Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

FEMMINE E LGBTI

PRIMA PARTE

 

  

DI ANTONIO GIANGRANDE

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

PRIMA PARTE

 

Diversità di genere.

I LGBTQIA+.

Comandano Loro.

Il Potere nel Telecomando.

I Drag Queen.

Il Maschio.

Il Maschilismo.

I Latin Lover.

Il Femminismo.

Gli Omosessuali.

I Transessuali.

I Bisessuali.

Gli Asessuali.

I Fictiosessuali.

Gli indistinti.

I Nudisti.

L’Amore.

Sesso o amore?

Gli orecchini.

Il Pelo.

Le Tette.

Il Ritocchino.

Le Mestruazioni e la Menopausa.

Il Feticcio.

Bondage; Fetish: Il Feticismo.

Mai dire… Porno.

Mai dire …Prostituzione.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

SECONDA PARTE

 

La Truffa Amorosa.

La Molestia.

Lo Stupro.

Il Metoo.

Il Revenge Porn.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

TERZA PARTE

Le Violenze di Genere: Maschicidi e femminicidi.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

QUARTA PARTE

 

La Gelosia.

L’Infedeltà.

Gli Scambisti.

Gli Stalker.

Il body shaming. 

Le Bandiere LGBTQ.

San Valentino.

La crisi di Coppia.

Mai dire…Matrimonio.

Mai dire Genitori.

Mai dire…Mamma.

Mai dire…Padre.

Mai dire…Figlio.

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

QUINTA PARTE

Il Figlicidio.

Le Suocere.

Il Sesso.

Il Kama Sutra. 

Prima del Sesso.

Durante il Sesso.

Dopo il Sesso.

Il Sesso Anale.

La Masturbazione.

L’Orgasmo.

L’ecosessualità.

L'aiutino all'erezione.

Il Triangolo no…non l’avevo considerato.

Il Perineum Sunning: Ano abbronzato.

Il Sesso Orale.

Il Bacio.

Amore Senile.

 

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI

PRIMA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Diversità di genere.

(ANSA il 14 luglio 2022) - È il cromosoma Y uno dei principali colpevoli della minore longevità degli uomini rispetto alle donne: la sua perdita nel corso dell'invecchiamento, che si stima avvenga nel 40% circa dei settantenni, produce cicatrici sul muscolo del cuore e può portare a insufficienza cardiaca letale. Lo indica lo studio pubblicato sulla rivista Science e coordinato dall'Università statunitense della Virginia.

Secondo gli autori dello studio, guidati da Soichi Sano, gli effetti dannosi della perdita del cromosoma potrebbero essere contrastati con un farmaco già esistente, che prende di mira proprio le pericolose cicatrici che si producono sui tessuti del corpo. I ricercatori, hanno utilizzato la tecnica di ingegneria genetica Crispr (le cosiddette forbici molecolari del Dna) per poter studiare meglio nei topi gli effetti della perdita del cromosoma Y. 

Hanno così scoperto che la scomparsa del cromosoma maschile accelera le malattie legate all'età, rendendo i topi maggiormente soggetti alla cicatrizzazione del tessuto cardiaco e alla morte prematura. I ricercatori hanno inoltre appurato che la causa è in una complessa serie di reazioni del sistema immunitario, che porta ad un processo chiamato fibrosi (l'anomala formazione di tessuto fibroso).

Gli uomini sopra i 60 sono padri nobili. Le donne solo delle vecchie. Ora basta. Loredana Lipperini su L'Espresso il 18 Luglio 2022.  

La disparità di trattamento sul lavoro e nelle istituzioni avvengono per sesso e anche per ragioni anagrafiche. Perché per le donne non si contempla nemmeno la possibilità di essere competenti e sagge: no, oltre una certa età di loro si parla solo per le rughe.

La mia generazione ha perso, ma perdendo ha tenuto per sé i posti migliori. È verissimo: i sessantenni hanno occupato ogni possibile spazio a scapito di chi ha venti, trenta, quarant’anni. Però c’è un distinguo da fare, perché il fenomeno riguarda solo una parte di quei sessantenni. Qualche esempio.

Scenario politico. Quanto si parla di donne, di quanto siano state e siano sentinelle del cambiamento, non è vero? Quanto si ripete che senza le donne il Paese non crescerà, giusto? Bene, contiamo i vertici. Una sola donna presidente di partito, ed è Giorgia Meloni, più una coordinatrice (Teresa Bellanova di Italia Viva, con Ettore Rosato però), più una portavoce anche qui ex aequo con un uomo, Marta Collot di Potere al Popolo. Non che in Europa vada meglio. Secondo Eige (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere), nel 2021 le donne leader nei principali partiti in Unione Europea sono il 26.1 per cento contro il 73,8 per cento di uomini. Solo in Finlandia, Svezia e Danimarca le cose vanno diversamente (rispettivamente 66,7 per cento, 57,1 e 50). In Francia, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Romania e Malta nessuna donna è ai vertici dei maggiori partiti presenti in Parlamento.

Scenario economico. L’Istat, nell’edizione 2022 di “Noi Italia”, fa sapere che nel 2021 il tasso di occupazione sale, sì, ma che le donne occupate restano il 53,2 per cento a fronte del 72,4 per cento dei coetanei. Non solo. Le donne, a livello apicale, restano la minoranza: sono il 70 per cento delle occupate nella Sanità? Le primarie sono il 20 per cento, una cifra simile a quanto avviene in ambito universitario. In altre parole: gli uomini occupano l’81 per cento delle posizioni di vertice. Vale anche per le pensioni: il Rapporto annuale 2022 dell’Inps ci dice che per le donne la retribuzione è più bassa del 25% rispetto a quella degli uomini, anche perché hanno lavorato di meno.

Dunque, le questioni sono due: una legata al genere di appartenenza e una legata all’anagrafe. Nel nostro strano Paese, il modo in cui si discute pubblicamente di problema generazionale non aiuta: ci sono, altrove, studi importanti sulla necessità di stringere patti intergenerazionali invece di alimentare le divisioni con decine di contrapposizioni. Durante la pandemia ne abbiamo avuto esempi pesantissimi, dove di volta in volta si accusavano le giovani persone di mettere a rischio i nonni con la loro mania dell’aperitivo o si accusavano i vecchi di egoismo per aver costretto, con la loro fragilità, a tenere i bambini chiusi in casa. Per quello che riguarda il lavoro, ripeto, la contrapposizione è vera: la cannibalizzazione da parte degli over 60 esiste, anche se i medesimi la negano dicendo che sono i giovani a non voler fare la gavetta. Peccato che non si precisi mai che i cannibali sono over 60 maschi (e bianchi, va da sé).

Delle over 60, dette amabilmente “perennials” (non muoiono mai, insomma) si parla blandendole e dicendo loro che la vita comincia a sessant’anni, e che questo è il tempo della “greynassance”. Rinascimento grigio, già (però ci sono schiere assai malevole pronte a schernirti sui social se il grigio dei capelli si vede quando vai in televisione: è accaduto all’ultimo premio Strega). A dimostrazione del trionfo delle signore in età si citano le influencer che su YouTube istruiscono sul make-up perfetto dopo i sessanta come Tricia Cusden (ha anche un pubblicato un libro, “Living The Life More Fabulous”, con un sottotitolo che recita: “Beauty, Style & Empowerment for Older Women”. Tutto bello, resta da capire dove sia l’Empowerment). O l’adorabile novantaseienne Iris Apfel, quella degli occhialoni. Tutto qui?

Non del tutto. Le over 60 sono rassicurate sul fatto che possono ancora innamorarsi, per esempio, e questo ripetono alle signore i libri e le serie televisive: a sessant’anni è tutto ancora possibile, ma quella possibilità sembra esistere unicamente per quanto riguarda la vita sentimentale, e tutto il resto scompare. Basta una ricerca veloce su Google: la maggior parte dei link riguarda l’amore o, certo, il modo di vestire. Quando Susan Sarandon osò un vestito con lo spacco a Cannes provocò un diluvio di interventi: a settant’anni la coscia non si mostra. A cinquanta si tagliano i capelli, per carità. I soliti social diventano illeggibili nel periodo di Sanremo, presidiati come sono da gruppi di signore, anche colte e raffinate, che spettegolano sul botox delle altre. Non sulle canzoni, figurarsi, ma sul grado di decenza dei ritocchi estetici.

Alda Merini posò nuda, ma è stato un raro atto di libertà, in questa sotterranea denigrazione dove, peraltro, la consapevolezza del cambiamento dei corpi portata dalla vecchiaia viene chiesta quasi esclusivamente alle donne. Non esiste il corrispettivo femminile di José Saramago che sosteneva che più si diventa vecchi, più si diventa liberi, e più si diventa liberi, più si diventa radicali (e lo dimostrò eccome, sul suo blog). Le donne over 60 sono consapevoli, come disse Imre Kertész a proposito del Novecento - e perdonate quella che sembra un’irriverenza - che sono esposte, e chiunque può prenderle a fucilate. Non esiste la vecchia competente e saggia: esiste la vecchia.

Se questo è l’immaginario, non ci si stupisca della mancanza di donne ai vertici della politica e delle istituzioni. Facciamo un passo indietro, fino al dicembre 2007. Sempre per gli smemorati, sarà bene ricordare il primissimo piano di Hillary Clinton nel pieno della campagna per le primarie americane. Il commento dell’ultraconservatore Rush Limbaugh sottolineò che esibire i segni del tempo in un corpo di donna non è piacevole, e non è soprattutto conveniente: «La politica è apparenza, sei quello che appari e Hillary come donna invecchierà peggio di un uomo, in quel lavoro alla Casa Bianca che logora chiunque, e noi americani passeremo quattro anni davanti allo spettacolo deprimente di una vecchia signora che perde ogni giorno la propria battaglia con il proprio aspetto. Un uomo anziano appare decisivo, autorevole, serio, una donna anziana è soltanto una vecchia».

La vecchiaia maschile - quella dei potenti, almeno - ha dalla sua l’esperienza. La vecchiaia femminile no. Gli uomini diventano padri della patria, o almeno padri nobili. Le donne invecchiano e basta. In quello stesso dicembre, mentre Hillary mostrava le sue rughe, in Italia partiva una campagna pubblicitaria contro la burocrazia: i manifesti proponevano la caricatura di un’anziana signora con gli occhialini a farfalla, le labbra a cuore, un ridicolo cappellino rosa. Lo slogan era: ammazza la vecchia.

Le conclusioni sono semplicissime: quando bisogna decidere un incarico di responsabilità e visibilità non conta neanche la regola del “ci vuole una donna” (che nei fatti non è una regola: è uno specchietto per le allodole che molto spesso ci si dimentica di usare). In quei casi, si passa direttamente a un uomo. In altri termini: se l’incarico viene dato a una donna, si prende in esame la sua immagine e la conformità del suo aspetto a come ci si immagina debba essere una persona che ha pubblica visibilità. Se viene dato a un uomo, conta la competenza. O almeno così ci vien detto. 

Tra moglie e marito è sempre meglio non mettere il dito... sul volante. Ilaria Salzano su La Repubblica il 24 Giugno 2022.  

Prima indagine globale del Women's World Car of the Year sulle abitudini di guida: il 43% delle donne e il 52,94% degli uomini quando guidano ricevono consigli, istruzioni o... altro. Questi i risultati del sondaggio

La Giornata internazionale delle donne al volante, un'iniziativa promossa dal WWCOTY, celebra la fine dei divieti di guida per le donne in tutto il mondo.

Il Women's World Car of the Year ha condotto la sua prima indagine globale per scoprire le abitudini e le emozioni a bordo di un'auto. Secondo i dati raccolti da WWCOTY nei cinque continenti, il 43% delle donne riceve istruzioni e commenti dal proprio partner quando è al volante. La percentuale sale al 58% quando a rispondere sono le utenti latinoamericane, mentre scende al 41,17% in Paesi come la Croazia e al 28,57% nella Repubblica Ceca. Nel caso dei conducenti maschi, la percentuale è del 52,94% a livello globale, anche se riconoscono che l'86,27% di loro è quello che si siede al volante quando si tratta di viaggi in famiglia. La percentuale sfiora il 100% in Italia e scende al 42% nel Regno Unito e al 25% in Germania.

Viaggiare con il partner sul sedile del passeggero è fonte di disagio per il 14,47% delle donne e l'11,76% degli uomini. A livello nazionale, spicca il dato della Spagna, dove il 21,4% delle donne intervistate si sente insicura al volante quando guida con il proprio partner; in Belgio la percentuale è del 16,27%; negli Stati Uniti è del 15% e in Portogallo del 12,5%.

La percezione della libertà e dell'indipendenza che l'automobile offre è praticamente unanime in tutto il mondo. Questa è l'opinione del 92,16% degli uomini e del 94,89% delle donne nel sondaggio globale condotto da Women's World Car of the Year.

Per le donne al volante, l'auto rappresenta nella maggior parte dei casi più di un semplice mezzo di trasporto. Essa offre l'accesso a un mondo ricco di possibilità, esperienze e sviluppo personale. Questo mondo si è aperto completamente il 24 giugno 2018, quando è stato abolito il divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, l'ultimo Paese in cui non era consentito. È caduto così uno dei

grandi muri che ancora dovevano essere abbattuti nel mondo dell'automobile. Le donne hanno guadagnato mobilità, libertà personale e passione per le auto. Diventarono più visibili e resero la società consapevole del potenziale di oltre il 50% della popolazione.

Oggi le donne influenzano oltre l'80% degli acquisti di automobili nei paesi avanzati. Questa tendenza continuerà o crescerà nei prossimi anni, perché "la percentuale di giovani studentesse universitarie sta aumentando nelle aree sviluppate. La parità salariale comincia a diventare un obiettivo raggiungibile, i Consigli di Amministrazione non sono più esclusivamente maschili e negli elenchi delle persone più ricche del mondo non è raro vedere sempre più nomi di donne", afferma Marta García, Presidente esecutivo del WWCOTY. Un futuro di mobilità sostenibile e di uguaglianza non sarebbe possibile senza il contributo delle donne".

L'identità di genere non è un capriccio. Ecco cosa la sinistra deve ancora imparare. Michela Marzano su La Repubblica il 9 Giugno 2022.  

In Gran Bretagna la questione trans e gender scuote laburisti e femministe: ormai è scontro politico sull'identità e il corpo.

«Sono sicura che esista una parola per definirle. Wumben? Wimpund? Woomud?» Un paio di anni fa J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, aveva commentato così un articolo in cui si parlava dell'identità di genere. Secondo lei in Inghilterra, in nome della difesa delle persone trans, si stava progressivamente cancellando la nozione di sesso. Dopo essersi schierata accanto a una ricercatrice britannica che aveva affermato che «le donne trans non sono vere donne», Rowling aveva quindi deciso di unirsi alle battaglie delle Terf, le Transgender exclusionary radical feminists, ovvero quelle femministe che vogliono escludere dalla categoria "donne" tutte coloro che, biologicamente e geneticamente, non sono femmine.

«Quando apri le porte di bagni e spogliatoi a ogni uomo che si crede donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare», aveva scritto qualche mese dopo su Twitter. Subito prima di aggiungere: «Questa è la semplice verità». Ma di quale verità parla esattamente l'autrice di Harry Potter? Cosa significa, per lei, essere donna? Pensa davvero che il proprio essere donna coincida con il proprio sesso biologico?

Sono ormai alcune settimane che, all'interno del partito laburista inglese, si discute per trovare una soluzione al dilemma del rapporto tra sesso e genere, non solo per differenziarsi dal tradizionalismo dei tories, ma anche per dare un segnale a coloro che, da sempre, si battono per i diritti e l'emancipazione di tutte e di tutti. E quando l'altro ieri Sir Keir Starmer, il leader dei laburisti, ha riconosciuto in radio che esisteva una «minoranza di donne che poteva avere il pene», la comunità Terf è ripartita all'attacco. 

Anche se Starmer, nell'intervista, è stato fin troppo cauto e, dopo aver aperto la porta alle donne trans, ha immediatamente precisato che tutte le altre donne hanno comunque il diritto di sentirsi protette nei luoghi comuni, come bagni e palestre. E quindi? Esisterebbero donne di serie A e donne di serie B?

Ormai sono anni che sembra di assistere sempre allo stesso dibattito, minato in partenza dall'enorme confusione che circonda le nozioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità. «Chi non ha vissuto la propria intera vita da donna non dovrebbe arrivare a definire noi donne», aveva scritto nel 2015 la femminista americana Elinor Burkett in un articolo pubblicato sul New York Times, subito prima di dire che le donne trans non potevano sapere cosa significasse essere donna, visto che loro non avevano mai dovuto affrontare l'inizio delle mestruazioni al centro di un vagone affollato della metropolitana né avevano mai vissuto l'umiliazione di scoprire che gli stipendi dei loro colleghi maschi erano ben più consistenti dei loro. Ma Burkett e le altre Terf, a loro volta, molto probabilmente non hanno la minima idea di cosa significhi crescere sentendosi prigionieri di un corpo che non corrisponde a ciò che si è.

Quando parliamo delle donne trans, d'altronde, non parliamo affatto di «uomini che si credono donne », come afferma in maniera superficiale J.K. Rowling. L'identità di genere non è né una credenza né un capriccio né una sensazione fluttuante. L'identità di genere è la percezione precoce, profonda e duratura di sé come uomo o donna, ossia ciò che si inizia a percepire non appena si riflette sulla propria identità, qualcosa di estremamente radicato e, soprattutto, che non cambia con il passare del tempo. Percepirsi donna, allora, vuol dire non poter vivere diversamente, sebbene il proprio corpo dica altro. 

Per la maggior parte di noi, esiste una continuità tra il sesso e il genere. Chi nasce femmina è donna. Chi nasce maschio è uomo. E se una persona, invece, nasce femmina ma è uomo, oppure nasce maschio ma è donna? Cosa vogliamo fare? Impedire loro di essere ciò che sono? Costringere queste persone a vivere una vita inautentica? Per molto tempo, è quello che si è fatto; disinteressandosi al loro dolore, nonostante sia talvolta così grande da spingere alcune di loro al suicidio.

Oggi, però, non è più possibile trincerarsi dietro l'idea secondo la quale alla base delle molteplici differenze che attraversano l'umanità ci sarebbe sempre e solo la differenza sessuale: quella differenza iscritta nel corpo; quella differenza che porta una femminista come Sylviane Agacinski a sostenere che la specificità della donna risiede sempre e comunque nella sua "capacità produttiva".

Oggi, forse, è giunto il momento che la sinistra faccia un esame di coscienza e si riappropri delle parole della scrittrice statunitense Audre Lorde la quale, già alla fine degli anni Settanta, aveva capito che la complessità della realtà e le contraddizioni dell'esistenza necessitavano una lettura non semplicistica dell'identità di genere: «Stare insieme alle donne non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne gay non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne nere non era abbastanza, eravamo diverse. Ognuna di noi aveva i suoi bisogni e i suoi obiettivi e tante diverse alleanze. C'è voluto un bel po' di tempo prima che ci rendessimo conto che il nostro posto era proprio la casa della differenza». 

Marzano alle femministe: le donne possono avere il pene. Replica: ma si facciano la doccia da te. Annalisa Terranova martedì 14 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.

Qualche tempo fa un giornale inglese, commentando la sconfitta dei laburisti nella roccaforte operaia di Hartlepool, scriveva che se la sinistra avesse continuato a porsi solo il problema dei bagni transgender i lavoratori gli avrebbero voltato in massa le spalle.

Un campanello d’allarme che i laburisti non hanno ascoltato visto che è stato proprio il leader del Labour, sir Keir Starmer, a restare imbrigliato in una discussione sul seguente quesito: le donne possono avere il pene? Lui ha detto che qualcuna può. Nel partito si è scatenato uno psicodramma. In Italia il dibattito è stato subito ripreso da Repubblica, il “giornale dei diritti”.

A porsi il dilemma delle donne col pene è stata Michela Marzano, quella che non ha voluto fare figli perché il nonno era fascista. Marzano ha sentenziato che certo, le donne possono avere il pene, perché l’identità di genere non è legata al dato biologico. Cioè non è che se hai la vagina sei donna… E chi lo pensa, come la Rowling per esempio, fa parte della “comunità Terf”, sigla che sta per “femministe radicali trans escludenti”. In effetti sono problemi cui la gente pensa con grande intensità. In ogni caso le femministe che pensano che avere la vagina definisca una donna (ma guarda un po’ che pensiero strano!) si sono arrabbiate per quell’insulto, Terf, che la Marzano ha rivolto loro. E se la sono presa col direttore di Repubblica Molinari. ma come ti sei permesso di usare la parola Terf sul tuo giornale? Loro, affermano, non hanno nulla contro i trans ma non vogliono che le “donne col pene” abbiano accesso agli spazi riservati alle donne con la vagina.

Insomma ecco che torna la questione dei bagni transgender, quella di cui si diceva all’inizio e che sarebbe destinata ad allontanare sempre di più la cosiddetta classe operaia da una sinistra che si perde in chiacchiere. A dare voce alle femministe che ce l’hanno con la Marzano scende in campo anche Paola Tavella che su Fb ha raccontato un aneddoto significativo. La questione dei bagni è importante, e proprio il racconto della Tavella lo dimostra. L’episodio narrato ha avuto luogo in uno stabilimento di Ostia. Anzi per l’esattezza nelle docce dello stabilimento riservate alle donne.

“Ero sola nella zona femmine che mi lavavo quando è entrata una signora con i capelli lunghi, gli occhiali da diva, il costume intero e gli zoccoli con i tacchi. La signora si è tolta il costume e ha cominciato a lavarsi i genitali ben sviluppati ma depilati, che non erano quelli di una signora. Li sollevava, li faceva roteare, li titillava, li insaponava e via così. Una pulizia accuratissima. Siccome questo tipo di spettacolo non è il mio preferito, e non avevo prestato il mio consenso, lo ho classificato per quel che era: esibizionismo e molestia sessuale, ovvero violenza maschile. Poi siccome ho una certa età e non sono impressionabile, me ne sono andata e basta. Però: fossi stata una ragazzina? O una bambina? Una nonnina? Anche solo una persona delicata di stomaco? Ma perché non vanno tutte a insaponarsi le loro povere cose nella doccia di Michela Marzano?“. Segue dibattito.

Mettere l’orecchino invece del fermacravatta libera i maschi dalle trame prestabilite. ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani l'01 giugno 2022

Mi domando dove siano finiti i gioielli che ho accumulato attraverso i sacramenti cattolici: gli ori del battesimo, della prima comunione, della cresima. Erano tutte cose utili, tranne forse una sterlina d’oro e un braccialetto sempre d’oro. Li avrei tutti dati via in cambio di un orecchino.

Mia madre però diceva che gli orecchini li mettono solo ex galeotti e pederasti, dando loro un’utilità che in realtà non hanno (davvero le star del cinema e i personaggi dei cartoni giapponesi coll’orecchino potevano rispondere a quelle categorie di pregiudizio?). E d’altronde, i dandy dell’Ottocento non ci insegnano che è proprio l’utilità a essere volgare?

Quando Ruggiero lascia la trama dell’Orlando furioso per sollazzarsi sull’isola di Alcina indossa un paio di orecchini che Melissa, riportandolo sulla supposta retta via, gli rimprovera. Che liberazione però lasciarla, quella via, per imboccare quella del rifiuto per le trame, le storie già note, addirittura il capitalismo! Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.

Mi domando dove siano, in questo momento, i miei ori. Li possiedo, come immagino quasi tutti i ragazzi non poverissimi di stirpe cattolica, dalla prima comunione. Aggiuntisi a certi meno familiari gingilli del battesimo, che invece non saprei distinguere da quelli di mia sorella, sono ori che ricordo a memoria ma che non vedo da anni. Forse da quando, con le più sostanziali ma meno numerose addizioni della cresima, completai la collezione e, appunto, smisi d’interessarmene.

Una sterlina d’oro, la più memorabile. Un fermacravatta d’oro poi, un po’ aziendale, e una sottilissima catenina d’oro sulla cui piastrina d’oro, che recitava «RH», nessuno fece mai incidere il mio gruppo sanguigno. Un orologio d’oro, marca Philip se non sbaglio, e un bracciale, leggermente vistoso, sempre d’oro. Abitavano nel cassetto in basso del mio comodino di adolescente, ma poi ricordo che emersero una volta dall’armadio delle tende e delle coperte di casa di mia nonna. Ora, chissà. Forse sono dov’è anche la fede nuziale di lei, che il giorno del suo funerale mi parve sorprendentemente spessa, incongruamente pesante per un dito così piccolo.

Quando tutti questi oggetti li avevo a portata di mano, non riuscivo a immaginare una versione di me che potesse farci altro che custodirli, contemplarli di tanto in tanto, come un draghetto appollaiato sul suo tesoro in erba. Ora che faccio il professore, ora che per festeggiare una nuova cattedra ricevo in dono da un’amica un altro, più bello, fermacravatta d’oro (e ci si aspetta che in effetti lo indossi), mi domando dove siano. Mi domando se non dovrei, di quando in quando, sfoggiarli.

GLI ORI UTILI

Se allora mi interessava particolarmente la sterlina, doblone da avventuriero nel minuscolo forziere azzurro della gioielleria di Subiaco in cui mia zia Michela lo acquistò, oggi è il fermacravatta a tornarmi in mente. Lo metterei? Funzionerebbe col gilet, senza giacca? Assieme ai gemelli, di cui possiedo un solo paio regalatomi da un’altra Michela (Murgia, la scrittrice, che me li portò a Filadelfia in una scatoletta viola ora sempre nel mio guardaroba), il fermacravatta è il più ovviamente ammissibile e serenamente borghese dei gioielli maschili.

Riuscite a figurarvelo un fermacravatta oltraggioso, sovversivo? C’è al limite un’ombra di esibizionismo retro in quelli vintage con le catenelle che tengono insieme le alucce del colletto – che imbarazzo, non so come si chiamano – ma niente di che. Quello chic che, come accennavo, ho ricevuto da Anna Cellinese, italianista di Princeton con un misterioso passato di danzatrice, una catenella ce l’ha, ma parecchio discreta.

C’è una qualità d’affetto particolare, lungimirante e sorniona, nel gesto femminile di regalare a un uomo un gioiello tradizionale perché lo adoperi al lavoro, o nelle occasioni formali. Non importa l’età del ricevente: egli diventa subito giovanotto – prence, delfino, futuribile bravo ragazzo, nipote acquisito anche fosse lui medesimo zio, o persino nonno.

Queste gioie dabbene, prive di sospetto, hanno in comune l’utilità: sono cose autorizzate a esser belle perché sono utili, promettono di funzionare per il resto della vita di chi le riceve nella loro incorruttibile lega di nobile metallurgia – e di essere tramandate, per ulteriori utilizzi a venire. Non a caso la graziosa catenina di cui sopra era destinata a trasmettere, nell’eventualità di un grave incidente, il mio gruppo sanguigno ai soccorritori. Non a caso il pezzo forte della mia collezione era proprio l’orologio, che da bimbo mi impressionava meno di tutti i suoi più chiaramente dorati compagni – un oggetto assai sommesso, nella sua preziosità.

L’anello da coniugato, lui pure, svolge un lavoro, completando il catalogo degli ori da sacramento che un uomo può accumulare rimanendo fedele alle norme più ovvie della propria tribù di genere. Già il bracciale, meno chiaramente funzionale, è un vezzo intrigante, tanto da sortire immagini vagamente razziste: il giostraio, lo spacciatore, il pappone, al limite il rapper.

ORECCHINO SOVVERSIVO

Ma cosa c’è di più volgare, in realtà, dell’utilità? Baudelaire, nel suo trattato sulla vita elegante, dichiarava di detestarla, di trovarla ripugnante. Ce lo ricorda Giorgio Agamben, nel suo immortale studio sul dandy e sul feticcio uscito esattamente cinquant’anni fa, in cui si chiarisce come la cura monastica e totale per il superfluo, per l’inservibile, sia addirittura una resistenza post-umana al capitalismo. Altro che vezzi frufru, altro che eccessi d’ostentazione.

Mi piace pensare di essere stato un ragazzino naturalmente predisposto all’eleganza e al socialismo, a un dandismo radicale, perché quegli ori utili mi piacevano anche, ma li avrei dati via tutti in un amen in cambio di un orecchino. Invidiavo, in particolare, un’amica di tutta la vita, Valeria Lollobattista (oggi architetta), che già nella primissima adolescenza aveva ottenuto un doppio buco al lobo destro, da cui faceva pendere coppie di orecchini identici sfacciatamente disinteressati alla buona norma della simmetria.

Mai nella vita, ovviamente, mia madre me ne avrebbe concesso anche uno finto. Mi spiegò, con una certa solennità, che solo due categorie di maschi si bucavano le orecchie: i galeotti e i pederasti. A seconda del lato da cui pendeva l’orecchino avrei potuto determinare a quale delle due comunità apparteneva chi lo portava. Non era vero, chiaramente – erano forse invertiti da disco anni Settanta o avanzi di galera Orlando Bloom, Harrison Ford, l’insegnante di religione che faceva il vicepreside al mio liceo o i vari maschilissimi eroi con l’orecchino dei cartoni giapponesi più fichi, da Zoro di One Piece a Nara di Naruto o Ryuk di Death Note? Certo che no.

Ma la leggenda sul significato dell’orecchino da maschi, scopro online, perdura. Ha fortuna, credo, perché assegna a quel gioiello inutile una funzione, lo rende discrimine tautologico della gioielleria virile: se lo hai, sei fuori norma, la comunione e la cresima non te le meriti.

EVADERE LA TRAMA

A un certo punto, nell’Orlando furioso, il valoroso Ruggiero rimane invischiato in una confortevole ma obnubilante relazione con una maga sull’isola che lei governa, un po’ come accade a Ulisse. Lei lo vizia, lo vezzeggia, gli fa dimenticare la guerra cui dovrebbe partecipare dall’altro capo del mondo e la donna guerriera cui dovrebbe congiungersi per figliare, producendo la dinastia che secoli più tardi proteggerà Ariosto perché scriva il poema di cui è protagonista.

Lo va a cercare un’altra fata, quella buona, che lo trova rammollito: mangia frutti prelibati, se ne sta in panciolle, ha i bei riccioli curati e pieni di balsamo profumato. Indossa, soprattutto, un paio di lunghi orecchini, segno certo che ha smarrito la via dell’epica maschia per diventare un femmineo ragazzo in vacanza. Lo rimprovera, rimettendo in moto la sua storia cavalleresca. Gli impedisce, insomma, di diventare un dandy, un felice mantenuto, e lo costringe a scoprire che la sua maliarda ospite è in realtà una «puttana vecchia» (cito dal testo) che si finge giovane e bella grazie al potere di un suo gioiello magico – esattamente come Melisandre, la sacerdotessa rossa di Game of Thrones.

Nel togliersi gli orecchini, anche Ruggiero diventa un altro, rivela sé stesso, ma non so se la sua versione attiva, funzionale alla storia, sia poi tanto da preferire a quella che invece interrompe la trama per circonfonderlo di delizie riposanti. Gli ori utili non destano rimproveri né sgomento, quelli sfacciatamente appariscenti hanno appunto l’utilità di apparire: di fare apparente lo status di chi li esibisce, cortigiano o star della trap che sia, dichiarando «ce l’ho fatta» agli haters che non si aspettavano un esito di successo a seguito di umili o accidentate origini.

Gli ori discreti ma inutili del dandy disfunzionale, che rifiuta di portare avanti una narrazione, un’industria, e si dedica invece alla ricerca di oggetti irriducibili a merce, sono più radicali, più sovversivi. Pendendo da un orecchio, da un polso o da un colletto, in realtà ostacolano l’azione: minacciano d’impigliarsi a qualcosa, d’inceppare l’ingranaggio dell’avventura, di richiedere alla maschilità un’accortezza e un’eleganza che tradizionalmente non le competono. Più dei piercing aggressivi o spettacolari, più degli anelli che legano o esprimono poteri, questi ori che tua zia non si sognerebbe mai di regalarti sono il distintivo di un virile che si rifiuta di svolgere le proprie stanche funzioni.

ALESSANDRO GIAMMEI. Professore di letteratura italiana all’Università di Yale, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald. Ha curato l’edizione italiana delle lettere tra Lytton Strachey e Virginia Woolf (Ti basta l’Atlantico?, nottetempo 2021, con Chiara Valerio), e di un trattato di Arthur Conan Doyle sulla fotografia spiritica (Fotografare gli spiriti, Marsilio 2022).

Il genere delle cose è relativo: perché ci sorprendono i maschi in gonna? ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani il 25 maggio 2022

Da quando gira la voce che sto scrivendo di maschilità, ogni volta che un ragazzo si manifesta in gonna o in abito lungo a qualche concerto, sfilata o cerimonia, tutti mi linkano il video e le foto. Ma che c’è di strano? La gonna è una cosa da maschi.

Come per molte questioni di genere, il problema è la prospettiva. Ai maghi di Harry Potter (i libri, non i film) pare strano che i babbani maschi indossino solo i pantaloni. E in effetti i pantaloni come distintivo della maschilità sono emersi in una precisa parentesi della storia culturale europea.

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Da quando gira la voce che sto scrivendo di maschilità, ogni volta che un ragazzo si manifesta in gonna o in abito lungo a qualche concerto, sfilata o cerimonia, tutti mi linkano il video e le foto. Che si tratti di Mahmood o Harry Styles, di un modello di Gucci o di uno studente al commencement, l’apparizione ispira messaggi di gradita sorpresa a me rivolti: “che fico, guarda, ci hai ragione, l’èra del maschio coi pantaloni è al tramonto”. Ma come? Non era già ovvio da secoli che gonnelle e sottane sono una cosa da maschi?

LE BRACHE SONO DA BABBANI

Come per molte questioni di genere, il problema è la prospettiva. Faccio un esempio. Prima che i film ne cristallizzassero l’immaginario al ribasso, e prima che l’autrice ne mortificasse l’immagine con le sue irricevibili sparate transfobiche, il mondo di Harry Potter era assai più autenticamente strambo di come non appaia nelle odierne mercificazioni del suo già esilissimo contenuto letterario, privo d’altronde di qualsiasi interesse formale.

