava». Ci si potrebbe chiedere perché lo avesse sposato se realmente era un uomo così «violento e geloso» e che in più la tradiva.

A spiegarlo agli inquirenti è stata la stessa Edlaine: «Ho conosciuto mio marito Francesco Vetrioli circa 4 anni fa perché avevamo un’amica in comune a Verona, la nostra relazione è nata circa 3 anni fa con una convivenza iniziata presso l’abitazione dei suoi genitori e successivamente continuata qui a Bussolengo dove abitiamo da circa 8 mesi. Il 2 aprile 2022 ci siamo sposati in Comune... Ho deciso di sposarmi con lui per poter regolarizzare la mia posizione nel Paese».

Il decreto di espulsione

Nel chiedere per lei la custodia cautelare in carcere, il pm sottolinea proprio che «l’indagata si trova illegalmente sul territorio dello Stato italiano»: sulla brasiliana pende infatti «l’ordine di espulsione emesso dalla Prefettura di Parma con obbligo di rimpatrio». Secondo la Procura sussistono rischi di fuga e di reiterazione «alla luce delle gravissime modalità di azione: la condotta è stata portata nei confronti di soggetto indifeso, addormentato, con una violenza inaudita, con ripetute martellate al cranio e numerosissime coltellate, diciotto». 

Una «azione peraltro scaturita - non le concede attenuanti il pm - da semplice litigio domestico, con evidentissima e macroscopica sproporzione tra le circostanze e la terribile azione omicida della donna». 

Verona, donna uccide a coltellate il marito e si costituisce: "Mi picchiava". In corso l'interrogatorio in caserma. Il delitto è stato commesso nella serata di martedì 19 luglio. La Repubblica il 20 Luglio 2022.

Un uomo di 37 anni, autotrasportatore, è stato ucciso a coltellate dalla moglie, una donna di 36 anni di origine brasiliana, che si è costituita, a Bussolengo (Verona).

Al momento sono in corso il sopralluogo sul luogo del delitto da parte dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Verona e l'interrogatorio della donna da parte del pm di turno, nella caserma di Bussolengo.

Avrebbe confessato di aver pugnalato il marito al cuore con un coltello da cucina, la donna che ha ucciso il consorte, Francesco Vetrioli, nella loro abitazione a Bussolengo. 

Il delitto, secondo quanto ricostruito, è avvenuto nel corso della notte; la donna si è presentata alla caserma locale dei carabinieri oggi intorno alle ore 13.00, confessando il delitto. La 36enne avrebbe riferito agli investigatori che il marito la picchiava e la tradiva ripetutamente.

La coppia era spostata da tre mesi. Uccide il marito camionista e si costituisce: “Mi picchiava e tradiva”. Redazione su Il Riformista il 20 Luglio 2022 

Con una pugnalata al petto ha ucciso nella notte il marito, poi dopo alcune ore si è presentata dalla polizia locale per confessare l’omicidio, avvenuto nella loro abitazione a Bussolengo, in provincia di Verona. La vittima è un uomo di 37 anni, Francesco Vetrioli, di professione autotrasportatore. Ad ammazzarlo la moglie, Edlaine Ferreira, 36enne di origine brasiliana.

Quest’ultima ha spiegato di aver ucciso l’uomo con un coltello da cucina. Il movente sarebbe riconducibile – stando al suo racconto – alle violenze che la donna subiva e ai ripetuti tradimenti. La coppia si era sposata all’inizio dello scorso aprile. I vicini, che conoscevano poco la coppia, non hanno riferiti di particolari liti.

Ferreira si è costituita alla polizia locale, dove si è presentata intorno alle 13 in stato di forte agitazione. “Verso l’una la signora ha suonato il campanello alla nostra Polizia locale, e ha raccontato di aver ucciso il marito. Era molto agitata” ha spiegato all’Ansa il vicesindaco di Bussolengo (Verone), Giovanni Amantia, che ha la delega alla sicurezza. “Il nostro comandante l’ha ricevuta e ha chiesto che confermasse questa storia. Li ha accompagnati a casa sua, e gli agenti hanno avuto conferma di quello che era successo”.

Le indagini sono adesso affidate ai carabinieri del Nucleo Investigativo di Verona. La 36enne è stata interrogata in caserma alla presenza del magistrato di turno.

Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022. Si erano sposati civilmente lo scorso 2 aprile a Bussolengo, Verona. Una coppia tranquilla, dicono i vicini di casa in via San Valentino, dove i neo sposi abitavano. Nella notte tra martedì e mercoledì, però, qualcosa deve essere accaduto, perché, secondo la prima ricostruzione dei carabinieri, verso le 3, la donna, Edlaine Ferreira, 36enne di origine brasiliana, avrebbe impugnato un coltello pugnalando diverse volte alle spalle e al petto il marito Francesco Vetrioli, autotrasportatore di 37 anni, che sarebbe morto poco dopo dissanguato in casa. La donna, sotto choc, si è presentata solo verso le 13.15 di mercoledì 20 luglio al comando della polizia locale di Bussolengo confessando l’omicidio. «Mi picchiava e mi tradiva ripetutamente», ha detto agli agenti.

Il racconto

«Verso l’una la signora ha suonato il campanello alla nostra Polizia locale, e ha raccontato di aver ucciso il marito. Era molto agitata». Lo ha riferito all’agenzia Ansa il vicesindaco di Bussolengo (Verona), Giovanni Amantia, che ha la delega alla sicurezza. Con queste parole il vicesindaco ha confermato quanto riferito dagli agenti della polizia locale di Bussolengo ai cronisti. «Il nostro comandante l’ha ricevuta - ha proseguito Amantia - e ha chiesto che confermasse questa storia. Li ha accompagnati a casa sua e gli agenti hanno avuto conferma di quello che era successo».

Coltello e martello

In camera da letto gli agenti hanno trovato il coltello da cucina e un martello con cui la donna avrebbe colpito il marito alla testa. Secondo le primissime ipotesi, il colpo mortale sarebbe stato un fendente al cuore. La donna è stata poi accompagnata nella caserma dei carabinieri, dove il magistrato di turno l’ha interrogata. Al termine di una presunta ennesima accesa lite martedì sera, avrebbe deciso di dire basta a una relazione divenuta infernale decidendo di uccidere il coniuge. In serata la donna è stata sottoposta a fermo per l’ipotesi di reato di omicidio aggravato.

Malore della madre della vittima

I genitori della vittima risiedono in un paese vicino, Sona. A dar loro la tragica notizia della morte del figlio è stato il sindaco del paese, Gianluigi Mazzi. Gli anziani familiari del 37enne, dopo il matrimonio del figlio, a maggio si erano, infatti, trasferiti lì. Una notizia che ha provocato un malore nell’anziana madre della vittima, che è stata soccorsa dal personale del Suem 118 e trasportata per accertamenti all’ospedale.

Napoli, 12enne sfregiata al viso dall’ex di 16 anni: «Il danno sarà permanente». Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.

L’aggressione in strada con un coltello dopo una lite. L’aggressore 16enne aveva già una denuncia per resistenza, e anche i suoi genitori hanno precedenti

La coltellata le ha devastato il viso. Chi ha avuto modo di vedere la ferita riferisce che per fare un danno così non basta avere una lama affilatissima: serve una ferocia ancora più tagliente, perché lo sfregio è lungo e profondo, roba che non si fa in un attimo, con un gesto d’impeto. Bisogna affondare e continuare a farlo per provocare quello scempio. Serve avere qualcosa sul cuore per rovinare così una ragazzina di dodici anni. Quella ragazzina che l’altra notte, poco dopo l’una, si è presentata accompagnata dalla madre al Pronto soccorso del Vecchio Pellegrini, e i medici, quando lei ha tolto lo straccio col quale tamponava la ferita, si sono avviliti. Hanno capito subito che uno sfregio come quello rimane per sempre. Forse con la chirurgia estetica si può ridurre, forse con un paio di interventi, se bastano. Ma non è una cosa che sparisce. La ragazzina si porterà per sempre il ricordo di quel sedicenne del suo stesso quartiere che era il suo fidanzato, se a a quell’età si può dire così. E che era gelosissimo tanto che lei lo aveva lasciato, ma lui non aveva smesso di essere geloso e nel frattempo era diventato anche violento, sempre più violento.

La dinamica

Quello che è successo l’altra notte lo ha raccontato direttamente la dodicenne ai carabinieri che sono arrivati al Pellegrini avvertiti dai medici. Lei e il ragazzo si sono incrociati nei vicoli della Pignasecca, a Napoli, negozi popolari e bancarelle di pesce, frutta e verdura di giorno, vicoli deserti di notte. Lei era sola alla guida del suo scooter, a dodici anni e a quell’ora, lui su un’altra moto con un amico. Si sono fermati e hanno cominciato a parlare, poi a discutere, quindi a litigare. E alla fine lui ha preso dalla tasca il coltello — il suo avvocato sostiene che fosse un temperino portachiavi — e ha fatto quello che ha fatto. La vicinanza con l’ospedale e con casa, da dove i genitori sono immediatamente arrivati, ha consentito che la ragazzina venisse medicata pochissimi minuti dopo l’aggressione. Le è stata suturata la ferita e poi i medici hanno ritenuto di farla ricoverare all’ospedale pediatrico Santobono. Ma più che altro per darle assistenza nel momento dello shock più profondo. Infatti dopo poche ore è stata dimessa anche dal Santobono ed è tornata a casa.

Il fermo

E poche ore è durata anche l’irreperibilità del giovanissimo accoltellatore. I carabinieri conoscono bene la sua famiglia, dove i precedenti penali sono non di poco conto, e conoscevano anche lui che nonostante l’età ha già una denuncia per resistenza e in questo periodo stava seguendo un corso di pizzaiolo nell’ambito di un percorso di messa alla prova. Quando lo hanno fermato, poco lontano dalla Pignasecca, ha detto che stava andando a costituirsi. Il pm minorile ne ha disposto il trasferimento in un centro di prima accoglienza, in attesa dell’udienza di convalida del gip. Il reato di cui dovrà rispondere è lo stesso contestato a chi aggredisce qualcuno con l’acido: tentato omicidio aggravato.

Lo sfregio. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.  

Una dodicenne sta camminando in piena notte per le strade di rione Montesanto, a Napoli, quando incrocia l’ex fidanzato, che ha poco più di sedici anni. Al culmine di una scenata di gelosia, lui estrae il coltello e vibra un colpo deciso che le procura un taglio profondo al volto, come un marchio di proprietà indelebile. Ci vorranno chissà quanti interventi di chirurgia plastica per ridurre la cicatrice in faccia e chissà quali parole per lenire quella invisibile che una storia simile lascia dentro. A noi, che la osserviamo dall’esterno, lascia un senso di incredulità e di sgomento perché ci rivela un mondo vicino, eppure sconosciuto. Dove a dodici anni ti fanno già vivere come se ne avessi sedici, e a sedici te ne vai tranquillamente a spasso con un coltello in tasca. Dove non esiste evoluzione dei costumi, ma solo bieca ripetizione di modelli arcaici, e le famiglie insegnano ancora ai figli maschi che amore e possesso sono sinonimi, e che una sconfitta sentimentale rappresenta un affronto da punire con uno sfregio. Dove una bambina - perché, comunque, a dodici anni sei una bambina - subisce un orrore ingestibile, un orrore adulto, che la condanna a una vita intera di diffidenza e di rancore nei confronti degli uomini e dell’amore in genere.

Leggo che la vittima ha trovato il coraggio di denunciare e far arrestare il suo feritore, ma è davvero l’unico piccolo, benché importante, segnale di cambiamento in questo stagno.

A 12 anni sfregiata dall'ex fidanzato di 16: la ragazzina "punita" perché lo aveva lasciato. Tiziana Paolocci il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

La giovane vittima colpita con una lama: la lesione al volto sarà permanente.

Quel segno dell'amore sbagliato, quello che da ragazzini sembra far impazzire il cuore quando una storia inizia e trafiggerlo quando finisce, Giada (nome di fantasia) lo porterà per sempre.

Sfregiata, in maniera permanente al volto, a dodici anni da un ragazzo di quattro più grande. È una storia che fa male quella che arriva da Napoli, dove lunedì notte la dodicenne è stata aggredita con un coltello dalla mano di quel fidanzatino che l'aveva conquistata tempo prima. Quando Giada è stata accompagnata al pronto soccorso dell'ospedale Pellegrini, i medici che l'hanno vista per primi non riuscivano a credere ai loro occhi. La ragazzina aveva una ferita profondissima sulla guancia che sanguinava in maniera preoccupante. Subito si è capito che non era un danno lieve e la paziente è stata operata per cercare di ridurre l'entità della lesione. Moltissimi i punti di sutura alla guancia. Poi la paziente è stata trasferita al Santobono, dove è stata dimessa con una prognosi di trenta giorni. Ma ci vorranno altre operazioni di chirurgia plastica per cercare di rendere meno evidente il danno che quell'ex le ha fatto e la cicatrice non scomparirà mai. Sul volto e nel cuore.

Assurdo pensare che la violenza verso il gentil sesso, che porta ogni giorno a fare la conta dei femminicidi, inizi già quando si è donnine in erba. La vittima, infatti, dimostra ancora meno dell'età che ha. Lui, invece, è un ragazzo navigato, già noto alle forze dell'ordine, con un genitore in galera. La famiglia di Giada è sconvolta. Persone semplici, ma oneste, che non sanno spiegarsi il perché di tanta cattiveria. Delle indagini, delicate vista l'età dei due protagonisti, si stanno occupando carabinieri della compagnia e del nucleo operativo Centro, che ieri hanno ascoltato la dodicenne e messo nero su bianco la sua testimonianza. Poi hanno individuato il sedicenne. Il Tribunale dei Minorenni di Napoli nelle prossime ore potrebbe emettere il fermo. Sembrerebbe che a scatenare la reazione violenta del ragazzo sia stata la gelosia verso quella ex, che lo aveva lasciato.

«Vedere un ragazzo di appena 17 anni sfregiare la sua ex fidanzatina per aver osato lasciarlo ferisce e sconvolge - ha commentato la senatrice Valeria Vale, presidente della commissione d'inchista sul femminicidio -. Un gesto che dà la misura del danno drammatico che continua a produrre la riproposizione di ruoli maschili stereotipati, frutto di una cultura patriarcale che concepisce le donne come oggetti da possedere, controllare, annientare. Quanto è successo testimonia la necessità di un impegno molto più esteso, approfondito, creativo per coinvolgere i giovani uomini, fin dalla primissima adolescenza, in percorsi che permettano di costruire modelli maschili incentrati sul riconoscimento e il rispetto della libertà femminile».

Gennaro Scala per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 19 luglio 2022.

Era il pomeriggio di sabato 16 luglio, pochi minuti prima delle 18. Il 30enne titolare di una spritzeria del centro storico si trovava nei pressi del suo locale quando è stato ferito con un colpo di pistola. Secondo quanto ha raccontato agli agenti di Montecalvario, avrebbe sentito avvicinarsi uno scooter che avrebbe poi frenato bruscamente e il passeggero avrebbe esploso due proiettili. 

Una delle pallottole lo ha raggiunto alla caviglia destra. «Ho sentito un bruciore fortissimo alla gamba, allora sono entrato nel locale e, voltandomi, ho notato tre persone in sella a uno scooter che scappavano».

Una brutta storia che potrebbe essere collegata a un’altra vicenda, quella della 12enne sfregiata al volto dall’ex fidanzatino. Il 30enne, infatti, è lo zio del 16enne fermato dai carabinieri per l’aggressione con un coltello ai danni della ragazzina. 

La ragazzina sfregiata

La vicenda risale alla notte tra l’11 e il 12 luglio e il ragazzino è stato fermato poche ore dopo l’episodio. La 12enne era arrivata poco dopo l’1 e 30 al pronto soccorso dell’ospedale Pellegrini della Pignasecca, ed è stata immediatamente operata. La prima prognosi era stata di 30 giorni. La dodicenne è poi stata trasferita all’ospedale pediatrico Santobono e successivamente dimessa.

La sua cicatrice alla guancia sinistra sarà, almeno in parte, permanente, secondo i medici. In futuro la vittima sarà sottoposta a nuove visite e forse ad interventi di chirurgia plastica per tentare di ridurre il danno. 

Adesso la polizia è al lavoro per chiarire se il ferimento del 30enne zio del giovane fermato possa essere una ritorsione per il ferimento della ragazzina. Ogni pista è aperta

"Non era un coltello da cucina". Ragazzina sfregiata conferma versione ex, la mamma: “Mio figlio deve pagare ma non è stato un agguato”. Francesca Sabella su Il Riformista il 15 Luglio 2022.

«Mio figlio ha sbagliato e deve pagare per ciò che ha fatto. Ma non deve pagare per quello che invece non ha fatto, ovvero non c’è stata nessuna premeditazione e nessuna intenzione di uccidere la sua ex fidanzatina». Le parole della mamma di Michele (nome di fantasia) accusato di aver sfregiato la ragazzina di dodici anni, arrivano a tarda sera, a poche ore dall’interrogatorio del figlio che questa mattina alle 10 siederà davanti alla gip Paola Brunese per fornire la sua versione dei fatti, assistito dall’avvocato Domenico Dello Iacono. Le parole della mamma di Michele, che l’ha accompagnato in caserma a costituirsi, sono lucide, critiche, e senza filtri. Non tenta di giustificare il figlio o di minimizzare, anzi: «ha sbagliato e deve pagare» è la prima frase che pronuncia.

Ci sono anche altri elementi importanti venuti alla luce nella giornata di ieri. Il primo: la versione che Aurora (nome di fantasia della dodicenne sfregiata da Michele) fornisce ai carabinieri che la interrogano subito dopo l’accaduto. Aurora è lucida, orientata nello spazio e nel tempo, scrivono anche i sanitari sul referto medico e racconta: «Ci siamo incontrati per caso poco prima dell’una. Non era un appuntamento organizzato e non mi stava aspettando sotto casa. Ci siamo incrociati, io ero in motorino con la mia amica Jasmine (anche lei dodici anni, ndr) ma lei (Jasmine) aveva la ritirata (doveva rientrare a casa entro l’una di notte, ndr) e quindi dopo essere stati nella piazzetta di Materdei con gli amici, stavamo tornando a casa. A quel punto incrociamo un motorino e riconosco che a bordo di questo Sh, seduto dietro, c’era il mio ex fidanzato e dico a Jasmine: gira di qua a destra, non ho voglia di parlarci. E facciamo quella strada che io conosco come Avvocata. Dopo un po’ mi accorgo che erano dietro di noi, avrà fatto sicuro un’inversione di marcia, Jasmine frena e si ferma, lui scende e mi colpisce la faccia con una lama piccola. Non so dire cos’era, era buio, ma di sicuro non era un coltello da cucina».

E ancora racconta la dodicenne Aurora: «Non ho sentito dolore, non avevo capito cosa mi aveva fatto, ho sentito però la pelle come aprirsi. A quel punto, sono scesa dal motorino e gli ho detto le parolacce, lui è sceso di nuovo dal motorino per venire verso di me, ma poi è tornato sui suoi passi, è salito sul motorino ed è andato via. Mi ha colpito una volta». È questa la versione dei fatti che Aurora fornisce ai carabinieri che smentisce l’idea di una premeditazione, di un agguato, di una trappola organizzata per ucciderla. Sia chiaro, resta un gesto gravissimo, atroce e che le ha lasciato un segno per la vita. I medici scriveranno, infatti: «Non è necessario il ricovero né un intervento chirurgico, prognosi riservata di trenta giorni, permane un danno estetico». La mamma di Michele ha raccontato che cercherà a casa il tagliaunghie, che il figlio portava con sé attaccato alle chiavi e con il quale avrebbe colpito Aurora, per consegnarlo alle forze dell’ordine. E ancora, la mamma di Michele racconta di un rapporto molto teso tra i due ragazzini, a tal punto che lei aveva contattato la mamma di Aurora per dirle che la situazione la preoccupava non poco.

«Ho mandato dei messaggi vocali su WhatsApp alla mamma di Aurora, tra l’altro mio figlio ci andava molto d’accordo, per dirle che quando si incontravano volavano moltissime parolacce e che era una situazione per me pericolosa». Intanto, questa mattina Michele parlerà per la prima volta, ha pianto tra le braccia della mamma nella stanzetta dei Colli Aminei dov’è rinchiuso da martedì, si è detto pentito e dispiaciuto. C’è anche una mamma che non giustifica a priori il figlio, anzi, è consapevole della gravità del gesto del 16enne ed è convinta che debba pagare. È molto difficile scrivere di questa storia che lascia a terra non poche macerie, una ragazzina di dodici anni sfregiata a vita, un ragazzo di sedici che ora rischia fino a quindici anni di carcere (qualora il reato contestato restasse il 583 quinquies nuovo reato previsto dal codice rosso) un quartiere sempre più chiuso in quelle logiche criminali odiose, un quartiere solo, dove le famiglie in difficoltà sono abbandonate a sé stesse. Restano sullo sfondo due vite devastate e la colpa da dividere tra tutti noi.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Contesto sociale e familiare non possono essere ignorati. Ragazzina sfregiata a 12 anni dall’ex fidanzatino: posate la forca, siamo tutti coinvolti. Francesca Sabella su Il Riformista il 13 Luglio 2022. 

La lama tocca la pelle e taglia la guancia, il sangue inizia a scorrere. Un secondo è il tempo necessario per sfregiare per sempre una ragazzina di dodici anni. Un secondo è il tempo necessario per rovinarsi la vita a sedici. La Pignasecca a fare da sfondo a una storia tremenda, i cui protagonisti sono dei bambini. Perché a dodici e sedici anni si è bambini, bambini ai quali la violenza, la crudeltà, il limite oltre il quale può spingersi la mano di un uomo che vuole ferire, non dovrebbero mai svelarsi. E invece, è successo. È successo ancora. E succederà ancora. Sapete perché? Perché questi bambini violenti sono il risultato di adulti assenti, incapaci, distratti.

Il ragazzino che chiameremo Michele (nome di fantasia) ha accoltellato Aurora (nome di fantasia) al culmine di una discussione tra ex fidanzatini, pare infatti che i due si fossero lasciati da poco. Se di amore e di relazione si può parlare a questa età. Era notte fonda, una parola non gradita, il sospetto di un terzo ragazzino che le gironzolava intorno, la follia accecante della gelosia, la coltellata in pieno viso. Aurora arriva all’ospedale Vecchio Pellegrini in stato di shock ma fa subito il nome del suo ex fidanzatino. Partono le ricerche ma Michele risulta irreperibile. Nel primo pomeriggio di ieri la svolta, i Carabinieri della Compagnia e del nucleo operativo lo trovano e lo portano in caserma per un’audizione protetta. Massima riservatezza dalla Procura dei Minori che non vuole lasciare trapelare alcuna indiscrezione. Nelle stesse ore, la piccola dopo essere stata trasferita all’ospedale pediatrico Santobono, viene dimessa con una prognosi riservata di trenta giorni. È ancora sotto shock, chi le è vicino racconta di una bambina bassa, mingherlina e che non ha ancora ritrovato la forza di parlare.

Il mio scritto potrebbe finire qui. La cronaca dell’accaduto l’abbiamo fatta, abbiamo aperto lo spiraglio per far passare la giusta dose di indignazione dell’opinione pubblica mista a giustizialismo, direi che possiamo chiudere qui. E invece no. Non possiamo, sarebbe intellettualmente disonesto guardare al gesto di Michele senza volgere lo sguardo a quello che c’è alle sue spalle. È importante condannare la violenza, è altrettanto importante indagare le motivazioni, conoscere il contesto familiare, la vita del sedicenne prima della notte di follia. Michele a sedici anni è già noto alle forze dell’ordine, ha già qualche precedente penale e ha alcuni parenti detenuti. È questo il contesto nel quale Michele è cresciuto fino a oggi: violenza, illegalità, l’ombra del carcere. Non è una giustificazione alla coltellata, è la realtà. Cresce senza modelli, solo, anzi i modelli che ha sono quelli dei parenti che hanno commesso un errore e si trovano dietro le sbarre.

La violenza l’ha mangiata a colazione fin da subito. Questo conta o no nella crescita di un bambino? Conta o no che nessuno abbia fatto niente per salvarlo dalla sua famiglia e da sé stesso? Io penso di sì. Aurora, invece, vive ai Quartieri Spagnoli proprio vicino all’altarino costruito per ricordare Ugo Russo, morto ammazzato a quindici anni durante un tentativo di rapina. Aurora a dodici anni era in giro a notte fonda. Sia ben chiaro: nessuna colpa ai genitori né dell’uno né dell’altro. Ma siamo in presenza di due ragazzini soli che all’una di notte giravano per il quartiere. E so che molti storceranno il naso ma la realtà ci impone una riflessione: se arriviamo sempre dopo, se parliamo solo per dire “buttiamo la chiave”, se per istituzioni e servizi sociali sono invisibili fino a quando non c’è una tragedia, come vogliamo salvarli? Ci troveremo ancora a scrivere di Aurora, dodici anni, accoltellata al viso dall’ex di sedici anni. Non è il solo ad aver impugnato il coltello, siamo tutti complici.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Storia raccapricciante a Napoli. Sfregiata a vita a 12 anni per questioni di gelosia, orrore ai Quartieri Spagnoli. Fermato l’ex fidanzatino: “E’ stato lui”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 12 Luglio 2022. 

Non accettava la fine della relazione e ha sfregiato una ragazzina di appena 12 anni colpendola alla guancia con un coltello e procurandole un danno permanente. E’ una storia raccapricciante quella ricostruita dai carabinieri del Comando Provinciale di Napoli. Una storia malata fatta di possesso, gelosia e degrado sociale quella che ha visto protagonista un giovane di 16 anni, già noto agli archivi di polizia, accusato ora di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (583 quinquies, nuovo reato previsto dal codice rosso).

L’episodio è avvenuto intorno all’una della scorsa notte nel centro di Napoli. La 12enne, praticamente una bambina dall’aspetto fisico, era in strada con alcuni amici, poco distante dalla sua abitazione nella parte alta dei Quartieri Spagnoli, in una delle tante traversine presenti lungo via Francesco Girardi. Secondo la ricostruzione dei militari, è stata raggiunta dall’ex fidanzato che dopo un diverbio l’ha ferita al volto con un coltello. Una ferita profonda, giudicata guaribile dai sanitari del pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini (dove è stata accompagnata da alcuni amici) in 30 giorni. Poi dovrà continuare esami e terapie perché il danno riportato al volto è purtroppo permanente.

Sfregiata a vita a 12 anni per questioni di gelosia. La ragazzina è sotto choc, sconvolta da quanto le è accaduto. “E’ stato il mio ex” ha raccontato con la voce tramante ai carabinieri che hanno avviato le ricerche del 16enne, individuato nella tarda mattinata e portato in caserma per gli accertamenti. Verrà ascoltato in audizione protetta e sottoposto a fermo in attesa della convalida da parte del gip del tribunale per i minorenni di Napoli.

Il ragazzo sospettato di averla sfregiata proviene da un contesto familiari difficile, con parenti in carcere da anni. Vive anche lui nella zona dei Quartieri Spagnoli. Il coltello che avrebbe utilizzato per colpire la 12enne non è stato al momento ritrovato.  La giovane vittima dopo un primo ricovero all’ospedale dei Pellegrini, è stata successivamente trasferita all’ospedale pediatrico Santobono e poi dimessa in mattinata.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il caso. Ragazzina sfregiata, l’ex va nel carcere di Nisida: lettera di scuse, rischia 15 anni. Francesca Sabella su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

Ieri mattina Michele (nome di fantasia) si è seduto davanti al Gip del Tribunale per i Minorenni di Napoli Paola Brunese e in un lungo interrogatorio ha spiegato quella notte di follia nella quale ha colpito al viso e sfregiato la sua ex fidanzatina di dodici anni Aurora (nome di fantasia). Per lui ora si apriranno le porte del carcere minorile di Nisida. “Sono pentito, chiedo scusa”: ha risposto dispiaciuto alle domande dei magistrati.

Nel corso dell’interrogatorio, Michele ha sottolineato, innanzitutto di non avere assolutamente premeditato l’aggressione, scattata invece d’impulso, a causa di alcune foto pubblicate sui social che ritraevano la ragazzina insieme con un altro giovane. Il 16enne ha spiegato che l’incontro, quella notte, è stato del tutto casuale: i due si sono incrociati mentre erano in scooter. Lui le ha chiesto spiegazioni su quei post, ritenendo che stessero ancora insieme e che l’avesse tradito. Ne è nata una discussione culminata con un fendente inferto non con un coltello, ha spiegato, ma con un taglierino che teneva agganciato alle sue chiavi.

La versione era stata confermata già ieri dalla sua ex fidanzatina quando il Riformista ha letto e pubblicato il contenuto della deposizione di Aurora che conferma l’assenza di premeditazione, parlando di un incontro casuale. La ragazzina ha anche confermato che Michele non l’avrebbe colpita con un coltello ma con “una lama più piccola, sicuramente non con un coltello da cucina”. Anche la madre di Michele aveva detto convintamente: “Nessuna intenzione di uccidere, non era un agguato. Ma deve pagare per quello che ha fatto”. Durante la sua permanenza nel centro di prima accoglienza dei Colli Aminei di Napoli, nel quale ha trascorso i giorni successivi al fermo, il ragazzo, fa sapere il suo legale, l’avvocato Domenico Dello Iacono, ha scritto di suo pugno e inviato alla ragazzina lettera di scuse. Al termine di un interrogatorio fiume, Il gip Paola Brunese ha convalidato il provvedimento di fermo emesso dalla Procura dei Minorenni (sostituto procuratore Emilia Galante Sorrentino) e disposto per lui la custodia in un istituto per i minori.

A Michele viene contestato l’articolo 583 quinquies del codice penale, reato che punisce con la reclusione fino a quindici anni chi viene condannato per avere provocato una deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso. Già titolare di un perdono giudiziario e di un provvedimento di messa alla prova, ora Michele è a Nisida. Rischia di passarci quindici anni. E di uscire, visto come funzionano i penitenziari, molto peggio di come ci è entrato. La tentazione di essere giustizialisti in questi casi è molto grande, ma non paga. Come non paga gridare al massimo della pena. “Se tu penserai e giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese, ma se capirai se li cercherai fino in fondo, de non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo…”.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

(ANSA il 2 luglio 2022) - Starebbe iniziando ad ammettere le sue responsabilità, fornendo dichiarazioni autoaccusatorie ai carabinieri, Luigi Carlino, il 73enne che era stato portato in caserma, dopo il ritrovamento, nella casa della coppia, a Mandatoriccio, nel Cosentino, del corpo senza vita della moglie, Domenica Caligiuri, di 71 anni, uccisa con alcune coltellate. 

Carlino, secondo quanto si è appreso, avrebbe anche fornito ai militari del Reparto territoriale di Corigliano Rossano, che stanno svolgendo le indagini, le indicazioni per fare trovare il coltello con cui ha ucciso la moglie. L'arma, comunque, non è stata ancora trovata.

Da corrieredellacalabria.it il 2 luglio 2022.

Una donna di 71 anni di Mandatoriccio, Domenica Caligiuri, casalinga, è stata ritrovata senza vita questa mattina. Sul corpo della donna sarebbero state rinvenute alcune ferite di arma da taglio. L’indiziato del delitto è stato fin da subito il marito 73 enne della donna, Luigi Carlino che è stato condotto in caserma dai carabinieri e ha successivamente confessato il delitto. 

L’uomo, da quando si è appreso, era solito usare violenza contro la consorte e pare che la donna avesse in passato provato a chiedere aiuto. Pare anche che i maltrattamenti familiari fossero cosa nota tra la comunità dove vivevano.  Sul caso, coordinato dalla Procura della Repubblica del tribunale di Castrovillari, indagano i carabinieri del reparto territoriale di Corigliano Rossano.

Aveva 32 anni e una figlia di 7 anni. Trovata morta in casa, fermato il marito di Debora Pagano: “Ha avvertito il 118 due giorni dopo, era sotto shock”. Vito Califano su Il Riformista l'11 Luglio 2022 

Debora Pagano era morta da almeno due giorni quando il suo corpo è stato ritrovato, riverso in bagno senza vita, in casa sua. O almeno questa è la tempistica che suggeriscono i primi esami condotti sul corpo della donna. Per il caso, in questo momento ancora un giallo, di Giarre è stato fermato il marito della donna dopo l’interrogatorio in caserma. Sulla vicenda indagano i carabinieri della compagnia di Giarre.

Il cadavere di Pagano è stato rinvenuto nella sua abitazione in via principessa Mafalda a Macchia, frazione del comune in provincia di Catania, ieri pomeriggio. Dai primi rilievi della Scientifica e del medico legale sul corpo della donna sarebbero stati rinvenuti dei segni di violenza, ecchimosi in varie parti del corpo. Il cadavere è stato trasferito nell’obitorio dell’ospedale Cannizzaro di Catania dove sarà disposta l’autopsia.

Il marito della donna si chiama Leonardo Fresta, ha 40 anni e precedenti penali per reati contro il patrimonio. Al momento è indagato per 416 bis nel processo “Caos” contro esponenti del clan di mafia Brunetto. Ad avvertire le forze dell’ordine del ritrovamento era stato lui stesso con una telefonata al 118 e ai carabinieri. Ai militari ha raccontato di aver trovato il cadavere steso sul pavimento, in bagno. La coppia aveva una figlia, di sette anni, che al momento del ritrovamento non era in casa, si trovava dai nonni materni a Letojanni.

La casa è stata posta sotto sequestro. La notizia ha scosso Giarre. La 32enne era piuttosto conosciuta anche considerando che la sua famiglia gestisce un negozio di fiori sul lungomare di Letojanni. La madre della giovane donna è stata ricoverata nell’ospedale di Taormina dopo che ha appreso la morte della figlia. La notizia del fermo è stata confermata dal legale dell’uomo.

“La famiglia non aveva problemi e nessun contrasto c’era stato tra i due coniugi, che vivevano una relazione abbastanza tranquilla”, ha osservato l’avvocato Salvo La Rosa citato dall’Agi. “Ha trovato la moglie morta a casa venerdì sera ma ha avvertito il 118 soltanto ieri. È rimasto due giorni sotto choc senza riuscire a capire cosa fosse successo e neppure lui sa spiegare bene il perché”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il delitto a Mandatoriccio. Massacrata a coltellate, Domenica trovata morta sul letto: interrogato il marito. Vito Califano su Il Riformista il 2 Luglio 2022. 

Domenica Caligiuri e Luigi Carlino avevano forse litigato, per l’ennesima volta, come succedeva praticamente all’ordine del giorno. Lei, 71 anni, è stata trova morta sul letto di casa massacrata da ferite da taglio all’addome e al torace. Lui, 73 anni, è stato portato in caserma dai carabinieri, dov’è stato interrogato per ore. Il delitto si è consumato a Mandatoriccio, in provincia di Cosenza.

A far scattare l’allarme la figlia della donna. Da giorni non riusciva a parlare con la madre. I militari hanno raggiunto la palazzina e hanno sfondato la porta d’ingresso per fare irruzione. Hanno trovato il corpo della donna in camera da letto. Il Corriere della Sera riporta di continui litigi tra i due raccontati dai vicini di casa.

La coppia, scrive Lacnews 24 era tornata in Calabria una volta in pensione, dopo essere emigrati in Emilia Romagna per lavoro. Caligiuri era stata un’insegnante. I carabinieri hanno indirizzato le indagini da subito sul marito della donna. Stando a quanto riporta il Corriere l’uomo avrebbe confessato l’omicidio dopo due ore di interrogatorio. Il cadavere è stato scoperto nella zona marina de Le Ginestre intorno alle 13:00 di oggi. Da accertare l’ora della morte, forse risalente a giovedì scorso.

Sul posto con i militari è intervenuto il magistrato della Procura di Castrovillari. La salma è stata sequestrata, sarà sottoposta all’esame autoptico. Secondo le prime ricostruzioni l’uomo avrebbe ucciso la moglie alle prime luci dell’alba e dopo essersi cambiato d’abito avrebbe raggiunto gli amici al bar. Come faceva spesso la mattina. Al momento non risultano provvedimenti restrittivi spiccati nei suoi confronti.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Uccide l’ex compagna a colpi di mattarello davanti al figlio di 6 mesi: «Non me lo faceva tenere in braccio». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.

L’uomo l’ha inseguita fino alla stanza da letto e poi ha infierito anche con un coltello. È il terzo femminicidio in tre mesi in città.

La loro relazione era praticamente finita e il figlio, nato meno di sei mesi fa, era al centro di continue liti e recriminazioni. Fino all’ultima che avrebbe fatto da innesco per una reazione brutale, anche se non del tutto imprevedibile. «Lei non mi voleva far tenere il bimbo in braccio», avrebbe detto Benedetto Simone Vultaggio, 47 anni, dopo aver ucciso la compagna Cristina Peroni, di 33 anni.

Ha afferrato un mattarello ed ha cominciato a colpirla, proprio sotto gli occhi del figlio conteso. L’ha poi inseguita per casa fino alla stanza da letto e qui ha infierito con un coltello da cucina. Quindi ha coperto il cadavere con un lenzuolo e si è placato. Il bimbo invece è rimasto in sala da pranzo e forse è stato risparmiato solo per miracolo. «Era la scena di una furia bestiale», raccontano gli inquirenti dopo il sopralluogo. Quando sono entrati in casa gli uomini della Mobile, guidati da Mattia Falso, hanno trovato Vultaggio seduto in cucina. Chiuso nel silenzio, aveva il volto e le braccia ancora insanguinati.

Quello che è successo prima lo raccontano i vicini di casa di via Rastelli, a Bellariva, frazione di Rimini. Intorno alle 8,30 i residenti delle villette bianche a 200 metri dal mare hanno sentito delle urla disperate. La donna avrebbe ripetutamente chiesto aiuto, implorando il compagno di fermarsi. Allarmati, i vicini hanno chiamato la polizia e poi bussato alla porta. Lui si è affacciato e li ha quasi rassicurati: «Il bambino sta bene, ma ora lei non potrà più parlagli male di me». Sono stati sempre i residenti della zona a riferire dei rapporti tesi all’interno della coppia. «Era una relazione burrascosa, li sentivamo spesso litigare. Pare che lui l’avesse picchiata, anche durante la gravidanza». «Una volta ha urlato: se non mi fa vedere il bambino, va a finire che non lo vedrà più neanche lei». Gli inquirenti confermano di indagare su precedenti violenze, anche se fanno notare che «non risulta alcuna denuncia fa parte della donna».

Di recente Simone era stato due volte nel centro di salute mentale denunciando «stati d’ansia». Lo conferma anche il padre, Enzo, che racconta come era nata la relazione. «Si erano conosciuti su una chat di incontri, durante il lockdown. Sembrava andare tutto bene, poi lei era andata via di casa e lui soffriva di non poter vedere il bambino. Negli ultimi tempi aveva deciso di farsi seguire da uno psicologo». A quanto pare l’amore tra Cristina e Simone era finito ancora prima che nascesse il figlio. Tre mesi fa lei aveva deciso di trascorrere lunghi periodi a Roma, dove vivono i suoi genitori, portando con sé il bambino. Questo aveva fatto crescere il risentimento dell’ormai ex compagno che l’accusava di non fargli vedere il figlio. Dopo un’ultima telefonata, non temendo il peggio, una settimana fa Cristina aveva accettato di tornare a Rimini con il piccolo.

Nessuno sa come sia andata la settimana di convivenza prima del delitto. Ma è evidente che la rabbia di Simone Vultaggio covava sotto la cenere. È bastato un banalissimo pretesto per arrivare all’ennesimo femminicidio. Il terzo a Rimini, in appena tre mesi. Ieri sera l’uomo (operaio in un mobilificio) è stato interrogato alla presenza di un avvocato d’ufficio, Alessandro Buzzone. «Si è avvalso della facoltà di non rispondere — dice il legale —, ricostruiremo bene i fatti e, dopo averlo incontrato, lo inviterò a collaborare con gli inquirenti».

Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.

Con i vestiti ancora sporchi di sangue è sceso in strada, ha guardato i vicini di casa e ha detto: «Così lei non potrà più parlare male di me al bambino». Simone Benedetto Vultaggio, 47 anni, sapeva che di lì a poco sarebbe stato arrestato per l'omicidio della compagna, ma chi ha assistito alla scena assicura di averlo visto sorridere.  

L'ha ammazzata nella villetta di via Rastrelli, a Rimini, dove la coppia viveva insieme al figlio di soli 6 mesi. L'ha colpita alla testa con un mattarello e si è servito di un coltello per ferirla alla gola: così, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è stato commesso l'ennesimo femminicidio.

Il corpo di Cristina Peroni, 33enne originaria di Roma, è stato trovato sul pavimento della camera da letto, riverso a terra in una pozza di sangue e avvolto in un lenzuolo bianco. A dare l'allarme sono stati i vicini di casa che, ieri mattina poco dopo le 9, hanno sentito gridare. Non sarebbe stata la prima volta che i due litigavano, ma è parso chiaro fin da subito che adesso era diverso. Il piccolo piangeva disperatamente, mentre i genitori continuavano a urlare in modo furioso. 

«Basta, basta, lasciami», ripeteva la vittima con la voce terrorizzata. Chi abita nella via è sceso in strada e si è avvicinato alla villetta della coppia per capire cosa stesse accadendo. Poi, all'improvviso, un inquietante silenzio. Quando gli agenti sono arrivati sul posto non c'era più niente da fare: Cristina era stata brutalmente uccisa, davanti agli occhi del bimbo. L'uomo si sarebbe scagliato contro di lei impugnando un mattarello, con il quale le ha sfondato il cranio. Poi, l'avrebbe colpita al collo con una coltellata, fermandosi soltanto quando la donna non dava più segni di vita. Dopo aver coperto il cadavere, è uscito dall'abitazione.

I vicini di casa, in attesa dell'arrivo della polizia, stavano suonando il citofono ininterrottamente, avendo ormai intuito che la situazione era grave. Quando hanno visto arrivare Vultaggio completamente imbrattato di sangue, la prima preoccupazione è stata per il bimbo «Sta bene» ha risposto l'uomo, aggiungendo che la mamma non lo avrebbe più potuto mettere contro di lui.  

Subito dopo, quindi, il 47enne è rientrato in casa, si è seduto nella sala da pranzo e ha aspettato l'arrivo degli agenti della Squadra Mobile della questura di Rimini. Non ha tentato di scappare né di nascondersi in alcun modo. Si è semplicemente fatto trovare lì, dove sapeva che lo avrebbero cercato. Accanto al corpo della vittima, c'era l'arma del delitto. 

Da quel momento in poi Vultaggio si è chiuso in un profondo silenzio, senza proferire più alcuna parola nemmeno durante l'interrogatorio davanti al pm Luca Bertuzzi. Difeso dall'avvocato d'ufficio Alessandro Buzzoni, si è avvalso della facoltà di non rispondere, mentre la procura riminese ha aperto un fascicolo per omicidio volontario aggravato.

 Il piccolo è stato trovato nella stessa stanza in cui era il papà e, fortunatamente, dalle visite mediche è emerso che non sarebbe stato sfiorato. Aveva soltanto una macchia di sangue sulla maglietta, probabilmente lasciata dall'uomo che potrebbe averlo preso in braccio dopo avere ammazzato la compagna. Secondo i primi accertamenti, il bimbo - che adesso è stato affidato alla nonna paterna - sarebbe stato la ragione per cui ieri è esplosa quella violentissima lite tra i genitori. 

Nello specifico, sembrerebbe che la furia del 47enne sia stata scatenata dal fatto che la mamma non voleva che lui lo tenesse in braccio. Simone e Cristina si erano conosciuti un anno e mezzo fa, su internet, durante il lockdown: in poco tempo, poi, la decisione di vivere insieme e l'arrivo del figlio. Ma secondo quanto emerso dalle testimonianze di amici e parenti, il loro rapporto sembrava ormai giunto al capolinea. La donna se ne era andata di casa poche settimane fa, decidendo poi di tornare quando il compagno aveva deciso di farsi seguire da uno psicologo.  

Nonostante le liti e gli screzi frequenti, nei suoi confronti non era mai stata presentata alcuna denuncia né segnalazione da parte della vittima, anche se, secondo i conoscenti, c'erano già stati episodi di violenza. «Non erano una coppia felice, si sentivano spesso le urla delle litigate» spiega un vicino. «Lei era stata picchiata anche durante la gravidanza - aggiunge un altro -, ma non aveva voluto denunciare».  

Uno dei residenti della zona racconta di avere incontrato il 47enne di recente: «quando gli ho chiesto come andava mi ha risposto di essere preoccupato e di avere paura di fare qualcosa di brutto». «Al momento non posso dire se il mio assistito abbia consapevolezza del fatto», afferma il legale dell'arrestato. «Spero però che capisca subito cosa ha fatto e che collabori con le forze dell'ordine. Per ora attendiamo l'interrogatorio di garanzia». 

Genova, donna trovata morta in casa, la polizia indaga per omicidio volontario. Gli agenti stanno interrogando il marito che era in casa. La Repubblica il 25 Giugno 2022.

 Si chiamava Cristina Diac la donna di 48 anni trovata morta nel suo appartamento in via Orgiero a Sampierdarena. Il sostituto procuratore Gabriella Marino sta sentendo in questura il marito e una coinquilina insieme agli investigatori della squadra mobile, diretti dal primo dirigente Stefano Signoretti. Il marito, è emerso dalle indagini, aveva un precedente per maltrattamenti nei confronti della donna, risalenti al 2019.  L'uomo non è indagato ma la procura ha aperto un fascicolo per omicidio volontario. Nelle prossime ore verrà incaricato il medico legale per eseguire l'autopsia che chiarirà le cause della morte e l'origine delle ecchimosi sul corpo.

Al momento gli elementi noti sono questi.

La donna è stata ritrovata priva di vita nel tinello. Ad un primo esame sembra presentasse ecchimosi e lividi ma non ferite o altri traumi evidenti in grado di indirizzare le indagini in una direzione precisa. In casa c'erano anche il marito e una coinquilina che sono al momento interrogati in questura. Fra le varie ipotesi prese in considerazione anche una caduta conseguenza di un litigio degenerato.

Dopo essere stata colpita, rimasta sola ha trovato la forza per chiamare aiuto. Colpisce a martellate la moglie, la crede morta e si suicida: lei è ferita ma non in pericolo di vita. Elena Del Mastro su Il Riformista il 20 Giugno 2022.

Litiga in casa con la moglie e poi la colpisce con un martello in testa, più volte finchè la donna non è finita a terra in una pozza di sangue. Dopo, credendola morta, è fuggito e si è suicidato. Una storia tremenda di violenze accaduta in zona Santa Maria a Filottrano (Ancona). Subito è scattata la caccia all’uomo. I carabinieri del posto, coordinati dalla Compagnia di Osimo, stavano cercando l’uomo, 52enne di origine moldava, per arrestarlo per tentato omicidio ma lo hanno trovato morto. La moglie, circa 50 anni, anche lei moldava, ha riportato gravi ferite ma non è in pericolo di vita.

La moglie, nonostante fosse ferita e sanguinante, dopo essersi rialzata, ha trovato la forza per chiedere aiuto e allertare le forze dell’ordine. È stata trasportata in eliambulanza all’ospedale di Torrette ad Ancona. Dopo la segnalazione, i carabinieri si sono messi alla ricerca del marito 52enne e lo hanno trovato morto nel capannone dove lavorava e dove si è impiccato. La pm Irene Bilotta è stata informata dai carabinieri dell’accaduto e sta attendendo dettagli per cercare di ricostruire una esatta dinamica dei fatti. Ha aperto un fascicolo per lesioni aggravate destinato però a chiudersi per morte dell’autore dell’aggressione.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La vittima aveva 72 anni. Uccide la moglie, il giorno dopo chiama l’avvocato e si costituisce: orrore a Roma. Giovanni Pisano su Il Riformista il 20 Giugno 2022.

Ha ucciso ieri la moglie in casa, poi dopo una notte di ‘riflessione‘ ha telefonato il suo avvocato e si è costituito nel pomeriggio in commissariato. Femminicidio a Roma dove un uomo di 76 anni, Piero Bergantini, ha ammazzato a colpi d’arma da fuoco Caterina, la consorte 72enne, in un’abitazione di via Mascagni. La coppia, secondo una prima ricostruzione, si stava separando ma i motivi che hanno spinto l’uomo ad uccidere la donna sono al momento al vaglio degli investigatori.

L’omicidio sarebbe avvenuto domenica e oggi pomeriggio, l’avvocato, raccolta la confessione del suo cliente, non ha potuto far altro che mandare via i clienti che erano in attesa nel suo studio e ha accompagnato l’uomo dalla polizia. Gli agenti, sul caso indaga la Squadra Mobile, sono andati nell’appartamento trovando il corpo esanime della donna così come descritto dal marito. La dinamica di fatti è in via di ricostruzione.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Michele Galvani per ilmessaggero.it il 21 giugno 2022.

Ha sparato alla moglie due volte. La prima per sbaglio la seconda «per non farla soffrire»: così Pietro Bergantino, 76 anni, ha ucciso Caterina D'Andrea a Roma, in via Mascagni. Una storia non ancora del tutto chiarita dagli inquirenti. L'uomo infatti, subito dopo il delitto, si è presentato presso lo studio degli avvocati Giorgio Beni e Marco Macchia (zona Prati) per confessare. Ma sulla dinamica ci sono ancora molti dettagli da dipanare. Difficile credere alla sua versione.

Stando al decreto di fermo, si legge che Bergantino, ex assicuratore, possiede «una pistola Glock legalmente detenuta» che poi è stata rinvenuta nella sua auto, una Lancia Y, ancora oggi parcheggiata in via Romeo Romei (sotto lo studio dei legali). La dinamica descritta: «Sul viso della donna era appoggiato un cuscino, Bergantino ha ammesso di aver colpito la moglie con due colpi di armi da fuoco esplosi a breve distanza, mentre entrambi si trovavano a letto».

L'uomo infatti, stando sempre alle prime ricostruzioni, era solito dormire con la pistola sotto il cuscino dato i furti che aveva subìto in passato nel suo appartamento. Da quanto trapela, era solito tenere contante in casa. «Il primo colpo mi è partito per sbaglio, il secondo l'ho esploso intenzionalmente per non farla soffrire, perché stava rantolando», le sue prime parole. La situazione «per noi è da chiarire - spiegano i legali Beni e Macchia - perché bisogna approfondire eventuali patologie. Al momento non risultano elementi di astio con la moglie».

«Sul posto si è costatato che la salma di Caterina D'Andrea (aveva 73 anni), completamente priva di vestiti, si trovava riversa in posizione supina sul letto matrimoniale, con leggera inclinazione laterale e le braccia erano intrecciate come nell'atto di abbracciare il lenzuolo verosimilmente avvolto dalla D'Andrea prima del decesso. Sul viso della donna era appoggiato un cuscino», si legge ancora nel rapporto degli inquirenti e del medico legale, dott. Luca Tomassini.

«Dalla prima ispezione cadaverica effettuata in sede - è scritto nel decreto di fermo firmato dalla pm Alessia Natale - il medico legale ha rilevato la presenza quattro fori, verosimilmente, provocati da arma da fuoco: due fori nella regione occipitale superiore; un foro intorno all'orecchio e un altro nella zona laterale del collo». Quindi i colpi esplosi non sarebbero 2, come raccontato da Bergantino, ma 4. Anche su questo sarà necessario fare chiarezza.

Bergantino non ha spiegato come sia stata possibile l'esplosione di un colpo accidentale con un'arma che richiede «l'esercizio di una significativa forza sul grilletto (circostanza del resto ammessa anche in sede di interrogatorio). In ogni caso, l'uomo ha chiaramente ammesso di non aver soccorso la moglie dopo il primo colpo e di aver quasi immediatamente sparato nuovamente al fine di ucciderla (con l'intento di non farla soffrire). Nel lungo interrogatorio sono stati ricostruiti gli eventi immediatamente precedenti e successivi ai fatti con una ricostruzione che non appare del tutto completa».

Bergantino, ex delegato di campo, conosciuto nel mondo del calcio nella Capitale, era legato alla moglie di circa 50 anni. L'interrogatorio è finito intorno alle 3 di notte: domani verrà dato il conferimento di incarico al medico legale, la convalida d'arresto è prevista tra giovedì e venerdì.

Dal corriere.it il 19 giugno 2022.

Donatella Miccoli, 38 anni, è stata uccisa con una coltellata dal marito Matteo Verdesca. L’omicidio è avvenuto nella loro abitazione a Novoli (Lecce), poco prima delle 2 di notte. A quanto si apprende, in casa non c’erano i loro due figli che sarebbero stati portati dal marito a casa della nonna. La vittima lavorava come commessa nel centro commerciale Ipercoop di Surbo (Lecce). Nella mattinata di domenica è stato rinvenuto anche il cadavere dell'uomo. 

La lite

La coppia sabato sera era rientrata a casa a tarda ora dopo essere stata in piazza per la festa di San Luigi. I vicini avevano sentito le urla di un acceso litigio. L’uomo, dopo aver colpito a morte la donna, era fuggito a bordo della sua autovettura, una Renault di colore bianco, ma aveva chiamato al telefono la madre. «Mamma, ho fatto un casino...», avrebbe detto. La madre stessa avrebbe chiamato le forze dell’ordine.

Si conoscevano fin da ragazzi

Matteo e Donatella, genitori di tre figli, si conoscevano fin da ragazzini. Una coppia conosciuta, collaudata, il cui rapporto non faceva presagire la tragedia che si è consumata la scorsa notte. In uno degli ultimi post sul suo profilo social, in cui compare l’intera famiglia, Matteo ha scritto: «Vi amo». «Anche noi», la risposta di Donatella.

Il cordoglio del sindaco

«Sono un sindaco, ma sono soprattutto un uomo, un padre di famiglia, e stamattina sono letteralmente scioccato dalla notizia di questa tragedia», ha detto il sindaco di Novoli, Marco De Luca, commentando la morte di Donatella Miccoli. «La conosco bene, i suoi giovani figli, un bimbo di 2 anni e una bimba di 7 che frequenta il catechismo con mio figlio». A quanto si apprende il marito della vittima da una precedente relazione aveva avuto un altro figlio, di 18 anni.

«Non ho parole - prosegue il primo cittadino - per descrivere quanto è accaduto. Sono sconvolto, ma anche arrabbiato, demoralizzato: ci impegniamo nelle comunità a sensibilizzare contro la violenza sulle donne e poi, invece, ci ritroviamo giovani donne trucidate in questo barbaro modo».

Novoli, uccide la moglie a coltellate, si dà alla fuga e poi si uccide. Fabiana Pacella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2022 

La follia omicida perpetrata nel letto coniugale da Matteo Verdesca. Vittima la 38enne Donatella Miccoli. Dopo poche ore l'uomo viene ritrovato privo di vita

Una doppia scomparsa, a distanza di poche ore, a Novoli, figlia di una follia omicida familiare. Si sono infatti interrotte stamattina attorno alle 10.30 le ricerche di Matteo Verdesca, il trentottenne responsabile dell'omicidio della moglie, Donatella Miccoli, sua coetanea. L'uomo è stato trovato privo di vita. Originario di Veglie, aveva abbandonato l'abitazione di famiglia, a Novoli, subito dopo il femminicidio compiuto nella camera da letto e si era allontanato in stato confusionale a bordo della sua Renault Clio di colore bianco. I Carabinieri della compagnia di Campi Salentina e i colleghi del nucleo investigativo del comando provinciale di Lecce si erano messi subito sulle sue tracce. Stando alle prime indiscrezioni trapelate, poi ufficializzate dai Carabinieri di Lecce, l'omicida si è tolto la vita e il suo corpo è stato trovato carbonizzato all’interno dell’auto con cui era fuggito, anch’essa bruciata, alla periferia di Novoli, in una zona di campagna.

Ancora poco chiare le ragioni, da una prima ipotesi investigativa di natura passionale, che hanno scatenato il violento litigio della coppia la scorsa notte, quando, attorno alle 1.45, Matteo Verdesca ha ucciso a coltellate la moglie trentottenne Donatella Miccoli nel letto coniugale. Dopo l'efferato gesto mortale, Verdesca, 38 anni come la moglie, si è dato alla fuga a bordo di una Renault di colore bianco. Sulle sue tracce si sono messe le forze dell'ordine, che hanno avviato la caccia all'uomo autore dell'uxoricidio. In prima fila la compagnia dei Carabinieri di Novoli e di Lecce, con il Nucleo Investigativo e le altre forze armate, con un elicottero in azione.

Secondo le prime ricostruzioni investigative, la coppia sarebbe stata vista rientrare in casa attorno alle ore 22 con le figlie. Di seguito si è sentita la coppia litigare, le cui urla hanno richiamato l'attenzione dei vicini che hanno dato l'allarme alle forze dell'ordine. Prima che rientrassero in casa, gli amici della coppia li hanno visti con i due loro figli, un maschio e una femmina, quest’ultima più piccola, in piazza per la festa di San Luigi. «Nulla - racconta chi li ha visti - lasciava però presagire quello che sarebbe accaduto». Verdesca lavora come corriere per una ditta privata che si occupa di consegne di pacchi e secondo alcune persone che conoscevano la coppia, è ritratto come «molto geloso, a tratti morboso». La coppia si sarebbe sposata nel 2013. 

Donatella Miccoli lavorava come commessa alla «Golden Point» di piazza Mazzini a Lecce e proprio nell'ultima delle sue «stories» su Instagram, ieri attorno alle 20, prima di essere accoltellata dal marito, aveva pubblicato una foto che rappresentava il suo amore per l'uomo. In questa storia social sono ritratti felicemente Matteo e Donatella, con stampate sopra le frasi tratte dal brano di Anto Paga La parte più bella di me: «E insieme siamo la fine del mondo/E vorrei svegliarmi con il tuo profumo/Ogni canzone mi parla di te».

Donatella Miccoli (qui sotto in una foto pubblicata su Instagram), con il suo marito che l'ha uccisa prima di togliersi la vita, lascia due figli piccoli, una di sette e uno di due anni, i quali, a quanto emerge dalle prime indagini, non erano in casa nel momento dell'omicidio, perché sarebbero stati portati dal marito a casa della nonna. L'uomo aveva anche un figlio maggiorenne nato da una precedente relazione. 

Femminicidio Novoli, Sindaco: scioccato da questa tragedia

«Sono un sindaco, ma sono soprattutto un uomo, un padre di famiglia, e stamattina sono letteralmente scioccato dalla notizia di questa tragedia». Lo afferma il sindaco di Novoli, Marco De Luca, commentando la morte di Donatella Miccoli che è stata uccisa la scorsa notte da suo marito, Matteo Verdesca, nella loro abitazione.

«Conosco bene Donatella, i suoi giovani figli, un bimbo di 2 anni e una bimba di 7 che frequenta il catechismo con mio figlio». A quanto si apprende il marito della vittima ha un altro figlio, di 18 anni, nato da una precedente relazione.

«Non ho parole - prosegue il primo cittadino - per descrivere quanto è accaduto. Sono sconvolto, ma anche arrabbiato, demoralizzato: ci impegniamo nelle comunità a sensibilizzare contro la violenza sulle donne e poi, invece, ci ritroviamo giovani donne trucidate in questo barbaro modo». «Da sindaco - evidenzia - sento sulle spalle e nel cuore il dolore di una intera comunità: rivolgo alla famiglia di Donatella le più sentite condoglianze da parte del paese, che si ferma. Abbiamo già provveduto a porre le bandiere a mezz'asta e proclameremo il lutto cittadino, per ricordare Donatella e far sentire la nostra vicinanza a tutti i suoi familiari, i figli, gli amici, le persone che le volevano bene».

Femminicidio Novoli, conoscenti: marito geloso e morboso

Matteo Verdesca, che nella notte ha ucciso a Novoli (Lecce) la moglie Donatella Miccoli, secondo alcune persone che conoscevano la coppia, era «molto geloso, a tratti morboso». La coppia si sarebbe sposata nel 2013.

Ieri sera gli amici li hanno visti con i due loro figli, un maschio e una femmina, quest’ultima più piccola, in piazza per la festa di San Luigi. «Nulla - racconta chi li ha visti - lasciava però presagire quello che sarebbe accaduto». A far scattare l’allarme tra i vicini sono state le urla nella notte, che provenivano dall’abitazione di Donatella e Matteo, in via Veglie, «si capiva che era in corso un violento litigio».

Pugnalata a morte nel letto dove dormiva con il marito che subito dopo si è suicidato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Giugno 2022.  

Il marito-omicida era scappato ricercato dai carabinieri del comando provinciale di Lecce anche con l’ausilio di un elicottero dell' Arma del Sesto nucleo di Bari a supporto dei Carabinieri impegnati nelle ricerche , è stato ritrovato suicida carbonizzato nella macchina della moglie con cui era fuggito

Ennesimo femminicidio questa volta in provincia di Lecce. Durante la notte a Novoli, comune a nord del capoluogo salentino una donna di 38 anni, Donatella Miccoli, originaria di Mesagne (Brindisi) è stata uccisa . La donna è stata assassinata, con un coltello, poco prima delle 2 della scorsa notte. Quando i carabinieri sono arrivati sul posto dove la coppia viveva assieme ai loro figli di 2 e 7 anni (ma era è padre anche di Luca, un ragazzo 18enne nato da una relazione precedente) il marito Matteo Verdesca, 38 anni originario di Copertino, dipendente del corriere espresso DHL, non era in casa. Circostanza questa che ha indotto gli investigatori ad ipotizzare che ucciderla sarebbe stato proprio lui,  ed è attualmente ricercato dai Carabinieri del comando provinciale di Lecce, anche con l’ausilio di un elicottero dell’ Arma del Sesto nucleo di Bari a supporto dei Carabinieri impegnati nelle ricerche dell’omicida. 

Sulla base di una prima ricostruzione dei Carabinieri del nucleo investigativo, della compagnia di Campi Salentina e della stazione di Novoli, all’autore del delitto sarebbe il marito che avrebbe ucciso la moglie mentre erano a letto. I due ieri sera erano rientrati a tarda ora di ritorno dalla festa in paese in onore di San Luigi, dove avevano portato le figlie alle giostre, portandoli in seguito a dormire dai nonni, rientrando in casa insieme da soli, ed i loro vicini hanno sentito le urla di un acceso litigio della coppia. Matteo e Donatella, genitori di tre figli, si conoscevano fin da ragazzini.

Una coppia conosciuta, collaudata, sposatasi nell’ agosto del 2013, quando il Verdesca era ritornato in Puglia da Milano dove aveva lavorato, il cui rapporto non faceva presagire la tragedia che si è consumata la scorsa notte. L’abitazione della coppia è stata messa sotto sequestro per consentire i rilievi della scientifica. Le indagini sono coordinate dalla pm Giorgia Villa. 

La vittima lavorava come commessa nel negozio Golden Point all’interno del centro commerciale “Mongolfiera” di Surbo (Lecce) dove era molto conosciuta.. In uno degli ultimi post sul suo profilo social, in cui compare l’intera famiglia, Matteo Verdesca aveva scritto “vi amo“. “Anche noi”, la risposta di sua moglie Donatella. 

L’uomo, dopo aver accoltellato Donatella, si sarebbe recato a Veglie a casa di sua madre , paese in cui è nato, annunciando i suoi propositi di suicidio: “Vado a uccidermi” per poi allontanarsi subito dopo facendo perdere le proprie tracce. La madre, ha chiamato le forze dell’ordine per raccontare quanto accaduto. Ma il figlio nel frattempo è passato dalle parole ai fatti: il suo corpo è stato trovato carbonizzato, in campagna, poco fuori l’abitato, nell’utilitaria di proprietà della moglie usata per scappare. Si sarebbe dato fuoco, così soffocando la rabbia folle che gli aveva fatto perdere il controllo della ragione. Redazione CdG 1947

Donatella aveva 38 anni, madre di due bambini. Uccide la moglie a coltellate e scappa, trovato morto poche ore dopo: “Mamma ho fatto un casino”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Giugno 2022. 

È ancora una donna a perdere la vita per mano di un uomo, un marito. Donatella Miccoli, 38 anni, è stata uccisa con una sola coltellata profonda da Matteo Verdesca con cui era fidanzata si da ragazzina, poi diventato marito e padre dei suoi figli. È successo a Novoli, in provincia di Lecce. Durante la notte una furiosa lite poi sfociata nel folle gesto intorno alle 2. Lui ha tentato la fuga ma poche ore dopo il suo corpo è stato trovato carbonizzato all’interno della sua auto. La coppia aveva due bambini.

Ieri sera i due erano andati con i figli alla festa in piazza per San Luigi. Secondo prime testimonianze, i vicini di casa li avrebbero sentiti litigare. La vittima lavorava come commessa nel centro commerciale Ipercoop di Surbo (Lecce). L’uomo, dopo aver colpito a morte la donna, era fuggito a bordo della sua autovettura, una Renault di colore bianco, ma aveva chiamato al telefono la madre. “Mamma, ho fatto un casino…”, avrebbe detto. La madre stessa avrebbe chiamato le forze dell’ordine.

Matteo e Donatella, genitori di tre figli, si conoscevano fin da ragazzini. Una coppia conosciuta, collaudata, il cui rapporto non faceva presagire la tragedia che si è consumata la scorsa notte. In uno degli ultimi post sul suo profilo social, in cui compare l’intera famiglia, Matteo ha scritto: “Vi amo”. “Anche noi”, la risposta di Donatella. Secondo alcune testimonianze nessuno aveva il sospetto che in quella famiglia ci fosse qualcosa che non andava. Per altre persone che conoscevano la coppia, Matteo era “molto geloso, a tratti morboso”. Cosa sia scattato in lui resta un mistero.

Appena appresa la notizia di quella tragica morte tutta la comunità si è chiusa nel dolore. “Sono un sindaco, ma sono soprattutto un uomo, un padre di famiglia, e stamattina sono letteralmente scioccato dalla notizia di questa tragedia”, ha detto il sindaco di Novoli, Marco De Luca, commentando la morte di Donatella Miccoli. “La conosco bene, i suoi giovani figli, un bimbo di 2 anni e una bimba di 7 che frequenta il catechismo con mio figlio”. A quanto si apprende il marito della vittima da una precedente relazione aveva avuto un altro figlio, di 18 anni. “Non ho parole – prosegue il primo cittadino – per descrivere quanto è accaduto. Sono sconvolto, ma anche arrabbiato, demoralizzato: ci impegniamo nelle comunità a sensibilizzare contro la violenza sulle donne e poi, invece, ci ritroviamo giovani donne trucidate in questo barbaro modo”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Alle 20 l’ultimo post, poi il folle gesto. Donatella uccisa dal marito, poche ore prima parole d’amore per lui: “Siamo la fine del mondo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Giugno 2022. 

“E insieme siamo la fine del mondo/E vorrei svegliarmi con il tuo profumo/Ogni canzone mi parla di te”. Queste le parole che intorno alle 20 di sabato sera Donatella Miccoli, 38 anni, originaria di Mesagne, ha dedicato al marito Matteo Verdesca, anche lui 38 anni. Poi alle 2 di notte lo stesso uomo delle fotografie sorridenti insieme sui social ha impugnato un coltello e l’ha colpita mortalmente. Ha tentato al fuga. Poi il drammatico ritrovamento poche ore dopo del suo corpo carbonizzato nella sua auto.

Come riportato dal Mattino, i due erano sposati da nove anni. C’era stata qualche crisi ma ci stavano provando a salvare la relazione anche per amore dei due figli, uno di due e uno di sette anni. Nel suo ultimo post su Instagram aveva dolcemente rinnovato il suo amore per il marito. I due erano andati a fare una passeggiata in centro in paese allestito per la fiera di San Luigi.

Insieme avevano due figli che al momento della brutale violenza non erano in casa. Matteo li aveva portati dalla nonna. Lui aveva anche un altro figlio di 18 anni avuto da una relazione precedente a cui Donatella pare fosse molto affezionata. Il matrimonio attraversava un periodo di crisi ma stavano cercando insieme di cercare di risolvere. Poi il dramma nella notte di ieri: intorno alle 2 di notte, dopo una lite, Matteo l’avrebbe colpita con una coltellata mortale. Poche ore dopo è stato trovato morto anche lui, carbonizzato nella sua auto andata a fuoco: secondo le prime ipotesi si sarebbe suicidato dandosi fuoco.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Novoli, Donatella non ha potuto difendersi: uccisa da una coltellata alla gola. Sei i colpi inferti dal marito, uno dei quali fatale, prima di darsi fuoco. Domani funerali separati. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Giugno 2022.

Uccisa con sei coltellate, una delle quali mortale. Donatella Miccoli, la 38enne di Novoli uccisa dal marito è morta così, colpita con sei coltellate: una di queste l’ha raggiunta alla gola e non le ha lasciato scampo.

A questa conclusione è giunta l’autopsia effettuata dal medico legale Roberto Vaglio sul corpo della 38enne uccisa la notte tra sabato e domenica scorsi da suo marito Matteo Verdesca, anche lui 38enne, che poco dopo la fuga si è suicidato dandosi fuoco. L’arma che ha utilizzato Verdesca è verosimilmente un coltello da cucina. L’esame autoptico ha evidenziato che la donna non avrebbe avuto il tempo di difendersi.

Su incarico del pm Giorgia Villa si è svolto, nell’obitorio dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce, anche l’esame necroscopico sui resti carbonizzati di Verdesca. L’esame servirà a estrapolare il Dna per identificare con certezza l’uomo.

I funerali della coppia si svolgeranno separatamente, entrambi domani. La cerimonia funebre di Donatella si terrà alle ore 17 nella chiesa madre di Sant'Andrea Apostolo a Novoli. A celebrarla sarà l’arcivescovo di Lecce monsignor Michele Seccia. Per l’occasione è stato proclamato il lutto cittadino.

I funerali di Matteo Verdesca si terranno sempre nel pomeriggio ma a Veglie, dove abita la sua famiglia, nella chiesa della Madonna di Lourdes. La coppia aveva due figli, di due e sette anni. 

Omicidio a Novoli, l'ultimo saluto a Donatella Miccoli. Il padre: «Perdoniamo tutto». Chiesa gremita e lutto cittadino; applausi all' uscita del feretro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Giugno 2022

«Vi ringraziamo di cuore per l’intensa partecipazione al nostro dolore. Noi perdoniamo tutto quello che è accaduto». Con queste parole Fiorello Miccoli, il papà di Donatella, uccisa dal proprio marito che si è poi suicidato, si è rivolto alle tante persone che sono intervenute oggi ai funerali della 38enne, nella chiesa Sant'Andrea Apostolo a Novoli, dove è stato proclamato il lutto cittadino.

L’omicidio è avvenuto la notte tra sabato e domenica scorsi. Il marito, Matteo Verdesca, si è poi dato fuoco nell’auto con cui è fuggito. In casa c'erano i due loro figli, di due e sette anni.

L’uscita dalla chiesa del feretro, sul quale c'era una foto di Donatella che sorride, è stato salutato da un lungo applauso e da tanti palloncini bianchi. I funerali sono stati celebrati dall’arcivescovo di Lecce, monsignor Michele Seccia. Nella sua omelia l’arcivescovo ha ricordato Donatella, una «donna innocente, lavoratrice e mamma premurosa, tolta ad un mondo marcio». E ha evidenziato la «incapacità di comprendere l'accaduto: perché - si è domandato - la morte di una innocente? Perché una crisi familiare è sfociata in tanto sangue. Perché tante tenebre e oscurità?».

E poi, ancora, ha ricordato «quante volte abbiamo promesso, giurato, “mai più tanto strazio, mai più siffatte tragedie, mai più violenze sulle donne”». «Se non educhiamo in profondità alla sacralità della vita umana, al reciproco rispetto e al perdono - ha sottolineato l’arcivescovo - falliremo miseramente». Infine, monsignor Seccia ha esortato la comunità a fare in modo che «la misericordia e l’amore prevalgano sulle ruggini del rancore e del risentimento: mai più violenza, solo perdono e riconciliazione».

Strasburgo condanna l’Italia: «Silvia picchiata dal marito, lei e i figli andavano difesi». Otto denunce, per l’unica accolta processo dopo sette anni. La corte europea: «Violazione dell’articolo 3 della convenzione dei diritti umani». Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.

La Corte europea dei diritti dell’uomo lo ha chiamato l’ «affaire De Giorgi»: 27 pagine di istruttoria e quattro di sentenza. Verdetto: Strasburgo ha condannato lo Stato italiano per non aver protetto una donna padovana che aveva più volte denunciato l’ex marito che era stato violento con lei e con i suoi tre figli. «Violazione dell’articolo 3 della convenzione dei diritti umani», quello che punisce i paesi che applicano la tortura e trattamenti disumani e degradanti, lo Stato italiano dovrà risarcire Silvia De Giorgi, 44 anni, con 10mila euro, più le spese legali.

Tempi lunghi

«Leggo ogni giorno di donne uccise da uomini violenti, ma so bene quello che le donne devono passare quando denunciano: non vengono credute, vengono abbandonate al loro destino – commenta Silvia, designer che oggi vive a Milano con i suoi tre ragazzi – io avevo denunciato il mio ex otto volte perchè mi picchiava e mi spiava con registratori dappertutto, sono finita in ospedale, una sola denuncia è stata accolta, la prima udienza davanti al giudice si terrà tra pochi giorni, ha alzato le mani anche sui miei figli, i carabinieri che raccoglievano le mie testimonianze le facevano cadere nel vuoto, non sono stata creduta». Nel 2019 Silvia, vedendo che tutte le sue denunce non portavano a niente, e sentendosi inascoltata dalla giustizia italiana, si è affidata all’avvocato Marcello Stellin di Treviso, e ha presentato la sua istanza ala Corte di Strasburgo, che ieri le ha dato ragione. «Lo Stato italiano doveva proteggere la ricorrente e i suoi figli. Il modo in cui l’autorità italiana ha trattato Silvia Di Giorgi, l’eccessiva durata dell’istruttoria e in particolare la sua incapacità di condurre un’indagine efficace sulle accuse credibili della donna, hanno creato una situazione di impunità».