Ricordo che da adolescente, leggendo appassionato il quarto libro, mi colpì rendermi conto che i maghi maschi, in quel mondo di finzione, non portano i pantaloni: che la distinzione di genere tra abiti lunghi e brache, pantaloni e gonne, è una roba, nei libri di Harry Potter, da babbani. Il fatto emerge durante la finale della coppa del mondo di Quidditch, quando la comunità magica accorre ad accamparsi intorno allo stadio per assistervi e deve, tuttavia, farsi lo scrupolo di non destare l’attenzione degli avventori non-maghi.

Certi maghi, però, di noialtri comuni mortali non conoscono nemmeno i tratti culturali di base (esiste addirittura una disciplina di studi, a Hogwarts, per informarli: la babbanologia) e dunque non sanno bene come mimetizzarsi: come distinguere ciò che è normale per loro da ciò che è normale per noi. Uno di essi, nei dintorni dello stadio, rifiuta di indossare pantaloni. Non capisce come facciamo, noi babbani maschi, a non preferire comode tuniche: crede che sia assurdo risultare strano solo perché indossa un, per lui maschilissimo, abito lungo. Si domanda se non sentano il bisogno, i non-maghi, di far prendere aria alle parti basse, di quando in quando.

IL MONACO FA L’ABITO

Se l’abito non fa il monaco (o il mago), che cos’è che fa? Perché qualcosa fa, altrimenti non riceverei tanti messaggi quando Pete Davidson sfoggia disinvolto una gonna – e l’autrice di Harry Potter non ci terrebbe tanto a ribadire che le donne trans sono «uomini in gonna». Il fatto è che le cose che portiamo addosso, come le lingue che parliamo, non hanno senso di per sé, a differenza delle parole magiche che invariabilmente producono il medesimo incantesimo in ogni contesto – anche se nessuno le capisce, anche se nessuno le sente neanche.

Hanno senso, le umane parole e le nostre cose, solo negli occhi, nelle orecchie, di chi condivide con noi un certo codice. È in quegli organi di senso altrui, non nella propria sostanza verbale o tessile, che fanno quel che fanno: confermano o rompono il codice, più o meno condiviso, cui rispondono. «A casa mia», dice con grande saggezza Zerocalcare, «“mortacci tua” è ‘na carezza; a Napoli me volevano sgozzà».

Sul palco dell’Eurovision la favolosa gonna bianca di Sheldon Riley, il concorrente australiano, è stata sorprendente solo perché il pubblico europeo non è abituato a infilare gli uomini in altro che nei pantaloni – ma, al contempo, è assai abituato a pensarsi misura e norma dell’umanità. È lo stesso problema, al contrario, del mago senza calzoni alla finale di Quidditch.

GONNE DA MASCHI

In tre quarti del mondo, a dire il vero, non hanno mai battuto ciglio alla vista di una gonna da maschi. Né bisogna andare granché lontano per trovarne di tradizionali: gli albanesi di rango, nell’Ottocento, usavano portare candide gonne al ginocchio oltre che floridi mustacchi, e tutti sanno che in Scozia non c’è niente di più maschile di un kilt a scacchi. La gonna gaelica, ispessita dalla moda celtica, si solleva sugli impertinenti culi dei commilitoni di Mel Gibson in Braveheart, un film che chi ha la mia età ha visto passare innumerevoli volte in televisione.

Chissà se il principe Carlo indossa invece biancheria sotto ai kilt che sfoggia regolarmente, come li sfoggiava suo padre Filippo fino in tarda età. Se cerco online, m’incanto trovando foto dei due che esibiscono gonne in pendant con quelle delle loro compagne: Diana, Camilla e persino la regina. Ma le gonne da maschio più belle mi sembrano quelle che mettono tutti i giorni gli abitanti di paesi più lontani, quelli che un tempo i reali d’Inghilterra colonizzarono: lunghe gonne dai sobri colori che fasciano gambe virili nel sudest asiatico, nell’Africa occidentale, nel subcontinente.

Se invece di spostare la prospettiva nello spazio la spostiamo nel tempo, il risultato non cambia. Anzi, le gonne da maschi popolano le iconografie dei sussidiari e dei manuali di storia e arte d’ogni ordine e grado. Enrico VIII, nel suo più celebre ritratto, come i notabili normanni del medioevo o quelli sumeri dell’antichità in incisioni e statue erose dai secoli, portano una gonna. È addirittura una minigonna direi, aderente ed elegantemente sensuale, quella che fascia i fianchi del favorito dell’imperatore Adriano, Antinoo Vaticano, nel suo costume egizio da reincarnazione di Osiride. Inghiottito prematuramente dalle acque del Nilo, il ragazzo fu fatto scolpire così nel secondo secolo, serio e gagliardo con la sua gonnella finemente cesellata nel marmo; e così lo incontriamo oggi nelle sale dei musei vaticani – nella stessa San Pietro in cui, ricordiamocelo, papi e cardinali si aggirano da sempre in vesti fruscianti e vaporose sottane.

Se c’è qualcosa di strano negli uomini in gonna, se ci pare che siano ribelli o in rotta con la propria identità, è solo perché, a un certo punto, in occidente abbiamo deciso di separare i maschi dal resto dell’umanità – o meglio, di limitare a loro il privilegio esclusivo di un’umanità individuale.

L’ETÀ DEI PANTALONI

Ho scritto la tesi di laurea su Alberto Savinio, uno scrittore (e pittore, e musicista) incredibile del Novecento su cui ancora lavoro e le cui opere insegno. Nato in Grecia da genitori italiani, formatosi in Germania e in Francia, questo geniale mago delle Lettere europee nutriva una certa ossessione (come d’altronde suo fratello, Giorgio de Chirico) nei confronti della sua propria autobiografia, della sua immagine.

Ricordo che, ventenne, trascorrevo molte ore alla biblioteca di storia dell’arte di Piazza Venezia a sfogliare i cataloghi dei suoi lavori, e ci trovavo di continuo i ritratti, gli autoritratti e le foto che scandirono la sua vita. Il più antico dagherrotipo, caro anche al fratello e riprodotto in alcuni studi a matita, era un’immagine di lui, molto grazioso, da bambino: capelli lunghi, guance paffute e un abitino candido che finiva, inequivocabilmente, in una gonna. Non un pagliaccetto, non uno di quei vestitini da pupo: una gonna vera e propria, in miniatura, non dissimile da quella che sua madre portava in altri scatti o quadri.

Fu da quella foto di Savinio, risalente ai primissimi anni del secolo scorso, che scoprii come, fino appunto a quel periodo, si usava in Europa vestire bambini e bambine, indifferentemente, con gli stessi abiti, analoghi a quelli indossati dalle ragazze e dalle donne mature.

GONNA E BURQA

Oggi quegli abitini mi paiono esclusivamente da bimba. Quando vado in un negozio, d’altronde, do per scontato che le gonne e gli abiti lunghi siano tutti da donna, mentre i pantaloni siano potenzialmente per chiunque. E tuttavia so, dai tempi della laurea, che, in Europa e nelle sue colonie, tra il tardo Cinquecento e il primo Novecento, erano i pantaloni a essere speciali. I maschi erano separati dall’umanità indistinta delle gonne per tutti solo a una certa età – quella in cui quelli benestanti erano in grado, tendenzialmente, di andare in bagno autonomamente, e quelli poveri già al lavoro.

Da quell’età in poi diventavano uomini, individui agenti, inforcando un paio di brache che li distinguevano dalla collettività in gonna che erano chiamati a dominare. La gonna è servita a ciò a cui serve oggi il burqa in Afghanistan, dove mentre scrivo è tornato per legge sui volti delle donne: ha rappresentato un dispositivo per la sottrazione d’identità. Ma si è trattato di una parentesi relativamente breve nella lunga storia della gonna, da uomo o da donna, che oggi riprende a rispondere a un codice secolare d’eleganza maschile.

ALESSANDRO GIAMMEI. Professore di letteratura italiana all’Università di Yale, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald. Ha curato l’edizione italiana delle lettere tra Lytton Strachey e Virginia Woolf (Ti basta l’Atlantico?, nottetempo 2021, con Chiara Valerio), e di un trattato di Arthur Conan Doyle sulla fotografia spiritica (Fotografare gli spiriti, Marsilio 2022).

Da ilnapolista.it il 24 maggio 2022.

"Thought I had a dick”. “Pensavano che avessi il cazzo”. Esattamente in questi termini Caster Semenya va allo scontro frontale con i vertici dell’atletica leggera mondiale. Li accusa di averla costretta a prendere farmaci che l’hanno “torturata” e l’hanno fatta stare così così male che temeva che avrebbe avuto un infarto. 

In un’intervista esplosiva con HBO Real Sports, la due volte campionessa olimpica degli 800 metri e simbolo degli atleti con differenze nello sviluppo sessuale (DSD) ha affermato che abbassare artificialmente i suoi livelli di testosterone naturale per competere nelle gare femminili è stato “come pugnalarsi con un coltello ogni giorno”.

L’atleta sudafricana ha anche rivelato che quando i dubbi sul suo genere sessuale sono venuti fuori per la prima volta dopo aver vinto il suo primo titolo mondiale a 18 anni, si è offerta di mostrare ai funzionari i suoi genitali per dimostrare di essere una donna. “Pensavano che avessi il cazzo”, ha detto. “E io gli ho risposto ‘sono una femmina. Se vuoi vedere che sono una donna, ti faccio vedere la vagina. Va bene?'”.

Semenya è nata con testicoli interni. Le è stato detto che per continuare a correre nelle gare femminili avrebbe dovuto assumere farmaci per abbassare i suoi livelli naturali di testosterone. “Mi hanno fatto ammalare, mi hanno fatto ingrassare, avevo attacchi di panico, non sapevo se avrei avuto un infarto. È come pugnalarsi con un coltello ogni giorno. Ma non avevo scelta. Avevo 18 anni, volevo correre, volevo arrivare alle Olimpiadi, era l’unica opzione per me”.

Jonathan Taylor, avvocato di World Athletics, ha contestato che i farmaci somministrati a Semenya facessero male. “Jonathan deve tagliarsi la lingua e buttarla via – ha risposto Semenya – Se vuole capire come quella cosa mi ha torturato, li prenda quei farmaci. E capirà”.

Semenya, che ora ha 31 anni, ha assunto i farmaci per diversi anni prima di presentare una causa legale per le gare sulle distanze dai 400 metri al miglio. Dopo i ricorsi infruttuosi presso la Corte Arbitrale dello Sport (TAS) e la Corte Suprema Federale Svizzera, non ha potuto di difendere ai Giochi di Tokyo i titoli olimpici che ha vinto a Londra e Rio. Attualmente è in attesa di un’udienza presso la Corte europea dei diritti dell’uomo e, nel frattempo, ha gareggiato su distanze più lunghe, facendo segnare un personale di 8 minuti e 54 secondi su 3.000 metri a marzo. 

In un feroce post su Twitter giorni dopo ha scritto: “Quindi, secondo World Athletics e i suoi membri, sono un maschio quando si tratta di correre i 400, gli 800m, i 1500 e il miglio. Poi una femmina nei 100, 200 metri e negli eventi a lunga distanza. Che razza di scemenza è?”.

La donna che sfidò la Manica (e gli stereotipi). Davide Bartoccini il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

Una bracciata dopo l'altra, Mercedes Gleitze ha infranto ogni record nel nuoto. Dimostrando - quasi un secolo fa - come le donne non fossere fatte per "starsene buone a casa".

“Il nuoto in mare è una cosa bella, anzi è un’arte", un'arte in cui l’atleta si esercita a “padroneggiare l'elemento più abbondante e più potente della terra: l’acqua”, scriveva dei suoi diari Mercedes Gleitze, campionessa di nuoto e recordman - anche se sarebbe meglio scrivere recordwoman. Nata il 18 di novembre del 1900 a Brighton, Inghilterra, è forse la nuotatrice più famosa del mondo: non soltanto per essere stata il primo essere umano ad attraversare a nuoto lo Stretto di Gibilterra nel 1928 o per essere stata la prima donna ad attraversare a nuoto il canale della Manica nel 1927. Ma per essersi resa tra le prime celebrità sportive di fama internazionale del gentilsesso. Infrangendo, una bracciata dopo l’altra, lo stereotipo della brava donna di “casa”. Quando nuotava, pare si abbandonasse completamente. Nei pomeriggi tiepidi di Londra, trascorsi ad allenarsi su e giù lungo il Tamigi. Come nelle mattine nebbiose che la vedevano calcare la sabbia prima di una competizione. Mattine che l’avrebbero vista infrangere l’ennesimo record. 

Era una sirena dal passo pensante e dal sorriso spontaneo, con occhi chiari e sottili, e capelli cresposi di salsedine. Basta guardare una delle tante foto che finirono sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, per sentirsi travolti dal pathos che deve aver accompagnato quel primo tuffato nel mare a Cap Gris-Nes, a Calais. E che l’ha seguita per l’intera traversata fino a Dover, dall’altra parte del Canale, in Inghilterra. Quindici ore e una dozzina di minuti dopo, gli spettatori che erano accorsi sulle scogliere e sulla battigia, scorsero una donna barcollare trionfante a riva; con la sua cuffia stretta alla testa e il costume intero. Era Mercedes, la dattilografa che era cresciuta nelle valli della Baviera con i nonni paterni, dove mare non ce n'era, che si assicurava un posto nella Storia.

Il nuoto aveva iniziato a praticarlo nel tempo libero. Quando finiva di scrivere a macchina per guadagnarsi da vivere a Londra. Via i tacchi bassi, la camicetta, la gonna lunga che conteneva le gambe possenti. E giù nel fiume. Una bracciata dopo l’altra aveva solcato tutto il Tamigi. Fino a raggiungere il suo primo record significativo: nuotare per 10 ore e 45 minuti consecutive nel 1923. Da lì in poi, la preparazione atletica sempre più intensa e rigorosa, per conquistare traguardi che avevano visto le altre fallire. Prima la Manica, poi la fama mondiale di “primo essere umano” che raggiunge a nuoto l’Africa dall’Europa. Attraversando, una bracciata dopo l’altra, le acque pericolose e stracolme di natanti e nafta dello Stretto di Gibilterra. Le sfide successive? Nuotare lungo la coste dell’Ulster, nel nord dell’Irlanda, e poi ancora in Australia, in Nuova Zelanda e in Sud Africa per stabilire nuovi record di traversata e resistenza. Come la nuotata di 100 miglia intorno all'Isola di Man, o rendersi ancora una volta la prima persona a raggiungere a nuoto Robben Island, l’isola che appare all’orizzonte di Città del Capo, e ritorno.

In un momento storico in cui le celebrità sportive femminile si contavano sulle dita di una mano, Mercedes Gleitze, coniugata Carrey, si cimentò in 50 gare pionieristiche nel nuoto. Dimostrando una tenacia senza eguali, e viaggiando per tutto il mondo quando era idea diffusa che il posto di una donna fosse di fronte al focolare. Attirando folle di ammiratori e curiosi ovunque si tuffasse, e su qualunque spiaggia approdasse; quale generosa e atletica venere botticelliana.

Singolare testimonianza del suo anticonformismo il filmato di un cinegiornale in cui, a termine della cerimonia per le sue nozze nel 1930, annuncia che invece di partire per una romantica luna di miele, partirà per nuotare una nuova sfida nel “mare di Elle”: i Dardanelli. L’ultima sfida sarà quella di estendere il suo record di resistenza a 46 ore. Si ritirerà nel 1932.

Nel corso della sua decennale carriera da nuotatrice professionista, numerosi brand tennero a sponsorizzarla per essere associati ai suoi invidiabili traguardi. Più noto di tutte forse Rolex, casa di orologeria svizzera che nel 1927 le affidò un orologio con la nuova cassa ad “ostrica” che l’avrebbe accompagnata nella sua traversata. Ma ci furono anche marchi come il té Lipton’s e il whisky Paddy . Anche in su questo piano infatti, la Gleitze fu una pioniera. Una “antesignana” anzi. Ben nota per la sua generosità, si impegnò inoltre nella beneficienza fin dai primi successi conseguiti. Usando i premi in denaro per sostentare attività benefiche come la The Mercedes Gleitze Relief in Need Charity, ancora esistente.

Dopo il suo addio al nuoto, Mercedes divenne anche lei una “donna di casa”. Condusse una vita riservata e solitaria, allevando i suoi tre figli senza parlare mai dei suoi vecchi successi con la famiglia. È morta a Londra all'età di 80 anni, il 9 febbraio 1981. C’è un bella favola firmata da Boris Biancheri, forse propio a lei ispirata, dal titolo La Traversata. Racconta di una donna “poco portata alle cose terrestri” e “più adatta a quelle del cielo e del mare”, che accetta la sfida di un giornalista inglese attraversando a nuoto la Manica. Si chiamava Eileen, e pare che l’acqua fosse l’unico luogo dove si sentisse veramente a suo agio. Una volta Mercedes Gleitze, alla domanda “perché non avesse ancora preso marito?”, rispose che non sapeva cosa farsene di “un uomo che le costruiva una bella casa mentre lei desiderava solo l’acqua del mare”. Forse l’animo di queste due donne favolose coincide nell’Iperuranio.

Vittorio Feltri, "perché solo chi è dotato di pisello?", lo schiaffo a Zelensky e femministe. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

La disgustosa guerra divampante in Ucraina, tra le tante cose orrende che ci ha insegnato, ne offre una invece abbastanza curiosa che corregge una convinzione diffusa, ma errata. Mi riferisco alla parità di genere. Io stesso ero arciconvinto che le donne ormai non avessero nulla da invidiare agli uomini: in effetti esse nelle professioni, incluse le più impegnative, eccellono. Penso in particolare al ramo medico e a quello giuridico, nei quali sono addirittura più numerose rispetto ai maschi, il che è normale visto che il numero delle studentesse universitarie supera quello degli studenti. Tra l'altro infuriano polemiche quotidiane promosse dalle femministe più scatenate molte delle quali si battono affinché perfino il linguaggio si adegui ai tempi (non deve distinguere più tra ragazzi e ragazze) e sostengono anche giustamente che esistono le persone ma il loro sesso va dimenticato. A me personalmente non va a genio discutere di queste tematiche un po' bizzarre, mi limito a correggere chi dice che le signore guadagnino meno dei loro compagni. Non è vero. Infatti i contratti di lavoro sono collettivi: gli stipendi sono uguali per tutti, la paga di un giudice o di un insegnante è la stessa per lui come per lei.

Su Libero e altrove ho scritto spesso che pure nei giornali le redattrici sono spesso più abili e complete dei redattori. Pertanto non posso essere accusato di misoginia. Ciò detto, mi sono tardivamente accorto che in guerra ci vanno obbligatoriamente i maschi dai 18 ai 60 anni, succede in Ucraina e in Russia, ed è sempre successo nel mondo intero: le regole non sono ancora cambiate. Se c'è da combattere e da rischiare la pelle lo Stato recluta solo chi è dotato del pisello, mentre le nostre mogli o sorelle sono esentate da entrare nelle battaglie dove ci si scanna e si muore. Si dirà che le consorti debbono stare a casa ad accudire i figli, i quali però hanno anche un papà, che tuttavia può morire ed è pregato di sacrificarsi per la patria, come se questa fosse solo loro e non delle spose.

Ciò dimostra che la parità di genere non esiste o, meglio, esiste in tempo di pace e non in tempo di guerra, quando solo gli uomini sono comandati a farsi massacrare. Ecco perché le femministe militanti davanti ad esigenze belliche se ne guardano bene dal protestare per il diverso trattamento riservato ai maschi e alle loro dolci metà. Quando bisogna andare in ufficio siamo tutti uguali, sia che indossiamo i pantaloni sia che indossiamo la minigonna, quando c'è da recarsi in battaglia ci vadano per forza quei coglioni degli uomini. Se questa è la parità che pretendono le guerriere coi tacchi a spillo non mi garba. L'uguaglianza non può essere parziale e non si può pretendere solo quando fa comodo. 

Scuola, caos in piazza a Roma: gli studenti non vogliono l'alternanza scuola lavoro...

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 marzo 2022.

Che ti faccia ridere, sorridere, o contorcerti dalle risate, al solletico è difficile resistere. Una ricerca dell’Università di Auckland ha scoperto però che quando si tratta di solleticare il piede, le donne sono più sensibili degli uomini. Gli scienziati hanno sviluppato un dispositivo chiamato TickleFoot per valutare i suoi effetti su entrambi sessi: funziona a batterie ed è dotato di piccole spazzole progettate per sollecitare diverse parti del piede. 

«Per prima cosa abbiamo sviluppato un attuatore in grado di creare sensazioni di solletico lungo la pianta del piede utilizzando spazzole magnetiche» ha scritto Don Samitha Elvitigala nello studio pubblicato su ACM Transactions on Computer-Human Interaction. «Poi abbiamo condotto due studi per identificare i punti più delicati della pianta del piede e i modelli di stimolazione che possono provocare risate».

Tredici partecipanti (sette donne e sei uomini) hanno testato il dispositivo per solleticare i piedi, valutando il livello di solletico che hanno sentito in diverse aree su una scala di sette punti. I risultati hanno rivelato che le donne hanno dato un punteggio medio di 5,57, mentre gli uomini hanno dato un punteggio medio di 3,83. 

Le donne in particolare hanno dato il punteggio più alto al solletico al centro dell’arco del piede, mentre gli uomini intorno alle dita. Sulla base dei risultati, i ricercatori hanno sviluppato una soletta flessibile che può essere inserita in qualsiasi scarpa e solleticare l'utente su richiesta.

«Abbiamo incorporato i nostri attuatori in una soletta flessibile, mostrando il potenziale di una soletta indossabile per il solletico», ha aggiunto il team. Ricerche precedenti hanno suggerito che il solletico potrebbe essere utilizzato per alleviare lo stress e la depressione. Uno studio del 2019 indicava addirittura che potrebbe aiutare a rallentare l'invecchiamento.

I ricercatori dell'Università di Leeds avevano scoperto che per gli ultracinquantenni "solleticare" l'orecchio con una piccola corrente elettrica riequilibra il sistema nervoso autonomo, rallentando potenzialmente uno degli effetti dell'invecchiamento. La prima "tickle spa" al mondo è stata aperta in Spagna nel 2011: qui i clienti pagano € 45 per farsi solleticare i piedi con una piuma per un'ora.

Daniele Dell'Orco per ilgiornale.it l'1 marzo 2022. 

Ora sì che Roma ha finalmente cambiato registro. Dopo 5 anni di disastrosa amministrazione targata Virginia Raggi, finalmente un sindaco che si occupa delle priorità: la parità dei sessi nella toponomastica. 

Come ricostruito da Il Tempo, la giunta guidata da Roberto Gualtieri (Pd) ha stabilito che le strade, piazze, parchi e aree pubbliche della Capitale nei prossimi anni saranno intitolate in maniera equa tra uomini e donne. 

Questo perché, studiando i mille dossier dei problemi di Roma, gli assessori alla Cultura e alle Pari opportunità Miguel Gotor e Monica Lucarelli si sono accorti di uno scandalo in piena regola. Tangenti? Disservizi? Assenteismo? Sprechi? Viabilità? No, il "problema" è che su 16.377 toponimi stradali solo il 4% è intitolato a donne. Fanno riferimento a uomini, il 48% mentre un altro 48% è "neutro", ovvero intitolato a luoghi, categorie, popoli e avvenimenti storici. Uno scempio, insomma.

L'obiettivo ambizioso del Campidoglio è quello di riequilibrare la presenza femminile nelle denominazioni dei luoghi pubblici, così da rendere Roma finalmente una "città modello". La toponomastica, nel magico mondo dei politici di sinistra, "può essere un potente strumento per il recupero della memoria storica delle donne che hanno inciso in maniera significativa nella vita della comunità locale, nazionale e internazionale, offrendo in particolare alle giovani generazioni importanti testimonianze che aiutino a superare gli stereotipi di genere che contrassegnano ancora troppo spesso la narrazione della storia", spiegano Gotor e Lucarelli.

Un'iniziativa che coinvolgerà anche le scuole, sollecitata dall'associazione Toponomastica femminile, in vista della festa della donna dell'8 marzo. Una svolta rosa anche per le vie di Roma, insomma, per combattere la "menomazione" subita dalle grandi donne ignorate o sepolte nei meandri della storia senza valorizzazione. Un impegno lodevole, se non fosse che il concetto di "quota" è proprio manchevole di per sé. 

Di grandi profili femminili della scena locale, nazionale e internazionale che meritano onore e conoscenza ce ne sono senza fine, ma basterebbe impegnarsi nel concreto per una azione culturale fatta di pubblicistica, conferenze, convegni, libri cosicché i profili adatti e sottoposti a damnatio memoriae possano essere riscoperti e rivalutati. Un principio che vale per tutti, non solo per uomini o donne. Il solo fatto che qualche dipendente pubblico sia stato messo a scartabellare i registri e contare quanti uomini compaiono sulle vie di Roma rispetto alle donne invece ha dell'incredibile. 

E del resto, se c'è qualcuno che sui social si è persino soffermato sulla drammatica assenza di donne al tavolo di pace tra delegazione russa e ucraina di ieri a Gomel (Bielorussia), allora di davvero incredibile ormai resta ben poco.

Ariete con Letizia Battaglia: fare un’altra rivoluzione. Le lotte, gli amori, le paure due generazioni senza “piano B“. Maria Luisa Agnese e Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022.

La fotografa, quasi 87 anni, e la cantautrice indie, 19. Un’intervista/dialogo che mette a nudo due donne che interpretano il proprio tempo senza sconti. «Arianna, ti voglio più dura». «Ma noi siamo delicati, ci troviamo in mezzo a un campo». 

A destra nella foto Ariete, 19 anni, nome d’arte di Arianna Del Giaccio, durante il servizio fotografico che le ha scattato a Palermo Letizia Battaglia (a sinistra), 87 anni il prossimo 5 marzo. La foto è di Shobha figlia di Letizia Battaglia

Questa intervista doppia è il servizio di copertina del numero di 7 in edicola il 18 febbraio. Ne pubblichiamo l’anticipazione online per i lettori del Corriere

Letizia Battaglia si alza a fatica dalla sedia a rotelle e indica la panchina. «Ammuninne», dice. Arianna Del Giaccio, in arte Ariete, la segue senza fare domande. Letizia le fa spazio: «Toh, vuoi?». Le offre una sigaretta delle sue, «mica quelle cose moderne di plastica». Arianna ne sfila una dal pacchetto, e iniziano a fumare. Quelle che dovrebbero sembrare nonna e nipote al parco paiono due coetanee di un’età imprecisata, fuori da un concerto rock. Letizia ha quasi 87 anni, i capelli rosa, i calzettoni a righe colorati che spuntano sotto la gonna lunga, nera. Arianna di anni ne ha 19, i tatuaggi, un piercing al naso, il cappellino, e indossa un ingombrante giubbotto di pelle. Siamo in piazza Magione, a Palermo, in un parco dedicato a Falcone e Borsellino. Letizia Battaglia, che con i suoi scatti ha raccontato la mafia e gli anni di piombo in Sicilia, fotografa per 7 Ariete, giovane cantautrice indie, cantastorie della Generazione Z, che il 25 febbraio pubblica il suo terzo album, Specchio , prodotto da Bomba Dischi.

Battaglia torna dietro l’obiettivo per un confronto tra due generazioni apparentemente lontane. Ma a guardarle su questa panchina, la distanza non esiste. Tra un tiro di sigaretta e l’altro, spara domande che sembrano graffi, ma Arianna non ha bisogno di difendersi: «Sono felice di parlare con un mito», ci dice.

Letizia: «A me sembrate una generazione senza coraggio».

Arianna/Ariete: «La nostra è una generazione delicata. Siamo nati con le rivoluzioni in corso, con l’euro appena in tasca e Internet appena nato. Quando i miei genitori dicono “ai miei tempi”, io mi arrabbio. Trent’anni fa l’idea di futuro c’era, l’economia dava speranza. Per noi, invece, pensare al futuro è un po’ più difficile, e poi aggiungi il Covid. Ci troviamo nel bel mezzo di un campo, non capiti. È un concetto che ho cercato di raccontare in 18 anni , una canzone dell’album precedente».

Letizia: «Non conosco le tue canzoni, ascolto ancora i Rolling Stones. Che cosa dici in 18 anni ?».

Arianna: « Hai diciott’anni/Non sai dove aggrapparti/Non sai con chi parlare/ Non sai di cosa farti ».

Letizia: «Ma vuoi mettere le nostre lotte? Voi ragazzi avete un concetto di libertà effimero, e nessun progetto per il futuro. La colpa è dei vostri genitori. La mia generazione lavorò moltissimo su sé stessa. Lottavamo. Per cosa lottate voi?»

Arianna: «Abbiamo un pianeta da salvare, anche se in effetti non ne parliamo nelle nostre canzoni. Io racconto di omosessualità. Sai che c’è? Oggi, un giovane pensa prima a come salvarsi le giornate, e poi a salvare quello che ha intorno, può sembrare un discorso egoista. Con i lockdown, molti ragazzi hanno sofferto. Capisco che era necessario chiudere per salvarsi, ma il bonus psicologo sarebbe stato fondamentale».

Letizia: «Ok, però mi sembra sempre che pensiate solo a voi. Non è colpa vostra, posso capirlo. Uno si laurea e non succede niente. Arianna, tu sembri un’eccezione».

Arianna: «I miei sono persone che hanno studiato tanto, papà ha due lauree, fa il giornalista, mamma è una sociologa. Quando dicevo “voglio fare la cantante”, mi rispondevano “studia, pensa al piano B”. A me i piani B non sono mai piaciuti. Se ho il cento per cento di energie e ne metto il sessanta nel piano A e il quaranta a cercare un piano B, il piano A non mi riuscirà mai bene».

ARIANNA/ARIETE: «SCRIVO TESTI D’AMORE IN CUI MI RIVOLGO A UNA RAGAZZA: PRIMA DI ME NON LO FACEVA NESSUNO, È STATO SPONTANEO»

Maria Luisa Agnese: Letizia, se avesse 19 anni oggi cosa farebbe? Lotterebbe come la mia o la sua generazione, o starebbe anche lei bloccata in mezzo al campo?

Letizia: «Amore, non sarei diversa da loro, avrei gli stessi genitori, gli stessi insegnanti. Io a 19 anni ero madre di due figlie, abitavo da sola e credevo nella rivoluzione. Arianna, tu non sei rivoluzionaria».

Arianna: «No, non mi sento rivoluzionaria, mi sembra estremo. Io cerco di dare una mano».

Letizia: «In che modo?»

Arianna: «Spero che con le mie canzoni i miei coetanei si sentano meno soli. Scrivo testi d’amore in cui mi rivolgo a una ragazza, prima di me non lo faceva nessuno, a me è venuto spontaneo. In molti si rivedono in quello che scrivo. È anche uno dei motivi per cui il nuovo album si chiama Specchio : io sono uno specchio per gli altri, e oggi, quando mi guardo allo specchio sono felice».

Letizia: « Ammuninne , Arianna».

Letizia Battaglia con un gesto della mano fa cenno alla figlia Shobha e all’instancabile aiutante Pino, che lei chiama per cognome, di aiutarla a tornare sulla sedia a rotelle. «Pino è l’unico che non comanda a bacchetta», ci racconta Shobha, 67 anni, anche lei fotografa. «Tutti in macchina», ci ordina. Vuole portare Arianna nel quartiere Alberghiera, al Vicolo. «Mica ti fotografo nei quartieri borghesi, voglio le strade del popolo», dice. Arianna la segue, senza fiatare. Palermo è la città di Battaglia, lì è cresciuta, da lì è scappata poi a Milano. In quelle strade, con un passato di impegno politico a sinistra, ha scattato La bambina con il pallone , la famosa foto in bianco e nero che ritrae una bambina davanti a un portone di legno che nella sua innocenza imbronciata ricorda un po’ l’Ariete di oggi. E sempre in quelle strade ha fotografato uno dei momenti più tragici della storia d’Italia.

«Il 6 gennaio 1980, passavo per caso per via Libertà», ci dice. Quella mattina Letizia ha ritratto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella mentre cerca di estrarre il corpo del fratello Piersanti dalla sua auto, ucciso in un delitto politico-mafioso.

LETIZIA: «A 35 ANNI INIZIAI L’ANALISI FREUDIANA CON UNO PSICOLOGO MERAVIGLIOSO CHE HA CAMBIATO LA MIA VITA, FRANCESCO CORRAO. GRAZIE A LUI HO TROVATO IL CORAGGIO DI LASCIARE PALERMO E ANDARE A MILANO»

«Arianna, mettiti davanti a quel muro, che cos’è quel tatuaggio?». «È un coltello, rappresenta la taglienza del mio carattere», risponde la ragazza. «Ah sì? Se sei tagliente ti voglio vedere più dura. Sei troppo dolce, più dura Arianna, più dura».

Greta Privitera: Sia più indulgente, mica siamo tutte come lei. La sua è stata una vita eccezionale.

Letizia: «Mi sono sposata a 16 anni, volevo scappare da mio padre. Mio fratello faceva quello che voleva, io no. Desideravo studiare e mio padre diceva: “Ti sposi, ma a che ti servono i libri?”. Così, il primo uomo che mi ha amata l’ho sposato, abbiamo fatto la fuitina . Gli volevo molto bene, era gradevole e gentile. Ho avuto subito due figlie, poi la terza. A 28 anni l’ho lasciato. Ero ancora in ballo con i miei desideri. Volevo crescere, dare voce alla mia persona».

Greta: Quando la svolta?

Letizia: «A 35 anni iniziai l’analisi freudiana con uno psicologo meraviglioso che ha cambiato la mia vita, Francesco Corrao. Grazie a lui ho trovato il coraggio di lasciare Palermo e andare a Milano. Stavo così male che avevo le crisi di Angor che mi davano un terribile senso di soffocamento e di angoscia; mi ricoverarono in Svizzera. La mia vita è iniziata a 40 anni. A Milano ho continuato a fare la giornalista e ho iniziato a fotografare, un po’ per caso».

Arianna: «La mia fuga è stata meno epica, non sono scappata né da mio padre, né da un marito, solo dal piano B».

Letizia: «Ma sei finita a Prati, mica al Tufello».

Arianna: «Sì, sognavo di vivere in centro a Roma. Sono cresciuta ad Anzio, i miei genitori si sono separati durante la pandemia, prima non ce l’hanno fatta perché mio fratello stava male e il bene comune da proteggere era lui. Mio fratello è nato femmina e ha iniziato la transizione a giugno, oggi è contento di chi è, ma come famiglia abbiamo vissuto momenti difficili. Per lui ho provato un forte senso di colpa: nel 2018 sono stata quattro mesi in Brasile per uno scambio culturale, mio fratello aveva 13 anni, io 16. I miei lavoravano moltissimo, io stavo tanto con lui. Appena sono partita l’hanno ricoverato». 

Maria Luisa: Quindi il senso di colpa vive e lotta anche tra voi della Generazione Z, dopo aver martoriato le nostre?

Arianna: «Dipende, in questo caso l’ho sentito moltissimo, ma in altri ambiti non mi sfiora, tipo nel sesso».

Greta: In effetti, voi giovanissimi parlate di sesso con una libertà che nemmeno noi Millennial conosciamo.

Arianna: «Quando ho avuto le mie prime relazioni, volevo raccontarle a mia madre, lei non voleva sentire, ora è molto più tranquilla. Penso che sia bello sapere che se faccio sesso è perché sono in armonia con il mio corpo e con l’altro corpo. È importante che a scuola si faccia educazione sessuale, oggi i giovani la fanno tramite pagine Instagram dedicate. Per esempio, c’è bisogno di insegnare che il sesso non è pornografia. La storia della cantate Billie Eilish è esemplare: ha raccontato che la pornografia le ha devastato il cervello. Io guardo i porno ma con consapevolezza, so che la vita vera è un’altra cosa».

LETIZIA: «VOGLIO FOTOGRAFARE CHI SEI VERAMENTE. TU COME TI SENTI?» ARIANNA: «È FACILE E DIFFICILE DA DIRE. FORSE MI SENTO TRASPARENTE»

Letizia Battaglia ci porta nel cortile della chiesa di Santa Maria dello Spasimo. C’è un sole magnifico. Lei tira su le maniche della giacca per goderselo sulla pelle. «Mamma per la malattia esce poco ormai, fa fatica», racconta Shobha. Si vede che Letizia combatte contro un corpo che non risponde più come vorrebbe. «È una donna senza età», continua la figlia: ha quasi 87 anni ma è anche una bambina, una saggia, una ragazza nel pieno delle sue forze. «Arianna mettiti al sole che sei bella. La voglio fotografare qui, con questa luce».

Letizia: «Sei fidanzata?»

Arianna: «Sì, con una ragazza».

ARIANNA: «IO VEDO LA FIGURA FEMMINILE ANCORA TANTO IMPAURITA DA QUELLA MASCHILE. ERO IN DIRETTA SU TWITCH, ED È USCITO IL DISCORSO DEI BAGNI NEUTRI... A MOLTE RAGAZZE FA PAURA. IO RARAMENTE MI SENTO IN PERICOLO, MA IN STAZIONE, DA SOLA, ANCH’IO HO PAURA»

Maria Luisa: Letizia, in questo mondo di rapporti più fluidi anche rispetto alla mia generazione sessantottina, i maschi come stanno? Hanno paura delle nuove ragazze?

Letizia: «Prima ci trattavano come oggetti, ora che non ci adeguiamo più alle loro richieste vanno in crisi. Ma in generale è il maschio che continua a gestire il mondo, male. Dobbiamo prendere il coraggio di farlo noi».

Arianna: «Io vedo la figura femminile ancora tanto impaurita da quella maschile. Ero in diretta su Twitch, ed è uscito il discorso dei bagni neutri, bagni per entrambi i sessi o per le persone che non si sentono né maschi, né femmine. La mia ragazza e le mie amiche dicevano che non se la sentirebbero di andare in un bagno per tutti. E facevano il solito esempio: se è sera e siamo in stazione da sole, il bagno per tutti ci fa paura».

Maria Luisa: Tu Arianna hai paura del maschio?

Arianna: «Dipende. Ho avuto anche storie con uomini. Quattro anni fa, ho attraversato un periodo difficile: mi ero lasciata con la mia ex, andavo in discoteca tutte le settimane con vestiti corti, truccata, i capelli lunghi piastrati, e mi è successo diverse volte che i ragazzi mi toccassero, mi portassero in bagno, mi suonassero il clacson per la strada. Ora mi sento bene, sia per come mi vesto che per le persone che frequento. Raramente mi sento in pericolo, ma in stazione, da sola, anche io ho paura».

Letizia: «Arianna, basta, voglio fotografare chi sei veramente, tu come ti senti?». Arianna: «Non è facile da dire. Cioè, è facile ma anche difficile. Forse mi sento trasparente».

Letizia: «Ah sì? Trasparente. Allora ti porto al mare».

Tutti in macchina, di nuovo. Tutti verso la Passeggiata della Marina. Il mare ci sorprende, come sempre. Letizia si guarda intorno, la luce forse non va bene. «Shobha, sono stanca», dice. Siamo lì da cinque minuti e ha già cambiato idea: «Vado a casa, le foto le ho». Non cerchiamo di convincerla perché se c’è una cosa che abbiamo capito è che Letizia fa quello che vuole.

Letizia: «Ciao Arianna, non ti auguro il successo, se arriva bene, ma ti auguro di avere tanto lavoro se il lavoro coincide con la tua passione».

Ariete/Arianna le stringe le mani. «Grazie Letizia, è stato un onore».

Si commuove, è in lacrime. Pino spinge la carrozzina verso la macchina, Letizia, ciglia asciutte, grida: «Shobha, ammuninne ».

Anna Lombardi per "la Repubblica" il 18 febbraio 2022.

Le ragazze vogliono solo divertirsi: un miliardo di volte. Già, quarant' anni dopo il suo successo planetario, il video di Girls Just Want to Have Fun, il singolo di Cyndi Lauper che nel 1983 ne lanciò l'album di debutto She' s so Unusual, entra nell'esclusivo "club dei miliardari" di YouTube superando visualizzazioni a nove zeri.  

Non siamo agli oltre 10 miliardi collezionati da Baby Shark Dance, il tormentone sudcoreano che è il più visto della storia, né ai 4,34 miliardi di Gangnam Style - del sudcoreano (pure lui!) Psy: nel 2012 prima clip musicale a superare l'incredibile soglia. Ma per la reginetta della New Wave, la cantante newyorkese classe 1953, nata nel Queens da padre di origine tedesca e mamma italoamericana, è un riconoscimento importantissimo: la sua è infatti la quinta clip datata anni 80 a entrare nella classifica dove ci sono già Sweet Child O' Mine dei Guns N'Roses, Billie Jean di Michael Jackson, Never Gonna Give You Up di Rick Astley e Take On Me degli A-ha.  

Ma soprattutto la prima dell'epoca in cui nacquero i videoclip che abbia come protagonista una donna. «A rendere ancora attuale quel video è il messaggio femminista», dice Lauper, commentando il suo primo miliardo di visualizzazioni. Il brano, che arrivò ai vertici delle classifiche di 25 Paesi (in hit parade entrarono ben 4 singoli dell'album di debutto), è d'altronde quello che più rappresenta la cantante dagli abiti vintage e dal taglio estremo, nel tempo diventata una fervente attivista dei diritti Lgbtq+: «Volli farne un inno al femminile, edificante e gioioso. Per il video mi assicurai che fossero incluse donne di ogni ceto ed età affinché tutte potessero riconoscersi».  

Certo, non poteva prevedere l'impatto di quel brano - durante la pandemia visto su You-Tube circa 300 mila volte al giorno - sulla cultura pop. Reinterpretato da almeno 30 artisti, trasformato in un film, è diventato uno slogan femminista. "Girls just want to have fun-damental right", le ragazze vogliono solo i loro diritti fondamentali, si leggeva sui cartelli della Women's March del 2017, la protesta delle donne organizzata all'indomani dell'insediamento di Trump.  

E pensare che il testo, scritto nel 1979 da Robert Hazard, era nato come elogio alla promiscuità maschile. Lei ne aveva voluto fare una versione diametralmente opposta per poi rappresentare, nel video realizzato a budget zero, il suo mondo: girando nelle strade del Village dove viveva, affidando a sua madre Catrine Gallo il ruolo della mamma brontolona e al wrestler "Captain" Lou Albano quello del padre messo a tacere proprio con una mossa dello spettacolare sport: ironico simbolo del superamento dei ruoli e della ribellione al patriarcato.  

Più delle radio fu Mtv, il canale all music nato 2 anni prima, ad assicurarne il successo globale. Da allora Lauper ha venduto 50 milioni di dischi, è entrata nella Hall of Fame, sostiene gli adolescenti Lgbtq+ attraverso la fondazione True Colors (dal titolo di un altro suo brano). «Quando realizzammo Girl Just Want to have fun YouTube neanche esisteva» dice. «Che in tanti la cerchino ancora ne dimostra la potenza rivoluzionaria».  

Dagli Stones a Bowie il rock è inclusivo ben prima dei "no gender". Paolo Giordano il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Rapper, influencer e mondo Lgbt arrivano tardi. La musica ha abbattuto le barriere 50 anni fa...

Tutto bene, tutto giusto ma scusate prima non era così? Ora si parla tanto (spesso a sproposito) di «musica inclusiva», rispettosa della libertà di genere e capace di fotografare l'immenso set delle sensibilità umane. I look dei Maneskin sono virali e giustamente applauditi come rottura del manierismo stereotipato. La camicetta trasparente di Blanco nella prima serata di Sanremo è stata celebrata come la disgregazione delle regole di eleganza dello spettacolo maschilista. Ma se si conosce la storia della musica leggera, specialmente del rock e di tutte le sue declinazioni, persino di quelle estreme, non c'è nessuna novità così sensazionale. A parte le eccezioni, che come sempre confermano la regola, la musica popolare non ha mai avuto barriere di genere, anzi: le ha frantumate.

Ora il pubblico se ne accorge e le celebra. Ma prima ne era quasi indifferente oppure riduceva tutto a folclore e a protesta becera. E così tanta parte della critica musicale di allora si guardava bene dall'esaltare la coerente celebrazione delle differenze, tutt'altro. Ovvio ci sono state cadute come quei purtroppo celebri versi di One in a million dei Guns N'Roses («Polizia e negri lontano da me, immigrati e checche non hanno senso per me») che però sono stati rimossi nel 2018. Per il resto il rock è sempre stato (anche) una celebrazione della femminilità mascolina o della virilità femminile. L'iconico abito bianco di Michael Fish che indossava Mick Jagger dei Rolling Stones a Hyde Park nel 1969? Oppure bisogna ricordare gli uno, nessuno, centomila David Bowie che hanno attraversato il rock dell'ultimo mezzo secolo? Pochi altri come lui hanno destrutturato l'idea stessa di identità sessuale precostituita.

E lo hanno fatto non quando si guadagnava qualche milionata di like e il consenso dell'universo mondo, ma quando le pernacchie dei benpensanti erano dietro l'angolo e facevano molto male sia come vendite che come popolarità. Nel 1984, quando uscì il video di I want to break free dei Queen con l'immenso Freddie Mercury in reggicalze mentre passa l'aspirapolvere in casa con gli altri del gruppo in abiti femminili, gli Stati Uniti lo censurarono subito.

Mai si erano viste rockstar vestite da casalinghe, tanto più che le immagini sarebbero state diffuse da Mtv e quegli erano gli anni del Pmrc, il Parents Music Resource Center di Tipper Gore, moglie del democratico Al Gore futuro vicepresidente di Bill Clinton, che aveva come obiettivo quello di «valutare sotto il profilo morale ed educativo il contenuto dei prodotti discografici, in particolare per quanto riguardava i riferimenti sessuali più o meno espliciti che essi veicolavano». Una roba del genere oggi scatenerebbe il fuoco incrociato di stampa e social, tanto più che nel mirino allora finirono pure supermegastar come Prince e Madonna.

Però in quel tempo, complice anche la chiara collocazione politica dell'iniziativa, il Pmrc sembrò soltanto un tentativo di moralizzare una gioventù corrotta dalle droghe e non il desiderio chiaro di dettare un orientamento (anche) sessuale che fosse conforme alle regole.

Insomma, il pop e il rock sono arrivati persino prima del pubblico a scavalcare le barriere e lo hanno fatto senza l'euforia collettiva che in questo momento sembra premiare qualsiasi piccolo segnale anche al di là dell'effettivo rilievo sociale. Come spesso accade, la musica intercetta il cambiamento prima che lo facciano gli influencer e fotografa le urgenze del pubblico con l'implacabile naturalezza che discende dalle note, dalle canzoni, dalla forza del consenso durante i concerti.

Dopo le folate di ambiguità irresistibile lanciate da David Bowie oppure da Marc Bolan dei sottovalutatissimi T-Rex negli anni Settanta, a scardinare le barriere arrivò pure il cosiddetto «hair metal», ovviamente considerato dalla critica e da parte del pubblico come un bubbone folcloristico. Lanciato dalla metà degli anni Ottanta da gruppi come Motley Crue o Poison, era l'annullamento definitivo delle barriere sessuali: musicisti con pizzi e calze a rete che suonavano musica tradizionalmente considerata maschilista, quindi con chitarroni e batterie impertinenti.

Persino maestri dell'hard rock come gli Aerosmith di Steven Tyler e Joe Perry contribuirono ad abbattere le barriere (questa volta stilistiche) suonando il loro classico Walk this way con i Run Dmc, il primo grande esempio di crossover stilistico, razziale e generazionale della storia della musica. In poche parole, era il tempo dell'«inclusività», termine non ancora usato e strausato perché si preferiva «crossover». Ma è perfetto per chiarire il fenomeno. Forse per questo il Pmrc della democraticissima Tipper Gore impazzì. Però il pubblico diventò sempre più grande. E la musica importò definitivamente quel concetto che oggi sembra così innovativo, ossia l'annullamento delle barriere di genere. In realtà è cambiata soprattutto la percezione dei mass media e, di conseguenza, quella del pubblico. Nell'epoca social che azzera il passato, la forza inclusiva di artisti come Maneskin, Blanco, Mahmood o, per fare qualche nome fuori dai nostri confini, di The Weekend o Bruno Mars sembra rivoluzionaria. Ma è soltanto l'evoluzione di una tensione artistica che arriva da lontano e che oggi ha volti nuovi ma la stessa vocazione liberale che aveva mezzo secolo fa. Paolo Giordano

Lucetta Scaraffia per “La Stampa” il 7 febbraio 2022.

Mentre i galli si stanno azzuffando nel pollaio post-quirinalizio, le donne si possono solo leccare le ferite. E ammettere che le uniche vittime veramente bruciate, con nome e cognome, da questa tornata di elezioni, sono state due donne: Maria Elisabetta Alberti Casellati ed Elisabetta Belloni.  

I nomi degli uomini che sono stati via via evocati come possibili candidati sono stati citati infatti con prudenza, e soprattutto è stato loro evitato il massacro delle votazioni - nel caso di Casellati sventurata complice della sua stessa rovina - o quello dei falsi annunci - nel caso di Belloni. Quest' ultima ha dovuto perfino subire l'onta di un tweet di Grillo che, senza neppure dire il suo nome, del resto ormai speso con aria trionfale ovunque, la evocava già vincitrice genericamente come «signora Italia».  

Non è il caso di ricordare che un trattamento simile non è stato riservato a nessun candidato uomo, mentre abbiamo dovuto assistere alla continua ripetizione - soprattutto da parte di Conte e di Salvini - del magico mantra della "donna al Quirinale" con l'aria di dire "noi sì che siamo buoni". 

Sugli eventuali meriti di Belloni non si soffermava nessuno: l'unico suo atout, continuamente sventolato, era di essere una donna, finalmente. Ma per fortuna che non è stata eletta in questo modo! Avrebbe dovuto per sette anni dimostrare continuamente di non essere un trofeo, ma una persona degna della carica, compito ingrato per chiunque. 

Anche se - e pure questo va notato, a proposito di subalternità - non c'è stata nessuna parlamentare di qualche rilievo all'interno dei partiti che abbia protestato contro un simile modo di fare dei loro colleghi maschi. Perfino le poche proteste sono state avanzate da voci maschili.

Finché le donne saranno elette, e scelte per posizioni apicali - come la presidenza del Senato a Casellati - in questo modo, esse non giocheranno mai un vero ruolo nella politica italiana, ma rimarranno figure subalterne, a rimorchio dei leader che di volta in volta le hanno favorite.  

È significativo che, nel nostro paese, per trovare leggi importanti favorevoli alle donne e promosse da una ampia alleanza femminile, dobbiamo ritornare alla Prima repubblica, quando un'alleanza trasversale delle poche donne elette permise l'approvazione delle leggi di assistenza alle lavoratrici madri migliori d'Europa e la liberazione delle donne dall'autorità maritale con il nuovo diritto di famiglia. 

Leggi non ispirate dalle mode ideologiche del tempo, ma dalle reali esigenze delle donne. Oggi invece le elette in Parlamento sembrano capaci di mobilitarsi solo per i femminicidi - che già sono puniti dal nostro codice, per fortuna - inscenando a uso dei media manifestazioni a base di scarpette rosse, ma non si fermano a riflettere sulle difficoltà che incontrano le donne lavoratrici con figli. Difficoltà che non si risolvono semplicemente con gli asili nido, pure indispensabili, ma richiedono cambiamenti culturali e sussidi di altro tipo. 

Giuliano Amato, nell'intervista pubblicata ieri su questo giornale, ha ribadito che per cambiare questa situazione non basta una donna al vertice delle istituzioni, ma ci vuole un cambiamento nella società, dove le donne sono ancora pagate meno degli uomini a parità di mansione e devono vincere mille difficoltà se hanno una famiglia.  

Invece, ribadisce Amato, le donne sono necessarie proprio perché la loro massiccia presenza - se si tratta di donne libere - porta finalmente la politica a "cambiare l'ordine del giorno" con vantaggi per tutto il paese. 

Sono le donne che devono svegliarsi, e impedire la ripetizione di episodi come quello recente a proposito dell'elezione del presidente, episodi che abbassano il loro già quasi inesistente prestigio politico, come stanno facendo, per esempio, le elette in Germania. Il lavoro che attende le donne, in Parlamento, è immenso, e il loro ruolo insostituibile. 

Sarebbe ora che i partiti se lo ricordassero - o meglio, che le donne all'interno dei partiti lo imponessero - al momento di scegliere i candidati - o meglio, le candidate - alle prossime elezioni.  

Giacomo Salvini per “il Fatto quotidiano” - Estratto il 7 febbraio 2022.

…Su Casini invece è proprio il presidente del Consiglio a mettere il veto. Resta il nome di Belloni: Salvini lo fa al premier che accetta, anche se malvolentieri. Il leghista esce dall'incontro con Draghi con la consapevolezza di poter trovare la "quadra" sul capo dei servizi. 

Ma Salvini vuole conoscerla e quindi, tramite i suoi intermediari, le chiede un incontro. Prima è Conte a chiamarla e poi il leader della Lega e il capo del Dis, a quanto risulta al Fatto, si vedono in un appartamento nel centro di Roma.

Convenevoli, qualche cenno alla politica estera ma poi si arriva al dunque: "Potresti essere la candidata di tutti" è la frase con cui si congeda Salvini. Lei dà la sua disponibilità e poi, secondo quanto raccontato ieri dal Corriere, sarebbe stato proprio Draghi a telefonarle per congratularsi visto che l'accordo sembrava fatto. Che ci fosse un patto lo dimostra anche la riunione a tre - Conte, Letta, Salvini - alla Camera delle ore 19.

È tutto fatto. Salvini esce davanti alle telecamere prima dei tg delle 20 e annuncia una "presidente donna in gamba", Conte si felicita per "un'apertura su un presidente donna". Anche Meloni è convinta. Letta è cauto, sa che i primi nemici li ha in casa. E così è: da quel momento Guerini e Di Maio si esprimono contro la candidatura di Belloni, Renzi va in tutte le tv per sparare contro di lei e anche Forza Italia si stacca. Nella notte non basterà l'endorsement di Beppe Grillo: veti e controveti fanno cadere la candidatura di Belloni.

Mirella Serri per “la Stampa” il 6 Febbraio 2022.  

Parafrasando il titolo di un celebre libro di Elsa Morante, la democrazia sarà salvata dalle donne? Potrebbe capitare. Almeno per Giuliano Amato, certo che la presenza delle donne nelle istituzioni «concorra ad aumentare il tasso di democrazia». Approfondiamo questa convinzione con il neoeletto presidente della Corte Costituzionale, nel suo studio al secondo piano di Palazzo della Consulta a Roma. 

Perché le donne sono essenziali per dare nuova linfa alla democrazia?

«Perché cambiano l'ordine del giorno. Quella che oggi per i maschi e per i mezzi di informazione è cronaca separata dalla politica, per le donne diventa un ineludibile compito della stessa politica. La quale non può occuparsi solo di ristori, pur giusti, per i ristoratori ma deve farsi carico di ragazzi abbandonati a se stessi, vittime dei peggiori messaggi dei social, che stuprano le loro compagne di classe o perseguitano i loro compagni più deboli; oppure di genitori che, anziché educare i loro figli alla convivenza, li rendono aggressivi e intolleranti nelle attività comuni. Questo è un grande, urgente, tema politico, di cui ho colto peraltro più di una traccia nel discorso inaugurale del Presidente Mattarella».

Viene da lontano la riflessione sul mondo femminile del Dottor Sottile, come è stato ribattezzato Amato per la perizia con cui tira di fioretto e maneggia il diritto costituzionale. Ne ha accennato anche nella conferenza stampa seguita alla sua elezione, la scorsa settimana. E il due volte presidente del Consiglio non ha avuto remore nel denunciare che la parità dei generi è ancora un miraggio per l'Italia. 

Presidente, aspettavamo da anni la nomina di un capo del governo donna o di una donna al Colle e nessuna delle due si è realizzata. Cosa possiamo fare per non incontrare il "soffitto di cristallo" e far salire più donne ai vertici?

«Il posizionamento delle donne nei ruoli apicali è condizionato dalla cooptazione maschilista. Le donne cercano di conquistare le vette. Ma più si sale e più c'è il collo di bottiglia. Il passaggio si fa stretto e l'aggregazione maschile finisce per prevalere. Un atteggiamento che è difficile combattere a colpi di leggi.

Potremmo istituire, sempre tramite una normativa, l'alternanza dei genders. Ma sarebbe offensivo per le donne designate non in base al merito. Io, però, mi porrei anche un'altra domanda: basta una donna al vertice delle istituzioni per garantire l'emancipazione e l'uguaglianza delle altre donne? Il Pakistan è stato governato da Benazir Bhutto e adesso ospita i genitori pakistani, che hanno cercato rifugio nel loro Paese, di una ragazzina uccisa perché rifiutava il matrimonio combinato. Indira Gandhi è stata primo ministro in India dove le bambine vengono stuprate e buttate via dopo la violenza. Il Bangladesh ha la presidente del Consiglio più longeva del mondo, Sheikh Hasina. Dunque, la presenza delle donne concorre ad aumentare il tasso di democrazia, ma non necessariamente la garantisce».

Che cosa deve fare la politica italiana?

«L'aspetta un importante compito. Non basta fare le leggi perché se la legge, anche buona, arriva prima che ne siano convinti i cittadini, allora accade che venga disattesa e che like e tweet spingano la politica in direzione opposta. La politica, invece, deve avere una visione, una progettualità, in base alla quale deve tornare a interloquire direttamente con le persone e deve essere capace di contrastarne le opinioni per far valere il proprio progetto. Nella storia della sinistra, sui temi della famiglia il Pci a volte è stato più conservatore del Psi.

Però la politica degli anni Settanta-Ottanta ha contribuito a innovare la società italiana. Quando ero un giovane socialista impegnato nella campagna per il divorzio, andavo nelle sezioni a spiegare che se l'amore era finito e c'era solo il litigio era meglio imboccare la strada della separazione. I più anziani mi rispondevano perplessi: "Queste donne esagerano!". Discutevo con loro e cercavo di spiegare che la donna non era una proprietà personale del maschio. Aveva cominciato a dirlo, molti anni prima, una donna, Anna Kuliscioff, spesso in contrasto con il suo compagno di vita e di militanza Filippo Turati. 

Quando il diritto di voto venne finalmente riconosciuto anche ai non abbienti, ma solo ai maschi che avessero fatto il soldato, Anna disse: "Le donne non fanno il soldato, ma fanno i soldati"». 

Le donne che hanno lavorato al suo fianco, come le ex ministre Fernanda Contri e Linda Lanzillotta, le riconoscono di averle sostenute o addirittura di averle sollecitate ad affrontare l'agone. Da dove nasce questo suo rapporto positivo con il mondo femminile?

«Ho cominciato a percepire gli effetti della disparità davanti all'evidenza che ne avevo nella mia stessa vita privata. La ragazza che ho frequentato fin da quando avevo 14 anni, la mia attuale moglie Diana Vincenzi, con cui studiavo al liceo e poi all'università, nel percorso professionale è rimasta penalizzata. Il nostro comune professore mi diceva "Diana è più intelligente e farà più strada di te". Invece dopo la nascita dei figli, per consentire a me di andare a insegnare prima a Modena, poi a Perugia e a Firenze, lei è rimasta indietro. Solo dopo che fui chiamato a Roma, lei ha potuto muoversi e fare la sua carriera, mentre io mi occupavo di più della casa».

Ma quando e come ha sentito l'urgenza della questione femminile?

 «Sono stati gli occhi di mia figlia bambina, curiosi, indagatori, appassionati, che, mentre studiava, mi comunicavano questo interrogativo: "Ora che ho capito, potrò fare quello che desidero?". E io pensavo: chi le toglierà questa fiducia? Chi le darà la prima delusione?». 

Lei, invece, ha dato fiducia alle donne che hanno lavorato con lei

«Ho dato fiducia perché sono convinto che poste ai vertici degli apparati sappiano trasmettere la loro autorevolezza molto meglio dei maschi. L'attuale direttrice del Dis, Elisabetta Belloni - è solo un esempio tra i tanti - corrisponde in maniera egregia a questa mia convinzione».

Le donne in Italia sono indietro anche nel mondo del lavoro. La pandemia ha contribuito ad ampliare il divario nelle retribuzioni e nell'occupazione. Cosa si può fare?

«Proprio in questi giorni è arrivata la notizia, positiva, che il numero dei posti di lavoro stia lievitando. Resta però il problema che le donne continuano ad essere pagate meno degli uomini, mentre la Costituzione impone, a parità di lavoro, parità di retribuzione. La Costituzione, non una legge qualunque».

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 22 gennaio 2022.

Chi di nudo colpisce, di nudo perisce: l'ultima conquista della parità tra i sessi è il nudo frontale maschile. Dopo anni di donne oggetto, seni al vento e scene bollenti, tocca agli uomini calarsi le mutande a favore di telecamera. 

L'ultimo nudo integrale, nonché il più clamoroso, arriverà a breve e ha un nome e un cognome che non possono passare inosservati: Bradley Cooper. Il sex symbol del momento (A star is born, Una notte da leoni) apparirà come mamma l'ha fatto nel film Nightmare Alley, a fine mese nelle sale. Il che, onestamente, ci dispiace fino a un certo punto...

Se però silenziamo gli ormoni, mettendoli in "modalità aereo", capiamo che qualcosa non torna. Per anni le donne si sono giustamente battute per il proprio pudore: la celebre frase «questa scena di nudo non è gratuita, perché è al servizio della storia» rientra tra le scuse più epiche della Terra. 

Così come quando ti vengono a dire che in quel momento stai solo interpretando un ruolo: «Mia cara, non sei tu a spogliarti e fare sesso, ma il tuo personaggio». Come no.

Giustamente le femministe si sono opposte, hanno fatto un casotto che metà ne bastava e, oggi, i registi ci pensano almeno un paio di volte prima di chiedere a una donna di spogliarsi. Il rischio di essere accusati di molestie o anche solo di cattivo gusto è dietro l'angolo. Ripiegare sugli uomini non ci sembra però la scelta ideale.

Certo: è una meravigliosa vendetta, servita fredda dal karma. Spesso è anche un bel vedere (memento Cooper di cui sopra) ma un comportamento non smette di essere sbagliato solo se si cambia l'oggetto della sua azione. Non a caso lo stesso Cooper ha ammesso di non aver accettato a cuor leggero di girare quelle scene: «La decisione è stata frutto di una lunga trattativa tra me e il regista Guillermo Del Toro», ha spiegato all'Hollywood Reporter.

Tra l'altro l'attore non serba un fantastico ricordo di quell'esperienza: «Per sei ore sono rimasto nudo, con attorno la troupe che mi guardava». A questo punto le donne oggetto penseranno: «Benvenuto nel nostro mondo: ora capisci cosa si prova a essere trattate così?» ma, ribadiamo, perpetrare negli altri ciò che si è subito non ci rende migliori dei nostri carnefici. Anzi. Tuttavia è questo il trend: in mancanza di donne discinte, i registi (sia uomini che donne) ripiegano sui maschi-oggetto di cui Cooper è solo l'ultimo della lista.

In Il potere del cane, la regista Jane Campion ha chiesto un bel nudo frontale a Benedict Cumberbatch mentre all'ultimo festival di Cannes Simon Rex ha scaldato gli animi della platea con il nudo frontale in Red Rocket. Di nuovo: nulla di gratuito perché le scene con i genitali al vento erano giustificate dalla storia. Rex interpreta infatti Mikey, un ex divo del porno che abbandona LA per tornare a vivere nel suo paese di origine, in Texas.

E ancora: quest' estate tutti hanno parlato del pene spuntato, all'improvviso, in una sequenza di The suicide Squad. Il "proprietario" è Weasel: un personaggio un tantino squinternato, dalle pulsioni assassine. Di recente, inoltre, su Netflix ha tenuto banco il nudo di Adam Demons nella serie Sex/life. Anche Amazon non ha voluto essere da meno: nel thriller The Voyeurs il fisicato attore Ben Hardy (Bohemian Rhapsody) sfodera un, seppur fugace, nudo frontale. Infine il modello americano Ansel Wolf Pierce si è trovato costretto ad assicurare di «non aver usato nessuna protesi» nella seconda stagione di Euphoria: «Quello ero io».

Il nuovo saggio di Sandra Petrignani. “Leggere gli uomini”, un viaggio nell’alterità dei sessi che fa riflettere. Eduardo Savarese su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

In diverse occasioni istituzionali (la giornata per le vittime dell’omotransfobia o quella contro la violenza sulle donne) mi è capitato di recente di dismettere i panni del giurista per ricordare a me stesso e ai presenti che, per far comprendere l’anima di alcune fondamentali rivendicazioni, nulla è efficace quanto raccontare storie, mettere in scena la rappresentazione dell’esperienza umana specifica e irripetibile.

Il tanto rumore sollevato negli ultimi mesi intorno al ddl Zan, ad esempio, è stato accompagnato da una strutturale incapacità di empatia, che è la chiave principale, se non la chiave, della conoscenza. Un paradigma comunicativo esemplare, per efficacia e sapienza, è in questo senso l’ultimo libro di Sandra Petrignani, Leggere gli uomini (Laterza). Libro profondamente politico e, allo stesso tempo, portatore di grande, liberatoria leggerezza spirituale. L’autrice chiama a raccolta importanti autori del passato più lontano e prossimo (il libro si chiude con Daniele Del Giudice) per dare atto del loro peso sulla sua formazione di lettrice e poi artista della scrittura, da un lato, e per indagare le specifiche ossessioni del mondo maschile dalla prospettiva dello sguardo femminile, dall’altro.

Evidente, allora, quanto il discorso identitario sia forte: è dalla consapevolezza della differenza che deriva l’apertura all’alterità, è dal riconoscimento di certe “ricorrenze del pensiero” da maschi che prendono forma ora la contrapposizione, ora il rifiuto, ora l’accettazione, ora la compassione da parte degli occhi diversi della “lettrice femmina”. Ma qui non è più questione di definire, rivendicare, pretendere: queste sono pagine di intima, totale, pacificata ma dinamicissima consapevolezza della diversità tra maschile e femminile (naturale, storica, metafisica che sia!), dentro un gioco incandescente che arriva alla fine a “contemplare in pace la bellezza del mondo (letterario)”. E in questa contemplazione lo sguardo della donna osserva lo sguardo dell’uomo sulla donna (quello che in Flaubert paradigmaticamente giunge a pronunciare “Madame Bovary c’est moi”).

Per arrivare a una conclusione che sancisce definitivamente quell’irriducibile differenziazione tra uomo e donna: «Un uomo non ha bisogno di definirsi attraverso l’altro femminile: lui è la misura di tutto (…)»; per tributare alla lettrice donna la capacità di un «doppio passo per riconoscersi nei pensieri, nella sofferenza, nelle idee di uomini dentro personaggi di uomini, ma chiamate in causa direttamente come eroine magnifiche quanto deprezzate, vittime di se stesse e di un sistema che le ha volute e condizionate così». Per realizzare la tessitura di un libro che volge e riavvolge fili, ma anche li svolge e li sparge come migliaia di minutissime sottotrame incompiute affidate ai ferri del lettore, Petrignani ricompone un mosaico di brani e citazioni degli autori più amati o di quelli che per ragioni insondabili sono arrivati sulla sua pagina, inaspettati, magari non voluti, eppure saggiamente accolti: come se entrassimo nella sua libreria (di oggi, ma anche di ieri, di lei bambina che ascolta dalla voce paterna gli intrighi dei tre moschettieri) e le pagine fossero sospese tutt’intorno, e le mani dell’autrice prendessero, come ingredienti dai vasi di una cucina o di una farmacia, quanto serve a mettersi in cammino e a gettare una luce per noi che, leggendo, seguiremo la strada tracciata, con le sue fermate.