L’iter

Silvia e il suo ex si erano sposati nel 2002, hanno avuto tre figli, ma nel 2010 i rapporti iniziano a incrinarsi. «Lavoravamo insieme nella sua azienda, non ero economicamente autonoma perché non avevo nemmeno un conto corrente mio, per cui nel 2013 il giudice della separazione ha stabilito che, visto che avevamo una casa grande, potevamo convivere, dividendo le stanze, è stato un inferno. Nel 2015 lui voleva costringermi a firmare un documento di vendita dell’azienda, quando gli ho detto di no mi ha minacciata di morte con un coltello, a quel punto sono scappata da mia suocera perché nel frattempo i rapporti con miei si erano interrotti anche per colpa del mio ex, e ho fatto denuncia. Tre giorni dopo è venuto sotto la casa dei miei suoceri e mi ha picchiata con un casco, sono finita in ospedale, nuova denuncia, ma tutto cade nella totale indifferenza dei carabinieri di Padova».

«Mi sono sentita giudicata»

Passano i mesi, la causa per il divorzio va avanti, il marito di Laura non le passa il mantenimento dei figli, e in più la segnala ai servizi sociali. «Mi sono sentita sempre giudicata da tutti, anche dai Servizi sociali che quando hanno scoperto che il mio ex picchiava anche i figli mi hanno fatta sentire colpevole, “signora mia, lei doveva denunciare prima suo marito, non voleva bene ai suoi figli?”, nel frattempo le segnalazioni dei carabinieri sono finite sul tavolo del giudice del divorzio che ha stabilito che le violenze erano “normale conflittualità tra coniugi”, nessuna azione per proteggere me e i miei figli, anche quando i servizi sociali hanno denunciato i maltrattamenti sui ragazzi, ho detto basta, ho trovato l’avvocato Stellin e siamo andati fino in fondo».

«Risultato non scontato»

Ora Silvia ha cambiato vita, se ne è andata da Padova ha un nuovo compagno e i ragazzi sono sereni. «Ma una cosa mi sento di dirla- chiude - a noi donne non crede nessuno, ci guardano con diffidenza, siamo solo l’ennesima donna che denuncia, altro che scarpe rosse, corriamo rischi enormi». «Siamo molto soddisfatti - chiude l’avvocato Maurizio Stellin - è un risultato che non era per niente scontato, ma abbiamo vinto noi, la Corte ha accolto tutti i nostri rilievi». Sullo sfondo restano tre donne morte per mano di ex violenti nelle ultime tre settimane. Anche le loro voci, come quelle di Silvia, erano rimaste inascoltate.

Laura Berlinghieri per “la Stampa” il 17 giugno 2022.

L'ha picchiata selvaggiamente. Ha riempito di telecamere la casa nella quale viveva con i tre figli e dalla quale era stato allontanato. Ha minacciato di ucciderla, dicendole che avrebbe trovato pace solo dopo la sua morte. A nulla sono valse le sette denunce, presentate tra il 2015 e il 2019. «Sono sempre stata sola. Abbandonata dalla magistratura e dalle forze dell'ordine» racconta, dopo avere finalmente vinto la sua battaglia.

Non trovando giustizia in Italia, si è rivolta alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Corte che ieri, con una storica sentenza, ha condannato l'Italia a versarle 10 mila euro, per avere subito un «trattamento inumano e degradante». Adesso Silvia De Giorgi - 44enne padovana, interior designer a Milano - confida che questa sentenza possa segnare la strada per aiutare altre donne. 

Com' è nato tutto?

«Il mio ex marito mi picchiava e mi minacciava. E faceva lo stesso con i nostri tre figli, all'epoca minorenni. Poi mi ha tolto tutto. Mi ha reso nullatenente, con tre bambini da mantenere. È andato avanti anni, finché non sono riuscita ad allontanarlo, fino a quando ho deciso di denunciare». 

Le violenze si sono fermate?

«No, ha continuato a perseguitarmi. Entrava in casa, ha messo delle telecamere per controllarci. Alla fine ce ne siamo andati noi». 

Ha temuto per la sua vita?

«Un giorno mi ha preso per il collo e mi ha massacrato la testa, promettendomi che mi avrebbe ucciso. Diceva che non avrebbe avuto pace fino alla mia morte». 

Dopo le denunce cos' è cambiato?

«Nulla. È stato denunciato d'ufficio, dalle forze dell'ordine, dai servizi sociali. Io stessa l'ho denunciato sette volte in sede penale, non so quante in sede civile. Ma i magistrati hanno sempre tenuto nel cassetto le pratiche, probabilmente perché il mio ex marito è nipote di un personaggio politico di un certo peso».

Ha sollecitato una risposta?

«Sono andata personalmente dai magistrati. Li ho avvicinati, disperata, chiedendo di essere aiutata. Nessuno ha fatto nulla. La prima sentenza arriverà il 14 luglio, a 7 anni dalla mia denuncia». 

E le forze dell'ordine cosa le dicevano?

«Niente. Non un consiglio, non una parola. Provavo una sensazione di totale impotenza. Andavo lì, sporgevo denuncia, mi venivano fatte sempre le stesse domande.

Sono persino stati interrogati i miei figli, per chiedere conferma di quello che dicevo.

Leggo gli appelli della politica alle donne vittime di violenza: denunciate, sarete supportate. Non è vero». 

Il 2022 è stato un anno atroce: solo nei primi sei mesi si sono contati 38 femminicidi.

«Ogni giorno di fronte ai giornali mi sale una rabbia enorme. Io sono stata fortunata, perché ho avuto la forza di allontanarmi da questo situazione. Ma, per le altre donne, il destino è scritto». 

Cosa frena una donna dal denunciare?

«Non soltanto il timore della morte, ma quello di non farcela. Da fuori, avrei potuto capire prima cosa stava accadendo. Ma quando vivi in prima persona una determinata situazione, vivi un marasma di sensazioni diverse. Io ero sola, con tre bambini. Avevo paura che potessero portarmeli via. Avevo paura di non riuscire a mantenerli da sola, perché il mio ex marito è molto più forte di me economicamente». 

Dice di essere stata lasciata sola. In Italia mancano le leggi o la volontà di applicarle?

«La volontà di applicarle. I giudici avrebbero gli strumenti, ma hanno paura di scrivere le sentenze, perché significherebbe assumersi una responsabilità. Oltre al fatto che, in media, ogni paio d'anni nello stesso procedimento cambia il giudice.»

Quando ha deciso di rivolgersi alla Cedu?

«Il mio avvocato mi ha detto che non sapeva più come aiutarmi e l'unica strada era quella di Strasburgo. Ha istruito la pratica. Contro ogni aspettativa, nel 2019 è stata accettata e ora è arrivata la sentenza che condanna la Repubblica italiana. Ho dovuto trovare giustizia fuori dal mio Paese». 

Ma ancora non c'è nessuna condanna per il padre dei suoi figli.

«Purtroppo no. Mi auguro che decida di starci lontano. Ora, per i miei figli, ho un affido super esclusivo rafforzato. Per anni ho rincorso il mio ex: chiedendogli una firma per cambiare la carta d'identità, per la scuola. Si è sempre negato, non pagando nemmeno gli alimenti. Aspetto la decadenza genitoriale». 

Spera che la sentenza di Strasburgo possa dare la forza ad altre donne?

«Spero serva a smuovere le istituzioni. Che si decidano ad aiutare veramente le donne vittime di violenza».

Violenza domestica, Cedu condanna l'Italia per maltrattamenti: "Inazione dei giudici, nonostante la gravità delle denunce". La Repubblica il 16 giugno 2022.  

I giudici di Strasburgo, dopo aver analizzato il caso di una donna del mantovano che ha denunciato per 7 volte il marito violento senza mai essere ascoltata, hanno stabilito che l'Italia deve versarle 10 mila euro per danni morali.

L'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) per il 'trattamento inumano e degradente' di una donna, Silvia De Giorgi, residente nel padovano, perché le autorità non hanno agito per proteggerla dall'ex marito violento. Tra il 2015 e il 2019 ha denunciato 7 volte il marito, da cui era separata dal 2013, per averla minacciata di morte, colpita con un casco, averle messo telecamere in casa, perseguitata, seguita e molestata, per non aver pagato gli alimenti e aver maltrattato i tre figli. I giudici di Strasburgo chiamano in causa l'inazione dei magistrati stabilendo che l'Italia deve versarle 10 mila euro per danni morali.

Ignorate le relazioni di carabinieri e dei sanitari sulle violenze subite dalla donna

Nonostante i rapporti dei Carabinieri e dell'ospedale, e anche dei servizi sociali contengano le prove di quanto la donna afferma, segnalano i giudici di Strasburgo nella loro sentenza, i magistrati incaricati di valutare il caso non hanno preso alcuna iniziativa per rispondere alle denunce della donna, e la loro inazione, afferma la Corte di Strasburgo, ha creato "una situazione di impunità" per l'ex marito, che deve essere ancora processato per un atto violento commesso il 20 novembre del 2015, mentre restano in sospeso le inchieste sulle denunce che risalgono al 2016.

"C'è bisogno di una riflessione seria sulla violenza maschile"

"Siamo pienamente soddisfatti per la sentenza della Corte europea dei diritti umani in cui sono state riconosciute tutte le violazioni che avevano denunciato". Lo afferma l'avvocato Marcello Stellin che ha rappresentato Silvia De Giorgi alla Corte di Strasburgo. "La condanna dell'Italia per non aver saputo proteggere una donna dall'ex marito violento, denunciato ben 7 volte, dovrebbe chiamare tutte e tutti a una seria riflessione sulla violenza maschile contro le donne. Assistiamo, non da oggi, a una vera e propria strage di donne, troppo spesso morti annunciate, precedute da gravi maltrattamenti, femminicidi che si potevano prevenire.  Va bene lavorare a nuove norme, come faremo con il progetto di legge di iniziativa del governo, in particolare delle ministre, che rafforza la tutela delle donne che subiscono violenza.  Ma rimane grande la necessità di cambiare la cultura del paese, in particolare quella di chi deve applicare quelle norme". A dichiararlo è Cecilia d'Elia, deputata del pd e portavoce nazionale della conferenza delle donne democratiche.

I magistrati devono essere sensibilizzati e formati sul tema della violenza in famiglia

"Ancora una sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo che condanna l'Italia per il 'trattamento inumano e degradanti" di una donna. Ancora una volta i magistrati si dimostrano inadeguati nell'affrontare le situazioni di violenza domestica". A dirlo è Antonella Veltri, Presidente D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza. "Dopo la sentenza del 7 aprile Landi contro Italia e il caso Talpis contro Italia, nuovamente lo Stato italiano - aggiunge - è condannato per l'inazione dei magistrati che - nonostante i rapporti dei Carabinieri, dell'ospedale e dei servizi sociali - non hanno preso alcun provvedimento nei confronti dell'ex marito, creando così una situazione di impunità". Secondo Veltri si tratta di una "sentenza esemplare che, purtroppo, conferma la nostra posizione. Non è più possibile far giudicare situazioni di violenza maschile alle donne a chi neanche la riconosce. Lo ripetiamo da troppo che la via da percorrere - conclude - è la formazione dei magistrati. Non possiamo più aspettare".

Femminicidi, il giudice Roia: la donna che si separa unilateralmente rischia la vita. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022.

Ce lo chiediamo ogni volta. Che cosa non ha funzionato? Ce lo chiediamo soprattutto quando i numeri impongono attenzione: cinque donne uccise in quest’ultima settimana, per esempio. Dove stiamo sbagliando? E come se ne esce? L’ultimo report della Direzione centrale della polizia criminale dice che fra l’1 gennaio e il 12 giugno di quest’anno sono cadute per mano di un uomo violento 50 donne, di cui 43 in ambito familiare/affettivo. Ma fra il 12 e oggi all’elenco se ne sommano altre tre, quindi siamo a 53 vite spezzate, 46 da assassini che hanno a che fare con la famiglia o con le relazioni sentimentali. L’anno scorso erano 49 ma nessuno osa leggere quel -3 come un successo, perché anche un solo femminicidio è comunque troppo e poi perché sappiamo tutti che alla fine dell’anno — tirate le somme — lo scostamento rispetto agli anni passati non è mai decisivo, mai indicativo di un’inversione reale di tendenza. E dunque? Cosa si può fare più di quanto sia già stato fatto?

Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano è fra i più preparati magistrati italiani sul tema della violenza di genere. Si occupò per la prima volta di violenza domestica nel lontano 1991, da giovane pubblico ministero. Ogni tanto racconta di quell’imputato italiano che gli disse: «Signor giudice io non lo sapevo che picchiare la moglie fosse un reato!». Non stava mentendo, quell’uomo. Aveva davvero la concezione proprietaria nei confronti della donna che aveva sposato: lei è mia e io ne faccio quello che voglio, compreso picchiarla se non fa cosa e come dico io. «Ecco. Io credo che ne usciremo quando faremo lo switch: ci serve lo scatto della maturazione culturale, il cambio di approccio, di mentalità. Abbiamo fatto passi avanti ma la strada è ancora lunga», dice Roia. «Ci ho riflettuto» annuncia. «Mi sento di dire che oggi una donna che decide unilateralmente di abbandonare una relazione di coppia è in una potenziale situazione di pericolo di vita. Mi rendo conto che una frase del genere ha un effetto molto forte ma è una considerazione che va fatta con chi è vicino a quella donna in quel momento. Tutti: dalle amiche ai parenti, dall’avvocato al sistema giustizia. Le leggi ci sono, sono le competenze che vanno migliorate».

Chiunque si occupi di violenza di genere sa bene che saper individuare e valutare le situazioni di rischio è oggi una delle priorità. Un’altra è occuparsi, finalmente in modo serio, degli uomini violenti, perché la non violenza passa (anche) per il loro recupero e la consapevolezza del disvalore dei loro comportamenti. E poi sarebbe urgente aiutare le donne a riconoscere la violenza che troppo spesso negano o sminuiscono. Senza puntare il dito contro di loro, come invece sembrerebbe fare la gran parte della popolazione del nostro Paese. Fu l’Istat nel 2019 (ultimo dato disponibile) a farci sapere che per oltre la metà degli italiani una donna che subisce violenza in qualche misura se l’è cercata. «Quel dato era impressionante» commenta Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio. «Era l’espressione degli stereotipi, dei pregiudizi, della giustificazione dei violenti...Non siamo all’anno zero, è vero, ma purtroppo ci sono ancora resistenze al cambiamento». Chi sbaglia? «Alla base di tutto c’è il tema della mancata adeguata valutazione del soggetto e della sua pericolosità sociale», risponde. «Sbagliano tutti gli operatori del sistema giudiziario che non hanno formazione e specializzazione sufficiente. Ma la pericolosità sociale è il presupposto per le misure cautelari e una volta stabilite quelle io dico che usiamo ancora troppo poco il braccialetto elettronico anche se adesso li abbiamo...».

L’uso rafforzato del braccialetto elettronico e il fermo anche senza la flagranza di reato (nei casi di maltrattamenti, lesioni e stalking) sono due punti-chiave del pacchetto di norme antiviolenza voluto dalle ministre Marta Cartabia, Luciana Lamorgese ed Elena Bonetti, assieme alle colleghe Erika Stefani, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini. Quel disegno di legge adesso è in Commissione Giustizia. La ministra per le Pari Opportunità Bonetti dice che è «urgente» approvarlo «in via definitiva», che è stato «voluto per dare una stretta antiviolenza» e che «oggi il testo attende l’esame del Senato, e so che i relatori Cucca e Unterberger stanno lavorando perché avvenga rapidamente». Aggiunge che «lo dobbiamo a tutte le donne che sono a rischio della vita e ai loro figli. Ogni giorno di ritardo pesa sulle nostre coscienze e sulla nostra coscienza di Paese».

Ilaria Del Prete per leggo.it il 15 giugno 2022.

Ancora una donna uccisa, la quarantesima dall'inizio dell'anno. Si chiamava Elisabetta Molaro, aveva 40 anni e viveva in via delle Acacie a Codroipo (Udine): è stata uccisa dal marito intorno alle 2 della notte. L'uomo, Paolo Castellani, 45 anni, si sarebbe dato alla fuga subito dopo l'omicidio. Una corsa tra i campi vicino casa cercando anche di eliminare l'arma del delitto, un coltello, che ha lanciato vicino un corso d'acqua. 

La fuga è finita poche ore dopo, quando Castellani è stato fermato dai carabinieri. Secondo le prime informazioni, marito e moglie si stavano separando. Ieri sera la vittima, agente assicurativo, era uscita con un'amica, rientrando piuttosto tardi. Ne è scaturita una discussione al culmine della quale l'uomo - commesso in un negozio - ha afferrato il coltello e ha sferrato i colpi. In casa c'erano anche i due figli della coppia, che però stavano dormendo e non si sarebbero accorti di quanto stava accadendo e che ora sono stati affidati ai nonni.

Elisabetta è stata uccisa con decine di coltellate al collo e al torace, rende noto la Procura di Udine in una nota ricostruendo la tragedia. Subito dopo l'uomo si è allontanato su un'auto che i Carabinieri hanno rintracciato nei pressi del fiume Stella. Proprio nel fiume, grazie anche ai Vigili del fuoco, è stata trovata la probabile arma del delitto: un coltello da cucina di 27 centimetri. Prima di allontanarsi, Castellani avrebbe dato l'allarme telefonando ai carabinieri. 

Il marito ha confessato l'omicidio

 Paolo Castellani, 44 anni, nato a San Vito al Tagliamento (Pordenone) e residente a Codroipo (Udine), ha confessato l'omicidio della moglie Elisabetta Molaro, di 40 anni. «Alla presenza dell'avvocato difensore - fa sapere la Procura di Udine - l'uomo è stato sottoposto a interrogatorio e ha ammesso la propria responsabilità e ricostruito in maniera dettagliata i momenti precedenti e successivi all'evento delittuoso».

Con il passare delle ore si vanno delineando nel dettaglio anche altri particolari della tragedia. L'uomo è stato rintracciato dai Carabinieri, ore dopo l'omicidio della moglie, a distanza di 4 chilometri dall'abitazione, seminudo e in stato confusionale. Alle mani presentava lievi lesioni. Al termine delle formalità di rito, Castellani è stato chiuso nella Casa Circondariale di Belluno. Nei prossimi giorni la Procura della Repubblica di Udine avvierà l'iter per la richiesta di convalida del provvedimento restrittivo.

Federica Zaniboni per "Il Messaggero" il 15 giugno 2022.

Ieri sarebbe stato un giorno importante per Gabriela Trandafir. Dopo mesi di dolore e abusi, intrappolata in un matrimonio logorante, avrebbe potuto finalmente fare un passo avanti verso la libertà.

Ma le due udienze che l'attendevano martedì mattina quella civile per la separazione dal coniuge e quella penale per le vessazioni subite sono state celebrate senza di lei. Sì, perché la 47enne è stata uccisa due giorni fa insieme alla figlia Renata di 22 anni, quando il marito avrebbe premuto per sette volte il grilletto di un fucile nella loro villetta a Castelfranco Emilia, in provincia di Modena.

Nell'ultimo anno la donna aveva presentato tre denunce contro il 69enne - che adesso si trova in carcere dopo la confessione del duplice omicidio - e il pm aveva chiesto l'archiviazione. Gabriela, però, si era opposta, decidendo di continuare a lottare.

Era il luglio del 2021, quando per la prima volta la 47enne aveva trovato il coraggio di chiedere aiuto. Quella prima denuncia per maltrattamenti era stata seguita da un'integrazione il mese successivo e poi, a dicembre, da una terza querela per atti persecutori.

La donna, infatti, aveva segnalato alle autorità che il marito aveva installato un gps sulla sua auto, così da poter seguire i suoi spostamenti e avere sempre il controllo su dove si trovasse. Per entrambi gli atti, però, la procura aveva chiesto l'archiviazione. E ora, dopo la tragedia, dagli uffici dei pm non arriva alcun commento. Nell'udienza di ieri si sarebbe dovuto discutere proprio di questo: i maltrattamenti segnalati da Gabriela sarebbero stati soprattutto di natura verbale, ma il suo avvocato Annalisa Tironi si era opposta alla richiesta, evidenziando che «c'erano stati atteggiamenti ben più concreti» da parte del 69enne. Nello stesso periodo, altrettante denunce erano state presentate da Montefusco nei confronti della moglie: una nel 2021 per lesioni personali e altre due quest' anno per maltrattamenti in famiglia e violenza privata.

I LITIGI Le dinamiche tossiche tra i due venivano trascinate avanti da tempo, con litigi continui e discussioni pesanti che coinvolgevano spesso anche la figlia di Gabriela. La situazione era diventata insostenibile, al punto che la coppia aveva deciso di separarsi. Sempre per martedì era stata fissata l'udienza davanti al tribunale civile di Modena e sarebbe proprio questo il movente dietro al folle gesto di Montefusco. Nello specifico, ciò che preoccupava l'imprenditore edile 69enne era la volontà di Gabriela di vendere la loro villetta di via Cassola di Sotto. 

Renata lo sapeva bene che il patrigno non avrebbe potuto accettarlo, tant' è che la sera prima di essere uccisa ne parlava con un'amica, sostenendo che avrebbe di sicuro fatto «qualcosa». Lunedì mattina, dopo un colloquio con gli avvocati, l'uomo ha puntato quel fucile contro le due donne, sparando prima alla 22enne e subito dopo alla moglie. In casa era presente anche il figlio 17enne della coppia, unico sopravvissuto alla strage. L'avvocato della donna ha sottolineato che il ragazzo «è vittima di una tragedia gigante» e che «questa è la mia preoccupazione dal punto di vista legale».

Un figlio, tra l'altro, che Montefusco «adorava», come spiega Marco Rossi, difensore del reo confesso, e nei confronti del quale non avrebbe mai avuto «intenzione di fare del male». L'uomo, indagato per il duplice omicidio pluriaggravato, «è molto provato e sta acquisendo consapevolezza di quello che ha fatto ogni momento di più. L'ho visto molto disperato aggiunge il legale , è molto giù, vede tutto nero».

Nel frattempo è in attesa dell'udienza di convalida, che potrebbe già essere oggi o domani.

LE INDAGINI Le indagini dei carabinieri, coordinati dalla procura di Modena, proseguono per mettere insieme tutti i pezzi delle vite di quella famiglia distrutta. Secondo quanto emerso dai primi accertamenti, l'uomo era già noto alle forze dell'ordine per alcuni reati fiscali e di bancarotta, ma anche perché negli anni Novanta si sarebbe ribellato al pizzo chiesto da un clan camorristico, permettendo l'arresto di 16 persone. Prima di sposarsi con la donna di origini rumene, il 69enne aveva avuto tre figlie da un precedente matrimonio. 

Castelfranco (Modena), madre e figlia uccise a colpi d’arma da fuoco. Fermato marito della donna. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2022. 

Modena, doppio femminicidio. Arrestato Salvatore Montefusco, imprenditore edile. A ritrovare i cadaveri sono stati i vigili del fuoco che hanno aperto la porta di un’abitazione in una zona di aperta campagna.

Due donne, Gabriela Trandafir, 47 anni, e la figlia Renata, 22, sono state trovate senza vita in casa uccise da colpi di arma da fuoco. È quanto scoperto questa mattina nel territorio del comune di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, in una zona di aperta campagna. Secondo la prima ricostruzione dei carabinieri del nucleo investigativo di Modena, coadiuvati dai colleghi della Tenenza di Castelfranco, il rinvenimento dei due cadaveri sarebbe avvenuto dopo un intervento dei vigili del fuoco, giunti sul posto proprio per aprire la porta dell’abitazione che si trova nella frazione di Cavazzona di Castelfranco.

La figlia della donna era nata da una precedente relazione. A sparare alle due donne sarebbe stato un uomo, Salvatore Montefusco, imprenditore edile, attuale marito di Gabriela. Sarebbe stato lui stesso a chiamare i soccorsi. La sua posizione è ora al vaglio degli inquirenti e presto potrebbe scattare formalmente il fermo. Si ignora, al momento, come sia maturato il duplice omicidio. I carabinieri e la Scientifica sono ancora su posto innanzitutto per ricostruirne la dinamica. 

Prima dell'udienza per la separazione uccide moglie e figlia: "Avevano paura". Tiziana Paolocci il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Sparatoria in casa: fermato. I vicini: "Dicevano che era cattivo".

Uccisa insieme alla figlia dal marito. Gabriela Trandafir, 47 anni, e Renata, 22 anni, sono state fatte fuori in una villetta in via Cassola di sotto, tra le frazioni di Manzolino e Cavazzona di Castelfranco Emilia, una zona di campagna in provincia di Modena.

La donna, di origini romene, aveva paura, non si sentiva tranquilla conoscendo bene il carattere di Salvatore Montefusco, l'imprenditore edile di origine campana di 69 anni, con il quale si era legata in matrimonio diverso tempo fa. Quel legame l'uomo non voleva reciderlo e quando ha saputo che lei era convinta, che non aveva nessun dubbio e tantomeno voglia di fare marcia indietro, ha pensato di punirla nel peggiore dei modi, finendo lei e la figliastra a colpi di pistola. La ventiduenne era nata da una relazione precedente che la rumena aveva avuto prima di sposarsi con l'italiano. Oltre a Renata con loro viveva anche un ragazzo minorenne, figlio invece della coppia.

«Gabriela me lo aveva detto, oggi (ieri per chi legge, ndr.) avevano la sentenza di separazione, aveva paura - racconta una vicina di casa delle vittime -. Mi diceva vedrai che farà qualcosa per mandarci via».

Invece Montefusco si è spinto oltre. A occuparsi del caso sono i carabinieri del nucleo investigativo di Modena e i colleghi di Castelfranco Emilia, che a questo punto dovranno solo accertare la dinamica. Tutto il resto è tragicamente chiaro. Il duplice femminicidio è avvenuto intorno a mezzogiorno. L'assassino ha sparato a Gabriela e Renata e poi ha chiamato i soccorsi. Quindi è fuggito facendo perdere le sue tracce, per poi costituirsi più tardi.

Telefonate alle forze dell'ordine sono arrivate anche dai vicini, che avevano sentito esplodere diversi colpi di arma da fuoco. Quanti non si sa ancora e sarà l'autopsia sulle due vittime a chiarire sia il numero dei proiettili esplosi sia chi delle due donne è stata colpita per prima.

Quando i militari e gli uomini del 118 sono giunti sul posto, per le due donne non c'era più nulla da fare. I sanitari non hanno potuto far altro che constatarne il decesso.

Il 69enne è stato portato in caserma per essere interrogato e poi sottoposto a fermo, mentre nell'abitazione gli uomini della scientifica eseguivano i rilievi di rito. Ieri ci sarebbe dovuta essere la sentenza di separazione della coppia e madre e figlia non erano tranquille. «Gabriela diceva che lui era capace di tutto, che era un uomo cattivo - racconta tra le lacrime una ragazza fuori dal cancello della villetta teatro della tragedia -. Era terrorizzata e certa che le avrebbe fatto del male».

Sempre i vicini hanno riferito infatti di un contesto di litigi frequenti tra Montefusco e la moglie, un rapporto deteriorato con la donna che non avrebbe avuto il permesso di uscire da sola, senza di lui. A tanta sofferenza aveva deciso di dire basta e la separazione ieri avrebbe dovuto sancire ufficialmente la fine della loro storia. Ma, ancora una volta, il finale l'ha riscritto l'assassino.

Duplice femminicidio nel Modenese. Madre e figlia uccise in casa dall’ex marito, oggi l’udienza di separazione: “Renata aveva paura, diceva che era cattivo”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 13 Giugno 2022. 

Le ha uccise poche ore prima dell’udienza di separazione. Salvatore Montefusco, imprenditore edile di 69 anni di origine campana, è entrato nell’abitazione di Cavazzona di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, e in cucina ha ammazzato a colpi d’arma da fuoco l’ex moglie Gabriela Trandafir, 47enne di origine rumena, e la figlia Renata Alexandra, 22 anni, nata da una precedente relazione della donna. Un duplice femminicidio quasi annunciato stando alle parole della vittima più giovane.

“Lei aveva paura, oggi ci sarebbe stata la sentenza di separazione e proprio ieri sera la ragazza mi diceva che lui, il marito della madre, avrebbe potuto fare di tutto, perché è una persona cattiva”. Queste le parole tra le lacrime dell’amica e vicina di casa di Renata parlando all’esterno dell’abitazione con i giornalisti. Un rapporto tra l’ex coppia di coniugi deteriorato da tempo e segnato da litigi e paure quotidiane, con l’uomo che vietava alla donna di uscire da sola. Montefusco dopo l’omicidio si è allontanato dalla villetta prima di costituirsi alla caserma dei carabinieri di Castelfranco. Nella villetta viveva anche un ragazzo minorenne, figlio della coppia. Non è chiaro se fosse presente al momento del duplice omicidio.

La tragedia è avvenuta nella villetta di via Cassola di Sotto, frazione di Cavezzana poco dopo le 12 di lunedì 13 giugno. A lanciare l’allarme sarebbe stato lo stesso imprenditore dal telefono di un bar. Anche alcuni vicini di casa, preoccupati dalle urla e dal rumore degli spari avrebbero richiamato l’attenzione delle forze dell’ordine. Il 118 è intervenuto, con i vigili del fuoco per aprire la porta, ma non ha potuto fare altro che certificare il duplice assassinio. Nei suoi confronti la Procura ha adottato un provvedimento cautelare. Sono in corso accertamenti sull’arma, che non risulterebbe regolarmente detenuta e si stanno verificando i suoi precedenti, in particolare se la moglie avesse presentato una denuncia per comportamenti violenti. Renata studiava moda all’università ed era appassionata di calcio. Nel week-end appena trascorso era stata a un torneo con le amiche a Cattolica, in Romagna.

“Sgomento. E’ quello che provo dopo aver appreso la notizia del duplice omicidio di due donne avvenuto nelle scorse ore nel nostro Comune”, ha detto il sindaco di Castelfranco, Giovanni Galgano. “Quanto accaduto è inammissibile, ingiustificabile: esprimo a nome di tutta la città la più ferma condanna”, ha detto ancora il primo cittadino.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 14 Giugno 2022.

Dall'esterno sembrava una casa tranquille. Una plurifamigliare tra peri e girasoli che ieri esponeva una bandiera della pace sul fronte e un lenzuolo della scientifica sul retro. Quella stessa abitazione era già stata visitata molte volte dalle forze dell'ordine di Castelfranco, il comune modenese che rivendica l'invenzione del tortellino. 

Tanto che quando verso mezzogiorno un vicino ha sentito le urla, si è domandato se fosse il caso di chiamare nuovamente il 112. Poi, sono arrivati gli spari e non ha più avuto dubbi. 

Si è affacciato alla finestra e ha visto un ragazzo scavalcare la siepe e fuggire per i campi. Era il figlio diciassettenne di Salvatore Montefusco che aveva appena visto suo padre uccidere a fucilate la madre, Gabriela Trandafir, e la sorellastra, Renata, donne che lo avevano denunciato più volte per maltrattamenti e atti persecutori. 

Tutti avevano paura di quest' uomo, 69 anni, napoletano emigrato al Nord, muratore in pensione, con precedenti penali per reati violenti e la passione dei cavalli. Alcuni, hanno paura ancora adesso che è stato fermato con l'accusa di duplice femminicidio e difficilmente sfuggirà dalla custodia cautelare in carcere.

Dicono che dava facilmente in escandescenze. Gli inquirenti hanno confermato che tra lui e la moglie c'erano state numerose denunce reciproche. Prima lei e la figlia avevano querelato lui per maltrattamenti in famiglia, furto, atti persecutori, accusandolo di aver installato un Gps in macchina per pedinarle. Poi, Montefusco aveva denunciato entrambe, dichiarando di aver subito percosse. 

L'ultima denuncia, quest' uomo ben piantato l'ha rivolta contro sé stesso, telefonando da un bar ai carabinieri per confessare il delitto di ieri, quando ormai questi erano già in strada per raggiungere il posto in cui l'aveva commesso. 

La madre di un ex compagna di classe della ragazza, accorsa con la figlia appena appreso della tragedia, ha raccontato in lacrime che quello stesso giorno Montefusco e la Trandafir avevano appuntamento in tribunale per porre definitivamente fine alla loro relazione matrimoniale. 

Oggi, 14 giugno, si sarebbero dovuti vedere in sede penale per chiarire la faccenda della denuncia per percosse che aveva sporto lei. 

L'amica, ha detto che il giorno prima anche Renata aveva confessato di avere paura di quell'uomo, «paura che faccia qualcosa, perché è cattivo», e paura che, con la separazione in mano, avrebbe sbattuto fuori di casa lei, la madre e il fratellastro. 

Ma l'avevano tranquillizzata dicendole che, essendo quest' ultimo minorenne, il patrigno non avrebbe potuto privarle dell'alloggio.

Con la stessa logica, un uomo già denunciato dalla moglie per violenze non avrebbe nemmeno potuto detenere un fucile a canne mozze, che infatti aveva la matricola cancellata e si presume tenesse nascosto. 

Non avrebbe neanche potuto avvicinarsi, poiché esiste un protocollo d'emergenza chiamato «Codice Rosso», che dovrebbe garantire protezione in tempi rapidi. Chissà dov' è nato il corto circuito che ha fatto sì che Montefusco riuscisse a usare il suo fucile contro la donna che lottava per lasciarlo e anche contro la figlia, che lei aveva avuto da una precedente relazione. 

Gabriela, 47 anni, era disoccupata, mentre Renata, 22 anni, lavorava al guardaroba in un locale notturno di Modena.

Aveva studiato moda in un istituto professionale in città, e mentre sua mamma doveva essere in tribunale, lei aveva un colloquio di lavoro in quest' ambito. Ora, il futuro prossimo di colui che è sospettato di aver commesso il 39esimo ed il 40esimo femminicidio italiano nel corso del 2022, è nelle mani della sostituto procuratore Francesca Graziano, arrivata subito sulla scena del crimine. Un crimine che, come quasi tutti gli altri di questo genere, aveva dato le sue avvisaglie.

"Volevano buttarmi fuori". Così Salvatore ha ucciso compagna e figliastra. Laura Cataldo il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

I continui litigi, le incomprensioni, le denunce e poi la decisione finale: la separazione. Salvatore Montefusco non ci stava, si sentiva deriso e beffeggiato quindi ha impugnato il fucile e ha sparato alla compagna e alla figliastra.

"Sono entrate in casa e Renata mi ha detto: domani te ne vai, finalmente ci sarà l’udienza di separazione. Volevano buttarmi fuori, ma quella era casa mia". Salvatore Montefusco, l'uomo che il 13 giugno ha sparato e ucciso la compagna da cui si stava separando e la figliastra 22enne, ha spiegato in lacrime il motivo del suo folle gesto. "Mi avevano messo contro anche mio figlio – ha dichiarato l’arrestato – mi hanno sbeffeggiato e ridicolizzato per un anno. Mi volevano mandare via di casa ma io ho l’usufrutto e i miei figli la nuda proprietà".

Il duplice femminicidio

Ieri, intorno mezzogiorno, i carabinieri avevano ricevuto una segnalazione che li incitava a recarsi immediatamente in una villetta di via Cassola, a Castelfranco, in provincia di Modena. Arrivati con una volante i militari non avevano visto nessuno e dunque hanno proceduto forzando la porta della residenza, trovandosi di fronte una tragedia. Due donne si trovavano sul pavimento, i corpi erano stati trivellati da un'arma da fuoco. A quel punto le forze dell'ordine si sono attivate per cercare la persona che aveva chiamato poco prima.

L'uomo in questione è Salvatore Montefusco, 69 anni, compagno della 47enne Gabriela Trandafir e patrigno di Renata Trandafir, 22 anni. Mamma e figlia abitavano in quella casa da anni, ma negli ultimi tempi le cose tra l'uomo e la vittima erano in declino. Secondo alcune indiscrezioni pare che il 69enne fosse già stato denunciato dalle due donne per maltrattamenti, ma nonostante ciò vivevano ancora insieme. Pochi giorni fa, però, la svolta: dopo una serie di litigi Gabriela aveva chiesto la separazione, ma Montefusco non era d'accordo.

Il giorno del duplice omicidio le due donne erano appena rientrate a casa dopo aver parlato con i legali della 47enne. L'indagato ha continuato a raccontare che madre e figlia gli avevano detto che con ogni probabilità sarebbe stato lui ad andare via da casa. Questa la miccia che ha fatto scattare l'ira dell'uomo. Sentendosi preso in giro ha impugnato il fucile, che custodiva a casa, e ha cominciato a sparare contro le due vittime fino a farle accasciare a terra.

Sono ancora in corso gli accertamenti sull'arma, che non risulterebbe regolarmente detenuta. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, all'uomo erano state sequestrati alcuni oggetti ritenuti pericolosi proprio a seguito di una denuncia.

I precedenti e la violenza

La rabbia degli amici e familiari delle vittime ha a che fare anche con la giustizia. Nonostante la donna avesse già denunciato il suo omicida non era stata creduta. Prima del duplice omicidio il pm aveva infatti disposto l'archiviazione e il legale della donna si era opposto. "Lei aveva paura: diceva che lui avrebbe fatto qualcosa, che è una persona cattiva", ha confermato una vicina di casa che sentiva i due litigare. Parole confermate da un'altra amica:"Era una brava ragazza, purtroppo la situazione familiare era complicata. Oggi ci sarebbe stata la sentenza di separazione, aveva paura: 'Vedrai mi farà qualcosa per mandarci via', mi aveva detto". Un rapporto malato e deteriorato dalla gelosia quello tra il killer e la vittima. Secondo qualcuno Montefusco non lasciava più la donna da sola e non le dava il permesso di uscire senza di lui.

Di fronte all'ennesima tragedia che poteva essere evitata è intervenuto il coordinamento dei centri antiviolenza dell'Emilia-Romagna: "Purtroppo, le donne che denunciano violenza spesso non vengono credute. Le donne non mentono. Lo dimostra la lunga scia di sangue, ininterrotta; il sangue delle donne uccise, da mariti, ex mariti, conviventi, ex conviventi. Al momento una donna viene uccisa ogni settantadue ore. - e continuano - "Urge un cambiamento culturale, urge che le forze dell'ordine e la magistratura si interroghino sulle modalità del loro intervento".

La procura aveva chiesto l'archiviazione. Doppio femminicidio di Castelfranco, Gabriela aveva denunciato il marito tre volte: i segnali ignorati di un tragedia annunciata. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Giugno 2022. 

Era stato denunciato tre volte, ma è riuscito a uccidere la moglie e la figlia di lei. È questo il quadro che emerge dal duplice omicidio di Renata Alexandra, 22enne, e della madre 47enne Gabriela Trandafir, di origine rumena, entrambe uccise dal marito di quest’ultima, il 69enne Salvatore Montefusco, imprenditore edile di origine campana.

La tragedia di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, ha infatti dei noti pregressi giudiziaria. Gabriela aveva denunciato ben tre volte il coniuge: la prima per maltrattamenti è di luglio 2021, con un’integrazione ad agosto e un’altra denuncia presentata a dicembre.

Ma dalla Procura, scrive l’Ansa, era arrivata una richiesta di archiviazione perché le condotte di Montefusco, seppur nel contesto di una situazione familiare difficile, sarebbero rimaste sul piano verbale.

L’omicidio di madre e figlia è avvenuto lunedì mattina nella casa in cui vivevano: poco dopo mezzogiorno è stato lo stesso Salvatore Montefusco a chiamare i carabinieri da un bar di Castelfranco. Anche alcuni vicini di casa, preoccupati dalle urla e dal rumore degli spari avrebbero richiamato l’attenzione delle forze dell’ordine. Il 118 è intervenuto, con i vigili del fuoco per aprire la porta, ma non ha potuto fare altro che certificare la morte di Gabriela e Renata.

In serata la confessione di Montefusco che, secondo la ricostruzione della Procura, ha sparato almeno 7-8 colpi con un fucile a canne mozze prima nei confronti di Renata, figlia che Gabriela aveva avuto da una precedente relazione, e poi alla moglie.

Nella sua ‘confessione’ ai magistrati Montefusco ha spiegato che alla vista del secondo figlio, di 17 anni, “non so cosa mi ha fermato”, decidendo così di non aprire il fuoco. L’uomo, difeso dall’avvocato Marco Rossi, resta in carcere e dovrà rispondere di duplice omicidio pluriaggravato.

Montefusco era già noto alle forze dell’ordine per alcuni reati fiscali e bancarotta ma soprattutto perché negli anni ’90 si ribellò al pizzo chiesto da un clan camorristico che aveva preso piene in zona permettendo l’arresto di 16 persone. L’imprenditore edile aveva già avuto tre figlie in prime nozze, poi l’incontro con la donna di origine rumena con cui aveva avuto un altro figlio.

Gabriela Trandafir aveva denunciato il marito per maltrattamenti, stalking, appropriazione indebita e furto, ma la procura aveva chiesto l’archiviazione per la prima accusa. Proprio oggi era attesa l’udienza davanti al gip, visto che l’avvocato di Gabriela, Annalisa Tironi, si era opposta. Sempre oggi era attesa anche la prima udienza civile per la separazione tra i coniugi, in crisi da tempo: anche Montefusco aveva denunciato entrambe le donne per maltrattamenti e lesioni.

“Nell’opposizione abbiamo evidenziato che c’erano stati atteggiamenti ben più concreti“, ha spiegato l’avvocato Annalisa Tironi, che difende le due vittime. Anche il coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia Romagna ha commentato la vicenda con un comunicato, spiegando che succede spesso che le donne non vengano credute quando denunciano episodi di violenza: “Purtroppo, le donne che denunciano violenza spesso non vengono credute, perché scontano quel retaggio di pensiero vetusto per il quale mentirebbero. Le donne non mentono. Lo dimostra la lunga scia di sangue, ininterrotta; il sangue delle donne uccise, da mariti, ex mariti, conviventi, ex conviventi. Una donna uccisa ogni settantadue ore, in media. Ci chiediamo anche quante umiliazioni, quante rinunce, quanta prepotenza abbiano dovuto subire, prima di questo intollerabile epilogo. Anche di ciò ci doliamo“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Milano, omicidio suicidio: lei uccide lui con un colpo di pistola, poi si butta dal terrazzo. La Repubblica l'11 Giugno 2022. 

Il fatto è accaduto a Vanzaghello. Franco Deidda, 62 anni genovese, è stato ucciso con un colpo di pistola da Daniela Randazzo, 57enne di Busto Arsizio (Varese) e poi la donna si è tolta la vita.

L’ombra di una relazione clandestina, di una malattia in stato avanzato e una tragedia che si consuma poco dopo l’ora di pranzo al piano mansardato e nella corte di un condominio moderno a Vanzaghello, ultimo avamposto della provincia di Milano prima del varesotto. Omicidio-suicidio: è la convinzione dei carabinieri della seconda sezione del Nucleo investigativo, guidati dal tenente Antonio Coppola, e dei colleghi della compagnia di Legnano arrivati nel pomeriggio in via Arno.

Da bologna.repubblica.it l'11 giugno 2022.

Chiama il 112 e dice di voler ordinare una pizza, in realtà chiedeva aiuto perché impaurita dal marito ubriaco. È successo mercoledì a Rimini, quando una volante della Polizia è intervenuta in una abitazione in soccorso di una donna. L'operatore radio del numero di emergenza ha subito capito che la richiesta di una pizza margherita era un Sos e ha inviato le Volanti sul posto.

La donna era infatti preoccupata per l'atteggiamento violento del marito ubriaco. L'uomo, alla vista dei poliziotti, ha iniziato ad inveire e minacciare di morte la moglie incurante della presenza del figlio quindicenne. Il marito è stato arrestato per maltrattamenti in famiglia e resistenza a pubblico ufficiale. Negli ultimi mesi si sarebbe già reso responsabile di percosse e minacce. Al termine degli accertamenti di rito, è stato accompagnato in carcere in attesa della convalida.

Francesco Sanfilippo per corriere.it il 13 giugno 2022.

Gli spari, più d’uno, vengono sentiti da una vicina di casa che sta spazzando il cortile. S’affaccia, cerca di capire da dove provengano le detonazioni. Sente in lontananza anche qualcuno che parla, ma non riesce a distinguere nulla. Sono parole che resteranno per sempre un mistero.

Le pronuncia Daniela Randazzo, avvolta da una vestaglia nera, che pochi secondi dopo l’ultimo sparo vola dal balcone e finisce nel cortile. Ha 57 anni, vive a Busto Arsizio e lavora come segretaria in una scuola.

È suo il primo corpo che viene trovato dai soccorritori nella corte di via Arno 2 a Vanzaghello, estrema provincia di Milano al confine con Varese. Di fianco al corpo c’è anche una pistola. 

È un revolver e pare abbia ancora proiettili nel tamburo. Con quell’arma la 57enne si sarebbe sparata forse più volte nel tentativo di togliersi la vita, poi una volta persi i sensi è precipitata dal balcone del secondo piano.

Cosa è successo in via Arno a Vanzaghello

Sembra un suicidio. Ma nel cortile nessuno conosce quella donna avvolta in una vestaglia nera. Perché si trovi lì, i carabinieri di Castano Primo e Legnano lo scoprono solo quando salgono nell’appartamento che si trova proprio sopra al punto d’impatto. 

In camera da letto c’è il cadavere del padrone di casa. Si chiama Franco Deidda, ha 62 anni, è originario di Recco in provincia di Genova, un matrimonio alle spalle e lavora come agente di commercio. Da sempre però ha una passione per il tiro e il poligono.

Il corpo è sul letto, i piedi incrociati, sembra dormire. Accanto tutto è in ordine: il cellulare sotto carica, i cassetti chiusi. Ma ha un foro di proiettile alla testa, all’altezza della tempia. Un colpo sparato probabilmente nel sonno, senza che neppure se ne accorgesse.

A impugnare l’arma, secondo i primi accertamenti dei carabinieri e della procura di Busto Arsizio, sarebbe stata proprio Daniela randazzo, prima di togliersi la vita con la stessa pistola. 

Il revolver, infatti, fa parte della collezione di armi di Deidda, che gli investigatori trovano regolarmente conservata in casa. La donna, dopo il delitto, avrebbe cercato di spararsi più di un colpo. Infine quello letale e la caduta dal balcone con ancora l’arma tra le mani. Gli inquirenti stanno ricostruendo le ultime ore di vita delle vittime.

I vicini di casa hanno raccontato di non aver mai visto prima la donna e anche di Deidda sapevano poco o niente visto che si era trasferito lì da meno di un anno. I carabinieri del Reparto operativo di Milano, guidati dal colonnello Michele Miulli, e i colleghi della compagnia di Legnano, diretti dal maggiore Alfonso Falcucci, hanno interrogato parenti e amici delle vittime. 

La relazione e l’analisi dei telefoni

I due si conoscevano, e forse avevano una relazione. Decisiva sarà l’analisi dei telefoni delle vittime che potranno spiegare quando e perché la donna è arrivata in via Arno. 

Secondo la ricostruzione degli inquirenti è possibile che Daniela Randazzo, che evidentemente conosceva il luogo in cui Deidda teneva le armi, si sia impossessata della pistola mentre l’uomo riposava. Poi una volta ucciso con un colpo sparato da vicino la decisione di farla finita.

Femminicidio a Venezia: spara alla moglie in casa, poi si suicida. Marco Della Corte il 10/06/2022 su Notizie.it.

Femminicidio a Venezia: un uomo ha sparato alla moglie uccidendola, in seguito si è tolto la vita.

Ennesimo caso di femminicidio, questa volta avvenuto a Fossalta di Portogruaro (Venezia) nel Veneto orientale. Un uomo avrebbe prima ucciso la moglie sparandole, per poi togliersi la vita. Il tutto è accaduto all’interno dell’abitazione dei coniugi. Entrambi sono stati trovati senza vita in una pozza di sangue.

La scoperta è avvenuta il 10 giugno intorno alle 15:30.

Rispetto alle informazioni trapelate in un primo momento, sembra in realtà che la dinamica del delitto sia leggermente diversa, per quanto altrettanto tragica. L’uomo che si è reso vittima del delitto non avrebbe ucciso la moglie con un’arma da fuoco, ma l’avrebbe piuttosto soffocata con un cuscino premuto sulla testa.

Femminicidio a Venezia: le ipotesi degli inquirenti

All’arrivo dei soccorsi e delle forze dell’ordine era già troppo tardi: i presenti non hanno potuto fare altro che constatare il decesso dei due coniugi. Vista la scena e le dinamiche in cui si sarebbero svolti i fatti, gli inquirenti ipotizzano un episodio di omicido-suicidio. Secondo i primi rilievi riportati da FanPage, pare infatti che il marito abbia ucciso la moglie a colpi di pistola.

L’uomo in seguito si sarebbe suicidato con la stessa arma, rivolgendola contro di sé.

Presenti sul posto carabinieri e magistrato

Presenti sul posto i carabinieri di Portogruaro assieme al magistrato di turno della Procura di Pordenone, competente per il territorio. Il presunto omicidio-suicidio è avvenuto presso l’appartamento di una palazzina a Fossalta di Portogruaro, dove i due coniugi vivevano. Al momento non sono state rese note le identità dei due, ma si tratterebbe di un uomo e una donna di mezza età, entrambi conosciuti dai loro compaesani.

Da Ansa l'8 giugno 2022.

Una donna, Lidia Miljkovic, di 42 anni di origine serba, è stata uccisa stamane a Vicenza a colpi di pistola dall'ex compagno, Zlatan Vasiljevic.

L'omicidio è avvenuto in strada.

Il killer è stato trovato morto dentro un'automobile, ferma in una piazzola della Tangenziale Ovest di Vicenza. All'interno dell'auto è stato trovato il corpo dell'attuale compagna del killer. 

Lidia Miljkovic aveva appena accompagnato a scuola i due figli e aveva ripreso l'auto per dirigersi in via Vigolo. Secondo i primi accertamenti degli investigatori, l'ex marito, con i quali la vittima forse aveva un appuntamento, ha iniziato a sparare mentre la donna era ancora dentro la vettura. 

Zlatan Vasiljevic venne arrestato il 26 marzo 2019 dai carabinieri di Altavilla Vicenza. L'uomo abitava ad Altavilla Vicentina con Lidia Mijkovic, la prima delle vittime odierne. I militari avevano eseguito la misura cautelare per reiterati maltrattamenti in famiglia. L'ordinanza emessa dal Gip del Tribunale era scaturita a seguito della denuncia presentata da Lidia. In seguito, sempre dal 2019, era stato emesso nei suoi confronti un ordine di non avvicinamento alla donna.

All'interno dell'auto in cui sono stati trovati i corpi del killer di Lidia Miljkovic e della sua nuova compagna, è stato trovato dell'esplosivo. L'auto è stata trovata ferma lungo la Tangenziale Ovest di Vicenza. Sul posto stanno operando gli artificieri della Polizia, per l'eventuale disinnesco del materiale. 

Era stata picchiata, e poi denunciata dall'ex compagno, Lidia Miljkovic, la donna uccisa a colpi di pistola stamani a Vicenza. Lo ha rivelato il titolare della ditta per cui la vittima lavorava, la Food&co di Vicenza, una ditta specializzata in catering. Ai giornalisti il titolare, Benedetto Mondello, ha rivelato che l'uomo "le aveva fracassato il cranio" causandole ferite gravi. La denuncia ai suoi danni sarebbe stata presentata dall'uomo per il presunto abbandono dei figli. Nel 2019 era stato infine emesso il divieto di avvicinamento per l'ex compagno.

La donna - ha riferito Mondello - ha due figli, uno di 16 e l'altra di 13 anni; quest'ultima era stata da lei accompagnata a scuola. Lidia Miljkovic si è quindi recata nel quartiere per il suo lavoro di domestica, che alternava nella ditta a quello di catering. "E' stata in malattia per diverso tempo - ha proseguito - per percosse è stata anche ricoverata all'ospedale. Era dentro e fuori dal tribunale con denunce assurde. Una tragedia annunciata, come tutte le tragedie di questo genere. Gente pazza che va in giro tutto il giorno senza far niente", ha concluso Mondello.

Doppio femminicidio a Vicenza, ammazza la ex e fugge. Poi spara all’attuale compagna e si uccide. Un 42enne fredda a colpi di pistola la ex in strada, fugge con l’attuale compagna: l’ammazza e si uccide nell’auto. Intervengono gli artificieri, a bordo c’erano due granate. Benedetta Centin su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

Doppio femminicidio a Vicenza. Zlatan Vasiljevic, 42enne bosniaco, ha ucciso l’ex compagna in strada a colpi di pistola. Poi è fuggito in auto con l’attuale fidanzata, ha ammazzato anche lei e si è tolto la vita. È questo il tragico epilogo della vicenda cominciata mercoledì mattino dell’8 giugno a Vicenza, quando Lidia Miljkovic, una donna di 42 anni di origine serba, è stata uccisa a colpi di pistola: a commettere l’omicidio è stato l’ex compagno della vittima. Il delitto era avvenuto in strada verso le 9.30. Il killer in fuga era ricercato dalle forze dell’ordine con posti di blocco in tutta la provincia, reparti speciali e l’impiego di un elicottero. Sul luogo dell’omicidio si erano portate la scientifica e la pm di turno Serena Chimichi. Nel pomeriggio gli inquirenti hanno trovato nella tangenziale Ovest di Vicenza l’auto dell’uomo (tra le due gallerie in direzione Padova), a bordo c’erano due cadaveri: quello del killer e quello della sua attuale compagna con la quale era fuggito. Lui avrebbe ammazzato lei e si sarebbe ucciso. Sul posto sono arrivati gli artificieri, all’interno della vettura sono state trovate due granate. La tangenziale è stata chiusa al traffico per ore.

Gli spari in auto 

Il primo femminicidio è avvenuto nel quartiere Gogna a Vicenza, in via Vigolo: la quarantaduenne Lidia Miljkovic aveva appena ripreso l’auto dopo aver accompagnato a scuola i due figli. L’uomo avrebbe cominciato a sparare quando la vittima era ancora seduta dentro l’automobile, finendola quando è uscita mentre cercava di scappare a piedi. I due probabilmente avevano un appuntamento. I residenti della zona hanno sentito distintamente una raffica di colpi (potrebbero essere sei secondo alcune testimonianze) molti dei quali andati a segno e che sono stati fatali alla quarantaduenne: «Il rumore degli spari è stato forte e non abbiamo subito capito cosa fosse successo», racconta una delle testimoni.

Divieto di avvicinamento

Dai primi accertamenti è emerso che nei confronti dell’ex compagno era stata emessa nel 2019 un’ordinanza di divieto di avvicinamento alla donna. Il corpo è stato trovato riverso sull’asfalto vicino alla vettura con cui era giunta sul posto. Gli investigatori stanno ricostruendo i movimenti della donna, che sarebbe stata impiegata come colf per i lavori domestici in alcune villette della zona. L’arma è detenuta illegalmente e avrebbe sparato cinque volte.

Il datore di lavoro: «Si sapeva»

«Lidia viveva a Schio - racconta Benedetto Mondello, datore di lavoro della vittima- da circa un anno era la compagna di mio fratello e si stavano un po’ sistemando dopo alcune vicissitudini. I problemi con l’ex marito erano noti, eravamo preoccupati perché la situazione è era conosciuta. Mi stupisco degli assistenti sociali e di qualche giudice. Erano in tribunale da anni, non so se ci sia stato un allontanamento». Il questore Paolo Sartori ha chiesto l’intervento per le ricerche di un elicotteri e dei reparti speciali, per pattugliare la zona boschiva che si trova ai piedi di Monte Berico.

Zlatan Vasiljevic, chi era il killer che ha ucciso due donne a Vicenza e lanciato granate durante la fuga.

Aveva 42 anni e viveva in Veneto da tempo: era già stato arrestato per le violenze contro l’ex moglie Lidia Miljkovic. Dopo averla uccisa ha sparato anche contro l’attuale compagna: ha fatto esplodere due granate lungo la tangenziale prima di suicidarsi. Davide Orsato su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

Li ritrae insieme una lunga serie di foto: le ultime risalgono al 2018, sulle cime del Kapaonik, le montagne tra Kosovo e Serbia. Lui, lei, i due figli e la neve. Un matrimonio, quello tra Lidia Miljkovic e Zlatan Vasiljevic, 42 anni, che era durato 14 anni. Lei, la vittima (42enne), una cittadina serba minuta e riservata, secondo la descrizione di chi la conosce, lui, il suo assassino, un uomo imponente, alto quasi due metri, di nazionalità bosniaca. Una vita violenta, una vita scandita da minacce, botte e maltrattamenti nei confronti della ex moglie: una vita di brutalità, furia e aggressività che ha visto Zlatan Vasiljevic accanirsi contro due donne, uccidendole: l’ex moglie ma anche l’attuale compagna. Ma anche capace di lanciare due granate durante la sua fuga.

La vita sul camion, l’alcolismo e la disoccupazione

Zlatan Vasiljevic aveva un lavoro: era camionista. Di recente, però, era rimasto disoccupato. Una situazione che aveva aggravato la sua dipendenza dall’alcol. Un vizio, quello del bere troppo e farlo spesso, che era noto a quanti avevano a che fare con lui. Originario di Doboj, nel territorio della Repubblica Serba della Bosnia Erzegovina, la parte orientale del Paese, viveva in Veneto da molti anni. Era monitorato dalla giustizia: a marzo 2019 Vasiljevic era stato arrestato dai carabinieri di Altavilla, proprio per maltrattamenti contro Lidia. Alle manette era seguito il divieto di avvicinamento: non è stato sufficiente, però, per salvare la donna.

Le violenze nelle mura domestiche contro l’ex moglie

Nonostante la comune origine balcanica si erano conosciuti in Veneto, ad Altavilla Vicentina, dove si erano sposati nel 2005. Poi erano arrivati i figli, il primo nel 2006, il secondo nel 2008. Finché tutto è finito, nello spettro di una lunga serie di aggressione tra le mura domestiche, nel 2019 quando Lidia decide di andarsene e di tornare a vivere dai genitori, a Schio, sempre in provincia di Vicenza. Per rifarsi una vita lontana dall’uomo che riteneva pericoloso. Trovando anche un nuovo compagno di vita, un vicentino. Lidia Miljkovic, 42 anni, poteva contare anche su un lavoro sicuro, alla Food & Co di Vicenza, una realtà specializzata in catering. Anche i colleghi di lavoro conoscevano il suo calvario fatto di paure, denunce e pestaggi: una volta è stata costretta a un lungo periodo di malattie, oltre un mese, a causa delle botte.

Era già stato arrestato per aver picchiato la moglie

Zlatan Vasiljevic nel 2019 fu già arrestato per avere picchiato la moglie, erano stati i carabinieri di Altavilla, dove la coppia viveva, che lo avevano fermato per i continui maltrattamenti. L’ordinanza emessa dal Gip del Tribunale era scaturita dopo la denuncia presentata da Lidia ed è un lungo elenco di violenze, perpetrate anche davanti ai figli minori. Una scia di vessazioni che, scrive il giudice, inizia nel 2011. E che era chiaro dove andasse a finire, anche allora: La «perseveranza dimostrata dal Vasiljevic, unitamente all’abuso di alcoli e alla sua incapacità o comunque alla mancanza di volontà di controllarsi pure in presenza dei figli minori, costretti ad assistere alle continue vessazioni ai danni della madre - si legge nell’ordinanza del 2019 - consente di ritenere altamente verosimile il verificarsi di nuovi episodi di violenza, tanto più in ragione dell’allontanamento» della donna «dalla casa familiare e dalle tendenze controllanti e prevaricatorie dimostrate dall’indagato, che potrebbero con ogni probabilità subire un’escalation in termini di gravità e condurre a tragiche conseguenze».

Le botte, le minacce e la violenza contro Lidia Vasiljevic

Esattamente quello che è accaduto. Il giudice elenca alcuni episodi di violenza: a febbraio del 2019, quando Vasiljevic «afferrava per il collo» la moglie, «la spingeva contro il frigorifero della cucina e la minacciava con un coltello» che le infilava in bocca; un mese dopo quando, rientrato ubriaco, l’ha aggredita a letto stringendole il collo «come per strangolarla» e urlando: «ti uccido, ti cavo gli occhi»; ancora, sempre a marzo, quando le diede un colpo al volto «con violenza tale da farla cadere al suolo». Vasiljevic finì in carcere, ma ci rimase poco, tanto che già a dicembre 2019 arrivò un ordine di non avvicinamento: lo emise l’autorità giudiziaria su richiesta dei carabinieri di Schio, dove Lidia si era trasferita con i bambini dopo la separazione.

I femminicidi di Sarzana e Vicenza potevano essere fermati: la bancarotta della giustizia che non difende le vittime. Carlo Bonini su La Repubblica il 10 Giugno 2022.

Daniele Bedini avrebbe dovuto cominciare a scontare tre anni per rapina aggravata, Zlatan Vasilijevic avrebbe potuto e dovuto essere allontanato dal suo nucleo familiare originario.

In un desolante incrocio di destini, si scopre ora che Daniele Bedini, indagato a Sarzana per duplice omicidio, e Zlatan Vasilijevic, autore del duplice femminicidio di Vicenza, avrebbero potuto e dovuto essere nelle condizioni di non nuocere.

Il primo, dal febbraio scorso, avrebbe dovuto cominciare a scontare una pena detentiva di tre anni in forza di una condanna definitiva per rapina aggravata.

Le pistole, la fuga, le granate. Così ha agito il killer di Vicenza. Rosa Scognamiglio il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.

Zlatan Vasiljevic ha ammazzato dapprima la fidanzata Gabriela Serrano e poi la ex moglie Lidija Milikovic. L'assassino ha lanciato anche due granate sulla A4 prima di suicidarsi.

È una mix esplosivo di violenza, sangue e follia la trama che sottende il duplice femminicidio avvenuto a Vicenza. A quanto emerge dalle ultime ricognizioni investigative, Zlatan Vasiljevic avrebbe dapprima ucciso la fidanzata Gabriela Serrano poi, col cadavere della donna nell'auto, si sarebbe diretto in via Vigolo, al quartiere Gogna, per freddare l'ex moglie con almeno sette colpi di pistola. La stessa arma, detenuta illegalmente, con cui si è suicidato dopo aver compiuto la terribile mattanza e tentato una strage (forse) lanciando due granate sulla tangenziale A4.

Il primo delitto

Il killer aveva pianificato il duplice omicidio mettendo da conto anche l'eventuale fuga dopo la strage. Così, ieri mattina si è vestito di tutto punto: camicia bianca, giacca scura e scarpe laccate. Nel bagagliaio dell'auto aveva sistemato alcuni abiti di ricambio, documenti ed altri effetti personali. Prima di uscire di casa, poco dopo le 7.30 del mattino, ha telefonato alla fidanzata Gabriela, una 36enne venezuelana, con la quale aveva avuto una breve relazione. Pare, infatti, che il loro rapporto si fosse interrotto da qualche mese. Ciononostante la donna avrebbe deciso di raggiungerlo a Rubano, in provincia di Padova, dove avevano concordato l'appuntamento. Quando si sono incontrati la 36enne non avrebbe avuto il tempo di realizzare le intenzioni delittuose dell'ex: è stata freddata con un colpo di pistola alla nuca. Poi, col cadavere ancora tiepido riverso sul sedile posteriore della vettura, Vasiljevic si è diretto verso il quartiere Gogna di Vicenza.

L'omicidio dell'ex moglie

Il 42enne, già denunciato e condannato per maltrattamenti, ben conosceva le abitudini della ex moglie. Sapeva che mercoledì mattina Lidija sarebbe andata al lavoro in una di quelle villette dove, di tanto in tanto, disbrigava alcune faccende domestiche per arrotondare lo stipendio. E così, pressappoco alle ore 9, l'ha attesa all'angolo di via Vigolo armato di una calibro 22. Non appena la 42enne è scesa dalla propria vettura, Vasijevic ha aperto il fuoco infierendo contro la ex con almeno sette colpi di pistola. La donna è caduta esanime sull'asfalto. Poco dopo, un passante ha notato la lunga scia di sangue: "Ho percorso tutta la strada. - racconta un testimone al Corriere.it - Quando ho girato la curva, ho visto il corpo sull'asfalto. C'era sangue ovunque".

La fuga e poi il suicidio

Dopo aver messo a segno il duplice omicidio, il 42enne avrebbe tentato la fuga. Nel mentre, tra le campagne attorno a Vicenza, scattava una gigantesca caccia all'uomo con anche la mobilitazione di un elicottero della polizia. Vasiljevic avrebbe imboccato la tangenziale A4 muovendosi in direzione di Torri di Quartesolo. Poi si sarebbe fermato in una piazzola di sosta e da lì, per motivi che ancora non sono chiari, avrebbe la lanciato due granate. Tutto quello che è accaduto nei minuti successivi resta un mistero. Il killer è stato ritrovato senza vita, a metà pomeriggio, con accanto il cadavere della ex fidanzata. Si è ucciso con un colpo di pistola alla gola dopo aver realizzato, forse, di non avere più scampo.

Femminicidi di Vicenza, il fratello dell’ex moglie: «Lo diceva sempre che l’avrebbe uccisa, l’hanno lasciato libero». Benedetta Centin Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2022.

«Mio cognato Zlatan Vasiljevic ha picchiato anche me per aver difeso mia sorella».

Nemanja Miljkovic, trent’anni, l’ha sentita sulla sua pelle la violenza brutale del cognato Zlatan Vasiljevic, un «armadio» di quasi due metri. Una notte del marzo 2018 era stato preso a pugni, sul torace e in testa, reo di essere intervenuto con altri familiari per soccorrere nell’abitazione di Altavilla Vicentina la sorella Lidija, in balia ancora una volta del marito sotto l’effetto dell’alcol. E non erano mancate anche allora le minacce. «Vi uccido tutti, vi taglio a pezzi, quando esco di galera vi ammazzo tutti» erano state le parole di Vasiljevic. Una promessa che ha mantenuto, almeno nei confronti dell’ex moglie Lidija Miljkovic . Anche se a distanza di quattro anni. Come dice il fratello Nemanja.

È così? È stato un omicidio annunciato?

«Sì, noi lo abbiamo detto mille volte che quello era un uomo violento, malato, psicopatico e che quelle minacce voleva portarle a termine. Aveva detto a mia sorella che un giorno sarebbero usciti entrambi sul giornale».

Dice che vi siete fatti sentire, ma in che modo?

«Denunce presentate da Lidija, da noi familiari, integrazioni di denunce, segnalazioni anche attraverso i nostri legali. Ma non abbiamo avuto ascolto, nessuno ci ha creduto ed è sempre così finché non ci scappa il morto...».

Ve lo aspettavate quindi che potesse accadere?

«Non ce lo aspettavamo dopo tutto questo tempo, speravamo che Zlatan avesse preso un’altra strada. Ma del resto lui era una persona violenta, uno che attaccava rissa alle feste, che aggrediva le persone per strada. Una persona malata che andava seguita, non doveva stare libera. Come hanno fatto a non capirlo? Certo lui era bravo a mascherare, mostrando un’altra faccia, mettendosi a piangere coi servizi sociali».

E poi c’era il vizio dell’alcol...

«Sì, era spesso ubriaco anche alla guida del camion, era un pericolo per tutti. Era stato sottoposto all’alcoltest anche in ospedale dopo l’aggressione a Lidija e a noi e non era scattato alcun provvedimento, allora. Solo di recente, al terzo incidente in auto fatto nell’arco di pochi mesi da ubriaco, gli è stata ritirata la patente. Ma del resto finché le cose vanno così in Italia mia sorella non sarà l’ultima ad essere uccisa».

Voi siete intervenuti più volte per allontanare Lidija da lui vero?

«Sì, quando nel 2018 abbiamo saputo dei maltrattamenti abbiamo provato a farla uscire da quella casa ma poi con le minacce, anche nei nostri confronti, era riuscito a farla tornare. Lei aveva paura per tutti noi, si era sacrificata per noi. Nel 2019, quando era scappata di nuovo, eravamo andati a prenderla con la polizia».

Nell’ultimo periodo Vasiljevic aveva smesso di cercare Lidija, no?

«Lei ci raccontava poco per non farci preoccupare ma la seguiva anche dove lavorava, avevano visto la sua auto. E sul suo stato di WhatsApp continuava a mettere frasi tipo “prima o poi la vendetta arriva” o “la mia parola deve essere rispettata”. Tutto materiale che abbiamo mostrato alla polizia».

Un piano premeditato quindi?

«Senza un lavoro la sua occupazione era quella di vendicarsi. In tutto questo tempo ha progettato come fare, secondo me. E il suo programma sarebbe stato anche di far del male a noi visto le bombe che gli hanno trovato».

Sì, bombe, armi...

«Basta solo quello per far capire quanto fosse pericoloso, capace di procurarsi armi e ordigni attraverso ambienti criminali. Una persona che non lavorava, che percepiva il reddito di cittadinanza, che non pagava il mutuo né le bollette».

E come padre com’era?

«Assente, non ha mai dato un centesimo per i suoi figli, mai un messaggio di auguri per il compleanno o per Natale. Eppure giudici e servizi sociali hanno messo allo stesso livello mia sorella con questo mostro. Lidija era il punto di riferimento dei suoi figli, con noi, famiglia molto unita, e con il compagno Daniele i ragazzi stavano bene, erano felici».

È molto arrabbiato, vero?

«Sì, con tutto un sistema che non ha funzionato».

Rimpianti?

«Adesso penso che avremmo potuto rispondere alle sue violenza con la violenza, ma noi non siamo degli assassini, non siamo così. Però almeno avrei salvato mia sorella». 

Vicenza, il femminicidio e il lungo calvario di Lidija Miljkovic: Zlatan Vasiljevic già arrestato nel 2019. Giusi Fasano Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2022.

Il giudice e l’assassino: «Prevaricatore, non si fermerà». Il cognato di lei: le aveva fracassato il cranio, era stata in ospedale. 

Il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Vicenza aveva capito tutto. Quando nel 2019 firmò l’ordinanza per mandare in carcere Zlatan dopo la denuncia di Lidija per maltrattamenti e abusi sessuali, ripercorse la lunga scia delle violenze di quell’uomo. Le mani attorno al collo, gli spintoni fino a farla cadere per prenderla poi a calci, il piede premuto sulla sua faccia, il coltello cacciato in bocca, i tranquillanti fatti ingoiare a forza, i colpi in testa, le minacce assortite a lei, ai bambini, ai parenti...

«Possibili nuovi atti di violenza»

Il giudice elencò questo e molto altro tornando indietro fino al 2011, e alla fine scrisse che «la perseveranza dimostrata dal Vasiljevic, unitamente all’abuso di alcolici e alla sua incapacità o mancanza di volontà di controllarsi, pure in presenza dei figli minori, consente di ritenere altamente verosimile il verificarsi di nuovi episodi di violenza, tanto più in ragione dell’allontanamento di lei». In quel 2019 Lidija aveva deciso, finalmente, che andarsene era la sola via d’uscita. Era finita in ospedale più volte, non dormiva, era terrorizzata. Non avrebbe sopportato un minuto di più accanto al padre violento dei suoi figli (un ragazzino che oggi ha 16 anni e una bambina che ne ha 13). Lo aveva denunciato due volte nel 2018 ma dopo pochi mesi di rottura aveva vinto la capacità manipolatoria di lui. Quel «prometto, non lo faccio più» a cui lei riuscì a credere ancora una volta. Ricucirono. Fino alla denuncia successiva e finale: nel 2019, appunto. Lei se ne andò dalla casa di Altavilla Vicentina in cui vivevano da quando si erano sposati (nel 2005). E lui da quel giorno in poi non ha fatto altro che prometterle violenza e morte.

Il divieto di avvicinamento

Annotando l’allontanamento di lei «dalla casa familiare» il giudice decise per lui il carcere e scrisse che «le tendenze prevaricatorie dimostrate dall’imputato potrebbero con ogni probabilità subire un’escalation in termini di gravità e condurre a tragiche conseguenze». Esattamente quello che è successo. E non è servito a nulla il divieto di avvicinamento che gli era stato ordinato dopo la scarcerazione e i domiciliari. Non gli ha insegnato nulla nemmeno la condanna definitiva a un anno e sei mesi per uno degli episodi di maltrattamenti. Il suo obiettivo era uno soltanto: scaricare su di lei la rabbia che si portava dentro.

I percorsi riabilitativi falliti

Lidia l’aveva provata tante volte sulla sua pelle, quella rabbia. Soprattutto quando lui tornava a casa ubriaco. Si era sentita un po’ rassicurata, a un certo punto, dal fatto che lui stesse seguendo due percorsi riabilitativi: uno per provare a uscire dalla dipendenza dall’alcol e l’altro per farsi aiutare a controllare la violenza che scaricava su di lei. In tutti e due i casi le persone che lo seguivano avevano detto che sì, aveva superato il problema. Ma era ancora una volta manipolazione.

La visita coi figli quando lui era ai domiciliari

Lei però provava a crederci. Ci sperava. E intanto dimagriva sempre più, si fingeva tranquilla con i suoi figli ma sapeva fin troppo bene che il rischio era sempre lì, dietro l’angolo. Seguendo la vocazione tutta femminile del fidarsi contro ogni evidenza, cedette all’insistenza di lui anche mentre era ai domiciliari, nel 2019. Zlatan la convinse con una scusa a portargli i ragazzi per un saluto e lei lo fece. Errore. Quella visita arrivò ai servizi sociali e finì che il tribunale dei minori di Venezia le sospese per un breve periodo la responsabilità genitoriale.