Quella delle avventure in giro per il mondo e lungo la storia (Kipling o Dumas). Quella dell’innamoramento fisico, oltre che intellettuale, per uno scrittore: sono un rigoglio di passione e di desiderio di comunione col lettore le pagine dedicate a Beckett («Niente è posa in Beckett. Solo essenzialità, solo nobiltà, autenticità, decoro nell’estrema vulnerabilità dell’essere scrittore, e scrittore del silenzio in contraddizione col bisogno ineliminabile della parola»: segue una citazione dall’Innominabile che pare un esercizio spirituale e come tale lascia svuotati tranne che per un residuo di felicità perplessa). Vi sono poi le stazioni dedicate all’orrore del tempo che passa e alla paura della morte, con l’ansia connessa di lasciare traccia di sé, forse perché il maschio potrà essere padre, ma mai generare dalla sua carne la vita: «Almeno io così mi spiego l’ansia invasiva e totalizzante dell’animo maschile su alcune idee maiuscole, la fissazione senza pace su certi temi: il Tempo, la Morte, il Doppio, il Gioco, la Guerra, l’Eroismo»).

Come pure la difficoltà, addirittura l’odio tutto maschile di parlare di sé (a memoria andrebbe imparato il capitolo “Parlami di te”!). A me, lettore “maschio” omosessuale, questo libro per certi versi approfondisce, per altri alleggerisce il mio senso di nostalgia per il corpo e lo sguardo femminili: nel suo amorevole cammino identitario, la sua consegna finale è che, leggendo, incrociamo e accogliamo l’anima di chi scrive. Ed è a noi che la Petrignani affida, appassionatamente, quella luce “che brilla da lontano, lontanissimo, addirittura del 1871 quando Arthur Rimbaud (…) scrive: ‘Io è un altro’”. Eduardo Savarese

·        I LGBTQIA+.

Colorado, spari in una discoteca Lgbt: almeno 5 morti. Biden: "Non dobbiamo tollerare l'odio". La Repubblica il 20 Novembre 2022.

Fermato un sospetto, anche lui tra i 18 feriti. Non si conoscono le cause dell'attacco

Cinque persone sono state uccise in una sparatoria in un discoteca gay, Club Q, a Colorado Springs. Lo ha annunciato la polizia, secondo quanto riferisce la Cnn. Altre 18 persone sono rimaste ferite. Fermato un sospetto, anche lui rimasto ferito.

"La violenza delle armi da fuoco continua ad avere un impatto devastante sulle comunità Lgbtqi+ nel nostro Paese e le minacce di violenza stanno aumentando. Dobbiamo eliminare le ineguaglianze che contribuiscono alla violenza contro le persone Lgbtqi+", ha detto il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, dopo la strage in Colorado, rilanciando la necessità di bandire le armi d'assalto. "Non possiamo e non dobbiamo tollerare l'odio", ha aggiunto.

In una dichiarazione pubblicata sui social media i responsabili del locale Club Q hanno reso noto che l'aggressore è stato fermato dagli stessi avventori del locale: "Ringraziamo la veloce reazione di clienti eroici che hanno immobilizzato l'uomo armato e messo fine a questo attacco d'odio", si legge nella dichiarazione in cui i proprietari della discoteca si dicono "devastati da questo attacco senza senso contro la nostra comunità" e offrono le condoglianze ai familiari delle vittime.

La pista del crimine d'odio è quella su cui sta indagando la polizia in cerca di un movente. Intanto l'aggressore, che con un fucile ha sparato e ha ucciso 5 persone, è stato identificato nel 22enne Anderson Lee Aldrich, ora in arresto e ricoverato in ospedale per curare le ferite riportate durante l'assalto. Due avventori del locale, infatti, lo hanno affrontato e immobilizzato, fermando la sparatoria.

Il nonno del 22enne è un ex rappresentante repubblicano dell'Assemblea della California, Randy Voepel. La notizia è circolata sui media, che hanno scandagliato la vita del giovane. Randy Voepel si fece conoscere nel 2021 quando paragonò l'assalto del 6 gennaio a Capitol Hill da parte di sostenitori di Donald Trump alla battaglia di Lexington, considerata l'inizio ufficiale della guerra d'indipendenza americana tra la Gran Bretagna e le colonie. Per questo, alcuni ne chiesero l'espulsione dall'Assemblea della California.

Non è la prima volta che il giovane Aldrich viene accusato di un crimine: era già stato arrestato con l'accusa di aver minacciato la madre, Laura Voepel, con una bomba artigiale, ma la polizia non ha voluto commentare il fatto durante la conferenza stampa dopo l'assalto alla discoteca.

Nicola Baroni per “la Repubblica” il 27 Ottobre 2022.  

Fanno almeno tre viaggi all'anno, spendono molto e le loro mete preferite sono Parigi, New York e Londra. In Italia preferiscono Roma e Milano, con Firenze al terzo posto ma molto staccata. È l'identikit del viaggiatore Lgbtq+.

Tour operator e agenzie di viaggi, responsabili di grandi catene alberghiere, ma anche di hotel a conduzione familiare da tutto il mondo si sono incontrati a Milano per confrontarsi con il turismo arcobaleno; quello della comunità Lgbtq+, che - sono i dati di uno studio dell'Università Bocconi sul settore - ama viaggiare e lo fa senza badare troppo a spese. 

Così ieri è cominciata la convention internazionale sul turismo Lgbtq+. È la prima volta che si tiene in Italia, la terza in Europa. E con 547 partecipanti da 39 Paesi, l'appuntamento milanese è il secondo più grande dopo quello del 2019 a New York. A farla da padroni, tra gli espositori di questa fiera per addetti ai lavori, sono gli operatori statunitensi, seguiti da quelli italiani (22%). 

«Questo dimostra l'interesse delle aziende italiane e forse dovrebbe smuovere i dubbi della politica», sferza Alessio Virgili, presidente dell'Aitgl (Associazione Italiana Turismo Gay e Lesbico). Ma non tutti hanno capito il mercato: alla convention ci sono solo due enti turistici regionali italiani, Toscana e Puglia.

Eppure il turismo Lgbtq+ - che in Italia vale 2,7 miliardi, in Europa 75 - è un mercato che fa gola a molti. I mille viaggiatori Lgbtq+ intervistati per lo studio Bocconi spendono in media 2.200 dollari a testa e fanno 2,8 viaggi l'anno. «La nostra associazione è tra le poche in Europa che promuove questo segmento di mercato», spiega Virgili.

Tutti qui sanno che il turismo Lgbtq+ va di pari passo con il riconoscimento dei diritti. «Attraverso la leva economica dobbiamo spingere su quelli. Anche perché nella scelta delle destinazioni pesano politiche e senso di accoglienza, che passa dalla reputazione di un Paese».

Proprio quella che qualche operatore vede a rischio oggi in Italia: «Speriamo il nuovo governo non torni indietro sui diritti e le scelte economiche. Tra i partner internazionali la percezione non è positiva».

Anche per un operatore turistico non basta però dichiararsi "gay-friendly": servono formazione e comunicazione adeguata. Il rischio altrimenti è di attrarre una clientela Lgbtq+ senza avere personale preparato: bastano un sorriso o una frase fuori posto per deludere le aspettative. 

Oggi ci sono molte famiglie arcobaleno e non saperle accogliere, a partire dal controllo passaporti, crea imbarazzi che non lasciano un buon ricordo. Per questo l'Aitgl ha creato un protocollo per certificare ufficialmente la cultura dell'accoglienza di un'azienda.

La convention è anche un modo per presentare l'Italia come destinazione gay-friendly. «Questo tipo di turismo è molto interessato alla cultura, e gli operatori cercano proposte su misura, per esempio visite guidate con focus su storie Lgbt dell'antichità, di cui l'Italia è piena», spiega Giovanna Ceccherini di Quiiky Travel, che ai turisti nei Musei Vaticani racconta della passione tra l'imperatore Adriano e Antinoo, dei baci gay nascosti nel Giudizio Universale di Michelangelo e degli amori di Leonardo da Vinci.

Non si tratta quindi solo di saper accogliere ma di valorizzare la nostra tradizione - Lgbtq+ e non. «La difficoltà è anche questa», racconta Virgili. «Un giorno al Gay Village di Roma incontrai Gianni Alemanno, allora sindaco, e gli proposi di organizzare la Convention nella Capitale. Lui accettò entusiasta. Il suo assessore, mi accolse nell'ufficio sui Fori, aprì le finestre, e disse: "Guarda, non serve fare promozione, con tutto questo i turisti vengono da soli"». 

Putin: “Gender e parate gay? L’Occidente non può imporci i suoi valori”. Per il presidente russo, l'Occidente si comporta come i nazisti: vuole mettere al bando la cultura russa. Ma "il suo dominio volge al termine". Il Dubbio il 27 ottobre 2022.

«I nazisti hanno bruciato i libri, e in occidente ora hanno censurato Dostoyevsky e Tchaikovsky». Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin nel suo discorso al Valdai Forum, come riporta Ria Novosti.

Quello che il mondo sta affrontando è il decennio più pericoloso dalla seconda guerra mondiale. Un decennio «cruciale» e «pericoloso», ha detto Putin, affermando che «il dominio dell’Occidente, che è disunito, sta volgendo al termine». «Dietro la loro arroganza, alcuni Paesi europei non si accorgono che loro stessi sono già diventati vassalli, spesso senza diritto di voto», ha sottolineato il presidente russo. 

Ma la Russia – dice – non vuole essere nemica dell’Occidente. «Abbiamo cercato di stabilire dei rapporti con i principali Paesi dell’Occidente, con la Nato, con un unico appello: smettiamo di essere nemici», spiega Putin, evidenziando che il desiderio «era sempre sincero». «Nelle attuali condizioni di duro conflitto, dirò direttamente alcune cose: la Russia, essendo una civiltà indipendente, non si è mai considerata e non si considera un nemico dell’Occidente. L’americo fobia, l’anglofobia, la francofobia, la germanofobia sono forme di razzismo analoghe alla russofobia e all’antisemitismo, come qualsiasi manifestazione di xenofobia». 

L’Occidente usa le sanzioni economiche per fare finire le «rivoluzione colorate», come è successo con la rivoluzione arancione in Ucraina. «L’Occidente impone sanzioni contro coloro che non vogliono essere sotto il loro controllo», prosegue Putin aggiungendo che «la Russia non cerca l’egemonia. La Russia non sfida l’Occidente, cerca solo di riservarsi il diritto di svilupparsi». «L’Occidente può introdurre valori “strani”, come quelle sul genere e le parate gay, ma non ha il diritto di pretendere lo stesso dagli altri. Se le élite occidentali credono di poter instillare nelle menti della loro gente, delle loro società, tendenze strane, come dozzine di generi e le parate del Gay pride, così sia, facciano quello che vogliono. Ma sicuramente non è giusto che gli altri seguano la stessa direzione».

Dal “Venerdì di Repubblica” il 2 agosto 2022.

LETTERA

Non si capisce il composito mondo LGBTQIA+ se non si considera la chiusura finale (il +) di questo inflazionato acronimo, espressione del bisogno umano di catalogare per oggettivare la realtà.

Quel + indica le varie possibilità di esprimere la propria sessualità individuali, possibilità che sono miliardi, perché ciascuno di noi è un microcosmo inserito nel contesto sociale di cui fa parte. Il mistero per voi "diversi" (cis - sic!) sta nel fatto che diversamente da coloro che rientrano in quella sigla, accettate inconsciamente lo "status quo", mentre noi, sfacciatamente diversi (se non ci nascondiamo, soprattutto a noi stessi), altrettanto più o meno inconsciamente NON lo facciamo.

La mente ci suggerisce di adattarci al diktat sociale (come fanno più o meno tutti) ma il corpo, nella sua incompresa e infinita sapienza ci impone "no grazie, non ci sto". Perché siamo mosche cocchiere incapaci di adattarci allo schema binario fallocratico che si è probabilmente instaurato in tempi molto lontani e per noi avvolti nella nebbia (Héritier). 

Quando, osservando le due tipologie umane (maschio più alto e forte) e la loro fisiologia, i nostri lontani antenati hanno instaurato categorie come debole e forte, attivo e passivo, che il linguaggio ha poi cristallizzato assegnando nomi declinati al maschile e al femminile alle cose e agli eventi che li circondavano, li meravigliavano o li impaurivano.

Da qui la primazia del fallo, secondo la compianta e scomoda a tutti Ida Magli, è stato il costruttore sociale il quale ha imposto il modello binario che sorregge le molteplici culture mondiali, rafforzando il diktat biologico che impone a tutti i viventi la loro riproduzione. Due ruoli distinti: il maschio costruttore culturale e la donna relegata alla funzione riproduttiva e sottomessa alla potenza del fallo, sia durante l'atto sessuale, sia nella vita di tutti i giorni...Franco Viviani

RISPOSTA DI NATALIA ASPESI:

I puntini vogliono dire che la sua lettera continua infinita, e ne ho pubblicato una piccola parte, riservandomi, se lei lo consente, di proseguire in seguito. Non ho letto nulla di Françoise Héritier allieva di Lévi-Strauss, né altro sul tema che le sta a cuore, e quindi le chiedo scusa di essere sempliciotta nei miei pensieri, stando naturalmente dalla parte di tutte le sigle dell'acronimo e oltre, ma anche di chi per viltà o piacere o ignoranza o istinto, o quel che vuole lei, si è adagiato su ciò che è scritto sull'atto di nascita e non si trova neanche male.

Penso che sin dalla nostra antenata Lucy il sesso non sia stato solo binario, che in ogni società, in ogni epoca, il modo di esprimere la sessualità sia stato molteplice (le ricordo per onestà Padre Padrone): penso che la segretezza, un tempo necessaria per non essere messi al bando o peggio, facesse parte anche di una emozione, del piacere, dell'orgoglio; oggi invece, per tutto, si pretende la visibilità, la classificazione, l'applauso, la legalità.

Non vorrei essere villana, ma mi pare che social, pubblicità, giornali, cinema, fiction, politica, arte, moda, non si occupino che degli acronimi, e che a essere fuori moda, di troppo, come i personaggi dei film in bianco e nero, siano ormai le coppie etero. Quanto al fallo, che ogni civiltà ha riprodotto come segno di potere e persino di culto, mi pare oggi abbia problemi suoi di cui accennare un'altra volta.

·        Comandano Loro.

Storia delle nazioni guidate al femminile. Emanuele Beluffi su CULTURAIDENTITA’ il 25 Ottobre 2022.

Non c’è Ursula von der Leyen che tenga, il vero potere femminile, a cavallo dello spazio e del tempo, lo ha avuto lei, Lisistrata, che nel pieno della guerra del Peloponneso convince le donne di Atene a fare lo sciopero del sesso: occupano l’Acropoli, gli uomini mollano la battaglia e tornano a casa, da allora è “colei che scioglie gli eserciti”, altro che la von der Leyen ministro della Difesa di Angela Merkel. E ci vien da aggiungere che forse quel famoso detto sulla minor forza di un carro di buoi vien da lì, con le ateniesi che incrociano le gambe e ottengono quello che né commissari né araldi riescono a ottenere: forse ci vorrebbe una Lisistrata anche oggi, nel pieno di una guerra in mezzo all’Europa.

Ma da Lisistrata a von der Leyen il passo non è breve e, contrariamente alla vulgata femminista di quegli anni che per Mario Capanna sono stati formidabili, le streghe non sono mai andate via (anche perché ci son sempre stati gli stregoni, ça va sans dire), pur se sicuramente sottodimensionate a livello numerico rispetto all’altra metà del potere. La Storia è lì a dircelo, forse il vero potere è Donna, pensate solo a quante donne hanno condotto una Nazione dalla fine del secolo scorso: tante, anche là dove meno te l’aspetti. Ma la prima, o certamente la più nota fra le prime, è Nefertiti, epoca degli antichi Egizi, regnante bellissima che condivide il potere politico e religioso con il faraone Akhenaton suo consorte per poi detenerlo in toto dopo la sua dipartita: non scioglie nessun esercito però rivoluziona lo scenario religioso introducendo il culto del Sole, dici poco.

Nell’antica Roma Messalina, bella come Nefertiti ma più ”capricciosa”, a 16 anni diventa imperatrice: non si fa mancare nulla soprattutto a livello di piaceri della carne, i letterati latini la definiscono meretrix augusta e, quanto a crudeltà e lussuria, forse poco le manca per essere la progenitrice di Erzsébet Báthory, la “Contessa Dracula”. Tutto il contrario di Drusilla, moglie fedele di Ottaviano Augusto e sua consigliera politica, praticamente un Luigi Bisignani in gonnella ante litteram: sussurra ai potenti ed esercita il vero potere, quello che non si vede. Nel IV secolo dominano il campo Pulcheria imperatrice dell’impero romano d’Oriente e Galla Placidia della parte occidentale dell’impero, governano la prima in nome del fratello Teodosio II e la seconda per conto del figlio Valentiniano III.

Ma è con Amalasunta, regina degli Ostrogoti, che assistiamo a un viraggio “maschile” dell’esercizio del potere: condottiera contro gli eserciti, che a differenza di Lisitrata non li scioglie ma li sgomina, diplomatica, di lei lo storico e politico Cassiodoro, consigliere e ministro nella reggenza del regno, dice che ha qualità maschili, mentre lo storico bizantino Procopio di Cesarea ce la descrive come una donna che “tenne il comando con saggezza e giustizia, dimostrando nei fatti un temperamento mascolino” (Guerra gotica, V 2, 2-3). Un modello, questo dell’esercizio del potere da parte delle donne senza se e senza ma, che ritroviamo, sulla scena politica europea dalla metà del Settecento, con donne accomunate dalla volontà di imporsi e di trasformare la realtà, al punto che con un po’ di libertà filologica potremmo dire che con loro inizia la nicciana volontà di potenza applicata al potere concreto: in Russia Caterina II, in Austria Maria Teresa, in Francia la marchesa di Pompadour, donne che hanno comandato il loro mondo con un’attitudine e una fortezza che ritroviamo nel nostro, di mondo. Aderiscono ai propri ideali con strenuo impegno e attitudini al comando tipicamente “maschili” che ritroviamo, per arrivare più vicino a noi, in Golda Meir: di lei Ben Gurion dice che «è l’unico vero uomo nel mio governo» e di fatto diventa Primo Ministro di Israele dal 1969 al 1974, unica donna nella Storia del Paese.

Impossibile anche non pensare a Indira Gandhi, Primo Ministro e leader del Congresso Nazionale Indiano a 49 anni, antesignana di quello che avremmo chiamato “compromesso storico”: governa per 11 anni, armonizza le anime contrapposte dei conservatori e dei riformisti, ha grinta e passione, che tuttavia non bastano per evitarle l’agguato mortale nel 1980, quando due delle sue guardie la uccidono alla fine di un comizio. Una fine cui ai giorni nostri è andata molto vicino un’altra donna di governo, Cristina Kirchner, Presidente dell’Argentina dal 2007 al 2015 (due mandati dopo quello del marito Nestor), scampata a un attentato a Buenos Aires lo scorso 2 settembre: una “iron Lady” come la “Lady di ferro” inglese, Margaret Thatcher, con cui non corre buon sangue a causa delle Isole Falkland. Sempre state “ai ferri corti” le due donne di governo, da quel 1982 quando il Regno Unito vince lo scontro con l’Argentina, che sulle Malvinas rivendica la sovranità. Margaret Thatcher si riprende le Falkland e crea un metodo di governare amato e odiato, il “thatcherismo”, al quale variamente si ispirano i suoi epigoni da Major a Cameron a Boris Johnson e le colleghe donne, Theresa May prima e oggi la premier Liz Truss. E, soprattutto, reinterpreta un europeismo senza fanatismi: esattamente 34 anni fa, il giorno in cui viene scritto questo articolo, la Thatcher tiene un discorso preveggente a Bruges in Belgio sulla crescita della libertà (non solo economica) dei cittadini UE. Dice: «La Comunità (europea, n.d.r.) non è un fine in sé. La Comunità Europea è un mezzo pratico attraverso il quale l’Europa può assicurare la futura prosperità e sicurezza dei suoi popoli in un mondo in cui ci sono molte altre potenti nazioni». Tradotto: basta con l’Europa dell’omologazione ai diktat economici e culturali, si rispettino le diversità nazionali. Suona familiare, a distanza di 34 anni?

"I professori danno voti più alti alle ragazze". Ecco lo studio universitario. Il Tempo il 18 ottobre 2022

Le ragazze tendono a ricevere voti più generosi rispetto alle controparti maschili nonostante le stesse competenze accademiche. A questa conclusione giunge uno studio, pubblicato sul British Journal of Sociology of Education, condotto dagli scienziati dell’Università degli Studi di Trento, che hanno mostrato come questo pregiudizio sia diffuso in modo sistemico, indipendentemente dalla materia e dalle caratteristiche degli insegnanti.

Il team, guidato da Ilaria Lievore, ha coinvolto 38.957 studenti, di età compresa tra 15 e 16 anni, per valutare i divari di genere nel rendimento scolastico. Nei test standardizzati, le ragazze tendono a ottenere risultati migliori nelle discipline umanistiche, nelle lingue e nelle capacità di lettura, mentre i ragazzi sono associati a punteggi più elevati nelle materie scientifiche. Quando, però, si esaminano i voti assegnati dagli insegnanti, le controparti femminili sembrano premiate con una maggiore frequenza in tutte le discipline. Stando a quanto emerge dall’indagine, i voti medi in decimi per le ragazze erano 6,6 e 6,3 rispettivamente per lingue e matematica, mentre le controparti maschili riportavano di media 6,2 e 5,9 per le stesse materie.

Secondo l’analisi, quando due studenti di genere opposto con competenze paragonabili in una materia venivano valutati, la ragazza era più facilmente associata a un voto migliore. Solo due fattori risultavano in grado di influenzare questa dinamica, e solamente con la matematica. Le classi più numerose, le scuole tecniche e accademiche erano infatti legate a un divario maggiore rispetto ai gruppi più esigui e alle scuole professionali. È probabile, osservano gli autori, che gli insegnanti tendano a favorire gli studenti che esibiscono comportamenti tradizionalmente femminili, come la tranquillità e la pulizia, oppure che i voti più elevati possano rappresentare un modo per incoraggiare le ragazze, generalmente meno ferrate in determinate materie.

Gli autori dello studio concludono che i pregiudizi nei confronti dei ragazzi nelle scuole italiane sono considerevoli e potrebbero avere conseguenze a lungo termine. «C’è una forte correlazione tra voti più alti e risultati educativi desiderabili - afferma Lievore - come ottenere più facilmente l’ammissione all’università e una minore probabilità di abbandono scolastico. Risultati scolastici migliori sono invece collegati a guadagni più alti, un lavoro migliore e una migliore soddisfazione della vita». «Anche in altri paesi europei si registra un divario di genere nell’assegnazione dei voti - conclude Lievore - ma le motivazioni alla base di questa discrepanza potrebbero variare tra le diverse nazioni. Sarà opportuno continuare ad approfondire le ricerche, considerando anche i voti di fine anno e non solo le valutazioni intermedie».

"Immaginare quello che non c'è". Così Luisa inventò il Bacio. Dalla gastronomia alla moda, la vita incredibile dell'imprenditrice Luisa Spagnoli, che inventò il Bacio Perugina. Francesca Bernasconi il 7 Dicembre 2022 su Il Giornale.

"La capacità di immaginare quello che ancora non c'è. Questo fa la differenza". E Luisa Spagnoli la differenza l'ha fatta per davvero, dando vita a un'industria al femminile e creando da zero prodotti innovativi, diventati famosi in tutto il mondo e, ancora oggi, di grande successo. Dalla gastronomia alla moda, fino alla solidarietà, è stata una delle donne straordinarie che hanno rivoluzionato il nostro Paese.

Dai confetti al cioccolato

Luisa Sargentini nacque a Perugia nel 1877 in una famiglia modesta. Il padre Pasquale infatti lavorava come pescivendolo, mentre la madre Maria era una casalinga. Così, dopo la morte del papà, Luisa dovette interrompere gli studi e cercare un'occupazione. All'età di 21 anni, la donna si sposò con Annibale Spagnoli, dal quale prese il cognome e rilevò, insieme a lui, un negozio di drogheria nel centro di Perugia.

Nel 1907, la coppia si mise in società con Francesco Buitoni, Leone Ascoli e Francesco Andreani e aprì una piccola azienda dolciaria, con 15 operai: era nata la Perugina, che al tempo aveva il nome di Società Perugina per la Fabbricazione dei Confetti. L'azienda dolciaria infatti era specializzata nella produzione dei confetti.

I primi anni della Società non furono semplici e le perdite iniziali furono moltissime, tanto che l'azienda si trovò sull'orlo del fallimento. Per questo, nel 1909, la gestione dei bilanci venne affidata al figlio di Francesco, il diciottenne Giovanni Buitoni, che divenne un importante punto di riferimento per la Perugina. Il ragazzo, che aveva grandi abilità in campo economico, riuscì a pareggiare il bilancio e salvare l'azienda dolciaria, ben presto una delle maggiori imprese artigianali in Italia.

A cambiare le sorti della Perugina arrivò la Prima Guerra Mondiale. Quando nel 1915 l'Italia entrò nel conflitto tutti gli uomini abili alla leva vennero chiamati alle armi. Tra loro, oltre ai molti operai della ditta, ci fu anche Giovanni Buitoni. Così la gestione dell'azienda finì nelle mani di Luisa Spagnoli. Ma durante la guerra, un decreto vietò il commercio dello zucchero, considerato un bene superfluo. Luisa ebbe l'intuizione di passare dalla produzione dei confetti a quella del cioccolato, ottenuto mischiando il cacao con lo zucchero troppo caramellato avanzato da altre lavorazioni, ma che a quei tempi non poteva essere sprecato. Nacque così la prima tavoletta di cioccolato fondente "Luisa".

Il Bacio Perugina

Il fondente "Luisa" divenne ben presto un successo, anche perché venne immesso sul mercato a un prezzo contenuto, che rese il cioccolato un bene accessibile a tutti. La vera svolta però arrivò nel 1922, quando venne ideato e creato il prodotto di punta dell'azienda, che ancora oggi riveste un ruolo centrale nella produzione: il Bacio Perugina. Luisa pensò di riutilizzare il cioccolato e la granella di nocciole avanzati in azienda e che solitamente venivano smaltiti a fine giornata, per creare un cioccolatino con un cuore di gianduia e granella di nocciole e una nocciola intera sulla sommità, il tutto ricoperto di glassa al fondente. La forma ricordava il pugno chiuso di una mano e, per questo, la donna pensò di chiamarlo Cazzotto.

Ma il nome del prodotto non convinceva Giovanni Buitoni, che decise di presentarlo al mercato con un appellativo più dolce e caloroso: Bacio. La pubblicità del prodotto venne affidata al famoso disegnatore Federico Seneca, che ideò il cielo stellato, diventato iconico e che ancora oggi compare sulla carta del cioccolatino. Un'ulteriore particolarità del prodotto era (ed è ancora) la presenza di alcuni bigliettini con frasi poetiche all'interno dell'involucro che avvolge il cioccolatino. In poco tempo, il Bacio divenne l'articolo di maggior successo della Perugina: il suo sapore era inconfondibile e le frasi al suo interno invitavano i consumatori a scartarlo.

Nel 1923, Annibale Spagnoli lasciò la Perugina, che rimase nelle mani di Luisa, diventata consigliera di amministrazione e direttrice del settore confezioni di lusso e i suoi tre figli, Mario, Amedeo e Aldo.

Dal cioccolato alla moda

Luisa Spagnoli non fu solamente un'imprenditrice in ambito gastronomico. Alla fine degli anni Venti, infatti, la donna si dedicò all'allevamento del coniglio d'Angora, al fine di ricavare un particolare filato da utilizzare nel campo dell'abbigliamento. I conigli non venivano né uccisi, né tosati, ma semplicemente pettinati, per ricavarne la lana, grazie alla quale la Spagnoli pensò di creare scialli, boleri e altri indumenti. Si trattava di capi raffinati, che ben presto andarono a riempire gli armadi di alcune delle grandi attrici italiane, da Sophia Loren ad Anna Magnani.

Intorno al 1928 prese corpo nel settore della moda l'attività che ancora oggi porta il nome della sua ideatrice: Luisa Spagnoli. La vera novità fu l'utilizzo della lana del coniglio d'Angora per creare filati, in un periodo in cui in Italia questa fibra era ancora sconosciuta. Fino a quel momento infatti gli indumenti venivano confezionati utilizzando filato estero, che forniva prodotti di non elevata qualità. I primi esperimenti vennero condotti rifornendosi di lana dall'allevamento della famiglia Spagnoli, lavorato da alcune operaie della Perugina. Il risultato fu la creazione di indumenti di qualità, classici ed eleganti.

Fu l'inizio di una nuova attività, che si annunciava promettente e dalle grandi potenzialità. Luisa però non vide mai decollare l'azienda di abbigliamento, che venne portata avanti negli anni successivi dal figlio Mario.

Un'imprenditrice innovativa

Attenta alle esigenze dei propri dipendenti, sempre con lo sguardo rivolto al futuro e progressista in ambito sociale e lavorativo, Luisa Spagnoli è stata una delle più grandi imprenditrici del nostro Paese e il suo nome rappresenta, ancora oggi, un pilastro della moda italiana.

Quando scoppiò la guerra, gli operai della Perugina vennero richiamati alle armi e furono le donne a prendere i loro posti nell'azienda portata avanti dalla Spagnoli. Successivamente, per venire incontro alle esigenze delle sue dipendenti, Luisa decise di creare un asilo nido nello stabilimento di Fontivegge e costruì degli spacci all'interno dell'azienda, così da permettere alle operaie di fare la spesa prima di tornare a casa dal lavoro.

Oltre all'imprenditoria, la Spagnoli si dedicò anche alla beneficenza, donando aiuti all'orfanotrofio di Perugia, organizzando una serie di attività assistenziali e pagando le cure ai famigliari dei lavoratori che non potevano permetterselo.

Luisa Spagnoli morì nel 1935, prima di vedere interamente il successo delle sue creazioni. A portare avanti le sue attività pensarono i figli, che continuarono nell'opera della madre, un'imprenditrice e una donna straordinaria, che prima di tutti ebbe il coraggio di guardare avanti di decenni, anticipando l'evoluzione della presenza femminile sul lavoro. Infatti, oltre al suo esempio personale di imprenditrice donna, l'inserimento nelle sue aziende di operaie, cui venivano riconosciuti diritti e bisogni, rappresentarono un passo innovativo per l'epoca. E oggi il nome e la storia di Luisa Spagnoli sono una testimonianza importante dell'industria italiana al femminile.

Euridice Axen racconta Luisa Spagnoli nel «Segno delle donne». La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Dicembre 202.

La donna del «Bacio» più dolce e della grande moda: è l’imprenditrice Luisa Spagnoli, a cui dà voce e volto Euridice Axen nel «faccia a faccia» con Angela Rafanelli, la protagonista de «Il segno delle donne» - la coproduzione Anele - Rai Cultura, realizzata da Anele - in onda oggi alle 21.10, in prima visione su Rai Storia.

Luisa Sargentini nasce a Perugia nel 1877, in una piccola casa del centro storico e in un’epoca in cui le possibilità di studio e di carriera per una donna sono molto limitate, soprattutto per chi, come lei, ha delle umili origini. Abbandonati gli studi, Luisa si sposa a ventun anni con Annibale Spagnoli, da cui prenderà il cognome che manterrà per tutta la vita. Nel 1901, i coniugi rilevano una drogheria nella cittadina umbra dove, grazie alla grande creatività di Luisa e al suo spirito imprenditoriale, la produzione si amplia: confetti, caramelle e cioccolato. L’anno della svolta, però, è il 1907 quando, insieme a tre soci tra cui Francesco Buitoni, fondatore del pastificio, la famiglia Spagnoli fonda la «Perugina». Dopo poco tempo, la guida dell’impresa passa nelle mani della Spagnoli e di Giovanni Buitoni, figlio di Francesco, trasformandosi con successo in un’impresa industriale. Durante la Prima Guerra Mondiale, Luisa prende le redini della fabbrica. In quegli anni, un decreto fascista vieta il commercio di zucchero ritenendolo un «bene superfluo» e Luisa decide di concentrarsi sulla produzione del cioccolato. Nel 1923 tra Luisa Spagnoli e Giovanni Buitoni, figlio di Francesco e con ben 14 anni di differenza, nasce una storia d’amore. Sempre in questi anni, Luisa ha un’idea interessante e si lancia in una nuova impresa: la creazione di mantelline, cuffiette, scialli e boleri con la pelliccia dei conigli d’Angora. L’«Angora Spagnoli» vestirà star del cinema internazionale, come Sofia Loren e Anna Magnani.

La parabola di Mata Hari, regina dei 7 veli e poi “spia” (beffata da quelle reali). Maria Luisa Agnese il 12 Ottobre 2022 su Il Corriere della Sera.

In salotti o piccoli teatri, proponeva la sua danza dei 7 veli. Si raccontava discendente d’una principessa giavanese: in realtà cercò nella Parigi della Belle Époque il riscatto da un matrimonio andato male. Creduta una spia, morì fucilata in carcere. 

Nella Parigi del primissimo ‘900 furoreggiava Mata Hari, bellezza di sapore esotico: occhi e capelli nerissimi, alta, slanciata, di forme potenti quasi plastiche che plasmava in danze flessuose e orientaleggianti. Si presentava in consessi privilegiati, salotti o piccoli teatri, e proponeva la sua danza dei 7 veli che prima faceva ondeggiare per toglierli poi a uno a uno fino a restare nuda o quasi, coperta da perle e piccole pietre preziose. Saggiamente non lasciava mai scoperto il seno che riteneva troppo esiguo, meno della classica coppa di champagne. E altrettanto saggiamente prima dell’esibizione impartiva un breve discorsetto in cui spiegava che le sue danze non erano solo erotiche ma facevano parte d’un percorso quasi iniziatico, frutto della sua conoscenza delle religioni orientali. Tutto per non essere perseguita per indecenza. Ai parigini si raccontava discendente d’una principessa giavanese e di avere imparato là le sue danze preziose e spirituali.

Conquistava uomini danarosi a caccia di amori stimolanti che la coprivano di doni: pellicce, gioielli, abiti raffinati con cui lei si faceva fotografare. Arrivò a esibirsi all’Olympia e alla Scala. Anche il cinema restò affascinato dalla sua vita da romanzo: molte le sue incarnazioni, da Greta Garbo fino a Elisabetta Gregoraci. Mata Hari, ovvero Occhio del Sole, aveva imparato tutto ciò nella prima vita, quando era Margaretha Zelle (questa la sua vera identità), figlia di facoltosi signori olandesi caduti in disgrazia. Ma la giovane sognava una vita di nuovo agiata e per questo sposò giovanissima il capitano Rudolph MacLeod in partenza per l’Indonesia. Voleva vivere «come una farfalla al sole» ma fu presto delusa: il capitano oltre a essere donnaiolo le aveva nascosto di avere la sifilide.

Margaretha dopo una figlia dà alla luce un bimbo che presto perde, forse perché nato proprio con sifilide congenita. Torna in Europa e cerca il riscatto nella Parigi della Belle Époque. Mischiando leggenda e realtà per costruirsi un’identità ideale, sempre a caccia di soldi e privilegi perduti. La sua nemica sarà la Prima guerra mondiale. Tutto intorno a lei è fame e desolazione ma Mata Hari insegue ancora la vita agiata. Cambia amanti come i vestiti, viaggia e attira l’attenzione degli spionaggi internazionali. Nella sua terza vita diventa l’agente H21 al soldo dei tedeschi ma leggenda vuole che sempre per avidità di denaro faccia il doppio gioco con i francesi. Torna Margaretha nelle scene finali: si innamora, parrebbe perdutamente, del capitano russo Vadim Masslov e per chiedere i lasciapassare per andarlo a trovare in ospedale a Vittel resta intrappolata nel gioco incrociato dei servizi.

Le ultime ricerche storiche sfatano parecchio la leggenda nera dell’agente H21, molto meno spia di quanto si pensi, molto cicala innamorata e incastrata dalle spie e dal pregiudizio della giuria militare che decide la sua condanna a morte. Va incontro al suo destino con un cappello di paglia di Firenze con veletta, dopo essere stata battezzata, al braccio di suor Marie che l’aveva assistita in carcere a Parigi. Rifiutata la benda guarda in faccia i 12 colpi, di cui uno mortale, a lei destinati. Era il 15 ottobre 1917: «Non abbiate paura per me, sorella, saprò morire. State per assistere a una bella morte».

Donne straordinarie. "Costretta da una forza sotterranea". Il Nobel che ribaltò il patriarcato. Grazia Deledda fu la pioniera che a cavallo tra l’800 e il ‘900 ha cercato di farsi strada nel regno maschile e maschilista della letteratura. Incompresa anche dai suoi stessi conterranei ha saputo formarsi da sé arrivando alle vette più ambite. Laura Lipari il 23 Novembre 2022 su Il Giornale.

È una notte gelida quella del 10 dicembre 1927. Su un palco a Stoccolma una donna minuta tiene ben saldo un premio. È una scrittrice dal nome Grazia Deledda la prima, e al momento l’unica, donna italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura.

Quel trofeo è impregnato di critiche e incomprensioni dei suoi conterranei e dei maestri dell'epoca e, infatti, il suo discorso di ringraziamento inizia con queste parole: “Sono nata in Sardegna: la mia famiglia composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche una biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a 13 anni, fui contrariata dai miei…”.

La sua non è una vita come quella della maggior parte delle donne del suo tempo, lei è lì perché con le parole è riuscita a descrivere tradizioni lunghe secoli, odori, sapori e tutto quello che di buono sprigiona la sua terra, ma anche umiliazioni, sottomissioni e subordinazioni che lei stessa ha combattuto con l'arma bianca della scrittura.

Le origini

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda nasce nel 1871 a Nuoro, in Sardegna da una famiglia benestante. Il padre Antonio è un imprenditore nel settore del commercio e dell'agricoltura e nel tempo libero scrive poesie che pubblica su una rivista sarda tramite la tipografia che lui stesso fonda. I suoi versi in dialetto sono studiati con cura nei momenti che ritaglia dalla numerosa famiglia e dal lavoro. Grazia inizia gli studi e li finisce con la quarta elementare. Poi viene seguita privatamente da un docente da cui apprende solo per pochi anni l’italiano, il latino e il francese. La ragazzina però sente dentro di sé il bisogno di apprendere e istruirsi, quindi continua i suoi studi da autodidatta.

Sin dall’infanzia sente un irrefrenabile impulso verso la scrittura, “costretta da una forza sotterranea” come scriverà in “Cosima”, che in certe occasioni deve reprimere a causa della mentalità ancora troppo ristretta e patriarcale degli abitanti di Nuoro. Questa predisposizione è spesso condannata anche dalla sua famiglia ma ogni suo senso la spinge a ribellarsi e a realizzarsi in spazi più vasti e aperti, del tutto diversi rispetto a quelli in cui cresce. Il suo sogno è mettere pratica le sue capacità e confrontarsi con altre personalità simili alla sua. Di solito però, negli ambienti più chiusi, accade che la voglia di volare sia vista come alto tradimento e spinge verso due scelte: l'accomodamento o la fuga.

Il primo a sostenerla è lo scrittore Enrico Costa che comprende il talento ancora acerbo ma fruttuoso della giovane donna. In seguito anche il poeta e scrittore Giovanni De Nava la nota e inizia con Grazia una corrispondenza fatta di apprezzamenti reciproci. Inizia da qui una relazione d’amore epistolare fatta di poesie e versi intrisi di passione e finita solo dopo un lungo silenzio dell’uomo alle ultime lettere della giovane. Anni dopo, nel 2015, la nipote dello scrittore, Ludovica De Nava, pubblicherà la corrispondenza del nonno sotto il volume “La quercia e la rosa. Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe”. Nelle missive viene svelato il vero motivo per cui De Nava decide di allontanarsi sentimentalmente, ovvero l’opposizione delle famiglie.

Gli anni di buio e il matrimonio

All'improvviso un periodo di disgrazie mette in ginocchio casa Deledda: il fratello maggiore di Grazia, Santus, abbandona gli studi e diventa alcolizzato, il più giovane, Andrea, viene arrestato, il padre muore a causa di una crisi cardiaca e qualche anno dopo anche la sorella Vincenza si ammala fino alla morte. La situazione economica è critica e Grazia si ritrova a sostenere gran parte del peso sulle sue spalle.

La giovane scrittrice però non si fa scoraggiare e anzi mette ancora più impegno nella sua passione, tanto che a quindici anni pubblica la prima novella e nell’87 prende coraggio e invia a Roma due racconti: “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, che vengono pubblicati dall’editore Perino sulla rivista Ultima moda, la quale in un secondo momento accoglierà anche un romanzo a puntate dal nome “Memorie di Fernanda”.

Tre anni dopo esce su L’avvenire della Sardegna il romanzo “Stella d’Oriente” che Deledda firma con lo pseudonimo di Ilia de Saint Ismael e a Milano “Nell’azzurro”. Da questo momento in poi la sua inventiva scorre a cascata e lei si sente un fiume in piena. Scrive e collabora con nomi prestigiosi come Gubernatis e Bonghi e, pur mantenendo l’interesse per il genere e la tradizione sarda, si avvicina a un altro stile lontano geograficamente dal suo luogo natale: la letteratura russa.

La sua fama tocca le orecchie di diversi critici anche se i primi a non comprendere Deledda sono proprio i conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo nel complesso si sentono traditi e spesso non accettano le sue descrizioni fatte con una leggera venatura di denuncia. Gli animi si scaldano soprattutto dopo la pubblicazione di “Fior di Sardegna”, perché il romanzo racconta di una terra rude, rustica e un po’ arretrata.

A queste accuse Deledda risponderà: “Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza”.

Nel 1899, dopo il suo trasferimento a Cagliari, incontra Palmiro Madesani, un funzionario delle finanze che s’innamora della giovane Grazia e la sposa l’11 gennaio 1900. È proprio per amore che Madesani lascia anche il lavoro e, attirato dal vortice di passione verso la letteratura che avvolge la moglie, inizia a fargli da agente. Qualche anno dopo anche la città di Cagliari diventa stretta per l’immensità su cui Grazia vuole continuare a scrivere e per questo motivo la coppia decide di trasferirsi a Roma dove nascono anche i due figli, Franz e Sardus.

Elias Portolu e il premio Nobel

Le sue opere sono spesso giudicate dalla critica come veriste e decadentiste. Il focus rimane quasi sempre il patriarcato e il potere influenzante che ha nella terra sarda, ma anche i legami familiari che determinano affetti ma anche battaglie sentimentali. I tre punti principali attorno ai quali i suoi personaggi conducono la narrazione sono amore, dolore e morte. La scelta di scrivere in lingua italiana, al contrario dello stile patriottico del padre, è volta a raggiungere un mercato editoriale più ampio, ma allo stesso tempo rimane radicata alle sue origini, con l'inserzione di termini e modi di dire tipici sardi, di cui vi sono le traduzioni nelle note.

La pubblicazione di “Elias Portolu” la conferma come scrittrice e l’avvia a una serie di romanzi come “L’edera” e “Canne al vento” - proprio di quest'ultimo la Rai ne trarrà in seguito uno sceneggiato - e opere teatrali che arrivano fino a personaggi illustri come Giovanni Verga, che vede nelle opere della Deledda un richiamo al suo stile letterario. La sua fama raggiunge anche artisti internazionali come David Herbert Lawrence che per lei scriverà la prefazione della traduzione in inglese de “La madre”.

A sua volta anche la Deledda diventa una traduttrice e un’insegnante di lettere all’Asilo Lazio creato dalla Società Podistica Lazio nel 1915. Tra coloro che non esprimono consensi per l’autrice sarda c’è invece Luigi Pirandello che non ne apprezza lo stile e trova inammissibile la sua situazione familiare nella quale i ruoli tra marito e moglie sono invertiti. Arriva persino a rivolgersi a Palmiro con l’appellativo di “Grazio Deleddo”, come a schernire la sua posizione subalterna poco virile, ridicolizzandolo con un romanzo dal titolo “Suo marito” con il quale ironizza sul protagonista caduto in disgrazia perché succube della moglie.

Le critiche vengono messe da parte, soprattutto dopo il 10 dicembre 1927, giorno che le stravolge la vita con la vittoria del premio Nobel per la letteratura 1926 accompagnato da queste parole: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Con questo premio Grazia Deledda diventa la seconda donna nel mondo a vincere l'ambito premio e la prima in Italia.

Si spegne nel 1936 a causa di un tumore al seno di cui soffriva da tempo, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro autobiografico: “Cosima, quasi Grazia” poi edita solo con “Cosima”.

Il genio insito nelle opere della scrittrice sarda è stato ed è studiato nelle scuole e di recente anche il cantante poeta Mariano Deidda le ha dedicato un intero spettacolo plasmando le parole della Deledda in musica affinché non si spenga mai l’interesse verso una delle più grandi pioniere nel campo della letteratura.

Nel 150esimo anno della sua nascita, inoltre, è stata ricordata dalla senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati con un discorso memorabile sull’eredità “morale e culturale” della scrittrice, ricordandone la fame di conoscenza e gli studi da autodidatta: “Una bambina che con penna e inchiostro inizia così a erodere i confini di una società che vorrebbe segregare le sue ambizioni in una rete di vincoli, di regole e tradizioni secolari. Le ambizioni di una donna che invece alza la testa che rivolge il suo sguardo al mondo e alle sue infinite opportunità e le insegue con coraggio, ostinazione e instancabile determinazione senza tuttavia mai voltare completamente le spalle al proprio passato”.

Donne straordinarie. Suzanne Noël, la femminista pioniera del "ritocchino". Il concetto di libertà della donna è più forte solo quando si conserva la bellezza naturale o anche con quel ritocco in più? Era sicuramente del secondo pensiero Suzanne Noël, colei che utilizzava i bisturi per modificare i connotati dei volti. Laura Lipari il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il concetto di bellezza e i primi studi

 La separazione e gli anni di ricerche

 La Grande Guerra e il deturpamento

 Gli anni post bellici e le battaglie per il suo credo

 “Soroptimist”

Suzanne Blanche Marguerite Gros nasce il 19 gennaio del 1879 a Laon, un paesino francese di origine medievale e cresce con la madre vedova che le impartisce una severa educazione insegnandole a diventare la classica brava moglie per un buon partito. A quell'epoca era questo il massimo a cui puntare per una donna. Sin da piccola, quindi, impara l’arte del cucito ma anche la composizione di miniature, passione che sarà la sua fortuna nel tempo.

A 19 anni sposa un dottore dermatologo, Henry Perat, e nel 1897 la coppia si trasferisce a Parigi in un quartiere famoso per essere frequentato da artisti come Alexander Dumas e attori emergenti di quell’epoca. Suzanne e il marito vivono negli agi, ma non è pienamente soddisfatta. Si sente incompleta e ha un irrefrenabile impulso di curiosità nei confronti del mondo che non può appagare stando ferma nella sua condizione. Inizia a recarsi spesso nello studio di dermatologia a osservare, affascinata, il lavoro del marito, cui fa continue domande memorizzando ogni cosa.

Il concetto di bellezza e i primi studi

Proprio in quegli anni spopola la “beauty culture”: il canone femminile per eccellenza, un prototipo ideale di come dovrebbe essere il corpo delle donne. A dare le misure sono i film le riviste e le pubblicità che sponsorizzano un corpo magro e longilineo. Si comincia quindi a inseguire affannosamente quell’ideale di perfezione con diete e strumenti di tortura. Per chi invece può permetterselo, la strada più breve è quella della chirurgia plastica che nei primi del ‘900 è solo agli inizi. Suzanne, che è un’osservatrice attenta anche a questi cambiamenti, si affeziona talmente tanto all’idea di poter modificare qualcosa di già compiuto da chiedere l’autorizzazione al marito di poter studiare medicina. Durante quegli anni, infatti, vige ancora il codice napoleonico che tiene ben saldo l’ideale dell’uomo padrone di ogni decisione. Henry non ha nulla da obiettare e, anzi, la incoraggia a iscriversi all’università per poter lavorare insieme nel suo studio.

Iniziano le lezioni e Suzanne è una delle pochissime donne a studiare tra una moltitudine di uomini. La disparità è notevole sia nella scuola per raggiungere il diploma, si tra i banchi in facoltà di medicina. Ma Suzanne è determinata, non si fa intimorire e ottiene voti brillanti, soprattutto nelle materie dove viene messa in pratica la destrezza di mano. Il suo passatempo preferito impiegato a costruire miniature le aveva dato un’ottima preparazione che viene notata, in modo differente, da colleghi e professori.

Il fatto di essere donna costituisce ancora un grosso problema e lo diventa ancora di più quando inizia il tirocinio all’interno di un ospedale. Alcuni medici, infatti, denunciano la sua presenza al tribunale di Parigi, chiedendo l’esclusione e l’interdizione sua e di tutte le donne della facoltà di medicina. Richiesta, però, respinta.

Tra i banchi dell’università Suzanne stringe una forte amicizia con André Noël, un giovane studente come lei appassionato di medicina. Nel frattempo apprende da un brillante medico la tecnica per “riparare” i danni sui volti: rimane stupita di come una mano ferma e abile possa ridare un aspetto migliore a chi viene sfregiato. In particolare, l’intervento su una bambina con la guancia deturpata da un’ustione mette in moto in Suzanne l’assoluta convinzione che il suo futuro sia tutto racchiuso nella chirurgia estetica.

La separazione e gli anni di ricerche

Dopo undici anni di matrimonio, nel 1908, dà alla luce la sua prima figlia, Jacqueline. Sin dall’inizio la paternità della bambina è dubbia e cominciano a vociferare pettegolezzi su una storia extraconiugale proprio con André. Anche se le chiacchiere da strada si dimostreranno vere, lei negherà per anni custodendone il segreto. Né la gravidanza, né la nascita della figlia frenano la sua passione verso gli studi e la voglia di apprendere. È proprio questa sua assenza in famiglia a spingere lei e Henry a litigare sempre più spesso, fino a che il rapporto si incrina e i due si separano mantenendo un buon rapporto.

Nel 1911 Suzanne si trasferisce insieme a Jacqueline in un appartamento che, però, non riesce a gestire da sola perché giuridicamente risulta ancora legata al marito e dunque dipendente da ogni sua decisione. Henry è perfettamente consapevole della situazione e spinto dal bene e dalla grande considerazione verso l’ex moglie, decide che può continuare a collaborare con lui così da poter sostenere le spese.

Nel contesto universitario è contesa tra i suoi due grandi mentori. Con uno continua il lavoro nel reparto di ginecologia e ostetricia, con l’altro si esercita nella chirurgia plastica ed estetica. Un giorno il marito la informa di un evento unico: Sarah Bernhardt, un’attrice di 66 anni, si era appena prestata a un intervento di lifting frontale eseguito dal professor Charles Miller per eliminare le rughe.

Suzanne è curiosa di vedere il risultato e quando ci riesce decide di contattare la star del cinema per convincerla che il lavoro fatto sul suo viso, nonostante sia buono, è a metà perché ha lasciato diversi solchi della vecchiaia all’altezza degli occhi e nella parte inferiore nel volto. Bernhardt la ascolta con interesse e accetta il consiglio di sottoporsi a un ulteriore intervento. Il risultato è sorprendente e sembra che l’operazione le abbia tolto almeno 10 anni di vita. A quel punto Suzanne è completamente entusiasta e affascinata dalla magia della chirurgia.

La Grande Guerra e il deturpamento

Nel 1914 inizia la Prima Guerra Mondiale. I deturpamenti bellici non incidono solo sul territorio ma anche sui volti e i corpi delle persone e così, dal 1916, Suzanne che è ancora solo una tirocinante, mette a disposizione le sue conoscenze occupandosi dei feriti. Successivamente, durante l’occupazione nazista, si prenderà cura di partigiani ed ebrei torturati dalla Gestapo, dedicandosi alla rinoplastica facciale per modificare totalmente i tratti del volto e permettere loro la libertà.

Nel frattempo Henry, che si era arruolato come volontario, crede molto alla causa e combatte in maniera eroica. Un giorno, durante l’addestramento, perde la sua maschera antigas e inala una sostanza chimica che gli compromette totalmente i polmoni e dopo una lenta agonia, nel 1918, muore. È un duro colpo per Suzanne, ma reagisce al dolore come ha sempre fatto: impegnandosi a proseguire la sua ricerca. La sua occupazione diventa quella di sostenere le vittime di guerra, anche le donne vedove che capisce e comprende e rassicura con parole motivanti e prodotti per la cura del viso e del corpo.

Gli anni post bellici e le battaglie per il suo credo

Con la morte del marito muoiono anche quei pochi diritti che Suzanne aveva conquistato tramite la firma alle autorizzazioni. È consapevole del fatto che adesso non ha più un lavoro con cui sfamare la figlia e la madre che nel frattempo si era trasferita da lei. La soluzione è davanti ai suoi occhi: André. Il giovane, però, essendo più piccolo di sette anni, non ha concluso gli studi, è ancora un tirocinante e quindi neanche lui ha un lavoro stabile. Sarà proprio lei ad aiutarlo a laurearsi e a fornirgli tutte le ricerche.

Nel 1919 i due si sposano ufficialmente e lei diventa Suzanne Noël. Insieme alla figlia si trasferiscono in un appartamento all’interno del quale una stanza era utilizzata come sala operatoria per i suoi interventi chirurgici con cui modifica e perfeziona i connotati del corpo e del viso delle sue clienti. Negli anni successivi, con una mano sempre più esperta, eseguirà i suoi interventi più complessi e invasivi in una delle cliniche più prestigiose della Francia, così da poter utilizzare anche l’anestesia totale per operazioni che riguardano altre parti del corpo come il seno.

Gli ostacoli, però, sono ancora tanti e la medicina si spacca in due tra chi è pro e chi contro a questo tipo di interventi ritenuti non necessari perché esclusivamente estetici. Ne seguiranno anche battaglie legali durante le quali chi è contro presenterà esempi in cui la chirurgia ha rovinato visi e corpi in maniera irrecuperabile. Questo dibattito, anche se in termini più placati, dura ancora fino a oggi. Ciononostante i lavori di Suzanne continuano ad avere successo e la sua passione è sempre più legata all’attivismo a cui crede, operando gratuitamente donne che lavorano in fabbrica e licenziate perché considerate "troppo anziane”. La sua è una battaglia femminista perché trasforma la chirurgia in sicurezza e la sicurezza nell'obiettivo di far prevalere i propri diritti in qualsiasi ambito della società.

Quando la figlia muore a 13 anni per aver contratto la spagnola, André reagisce chiudendosi in se stesso e sperperando tutti i loro guadagni. Segue un periodo di profonda crisi per la coppia dove l’unica soluzione rimane quella di portare l’uomo in un istituto psichiatrico, ma prima di farsi fare internare, mentre stanno passeggiando, André si getta con uno scatto improvviso nella Senna e muore.

“Soroptimist”

È il 1924 e Suzanne si trova nuovamente in uno stato disastroso da cui ne uscirà ancora buttandosi a capofitto sul lavoro. Per ironia della sorte si trova a 47 anni con una fama che la precede in campo chirurgico, ma nessuna carta in mano che lo dimostri perché non ha discusso la tesi di laurea e dunque non ha mai ottenuto alcuna licenza per esercitare. Così l’anno dopo decide che a tutti i costi deve finire i suoi studi e ci riesce. Adesso può dedicarsi alla sua passione alla luce del sole. La battaglia femminista rimane al centro delle sue attività. La sua volontà è quella di far sì che le donne acquisiscano sempre più indipendenza dalla figura dell’uomo e possano riuscire a cavarsela da sole proprio come ha fatto lei durante la sua vita.

L'ennesimo cambiamento della sua vita avviene con l’associazione “Soroptimist” del medico Stuart Morrow che la contatta per poterne far parte. Soroptimist International è un’organizzazione statunitense no profit che raccoglie donne da ogni parte del mondo con un’elevata professionalità per metterla a disposizione della condizione e dei diritti femminili. Sarà proprio Suzanne a fondare in Francia il primo Club Soroptimist dell’Europa continentale e poi ad allargarsi fino in Cina e Giappone.

In seguito a un problema alla vista si ritira dalle sale operatorie e dai salotti a cui partecipava grazie alla sua fama e trascorre la sua vecchiaia occupandosi, solo con le sue idee pragmatiche e non più con le mani, all’attivismo di cui va orgogliosa. Muore l’11 novembre del 1954 all’età di 76 anni.

Del suo nome intriso di lavoro e battaglie resta una borsa di studio, la “Dr. Suzanne Noël Scholarship”, destinata a donne medico che intendano specializzarsi nel campo della chirurgia plastica e ricostruttiva, una targa commemorativa e una via parigina che riporta il suo nome.

Donne straordinarie. La visionaria che inventò il marketing dello champagne sfidando i pregiudizi.

Barbe-Nicole Ponsardin ha riscritto la storia del suo tempo, afferrando le redini della Maison di Reims in mezzo a una caterva di pregiudizi. Paolo Lazzari il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

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 Barbe-Nicole Ponsardin prima di Veuve Clicquot

 L'incontro con la vigna

 Una visionaria innovatrice

L’acqua che si increspa suggerisce la riemersione in corso. Prima un braccio, poi l’intera muta. La squadra di sub che ha appena setacciato un relitto finito nella pancia del mar Baltico è incredula. Fuori erompe l’estate del 2011, ma lo scintillio non c'entra nulla con i raggi solari. In quelle tetre profondità abissali, bucate soltanto dalla tiepida luce delle torce, è stata rinvenuta una cassa di bottiglie. Risalgono a circa due secoli prima: l’imbarcazione è stata inghiottita dal mare tra il 1825 e il 1830, mentre compiva il suo tragitto verso la Russia. Sui colli delle bottiglie, un marchio che stappa una storia inequivocabile: quella di Madame Veuve Clicquot. Ma chi è questa grande donna del passato?

Barbe-Nicole Ponsardin prima di Veuve Clicquot

Il suo nome è Barbe - Nicole Ponsardin. Scansiamo subito le suggestioni favolistiche: è nata in una famiglia facoltosa, decisamente dalla parte comoda della storia. Fin da piccola flirta con i numeri anziché gingillarsi con le bambole: una risolutezza che abita nel sangue. Virtù comunque derubricate a inutili propaggini dal codice Napoleonico, se a possederle è una femmina. Per la legge del tempo le donne non sono soggetti di diritto e qualsiasi velleità deve ottenere il lasciapassare del padre o del marito.

L'incontro con la vigna

Così quando sposa Francois, il ricco rampollo di una delle famiglie produttrici di champagne in Francia - i Clicquot - il suo destino pare già inciso nella pietra. Vivere cucita all’ombra del marito è tutto quel che la vita sembra riservarle. Una compressa al cianuro per una donna che nutre ambizioni profonde. Ma l’esistenza, si sa, è un arnese fragile. Quando scocca il 1805 Francois muore improvvisamente - alcuni sussurrano insolentemente che si tratti di suicidio - e lei si ritrova da sola, a ventisette anni soltanto, con tutti quei vigneti che si estendono rigogliosi davanti alle sue pupille.

Qualunque donna dell’epoca farebbe quel che il senso comune impone: vendere la sua parte e trascorrere il resto dei giorni portando il lutto. Barbe invece ha altri progetti. Si sfrega quella pelle alabastrina, aggiusta i boccoli e raggiunge il suocero Philippe. Poi lo tira per la giacca e lo mette placidamente al corrente di un fatto: da lì in poi penserà lei all’azienda di famiglia. Quello per fortuna non si scompone, forse perché ha intravisto un potenziale che attende soltanto di divampare. Così le risponde che si può fare, a patto che sia disposta a sciropparsi un apprendistato per muoversi con disinvoltura dentro a ogni pertugio dell’impresa. Si stringono la mano e sorridono compiaciuti.

La sfida è tutt'altro che una docile pianura. Assomiglia piuttosto a un declivio scosceso. I banchieri si rifiutano di farle credito, persuasi che si tratti di una richiesta impudente, ché una donna non può certo garantire lo stesso grado di affidamento di un uomo. Lei però è troppo arguta per arrendersi. Ritrosie e difficoltà sono l’innesco per la nascita del suo marchio: inizia ad andare in giro costantemente vestita a lutto e a firmare tutti i documenti ufficiali con la sigla Veuve Clicquot Ponsardin. Quella vedovanza esplicitata racconta la presenza di un marito che non c’è più: abbastanza, comunque, per far cambiare idea a chi la osteggia.

Nel 1810 diventa la prima imprenditrice vinicola a produrre uno champagne millesimato nella sua regione: è già un prodigio, ma il meglio deve ancora venire.

Un anno dopo se ne sta con il naso all’insù, come praticamente mezza Francia. Nel cielo luccica la cometa di Flaugergues, fenomeno astronomico destinato a sfrigolare per 260 giorni. La sua coda è lunga 160 milioni di chilometri. Per molti è un presagio di sventura. Lei, che è alle prese con un raccolto fenomenale, ci intravede la sua buona stella. Negli stessi giorni in cui Napoleone sta invadendo la Russia travasa quel nettare, imprimendo su ogni bottiglia il marchio della cometa.

Una visionaria innovatrice

“Una sola qualità, la migliore”. Un mantra che è solita ripetere, ma che attende di dilagare anche fuori dai confini. Mica semplice, se Napoleone ti disinstalla i sogni con un embargo che colpisce mezza Europa. Più facile, certo, se un giorno tambureggia alla tua porta un seducente ufficiale russo. Porta in dote un paio di messaggi inequivocabili. Il primo: la corte di San Pietroburgo va pazza per il suo Champagne. Il secondo: lui la stima parecchio, e non solo come imprenditrice. Barbe sarà anche vedova, ma cede all’umana tentazione. Quella relazione scandalosa e spregiudicata le apre un varco inatteso. La società arriccia il naso, ma la sua ricchezza è una bardatura insuperabile.

Con i russi mette a segno il colpo che vale una vita: 10.000 bottiglie di champagne contrabbandate. Ovunque, nelle trincee, si disseta l’arsura a colpi di sabrage, la tecnica che prevede di ghigliottinare il collo di vetro con la lama di una sciabola. Barbe è ribalda, ma anche ingegnosa: sua l’idea di distinguere della vigne Grand Cru. Sempre sua la trovata di ruotare le bottiglie in cantina - con la table de remuage - e quella della sboccatura, per inseguire la limpidezza del contenuto.

Non basta ancora: Madame dispone che il gusto del suo champagne venga levigato e adattato di volta in volta, per sprimacciare i differenti palati europei. Una serie di abili tessiture che la posiziona sempre più in alto. Con lei alla guida un’azienda che produceva 60mila bottiglie all’anno passa all’implausibile soglia delle 700mila.

Impudente a oltranza, alzerà gli occhi al cielo di fronte alle vecchie carampane che la accusano di spassarsela con il giovane Louis Bohne Ed Edouard Werlè. Segni particolari: ventitré anni in meno, futuro marito, erede dell’impero al momento della dipartita di Barbe, nel 1866.

Dicono che una delle bottiglie estratte dai fondali del Mar Baltico sia stata venduta all'asta per 30mila euro. Chi ha potuto scolarsela, probabilmente, ha fatto tintinnare i calici in onore della Vedova.

"Com'è bella la Terra". Così la prima cosmonauta sogna Marte. Valentina Tereshkova fu la prima donna ad andare nello spazio. Così la cosmonauta russa che si faceva chiamare in codice "gabbiano", oggi membro della Duma, rimane esempio d'emancipazione universale. Davide Bartoccini il 12 Ottobre 2022 su Il Giornale.

“Ei, cielo! Togliti il cappello, sto arrivando!”. Valentina Tereshkova, ventiseienne delle rive del Volga, il 16 giugno del 1963, è stretta dalle cinghie sul seggiolino unico della capsula Vostok 6. Sulla cima di un razzo alto 34 metri. Sono trascorsi 29 minuti da mezzodì, quando la procedura di lancio durata due ore giunge al termine, sprigionando nei quattro motori disposti a croce tutta la potenza necessaria per portarla in orbita su un famigerato vettore R-7 "Semyorka".

Lei fissa l’oblò con il grosso casco in testa con su scritto Cccp: da ex-dipendente dell'industria tessile con la passione del paracadutismo era diventata una cosmonauta dell’Unione Sovietica. Appena un’ora dopo sarebbe diventata la prima donna a volare nello spazio.

Una figlia del popolo che guardava al cielo

Orfana di padre, contadino e soldato dell’Armata Rossa caduto durante il secondo conflitto mondiale, era nata a Maslennikovo nel 1937. Dopo aver terminato gli studi a diciassette anni - iniziò a frequentare la scuola a dieci - fu impiegata prima come operaia in una fabbrica di pneumatici, poi come sarta per una fabbrica tessile locale: proprio come sua madre Elena.

La vita di una ragazza nata in un piccolo villaggio russo, mentre l’Occidente viveva il baby-boom, non prometteva grandi emozione ed esaltanti prospettive: un impiego sicuro nelle fabbriche che producevano in serie i beni destinati ai cittadini sovietici, una famiglia da costruire con un figlio del popolo come lei che potesse garantire altrettanta stabilità, della prole da allevare nello stesso modo per contribuire alla macchina sovietica e ricalcare come tanti prima di loro l’archetipo dei nuovi uomini e delle nuove donne sovietiche.

Qualcosa di ben diverso dal cittadino idealizzato da Trotsky: colui o colei che “realizzando l’obiettivo di dominare le emozioni, innalzeranno istinti fino alle altezze della coscienza, rendendoli trasparenti ed estendendo i fili del proprio volere nelle sue rientranze nascoste in modo da innalzare se stesso verso un nuovo livello, per creare un tipo sociale e biologico superiore, oppure, se permettete, un superuomo”. La fascinazione spesso prende il sopravvento sulla mente dell’essere umano che non si arrende al destino cui sembra essere costretto dai propri natali.

Valentina Tereshkova, ad esempio, mentre cuciva abiti per il popolo sovietico guardava alle nuvole e cercava un mezzo per toccarle: lancio con il paracadute. Il senso di libertà del cielo e l’adrenalina del salto, le diedero - di nascosto da sua madre - le emozioni che cercava. Così, mentre lavorava, e studiava per corrispondenza, seguiva il corso di paracadutismo che si teneva nell’aeroclub locale per ottenere il brevetto: un inaspettato passepartout per le stelle.

Perché dopo aver mandato il primo uomo nello spazio, ovviamente siamo parlando Jurij Gagarin, agli alti papaveri del Cremlino venne in mente di ottenere un secondo grande primato: mandare una donna nello spazio. E superare ancora una volta gli Stati Uniti nella corsa all’ultima frontiera, spaziale, tecnologica, e pure in qualche senso “ideologica”.

L’unico gap allora era quello della mancanza di una classe di allieve o piloti militari donna dove si potevano prelevare a addestrare delle future cosmonaute. Così si penso di andare a cercare le cadette anche tra coloro che erano solamente delle paracadutiste. Quando Mosca avviò le sue ricerche, Valentina Tereshkova non ci pensò due volte a farsi avanti nella speranza di essere Lei la prima donna che avrebbe conquistato lo spazio.

Unica tra tante

I requisiti per essere considerate imponevano di avere meno di trenta anni di età, un peso inferiore ai settanta chilogrammi e un’altezza che non superasse un metro e settanta centimetri. Le ragioni andavano trovate negli angusti spazi dell’abitacolo che ospitava il cosmonauta delle navicelle del Programma Vostok. E l’ovvia predisposizione - per età e addestramento - a sopportare le sollecitazioni nella fase iniziale e finale del volo nello spazio. La giovane Tereshkova possedeva tutto le caratteristiche e le qualità richieste, e venne inserita in nella rosa delle 400 candidate che erano state scelte su 1000 aspiranti che si erano proposte.

Rimase tra le 58 migliori, poi tra le 23, e poi, infine, nella ristrettissima cerchia delle 5 aspiranti cosmonaute che inquadrate nell’aeronautica con il grado di luogotenente, proseguirono a ritmi serrati un durissimo addestramento che includeva voli parabolici, prolungati test di isolamento, test nella camera termica e test in macchinari che simulavano la spinta centrifuga, test per la decompressione, oltre un centinaio di lanci con con il paracadute e l'addestramento di base per pilotare i jet moderni.