Un nuovo compagno e una nuova vita

Non è chiaro se anche ieri Lidia sia finita in un appuntamento trappola o se lui la stesse seguendo. Si è saputo soltanto che nel pomeriggio avrebbero dovuto discutere del rogito della loro casa di Altavilla, dove lei non viveva più ormai da tre anni, perché dal 2019 era tornata a vivere con i suoi genitori, a Schio. Era da un anno che la vita di Lidia sembrava più luminosa. Si era innamorata di un uomo che l’amava, aveva ripreso a sorridere, a sentirsi bene, a fare progetti per il futuro. Lavorava da otto anni assieme a lui in un’azienda specializzata in catering, la Food&Co di Vicenza. E qualche volta faceva la colf nelle villette della zona in cui ieri è stata uccisa.

La minaccia continua

Il responsabile della Food&Co, Benedetto Mondello, è il fratello del suo nuovo compagno. Dice che chiunque conoscesse Lidia sapeva della violenza di suo marito, che lui una volta le «aveva fracassato il cranio» e lei era stata a lungo in ospedale, che in un’occasione l’aveva denunciata per aver abbandonato i figli...Era impossibile scindere la vita di Lidia dalla crudeltà di quell’uomo. Era come averlo sempre alle spalle, minaccioso, anche adesso che pare avesse questa nuova compagna — la venezuelana Gabriela Serrano — finita sulla rotta della sua violenza. Due donne e un’unica tragica sorte.

Benedetta Centin per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.

Nemanja Miljkovic, trent' anni, l'ha sentita sulla sua pelle la violenza brutale del cognato Zlatan Vasiljevic, un «armadio» di quasi due metri. Una notte del marzo 2018 era stato preso a pugni, sul torace e in testa, reo di essere intervenuto con altri familiari per soccorrere nell'abitazione di Altavilla Vicentina la sorella Lidija, in balia ancora una volta del marito sotto l'effetto dell'alcol. E non erano mancate anche allora le minacce. 

«Vi uccido tutti, vi taglio a pezzi, quando esco di galera vi ammazzo tutti» erano state le parole di Vasiljevic. Una promessa che ha mantenuto, almeno nei confronti dell'ex moglie Lidija Miljkovic. Anche se a distanza di quattro anni. Come dice il fratello Nemanja.

È così? È stato un omicidio annunciato?

«Sì, noi lo abbiamo detto mille volte che quello era un uomo violento, malato, psicopatico e che quelle minacce voleva portarle a termine. Aveva detto a mia sorella che un giorno sarebbero usciti entrambi sul giornale».

Dice che vi siete fatti sentire, ma in che modo?

«Denunce presentate da Lidija, da noi familiari, integrazioni di denunce, segnalazioni anche attraverso i nostri legali. Ma non abbiamo avuto ascolto, nessuno ci ha creduto ed è sempre così finché non ci scappa il morto...». 

Ve lo aspettavate quindi che potesse accadere?

«Non ce lo aspettavamo dopo tutto questo tempo, speravamo che Zlatan avesse preso un'altra strada. Ma del resto lui era una persona violenta, uno che attaccava rissa alle feste, che aggrediva le persone per strada. Una persona malata che andava seguita, non doveva stare libera. Come hanno fatto a non capirlo? Certo lui era bravo a mascherare, mostrando un'altra faccia, mettendosi a piangere coi servizi sociali».

E poi c'era il vizio dell'alcol...

«Sì, era spesso ubriaco anche alla guida del camion, era un pericolo per tutti. Era stato sottoposto all'alcoltest anche in ospedale dopo l'aggressione a Lidija e a noi e non era scattato alcun provvedimento, allora. Solo di recente, al terzo incidente in auto fatto nell'arco di pochi mesi da ubriaco, gli è stata ritirata la patente. Ma del resto finché le cose vanno così in Italia mia sorella non sarà l'ultima ad essere uccisa». 

Voi siete intervenuti più volte per allontanare Lidija da lui vero?

«Sì, quando nel 2018 abbiamo saputo dei maltrattamenti abbiamo provato a farla uscire da quella casa ma poi con le minacce, anche nei nostri confronti, era riuscito a farla tornare. Lei aveva paura per tutti noi, si era sacrificata per noi. Nel 2019, quando era scappata di nuovo, eravamo andati a prenderla con la polizia». Nell'ultimo periodo Vasiljevic aveva smesso di cercare Lidija, no? «Lei ci raccontava poco per non farci preoccupare ma la seguiva anche dove lavorava, avevano visto la sua auto. E sul suo stato di WhatsApp continuava a mettere frasi tipo "prima o poi la vendetta arriva" o "la mia parola deve essere rispettata". Tutto materiale che abbiamo mostrato alla polizia». 

Un piano premeditato quindi?

«Senza un lavoro la sua occupazione era quella di vendicarsi. In tutto questo tempo ha progettato come fare, secondo me. E il suo programma sarebbe stato anche di far del male a noi visto le bombe che gli hanno trovato». 

Sì, bombe, armi...

«Basta solo quello per far capire quanto fosse pericoloso, capace di procurarsi armi e ordigni attraverso ambienti criminali. Una persona che non lavorava, che percepiva il reddito di cittadinanza, che non pagava il mutuo né le bollette».

E come padre com' era?

«Assente, non ha mai dato un centesimo per i suoi figli, mai un messaggio di auguri per il compleanno o per Natale. Eppure giudici e servizi sociali hanno messo allo stesso livello mia sorella con questo mostro. Lidija era il punto di riferimento dei suoi figli, con noi, famiglia molto unita, e con il compagno Daniele i ragazzi stavano bene, erano felici».

È molto arrabbiato, vero?

«Sì, con tutto un sistema che non ha funzionato». Rimpianti? «Adesso penso che avremmo potuto rispondere alle sue violenza con la violenza, ma noi non siamo degli assassini, non siamo così. Però almeno avrei salvato mia sorella».

Andrea Priante per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.

Uccise nel giro di 20 minuti, mercoledì mattina. Secondo la «ricostruzione più logica ma non definitiva» fatta dagli investigatori, la prima donna ammazzata da Zlatan Vasiljevic, 42enne disoccupato bosniaco, è stata l'ex compagna Gabriela Serrano, venezuelana di 36 anni, con cui aveva chiuso una relazione tre mesi fa. Con una scusa, la contatta al telefono. Concordano un appuntamento a Vicenza. 

Lei viene in auto da Rubano, nel Padovano, lui giunge a piedi perché gli hanno tolto la patente per ubriachezza. Devono avere avuto una discussione dentro la Mazda 2 perché il cadavere della donna verrà trovato poi sul sedile posteriore destro.

L'orario stimato è quello delle 9 e 10. «Uno o due colpi» di pistola la centrano alla tempia. Poi verso le 9 e 30 Vasiljevic, vestito elegante, ex camionista, si presenta in via Vigolo, periferia di Vicenza. Sa che qui la sua ex moglie Lidija Miljkovic - stessa età, madre dei suoi figli, un 16enne e una 13enne - lavora come colf e sta per andare al lavoro.

Se quella di prima era stata un'esecuzione, questo è un agguato. Attende la donna appostato dentro l'auto (dove c'è sempre il cadavere di Gabriela) e la centra con cinque colpi esplosi con una pistola 7, 65 con la matricola abrasa. 

A questo punto il bosniaco sgomma via lanciando una prima bomba a mano che ha con sé, una micidiale «M-52» fabbricata nell'ex Jugoslavia.

Poi raggiunge la tangenziale e si ferma in un'area sosta, ne scende con altre due granate, con l'idea, forse, di fare una strage. Una la lancia nel fossato parallelo alla A4. Poi tira la seconda oltre il guardrail. Intanto la colossale caccia all'uomo coordinata dal questore di Vicenza Paolo Sartori porta a individuare la Mazda intestata al marito di Gabriela, il suo connazionale Alezandro Naja che sta a Maiorca.

Dentro ci sono il cadavere della donna e accanto quello del bosniaco, che si è tolto la vita sparandosi.Ma perché Vasiljevic - violento, pregiudicato, condannato per maltrattamenti all'ex moglie - era a piede libero? 

Nelle carte si legge che l'uomo aveva aggredito Lidija tre volte nel 2019, violentandola - fu la denuncia - e puntandole un coltello alla gola. Arrestato il 27 marzo di quell'anno, trascorse 9 mesi ai domiciliari avviando poi un percorso di cura dall'alcol e partecipando a un programma rieducativo specializzato nel trattamento dei volenti. Il gip revoca gli arresti ma non si fida e gli impone il divieto di avvicinamento alla ex moglie. Dopo il rito abbreviato e l'Appello del 2 febbraio 2021 la condanna scende a un anno e sei mesi (pena sospesa). Vasiljevic torna così libero.

Va detto che, se anche la Corte d'appello l'avesse costretto al carcere, mercoledì il bosniaco sarebbe stato comunque fuori, visto che non risulta che Lidija abbia mai più denunciato tentativi di intrusione da parte dell'ex. «Non so se, in questa vicenda, qualcuno ha mancato di attenzione. Ma dal punto di vista del procedimento penale è stato fatto tutto ciò che si poteva» assicura il presidente del tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo. «Il sistema giudiziario è intervenuto prontamente, adottando i provvedimenti per neutralizzare il rischio di nuovi reati». Ma Gabriela? Anche lei aveva denunciato il marito - racconta l'avvocata della donna Alessandra Neri - sottoposto a un divieto d'avvicinamento in sede civile «violato due settimane fa e per questo, mi ha detto, lo aveva denunciato».

Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 10 Giugno 2022.

È ancora più inquietante e folle il piano che mercoledì mattina ha portato Zlatan Vasiljevic a uccidere, a distanza di poche ore, le sue due ex e poi a togliersi la vita con la stessa pistola usata per sparare contro di loro. Dalle testimonianze raccolte finora e dalla visione delle telecamere di sorveglianza, gli investigatori della Squadra mobile (coordinati dal Questore di Vicenza Paolo Sartori) ritengono plausibile che il 41enne bosniaco abbia ucciso con un colpo alla nuca Gabriela Serrano, la donna di 36 anni venezuelana con la quale aveva una relazione fino a un paio di mesi fa, poi - dopo aver spostato il cadavere sul sedile posteriore - sia andato a cercare l'ex moglie Lidia Miljkovic. 

La 42enne di origini serbe - dalla quale si era recentemente separato legalmente - stava per iniziare il suo turno di lavoro da domestica in una villa a Schio, un comune del vicentino dove abitava con i genitori e i figli di 13 e 16 anni avuti da Zlatan. 

L'ex marito le ha sparato 6-7 proiettili con una semiautomatica che deteneva illegalmente. 

Lidia proprio quella mattina avrebbe dovuto firmare il rogito con il nuovo compagno per l'acquisto di una casa. «Vorrei che giudici e assistenti venissero al funerale e guardassero bene quella bara», si è sfogato l'uomo, Daniel Mondello. 

SCAMPATA UN'ALTRA MORTE A quel punto, il 41enne si è dato alla fuga mettendosi alla guida senza patente (sequestrata per abuso di alcol) della macchina del marito della Serrano, con il corpo della donna presumibilmente all'interno del veicolo. Braccato dalla polizia, ha lanciato due granate sull'autostrada Venezia-Milano: una è finita nel fossato dello spartitraffico e un'altra invece è rotolata a un paio di metri da un'auto che percorreva la carreggiata. Il bilancio dei morti avrebbe potuto contare un'altra vittima: la bomba infatti è esplosa distruggendo una fiancata e i vetri del parabrezza.

Alla fine Zlatan si è accostato in una piazzola di sosta lungo la Tangenziale Ovest della città, parallela alla A4, e si ucciso con la stessa arma (una 7,65 con matricola abrasa) che aveva usato per sparare alle sue ex donne. Quando gli artificieri sono entrati nella vettura Vasiljevic aveva ancora in pugno la pistola con un colpo in canna e nel marsupio una seconda pistola. Sono stati trovati anche 4 caricatori. Le granate sembra fossero dei residui del conflitto nell'ex Jugoslavia. D'altronde Zlatlan tornava spesso in Bosnia per andare a trovare la madre. 

«ZLATAN ERA DEPRESSO» Probabilmente a fargli perdere il senno è stata la recente rottura con Gabriela, che ha fatto riaffiorare in lui la rabbia per il fallimento mai digerito del matrimonio con Lidia. È un terribile gioco di specchi quello vissuto dalle vittime, legate a doppio filo non solo nella morte (per mano dello stesso killer), ma anche per le violenze patite dai rispettivi mariti. 

La Serrano aveva ottenuto un ordine di protezione dal coniuge e forse si era messa con Zlatan pensando fosse diverso. Ma la Miljkovic l'aveva denunciato per maltrattamenti iniziati già nel 2012: un primo procedimento giudiziario era ancora in fase dibattimentale davanti al tribunale di Vicenza; mentre un secondo - che aveva portato al suo arresto il 26 marzo 2019 - si era concluso in primo grado con una condanna a un anno e 10 mesi di reclusione, perché era caduta l'accusa di stupro. Pena ridimensionata nel 2020 in appello a un anno e mezzo, che i giudici avevano deciso di sospendere.

Dopo essere stato in carcere e poi ai domiciliari, Zatlan era tornato libero; nonostante avesse già minacciato di morte l'ex moglie nel maggio 2018 con una pistola scacciacani (poi sequestrata) e nel febbraio 2019 con un coltello da cucina, e nonostante il gip che lo aveva fatto arrestare scriveva che «le tendenze controllanti e prevaricatorie dimostrate dall'indagato potrebbero subire un'escalation in termini di gravità e condurre a tragiche conseguenze». «L'ho sentito al telefono il giorno prima di questa tragedia - racconta l'avvocato Alessandra Neri - era depresso e demotivato. L'avevo esortato a trovarsi un lavoro per mantenere i figli che non vedeva da tempo, magari come cameriere. Mi ha risposto che non lo avrebbero mai preso perché aveva 41 anni, era sovrappeso ed era brutto».

Andrea Priante per il "Corriere della Sera" l'11 giugno 2022.

Otto righe un po' sgrammaticate e scritte a penna, inseguendo i contorni della carta a quadretti per non rendere riconoscibile la calligrafia: «Ciao Lidia, stai attenta. Non andare in giro da sola, avvisa qualcuno. Sei in pericolo, è grave». Firmato: «Tua amica».

Qualcuno aveva infilato il foglietto nella cassetta della posta dell'abitazione di Daniele Mondello, il compagno di Lidija Miljkovic, la 42enne uccisa dall'ex marito Zlatan Vasiljevic, che mercoledì mattina a Vicenza ha anche ammazzato un'altra donna, Gabriela Serrano - 36 anni, con la quale aveva avuto una relazione, terminata tre mesi fa - prima di lanciare delle granate verso l'autostrada e, infine, infilarsi la canna della pistola in bocca e premere il grilletto. 

«Ho trovato la lettera domenica sera, quando sono tornato a casa» racconta Mondello. Quindi, appena tre giorni prima che il killer entrasse in azione. Ma a rendere ancora più inquietante il messaggio, c'è che la quasi totalità dei conoscenti della coppia era convinta che Lidija abitasse ancora a Schio, nell'appartamento dei genitori dove si era trasferita da qualche anno, dopo aver trovato il coraggio di lasciare il marito violento. E allora, forse, qualcuno l'ha seguita scoprendo che spesso, dopo il lavoro, andava a casa del compagno, a Vicenza. "Di fatto stavamo già convivendo", spiega Mondello che sull'autore della lettera ha le idee chiare: «Più che un avvertimento sincero, sembra una minaccia. Quasi certamente l'ha scritta l'assassino, per terrorizzarci ma anche perché faceva parte del piano. 

È evidente che voleva uccidere non solo Lidija ma anche tutti i suoi affetti: farla sentire in pericolo significava fare in modo che girasse spesso in compagnia di uno di noi, e questo gli poteva offrire l'occasione di uccidere più persone possibile. Altrimenti che senso avrebbe avuto andarsene in giro con delle granate?».

Domanda alla quale proveranno a rispondere gli investigatori. Mercoledì mattina, appena scoperto l'omicidio della 42enne, il questore di Vicenza, Paolo Sartori, aveva fatto prelevare i due figli di Lidija e Vasiljevic e tutti i familiari per portarli al sicuro, negli uffici della polizia. La caccia all'uomo era ancora in corso e il sospetto era che il killer potesse raggiungerli. Un timore che ora prende più forza.

Ieri, Mondello e i parenti di Lidija hanno raggiunto la stradina nella periferia di Vicenza lungo la quale la donna è stata ammazzata. Di fronte alle foto della vittima, il compagno si è rivolto direttamente a lei. «Le ho detto che la sua figlia minore, che ha 13 anni, è stata brava: ha concluso la terza media con un 9 in pagella. Ho pensato che Lidija dovesse saperlo...». Mentre non si placano le polemiche intorno al fatto che il killer fosse tornato a piede libero nonostante le ripetute denunce della donna (la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, annuncia l'invio degli ispettori in tribunale a Vicenza), le indagini della Mobile vanno avanti.

Ieri sono iniziate le autopsie sui corpi di vittime e assassino: l'ex moglie sarebbe stata raggiunta da diversi proiettili alla testa, mentre Gabriela Serrano è stata freddata da almeno un colpo alla tempia, quando si trovava in auto con Vasiljevic. I poliziotti confidano anche nell'analisi dei telefonini. I messaggi potrebbero rivelare la scusa usata dal bosniaco per farsi raggiungere a Vicenza dalla Serrano e come sia riuscito a rimediare armi e granate. Infine, verranno fissate le perizie balistiche che chiariranno se le due pistole con matricola abrasa in possesso del killer avessero già sparato prima di mercoledì.

Da repubblica.it il 10 Giugno 2022.

Qualche giorno prima di venire uccisa dal suo ex marito, Zlatan Vasiljevic, Lidia Miljkovic aveva ricevuto una lettera anonima di "avvertimento". Il testo, scritto in una calligrafia quasi incomprensibile, avvertiva Lidia di "non andare in giro", ed era firmato "una tua amica". 

Lo ha rivelato il compagno di Lidia, Daniele Mondello, che la aveva trovata, tre giorni prima del duplice femminicidio (Zlatan ha ucciso anche l'attuale fidanzata, Gabriela Serrano), nella cassetta della nuova abitazione che la coppia stava acquistando a Vicenza, tre giorni prima del duplice femminicidio.

"È una sorta di lettera che poteva essere quindi una minaccia - ha spiegato il compagno - non solo per Lidia ma per tutta la famiglia, perché diceva sostanzialmente di non andare in giro tutti insieme, o che con lei ci fosse sempre qualcuno". 

I funerali delle due vittime, Lidia e Gabriela, e del loro assassino potrebbero venire celebrati tra lunedì e martedì della prossima settimana. Sono in corso le autopsie, dopodiché il magistrato potrà dare il nulla osta alle esequie.

In Questura sono continuate le audizioni dei parenti e dei testimoni. Fra le persone sentite dalla polizia anche l'ex marito di Gabriela, che con la figlia si era trasferito in Spagna. Al vaglio le immagini delle telecamere di sorveglianza nella zona del quartiere Gogna, dove Lidia è stata trovata morta in strada. Gli investigatori stanno cercando gli ultimi particolari per ricostruire la dinamica del duplice femminicidio.

Intanto, secondo quanto si apprende da fonti di via Arenula, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto ai suoi ispettori di avviare approfondimenti viste le due inchieste penali, la causa di separazione, il percorso "riabilitativo" che non hanno però fermato l'assassino. Il primo passo dell'ispettorato - una volta aperto un fascicolo - sarà chiedere una relazione ai vertici degli uffici giudiziari. 

"Vieni con la tua auto": tutte le trappole del killer di Vicenza. Rosa Scognamiglio il 10 Giugno 2022 su Il Giornale.

Le vittime, Gabriela Serrano e Lidija Milikovic, avevano denunciato entrambe Zlatan Vasiljevic per violenze. Il killer aveva a disposizione un arsenale.

C'è un filo rosso che unisce il tragico destino di Gabriela Serrano e Lidija Milikovic, uccise a colpi di pistola dall'ex. Entrambe avevano denunciato Zlatan Vasiljevic per le ripetute botte e violenze, ignare del fatto che il 42enne si sarebbe tramutato in uno spietato killer. A due giorni dal massacro emergono nuovi, inquietanti dettagli sulla dinamica del duplice omicidio: l'assassino possedeva un vero e proprio arsenale di guerra. Due delle granate che aveva a disposizione le ha lanciate sull'autostrada A4; gli altri ordigni e proiettili sarebbero serviti - ipotizzano gli inquirenti - per mettere a segno una strage familiare che, forse, non avrebbe risparmiato neanche i suoi figli, un ragazzo di 16 anni e la secondogenita di 13.

Alle 9 di mercoledì mattina Vasiljevic ha freddato con 7 colpi d'arma da fuoco l'ex moglie, Lidija Milikovic, dopo averla raggiunta al quartiere Gogna di Vicenza. Quel che non è chiaro, invece, è la dinamica dell'omicidio di Gabriela Serrano, commessa venezuelana di 36 anni, con la quale il killer aveva intrattenuto una relazione sentimentale durata circa 9 mesi. Poi la donna aveva deciso di troncare definitivamente il rapporto denunciando il 42enne per violenze, proprio come aveva fatto Lidja: due destini drammaticamente incrociati. Anche la 36enne, prima di conoscere Vasiljevic, era stata sposata con un connazionale, tal Alezandro Falet Naja, con cui aveva avuto due figlie. Il matrimonio avrebbe poi imboccato un tunnel senza via d'uscita, tra presunti maltrattamenti e vessazioni. Era stato proprio il 42enne bosniaco a suggerire alla nuova compagna di tutelarsi dall'ex marito proponendole di rivolgersi al suo legale, l'avvocato Alessandra Neri, per avviare l'iter della separazione. "Non riesco a capire perché i due si trovassero insieme su quell'auto - spiega l'avvocato Neri a Repubblica - la loro relazione era finita e non si frequentavano più". Alezandro Falet Naja, interrogato dagli inquirenti, conferma la pericolosità di Vasiljevic: "È un'esecuzione annunciata, io stesso avevo telefonato a Zlatan intimandogli di lasciare in pace Gabriela".

Se c'è un aspetto da chiarire in questa storia drammatica di sangue e vendetta è proprio quello relativo all'omicidio di Gabriela. Non è chiaro, infatti, se il killer abbia ucciso dapprima la 36enne venezuelana e poi Lidija o viceversa. Per certo, mercoledì mattina, ha convinto l'ex fidanzata a raggiungerlo con la propria auto - una Madza di colore grigio - a Dueville, dove viveva. Forse ha accampato una scusa qualunque oppure l'ha costretta con minacce insistenti. Sicuramente Vasiljevic, al quale qualche mese fa era stata ritirata la patente per guida in stato di ebbrezza, aveva bisogno di un mezzo per la fuga dopo l'omicidio. "Potrebbe averla dovuta uccidere subito - dice il questore Paolo Sartori - per agevolare l'agguato contro l'ex moglie. Oppure subito dopo, per neutralizzare la sua reazione, o per eliminarla in quanto testimone". Gabriela è stata giustiziata con un solo proiettile, i carabinieri l'hanno trovata accasciata dietro il sedile del guidatore, con il suo assassino, suicida, accanto.

Che la strage fosse stata pianificata nei dettagli non c'è dubbio di alcuna sorta. Vasiljevic aveva preparato i bagagli per la fuga e si sarebbe persino premurato di sbrigare le ultime questioni relative al rogito della casa che, in tempi non sospetti, aveva acquistato con Lidija. Forse è stata quella - ipotizzano gli inquirenti - la goccia che ha fatto traboccare: il momento in cui il killer ha realizzato di aver perso tutto. Dopo aver ucciso Lidija, il 42enne ha lanciato due granate sull'autostrada A4 per Vicenza. Difficile, se non impossibile, spiegare le ragioni del folle gesto. Per Certo Vasiljevic aveva a disposizione un arsenale: due pistole calibro 22, numerosi proiettili e tre vecchie bombe a mano anti-uomo M52, di fabbricazione slava. Per gli artificieri sono reperti bellici dell'ex Jugoslavia, l'assassino se li sarebbe procurati nel Paese natale meditando, forse, una strage familiare.

"Un'esecuzione". Spunta il video di Sarzana: l'orrore del killer. Laura Cataldo il 10 Giugno 2022 su Il Giornale.

Colpo di scena nel duplice omicidio di una prostituta albanese e una ragazza trans. Pare che gli ultimi istanti di vita dell'ultima vittima siano stati filmati da una telecamera di videosorveglianza.

Una telecamera nascosta all'interno di un gazebo avrebbe registrato le immagini che incastrano Daniele Bedini uccidere Nevila Pjetri a colpi di pistola. Il massacro è avvenuto a mezzanotte e quaranta, tra sabato 4 e domenica 5 giugno tra Carrara e Sarzana.

I video che incastrano il killer

Poco prima di quell'ora le immagini riprendono due persone all'interno di un Fiorino bianco: un uomo e una donna vestita di chiaro. Secondo gli inquirenti si tratta proprio della prostituta albanese trovata poi cadavere nel greto di Parmignola. Il giorno dopo, sempre nella stessa zona, tra le campagne, era stato scoperto un altro corpo senza vita, quello della trans Camilla Bertolotti. Da subito gli agenti avevano collegato i due casi che sembravano essere collegati dalla stessa mano omicida.

In queste ore la scientifica sta esaminando l'area dopo aver trovato una microcamera funzionante di uno stabilimento balneare di Marinella di Sarzana. Secondo le prime indiscrezioni pare che le immagini catturate siano molto forti e riprendono gli ultimi istanti di vita di Nevila assieme al suo assassino. Qualcuno parla di "esecuzione" perché pare che la donna sia stata fatta inginocchiare e poi sia stata uccisa a colpi di pistola: due all'altezza della fronte e dell'orecchio sinistro e uno vicino al naso.

Per gli inquirenti non ci sono dubbi che lo stesso killer abbia ucciso anche Camilla 24 ore dopo.

Il veicolo e la scarcerazione

Il pick-up ripreso più volte dal circuito di telecamere è molto simile a quello di Daniele Bedini. Per questo motivo sono stati già effettuati delle analisi dettagliate sul mezzo, anche se era già stato sottoposto a lavaggio interno e esterno. Durante un primo esame il Luminol aveva svelato tracce di sangue nel cofano e nell’abitacolo, ma la difesa aveva commentato: "Sono quelle relative ad una ferita alla caviglia che il mio assistito si è autoprocurato, e che si è fatto medicare al pronto soccorso, il giorno prima del delitto".

Un'altra domanda alla quale si dovrà rispondere è per quale motivo Daniele Bedini fosse a casa nonostante dovesse trovarsi in carcere da febbraio. A seguito di accertamenti interni attivati al tribunale di Massa si è scoperto che la Cassazione aveva convalidato, rendendola definitiva, una condanna a tre anni di reclusione per rapina aggravata. Per questo motivo la procura ha chiesto di poter visionare il fascicolo delle misure cautelari sia alla corte d'appello sia al tribunale di Massa. 

Valentina Carosini per “il Giornale” il 10 Giugno 2022.

Avrebbe dovuto essere già in arresto da 4 mesi Daniele Bedini, il 32enne fermato per l'omicidio di Nevila Pjetri, la donna di origini albanesi uccisa alla Marinella di Sarzana, nello spezzino, e trovata cadavere sul greto del torrente Parmignola domenica scorsa. 

È quanto emerge dalle verifiche in corso in queste ore sul mancato arresto del falegname sospettato per l'omicidio della donna e da ieri indagato anche per la morte, scoperta successivamente, della trans «Camilla», 43enne trovata senza vita a poca distanza dal luogo del primo omicidio.

Bedini avrebbe dovuto scontare una pena di tre anni per una rapina a mano armata in una sala giochi di Massa Carrara, e proprio a Massa sono in corso accertamenti per capire quale disguido abbia impedito l'esecuzione della pena detentiva inflitta. 

Stando a quanto emerso dopo che la Cassazione aveva confermato la condanna nei confronti del 32enne e rinviato gli atti alla Corte d'appello di Genova per l'esecuzione della pena gli atti sarebbero stati trasmessi al tribunale di Massa, ma forse per un ritardo, la successiva trasmissione alla procura non sarebbe arrivata in tempo.

Intanto però è arrivato un secondo avviso di garanzia nei confronti di Bedini, formalmente motivato dagli inquirenti per poter svolgere gli accertamenti del caso sul secondo omicidio scoperto in pochi giorni al confine tra Liguria e Toscana e permettere alla parte e ai suoi legali di partecipare alle perizie. 

Due delitti che hanno scosso il territorio, la campagna appena alle spalle del mare di una delle località più frequentate dai turisti e dalle famiglie nello spezzino. Il dubbio da chiarire è che cosa leghi i due omicidi, quello della 35enne prostituta conosciuta da altre ragazze nella zona, le stesse che avrebbero testimoniato alle forze dell'ordine di aver visto Nevila l'ultima volta mentre saliva su un'auto bianca, per sparire nella notte e non fare più ritorno viva.

A portare a Bedini sarebbero stati i contenuti delle immagini immortalate dalle telecamere di sicurezza della zona: l'uomo è proprietario di un pick up bianco, sotto sequestro e sotto la lente ora degli inquirenti.

Ma i nodi ancora da sciogliere non sono finiti: il primo è quello della pistola. L'arma del delitto non si trova. Sarebbe presumibilmente calibro 22 come quella che ha colpito a morte Nevila, alla fronte e alla nuca.

Oggi il medico legale ha ricevuto l'incarico di effettuare l'autopsia sul corpo di «Camilla», alias di Carlo Bertolotti, uccisa tre notti fa a Sarzana. Solo l'esame autoptico potrà chiarire se a sparare sia stata la stessa pistola in entrambi i casi. 

Non si fermano neanche gli accertamenti affidati agli uomini del Ris sui veicoli, in particolare sulla Ford di Camilla, a bordo della quale sono stati rinvenuti 2 bossoli e una macchia di sangue.

Ieri in giornata gli uomini del nucleo subacquei dei carabinieri di Genova hanno perlustrato ogni tratto del torrente Parmignola. Mancano all'appello ancora gli effetti personali e il cellulare della prima vittima, trovata seminuda e scalza in un canneto a fianco al corso d'acqua. 

Proseguono anche le indagini sulle celle telefoniche della zona e sul telefono del 32enne indagato per entrambi gli omicidi. Dall'esame delle celle gli inquirenti non escludono possano emergere dettagli sulla localizzazione dell'uomo ma anche delle vittime nelle ore dei delitti. Oggi in giornata intanto è atteso l'interrogatorio di garanzia per la convalida dell'arresto.

Scarcerazioni facili: gli ispettori del ministro a Vicenza e Sarzana. Nino Materi l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Lo sconto di pena a Vasiljevic: "Non commetterà reati". Spuntano un video e una lettera anonima.

Anche questo refrain degli «ispettori inviati dal ministro per fare chiarezza» assomiglia ormai a un protocollo burocratico fine a sé stesso: rituale d'immagine più che di giustizia. È indubbio infatti che, sia nel caso del killer serbo Zlatan Vasiljevic, 42 anni (che a Vicenza ha ucciso la compagna Gabriela Serrano, 32 anni; l'ex moglie Lidia Miljkovic, 42 anni; e poi si è suicidarsi), sia nella vicenda del presunto killer italiano Daniele Bedini, 32 anni (che ha Sarzana è accusato dell'omicidio di due donne e ieri non ha risposto al gip), i giudici abbiano «sbagliato». Pur facendolo nel pieno «rispetto della legge», esattamente come avviene nella stragrande maggioranza dei cosiddetti «errori giudiziari», veri o presunti che siano. E quindi - in mancanza di malafede o dolo da parte del magistrato - l'invio degli ispettori ministeriali disposto dal guardiasigilli finisce quasi sempre in un nulla di fatto. Probabilmente sarà così anche per la visita che gli «007» della ministra Cartabia si accingono a fare nei tribunali di Vicenza e Genova, dove si sono sviluppati i controversi fascicoli penali dei pregiudicati Vasiljevic e Bedini. Nel caso di Vasiljevic, l'«accusa» mossa ai giudici di Vicenza è di averlo arrestato e, troppo presto, rimesso in libertà: una libertà che gli ha permesso di compiere una strage. Inappuntabile, sul piano formale, la replica del procuratore capo: «Non potevamo tenerlo in carcere più di quanto previsto dalla legge. Inoltre, nel disporre la scarcerazione, ci siamo basati sulle relazioni favorevoli dei medici e degli assistenti sociali». Questi ultimi, a loro volta, sostengono che il parere favorevole alla libertà dell'imputato era maturato sulla scorta di un «percorso riabilitativo rivelatosi ampiamente positivo». Peccato che lo Zatlan «riabilitato» dalle istituzioni abbia poi commesso una carneficina, tra l'altro annunciata da una lettera con minacce di morte inviata tre giorni prima della mattanza all'ex moglie. Un cupio dissolvi che ha finito per coinvolgere anche l'ultima compagna del serbo, uccisa prima che lo stesso Vasiljevic si togliesse la vita. Più complesso, sul piano degli «incartamenti», il capitolo-Bedini: l'artigiano carrarese, indagato per i delitti di una prostituta e di una transessuale, sarebbe infatti dovuto finire dietro le sbarre già 4 mesi prima del duplice omicidio. Ma ciò solo se la Corte d'appello di Genova avesse subito dato corso alla condanna a tre anni per una rapina a Massa Carrara. Arresto che invece è stato «procrastinato». I giudici genovesi si dichiarano «innocenti»; che i «colpevoli» siano i loro colleghi di Massa? Risultato: tra un «ritardo» e una «dimenticanza», Daniele Bedini è rimasto a piede libero. Trasformandosi, secondo l'accusa, in un serial killer che ha sparato in fronte alle sue vittime (questo l'esito, ieri, delle autopsie). Testimoni e video lo incastrerebbero. Se e quando gli ispettori del ministero di Grazia e Giustizia finiranno gli accertamenti tra i fascicoli del triangolo giudiziario Vicenza-Genova-Massa, nessuno si ricorderà più delle vittime. E dei loro carnefici. Intanto quattro donne sono state ammazzate. I femminicidi restano un'emergenza nazionale: ieri in Veneto un'altra donna è stata strangolata dal marito, poi suicida. Ma buttare la croce addosso a magistrati, medici e assistenti sociali chiamati ogni giorno a decisioni delicatisssme, non sarebbe corretto. Ma pretendere più efficienza e rapidità in decisioni da cui dipende la sicurezza di tutti noi, questo sì, è un diritto della società.

Come il killer di Sarzana: chi sono i 40 mila condannati ma liberi. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022. 

Sono i cosiddetti «liberi sospesi», condannati definitivi a pene sotto i 4 anni. In attesa della risposta restano sospesi nel limbo di chi né va in carcere né inizia a scontare la pena alternativa.

Magari Sarzana fosse un caso isolato. Magari i contingenti meandri burocratici — che ora il Tribunale di Massa e l’Ispettorato del Ministero cercano di ricostruire per capire come mai non si fosse nemmeno iniziato a mettere in esecuzione la condanna definitiva, tre mesi fa, a 3 anni per rapina di Daniele Bedini (rimasto perciò libero e tre giorni fa assassino poi di Nevila Pjetri e forse anche di Carlo Bertolotti) — fossero un meteorite piovuto sul pianeta giustizia. Invece è solo la scia di una stella cometa (di colpo visibile) di un ordinario firmamento di luci fioche in un limbo che nessuno sa nemmeno quantificare con esattezza tra le 40.000 e le 60.000 persone se si ragiona sulle iscrizioni a ruolo, ma probabilmente quasi il doppio se si considerano quelle ancora persino da registrare.

Sono i cosiddetti «liberi sospesi», cioè quei condannati definitivi a pene sotto i 4 anni, che entro 30 giorni dall’emissione dell’ordine di carcerazione con contemporanea sospensione (primo passaggio ancora nemmeno espletato nel caso di Sarzana), possono chiedere di scontare la condanna non in carcere ma in una misura alternativa alla detenzione come la semilibertà, i domiciliari, o l’affidamento in prova ai servizi sociali; e che però — per lo spaventoso imbuto creato sia dalla farraginosità logistica dei passaggi di fascicoli, sia dal ridotto organico degli appena 230 nevralgici ma sempre snobbati magistrati di Sorveglianza, nonché dai vuoti negli Uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe) — in attesa della risposta restano sospesi nel limbo di chi nè va in carcere nè inizia a scontare la pena alternativa.

Con due micidiali effetti opposti. Se infatti la persona condannata è anche pericolosa, può accadere appunto che il «libero sospeso» ricompia reati, magari ancor più gravi. Ma a fronte di questi condannati miracolati dall’inefficienza statale, sfugge l’opposta sorte di coloro per i quali lo Stato mette in esecuzione la pena a distanza anche di molti anni dalla condanna e di ancora più anni dal reato commesso: cioè quando magari quella ha trovato un lavoro, si è fatta una famiglia, ha insomma ritrovato un equilibrio che paradossalmente viene sbriciolato proprio dalla tardiva espiazione della pena, in una lotteria (nella casualità che spinge o frena un fascicolo piuttosto di un altro) che fa strane dei principi costituzionali dell’uguaglianza (articolo 3) e della finalità rieducativa della pena (articolo 27). Senza nascondersi che ormai, se pure per miracolo in uno schioccare di dita tutte le decine di migliaia di «fantasmi» in attesa venissero valutate a monte, a valle ciò manderebbe in tilt sia le già stracolme carceri (dove finirebbero molte migliaia di loro) sia i già sguarniti uffici dell’esecuzione esterna (alla quale sarebbero ammessi molte altre migliaia di loro).

Su questo tema, ben presente solo a pochi giuristi (ancora un mese fa se ne era profeticamente parlato al Festival della Giustizia di Modena) e a ancor meno politici (come la radicale Rita Bernardini), il cantiere normativo porta una cattiva e una buona notizia. La cattiva è che, per precisi vincoli europei, i 16.500 rinforzi dell’«Ufficio del processo» finanziati dai soldi del Pnrr possono andare a beneficio solo degli uffici di cognizione (cioè Tribunali e Corti di Appello), e non anche dei giudici di Sorveglianza. La buona è invece che, oltre ad agire sulla informatizzazione per evitare tempistiche di trasmissione ancora da piccione viaggiatore, una parte della legge delega Cartabia trasformerà alcune «misure alternative», oggi di competenza del Tribunale di Sorveglianza dopo i tre gradi di giudizio, in «sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi» direttamente irrogabili dal giudice della cognizione già al momento della sentenza di merito. La pena detentiva inflitta entro i 4 anni potrà cioè essere sostituita subito dal giudice con la semilibertà o con la detenzione domiciliare; quella sotto i 3 anni anche con il lavoro di pubblica utilità; quella sotto 1 anno anche con la pena pecuniaria. Queste pene sostitutive non potranno però essere congelate (come oggi le normali pene entro i 2 anni) dalla sospensione condizionale, e potranno essere applicate solo a condizione che favoriscano la rieducazione del condannato e non vi sia pericolo di recidiva.

(ANSA il 7 giugno 2022) - I giudici della Corte d'assise di Teramo, presieduta da Flavio Conciatori (a latere Francesco Ferretti), hanno condannato a 25 anni di reclusione per omicidio volontario Giuseppe Di Martino, 48enne di Silvi accusato di aver ucciso il padre 73enne Giovanni al culmine di una lite nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2019. La Corte ha aumentato di un anno la condanna a 24 anni chiesta dal pubblico ministero Enrica Medori, la quale ha sempre sostenuto l'ipotesi dell'omicidio volontario.

Al contrario, ricorda il sito di informazione emmelle.it, l'avvocato Marco Pierdonati, legale dell'imputato, sosteneva che la morte fosse conseguenza di una caduta accidentale nel corso della lite, scoppiata quando l'allora 46enne era intervenuto a difesa della madre. Nell'interrogatorio davanti al Gip, a suo tempo, Di Martino aveva ribadito la sua versione dei fatti, spiegando di essere intervenuto quando aveva visto il padre aggredire per l'ennesima volta la madre 76enne, afferrandolo per il collo e ingaggiando con lui un corpo a corpo nel corso del quale l'uomo aveva sbattuto più volte la testa sul tavolino del tinello. Di fronte alle richieste della pubblica accusa, la difesa aveva invocato l'eccesso colposo di legittima difesa oppure, in subordine, l'omicidio preterintenzionale.

Da leggo.it il 5 giugno 2022.

Antonella Castelvedere, una docente residente a Colchester, nel Regno Unito, è stata uccisa dal marito. L'uomo è stato arrestato con l'accusa di omicidio. Castelvedere, 52 anni, madre di una ragazzina di 12, bresciana di origine, da 25 anni viveva in Gran Bretagna dove lavorava come docente universitaria nell'Essex. 

«Confermo la notizia. Antonella è stata uccisa», ha detto il cugino Franco al Giornale di Brescia che stamani ne ha dato notizia. L'omicidio è avvenuto nell'abitazione della donna nel borgo di Colchester, nella contea dell'Essex. La professoressa Castelvedere era «docente di Letteratura inglese e responsabile del corso "Creative and Critical Writing". Con una visione internazionale, ha una lunga esperienza nel migliorare l'esperienza degli studenti attraverso la leadership accademica, la progettazione di programmi innovativi e le partnership professionali», si legge nel suo profilo nella pagina web dell'Università del Suffolk. 

Salvatore Montillo per “La Stampa” il 5 giugno 2022.

Si sentiva frustrato per la brillante carriera universitaria della moglie e per questo l'avrebbe uccisa. Per gelosia e per invidia. Sarebbe questo il movente alla base dell'efferato omicidio di Antonella Castelvedere, brillante docente universitaria italiana di 52 anni, professoressa di Letteratura inglese e responsabile del corso «Creative and Critical Writing» all'università del Suffolk in Inghilterra. 

Nessun rivale in amore. Il marito, un anglo-turco di quattro anni più giovane, l'avrebbe ammazzata perché non sopportava il successo che Antonella aveva nel suo lavoro, docente stimata e benvoluta, scrittrice di saggi e amata dai suoi studenti. È la stessa Università a tracciare, sul sito internet, un ritratto della donna: «Con una visione internazionale - si legge - ha una lunga esperienza nel migliorare l'esperienza degli studenti attraverso la leadership accademica, la progettazione di programmi innovativi e le partnership professionali».

E per questo sarebbe morta. Ne è convinta la famiglia, i genitori Spartaco e Mina, e il fratello Ferruccio, che vivono a Bagnolo Mella, paese della Bassa Bresciana, dove Antonella tornava spesso da quando, venticinque anni fa, aveva deciso di trasferirsi nel Regno Unito per proseguire gli studi. «Antonella era una persona meravigliosa e dall'altissimo spessore accademico», dicono i familiari per bocca di un amico, al quale si sono affidati per gestire questo difficile momento. 

In Inghilterra Antonella ha conosciuto l'uomo che otto anni fa ha sposato e dal quale, nel 2016, ha avuto una figlia. L'uomo che a un certo punto è rimasto avvolto nell'ombra scura della frustrazione, per quella donna, ai suoi occhi, troppo emancipata e in gamba. Così mercoledì mattina, al culmine dell'ennesima lite, l'ha colpita a morte con un coltello. Un omicidio che si è consumato tra le mura domestiche a Wickham Road, zona residenziale nel borgo di Colchester, nella contea dell'Essex, sede di una prestigiosa Università e del castello più antico del Regno Unito. 

Quando la polizia e i sanitari sono arrivati Antonella era ancora viva, ma i medici non sono riusciti neanche a portarla in ospedale. È morta sul pavimento di casa dove, durante la colluttazione, è rimasto ferito anche il marito. Passaporto inglese, ma origini turco-siriane, l'uomo è stato portato in ospedale e arrestato con l'accusa di omicidio. Al momento del delitto la figlia di sei anni pare non fosse in casa. 

«Ci hanno detto che era a un corso di danza», dichiara la famiglia, che adesso farà di tutto per riuscire a portare la bimba in Italia. In queste ore i nonni sono in contatto con la Farnesina per discutere l'affidamento della piccola che attualmente si trova in una comunità protetta in Inghilterra.

Ad avvisare la famiglia bresciana della morte di Antonella, prima ancora delle autorità britanniche, è stata una collega dell'università con la quale aveva un rapporto stretto e che pare avesse ricevuto anche delle confidenze dall'amica sui rapporti tesi con il marito, che non riusciva ad accettare i successi professionali della donna. Per la polizia dell'Essex «si tratta di un omicidio in ambito familiare». 

 Inizialmente si era pensato a una rapina finita male nella quale erano rimasti feriti Antonella, poi deceduta, e il marito. Le indagini, condotte dall'ispettore Antony Alcock, hanno però ricostruito una verità diversa alla quale si sta ancora lavorando raccogliendo testimonianze di amici della coppia. Appena ottenuto il nulla osta i familiari andranno in Inghilterra. Antonella sarà cremata e le ceneri tumulate nella tomba di famiglia.

 

La docente di letteratura inglese. “Non ce la faccio più, voglio tornare”: la tragedia di Antonella Castelvedere, assassinata in Inghilterra. Vito Califano su Il Riformista il 5 Giugno 2022. 

Antonella Castelvedere viveva da tempo un rapporto difficile con il marito. A casa l’aria era tesa e lei avrebbe pensato più volte di tornare in Italia. È stata uccisa, accoltellata nella casa dove viveva in Inghilterra, nel borgo di Colchester, nell’Essex. Per l’omicidio è stato arrestato il marito, piantonato in ospedale perché a sua volta ferito. “Non si cerca nessun altro, si tratta di un delitto in ambito familiare”, aveva detto subito la polizia dell’Essex.

Si era laureata con il massimo dei voti a Milano. Era riuscita a esaudire il suo sogno di insegnare in Inghilterra. Era partita 25 anni fa da Bagnolo Mella, provincia di Brescia, ed era diventata docente senior in letteratura inglese, responsabile del corso di laurea magistrale alla prestigiosa Università di Suffolk. Con il marito, di origini turco-siriane, si erano sposati sette anni, avevano avuto Giulia, sei anni. Lui era professore di matematica. Si erano incontrati in università.

Mercoledì l’allarme dei vicini. La polizia è arrivata in Wickham Road e pare che il marito di Antonella si fosse barricato in casa. A nulla sono valsi i soccorsi dei sanitari che hanno trovato la donna in un lago di sangue. La donna era ancora viva ma è morta poco dopo. C’era in casa anche la bambina quando si è consumato l’omicidio, ma la piccola non avrebbe visto nulla. È stata portata in una casa famiglia. I parenti di lei vogliono portarla in Italia. Le ceneri della donna saranno portate a Bagnolo Mella.

“Mamma, non ti rendi conto di quali violenze, psicologiche e verbali, sono costretta a sopportare. Non ne posso più”, avrebbe confidato più volte la donna secondo quanto scrive Il Corriere della Sera. “Antonella stava pensando di andarsene, lasciarlo e tornare in Italia, ma desiderava il meglio per la sua bambina: mai l’avrebbe turbata. Era combattuta, forse anche nella speranza che la situazione potesse migliorare”, dice un’altra voce raccolta dal quotidiano.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Irene Famà per "La Stampa" il 2 giugno 2022.

Moglie e amante. La morte di Ettore è un giallo di tradimenti manifesti, rancori sopiti, bugie che vengono svelate, altre che, chissà, forse stanno ancora in piedi. E ora la moglie in un'aula di tribunale deve difendersi dall'accusa di aver strangolato il marito. 

Ettore aveva cinquant'anni portati male. Malato, con la passione eccessiva per vino e grappa, il 5 aprile 2021 era a casa, seduto sul divano, a guardare la televisione. «Si assopisce», così racconta la moglie agli investigatori. E non si sveglia più.

Quella sera, almeno così pare, era ubriaco e pure un po' drogato. «Morte naturale» per il medico del 118. Il giorno dopo, in procura, sul tavolo del pubblico ministero Paolo Cappelli, arriva una denuncia. A scriverla è l'amante di Ettore. Senza giri di parole, punta il dito verso la rivale in amore. Racconta di alcuni messaggi che il "suo" Ettore le aveva inviato proprio poche ore prima del decesso: «Se domani mi trovano morto, chiama la polizia. È stata mia moglie». 

Il magistrato sospende i funerali, dispone un'autopsia. E la consulenza medico-legale parla di «asfissia meccanica». Strangolamento, appunto. Lividi intorno al collo, sul torace e sulle braccia. Segni impossibili da vedere senza esami approfonditi.

La donna ieri è stata rinviata a giudizio per omicidio volontario e siederà sul banco degli imputati, difesa dagli avvocati Alberto De Sanctis e Silvia Arnaudo. Anche loro hanno nominato un consulente, Lorenzo Varetto. 

Il matrimonio di Ettore era stato una ventina di anni fa. Poi le figlie e la vita insieme in un appartamento nel quartiere San Donato. 

Ettore si ammala: tumore alla gola. Diventa debole, fatica ad alimentarsi, perde molta autonomia. Tre anni fa, più o meno, torna in Puglia per le vacanze. «Al paese», com'era solito dire. Cerca pace e ristoro. Incontra gli amici di sempre. Compresa lei, la donna a cui era legato da quando era adolescente. «Una vecchia fiamma», così si dice in giro.

Poco cambia che l'amore, i due, l'abbiano ritrovano o l'abbiano scoperto per la prima volta. Iniziano a frequentarsi. Ettore torna a Torino, la moglie, nella primavera del 2021, viene a sapere del tradimento. Va da sé, nel palazzo i pettegolezzi si rincorrono. «Era disposta ad accettarlo», dicono alcune indiscrezioni. Gli inquirenti sono di tutt'altro parere. 

Secondo la ricostruzione del magistrato, una volta scoperto il tradimento, in quell'appartamento è stato tutto un litigare, un urlarsi contro al punto che più volte i vicini hanno ritenuto opportuno chiamare la polizia. L'ultima volta la notte tra il 3 e il 4 aprile. 

Dall'alloggio provengono grida, insulti. Arrivano le forze dell'ordine, la donna viene portata in ospedale. Ettore scrive all'amante: «Ha provato a strangolarmi». Il giorno dopo lei viene dimessa, torna a casa. Lui manda messaggi: «Se domani mi trovano morto è stata lei». E ancora: «Mi sta prendendo a botte».

Picchiata e violentata per sei mesi da attivista della Lega: «Quel mostro approfittava delle mie debolezze». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.

Parla la 25enne insegnante di sostegno che ha denunciato il 34enne Valerio Cirillo, attivista politico e ora controllato dal braccialetto. «Ero in una bolla dove tutto sembrava normale, poi sono fuggita». 

«Ero in una bolla, una realtà ovattata ma violenta, dove calci, pugni e stupri erano normali. Quel mostro aveva capito le mie debolezze e ne approfittava». Sandra (il nome non è quello vero), 25 anni, insegnante di sostegno e in un oratorio, risponde al telefono da una località protetta, sopravvissuta al rapporto del quale è stata prigioniera, fisicamente e mentalmente, per sei mesi. «Ci sono strascichi fisici e psicologici, ad esempio ho paura delle persone. Vorrei riprendere a lavorare ma poi mi dico: e se torna? Un giorno sorriderò di nuovo ma prima questa storia deve finire davvero».

Il suo terrore ha le fattezze di Valerio Cirillo, 34 anni, un passato di attivista politico nel centrodestra locale, che l’ha soggiogata, ne ha abusato ed è ancora lì da qualche parte con la sola precauzione di un braccialetto elettronico che avverte la vittima se le si avvicini a meno di 200 metri. «Continua a mettere in giro voci false su di me, è andato a diffamarmi a scuola, è stato sorpreso a fissare mia sorella e so per certo che sta tramando un agguato: dopo avermi allontanato da loro, ha contattato alcune mie amiche e una mia cugina per convincerle a organizzare un appuntamento dove “sorprendermi”. Per fortuna mi hanno avvertita».

«È sbagliato trattare queste denunce come dei modelli prestampati: dentro c’è la vita delle persone», avverte Bo Guerreschi, direttrice del centro antiviolenza Bon’t Worry, che ha messo Sandra sotto protezione. Di uguale ad altri casi simili c’è però un meccanismo di fondo difficile da identificare in tempo: «Tendo molto a fidarmi e a credere agli altri, questo è stato il mio errore — ricorda la 25enne —. La sua abilità è stata intuire i miei sogni e usarli per impossessarsi della mia vita. Diceva di volere anche lui una famiglia e dei figli, era sicuro di sé, passionale e coinvolgente, e quando ha cominciato ad aggredirmi, praticamente da subito, io ormai lo avevo già idealizzato». Sandra parla con una lucidità che colpisce, considerando quello che ha passato. A sentire la vita nella sua voce e la sua capacità di elaborare i fatti sembra impossibile che ci sia finita dentro. A partire da quella prima notte assieme: «Ha sbloccato il mio telefono usando l’impronta del mio dito mentre dormivo, mi ha aggredita per dei vecchi messaggi. Mi ha interrogata, io ridevo e provavo a sdrammatizzare e lui diceva che erano le risposte del “demonio”. Sono credente ma ormai nel panico non ricordavo più neanche il Padre Nostro. Mi ha picchiata».

Col senno di poi era già il momento di fuggire ma Sandra sa spiegare bene cosa glielo ha impedito: «Mi faceva sentire in colpa per qualunque cosa e mi ha isolata. Sono subito rimasta incinta dopo un rapporto cha ha preteso senza protezioni, si è insediato a casa mia e controllava ogni mia telefonata o spostamento. Ho dovuto comprare biancheria nuova perché quella che avevo era “impura” per le precedenti relazioni e quando tornavo dal lavoro controllava le mie mutandine per “scoprire” se avevo avuto rapporti. Per le sue botte ho perso il figlio. Poi mi diceva che aveva sofferto in passato e io provavo empatia, compassione». Possibile che nessuno si sia accorto di niente? «Mi vedevo solo come una vittima, non più come una persona, senza rispetto per me stessa. I miei genitori erano preoccupati ma non potevano sapere, mi vietava di parlare da sola con loro. Mia madre scriveva allarmata: “Ti sogno morta”».

Tra i tanti momenti ne ricorda uno: «Volevo andarmene, mi picchiò in strada e mi portò dai suoi. La madre mi diede delle pillole e io pensai: “O accetto o mi butto dalla finestra”. La mattina dopo insistette per truccarmi, voleva coprire i miei lividi». Il risveglio che l’ha salvata lo deve alla psicologa che seguiva Cirillo: «L’ho conosciuta e ha saputo entrare in punta di piedi nel mio stato d’animo. Mi ha scritto “sei in grave pericolo”, di andare dai miei. Quella sera stessa ho messo le mie cose in una busta della spazzatura e sono fuggita. Poi ho chiamato mia mamma piangendo».

Romina Manerca per "la Repubblica" il 2 giugno 2022.

Marta parla con un filo di voce: «Sono ancora fragile, uscire mi mette ansia ma adesso sono a casa mia, a Roma. Lui non si fa più sentire». Sembrano lontani i giorni in cui lui, Valerio Cirillo, rappresentante di lista per la Lega nel 2021 e nel 2016 candidato con Forza Italia, abusava di lei, la schiaffeggiava, la prendeva a morsi e a pugni. Cirillo adesso indossa il braccialetto elettronico su disposizione del giudice, deve stare a una distanza di 200 metri da Marta e non può più contattarla.

Come l'ha conosciuto?

«Era settembre 2021. Facevo parte della segreteria politica del candidato Domenico Naso. Cirillo andava negli istituti a raccogliere i voti. Mi affascinò perché era un uomo maturo, ha 8 anni in più di me. Io avevo 25 anni e lui 33».

Quando inizia l'incubo?

«Dopo il primo incontro, in pochi giorni si è trasferito a casa mia. Un mese dopo ero incinta. Lui non aveva un lavoro, diceva che faceva parte della Lega ma non aveva alcuno stipendio. Le prime violenze sono state psicologiche. Sono insegnante elementare e mi accompagnava ogni giorno a scuola. Squadrava chiunque mi parlasse. Ha iniziato a tempestarmi di domande quando mi ha vista con un collega. Poi, una notte, mentre dormivo ha sbloccato il mio cellulare con il mio dito. Mi ha svegliata e mi ha detto che aveva trovato delle conversazioni con il collega». 

Da lì il gioco con la moneta di plastica.

«Ridevo, mi sembrava una cosa assurda. Lui mi ripeteva: "Questa moneta mi dirà la verità". Rispondevo in modo sbagliato apposta e lui mi diceva che ero un demone, che avevo 18 anni e che il mio nome era un altro. Mi ha detto di recitare il Padre nostro, mi ha bloccato le braccia. Ero nel panico, allora ho sbagliato e mi sono fermata. Lui è impazzito: "Hai avuto una relazione col collega". E mi ha chiuso in bagno».

Poi cosa è successo?

«Mi ha lanciato contro una stufa, mi ha picchiata e stuprata più volte. "Tu devi dimostrarmi di essere mia", mi ripeteva. E anche mentre dormivo mi spogliava e abusava di me. Mi ha picchiata anche davanti a sua madre, mi ha fatto tagliare i ponti con tutti gli amici. Io non raccontavo nulla ai miei genitori ma loro avevano capito. Durante le scenate di gelosia mi spaccava il telefono sulle ginocchia o in testa, io urlavo. Ero disperata». 

Lei ha perso il bambino che portava in grembo.

«È successo nel dicembre scorso, a sei settimane di gestazione. Di botte ne prendevo tante e ho le foto dei lividi dappertutto. Una mattina ho avuto perdite, sono andata subito in ospedale. Avevo paura della sua reazione. E infatti appena ha saputo che il bambino non c'era più mi ha accusata di averlo ucciso perché "ti occupi della lavatrice". La notte prima dell'intervento ginecologico mi sono svegliata con le sue mani al collo. Ho cominciato a urlare e mi ha dato un pugno alla schiena. Poi, è intervenuta sua madre, alla quale avevo chiesto di restare in casa con noi. Avevo troppa paura ormai». 

Ma quella donna non ha cercato di aiutarla?

«No. Una sera Valerio mi ha preso a calci e pugni in testa, in strada. Sua madre invece di denunciare tutto mi ha costretta a prendere delle pillole che ha sciolto in una camomilla.

Quella sera ho capito che ero sola. Ho pensato di abbandonarmi a quel sonno altrimenti l'altra soluzione sarebbe stata quella di buttarmi giù da una finestra per scappare da quell'uomo».

Quando ha trovato la forza di scappare?

«Lui mi prendeva anche a morsi. Continuava a ripetermi: "Tu devi cucinare per me, lavare le mie mutande. Io mi occupo di te gestendo i soldi". Ero in un vicolo cieco. Ho deciso di andare dai miei, ho messo le mie cose in un sacchetto di plastica e dopo quattro giorni ho raccontato tutto a mia madre. L'ho denunciato il 2 aprile scorso. Lui ha continuato a stalkerizzarmi e a chiedermi soldi». 

Adesso?

«Lui mette storie su Instagram dove racconta la sua verità, io sto cercando di riprendere in mano la mia vita. Sto seguendo un percorso con lo psicologo di "bon't worry", la onlus che mi assiste. Sono certa che ce la farò».

Roberta Scorranese per corriere.it il 27 maggio 2022.

Francesca De André interrompe più volte la conversazione al telefono perché viene travolta a ondate da emozione e crisi di pianto. È passato un mese dalla brutta, bruttissima storia che ha raccontato su Chi, dove ha spiegato di essere stata picchiata dall’uomo a cui era legata, tanto da finire in ospedale con un «codice rosso», cosa che ha fatto scattare la denuncia d’ufficio per lui. «È passato un mese ma ancora non mi sono ripresa», racconta la 32enne nipote di Fabrizio De André (figlia di Cristiano e di Carmen De Cespedes), un’esperienza televisiva al Grande Fratello 16 , oggi molto attiva con collaborazioni sui social.

Come sta, prima di tutto?

«Ho traumi dappertutto, sto seguendo un programma di riabilitazione fisica, devo ancora elaborare l’impatto subìto nel corpo, per non parlare di quello psicologico. Per quello ci vorrà più tempo». 

De André, lei parla di una lunga storia di violenze ripetute da parte dell’uomo.

«Non era certo la prima volta, ma io per un lungo periodo mi sono sentita come intrappolata, non riuscivo a reagire perché dentro di me sentivo una voce ingannevole che mi spronava a non denunciare, a prendere tempo. Solo adesso capisco che quella era la voce della paura».

Secondo la ricostruzione fatta da lei, i litigi con violenze sono cominciati sin dalla fine della sua esperienza al «Grande Fratello», dunque nel 2019. Molti a questo punto si staranno chiedendo: perché non denunciare prima?

«Perché avvertivo un diffuso senso di colpa, era come se quello che stava avvenendo fosse, in fondo, anche sulle mie spalle. E mi aggrappavo ai momenti di calma, di quiete. Perché questi momenti ci sono e oggi lo voglio dire chiaro a tutte le donne: una relazione tossica non è fatta solo di violenze, anzi. Ci sono anche gli squarci. Ma non fatevi ingannare dagli attimi di riconciliazione, in ogni storia violenta c’è un’alternanza di luce e di ombra. Dei veri e propri blackout, come li chiamo io. A ingannarci è soprattutto il momento di luce». 

Un mese fa, dunque, come riportato anche dal settimanale Chi, tra voi due è esploso l’ennesimo litigio.

«Io ho perso i sensi ad un certo punto e alla fine a chiamare carabinieri e ambulanza sono stati i vicini di casa. Sono finita in ospedale, con ferite dappertutto. Lo confesso e quasi mi vergogno a dirlo ma sono sincera: la denuncia è scattata d’ufficio, forse io non sarei nemmeno stata capace di denunciare autonomamente. Ecco perché mi sento vicina a tutte quelle persone vittime di violenza e non parlo solo di donne. Ci si sente immobilizzati e a nulla valgono i consigli delle persone care che suggeriscono di allontanarsi, di cambiare strada». 

Francesca De André ieri ha deciso di rendere pubblica una foto (tramite l’account Instagram di Gabriele Parpiglia) in cui si mostra con un occhio nero e una parte del volto tumefatta. 

Una scelta che se da una parte ha scatenato un’ondata di solidarietà, dall’altra, purtroppo, ha attratto anche numerosi commenti negativi, quando non di odio. Che tipo di reazione sta arrivando dai social?

«Sto ricevendo numerosi messaggi in queste ore. Ci sono quelli che mi insultano, ma per fortuna ci sono anche tante persone che mi appoggiano. Ma soprattutto, ed è la cosa che più mi colpisce, ci sono tanti che raccontano una storia simile alla mia. Non solo donne, come dicevo, anche tanti uomini si aprono e confessano di vivere queste situazioni. Ho provato a capire che cosa immobilizza tante persone e spesso è la paura del giudizio, qualche volta non ci si sente abbastanza forti. Adesso però ho deciso di impegnarmi molto seriamente in questa battaglia». 

De André si trova attualmente in un residence a Milano, lontana dall’uomo. 

Da repubblica.it il 26 maggio 2022.

"Ho subito una grave aggressione, violenza fisica, della quale non sono adesso in condizione di parlare. Ma non essendo una bugiarda per rientrare tra di voi mi sentivo di dovervi accennare la verità". Così scriveva Francesca De André all'inizio di maggio sui suoi social. Ma non aveva aggiunto altro. Ora, a distanza di settimane, la nipote di Fabrizio De André e figlia di Cristiano ha trovato il coraggio di parlare.  

L'ex concorrente del Grande fratello e dell'Isola dei famosi ha rivelato che sarebbe stato il suo ex fidanzato a ridurla in quelle che aveva definito "condizioni tragiche psicofisiche". La relazione tra i due non è mai stata semplice. Innamorata di lui, aveva deciso di trasferirsi a Lucca e mettere da parte l'esperienza televisiva per dedicarsi al sogno di costruire una famiglia. Ma la realtà, fin dall'inizio, è stata diversa e la storia d'amore si è presto trasformata in un incubo che, per poco, non le è costato la vita. 

In una lunga intervista per la rivista Chi, la donna ha spiegato che "da quando ho iniziato a frequentare questa persona ho conosciuto il dolore di un amore malato. Quando era nei momenti 'off' i suoi occhi si trasformavano. E subito sono iniziate le botte. Ogni oggetto a portata di mano, delle sue mani, era utile per colpirmi". 

"Annullavo me stessa mentre ero sottoposta a ogni tipo di umiliazione, che  avveniva sempre in due fasi: la prima a parole, la seconda fisica. Ma io lo amavo", ha raccontato. E proprio la speranza "di riuscire a salvarlo", unita al fatto che l'uomo avesse già problemi con la giustizia e che quindi la sua posizione si sarebbe aggravata, le hanno inizialmente impedito di sporgere denuncia contro il compagno. Fino a quando tutto è precipitato. 

"Ero a terra, il sangue usciva da ogni parte del mio corpo, dalla mia testa piena di buchi, dalle mie labbra - ha detto la ragazza nel suo drammatico racconto - Urlavo "Basta, basta, fermati". Ricordo una serie di calci in testa uno via l'altro, poi il vuoto". A salvarla è stata la vicina, che ha chiamato i carabinieri e un'ambulanza.

"Lui è scappato da dietro casa, nel bosco, portando con sé il mio cellulare, dove c'erano le prove di altre aggressioni. Non volevo denunciare, ma questa volta la denuncia è partita d'ufficio". Trasportata in ospedale in codice rosso e con il volto totalmente tumefatto ("ero irriconoscibile", dice), le è stato diagnosticato un trauma cranico. Le foto del pestaggio non sono state per ora pubblicate dal settimanale. "Spero che la legge lo spedisca dritto in carcere, dove gli auguro il peggio. Perché uomini così la devono pagare", ha concluso Francesca De André.

Filippo Fiorini per “La Stampa” il 21 maggio 2022.

Ci sono due donne che piangono sul pianerottolo, una di loro sanguina perché è ferita. Poi c'è una donna che grida in spagnolo: «Fate qualcosa, chiamate l'ambulanza!». C'è una quarta donna all'interno dell'appartamento. 

Lei tace, ormai è senza vita, colpita con 21 pugnalate. Il suo assassino è rannicchiato in un angolo della stanza, raccoglie delle cose dal pavimento come se fosse indispensabile rassettare quel caos proprio in quel momento. Sul pavimento c'è anche l'arma del delitto, un coltello da cucina di 40 cm circa, ma quello non lo tocca nessuno. 

Beatriz Aldana è la donna che sanguina e piange. Le ferite gliele ha procurate suo padre Maximo Aldana De La Cruz, quando gli si è gettata addosso per evitare che uccidesse l'ex fidanzata, Noelia Rodriguez. Non ha fatto in tempo. L'ultima scena che ha visto giovedì scorso, nell'appartamento di Rimini in cui viveva da quattro mesi, dopo aver lasciato il Perù per scappare anche lei da un ex compagno che la minacciava di morte, è questa: lei fuori con sua cugina Nataly e una vicina connazionale al telefono con il 118.

Beatriz, è appena stata dimessa dall'ospedale, come sta?

«Sono dolorante, i tagli mi fanno male. Ma dentro non riesco a sentire niente. Nessun sentimento, ho come un vuoto. Non riesco a credere che mio padre sia un assassino, un maledetto». 

Che cosa è successo?

«Mio padre era fuori di sé, come un pazzo. Non l'ho mai visto in quelle condizioni. Ha chiesto a Noelia di venire e poi l'ha accoltellata. Ho cercato di fermarlo, ma ha colpito anche me. Lei è morta così». 

C'erano state altre liti tra loro?

«Io non ho mai vissuto con loro, ma mio padre non ha mai avuto comportamenti del genere, di questo sono abbastanza sicura». 

Stavano insieme da molto?

«Sì, da parecchio tempo, ma Noelia di recente aveva cercato di rompere. Gliel'aveva detto diverse volte. Lei era in Italia da qualche anno e lui era rimasto a Lima, in Perù.

Siamo tutti di lì».

Noelia le ha spiegato perché si è voluta separare?

«Non so quali fossero le sue ragioni, ma per mio padre, Noelia era diventata un'ossessione. Parlava di lei sia con me, che con mia cugina Nataly. Prima di partire mi aveva mandato una foto di un paio di orecchini che le voleva regalare. Mi diceva: presto staremo insieme io e te. Lei aveva detto che per quanto la riguardava, lui poteva venire in Italia proprio per questo, perché potesse stare un po' di tempo con sua figlia». 

E quando è arrivato, le è effettivamente stato vicino?

«No, non proprio. Lui era qui da poco, circa un mese. Stava a Milano e in questo ultimo periodo io ho lavorato parecchio. Faccio la badante, do una mano a Nataly quando lei non riesce ad andare».

Lei e Noelia eravate amiche?

«Sì, siamo uscite insieme un paio di volte. Ogni tanto parlavamo. Ma lavorava molto, anche lei faceva la badante». 

E con suo padre, ha parlato dopo quello che è successo?

«Mi ha detto solo: "Ecco, è finita". E io gli ho gridato: "Ma papà, cos' hai fatto? L'hai ammazzata?", ma lui non mi ha più risposto. È semplicemente uscito ed è andato nell'altra stanza». 

Dopo cos' è successo?

«Sono rimasta fuori dall'appartamento finché non sono arrivati i soccorsi. Mi hanno portata in ospedale, dove mi hanno curato, e poi mi hanno accompagnato in Questura per testimoniare. Sentir chiamare assassino mio padre mi fa stare male». 

E sua madre, l'ha sentita?

«Sì, ha mantenuto un buon rapporto con mio padre. Vive ancora a Lima. Adesso vorrebbe raggiungermi qui, ma non ha i soldi per farlo. L'unica cosa che fa, è piangere». 

Lei ha pensato di tornare in Perù?

«Non posso tornare in Perù. Sono scappata dal Perù perché lì il mio ex fidanzato farebbe la stessa cosa con me». 

In che senso la stessa cosa? Ucciderla?

«Sì. Mi ha minacciato di morte molte volte perché mi sono voluta separare. Nella valigia con cui sono venuta in Italia ho portato con me tutte le prove di queste cose che mi diceva. No, resterò in Italia». 

Ma ha qualcuno con cui stare?

 «Mia cugina Nataly. I famigliari dell'anziano di cui ci prendiamo cura sono stati comprensivi. Ci hanno detto che non possiamo essere responsabili noi, per gli atti di qualcun altro. Staremo a casa insieme finché non sono guarita e poi cercherò di tornare a lavorare». 

E nel rapporto con suo padre, cosa pensa di fare?

«Adesso non lo so. Non sento niente, non riesco a sentire niente».

Quelle 22 Saman in soli tre anni: "Il problema è l’islam fondamentalista". Francesca Bernasconi il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.

Annalisa Chirico presenta a ilGiornale.it il suo ultimo libro, che affronta il tema del fondamentalismo islamico e racconta le storie delle donne che vi si sono ribellate: "Queste ragazze sono le vere paladine della libertà in Occidente".

Picchiata, abusata, segregata e umiliata. Fino al punto di dover subire ispezioni nelle parti intime da parte della madre, che voleva accertarne la verginità. È l'ultimo caso, che questa volta coinvolge una ragazza marocchina, di violenza ai danni di giovani donne, che fanno parte di famiglie musulmane emigrate e vogliono vivere all'occidentale. Ma questa ragazza non è l'unica a dover subire tali trattamenti dalla propria famiglia. Come lei ce ne sono altre. La loro unica colpa? Quella di aver voluto studiare, uscire con gli amici, indossare pantaloni e magliette, come i ragazzi del Paese in cui vivono. Come i giovani italiani.

Si tratta di bambine, ragazze e donne che si sono ribellate ai dettami del fondamentalismo islamico e, per questo, punite. A volte anche a costo della vita. Sono tutte le Saman senza nome che, proprio come la ragazza diciottenne che sarebbe stata uccisa dai famigliari perché voleva ribellarsi al matrimonio combinato, subiscono minacce e violenze da parte di chi dovrebbe proteggerle. A loro ha dato voce la giornalista Annalisa Chirico nel suo ultimo libro, Prigioniere. Saman e le altre (Piemme), che a ilGiornale.it ha spiegato: "Le Saman senza nome sono tante e vanno difese".

Il titolo del libro parla di “prigioniere”. Di chi o di che cosa?

"Sono prigioniere delle loro famiglie e del fondamentalismo islamico. Vivono come anime clandestine nel nostro Paese, spaccate a metà: da un lato c'è quello che vorrebbero essere e che l’Occidente promette loro, dall'altro la canea di proibizioni e divieti che le famiglie impongono loro nel nome di Allah".

Per questo vogliono ribellarsi?

"Queste ragazze sono, oggigiorno, le più tenaci paladine dell’Occidente: hanno una piena consapevolezza di quanto preziose siano le libertà di noi occidentali che forse, per abitudine, tendiamo a darle per scontate. Poter amare la persona che si vuole, indossare un paio di jeans attillati o uscire di casa con le unghie laccate di smalto sono comportamenti per noi finanche banali, eppure per queste giovani donne significa rischiare la vita".

Come Saman...

"Saman è stata una ragazza coraggiosa: sapeva che la famiglia tramava contro di lei, sapeva che tornare sotto lo stesso tetto avrebbe comportato rischi enormi, ma voleva recuperare i propri documenti per tagliare per sempre i ponti con quella realtà familiare che la teneva segregata in casa. Saman non abbiamo saputo difenderla. Se, dopo l’attentato contro la redazione di Charlie Hebdo dicevamo Je suis Charlie, oggi non possiamo che dire Je suis Saman".