La catastrofe di Nedelin: la palla di fuoco che incendiò la Guerra Fredda

Con l’avvicinarsi della data fissata per la missione, ai vertici dei programma spaziale russo non restava altro che stabilire quale delle cadette sarebbe stata mandata in missione; e benché Valentina non risultasse la migliore nei risultati registrati nei diversi test, fu scelta per una singolarità che alla fine la rese l’unica tra tante: era una vera figlia del popolo.

Le sue origini operaie, la perdita del padre dipinto come uno dei tanti eroi sacrificatosi per la patria e per l’idea, perfino la provenienza dalla Russia profonda e anonima, e non da una grande centro, la rendevano perfetta ai fini della propagandistici su cui si basava l’intera missione. La Tereshkova si era inoltre dimostrata soggetto di spiccata intelligenza, capace di tenere discorsi in pubblico, dunque pronta a prestarsi alle numerose interviste che avrebbe dovuto raccontare il successo di quell’ennesimo traguardo tutto sovietico. Prima che traguardo da vedere al femminile.

Il complesso volo del gabbiano

“Qui Gabbiano. Va tutto bene. Vedo l’orizzonte, il cielo blu e una striscia scura. Com’è bella la Terra. Sta andando tutto bene”. Furono queste le prime parole della Tereshkova una volta lasciato il cosmodromo di Bajkonur e ripreso il contatto radio mentre era sulla traiettoria d'orbita terrestre con “un perigeo di 165 chilometri e un apogeo di 166 chilometri per inclinazione di 65 gradi”.

Il nome in codice scelto per Valentina era Čajka (gabbiano in russo, ndr) e, non appena raggiunse l’orbita potè confermare via radio comunicazioni con la base, a terra confermarono che la missione Vodstok 6, lanciata solo due giorni dopo a Vodstok 5, stava proseguendo con successo. Durante la prima orbita terrestre, Vostok 6 e Vostok 5 si avvicinarono come era stato previsto. Così il gabbiano potè incrociare la rotta orbitante di un altro cosmonauta sovietico: Valerij Fëdorovič Bykovskij.

Ma quel viaggio non fu semplice e privo di insidie. Un errore nella pianificazione della rotta aveva impostato un traiettoria che avrebbe spinto la navicella - priva di comandi e possibilità di correggere autonomamente la rotta - verso lo spazio profondo. Solo una correzione ai limiti del tempo utile mantenne Vodstok 6 in rotta, portando la missione a compimento in 70 ore e 50 minuti. Quasi tra giorni trascorsi tra lunghi momenti di silenzio radio e timore, in uno spazio claustrofobico, mentre la piccola capsula sferica compiva 48 orbite intorno alla pianeta.

Il ritorno di una stella 

Il rientro della missione della prima donna nello spazio fu tutt’altro che semplice. A quel tempo infatti, la la tecnologia dei vettori per l’esplorazione spaziale non consentiva l’atterraggio degli space shuttle, ma un discesa infuocata nell’atmosfera terrestre, che avrebbe previsto l’apertura di quello stesso paracadute che aveva portato Valentina sulla rotta delle stelle.

Le forti raffiche di vento manifestatesi il 19 giugno nell’area dove era previsto il recupero della capsula di Vodstok 6 provocarono una serie di traumi al volto della cosmonauta, che venne ricoverata per una breve degenza prima tornare a indossare la sua tuta spaziale per simulare un atterraggio da manuale ed essere ripresa dai video di propaganda che avrebbero fatto il giro nel mondo. Se c’era veramente una “Miss Universo” nel 1963, ella era Valentina Tereshkova, avrebbero scritto i giornali.

Eroina del popolo sovietico, insignita dell’Ordine di Lenin e della medaglia di Eroe dell’Unione Sovietica, la nuova stella mondiale iniziò un lungo tour di presentazione e conferenze che avrebbero consacrato il suo primato leggendario - diventando, sembra quasi banale dirlo, un esempio per l’emancipazione femminile universale.

Essere una pioniera nello spazio non le risparmiò tuttavia quelle consuetudini molto terrestri che in ogni longitudine e latitudine davano il peso alle apparenze. Il Cremlino ritenne giusto che la sua eroina spaziale dovesse trovare marito, e che il giusto marito per una donna dello spazio doveva essere un uomo dello spazio. Valentina sposò dunque il cosmonauta Andriyan Nikolayev. Nonostante una figlia e un matrimonio da prima pagina, la coppia si separò nel 1982.

La Tereshkova provò in tutti i modi a tornare nello spazio dopo la missione Vodstok 6, ma la morte di Garagin - in circostante per altro mai del tutto chiare - indusse l'Unione Sovietica a tenere distante la pericolo la sua pioniera spaziale, che ottenne invece un dottorato in ingegneria aeronautica prima di diventare un membro della Duma e concentrarsi sull'impegno politico che perdura ancora adesso.

Riguardo al ruolo della donna nei programmi spaziali, una volta ebbe a dire: "Come un uccello non può volare con un'ala sola, il volo spaziale umano non può progredire senza la partecipazione attiva delle donne". Questa rubrica ha battuto spesso su questo tasto e proseguirà nel farlo. Valentina Tereshkova oggi ha 85 anni: per parte sua, quando qualcuno le rivolge la domanda se tornerebbe nello spazio, pare ancora poter affermare d’essere pronta ad andare anche su Marte.

Libera e rivoluzionaria: la lezione di Coco Chanel alle femministe oggi. Spazza via i corsetti e i bustini, lancia il trend dei capelli corti, realizza un profumo "per la donna che profuma di donna". Chanel non fu solo una stilista, fu un'attivista. Laura Lipari il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.

Gabrielle Bonheur Chanel, Coco Chanel o semplicemente Coco, come la si voglia chiamare: persino il suo nome evoca bellezza ed eleganza. Non fu una donna, è un "demonio" travestito da leggenda. Tra il lusso e lo sfarzo, al centro dello studio, vi è lei: una minuta figura in controluce che emana potere a partire dalle sue mani poggiate sui fianchi, lo sguardo sicuro, i lineamenti duri. Le rughe del suo volto sono appositamente nascoste da un ampio cappello. Una delle sue convinzioni più assolute è che una donna non è mai elegante senza, così è sua abitudine portarlo persino a casa.

Dalle umili origini alla formazione di “Coco”

Gabrielle nasce il 19 agosto del 1883. Trascorre l’infanzia insieme alla sorella minore nell’orfanotrofio cattolico di Aubazine, perché orfane di madre e abbandonate dal padre, un povero mercante di stoffe. Le rigide regole del collegio plasmano il suo carattere ligio alle regole e al dovere, ma la sua creatività, spesso soffocata, cerca di farsi strada sin dalla tenera età. A 18 anni trova un impiego nella bottega Maison Grampayre dove una sarta la prende sotto la sua custodia. Anche la boutique è un ambiente angusto nel quale impara la disciplina, ma è lì che esplode la sua grande passione per la moda. 

La prima grande svolta della sua vita avviene durante l’incontro con il suo primo amante nonché suo primo finanziatore, l’ufficiale di cavalleria Étienne de Balsan. Sarà lui il primo a chiamarla affettuosamente “Coco”. La loro è una storia d’amore controversa e piena di alti e bassi, lui è un donnaiolo lei invece e alla ricerca di quella libertà negata per metà della sua vita. La trova per un breve periodo all’interno delle stalle della lussuosa villa di Balsan.

Qui avviene la sua prima grande illuminazione: la donna ha il diritto di cavalcare come un uomo, perché tanti fronzoli per andare a cavallo? La cosa più semplice sarebbe quello di indossare dei pantaloni che rendano più agili i suoi movimenti. Da questi pensieri partorisce uno dei primi modelli di emancipazione femminile: i pantaloni da cavallerizza e le cravattine lavorate a maglia.

Balsan ascolta le idee della sua amante ma non le comprende. Finanzia i suoi lavori, la porta ai circoli e le permette di crearsi la sua prima piccola clientela, ma è convinto che Coco sia solo in preda a una ribellione temporanea da assecondare. Gabrielle invece è temeraria e lo diventa ancora di più quando conosce quello che per lei sarà l’amore della sua vita: Boy Capel.

Lui è un industriale di Newcastle e ascolta con trasporto le innovazioni di quella giovane mora che ha davanti, per entrambi è un colpo di fulmine. L’uomo è convinto che lei sia sprecata in quel castello confinato a Compiègne. I due fuggono e si trasferiscono a Parigi e nel 1910 comprano una piccola boutique in Rue Cambon 31. È qui che avviene il miracolo.

Oltre qualunque limite sociale

I primi esordi sono segnati da un notevole successo nella vendita di cappellini di ogni genere, da quelli più bizzarri con piume e paillettes a quelli da portare quotidianamente. Dopo due anni Chanel inizia a lanciare una nuova sfida, mettendo sul mercato maglioni, gonne e qualche vestito. La sua politica rimane sempre la stessa: la donna può vestire comoda mantenendo la femminilità.

Come Michelangelo che scolpiva direttamente sul marmo senza abbozzare un risultato finale, lei non disegna alcun modello. Prende qualche stoffa e comincia a tagliare, poi prende degli spilli e le attacca al manichino, fa qualche passo indietro, osserva e decide se può andare oppure no.

Nel 1913 Capel apre per Chanel un nuovo negozio nella località balneare di Deauville. Anche qui la stilista guarda con attenzione gli abiti delle persone che la circondano, imita lo scollo dei marinai e li fa cucire sui maglioni da donna. L’obiettivo è spazzare via quei corsetti e bustini stretti e scomodi che aveva lasciato la Belle Époque.

La sua fama cresce sempre di più e con l’aiuto di Boy. Nel 1917 ha già cinque laboratori sparsi in Francia e al confine con la Spagna e trecento lavoranti. Sono anni d’oro, la sua vita è completamente stravolta. Comincia a fare la conoscenza di personalità come Paul Morand, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Max Jacob e Igor Stravinskij. Chanel è instancabile, ben conscia di star per cambiare la storia della moda.

Non si ferma davanti a niente, neanche di fronte alla richiesta di Capel di frenare per lui. Tra l’amore e il lavoro Chanel sceglie il lavoro, perdendo così l’unico uomo che avrebbe dato tutto per lei. “Ho bisogno di essere libera per seguire il mio estro”, aveva risposto. Le cose peggiorano quando lui muore a 38 anni in un grave incidente stradale. Il lutto la porta a buttarsi a capofitto sulla sua impresa che resta quasi indenne durante la prima guerra mondiale e meno durante la seconda.

Il marchio, il taglio alla “maschietta”e il profumo

Irriverente e testarda crea il suo marchio da sé e disegna le due C intrecciate, che comincia a utilizzare sin dagli anni '20 del Novecento. Nel 1921 esce sul mercato una nuova fragranza: Chanel N°5, realizzato artificialmente con molecole sintetiche. Il primo profumo che “odora di donna, perché una donna deve odorare di donna e non di rosa” spopola presto sul mercato. La fragranza prende il nome di Nº 5 in quanto corrisponde alla quinta essenza scelta da Chanel, inoltre il numero 5 è il suo preferito. 

Un giorno, a causa di un incidente domestico, i suoi capelli prendono fuoco e decide quindi di tagliarli molto corti. Uscendo per strada è ammirata dalle donne che la guardano affascinate e imitano quel gesto, anch’esso carico di importanza rivoluzionaria. Chanel come icona, Chanel come stilista, ma anche Chanel come simbolo, Chanel come punto di riferimento a cui ispirarsi. Qualcuno le chiede il perché di tanta foga nel suo “femminismo”, la sua risposta era sempre: “Fino a quel momento avevamo vestito donne inutili, oziose, donne a cui le cameriere dovevano infilare le maniche; invece, avevo ormai una clientela di donne attive; una donna attiva ha bisogno di sentirsi a suo agio nel proprio vestito. Bisogna potersi rimboccare le maniche”.

Nel 1957 Coco Chanel vince l’ambito Neiman-Marcus Award, riconoscimento che premia le figure che si sono distinte nella cultura e nell’arte, anche chiamato l’Oscar della moda.

Oriana Fallaci incontra Coco e Gabrielle

Tra le pagine del suo libro “Se nascerai donna”, Oriana Fallaci riporta anche una delle sue primissime interviste fatta proprio al gigante della moda. Racconta di come una figura così esile riuscisse ad avere un aura maestosa tanto da ammutolire chiunque si trovasse al suo cospetto. 

Descrive il momento in cui, quasi intimidita, la giornalista si era seduta a distanza e Chanel aveva cominciato a parlare senza che lei le avesse fatto alcuna domanda, quindi si era affrettata a prendere nota di tutto quello che le diceva per non perdere niente. Sapeva che quell’appuntamento era unico nel suo genere. Il loro incontro era avvenuto quando ormai Madamoiselle era per tutti Coco Chanel e la Fallaci una semplice giornalista alle prime armi. Durante la sua intervista il punto focale era sempre la moda, ma cambiava il punto di vista: parlava chi creava abiti per indossarli non per sfoggiarli, al contrario delle opere che creavano i suoi colleghi. “I vestiti sono opere, capolavori in equilibrio, di armonia e audacia: ma non sono vestiti. Non possono indossarli le donne normali, perché diventano ridicole, ma i miei colleghi vogliono farle apparire ridicole. E sapete perché? Perché odiano le donne”.

Per la Fallaci il pensiero di Chanel era semplice: creare uno stile per una donna che viaggia e ha bisogno di vestire con grazia ma anche con comodità. Come riporta anche nei suoi racconti, non era soltanto una stilista, era soprattutto un'attivista. Quello che diceva era: “Non volete fare mestieri da uomini? Non volete entrare in politica? Non volete guidare le automobili? Come fate ad imporvi se non potete neanche respirare dentro il bustino?”.

Con Coco le donne cominciarono quindi a tagliarsi i capelli e ad accorciare le gonne, ad alzare la testa e a prendere in mano la loro vita. Proprio come fece quella ragazzina tirata fuori dall'orfanotrofio di Aubazine che pian piano costruì un impero firmato con il suo cognome. Coco, Gabrielle, Chanel, ricordata nei secoli successivi come "La Rivoluzionaria".

L. Ber. per corriere.it il 22 settembre 2022.

Il Boeing 747 di Cargolux decollato il 20 settembre dall’aeroporto di Milano Malpensa a diretto a Seul, in Corea del Sud, non solo era pieno di merce. Era anche pilotato da due donne, la comandante Paola Gini e la prima ufficiale Vivien Allais, in quello che è stato il primo volo con l’equipaggio tutto al femminile nella storia dell’aviazione civile italiana. Ed è destinato a non essere l’ultimo in un settore dove la (dis)parità di genere resta ancora un problema.

I volti

A segnalare la curiosità è il gruppo Facebook di appassionati «Boeing 747 The Queen of the Skies». Nelle due foto — autorizzate da Cargolux, una delle società di trasporto merci più rilevanti del mondo che batte bandiera lussemburghese — si vedono Gini, 46enne originaria di Torviscosa (in provincia di Udine) e da 12 anni comandante per la compagnia aerea, di fianco a Allais, italiana anche lei, di Coazze (Torino) e con precedenti in altre aviolinee. 

La rotta

Gini e Allais hanno operato il volo C8 8732 Milano Malpensa-Seul Incheon con il Boeing 747 immatricolato Lx-Ucv (e battezzato «Tre Cime di Lavaredo»). Il velivolo, un quadrimotore, è decollato alle 15.55 dall’aeroporto in provincia di Varese — secondo i tracciati di Flightradar24 — per atterrare nel Paese asiatico dieci ore e mezzo dopo seguendo un percorso a sud dell’Ucraina e della Russia per le vicende belliche e l’interdizione ai velivoli comunitari dei cieli russi.

Le statistiche

Il divario tra piloti di sesso maschile e quelli di sesso femminile resta ampio nel trasporto aereo mondiale anche se non mancano gli sforzi delle compagnie per ridurre il gap. Secondo le ultime statistiche, che risalgono al 2021 e che sono influenzati anche dalla pandemia, l’India si conferma il Paese con il maggior numero di pilota donna: 12,4% sul totale. Seguono l’Irlanda (9,9%) e il Sudafrica (9,8%). Quindi Australia (7,5%) e Canada (7%). Se si va a vedere per segmento, nel cargo i comandanti e primi ufficiali di sesso femminile sono il 5% a fronte di una media mondiale del 5,8 dell’intero settore.

Glossari gender e educazione sessuale: polemica sui diari di scuola. Sulla Smemoranda c'è un glossario sull'identità di genere. Il diario finisce in mano a un bimbo di 9 anni e scoppia il caso. Ma chi controlla cosa mettono nello zaino i nostri figli? Elena Barlozzari il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Immaginate di scoprire, a qualche giorno dall’inizio dell’anno scolastico, che nel diario di vostro figlio, di appena nove anni, ci sono un paio di rubriche di cui non sapevate nulla. Il diario glielo avete comprato voi, prima di metterglielo in mano lo avete sfogliato e risfogliato, eppure di quelle rubriche non vi eravate proprio accorti. Lo avete scelto per il colore, perché è uno dei diari più in voga da sempre e perché vostro figlio ve lo chiede già dallo scorso anno.

Il diario in questione è la Smemoranda. L’evergreen delle agende scolastiche, c’era persino ai vostri tempi. La copertina è innocua, monocolore. L’avete scelta azzurra, di un bell’azzurro intenso. Due giorni fa, vi chiama l’insegnate e vi dice: "Guarda, ti vorrei segnalare delle cose nel diario di tuo figlio, delle cose che non mi sembrano appropriate alla sua età". Quell’insegnate si chiama Giusy D’Amico. È la maestra d’inglese e si dà il caso sia anche la presidente dell’associazione "Non si tocca la famiglia". È lei a raccontarci l’accaduto e la fine che hanno fatto le due rubriche in questione: "Con il consenso del genitore l’ho strappate, senza che l’alunno se ne accorgesse, per non stimolare in lui una curiosità sbagliata". La maestra D’Amico ci descrive in maniera stringata il contenuto di quelle rubriche: "C’è un glossario sull’identità di genere e una sezione dedicata all’educazione sessuale". Ce le mostra, ma noi vogliamo verificare di persona, anche e soprattutto perché ci risulta davvero difficile credere che, al momento dell’acquisto, l’incauto genitore non si sia accorto di nulla.

Decidiamo così di entrare in una delle tante librerie del centro di Roma, ne individuiamo una grande e ben rifornita, nella speranza di andare a colpo sicuro. Le agende scolastiche, con le lezioni ormai cominciate da qualche giorno, iniziano a scarseggiare. Veniamo indirizzati verso uno scaffale, impilate ne troviamo di tutte le fogge e varietà cromatiche. C’è anche quella che andiamo cercando. La copertina è sgargiante, azzurra, proprio come ce l’hanno descritta, ma c’è anche in versione rosa shocking e bianca. Iniziamo a sfogliarla, una, due, tre volte. Solo al terzo tentativo individuiamo le ormai famose rubriche. "Cisgender (o cisgenere) è una persona che non si identifica con il sesso che le è stato assegnato alla nascita", leggiamo. Il glossario prosegue: "Non-binary (o non binario) è un termine ombrello usato per descrivere una persona che non si identifica completamente né nel genere maschile né in quello femminile". E a seguire le definizioni di "genderqueer o genere non conforme", di "transgender", di "gender fluid", "gender neutral" e di "espressione di genere".

Scorrendo la seconda, invece, ecco comparire alcuni suggerimenti sui primi approcci alla sessualità. Tanto per citarne uno: "Il sesso non è solo sinonimo di rapporto completo: tutto ciò che vi fa eccitare è un’esperienza sessuale". Mentre cerchiamo di mettere ordine alle tante informazioni assorbite, un dubbio ci tormenta. No, non vogliamo moraleggiare, quel diritto lì lo lasciamo più che volentieri ai genitori. È più una domanda di carattere pratico: chi vende queste agende, è al corrente degli argomenti che trattano? La commessa ci chiarisce le idee: "Noi le ordinazioni le facciamo in base alla richiesta, non abbiamo idea dei contenuti, anche perché al momento dell’ordinazione non possiamo vedere neppure la copertina". È a tutti gli effetti un’ordinazione a scatola chiusa. Ma quando arrivano in negozio non le sfogliate? "Assolutamente no. Certo, a richiesta specifica, per un bimbo di nove anni la Smemoranda non la consiglierei". Il negozio è molto grande, vende una vasta gamma di articoli e abbraccia una clientela piuttosto ampia. La commessa ci lascia chiaramente intendere che, con tutte le cose che ci sono da fare, non possono mettersi a passare al setaccio una per una le pagine dei diari.

Proviamo allora a rivolgerci ad un negozio più piccolo, una cartolibreria a conduzione familiare. Qui, per ovvie ragioni, la cose funzionano diversamente. "È vero che finché non arrivano in negozio non sappiamo che aspetto abbiano i diari, però quando arrivano li controlliamo", ci spiega il proprietario. Le Smemoranda le vendete? "No, già dall’anno scorso abbiamo interrotto le ordinazioni, perché non condividiamo l’approccio". L’approccio? "L’educazione dei minori alla sessualità dovrebbe essere lasciata ai genitori, ma l’80 per cento di quelli che vengono a fare acquisti nemmeno li sfoglia i diari, guarda solo l’estetica". E dall’estetica, come abbiamo già detto, è veramente complicato intuire qualcosa. È capitato che qualcuno la riportasse indietro? "Non a me, ma conosco colleghi a cui è successo, e le posso assicurare che è sempre una situazione imbarazzante".

E in casi del genere? L’acquirente che diritti ha? Lo chiediamo al Codacons. "Non trattandosi di vizi o difetti, o di contenuti illeciti o vietati, il venditore non ha alcun obbligo di sostituzione del prodotto né di restituzione dell’importo". Certo, se l’agenda è nuova, si può sempre fare un tentativo, e in quel caso è tutto lasciato alla discrezionalità e alla disponibilità del negoziante. "È sempre responsabilità di chi compra verificare cosa compra". E se a fare l’acquisto è direttamente il minore? "A maggior ragione il genitore dovrebbe verificare con attenzione l’acquisto, sono regole di buonsenso della potestà genitoriale". Insomma, per l’adulto distratto, la strada più sicura è quella di munirsi di un bel paio di forbici e seguire l’esempio della maestra D’Amico.

Ma non ditelo a Maria Rachele Ruiu, mamma di due bimbi e storica attivista pro-vita e pro-famiglia. Per lei, nelle agende scolastiche, certi argomenti non dovrebbero proprio esserci. "È grave che uno strumento fatto per i giovanissimi sponsorizzi e diffonda teorie a-scientifiche, che in tutto il mondo si stanno dimostrando pericolose. Il dibattito sul ddl Zan ha infuocato il panorama politico e degli adulti, e loro cosa fanno? Propongono ai nostri figli ciò che non è passato in Parlamento?". Del "caso Smemoranda" la Ruiu è già al corrente. Ci spiega che, a livello di associazionismo, il tam-tam è cominciato da giugno. E si congeda con un avvertimento: "È l’ennesima conferma che noi genitori dobbiamo essere ancora più vigili, stanno cercando di indottrinare i nostri figli in tutti i modi".

Valeria Braghieri per “il Giornale” l'1 settembre 2022.

Un ceffone in mondovisione, una promettente carriera rottamata anzi tempo, una famiglia sconfessata: affettivamente, ideologicamente, geograficamente. Spiace ammetterlo ma, ogni tanto, dietro a una scelta drammaticamente sbagliata non c'è nient' altro che una donna. 

Lo sa Will Smith che prima delle smorfie irose della sua consorte stava ridendo alle battute di Chris Rock alla presentazione degli Oscar, lo «stra-sa» Mauro Icardi che ha finito col dare del tu alla panchina del Psg (forse si rimetterà in gioco al Galatasaray), temiamo debba ancora saperlo Harry Windsor che sembra consegnarsi mani e piedi a Meghan Markle per qualunque scelta della sua vita.

Si potrebbe aggiungere alla lista anche il primogenito dei coniugi «Victoria Beckham», Brooklyn, che pare abbia sposato una donna, Nicola Peltz, troppo simile alla carismatica mamma e abbia quindi involontariamente innescato una lotta all'ultimo post in casa per chi delle due debba aggiudicarsi il primato: di signora Beckham ce ne può essere una soltanto. Scommettiamo da che parte finirà con lo schierarsi Brooklyn? Non perché sia matematico che abbia ragione Victoria, anzi, nel caso dell'ex Spice Girl è vero quasi sempre il contrario, ma sfasciare le famiglie non è mai una soluzione. 

L'altro giorno Chris Rock ha annunciato che non presenterà la cerimonia degli Oscar 2023, il prossimo 12 marzo, malgrado la proposta da parte dell'Academy gli sia arrivata: «Sarebbe come tornare sulla scena di un crimine» ha spiegato il comico riferendosi allo schiaffo che si prese sul palco, lo scorso anno, da Will Smith a causa di una «battuta infelice» indirizzata alla moglie dell'attore, Jada Pinkett.

Alla notizia, Smith, che di fatto con quella sceneggiata si è rovinato il suo Oscar come migliore attore per il film (ironia della sorte) «Una famiglia vincente», si sarà forse ulteriormente pentito. Smith si era già pubblicamente scusato con il comico, ma adesso, pensare che Rock declini l'invito a causa sua... Oltretutto, grazie ai ruoli interpretati, il pubblico aveva di Smith un'immagine completamente diversa rispetto a quella che è andata in onda durante la consegna dei premi cinematografici. E non sappiamo quanto la sua violenta galanteria gli abbia fatto guadagnare estimatori. In più la reazione gli è arrivata leggermente in differita, come una partita su Dazn. Ha iniziato a ridere, poi la moglie ha bisbigliato qualcosa inferocita e lui è partito all'attacco. 

Fin troppo nota la scelta di «carriera» fatta da Mauro Icardi (anche) per volere della moglie-agente Wanda Nara. Lasciare l'Inter e passare al Psg dove gli è andata malissimo. A Milano si era bruciato i rapporti con la società e lo spogliatoio, a Parigi lei ha potuto fare shopping ma lui ha giocato pochissimo. Fino a quando non è stato gentilmente invitato a cercarsi un'altra squadra. In mezzo ci sono state corna vere o presunte, minacce di separazione, faticose riconquiste, blande e poco convinte riappacificazioni.

E poi arriviamo alla parabola più triste e più documentata. Il silente, doloroso divorzio tra Harry e la famiglia Windsor dietro alla quale ormai, anche un bambino, riconosce il tocco astioso e prepotente della moglie Meghan. Una sconosciuta che si è insinuata nella sua faccia. C'è ormai un'intera letteratura sulla storia della fuoriuscita del secondogenito di Carlo dalla storia della Corona inglese. Straziante per la nonna, la Regina Elisabetta, (pare che Harry fosse il suo nipote preferito) e, verosimilmente per il nonno Filippo che ha chiuso gli occhi con il rammarico di una famiglia sfilacciata.

E poi c'era quell'altra storia famosa, con quell'altra tipa. Com' è che si chiamava?

La storia rimossa, perché Teodora fa paura agli uomini. Silvia Ronchey su La Repubblica il 21 Agosto 2022.

L'imperatrice Teodora e il suo seguito nel mosaico della basilica di San Vitale a Ravenna 

Prostituta e imperatrice, femme fatale incarnata da Sarah Bernhardt. Ma nel Novecento le grandi intellettuali l'hanno riscoperta politicamente

Tutto era cominciato con un ballo in maschera dai coniugi Lebaudy. Una giovane principessa rumena, Marthe Bibesco, era appena arrivata a Parigi. Aveva sedici anni, non aveva un costume e nemmeno troppo denaro per comprarlo. Così aveva usato i gioielli di famiglia, dopotutto simili ai modelli bizantini, e si era presentata travestita da Teodora. Fece il suo ingresso all’hôtel della rue Pierre Charron «portando le insegne, la dalmatica, la corona, i gioielli e le babbucce di porpora di Teodora tale e quale la vediamo nel famoso mosaico di Ravenna», scriverà rievocando in seguito quell’episodio.

«Ci chiamano “gentile signora” e i maschi sono tutti “dottori” ma la missione è possibile!» Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Una rivoluzione diplomatica in sei storie speciali, quelle di Mariangela Zappia, Daniela D’Orlandi, Gabriella Biondi, Giuliana Del Papa, Eleonora Lopez e Giulia Romani. 

2 gennaio 1949: sullo scalone d’onore del Quirinale Piccolomini della Presidenza della Repubblica, il conte Betteroni e il dottor Thiene, con altri funzionari del Ministero degli Esteri, tutti uomini, ricevono le rappresentanze estere in Italia per i saluti di inizio anno del presidente Luigi Einaudi.

Diplomatiche non si nasce. E nel nostro Paese diventarlo può essere ancora difficile. Ma non impossibile. Servono competenza, passione e perseveranza per accedere alla carriera. Pragmatismo e flessibilità (e compagni di vita pazienti) per farla. Già, perché la parità di genere in questo ambito è ancora lontana se, a oggi, le donne che vi operano sono 256 (24,28%). Numeri che sono migliorati dal 1964, anno del primo concorso aperto alle donne. Rispetto al 2005, quando sono state nominate le prime ambasciatrici Graziella Simbolotti e Iolanda Brunetti, oggi a ricoprire il massimo grado sono in sei: quasi una su quattro incarichi disponibili. In questa inchiesta, che dà voce a sei donne impegnate a vari livelli nella carriera diplomatica, emergono Ma i numeri sono ancora lontani dalla parità. Mi sono occupata spesso di situazioni di crisi e mi sono resa conto di quanto, ad esempio, le donne siano quasi assenti nei processi e negli accordi di pace, pur dovendo portare sulle spalle il peso della loro attuazione. Faccio parte di una rete, l’International Gender Champions, i cui i membri si impegnano a promuovere la parità e, come Ambasciata, abbiamo aderito all’iniziativa “Campioni della Parità” del Ministero degli Esteri. Nelle attività pubbliche teniamo conto di questo principio nella composizione dei panel, come nei miei interventi. Ho reclutato Gender Champions uomini perché quella della parità non è una causa delle donne per le donne, ma di tutti per una società non solo più giusta ma più produttiva. Anche nelle decisioni di policy c’è una modalità femminile, caratterizzata da concretezza molti aspetti differenti e un punto in comune: un coro unanime di incoraggiamento verso le giovani che vogliano entrare in questo mondo complesso e affascinante.

LE DONNE IN DIPLOMAZIA SONO IL 24,28%, SOLO NEL 2005 LE PRIME AMBASCIATRICI. E ZAPPIA CHIEDE «PIÙ PESO NEI PROCESSI DI PACE»

Mariangela Zappia, nata a Viadana (Mn) nel 1959. Prima ambasciatrice italiana a Washington, prima rappresentante permanente alle Nazioni Unite a New York e al Consiglio Atlantico. Suo il primato femminile come consigliere diplomatico del presidente del Consiglio dei Ministri e Sherpa del G7/G20.

Mariangela Zappia, ambasciatrice d’Italia negli Usa

«L’idea di servire il mio Paese in me è sempre stata molto forte. Viene dalla tradizione famigliare: mio padre era ufficiale dei carabinieri. Il resto l’ha fatto l’ambiente accademico di Firenze, così internazionale. Capii che il mondo era più ampio della mia realtà fiorentina. Nel mio anno fui l’unica donna a vincere il concorso diplomatico ma non compresi quanto maschile fosse il mondo in cui stavo entrando fino al primo giorno di lavoro: da subito mi scontrai col pregiudizio di alcuni per cui determinate competenze non venivano considerate “adatte” a una donna. Un atteggiamento un po’ paternalista. Ora è la società a essere cambiata: non ci sono più professioni esclusive. nel raggiungere gli obbiettivi, empatia e capacità di lavorare in team. In principio, sarei favorevole alle quote di genere almeno per recuperare il gap più rapidamente dei quasi 200 anni che le Nazioni Unite stimano ci vorrebbero senza stimoli. Penso che sarebbe un bel segnale che anche il nostro Paese dichiarasse una “politica estera femminista”, come hanno fatto Canada, Francia, Messico, Spagna, Svezia e altri. Forse c’è una remora ad “etichettare” ma di fatto la nostra politica estera ha già tra i suoi obiettivi trasversali la parità di genere, come lo stesso Pnrr. Alle più giovani dico: credete in voi stesse. Conciliare il lavoro con la famiglia non è facile ma si può fare, e la nostra amministrazione è molto più attenta di quando 40 anni fa entrai in carriera».

D’ORLANDI: «MIO PADRE FACEVA LO STESSO LAVORO IN VIETNAM. HO TRE FIGLI E SONO SPOSATA CON UN COLLEGA CHE MI HA SEGUITA»

Daniela Orlandi, nata ad Atene nel 1973. Dal Cerimoniale diplomatico della Repubblica, presso l’Ufficio delle visite all’estero e in Italia, a vice capo missione presso l’Ambasciata a Santo Domingo. Poi una carriera a difesa dei diritti umani.

Daniela d’Orlandi, ambasciatrice in Ghana e Togo

«Ho sognato questa carriera sin da bambina: mio padre era ambasciatore in Vietnam durante la guerra. È morto quando avevo tre mesi per una malattia contratta durante la sua prigionia in India, dove fu deportato dagli inglesi. Mia madre, che è vietnamita, mi portò a Parigi, dove ho studiato fino alla laurea in Economia applicata all’Università di Parigi-Dauphine. Ho superato il concorso al terzo tentativo, mentre già stavo pensando di occuparmi di finanza. Tra i primi incarichi, quello presso il Cerimoniale diplomatico della Repubblica mi ha subito galvanizzato. Pur avendo tre figli, sono riuscita a conciliare vita personale e professionale grazie anche alla sensibilità dei miei superiori e al fatto che la Farnesina persegue le pari opportunità. Sono sposata con un collega e, ora che sono ambasciatrice, è stato lui a fare il sacrificio di seguirmi in Africa. Sono partita nel mezzo della pandemia con tutta la famiglia, e per fortuna, altrimenti quando li avrei rivisti? Mi sono battuta per i diritti delle donne durante il mio incarico alle Nazioni Unite e per la prima volta abbiamo portato nell’Onu il concetto di discriminazione nei confronti delle lavoratrici incinte. Chi aspira a fare questo mestiere sappia che bisogna sempre superare i propri limiti. Ma le nuove generazioni, più aperte culturalmente, mi fanno ben sperare».