Video e chat: cosa sappiamo di Saman a un anno dalla scomparsa

Qual è la colpa attribuita a queste ragazze dalle loro famiglie?

"L’onore perduto, un’onta per l’intero clan familiare. Queste giovani donne hanno la colpa di voler vivere all’occidentale, secondo gli usi e i costumi degli infedeli. Nell’Islam fondamentalista, il mondo è diviso in bene e male, tra chi rispetta l’ortodossia e chi, in quanto infedele, va raddrizzato e punito. Il problema è l’Islam fondamentalista, che considera il corpo delle donne una proprietà e le donne che vogliono vivere all’occidentale come esseri corrotti e ontologicamente inferiori, meritevoli di una punizione esemplare. L’Islam è l’unica religione per cui rischi la vita per apostasia. Se parli male del Dio cristiano o del Buddha non rischi la vita. Se parli male di Allah, finisci sotto protezione".

C’è una differenza con il femminicidio?

"Negli omicidi commessi da uomini abbandonati o malati di gelosia c’è un movente passionale, psicologico. Nel caso della segregazione imposta alle giovani, che talvolta culmina nella violenza e addirittura nell’eliminazione fisica, prevale una componente religiosa. Non agisce un singolo uomo, ma un intero clan familiare che si attiva contro il componente colpevole di aver macchiato l’onore di tutti. C’è una cornice religiosa che, attraverso una interpretazione fondamentalista dei testi sacri, giustifica e addirittura supporta tali scelleratezze. Nei casi come quello di Saman, le madri sono spesso complici del regime di vera e propria prigionia, imposto dal patriarcato islamico". 

Oltre alla vicenda di Saman, ci sono altre storie di ragazze uccise?

"Negli ultimi tre anni, 22 ragazze di origine islamica sono state eliminate in contesto familiare. Quante sono le Saman senza nome, che non sanno a chi chiedere aiuto, a chi rivolgersi? C’è una tragedia di cui nessuno parla, anche perché è scomodo farlo".

Perché?

"Nessuno vuole essere accusato di omofobia e razzismo. Ma io ho voluto correre questo rischio, perché penso che si debba strappare il velo dell’ipocrisia e chiamare le cose con il loro nome. L’Islam ha un problema con le donne, punto. Nel nostro Paese, le procure, i centri antiviolenza, le case-famiglia e i servizi sociali hanno a che fare con storie di giovani e giovanissime ragazze che chiedono aiuto. Purtroppo le risorse sono sempre scarse rispetto alla domanda di intervento. Ricordiamoci che, tre anni fa, l’Italia ha dovuto approvare una legge per bandire i matrimoni forzati. Non è certo un problema delle italiane".

Questa reticenza a parlarne può essere anche dovuta al fatto che il tema è spesso percepito come lontano?

"Lo avvertiamo come lontano da noi, perché si tratta di anime clandestine, che vivono rinchiuse nelle loro case e non possono socializzare con nessuno che non sia un membro della famiglia. Talvolta vengono addirittura ritirate dalla scuola".

C’è qualcosa che potrebbe essere fatto per affrontare il problema?

"Da una parte bisognerebbe sostenere le frange modernizzatrici dell’Islam e, da questo punto di vista, aiuterebbe una maggiore trasparenza da parte dei centri di culto. Vuoi pregare? Lo fai in italiano. Dall’altra parte l’integrazione di chi vive in Italia deve essere effettiva. C’è un gigantesco problema con le sacche di immigrazione proveniente dai Paesi arabi che non si integrano e non vogliono integrarsi. Costoro pensano di poter approfittare del nostro Paese, di un’economia più florida e di salari più alti, perpetuando a Milano o a Padova i medesimi costumi dei Paesi di origine. Chi vuole stare in Italia deve rispettare la Costituzione e i suoi valori fondamentali, a partire dalla parità tra uomo e donna, altrimenti va rispedito da dove viene". 

Una relazione pacifica tra Islam e Occidente è possibile?

"È possibile. Israele, pur con non poche difficoltà, è un paese multietnico, gli arabi israeliani attualmente sono rappresentati nel governo guidato dal primo ministro Bennett. Con Trump alla Casa Bianca inoltre, il governo israeliano, all’epoca guidato da Netanyahu, ha firmato gli Accordi di Abramo, normalizzando le relazioni con diversi Paesi islamici, a partire dagli Emirati Arabi Uniti. Gli scambi tra le persone, al di là del credo religioso, favoriscono la diffusione di modi di vivere e di agire, di concepire i rapporti tra i sessi e non solo. Bisogna proseguire lungo la strada di dialogo e dell’apertura verso l’altro".

Tornando alle donne in Italia, le parole dell’imprenditrice Elisabetta Franchi dimostrano che neanche per noi le cose sono facilissime.

"Non esiste un aut aut tra l’essere madre e lavoratrice. Non siamo più nell’Età della Pietra, possiamo lavorare e occuparci dei figli, insieme ai padri. La genitorialità va condivisa. I Paesi nordeuropei sono più avanti, l’Italia soffre la carenza di asili nido e di politiche a supporto della natalità. Per il resto mi lasci dire che noi donne siamo notoriamente multitasking, possiamo metter su famiglia e lavorare anche prima degli 'anta'".

Lei però non ha raggiunto gli anta e non ha figli.

"Forse non ho trovato l’uomo giusto, chissà".

«Lui ripeteva: ucciderò Michela. I loro amici hanno taciuto, non deve succedere mai più». Jacopo Storni su Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022.

Firenze, la battaglia dei genitori per introdurre il «concorso morale». 

L’ultima volta che ha visto sua figlia è stata sul pianerottolo di casa. «Le dissi di non scendere, avevo paura che potesse essere pericoloso, lei però scese comunque, aveva perfino lasciato il cellulare sul letto, mi abbracciò come faceva ogni volta, disse che sarebbe tornata dopo cinque minuti», ricorda la signora Paola. Michela Noli , sua figlia, invece non è più tornata. Quella sera salì sull’auto del marito dal quale stava divorziando, lui la portò sull’argine dell’Arno e la uccise con 47 coltellate. Poi Mattia Di Teodoro si tolse la vita.

Il ricordo

Sono passati sei anni da quel tragico 15 maggio. Il ricordo di Michela vive ancora in questa casa, nel quartiere Isolotto di Firenze. Sotto il cuscino di Michela c’è ancora il suo pigiama. Il piumone è sempre lì, bianco con i fiori neri. Anche la coperta con i cuori bianchi è sempre lì. E poi i cinque peluche, soprattutto gatti. La camera di Michela è rimasta uguale. Tutto è al suo posto, come se quella sera fosse uscita e poi rientrata a casa, come se quel letto la stesse ancora aspettando per la notte. Invece no, a soli 31 anni Michela è stata vittima di femminicidio. Da giorni il marito la tormentava, non accettava la sua decisione di lasciarlo. Agli amici aveva mandato messaggi agghiaccianti: «La riempio di pugnalate al cuore e poi mi pianto il coltello in gola». Tutti gli hanno dato poco peso. Ed è proprio questo ciò che fa più male a Paola e Massimo, i genitori di Michela. «Gli amici e i genitori di Mattia sapevano quello che aveva in mente, ma hanno taciuto sottovalutando le sue parole e quei messaggi. Michela poteva salvarsi se qualcuno avesse parlato».

Per una nuova legge

Ecco perché adesso combattono la loro battaglia: quella per una legge che punisca chi sa ma tace, chi omette di riferire l’esistenza di un rischio concreto. «Chiediamo che sia introdotta una causa tipica di concorso morale nel reato di omicidio, penalmente rilevante. Potrebbe scongiurare molti omicidi di cui troppo spesso sono vittime le donne». Alla proposta di legge stanno lavorando le parlamentari Piera Aiello (Gruppo Misto), Lucia Azzolina e Stefania Ascari (M5S). Partirà a breve anche una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. «Questa battaglia ci dà la forza di vivere», dicono i genitori. In tutte le stanze della casa c’è un ritratto di Michela, sono i disegni di mamma Paola, dipinge per esorcizzare il dolore. «Michela è ancora insieme a noi, ci guarda da ogni angolo». Vive nei ricordi di una vita. «Quando aveva due anni l’addormentavo cullandola con le canzoni dei Genesis, proprio qui, in questa stanza». Il padre si commuove. È musicista, come sua moglie. Cantano insieme nei circoli da ballo. Nome d’arte Max e Paula. Quando cantano si guardano, nei loro occhi c’è il riflesso di Michela. Si amano ancora, forse adesso più di prima. «Quando Michela aveva tre anni, al ritorno da una serata, portammo con noi Michela al mare, nella nostra casa, senza svegliarla. Al mattino fu così felice di questa sorpresa».

Il surf dalle maldive

Sul portone di casa, ecco le calamite che portava dai suoi viaggi: un surf dalle Maldive, un asino dalla Sardegna, un boomerang dall’Australia, dove era stata in viaggio di nozze. Poi la calamita di Edimburgo, dove aveva festeggiato i 30 anni con la madre. Era una persona semplice, Michela, aveva imparato dai suoi genitori, così lievi e al contempo combattenti. Ora lottano per salvare altre vite. E cantano. In salotto c’è una tastiera, una chitarra, l’angolo bar come fosse una discoteca. Perfino le luci psichedeliche. E quella canzone scritta per lei dalla madre, e dalla madre cantata: «So che stasera tornerai, come sempre, e quella porta aprirai ed entrerà l’amore».

Se la violenza domestica è invisibile anche in tribunale. GIULIA MERLO su Il Domani il 13 maggio 2022.

La commissione sul femminicidio ha approvato una relazione che indaga come la violenza domestica viene valutata nei procedimenti di separazione e di affidamento dei figli.

Il risultato è che si tratta di un fenomeno quasi invisibile per il nostro sistema giudiziario: nel 96 per cento dei casi di separazione con figli in cui sono presenti segnali dii violenza domestica, i tribunali ordinari non acquisiscono questi atti e non ne tengono conto per decidere sull’affido.

Per questo è necessario «intervenire sulle procedure, assicurando che la violenza sia sempre indagata dalle magistrature civili e minorili e che i minori siano sempre ascoltati dai magistrati», ma soprattutto per introdurre «una formazione specifica sulla violenza di genere», spiega la presidente della commissione, Valeria Valente.

Nei tribunali spesso la violenza domestica non viene riconosciuta, oppure viene sottovalutata. Questo fenomeno, che si definisce di “vittimizzazione secondaria”, è una giustizia negata - perchè non riconosciuta - a chi già ha subito violenza, in particolare le donne.

A farlo emergere è la relazione “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”, stata approvata all’unanimità il 20 aprile 2022 dalla commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e presentata alla presenza del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, e della ministra della Giustizia, Marta Cartabia.

VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA

La vittimizzazione secondaria è il termine tecnico con cui si definisce, secondo la Raccomandazione del Consiglio d’Europa, “la vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima". Ovvero, tutti i casi in cui le autorità chiamate a reprimere la violenza non la riconoscano oppure la sottovalutino, non adottando nei confronti della vittima le necessarie tutele. Questo fenomeno è particolarmente grave nel caso di violenze domestiche, quindi legate al contesto familiare, soprattutto nel caso in cui poi segua una separazione della coppia e sia necessario decidere dell’affido dei figli.

Per la prima volta è stata fatta una analisi statistica, in cui si ricostruisce il percorso della violenza su donne e minori, indagando in particolare i dati dei procedimenti civili di separazione giudiziale di coppie con figli e dei procedimenti sulla responsabilità genitoriale presso il tribunale per i minorenni. Il risultato è che la dimensione penale della violenza e quella civile della separazione spesso non sono vasi comunicanti, così che le valutazioni in merito all’affido dei figli vengono prese senza tenere in considerazione il contesto di violenza in cui le separazioni maturano. 

I DATI

La commissione ha lavorato su un campione statistico di 569 fascicoli civili, rappresentativi dei 2089 iscritti al ruolo nel trimestre marzo-maggio 2017. Per quanto riguarda i procedimenti davanti ai tribunali per i minorenni, il campione statistico ha riguardato 620 fascicoli, rappresentativi dei 1452 iscritti al ruolo nel mese di marzo 2017.

Il risultato è che il 34,7 per cento delle cause giudiziali di separazione con affido di figli minori presenta indicazioni di violenza domestica con denunce, certificati o altri atti e nell’87 per cento dei casi a subirle sono le donne. Nel 18,7 per cento dei casi, la violenza riguarda invece direttamente i figli e in gran parte a perpetrarla sono i padri (13,6 per cento contro il 4,5 per cento delle madri) e dati analoghi, con percentuali di poco superiori, sono emersi anche dai procedimenti minorili.

Il dato fatto emergere dalla commissione, però, è quasi invisibile per il nostro sistema giudiziario: nel 96 per cento dei casi di separazione con figli in cui sono presenti segnali dii violenza domestica, i tribunali ordinari non acquisiscono questi atti e non ne tengono conto per decidere sull’affido. Per quanto riguarda i tribunali dei minori, nel 54 per cento dei casi di violenza domestica l’affidamento dei minori è dato solo alla madre, ma anche con incontri liberi con il padre violento.

Le conseguenze

Il risultato è eclatante perchè mostra come nei tribunali italiani non sia garantito il rispetto della Convenzione di Istanbul secondo cui, nei procedimenti di affidamento dei figli, «al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione». Nella relazione vengono elencate le cause, che hanno «profonde radici culturali» nei pregiudizi, anche inconsapevoli, e negli stereotipi di genere che sono alla base della violenza domestica, con possibile tendenza a colpevolizzare la vittima.

Con un esito: spesso la violenza non viene percepita e quindi non entra nelle cause civili di separazione o nei procedimenti davanti al tribunale per i minorenni. O, peggio, viene derubricata a mero conflitto familiare, perchè non ne viene compresa la portata.

A dimostrazione di come gli stessi operatori del diritto spesso non vedano la violenza oppure non la approfondiscano è che nel 57,3 per cento dei casi, nelle verbalizzazioni dell’udienza presidenziale civile, sono presenti solo generici richiami, senza approfondimenti sulle condotte di violenza domestica. Addirittura nel 95,9 per cento dei casi i giudici, pur in presenza di allegazioni di violenza e di notizie relative all’esistenza di procedimenti penali, non hanno ritenuto di acquisire d’ufficio i relativi atti. Solo nel 15,6 per cento dei casi i giudici hanno approfondito le allegazioni di violenza presenti tra gli atti del fascicolo. Anche in presenza di documenti o atti di procedimenti penali da cui emergano presumibili violenze domestiche, nell’ordinanza presidenziale nel 57,9 per cento dei casi non si fa riferimento né a violenza né a conflitto, solo nel 21,1 per cento dei casi si fa riferimento alla violenza e nel 18,6 per cento dei casi ci si riferisce al conflitto in famiglia, in un’evidente confusione lessicale con importanti ricadute giuridiche.

L’INTERESSE DEL MINORE

La commissione ha identificato alcune tra le cause di questo fenomeno, indicandole come criticità su cui intervenire a livello legislativo.

Primo tra tutte, nella maggior parte dei casi i bambini soggetti dell’affido non vengono ascoltati in tribunale (69 per cento) e, anche quando questo avviene, non è il giudice a parlare direttamente col minore per rendersi conto della situazione ma l’ascolto viene delegato a tecnici o a servizi sociali (nell’85,4 per cento dei casi). Dunque, la violenza domestica e in particolare la violenza maschile contro provvedimenti che dispongono l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, senza distinguere i casi in cui ci sia un genitore violento e una genitrice vittima di violenza.

«I risultati di questa inchiesta dicono con chiarezza che nei procedimenti di separazione e affido il superiore interesse del minore, ovvero il diritto dei bambini a una vita serena e libera dalla violenza, soccombe a fronte di una interpretazione del principio della bigenitorialità interpretato come diritto del padre a frequentare il proprio figlio o la propria figlia sempre e comunque. Anche quando l’uomo è un maltrattante e la violenza da lui esercitata contro la moglie o contro i figli stessi è documentata», spiega a Domani Valeria Valente, presidente della commissione sul femminicidio che ha licenziato la relazione.

Per questo l’esito della commissione è quello di chiedere al parlamento un intervento legislativo per intervenire «da un lato sulle procedure, assicurando che la violenza sia sempre indagata dalle magistrature civili e minorili e che i minori siano sempre ascoltati dai magistrati», ma soprattutto per introdurre «una formazione specifica sulla violenza di genere per tutti coloro che intervengono nei procedimenti di separazione e affido, magistrati, CTU, avvocati, per riconoscere il fenomeno e non occultarlo dietro un apparente conflitto che nasconde la violenza subita da tante donne e mamme».

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

«In tribunale la violenza non sempre viene capita: così si è vittime due volte». La senatrice Valeria Valente: «Indagando sul fenomeno abbiamo compreso che nei processi civili non solo la violenza non viene minimamente letta, ma che ciò rischia di essere presupposto per un’ulteriore vittimizzazione della donna che ha subito violenza”». Simona Musco su Il Dubbio il 13 maggio 2022.

«Il tema della violenza contro la donna, nei processi civili, finisce per non essere preso in considerazione. E questo, principalmente, sulla base di una vittimizzazione secondaria, sul piano procedurale e processuale, che diventa decisiva nella valutazione di merito del giudice». A spiegarlo è Valeria Valente, senatrice del Pd e presidente della Commissione Femminicidio, che domani, al Senato, presenterà la relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale. Un fenomeno purtroppo invisibile, che finisce per falsare i dati sulla violenza e sugli affidi, con conseguenze spesso devastanti sul futuro delle donne e dei minori.

Senatrice, può spiegarci l’importanza di questa relazione?

È stata una delle più impegnative per la Commissione e ha richiesto un lavoro di quasi due anni. Molto spesso si parla di violenza sulle donne con quasi istintiva, naturale attenzione solo alla dimensione del penale. Ma c’è anche una dimensione civilistica, con conseguenze importanti in termini di comprensione e conoscenza del fenomeno. E forse quella che è conosciuta meno, indagata meno, affrontata di meno rischia di essere quella con un maggiore e drammatico impatto sulla vita delle donne vittime di violenza.

Da che punto di vista?

Innanzitutto perché molto spesso le donne che subiscono violenza, prima ancora di arrivare alla consapevolezza della denuncia – accade solo nel 15% dei casi, mentre il 64% delle donne non ne parla nemmeno con un amico – arrivano alla volontà di separarsi dall’uomo violento e quindi avviano un procedimento civile di separazione. O almeno ci provano.

Il tema della violenza trova uno spazio nella dimensione civilistica del fenomeno?

Indagando sul fenomeno abbiamo compreso che non solo la violenza non viene minimamente letta, ma che ciò rischia di essere presupposto per un’ulteriore vittimizzazione della donna che ha subito violenza. La violenza non viene verbalizzata: non è possibile che questa parola non compaia quasi mai e che venga utilizzata la parola conflitto come sinonimo. Sono due cose profondamente diverse. Sul fronte processuale, la donna viene molto spesso ascoltata in presenza dell’uomo – sia in sede di separazione civile sia in sede di procedimenti relativi alla responsabilità genitoriale – anche dopo aver fatto allegazioni di violenza, cosa che, stando alla nostra indagine, accade nel 34% dei casi. Ed è evidente che, avendo di fronte chi le ha esercitato violenza, sarà condizionata nel racconto.

Inoltre, nel 95% dei casi non vengono richiesti ulteriori atti dal giudice, non vengono utilizzate tutte le procedure richieste, ad esempio viene trovata comunque una conciliazione e il minore non viene ascoltato direttamente in maniera separata. La violenza, insomma, non viene indagata e quindi, sostanzialmente, non viene considerata. E, cosa ancora più grave, non viene considerata come un fattore di cui tenere conto anche nell’adozione dei provvedimenti successivi, ad esempio quello relativo all’affido dei minori, finendo per favorire il principio di bigenitorialità a scapito dell’interesse del minore. E si finisce per colpevolizzare la donna se il bambino rifiuta di vedere il padre violento.

Questo poi falsa anche i dati relativi agli affidi?

Certo. L’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, che per noi è un faro nella lotta alla violenza, ci dice che ogni volta che ci troviamo di fronte a un uomo violento vanno messi in sicurezza madre e minore. Se noi leggessimo la violenza e applicassimo la Convenzione non ci potremmo mai trovare di fronte al caso di un minore affidato ad un padre violento o a entrambi i genitori, in casa famiglia o agli assistenti sociali con lo scopo di ricostruire il “sano” rapporto sia con la madre sia con il padre. Credo sia giusto che i bambini mantengano un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, ma non è un assunto che può stare al di sopra dell’interesse concreto del minore. Lo diciamo da tempo, lo dice il Grevio, la Convenzione di Istanbul – che è legge dello Stato – e, da ultimo, la Cassazione: se c’è violenza, il bambino deve essere tenuto a distanza dal padre, è un obbligo, non ci sono margini di valutazione di opportunità. E la Cassazione, nelle ultime due pronunce, si spinge oltre, dicendoci che il superiore interesse del minore prevale anche sulla bigenitorialità, che non deve essere letta come un diritto dei genitori, ma come un interesse del minore. E interesse del minore è soprattutto la sua sicurezza.

Perché c’è così tanta difficoltà a riconoscere la violenza, anche in un’aula di tribunale?

Ci sono due ragioni: la prima è che manca una specializzazione adeguata. I giudici civili hanno sempre ritenuto la violenza appannaggio del penale e c’è poco dialogo con i colleghi di quell’ambito. Molto poco si chiede di assumere gli atti dal penale, nonostante il Codice rosso e qualche norma ulteriore nella riforma del processo civile. Si sottovaluta il tema. Stessa cosa nel minorile, dove alberga anche un’altra convinzione: ci sentiamo molto spesso dire che se l’uomo è violento solo nei confronti della madre può comunque essere un buon padre. Ed è una convinzione di carattere culturale, che noi non condividiamo, tant’è che ho presentato un disegno di legge in questo senso.

La seconda è una questione culturale: i pregiudizi, gli stereotipi, il modo in cui si legge la dinamica della relazione di coppia, la suddivisione in ruoli. Ma c’è anche un altro fattore: spesso il giudice delega la comprensione di una vicenda alla consulenza tecnica e le relazioni di psicologi e assistenti sociali diventano l’unico elemento sul quale costruiscono la pronuncia finale. Ma questi professionisti possono offrire il punto di vista solo su alcuni aspetti, mentre il giudice deve accertare i fatti e questa attività non può essere limitata solo a una perizia. Bisogna svolgere attività di accertamento. Alcune modifiche sono già state ottenute con la riforma del processo civile, ma manca ancora qualcosa. E sono convinta che si possa chiedere anche al giudice civile una sorta di accertamento incidentale temporaneo della violenza, veloce e rapido, ma precondizione di un atteggiamento diverso nella procedura.

La vittimizzazione secondaria però c’è anche fuori dalle aule del tribunale. Come si abbatte?

Mi sono interrogata tante volte. Inasprire le pene porta consenso ai politici, ma non risolve il problema, altrimenti i dati della violenza non sarebbero quelli che sono. Le agenzie educative possono fare sicuramente molto di più: le università, ad esempio, devono istituire delle ore curriculari dedicate alla lettura della violenza. Ma il tema è di una società intera. Quando si sono combattute le mafie del 1992 c’è stata un’assunzione di responsabilità della collettività, che si è schierata a favore delle vittime e contro i mafiosi. Dovrebbe accadere lo stesso anche adesso: schierarsi a favore delle donne e contro gli autori di violenza. Ma ancora oggi oltre la metà degli italiani pensa che una donna che subisce violenza se la sia cercata, in qualche modo. Per questo io direi che, oltre ad aiutare di più e meglio i centri antiviolenza, che hanno sempre poche risorse, è necessario fare campagne di sensibilizzazione che facciano capire che oggi una delle principali cause di morte per donne in una certa fascia d’età è essere nate donne. E non è accettabile.

Nicola Pinna per “il Messaggero” l'11 maggio 2022.

A leggere le due sentenze sembra di ripercorrere vicende totalmente diverse, che tra di loro potrebbero non avere nulla a che fare. Eppure, il caso è lo stesso. Ma da un'aula all'altra di un tribunale persino una storia drammatica come quella di una donna che per anni ha subito violenze fisiche, psicologiche e sessuali può diventare un «caso non di gravità estrema, non eccezionale o inevitabile». 

A scriverlo non è il difensore dell'uomo che per quegli episodi è finito in manette, e poi sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio. Quelle parole, che ora innescheranno l'immancabile ondata di sdegno e proteste, è un giudice.

Anzi, una giudice: una donna con la toga, relatrice della commissione tributaria provinciale. E le sue considerazioni sulla vicenda drammatica che ha coinvolto una trentaseienne di Varese sembrano la perfetta contraddizione, oltre che del buon senso, anche dell'analisi dei fatti riassunta in sei pagine dal Gip del Tribunale di Busto Arsizio, che di quel dramma familiare si era già occupato per imporre una misura cautelare all'uomo accusato delle violenze. 

Quel caso «non di gravità estrema», che ha coinvolto anche un bambino piccolo, il giudice per le indagini preliminari lo ripercorre attraverso una serie di episodi specifici: «La donna scrive il giudice era considerata dall'uomo la sua schiava sessuale, era costretta a subire rapporti sessuali anche nei mesi di gravidanza, veniva presa a calci e costretta a dormire sul divano se non soddisfaceva i suoi desideri sessuali». 

Ci sono anche altri dettagli irripetibili nella ricostruzione fatta dai carabinieri, ma il quadro sembra già sufficiente per capire la disperazione. Dalle minacce si è passati spesso anche ai fatti e tante volte, come sottolineato nell'ordinanza del Gip, la ragazza si è trovata fuori di casa, persino con il bambino piccolo in braccio. Bastava dire no a quell'uomo che le conseguenze scattavano all'istante. 

Tutto è andato avanti per anni, fino a quando la giovane mamma ha deciso di affrontare la paura e di chiedere aiuto alle forze dell'ordine. Non è stato facile, ma le indagini hanno fatto il loro corso.

Il maresciallo non ha trascurato la denuncia e il caso è finito prima nelle mani del giudice, che ha firmato un'ordinanza di custodia cautelare, e poi sulla scrivania del sindaco per un'ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio nei confronti di quel giovane che aveva trasformato una relazione sentimentale gioiosa in un incubo quotidiano. La vicenda, quella umana e penale, è andata avanti fino al 2017, quando l'uomo è finito in una struttura psichiatrica e poi ha deciso di farla finita.

Ma per una donna vittima di violenza, che per la legge dovrebbe essere protetta, supportata e difesa in modo speciale, da qualche mese è iniziato una nuova odissea. E in questo caso al groviglio burocratico si aggiunge anche l'umiliazione di quella considerazione scritta nei giorni scorsi nella sentenza firmata dalla Commissione tributaria di Varese. 

La frase esatta, riferita alle violenze sessuali, è la seguente: «Non è un caso di gravità estrema, assolutamente fuori da ogni possibile previsione, eccezionale ed inevitabile». Perché era necessaria questa considerazione? 

Nella decisione, emessa il 22 febbraio e pubblicata il 6 maggio, i tre giudici si pronunciano su un contenzioso avviato dall'Agenzia delle Entrate che pretende dalla trentaseienne la restituzione delle agevolazioni fiscali ottenute per la prima casa, acquistata con quel compagno poi diventato orco.

«La casa è stata rivenduta dopo le terribili vicende che sono state oggetto di uno specifico procedimento penale spiegano gli avvocati Filippo Caruso e Giorgio Prandelli, che difendono la mamma trentaseienne - La legge che vieta la cessione prima dei cinque anni prevede la deroga in caso di fatti gravi e imprevedibili, come ci sembra possa essere una vicenda terribile come una prolungata violenza sessuale e psicologia. Eppure, abbiamo scoperto che per i tre giudici della commissione tributaria di Varese un dramma come quello ben descritto dai carabinieri e dal Gip si possano considerare fatti non di estrema gravità».

Sulla pelle di chi quelle violenze le ha patite, le parole messe nero su bianco sulla sentenza fanno ancora più male: «Non solo per il dolore fisico e psicologico che ho affrontato confessa la ragazza Anche perché con la vendita della casa ho potuto ritrovare un po' di autonomia e mantenere il bambino senza l'aiuto di nessuno». 

Il caso ora propone anche un altro tema legato alle solite e controverse questioni sui diritti civili e sull'equiparazione delle coppie di fatto a quelle sposate. Perché la deroga al divieto di vendita della casa, per il momento, vale solo per chi ha pronunciato i fatidico sì, anche se l'ordinamento riconosce oramai da qualche anno anche l'esistenza di altre forme di unione civile. Su questo probabilmente si esprimeranno i giudici della Corte costituzionale, o magari interverrà una nuova norma, ma nel frattempo i giudici di Varese hanno messo in discussione un'altra certezza che sembrava assodata, considerando una lunga storia di abusi e soprusi come un «caso non di estrema gravità».

Femminicidi, quando si passa alla disumanizzazione della vittima attraverso l’elogio del suo assassino. Giulio Cavalli il 05/05/2022 su Notizie.it.

Siamo pieni di “illustri professionisti”, di “giganti buoni” di “vulcani di idee” che ammazzano le mogli, le ex mogli o le compagne, che hanno avuto la sfortuna di inciampare nella donna sbagliata. 

Stefania Pivetta, uccisa dal marito insieme alla figlia di 16 anni, è solo l’ultima vittima di femminicidio nel 2022, anche se con il tragico ritmo a cui assistiamo questo articolo potrebbe essere già impreciso quando verrà pubblicato. Qualche ora prima di lei a Frosinone è stato trovato il corpo senza vita di Romina di Cesare, 36 anni, uccisa da diverse coltellate probabilmente dal suo ex compagno.

Era il 2 maggio quando Alice Scagni, 34 anni, di Quinto, Genova, è stata uccisa da 17 coltellate dal fratello maggiore. Ad aprile la 44enne Romina Vento è stata annegata nella sua auto a Fara Gera d’Adda dal suo compagno che ha inscenato un incidente. Angela Vitabile invece aveva 62 anni ed è stata ammazzata dal marito con un coltello a serramanico sotto gli occhi dei nipoti. 

Solo ad aprile sono 17 i casi di femminicidio.

Sonia Solinas è stata uccisa dal marito a Dormelleto, in provincia di Novara. Poi c’è marzo, con nove vittime da aggiungere alla mattanza: Anna Borsa è stata uccisa con un colpo di pistola nel salone da parrucchiere in cui lavorava, Vincenza Ribecco è stata uccisa l’8 marzo a San Leonardo di Cutro per non avere aperto la porta al marito violento, Anastasiia Bondarenko è morta carbonizzata, Carol Maltesi è stata uccisa a martellate nel suo appartamento dal suo ex compagno, Tiziana Gatti a Castelnuovo Sotto è stata uccisa dal suocero, Vivana Micheluzzi invece si è presa un colpo di pistola alla nuca in un bosco dall’amico.

Alfieri e Daniela Cadeddu sono state uccise da un vicino di casa e dal marito.

Leggere i nomi così messi in fila è un rosario mortifero che forse rende l’idea di cosa accade in Italia, nel brodo di un’indignazione che scocca ipocrita l’8 marzo come un mazzo di mimose per poi tornare silente fino alla celebrazione successiva. Ma oltre ai femminicidi ciò che fa più schifo è la sconcezza con cui continuano a pensarli e a raccontarli, ogni volta frugando nella vita delle donne (e nei loro corpi) per trovare la leva che possa fare intendere (anche in modo velenoso e sotteso) che un uomo no, un uomo non potrebbe mai uccidere una donna che ama.

E passano gli anni e le vittime (che in un sanguinario tassametro continuano a scalare) e ancora si trovano molti che non hanno il coraggio di chiamare assassini gli assassini e di trattare le vittime con la cura che si usa per loro che sono state oppresse e soppresse.

Su alcuni giornali di oggi abbiamo un caso scuola: il Corriere della sera che dedica un articolo a Alessandro Maja (che ha ammazzato la moglie Stefania Pivetta e la figlia) sciorinando i pregi dell’architetto super creativo molto conosciuto nel mondo dell’interior design. Siamo oltre alla normalizzazione della violenza a cui eravamo abituati (quando le donne venivano ammazzate perché era colpa della loro smodata voglia di emancipazione) e passiamo alla disumanizzazione della vittima attraverso l’elogio del suo assassino. Il giornalista del TG1 ci fa sapere che il noto architetto aveva “preso una villetta in periferia per far vivere la famiglia e i bambini in serenità” lasciandoci intendere che sua moglie è proprio una stronza se non ha apprezzato le attenzioni del marito e si è fatta uccidere rovinandogli la carriera.

Siamo pieni di “illustri professionisti”, di “giganti buoni” di “vulcani di idee” che ammazzano le mogli, le ex mogli o le compagne, che hanno avuto la sfortuna di inciampare nella donna sbagliata. Quando capita il contrario però non accade. È curioso che non ci abbiano raccontato che Annamaria Franzoni fosse una talentuosa cuoca oppure che Sabrina Misseri fosse una straordinaria estetista. In quel caso ci si occupava, giustamente, del crimine commesso che è la vera e unica notizia che conta.

Per gli uomini no: gli uomini hanno perso la testa, ceduto alla gelosia e si sono macchiati una bellissima carriera. Sempre che siano umani bianchi, non sia mai. Ma questo è un altro enorme discorso che ci sarebbe da fare.

Ore di forte apprensione: poi il blitz dei carabinieri anti-terrorismo. Picchia e chiude in bagno moglie e accoltella cognato, l’sos della donna (che sviene): “Chiamate qualcuno”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

“Mi sta picchiando, chiede aiuto, chiamate qualcuno”. E’ l’sos disperato lanciato da una donna segregata in casa dal marito e brutalmente pestata con calci e pugni, poi afferrata per i capelli e trascinata in bagno. Una notte da incubo quella andata in scena mercoledì 4 maggio in un’abitazione di Giugliano in Campania, comune a nord di Napoli, dove poco dopo le 22 si sono ritrovati all’esterno di una casa, presente in via Biagio Riccio, i carabinieri della Compagnia locale e del Gruppo di Castello di Cisterna, oltre a un negoziatore e alle squadre antiterrorismo.

Protagonista un uomo di 45 anni che urla e minaccia la compagna. Poi la pesta con calci e pugni a ripetizione. Per pochi minuti si placa e la donna ha giusto il tempo di chiamare i parenti e chiedere aiuto.

Poco dopo arriva il fratello. Prova a far ragionare il cognato che, intanto, ha afferrato un grosso coltello da cucina. L’aggressore reagisce con alcuni fendenti con la lama che fortunatamente si ferma solo in superficie. Il cognato, ferito, è costretto a ripiegare ed esce dall’appartamento sanguinante.

Il 45enne a quel punto è fuori di sé. Afferra la moglie per i capelli, la trascina in bagno e sbarra porte e finestre dell’appartamento. Due giri di chiave e la imprigiona all’interno. Arrivano i Carabinieri di Giugliano in Campania e del Gruppo di Castello di Cisterna. Bussano più volte, provano a far ragionare l’aggressore. Nessuna risposta.

Le finestre sono sbarrate, l’appartamento è completamente al buio e non si percepisce alcun rumore.

Sul posto arriva anche il militare Negoziatore del Gruppo di Castello di Cisterna. Così si prova ancora a contattare l’uomo, con parole concilianti, affinché possa arrendersi prima di commettere azioni irreparabili. Nè lui né la donna tuttavia rispondono.

Le lancette girano, è quasi mezzanotte, e i Carabinieri sanno che non si può più temporeggiare. Giungono sul posto le Aliquote di Pronto intervento, squadre antiterrorismo dell’Arma costituite all’indomani degli attacchi al Bataclan di Parigi, impiegate per gli interventi a maggior margine di rischio. Sono addestrate per questo tipo di azioni ed equipaggiate con specifiche protezioni balistiche. Ancora nessun segnale dall’interno.

Si pensa al peggio e si decide l’intervento. I militari sfondano la finestra della cucina e fanno irruzione in casa. Il 45enne non ha nemmeno il tempo di alzare lo sguardo che è già bloccato. La donna è di fronte a lui, l’ha ristretta in bagno, lei è impietrita, accovacciata in lacrime. E’ sotto shock e non parla. Poi sviene.

Viene soccorsa dal 118 ma fortunatamente non ha ferite gravi, almeno sul corpo. Il 45enne viene arrestato per maltrattamenti, lesioni e sequestro di persona. E’ ora in carcere in attesa di giudizio.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Trentatrè denunce ma l'ex la perseguita anche dal carcere. Federico Garau il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.it.

La storia di Loredana, perseguitata dall'ex anche dopo essere riuscita a farlo arrestare. L'uomo la minaccia e la fa seguire dal carcere.

Arriva da Napoli l'ennesima storia di violenze commesse nei confronti di una donna. A raccontare il proprio incubo è Loredana, una 50enne che da anni è ormai vittima degli abusi e dei soprusi del suo ex compagno, un uomo più giovane di lei che persino dal carcere riesce a tormentarla.

A riportare l'intera vicenda è il Corriere del mezzogiorno, che ha ascoltato il racconto della donna. Con un matrimonio finito alle spalle e due figlie di 10 e 24 anni, Loredana si era trasferita in un appartamento sito nel centro storico di Napoli e proprio in quell'occasione aveva conosciuto Angelo, andato da lei per svolgere alcuni lavoretti all'interno dell'abitazione. I due avevano cominciato a frequentarsi, ma le continue pressioni del 40enne, molto ossessivo nei suoi confronti, avevano spinto Loredana a chiudere la relazione. Da qui le violenze, le percosse, le minacce.

Servono ben 13 denunce ed i referti del pronto soccorso per ottenere l'incarcerazione del suo aguzzino, nipote fra l'altro di un boss condannato all'ergastolo per associazione mafiosa e omicidio. Angelo è un soggetto noto alle forze dell'ordine: già in passato era stato arrestato per traffico di droga. Riuscito ad evadere dai domiciliari, era poi stato rintracciato a Napoli e affidato ai servizi sociali. Loredana non sapeva nulla di tutto ciò.

I problemi, tuttavia, non sono finiti. Malgrado l'uomo si trovi da oltre due anni dietro le sbarre, la 50enne continua ad essere perseguitata. Secondo quanto riferito da Loredana, infatti, Angelo ha accesso ai social ed in questo modo riesce a contattarla, umiliandola ed inviandole ripetuti Whatsapp da numeri di telefono differenti. Oltre agli insulti, anche le minacce. In più di un'occasione, l'uomo le avrebbe promesso di aspettarla sotto casa, una volta uscito dal carcere.

"Ho fatto altre venti denunce e ogni giorno temo per la mia vita e quella delle due mie figlie. Minaccia anche loro, intercetta i profili social della più grande e scrive cose irripetibili. Lei fa l'estetista, la scredita. E continua a screditare anche me. Mi appella come una poco di buono, scrive sui profili dei miei contatti e minaccia tutti. Dice sempre: aspettami che so dove abiti", racconta Loredana al Corriere del mezzogiorno. "Vivo nel terrore, ormai. E combatto contro tutti, purtroppo non capisco come faccia ad avere i telefoni in prigione", aggiunge.

Quella di Loredana è una disperata richiesta d'aiuto. A nulla, al momento, sono servite le ulteriori denunce e gli incontri avuti con la direttrice della casa circondariale in cui si trova Angelo. Di recente, inoltre, la donna riferisce di essere stata seguita per strada. "Ero con una amica in piazza della Borsa e noto un uomo che ci guarda con insistenza, ha un telefonino, scatta foto. Il giorno successivo sul profilo social di Angelo con il nickname "bellavita259", trovo quella foto", spiega. "Mi accorgo che in un video si vede il profilo di chi lo girava. Ingrandisco, recupero una foto e riconosco quella persona. È il titolare di un bar vicino casa. Mi presento e gli chiedo perché mi sta seguendo. Lui nega, io chiamo i carabinieri. Viene segnalato, nulla più".

Malgrado le violenze subite, Loredana è più che mai decisa a combattere e a ottenere giustizia. Proprio per questa ragione vuole che la sua storia sia diffusa."Trascorro i giorni tra caserme, commissariati, il lavoro e le mie figlie. E stiamo nell'eterno timore che esca e faccia qualcosa di brutto a tutte noi. Chiedo misure di sicurezza efficaci", conclude.

Danilo D’Anna e Tommaso Fregatti per “La Stampa” il 3 maggio 2022.

Ha ucciso la sorella con diciassette coltellate alla schiena e tre all’addome. Un delitto, quello che si è consumato la sera del 1° Maggio in un quartiere residenziale nel levante genovese, probabilmente premeditato, come sospetta la procura di Genova. E solo un'ipotesi che però potrebbe essere confermata nelle prossime ore, quando verrà chiesta la convalida dell'arresto di Alberto Scagni, 42 anni disoccupato, al giudice per le indagini preliminari.

L'uomo è accusato di omicidio volontario aggravato: quando è stato fermato dagli agenti delle Volanti, a poco più di un chilometro dal punto dove giaceva la sorella Alice senza vita, era ancora sporco di sangue e aveva un coltello in mano. Il killer davanti alla polizia si è lasciato andare a una sorta di confessione: «Sono stato io. La mia famiglia non mi dava più soldi, non potevo più vivere in quel modo». 

Parole pronunciate senza un legale accanto, e quindi per il momento senza valore. Sono le 21 di domenica quando Alice Scagni, 34 anni, giovane mamma, contabile, ex ballerina di danza classica e campionessa di sci, esce di casa per portare fuori il suo cane, un bracco Weimaraner, lasciando nell'abitazione il figlioletto di un anno e mezzo a giocare con il marito Gianluca Calzona, 35 anni, commercialista nello studio Torazza Papone, uno dei più noti in città della Lanterna.

Siamo in via Fabrizi, quartiere di Quinto al mare. Sotto casa ad aspettarla, in quello che per la polizia, nel contestare la premeditazione dell'omicidio, catalogherà come «agguato in piena  regola», c'è il fratello Alberto. 

Una personalità problematica, ma mai certificata dal servizio di igiene mentale, che dopo aver perso il posto di lavoro come segretario in uno studio legale e prima nella grande distribuzione alimentare si è tuffato nell'alcol e nelLe droghe leggere. E che, lo racconteranno gli stessi genitori, taglieggia sistematicamente i familiari per avere i soldi per vivere. 

La madre della vittima e del killer, dirigente di una filiale della Carige, accorsa sul luogo del delitto, agli agenti ha urlato tutta la sua rabbia mentre il medico del 118 diceva che per la figlia non c'era più niente da fare: «Dovevate fermarlo, dovevate prenderlo prima che facesse tutto questo. Ho chiamato, vi ho chiesto aiuto, ma non avete fatto nulla». 

Pure i vicini di casa di Alberto, nel quartiere popolare di Sampierdarena, volevano fermarlo. Per i suoi continui dispetti al condominio: porte blindate colpite con una mazza o un martello, citofoni bloccati con gli stuzzicadenti nel cuore della notte. Anche la porta della nonna di Alberto, che abita nello stesso pianerottolo del nipote, è stata danneggiata. 

Qualcuno le ha dato fuoco, non si sa chi. È successo 24 ore prima dell'omicidio di Quinto. Per sicurezza l'anziana è stata portata in campagna ed è all'oscuro del delitto. Alberto nei mesi scorsi alla sorella aveva mandato dei messaggi per chiederle come andava, poi era diventato aggressivo. Domenica sera la sua rabbia è esplosa. 

«È stato così insistente nel suonare a casa della sorella che ha rotto addirittura il campanello», racconta un vicino che vive nella palazzina dove, a pochi passi, la trentenne è stata straziata dai fendenti. Il fratello, nascosto dietro a un motorino, è lì che raggiunge la sorella. Tra i due nasce una discussione accesa. Certificata da altri vicini che, allarmati per le urla, telefonano alla centrale operativa della polizia descrivendo «una lite in famiglia». È qualcosa di più, purtroppo. Il marito della donna si affaccia al balcone, intuisce quel che sta avvenendo ma non scende perché, come racconterà la madre Roberta, suocera della vittima, «aveva paura che volesse uccidere anche il figlio di un anno e mezzo».

Scenderà poco dopo, ma ormai c'è più nulla da fare. Il commercialista, però, comunque non avrebbe avuto il tempo di salvare la moglie. Alberto ha colpito Alice con un coltello che aveva fotografato e postato su Facebook. La sua azione è stata violenta, determinata. Diciassette fendenti alla schiena, tre all'addome, come certifica il sopralluogo del medico legale. Per Alice, non c'è scampo. 

Marco Lignana per repubblica.it il 5 maggio 2022.

La telefonata è delle 13.28. Il padre di Alberto e Alice Scagni chiama il 112, e dice chiaramente all’operatore che il figlio ha appena minacciato di uccidere i genitori, il genero e la sorella: "Se non mi date i soldi vi taglio la gola". Lo scrive il gip Paola Faggioni, nell’ordinanza di convalida dell’arresto del 42enne che domenica scorsa alle 20.45, sette ore dopo quella chiamata, ha ucciso con 19 coltellate la 34enne in via Fabrizi, a Quinto.

Il giudice riporta il contenuto di quella drammatica telefonata: "Il predetto faceva presente agli operatori che il proprio figlio Scagni Alberto quel giorno aveva manifestato intenti omicidiari nei confronti suoi e dei familiari e in particolare, della figlia e del genero. In particolare, riferiva che lo Scagni, dieci minuti prima, aveva minacciato per telefono lui stesso, sua figlia e suo cognato, dicendo che, se non gli avessero dei soldi, sarebbe venuto a cercarli e gli avrebbe tagliato la gola”. 

Così adesso le indagini sull’assassinio di Alice Scagni sono due. Oltre a quanto raccolto dagli inquirenti, sono state le parole della mamma Antonella Zarri, che ha accusato tanto i servizi di igiene mentale quanto soprattutto le forze dell’ordine di non aver raccolto in modo adeguato le segnalazioni sulla pericolosità di Alberto Scagni prima della tragedia, a indurre la Procura ad aprire un altro fascicolo, al momento a carico di ignoti, con le ipotesi di reato di omissione di atto di ufficio e omissione di denuncia. 

Azione necessaria proprio per approfondire la testimonianza che i genitori della 34enne e del 42enne hanno reso ieri in questura davanti al pubblico ministero Paola Crispo. In particolare, la donna ha ripercorso quanto avvenuto nei giorni prima del dramma in via Fabrizi a Quinto, quando si è interfacciata prima con gli agenti della municipale, poi con carabinieri e soprattutto con la polizia. Fino alla telefonata delle 13.28.

Sempre ieri del resto il procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto aveva annunciato che le indagini sarebbero state a tutto campo, e che le denunce della madre sarebbero state appronfondite.

Il procuratore ieri però aveva anche aggiunto che, almeno fino ad ora, le telefonate al 112 raccolte non avrebbero indicato una minaccia imminente - nel senso che in quel momento nessuno dei familiari aveva Alberto Scagni davanti a sé - in un contesto nel quale non erano mai state presentate denunce formali. 

Ma l’intenzione dei magistrati non può che essere quella di andare fino in fondo, e chiarire quanto accaduto prima dell'uccisione di Alice.

Pochi giorni prima aveva dato fuoco alla porta di casa della nonna. Alice uccisa dal fratello a coltellate, l’ha aspettata sotto casa per ore: “L’ho fatto perché non mi dava più soldi”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 3 Maggio 2022. 

Ha aspettato la sorella sotto cosa per ore. Appena l’ha vista uscire nel vialetto di casa le ha chiesto soldi, ancora una volta. All’ennesimo rifiuto l’ha aggredita colpendola con il coltello. Alice Scagni, 34 anni, è stata uccisa in strada dal fratello Alberto Scagni, 40 anni. Una violenza assurda che si è abbattuta sulla giovane mamma di un bimbo di appena due anni sotto forma di una pioggia di coltellate: 20 in totale, 17 alla schiena e tre all’addome. È accaduto la sera del primo maggio a Genova, verso le nove e mezza di sera, in via Fabrizi, in un quartiere residenziale del levante genovese, Quinto.

Il marito di Alice, sentendo le grida della moglie è corso per aiutarla ma è riuscito appena a segnalare la direzione di fuga del cognato agli agenti della polizia che sono riusciti a fermare Alberto. Aveva ancora il coltello in mano e i vestiti imbrattati di sangue. Intanto però Alice spirava tra le braccia del marito. Alberto è stato arrestato in flagranza di reato per omicidio volontario. Il pm di turno sta valutando se contestare anche la premeditazione.

Alberto, disoccupato, aveva già discusso negli ultimi mesi animatamente con la sorella e i rapporti tra i due erano tesi. Lei non voleva più dargli soldi e lui, di fronte all’ennesimo rifiuto, l’ha uccisa con diciassette coltellate. Discussioni erano avvenute anche con i genitori per lo stesso motivo. Secondo alcune testimonianze aveva problemi di instabilità mentale. Ma nulla avrebbe potuto far presagire una simile tragedia, nessuna denuncia formale. Nessun precedente, a parte una guida in stato di ebbrezza risalente a dicembre 2020, e soprattutto nessuna segnalazione in procura per stalking, minacce o altro che avrebbero potuto far scattare il divieto di avvicinamento ai familiari.

Alberto Scagni, nonostante i post ossessivi nei confronti della sorella Alice, del cognato Gianluca e di altri, e nonostante le frasi deliranti con cui riempiva i suoi profili social, era di fatto una persona sconosciuta alle forze dell’ordine, alla procura e ai servizi di salute mentale. Qualche giorno fa Scagni avrebbe cercato di dare fuoco alla porta di casa della nonna, che abita nello stesso stabile. La donna avrebbe rifiutato di dargli del denaro. Negli ultimi giorni altri segnali inquietanti, immagini di coltelli, addirittura una in cui il coltello – l’arma del delitto – si vede alle spalle dello stesso Scagni, in un selfie. Un disagio psicofisico che, recentemente, aveva portato il 42enne a pensare di essere spiato. Tra i documenti postati la relazione di un tecnico chiamato a escludere la presenza di microcamere nella abitazione dell’uomo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

"Mia figlia Alice uccisa dal fratello. E lo Stato ci sta negando la verità". Redazione l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

La richiesta: divulgare le telefonate di allarme della famiglia

La madre di Alice Scagni, la donna di 34 anni accoltellata e uccisa sotto casa a Quinto dal fratello Alberto, 42 anni, la sera dell'1 maggio scorso a Genova, ha scritto al procuratore del capoluogo ligure una lettera dura in cui chiede di divulgare le telefonate in cui i familiari chiedevano aiuto per curare Alberto.

La lettera è stata affidata al Secolo XIX, la Stampa e la Repubblica edizione di Genova. «Ho visto in modo prepotente e spietato insorgere la malattia in Alberto e progredire in modo inesorabile alimentata proprio dall'amore che aveva per sua sorella con la quale aveva sempre avuto un rapporto speciale - si legge nella missiva di Antonella Zarri, madre della vittima e dell'assassino -. Ho cercato in tutti i modi che conoscevo di arginare quella malattia che mi spaventava sempre di più fino a non riconoscere più mio figlio. Abbiamo cercato aiuto nelle istituzioni. Ci siamo imbattuti in una fredda e ignorante burocrazia. Indolente ma prepotente nel suo reiterato e pigro rifiuto di farsi carico del proprio ruolo di garanzia ed aiuto verso i cittadini in difficoltà».

Spiega di non essere stata ascoltata da quanti avrebbero potuto aiutare lei e i sui figli: «Abbiamo chiesto a chi doveva e ne aveva il potere di fermarlo e di curarlo. Quelle telefonate sono state registrate e sono agli atti del fascicolo. Perché ce le nega?»

Il procuratore risponde: «Daremo i file più avanti. Ora l'inchiesta è su altri aspetti».

Antonella Zarri teme che presto il caso uscirà dall'interesse della cronaca e sarà dimenticato. «Ho l'atroce sospetto che l'unico motivo per il quale non mi vengono date è quello di far calare il silenzio su ciò che è accaduto - incalza ancora assistita dall'avvocato Fabio Anselmo -. Il procedimento è contro ignoti, mi dicono, ma io so perfettamente chi sono gli ignoti, li ricordo bene ad uno ad uno. So che questo potrebbe consentire a che rimanga aperto nel limbo per anni. L'inchiesta è su altri aspetti? Forse mia figlia Alice è stata uccisa da altri e non da suo fratello? Io dico da madre alla quale sono stati uccisi due figli: abbiate il coraggio di rendere pubblico il drammatico dialogo di un genitore che invoca disperatamente aiuto sapendo che il proprio figlio, delirante, impazzito, sta per uccidere sua sorella, e la risposta delle forze dell'ordine. O forse la vergogna di qualcuno deve essere protetta?»

In questi giorni è in corso la perizia psichiatrica sul figlio Alberto. La madre, però, è certa che le indagini della procura di Genova sull'omicidio avrebbero «un pregiudizio difensivo». Un'accusa messa nero su bianco tre giorni fa sul un documento consegnato nei giorni scorsi al procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati, che coordina le indagini della squadra mobile sulle presunte omissioni negli interventi da parte delle pattuglie della polizia nei giorni precedenti al delitto. «Non sarebbero intervenute in tempo nonostante le ripetute richieste» e secondo la donna anche il servizio di igiene mentale che avrebbe non avrebbe preso in carico il figlio.

«C'è un clima ostile, un pregiudizio da parte del consulente del pm nell'escludere responsabilità altrui - sottolinea ancora -. Con questi presupposti pare difficile far riconoscere anche solo la seminfermità mentale ad Alberto».

Danilo D'Anna per “La Stampa” il 4 maggio 2022.

«Alberto si poteva fermare prima, e Alice poteva essere ancora viva. Invece, nonostante io abbia dato alla società due figli, per l'incuria e l'incapacità delle forze dell'ordine e del servizio di salute mentale li ho persi entrambi». Antonella Zarri, dirigente di filiale della banca Carige e madre di Alice e Alberto Scagni, vittima e carnefice del delitto di Quinto, non perde mai il filo. Si interrompe solo per scacciare la voglia di piangere che l'assale quando ripercorre i mesi che hanno devastato la sua famiglia. 

Una tragedia annunciata?

«Negli ultimi quattro giorni c'è stata una escalation. Abbiamo chiamato il 112 cinque volte supplicando attenzione, ma nessuno è intervenuto. Domenica alle 13.30 mio figlio Alberto ci ha fatto due chiamate di minacce e così abbiamo richiamato. Una l'abbiamo pure registrata e fatta ascoltare alla polizia. Volevamo che le pattuglie andassero sotto casa di Alice. Ci hanno risposto di fare denuncia il lunedì e che non c'erano volanti da mandare (la questura interpellata dal questo giornale non commenta perché c'è un'indagine in corso, ndr). Dovevano chiedere un trattamento sanitario obbligatorio». 

Perché volevate proteggere proprio Alice, Alberto voleva colpire lei?

«Da genitori pensiamo prima ai nostri figli. Avevamo messo in conto di fare la fine di quelli di Benno (il ragazzo altoatesino con problemi psichiatrici che nel 2021 ha ucciso mamma e papà, ndr), non pensavamo che invece a perdere la vita sarebbe stata la nostra piccolina (si commuove). Alice amava Alberto, ha seguito ogni passo della sua malattia e si arrabbiava me quando vedeva che i dottori non lo curavano. Ma anche Alberto voleva bene ad Alice». 

Quindi i motivi dell'omicidio non sono economici?

«La richiesta di soldi è l'innesco della furia di Alberto. Si figuri se Alice poteva rifiutarglieli. Non pensava che il fratello potesse prendersela con lei, ma noi glielo avevamo spiegato che ci aveva minacciati tutti. È scesa con il cane nonostante il marito, Gianluca, le avesse detto di non farlo perché poteva esserci Alberto. Alice temeva che lui potesse fare la fine che ha fatto lei. Non può immaginare quale sia il nostro senso di colpa.

Ma devono provarlo anche quelli che per lavoro potevano evitare che una ragazza di 34 anni finisse uccisa per mano di un fratello che doveva essere aiutato. Parlo delle forze dell'ordine e del servizio di salute mentale. Alberto aveva bisogno di aiuto psichiatrico, ma quando abbiamo chiamato l'igiene mentale ci hanno dato appuntamento dopo un mese. Su mio sollecito ci avevano convocati il 22 aprile per annunciarci la visita il 2 maggio. Alberto doveva essere fermato. Le istituzioni ci hanno abbandonati». 

Cosa avrebbero dovuto fare, secondo lei?

«Avrebbero dovuto ascoltarci. I vigili urbani mi hanno tenuto mezz' ora al telefono una volta. Quando poi hanno suonato alla porta di mio figlio se la sono sbrigata in un minuto. Ma la cosa che più mi ferisce è la frase che hanno pronunciato i due agenti della volante intervenuta il 30 aprile sotto casa mia perché Alberto era venuto a minacciarmi. Mi hanno detto "non famola tragica". La tragedia c'è stata anche per questo atteggiamento delle forze dell'ordine. Solo il sangue di mia figlia ha dato un peso alle nostre parole. Andrò a fondo a questa cosa».

La porta della nonna bruciata non era una prova?

«Non poteva che essere stato lui. Ma la polizia non ha potuto dimostrare che ad appiccare il rogo fosse stato mio figlio. Mi sono rivolta ai carabinieri, ma la storia non è cambiata. Solo la vigilanza privata, che ringrazio, ha sorvegliato quando l'abbiamo contattata per quelle porte prese a colpi». 

Scusi la domanda: quali sono ora i sentimenti verso vostro figlio?

«Alberto è nostro figlio sempre e comunque. Io ho partorito un bambino, non un assassino. È una persona che ha fatto una cosa che non riesco neppure a definire, una cosa atroce. Deve avere la pena che merita, e l'avrà. I suoi genitori saranno accanto a lui. Però ora le istituzioni lo hanno in mano e possono, anzi devono, curarlo. Ha bisogno di un sostegno psichiatrico da quando era un bambino, forse dopo questa storia potrà ottenerlo.

Soffriva di crisi epilettiche e sono state queste a lungo andare a creare i disturbi che ha avuto da grande. Quelli che lo hanno spinto da Alice. Ma mai nessun medico mi ha detto cosa poteva succedere. Alice voleva bene ad Alberto anche per questa sua fragilità, lo adorava. Questa storia mi ha portato via due figli ma forse potrà essere da insegnamento affinché nessuna faccia la fine di Alice e quella di Alberto».

Donna uccisa a Genova dal fratello: aperta un'inchiesta per omissione d'atti d'ufficio e di denuncia. La Stampa il 5 maggio 2022.

La Procura di Genova ha aperto un'inchiesta per omissione d'atti d'ufficio e omissione di denuncia dopo che la mamma di Alice Scagni, la donna di 34 anni uccisa domenica sera dal fratello Alberto, ha ribadito ieri davanti al sostituto procuratore Paola Crispo le accuse nei confronti delle forze dell'ordine che avrebbero sottovalutato le richieste di intervento da parte dei familiari. Antonella Zarri, invitata e ripercorrere i giorni che hanno preceduto la morte di Alice avrebbe spiegato di aver avuto contatti almeno per 5 volte con le forze dell'ordine (volanti, carabinieri e polizia locale) tra il 22 aprile e il 1 maggio per segnalare lo stato di alterazione del figlio. Il fascicolo è stato aperto contro ignoti. La squadra mobile ieri aveva inviato al 112 la richiesta di acquisizione delle chiamate ricevute nei giorni e negli orari indicati dalla donna ma nelle prossime ora il pm Crispo sentirà come persone informate sui fatti gli operatori in servizio al centralino, i funzionari responsabili e anche gli agenti intervenuti, come nel caso del tentativo di incendio del portone della nonna di Scagni avvenuto il 30 maggio intorno alle 19.

Alice Scagni, esposto dei genitori contro forze dell’ordine e servizi sociali: «Potevano salvarla». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

L’ipotesi di reato formulata nella denuncia è «morte come conseguenza di omissione dolosa». A difendere la famiglia è Fabio Anselmo, lo stesso avvocato dei casi Cucchi e Aldrovandi. Gli sms della 34enne alla madre: «Mio fratello non ragiona, scappiamo». 

«Morte come conseguenza di omissione dolosa». È il reato ipotizzato dai genitori di Alice Scagni — la donna di 34 anni uccisa dal fratello Alberto, a Genova, lo scorso 1 maggio — che martedì, assistiti dall’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che segue i casi delle morti di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi — nella denuncia presentata all’autorità giudiziaria. L’esposto ripercorre date e fatti che hanno preceduto il delitto e punta il dito su presunte mancanze, da parte delle forze dell’ordine e dei servizi sociali, negli interventi, sia con la forza pubblica e sia sanitari, a tutela della donna uccisa.

Nei giorni precedenti il delitto, Graziano e Antonella Scagni avevano più volte segnalato «l’ingravescenza della malattia psichiatrica» di Alberto ed era stata riconosciuta «l’estrema pericolosità di tale evoluzione patologica». Una «storia nota al Dipartimento di salute mentale della Asl 3 così come erano stati segnalati alle forze dell’ordine i ripetuti comportamenti aggressivi del 42enne. Per stare agli episodi delle 48 ore precedenti all’omicidio: l’incendio della porta di casa della nonna per il quale entrambe sospettano Alberto, residente nella stessa palazzina. Poi l’irruzione intimidatoria nell’appartamento dei genitori (30 aprile) e le due telefonate di minaccia che lo stesso Alberto — 42 anni, sempre più incontrollabile — ha fatto proprio la mattina dell’1 maggio al padre, Graziano.

Parliamo di quella terribile chiamata di cui c’è anche la registrazione messa online sulla pagina che Antonella ha su Facebook, «Giustizia per 2 figli rubati». Alberto grida: «Se tra 5 minuti non ho i soldi sul conto... lo sai stasera dove sono tuo genero e tua figlia?». Poi il clic che tronca l’avvertimento. Sulle contestazioni mosse dalla famiglia, anche la Procura ha aperto un fascicolo parallelo a quello dell’omicidio.

Alice uccisa dal fratello Alberto, la famiglia presenta un esposto contro la polizia. Giuseppe Filetto su La Repubblica il 6 Settembre 2022.  

Secondo il padre Graziano Scagni e la mamma Antonella Zarri, vi sarebbe stata una grave omissione da parte delle istituzioni di Genova che non sarebbero intervenute per fermare il figlio

Una grave omissione da parte delle forze dell'ordine più volte chiamate a fermare Alberto Scagni, il 43enne che la sera del primo maggio scorso uccise la sorella Alice con 19 coltellate. Una omissione che secondo l'avvocato Fabio Anselmo (il difensore del caso Cucchi) si inquadrerebbe nell'articolo 586 del Codice Penale: la morte conseguenza non voluta dell'omissione dolosa. 

L'esposto è stato inoltrato alla Procura della Repubblica nella giornata di oggi dalla famiglia Scagni. Fin dai giorni successivi all'omicidio di Quinto i genitori di Alice ed Alberto hanno denunciato il mancato intervento. Seppure si fossero rivolti prima ai servizi sociali facendo presente la situazione di depressione psicologica del figlio, sia telefonando anche lo stesso giorno del delitto al "112", facendo presente a quanto pare le minacce proferite da Alberto e la pericolosità.

Nelle scorse settimane la famiglia e il suo avvocato hanno pubblicato le telefonate e le chat minacciose intercorse tra Alberto, la sorella e la famiglia. Nello stesso tempo la Procura della Repubblica ha confermato l'apertura di un fascicolo parallelo a quello dell'omicidio, puntando l'attenzione sul comportamento della polizia ed anche sei servizi sociali.  

Tommaso Fregatti e Matteo Indice per “La Stampa” il 6 maggio 2022.

«Se non mi date i soldi vi taglio la gola». In meno di 24 ore per tre volte Alberto Scagni, il disoccupato di 42 anni che domenica sera ha ucciso a coltellate la sorella a Genova, ha minacciato di morte i familiari per avere denaro. 

Ma nonostante le richieste d'aiuto dei genitori alla polizia, nessuno è intervenuto. Il 30 aprile, il giorno prima che Alice venga massacrata, la madre Antonella viene sentita a verbale per almeno un'ora dagli agenti, nella sua casa di Sampierdarena.

A loro denuncia che il figlio si era introdotto furtivamente nella sua abitazione e l'aveva minacciata per ottenere soldi. 

«Mi raccomando - dice la donna agli inquirenti - non ci fate fare la fine dei genitori di Benno Neumar (il trentunenne altoatesino che nel gennaio 2021 uccise mamma e papà occultando i cadaveri, ndr)». L'agente risponde: «Signora, non famola tragica». L'esistenza di questo verbale viene svelata dal giudice Paola Faggioni nell'ordinanza di custodia cautelare con cui convalida l'arresto di Alberto Scagni, ed è alla base dell'inchiesta parallela che la Procura della Repubblica di Genova ha aperto ieri mattina per il mancato intervento delle forze dell'ordine. La maggiore prevenzione, in base al resoconto dei genitori di Alice, avrebbe potuto salvare la vita della figlia. 

Il procuratore Francesco Pinto e il sostituto Paola Crispo ipotizzano in questo filone due reati gravi: omissione di atti d'ufficio e omissione di denuncia di polizia giudiziaria. Quest' ultima accusa, secondo quanto trapela, riguarda proprio il verbale di sommarie informazioni reso dalla mamma. 

 Un documento nel quale, insiste la Procura, si profila il reato di estorsione, per cui è prevista l'immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, ma il verbale della donna è stato acquisito agli atti solo successivamente all'omicidio e all'arresto di Scagni.

Per quanto riguarda invece l'addebito di omissione d'atti d'ufficio nel mirino c'è la telefonata che domenica, esattamente sei ore prima del delitto, Enzo Graziano Scagni e la moglie Antonella hanno fatto al numero unico di emergenza 112, che li ha messi poi in contatto con la centrale operativa della polizia. 

I due hanno spiegato all'operatore di aver ricevuto poco prima dal figlio Alberto due drammatiche chiamate, registrate dai genitori stessi, in cui il killer «aveva manifestato intenti omicidiari nei confronti dei familiari e in particolare della figlia e del genero (parole del giudice Faggioni, ndr)».

L'assassino, sempre sulla base di quanto denunciato dai parenti, era stato piuttosto preciso e violento. Spiegando a mamma e papà che se non gli avessero dato subito dei soldi sarebbe andato a cercarli per tagliargli la gola. I due avevano chiesto che la polizia inviasse sul posto e davanti all'abitazione della figlia le volanti della questura, per un controllo. 

E però la polizia aveva ritenuto quella segnalazione una minaccia non particolarmente pericolosa, evitando quindi di inviare auto.

Alice Scagni uccisa dal fratello, la madre: «Colpendo lei ha voluto uccidere tutta la nostra famiglia». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2022.

Il delitto la sera del primo maggio. «È stata una tragedia annunciata. Fino a poche ore prima ho chiamato le forze dell’ordine per dire che mio figlio era diventato un pericolo, che poteva colpire chiunque. Ma nessuno è intervenuto. Alberto non so più se è mio figlio». 

«Alice era il cuore della nostra famiglia. Era una persona speciale e lui sapeva perfettamente che uccidendo lei avrebbe ucciso tutti noi». Antonella Zarri è la mamma di Alice Scagni, 34 anni, accoltellata dal fratello Alberto la sera del primo maggio a Genova. Una tragedia che ha travolto la sua famiglia e il cui bilancio poteva essere ancor più pesante.

Pensa addirittura a un altro epilogo?

«Mio figlio era arrabbiato col mondo. Diceva che si vergognava di respirare la stessa aria di sette miliardi di cogl… Per questo avrebbe ucciso chiunque. Abbiamo registrato le sue telefonate di minacce a tutta la nostra famiglia. Nella sua intelligenza omicida ha colpito una sola persona per disintegrare la vita di tutti. Se poi quella sera non avesse trovato sua sorella forse avrebbe ucciso la prima donna che incontrava per strada».

Qual era il rapporto tra loro due?

«Sempre appiccicati, una grande complicità. Erano i confessori l’una dell’altro. Per questo lei quella sera è scesa in strada tranquilla. Suo marito le aveva detto di stare attenta a portare fuori il cane da sola. Ma lei aveva risposto: “a me Alberto non farebbe mai del male”»

Lei come ha saputo?

«Mi ha chiamato la mia consuocera dicendomi che il cane di Alice era sotto il portone da solo. Ho capito subito»

Ma non vi eravate mai accorti dei problemi di Alberto?

«Lui ha cominciato a essere socialmente pericoloso negli ultimi due mesi. Prima era una persona della quale non condividevo molte cose, ma non pericoloso. Viveva da solo, ma avremmo denunciato prima se ci fossimo resi conto della sua pericolosità. E quando ce ne siamo resi conto lo abbiamo segnalato».

Segnalazioni che a quanto pare non sono servite a nulla

«Nelle due settimane precedenti abbiamo avvertito chiunque. La stessa mattina del delitto abbiamo chiamato in Questura dicendo che avevamo registrato le sue telefonate di minacce. Non le hanno volute ascoltare. Alle 13.30 abbiamo chiamato il 112. Mi hanno detto che era festivo e, se volevo, potevo fare denuncia l’indomani. Li ho implorati di mandare una volante sotto casa di mia figlia perché le minacce erano chiare. Solo dopo la sua morte hanno ascoltato le telefonate. Si è capito che era un gesto premeditato e hanno aperto un’indagine. Ma anche giorni prima avevamo chiamato la polizia perché Alberto aveva dato fuoco alla porta di casa di mia madre. Ho detto agli agenti: “guardate che noi facciamo la fine dei genitori di Benno”. E uno di loro ha replicato: “signora non la famo complicata”. Insomma chi si occupa della sicurezza dei cittadini non ha saputo evitare una tragedia annunciata per mano di una persona che era diventata socialmente pericolosa».

Ma Alberto è sempre suo figlio... Chi lo assiste ora?

«Sempre mio figlio, fino a un certo punto. Voglio prima capire se era diventato un parassita della società o una persona malata da curare. Finché non lo saprò sospendo il giudizio. Abbia pazienza! Comunque ha un suo avvocato ed è ampiamente tutelato nei suoi diritti. Ma non mi chieda ora cosa penso di lui»

Com’è cambiata la vostra vita?

«Immagini, io ero in pensione da appena un mese. E quel giorno proprio Alice mi aveva regalato una maglietta con la scritta: “Non sono in pensione, sono una nonna professionista”. (Antonella non trattiene le lacrime). Mi organizzavo per fare la nonna a tempo pieno del suo bimbo di appena 14 mesi. Spero che almeno lui non abbia traumi. Al momento sembra tranquillo, ma quando lo prendo in braccio guarda sempre verso la finestra e nessuno mi toglie dalla testa che abbia sentito le urla disperate di sua madre quella sera. Il portone è proprio sotto i loro vetri e lei era appena scesa».

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 6 maggio 2022.

Non dovrebbe mai accadere che un cittadino chieda invano soccorso al 112 per ben cinque volte. È ancora più atroce non essere presi sul serio quando si chiama la forza pubblica perché un familiare sta minacciando di fare una strage tra le mura domestiche. 

Cinque telefonate inascoltate che la Procura di Genova ha deciso di acquisire, per stabilire se ci siano responsabilità in chi ha sottovalutato quelle richieste di aiuto, a cui fatalmente è seguito il massacro di Alice Scagni per mano del fratello Alberto, che pretendeva da lei denaro. 

Nessuno potrà negare che, se la richiesta di intervento fosse stata presa in considerazione, avremmo probabilmente potuto avere un epilogo diverso per quel dramma, culminato nel cadavere di una donna devastata da venti coltellate. 

A chiunque sia capitato per qualunque ragione di chiamare il 112, saprà che chi risponde alla chiamata fa immediatamente delle domande, lo scopo è di individuare il tipo di intervento da attivare, anche però di sfoltire le tante chiamate su cui non è necessario muovere uomini e macchine.

Qui entra in gioco sicuramente l'esperienza della persona che sta al telefono, il suo addestramento, la sua capacità di individuare in poche parole la personalità di chi chiede soccorso e sfrondare le reali emergenze dalle altre richieste che, a volte, possono essere anche suggerite da una percezione alterata del pericolo. 

In termini generali bisognerebbe poi ammettere che non bastano regole d'ingaggio uguali per ogni caso e per ogni territorio del Paese, c'è sempre la probabilità che in una gerarchia di possibili emergenze quello che noi segnaliamo si trovi oltre la disponibilità delle forze operative in quel momento, in quel quartiere, in quella città.

Nella specifica situazione del delitto di Genova però entra in gioco la possibile necessità di una formazione specifica su quello che riguarda il possibile degenerare di uno stato mentale, in fase di precario equilibrio. Il tema è sicuramente ingrato da trattare, però non possiamo tirarci indietro, anzi è proprio partendo dall'iniziativa di estrema sensibilità dei procuratori genovesi che dobbiamo iniziare a porci delle domande che, forse, prima evitavamo di farci. 

Esiste uno strumento tecnico di individuazione di campanelli d'allarme, che annunciano un cervello in prossimità di compiere un gesto parossistico? Di solito i segnali premonitori di un femminicidio li troviamo riassunti a posteriori nelle cronache che lo raccontano, una volta tanto non sarebbe possibile studiare come valutarli in anticipo?

Magari chiamando in causa chi seriamente studia il cervello umano basandosi su evidenze scientifiche. Sia chiaro, per formare in maniera specifica chi deve decidere in pochi istanti un intervento, decifrando il turbinio di segnali che precedono un delitto, serve coinvolgere clinici con comprovata competenza nel campo della psichiatria e neurologia. Chi pensasse di risolverla con la consulenza dei volti noti del giro dei talk show, perderebbe l'occasione che questa brutta storia ci fornisce per essere più civili.