Gabriella Biondi, nata a Milano nel 1970. Tre anni in Albania, durante il periodo della crisi del Kosovo, cinque alla rappresentanza italiana Onu a New York per poi passare alla Direzione Nazioni Unite della Farnesina. Ha diretto l’Istituto Diplomatico prima di approdare al Gabinetto del Ministero.

Gabriella Biondi, vicecapo di Gabinetto al Ministero degli Esteri

«All’Università avevo già in mente il mio percorso. Così ho studiato quello che il concorso avrebbe richiesto. Nel mio anno, il 1996, lo superammo in sette su ventitrè. Mi sentivo dire che non era una carriera per donne. Purtroppo lo sento ancora. Da direttrice dell’Istituto Diplomatico, andando nelle Università per reclutare studenti, solo le ragazze mi chiedevano come conciliare lavoro e famiglia. È vero che fare figli può essere percepito come un ostacolo. Io li ho fatti tardissimo: dopo dieci anni di matrimonio. Ammetto che non avrei avuto la stessa carriera se mio marito non si fosse preso carico del 50% della gestione familiare. Ma va anche detto che le tutele ci sono: se avessi voluto seguire mio marito, avrei potuto farlo, mettendomi in aspettativa. Non è retribuita, ma si conserva il posto. E poi, sfatiamo un mito: non è obbligatorio girare il mondo come delle trottole, si possono anche spendere periodi più lunghi a Roma, senza inficiare la carriera. Momenti di difficoltà ne ho vissuti: a 28 anni, durante la crisi in Kosovo, a Tirana avevo l’incarico di interfacciarmi con le Forza armate. Ho imparato a farmi ascoltare. E ho notato che noi donne siamo più concise e andiamo al punto rispetto ai colleghi. Esiste un modo femminile di creare legami. All’Onu avevo una rete di donne con cui ci capivamo al volo: «Vogliamo trovare un accordo e tornare a casa prima?» ci dicevamo. Alle più giovani suggerisco di non desistere. Nei concorsi molte lasciano a un certo punto della selezione, come se non si fidassero di loro stesse. Non lasciatevi spaventare».

Giuliana Del Papa, nata nel 1974 a Milano. Dall’Ambasciata a Lima a quella di Madrid come Consigliera politica. Tornata a Roma, diventa capo ufficio Corno d’Africa e poi vice capo missione ad Addis Abeba. Coordinatrice a Bruxelles, in Italia è capo ufficio per l’assistenza umanitaria del Ministero.

Giuliana Del Papa, capo Unità analisi e programmazione Ministero degli Esteri

«Sono arrivata alla diplomazia quasi per caso, frequentando un master all’Ispi. Il concorso è stata un’esperienza durissima: un anno intero di preparazione su un ventaglio ampio di materie. All’inizio c’è grande entusiasmo, poi però le ore non bastano più e la nozione di tempo libero perde qualunque significato. Ho fatto due figli ma a prezzo di grandissima fatica. Dobbiamo imparare dagli altri Paesi: a un certo punto bisogna spegnere la luce. Come presidente dell’Associazione donne italiane diplomatiche e dirigenti cerco i “colli di bottiglia” delle nostre carriere. Ad esempio, nel concorso c’è una prova attitudinale, che prevede la scelta multipla, che non mi sembra in linea con le attitudini femminili. Non vogliamo scorciatoie. Ma se noi donne non abbiamo mai i meriti che vengono ricercati per determinati incarichi di rilievo, vuol dire che il merito non ha una definizione neutra sul piano del genere. L’anno scorso una circolare ministeriale ha richiamato chi ha responsabilità ad applicare il principio di non discriminazione nella composizione delle delegazioni e a favorire la conciliazione e la genitorialità. E per la prima volta nella Conferenza degli ambasciatori e ambasciatrici c’è stato un panel sulla questione di genere. C’è bisogno di rappresentare il nostro Paese anche attraverso le donne, perché i nostri diritti nel mondo stanno regredendo e sono spesso terreno di uno scontro di valori».

Eleonora Lopez, nata a Ferrara nel 1985. Primo incarico all’ufficio del Sottosegretario con delega all’America Latina e Centrale, poi all’Ambasciata di Atene. Dal 2020 è all’Ambasciata a Kiev: ha seguito le operazioni di evacuazione e il riposizionamento della sede a Leopoli.

Eleonora Lopez, primo segretario Ufficio economico, commerciale e stampa dell’Ambasciata d’Italia a Kiev

«Pensavo di lavorare in un ONG, poi ho tentato il concorso. Difficilissimo: i cinque giorni di scritti sono molto intensi. Nel mio anno le donne erano quasi la metà di chi lo vinse. Può provarci chiunque. Certo, serve tanto studio e sangue freddo. Sono entrata al lavoro giovane. Dopo una prima esperienza alla Farnesina dedicata al Sud America, è arrivata la Grecia nel pieno della crisi economica e migratoria: ricordo i cittadini in fila ai bancomat e gli anziani cui venivano offerte le sedie. Mi sono trasferita a Kiev subito prima dell’emergenza Covid, ma è stata la guerra a cambiare tutto in una notte. L’aspetto umanitario ha prevalso, quando abbiamo dovuto evacuare e assistere gli italiani e andare nei luoghi dei massacri, come Bucha e Irpin. I miei figli sono piccoli e la loro vita era a Kiev, ancora oggi vogliono tornarci. Conciliare vita e lavoro non è stato facile: per fortuna mio marito fa lo stesso mestiere. Gli orari e i ritmi sono impegnativi: per questo sarebbe utile sviluppare ulteriormente forme di lavoro flessibile. Sinora non ho mai lavorato con altre colleghe diplomatiche. Ma dagli uomini non ho subito vere discriminazioni. Certo, talvolta c’è la tendenza a far parlare noi giovani donne per ultime. E gli interlocutori esterni spesso mi chiamano “gentile signora”, mentre i pari grado maschi vengono appellati “dottore”. Esistono doti specifiche femminili? Sì e sono riconosciute: essere multitasking e avere sensibilità nelle relazioni».

ROMANI: «IL PRIMO IMPATTO, A 23 ANNI, È STATO TRAUMATICO. POI HO CAPITO CHE IL NOSTRO È UN RUOLO ASSURDO E BELLISSIMO»

Giulia Romani, nata a Lucca nel 1987. Da segretario di legazione nella Cooperazione allo sviluppo, all’Ambasciata in Iraq. Dal Consolato generale a Londra durante la Brexit a Consigliere di legazione all’Unita di Crisi della Farnesina. Prossima destinazione: il Consolato generale di Toronto.

Giulia Romani, consigliere di Legazione presso la Segreteria generale dell’Unità di crisi Ministero degli Esteri

«Pensavo di fare Medicina o Lettere Antiche ma la mia prof di Storia mi ha involontariamente dirottata su Scienze politiche, con preoccupazione della famiglia. Una volta laureata ho superato il concorso al primo tentativo, come molte altre donne. A 23 anni l’impatto al lavoro è stato traumatico, ma sono stata aiutata: alla Cooperazione c’era l’ambasciatrice Belloni e uno staff amministrativo tutto al femminile che mi ha adottata. La missione in Iraq, dopo i primi mesi, ha preso una piega tragica con la caduta di Mosul e l’Isis alle porte. Stando tra i profughi del Kurdistan ho imparato a dare il giusto valore alle cose. Il nostro è un mestiere assurdo e bellissimo: l’ho pensato quando mi sono ritrovata sul tetto dell’ambasciata, in salvo dalla piena del Tigri, sotto la luna. A Londra curare una comunità di 6-700 mila italiani, soprattutto dopo la Brexit, è stato impegnativo. E umanamente difficile è stato gestire gli effetti di alcuni attentati e l’incendio della Grenfell Tower, dove sono morti dei giovani connazionali. Quello attuale all’Unità di crisi della Farnesina è un incarico di cui sono orgogliosa: è incredibile quante soluzioni si producono per assistere i connazionali. L’ho sperimentato in epoca Covid. Al momento non penso a una famiglia. Se cambiassi idea, spero che il lavoro mi renda la flessibilità che gli ho offerto fin qui». 

"Una macchina capace di pensare": così Ada Lovelace immaginò il computer. Davide Bartoccini il 3 Agosto 2022 su Il giornale.

Un secolo prima della nascita del computer, una gentildonna inglese immaginò una "macchina" straordinaria e scrisse il primo programma della storia. Il suo nome era Ada Lovelace

Appena un secolo prima dell’alba di quella che fu l'era del computer, quando le macchine pensanti più straordinarie venivano progettate dagli analisti militari di Bletchley Park per vincere la più grande delle guerre, una certa signorina Ada Lovelace immaginò una macchina moderna che poteva essere programmata come un computer multiuso. Un mezzo ipotetico e meccanico che non avrebbe solo potuto calcolare, ma addirittura “creare”, “tessendo schemi algebrici proprio come il telaio Jacquard è in grado di tessere fiori e foglie”. Era il 1843. E lei, considerata la madre dell'informatica moderna, aveva appena 27 anni.

Figlia del grande poeta Lord Byron e Annabella Milbanke - che il poeta chiama la “Medea matematica" - nacque a Londra nel 1815 e visse, secondo gli storici, un’infanzia traviata da una madre violenta e accusatrice. Pare che la donna non perdesse occasione di ricordarle che il padre la abbandonò proprio a causa della sua nascita. Generando in lei un profondo senso di colpa che invece non l'abbandonerà mai.

Fu quella stessa madre tuttavia, una riformatrice sociale che nutriva uno sconfinato interesse per la matematica, a seminare la curiosità in quella giovane donna che si era rifugiata nei libri per cercare le risposte a quesiti universali che fin dall’alba dei tempi rimangono insoluti: perché ad alcuni spetta la felicità e ad altri no?

“Per quanto io possa comprendere bene, ciò che capisco può essere soltanto una frazione infinitesimale di tutto ciò che voglio comprendere”, asseriva la giovane Ada. La quale, essendo nata in una classe sociale agiata, aveva accesso a precettori e tutori che, oltre a insegnarle a padroneggiare materie complesse, la inserirono ad appena 17 anni - date le sue spiccate e precoci qualità intellettuali - nella società scientifica e letteraria britannica. Fu li che conobbe Mary Somerville, scienziata e scrittrice, che a sua volta le presenterà il matematico Charles Babbage. Questi fu il creatore di una grande calcolatrice meccanica d'ottone che catturò immediatamente l’immaginazione di quella ragazza che si era appassionata alla matematica, agli algoritmi, e alla loro applicazione nella vita terrena per tentare di trarre - almeno in parte - un senso nelle cose.

“Ora leggo matematica ogni giorno e mi occupo di trigonometria e di preliminari alle equazioni cubiche e biquadratiche. Quindi vedete che il matrimonio non ha affatto sminuito il mio gusto per queste attività, né la mia determinazione a portarle avanti”, scriveva Ada alla sua vecchia amica quando tre anni dopo divenne contessa di Lovelace in seguito al suo matrimonio con William King. Da lui ebbe due figlie che allevò con affetto, impegno che non le impedì di proseguire una fitta corrispondenza e collaborazione con Mr. Babbage - il quale la definì "l'incantatrice dei numeri”.

L’inventore riferendosi a lei scrisse: “Ha lanciato il suo incantesimo magico intorno alla più astratta delle scienze e l'ha colto con una forza che pochi intelletti maschili avrebbero potuto esercitare sopra”. Non ci sarebbe bisogno di ricordare in questa sede, infatti, che Ada Lovelace visse una di quelle epoche in cui le donne non erano considerate alla stregua degli uomini in questioni di intelletto e non solo.

La spiegazione del mondo attraverso la matematica

Secondo la contessa Lovelace, la matematica ha sempre costituito “il linguaggio attraverso il quale solo possiamo esprimere adeguatamente i grandi fatti del mondo naturale”. Ma come calcolare tanta complessità in un tempo adatto a una singola esistenza? Fu questa brama forse a ispirarla nell’ideare i rudimenti di quella che sarebbe divenuta la moderna informatica. Immaginando macchine capaci di andare oltre al semplice calcolo dei numeri, ma di comprendere e riprodurre anche simboli attraverso i numeri, e creare musica o riprodurre qualsiasi immagine.

Secondo lo scrittore Walter Isaacson - che la inserisce tra i profili dei maggiori innovatori (e innovatrici) della storia - quell'intuizione sarebbe base fondamentale e primo passo ideale nell’intero concepimento dell'era digitale. Ossia l’idea che un qualsiasi “contenuto, dato o informazione” - compresa quindi la musica, i contenuti di testo, immagini, numeri, simboli, suoni, video - potessero essere "espressi in forma digitale" e potesse essere "manipolato" attraverso le macchine. Una prima, pionieristica e antesignana esplorazione della capacità di un computer che sarebbe stato realizzato - così come lo stiamo descrivendo - nei primi anni ’80. Qualcosa che superava anche, e di molto, le straordinarie macchine sviluppate dai matematici di guerra che si riunirono a Bletchley Park nel 1941. Considerate i primi computer della storia.

La madre dimenticata del computer moderno

Divenuta mente illustre e nota in tutta l’Inghilterra, e non meno in Europa, Ada Lovelace iniziò a definirsi un’“analista” più che una semplice matematica. E lavorando con il matematico Babbage giunse presto alla conclusione di poter creare qualcosa che avrebbe cambiato le sorti del mondo. Si riferiva a una “macchina capace di essere uno strumento programmabile, con una intelligenza simile a quella dell’uomo”.

Nella traduzione di un articolo accademico del matematico italiano Luigi Menabrea che svolse per conto di Babbage, Ada inserì una sezione - di quasi tre volte la lunghezza del documento - intitolata semplicemente “Note”. In esse descrisse il funzionamento di un computer, immaginandone non solo il potenziale, ma anche i suoi possibili utilizzi al servizio dell’uomo (sfiorò anche l’odierna problematica dell'Ai, l’Intelligenza artificiale, ndr). Il documento conteneva anche il primo programma della storia: un nuovo algoritmo per il calcolo dei numeri di Bernoulli, gettando così le basi per un futuro che stiamo vivendo - perché questo articolo, è redatto al computer. Purtroppo quello fu uno dei suoi ultimi lavori. Già ammalata da tempo, morirà nel 1852.

L'algoritmo di Lady Lovelace, riconosciuto come il primo programma informatico della storia, avrebbe ispirato Alan Turing, il celebre matematico che saprà trarne le nozioni necessarie a costruire il primo computer. Il contributo di Ada Lovelace rimase a lungo ignorato e sottovalutato dalla comunità scientifica che riscoprì la madre dell’informatica solo nella metà del XX secolo. Da allora, ogni 12 ottobre, il mondo rende omaggio ad Ada ricordando le donne che nel suo medesimo campo, hanno rivoluzionato il corso della storia con intuizioni tanto brillanti da accecare anche i posteri. Diventando un esempio per tutte le donne che hanno dedicato o decideranno di dedicare la loro vita alla scienza e alla ricerca.

La vita a cento all'ora della "baronessa" delle auto. Fu la prima a correre la Mille Miglia e a essere accettata a Indianapolis. Coraggiosa e caparbia, fece da apripista alle donne al volante nei circuiti. La vita della prima pilota automobilistica, Maria Antonietta Avanzo. Francesca Bernasconi il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.

Una vita vissuta con il piede sull'acceleratore. I circuiti erano le sue strade e le auto da corsa il suo mezzo di trasporto. Soprannominata la "baronessa" delle auto, fu la prima donna a correre la Mille Miglia e a gareggiare con piloti come Tazio Nuvolari ed Enzo Ferrari. Maria Antonietta Avanzo fu una donna e una pilota straordinaria, così decisa e coraggiosa da non tirarsi indietro nemmeno quando, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, si trovò di fronte agli orrori dell'Olocausto. La sua caparbietà la spinse dove nessuna donna era mai arrivata, rendendola l'apripista dell'automobilismo al femminile.

L'amore per le auto

Maria Antonietta Avanzo nacque nel 1889 a Contarina, un comune in provincia di Rovigo, che prese poi il nome di Porto Viro, quando venne accorpato al paese di Donada. I genitori erano ricchi proprietari terrieri veneti, i Bellan (lei cambierà il cognome, come si faceva solitamente a quei tempi, una volta sposata).

A trasmetterle l'amore per le automobili sarebbe stato il padre, che l'avrebbe incoraggiata a guidare fin da quando era piccola. Fu lei stessa, come precisato da Enciclopedia delle donne, a raccontare di aver imparato a guidare da sola e di aver sottratto la macchina al padre, spingendola a folli velocità sulle strade che circondavano la villa di campagna della famiglia. Fra le vittime dei suoi primi incidenti, racconta, ci furono "cani, gatti, galline e segretari comunali".

Nel 1908 Maria Antonietta si sposò con Eustachio Avanzo, si trasferì con lui a Roma ed ebbe due figli.

Le prime gare

Dopo il matrimonio e la fine della Prima Guerra Mondiale, il marito le regalò una Spa 35/50 Sport, l'auto con la quale affrontò la sua prima gara automobilistica. Il suo debutto come pilota avvenne nel 1918, quando corse sul Circuito del Lazio.

Nel 1920 Maria Antonietta ritornò di nuovo alla guida, questa volta di una Buick, partecipando all'undicesima Targa Florio, ma non riuscì a completare la gara a causa di un guasto al motore. Appena un anno dopo gareggiò sul circuito del Garda, sostituendo un pilota della squadra Ansaldo, ammalatosi poco prima: arrivò terza al traguardo, dietro a Corrado Lotti e alla leggenda dell'automobilismo, Tazio Nuvolari.

Nello stesso anno, Maria Antonietta si recò per la prima volta all'estero, per partecipare alle gare di chilometro lanciato che si tenevano sulla spiaggia di Fanø, in Danimarca. Durante la seconda competizione, la Avanzo ebbe un incidente, che seppe gestire in modo esemplare: dopo che la macchina prese fuoco, la pilota abbandonò le dune sabbiose e si gettò in mare.

Poco dopo, sempre nel 1921, tornò in Italia per disputare il Gran Premio Gentleman di Brescia, correndo a bordo di un'Alfa Romeo. In questa occasione ottenne uno dei suoi risultati migliori, classificandosi al terzo posto assoluto. Nel 1923, la pilota lasciò l'Italia e si recò in Australia con i due figli, ritirandosi temporaneamente dalle corse.

Dalle Mille Miglia a Indianapolis

Ma non passò molto tempo prima che la "baronessa" tornasse in pista. Era il 1926 e in Italia si disputava la Coppa della Perugina, alla quale la Avanzo partecipò, classificandosi al terzo posto. Fu nel 1928, però, che la "baronessa" puntò alla gara più ambita e difficile della storia dell'automobilismo: la Mille Miglia.

Si iscrisse insieme a Manuel de Teffé e vi partecipò con una Chrysler 70, ma non potè giungere al traguardo a causa di un guasto tecnico. Nonostante l'apparente insuccesso, la presenza della Avanzo rappresentò una vittoria dal punto di vista della lotta femminista, perché lei fu la prima donna a partecipare alla Mille Miglia.

Dopo aver corso nella Coppa Pierazzi, classificandosi al terzo posto, nel 1932, a 43 anni, la pilota accolse l'invito di Raffaele "Ralph" De Palma a partecipare alle 500 Miglia di Indianapolis. Ottenuta una licenza speciale, dato che le donne non erano ammesse a correre sul circuito, la Avanzo completò le prove di qualificazione correndo sulla Miller Special di De Palma, ma dovette rinunciare alla gara.

L'ultima competizione a cui partecipò la pilota fu la Tobruch-Tripoli nel 1940, dove arrivò sesta. Ma per tutto il resto della sua vita Maria Antonietta Avanzo sfrecciò per le strade di Roma, fino al 17 gennaio 1977, quando morì all'età di 88 anni.

Una donna rivoluzionaria

Maria Antonietta Avanzo fu pioniera in molti ambiti e divenne uno dei simboli dell'emancipazione femminile. La sua carriera automobilistica si sviluppò tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento, un periodo in cui nel mondo le donne chiedevano a gran voce che gli fossero riconosciuti gli stessi diritti degli uomini. Ma, in Italia, il Fascismo tendeva a relegare le donne al ruolo di mogli e madri. Ai tempi, quindi, il genere femminile era quasi escluso dallo sport e le ragazze alla guida di un'automobile erano pochissime. In generale i settori nei quali le donne avevano una scarsa o nulla rappresentanza erano parecchi.

La Avanzo sfidò la società del tempo, non solo diventando la prima donna pilota a correre diverse competizioni, ma anche dimostrando di essere migliore di alcuni uomini che svolgevano il suo stesso sport, battendoli sul circuito. Così fece da apripista all'automobilismo femminile. Non solo. Maria Antonietta Avanzo diede uno schiaffo alle convinzioni maschiliste dei primi decenni del Novecento: dal trasferimento in Australia, alla decisione di riprendere a gareggiare, fino alla volontà di crescere i figli senza rinunciare a correre, si mostrò indipendente e sicura di sé.

La personalità di questa donna rivoluzionaria è stata caratterizzata anche dal coraggio, che le ha permesso di diventare un'icona dell'automobilismo al femminile. Quello stesso coraggio che, qualche anno più tardi, le servì per affrontare la Seconda Guerra Mondiale e per nascondere alcuni ebrei, salvando loro la vita.

Tiny, la piccola grande donna che si lanciò per prima con il paracadute. Fu la prima donna a lanciarsi da un aereo con il paracadute. La storia di Georgia "Tiny" Broadwick, che sfidò la gravità e le convenzioni del tempo, per inseguire il suo sogno. Francesca Bernasconi il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.

Era soprannominata Tiny, "minuscola", ma Georgia Ann Thompson, che cambiò poi nome in Broadwick, è diventata una grande donna: la prima che ebbe il coraggio di saltare da un aereo in volo e atterrare utilizzando un paracadute. Dopo essere rimasta affascinata dal salto nel vuoto da una mongolfiera, accettò di buttarsi da un aereo, di atterrare in uno specchio d'acqua e di svolgere diverse dimostrazioni per l'aviazione militare, all'inizio della Prima Guerra Mondiale. Tiny è passata alla storia come la prima donna paracadutista, ricevendo per questo diversi premi e riconoscimenti.

Chi era Georgia Broadwick?

Georgia Ann Thompson nacque nel 1893 nella Carolina del Nord. Alla nascita, ultima di sette figlie, pesava meno di un chilo e mezzo e questo le valse il soprannome di "Tiny", "minuscola", un nomignolo che le rimase appiccicato per il resto della sua vita, anche perché, una volta cresciuta, risultò alta poco più di un metro e mezzo e con un peso di appena 36 chili. Divenuta una sposa bambina all'età di soli 12 anni e madre a distanza di poco tempo, dopo la scomparsa del marito dovette iniziare a mantenere sé stessa e la figlia. Per farlo, andò a lavorare in un cotonificio, nel quale passava fino a 14 ore al giorno. Quell'occupazione però non durò a lungo.

A cambiarle la vita fu uno spettacolo. Era il 1907. Georgia aveva 14 anni ed era andata a Raleigh, capitale della Carolina del Nord, per assistere al Jones Carnival. Quel giorno era in programma lo spettacolo The Broadwicks and their Famous French Aeronauts: un gruppo di artisti, saliti in cielo servendosi di alcune mongolfiere, si lanciava poi nel vuoto, atterrando con un paracadute. Tiny rimase affascinata da quell'esibizione: "Quando vidi la mongolfiera alzarsi, la guardai a bocca aperta mentre saliva al cielo e capii che non sarei stata più la stessa", dichiarò Tiny, come ricordò The Blade in occasione del suo 80esimo compleanno. Georgia, allora, andò dall'organizzatore e proprietario dello spettacolo, Charles Broadwick, per chiedere di potersi unire alla compagnia.

Georgia convinse Broadwick, che la prese con sé come atleta, ma dandole anche il suo nome: così, Georgia Ann Thompson divenne Tiny Broadwick, conosciuta anche come "The Doll Girl", perché durante gli spettacoli vestiva come una bambola, con calzoncini arruffati, fiocchi rosa e un cappellino sulla testa.

Il suo primo salto risale al 1908, durante la North Carolina State Fair, un'esposizione annuale di agricoltura. "Te lo dico, tesoro, è stato sensazione più bella del mondo", disse, come riportato dallo State Archives of North Carolina, quando un cronista le chiese cosa avesse provato. Le sue esibizioni attirarono grandi folle e Georgia divenne il personaggio principale degli spettacoli itineranti, che si svolgevano in fiere, carnevali ed eventi all'aperto. La compagnia girò tutto il Paese, ma lo spettacolo in mongolfiera era ormai conosciuto e aveva perso il fascino iniziale. Una nuova sfida però attendeva Tiny e Charles Broadwick.

​Dalla mongolfiera agli aerei

Era il 1913. Tiny e Charles erano a Los Angeles. Poco tempo prima, il pilota Glenn L. Martin aveva dato vita a una fabbrica di aeroplani nel paese e, per finanziarla, aveva iniziato a fare acrobazie aeree. I tre si incontrarono e Martin, che aveva già visto saltare Georgia con il paracadute, le chiese se volesse provare a lanciarsi da uno dei suoi aerei. La piccola Tiny non si tirò indietro e accettò la sfida.

Per l'occasione, Broadwick sviluppò un particolare paracadute - che all'epoca era fatto di seta: il paracadute era ripiegato in uno zaino attaccato a una giacca di tela e comprensivo di un'imbracatura. Per eseguire questa impresa, Tiny era appesa a una sorta di altalena sospesa sotto la fusoliera dell'aereo, mentre il paracadute si trovava su uno scaffale sopra di lei. Quando l'aereo raggiunse l'altezza desiderata, la ragazza saltò, la copertura si strappò automaticamente e il paracadute si riempì d'aria, aprendosi. Così Georgia iniziò a galleggiare nell'aria, fino a quando non atterrò a Griffith Park. Con quel salto, il 20 giugno del 1913, Tiny divenne la prima donna paracadutista a buttarsi da un aereo.

Il salto fu un successo e tutto il Paese iniziò a conoscere Tiny Broadwick che, poco dopo, divenne anche la prima donna a lanciarsi con il paracadute su uno specchio d'acqua, il lago Michigan. Il 10 gennaio 1914, il Warsaw Daily Union raccontò una delle imprese di Georgia: "Una delle due donne, passeggere trasportate da Glenn Martin, è uscita dal suo aereo quando era a 850 piedi in aria - scrisse - Ha raggiunto il suolo in sicurezza e ha dimostrato, con soddisfazione di Martin, la praticabilità di un salvagente aereo. Gli spettatori hanno visto la ragazza cadere di 75 piedi come di colpo. Poi il paracadute attaccato sulle sue spalle si è aperto e lei è scesa gradualmente e senza alcun apparente sforzo di equilibrio. Martin ha detto di aver lavorato all'idea per due anni".

Coraggio e determinazione portarono Tiny a lanciarsi con il paracadute centinaia di volte, senza mai perdere l'entusiasmo iniziale: "Respiro molto meglio lassù ed è così tranquillo essere così vicino a Dio", dichiarò la donna.

Il contributo durante la guerra

La fama di Tiny arrivò fino ai funzionari del governo, che nel 1914 chiesero alla donna una dimostrazione sull'efficacia del paracadute. In Europa era iniziata la Prima Guerra Mondiale e diversi piloti erano morti perché non erano riusciti a uscire da un aereo in caduta.

Georgia acconsentì ed effettuò quattro salti dimostrativi nell'Isola del Nord di San Diego. I primi tre si svolsero come da manuale, senza incidenti: Tiny utilizzava un paracadute a "linea statica", che si apriva automaticamente nel momento in cui la donna saltava e, con il peso del suo corpo, tirava la corda attaccata all'aereo. Al quarto lancio però la corda che collegava il paracadute all'aereo si aggrovigliò e, a causa del vento, Tiny non riuscì a risalire sul velivolo.

Senza farsi prendere dal panico, la donna decise di tagliare le corde, per potersi staccare dall'aereo e precipitò verso terra. Poi tirò il cordino e azionò manualmente il paracadute, che si aprì e permise a Georgia di atterrare senza incidenti. Quest'ultimo salto, il primo in caduta libera pianificato, dimostrò che non era necessario mantenere una cima attaccata all'aereo per permettere al paracadute di aprirsi, un meccanismo che diventò noto successivamente come "corda di strappo". Tiny aveva mostrato ai soldati una possibilità per potersi mettere in salvo nel caso in cui si fossero ritrovati su un aereo in caduta.

Durante la sua attività di paracadutista, Georgia ebbe diversi incidenti: una volta atterrò in cima al vagone di un treno, un'altra si impigliò in un mulino a vento e ai cavi dell'alta tensione. Il suo ultimo salto risale al 1922, all'età di 29 anni.

Tiny, la "minuscola" donna diventata grande grazie al paracadutismo, ricevette numerosi premi e riconoscimenti, oltre alla nomina a membro onorario della 82a divisione aviotrasportata a Ft. Bragg, che gli avrebbe permesso di lanciarsi ogni volta che avrebbe voluto. Morì nel 1978 all'età di 85 anni.

Julia Ducournau, quando il talento non ha bisogno di quote rosa. Alimentato dall’immarcescibile politicamente corretto, il dibattito sulle quote rose nei festival non si placa. La regista di “Titane” conferma che il talento conta più delle chiacchiere. Massimo Balsamo su Il Giornale il 27 Luglio 2022.

Da anni va avanti, senza sosta, il dibattito sulle quote rosa nei festival. La Mostra del Cinema di Venezia è spesso finita al centro delle polemiche per la scarsa presenza di registe donne, soprattutto nel percorso principale. Stesso discorso per Cannes. Mosse dall’immarcescibile politicamente corretto, sempre più persone invocano il 50-50%. In buona sostanza, nelle kermesse vanno piazzati film diretti da donne a prescindere dall’effettiva qualità. Ragionamento stupido, ma soprattutto offensivo. Julia Ducournau è la dimostrazione che la disputa sulle quote rose è sterile.

A soli 37 anni, con la sua opera seconda, “Titane”, ha vinto la Palma d’Oro per il miglior film al Festival di Cannes. Prima di lei c’era riuscita solo una donna, Jane Campion, nel 1993. E non fu nemmeno una vittoria piena, ma un premio ex aequo. E anche l’opera prima di Julia Ducournau non è passata inosservata. Presentato alla Settimana internazionale della critica di Cannes, dove ha ricevuto il Premio Fipresci, il suo “Raw – Una cruda verità” è uno dei migliori esordi degli ultimi trent’anni. 

I riconoscimenti contano, ma c’è di più. La regista parigina ha tracciato un solco per la sua idea di cinema, per la sua visione, per il suo coraggio. Dopo il corto “Junior”, Julia Ducournau con "Raw – Una cruda verità” ha sconvolto il mondo cinefilo con un’esperienza estrema, un’opera gore esaltante, l’emblema dell’audacia. Interessante, in particolare, la riflessione attorno al corpo femminile, ai cambiamenti estremi che può subire. Un tema ritrovato, con ancor più risolutezza, in “Titane”.

Bollato dai soliti soloni come semplice provocazione, la Palma d’Oro di Cannes 2021 ha tanti meriti. Mettendo da parte il lavoro sul genere, l’innegabile talento visivo e l’ambiziosa scrittura cinematografica, “Titane” ha una dote che pochi altri film possono vantare: la capacità di creare dibattito. Julia Ducournau divide, fa riflettere, fa discutere. Come tanti maestri, rivalutati con il passare del tempo, hanno fatto prima di lei. Cinema vivo, dunque, in un mare di prodotti innocui, banali, insipidi. 

Sarebbe un grave errore scegliere un film in base al sesso del regista, le quote rose non hanno nulla a che vedere con l’arte. Julia Ducournau lo conferma: quando c’è qualità, valore, spessore, non c’è 50-50% che tenga. Superare i limiti, osare, sperimentare, nutrire ambizione: per emergere serve questo, non lo slot garantito al festival di turno.

Amelia Earhart, la donna volante che voleva realizzare l'impossibile. Davide Bartoccini il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Amelia Earhart, la straordinaria donna che trasvolò l'Atlantico rimanendo per sempre nella leggenda.

"Volo, sogno dell'uomo". Ma anche, da sempre, della donna. Lo ha dimostrato Amelia Earhart, passando alla Storia come pioniera dell’aria. Ed entrando a far parte, di diritto, nella leggenda. "L’unica cosa al mondo che desiderassi era vagabondare. Nel cielo", avrebbe lasciato scritto la ragazza del Kansas dai lineamenti dolci, ma dal carattere oltre modo deciso. Capelli "alla maschietta" e colori chiari, aveva un fisico longilineo e slanciato che - nel tetro epilogo di una vita più che coraggiosa - trarrà in inganno medici forensi, storici e cacciatori di tesori.

"L’unica cosa al mondo che desiderassi era vagabondare. Nel cielo..", diceva Amelia, nata nella calda estate del 1897. Eppure quando vide il primo aeroplano - a soli dieci anni - secondo le innumerevoli biografie che le verranno dedicate nel secolo a venire, pare non ne rimase particolarmente colpita. Un uccello di legno, tela e fili di metallo. Ecco cosa può essere per molti un “aeroplano”. Un modo pericoloso per guardare il mondo da un’altra prospettiva o per “spostarsi” pericolosamente. Potrebbero concludere altri. Ma per chi sogna di liberarsi nelle nuvole come un possente uccello, l’invenzione di quei due folli dei fratelli Wright, è tutta un’altra cosa: è la possibilità di ottenere un sogno precluso al passato che non possedeva la conoscenza.

Sarà il secondo incontro con gli uccelli creati dagli uomini a decidere il suo destino. Quando nel 1920 accompagna il padre ad un raduno aeronautico presso il Daugherty Airfield di Long Beach, la giovane Amelia, crocerossina di guerra, paga un dollaro per volare su un piccolo aereo da turismo e vedere com’è la California vista dalle nuvole: e scopre che è bellissima. Per questo decide di imparare a volare. Di fare del suo futuro il futuro di un’aviatrice.