Gabriella Mazzeo per fanpage.it il 25 agosto 2022.

"E allora? Voglio i soldi per mangiare!". Inizia così l'ultima telefonata che Alberto Scagni ha fatto a suo padre il primo maggio di quest'anno, il giorno in cui il 42enne ha ucciso la sorella Alice. 

"Io sono un uomo a differenza di 7 miliardi di persone che respirano la stessa aria che respiro io" continua Scagni dietro la cornetta. 

La conversazione continua con decine di insulti rivolti al padre. Poi il 42enne si riferisce al genero, Gianluca Calzona, e a sua sorella. "Stasera Gianluca e tua figlia sai dove sono?" chiede urlando al padre più di una volta.

Negli audio pubblicati in esclusiva dal quotidiano La Repubblica, l'uomo è profondamente scosso e decide di allertare il 112. Quando chiama le forze dell'ordine, spiega di essere preoccupato per l'incolumità di sua figlia e del genero. 

La polizia che raccoglie la sua telefonata non ritiene però vi sia un pericolo imminente.  

Alle 22 di quel giorno la 34enne è stata massacrata a coltellate sotto casa dal fratello, a Genova. Il killer è stato arrestato poche ore dopo: al momento del fermo alcune delle evidenze contro di lui sono pubbliche da ore sulle sue pagine social. 

Il 42enne infatti aveva già postato alcune foto con l'arma del delitto sullo sfondo.

La tragedia si è trasformata in un duro confronto tra i genitori di Alberto e Alice e le autorità: i coniugi Scagni ritengono che lo Stato non abbia preso seriamente gli allarmi da loro lanciati. Antonella Zarri, madre della 34enne massacrata circa 3 mesi fa ha puntato il dito contro i poliziotti. 

"Quando ho chiesto disperatamente di tenere sotto controllo Alberto, loro mi hanno risposto: "Signora, non facciamola tragica". Poi mi hanno detto che non c'erano volanti da mandare sotto casa nostra e quella di Alice". 

I genitori dei due fratelli si sono affidati all'avvocato Fabio Anselmo, già legale di Ilaria Cucchi e dei genitori di Federico Aldrovandi. 

"La Procura – ha spiegato Anselmo in una recente intervista – ci impedisce di entrare nel procedimento sulle omissioni. Mi chiedo: è possibile che si premuri di dire ai giornalisti che esiste un'indagine su quanto non è stato fatto prima dell'omicidio, ma che poi di fatto usi ogni mezzo per tenere fuori dagli accertamenti i genitori della vittima?". 

Genova, la telefonata dell'assassino al padre: "Lo sai stasera dove sono Gianluca e tua figlia?". Il 112 minimizzò e Alice Scagni venne uccisa dal fratello. La Repubblica il 25 Agosto 2022

“Stasera Gianluca e tua figlia sai dove sono? Sai dove cazzo sono?” E’ il primo maggio di quest’anno e Alberto Scagni, 42 anni, un uomo che da alcuni mesi manifesta evidenti segni di disagio mentale telefona al padre. Nemmeno un minuto di una valanga di offese, insulti, richieste di danaro che si conclude con quella frase che  terrorizza il genitore che decide subito di allertare il 112 perché teme per la vita di sua figlia Alice e di suo genero Gianluca Calzona. Ma la polizia che raccoglie la sua telefonata non ritiene vi sia un pericolo imminente.

Alle 22 di quella sera Alice Scagni 34 anni, madre di un bimbo, viene massacrata a coltellate sotto casa dal fratello. Questa tragedia si è trasformata da alcune settimane in un duro confronto tra i genitori di Alberto e Alice e le autorità di polizia, sanità e magistratura. I genitori accusano la polizia di aver sottovalutato i loro allarmi. Qualcosa di più. Antonella Zarri, la madre ha detto che quel giorno alla loro telefonata venne risposto così: «Quando a due poliziotti ho detto "vi supplico, tenetelo sotto controllo", mi hanno risposto " signo", non facciamola tragica". Poi mi hanno detto che non c'erano Volanti da mandare a sorvegliare casa nostra e di Alice». Alle dure accuse dei genitori, che si sono affidati all’avvocato Fabio Anselmo, già legale di Ilaria Cucchi e dei genitori di Federico Aldrovandi, la questura e la procura hanno sempre risposto che verranno svolte tutte le indagini necessarie a capire se ci sia stata sottovalutazione ma hanno anche sottolineato come le procedure in assenza di precise denunce non prevedessero interventi contenitivi preventivi. Di Marco Preve

Giulia Mietta per Il "Corriere della Sera" il 27 agosto 2022.

«Lo sai stasera dove sono Gianluca e tua figlia? Se non trovo i soldi sul conto tra 5 minuti, lo sai dove ca... sono?». Si chiude così l'ultima, delirante, telefonata fatta da Alberto Scagni, 42 anni, a suo padre. È il primo maggio scorso. Qualche ora dopo Alberto andrà sotto casa di sua sorella Alice, 34 anni, madre di un bambino di un anno, la convincerà a scendere in strada e la ucciderà colpendola con diciassette coltellate. 

Ma tra quella telefonata e il delitto c'è un'altra chiamata «chiave»: quella fatta dai genitori di Alice e Alberto al 112, per chiedere di intervenire, di bloccare la follia del figlio prima che sia troppo tardi. La risposta che avranno - hanno raccontato più volte - è stata il silenzio. Se non addirittura lo scherno: «Signo', non famola tragica», una delle frasi rimbalzate dal centralino.

Sono mesi che la famiglia Scagni chiede che la Procura diffonda le telefonate con le richieste di aiuto alle forze dell'ordine. Ed è anche per questo che la signora Antonella Zarri, madre di Alice, ha deciso di pubblicare sul profilo social «Giustizia per due figli rubati, Alice e Alberto» l'audio di questa telefonata. 

L'ultima. «Oh Allora - urla Alberto -. I soldi per mangiare, io sono un uomo a differenza di 7 miliardi di persone che stanno sulla terra e respirano l'aria che respiro io e mi fa schifo pensare che respiro la stessa aria». E poi insulti e imprecazioni. Fino a minacciare l'inimmaginabile.

Anzi no. «Una tragedia annunciata, in un crescendo durato almeno dieci giorni di pesanti indizi di una follia che stava raggiungendo l'apice in mio figlio. Eppure, nonostante tutte le segnalazioni, abbiamo visto solo inerzia, mancanza di supporto, nessuna azione preventiva per fermarlo», dice Antonella Zarri. 

Assistiti da Fabio Anselmo, l'avvocato dei casi Cucchi e Aldrovandi, i genitori della vittima e del carnefice non vogliono che siano tralasciate le eventuali responsabilità di forze dell'ordine, igiene mentale e altre istituzioni. Sul delitto sono aperti due fascicoli, uno per omicidio volontario, l'altro per omissione di atti d'ufficio proprio per capire se ci furono sottovalutazioni.

Quanto alla scelta della Procura di non diffondere gli audio, questa ha più volte detto che, conclusa la fase di incidente probatorio, i file saranno resi noti e che non esiste pregiudizio nella conduzione delle indagini. 

Ma ad Antonella Zarri questa rassicurazione non basta. «Il giorno in cui Alice è morta ci è stato detto che non c'era neppure una volante disponibile, ma poi c'erano 30 uomini in divisa schierati attorno al suo corpo senza vita, quando tutto era ormai compiuto». Dalla questura è stato riferito che nei confronti di Alberto Scagni non c'erano denunce ed è anche per questo che non sono scattati provvedimenti come un divieto di avvicinarsi a sua sorella.

Anche la sanità pubblica si era mossa con tempi troppo lenti rispetto al precipitare delle condizioni di Alberto: la visita presso l'igiene mentale era stata fissata per il giorno dopo l'omicidio. Il dolore di Antonella, intenzionata a fare più rumore possibile, è quello di chi ha perso una figlia, ma anche un figlio. «Alberto è e sarà per sempre mio figlio, io e suo padre abbiamo assistito impotenti e soli alla sopraffazione della sua malattia, lui e Alice si volevano bene». Nei prossimi giorni è atteso il risultato della perizia psichiatrica sull'omicida, che ora è in carcere.

Genova, caso Alice Scagni: due poliziotti e un medico indagati per omissioni d’ufficio. Giulia Mietta su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

La decisione dopo la denuncia della famiglia della ragazza (difesa dallo stesso avvocato del caso Cucchi) che fu uccisa il 1 maggio scorso dal fratello Alberto. «Un passo verso la verità». Secondo l’accusa le forze dell’ordine non sarebbero intervenute a difesa della giovane, nonostante le prolungate richieste di tutela

Due poliziotti e un medico della salute mentale sono indagati dalla procura di Genova per omissioni di atti d’ufficio e omissione di denuncia nell’inchiesta collegata a quella per l’omicidio di Alice Scagni, uccisa il 1° maggio scorso dal fratello, Alberto Scagni, davanti a casa della donna. «Signora, non facciamola tragica» era stata una delle risposte date dal centralino della questura ai genitori che, il giorno stesso, avevano chiamato la polizia per chiedere aiuto dopo alcune minacce ricevute dal figlio. «Per noi avere tre indagati equivale a un avanzamento verso la verità ma questa ci provoca ancora più dolore — dice Antonella Zarri, madre di Alice e Alberto — perché ci conforta sul fatto che la tragedia avrebbe potuto essere evitata».

Il dossier della Procura

Il fascicolo per omissione era stato aperto dalla procura di Genova quando i familiari di vittima e omicida, sentiti dalla squadra mobile e dai pm, avevano accusato la polizia e il centro di salute mentale dell’Asl 3 di non aver preso sul serio diversi campanelli d’allarme. «Lo sai stasera dove sono Gianluca e tua figlia? Se non trovo i soldi sul conto tra 5 minuti, lo sai dove cazzo sono?», aveva urlato Alberto Scagni, 42 anni, al padre. Motivo per cui era stato chiamato il numero d’emergenza. La polizia aveva risposto agli Scagni che in quel momento non c’erano volanti disponibili e che se la minaccia non era immediata non potevano inviare nessuno.

Le critiche

Non solo la telefonata al 112 il giorno del delitto ma anche l’incendio appiccato poche ore prima alla porta di casa della nonna. Il giorno successivo all’omicidio avrebbe inoltre dovuto svolgersi una visita medica di Scagni per avviare un percorso di cura presso l’igiene mentale. «Adesso vogliamo essere riconosciuti come parte offesa — continua Antonella Zarri — e poter avere accesso alla carte, finora abbiamo saputo tutto attraverso i giornali, inoltre vogliamo poter fare ascoltare le registrazioni delle telefonate alla polizia e le risposte che ci sono state date». Anche sui tempi i familiari di Alice e Alberto Scagni — assistiti da Fabio Anselmo, già legale della famiglia Cucchi — sono critici: «Sei mesi ragionare su ciò che era lapalissiano già a giugno per noi è comunque molto un periodo di tempo molto lungo».

Matteo Indice per “la Stampa” il 15 novembre 2022.

Sul registro degli indagati vengono iscritti i nomi di tre persone, due poliziotti e un medico del centro di Salute mentale. L'accusa è quella d'aver sottovalutato gli allarmi della famiglia sulla pericolosità di Alberto Scagni, l'uomo di 42 anni che il 1° maggio ha ucciso la sorella Alice, 34 anni, sotto la casa di quest' ultima a Genova Quinto. Nei giorni precedenti i genitori si erano più volte messi in contatto con agenti e psichiatri, ribadendo che il figlio era fuori controllo e andava fermato.

L'addebito per gli inquisiti è omissione di atti d'ufficio e omessa denuncia, il pm Paola Crispo ha circoscritto i nomi dopo aver ascoltato una serie di testimoni ed esaminato varie prove. «Non siamo ancora persone offese per la legge - spiega Antonella Zarri, madre di Alice e Alberto -, ma vedere che la giustizia fa il suo corso ce lo ricorda con dolore amplificato. Il danno per noi sono due figli persi e ho il cuore che è una pietra: ci auguriamo ora trasparenza sugli atti e la possibilità che i nostri diritti possano essere tutelati».

I poliziotti, si conferma in ambienti investigativi, sono nel mirino in primis per l'approccio riduzionista palesato dalla centrale operativa della questura nelle ore di poco antecedenti l'aggressione. E un peso determinante nella svolta all'inchiesta lo ha avuto l'audio della chiamata compiuta da Alberto alle 13,30 del 1° maggio, secondo i familiari una delle prove clou nel certificare l'immobilismo degli inquirenti. 

Il quarantenne, lo conferma la registrazione in mano ai magistrati, farnetica, parla d'una fantomatica ingiustizia ordita dal mondo contro di lui. Dopo aver insultato il padre e avergli chiesto «il denaro per mangiare, uomo di m...», rilancia la frase più inquietante: «Fra 5 minuti io controllo il conto, se non c'ho i soldi stasera Gianluca (Calzona, marito di Alice, ndr) e tua figlia sai dove c... sono, lo sai dove c... sono?».

A quel punto il papà si rivolge a chi gli sta vicino: «Sentito? Gianluca e tua figlia, io chiamo, io chiamo il 112». Sette ore più tardi, Alberto raggiunge la sorella e la strazia. Ed è importante ripercorrere ciò che a proposito di quel colloquio scrive il legale della famiglia, Fabio Anselmo, per capire quanto abbia inciso il file. 

«La seconda, drammatica telefonata del 1° maggio - premette Anselmo in un dossier inviato in procura - dura 16 minuti. Il signor Scagni riferisce la situazione del figlio, il danneggiamento e l'incendio alla porta dell'abitazione della nonna (avvenuti in un immobile del quartiere Sampierdarena, ndr) e le minacce di morte di poco antecedenti. Chiede che venga inviata una pattuglia, ma gli viene opposto un diniego trattandosi d'una giornata di festività, e gli consigliano di formalizzare la denuncia il giorno dopo».

Alla madre, e sempre dalla polizia, era stato replicato inoltre «non famola tragica» quando aveva profilato lo spauracchio che si concretizzasse un caso analogo a quello di Benno Neumair, il trentenne che il 4 gennaio 2021 a Bolzano strangolò i genitori. Diverso è il comportamento costato l'accusa a una dottoressa della Salute mentale. Madre e padre dell'assassino s' erano rivolti a lei con veemenza, dopo alcuni colloqui avvenuti in precedenza, il 28 aprile, tre giorni prima del massacro. E alla loro richiesta di ricoverare Alberto, il medico aveva risposto che prima di disporre un trattamento sanitario obbligatorio (Tso) avrebbe dovuto parlarne con il primario, rimandando ogni decisione. «Ora - precisa l'avvocato Anselmo - auspico che venga contestato il reato di omicidio in conseguenza di altro reato, e cioè delle omissioni».

Fano, Anastasiia Alashri scappata dall’Ucraina e uccisa dall’ex marito. «Ha lottato due volte per la sua libertà». Riccardo Bruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Novembre 2022.

Lei lo aveva denunciato per le botte ed era andata via di casa. Il ritorno per prendere alcuni vestiti, la lite e il delitto. L’uomo, 42 anni, di origini egiziane, è stato fermato alla stazione di Bologna

Il rapporto si era lacerato da tempo, da mesi lei subiva angherie e maltrattamenti. Credeva di mettersi al sicuro andando a denunciare il marito ai carabinieri di Fano. L’aveva fatto venerdì scorso, poi se ne era andata via di casa e si era trasferita da un amico e collega. Domenica mattina è ritornata per prendere dei vestiti, ha incontrato il marito, è scoppiata l’ennesima lite. Lui l’avrebbe colpita più volte con un coltello, uccidendola e poi portando il cadavere in una campagna, lungo il torrente Arzilla. È stata trovata ieri mattina Anastasiia Alashri. Aveva 23 anni, era ucraina, a marzo era arrivata nella Marche da Kiev . Profuga, scappata dalla guerra con il marito, 42 anni, origini egiziane, e il loro figlio di 2 anni.

Da maggio lavorava come cameriera nell’Osteria dalla Peppa, una delle più note della cittadina adriatica. I titolari (i fratelli Martina e Mirco Carloni, presidente della Commissione Agricoltura alla Camera) ieri hanno scritto un breve messaggio pubblicato su Facebook: «Era molto brava e dimostrava grande dedizione per il suo lavoro. Rimarrà sempre nei nostri cuori». E raccontano anche un po’ di lei: «Sappiamo che dava lezioni di pianoforte nel tempo libero perché era la sua grande passione». Il marito invece aveva trovato lavoro in una pasticceria, per la quale faceva le consegne. Dopo il delitto ha provato a scappare, è stato fermato domenica sera alla stazione di Bologna.

A dare l’allarme era stato qualche ora prima l’amico di Anastasiia. Di lei non aveva più notizie, ha raccontato dei contrasti con il marito, della decisione di separarsi. I carabinieri della Compagnia di Fano e del Reparto Operativo del comando provinciale di Pesaro e Urbino, guidati dal tenente colonnello Nicola Di Gesare, hanno subito iniziato le ricerche dei due.

Quando il marito è stato rintracciato alla stazione di Bologna, la Procura di Pesaro ha emesso un primo fermo per il reato di maltrattamenti in famiglia. Interrogato, durante la notte ha ammesso di aver ucciso Anastasiia e ha indicato dove si trovava il corpo.

La donna è stata trovata con accanto una borsa. Dentro c’erano degli indumenti, probabilmente quelli che era andata a riprendersi, ma anche due coltelli, che gli investigatori ritengono che «possano avere attinenza» con il delitto. L’uomo è stato rinchiuso nel carcere di Bologna. È stata sequestrata sia l’abitazione che la sua auto, con la quale presumibilmente ha trasportato il cadavere della povera donna.

È «incredibile e spaventoso», è il commento del sindaco del centro marchigiano Massimo Seri. «Sapere che a Fano si è consumata una tale e inaudita violenza verso una giovane donna mi paralizza e mi sconvolge — aggiunge —. E come me è segnata un’intera comunità, che fa del sostegno e del rispetto reciproco i propri principi. Anastasiia aveva trovato qui un luogo ideale per rincorrere i propri sogni e coltivare le proprie ambizioni. Mentre progettava con speranza ed entusiasmo il futuro è rimasta vittima di un’assurda tragedia».

«Anastasia ha provato a chiedere aiuto e con coraggio ha combattuto due volte per la sua libertà e per quella del figlio: prima lasciando il suo paese di origine e poi lasciando il marito violento — è invece la riflessione di Telefono Rosa —. Un caso che ci sottolinea quanto ancora ci sia da fare per prevenire esiti come questo. Pensare ad Anastasia e alla sua forza ci sconvolge e sapere che quel figlio che ha protetto con tutta se stessa resterà da solo, ci addolora. Anastasia doveva vivere. Doveva essere protetta. Anastasia doveva essere libera».

Filippo Fiorini per “La Stampa” il 16 novembre 2022.

Anastasia voleva salvare la piccola famiglia che aveva creato, ma nascondeva a sua madre che Mostafa la maltrattava. Anastasia era stata avvertita dal prete della parrocchia di campagna in cui suonava l'organo alla periferia di Kiev di non sposare Mostafa, così come le aveva già detto anche sua madre, ma Anastasia era innamorata, era incinta, all'epoca aveva solo vent' anni. 

Quando ha visto Mostafa passare da galante a violento, Anastasia ha deciso di lasciarlo, ma è scoppiata la guerra. Il padre di Anastasia è medico ed è andato subito al fronte. Anastasia aveva un figlio piccolo e ha pensato di dover salvare lui, Mostafa lo poteva lasciare dopo. È partita per l'Italia lo stesso 24 febbraio in cui i russi hanno varcato il confine. Mostafa è nato al Cairo nel 1980 e non ha l'obbligo di leva, perciò è partito con lei. 

Mostafa l'ha insultata e umiliata per mesi, ma non l'ha mai picchiata fino al 10 novembre scorso. Il giorno dopo, venerdì 11, lei lo ha denunciato. Sabato 12 era in stazione a Fano e aspettava un treno per Roma, dove degli amici l'avrebbero accolta per proteggerla. Mostafa l'ha chiamata, le ha detto: «Torna, vado via di casa io». Lei si è convinta, aveva un lavoro e un posto dove stare con il suo bimbo e un uomo di cui si fidava. 

Non ha preso quel treno. È tornata nella casa che aveva diviso col marito per 7 mesi domenica 13 alla mattina e, verosimilmente, quello stesso giorno lui l'ha uccisa. 

Quanto emerge dai racconti degli amici della 23enne ucraina, profuga di guerra, divenuta cameriera a Fano dopo essere stata accolta in città dalla Caritas in marzo, aiuta a comprendere per quale motivo l'interrogatorio di convalida, avvenuto ieri pomeriggio nel carcere di Bologna, abbia portato a confermare il fermo per Mostafa Alashri, alias Karam Mahjoub, con l'accusa di essere l'autore del 79esimo femminicidio commesso in Italia quest' anno.

Fonti giudiziarie riportano che l'uomo, arrestato domenica dai Carabinieri in questa città, mentre cercava di fuggire, ha ammesso che tra lui e la ragazza che suonava il piano, insegnava musica, poi diceva «questa per me non è una professione, ma uno stile di vita», c'è stato «solamente un litigio». Non ricorda nulla a proposito delle tre coltellate che ne hanno causato il decesso, né del modo in cui sia arrivata nelle campagne di Fano, morta all'interno di una valigia.

L'avvocato di Alashri non ha rilasciato dichiarazioni. Tuttavia sono molti gli elementi che renderanno difficile sostenere la temporanea infermità mentale: gli amici con cui Anastasia si sfogava ora sono tutti testimoni dell'accusa e raccontano, certi in forma anonima, che lui era verbalmente violento da tempo e che il 10 le aveva messo le mani addosso. Giacomo Tarenzi è uno di questi. Lui e sua sorella Noemi ospitano «gli stranieri che vogliono venire a Roma per vedere Papa Francesco». 

Hanno conosciuto Anastasia così, sono diventati amici. Quando è scoppiata la guerra le hanno offerto ospitalità, ma lei ha preferito Fano: «Sapeva che venendo qui non avremmo tollerato i comportamenti di quell'uomo. Credeva di poter salvare il rapporto». ragiona ora Giacomo, sconvolto.

A Fano, Anastasia era riuscita a muoversi: servizio ai tavoli in osteria, lezioni di pianoforte in una scuola dove ora la ricordano «felice di insegnare ai nostri bimbi». Il marito aveva recentemente trovato lavoro, ma a lungo era rimasto con le mani in mano: «Pigro, non l'aiutava e l'aggrediva quando rientrava». 

Questo lo disse a Giacomo, lo disse a Noemi, quando, dopo averli tranquillizzati sul miglioramento del loro rapporto, aveva poi riferito della ricaduta e delle botte. «Le abbiamo detto di denunciarlo e lasciarlo subito», racconta Noemi, che è passata attraverso una storia simile. 

E così ha fatto Anastasia, ma qualcosa l'ha trattenuta da prendere quel treno: «Eravamo già in stazione ad aspettarla». Ora, suo figlio di due anni, è ospite a casa del titolare dell'Osteria in cui lei lavorava. Aspetta la nonna in arrivo dall'Ucraina, senza poter comprendere perché la madre non torna e il padre è in arresto.

Silvia Vada, la giornalista Mediaset umiliata in tribunale: "La prima domanda della giudice". Libero Quotidiano il 09 maggio 2022

Il calvario di Silvia Vada in tribunale. La giornalista, storico volto dei tg Mediaset e di Studio Aperto in particolare, per cui ha seguito alcune delle vicende di cronaca nera più famose e chiacchierate d'Italia, ha raccontato alla Stampa la sua guerra legale con l'imprenditore David Gallina, tra denunce di maltrattamenti, stalking, violazione di corrispondenza e falsificazione di email. Sette anni dopo, è caduto tutto in prescrizione: "Ho sempre pensato che la giustizia arriva, anche se lentamente. Busso alla porta delle persone per raccontare le loro storie e nella giustizia consiglio di riporre fiducia. Poi è toccato a me e ho dovuto ricredermi".

La Vada si è sentita "sconfitta, impotente e delusa", spiega, umiliata dalla giudice in aula: "Ha esordito con una serie di domande: 'Cosa volete dopo tutto questo tempo? Possibile che non si possa trovare un accordo?'. Voglio giustizia. Dopo tutti questi anni mi pare evidente che la mia è una speranza vana. A prescindere dall'esito, mi sono sentita presa in giro". Tutto nasce dal rapporto con Gallina, nato nel 2003 e ufficializzato nel 2009 con il matrimonio. "L'ho amato tantissimo e il sentimento è stato reciproco". Poi tutto è precipitato: "Nel 2015 scopro situazioni spiacevoli. Non potevo continuare quel matrimonio". Da qui la denuncia della giornalista, che dice di aver ricevuto messaggi e telefonate "ossessive. Ovunque andassi, me lo ritrovavo davanti. Sapeva sempre dov'ero, in qualsiasi momento. Andavo dal parrucchiere e mi arrivava un sms: 'Visto che sei lì, prendi un appuntamento anche per me'. In auto diretta a Carmagnola? Il messaggio tempestivo: 'Guarda che hai sbagliato strada'. Ero arrivata a pensare che mi avesse fatta seguire. Non so, un investigatore privato. Ad un certo punto ho anche creduto di essere diventata matta". 

I rapporti con  l'ex diventano sempre più tesi. L'imprenditore la ha accusata di avergli mandato una mail dal contenuto minaccioso: "Non hai accettato la mia proposta e te ne pentirai amaramente. Ti farò vergognare con i tuoi amici, ti prenderò tutti i soldi". "Quell'email non l'ho mai scritta. È un falso", replica la Vada, che punta il dito contro la giustizia: "Vado a un festa e vedo il magistrato che si stava occupando della vicenda al tavolo con la famiglia del mio ex marito. Solo dopo ha chiesto di essere sostituito". 

Irene Famà per lastampa.it l'8 maggio 2022.

«Ho sempre pensato che la giustizia arriva, anche se lentamente. Busso alla porta delle persone per raccontare le loro storie e nella giustizia consiglio di riporre fiducia. Poi è toccato a me e ho dovuto ricredermi». Parole amare quelle di Silvia Vada. Giornalista televisiva, questa volta vuole raccontare la sua vicenda. Una questione privata, il matrimonio con l'imprenditore David Gallina, finita in procura. Con denunce di maltrattamenti e stalking, archiviazioni e ora un processo per violazione di corrispondenza e falsificazione di email. Sette anni dopo i fatti contestati. La prescrizione, va da sé, è cosa scontata.

«Sa come ha esordito ieri in aula la giudice? Con una serie di domande: "Cosa volete dopo tutto questo tempo? Possibile che non si possa trovare un accordo?". Mi sono sentita sconfitta, impotente, delusa. È così strano? Così difficile da capire? Voglio giustizia. Dopo tutti questi anni mi pare evidente che la mia è una speranza vana. A prescindere dall'esito, mi sono sentita presa in giro». 

Silvia Vada e David Gallina iniziano a frequentarsi nel 2003, nel 2009 si sposano. «L'ho amato tantissimo e il sentimento è stato reciproco». Una «favola», dice. Che poi si sarebbe trasformata nel suo opposto. «Nel 2015 scopro situazioni spiacevoli». Non entra nel dettaglio. «Sarebbe cattiveria gratuita. Ma una cosa è certa: non potevo continuare quel matrimonio». Iniziano le pratiche per la separazione.

E messaggi e telefonate che lei definisce «ossessive. Ovunque andassi, me lo ritrovavo davanti. Sapeva sempre dov' ero, in qualsiasi momento. Andavo dal parrucchiere e mi arrivava un sms: "Visto che sei lì, prendi un appuntamento anche per me". In auto diretta a Carmagnola? Il messaggio tempestivo: "Guarda che hai sbagliato strada". Ero arrivata a pensare che mi avesse fatta seguire. 

Non so, un investigatore privato. Ad un certo punto ho anche creduto di essere diventata matta». Silvia Vada si rivolge ai carabinieri. «C'era un gps sotto la mia auto». I fatti si susseguono, si intrecciano. «David mi mostra un'email». Il contenuto? «Non hai accettato la mia proposta e te ne pentirai amaramente. Ti farò vergognare con i tuoi amici, ti prenderò tutti i soldi». Vada è netta: «Quell'email non l'ho mai scritta. È un falso».

Altra denuncia, all'origine del processo in corso. L'accusa di maltrattamenti è stata archiviata nel 2016. Si parla di strumentalizzazione del processo penale, di un clima di conflittualità familiare.

«Non sono stata creduta. Doloroso, già di per sé. Ma ci sono aspetti che hanno fatto più male di altri». Quali? «Vado a un festa e vedo il magistrato che si stava occupando della vicenda al tavolo con la famiglia del mio ex marito. Solo dopo ha chiesto di essere sostituito». Il pm cambia. Nel 2021 una seconda archiviazione, questa volta per il reato di stalking. 

Non ci sono elementi per procedere. «Hanno pensato che strumentalizzassi la situazione. Non è vero. E quell'email, che mi ha dipinta come una donna avida e potente, non l'ho mai scritta. È un falso». La vicenda ieri è approdata in aula. «Troppo tardi. Sarà tutto prescritto nel 2023. Che senso ha avuto affrontare tutto questo? Mi ripeto, ma è fondamentale. A prescindere dall'esito, è stata una presa in giro. Non divertente, ma dolorosa. Sono arrivata a pesare 55 chili».

Lungaggini e incuria. L'ha ribadito in aula anche la giudice. E su questo sono d'accordo entrambe le parti. La legale dell'imputato, l'avvocata Mariateresa Pizzo, definisce la situazione «kafkiana. Sono passati più di 7 anni anche per il mio assistito. Tanti anche per lui che ora è finito sotto processo per fatti che sono già stati esaminati. Per fatti per cui è già stato indagato e archiviato». La prescrizione? «È un proscioglimento procedurale. Non un'assoluzione. Lascia l'amaro in bocca».

L'avvocato Claudio Strata, che rappresenta Silvia Vada, è netto: «Una sconfitta per la giustizia e per le parti, indipendentemente da chi ha ragione e chi ha torto. Tra i due però chi ci rimette è chi, in ipotesi di accusa, ha subito il reato e ha già pagato le conseguenze». Storie come questa sono delicate. Ci sono gli aspetti giuridici e il privato delle persone. Intrecciati. «Mai più credevo sarebbe toccato a me. Tempi così lunghi sono un fallimento per tutti. Voglio ribadirlo, anche e sopratutto per quelle donne che subiscono in silenzio e non hanno le mie possibilità». 

Femminicidio a Frosinone, fermato in stato confusionale l’ex fidanzato della donna uccisa. Michele Marangon e Aldo Simoni su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2022.

L’assassino sarebbe l’ex fidanzato della vittima, residente in Ciociaria, ora piantonato dai militari presso il pronto soccorso dell’ospedale Santa Maria Goretti di Latina. 

Non accettava la fine della loro storia. E così ha chiesto un ultimo incontro per potersi «spiegare». Sperava di convincerla e di poter ricominciare la loro storia. Ma così non è stato: l’incontro è ben presto degenerato, lui ha afferrato un coltello ed ha sferrato quindici coltellate alla sua ex. Romina De Cesare, 36 anni, di Frosinone, commessa in un noto negozio di profumeria, è morta dopo pochi istanti. Lui, l’assassino, Pietro Ialongo, 38 anni, ha gettato a terra il coltello insanguinato, è risalito in auto ed è tornato a Sabaudia, la sua città. La donna è stata trovata senza vita all’interno in un appartamento in via del Plebiscito, nel cuore del centro storico di Frosinone. A due passi dalla Prefettura e dal Municipio. La scoperta è stata fatta dalla polizia che è entrata nella casa dopo la segnalazione dell’attuale compagno della vittima, un metronotte, insospettito dalle lunghe ore di silenzio.

Nessuno degli inquilini del palazzo riferisce di aver sentito urla o richieste di aiuto. Le ricerche del responsabile si sono portate nel pomeriggio in provincia di Latina dove i carabinieri, sulla spiaggia di Sabaudia, hanno fermato in stato confusionale l’uomo ritenuto responsabile del delitto e che ora piantonato dai militari presso il pronto soccorso dell’ospedale santa Maria Goretti di Latina. Ialongo svolgeva a Sabaudia lavori saltuari. E proprio lungo la spiaggia della nota località del litorale romano, non lontano da Torre Paola, è stato rintracciato dagli agenti seminudo e in stato confusionale. Poco lontano aveva parcheggiato l’auto con cui era tornato da Frosinone.

Marco Cusumano per “Il Messaggero” il 4 maggio 2022.

Avrebbe colpito la sua ex fidanzata con almeno quindici coltellate, poi è fuggito dal centro di Frosinone percorrendo cinquanta chilometri, fino alla spiaggia di Sabaudia. Lì è stato fermato dai carabinieri Pietro Ialongo, 36 anni, accusato dell’omicidio di Romina De Cesare, 34 anni originaria di Isernia, trovata senza vita nella sua abitazione in piazza del Plebiscito a Frosinone. Un delitto apparentemente legato a un movente di gelosia, la cui dinamica dovrà essere chiarita nei dettagli. 

Pietro Ialongo ieri pomeriggio è stato notato mentre vagava in stato confusionale, completamente nudo, sugli scogli di Torre Paola, a Sabaudia. Alcuni passanti hanno segnalato la presenza dell’uomo ai carabinieri, riferendo che si stava arrampicando sugli scogli a pochi passi dallo stabilimento “Saporetti”. I militari hanno raggiunto il 36enne, si sono avvicinati tentando di tranquillizzarlo. Dalle prime parole è sembrato evidente lo stato confusionale probabilmente legato a un evento drammatico di cui ancora non si sapeva nulla.

Poco distante i militari hanno individuato l’auto e, grazie all’ispezione e alle poche parole pronunciate dal 36enne, sono risaliti a un indirizzo: piazza del Plebiscito a Frosinone. Immediata la segnalazione ai colleghi ciociari che sono entrati nell’abitazione che si trova nel cuore del centro storico, a pochi passi dalla Prefettura. In casa la drammatica scoperta del corpo senza vita della 34enne, uccisa con almeno 15 coltellate al torace e al ventre. 

La polizia stava già effettuando degli accertamenti sulla ragazza che risultava scomparsa dal giorno precedente. Una segnalazione sarebbe arrivata anche dall’attuale compagno della giovane che non riusciva a trovarla e che, probabilmente, temeva per la sua sicurezza. Bisognerà attendere ulteriori accertamenti per ricostruire con precisione il quadro dei rapporti personali tra le persone coinvolte in questa terribile storia di violenza, l’ennesimo femminicidio che sconvolge la comunità di Frosinone, vista anche la giovane età della vittima.

La vittima

Romina De Cesare lavorava come commessa in un punto vendita di “Acqua e Sapone”, era particolarmente sensibile al tema della violenza, tanto che sul suo profilo Facebook aveva pubblicato diversi post sulla violenza contro le donne. In uno la si vede con il braccialetto rosa che invita ad aderire alla campagna contro la violenza sulle donne. A quanto emerso la relazione con Pietro Ialongo, operaio di Frosinone, era terminata pochi mesi fa, ma lui non aveva mai accettato la decisione di troncare il rapporto. I due avevano vissuto insieme nella casa di lei, nel centro storico di Frosinone, ma dopo la separazione Romina viveva da sola.

Da appena due settimane aveva iniziato una nuova relazione con un altro uomo, una guardia giurata. Secondo quanto emerso è stato proprio lui, ieri, a segnalare al 113 la scomparsa della fidanzata riferendo che non rispondeva neanche al cellulare. Probabilmente era preoccupato per la sua sicurezza, sapendo anche della gelosia del suo ex fidanzato che, a quanto emerso, aveva più volte reagito in maniera preoccupante dopo la separazione avvenuta circa tre mesi fa. Nel frattempo, a Sabaudia, c’è stato il ritrovamento di Pietro Ialongo in stato confusionale, le informazioni in mano agli investigatori a quel punto sono state incrociate ed è scattato il blitz nell’abitazione della giovane con il supporto dei vigili del fuoco che hanno sfondato la porta d’ingresso trovando il cadavere.

Le indagini

I carabinieri di Latina insieme agli agenti della Questura di Frosinone stanno indagando per ricostruire con precisione la dinamica degli eventi. Dagli esami del medico legale sarà importante stabilire l’ora esatta dell’omicidio. La polizia scientifica ieri ha isolato la scena del crimine per evitare contaminazioni esterne che potrebbero pregiudicare l’esito degli accertamenti tecnici irripetibili. Sarà determinante l’esito dell’esame autoptico per ottenere ulteriori elementi utili alle indagini.

Uccisa a coltellate: fermato l'ex fidanzato mentre vagava nudo. Tonj Ortoleva il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

La vittima è Romina De Cesare, 36 anni di Frosinone. È stata uccisa con almeno 15 coltellate al ventre.

È stata trovata in casa in una pozza di sangue, uccisa da 15 coltellate all’addome: è morta così Romina De Cesare, 36 anni, di Frosinone. Il presunto assassino, secondo gli investigatori, sarebbe l’ex fidanzato, Pietro Ialongo di 38 anni, fermato dai carabinieri mentre vagava in stato confusionale e senza vestiti per la spiaggia di Sabaudia.

L’allarme dato dall’attuale compagno e la tragica scoperta

Le ricerche di Romina sono iniziate nelle prime ore della giornata, dopo che l’attuale compagno della donna ne aveva denunciato alla polizia la scomparsa, in quanto non riusciva a contattarla da diverse ore. Ma Romina era in casa sua, morta presumibilmente dalla serata di ieri. A ritrovare il corpo sono stati gli agenti della Squadra Volante di Frosinone e i Vigili del Fuoco che hanno dovuto buttare giù la porta dell’appartamento della 36enne in via del Plebiscito, nel centro storico del capoluogo ciociaro. Davanti agli occhi degli agenti una scena straziante: Romina De Cesare era morta da ore, il suo cadavere giaceva in una pozza di sangue. Sul corpo, secondo le prima informazioni, almeno 15 coltellate. Le indagini sono coordinate dalla Procura di Frosinone e dirette dalla squadra mobile della questura. Sul posto oltre che il questore di Frosinone, Domenico Condello è arrivato anche il procuratore capo di Frosinone Antonio Guerriero.

Praticamente negli stessi istanti in cui gli agenti della polizia sfondavano la porta di via del Plebiscito, a Sabaudia, in provincia di Latina, i carabinieri fermavano un uomo di 38 anni, Pietro Ialongo, che vagava seminudo e in stato confusionale per la spiaggia. A segnalare la sua presenza ai carabinieri sono stati alcuni passanti. Ai militari, l’uomo, ha dato nome e cognome e come residenza l’indirizzo dell’appartamento della ragazza uccisa. Il 38enne è stato accompagnato presso l’ospedale Santa Maria Goretti di Latina, dove attualmente viene piantonato dai carabinieri.

"Non volevo ucciderla. La amo". La confessione dell'omicidio su un bloc notes. Tonj Ortoleva il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Su un foglio ritrovato dagli inquirenti la frase che dà la svolta all'indagine. Il 38enne Pietro Ialongo avrebbe anche tentato di togliersi la vita dopo la morte dell'ex fidanzata Romina De Cesare. L'uomo si trova ora in carcere a Latina: per lui l'accusa è di omicidio volontario.

“Non volevo ucciderla. La amo”. Parole che valgono una confessione, messe nero su bianco su un bloc notes che Pietro Ialongo aveva in auto quando è stato trovato dai carabinieri sul lungomare di Sabaudia. È uno dei dettagli che sono emersi in queste ore nell’indagine sull’omicidio di Romina De Cesare, trovata cadavere in una pozza di sangue nella sua abitazione di via del Plebiscito a Frosinone. Ialongo è accusato di omicidio volontario.

La rottura e le liti tra la coppia

Pietro Ialongo è da oggi nel carcere di Latina in attesa di essere sentito dal Gip. L’accusa nei suoi confronti è di omicidio volontario. Secondo le Procure di Latina e Frosinone che seguono l’indagine congiuntamente, Ialongo avrebbe strangolato e pugnalato con diverse coltellate Romina De Cesare nella notte tra lunedì e martedì scorsi. La precisione dovrebbe arrivare dall’autopsia che dovrebbe essere seguita nella giornata di domani. Le indagini di queste ore hanno fatto emergere l’esistenza di una serie di contrasti tra la vittima e l’ex fidanzato, accresciuti a seguito della nuova relazione della donna con un’altra persona. I due si erano separati ma continuavano a dividere l’appartamento di via del Plebiscito anche se stavano cercando soluzioni alternative, perché evidentemente quella convivenza, dopo la rottura, non riusciva a funzionare. Secondo il racconto di alcuni conoscenti la ragazza appariva molto preoccupata e sperava presto di trovare una sistemazione diversa. Non ha avuto tempo.

La corsa verso il mare e il tentativo di suicidio

L’ipotesi degli inquirenti è che Pietro Ialongo volesse uccidersi quando lo hanno trovato sul lungomare di Sabaudia, a Torre Paola. L’uomo, infatti, era completamente nudo e aveva sul corpo ferite ed ecchimosi varie. In un primo momento, dopo aver scoperto il cadavere nell’appartamento di Frosinone, gli inquirenti hanno ipotizzato che quei segni fossero stati causati da una colluttazione con la vittima. Ma più passavano le ore più appariva probabile che l’indagato abbia tentato di togliersi la vita, tagliandosi le vene o gettandosi in mare. Quando i carabinieri lo hanno avvicinato a Sabaudia, il 38enne era in tale stato confusionale che i militari hanno faticato a capire quel che diceva. Al momento l’ipotesi che seguono i procuratori Claudio De Lazzaro e Barbara Trotta è quella della gelosia, ossia dell’omicidio nato dall’aver appreso della nuova relazione di Romina con un uomo di Alatri (Frosinone). Proprio quest’ultimo aveva dato l’allarme martedì in quanto non aveva più notizie di Romina.

Confessa l'assassino di Romina: "L'ho uccisa, ma non volevo. La amavo". Stefano Vladovich il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'ex fidanzato della vittima dopo l'omicidio ha tentato il suicidio: "Ho perso la testa. Soffrivo perché stava con un altro".

«Non volevo ucciderla. Io l'amo». Confessa il killer di Romina De Cesare, arrestato per omicidio volontario aggravato. Pietro Ialongo, 38 anni perito informatico, ha scritto su un foglio di carta la sua confessione per poi provare a togliersi la vita. Prima tagliandosi le vene, nella sua Audi A4 parcheggiata sulla spiaggia del Circeo, poi gettandosi in mare. Ma una pattuglia dei carabinieri lo blocca, nudo, prima di entrare in acqua. Accompagnato all'ospedale di Latina, Ialongo viene fermato e portato in Procura. Davanti al pm di Latina, Claudio De Lazzaro, e a quello di Frosinone, Barbara Trotta, crolla. «Sì, l'ho ammazzata io». Una storia maledetta, l'ennesimo femminicidio si consuma al termine di una discussione fra ex fidanzati, la notte fra lunedì e martedì, nell'appartamento che i due dividono in via del Plebiscito, a Frosinone. Amava i profumi la vittima, tanto da trasferirsi dalla provincia di Isernia, Cerro al Volturno, fino in Ciociaria per lavorare in una profumeria. Ialongo la segue, innamorato perso. Le cose fra i due, però, non vanno bene. E Romina decide di rompere. Lei ha un nuovo compagno, lui non si rassegna. In comune hanno ancora l'appartamento in centro. Romina vuole andarsene, non fa in tempo. Lunedì sera Pietro e Romina litigano furiosamente. Il killer la strangola, poi afferra un coltello e la colpisce più volte. Il medico legale conta almeno dieci ferite d'arma da taglio sul corpo della poveretta, una al fegato e un'altra al cuore. Pietro la lascia in un lago di sangue e sale in auto. Corre per tutta la notte, poi si ferma sul litorale pontino. In auto su alcuni pezzi di carta, scrive la sua condanna. Una calligrafia incerta, parole buttate lì quando capisce che è davvero finita. Prende un coltellino e si taglia i polsi ma non riesce a uccidersi. Si spoglia e decide di morire annegato. Cammina per chilometri, da Torre Paola verso Sabaudia, Ialongo, procurandosi varie ferite. È il tardo pomeriggio di martedì quando, dallo stabilimento Saporetti, avvertono i carabinieri. Intanto la squadra mobile lo cerca ovunque. Al 112 è appena arrivata la segnalazione del nuovo compagno di Romina, una guardia giurata di Alatri. Lei non gli risponde al telefono da 24 ore, lui è preoccupato. Quando la polizia sfonda la porta di casa trova il cadavere. Una gelosia asfissiante quella di Pietro, tanto che Romina sui social invitava ad acquistare un braccialetto rosa, simbolo della lotta contro le violenze. «Regalatelo a vostra moglie - postava -, a vostra figlia, madre, sorella... vi distinguerete da chi le donne le maltratta. Stop alla violenza sulle donne!».

Il femminicidio a Frosinone. Massacrata a coltellate dall’ex, il killer di Romina fermato nudo sulla spiaggia: sui social post contro la violenza. Carmine Di Niro su Il Riformista il 3 Maggio 2022. 

Vagava seminudo sulla spiaggia di Sabaudia (Latina) mentre a cinquanta chilometri di distanza, nel suo appartamento, a Frosinone, c’era il cadavere dell’ex fidanzata, uccisa con una decina di coltellate.

È l’ennesima storia di femminicidio che arriva dalla città del Lazio e che vede vittima la 36enne Romina De Cesare.

La ragazza sarebbe stata uccisa dall’ex fidanzato, attualmente in stato di fermo e piantonato all’ospedale “Goretti” per essere sottoposto a degli accertamenti, ma al momento non in grado neppure di cominciare con i carabinieri. 

L’uomo, 38 anni, era stato segnalato da alcune persone mentre camminava nudo in spiaggia a Sabaudia. I carabinieri, intervenuti a Torre Paola, lo hanno trovato in stato confusionale, farfugliando parole senza senso, mentre la sua Audi A4 era stata rinvenuta a chilometri di distanza, a San Felice Circeo.

Dopo esser riusciti a recuperare l’indirizzo di casa dell’uomo, una volante della Polizia si è precipitata nell’appartamento di piazza Plebiscito a Frosinone e dopo aver sfondato la porta è stato ritrovato il corpo privo di vita di Romina.

Stando alle prime ipotesi la ragazza, di cui non si avevano più notizie da 24 ore, sarebbe stata uccisa dall’uomo, che non si rassegnava alla fine della relazione. Dopo l’omicidio quindi la fuga sul litorale pontino. 

Soltanto lo scorso 18 novembre, pochi giorni prima della Giornata internazionale contro la violenza di genere, Romina su Facebook lanciava appelli contro la violenza sulle donne: “Non solo voi donne, ma anche voi uomini… distinguetevi da chi le donne, invece di rispettarle, le maltratta…Stop alla violenza sulle donne”. Parole che rilette oggi sembrano quasi un presagio. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2022.

Tetsuo Sakamoto non era solo un professore universitario. Era uno dei più importanti studiosi della cultura orientale, ma anche un italiano acquisito, al punto da essere stato nominato nel 1982 commendatore della Repubblica per i suoi meriti nel campo dell'insegnamento e da vice presidente, ormai dal 1978, dell'associazione Italia-Giappone. 

Ma quello che i vicini di casa, in un palazzo nella zona Nord, vicino a corso Francia, ricordano del 92enne a lungo docente all'Orientale di Napoli, è soprattutto «l'umanità che dimostrava verso gli altri». Un sentimento che, unito alla disperazione, potrebbe averlo spinto nella notte di giovedì scorso a uccidere la moglie Eiko, di 90 anni, immobilizzata a letto e malata terminale, e poi a togliersi la vita, facendo una sorta di harakiri con un coltello, fino a lasciarsi morire immerso nella vasca da bagno. 

Un omicidio-suicidio sul quale gli agenti del commissariato Ponte Milvio vogliono dirimere ogni dubbio, anche se dopo l'allarme lanciato da una badante della coppia, che alle 10 dell'altro ieri ha trovato i corpi dei due anziani coniugi nel loro appartamento in via Civitella D'Agliano, senza segni di effrazione e comunque in ordine, quello che è accaduto appare abbastanza chiaro. 

In più il professor Sakamoto ha lasciato quattro lettere d'addio, scritte in italiano e in giapponese: le prime ai due collaboratori domestici filippini che li hanno accuditi, soprattutto la badante che ha scoperto la tragedia, negli ultimi anni costellati da problemi di salute sempre più gravi, e le altre in lingua madre, che sono state acquisite dalla polizia e devono essere ancora tradotte, al figlio Mario e alla moglie italiana. Nei messaggi d'addio ai domestici, il docente ha parole di ringraziamento per tutto quello che hanno fatto per lui e la moglie, e all'interno delle buste ci sarebbero anche somme di denaro.

Un ultimo gesto di riconoscenza accompagnato da messaggi per i quali il professore ha scelto i logogrammi, i caratteri kanji originari della Cina ma usati dai giapponesi, anche se nel dopoguerra ci furono delle campagne educative per eliminarli. Una particolarità che ha colpito gli stessi investigatori, forse un gesto romantico prima di morire che potrebbe aver accompagnato Sakamoto anche nella sua vita.

L'appartamento alla Collina Fleming è stato sequestrato per consentire alla Scientifica di effettuare il sopralluogo, recuperato anche il coltello usato dal 92enne per togliersi la vita mentre la moglie potrebbe essere stata colpita alla testa con un oggetto anche se non è chiaro di che tipo. Non si esclude che la donna stesse dormendo e non si sia accorta di nulla. Gli investigatori hanno sentito a lungo sia i badanti sia alcuni familiari di marito e moglie per capire se negli ultimi tempi la situazione familiare fosse peggiorata rispetto al passato e se ci fossero state avvisaglie di quello che stava per accadere mentre sui social il figlio ha chiesto di pregare per i suoi genitori. La notizia della tragica fine dei coniugi ha sconvolto il quartiere di Roma nord dove i Sakamoto erano molto conosciuti e stimati.

L'harakiri, le lettere, i soldi. Cosa non torna nella morte della coppia giapponese. Rosa Scognamiglio il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lo studioso giapponese ha lasciato 4 lettere d'addio e soldi per ringraziare i domestici prima dell'omicidio-suicidio. La moglie era malata terminale.

Prima di uccidere la moglie, e di togliersi la vita praticando l'harakiri, Tetsuo Sakamoto, studioso giapponese di 92 anni, ha scritto quattro lettere d'addio, due in italiano e le restanti in giapponese. All'interno delle buste ci sarebbero stati anche dei contanti destinati ai domestici filippini che avevano accudito l'anziana coppia negli ultimi tempi, da quando Eiko si era gravemente ammalata. Intanto procedono le indagini degli agenti del commissariato Ponte Milvio che intendono fugare ogni eventuale dubbio sulla dinamica del delitto.

Coppia trovata morta in casa. Ma è giallo sulla lettera

L'omicidio-suicidio

L'omicidio-suicidio è avvenuto giovedì mattina, in un appartamento di via Civitella D'Agliano, in zona Collina Fleming, a nord della Capitale. A lanciare l'allarme, pressappoco alle ore 10 del mattino, sarebbe stata una collaboratrice domestica della coppia. Giunti sul luogo della segnalazione, gli agenti del commissariato Ponte Milvio hanno rinvenuto i corpi senza vita dei due coniugi giapponesi. Eiko era distesa a letto, tra le lenzuola sporche di sangue, con una profonda ferita alla testa. Il marito 92enne, Tetsuo, era adagiato nella vasca da bagno con il ventre squarciato. Verosimilmente si sarebbe tolto la vita praticando l'harakiri, un antico rituale samurai che prevede la lacerazione dell'addome mediante l'utilizzo di una lama sacrale.

Chi era il prof giapponese

Docente di lingua giapponese all'università Orientale di Napoli, Tetsuo Sakamoto era uno dei più importanti studiosi della cultura occidentale e orientale. Al punto da essere stato nominato nel 1982 commendatore della Repubblica per i suoi meriti nel campo dell'insegnamento e da vice presidente, ormai dal 1978, dell'associazione Italia-Giappone. Gli ex vicini di Corso Francia, dove la coppia di coniugi ha vissuto nei primi tempi dopo il trasferimento nella Capitale, ricorda il 92enne soprattutto per "la grande umanità che dimostrava" verso gli altri. In queste ore, molti dei suoi ex allievi ne stanno celebrando il ricordo: "un uomo perbene, sempre educato, ed un professore eccellente" è il coro unanime che si leva dai social.

Le lettere

Prima di compiere l'estremo gesto, il professore avrebbe scritto quattro lettere: due in italiano e le restanti in giapponese. Le missive, lasciate sul tavolo in cucina, sono state requisite dalla polizia per essere tradotte. In una delle buste ci sarebbero stati anche dei soldi che il 92enne avrebbe lasciato ai collaboratori filippini per ringraziarli delle cure dedicate alla moglie. Pare infatti che Eiko, sua moglie, si fosse gravemente ammalata. Tale circostanza potrebbe aver indotto lo studioso all'omicidio-suicidio. Le indagini, affidate agli agenti del commissariato Ponte Milvio, serviranno a definire la dinamica del delitto e a fugare ogni eventuale dubbio di sorta. L'appartamento della coppia giapponese stato sequestrato per consentire alla Scientifica di effettuare il sopralluogo. Sulla porta e sulle finestre non risulterebbero segni di effrazione.

Sonia uccisa dal compagno in casa, il corpo col coltello in gola vegliato per ore. Secondo l’autopsia Sonia Solinas è stata uccisa con tre fendenti tra il collo e la parte alta del torace ma sono trascorse ore prima del ritrovamento del cadavere. A cura di Antonio Palma su fanpage.it il 29 aprile 2022.

Il corpo senza vita di Sonia Solinas, la 49enne uccisa dal compagno martedì nella sua abitazione di Dormelletto, sul lago Maggiore, potrebbe essere stato vegliato per ore dal convivente 37enne Filippo Ferrari. L'indicazione emerge dai risultati dell'autopsia sulla salma della vittima condotta oggi all'ospedale Maggiore di Novara per ordine della procura piemontese. L'esame post mortem infatti ha ricalcolato l'orario di morte della donna facendolo risalire a poco dopo la mezzanotte, alcune ore prima rispetto a quanto ipotizzato inizialmente dagli inquirenti. Dal momento dell'aggressione mortale a quello in cui l'uomo è uscito di casa sarebbero dunque trascorse molte ore durante le quali il 37enne è sicuramente rimasto in casa dove giaceva, in una pozza di sangue, il corpo della 49ene con ancora il coltello conficcato in gola, così come poi è stato trovato dai primi soccorsi.

Si tratta di un grosso coltello da cucina con una lama di 20 centimetri individuato dagli inquirenti e dalla stessa autopsia come arma del delitto. Col quel coltello il 37enne che poi si è toto la vita lanciandosi da un ponte con l'auto, ha sferrato alla compagna tre fendenti tra il collo e la parte alta del torace. Uno di questi le ha reciso la trachea, probabilmente impendendole di urlare. L'assassino avrebbe quindi vegliato il cadavere tutta notte prima di uscire di casa. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, infatti, Filippo Ferrari ha abbandonato l'abitazione solo alle 7,45 del mattino quando è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza  del vicino municipio. Poco dopo è avvenuto il suicidio dal ponte di San Bernardino Verbano. Sul corpo dell'uomo non è stata svolta un'autopsia ma solo un esame esterno e controlli ematici. 

Resta il mistero sul movente di un delitto così efferato. I due infatti stavano insieme da 15 anni e per parenti e amici la loro era una relazione normale, tra alti e bassi e mai turbata da episodi violenti né da tensioni fuori dalle normali dinamiche familiari. Maggiori certezze in questo senso potrebbero arrivare nei prossimi giorni con gli esiti delle analisi tossicologiche che stabiliranno se l'uomo al momento del delitto fosse sotto l'effetto di qualche sostanza che ne abbia alterato lo stato psicofisico.

Dormelletto, omicidio-suicidio sul Lago Maggiore: uccide la compagna e poi si toglie la vita. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera.it il 26 Aprile 2022.

La vittima è Sonia Solinas, 49 anni: da quindici viveva con Filippo Ferrari, di 37. L’uomo si è suicidato nel Verbano. 

L’hanno trovata senza vita, in casa e in una pozza di sangue. Uccisa dal compagno che poi si è tolto la vita lanciandosi da un ponte. Omicidio-suicidio a Dormelletto, nel Novarese. La vittima è Sonia Solinas, aveva 49 anni e lavorava al bar-ristorante Marconi Beach di Arona. È stato proprio il titolare, non vedendola arrivare, ad avvisare la madre che, una volta nell’abitazione all’inizio di via Vittorio Emanuele, l’ha trovata senza vita. Sono subito stati allertati i soccorsi e oltre all’ambulanza medicalizzata è arrivato anche l’elicottero: ma i sanitari non hanno potuto fare altro che constatare il decesso.

Subito si è aperta la ricerca al compagno Filippo Ferrari, 37 anni, con il quale la donna viveva da quindici anni, anche se il rapporto era burrascoso. Poche ore dopo l’auto dell’uomo è stata trovata a San Bernardino, nel Verbano: si era tolto la vita gettandosi da un ponte. La salma è stata poi trasportata con un mezzo dei vigili del fuoco all’obitorio. Solinas lascia un figlio di 22 anni, avuto da una precedente relazione, che vive con il padre. Ferrari lavorava in una azienda di Castelletto Ticino.

«Non ci credo....Perché, perché?... Solo ieri avevamo riso e scherzato». A parlare è la signora Bruna, madre di Sonia Solinas. È stata la donna a trovare la figlia morta accoltellata nella sua abitazione di Dormelletto.

«È una tragedia che colpisce duramente l’intera comunità. Due famiglie conosciute, e ben inserite, sono distrutte». Il sindaco di Dormelletto, Lorena Vedovato, commenta così l’omicidio-suicidio.

Rimini, 62enne uccide la moglie a coltellate: lei lo aveva già denunciato. Redazione Tgcom24 il 23 aprile 2022.

"Ho ucciso mia moglie perché mi ha detto che sono cornuto. Se andate a casa trovate il suo corpo". Raffaele Fogliamanzillo, 62 anni, venerdì sera a Viserba di Rimini, ha ucciso con un serie di coltellate alla gola la moglie, Angela Avitabile, di poco più giovane. Da tempo la famiglia conviveva con i problemi di salute di Raffaele, a cui i medici del servizio igiene mentale avevano diagnosticato una sindrome ansiosa bipolare che lo portava a provare un'insensata gelosia nei confronti della moglie. 

La donna, esasperata dalle continue minacce dopo l'ultimo brutto episodio del 28 febbraio, aveva sporto denuncia ai carabinieri, ma si era rifiutata di allontanarsi da casa.

Raffaele, però, diventava ogni giorno meno gestibile. Il sospetto degli inquirenti, a questo punto, è che avesse smesso da tempo di assumere i suoi farmaci. Qualche mese fa, il 30 settembre, era arrivato a stringere le mani al collo della moglie che però, pare, ai carabinieri avesse minimizzato l'accaduto rifiutandosi in quell'occasione di procedere con una denuncia.

Nonostante i diversi interventi dei carabinieri a casa dei coniugi Fogliamazillo, le tensioni non si erano sopite anzi vi erano finiti di mezzo anche i figli. A marzo il servizio igiene mentale ne aveva già richiesto il ricovero in una struttura specializzata rimandato solo perché il 62enne si potesse sottoporre ad un'operazione di cataratta.

Una situazione nota, quindi, che aveva portato all'apertura in Procura di un fascicolo per maltrattamenti in famiglia. Sentita più volte - come ha riferito il procuratore capo Elisabetta Melotti - la donna non avrebbe mai parlato di atteggiamenti violenti da parte del marito e aveva sempre rifiutato l'idea di un trasferimento in una casa protetta, convinta che vivendo sullo stesso pianerottolo della figlia si trovasse al sicuro.

In quella stessa casa della figlia è stata accoltellata mentre i nipotini di 3 e 7 anni dormivano nella stanza a fianco. Raffaele Fogliamanzillo ai poliziotti ha dato una versione confusa e piena di "non ricordo" sia sul numero delle coltellate sferrate, sia su come fosse entrato in casa della figlia. Assistito dall'avvocato difensore Viviana Pellegrini, al sostituto procuratore Paolo Gengarelli, ha raccontato una storia fatta di deliri di gelosia e di un tradimento mai avvenuto.

In una paranoia crescente pensava di essere l'unico a non sapere del tradimento della moglie, di essere il classico "cornuto" delle storie popolari in cui è l'ultimo a conoscere la verità. "Mi ha detto che mi tradiva da 9 anni", ha raccontato agli investigatori. Una mania di accerchiamento che l'aveva portato a isolarsi a non credere alla moglie e ai figli. A sentire voci di uomini provenire dalla stanza in cui c'era la donna.

Avvistamenti di presunti amanti e brandelli di conversazioni probabilmente mai avvenuti nella realtà. Le indagini appureranno i fatti e faranno chiarezza su ciò che è accaduto realmente e non solo nella mente dell'omicida reo confesso. La Procura infatti ha già chiesto una perizia psichiatrica e l'autopsia sul corpo della vittima. L'ipotesi di reato al momento è o micidio volontario aggravato dall'uso di un coltello a serramanico che era stato un regalo della moglie: sarà un elemento fondamentale per tutta l'indagine.

Raffaele Fogliamazillo ha raccontato di averlo con sé in cucina nel suo appartamento che venerdì sera era al lavoro per preparare la cena. Poi non ha saputo spiegare come e perché l'abbia preso, messo in tasca ed estratto per sferrare i fendenti alla gola della moglie. Quindi ha lasciato l'arma del delitto, si è cambiato la maglia sporca di sangue, è sceso in garage e ha preso l'auto per andare a confessare tutto in questura.

Le coltellate alla gola, poi va in questura: "Mi ha detto che sono cornuto". Rosa Scognamiglio il 23 Aprile 2022 su Il Giornale. 

Il 62enne ha ucciso la moglie con un coltello a serramanico. Dopo l'omicidio si è costituito: "Sono stato io, il corpo lo trovate a casa".

Ha ucciso la moglie davanti ai nipotini poi si è autodenunciato in questura: ""Ho ucciso mia moglie perché mi ha detto che sono cornuto. Se andate a casa trovate il suo corpo", ha rivelato agli agenti. Il reo confesso, un 62enne di Rimini, è stato arrestato in flagranza del reato di omicidio con l'aggravante di averlo commesso contro il coniuge. L'uomo era già stato denunciato dalla moglie lo scorso 28 febbraio per perduranti minacce.

L'omicidio

Stando a quanto si apprende dalle primissime indiscrezioni, l'omicidio si è consumato in un appartamento di via Portogallo, alla periferia Nord di Rimini, nella serata di venerdì. Il 62enne avrebbe aggredito la moglie al culmine di un violento litigio. La vittima, coetanea del coniuge, è stata colpita con un coltello a serramanico al corpo e alla gola. Ad allertare i carabinieri sarebbe stata la figlia della coppia che vive sullo stesso pianerottolo dei genitori. Nonostante l'arrivo dei soccorsi, allertate tempestivamente dagli agenti delle Volanti intervenuti sul posto, per la 60enne non c'è stato nulla da fare.

"Sono stato io"

Secondo quanto riporta da RiminiToday, l'omicidio è avvenuto in casa della figlia della coppia dove c'erano anche i nipotini. Dopo aver vagato per circa un'ora, alle ore 22 il 62enne si è presentato negli uffici della Questura di piazzale Bornaccini per autodenunciarsi. Visibilmente scosso e con i vestiti ancora sporchi di sangue ha confessato: "Ho ucciso mia moglie. Il cadavere è casa". La prima ricostruzione dei fatti ha indotto gli investigatori ad ipotizzare che attorno alle ore 21.00, all'interno dell'appartamento, si esploso un violento litigio coniugale all'esito del quale il presunto assassino, per motivi in corso di accertamento, ha colpito con un coltello a serramanico la moglie, fino ad ucciderla.

L'arresto

Reo confesso, il 62enne è stato arrestato in flagranza del reato di omicidio con l'aggravante di averlo commesso contro il coniuge. A seguito dell'interrogatorio, sostenuto con il Sostituto Procuratore di Rimini, il presunto assassino è stato condotto la Casa Circondariale di Rimini restando a disposizione dell'Autorità Giudiziaria per il prosieguo delle indagini. Il movente del delitto sembrerebbe quello della gelosia. L'uomo, affetto da sindrome bipolare e in cura presso l'Ausl locale, era già stato denunciato dalla moglie lo scorso 28 febbraio per minacce perduranti. Ancor prima, nel settembre del 2021, la donna si era rivolta alle forze dell'Ordine perché il coniuge le aveva messo le mani al collo tentando di strozzarla. A fine febbraio, in procura era stato aperto un fascicolo per maltrattamenti familiari. Tuttavia, la vittima aveva rifiutato il trasferimento in una struttura protetta rassicurata dal fatto che la figlia vivesse nell'appartamento dove ieri sera si è compiuto il massacro.

Si valuta la perizia psichiatrica del 24enne reo confesso. Uccide la madre a calci e pugni: “Ero depresso, ho avuto un raptus perché canticchiava”. Roberta Davi su Il Riformista il 22 Aprile 2022.  

L’ha aggredita in un “improvviso momento di sconforto”, dopo averla sentita canticchiare. Davide Garzia, 24enne reo confesso dell’omicidio della madre Fabiola Colnaghi, 58 anni, ha spiegato il movente del suo crimine durante l’interrogatorio di ieri sera. “Ero depresso, nervoso, ci pensavo da tempo, poi vedendo l’allegria di mia madre tranquilla che canticchiava, mi è partito il raptus” ha detto.

Un delitto che si è consumato ieri 21 aprile all’ora di pranzo ad Aicurzio, in provincia di Monza e Brianza: la donna è stata massacrata a calci e pugni.

L’omicidio

Il ragazzo, disoccupato e incensurato, che si trova ora in carcere con le accuse di omicidio aggravato e vilipendio di cadavere, ha ripercorso gli ultimi istanti di vita di sua madre. Al pm di Monza Marco Santini ha raccontato di averla inizialmente colpita con un violento pugno al volto, mentre si trovava nel corridoio di casa. Quando la donna, dopo aver sbattuto contro un armadio, è caduta a terra, ha infierito su di lei colpendola con calci in faccia, altri pugni e facendole sbattere la testa più volte sul pavimento. Una volta esanime a terra, le ha prima tagliato i capelli, e poi le ha rovesciato della candeggina sul viso. Solo in quel momento ha chiamato il 112: “Venite: ho ucciso mamma”.

L’inchiesta è nelle mani dei carabinieri del Comando Provinciale di Monza. Stando a quanto emerso dalle indagini degli investigatori, tra madre e  figlio i litigi e le discussioni erano frequenti da tempo, per futili motivi. La donna gli chiedeva spesso di aiutarla nella gestione della casa: richieste che lui non sopportava e a cui rispondeva con aggressività.

Fabiola Colnaghi era considerata dai suoi conoscenti una donna ‘serena’, riporta Il Corriere della Sera Lombardia. Dopo la separazione dal marito, padre dei suoi tre figli (morto qualche anno fa), la donna aveva trovato un nuovo compagno. Viveva con lui e con il figlio Davide, diventato improvvisamente il suo carnefice, nella casa in cui è stata ammazzata ‘perché di buon umore.’

Davide Garzia è ora a disposizione degli inquirenti della procura di Monza, che stanno valutando la possibilità di richiedere una perizia psichiatrica. Roberta Davi

 Nino Materi per “il Giornale” il 22 aprile 2022.

La domanda, forse, era diventata un'ossessione: «Quando ti metterai a lavorare?». Ma dietro il punto interrogativo Davide sentiva la risposta, implicita, della madre: «Mai!». Con tanto di punto esclamativo. 

Una «certezza» che, per quel ragazzo di 23 anni «taciturno» e «introverso», era la «prova» della disistima che la madre provava nei suoi confronti. Ma non era così. Quella frase, detta e ripetuta, era solo la spia accesa dell'interessamento, a fin di bene, tipico dei genitori che vogliono vedere realizzati i propri ragazzi.

Ma Davide questo senso di affetto della madre lo aveva frainteso: si sentiva umiliato da una frase che, alle sue orecchie, risuonava come l'eco del fallimento. E allora Davide ha perso la testa. 

Ha colpito con un pugno la madre e poi non si è fermato più. Neppure quando la donna è caduta a terra, implorandolo di smettere. Ma ormai Davide era diventato un altro. Un mostro che nulla aveva più a che fare con il «bravo ragazzo» conosciuto da tutti. 

L'obiettivo di quell'«altro» Davide era solo uno: far tacere per sempre la madre; distruggendo lo specchio che rifletteva un «se stesso» che detestava: studi abbandonati, un lavoro cercato ma mai trovato, una paghetta mensile che aveva il gusto amaro di un'elemosina fatta da una madre a un bambino.

Ma quel «bambino» era ormai un uomo. E un a un uomo non può essere riservato il trattamento di un bimbo. Per questo Davide è «impazzito». Ha massacrato a calci e pugni la donna che lo aveva messo al mondo, e poi ha chiamato i carabinieri: «Venite, ho fatto del male a mia madre». 

L'aveva ammazzata, pur amandola. Perché un figlio ama sempre la madre, così come una madre ama sempre un figlio. È un sentimento incancellabile. Primordiale. 

Anche se può accadere che il tutto finisca in un omicidio. Esattamente ciò che è capitato a Davide Andrea Garzia, trasformatosi nell'assassino della madre, Fabiola Colnaghi, 58 anni.

La tragedia alle le 12.30 di ieri al civico 6 del condominio di via della Vittoria ad Aicurzio, comune del Vimercatese in provincia di Monza. Il dramma riassunto nelle sei angoscianti parole del referto medico: «Uccisa a botte, calci e pugni»; i carabinieri aggiungono: «Il figlio ha continuato a infierire anche quando la madre era a terra». 

La causa dell'aggressione? Gli inquirenti la stanno cercando, interrogando parenti e conoscenti. Ovviamente nessuno poteva prevedere una sciagura di queste proporzioni; che un «rapporto complesso» madre-figlio finisse nel sangue era inimmaginabile. 

In questi casi si parla sempre di «segni premonitori», ma la situazione psicologica del 23enne non aveva mai dato imput allarmanti. Non faceva uso di droga.

Portato in caserma, il 23enne non è stato ancora in grado di spiegare l'inspiegabile. È in una sorta di stato catatonico.

Oggi il pm della Procura di Monza tenterà di interrogarlo, scontata la conferma dello stato di fermo con l'accusa di omicidio volontario. 

Quando Andrea ha chiamato il 112 è rimasto in linea con l'operatore fino all'arrivo dei militari. I carabinieri lo hanno trovato in silenzio, con gli occhi bassi a fissare il corpo della madre ormai senza vita. In pochi minuti l'appartamento si è riempito di uomini in tuta bianca per i rilievi. 

Andrea era il terzo di tre figli. Il padre morto anni fa. Una famiglia agiata, per bene, che in paese stimavano tutti. Fabiola Colnaghi, casalinga, viveva in via della Vittoria ad Aicurzio con il compagno e il più giovane dei suoi ragazzi, Davide: celibe, incensurato, disoccupato. «Un ragazzo schivo, litigava spesso con la madre per via del lavoro», ricordano i vicini.

Ladispoli, convalidato l’arresto di Fabrizio Angeloni, il ricercatore Infn che ha accoltellato moglie e figlia. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.

L’uomo resta in terapia intensiva per le ferite riportate con il successivo tentato suicidio, messo in dubbio dal suo avvocato. Un vicino di casa: «La ragazza mi ha chiesto di soccorrere solo sua madre, non il padre». 

La corsa di Sofia fino all’abitazione del vicino di casa. Una corsa disperata, dopo aver visto il padre colpire la madre a coltellate nel piccolo bagno dell’appartamento di famiglia al secondo piano di un palazzo in via Milano, a Ladispoli, a due passi dal mare. «È morta, è morta!», ha gridato la 17enne, studentessa modello in un liceo sul litorale romano, dopo aver suonato il campanello del dirimpettaio e prima di perdere i sensi fra le braccia dei soccorritori. Le macchie di sangue sono rimaste sul pulsante, come anche sul pavimento del pianerottolo. È proprio l’uomo uno dei testimoni diretti di quanto successo nella prima mattinata di giovedì. «Ho udito le grida della ragazza provenire dall’appartamento e poi dal pianerottolo», avrebbe raccontato ed è stato lui a chiamare il 112 attivando i soccorsi. Erano da poco passate le 7.30.

Sabato mattina il gip Paola Petti del tribunale di Civitavecchia ha convalidato l’arresto per duplice tentato omicidio aggravato di Fabrizio Angeloni, il padre di Sofia, progettista dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare di 48 anni tuttora ricoverato in prognosi riservata e in terapia intensiva al policlinico Gemelli con profonde ferite da taglio all’addome. L’uomo è accusato di aver aggredito con un coltello la moglie Sonia Antognozzi e anche la figlia. Il giudice ha disposto nei suoi confronti, appena le sue condizioni di salute lo permetteranno, la detenzione in carcere valutando in concreto il pericolo di reiterazione del reato anche dai domiciliari e di inquinamento delle prove.

A preoccupare sono ancora le condizioni della moglie, insegnante di scuola media, ricoverata in rianimazione all’ospedale San Camillo dopo essere stata trafitta da almeno dieci fendenti al torace ed essere stata sottoposta a un intervento chirurgico da parte di un équipe composta da tre specialisti. A oltre 48 ore dal ferimento la situazione è stabile e viene monitorata dai medici. Fuori pericolo invece la ragazza, di 17 anni, ancora in cura al Bambino Gesù di Palidoro per ferite d’arma da taglio alla mano sinistra e un’altra a una scapola. Potrebbe essere sentita in audizione protetta già nei prossimi giorni dai carabinieri della compagnia di Civitavecchia.

Secondo il vicino di casa della famiglia proprio la ragazza dopo aver suonato il campanello del dirimpettaio avrebbe chiesto di soccorrere la madre e non il padre , ma su questo punto chi indaga rimane cauto, anche perché sembra che la giovane abbia un rapporto più stretto con la propria madre che con il padre in virtù di quanto successo dopo la separazione. Fino a questo momento non sarebbero emersi peraltro elementi riconducibili a maltrattamenti o episodi di violenza prima di quanto accaduto in via Milano.

Era stata la donna, insegnante di scuola media, a decidere di troncare la relazione con il marito un mese e mezzo fa, allontanandolo dall’appartamento dove lui si sarebbe però ripresentato nella mattinata di tre giorni fa forse per un chiarimento poi degenerato in lite e quindi nelle coltellate. Dubbi sulla ricostruzione dei fatti sono stati espressi dall’avvocato di Angeloni, Serena Gasperini, che dopo aver analizzato gli atti giudiziari fino a questo momento attende le motivazioni del gip sulla convalida oltre che l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare come richiesto dal pm. «Il mio assistito - spiega al Corriere - non è una persona violenta, viene descritta come molto remissiva e pacifica. Peraltro è stato colpito da numerose coltellate all’addome che non possono essere riconducibili a un tentativo di suicidio, senza contare il fatto che il coltello è stato ritrovato sul tavolo in cucina mentre lui e la moglie erano riversi sul pavimento del bagno. Ci sembra oltretutto eccessiva la misura della detenzione in carcere, anche perché non è mai stato protagonista di episodi di violenza e non è mai stato denunciato per episodi di maltrattamenti in famiglia».

Edoardo Izzo per “la Stampa” il 22 aprile 2022.

Non era la prima lite. Forse, l'ennesima tragedia familiare che vede due donne, madre e figlia di 49 e 17 anni, lottare in queste ore in un letto di ospedale tra la vita e la morte poteva essere evitata. 

Fabrizio Angeloni, 48 anni, geometra e progettista dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, era stato allontanato da casa pochi giorni fa. I due si stavano separando. È questo forse ad aver scatenato la follia omicida dell'uomo che ieri mattina, poco prima delle 7, è entrato nella casa di famiglia in via Milano, a Ladispoli, sul litorale a pochi chilometri da Roma, e ha accoltellato prima la moglie, Silvia Antognozzi, di professione insegnante di scuola media, e poi la figlia, la liceale Sofia.

Sul luogo del tentato omicidio-suicidio sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Civitavecchia che, coordinati dalla procura, indagano sui fatti. L'uomo, dopo aver provato a uccidere moglie e figlia, avrebbe tentato di togliersi la vita. La famiglia, all'arrivo dei soccorsi, si trovava in un piccolo bagno, dove si suppone si sia consumato l'accoltellamento. 

La 49enne è stata trasportata dai sanitari del 118 in eliambulanza e in gravissime condizioni all'ospedale San Camillo di Roma. Per la donna, secondo quanto apprende La Stampa, sono davvero poche le possibilità di farcela. Per questo i pm di Civitavecchia potrebbero essere costretti a cambiare il titolo di reato del fascicolo, al momento aperto per tentato omicidio, che diventerebbe quindi omicidio.

Grave anche il marito trasportato sempre in eliambulanza al policlinico Agostino Gemelli, mentre la minorenne, attualmente in coma farmacologico, ma con più possibilità di farcela, è stata portata all'ospedale Bambino Gesù di Palidoro. 

La dinamica dell'aggressione, ricostruita dai militari, chiarisce che la figlia è riuscita a sfuggire alla furia del padre e a precipitarsi sul pianerottolo per chiedere aiuto a un vicino, come dimostrano le numerose macchie di sangue sul ballatoio e sul campanello di quest' ultimo. 

È stato proprio il dirimpettaio a chiamare il 112 e le ambulanze. L'arma da taglio utilizzata per l'aggressione - un utensile domestico - è stata sequestrata.

La Capitale e in generale il Lazio, purtroppo, non sono nuovi a reati di questo tipo, basti pensare che proprio Roma si è guadagnata nel 2021 la triste palma di città italiana con il maggior numero di vittime. 

Sono 15 i femminicidi avvenuti negli ultimi undici mesi: il numero delle donne uccise è raddoppiato rispetto al 2020 e per la prima volta ha superato quello degli uomini assassinati. Roma è prima con 14 donne uccise sui 15 femminicidi avvenuti nel Lazio, seguita a distanza da Milano con 8 casi nel 2021 contro i 4 del 2020. E purtroppo continua a essere l'ambiente domestico e familiare il luogo più a rischio. Ben 13 dei 15 delitti sono avvenuti infatti in famiglia, mentre i rimanenti due sono collegabili alla sfera amicale. Il 90% dei casi coinvolge vittime e carnefici di nazionalità italiana.

Emiliano Bernardini e Emanuele Rossi per “il Messaggero” il 22 aprile 2022.

La passione per il mare, per la vela e per la Lazio. Un uomo come tanti. Nella casa a tre piani che affaccia sul mare di Ladispoli ci viveva con sua moglie Silvia e la loro unica figlia Sofia di 17 anni. Un condominio di quattro palazzine che regala una splendida vista sul Tirreno. 

Una famiglia normalissima che sì, aveva avuto e tutt' ora aveva momenti di tensione ma come possono capitare a chiunque. Nulla che lasciasse immaginare un epilogo come quello di ieri: la furia omicida di Fabrizio, un progettista meccanico di 48 anni, che con un coltello da cucina aggredisce la figlia e la moglie e poi tenta di suicidarsi. Tutti ricoverati in codice rosso. 

La più grave è la mamma la cui vita è appesa ad un filo. «Abbiamo sentito urlare aiuto, aiuto papà ci ha accoltellate e siamo usciti per le scale» racconta Enea che abita proprio al piano di sopra della famiglia Angeloni. «La ragazza ha fatto qualche gradino e poi si è accasciata per terra. Insieme agli altri condomini abbiamo subito chiamato i carabinieri. La porta è blindata e quindi c'è stato bisogno di un piede di porco per sfondarla». 

Parte del cilindro della serratura è per terra insieme ad un lago di sangue che proprio davanti la porta dell'ascensore. Anche sul campanello di un'altra vicina c'è del sangue. È sempre della ragazza che con tutte le sue forze ha chiesto aiuto.

«No, vi prego non voglio dire nulla di questa storia» dice la signora che per prima è intervenuta. È ancora sotto choc e si trincera dietro la porta di casa. Chi li conosce bene li descrive come una famiglia normalissima. Con i loro alti e bassi. 

«Li sentivamo litigare. Ultimamente spesso - continua sempre Enea - ma non avremmo mai immaginato che lui sarebbe arrivato a tanto. A dire la verità era quasi più lei ad alzare la voce. Da una quindicina di giorni la moglie aveva allontanato il marito da casa. Credo avesse chiesto la separazione. Ma ripeto non avrei immaginato che lui potesse prendere un coltello e fare quello che ha fatto». 

Disperazione nell'istituto di via del Ghirlandaio di Ladispoli dove insegna agli studenti delle medie. «I ragazzi di terza sono tutti sconvolti parla Teresa Villano, la vicaria e sono pienamente coscienti di quello che è avvenuto. Lo siamo anche noi del resto, e non ci resta che pregare perché è una tragedia che ci ha toccato profondamente».

Tristezza anche alla scuola Corrado Melone frequentata dalla 17enne Sofia. «La figlia è il commento del preside, Riccardo Agresti - è stata una studentessa della nostra scuola, sempre fra le migliori tanto da essere stata premiata più volte ed in ultimo avere avuto la licenza con 10 e lode nel 2019, al termine del suo corso di studi. 

Una ragazza sensibile, timida e riservata, ma sempre aperta, solare e disponibile. Il suo atto di difesa della madre è degno degli eroi, tipico delle persone come lei, sempre attenta alla difesa di chi abbia necessità. Anche la madre Silvia ha lavorato a più riprese con la nostra Scuola come docente di lettere, collaborando eccellentemente e instaurando ottimi rapporti con colleghi e studenti».

Via Milano pullula di telecamere e cronisti. Una via anonima di Ladispoli che però ha uno sbocco sul mare e quindi la rende una strada di passaggio. In tanti si affacciano da dietro i vetri o dalle terrazze per sbirciare cosa accade. Qualche macchina rallenta e cerca di capire qualcosa in più. In tanti conoscevano i coniugi Angeloni ma nessuno avrebbe mai immaginato la follia che ieri ha spinto Fabrizio ad accoltellare la moglie e la figlia. 

Carlo Fumagalli confessa l’omicidio di Romina Vento: «Voleva lasciarmi, l’ho annegata». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.

Fara Gera d’Adda, la confessione e la decisione del gip: deve restare in carcere. La donna spinta sottacqua dopo il volo con l’auto nel fiume Adda.

A Fara Gera d’Adda, il fiume era quieto, ieri mattina (22 aprile 2022), e incessante il viavai di persone davanti ai fiori e all’unica traccia rimasta della tragedia, un nastro spezzato, di quelli usati dai carabinieri per delimitare le scene dei delitti. In quegli stessi minuti, Carlo Fumagalli ripeteva al gip Vito Di Vita il racconto agghiacciante degli attimi in cui ha puntato l’auto di famiglia verso l’Adda e, una volta in acqua, ha annegato la compagna Romina Vento, 43 anni, che tentava di uscire dalla portiera e mettersi in salvo.

L’operaio, 49 anni, tre figli, di cui due avuti con la vittima, ha risposto in una camera di sicurezza dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. L’altra sera, in cella, lo hanno trovato con una corda delle tende che minacciava di volersi ammazzare . C’è il dolore. Ma c’è soprattutto una patologia psichiatrica «importante e persistente, certificata dall’estate 2021», evidenzia l’avvocato d’ufficio Fabrizio Manzari. Ossessioni, deliri. Nelle ultime cinque settimane, Fumagalli aveva interrotto la cura che gli era stata prescritta e proprio il giorno del delitto era stato male al lavoro. Sua madre, sua sorella, ma anche sua figlia sedicenne erano preoccupate, avevano avvisato Romina, impegnata dalle 13.30 alle 21.30 nel turno al pastificio Annoni. Lui è andata a prenderla all’uscita. Hanno accompagnato a casa Latino Puglisi, un collega della donna che vive a Fara, in via Crespi .

Salutato lui, la versione data da Fumagalli è di una lite iniziata prima di imboccare la strada che conduce al fiume. Sperava di recuperare il rapporto con la compagna, entrato in crisi tra gennaio e febbraio. Ha affrontato l’argomento. «Quando Romina mi ha risposto che mi avrebbe lasciato definitivamente, mi è andato il sangue alla testa», l’espressione usata nell’interrogatorio. «Ha un grave disagio psichico», spiega l’avvocato Manzari. Così, ha girato verso l’Adda, ha percorso la strada che porta al centro sportivo, ha accelerato sul lungofiume e si è infilato nell’unico varco verso il greto. E neanche dopo che la Megane è piombata in acqua, davanti agli sguardi impauriti di due trentenni che avevano finito una partita di calcetto, il demone che aveva dentro s’è placato. Con l’auto mezza sommersa, quando ha visto la compagna aprire la portiera e cercare di liberarsi, ha raccontato di averla bloccata e spinta sottacqua. Le grida d’aiuto «di una donna», udite dai testimoni, probabilmente combaciano con quel tragico frangente.

Il seguito è la scena illuminata con le torce degli smartphone: Fumagalli, nuotando, ha raggiunto l’isolotto più vicino, si è messo in salvo ed è scomparso tra la vegetazione. I carabinieri della Sezione operativa della compagnia di Treviglio lo hanno intercettato a Vaprio d’Adda tre ore dopo , in strada.

Fine di una notte di follia, non dell’incubo. Il gip ha convalidato l’arresto e disposto che, una volta ripresosi, l’operaio torni in carcere. Se ha rischiato la sua vita pur di portare a compimento il delitto, al momento non c’è altra misura cautelare che possa ritenersi adeguata, è la conclusione. L’unica aggravante contestata resta il legame di convivenza con la vittima, mentre anche da questo passaggio è esclusa la premeditazione. Gli orari e la testimonianza del collega Puglisi sembrano smentire Fumagalli sul fatto che non abbia subito preso la via del fiume. Ma forse è difficile ipotizzare che nella sua mente ci fosse un piano preordinato.

Da corriere.it il 20 aprile 2022.

È stato arrestato Carlo Fumagalli, 49 anni, ritenuto responsabile di aver provocato la morte per annegamento della propria compagna, Romina Vento, 44 anni, lanciandosi con l’auto nel fiume Adda nella tarda serata di ieri. Allo stato l’accusa per l’uomo è di omicidio volontario aggravato. Pare che la coppia fosse in crisi e la donna avesse deciso di lasciare il compagno. 

Alcuni testimoni oculari avrebbero visto l’auto che a velocità sostenuta passava nel varco esistente tra due tratti di guard-rail della strada che costeggia l’Adda lanciandosi poi nel letto del fiume, dove si è inabissata quasi completamente. I testimoni hanno sentito una voce femminile chiedere aiuto e successivamente, accese le torce dei cellulari, avvistato un uomo che, nuotando fino alla lingua di terra che si erge in mezzo al fiume, scompariva tra la folta vegetazione presente.

Allertati i soccorsi, sul posto sono giunti i carabinieri della Compagnia di Treviglio e quelli del Nucleo Investigativo di Bergamo, che hanno subito avviato le ricerche dell’uomo ed eseguito il sopralluogo; i sommozzatori di Treviglio, che dopo circa un’ora di ricerche in acqua hanno rinvenuto lontano dal veicolo sommerso il corpo della donna fuoriuscita dall’abitacolo, e i sanitari del 118 i quali, eseguite invano le manovre rianimatorie, hanno constatato il decesso.

Intanto i vigili del fuoco, oltre che garantire la necessaria illuminazione con i fari in dotazione, hanno proceduto al recupero della vettura dal fondo del fiume. Intanto le ricerche dell’uomo, estese dai carabinieri anche sull’altra sponda dell’Adda, a distanza di circa tre ore dal fatto hanno permesso di rintracciare l’uomo mentre vagava per strada nel territorio di Vaprio d’Adda e di condurlo in caserma a Treviglio per comprendere l’accaduto. Le indagini, condotte per tutta la notte dai militari della Sezione operativa di Treviglio, hanno consentito di ricostruire gli eventi e di formulare l’ipotesi di omicidio volontario, per la quale l’uomo è stato tratto in arresto e portato in carcere.

Recuperata dall’acqua, la salma è stata trasportata per la successiva autopsia alla camera mortuaria dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo su disposizione dell’autorità giudiziaria.

Maddalena Berbenni per corriere.it il 21 aprile 2022.

Il fiume. Da sempre. Ogni giorno della sua esistenza. Carlo Fumagalli è cresciuto a Vaprio, sulla sponda milanese dell’Adda, dove ancora vivono i suoi genitori e dove aveva conosciuto Romina Vento, anche lei originaria del paese. Insieme alla donna, nel 2003, si era trasferito a Fara, altra provincia, di Bergamo, ma comunque sempre lì, sull’Adda. Lo attraversava tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro. Al fiume andava a nuotare. 

Al fiume portava i due figli nati dalla relazione. Al fiume, infine, ha deciso di porre fine alla vita della sua compagna. Senza esitazione, forse anche perché quelle acque sono il suo elemento, ha spinto sull’acceleratore. Romina Vento, 43 anni, è morta annegata martedì 19 aprile , negli stessi istanti in cui Carlo Fumagalli, 49, raggiungeva la riva e dal fiume riemergeva, salvo.

Il legame con l’Adda è quel poco emerso finora sul conto dell’uomo, arrestato con gli abiti ancora fradici. Il pm Carmen Santoro, sulla base delle indagini dei carabinieri della compagnia di Treviglio, lo accusa di omicidio volontario aggravato dal rapporto di convivenza. Il quadro sembra piuttosto definito, rafforzato, parrebbe, dalle dichiarazioni rese in carcere dallo stesso Fumagalli. Non ha pianto né espresso emozioni o chiesto dei figli a casa. Ne ha un terzo, quasi trentenne, che vive altrove con la fidanzata e martedì sera ha partecipato alle ricerche. 

Fisico atletico, alto un metro e 90, Fumagalli ha frequentato per alcuni periodi la palestra del paese. Non era fissato, dicono, ma sportivo, sì. Chi lo conosce lo descrive come una persona tranquilla, con una vita senza eccessi o stranezze, neanche particolari amicizie. C’erano la famiglia, il lavoro come addetto al taglio del tessuto alla Duca Visconti di Modrone, lo sport. E le uscite al fiume. Solo qualche collega si era reso conto delle difficoltà che stava attraversando, sia psicologiche sia con la compagna. Ne aveva accennato.

Era in cura psichiatrica da mesi e nei giorni precedenti al delitto aveva sospeso le medicine. Con Vento si era iniziato a parlare di separazione. Chi indaga ritiene possa essere il movente. Se qualcosa in particolare abbia innescato la fine, magari una lite, non è chiaro. Di certo, se, come pare non c’è strato un piano (la premeditazione al momento non è contestata), tutto è trasceso in 7 minuti, quelli trascorsi tra la fine del turno di Vento e la chiamata ai soccorsi fatta dai testimoni della tragedia. Dopo il volo dell’auto, hanno puntato le torce degli smartphone verso il fiume e illuminato Fumagalli.

Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.

Carlo Fumagalli - suo compagno e padre dei figli di 10 e 15 anni - è stato l'unico ad averla vista mentre stava annegando. Ma diversi testimoni, nel buio, l'hanno sentita gridare. Romina Vento, 44 anni, è morta martedì sera intorno alle 23 a Fara Gera d'Adda (in provincia di Bergamo), dopo che l'auto sulla quale viaggiava è finita nel fiume. L'uomo, che al momento dell'impatto si trovava alla guida, è stato arrestato ieri mattina per omicidio volontario aggravato. 

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri della Compagnia di Treviglio, da parte del 49enne vi sarebbe stata tutta l'intenzione di inscenare un incidente, sapendo che sarebbe riuscito a salvarsi grazie alle sue abilità nel nuoto.

Chi si trovava in zona ha riferito ai militari di aver visto la Renault Megane della coppia viaggiare ad alta velocità sulla strada che costeggia il fiume Adda, per poi attraversare il varco tra due guardrail e gettarsi nell'acqua. A quel punto, la voce di Romina è stata udita chiaramente: gridava e chiedeva aiuto. Subito dopo, il silenzio.

Fumagalli - che sarebbe un nuotatore esperto - è stato visto raggiungere dapprima un isolotto e poi la sponda del fiume, dove è riuscito a far perdere le proprie tracce nascondendosi tra la vegetazione. All'arrivo dei soccorsi, per la donna non c'era più niente da fare e il corpo è stato recuperato dai sommozzatori circa un'ora più tardi ad alcune centinaia di metri dalla macchina. 

L'IPOTESI Fin dall'inizio è parsa poco credibile l'ipotesi di un incidente. Nessun altro mezzo è stato coinvolto e quella folle manovra dell'auto non poteva essere un errore. L'uomo - che secondo le prime ricostruzioni si sarebbe limitato ad allontanarsi - non avrebbe tentato in alcun modo di aiutare la compagna. Sembrerebbe, inoltre, che lui conoscesse bene le acque dell'Adda, dove già in passato era andato più volte a nuotare con i figli. Al contrario, è possibile che Romina non sapesse mantenersi a galla e non è da escludere che l'uomo si sia servito proprio di questa caratteristica per raggiungere il suo obiettivo. Il 49enne è stato rintracciato intorno alle 2 di notte a pochi chilometri di distanza, nel comune di Vaprio d'Adda, dove vagava da solo per strada. 

Accompagnato in caserma, è stato poi sentito dagli inquirenti fino alla ricostruzione dei fatti che lo hanno portato all'arresto.

Nei minuti successivi alla tragedia, una delle più grandi preoccupazioni era che i figli della coppia potessero trovarsi in macchina con i genitori. Fortunatamente, il bambino di 10 anni e la figlia 15enne - che avrebbe appreso la notizia vedendo la foto dell'auto pubblicata su alcune testate online - si trovavano a casa, nel piccolo Comune dove la famiglia abitava.

Le operazioni di soccorso sono state piuttosto concitate: sul posto, i carabinieri della Compagnia di Treviglio e quelli del Nucleo investigativo di Bergamo hanno immediatamente avviato le ricerche del 49enne, mentre i sommozzatori cercavano la salma e i vigili del fuoco recuperavano la macchina. Il personale del 118 ha tentato le manovre di rianimazione sulla donna, ma i medici non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. 

IL MOVENTE Le ragioni dietro a questo tremendo gesto potrebbero individuarsi in una crisi che la coppia stava attraversando. È possibile che tra i due ci fossero dei problemi e che la donna avesse intenzione di lasciare il compagno. Un altro aspetto, questo, su cui stanno lavorando gli inquirenti. Romina Vento lavorava da anni in un pastificio di Fara Gera d'Adda, mentre Fumagalli è dipendente di una ditta tessile poco distante dalla zona in cui è stato rintracciato alle prime ore di ieri mattina.

Non è ancora certo se l'omicidio sia stato pianificato o se l'uomo abbia deciso improvvisamente di compiere quella manovra verso il fiume. Sul corpo della donna, che sarebbe morta per annegamento, verrà comunque eseguita l'autopsia, mentre l'auto è stata posta sotto sequestro. Resta da chiarire, infatti, se la 44enne sia stata sbalzata dalla vettura al momento dell'impatto o se sia riuscita ad aprire la portiera annegando subito dopo.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 2 Aprile 2022.

Quando il padre della ragazza se l'è trovato davanti, con i carabinieri che lo stavano ammanettando dopo averlo immobilizzato con lo spray al peperoncino, ha cercato di saltargli addosso per farsi giustizia da solo. 

L'epilogo drammatico di una notte da incubo per una sedicenne romana che ha rischiato di essere gettata dal terrazzo di un bed&breakfast nel centro di Civitavecchia dal suo fidanzato, che mesi fa aveva conosciuto sui social, intrecciando una relazione prima in chat e poi di persona nonostante avesse il doppio dei suoi anni: un pugile amatoriale di 32 anni, Ivan Rossi, arrestato dai militari dell'Arma per tentato omicidio e resistenza a pubblico ufficiale, ma ora già libero dopo che il gip del tribunale della cittadina portuale ha convalidato il provvedimento. Rossi, affetto da sordomutismo, ha però il divieto di avvicinarsi alla giovane e ai luoghi da lei frequentati. 

Una decisione legata al fatto che il 32enne è ancora incensurato, nonostante qualche precedente di polizia non ancora passato in giudicato, e che la sua ormai ex fidanzata minorenne abita a Roma con la famiglia, a decine di chilometri di distanza, pur essendo originaria sempre di Civitavecchia.

Adesso chi indaga lo tiene sotto controllo per evitare che ci possano essere repliche a quanto accaduto nella notte di sabato scorso quando le pattuglie della compagnia di Civitavecchia sono accorse al b&b dopo la richiesta d'aiuto da parte dei genitori della 16enne. È stata lei a contattarli dall'appartamento preso in affitto con il 32enne solo qualche ora prima. Dopo otto mesi di relazione sentimentale quello dello scorso weekend era il primo fine settimana da trascorrere da soli. 

Da quello che i militari dell'Arma hanno ricostruito sembra che i genitori della minorenne non avessero mai approvato il fidanzamento della figlia, ma la giovane aveva comunque continuato a uscire lo stesso con il pugile, oltre che chattare di continuo con lui. Un rapporto insomma alla luce del sole, tramontato quando il 32enne, stando alle indagini, ha capito che comunque nella notte di sabato non sarebbe rimasto in intimità con la ragazza in quell'appartamento. 

Non è chiaro se a quel punto fosse già ubriaco oppure abbia alzato il gomito quando la minorenne lo ha rifiutato, fatto sta che ha perso il controllo e ha deciso di aggredirla. Non un tentativo di violenza sessuale - e infatti non gli è stato contestato questo reato -, ma schiaffi e spintoni nell'appartamento, con la giovane che si è difesa, fino a quando è stata afferrata e trascinata sul terrazzo dove Rossi ha tentato di alzarla per buttarla di sotto.

Non c'è riuscito solo perché i carabinieri, impegnati in un servizio di vigilanza sulla movida in centro, erano già in zona ed erano stati appena avvertiti dai genitori della ragazza: poco prima era stata proprio lei a telefonare alla madre chiedendole aiuto, forse per la prima volta dall'inizio del complicato rapporto con il pugile: «Venitemi a prendere, è impazzito». 

E così mentre i suoi si precipitavano in macchina da Roma a Civitavecchia, i carabinieri sono riusciti a bloccare il 32enne. «Mettila giù e allontanati!», gli hanno prima gridato dalla strada. Rossi, che non è nemmeno accusato di sequestro di persona aggravato su minore perché ha comunque lasciato il telefonino alla vittima consentendole di chiamare la sua famiglia, l'ha lasciata andare e lei è corsa ad aprire il portoncino ai militari dell'Arma.

Ma il pugile non si è arreso subito. È stato necessario spruzzargli addosso lo spray urticante. «Lo hanno usato anche quando era già a terra, immobilizzato», ha accusato la madre ieri pomeriggio in tv. Il 32enne è stato quindi condotto a Regina Coeli dove nei giorni scorsi è comparso davanti al gip che ne ha ordinato la scarcerazione. La ex fidanzata è stata invece accompagnata all'ospedale San Paolo in stato di choc: non pensava che il suo ragazzo sarebbe arrivato fino a questo punto. 

Indagini sul pugile di Civitavecchia: il sospetto che possa aver aggredito altre persone. Rinaldo Frignani Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2022.

Anche la madre potrebbe essere sentita dopo le sue dichiarazioni in tv: sapeva che il figlio poteva diventare violento e che stava da solo con la fidanzata sedicenne nel b&b dove ha poi tentato di ucciderla. Le precedenti denunce per reati contro la persona. 

Pericoloso quando alza il gomito. Al punto da aver cercato di uccidere la sua giovanissima fidanzata lanciandola dal terrazzo del b&b dove invece dovevano trascorrere il primo fine settimana insieme e da soli. Anche la madre Fiorella ha tracciato un ritratto del figlio, il pugile amatoriale Ivan Rossi, 32 anni, finito al centro di un’indagine dei carabinieri della compagnia di Civitavecchia nella quale si configura il reato di tentato omicidio della giovane. E per questo motivo, essendo la donna al corrente del comportamento del figlio e del fatto che si sarebbe trovato da solo con una minorenne, come ha raccontato in un’intervista in tv, proprio la madre del pugile potrebbe essere sentita presto in procura per chiarire come mai non abbia preso posizione cercando di salvaguardare l’incolumità della 16enne. Perché proprio a Civitavecchia il figlio è conosciuto per alcuni precedenti di polizia per aver alzato le mani troppo spesso.

Nessuna vicenda giudiziaria passata in giudicato, tanto che fino a oggi Rossi risulta incensurato (e il gip ha tenuto conto anche di questo particolare nella decisione di rimetterlo in libertà dopo l’arresto), ma un atteggiamento che non è nuovo alle forze dell’ordine, e nemmeno in famiglia. Per questo motivo se dovessero emergere altri episodi di maltrattamenti nei confronti della minorenne la posizione del pugile potrebbe aggravarsi ulteriormente.

Per ora Russo è tenuto, sempre su ordine del giudice, a rispettare il divieto di avvicinamento alla sua ormai ex fidanzata e ai luoghi da lei frequentati, tenendo presente che pur essere originaria di Civitavecchia, la 16enne vive ormai da qualche tempo a Roma con i genitori, che si sono trasferiti nella Capitale per motivi di lavoro. Quindi a distanza di alcune decine di chilometri dall’abitazione di Russo.

Il racconto della minorenne è stato raccolto dai carabinieri nell’immediatezza dei fatti, quindi nonostante la madre del pugile abbia tentato di sminuirne le responsabilità, chi indaga ha un quadro completo di quello che è accaduto nel b&b nel centro di Civitavecchia la notte del 26 marzo scorso, quando Russo - ubriaco e arrabbiato perché la minorenne lo aveva rifiutato, forse proprio per questo motivo - ha aggredito la fidanzata che nel frattempo aveva telefonato alla madre chiedendole aiuto. Da qui la telefonata al 112 dei genitori della giovane e l’intervento provvidenziale di una pattuglia che aveva sorpreso il pugile sul balcone dell’appartamento mentre tentava di buttare di sotto la ragazza.

Viviana Micheluzzi, 50 anni, la vittima. Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022. 

Ha ucciso la moglie e poi ha rivolto l’arma contro se stesso. Tragedia familiare nel primo pomeriggio — intorno alle 14 — a Castello di Fiemme, in Trentino. Mauro Moser, 56 anni, ha sparato con una pistola Glock calibro 9 alla coniuge di 50 anni. La vittima si chiama Viviana Micheluzzi ed era un’apicoltrice. Dirigeva l’azienda agricola «Dolci sapori del bosco». I contorni del dramma sono ancora da chiarire e i carabinieri sono al lavoro per ricostruire la dinamica. Sarebbero stati due dei tre figli — Oscar (26 anni), Ivan (22) e Nico (20) — a trovare la coppia senza vita. Sono stati entrambi ricoverati al pronto soccorso dell’ospedale di Cavalese in stato di choc.

Mauro Moser era il figlio dell’ex sindaco di Molina di Fiemme, Adriano Moser, che aveva amministrato il piccolo comune alla fine degli anni Ottanta. Fino a 10 anni fa Mauro Moser aveva svolto la professione di spazzacamino. Poi aveva affiancato la moglie nella conduzione dell’azienda agricola che produce miele. Viviana era invece il motore dell’azienda, un’appassionata apicoltrice. I corpi sono stati ritrovati in una stradina di campagna che conduce ad uno dei terreni gestiti dalla coppia dove sostano numerose arnie. I corpi erano affiancati. La coppia si era incamminata a piedi. Sembra che stessero per separarsi, una scelta che Mauro Moser non ha accettato. La pistola utilizzata per uccidere la moglie, secondo le prime ricostruzioni, sarebbe stata acquistata nella mattinata di martedì. L’uomo aveva comunque il porto d’armi perché era un cacciatore e i carabinieri hanno sequestrato a casa anche un fucile a piombini.

Marco Larger, sindaco di Castello di Fiemme, non ha nascosto la sua commozione di fronte al violento epilogo. «Ho la pelle d’oca. Non mi so dare una spiegazione, li conoscevo. Mi spiace molto — ha detto —. Ci vuole adesso una reazione della comunità che riesca ad elaborare questa storia. Può essere anche un riflesso dei drammi che stiamo vivendo, degli scontri: dal Covid alla guerra. Ce la prendiamo con il vicinato o la famiglia. La risposta? È solo nell’amore, sembra una bestemmia dirlo oggi con una guerra in corso. La nostra società è ammalata e facciamo fatica sotto tanti punti di vista». L’assessora provinciale alle politiche sociali, Stefania Segnana, ha espresso «profondo dolore» per quanto accaduto «e un pensiero di affetto per i figli rimasti soli dopo il dramma odierno e di solidarietà all’intera comunità. Comunità che auspico sappia stringersi attorno ai ragazzi per dare loro la forza di superare questa terribile prova». Di fronte al nuovo episodio di femminicidio, l’assessore Segnana ha ribadito inoltre «l’impegno della Provincia autonoma di Trento nel contrasto alla violenza contro le donne e l’invito a tutte coloro che si trovano in una situazione di violenza domestica a rivolgersi ai servizi territoriali e alle autorità competenti».

Donna uccisa a Lentini, indagato il marito: "Si è suicidata", ma per gli inquirenti non è credibile. Alessia Candito su La Repubblica il 14 Marzo 2022.

Massimo Cannone è il principale sospettato per la morte della moglie Naima Zahir. A uccidere la donna una profonda coltellata alla gola. 

"Si è suicidata. Le ho tolto il coltello dalla gola, ma era già morta". Lo hanno interrogato per una notta intera, ma ha continuato a ripetere la medesima versione Massimo Cannone, il marito di Naima Zahir, la donna quarantacinquenne trovata morta sabato sera nella sua casa di Lentini.

Una versione che non convince investigatori e inquirenti, che hanno iscritto l'uomo nel registro degli indagati. Attualmente, è lui il principale sospettato. Anche perché più e più volte, Cannone nel suo racconto avrebbe aggiunto dettagli, per poi correggersi e modificare la storia ancora. E poi, per la procura, quello di Naima Zahir è un omicidio.

A dirlo con certezza però potrà essere solo l'autopsia, in programma per mercoledì. Toccherà ai medici far parlare la ferita che attraversava il collo della donna, per comprendere se possa essere compatibile con l'ipotesi di suicidio. Nel frattempo, con il coordinamento del pm Gaetano Bono, gli agenti della squadra mobile e del commissariato di Lentini sull'uomo continuano a indagare.

Sotto sequestro sono finiti i vestiti che Cannone portava quella sera, come i filmati delle telecamere di videosorveglianza della zona. E si scava nella vita della coppia per capire se già in passato ci fossero stati episodi di violenza. Per questo, da giorni vengono sentiti parenti, amici, vicini di casa, come i titolari degli esercizi commerciali della zona. Fra le persone ascoltate più volte, anche il figlio diciannovenne della coppia, che quella sera non era in casa.

Intanto, il principale indagato ha usato trasmissioni radio e tv per raccontare la sua versione. Si dice innocente, giura di essere uscito di casa un'ora prima di quella in cui si stima sia avvenuto il delitto e di aver trovato la moglie esanime al suo ritorno. Ma ci sono una serie di dettagli che non tornano.

In camera da letto, qualcuno ha tentato di lavare via il sangue che era scivolato fin sul pavimento. "Ho pulito io" ha ammesso Cannone, ma senza fornire una spiegazione credibile. Così come non si comprende perché non abbia chiamato un'ambulanza, ma sia uscito nuovamente. "Ho mandato un messaggio a mio figlio dandogli appuntamento da mio fratello, perché non volevo che vedesse quella scena. Poi è stato mio fratello che ha chiamato polizia e l'ambulanza" ha detto ai microfoni della trasmissione "Ore 14" di Rai due. "Quando sono ritornato a casa, c'era la polizia che mi ha subito portato via". Una versione inverosimile, si commenta in ambienti investigativi. E sulla morte di Naima Zahir si continua a indagare.

Naima Zahir, con la confessione del marito l'ultimo insulto alla donna uccisa: "Quando ero ubriaco mi rimproverava". Natale Bruno su La Repubblica il 16 marzo 2022.

Ex tossicodipendente da mesi in cura al Sert di Siracusa, era ricaduto nella droga.  

"Con lei mi sentivo agli arresti domiciliari, mi controllava, non voleva che uscissi di casa, che facessi tardi. Ogni volta che mi ubriacavo mi rimproverava. Era ossessiva. L'ho uccisa io...". E' questa la confessione shock di Massimo Cannone, il tappezziere quarantacinquenne che ha assassinato la moglie Naima Zahir sabato sera nella loro casa di Lentini. Messo alle strette, dinanzi al sostituto procuratore di Siracusa Gaetano Bono, Cannone ha ammesso il femminicidio. "Avevamo appena finito di mangiare la pizza e quando lei si è seduta sul divano per leggere l'ho colpita di sorpresa con una prima coltellata, poi la seconda...".

Prima della confessione dell'assassino gli investigatori dalla polizia di Siracusa con un lavoro certosino avevano già ricomposto il puzzle del femminicidio di Lentini ricostruendo nei minimi dettagli anche il menage familiare. Cannone, ex tossicodipendente da mesi in cura al Sert di Siracusa, era ricaduto nel mondo della droga. Spesso usciva di casa e vi faceva rientro a tarda ora, talvolta tornava ubriaco.

Spesso litigava con la moglie, ma i litigi non erano mai degenerati sino a sabato sera quando Cannone ha preso un coltello da cucina e l'ha colpita due volte alla gola. In un primo momento aveva riferito agli investigatori della Squadra mobile e del commissariato di Lentini di essere certo del suicidio della moglie. Ai giornalisti aveva raccontato di essere "andato in tilt" quando ha trovato il corpo senza vita della moglie con il coltello conficcato alla gola che lui ha pure estratto. Una ricostruzione che non ha retto alle indagini portate avanti dagli inquirenti. Così Cannone ha confessato.

Sopravvivere al femminicidio: «Raccontare cosa mi è successo può salvare la vita». L'Espresso il 10 marzo 2022.  

Beatrice Fraschini, Livia Prosperi e Maria Teresa D’Abdon fanno parte dell’associazione Difesa donne, impegnata a offrire primo soccorso alle donne in difficoltà e a sensibilizzare sul tema della violenza patriarcale. Seppur in modo diverso sono tre sopravvissute, unite dal desiderio di mettere la loro storia al servizio delle altre. Perché non si ripeta mai più

di Erika Antonelli.

«Raccontare quello che mi è successo significa liberarsene. Affidarne un pezzettino a chi mi sta ascoltando, per scaricare il peso che altrimenti mi porterei addosso da sola». Per Beatrice Fraschini la condivisione passa attraverso il potere salvifico delle parole, filo conduttore in grado di unire queste donne che restano. E raccontano, costruendo ponti a disposizione delle altre, perché non accada più che una donna muoia per mano di un uomo, vittima di femminicidio.

Nel 2021, l’anno in cui è stata fondata l’Associazione di cui anche Fraschini fa parte, hanno perso la vita in 119 (due in meno dell’anno precedente). Calano i femminicidi ma aumentano gli episodi di stalking, i maltrattamenti e i reati sessuali, come denunciava pochi giorni fa un’analisi realizzata dal Dipartimento di pubblica sicurezza. Ed è proprio per prevenire che Beatrice ha deciso di mettere a disposizione la sua storia.

«All’inizio lui era solo frenetico, più iperattivo, dormiva sempre meno. Poteva essere un segnale che non stesse bene. Avevamo ripreso a frequentarci dopo una pausa di qualche mese e lui aveva cambiato terapeuta. Lei volle vedermi, le raccontai le mie perplessità sul suo comportamento. Mi rassicurò. Non mi sarei mai aspettata di arrivare a quel punto». L’ex fidanzato di Fraschini era in cura per aver già dimostrato atteggiamenti violenti verso un’altra donna. Ma la psicologa la rassicura sul corretto svolgimento della terapia e lei si fida. Dopo la frenesia che l’aveva insospettita arrivano i commenti fisici. Innocui all’inizio: «Ma guarda che sei già bella di tuo, non devi truccarti troppo. A che serve quella minigonna?». Poi il bisogno di colmare ogni ritaglio di tempo libero con la presenza fisica. «Mi veniva a prendere ogni giorno quando staccavo dal lavoro, pur abitando in un quartiere distante. Se dicevo che non ce n’era bisogno si insospettiva, “mica hai un altro”, allora acconsentivo». E poi i messaggi, assillanti, per rendicontare ogni spostamento: «Era reciproco per quanto soffocante, lo facevo anche io e lo consideravo una sorta di dare e avere».

Non lo era. Il suo ex fidanzato, quattro anni e mezzo insieme, ha provato ad ammazzarla dopo averla segregata in un appartamento e seviziata per quattro giorni. Per salvarsi la vita Fraschini è saltata dalla finestra del secondo piano, con il corpo contuso ma finalmente libera.

«Appena salita in ambulanza ero tranquilla, perché sapevo di essere al sicuro. Quando mi hanno dimessa ho sentito la necessità di fare qualcosa. Non volevo che la mia vicenda passasse sotto silenzio. E forse quel che è capitato a me può essere d’aiuto a un’altra». Per il suo ex, condannato a sei anni in primo grado poi ridotti a quattro in appello, non c’è più rabbia ma solo pena. «Per l’ennesima volta ha buttato al vento la possibilità di dimostrare di essere diverso». Mentre lei i suoi cocci ha saputo raccoglierli, coronando un sogno che teneva in tasca già da qualche tempo: «All’inizio di marzo 2020 sono diventata volontaria della Croce verde, portavo la spesa a chi non si poteva muovere da casa. Appena è stato possibile ho fatto il corso per diventare soccorritrice. Mio padre, che in Croce verde ci lavora, voleva proteggermi da un mondo che spesso è duro. Ma il solo fatto di aver vissuto quello che ho vissuto abbatteva queste preoccupazioni».

Anche Livia Prosperi fa la volontaria, «ho iniziato otto anni fa, forse questo senso del dovere me lo porto dietro da un bel po’». Lo dice e ride e poi si fa seria spiegando perché racconta di sua madre, Roberta Priore, uccisa dal suo compagno nel 2019. «Ho superato la parte del doverle rendere giustizia, io so chi era mia mamma e questo basta. Lo faccio perché so che lei avrebbe messo a disposizione delle altre donne la sua storia». All’inizio non è stato facile. «A lungo sono stata accerchiata dalla paura di cosa pensasse di me chi mi conosceva. Pian piano però ho sentito che non volevo la mia storia rimanesse lì. Succede ad altre donne, può succedere a chiunque. Per me e mia mamma non c’è più tempo, per le altre sì». Anche se trovarle, le parole per dirlo, costa fatica: «La sera prima degli incontri ho sempre zero voglia, emotivamente è una batosta, ma spero serva a chi mi ascolta. Dopo ne esco appesantita ma felice. Una volta una ragazza mi ha detto “non smettere mai di raccontare la tua storia così, perché fai la differenza”. E allora continuo nella missione che mi sono data». A sentirla parlare sembra che Prosperi abbia due cuori. «Per me è importante scindere il ruolo di figlia da quello di testimone e cerco di non sovrapporre mai i due aspetti. Nella mia testimonianza non porto il mio dolore, altrimenti chi mi sente oltre a piangere non conserverebbe nulla. Condivido quel che mi è successo perché non accada più».

Per evitare che chi la ascolta perda ciò che lei e sua madre non possono più recuperare: il tempo. «Si dice sempre “perché le donne non si allontanano da un uomo violento?”. Non lo fanno perché sono innamorate. E mia madre era sinceramente innamorata. Avevo la sensazione non fosse l’uomo giusto per lei, ma non la sentivo urgente. E poi non c’è stato il tempo materiale, mia mamma l’ha conosciuto a novembre ed è morta a marzo». Una settimana dopo, lui si toglie la vita in carcere. «Ha scelto tutto da solo. Lui ha deciso che mia madre non sarebbe mai diventata nonna, che non sarebbe mai venuta alla mia laurea. Avrei voluto un processo, una giustizia. Non l’ho mai più visto. Non so neppure come siano andate le cose e non lo saprò mai, ma forse non è importante». Non c’è astio verso quell’uomo, la memoria di Prosperi è fissa sul ricordo di sua mamma: «Non mi concentro a odiarlo, ma su quello che lei è stata e mi ha insegnato. Tolleranza, amore, accoglienza. Voglio cercare di stare bene e far star bene gli altri».

La capacità di plasmare il dolore incanalandolo in testimonianza è il filo che collega Beatrice a Livia e loro due a Maria Teresa D’Abdon, una madre che ha perso sua figlia, Monica Ravizza, per mano del suo fidanzato, nel 2003. «All’inizio non accettavo di perdonare, poi ho iniziato a elaborare il lutto. Ho capito che dovevo incontrare la mamma del ragazzo. Le ho lasciato una lettera nella buca della posta, invitandola in chiesa per la commemorazione di Monica. L’ho vista arrivare e le sono andata incontro, ci siamo abbracciate. Quando ci siamo messe a parlare, però, ha giustificato il gesto del figlio. Mi sono cadute le braccia. Poi mi sono detta di aiutare chi ha bisogno». E così ha fatto, fondando l’associazione Difesa donne nel 2021.

Un modo per connettere chi resta, familiari di donne che hanno subito violenza o donne che l’hanno vissuta in prima persona. Con l’obiettivo di fornire primo soccorso a chi si rivolge loro e fare attività di prevenzione e sensibilizzazione (tra i fondatori dell’Associazione c’è anche Roberto Ottonelli, autore di un libro contro la violenza di genere, “Credi davvero che sia sincero”, incentrato sul femminicidio di Monica Ravizza). «Non dimentico quello che è successo, dice D’Abdon, ci sono momenti in cui il pianto soffoca il respiro, poi mando giù e capisco che la cosa migliore da fare è agire». Per riempire il tempo, per un atto di fede verso chi amavi e non c’è più. «Mi muovo e ricomincio, là fuori qualcuno ha bisogno di me. E quando sento quelle donne che chiamano di notte chiedendo aiuto, la loro voce mi colpisce dritta al cuore. Gli offrirei anche il mondo intero. Sono sempre riuscita ad aiutarle a ricominciare. Quando succede mi sento sollevata. E spero che mia figlia gioisca vedendo quello che sto facendo».

Così, con questa specie di ricordo militante, che non è solo commemorazione ma azione concreta per cambiare le cose, Beatrice Fraschini, Livia Prosperi e Maria Teresa D’Abdon hanno plasmato il dolore. Con le parole, che sono diventate strumento di condivisione, allerta, prevenzione. E salvando le altre, hanno salvato anche se stesse.

Femminicidio a Ravenna: uccide la moglie, chiama i carabinieri e si butta dal balcone. La Repubblica il 10 marzo 2022.

La vittima è Maria Ballardini. Il marito, 77 anni, è ricoverato al Bufalini di Cesena in gravi condizioni dopo un volo dal terzo piano. Prima l'ha uccisa poi ha chiamato le forze dell'ordine. E quando sono arrivati i carabinieri si è gettato dal balcone. Femminicidio a Ravenna. Maria Ballardini, che a settembre avrebbe compiuti 83 anni, è stata trovata morta introno alle 12.30 all'interno del suo appartamento di via Gardella, alle porte del centro storico.

Il corpo presentava segni di fendenti sferrati con un'arma bianca, presumibilmente un coltello da cucina. Il marito, Mario Claudio Cognola, 77 anni, pensionato, nato a Pergine Valsugana (Trento) ma da tempo residente nella città romagnola, si trova ricoverato dopo un volo dal balcone dell'appartamento, al terzo piano di uno stabile condominiale del quartiere residenziale.

Sul posto sono intervenuti sia i carabinieri che i Pm Daniele Barberini e Marilù Gattelli e il medico legale  dell'Ausl Romagna. "E' stato il marito che ha chiamato e ha dato l'allarme, poi quando sono arrivati i carabinieri, si è gettato dalla finestra" spiega il procuratore di Ravenna, Daniele Barberini, dove aver concluso il sopralluogo. "Quello che sappiamo è che non c'erano problemi, screzi, denunce in famiglia. Attediamo gli esiti degli accertamenti a partire dall'esame autoptico".

In particolare gli inquirenti vogliono capire quanti fendenti siano stati sferrati contro la donna, quali abbiano avuto esito mortale e se in quel momento la vittima dormisse, fosse sedata o altro. Indagini per cercare di ricostruire la dinamica dell'omicidio. L'uomo potrebbe avere lasciato un bigliettino per spiegare l'accaduto.

La salma della donna è stata trasferita in obitorio a Ravenna in attesa di autopsia. L'uomo si trova ricoverato in gravi condizioni nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale "Bufalini" di Cesena: i medici si sono riservati la prognosi. 

"È successo ancora. E questa volta nella nostra città", commenta l'associazione Linea Rosa, insieme a La Casa delle Donne, Rete Donne Cgil, Udi e Donne in Nero. "Una condanna netta e senza appello", scrivono, aggiungendo che "la cultura del patriarcato ha mietuto una nuova vittima e ancora una volta è successo ad una anziana".

Da leggo.it l'8 marzo 2022.

Era scappata dalla relazione con un uomo violento, ma anche il suo nuovo compagno non è stato da meno: doveva essere il suo «salvatore», ma la picchiava anche lui. Un uomo di 55 anni è stato arrestato dai carabinieri a Carate Brianza (Monza) per maltrattamenti gravi e ripetute aggressioni alla compagna: in una di queste, dopo averla trascinata in un bosco, l'ha ferocemente picchiata, fino a fratturarle due vertebre.

Lei, in ospedale, aveva raccontato di essere caduta, ma la segnalazione ai militari era partita comunque. Quando è tornata dai sanitari a dicembre, dopo aver ricevuto un pugno allo stomaco, ha trovato il coraggio di confermare le ripetute percosse e vessazioni subite. A quanto emerso, a ottobre, la donna si era rifugiata dall'uomo dopo essere fuggita da un'altra relazione violenta dalla quale lui si era offerto di «salvarla». Il 55 enne, per decisione del Gip di Monza, è stato portato in carcere.

Lo scorso agosto la donna era riuscita a lasciare l'ex convivente violento, trovando nel 55enne di Verano Brianza (Monza) il suo «salvatore», come lui stesso si era definito. Dopo solo un mese di convivenza però, anche lui si è trasformato - secondo i riscontri - in violento e manipolatore, controllando ogni suo spostamento, vessandola, picchiandola e umiliandola di continuo. 

I carabinieri della Compagnia di Seregno, coordinati dalla procura di Monza, partendo dalla segnalazione della guardia medica che ha visitato la donna a febbraio, nonostante anche in questa occasione lei avesse serie difficoltà a collaborare, hanno dimostrato una lunga serie di violenze, tra cui la brutale aggressione subita dalla donna a dicembre.

In ospedale a Carate Brianza (Monza) era arrivata in condizioni serie, tanto da riportare una prognosi di 25 giorni per percosse e due fratture vertebrali. «Sono caduta dalle scale», aveva detto ai medici, ma questi non le hanno creduto e hanno chiamato il 112, facendo partire le indagini. Il Gip di Monza, ha ritenuto quindi sussistenti i gravi indizi nei confronti del 55 enne, oltre al pericolo di reiterazione del reato e alla dimostrazione di un'indole possessiva e aggressiva, e ha disposto per lui la custodia cautelare in carcere.

Brindisi, tenta di uccidere la moglie e poi si impicca: 8 marzo di sangue. La donna, di 72 anni, è ricoverata in gravi condizioni. Il marito era un ex consigliere comunale. Antonio Portolano su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Marzo 2022.

Avrebbe prima tentato di sgozzare la moglie e poi si è suicidato. Nel giorno della giornata internazionale della donna. Un 8 marzo funesto a Brindisi. Il fatto si è consumato di primo mattino in una villetta al rione La Rosa, dove la coppia viveva con la figlia.

L'uomo, un ex consigliere comunale di 72 anni, avrebbe tentato di accoltellare la consorte, sua coetanea, ma lei è riuscita comunque a fuggire. L'ex consigliere, a quel punto si è tolto la vita impiccandosi.

Sul posto la polizia di Stato e i carabinieri della locale compagnia, che stanno ricostruendo nei dettagli l'accaduto. La donna è ricoverata in gravi condizioni all'ospedale Perrino di Brindisi nel reparto di Otorinolaringoiatria. 

I fatti si sono verificati alle 6.30 circa di oggi. La donna - che è in pericolo di vita - è stata ferita dal marito mentre si trovava a letto, con un coltello prelevato dalla cucina che è poi stato sottoposto a sequestro dai carabinieri. È riuscita a fuggire da una porta sul retro dell’abitazione, mentre alcuni familiari che erano in casa hanno chiamato i soccorsi. L’uomo si è recato subito dopo nella veranda e si è tolto la vita, impiccandosi con una corda. I carabinieri di Brindisi stanno conducendo accertamenti. Sembra che i rapporti fra i due fossero tesi da diverso tempo.

Bra (Cuneo), ferisce la moglie e si suicida sotto un treno. Redazione online su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.  Avrebbe aggredito la donna con un coltello. Sospesa la circolazione ferroviaria nella zona.  

Aggredisce la moglie, ferendola in modo non grave, e si suicida sotto un treno. Il grave episodio di cronaca, nel giorno della festa della donna, questa mattina a Bra, nel Cuneese. L’uomo, di cui al momento non sono note le generalità, avrebbe litigato con la moglie e, impugnato un coltello, l’avrebbe colpita, ferendola in modo non grave. Il marito si è poi diretto nella zona di strada Falchetto, alle porte di Bra, e si è lanciato sotto un treno della Sfm4 partito da Alba e diretto a Torino Stura. La circolazione ferroviaria è sospesa tra Bra e Carmagnola; i pendolari vengono trasportati tra le 2 stazioni mediante bus sostitutivi.

Bra, settantenne accoltella l'ex compagna e si suicida sotto un treno. Carlotta Rocci su La Repubblica l'8 marzo 2022. 

Tragedia nel Cuneese nel giorno della Festa della donna, i due si erano separati un mese fa. 

Ha ferito la sua ex convivente a coltellate, poi si è buttato sotto un treno diretto a Torino e si è suicidato. Erano da poco passate le 7.30 del mattino quando il treno regionale Alba-Torino Stura ha travolto l’uomo sui binari, al passaggio a livello di Strada Falchetto.

Il macchinista, che non è riuscito a evitare l’impatto, è stato soccorso dal 118. I passeggeri, costretti a lasciare il treno, sono stati trasferiti sui bus messi a disposizione da Trenitalia.  Non ci è voluto molto per collegare quell’episodio, su cui indaga la Polizia Ferroviaria, con quello avvenuto circa mezz'ora prima, in strada, poco fuori dal centro di Bra.

L’uomo di 70 anni, morto sotto al treno, è lo stesso che poco prima aveva aggredito la ex compagna con un coltello. L’aveva ferita soltanto di striscio, un’escoriazione superficiale al braccio. Poi è scappato via e si è tolto la vita. I due si erano lasciati circa un mese fa. La mattina l’uomo è tornato sotto casa della ex ma nessuno sa se tutto questo sia avvenuto l’8 marzo per caso o per una scelta precisa dell’aggressore.

La donna, di qualche anno più giovane, è stata trasportata in ospedale. Solo molto più tardi ha saputo che il suo ex si era ucciso. «Questa vicenda ci ha sconvolto  per la gravità del fatto e per la concomitanza con la festa della donna - commenta il sindaco di Bra Gianni Fogliato - Ci siamo subito mossi per contattare la donna e capire come poterla aiutare». Sull’aggressione sono in corso gli accertamenti dei carabinieri della compagnia di Bra coordinati dal pm Laura Deodato che ieri ha fatto un sopralluogo alla stazione e sotto casa della donna dove è avvenuta l’aggressione.

Acerra ha dedicato alla giovane insegnante vittima di violenza la festa della donna. Ornella Pinto, palloncini rossi e una panchina per non dimenticare: “Nessuna pace finchè ci saranno donne uccise perchè donne”. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Marzo 2022. 

Un piazzale, tanti palloncini rossi e una panchina, anch’essa rossa, per ricordare Ornella Pinto, vittima di violenza. È così che il primo circolo didattico “Don Antonio Riboldi” di Acerra, ha deciso di celebrare la festa della donna, dedicandola al ricordo di Ornella, insegnante 39enne uccisa a coltellate dal suo ex. A lei è stato dedicato il piazzale antistante la scuola. “Finchè ci sarà una sola donna umiliata o uccisa in quanto donna, non avremo pace”, si legge sulla targa.

I bimbi della scuola hanno intonato “Quello che le donne non dicono” di Fiorella Mannoia e rivolto un pensiero a Ornella. “Abbiamo intitolato il piazzale a Ornella Pinto, questo deve essere da monito a non intitolare più piazzali e non mettere più panchine perché per ogni intitolazione del genere vuol dire che c’è una vittima”, hanno detto nell’inaugurare il piazzale.

È passato quasi un anno da quel drammatico 13 marzo 2021. Ornella, insegnante in un liceo, aveva solo 39 anni quando il compagno, Pinotto Iacomino, 43 anni, impugnò un coltello e la colpì 15 volte nella casa a Napoli, all’Arenaccia, mentre lei dormiva con il figlioletto di entrambi. Nella stanza accanto c’era il piccolo Daniele, 3 anni, figlio dei due. Nei giorni scorsi è iniziato il processo nei confronti di Pinotto Iacomino.

“Bisogna intervenire subito e in maniera efficace per contrastare il fenomeno del femminicidio, una strage. Sono molto amareggiato per la pochezza della politica italiana su questo tema”, ha detto Giuseppe Pinto, papà di Ornella. Giuseppe non si dà pace giorno e notte. “Quello che è successo a noi non deve succedere più a nessuno – dice – Nessuno mi restituirà mai mia figlia ma io continuerò a lottare affinchè il parlamento faccia qualcosa – dice Giuseppe – Ormai si ammazza una donna per nulla, o per gelosia o perché il rapporto non va più bene. Tutto questo è assurdo in un paese moderno come l’Italia. È qui che deve intervenire lo Stato: la donna va tutelata, lo dice un uomo. È un dramma e chiunque si può trovare nella stessa condizione della mia famiglia”.

Un omicidio commesso malgrado la presenza del bambino. Come riportato dal Mattino, durante l’udienza, il sostituto procuratore di Napoli Fabio De Cristofaro (sezione IV – Fasce Deboli) ha mostrato alla giudici della Corte di Assise l’arma del delitto e alcuni coltelli sequestrati nell’hotel dal quale Iacomino, secondo l’accusa, avrebbe preso quello adoperato per uccidere Ornella.

Si tratta di un aspetto importante, in quanto strettamente legato all’aggravante della premeditazione contestata all’imputato e che porta a contemplare nel calcolo della pena anche l’ergastolo. L’avvocato difensore infatti sostiene che l’omicidio di Ornella sia giunto al culmine di una lite e che Iacomino non era armato quando, alle 4 del mattino, si è recato nell’abitazione che aveva condiviso con la donna e il loro figlio. Lì poi colto da un raptus avrebbe impugnato un’arma trovata in casa e assassinato la ex. Di tutt’altra opinione la Procura la quale, invece, ritiene che l’imputato si sia recato nell’abitazione già armato e quindi con l’intenzione di assassinare Ornella che qualche giorno prima gli aveva confessato di nutrire dei sentimenti per un’altra persona.

Intanto il giudice ha preso un’ importante decisione nei confronti del figlio di Ornella: il collegio, accogliendo la richiesta dei genitori e delle sorelle di Ornella, ha tolto all’omicida, Pinotto Iacomino, la potestà genitoriale: “È di tutta evidenza – si legge nel provvedimento citato dal Corriere del Mezzogiorno – che, a prescindere dallo stato di detenzione, a Iacomino debba essere revocata la responsabilità genitoriale, avendo lo stesso manifestato di non avere alcuna capacità e alcuna sensibilità, non avendo esitato a colpire brutalmente la sua compagna alla presenza del bambino”.

Il piccolo resta affidato alla zia Stefania, la sorella della mamma, che sin da subito si è presa cura di lui. L’omicida di Ornella aveva chiesto almeno di potere scrivere delle lettere al figlio, ma anche su questo punto i giudici sono stati severissimi: “Le modalità dell’assassinio, la crudeltà del gesto e l’indifferenza manifestata dal padre in ordine alla stessa esistenza del figlio escludono l’opportunità allo stato di qualsiasi rapporto col figlio, anche epistolare o telefonico, in quanto tale rapporto potrebbe solo costituire fonte di ulteriore pregiudizio per il benessere psichico del bambino”. Di conseguenza è stato disposto “il divieto di qualsiasi incontro, contatto o comunicazione con qualsiasi modalità” tra Iacomino e il bimbo.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Maria Tisti, il folle viaggio del marito: da Bari a Limbiate, dieci ore al volante per ucciderla. Federico Berni su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.

Costanzo Carlone, 54 anni, è stato arrestato dai carabinieri. Fendenti al capo e alla schiena, la donna è salva. Lei voleva separarsi e rifarsi una vita «al nord», aveva trovato un lavoro.

Deve averne avuto di tempo per riflettere su quello che aveva intenzione di fare, in almeno dieci ore trascorse al volante. E invece guida per oltre novecento chilometri in preda a un folle rancore contro quella donna la cui unica «colpa», nella sua visione distorta dei rapporti umani, è quella di volersi separare da lui, e rifarsi una vita «al nord». Costanzo Carlone, 54 anni e mai un guaio con la legge, si mette in macchina verso l’una del pomeriggio di mercoledì 2 marzo. Parte da Bari, la sua città. Percorre quasi un migliaio di chilometri al volante fino a Limbiate, in provincia di Monza. Ha con sé un coltello a serramanico. All’arrivo, nel cuore della notte, si apposta sotto casa della moglie, la cinquantenne Maria Tisti, e mette in pratica il suo folle proposito omicida. Aspetta che esca per andare a lavorare, la coglie alle spalle, la accoltella alla schiena e al capo. Sono le quattro del mattino di giovedì 3 marzo. Pochi minuti dopo i carabinieri del comando provinciale di Monza gli sono già addosso: ha le mani ancora sporche di sangue.

L’unico elemento di questa vicenda che si discosta dal copione purtroppo classico del femminicidio è che Maria non muore. I medici la portano in codice rosso all’ospedale San Gerardo. Fino a giovedì la prognosi era ancora riservata, ma stando a quanto riferito dai carabinieri, è stata dichiarata fuori pericolo di vita. Deve dire grazie ai medici, forse anche a una certa sua tempra caratteriale. Sicuramente provvidenziale è stato quel vicino di casa che sente le sue urla strazianti provenire dalla strada, e chiama immediatamente i carabinieri, dando indicazioni precise della zona da cui provenivano.

Maria, originaria di San Severo di Foggia, si alza quando è ancora notte. Lavora per una società che si occupa di sicurezza e vigilanza privata. Parte spesso per trasferte lunghe, fa turni a orari difficili. È una donna indipendente, e da qualche tempo si guadagna da vivere così, dopo essersi trasferita in Brianza dalla Puglia. È ancora sposata con Costanzo Carlone, barese, incensurato, ma il loro matrimonio è naufragato da tempo. Tra i due, secondo quanto riferito, è in corso una separazione legale. Ed è forse la richiesta di ratificare nero su bianco la fine della loro relazione che accende i propositi dell’uomo, stando alle prime ricostruzioni dei carabinieri. Carlone sarebbe stato ossessionato dall’idea che la donna si potesse essere rifatta una vita in Lombardia, magari con un altro uomo. E comunque adesso, rinchiuso al carcere di San Vittore, dovrà rendere conto ai magistrati dei motivi che lo hanno spinto a salire in macchina con il solo intento di tendere un vile agguato alla coniuge, a centinaia di chilometri di distanza. Dal capoluogo pugliese ha percorso l’Italia in direzione nord fino alla via Trieste di Limbiate, tra il centro cittadino e la zona Mombello. Arrivato a notte fonda, si è appostato sotto casa della vittima, in un parcheggio pubblico.

Quando l’ha vista, è scattata la trappola e l’ha colpita con diverse coltellate. Le grida, però, hanno svegliato un inquilino della zona che ha avvisato il 112. Non ha visto la scena, ma ha capito che c’è una donna in grave difficoltà. I primi ad arrivare sono i militari della stazione di Cesano Maderno, seguiti da altre pattuglie. I militari sono i primi anche a prestarle soccorso. Carlone abbozza una fuga provando ad allontanarsi ma viene catturato poco distante. Ha i vestiti e le mani imbrattate di sangue. Il coltello a serramanico viene trovato e sequestrato. L’arrivo tempestivo dei soccorsi e la corsa a sirene spiegate all’ospedale servono a salvare la vita di Maria Tisti. Costanzo Carlone, invece, viene portato in caserma per i primi accertamenti e poi condotto in carcere, con l’accusa di tentato omicidio. È lì, in una cella di San Vittore, che termina il suo folle viaggio iniziato il giorno precedente.

Treviso, uccide la moglie e poi si toglie la vita. La Repubblica il 2 marzo 2022.

A trovare i corpi dei due anziani coniugi è stata la figlia, che, non sentendoli da qualche giorno, si è recata a casa loro a Casale sul Sile.

Una donna di 72 anni, Flora Martucci, è stata ritrovata senza vita nella sua abitazione a Casale sul Sile, nel Trevigiano. La donna, stando alle prime informazioni dei carabinieri della compagnia di Treviso, è morta per una coltellata all'addome. A trovare il cadavere, la figlia della donna, che preoccupata di non sentire i genitori, si è recata a casa loro. La madre è stata ritrovata sul letto, mentre il padre, Franco Martucci, 73 anni, è stato trovato impiccato in garage. L'ipotesi più accreditata, al momento, è quella dell'omicidio-suicidio. 

Il decesso risalirebbe ad almeno due o tre giorni fa. L'ipotesi dei carabinieri è quella di un omicidio, seguito dal suicidio dell'uomo. Ignote al momento le motivazioni che hanno portato alla  tragedia  familiare.

Anna Borsa uccisa dall'ex, gli ultimi messaggi: “Ho paura di Alfredo”. Il gip: “Lucido e feroce”. Dario del Porto e Andrea Pellegrino su La Repubblica il 5 Marzo 2022.  

Il femminicidio di Pontecagnano: nel racconto dei testimoni l’escalation di minacce dell’uomo prima del delitto: “Le spruzzò addosso dell’alcol”.

Alfredo le telefonava "mille volte al giorno". Si presentava continuamente in negozio. Era addirittura arrivato a "minacciare di darle fuoco se non fosse tornata con lui". Una volta "prese uno spruzzino contenente alcol per vetri e glielo nebulizzò addosso". Anna non lo aveva mai denunciato, ma cominciava ad avere paura e per questo voleva chiedere un periodo di ferie.

 

Donna uccisa nel Salernitano: preso l'ex fidanzato 

(ANSA l'1 marzo 2022) - E' stato rintracciato nell'area di servizio della stazione di San Mango Piemonte, sull'autostrada A2 del Mediterraneo, Alfredo Erra, il 40enne che stamane ha sparato e ucciso, a Pontecagnano Faiano (Salerno), la sua ex, la trentenne Anna Borsa, all'interno del negozio di parrucchiere dove la ragazza lavorava. L'uomo è stato individuato da una pattuglia della polizia stradale di Eboli in evidente stato confusionale. Sul posto sono arrivati immediatamente i carabinieri da ore impegnati nella caccia all'uomo. Erra pare sia giunto a San Mango a piedi, percorrendo la zona interna di Fuorni dove aveva abbandonato il veicolo.

Da fanpage.it l'1 marzo 2022. 

Una donna di trent'anni è stata uccisa a colpi d'arma da fuoco all'interno di un salone di bellezza di Pontecagnano Faiano questa mattina. Si chiamava Anna Borsa e risiedeva nel comune del Salernitano. I carabinieri cercano l'ex fidanzato della vittima indiziato dell'omicidio. Le ricerche sono supportate da un elicottero che sta sorvolando la zona. 

La dinamica della vicenda: la vittima si trovava all'interno di un salone di bellezza di via Tevere, in pieno centro della cittadina della Piana del Sele, dove lavorava. Improvvisamente sarebbe entrato un uomo, che gli inquirenti ritengono possa essere l'ex fidanzato della donna, ed avrebbe esploso alcuni colpi d'arma da fuoco contro la donna prima di scappare facendo perdere le proprie tracce. Anna Borsa è morta, un altro giovane è rimasto ferito alla spalla: si tratterebbe di una persona totalmente estranea alla vicenda. Al momento si cerca di rintracciare l'ex fidanzato della donna, irreperibile. L'uomo attualmente non è indagato: da quanto si apprende si erano lasciati da circa otto mesi, dopo una lunga relazione. 

Anna Borsa aveva da poco compiuto 30 anni

Anna Borsa, classe 1992, è morta praticamente sul colpo, raggiunta da un proiettile alla testa. Nulla da fare per lei nonostante l'immediato  arrivo dei soccorsi della Croce Bianca, che hanno potuto accertarne solo l'ormai avvenuto decesso. Sul posto poco dopo è arrivata anche la Scientifica per i rilievi del caso. 

Lutto a Pontecagnano Faiano, annullato il Carnevale

Giuseppe Lanzara, sindaco di Pontecagnano Faiano, ha annullato tutti gli eventi e proclamato il lutto cittadino. Il primo cittadino ha espresso tutto il suo cordoglio attraverso un post Facebook appena dopo aver saputo la tragica notizia dell'omicidio di via Tevere. 

Abbiamo appena appreso di una notizia che sconvolge la nostra comunità, una giovane ragazza ha perso la vita a causa di un tragico omicidio.

La Città intera di Pontecagnano Faiano si stringe intorno alla famiglia. Pontecagnano Faiano si prepara ad osservare il lutto cittadino annullando ogni evento in programma. 

Lo scorso 1° febbraio l'omicidio di Rosa Alfieri

Appena un mese fa, lo scorso 1° febbraio, un altro barbaro omicidio aveva scosso la Campania: Rosa Alfieri, 24 anni appena, era stata uccisa dal vicino di casa, Elpidio D'Ambra, che poi venne arrestato dopo 24 ore di fuga. Fu il primo femminicidio della Campania in questo 2022, purtroppo poi tristemente seguito da altre vicende brutali come quella accaduta quest'oggi a Pontecagnano Faiano.

Il femminicidio nel salernitano. Omicidio Anna Borsa, l’ex fidanzato ha tentato il suicidio: ha un colpo di pistola nel cranio. Redazione su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Emergono nuovi dettagli sulla tragica morte di Anna Borsa, la 30enne di Pontecagnano Faiano (Salerno) uccisa questa mattina dal suo ex fidanzato mentre lavorava all’interno del salone di bellezza dove lavorava da anni.

Alfredo Erra, l’uomo di 40 anni che ha ucciso Anna e che poi è stato fermato dopo una fuga durata circa cinque ore, aveva esploso un colpo di pistola anche contro sé stesso. Erra, che è in stato di fermo e che deve rispondere di omicidio premeditato, tentato omicidio e porto abusivo di arma da fuoco, è attualmente piantonato in ospedale al Ruggi d’Aragona di Salerno, dove sarà sottoposto ad intervento chirurgico.

Il 40enne era stato rintracciato e fermato nell’area di servizio della stazione di San Mango Piemonte, sull’autostrada A2 del Mediterraneo. Erra era stato individuato da una pattuglia della polizia stradale di Eboli in evidente stato confusionale proprio perché si era sparato un colpo di pistola in testa.

Dopo aver ucciso la sua ex fidanzata nel negozio dove lavorava, l’omicida ha rivolto la pistola contro di sé esplodendo un colpo per togliersi la vita, riuscendo ‘solo’ a ferirsi.

Sul posto sono arrivati immediatamente i carabinieri da ore impegnati nella caccia all’uomo. Erra pare sia giunto a San Mango a piedi, percorrendo la zona interna di Fuorni dove aveva abbandonato il veicolo.

Nello stesso ospedale è ricoverato anche Alessandro, il nuovo compagno di Anna a cui ha sparato questa mattina sempre all’interno del salone di di parrucchiere in via Tevere. La pistola utilizzata in un tentativo di duplice omicidio è stata lasciata da Erra accanto al corpo esanime dell’ex fidanzata, per poi fuggire a bordo dell’auto della ditta di autotrasporti per cui lavorava.

Ai cronisti una testimone dell’omicidio aveva raccontato quanto accaduto all’interno del negozio: “Io gli ho detto ‘Alfredo, esci fuori’ ma lui mi ha risposto ‘Le devo dire una sola cosa”. Era vestito tutto di nero, tuta, giubbino e scarpe, e aveva un trolley. Io avevo paura e anche Anna aveva paura. Anche lei gli ha detto ‘Esci fuori, vengo io fuori’. Era venuto già due o tre volte nelle scorse settimane, ma era sempre stato calmo, non come stamattina”.

“Parlava calmo senza fare questioni allora – ha raccontato ancora la testimone – ma Anna aveva paura, viveva con la paura già da mesi, da luglio. Lui non aveva mai accettato la separazione, era convinto che Anna fosse solo sua. In passato lo abbiamo cacciato fuori, ma oggi c’erano clienti”.

 Petronilla Carillo per "Il Messaggero" il 2 marzo 2022.

«Diceva che mi voleva bene come si vuole bene a un padre... Ho visto quanto mi voleva bene, mi ha ammazzato perché mi ha tolto la cosa più importante che avevo, mia figlia Anna».

Ettore Borsa è stato l'unico della sua famiglia a vedere il corpo senza vita di Anna all'interno del negozio di parrucchiere, il Salone Sica di Pontecagnano, presso il quale la ragazza lavorava e dove è stata ammazzata dalla mano dell'uomo che diceva di amarla, Alfredo Erra.

È stato lui, il padre, a scagliarsi contro tutti, quando l'hanno portata via cadavere, nel disperato tentativo di togliere dalle mani dei necrofori quella bara in acciaio. Ma Anna non tornerà più a casa.

L'ultima della famiglia a vederla ancora in vita è stata la mamma: era appena andata via dal negozio quando Alfredo Erra è arrivato armato di pistola. Il giovane, quarantenne, non riusciva a sopportare il peso della rottura di quella relazione durata circa tre anni. Erano otto mesi che non erano più coppia, tra alti e bassi, ricongiungimenti, allontanamenti, violenze, stalkeraggi.

Ieri mattina Alfredo era convinto: o Anna gli dava un segnale, oppure l'avrebbe uccisa. E così è stato. Prima è andato al lavoro, presso una azienda che si occupa di edilizia interna, poi con l'auto della società, si è recato al negozio dove lavorava la ragazza. 

Ha parcheggiato la Panda alle spalle del fabbricato, all'interno del cortile condominiale. Ha aperto il cofano e ha tirato fuori dall'abitacolo una valigia. Un amico della famiglia Borsa lo ha visto ed ha allertato i vigili urbani: «Sapevo che andava a dare fastidio ad Anna, come sempre negli ultimi mesi».

Ma la polizia municipale non ha fatto in tempo. L'uomo è entrato nel negozio, ha chiesto ad Anna di uscire. Lei si è scusata con la sua cliente, è uscita, gli ha ribadito di andarsene ed è tornata dentro. Allora Alfredo l'ha seguita. «Vado via, da mia zia, per un po'...». «Fai bene», le ha risposto lei. 

È stato allora che lui ha estratto la pistola e gliel'ha puntata alle tempie, sparando il colpo che è risultato fatale. Poi ha sparato ancora: due proiettili contro Anna, altri alla rinfusa, uno verso Alessandro C. il nuovo compagno di Anna che era davanti al negozio.

Poi ha provato a spararsi, voleva togliersi anche lui la vita ma non ci è riuscito così ha lanciato la pistola a terra ed è scappato via. Ha ripreso l'auto, l'ha riportata in azienda e si è allontanato a piedi. Tutto ciò mentre, a pochi metri dalla sua azienda, si tentava inutilmente di rianimare Anna. 

È stato allora che è iniziata, da parte dei carabinieri del comando provinciale di Salerno, la caccia all'uomo, con l'utilizzo di unità cinofile e degli uomini dell'elinucleo di Pontecagnano. I militari dell'Arma sapevano che l'uomo aveva cercato di uccidersi, per questo la loro è diventata una vera e propria corsa contro il tempo per cercare di salvare una vita.

Quella di Anna, ormai, era stata spezzata in una manciata di secondi, a soli trenta anni, davanti agli occhi di una collega e delle clienti, intorno alle 9 del mattino. Verso le 14 Alfredo è stato rintracciato su segnalazione di alcuni automobilisti da una pattuglia della polizia stradale della sottosezione Eboli presso l'area di servizio San Mango dell'autostrada del Mediterraneo. 

Era a piedi, ferito alla testa. È stato così portato con un'ambulanza all'ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d'Aragona dove ora è sedato in attesa di intervento. Nello stesso ospedale anche l'altro ragazzo ferito, Alessandro, in gravi condizioni: il proiettile gli ha perforato un polmone. 

Anche un'altra giovane ragazza, Renata, volontaria dell'organizzazione Pegaso di pronto intervento, è andata in ospedale, si è fatta male cercando di fuggire alla furia di Erra: è inciampata, caduta, ed ora ha dei problemi ad una spalla. Ma le sue condizioni non sono gravi.

Intanto i carabinieri hanno sequestrato i cellulari della vittima e anche quello del suo assassino per verificare bene cosa sia accaduto e se ci sia stata istigazione da parte di qualcuno che sapeva del dolore di Erra e ci potrebbe aver giocato sopra. 

Ma, soprattutto, per ricostruire eventuali discorsi tra la vittima e il suo carnefice. Intanto la Procura ha sequestrato la salma e potrebbe essere disposto l'esame autoptico. In serata la notifica del decreto di fermo con l'accusa di omicidio premeditato, tentato omicidio e porto abusivo d'arma. 

Omicidio a Pontecagnano: Anna Borsa uccisa dall’ex nel salone di bellezza dove lavorava. Fulvio Bufi, inviato a Pontecagnano (Salerno) su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.

Sparatoria in un negozio di parrucchiere in provincia di Salerno. L’uomo ha colpito la ragazza, 30 anni, alla testa e ha ferito un’altra persona davanti a testimoni. La sua fuga è durata poche ore: arrestato in autostrada. 

Sulle sue pagine social, di quelle pagine grondanti banalità che pretendono di essere frasi solenni, Alfredo a quarant’anni scriveva cose tipo: «Se ti bacerà sentirà il mio sapore», come se su quella donna che otto mesi fa lo aveva lasciato, esasperata dalla sua gelosia e possessività, avesse impresso un marchio indelebile. Con adolescenziale drammaticità urlava al mondo il suo dolore: «È così atroce che non si può spiegare». Oppure si inoltrava su terreni da adulto per suscitare in lei sensi di colpa: «Sognavamo una famiglia ma alla fine mi hai tolto la vita».

Invece la vita gliel’ha tolta lui. Lui a Anna. Che aveva trent’anni, i capelli neri e gli occhi azzurri. E che voleva soltanto essere lasciata in pace. Alfredo invece le ha sparato un proiettile in testa davanti alle clienti del negozio in cui lei lavorava. Era entrato nel salone di parrucchiere con l’aria dimessa dell’innamorato disperato. Ne è uscito con il ghigno dell’assassino che aveva un progetto e l’ha realizzato. Pontecagnano Faiano è un paese della Piana del Sele, famoso più che altro per l’affascinante nome, Costa d’Amalfi, del suo aeroporto, che ha visto però più progetti di sviluppo che voli.

Qui Anna Borsa viveva e lavorava in via Tevere, una delle principali strade del centro cittadino. Ogni mattina alle 8,30 era lì, a prendersi cura delle clienti e a sorridere, anche se da tempo ormai il sorriso non era più sereno. «Era nervosa», racconta una delle sue più assidue frequentatrici del salone. «Si capiva che aveva anche paura». Perché sentiva addosso il peso delle insistenze di Alfredo Erra, un imprenditore agricolo con il quale aveva avuto una relazione che però si era interrotta nel luglio scorso. Non era l’uomo per lei, quello. Con i suoi modi troppo ossessivi, con quel suo senso di proprietà che la soffocava. E Anna aveva detto basta.

E gliel’aveva ripetuto mille volte, dalla scorsa estate. Anche quando lui si presentava al negozio e la metteva in imbarazzo di fronte ai colleghi e alle clienti. Qualche volta lo avevano convinto ad andarsene, qualche altra erano stati più sbrigativi ed erano arrivati al punto di doverlo cacciare, perché con quel suo comportamento disturbava il lavoro di tutti. Nessuno quindi si è meravigliato di vederlo entrare anche ieri mattina alle 9, quando erano già arrivate le prime clienti. Felpa nera, jeans scuro. Trascinava un trolley, e alla collega di Anna che l’ha invitato ad andarsene, ha risposto: «Voglio solo dirle una cosa».

Pare che volesse una foto di Anna, o farsi una foto con lei. Che però ovviamente ha rifiutato. Gli ha anche proposto di andare a parlare fuori, ma non ce n’è stato il tempo. Alfredo non voleva nessuna foto, non aveva nessuna cosa da dire. Aveva soltanto una pistola in tasca e l’ha tirata fuori per uccidere la donna che diceva di amare.

Le ha sparato contro più volte e poi ha puntato l’arma contro Alessandro Caccavale, un ragazzo che pure era presente nel negozio e che secondo lui era il nuovo fidanzato di Anna, mentre le colleghe sostengono che fosse soltanto un amico. Comunque Alfredo avrebbe potuto, e probabilmente voluto, ucciderlo. Perché ha sparato puntando al torace, e se lo ha soltanto ferito a una spalla è stato forse perché ormai l’adrenalina era in calo e le mani gli tremavano.

Come gli tremavano le gambe quando è stato preso, poche ore più tardi, davanti a una stazione di servizio sull’autostrada A2, nei pressi dello svincolo di San Mango Piemonte, mentre camminava a piedi dopo aver lasciato non molto lontano la Panda con la quale era fuggito. Erra era leggermente ferito, un colpo di pistola. Ma più che un tentativo di suicidio pare fosse un proiettile partitogli per errore.

Alessandro Fulloni per corriere.it il 23 febbraio 2022.

Condannata a trent’anni di carcere per avere avvelenato il marito, va ai domiciliari perché ha un figlio di pochi mesi. La sentenza è stata emessa stamane (mercoledì) dal Gup del Tribunale di Termini Imerese Valeria Gioeli nei confronti di Loredana Graziano, 36 anni, accusata di avere assassinato il marito Sebastiano Rosella Musico, un pizzaiolo 40 anni.

Il processo si è svolto con il rito abbreviato. L’omicidio risale al gennaio del 2019. La donna, che si è sempre professata innocente, secondo l’accusa avrebbe ucciso il marito somministrandogli cibi contenenti dosi di cianuro e di un anticoagulante, il Coumadin. 

L’ipotesi iniziale: morto per infarto

Inizialmente si era ipotizzato che il pizzaiolo fosse morto per un infarto. Le indagini dei carabinieri, coordinate dal procuratore di Termini Imerese Ambrogio Cartosio, e l’autopsia eseguita sul corpo dell’uomo accertarono invece che era stato avvelenato.

A dare una svolta alle indagini anche le dichiarazioni dell’ex amante della donna, che l’aveva accusata di avergli confidato di aver avvelenato il marito. A spingerla sarebbe stata la voglia di cambiare vita e il desiderio di maternità, come emergeva anche da numerose intercettazioni.

La donna, frattanto ha lasciato l’amante per un altro uomo. E da questi ha avuto un figlio che ha pochi mesi: considerata la recente maternità, ha ottenuto dal giudice i domiciliari. 

Interdetta dai pubblici uffici

Loredana Graziano è stata inoltre interdetta in perpetuo dai pubblici uffici e sospesa dall’esercizio della responsabilità genitoriale per tutta la durata della pena. L’imputata è stata condannata anche al pagamento di una provvisionale esecutiva di 140 mila euro a favore dei familiari della vittima che si sono costituiti in giudizio assistiti dagli avvocati Salvatore Sansone e Salvatore Di Lisi. Il risarcimento sarà stabilito con un nuovo processo in sede civile. 

Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 24 febbraio 2022.

«Se avessi voluto lasciare mio marito, non avrei certo avuto bisogno di ucciderlo: sono una donna con dei diritti». Loredana Graziano, 36 anni, lo aveva detto qualche mese fa, proclamandosi innocente, al processo dov' era imputata per l'omicidio del compagno, Sebastiano Rosella Musico, pizzaiolo 40enne di Termini Imerese, nel Palermitano. Ma le prove raccolte nell'indagine che portò al suo arresto il 14 aprile scorso erano tutte contro di lei: intercettazioni, testimonianze, analisi chimiche, la denuncia dell'ex amante. Per questo ieri il gup l'ha condannata a 30 anni nel procedimento con rito abbreviato. La donna ha evitato il carcere, e starà ai domiciliari, perché ha un bimbo di circa otto mesi, avuto da una nuova relazione.

L'inchiesta nasce nell'era pre Covid, dopo che Sebastiano, nel gennaio 2019, morì fra dolori atroci, contorcendosi e perdendo sangue da bocca e naso. Ci vollero due anni per accertare la causa esatta del decesso e capire che questo ragazzone benvoluto nella sua città, dove era famoso per la «quattro gusti» della sua pizzeria, era stato ammazzato dalla moglie che lavorava con lui nel locale. L'indagine cominciò dopo che l'ex amante, lasciato dalla donna, palesò i suoi dubbi ai carabinieri sulla morte di Sebastiano (con la quale, è emerso poi, lui non aveva nulla a che fare).

«Forse c'è dell'altro...» raccontò agli investigatori l'uomo. Che era stato denunciato per stalking da Loredana. Le cose non stavano così, però. Gli atti persecutori erano una specie di invenzione, dato che era stato tutto concordato con la donna - della quale era perdutamente invaghito - al fine di tacitare i pettegolezzi cittadini sulla loro storia inscenandone la fine con una querela. Ciò che è emerso al processo è che a spingere la donna al delitto sarebbe stata l'ossessionante voglia di cambiare vita e il desiderio di avere il figlio che la vittima non poteva darle.

Movente confermato dalle intercettazioni. Per sbarazzarsi del marito, provò una prima volta a ucciderlo somministrandogli una bevanda con un farmaco anticoagulante, abbondando nel dosaggio, certa di effetti tossici che non bastarono a sopprimerlo. Così, determinata, ci riprovò giorni dopo passando direttamente al micidiale cianuro nel cibo. Il risultato fu una agonia straziante prima del decesso ufficialmente archiviato per «insufficienza cardiorespiratoria», nonostante i dubbi della madre della vittima, Antonina Filicicchia, sin dal primo momento sospettosa come gli altri due figli, Maria Concetta e Domenico, assistiti dagli avvocati Salvatore Sansone e Salvatore Di Lisi.

Lasciato l'amante, la vedova ha avuto un figlio da un nuovo compagno. Il gup, nell'evitarle (per ora) il carcere per via della maternità, le ha tolto la potestà genitoriale per tutta la durata della pena. Il piccolo per ora sta con lei, ma il suo destino sarà quello dell'affido. La donna dovrà pagare anche una provvisionale di 140 mila euro ai familiari del marito costituiti in giudizio. Il risarcimento sarà stabilito in sede civile. «Sono pochi 30 anni per questo brutale assassinio di mio figlio» è la rabbia della madre di Sebastiano i cui avvocati ricorreranno per chiedere una pena più severa.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 16 febbraio 2022.

Siti Zailah Mohd Yusoff, viceministro per le donne, la famiglia e lo sviluppo della comunità, è stata accusato di “normalizzare” la violenza domestica esortando gli uomini a colpire le loro mogli per mostrare loro quanto «vuole che cambi». 

In un video di due minuti pubblicato su Instagram chiamato “Mother’s Tips”, il viceministro ha consigliato in primo luogo ai mariti di “disciplinare” le loro mogli “testarde” parlando con loro. Ma se non cambiano il loro comportamento, dovrebbero dormire separati da loro per tre giorni. 

«Tuttavia, se la moglie rifiuta ancora di seguire il consiglio, o cambia il suo comportamento dopo la separazione nel sonno, allora i mariti possono provare l'approccio del tocco fisico, colpendola delicatamente, per mostrare la sua severità e quanto vuole che cambi», ha detto Siti Zailah nel video. 

Il viceministro, che è un deputato del Partito islamico panmalese, ha anche esortato le donne a parlare con i loro mariti solo in certi casi. «Parla ai tuoi mariti quando sono calmi, hanno finito di mangiare, hanno pregato e sono rilassati», ha detto Siti Zailah. «Quando vogliamo parlare, prima chiedi il permesso».

Una coalizione di gruppi per i diritti delle donne, il Joint Action Group for Gender Equality, ha accusato Siti Zailah di "normalizzare" la violenza domestica e le ha chiesto le dimissioni dalla sua carica di viceministro delle donne. 

«Il viceministro deve dimettersi per aver normalizzato la violenza domestica, che è un crimine in Malesia, nonché per aver perpetuato idee e comportamenti contrari all'uguaglianza di genere», si legge in una dichiarazione congiunta. 

L'organizzazione ha affermato che tra il 2020 e il 2021 ci sono state 9.015 denunce di violenza domestica da parte della polizia e quelle cifre saranno in realtà più alte in quanto non includono le donne che hanno denunciato abusi a enti di beneficenza. 

«Spesso c'è uno stigma e una paura legati alla denuncia di violenza domestica e questo è aggravato da dichiarazioni come quelle di Siti Zailah», hanno affermato i gruppi per i diritti delle donne.

Davide Maniaci per il Corriere.it l'11 febbraio 2022.

L’epilogo del mistero è il peggiore possibile. Il cadavere di Sara Lemlem Ahmed, 40 anni, è stato trovato nel tardo pomeriggio del 9 febbraio a Vigevano, nel vano ascensore di un palazzo in costruzione in una zona residenziale della città. La donna, di nazionalità olandese e origini eritree, non dava notizie di sé dal 4 dicembre. Viveva a Vigevano da tre anni e, dopo una discussione col convivente, si era allontanata da casa a piedi, senza telefono o documenti.

La denuncia ai carabinieri

La sparizione era stata subito denunciata ai carabinieri dal compagno stesso dopo alcune ore in cui egli stesso l’aveva cercata in giro per la città. Le ulteriori ricerche da parte degli inquirenti non avevano mai dato esito. Per questo il caso era stato classificato in un primo momento come un allontanamento volontario. La morte è avvolta nel mistero: i carabinieri, intervenuti sul posto (a pochi minuti a piedi da dove la donna viveva), stanno chiarendo se si tratti di una tragica fatalità, di un incidente o un omicidio. La donna è stata trovata nel cantiere dagli operai al lavoro.

Chi era Sara Lemlem

La storia di Sara Lemlem è travagliata. Ha conosciuto il compagno, Corrado Mannato, su un sito di incontri. Lei viveva nei Paesi Bassi, ad Amstelveen, presso una famiglia locale. Anche in quel caso svanì senza lasciare nessuna traccia, fuorché alcune migliaia di euro di debiti. Poi l’arrivo a Vigevano per una nuova esistenza, più regolare, col nuovo amore. Ma dopo quella discussione sbattendo la porta, nessuno può ancora sapere come abbia trascorso le sue ultime ore.

Umberto Aime per "il Messaggero" il 17 febbraio 2022.

Carnefice, vittima, oppure tutte e due? È stato assassinato, Antonangelo Lecca, 56 anni, oppure una volta caduto dalla bicicletta è morto dopo aver battuto la testa su alcuni massi? È un mistero. Soprattutto lo è per la procura della Repubblica di Cagliari, che, a sorpresa, ha messo sotto inchiesta per omicidio Floriana Cojana, la moglie dell'allevatore. 

Il perché dell'improvvisa indagine nei suoi confronti è che da mesi proprio lei, la casalinga ora indagata, era il bersaglio delle violenze fra le mura domestiche, nella casa alla periferia di Barrali, nel Cagliaritano, dove la coppia litigava spesso, quasi ogni giorno. Così quando il medico legale ha scritto nella relazione per la Procura: «La vittima (Antonangelo Lecca, ndr) potrebbe essere stata uccisa con un oggetto contundente, perché le ferite e le fratture al cranio, che sono almeno tre, non sembrano essere compatibili con il luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere».

I DUBBI A quel punto più di un dubbio sulla causa della morte dell'allevatore è venuto agli investigatori. Il sostituto procuratore Diana Lacca ha cominciato a indagare sulla possibilità che fosse stato compiuto un omicidio, maturato forse in casa della coppia, e poi ha incaricato i carabinieri di ricostruire la vita dei due. Così, dal recente passato, è saltato fuori che da tempo Antonangelo e Floriana non vivevamo più insieme.

Lui si era trasferito in ovile, ma spesso rientrava a casa e non certo per riappacificarsi con la moglie. Proprio in quelle sue irruzioni notturne, stando alle indagini, l'agricoltore sarebbe andato più volte in escandescenze, aggredendo con calci e pugni Floriana. Indizi poi confermati dalle diverse denunce presentate in caserma dalla casalinga. L'ultima tre mesi fa dopo che, una volta ricoverata in ospedale per alcuni ematomi al volto, aveva raccontato ai medici: «A ridurmi così è stato Antonangelo. Mi ha preso a bastonate. Sono fuggita prima che mi uccidesse». 

Però, qualche giorno fa, a essere trovato morto è stato l'allevatore, il presunto carnefice. Era scomparso da qualche ora, poi era stato un cercatore di funghi a dare l'allarme: «C'è un cadavere vicino al fiume». Qualche metro prima, abbandonata, una bicicletta: era la stessa con cui Antonangelo Lecca si spostava dal paese all'ovile di famiglia. Davanti a questo scenario, la prima conclusione degli investigatori è stata: l'allevatore è caduto dalla sella, ha sbattuto la testa su un masso, e il corpo è stato trascinato più a valle dalla corrente del fiume. 

Tutto plausibile fino al referto del medico legale, che ha ricostruito un'altra possibile verità. E cioè che il pastore potrebbe essere stato ucciso altrove, e il corpo trascinato vicino al fiume per poter inscenare un incidente con la bicicletta. Impossibile, è stata la replica che invece, dopo 48 ore, ha trovato spazio nella perizia ordinata dalla Procura. Perché, nella zona in cui è stato trovato e recuperato il cadavere, non ci sono massi o pietre compatibili con le ferite al cranio riportate dalla vittima.

È quindi stato considerato più probabile che «l'uomo sia stato ucciso con qualche oggetto contundente, ad esempio un bastone». In attesa che le indagini facciano chiarezza, visto che per ora la donna è l'unica indagata, dopo aver ricostruito la vita drammatica dei due coniugi, la Procura ha avanzato il sospetto che, qualche sera fa, Floriana Cojana possa essersi ribellata al marito fino a reagire all'ennesima aggressione. Il tutto potrebbe essere accaduto nella casa di famiglia: i carabinieri l'hanno perquisita da cima a fondo, ma la relazione arriverà sul tavolo del magistrato solo fra qualche giorno.

IL CORPO Secondo la ricostruzione degli inquirenti, sempre Floriana potrebbe aver trasferito il corpo in campagna e, nell'organizzare la messinscena, forse potrebbe essere stata aiutata da qualcun altro. Dopo l'iscrizione sul registro degli indagati Cojana ha nominato un avvocato di fiducia, e nella caserma dei carabinieri di Barrali, dov' è stata interrogata, avrebbe respinto ogni accusa: soprattutto quella di omicidio. La svolta nelle indagini, in un senso o nell'altro, dovrebbe arrivare quando il medico legale consegnerà, come gli è stato sollecitato, una relazione ancora più dettagliata e lo stesso dovranno fare gli investigatori, che hanno perquisito la casa della coppia. 

La 40enne di nazionalità olandese e origine eritrea era scomparsa il 4 dicembre. Sara Lemlem Ahmed, trovato il cadavere in un cantiere: era sparita dopo la lite con il compagno. Elena Del Mastro su Il Riformista il  9 Febbraio 2022. 

Era scomparsa dal 4 dicembre scorso, ora il drammatico ritrovamento del cadavere di Sara Lemlem Ahmed, 40 anni, nel vano dell’ascensore di un palazzo in costruzione di Vigevano. Della donna, di nazionalità olandese e origini eritree, si erano perse le tracce da quando era uscita di casa dopo una lite con il compagno. Viveva a Vigevano da tre anni e, dopo una discussione col convivente, si era allontanata da casa a piedi, senza telefono o documenti.

Un caso ancora avvolto nel mistero. Come riportato dal Corriere della Sera, i carabinieri, intervenuti sul posto, a pochi minuti a piedi da dove la donna viveva, stanno chiarendo se si tratti di una tragica fatalità, di un incidente o un omicidio. La donna è stata trovata nel cantiere dagli operai al lavoro.

Era stato il compagno a denunciarne la scomparsa dopo averla cercata per ore in città. Ma di Sara non c’era traccia. All’inizio gli investigatori avevano pensato ad un caso di allontanamento volontario, poi la tragica scoperta del cadavere nel cantiere del palazzo in costruzione.

“Sara, l’unica cosa importante è sapere che sei viva, stai bene e sei in un posto sicuro e caldo. Tutto il resto non conta”. È questo l’appello lanciato qualche settimana fa a “Chi l’ha visto?” da Corrado, il convivente di Sara Lemlem Ahmed era uscita dalla casa intorno alle 22.30 dopo una violenta lite con il compagno. Da allora di lei non c’è più traccia.

Sara è scesa di casa senza documenti e non aveva con sé nemmeno il cellulare. Per giorni il compagno l’ha cercata nei luoghi che frequentava più spesso senza trovarla. La donna viveva e lavorava in Olanda, poi nel 2018 ha conosciuto Corrado e ha deciso di seguirlo in Italia, a Vigevano, in provincia di Pavia, dove i due vivono. Secondo quanto riportato da alcuni giornali locali, la donna non era riuscita a integrarsi, non aveva amici, e nemmeno a trovare un lavoro. Questo sarebbe stato per lei fonte di grande malessere.

Corrado ha raccontato a “Chi l’ha visto” gli ultimi momenti in cui ha visto la sua compagna. “Chiunque è libero di pensarla come vuole ma io so che non ho usato violenza contro Sara e neanche lei verso di me. C’è stata una discussione molto accesa ma si è fermata alle parole”, ha detto. Motivo della lite sarebbe stato proprio la frustrazione della donna e la sua volontà di ritornare in Olanda. “Gli ho detto che la capivo e che doveva fare quello che era meglio per lei”, ha detto Corrado, aggiungendo anche che i toni si sono alzati. “Poi lei ha detto che usciva, io pensavo che uscisse per sbollire”. Erano le 22.30, Sara non è mai più tornata a casa.

“Mi sono accorto che con sé non aveva né documenti, né soldi, mi è caduto l’occhio sui documenti, poi ho cercato anche il cellulare e l’ho trovato in casa”, continua il racconto. Il timore è che possa esserle capitato qualcosa di brutto, che possa aver incontrato dei malintenzionati. Ma di Sara non c’è traccia nemmeno nelle telecamere di videosorveglianza. Secondo quanto riportato da La Provincia Pavese i vigili del fuoco avrebbero cercato il suo corpo nei corsi d’acqua che attraversano il centro e le campagne di Vigevano. I pompieri hanno dragato il naviglio che passa in zona Giacchetta, nei pressi dell’abitazione della quarantenne. Ma di lei nessuna traccia.

Da quanto raccontato dal compagno quel giorno Sara era stata da una sua amica, Adriana, l’unica che aveva in Italia. L’uomo non sa chi sia. “Non ho mai avuto occasione di incontrarla o di avere dei contatti con lei. Veniva a casa mia quando io non c’ero”. Si sa solo che vive a Milano e che da quando Sara è scomparsa non l’ha mai cercata e nemmeno ha risposto all’appello di Corrado che dalla Tv le chiedeva di farsi avanti.

“Purtroppo non è emerso nessun particolare che possa aiutare – ha detto il compagno, come riportato dal Sussidiario.net – Non è ancora uscita una traccia e ora ho paura per lei. In questi momenti si pensa un po’ a tutto. Non saprei nemmeno dove possa essere andata senza documenti, senza soldi e senza telefono. Spero che Sara torni il prima possibile”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Dagotraduzione dal Washington Post il 9 febbraio 2022.

Il video di una madre incatenata per il collo all'interno di un capanno fuori dalla sua casa nella provincia cinese di Jiangsu in pieno inverno ha suscitato un'ondata di rabbia e sospetto pubblico nei confronti delle autorità per non aver protetto le donne vulnerabili. 

Le vaghe dichiarazioni del governo locale, le più recenti sono di martedì, con affermazioni su un'indagine, non sono riuscite a sedare il crescente furore per un caso che si è allargato a una discussione più ampia sul trattamento delle donne e sulla tratta delle spose, soprattutto nelle zone rurali, poiché la percentuale di donne nella società è diminuita.

Il video, pubblicato online alla fine del mese scorso da un blogger in visita alla famiglia di otto bambini nella contea di Fengxian per pubblicizzare iniziative di beneficenza nelle aree rurali, mostrava una donna in piedi in un angolo di un piccolo capannone. Indossava un maglione sottile ed era incatenata con un tutore di metallo chiuso intorno al collo e collegato a una catena attaccata all'interno della capanna. Nel video, un ragazzino sostiene di portarle del cibo ogni giorno. 

Gli utenti Internet inorriditi hanno chiesto se la donna - che sembrava incapace di comunicare con il blogger, suggerendo un grado di deterioramento cognitivo - fosse stata costretta ad avere così tanti figli o fosse stata vittima di tratta nelle sue circostanze. Altri hanno notato la sua perdita di denti e le hanno chiesto se fosse stata vittima di abusi. 

Suo marito è stato precedentemente celebrato online per le enormi dimensioni della sua famiglia quando la Cina si è allontanata dalla sua politica restrittiva sui bambini. I rapporti, tuttavia, non hanno mai menzionato sua moglie.

Alcuni utenti di Internet hanno chiesto il boicottaggio dei prodotti di Fengxian, dove è stato girato il video. Su Weibo, le donne hanno postato foto di cartelli a sostegno. Uno diceva: «Il mondo non ti ha abbandonato. Le tue sorelle stanno arrivando!» 

Una donna ha scritto in un post di aver cercato di visitare la madre, che secondo i funzionari locali era stata portata in ospedale, ma è stata fermata dalla polizia. Un'altra ha scritto un appello a pennarello all'esterno della sua auto, esortando le persone a prestare attenzione al caso. «Questo riguarda ogni singola donna». 

È probabile che tale attivismo preoccupi le autorità che hanno represso i gruppi femministi e un movimento nazionale #MeToo . 

La discussione si è trasformata in un dibattito più ampio sul maltrattamento delle donne, l'inefficacia delle autorità locali nella lotta alla tratta e la povertà nelle zone rurali. Il traffico di spose - che include donne cinesi spesso provenienti da zone rurali povere, così come donne del sud-est asiatico - è un problema in Cina dopo che decenni di pianificazione familiare, combinata con una tradizionale preferenza per i ragazzi, ha portato a una carenza di donne.

Secondo la legge cinese, l'acquisto di una donna o di un bambino vittima di tratta comporta una condanna non superiore a tre anni di reclusione, inferiore alla pena per la vendita di alcuni pappagalli protetti, ha osservato un professore di giurisprudenza. 

«Il video era davvero troppo spaventoso. Tutti stanno prestando attenzione perché possiamo immaginarci in questa situazione. È vero che ogni giorno dobbiamo temere che anche noi possiamo essere vittime di tratta?» ha affermato Liu Ruishuang, vicedirettore del dipartimento di etica medica e diritto sanitario dell'Università di Pechino. 

La discussione è diventata così accesa che le piattaforme dei social media hanno iniziato a censurare alcuni commenti e articoli. L'account del blogger che per primo ha caricato il video è stato cancellato da Douyin, mentre agli account di chi lo ha ripostato è stato impedito di pubblicare nuovi contenuti.

Un popolare account WeChat, Slave Society, ha esortato il pubblico a non dimenticare la difficile situazione della donna, oscurata dalla notizia della medaglia d'oro olimpica della sciatrice cinese americana Eileen Gu per la Cina martedì. Il post è scomparso dopo essere stato ampiamente condiviso. 

«Le catene sistemiche e strutturali che le donne cinesi devono affrontare non sono cambiate. La stragrande maggioranza delle donne non ha alcuna possibilità di diventare Eileen Gu, ma la tragedia della donna a Fengxian può capitare a chiunque», si legge. 

I maldestri tentativi delle autorità locali di contenere le critiche sono stati accolti con derisione e ulteriore sospetto. Una dichiarazione iniziale del dipartimento della propaganda di Fengxian ha erroneamente indicato il cognome della donna e ha respinto le preoccupazioni. «Non ci sono stati rapimenti e traffici», ha affermato, aggiungendo che la donna soffriva di una malattia mentale e stava ricevendo cure mediche e «ulteriore assistenza in modo che la famiglia potesse godersi un caldo capodanno lunare».

Una seconda dichiarazione alcuni giorni dopo spiegava che l'uso delle catene serviva a trattenere la donna quando era mentalmente instabile, mentre una terza dichiarazione chiariva il suo nome, Xiao Huamei, e diceva che la sua famiglia l'aveva mandata nella provincia di Jiangsu dalla provincia dello Yunnan con un compaesano per trovare marito. Una volta a Jiangsu, Xiao è scomparsa. I suoi denti persi, hanno detto i funzionari, erano semplicemente il risultato di una malattia parodontale. 

Le dichiarazioni, hanno detto gli utenti di Internet, hanno ignorato i dettagli chiave, incluso se la donna fosse minorenne quando si è sposata o perché è stata trattenuta. «Stai dicendo che essere incatenato non è illegale?» ha scritto un utente. Quando l'emittente statale CCTV ha visitato l'ospedale di Xiao, i commentatori online si sono chiesti se il medico intervistato stesse leggendo da un copione. 

«È da tempo che, a meno che non vi sia una forte effusione pubblica, la protezione dei diritti individuali non è importante», ha scritto lo scrittore cinese Wei Zhou su WeChat. «Questo non è solo un caso di 'ignoranza e arretratezza', né è un evento anormale».

Martellate all'ex moglie. Uccisa in casa nel sonno. Stefano Vladovich il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

È stato lo stesso agricoltore a chiamare il 112. Liti e problemi economici dietro all'omicidio.

Uccisa nel sonno a colpi di martello. Delitto raccapricciante ieri mattina a Zeddiani, in provincia di Oristano, dove un agricoltore massacra l'ex moglie poi telefona ai carabinieri. «L'ho ammazzata». Daniela Cadeddu, 51 anni, non si accorge che l'ex marito, Giorgio Meneghel, 53 anni, entra in casa usando le vecchie chiavi. I due sono separati da tempo e l'uomo è tornato a vivere con la madre nell'appartamento a fianco, in via Roma, una strada del centro storico. I due gestivano assieme una rivendita di ortofrutta, con i prodotti coltivati dall'uomo nel vicino comune di Baratili. «Lei non la vedevo più in negozio da anni - spiega il sindaco di Zeddiani, Claudio Pinna, a il Giornale - probabilmente da quando si erano separati. Nulla lasciava presagire questa tragedia, non c'era stata nessuna avvisaglia tantomeno eravamo a conoscenza di particolari problemi. La nostra comunità è sconvolta».

Non sono neanche le sette del mattino quando Meneghel entra in camera da letto con un martello nelle mani. Secondo quanto ricostruito in un primo momento, i due avrebbero litigato furiosamente. Ma l'ipotesi viene smentita, poi, dallo stesso assassino. Le grida che si sentono dalla strada sono dei vicini, quando si accorgono che la donna è stata assassinata. A chiamare il 112 e a far accorrere i carabinieri di Oristano è l'omicida stesso. L'operatore del numero unico per le emergenze capisce subito che Meneghel è fuori di senno. E i militari fanno più in fretta che possono. Quando arrivano sul posto il 53enne è insanguinato, l'arma a terra. La poveretta ancora nel suo letto con la testa fracassata. Quanti colpi? Almeno tre secondo la prima perizia del medico legale, anche se solo l'autopsia potrà chiarire la dinamica dell'omicidio e stabilire esattamente la causa della morte. Sul posto i carabinieri del comando provinciale di Oristano e gli esperti del Ris di Cagliari che hanno effettuato rilievi fino a tarda sera.

Interrogato in caserma, Meneghel confessa l'omicidio al sostituto procuratore Sara Ghiani raccontando di essersi trovato in una situazione disperata. Gravi difficoltà economiche, in particolare, debiti impossibili da onorare e problemi di salute per entrambi. Una situazione cui nessuno era a conoscenza in paese. «Qui siamo poco più di mille anime - conclude il sindaco Pinna - ci conosciamo tutti e non sapevamo nulla di tutto questo». Dall'esame della scena del crimine gli investigatori ipotizzano che la vittima non ha potuto tentare alcuna reazione, probabilmente era ancora addormentata quando le è stato inferto il primo colpo alla testa.

Meneghel, trasferito nel carcere di Massama, a Oristano, è accusato di omicidio volontario aggravato. Originaria di un comune vicino, Cabras, sempre nel Campidano di Oristano, la Cadeddu sposa Meneghel nell'86 e da allora si trasferisce nell'entroterra andando ad abitare in un appartamento attiguo a quello dei familiari dello sposo. Più di trent'anni di nozze, poi la separazione di fatto e i primi screzi. Il movente? Il mantenimento della ex e i tanti debiti che non riesce a pagare. Ieri la drammatica decisione di farla finita. Insomma, l'ennesimo femminicidio in Italia, il quarto dall'inizio dell'anno (il primo a Latina, il secondo a Roma e il terzo in provincia di Napoli). Solo nel 2021 le donne assassinate sono state 116, una ogni tre giorni, su un totale di 290 omicidi. Oltre 100 di queste sono state uccise in ambito familiare da mariti, fidanzati o conviventi. Stefano Vladovich

Decisivo il ruolo di un'amica. Segregata in casa dal marito e dalla suocera, donna scappa dopo 5 anni: “Mi presti il cellulare?” Redazione su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

“Mi presti il cellulare?”. Ha chiesto o mimato perché non conosce bene l’italiano ma solo l’arabo una donna di 27 anni che ha rivisto la luce dopo aver trascorso gli ultimi cinque segregata in casa dal marito tra violenze e maltrattamenti all’ordine del giorno, con l’avallo della suocera che controllava i movimenti della donna quando il figlio era a lavoro.

E’ la storia di una giovane sposa tunisina residente a Falconara Marittima, in provincia di Ancona. Approfittando di una distrazione del coniuge, è riuscita ad uscire in strada e la prima cosa che ha fatto è stato fermare un passante per chiedergli il cellulare e chiamare i carabinieri.

Nonostante parli solo l’arabo, il militare è riuscito a farsi indicare l’indirizzo inviando poco dopo una gazzella. Il suo telefono il marito glielo aveva spaccato in testa dopo l’ennesimo litigio. Oggi è tornata alla vita normale dopo gli ultimi cinque anni trascorsi in casa e con la possibilità di frequentare solo l’ambiente familiare. Ora è in un luogo protetto con i due figli, di 3 e 5 anni.

Il marito connazionale è indagato per maltrattamenti in famiglia. Operaio 40enne presso i cantieri navali di Ancona, l’uomo si era sposato sette anni fa in Tunisia. Poi il trasferimento in Italia, dove già lavorava da qualche anno, e la nascita dei due bambini che ha di fatto segnato la segregazione in casa della moglie.

Quando l’uomo lavorava, a controllare la 27enne c’era la suocera che le consentiva di uscire solo per comprare generi alimentari. Le poche volte che aveva provato a ribellarsi alla detenzione forzata è stata minacciata, insultata e picchiata dal marito. Soprattutto quando parlava via chat con un’amica rimasta nel Paese di origine, che piano piano l’aveva convinta a cercare una via d’uscita.

Ma anche il cellulare le è stato negato. Il marito infatti dopo aver letto le chat, ha reagito e le ha fracassato il cellulare in testa. All’ospedale è astata assistita dai sanitari e una volta tornata a casa, accompagna dai carabinieri, l’uomo ha minimizzato l’accaduto, derubricandolo a un banale litigio in famiglia.

Valentina Errante per "il Messaggero" il 4 febbraio 2022.  

Per i suoi 1,6 milioni di follower era Luca.itvai, mini star di TikTok e chissà quali progetti avesse. Ora è soltanto Luca Pisciotto, 21 anni, ragazzino dal sorriso luminoso, cresciuto ad Agrigento e residente a Liegi, dove è morto per difendere la mamma da un uomo violento, che non accettava la fine della loro relazione.  

Luca, ennesima vittima di un tentato femminicidio, è stato ucciso con 5 coltellate, al petto, alla gola e al torace: era intervenuto perché il suo ex patrigno aveva tentato di strangolare sua madre e dopo suicidarsi. E così al giovane TikToker è toccato lo stesso drammatico destino di Mirko Farci, il suo coetaneo, ucciso lo scorso maggio a Tortolì, dall'uomo che aveva appena accoltellato sua madre. 

La donna, Maddalena Sorce, 44 anni, lo scorso autunno, dopo nove anni, aveva deciso di troncare la relazione sentimentale con Pietro Randazzo, 35 anni, anche lui siciliano e residente in Belgio. Aveva già un nuovo compagno, Maddalena, e Randazzo, come spesso accade, non riusciva ad accettare che fosse finita e che la sua donna, adesso avesse una nuova vita. Per questo la perseguitava e la minacciava, estendendo anche al nuovo fidanzato della donna insulti e intimidazioni, tanto da essere già stato denunciato due volte lo scorso dicembre.  

Mercoledì mattina, l'uomo si è presentato in casa di Maddalena, con l'intenzione di ucciderla, la donna è riuscita a fuggire ma Luca è intervenuto in difesa della mamma e Randazzo lo ha accoltellato. L'uomo è scappato, lasciando il ragazzo a terra. I soccorsi sono stati inutili. Quando è arrivata l'ambulanza, Luca era già morto. Randazzo, invece, è stato ricercato fino a sera, quando, sentendosi braccato, si è costituito presso una stazione di polizia. 

Ora è accusato di omicidio e tentato omicidio. I giudici avevano stabilito che Randazzo non dovesse più avvicinarsi a quella donna. E invece mercoledì mattina si sarebbe presentato in casa aggredendola e tentando di strangolarla. Solo allora Randazzo ha lasciato la presa, mentre la vittima, dopo essersi ripresa, è riuscita a mandare un messaggio alla sorella che vive a pochi metri di distanza. È stata la donna a chiamare Luca.  

Il ragazzo è arrivato a Juppille, il quartiere periferico di Liegi dove viveva con la madre, in pochi minuti. Si è trovato faccia a faccia con quell'uomo che lo conosceva sin da bambino, lo ha affrontato. È iniziata una discussione e Randazzo ha tirato fuori il coltello. Quattro fendenti al petto (l'ultimo alla mano, perché Luca tentava di difendersi). Poi è fuggito. 

 Dopo nove anni insieme, a ottobre, Maddalena aveva deciso di chiudere la lunga relazione con l'uomo, siciliano ma residente a Grâce-Hollogne. Aveva un nuovo compagno e Pietro non lo accettava, tanto che, nell'ultimo periodo, le condotte dell'uomo erano diventate sempre più allarmanti. Lo scorso 18 dicembre era stato arrestato dalla polizia perché si era presentato sotto casa di Maddalena minacciandola. Ma era stato subito rilasciato.  

Appena due giorni dopo, il 20 dicembre, un nuovo arresto per aver bucato le gomme dell'auto del nuovo compagno della donna. Questa volta era finito in Tribunale ed era stato rilasciato a condizione di non tormentare più la donna. Aveva anche accettato l'idea di un percorso psicologico. 

La morte di Luca ha fatto scalpore a Liegi, ma ancora di più in rete. Sui social sono piovuti i messaggi. Riposa in pace angioletto, Una bellezza che ora si ritrova in paradiso, Riposa in pace, eri così dolce e te ne sei andato a mostrare a tua madre tutto il tuo amore. Spero che tu stia bene dove sei, La vita è ingiusta. Troppo giovane per morire! Sei morto proteggendo tua madre e questo Luca è un atto di coraggio.  

Sarai sempre nel mio cuore, che dico? Nel cuore di tutti, si legge in particolare sull'account Instagram di Luca. Non riesco a realizzare, sono i commenti che compaiono a decine sotto i video di Luca, sia sul suo account che su quello dei fan. E pensare che 20 ore fa era ancora lì, Ci mancherai tanto, sei un eroe, ha scritto qualcuno, ricordando che Luca voleva solo proteggere la mamma. 

Da leggo.it il 29 ottobre 2022.  

È stata strangolata con una federa, Rosa Alfieri, la 23enne uccisa lo scorso primo febbraio nel mini appartamento del suo assassino, 31enne Elpidio D'Ambra, sotto processo davanti alla Corte di Assise di Napoli (presidente Concetta Cristiano). A confermarlo, oggi, durante l'udienza del processo, è stato il maresciallo dei carabinieri che entrò nella casa dove avvenne il delitto. 

Elpidio sottoposto a una perizia in carcere

D'Ambra, che venne riconosciuto, identificato e poi fermato dalla Polizia nell'ospedale San Paolo di Fuorigrotta, a Napoli è stato anche sottoposto a una perizia, in carcere che lo ha ritenuto sano di mente. Nel corso dell'udienza è anche emerso che D'Ambra venne arrestato in Spagna per violenza domestica.

Il sottufficiale dell'arma ha descritto ai giudici i luoghi del delitto, dove ha eseguito una perquisizione dopo il ritrovamento di Rosa da parte del padre, che riuscì a entrare nel mini appartamento di Epidio grazie a un amico di quest'ultimo, in possesso delle chiavi, che lì era stato mandato proprio da Elpidio per ritirare della droga. 

Il padre della vittima ne approfittò per fiondarsi nella casa dove trovò la figlia a seno scoperto e con i pantaloni "non in ordine". Il maresciallo ha anche detto che il padre di Rosa gli disse che per pudore le abbassò la maglietta: e così infatti il carabiniere l'ha trovata quando è giunto nel luogo del delitto.

Il carabiniere ha anche descritto le ricerche dell'imputato, da subito indicato come il probabile assassino della povera Rosa, che per ore però non diedero esito positivo. Com'è noto, infatti, l'individuazione di D'Ambra è legata a un video che ritrae l'assassino mentre acquista un gratta e vinci: il filmato è stato ripreso dalla telecamera di videosorveglianza del bar della stazione di Frattamaggiore-Grumo, dove l'uomo si era recato già una decina di minuti dopo aver commesso l'omicidio.

Grazie a quel video, e a un tassista, inizia la ricostruzione dei movimenti dell'omicida (reo confesso: proprio il conducente del taxi riferisce poi di avere accompagnato D'Ambra, tra l'altro, al Rione Traiano dove, verosimilmente, acquista della droga che poi gli provocherà quel malore che lo costringe a recarsi in ospedale dove viene riconosciuto. Oggi, nel corso dell'udienza, è stato anche ascoltato l'ufficiale dei carabinieri che ha coordinato le ricerche di D'Ambra. 

Il processo sull'omicidio della 23enne di Grumo Nevano. Rosa Alfieri strangolata con una federa, le parole del papà (“Era seminuda”) e la perizia: “E’ sano di mente”. Redazione su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Rosa Alfieri è stata strangolata con una federa nell’appartamento che il papà aveva affittato a Elpidio D’Ambra, il 31enne reo confesso che avrebbe anche cercato di spogliarla stando a quanto emerso dal racconto del maresciallo dei carabinieri che entrò nel “basso“, lo scorso primo febbraio 2022, dove avvenne il delitto della 23enne che sconvolse la cittadina napoletana di Grumo Nevano.

Nel corso dell’udienza del processo che si sta celebrando davanti alla Corte di Assise di Napoli, il sottoufficiale ha descritto ai giudici il luogo dell’omicidio dove ha eseguito una prima perquisizione in seguito al ritrovamento, da parte del padre, del cadavere di Rosa. Il genitore riuscì infatti ad entrare nel “basso” grazie alle chiavi che aveva un amico di D’Ambra. Una volta dentro – così come riporta l’agenzia Ansa – trovò la figlia a seno scoperto e con i pantaloni ‘non in ordine’. Il maresciallo ha anche detto che il padre di Rosa gli disse che per pudore le abbassò la maglietta: è così infatti che i carabinieri l’hanno trovata all’interno dell’appartamento.

D’Ambra è stato definito “sano di mente” in seguito alla perizia psichiatrica a cui è stato sottoposto in carcere dopo la richiesta del suo legale Dario Maisto. Venne arrestato il giorno dopo l’omicidio dopo essersi allontanato da Grumo Nevano con un treno partito dalla stazione e arrivato a Napoli centrale. Da lì la corsa in taxi verso il Rione Traiano dove, verosimilmente, ha acquisto della droga che gli ha poi provocato un malore che l’ha costretto a richiedere l’assistenza dei medici del pronto soccorso dell’ospedale San Paolo di via Terracina, dove è stato riconosciuto e arrestato.

D’Ambra ha sempre dichiarato di aver agito dopo aver sentito delle voci nel cervello che gli dicevano di uccidere la ragazza. Ha negato di aver abusato della 23enne così come emerso anche dall’autopsia che ha riscontrato i segni di una colluttazione e di strangolamento ma non di una violenza sessuale. Il 31enne in passato venne arrestato in Spagna per violenza domestica. 

Rosa, strangolata a 24 anni: scatta la caccia al vicino di casa. Raffaele Sardo La Repubblica il 2 febbraio 2022.  

Grumo Nevano, ragazza uccisa nell'abitazione di un giovane: l'aveva presa in fitto dal padre della vittima appena due settimane fa. La disperazione del genitore: "E pensare che sono stato proprio io a portarlo nel nostro palazzo di via Risorgimento..."

Ancora una donna uccisa. Ancora un delitto efferato. Stavolta la vittima è una giovane di Grumo Nevano, Rosa Alfieri, di 24 anni. La ragazza è stata trovata morta a Grumo Nevano nel tardo pomeriggio in casa di un vicino nell'edificio dove abitava, in via Risorgimento 1, non lontano dall'ufficio postale.

Il femminicidio di Grumo Nevano. Rosa strangolata a 24 anni, è caccia al vicino di casa. Il dolore del papà: “Sono stato io a portarlo nel palazzo…” Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Febbraio 2022. 

La caccia all’uomo è proseguita tutta la notte e non si è fermata neanche questa mattina. Sono ancora in corso infatti le ricerche del 31enne sospettato di aver ucciso nel pomeriggio di ieri, martedì primo febbraio, la 24enne di Grumo Nevano (Napoli) Rosa Alfieri.

La ragazza è stata trovata priva di vita all’interno dell’appartamento al piano terra della palazzina dove viveva con i genitori e il fratello in via Risorgimento. A fare chiarezza sull’omicidio sarà l’autopsia, ma dai primi rilievi pare certo che il killer di Rosa l’abbia strangolata, con una sciarpa o forse un asciugamano, dopo le avance e un presunto tentativo di violenza sessuale da parte del 31enne a cui la famiglia Alfieri aveva fittato due settimane prima l’appartamento.

Lo stesso, dopo l’omicidio, si è dato alla fuga ed è ancora irrintracciabile. A fare la drammatica scoperta è stato il genitore della giovane che non riusciva a mettersi in contatto con la figlia: ha quindi sfondato la porta dell’appartamento al piano terra trovando la figlia Rosa a terra, ormai priva di vita.

Sul posto sono accorsi i carabinieri della Compagnia di Giugliano e un’ambulanza del 118, ma i sanitari non hanno potuto fare altro che constatare il decesso della giovane.

“Chi l’avrebbe mai immaginato una cosa del genere. E pensare che sono stato proprio io a portarlo nel palazzo“, avrebbe detto il padre di Rosa, scoppiato in lacrime, ad alcuni vicini, racconta Repubblica.

Il femminicidio

Secondo una prima ricostruzione dei fatti Rosa era da poco tornata a casa, nella palazzina di famiglia in via Risorgimento, dopo aver trascorso alcune ore nella tabaccheria del fidanzato distante poche centinaia di metri, al quale era legata da meno di un anno.

Una volta nel palazzo Rosa sarebbe stata attirata nella casa affittata al 31enne, anche lui di Grumo Nevano, con un pretesto. Dopo aver rifiutato le avance dell’uomo, quest’ultimo l’avrebbe immobilizzata e strangolata: sul corpo di Rosa infatti non vi sono evidenti ferite di arma da fuoco o da lame, ma segni attorno al collo. Non è chiaro se la 24enne abbia subito anche violenze sessuale: a fare luce su questo sarà l’autopsia, con la salma già trasferita all’istituto di Medicina legale dell’ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli).

Dopo l’omicidio il 31enne si è allontanato dal palazzo dandosi alla fuga, con le ricerche ancora in corso.

Forze dell’ordine che hanno anche dovuto placare gli animi bollenti della folla che già nel pomeriggio di ieri si era radunata davanti la palazzina in cui è avvenuto il femminicidio. Si era infatti diffusa la notizia, priva di fondamento, che il delitto di Rosa fosse stato commesso da alcuni pachistani: sui social c’era anche chi evocava una “rappresaglia” nei confronti degli immigrati, per fortuna non realizzata.

Il dolore

In città il dolore e lo sgomento per l’omicidio di Rosa sono forti. “Un dolore immenso, il lutto della famiglia della giovane donna è il dolore dell’intera comunità cittadina“, spiega il sindaco di Grumo Nevano, Gaetano Di Bernardo.

“Nelle prossime ore – prosegue il primo cittadino – con la giunta decideremo le iniziative per essere concretamente vicini alla famiglia. Siamo sconvolti. Qui ci conosciamo quasi tutti ed il dolore delle famiglie coinvolte è il nostro dolore“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

L'uomo è sospettato dell'omicidio della 23enne. Omicidio Rosa Alfieri, fermato Elpidio D’Ambra: era in ospedale a Napoli. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

E’ stato fermato nel pomeriggio di mercoledì 2 febbraio Elpidio D’Ambra, 31 anni, sospettato di aver ucciso Rosa Alfieri, la 23enne trovata senza vita all’interno di un’abitazione a Grumo Nevano. La notizia è stata confermata poco dopo le 18.30 dai carabinieri del Comando Provinciale di Napoli. L’uomo è stato intercettato da una volante della polizia all’ospedale San Paolo di Fuorigrotta, a Napoli, dopo la segnalazione di uno dei sanitari che lo aveva riconosciuto grazie alle foto segnaletiche diffuse in rete.

Ulteriori dettagli verranno forniti nelle prossime ore. D’Ambra avrebbe accusato un malore durante la fuga e nel pomeriggio si è presentato all’ospedale di via Terracina, nel quartiere flegreo. Poco dopo sono sopraggiunti anche i carabinieri, che procedono nelle indagini, che hanno notificato all’uomo un  provvedimento di fermo, emesso dalla procura di Napoli nord, per omicidio volontario.

“L’hanno preso?”. E’ quello che chiedevano da stamane con insistenza i cittadini di Grumo Nevano, comune in provincia di Napoli, ai giornalisti presenti all’esterno della palazzina di via Risorgimento dove nel pomeriggio di ieri, martedì 1 febbraio, è stato trovato il corpo senza vita della 23enne Rosa Alfieri. A  24 ore dal ritrovamento si sa poco o nulla su quanto avvenuto nell’abitazione al piano terra affittata dal papà della giovane vittima all’uomo attualmente ricercato dai carabinieri. La fuga di Elpidio D’Ambra, 31 anni, sospettato di aver strangolato e ucciso Rosa, è durata 24 ore. Si è allontanato a piedi dalla palazzina dove viveva la famiglia di Rosa e dove si era trasferito da poco più di dieci giorni. Non si esclude che possa essere stato aiutato da qualcuno durante la fuga.

Di lui al momento si sa poco o nulla. Ha vissuto per un periodo in Spagna dove ha collezionato una serie di reati contro il patrimonio. E’ definito da alcuni cittadini del comune napoletano “una testa calda” ma stando a quanto appreso dai carabinieri in Italia non aveva precedenti. Era ritornato a vivere a Grumo Nevano dopo la parentesi in Spagna e di recente aveva fatto richiesta anche di residenza. Viveva inizialmente con la madre ma, stando a quanto emerso in queste ore, aveva deciso di andare a vivere da solo perché i rapporti con la famiglia non erano idilliaci. La stessa madre è stata avvicinata in queste ore da diversi cronisti ma ha preferito non rilasciare dichiarazioni.

D’Ambra è sospettato di aver ucciso Rosa strangolandola con l’aiuto di un panno. Non è chiaro se in precedenza avesse tentato di avere un rapporto sessuale con lei. Così come non è chiaro se i due si conoscevano, circostanza che avrebbe spinto la 23enne a fidarsi dell’uomo ed entrare in casa, o se Rosa sia stata trascinata all’interno dell’abitazione con la forza o con una scusa considerato che D’Ambra era da pochi giorni il nuovo inquilino del palazzo di famiglia.

A trovare il corpo senza vita di Rosa è stato il papà, che ha una azienda tessile nel vicino comune di Frattamaggiore, preoccupato perché la figlia non rispondeva al cellulare che squillava dall’interno. (Rosa era uscita di casa poco prima delle 17 per andare dal fidanzato che gestisce un tabacchi, insieme al genitore, sempre in via Risorgimento). L’uomo ha forzato la porta d’ingresso e una volta dentro ha trovato all’altezza del bagno (e non nel letto come inizialmente trapelato, ndr) il corpo senza vita della 23enne. Non aveva nessun fazzoletto in bocca ma c’era un panno utilizzato probabilmente dal 31enne per strangolarla. Dopo la terribile scoperta, il papà di rosa è corso in strada per chiedere aiuto. Alcuni testimoni, intervistati anche dal Riformista, hanno sottolineato che l’uomo si disperava soprattutto perché “sono stato io ad affittargli la casa”. 

Saranno tuttavia gli approfondimenti investigativi dei carabinieri della compagnia di Giugliano, coordinata dalla procura di Napoli nord, a far luce sulla dinamica di quanto accaduto. Sul corpo, da un primo esame medico, non sarebbero stati riscontrati segni di violenza. Intanto la salma della giovane vittima è stata trasferita all’istituto di Medicina legale dell’ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli) per gli accertamenti medico-legali e per l’autopsia, disposta dal magistrato di turno della procura di Napoli nord. Saranno proprio queste verifiche a cristallizzare le cause del decesso di Rosa così come eventuali violenze, anche di natura sessuale, subite.

Intanto all’esterno del palazzo della famiglia Alfieri sono stati lasciati diversi fasci di fiori bianchi e diversi messaggi. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Preso l'assassino di Rosa: "Le ha teso una trappola e ha tentato di stuprarla". Stella Cervasio su La Repubblica il 03 febbraio 2022.

Il 31enne, vicino di casa della vittima a Grumo Nevano, è stato riconosciuto all'ospedale San Paolo dove era andato dopo una notte all'addiaccio.

Grumo nevano - È finita dopo circa 24 ore, intorno alle 18 di ieri, la fuga di Elpidio D'Ambra, il trentunenne maggiore indiziato dell'omicidio di Rosa Alfieri, la ragazza di 24 anni di Grumo Nevano. I carabinieri della compagnia di Giugliano l'hanno fermato nell'ospedale San Paolo di Fuorigrotta, dove girovagava chiedendo di essere soccorso dopo aver trascorso una notte difficile ed essersi cambiato i vestiti e liberato del cellulare.

Da tgcom24.mediaset.it il 3 febbraio 2022.

"Ho sentito delle voci che mi dicevano di agire e l'ho fatto". Così Elpidio D'Ambra, ha confessato l'omicidio di Rosa Alfieri, la ragazza trovata senza vita nell'abitazione di Grumo Nevano (Napoli) dove l'uomo viveva. D'Ambra ha però negato di aver compiuto violenze sessuali sulla donna. La giovane è stata trovata strangolata nell'appartamento di proprietà del padre della vittima che lo aveva dato in affitto a D'Ambra. Il 31enne è accusato di omicidio volontario.

La ricostruzione dell'omicidio

D'Ambra ha raccontato di avere invitato la ragazza ad entrare nel suo appartamento per chiederle informazioni sulle bollette della corrente. A questo punto, ha detto ancora l'uomo, ha sentito "delle voci nella sua testa che gli dicevano di agire". Per questo motivo avrebbe ucciso Rosa. Agli inquirenti ha negato di avere fatto delle avances e anche le presunte violenze nei confronti della giovane. Ha ammesso però di essere un consumatore abituale di cocaina, che aveva consumato anche il giorno dell'omicidio. 

D'Ambra aveva una compagna dalla quale si era separato tempo fa e da allora viveva da solo. Svolgeva saltuariamente lavori di muratura. Il 31enne ha anche confermato di essersi intrattenuto a colloquio con i genitori della ragazza, che a lui si erano rivolti chiedendo se l'avesse vista, dopo che l'aveva uccisa.  

La fuga e il fermo.

Dopo l'omicidio D'Ambra si era poi dato alla fuga. Nel tardo pomeriggio di mercoledì si era recato nell'ospedale San Paolo, tra i quartieri Fuorigrotta e Bagnoli di Napoli, per farsi visitare verosimilmente per le sue precarie condizioni dopo avere trascorso, probabilmente, le ultime 24 ore in strada. Due agenti che si trovavano nell'ospedale per motivi di servizio lo hanno riconosciuto e bloccato grazie alle foto segnaletiche diffuse dai carabinieri a tutte le forze dell'ordine.

La cugina della vittima: "Ha tentato di stuprarla, graffi sul collo lo dimostrano" - "Io so che è stato un tentato stupro, almeno per quello che so ora, poi dopo l'autopsia saranno accertate le informazioni. So che sono stati trovati dei graffi sul viso o sul collo di mia cugina che sarà stata lei stessa a farsi tentandosi di difendersi. Io so che è stata strangolata con un foulard o una sciarpa e lei avrà provato a toglierla". Lo ha detto la cugina di Rosa Alfieri parlando con i giornalisti.

La 23enne strangolata a Grumo Nevano. “Elpidio non è più mio figlio, non voglio più vederlo”, il dolore della madre del reo confesso dell’omicidio di Rosa Alfieri. Vito Califano su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

La madre di Elpidio D’Ambra non vuole più sapere niente del figlio. Il 31enne ha confessato l’omicidio di Rosa Alfieri, 23enne di Grumo Nevano, in provincia di Napoli, strangolata nella palazzina dove entrambi vivevano. A fittargli l’appartamento dove il corpo della ragazza è stato ritrovato era stato il padre della vittima, proprietario. “Quello non voglio più vederlo. Non è più mio figlio”, le parole di Cristina Salas riportate dall’Ansa. Il delitto ha sconvolto la comunità. D’Ambra, accusato di omicidio volontario, si trova al carcere di Poggioreale.

Il 31enne muratore ha confessato l’efferato delitto. “Sentivo voci nella testa”, ha raccontato anche al pm dopo averlo raccontato mercoledì scorso a un infermiere dell’Ospedale San Paolo che lo aveva accolto al triage e lo aveva riconosciuto dopo aver visto le foto circolare sui siti. Così era stato rintracciato, dopo quasi 24 ore di fuga. Era andato a Frattamaggiore dove aveva preso un treno per Napoli. Alla Stazione Centrale aveva preso la vecchia metropolitana per arrivare a Fuorigrotta e un taxi per il Rione Traiano dove ha comprato della cocaina. È andato in ospedale perché “sentiva le voci”.

D’Ambra rischia l’ergastolo. Ha ricostruito nel lungo interrogatorio notturno come abbia fatto entrare la ragazza in casa per chiederle informazioni sulle bollette. L’ha trascinata in casa, al piano terra di via Risorgimento mentre i familiari di Rosa erano al piano di sopra e il fidanzato Luigi fuori al portone. Quando questi hanno cominciato a cercare la 23enne ha detto di non averla vista. Il corpo è stato trovato solo ore più tardi: Vincenzo Alfieri, padre della vittima, ha notato un ragazzo che con le chiavi si dirigeva verso l’appartamento di D’Ambra.

L’amico ha raccontato di dover recuperare degli oggetti. Quando ha aperto la porta il padre ha intravisto nell’ingresso la borsa della figlia. E quando è entrato ha trovato il corpo riverso a terra con uno straccio intorno al collo. Il ragazzo arrivato in casa di D’Ambra ha fatto perdere le sue tracce e la sua posizione è al vaglio degli inquirenti. Il reo confesso ha detto di non essersi costituito subito perché era “spaventato”. Un taxista ha telefonato al 113, raccontando di averlo riconosciuto e di averlo accompagnato a comprare dei vestiti nuovi. L’autopsia non è stata ancora fissata: soltanto l’esame potrà accertare se la vittima sia stata abusata sessualmente. Il 31enne ha ammesso l’omicidio ma negato lo stupro.

“Io sto con il dolore della famiglia della povera Rosa”, ha aggiunto la madre del ragazzo arrestato. Non ha nominato alcun avvocato di fiducia per il figlio che è difeso da un legale d’ufficio, Dario Maisto, che ha fatto sapere chiederà una perizia psichiatrica. “Non lo conosco, non so più chi è, non mi appartiene, non ci ho parlato, non voglio più chiamarlo”. Per l’avvocato della famiglia Alfieri, Carmine Biasiello, il 31enne era invece perfettamente lucido e capace di intendere e di volere. Domani quasi certamente l’udienza di convalida del fermo. La data dei funerali sarà stabilita in base alla calendarizzazione dell’esame autoptico. La salma è stata trasferita all’istituto di Medicina legale dell’ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli) per gli accertamenti. Il sindaco Gaetano Di Bernardo ha fatto sapere che per quel giorno proclamerà il lutto cittadino. Una strada sarà intitolata a Rosa Alfieri.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il femminicidio di Grumo Nevano. Omicidio Rosa Alfieri, la ‘confessione’ di Elpidio: “Non ero in me, comprato cocaina per dimenticare”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.  

L’ha uccisa perché le voci nella testa gli “dicevano cosa fare”, trascinandola dentro l’appartamento che la famiglia di lei gli aveva fittato una decina di giorni prima. Poi è scappato e ha assunto cocaina “per dimenticare quello che era successo” quel pomeriggio di martedì primo febbraio. 

È il racconto di Elpidio D’Ambra, il 31enne di Gruno Nevano fermato per l’omicidio di Rosa Alfieri, la 23enne strangolata nella palazzina di via Risorgimento dove entrambi vivevano. Parole scritte nel verbale di tre pagine redatto nel commissariato di Bagnoli, dove il 31enne era stato portato nel tardo pomeriggio di mercoledì dopo il fermo avvenuto nell’ospedale San Paolo di Napoli.

Parole, quelle sulle voci nella testa, che spingeranno gli avvocati difensori Dario Maisto e Mirko Argenzio a dipingere D’Ambra come un uomo tormentato da demoni interiori, incontrollabili: da qui la richiesta, nel corso dell’udienza di convalida svoltasi oggi, di una perizia psichiatrica per dimostrare l’incapacità di intendere e di volere. Per l’avvocato della famiglia Alfieri, Carmine Biasiello, il 31enne era invece perfettamente lucido e capace di intendere e di volere

“Elpidio non è più mio figlio, non voglio più vederlo”, il dolore della madre del reo confesso dell’omicidio di Rosa Alfieri

Ma dal racconto di Elpidio emerge anche l’efferatezza del gesto: “Ho visto Rosa passare davanti alla porta del mio appartamento. L’ho fatta fermare con la scusa di chiederle informazioni su certi documenti. A quel punto ho sentito le voci che mi dicevano di ucciderla perché, altrimenti, loro avrebbero ammazzato me nel sonno. L’ho afferrata da dietro per il collo e l’ho trascinata dentro l’appartamento. Siamo caduti entrambi a terra. Abbiamo sbattuto sulla porta a soffietto che si è rotta. Le ho messo le mani al collo e l’ho strozzata. Poi ho trascinato il suo corpo in bagno e le ho messo il bavaglio in bocca. Avevo paura che potesse urlare, anche se pensavo fosse morta”, sono le sue parole, riportate oggi da Repubblica. 

I demoni nella testa forse dovuti ad anni di cocaina, spingono il 31enne a dire che in quei momenti “non ero io, e con questo intendo dire che era come se fossi obbligato da qualcun altro a fare quello che stavo facendo”.

Se durante l’omicidio non era in sé, D’Ambra dimostra ben altra lucidità nei momenti successivi, quando il padre di Rosa va a bussare alla porta al pian terreno: “C’erano persone che bussavano alla porta, così ho trascinato il corpo in bagno per impedire di vedere a chi era fuori. Ho aperto la porta, ho detto che mi stavano disturbando e poi, preso dal panico, mi sono allontanato”.

Qui inizia un lungo girovagare, durato praticamente un giorno. Da Grumo Nevano va a Frattamaggiore e sale su un treno in direzione Napoli. Nella zona della Stazione Centrale prima compra in un negozio scarpe, pantaloni e un giubbino, quindi con un taxi si fa portare al Rione Traiano dove acquista 3 grammi di cocaina. La notte la passa in strada senza dormire, quindi nel pomeriggio di mercoledì si reca all’ospedale San Paolo: “Ho iniziato a sentire di nuovo le voci. Avevo un fortissimo mal di testa, mi hanno dato un calmante. Volevo essere visitato da uno psichiatra, ma invece sono arrivati i poliziotti e mi hanno portato via”.

“Io sto con il dolore della famiglia della povera Rosa”, ha detto la madre di Elpidio. “Quello non voglio più vederlo. Non è più mio figlio”, le parole di Cristina Salas riportate dall’Ansa. 

Nel corso dell’interrogatorio il 31enne, che era tornato in Italia dalla Spagna, dove aveva scontato quattro anni per rapine e furti, ha spiegato di non aver aggredito la ragazza per abusare di lei: “Conoscevo Rosa perché era la mia vicina di casa e ogni tanto mi ha aiutato a meglio comprendere dei documenti per la casa, tipo contratti delle utenze. In totale abbiamo parlato un paio di volte, ma quando passava davanti alla mia porta ci salutavamo cordialmente”.

Ora Elpidio D’Ambra è in carcere: il gip ha infatti convalidato nell’udienza tenuta oggi nel penitenziario di Poggioreale il fermo, disponendo la custodia cautelare in carcere per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Gli atti adesso saranno trasferiti a Napoli Nord, procura competente per il reato.

Martedì 8 febbraio si terrà invece all’ospedale San Giuliano di Giugliano l’esame autoptico sulla salma di Rosa: le esequie dovrebbero essere previste per il giorno successivo, mercoledì, presso la basilica di San Tammaro di Grumo Nevano. Ad officiarle sarà il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, insieme con i quattro parroci della città. Il sindaco Gaetano Di Bernardo ha fatto sapere che per quel giorno proclamerà il lutto cittadino. Una strada sarà intitolata a Rosa Alfieri.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da tgcom24.mediaset.it il 6 febbraio 2022.  

Elpidio D'Ambra, dopo aver strangolato la 23enne Rosa Alfieri, scappò da Grumo Nevano (Napoli). Si disfece degli abiti, del cellulare e comprò anche un "Gratta e vinci" durante la sua fuga durata quasi 24 ore. L'uomo ha confermato, davanti al giudice per le indagini preliminari, di aver ucciso la sua vicina di casa. 

Come riferito durante l'interrogatorio reso al pm subito dopo l'arresto, D'Ambra ha ammesso di aver fatto entrare la ragazza a casa sua per chiederle informazioni sulle bollette ma ha negato di aver tentato di violentarla. Questa versione è contestata però dalla famiglia della vittima, visto che Rosa fu rinvenuta nell'abitazione del 31enne con i seni scoperti.

Il giudice ha disposto la custodia cautelare in carcere per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. D'Ambra con il "Gratta e vinci" voleva probabilmente tentare una vincita per poi far perdere le sue tracce. Tutto inutile visto che, poi, fu catturato all'ospedale San Paolo, a Napoli, dove era andato perché stanco per le ore all'addiaccio. Alora l'uomo, alla vista degli agenti, tentò di evitare l'arresto. Si nascose infatti dietro una parete ma fu notato dai poliziotti.

Martedì, nell'ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli), si terrà l'autopsia sulla salma di Rosa. Le esequie, invece, sono previste per mercoledì nella basilica di San Tammaro di Grumo Nevano.

I primi esiti dell'autopsia. Rosa Alfieri è stata strangolata, escluse violenze sessuali: i funerali della 23enne di Grumo Nevano. Giovanni Pisano su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Prima di essere uccisa, Rosa Alfieri non avrebbe subito violenze di natura sessuale. E’ quanto emerge dai primi esiti dell’autopsia eseguita nella giornata di martedì 8 febbraio all’ospedale San Giuliano di Giugliano in Campania (Napoli). Per l’omicidio della 23enne, trovata senza vita nel pomeriggio del primo febbraio scorso in un’abitazione a Grumo Nevano, è stato fermato Elpidio D’Ambra, 31 anni. L’uomo, rintracciato 24 ore dopo in stato confusionale all’ospedale San Paolo di Fuorigrotta, a Napoli, ha confessato l’omicidio ma ha sostenuto dal primo istante di non aver commesso alcuna violenza sessuale.

“Sentivo delle voci e l’ho uccisa” ha raccontato ai pm della procura di Napoli nord e ai carabinieri della compagnia di Giugliano che procedono nelle indagini, oltre che al gip che ha convalidato il fermo. Dall’autopsia sono emersi, infatti, i segni di una colluttazione e di strangolamento. Eseguiti inoltre specifici esami (una tac) e prelievi per accertare in maniera inequivocabile la presenza o meno di traumi anche frutto di eventuali violenze sessuali.

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Intanto mercoledì 9 febbraio alle 11 nella basilica di San Tammaro di Grumo Nevano si svolgeranno i funerali di Rosa. A celebrarli monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa (Caserta), insieme con i quattro parroci della città. Il sindaco di Grumo, l’avvocato Gaetano Di Bernardo, ha proclamato il lutto cittadino: è stato sospeso il mercato settimanale e i negozi resteranno chiusi tra le 10,30 e le 12,30. Annunciata anche la partecipazione dei primi cittadini di Frattamaggiore, Frattaminore, Crispano e Casandrino.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Giacomo Galeazzi per "la Stampa" il 12 febbraio 2022.

Sei mesi per porre fine a un calvario. Un uomo di 50 anni è stato sottoposto alla misura cautelare di divieto di avvicinamento alla ex compagna, con l'accusa di stalking e violenza sessuale, al termine di un'indagine della Questura di Monza e dell'attivazione del "codice rosso". La ex fidanzata dell'uomo, monzese, lo ha denunciato sei mesi fa, dopo averlo lasciato per la sua eccessiva possessività e aggressività, ed essersi ritrovata pedinata e tormentata da oltre 70 messaggini al giorno, fino a subire uno stupro.

Qualche giorno fa difatti, dopo essersi lasciata convincere dall'ex ad accompagnarlo a casa, per parlarle di come diceva di essere cambiato, il 50 enne ha tentato di convincerla a riprendere la relazione e, al suo rifiuto, l'ha immobilizzata e costretta a subire un rapporto sessuale. La donna è uscita da casa del suo aggressore sconvolta, ha chiesto aiuto ed è stata portata in ospedale. 

Fenomeno multiforme

Un fenomeno multiforme quello della violenza di genere che è emerso nella sua complessità anche attraverso l'analisi dei dati che sono stati raccolti a poco più di due anni dall'entrata in vigore, il 9 agosto 2019, del cosiddetto “Codice rosso”. La legge 694 del 2019 ha introdotto nuove fattispecie di reato e perfezionato meccanismi di tutela delle vittime.

 In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, infatti, la direzione centrale della Polizia Criminale-Servizio Analisi Criminale ha realizzato un report,  elaborato sulla base dei dati provenienti da tutte le forze di polizia, che traccia un bilancio delle problematiche legate al fenomeno e propone un focus specifico sui primi 10 mesi del 2021, confrontato con l’analogo periodo del 2020.

Un’analisi dettagliata che unisce al monitoraggio delle nuove fattispecie di reato introdotte dal Codice rosso (tra cui la costrizione al matrimonio e il revenge porn) anche l’indagine di quelli che sono i principali reati spia, ovvero di tutti quei delitti che sono indicatori di violenza di genere come i maltrattamenti in famiglia, gli atti persecutori (stalking) e la violenza sessuale. 

Escalation di reati

Nello specifico, dal 1°gennaio al 31 ottobre 2021 sono aumentate del 10% le violazioni dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e dei divieti di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (da 1.584 a 1.740). Dall'entrata in vigore del Codice rosso sono stati 4.234 i casi in tutta Italia, in particolare Sicilia (585), Lazio (452), Lombardia (398), Piemonte (386) e Campania (340) sono le regioni con il maggior numero di violazioni. Un’altra fattispecie introdotta dal Codice rosso, le costrizioni o induzioni al matrimonio, ha fatto registrare nel periodo in esame un considerevole aumento (+143%, da 7 a 17) legato alla progressiva conoscenza della nuova norma e la maggiore propensione alla denuncia. Si tratta di un fenomeno che riguarda nell'86% dei casi donne, di cui il 68% di nazionalità straniera. 

Delitti commessi

Crescono anche i reati di deformazione dell'aspetto della persona con lesioni permanenti al viso (+35%, da 46 a 62). In totale dall’entrata in vigore della legge sono stati 143 i delitti commessi. Le vittime donne sono il 22%, gli autori sono nel 92% dei casi di sesso maschile. Incremento rilevante dei casi di “revenge porn” (+45%). Le vittime di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, che dall’entrata in vigore del Codice rosso ha registrato complessivamente 2.329 reati denunciati, sono nel 73% dei casi donne, italiane (87%), maggiorenni (82%).

Nel report realizzato dalla CriminalPol trovano inoltre spazio l’analisi dei cosiddetti “reati spia” (atti persecutori-stalking, maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenza sessuale) e dei profili demografici delle vittime femminili dei reati di specie e degli autori dei reati. Infine, un ulteriore focus è dedicato ai provvedimenti di tutela delle vittime di violenza: gli ammonimenti del questore per stalking e per violenza domestica (+18% rispetto al 2020) e gli allontanamenti dalla casa familiare (-4% rispetto al 2020).

La falla del Codice rosso che libera i persecutori. Stefano Vladovich il 28 Gennaio 2022 su Il Giornale.

A Parma l'uomo arrestato dai carabinieri e liberato dal pm. "La legge è da cambiare". Arrestato dai carabinieri, liberato dal pm. È successo a Parma e tutto per un «baco», un difetto, giuridico. Un contrasto tra norme «al quale bisognerebbe porre rimedio». La storia, purtroppo, è una delle tante, troppe, che accadono ovunque. Un uomo viene allontanato dalla compagna perché violento e pericoloso. Provvedimento emesso da un gip dopo una serie di denunce per maltrattamenti, lesioni, minacce, stalking. Il soggetto, 51 anni, non molla e, nonostante il divieto di avvicinamento, mercoledì si presenta a casa della donna. Con lei c'è la madre anziana. Non gli aprono, lui insiste con calci e pugni alla porta. Sono terrorizzate le due donne, l'anziana telefona al 112. E quando arrivano i carabinieri c'è poco da capire. L'ordinanza è violata e c'è pure la flagranza di reato. Le nuove norme introdotte nel 2019 dalla legge 69, Codice rosso, sono chiare. In caso di violazione si va in galera. Basta inoltrare la richiesta di convalida al pm e la storia è finita. In teoria. Nella realtà il pm deve respingere la richiesta e liberare l'arrestato.

Perché? «È un'anomalia» spiega il procuratore capo di Parma Alfonso D'Avino. In pratica «il pubblico ministero, al quale viene trasmesso il verbale di arresto per la convalida, non può richiedere nessuna misura coercitiva ma deve disporre la liberazione. Una situazione paradossale - continua D'Avino, dal 2018 a capo della Procura parmense - che si è venuta a creare dopo che, con la legge 134 del 27 settembre 2021 (in vigore dal 19 ottobre) è stato introdotto l'arresto obbligatorio in flagranza di reato secondo l'articolo 387 bis. Tuttavia non è stata modificata la norma che prevede i casi nei quali il pm può chiedere la misura coercitiva; la conseguenza è che, come nell'episodio in questione, all'arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria deve seguire l'immediata liberazione da parte del pubblico ministero». Insomma, una legge impone l'arresto, dunque il carcere per quanti «disobbediscono» ai divieti imposti a salvaguardia delle vittime di violenza, una vecchia norma, ancora in vigore, la annulla. O meglio, prevede la possibilità di liberare l'arrestato nonostante abbia infranto l'obbligo. Alla notizia della scarcerazione il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, si dice indignato «come cittadino e come istituzione. C'è qualcosa che non funziona in questo Paese spiega - c'è qualcosa che non funziona nella legge che deve essere ferrea, incisiva, efficace ed efficiente. Stiamo parlando di una donna sotto pericolo che ha tutto il diritto di vivere in piena serenità e tranquillità la propria vita. Di fronte a questo non si può rimanere indifferenti né si può considerarlo una cosa normale. Le leggi se non funzionano vanno cambiate».

Una situazione paradossale denunciata anche da altre Procure e al centro di una direttiva del 21 ottobre della stessa Procura di Parma inviata al ministero della Giustizia allo scopo di «porre in rilievo il contrasto di norme. Ma non sono stati registrati interventi correttivi o indicazioni su una diversa modalità di interpretazione». Insomma, tutto tace dal dicastero di via Arenula mentre il 51enne, e molti altri come lui, è tornato in libertà. Libero di avvicinarsi, minacciare o peggio. Eppure esiste una misura cautelare introdotta dal Codice rosso per evitare che la persona offesa venga avvicinata: il braccialetto elettronico. Se il divieto viene violato la stessa legge prevede, in teoria, dai sei mesi ai tre anni di carcere. Stefano Vladovich

Emilio Orlando per leggo.it il 28 gennaio 2022.

Terrorizzata dall’ex e costretta a non uscire di casa. Una storia incredibile, specie perché dura ancora dopo otto denunce per atti persecutori, minacce, estorsione, violazione di domicilio, vari episodi di danneggiamento e un tentato investimento del figlio della donna vittima di ripetuti episodi di stalking.  

E all’ex violento non è stato ancora notificato nessun provvedimento cautelare. L’attivazione del cosiddetto “Codice Rosso”, nonostante abbia inasprito le pene previste contro i reati di maltrattamenti in famiglia e velocizzato le procedure di allontanamento della vittima, fatica ancora ad essere al passo con l’escalation criminali dei violenti.  

In questo caso, l’ex violento è stato denunciato più volte ma è ancora libero di maltrattare. Polizia e i carabinieri hanno inviato immediatamente tutti gli atti negli uffici di competenza, tuttavia la donna vittima di violenza teme ogni giorno per la propria incolumità fisica. Una vicenda giudiziaria che parte dalla procura di Latina, passa per quella di Velletri e approda a piazzale Clodio - a Roma - dopo l’ultima querela presentata dal figlio della vittima, una 38enne residente ad Aprilia ma originaria della Capitale.

La prima denuncia per le violenze subìte risale all’inizio di gennaio di quest’anno: ne sono seguite altre sette, una raffica, che evidenziano come l’aggressività del uomo con cui aveva condiviso parte della sua vita stanno diventando sempre più inquietanti e rischiose.  

«Il Codice Rosso appresta una tutela della vittima sin dal momento della denuncia - sottolinea il giudice penale Valerio de Gioia - è necessario però che i fatti in essa rappresentati non vengano sottovalutati. È fondamentale, ce vengano descritti in modo preciso, senza trascurare alcun aspetto, così da consentire, laddove necessaria, la richiesta di una misura cautelare che la tuteli». La donna comunque è sotto choc. Vive nel terrore. Ecco cosa ci ha detto.

Si sente braccata dal suo ex? 

«Sono in un incubo, rischio di trovarlo ovunque. Lui non si ferma davanti a nulla: ha scavalcato il cancello di casa, ha distrutto la mia macchina, mi tempesta di messaggi e telefonate. Ad oggi gira ancora indisturbato e temo che possa farmi del male». 

Quando il suo ex ha iniziato ad essere violento? 

«Un anno fa ho capito che tipo di uomo era realmente. Ho sopportato tante cose per il bene e l’amore che ho per i miei figli, ma ad un certo punto ho detto basta e l’ho allontanato. Da allora, la mia vita è diventata un inferno». 

Con le denunce credeva di fermare gli atti persecutori?

«Esatto. Mi sono fatta coraggio e ho denunciato tutto: sette denunce io e un’altra di mio figlio».  

Suo figlio... Perché? 

«Il mio ex gli ha teso una trappola, con la scusa che lo voleva incontrare. Quando mio figlio si è presentato all’appuntamento, lui ha tentato di investirlo con un camion, distruggendogli l’auto». 

Taglio alla gola del marito mentre dorme, salvo per miracolo. E' successo la notte scorsa a San Marzano di San Giuseppe. La Voce di Manduria lunedì 24 gennaio 2022.

Una donna di San Marzano di San Giuseppe ha cercato di tagliare la gola al marito mentre dormiva. E’ successo nella notte tra venerdì e sabato in una casa del piccolo centro sul versante ionico della provincia di Taranto. L’uomo è salvo per miracolo perchè la lama ha sfiorato di pochi millimetri l’arteria del collo. Il grave episodio sarebbe avvenuto dopo una lite. La coppia di 36 anni non ha figli ed è sposata da due anni.

E’ stato lo stesso ferito a chiamare il 118 che ha inviato sul posto un’ambulanza. I sanitari giunti sul posto, dopo aver tamponato alla meglio la ferita, lo hanno portato con codice rosso all’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. Al pronto soccorso i medici hanno suturato il taglio ma hanno preferito trasferire il 36enne all’ospedale Santissima Annunziata di Taranto per essere ricoverato nel reparto di chirurgia vascolare. Evidentemente la lama aveva intaccato qualche grosso vaso per cui una emorragia in quel punto sarebbe stata fatale.

Ancora non chiare le ragioni della violenta aggressione di cui si occupano i carabinieri della stazione di San Marzano e della compagnia di Manduria intervenuti su richiesta della struttura sanitaria.

Asti, confessa omicidio madre malata: assolto. Il giudice: «Non ho dormito la notte, ma non c’erano prove. È solo un pover’uomo». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Il gup Federico Belli spiega la sentenza nei confronti di Gianni Ghiotti: «La confessione non basta e non meritava il carcere».

«Non ho dormito la notte, ma bisognava prendere una posizione. E comunque siano andate le cose, gli elementi di fatto non mi consentivano di sostenere che l’anziana signora fosse stata uccisa. La confessione del figlio è priva di riscontri». Va dritto al punto il giudice Federico Belli di Asti, che ha assolto Gianni Ghiotti dall’accusa di omicidio volontario aggravato. Nell’agosto 2020, l’operaio 52enne di Piovà Massaia aveva confessato di aver ucciso la madre tre anni prima. «Soffriva troppo. Le ho dato i sonniferi e poi l’ho soffocata con un cuscino», spiegò. Ma per il gup «il fatto non sussiste».

Giudice, cosa l’ha colpita di questo processo?

«L’imputato. Ho voluto ascoltarlo, perché le dichiarazioni rese in indagine erano scarne. Parlando con lui si capisce che è un pover’uomo, non un criminale che voleva togliersi il peso di un madre malata. Ghiotti ha trascorso tutta la vita in famiglia: era figlio unico e ha avuto un’educazione molto rigida. La signora era una donna dal carattere dominante, che aveva litigato con tutta la famiglia e aveva gravissimi problemi di salute. Ma lui era felice di prendersi cura di lei, non si è mai lamentato e non sono emersi contrasti».

Perché lo ha assolto?

«Meritava il beneficio del dubbio. Non ci sono prove inoppugnabili che Lucia Tortella sia stata uccisa. E il codice è chiaro, la condanna deve essere oltre ogni ragionevole dubbio».

Ha scelto la formula «il fatto non sussiste», quindi non c’è stato alcun omicidio?

«Ghiotti racconta che quella mattina la mamma stava male, che si era arresa. Dice di averle dato del Xanax e di averla soffocata con un cuscino, tenendolo premuto per dieci minuti. Sul corpo non c’erano segni di violenza. È mai possibile? I soccorritori e il medico legale non trovano nulla che induca a pensare a qualcosa di diverso da una morte naturale. C’erano tracce di benzodiazepine nel fegato, ma la signora ne faceva un uso massiccio da anni. Il comportamento di Ghiotti al momento della morte della madre è quello di un figlio che ha perso un genitore, non era preoccupato o nervoso».

Allora, perché avrebbe confessato un delitto che non ha commesso?

«La perizia psichiatrica lo descrive come un uomo dalla personalità depressa, con tendenza al pessimismo, proteso ad autoaccusarsi e autopunirsi più del dovuto. Allora, è inverosimile pensare che si accusi perché ritiene di non aver fatto abbastanza per lei? Dopo il decesso del genitore, Ghiotti non ha mostrato alcun comportamento sospetto. Ha ripreso a frequentare gli amici, ha riallacciato con i cugini i rapporti che si erano sfilacciati proprio a causa della madre. Poi arriva il Covid e lui si ritrova solo nella casa in cui conviveva con il genitore in maniera simbiotica. Quando finisce il lockdown, confessa. Insomma, il dubbio verrebbe a chiunque».

Si è detto che lei volesse morire.

«Non aveva senso riqualificare in morte del consenziente. Sul punto la Cassazione è giustamente granitica: il consenso deve essere esplicito, informato, attuale. In questo caso a dire che l’anziana si fosse arresa e volesse morire sono Ghiotti e una parente, che ricordava una conversazione in cui la signora Tortella diceva non voler finire su una sedia a rotella. Non siamo di fronte a dj Fabo che andava in tv a chiedere l’eutanasia».

Non teme di essere accusato di aver emesso una sentenza buonista?

«Ho unito le regole del codice penale e l’umana comprensione. Veramente vogliamo dire che quell’uomo meritasse il carcere? Anche posto che abbia messo fino alle sofferenze della madre, non dimentichiamo che per quella donna l’alternativa era restare ancora uno o due anni immobilizzata a letto».

Asti, uccise la madre malata perché soffriva: tre anni dopo confessa e viene assolto perché «il fatto non sussiste». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.

Giovanni Ghiotti aveva raccontato di averle somministrato dei sonniferi e di averla soffocata con un cuscino. La Procura aveva chiesto una condanna a 7 anni e mezzo. L’avvocato difensore: «Un atto d'amore». 

«Mamma alzati, la colazione è pronta». Quella mattina Giovanni Ghiotti, 52 anni, si sveglia presto come era solito fare. Più tardi dovrà presentarsi al lavoro in fabbrica, ma prima deve occuparsi dell’anziana madre che quasi non si muove più dal letto. Lei è in camera e quando il figlio entra per aiutarla gli restituisce uno sguardo triste e rassegnato. Giovanni capisce che sta male, vorrebbe chiamare il medico, ma lei lo ferma: «Lascia stare. Basta». Cosa è accaduto nei minuti successivi, cosa si sono detti madre e figlio sono un segreto che Giovanni custodirà per lungo tempo. Quel giorno, è il 4 novembre 2017, la donna muore. Il medico legale che bussa alla porta della vecchia e isolata casa a Piovà Massaia, in provincia di Asti, scrive sul referto che si tratta di morte naturale. Tre anni dopo, in una calda mattina di metà agosto, Ghiotti si presenta dai carabinieri: «Vi devo raccontare una cosa». Nelle ore successive, assistito dall’avvocato Marco Dapino, confesserà di aver ucciso la madre: «Soffriva troppo. Si era arresa».

Il seguito della storia è la straziante narrazione del delitto: «Le ho somministrato dei sonniferi. Quando si è addormentata, l’ho soffocata con il cuscino». Mercoledì 19 gennaio — dopo una richiesta di condanna a 7 anni e mezzo da parte della Procura — il giudice ha assolto Ghiotti dall’accusa di omicidio volontario: «Il fatto non sussiste». In sostanza, quel delitto non è mai esistito. Ghiotti però sa di averlo commesso e per anni si è tormentato, pur consapevole di aver fatto quello che sua madre gli chiese con gli occhi prima ancora che con le parole. Il racconto dell’uomo, lucido seppure frammezzato da momenti di ansia e paura, ha trovato riscontri oggettivi. Dopo la sua confessione, il corpo dell’anziana è stato riesumato per una consulenza autoptica. Il medico legale ha trovato tracce del sonnifero che il figlio aveva fatto ingerire alla madre. Aspetti tecnici che in aula hanno ceduto il passo a quelli emotivi e sentimentali.

La vittima è stata descritta come una persona con un carattere dominante, ma allo stesso tempo fragile a causa dei problemi di salute. Le sue ossa si stavano consumando e aveva dolori fortissimi nonostante le tre operazioni alle quali era stata sottoposta per la rottura del femore. I medici le dissero che non avrebbe potuto esserci un quarto intervento perché lo scheletro si stava sgretolando. Sono emerse dalle carte processuali e dalle testimonianze di alcuni familiari la dedizione e l’affetto con cui Ghiotti si è sempre preso cura dei genitori: del padre, morto anni prima per un ictus, e poi della madre. Una donna che lo supplicava di non lasciarla morire inerme su una sedia a rotelle, come era accaduto alla sorella. «È stato un gesto d’amore», ha detto in aula l’avvocato.

E proprio il legale della difesa, subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza, ha pubblicato un lungo post su Facebook: «Aspettava, senza nemmeno il sogno di un miracolo, privo di una speranza che non merita chi uccide la propria madre, nemmeno se per un atto di amore, perché a 92 anni le sue ossa stavano diventando polvere, le sue sofferenze continue e atroci, in un inferno quotidiano. Aspettava, senza energie, dopo avere pianto dignitosamente nascondendosi dietro una mascherina, mentre rispondeva alle domande del giudice e descriveva il dramma della scelta di quella lontana mattina. Aspettava, senza pretese di essere condiviso e neanche capito, avendo seguito la sua coscienza che poi lo aveva tradito, togliendogli sonno e serenità e vita normale per tre anni, fino a spingerlo a presentarsi dai carabinieri del paese, sedersi davanti al maresciallo incredulo, e raccontare la sua storia, a testa bassa. Aspettava, senza la lucidità che si sforza di avere chi cerca di capire, come se il destino fosse ineluttabile. All’improvviso un rumore di passi, il tocco nascosto ma fermo dell’avvocato seduto di fianco che lo invitava ad alzarsi in piedi, una voce mono-tona che rosariava formule, numeri, forse articoli.. e codice penale, e poi il silenzio... e nelle orecchie solo quelle ultime parole, appena percepite, a testa bassa, ... “si assolve”».

Mic. All. per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.

Un gesto d'amore disperato, che non può essere considerato un delitto. Con queste motivazioni, il giudice del tribunale di Asti ha assolto Giovanni Ghiotti, che, in lacrime, aveva confessato di avere ucciso nel sonno la madre, 92 anni e gravemente malata, per porre fine alle sue sofferenze atroci. La donna è stata prima addormentata con una potente dose di sonniferi e poi soffocata con un cuscino. È successo a Piovà Massaia, piccolo paese sulle colline dell'Astigiano. 

L'UDIENZA L'udienza di ieri è stata celebrata con rito abbreviato. Quando l'imputato ha ripercorso la vicenda, la voce si è incrinata più volte per la commozione, condivisa da chi era presente in aula. Ghiotti, operaio e volontario della Croce Rossa, aveva tenuto nascosto l'omicidio per tre anni. Poi aveva raccontato tutto ai carabinieri, dopo essersi autodenunciato per un atto di vandalismo: «Sono stato io a rigare quell'auto - aveva detto ai miliari - volevo essere chiamato. Perché volevo dirvi che tre anni fa ho ucciso mia madre». L'uomo aveva spiegato la sua decisione: voleva solo che la donna non soffrisse più. Per anni l'aveva accudita e le era stato accanto, ma la malattia era diventata devastante e i dolori che l'anziana provava erano insopportabili: era affetta da una gravissima forma di osteoporosi, che nemmeno tre operazioni erano riuscite ad alleviare. 

Un giorno, alzandosi dal letto, l'anziana si era procurata l'ennesima frattura. E la sofferenza sembrava impossibile da gestire. Il figlio voleva aiutare la madre, liberarla. Ai carabinieri, Ghiotti ha raccontato di avere agito per mettere fine a quel calvario. Una decisione presa un anno dopo avere pianto la morte del padre, alla fine di una lunga malattia. Inizialmente, il decesso della novantaduenne era stato attribuito a cause naturali. Se il figlio non avesse parlato, probabilmente, non sarebbe mai stato scoperto. 

LA DIFESA «Aspettiamo le motivazioni - ha detto l'avvocato Marco Dapino, difensore di Ghiotti - Quello che posso dire è che è stata un'udienza vibrante. Mentre il mio cliente raccontava c'era un clima di sofferenza, di turbamento. Sembrava di rivivere il dramma. Prima di confessare l'omicidio non ne aveva parlato con nessuno, non si era mai confidato né con un amico, né con un prete. Non voleva mettere quella sofferenza sulla spalle di nessuno. Aveva rinunciato a tutto per stare con i suoi genitori e se fosse stato condannato all'ergastolo - ha proseguito l'avvocato Dapino -, avrebbe sacrificato nuovamente la sua vita».

Il pubblico ministero aveva chiesto per Ghiotti una condanna a poco più di sette anni di reclusione. Il difensore, invece, aveva chiesto l'assoluzione oppure la riqualificazione del reato in omicidio del consenziente, per il quale la pena va da uno a sei anni di carcere. «Ho ammirato l'equilibrio della Procura, lo stile e la determinazione, il garbo che è stato messo nelle indagini, perché anche la Procura ha avuto la consapevolezza che la questione era complessa e delicata - ha aggiunto il legale - E anche le attenuanti chieste dimostravano che l'accusa aveva capito che Ghiotti ha agito su alti valori morali. Il suo è stato un atto d'amore, la decisione del giudice è stata netta, libera e coraggiosa». Al momento della lettura della sentenza in molti non sono riusciti a trattenere le lacrime.

Lo "Zingaro" Barbieri è reo confesso dell'omicidio della 46enne di Faenza. “Il marito di Ilenia Fabbri mi commissionò anche un altro omicidio”, la deposizione del sicario. Vito Califano su Il Riformista il 19 Gennaio 2022. 

Pierluigi Barbieri, il sicario reo confesso dell’omicidio di Ilenia Fabbri, ha raccontato che il marito della donna gli avrebbe chiesto di “simulare un suicidio. E in particolare un suicidio per impiccagione. Ma gli ho detto che così la figlia Arianna avrebbe avuto una vita impossibile. Gliel’ho detto anche quando abbiamo concordato l’omicidio del 6 febbraio”. Al Tribunale di Ravenna si è tenuta l’ottava udienza del processo. L’ex marito della vittima Claudio Nanni è alla sbarra con l’accusa di essere mandante dell’omicidio.

Cruento e misterioso, l’omicidio di Ilenia Fabbri si era consumato il 6 febbraio del 2021. Nella casa dove la donna viveva a Faenza con la figlia Arianna. La mattina presta, poco dopo le sei, uno sconosciuto fece irruzione. Nanni era appena passato a prendere la figlia Arianna per portarla a Osnago, in provincia di Lecco, ad acquistare un’automobile. In casa erano rimaste Fabbri e la fidanzata di Arianna, che si era fermata a dormire. Barbieri, detto “Lo Zingaro”, amico di Nanni, entrò e tentò di uccidere in camera da letto la donna, che però fuggi e arrivò al piano terra. Venne sgozzata con un coltello da cucina trovato dall’uomo sul lavello della cucina.

A trovare il cadavere, avvertiti dalla fidanzata di Arianna che riuscì anche a vedere la sagoma del killer, l’ex marito e la figlia della vittima. Dopo alcuni giorni di indagini i due uomini vennero arrestati. A supporto delle ricostruzioni i cellulari che in molte occasioni li collocavano insieme e altri riscontri al racconto del killer. Il giorno dell’omicidio Nanni gli portò della cocaina “per disinibirmi”.

Barbieri ha raccontato che già nell’ottobre del 2020 aveva provato due volte a uccidere Ilenia Fabbri. “La prima volta avrei dovuto ucciderla con un tubo di ferro e infilarla in un trolley che lo stesso Nanni mi aveva consegnato. Per dimostrarmi che il cadavere di Ilenia non avrebbe strabordato si è infilato dentro lui stesso. La seconda volta Nanni doveva passare a prendere la figlia Arianna a casa in via Corbara ma arrivo tardi e me ne andai. Dopo avere infilato il cadavere nel trolley avrei dovuto seppellire Ilenia dopo aver sparso acido sul corpo vicino a un cavalcavia in una buca che Nanni aveva scavato”. Nanni gli aveva promesso 20mila euro e un’auto. Ha raccontato che “poco dopo mi ha anche chiesto di uccidere un’altra persona. Si tratta di un promotore finanziario che gli avrebbe rubato 20.000 euro”.

Stando al suo racconto l’ex marito aveva chiesto a un’altra persona, che però era in carcere, di mettere in atto l’omicidio. Agghiacciante il racconto del delitto: “Quando uccisi Ilenia colpendola più volte con un martello anche quando lei diceva di smetterla e poi con una coltellata sentivo quella voce, quella di Nanni che mi martellava dicendomi ‘non deve respirare’”. Barbieri ha confermato la tesi dell’accusa e quindi che l’ex marito “voleva eliminarla entro il 28 febbraio prima dell’udienza per la causa che lei gli aveva intentato per i mancati pagamenti nell’officina in cui prima di separarsi lavoravano”.

Nanni si proclama innocente: continua a dire che aveva chiesto a Barbieri solo di spaventare l’ex moglie. Si difende anche dall’accusa secondo la quale non avrebbe pagato la donna per gli anni durante i quali questa aveva lavorato come impiegata nella sua officina, come dicono gli avvocati “è stata chiesta e ottenuta la produzione di documenti che attestano che il Nanni ha sempre saldato con i bonifici tutti i pagamenti previsti in virtù della separazione sia ad Ilenia che ad Arianna”.

Si sono costituiti parte civile nel processo la figlia 21enne della vittima, il nuovo compagno della donna Stefano Tabacci che Ilenia avrebbe voluto sposare, il Comune di Faenza e l’associazione Sos Donna. I racconti delle amiche della 46enne, sia durante le indagini che nelle udienze precedenti, avevano riportato le paure di Fabbri: “Ci aveva ammesso spesso di essere preoccupata per il proprio destino. Era convinta che il marito l’avrebbe uccisa, anzi che l’avrebbe fatta uccidere, esattamente come è poi successo”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Le ultime urla della vittima: “Basta ti prego smettila”, poi il silenzio. Omicidio Ilenia Fabbri, la disperazione della figlia in aula davanti al papà: “La mia vita è una condanna”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Ottobre 2021.  

Quella di Arianna Nanni, 21 anni, è una tragedia nella tragedia che ha raccontato nell’aula del tribunale di Ravenna. Il 6 febbraio scorso il mondo le è caduto addosso in un istante. Sua mamma, Ilenia Fabbri, è stata uccisa con una coltellata alla gola in casa sua in via Corbara a Faenza. Ma in quell’aula, poco distante, siede anche il padre di Arianna, Claudio Nanni. Lui è chiuso in una cella, accusato di essere il mandante dell’omicidio dell’ex moglie. Poco più distante c’è Pierluigi Barbieri, alias 2Lo Zingaro” ritenuto il sicario di quel delitto efferato.

“Si sente una condannata a vita?”, chiede la sua avvocata. “Sì, è una condanna. Non riesco a dormire da sola, ho incubi, prendo i farmaci per l’ansia”, risponde Arianna. I suoi genitori sono separati dal 2016. Una separazione burrascosa proseguita negli anni con liti su vicende economiche. Poi quel drammatico 6 febbraio. Papà Nanni era andato a prendere alle 6 del mattino Arianna a casa per andare a comprare un’auto nuova a Milano. In casa con Ilenia era rimasta l’ex fidanzata di Arianna. È proprio lei a dare l’allarme: aveva sentito delle grida provenire dal salotto e subito aveva telefonato ad Arianna che era in auto con il padre.

Così era iniziata la folle corsa per tornare a casa e capire cosa fosse successo a sua mamma. Entrata in casa le si è presentato davanti agli occhi l’orrore puro: “In cucina ho visto il cadavere di mia mamma disteso – ha raccontato ai giudici – in un lago di sangue, con un taglio profondo alla gola. Aveva gli occhi sbarrati, aperti. Ho urlato, ho spinto via i poliziotti, sono andata fuori, mi sono inginocchiata a terra, non mi sentivo bene. Sono corsa a cercare il babbo. Gli ho detto: ‘mamma è morta’. Si è messo le mani in faccia, si è piegato per terra”.

“Di giorno e di notte mi vengono i ricordi di quella mattina – continua il racconto come riportato da Repubblica – Se sento le campane penso al funerale o alla bara in obitorio. Le sirene mi ricordano i poliziotti, gli interrogatori, quando hanno portato via mio babbo. Mi danno fastidio i sacchi grandi neri della spazzatura, mi ricordano quelli della Scientifica quando hanno portato via il cadavere. Dopo il 6 febbraio non riesco a dormire da sola, faccio incubi, ricordo quella scena. Dormo poco e male. Lo psicologo mi ha prescritto farmaci. Mi hanno diagnosticato un disturbo post traumatico”.

Il giorno precedente a testimoniare è stata proprio la ex fidanzata di Arianna, l’unica testimone visiva di quella tragedia. “Ho sentito Ilenia urlare dalla sua camera da letto: ‘Chi c’è in casa? Che cosa vuoi?’ – ha detto la ragazza in Aula – Mi sono alzata per andare a controllare, ho visto un uomo alto, robusto, vestito di scuro che scendeva le scale. Mi sono chiusa in camera e ho chiamato Arianna. Sentivo le grida di Ilenia, “basta ti prego smettila”, dei botti, poi del gran silenzio. Un ultimo urlo e basta”.

In aula è stata fatta ascoltare la telefonata di 20 minuti che racconta il dialogo a tre fra Arianna, la sua ex fidanzata e Nanni. Arianna e il padre, infatti, stanno tornando a Faenza dopo l’allarme lanciato dalla giovane rinchiusa in camera sua. E’ Arianna che chiama i carabinieri e la polizia, e che sgrida il padre perché non va abbastanza veloce in macchina. “Dai babbo muoviti un po’!”, “muoviti, invece di darmi una mano stai lì a piangerti addosso”, “Si ma fai ‘oddio, oddio’, pensa a guidare no?”. Arianna e il padre alla fine arrivano. La figlia entra in casa, Nanni è in macchina ancora al telefono con l’ex fidanzata della figlia. Il telefono continua a registrare la chiamata. Nanni dice: “Ho paura”. Piange. Finché non torna la figlia, in lacrime. Ha già visto tutto: “Babbo, babbo…”.

Barbieri all’epoca dell’arresto confessò di aver ucciso Ilenia Fabbri per soldi, dopo essere stato ingaggiato da Nanni. Quest’ultimo ha sempre sostenuto che il compito sarebbe stato esclusivamente quello di spaventare Ilenia. Ad Arianna resta il dramma di aver perso in un solo momento la mamma e il papà in un incubo che non trova fine.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il dolore profondo della figlia Arianna rimasta senza mamma e papà. Omicidio di Faenza, la figlia di Ilenia Fabbri si costituisce parte civile contro il padre: “Ha rivalutato la vicenda”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Luglio 2021. 

Arianna Nanni a 21 anni si è trovata a doveri confrontare con un dramma senza fine: la mamma, Ilenia Fabbri, è stata uccisa in casa sua. A ordinare l’omicidio è stato suo padre Claudio che ha pagato Pierluigi Barbieri per commettere l’azione efferata. Tutto confessato e accertato ma Arianna fino all’ultimo ha difeso il padre. “Ma il mio babbo non c’entra, non l’avrebbe mai fatto, anche lui si è visto crollare il mondo addosso…”, continuava a ripetere.

Era lo scorso 6 febbraio quando il mondo crollò addosso ad Arianna. Cinque mesi dopo le cose sono cambiate, luce è stata fatta su quel terribile femminicidio e Arianna ha potuto comprendere meglio quel dramma che stava vivendo. “Doveva solo spaventarla, non ucciderla”, fu la difesa di Claudio Nanni davanti ai giudici dopo che Barbieri aveva fatto il suo nome come mandante dell’omicidio. Arianna anche davanti a quella confessione decise di credergli e rimanere dalla sua parte.

In questi giorni la procura di Ravenna sta chiudendo le indagini p presto sarà chiesto il giudizio immediato per i due indagati. “La figlia sta rivalutando la vicenda in modo critico, come non aveva mai fatto prima”, spiega al Corriere della Sera l’avvocata Veronica Valeriani che l’assiste e preannuncia l’intenzione di Arianna di costituirsi parte civile anche contro il padre nel futuro processo.

Un cambio di idea probabilmente maturato in questo periodo di grande dolore “nel quale è stata seguita da un terapeuta — precisa il legale — che l’ha portata alle attuali scelte”. Arianna ha invano e più volte chiesto al pm di incontrare il padre in carcere, istanze sempre negate “perché lei è testimone e parte offesa, ci ha sempre risposto il magistrato”.

Dal canto suo il padre ha continuato a scrivere lettere ad Arianna che però sono state tutte sequestrate. “Arianna, le cose sono andate diversamente da come dovevano andare – le scrisse l’indomani dell’arresto come – Ho comunque commesso un errore e dovrò pagare. Provo vergogna a parlare e farmi vedere da tutti ma soprattutto da te. Non ci sono parole per chiederti scusa, penso che la cosa migliore sia scomparire. La zia Cristi e lo zio Dino ti seguiranno per ogni cosa”.

Intanto Arianna è rimasta sola, senza mamma e papà e senza nemmeno la sua amica del cuore che si ritrovò suo malgrado ad essere la testimone oculare chiave di quel delitto. Quella mattina il papà andò a prendere Arianna a casa per accompagnarla fuori città a comprare un’auto. Barbieri entrò in casa e picchiò e sgozzò Ilenia. Non sapeva che dalla porta della camera dda letto di Arianna c’era l’amica che osservava tutto.

Non era la prima volta che Nenni escogitava un piano creandosi un perfetto alibi. E di solito quella scusa attendibile era sempre Arianna. È stata dunque usata dal padre e ora lei l’ha capito. “L’idea di costituirsi parte civile le è però venuta di recente, quando ha visto che il Comune l’aveva già fatto: ‘ma come, dice lei, sono io la vera parte offesa di tutta questa storia, non il Comune che chiede i danni a mio padre’. Questione di sensibilità”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Omicidio di Ilenia Fabbri a Faenza, ergastolo per il marito e il sicario. Enea Conti su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

Il femminicidio di Faenza. Per la figlia Arianna disposti due milioni di risarcimento. A un anno e un mese dal delitto di via Corbara a Faenza la Corte d’Assise del Tribunale di Ravenna presieduta dal giudice Michele Leoni ha condannato all’ergastolo il mandante e il sicario dell’omicidio di Ilenia Fabbri, rispettivamente l’ex marito della vittima, Claudio Nanni, e Pierluigi Barbieri, suo conoscente ingaggiato per uccidere la quarantaseienne prima che i due ex coniugi si affrontassero in tribunale per una causa da 500 mila euro: lei chiedeva il riconoscimento del lavoro svolto nell’azienda di famiglia dell’ex marito. I due sospettati erano stati arrestati l’otto marzo del 2021, un mese dopo un delitto che in una prima fase sembrava destinato a restare un giallo: il killer che aveva colpito Ilenia con una serie di martellate e poi con una coltellata alla gola, non aveva lasciato tracce. Dopo l’arresto, però, aveva subito ammesso. «Ho ucciso Ilenia — disse Barbieri —. Nanni mi aveva detto che dovevo uscire da quella casa quando lei avrebbe smesso di respirare. Nanni mi aveva promesso duemila euro e un’automobile». Una versione che nell’arco di un anno il killer ha confermato, anche davanti ai giudici, in udienza. Per la sua condotta il difensore Marco Gramiacci aveva insistito per ottenere le attenuanti generiche e quindi una pena non superiore ai ventuno anni di carcere. Il pm Angela Scorza, aveva invece chiesto che entrambi gli imputati fossero condannati all’ergastolo.

La difesa

Nanni, il mandante, si era difeso spiegando di «aver chiesto a Pierluigi Barbieri di spaventare Ilenia e non di ucciderla» ma il suo racconto non aveva mai convinto i giudici, più propensi ad accreditare le spiegazioni dettagliate del sicario. «Avevamo tentato due volte di uccidere Ilenia», aveva detto Barbieri davanti alla Corte. «In una occasione Nanni mi consegnò un trolley e dell’acido per occultare il cadavere che avremmo sepolto in una buca già scavata», spiegò, sempre davanti ai giudici. Un’accusa che Nanni non seppe ribaltare. L’ex marito aveva continuato a difendersi spiegando che ogni piano imbastito dai due «doveva avere l’obiettivo di spaventare Ilenia». Ma non è servito. I giudici della Corte hanno accolto la richiesta del pubblico ministero. Malgrado la sentenza emessa dalla Corte nessuno ieri ha esultato.

La figlia

La figlia di Ilenia Fabbri e Claudio Nanni, Arianna — cui spettano due milioni di euro di risarcimento — è ancora sotto choc per la perdita improvvisa della madre. Per il padre che l’ha uccisa prova rabbia ed è consapevole che la mattina del sei febbraio fu lui a portarla via dalla casa in cui lei ed Ilenia Fabbri vivevano ma non può fare a meno di sentirlo spesso al telefono. «Non riesce a staccarsi», chiosa l’avvocato Veronica Valeriani. I due legali di Nanni e Barbieri, Francesco Furnari e Marco Gramiacci faranno ricorso in Appello. Duro il giudizio di Furnari. «Le sentenze non si commentano ma si appellano — ha detto — ci sono profonde criticità sulla tenuta probatoria del processo».

Delitto Fabbri, ergastolo all'ex marito e al sicario. Redazione l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

Risarcita la figlia con 2 milioni. Il movente è stato economico. La Corte di Assise di Ravenna ha condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ilenia Fabbri l'ex marito Claudio Nanni e Pierluigi Barbieri, mandante ed esecutore del delitto commesso a Faenza il 6 febbraio. Gli imputati sono anche stati condannati a risarcire un danno da due milioni alla figlia di Nanni e della vittima, Arianna, costituitasi parte civile. Così ha deciso, dopo tre ore e mezza di camera di consiglio, nel primo pomeriggio di ieri la Corte d'Assise di Ravenna per l'omicidio della 46enne sgozzata nel suo appartamento di via Corbara a Faenza, nel Ravennate. La Corte ha anche disposto l'affissione della sentenza nel Comune. Le motivazioni verranno depositate entro 90 giorni. Né la figlia Arianna né il fidanzato della vittima, Stefano Tabanelli, hanno voluto rilasciare dichiarazioni. Alla lettura del dispositivo erano presenti entrambi gli imputati. Francesco Furnari, avvocato di Nanni, ha anticipato che farà appello lamentando quelle che a suo dire sono state «lacune investigative». La sentenza verrà impugnata anche dall'avvocato Marco Gramiacci per conto di Barbieri il quale, in ragione della collaborazione offerta dal proprio assistito, aveva chiesto un trattamento sanzionatorio migliore rispetto a Nanni. Ilenia Fabbri era stata uccisa attorno alle 6 non appena la figlia Arianna, che viveva con lei a settimane alterne dopo la separazione, era uscita di casa con il padre per andare a ritirare un'auto comperata a Osnago (Lecco). Secondo le indagini si trattava solo di un alibi costruito da Nanni per consentire a Barbieri di avere campo libero.

Il sicario, nel corso di due dettagliate confessioni confermate anche in aula durante il processo, dopo l'arresto aveva precisato che i tentativi di uccidere la donna erano stati altri due; che lei sarebbe dovuta sparire in una buca scavata vicino a casa dall'ex marito, e ritrovata dagli agenti su indicazione del 54enne; e che a lui erano stati promessi 20mila euro più un'auto usata, beni mai ricevuti. Nanni ha invece sempre negato l'omicidio spiegando di avere consegnato 2.000 euro a Barbieri, copia delle chiavi della casa e istruzioni su come muoversi, ma solo per spaventare la ex e indurla a smettere con le sue pretese economiche. Per la Procura il movente è stato economico: la donna, dopo avere ottenuto dal Tribunale l'assegnazione della casa coniugale del valore di 300mila euro aveva citato l'ex marito in una causa di lavoro da 500mila euro per i salari non ricevuti per la sua attività nell'impresa di famiglia.

Donna vittima di violenza "salvata" dal braccialetto anti-stalker. Il Quotidiano del Sud il 16 Gennaio 2022.

Una donna vittima di violenza è stata ‘salvata’ grazie al braccialetto anti-stalker ed il suo ex compagno, un romano di 33 anni, è stato arrestato la scorsa notte dai carabinieri della stazione di Roma Settecamini.

Una storia finita bene quella che ha visto coinvolta una donna di 37 anni che ha denunciato di essere stata vittima in passato di violenze da parte del suo ex convivente.

La donna, dopo aver denunciato le violenze domestiche era riuscita a porre fine alla relazione con il suo ex compagno che, tra l’altro, era stato sottoposto dal Gip del Tribunale di Roma alla misura cautelare del divieto di avvicinamento nei suoi confronti, con braccialetto elettronico.

Una misura cautelare “rinforzata” dal dispositivo elettronico anti-stalker, che la vittima aveva acconsentito a portare sempre con sé. Un piccolo strumento che, ieri sera, l’ha salvata da probabili ulteriori aggressioni e ha consentito ai carabinieri di arrestare l’uomo accusato di stalking. Infatti, la 37enne, al termine del suo turno di lavoro, sentendo il suo dispositivo squillare, ha capito di essere in pericolo: il suo ex la stava aspettando fuori, violando il divieto di avvicinamento.

Immediatamente, ha allertato il Numero Unico di Emergenza 112 e ha richiesto l’intervento dei carabinieri, già allertati anche loro dal dispositivo anti-stalker che ha avvisato la Centrale Operativa della Compagnia di Tivoli.

Giunti sul posto, i militari, dopo aver preso contatti con la vittima, hanno identificato nelle vicinanze l’uomo che, effettivamente, non sembrava avesse buone intenzioni. Una volta scoperto, infatti, ha iniziato a minacciare la donna ed è stato quindi arrestato e condotto in carcere in attesa delle determinazioni dell’Autorità Giudiziaria di Roma. 

 “Sono pronta a rendere Roma città pilota nell’uso del braccialetto elettronico così come proposto, nel dicembre scorso, dal Governo per i reati di stalking e violenza sulle donne”. Lo annuncia l’assessora alla Pari Opportunità di Roma Monica Lucarelli. 

“Ci impegniamo – continua – per far sì che venga implementato sempre dì più l’uso della Banca dati ‘Scudo’ nella quale vengono raccolte le schede compilate dalla polizia o dai carabinieri quando questi si trovano davanti a donne in una situazione di disagio a causa di una lite con il compagno. Deve raccogliere anche i più innocui segnali e far scattare un’indagine immediata, per far sì che ogni donna possa essere tutelata e protetta. Sarebbe importante che venisse integrata anche con i dati raccolti da strutture sanitarie e centri antiviolenza”.

 “Il braccialetto elettronico e i dispositivi anti-stalker sono strumenti di sicurezza per le donne: con le colleghe ministre ne abbiamo proposto l’uso rafforzato, é una disposizione da approvare al piú presto”, scrive su Twitter Mara Carfagna ministro per il Sud e la Coesione territoriale, commentando la notizia della donna salvata dal dispositivo anti-stalker.

All’amante scriveva: «Ha provato a strangolarmi». Poi muore, moglie indagata per omicidio volontario. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2022.   

«Mi sta prendendo a botte». Sono da poco passate le due del mattino quando Ettore T. invia il messaggio alla propria amante. Nei giorni precedenti le aveva scritto: «Ha provato a strangolarmi». E ancora: «Se domani mi trovano morto è stata lei». La lei di cui si parla è la moglie, che ora è indagata per omicidio volontario e rischia il rinvio a giudizio. La Procura di Torino pare non avere dubbi: Ettore, 50 anni, sarebbe stato strangolato per gelosia e la consorte avrebbe cercato di nascondere il delitto facendolo passare per morte naturale. Ci sarebbe anche riuscita, se il cadavere fosse stato cremato come era stato deciso dalla famiglia. E se la rivale in amore non l’avesse smascherata.

Ora a riscrivere la storia di questo mistero sono la consulenza medico-legale, che avrebbe accertato l’ipotesi di strangolamento, e una serie di indizi che punterebbero in direzione della vedova. È la primavera del 2021 quando G.P., anche lei cinquantenne, scopre che il marito ha un’altra donna che non vive a Torino, ma in Puglia. L’uomo è malato, soffre di un tumore al cavo orale: patologia per la quale è stato costretto a sottoporsi a delicati interventi chirurgici che gli hanno deformato il viso. Secondo la ricostruzione del pm Paolo Cappelli, dopo la scoperta del tradimento i rapporti in casa diventano tesi e le liti una costante, come evidenziano i verbali della polizia che più volte era stata chiamata dai vicini. Ma è all’inizio di aprile che la situazione sembra degenerare. Una sera scoppia un litigio furibondo e ancora una volta vengono chiamate le forze dell’ordine. La donna viene momentaneamente allontanata da casa e portata in ospedale.

Poco dopo Ettore scrive all’amante: «Ha tentato di strangolarmi». Il mattino dopo, il 4 aprile, la moglie viene dimesse. Quando il marito lo scopre, manda un messaggio all’amica pugliese: «Se mi trovano morto è stata lei». Nella notte l’ultimo sms: «Sto prendendo botte». Il 5 aprile, la donna denuncia di aver trovato il marito morto nel loro alloggio nel quartiere San Donato. Interviene un primo medico legale che non solleva alcun sospetto, nonostante sul corpo ci siano parecchi lividi. Ma è pur vero che Ettore negli ultimi tempi era molto dimagrito, che abusava di alcol e che il volto era deturpato dagli interventi chirurgici. Il 10 aprile viene fissata la cremazione. Nel frattempo, però, il fascicolo con la dicitura «fatto che non costituisce reato» finisce sulla scrivania del pm Paolo Cappelli, che lo apre e trova i messaggi dell’amante. La donna, infatti, saputo della morte dell’innamorato era andata dai carabinieri di Lecce mostrando le conversazioni avvenute su WhatsApp e loro avevano inviato tutto a Torino.

I funerali vengono sospesi e il corpo «sequestrato» prima che rimasse solo cenere. Ora la consulenza medico-legale parla di asfissia meccanica. Intorno al collo sono stati trovati segni di strangolamento: ecchimosi interne non visibili a un esame superficiale. Ci sono poi altri lividi sul torace, sulle braccia e anche alcune escoriazioni al volto. Inoltre, ci sono numerose testimonianze che raccontano un clima familiare compromesso dal tradimento di lui e dalla gelosia della moglie. Elementi che hanno convinto il pm a contestare l’omicidio volontario. La vedova, difesa dagli avvocati Alberto De Sanctis e Silvia Arnaudo, si è avvalsa della facoltà di non rispondere di fronte al magistrato.

Il 49enne è accusato di omicidio volontario aggravato. Strangola la moglie e confessa al datore di lavoro: il femminicidio al culmine della lite. Vito Califano su Il Riformista il 16 Gennaio 2022. 

Femminicidio a Motta Santa Lucia, piccolo comune in provincia di Catanzaro. Una donna è stata uccisa dal marito al culmine di una lite, secondo quanto ricostruito finora dagli inquirenti. L’uomo è stato fermato. Il presunto colpevole è accusato di omicidio volontario aggravato. Sul caso indagano i carabinieri.

L’uomo ha 49 anni. Operaio di origini marocchine. Avrebbe soffocato la moglie in camera da letto. L’omicidio si sarebbe consumato la notte scorsa nel piccolo centro di circa 800 abitanti in Calabria. La donna è morta per asfissia. Stando a quanto ricostruito da Lacnews, media locale, la coppia si era trasferita a Motta Santa Lucia solo da pochi mesi.

L’uomo, impiegato di una ditta edile del posto, avrebbe confessato il delitto al suo datore di lavoro. Quando i carabinieri sono arrivati sul posto, allertati dall’imprenditore, hanno trovato la donna, anche lei di origini marocchine, senza vita nell’appartamento. Dopo aver raccolto le prime informazioni dal capo del 49enne, la Procura della Repubblica di Lamezia Terme ha emesso un provvedimento di fermo notificato dai carabinieri del Nucleo operativo e radiomobile della Compagnia di Soveria Mannelli, supportati da personale della Stazione di Conflenti e del Nucleo Investigativo del Gruppo di Lamezia Terme.

Attivati per i rilievi tecnici del caso gli specialisti della sezione rilievi del reparto operativo di Catanzaro, nonché il medico legale per i preliminari accertamenti su luogo del delitto, alla presenza del magistrato del pubblico ministero di turno della Procura di Lamezia Terme che ha assunto la direzione delle indagini.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

«Prima ha ucciso mia sorella Mari davanti ai miei occhi, poi ha accoltellato anche me». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2022.

Deborha Sartori non lasciava mai sola Marisa, perseguitata dal marito con il quale stava per firmare la separazione. Fino a quella sera: «Lui ci aspettava in garage, prima ha assalito lei, poi mi ha colpito tre volte». 

S’infila un paio di guanti blu, di quelli senza dita, e così le punte delle mani restano arrossate dal freddo. Deborha Sartori è una che ti viene incontro sorridendo, a testa alta, che non si fa tanti problemi a dire come stanno le cose, anche quando la verità non è delle più comode e magari c’è da parlare di sbagli, di difficoltà economiche, di un’adolescenza non esattamente perfetta, spesso al fianco di quelli da cui le “brave” ragazze si tenevano lontane: «Ai tunisini portavamo cibo e coperte, insegnavamo noi l’italiano, ci piaceva». 

Giocherella con un cane che non va per niente d’accordo coi suoi quattro. Tiene un sacco, ai suoi cani. Il 29 dicembre ha compiuto 26 anni e ora è più grande della sua Mari, la sorella maggiore che fino all’ultimo ha tentato di proteggere e che invece le hanno ucciso davanti agli occhi. Ne culla la fotografia seduta sullo schienale di una panchina che ha tinteggiato di rosso subito dopo il delitto, quando è uscita dall’ospedale, perché anche lei, quella sera, ha rischiato di morire.

Le botte

Il 2 febbraio 2019, poco dopo le 19, alla caserma di Curno, nell’hinterland di Bergamo, i carabinieri hanno trovato alla porta un uomo con le mani insanguinate. Era Ezzedine Arjoun, tunisino che da allora non ha più lasciato il carcere. Oggi ha 38 anni e a Opera sta scontando l’ergastolo dopo che la Cassazione ha reso definitiva la condanna per l’omicidio della moglie 25enne Marisa Sartori, anche maltrattata e in un caso obbligata con un coltello a subire un rapporto sessuale, e per il tentato omicidio di Deborha, sua cognata. Tese a entrambe un agguato nei garage della casa dei loro genitori, dove Marisa si era trasferita, stanca di sentirsi vessata e di mantenere un uomo che, tra alcol e cocaina, perdeva ogni lavoro che lei gli rimediava. 

Si erano sposati in Tunisia quando la ragazza aveva solo 19 anni. Due settimane prima della fine, avrebbero dovuto firmare la separazione. Marisa è crollata dopo 7 coltellate. Deborha, che era andata a prenderla al lavoro per non lasciarla sola, è stata salvata in ospedale. Nella sentenza d’Appello, colpisce il passaggio in cui i giudici spiegano perché, dal loro punto di vista, sussista l’aggravante dei futili motivi (è stata riconosciuta anche la premeditazione). La ragione «che indusse l’imputato a sopprimere, in quel modo così feroce, la moglie deve considerarsi spregevole e vile perché espressione di un modo di intendere il rapporto coniugale davvero inaccettabile nella società odierna». Davvero. «Arjoun uccise la moglie per negarle il diritto di allontanarsi da lui e di sottrarsi in tal modo a un regime di vita, dominato dallo sfruttamento e dalla sopraffazione, divenuto per lei insopportabile». Nella visione dell’imputato, la moglie era di sua proprietà, dunque non andavano tollerati momenti di insubordinazione né aspirazioni di libertà.

I ricordi

Seduta sulla panchina rossa, che sta a pochi passi da quel garage, Deborha si protegge con il cappuccio e i suoi guanti blu. Ricorda quando con Marisa da bambine rubavano pannocchie, e ride. Ricorda quando le confidò di sentirsi sperduta, e allora non ce la fa a trattenere le lacrime. Ricorda tutto, anche dell’aggressione, e sa di essere stata fortunata. «Di solito scendevo io dall’auto ad aprire il cancello. Invece quella sera lo ha fatto Marisa. Dopo la curva della rampa, l’ho sentita urlare, ha urlato con tutta la voce che aveva in corpo». 

Prima ha chiesto aiuto, poi erano urla di dolore. «Ho tirato il freno a mano, sono scesa. Non riuscivo a vedere Mari, ma ho visto lui che la colpiva». Mima il gesto delle coltellate dall’alto verso il basso. «Mi sono avvicinata e ha preso anche me, dal basso verso l’alto, tre volte. Poi è andato via e io ho detto: “Tranquilla, Mari, chiamo i soccorsi”. Sono corsa a prendere il telefono e sono andata all’ascensore, ma non era al piano e ho pensato che ci avrei messo troppo. Allora sono salita per le scale. Mio papà era già uscito sul pianerottolo. Gli ho detto di correre giù». Ferita al polmone sinistro, alla milza e al diaframma, sul pianerottolo Deborha non ha più retto. «Ho iniziato ad avere caldo, un caldo atroce. Se parlavo senza tenermi la ferita (spinge la mano sotto il cuore, ndr ), sentivo come il polmone sfiatare». Eppure, i ricordi vanno avanti. «Ricordo che in ambulanza mi dicevano di restare sveglia. Ricordo quando mi hanno addormentato e poi la voce di un’infermiera sussurrare: “Si sta svegliando”. Vicino al letto c’erano mia mamma, mio papà e il mio ragazzo, e io lo sapevo già. Ho chiesto: “La Mari è morta, vero?”». Al “Papa Giovanni”, la ragazza è rimasta 12 giorni. «Mi scrivevo i sogni che facevo, la sogno tanto, Marisa». Il primo è stato un incubo: Arjoun la sorprendeva alle spalle. In un altro, invece, lei e la sorella si abbracciavano «fortissimo, come se ci stessimo salutando». 

Nella sua drammaticità, la vicenda è quasi un manuale sul femminicidio. Un aspetto, allora, scosse profondamente. Marisa aveva chiesto aiuto più volte in caserma e più volte i carabinieri erano intervenuti a calmare Arjoun, ma senza mai fare una segnalazione in Procura. Il caso era arrivato in mano a un pm il 29 gennaio, 4 giorni prima dell’omicidio, attraverso l’associazione Aiuto Donna: «Marisa» spiega la sorella «aveva scoperto che esisteva questa associazione per caso, da un’assistente sociale con cui aveva parlato quando era andata in municipio a separarsi e Arjoun non si era presentato. È assurdo che nessuno ce l’avesse mai consigliata prima». 

Come spesso accade, la storia si trascinava da tempo: «Ad aprile 2018, Arjoun aveva spaccato il naso al suo padrone di casa, poi aveva sfondato la porta dei miei. Alla fine, si era presentato dal mio ragazzo, dove Marisa si era rifugiata. Lo sentivamo urlare: “Marisa ti ammazzo, so che sei qui”. Noi eravamo barricate dentro, terrorizzate». I carabinieri intervennero tre volte, quella notte, per ciascun episodio. «Per due mesi non l’aveva più visto, poi avevano ricominciato a frequentarsi. La verità è che mia sorella si sentiva sola, non aveva più amicizie, lui le stava sempre addosso». Ed era sempre peggio. «Il giorno prima del mio compleanno, a fine 2018, l’aveva seguita al centro commerciale. In mezzo alla gente, ubriaco, si era messo a urlare: “Sei una puttana”. Marisa me lo confidò piangendo, perché nessuno si era degnato di aiutarla, si era sentita umiliata». Poi, gli appostamenti fuori dal negozio di acconciature dove lei lavorava. Poi, le minacce urlate sotto la sua finestra.

«Mio padre aveva sentito le urla ed era già sul pianerottolo: l’ha presa tra le braccia morta. non supererà mai questa cosa»

Poi, le scenate al bar. La sera in cui decise che era finita, in tv c’era Titanic «e lui continuava: chiamate, chiamate, chiamate». È stato anche un processo di donne, con la difficile difesa sostenuta dall’avvocata Daniela Serughetti, insultata sul web per avere accettato l’incarico. Nell’unica intervista concessa al Dubbio, dopo l’Appello, Serughetti sottolinea lo sforzo fatto, da avvocata, per garantire «anche a chi è etichettato come il peggiore dei mostri il diritto alla difesa e ad un giusto processo, come la Costituzione prevede». La collega Marcella Micheletti, da 20 anni legale di Aiuto Donna, non si separa mai da due ciondoli a stella che le hanno regalato i Sartori. Per lei rappresentano Deborha e Marisa, conosciute 10 giorni prima del delitto: «Il pericolo era evidente, consigliai di muoverci subito con una querela. La sera dell’omicidio» ricorda Micheletti «mi chiama la volontaria dell’associazione che le aveva ricevute per prima. Aveva letto online di un agguato a due sorelle di Curno. Ho contattato i carabinieri e non mi dimenticherò mai, mai, la loro risposta. Mi si è gelato il sangue, ero sotto choc. Le avevo appena incontrate e avevo raccomandato a Deborha di non lasciare mai sola Marisa. Il giorno dopo fu l’allora comandante provinciale dei carabinieri Paolo Storoni a telefonarmi. Con intelligenza, mi disse che avrebbe messo a disposizione una sala per un incontro con i suoi uomini, in cui avrei potuto spiegare ciò che andava migliorato». Fu organizzato tre giorni dopo.

Il dolore

«Io sono viva», ha detto Deborha guardando negli occhi Arjoun il giorno della prima sentenza, un ergastolo in abbreviato con il pm Fabrizio Gaverini. «Ogni tanto mi sembra che Marisa sia dappertutto, in un fiore o in una farfalla, altre volte mi dico che non c’è più. I miei genitori portano dentro, in modo diverso, lo stesso dolore. Mio papà l’ha presa tra le braccia morta, non la supererà mai questa cosa. Con mia mamma erano tanto legate. Però la cosa bella è che tra noi siamo più uniti: siamo anche tornati al mare, dove andavamo da piccole. E ora sulla violenza di genere c’è molta più informazione». Sul finire dell’intervista, Bergamo traballa per una scossa di terremoto, ma la panchina è salda. Deborha non sente nulla. «Sarà stata Marisa».

(ANSA il 9 gennaio 2022. ) - Una donna di 76 anni è morta accoltellata nella tarda serata di ieri a Livorno. A colpirla, secondo quanto appreso, sarebbe stato il marito ottantenne, fermato dai Carabinieri intervenuti nell'abitazione della coppia, al terzo piano di un palazzo di via Inghilterra. Secondo le prime risultanze, l'anziano avrebbe ammesso le sue responsabilità. A chiamare il 112 è stato il figlio della coppia: all'arrivo dei soccorsi la 76enne era già deceduta. L'anziana sarebbe stata raggiunta da una coltellata al torace, risultata fatale. Al momento le cause che avrebbero portato l'uomo a compiere il gesto sono ancora al vaglio dei militari. Non sembra che ci sia stata nessuna lite, né che vi fossero problemi di convivenza tra i due.

 L'uomo non ha saputo spiegare le ragioni della violenza. Ferita dal marito con una spada, donna in gravissime condizioni in ospedale. Vito Califano su Il Riformista l'8 Gennaio 2022. 

Ferita con una spada, all’addome, e adesso è in gravissime condizioni. È in prognosi riservata una donna di 55 anni aggredita e colpita nel giorno dell’Epifania dal marito. È successo a Como, in casa della coppia. L’uomo, 41 anni, è stato arrestato per tentato omicidio.

Ancora da chiarire i motivi per il quale l’uomo abbia colpito la moglie con una spada. Quando l’uomo è stato fermato si trovava in stato confusionale. Non ha saputo spiegare le ragioni del suo gesto.

L’aggressione nell’abitazione in centro a Como dove la coppia vive con i genitori dell’uomo, assenti quando si è consumata la violenza. A chiamare i soccorsi la stessa donna che dopo il ricovero è stata operata d’urgenza. Anche l’uomo è stato portato in ospedale prima di essere trasferito nel carcere Bassone di Como.

La polizia ha trovato cinque spade nell’appartamento, tutte sequestrate oltre a una katana giapponese e circa 40 grammi di marijuana. Dai primi accertamenti, secondo l’Ansa, non risulterebbero violenze né litigi violenti tra i due coniugi. La moglie si trova ancora, in gravi condizioni all’ospedale Sant’Anna.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 3 gennaio 2021. Sputi e umiliazioni nei momenti di malumore. Il lancio di acqua o olio bollente in quelli di nervosismo. Fino ai tentativi di accoltellamento o, come la sera che era finita in carcere, il lancio di soprammobili di marmo, in preda a rabbia e gelosia. Per quasi due anni un pugile ucraino di 49 anni, alto un metro e novantasette centimetri, ed ex campione di kick boxing, ha subito in silenzio le violenze della moglie che, certa della pazienza di lui, in casa lo sottoponeva a ogni tipo di supplizio. 

Dalla privazione del cibo, e persino dei documenti, alla sottrazione dei soldi, fino alle telefonate anonime sul luogo del lavoro. Lui, facchino in un hotel extra lusso vicino a Castel Sant' Angelo, era stato licenziato dopo l'ultima chiamata: «Fate attenzione, ruba».

LA DECISIONE La donna, alta poco più di un metro e cinquanta, per le botte al marito pugile è stata condannata a 2 anni e 2 mesi di carcere. A infliggere la pena il tribunale di Roma, dove l'imputata, 48 anni, fedina penale immacolata e un carattere irascibile, è stata sottoposta a processo per maltrattamenti in famiglia e lesioni. Di fronte alla polizia e ai giudici non hanno retto le giustificazioni. «Vedete - aveva detto la sera dell'arresto, mostrando un labbro sanguinante - Mio marito mi ha picchiato». Una bugia, anzi una messinscena: l'imputata si era morsa le labbra da sola. Era la notte di Natale di due anni fa. Ad incastrarla davanti ai giudici un'annotazione della II sezione volanti della Questura di Roma: «Sembra opportuno precisare che l'uomo che ha chiesto il nostro intervento supera un metro e novanta di altezza, ha un fisico imponente ed è un ex praticante di kick boxing. Si precisa che la ferita della moglie è molto piccola e lei molto minuta, e quindi difficilmente un ipotetico pugno avrebbe potuto cagionare un danno così lieve». Un destro e anni di allenamenti, insomma, avrebbero dovuto causare una ferita ben più grave. 

IL FIGLIO A confermare la ricostruzione, il figlio dodicenne della coppia: «Mamma è tornata dalla sua camera col labbro ferito solo dopo che il babbo ha chiamato il 112». L'uomo ha aggiunto dettagli in aula: «La situazione si è aggravata dopo il lockdown. Gli scatti di violenza sono stati sempre più frequenti. Anche se io solo una volta sono ricorso in ospedale per le ferite. Era il settembre 2020. Il referto lo ha fatto sparire lei. Ho sempre sopportato pensando, a questo punto ingiustamente, che fosse la cosa migliore per nostro figlio». La notte tra il 25 e il 26 dicembre del 2020, a scatenare il caos nella casa della coppia, a Centocelle, è un capello trovato dalla donna tra i vestiti nella cesta del bucato. L'imputata va in cucina e lancia acqua bollente contro il marito. Lui fa in tempo a scansarsi e lei gli scaglia addosso direttamente il bollitore. Non soddisfatta, afferra un soprammobile un'anatra di marmo lunga una decina di centimetri - e centra l'uomo in fronte. «Vent' anni di matrimonio e mi tradisci, fuori da casa», urla contro il consorte. Stremato, lui chiede l'intervento della polizia. Ascoltati moglie, marito e figlio, la serata si chiude con l'arresto, disposto dal pm Antonio Calaresu. «Sono gelosa. La vista di quel capello non mi ha rassicurata», ha provato a giustificarsi lei. A pesare, però, sono i precedenti mai denunciati e raccontati dal marito: una sera ha tentato di colpirlo con una padella, in un'altra occasione ha usato olio bollente. Per due volte ha cercato di conficcargli il coltello del pane al petto. Le rappresaglie scattano quando l'uomo è seduto, a tavola, o sul divano. Diventa un bersaglio più facile. «Ti ammazzo, ti taglio la testa», inveisce. L'anatra di marmo, usata come arma, è stata dissequestrata. Gli investigatori avevano applicato per la vittima il Protocollo Eva, la procedura usata in genere per le donne vittime di violenza.

Dagospia il 30 dicembre 2021. LE NOTIZIE SUI FEMMINICIDI SONO FORTEMENTE ESAGERATE  - NEL 2021 CI SONO STATI 289 CASI DI OMICIDIO E 116 VITTIME ERANO DONNE (QUINDI 173 ERANO UOMINI. E COME MAI NON SI PARLA DI MASCHICIDIO?)

Valentina Errante per "il Messaggero" il 30 dicembre 2021. L'Italia criminale si rimette in moto dopo la pausa Covid, anche con nuove modalità, legate probabilmente al nuovo stile di vita dovuto alla pandemia: con i femminicidi, sempre in cima alla classifica dei reati compiuti nell'anno appena trascorso, un boom di crimini informatici e il nuovo trend di minacce agli amministratori locali, dovuto probabilmente ai divieti per evitare i contagi. La fotografia che emerge dal consuntivo annuale del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzato tramite l'analisi della base dati contenente l'attività di tutte le forze di polizia, è stato presentato ieri al Viminale in una conferenza stampa alla quale ha preso parte anche il capo della Polizia, Lamberto Giannini. A illustrare i dati, in lieve crescita rispetto al 2020, il prefetto Vittorio Rizzi, vice direttore generale della Pubblica sicurezza e direttore centrale della polizia criminale: «Nel 2021 - ha spiegato - c'è stata una lieve crescita dei reati rispetto al 2020, che era stato caratterizzato dal lockdown e dalle pesanti restrizioni nella circolazione, ma ci siamo comunque attestati su livelli generali più bassi del periodo pre-pandemia».

Non scende l'incidenza degli omicidi delle donne: nel 2021 su 289 casi, in 116 le vittime erano, esattamente come nel 2020, quando il lockdown sembrava avere esasperato il fenomeno, mentre erano 110 nel 2019. 

Cento sono state uccise in ambito familiare-affettivo (erano 93 nel 2019); di queste ultime, 68 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (erano 67 nel 2019). Nell'ultimo anno si conferma la tendenza generale: i dati aggiornati al 26 dicembre fanno registrare 289 omicidi, quattro in più dell'anno scorso, ma 25 in meno del 2019 (epoca pre-pandemia).

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 28 dicembre 2021. Per raccontare questa storia ci vorrebbe un regista del livello di Hitchcock o Polanski, ma la sua ambientazione è pura provincia arcitaliana, per l'esattezza Fanano di Gradara, nel pesarese. È un fatto di sangue, un femminicidio in cui si fondono note grottesche, macabre e allucinate. I protagonisti sono due: Vito Cangini, 80 anni, pensionato, e la moglie Natalia Kyrychok, 61 anni, di origine ucraina.  I due erano sposati da 17 anni e tutto è precipitato nella notte tra il 25 e il 26 dicembre. Un momento speciale, per Vito, che si era preparato all'impresa: far l'amore con la moglie, che, a suo dire, glielo aveva promesso, e lui allo scopo si era preso la magica pillola blu. Ma la moglie, nonostante l'artificiale stato di eccitazione del marito, lo ha rifiutato e si è messa a dormire. Uno smacco per Vito che, tra l'altro, si era messo in testa che la moglie lo tradisse col giovane titolare di un ristorante di Misano Adriatico dove, da due anni, lavorava come cuoca. Relazione clandestina peraltro sempre smentita da Natalia, e senza alcuna prova a dimostrarla se non l'intimo convincimento di Vito, pazzo di gelosia per il fatto che la donna potesse amare un uomo molto più giovane, e per giunta il suo datore di lavoro, il suo capo. Nella mente dell'ottantenne si è venuto formando uno scenario da incubo: lui misero vecchio pensionato con una moglie di quasi vent' anni più giovane, che si doveva ridurre a strapparle una promessa di amplesso la notte tra Natale e S. Stefano, grazie all'ausilio del Viagra. E quella, per sommo scorno, che lo rifiuta nel più umiliante dei modi: senza nemmeno discutere, semplicemente pronunciando un no assonnato e poi mettendosi a dormire, sognando forse l'amante. Da quell'istante si può dire che l'uomo sia impazzito, e non arbitrariamente il suo difensore intende chiedere una perizia psichiatrica. Avvelenato dalla gelosia, Vito è andato in cucina a prendere i soliti coltelli, armi ricorrenti in queste mattanze domestiche. Quindi è tornato dalla moglie e le ha menato dai quattro ai sei fendenti al petto. Vendetta era fatta, secondo la mente sconvolta del vecchio marito. Ma il delirio è continuato. Vito si è sdraiato sul letto, col cadavere della moglie ancora caldo sul pavimento della camera, e si è bellamente addormentato, come fosse in pace con se stesso dopo aver scacciato gli spettri ghignanti della gelosia. Avrà pensato: così si comporta un vero uomo; invece, così non si comportano nemmeno le belve più crudeli.

FANTASIA OMICIDA A ogni modo, la notte è tra scorsa e, spuntato il sole, Vito si è alzato, ha fatto colazione ed è uscito a fare una passeggiata col suo cane. È rientrato a mezzogiorno per il pranzo, cappelletti e lesso, e ha alzato un bel po' il gomito, segno che l'assurda quiete della notte cominciava a incrinarsi pericolosamente. Forse ha cominciato a rendersi conto del suo orrendo delitto. Forse ha realizzato che aveva ucciso la donna che, in modo malato, ancora amava; colei che ora, per una gelosia che poteva benissimo essere solo una sua fantasia, giaceva esanime sul pavimento della camera da letto. Una terribile solitudine deve aver invaso il vecchio, portandolo a commettere ulteriori sconsideratezze. Si è messo di nuovo a vagare per la campagna col suo cane e, incontrato un anziano suo vicino, gli ha detto: «Ho ucciso mia moglie, chiama i carabinieri». L'altro, certo temendo di essere coinvolto, ha risposto: «No, non mi impiccio di queste cose, pensaci da solo». Vito è tornato a casa sempre più in preda alla confusione mentale. Usando il telefono della moglie ha chiamato un'amica di lei, confessando di nuovo il delitto e di nuovo intimandole di chiamare i carabinieri, ma nemmeno stavolta gli è stato dato ascolto. Apparentemente, la donna non ha creduto al racconto di Vito. Non restava che chiamare il rivale (immaginario), il ristoratore di Misano Adriatico. Nel locale la moglie era attesa per le 17.30, e Vito ha detto al titolare che invece non l'avrebbero vista né oggi né mai, perché l'aveva uccisa dal momento che lei se la faceva con lui, il ristoratore. Nemmeno questi ha creduto alla confessione di Vito (forse parlava in stato alterato per il vino ingurgitato) però, sconcertato, si è recato dai carabinieri di Cattolica raccontando l'inquietante telefonata. Il thriller volge al termine: l'Arma di Gabicce e poi quella di Pesaro effettuano un sopralluogo nella casa di Vito, che si trova in una zona isolata di Fanano. Trovano Vito in cucina, che sta spilluzzicando qualcosa. «Venite, venite» dice ai carabinieri, e li accompagna in camera da letto. Vito viene arrestato per omicidio volontario. Oggi verrà eseguita l'autopsia sul corpo di Natalia. Nella notte arriva anche il medico patologo, che precisa la modalità del delitto: probabilmente sei fendenti, di cui uno al cuore. Natalia è morta all'istante. 

L'allarme lanciato dai vicini di casa. Strage della Befana, il macabro ritrovamento in casa: “Donna strangolata e marito impiccato”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Gennaio 2022.

Due corpi, un uomo e una donna, marito e moglie, ritrovati morti in casa. Non c’era niente da fare per i soccorritori. La macabra scoperta a Rovigo, in una palazzina in viale Porta Po, nel pomeriggio. I coniugi avevano 76 e 71 anni, si chiamavano Renzo Cavazze e Guglielmina Pasetto. Entrambi erano pensionati.

Sul caso indaga la polizia. E l’ipotesi più accreditata al momento è quella dell’omicidio-suicidio. A chiamare le forze dell’ordine i vicini di casa della coppia. L’uomo e la donna non si vedevano e non si sentivano da giorni. I vicini di casa erano preoccupati e hanno lanciato l’allarme. Sul posto sono intervenuti i Vigili del Fuoco con la polizia.

Scena orribile quella che avrebbero trovato i soccorritori dopo l’irruzione, secondo quanto riportato dall’Ansa: l’uomo si sarebbe impiccato, la donna sarebbe stata strangolata. Quest’ultima sarebbe stata ritrovata a letto. A quanto emerge la 71enne era stata colpita in passato da un ictus che l’aveva lasciata parzialmente paralizzata. Soffriva da tempo di un disturbo psichico.

Secondo le prime indiscrezioni la situazione in famiglia aveva da tempo prostrato l’uomo, facendolo cadere in un profondo e grave stato depressivo. Il 76enne potrebbe aver soffocato la moglie con un cuscino. L’abitazione si trova in una zona centralissima nella città veneta. Sul luogo del tragico ritrovamento al lavoro la polizia scientifica per fare chiarezza sull’accaduto e condurre gli accertamenti del caso.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.