"Le donne devono cercare di realizzare l'impossibile proprio come hanno provato anche gli uomini. Quando falliscono il loro fallimento deve essere una sfida per altre donne", disse. Un pensiero semplice, ma conciso. Una lezione di vita ancora attuale.

La futura leggenda dei cieli comincia quindi a prendere lezioni di volo. Nel frattempo accetta qualsiasi genere d’impiego per mettere da parte del denaro per acquistare un aereo tutto suo. Il 15 maggio del 1923, appena tre anni dopo, diventa la sedicesima donna a conseguire il brevetto di pilota (La prima fu Raymonde de Laroche nel 1910, ndr). L'anno seguente compera il suo primo aereo: un biplano Kinner Airster giallo che ribattezza il “Canarino”. Su di esso stabilisce il primo dei suoi record “femminili”, salendo a un'altitudine di 14.000 piedi. 

Da semplice aviatrice a leggenda

Il decennio a cavallo tra la fine degli ’20 e la prima metà degli anni ’30 viene ricordato come il decennio dei pionieri dell’aria e dei grandi trasvolatori. Sono gli anni in cui molti si riversano nelle strade per accogliere l’arrivo di uomini temerari come Charles Lindeberg e Italo Balbo. Ma di donne a compiere di queste prodezze, ancora non ce n’è. Perché all’epoca si pensava che “solo un uomo potesse affrontare determinate situazioni”. Nessuno pensava ad una donna rinchiusa in uno stretto abitacolo a studiare mappe e carte per raggiungere l’altro capo del mondo assordata dal rombo di un motore che sposta l’aria dando il moto alle possenti eliche.

Eppure, nel 1928, una giovane donna decise di rompere il tabù attraversando l’Atlantico come Lindeberg. Sarebbe stata la prima donna - insieme a Wilmer Sturz e Louis Gordon - a prendere parte a una trasvolata. Così, dopo aver posato in giacca di pelle, stivali ed elmetto da pilota per un servizio promesso al New York Times dal suo futuro marito - il rampollo dell’editoria George Putnam che l’aveva fortemente voluta nell’equipaggio presagendo il successo mediatico di una “donna Lindbergh” - Amelia decollò dalle Americhe su di un Fokker F.VII, chiamato “Friendship”, per atterrare in Galles appena ventuno ore dopo. Al suo ritorno in patria, è già un eroina nazionale, a New York gli occhi erano tutti per lei, per “Lady Lindy”: la prima trasvolatrice della storia. La bella ragazza che seduta sul retro di una decappottabile, salutava sorridendo quella folla gremita come fosse una regina, la regina dell’Aria. La stessa che che parlando di quell’avventura riconoscerà la sua poca rilevanza: "Wilmer pilotò per quasi tutto il tempo. Io ero solo un bagaglio, venni trasportata come un sacco di patate".

Il mondo però, non la vedeva così. "Voglio che tu capisca che non mi atterrò ad alcun codice medioevale di fedeltà, né mi considererò vincolata a te in modo simile", disse al marito dopo esser stata presa in sposa tenne a specificate a suo marito. E infatti, appena cinque anni dopo di Lindbergh, Amelia Earhart diventerà la prima donna a sorvolare l’Atlantico in solitaria su di un Lockheed Vega. Partendo dal Canada e atterrando in Irlanda. Di quella esperienza scriverà: "Dopo mezzanotte, la Luna era tramontata e io ero sola con le stelle. Il richiamo del volo è il richiamo della bellezza (…) il motivo per cui gli aviatori volano è il fascino estetico del volo". Per quel traguardo storico venne insignita della Legion d’Onore dalla Francia e della Distiguished Flying Cross dal Congresso degli Stati Uniti. Eppure qualcuno, non condividendo "l'entusiasmo" per quella donna volante, arrivò addirittura a domandarsi dalle prime pagine dei giornali: "Ok, ha attraversato l'Atlantico in aeroplano, ma saprà farla una torta?"

Una vita passata a solcare il cielo e ispirare le donne

La Earhart ha sempre portato avanti una campagna per avvicinare le donne all'aviazione affinché il mondo potesse contare su altre aviatrici come lei. E dopo aver portato a termine altri voli in solitaria - dalle Hawai alla California, da Los Angels a Città del Messico - si dedicò alla pianificazione di un'altra impresa grandiosa: circumnavigare il globo passando sull'Equatore, ossia prendendo la "via più lunga". Accompagnata dal navigatore Fred Noonan, decollò da Miami il 1 giugno 1937. Aveva da poco compiuto quarant'anni.

Facendo rotta verso est fece scalo in Sud America, Africa, India, Indocina, e Nuova Guinea. Dopo aver coperto una distanza di 35.000 chilometri, a soli 11.000 dalla meta, decollò per l'ultima volta il 2 giugno. Destinazione Howland Island. Dopo un'ultima confusa trasmissione registrata alle 8:43 di quel giorno, però, le tracce del suo bimotore Lockheed Electra si persero definitivamente. E Lady Lindy, insieme al suo fido navigatore, scomparve per sempre.

Nonostante le spedizioni di ricerca condotte dalla Marina americana, dalla Marina britannica di stanza nei possedimenti d'oltremare, e addirittura di quella dell'allora Impero giapponese, l'aereo e i suoi resti non vennero mai ritrovati. Lasciando un alone di mistero che non fece altro che alimentare il mito della Earthrt. Futura icona del femminismo.

Lady Lindy per sempre

Negli anni successivi alla tragica scomparsa dell'aviatrice vennero ipotizzate le teorie più disparate sulla sua morte. Una di queste si concentrò sull'eventuale coinvolgimento della Earhart in una missione di spionaggio ai danni dei giapponesi. La teoria, a lungo sostenuta da testimonianze verbali, non trovò mai alcun riscontro oggettivo. Né presso i servizi informazioni delle diverse forze armate statunitensi, né presso le forze armate giapponesi che l’avrebbero catturata, imprigionata e si suppone anche giustiziata insieme al suo navigatore. Sebbene il pioniere dell’aviazione Charles Lindberg abbia svolto missioni di spionaggio a Berlino per conto di Washington sfruttando la copertura concessa dalla fama delle sue imprese, almeno su quel piano Lady Lindy sembrerebbe non averlo voluto "emulare". Secondo le teorie più accreditate invece, la causa del disastro sarebbe da attribuirsi con buone probabilità a un guasto meccanico o all’esaurimento del carburante a causa di un calcolo di navigazione errato che avrebbe portato l'aereo fuori rotta. Il velivolo si sarebbe inabissato, o, secondo un'altra ipotesi, avrebbe tentato un ammaraggio nei pressi dell'atollo di Nikumaroro. Dove, nel 1941, un ufficiale del governo britannico rinvenne uno scheletro al riparo di un grosso albero.

Nel frattempo, Amelia Earhart era stata dichiarata legalmente morta il 5 Gennaio 1939. Aveva sempre saputo a quali rischi sarebbe andata incontro un'aviatrice. Sapeva bene che quando si spicca il volo su un uccello di ferr, ogni giorno può essere l'ultimo. Anche in tempo di pace. Perché il volo è sempre stato il sogno dell'uomo come lo è sempre stato della donna. Ma gli esseri umani non sono fatti per volare. Che ci siano riusciti data la loro caparbietà e abbiano raggiunto vette sempre più alte e distanti in forza della loro coraggio, beh, quello è un altro discorso.

Dopo la sua morte, il marito decise di pubblicare una raccolta dei suoi diari di volo dal titolo The fun of it e Last Flight. Non c'era accenno al saper fare una torta. Né mai si seppe dell'appunto di alcuna ricetta su di essi. A lui, come pure a sua sorella minore Muriel, lasciò una lettera ricordando che se se ne fosse andata, sarebbe stato facendo ciò che aveva desiderato di più al mondo: volare. Fosse tornata a terra, fosse invecchiata in pace e buona salute, forse una buona torta, una volta appeso il giaccotto di pelle al chiodo, avrebbe imparato a farla. Del resto, per quello, basta un forno caldo, uova, farina, e un poco di pazienza.

Storia di Elvira, la prima italiana che andò ai Giochi olimpici. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud il 16 Maggio 2022.  

LA PRIMA italiana che andò ai Giochi Olimpici per partecipare, ci andò a cavallo: era il 1900, in un maggio francese. La signora aveva 45 anni e nella dolce vita di Parigi era una “celebrity”, una vip come si direbbe oggi, nella città che era il cuore di quel tempo conosciuto poi come “Belle Epoque”.

Erano gli anni in cui al Moulin Rouge, aperto da poco, impazzavano artisti come Joseph Pujol, detto Le Pétomane, Il Petomane, un ex panettiere di Marsiglia che aveva un totale controllo dei propri muscoli addominali che gli permetteva di emettere flatulenze a piacimento, suo e del pubblico: erano sonorità che facevano il verso al rombo del cannone o al temporale ma che potevano anche riprodurre “motivetti” musicali, come “’O sole mio” o perfino “La Marsigliese”. Mise su uno spettacolo itinerante che si chiamava Théatre Pompadour, in onore della famosa Madame.

Un’altra celebrità del momento era Jacques Renaudin, in arte Valentin le Desossé, Valentino il Disossato, un contorsionista che si esibiva nel ballo, spesso in coppia con “La Goulue”, La Golosa, quale era conosciuta la ballerina Louise Josephine Weber che inventò il can can e che, all’inizio della strepitosa carriera, di giorno faceva la lavandaia, il mestiere di sua madre, o la modella per i pittori, e di notte si dedicava al ballo. Fu la protagonista dei manifesti che Toulouse-Lautrec dipinse per il Moulin Rouge nel quale Valentin le Desossé si esibì, da solo o con la Goulue, 83.112 volte, con una preferenza per il valzer che danzò, dicono, 39.962 volte. Le spaccate e le gambe all’aria attiravano nel locale di Pigalle, il quartiere più peccaminoso della Parigi di allora, anche re e governanti in visita. Ne erano frequentatori il giovane poeta Apollinaire che aveva vent’anni nel 1900, e il vecchio pittore Renoir, che ne aveva 60, Braque che con Picasso iniziò il cubismo e Aristide Bruant, lo chansonnier più noto di allora.

Tra le danzatrici che spopolavano si ricordano Jane Avril, la ballerina solista che indossava i mutandoni rossi mentre quelle del gruppo li portavano bianchi,  e che rubò i pennelli di Toulouse-Lautrec alla Goulue, Mome Fromage, la ballerina più “curvy” del Moulin Rouge, e Nini Pattes en l’Air, nomignolo di facile comprensione, essendo le pattes le zampe.

In questa cafè society godereccia e spensierata si muoveva, a cavallo, Elvira Guerra, la signora in questione: era un’artista circense, una cavallerizza che montava all’amazzone, cioè seduta sulla sella costruita apposta per le donne, le gambe penzoloni da un lato dell’animale. Di Elvira Guerra aveva scritto, in una recensione del 27 dicembre 1882 (Natale è tradizionalmente un periodo d’oro per i circhi e i loro botteghini) il Times raccontando lo spettacolo a Londra e parlando de “i poteri tersicorei del bel cavallo Sylvan mirabilmente controllato da Miss Elvira Guerra”. Forse la signora ne conservava orgogliosamente il ritaglio. Elvira aveva saputo di quella stranezza dei Giochi Olimpici che accompagnavano l’Esposizione Universale di Parigi nell’anno 1900 e delle gare di equitazione che a fine maggio si sarebbero svolte in quel contesto, nella Place de Bréteuil, debitamente attrezzata, tra il 7° e il 15° arrondissement. Aveva anche saputo che per la prima volta nella storia sportiva le donne sarebbero state ammesse alla partecipazione, anche se l’inventore, o meglio il re-inventore, dei Giochi, il barone Pierre de Coubertin, era un misogino sportivo che giudicava assolutamente “antiestetica” la pratica sportiva per il gentil sesso e “soprattutto impropria” ritenendo che la parte da riservare alle signore nelle competizioni fosse semplicemente quella di “glorificare i vincitori con il proprio applauso” (ha scritto proprio così…).

Nonostante il nobiliare anatema, Elvira decise di partecipare alla gara dei “chevaux de selle”, i cavalli impegnati al trotto e al galoppo, una specie di dréssage che non fu più ripetuto alle Olimpiadi. Del resto non fu più ripetuta nell’equitazione neppure la presenza femminile, almeno fino al 1952, ad Helsinki, quando le donne furono ammesse nella disciplina del dréssage, al 1956 a Stoccolma, la dépendence equestre dei Giochi di Melbourne dove i cavalli non si recarono per non dover affrontare le rigide norme della quarantena australiana, nel salto ostacoli, ed al 1964 a Tokyo per il concorso completo. Elvira Guerra si iscrisse con il suo cavallo Libertin e sfidò senza paura gli ufficiali di cavalleria di tutto il mondo, i francesi e gli inglesi e pure un russo emissario dello Zar, il conte Polyakoff. Le donne in gara erano due su 21 concorrenti, l’altra era la francese Moulin della quale non si conosce che il cognome e non si sa neppure come (né se) si piazzò nella classifica finale. La Guerra arrivò nona. La medaglia d’oro fu vinta da Louis Napoléon Murat, principe di Napoli per essere il nipote diretto di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte, la sorella di Napoleone: nella distribuzione dei troni europei ai suoi cari, Napoleone aveva destinato alla coppia Murat quello di Napoli.

Con una ironia della storia, il cavallo che fu compagno del principe Murat si chiama “The General”, il generale, il grado militare di competenza di Bonaparte prima di farsi imperatore. Anche il terzo arrivato, il conte di Montesquiou, aveva un’ascendenza degna di memoria: la sua famiglia era quella di D’Artagnan. Se era una delle due donne partecipanti a questa specifica competizione, l’amazzone italiana era anche una delle ventidue rappresentanti dello sport femminile a Parigi 1900: gli uomini erano, invece, 997.  Era l’inizio del lungo cammino per la gender equality in campo: a Tokyo 2020 si è arrivati quasi al 50 per cento giacché su 11.483 partecipanti 5.985 erano uomini e 5.498 donne, compresa la transgender, la prima di sempre, la sollevatrice di pesi neozelandese Laurel Hubbard.

Elvira era nata a San Pietroburgo, figlia dell’artista circense Rodolfo Guerra, impegnato come cavallerizzo nel Cirque Olympique che il di lui fratello, Alessandro Guerra, uno dei più celebri in quell’arte, aveva fondato prima a Mosca e poi nella città degli Zar. Lo zio Alessandro era detto “Il Furioso” per via del carattere piuttosto suscettibile; aveva inventato un numero che lo vedeva in piedi su di una pariglia di cavalli, un piede sulla groppa di uno e l’altro su quella di un altro e tenere le redini lunghe di altri sei o otto cavalli che guidava a sfilare tra i due sui quali si reggeva in acrobazia, magari suonando magistralmente il flauto o il violino o la chitarra. Il numero si chiamava “cavalcata romana” in onore della città dove Alessandro era nato nel 1782. O forse nel 1790.

Elvira era del 1855 e morì a Marsiglia nel 1937, dimenticata quasi da tutti ma non dalla città di Bordeaux che le ha dedicato una via, grata degli spettacoli che Elvira lì aveva dato. “Alessandro Guerra, nei ludi equestri sommo, sempre invidiato né mai vinto in sua maestria, fra tutte genti civili del globo visse anni LXXX. Alla salma di lui chiusa in questo marmo tributano lacrime e fiori la vedova, le figlie, gli amici”, è invece la perenne memoria dello zio sulla lapide posta sul suo sepolcro alla Certosa di Bologna, nella Galleria a Tre Navate.

Estratti da “Donne al potere”, di Bruno Vespa (ed. Rai Libri), pubblicati da “Libero quotidiano” il 13 maggio 2022.

La donna "quirinabile" per eccellenza era Maria Elisabetta Alberti Casellati, prima donna Presidente del Senato. Storica militante in Forza Italia. Il centrodestra per la prima volta aveva la maggioranza relativa dei grandi elettori. 

Dunque? Il problema è che una persona di centrodestra non doveva andare al Quirinale. Perché non la voleva il centrosinistra? Sì, ma anche perché non l'ha voluta innanzitutto Forza Italia, il suo partito. (...) Poiché la vendetta è un piatto che si mangia freddo, non è affatto da escludere che, alle elezioni del 2023, il Presidente uscente del Senato si presenti in un'altra lista del centrodestra.

Giorgia Meloni ha un carattere fumantino, direi incendiario. Ne dette prova a tre anni. Abitava in un quartiere elegante di Roma Nord, la Camilluccia. Un pomeriggio, insieme con la sorella Arianna (alla quale è legatissima), costruì nella loro stanza una capanna riempiendola di giocattoli e leccornie.

Poiché le due bambine avevano programmato la festicciola di sera, si procurarono una candela e l'accesero. Ma erano le quattro del pomeriggio e le due sorelle aspettarono che facesse buio guardando in un'altra stanza i cartoni animati. Dopo un po', l'appartamento fu scosso da un boato. La capanna aveva preso fuoco, con essa la camera da letto e via via tutto l'appartamento. Così la famigliola si trovò senza casa.

Punto primo. La sua passione sono le scarpe. Le dico che fa un po' di concorrenza a Imelda Marcos, la moglie del dittatore filippino che ne possedeva 2700 paia... Sorride: «Non esageriamo. Ho sempre detto che lo scienziato non si chiude in una torre d'avorio a lavorare con le provette. È una persona comune. A me piace fare shopping e ogni tanto compro scarpe». Tacco alto o ballerine? «Ballerine rasoterra, assolutamente. Tacchi una volta all'anno».

 Ilaria Capua è diventata Ilaria Capua perché da ragazza è scappata di casa. Oddio, le cose non sono andate esattamente così, ma quasi. Figlia di un avvocato, a 17 anni e due mesi Ilaria ha preso la maturità e s' è posto il problema di dove fare l'università. (...) Ilaria aveva trovato intanto il suo compagno di vita. 

Si chiama Richard, è scozzese. (...) Quando Ilaria lo incontrò nel 2002 era astemio. In partenza per la Georgia, lei gli concesse pochi minuti a Padova per parlarle di coronavirus e lo liquidò senza interesse. Diretta a un convegno a Brema e dirottata a Francoforte, mentre era in fila per l'imbarco, guardando per terra vide che il suo vicino aveva un bel paio di scarpe. Risalì verso il volto: era Richard.

Lei lo riconobbe, lui no. Andavano allo stesso convegno. Lui la raggiunse al bar dell'albergo. Lei costrinse lui, astemio, a bere un bicchiere di vino rosso. Lui, sull'orlo dell'ubriachezza, suonò magnificamente il pianoforte. Si scambiarono i numeri di cellulare. 

Marina Berlusconi voleva diventare veterinaria: «Ho sempre amato molto i cani», mi disse un giorno, «e comunque non pensavo di lavorare nelle aziende di mio padre». Dopo il liceo andò a fare la commessa in Inghilterra (a Bournemouth, nel Sud) per migliorare l'inglese e fare un po' d'esperienza di vita normale.

«Lavoravo in un negozio di abbigliamento. Ero l'unica non assunta, la prima ad arrivare alle 7.30 per fare le pulizie e l'ultima ad andar via alle 17, dopo aver rimesso in ordine tutto». Che faceva? «Sistemavo gli spilli agli abiti delle clienti, per le modifiche».

Carattere spigoloso, dicono che non saluti mai, né dalla barca, il che fa stizzirei ricchi natanti vicini di largo, né alle sue sfilate. Al massimo mette fuori mezza faccia e un timido sorriso di quattro secondi. (...) Ma in privato, Miuccia è un'altra persona: simpatica, volutamente sotto tono, molte cose straordinarie da raccontare, alle quali attinge con garbo, senza sommergerti.

Greta Thunberg appare come un automa programmato a leader. Il suo sguardo è fermo, arrabbiato, a tratti cattivo. Non sorride mai. Di lei si sa che vive di rinunce e non ne viene turbata, non contempla frivolezze. Le rimbalza ogni insulto. (...) Greta è un personaggio forte, anche inquietante. (...) Diciamola semplice, ha iniziato come una bambina molto incazzata che ha avuto la fortunae il privilegio di poter scioperare senza che nessuno abbia potuto biasimare il suo gesto. 

Chiara ha gusto, un buon guardaroba, anche capi vintage, è bella, senza essere stratosferica. Non si dica di lei una ragazza "acqua e sapone", perché non lo è mai stata. Secondo noi, eccezion fatta nel bagno, non si è mai vista struccata in nessun altro luogo della casa e fuori, ma di fatto è davvero carina, faccia da liceale perbene (...). 

Quand'è che Chiara incontra Fedez, il suo raviolo, così lo chiama nell'intimità? Nel dicembre 2015, a casa di amici. Lei lo trova "figo e intelligente". (...) Quando esce il singolo Vorrei ma non posto di J-Axe Fedez, gli amici di Chiara le riferiscono della citazione che Fedez fa sul cane di lei. A Chiara quella rima piace, al punto che se la gioca postando un video dove lei la canta. Fedez le manda uno Snap (fotografia o video di 10 secondi) con scritto "Chiara, limoniamo?".

Maria a cinque anni si trasferisce a Pavia con la mamma Giuseppina, severa insegnante di italiano, latino e greco, il papà Giovanni, detto "Dodone", missino convinto, estimatore di Giorgio Almirante.(...) Quando si conobbero, Maria e Maurizio (Costanzo,ndr) non si trovarono proprio simpatici. (...) Maurizio con lei non fu proprio carino, anzi non le risparmiò bordate sulla carenza di professionalità. A lei lui parve alquanto "cafone e borioso".

Quando parte ha il suo medico personale dotato di defribillatore, farmaci e una sacca del Suo sangue. I bagagli firmati dal brand britannico Globe-Trotter contrassegnati da etichetta gialla, sul beauty-case la scritta "The Queen", contengono carta igienica marca Andrex, che vanta un mandato reale dal 1978, sigillata con adesivi che solo lei può rompere. Almeno trenta abiti immacolati riposti in custodie protettive: tra questi un outfit rigorosamente nero se dovesse verificarsi un evento tragico in famiglia.

Quella che sarebbe stata a lungo la leader più influente del mondo, da giovane non dette il minimo segno di distinzione. Il suo biografo racconta che né docenti, né compagni d'università avrebbero scommesso un soldo sul successo di Angela, brava, tuttavia, nell'acquisire ruoli rilevanti dell'organizzazione giovanile comunista. 

 In un libro pubblicato nel 2013 Ralf Georg Reuth e Günther Lachmann la descrivono come responsabile del settore "agitazione e propaganda" del movimento giovanile comunista, favorevole a "un socialismo democratico in una Germania Est indipendente". Il sogno di una Germania unita non la sfiorava nemmeno. 

 (...) Dopo aver lasciato la cancelleria, Angela Merkel si è trovata probabilmente sola anche nella vita privata. Il secondo marito, Joachim Sauer, autorevole professore di chimica quantistica, ha accettato un incarico all'università di Torino. Si è parlato della tresca del professore con un'allieva negli anni scorsi, addirittura con conseguenze sul sistema nervoso della donna più potente del mondo. a cura di Gianluca Veneziani

Barbara Castiglioni per “il Giornale” il 10 aprile 2022.

«Il mio nome è Etèra, e sono amica di tutti. Su, imbarcati! Non chiedo molto. Accolgo tutti quelli che salgono, ospito lo straniero e il cittadino. Sbattetemi in mare come in terra». La nave-bordello che parla in prima persona e con placida oscenità nell'Antologia Palatina è una delle meno conosciute, ma non per questo meno irresistibili, tra le Donne e dee nel Mediterraneo antico raccontate da Paola Angeli Bernardini (Il Mulino, pagg. 216, euro 15). 

Tutte le donne più celebri del mito, infatti, sono in qualche modo legate al Mediterraneo: Calipso, l'incantevole, «tremenda» ninfa che tiene prigioniero Odisseo nell'isola di Ogigia ma lo aiuterà a costruire la zattera con cui ripartirà per Scheria; Circe, la «serpentessa» che trasforma i suoi compagni in porci ma che anticiperà all'eroe il viaggio nell'Ade; Elena, che secondo Omero fugge sulla nave di Paride, ma che in Euripide si nasconde in Egitto e resta fedele a Menelao, per tornare con lui a Sparta «sul mare azzurro scuro, sui cupi flutti delle onde che mugghiano bordate di schiuma».

Nel mito, il mare è spesso legato ad amori travolgenti: come nel caso di Medea, che sale sulla nave di Giasone, e, temendo di perderlo («Dove andrai una volta partito?») abbandona la patria per andare incontro al suo feroce destino; non meno tragica è la sorte di Didone, che «brucia consunta dal suo fuoco», illudendosi di poter sopportare un dolore che ha saputo prevedere, e, nelle Eroidi ovidiane, chiede a Enea solo un po' di tempo, «finché il mare si plachi e l'abitudine moderi il mio amore»: ma Enea fugge «sul mare infuriato», e la Sidonia Dido si toglierà la vita.

Un altro amore infelice legato al mare è quello tra Ero e Leandro, giovani innamorati separati dalle rive dell'Ellesponto: ogni notte, Leandro attraversa lo stretto a nuoto, seguendo il suo «amore imprudente» e «muovendo le sue braccia per gli occhi della sua donna», mentre Ero «bisbiglia di lui», lo sogna, ma si suiciderà quando il mare «che spumeggia di immense ondate» le restituirà il corpo dell'amato. 

Meno magiche ma altrettanto fascinose, nonostante l'immensa misoginia delle fonti, sono le «donne straordinarie del mondo antico» raccontate da Lorenzo Braccesi in Dissolute e maledette (Salerno, pagg. 160, euro 16): da Semiramide, che la metà delle fonti descrive infiammata di libidine e assetata di sangue e sesso, a Cleopatra, meretrix regina secondo le inequivocabili parole di Properzio; da Giulia, figlia di Augusto, «trasformata», nelle parole di Seneca, «da adultera in prostituta» e confinata dal padre a Ventotene, a Messalina, nota ninfomane, fino a Clodia, la «Medea Palatina» secondo Cicerone - forse un suo corteggiatore in gioventù, come suggerisce Plutarco - che «batte la strada accompagnandosi ai mariti altrui», tanto degenerata da non prostituirsi nell'ombra, ma «da abbandonarsi alla passione tra la folla e alla luce del sole».

Ancor più feroce è il ritratto di Fulvia, la «pasionaria» della repubblica romana, moglie di Publio Clodio Pulcro, di Gaio Scribonio Curione e, soprattutto, di Marco Antonio, verso cui il futuro, irreprensibile custode dei mores maiorum, Ottaviano Augusto, indirizza un epigramma al vetriolo: «Dovrei dunque farmela con Fulvia? O mi fotti - mi dice - o corriamo alle armi. Tengo all'arnese assai più che alla vita. Meglio lo scontro, squillino le trombe!». 

All'epigramma di Ottaviano, oltre alle testimonianze degli storici come Cassio Dione, secondo cui Fulvia avrebbe strappato e punto con gli spilli la lingua dalla testa mozzata di Cicerone, si aggiungono le iscrizioni incise sulle ghiande-missili, formidabili «proiettili» lanciati con le fionde: su una di queste ghiande, scagliate durante il sanguinoso assedio di Perugia, possiamo leggere: «punto al clitoride di Fulvia»; le ingiurie, però, erano più democratiche - e più fantasiose- dei loro dedicatari, e non a caso su altri reperti troviamo scritto: «salve Ottaviano, succhialo», oppure «Lucio Antonio, frocio, sei morto».

Le donne, però, erano e sono ancora, senza dubbio, il bersaglio prediletto di questa sconfortante ironia. Homo homini lupus, certo: ma, nonostante le professioni di femminismo di molti autori politicamente corretti, l'uomo resta sempre più lupus per la donna.

STEFANO LORENZETTO per il Corriere della Sera il 10 aprile 2022.

Cherchez la femme! È destino che siano sempre le giornaliste francesi a intersecare le vite dei pontefici. Va così dai tempi di Leone XIII, il primo nella storia a concedere un’intervista. Uscì il 4 agosto 1892 su Le Figaro con la firma di Séverine, pseudonimo di Caroline Rémy: il 31 luglio, una domenica, era stata a colloquio con lui per 70 minuti. 

Guarda caso lavora al Figaro anche Bénédicte Lutaud, da poco nelle librerie con Le donne dei papi (Guerini e associati), un saggio di 280 pagine in cui ricostruisce la storia di cinque figure femminili che hanno avuto ruoli di rilievo in Vaticano negli ultimi 90 anni. Come Pascalina Lehnert, la suora tedesca soprannominata «la papessa», segretaria, governante e infermiera di Pio XII: in una delle 20 foto scattate di nascosto dall’archiatra pontificio Riccardo Galeazzi Lisi, e poi vendute a Paris Match, si vede lei, la religiosa tedesca che fu assistente di Eugenio Pacelli dal 1917 e lo accompagnò fino alla morte, seduta accanto al letto dell’augusto infermo in agonia, mentre gli infila in bocca la cannula della bombola di ossigeno. 

Figlia di Christian Lutaud, un agnostico già docente di letteratura alla Sorbona, la giornalista, 33 anni, è stata educata al cattolicesimo dalla madre Elisabeth, logopedista. Si allontanò dalla Chiesa durante il master di giornalismo a Sciences Po, l’istituto parigino di studi politici. Si riavvicinò nel 2014. 

«Nella mia vita c’era un vuoto di senso. Cercavo di colmarlo con lo yoga, ma fuggii imbarazzata dalle lezioni quando m’imposero un canto religioso che mischiava Buddha, divinità indiane e Gesù». Ha un figlio nato l’anno scorso. L’ha battezzato Timothée, «colui che onora Dio», come il martire di Efeso convertito da san Paolo. 

Strano, la sua ricognizione sulle donne dei papi comincia da una tomba.

«Sì, dal Cimitero Teutonico in Vaticano. Lì c’è una modesta stele, con un epitaffio in lettere rosse: “Leben ist Liebe”, la vita è amore. Più in piccolo, un nome, Hermine Speier, le date di nascita e di morte, 1898 e 1989, e una sola altra parola in tedesco: “Archäologin”». 

Archeologa.

«Era donna, era straniera, era ebrea anziché cattolica. Eppure fu la prima assunta in Vaticano. L’onore di seppellirla lì, benché fosse deceduta a Montreux, in Svizzera, ha rari precedenti. Quando Rosa, Maria e Anna Sarto, le tre sorelle nubili vissute con Pio X, gli espressero il desiderio di finire nel Camposanto Teutonico per stare più vicine alle Grotte vaticane dove sarebbe stato inumato, lui rispose in dialetto: “Tose, xe mejo che andè co’ vostra mare”. Infatti furono sepolte a Riese, accanto alla madre. Lo racconta Nello Vian, figlio di un confidente del papa veneto, nel libro Avemaria per un vecchio prete». 

Che ha di speciale la storia di Speier?

«Lavorava all’Istituto archeologico tedesco di Roma. Salito al potere Adolf Hitler, aveva il destino segnato. Il suo superiore, Ludwig Curtius, chiese aiuto all’amico Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei Vaticani. Il quale ne parlò con Pio XI, che da quel momento la protesse. E lo stesso fece il successore, Pio XII». 

L’archeologa seppe sdebitarsi.

«Eccome. Organizzò gli archivi fotografici della Biblioteca Apostolica. E ritrovò nelle cantine la testa di uno dei dodici cavalli che ornavano i frontoni del Partenone di Atene, smarrita da secoli». 

Come fece suor Pascalina Lehnert a guadagnarsi il titolo di «papessa»?

«Eugenio Pacelli, nunzio a Monaco di Baviera, la conobbe nel 1917, quando lei aveva 23 anni. Era altera e avvenente. Ne rimase colpito. 

L’anno dopo la reclutò come sua governante. Lei dimostrò subito di saperci fare, difendendo il futuro papa da due bolscevichi spartachisti che, pistole in pugno, avevano fatto irruzione nella nunziatura. Nel 1920 Pacelli perse la mamma, cui era legatissimo. Trattenuto in Germania, non poté partecipare ai funerali. Cadde in depressione. A tirarlo fuori fu lei, l’infermiera Pascalina». 

Più madre che sorella.

«Promosso nunzio a Berlino, la portò con sé. Con piglio marziale, mise in riga un assistente, un maggiordomo, un cameriere, un cuoco, un autista e due consorelle dedite alle faccende domestiche. Finché la più anziana pose un ultimatum: “Monsignore, o lei o noi!”. Pacelli scelse lei. Nominato segretario di Stato vaticano, la portò con sé in Italia». 

Dove diventò la prima e unica donna in conclave nella storia della Chiesa.

«Quello del 1939, da cui Pacelli uscì con il nome di Pio XII. Per lei l’extra omnes non valse: doveva dare le medicine al cardinale segretario di Stato». 

Caroline Pigozzi, vaticanista di «Paris Match», in un recente articolo ha ipotizzato che fra i due vi fosse del tenero.

«Non ci credo. Così come non credo alla storia della “relazione intima” fra l’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, e Laetitia Calmeyn. Sono pettegolezzi. Stiamo parlando di una stimata teologa belga, vergine consacrata. La sua vita non era un segreto per nessuno». 

E allora perché Aupetit si è dimesso?

«C’entra la politica, non la sottana. Si era fatto molti nemici su molteplici dossier, scontentando destra e sinistra con i suoi modi ruvidi, di sicuro non più ruvidi di quelli che a volte dimostra papa Francesco. In molti erano diventati gelosi dell’ascendente che Calmeyn aveva sul presule come sua fedele consigliera».

Ricorda il rapporto fra Karol Wojtyla e la psichiatra polacca Wanda Póltawska.

«Delle cinque donne su cui ho investigato, lei, oggi centenaria, è la più interessante. Una storia di amicizia durata più di 50 anni, la loro. Era nella stanza di Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli dopo l’attentato del 1981. 

Era accanto a lui in Vaticano a controllare ogni farmaco e a prescrivergli rimedi naturali nei 143 giorni della convalescenza, con grande scandalo dei cardinali, furiosi perché un’estranea passeggiava in ciabatte nel Palazzo Apostolico. 

Era certamente al suo capezzale quando il Papa morì, ma il suo nome fu depennato dal comunicato ufficiale della Santa Sede. Nulla di nuovo: la stessa sorte era toccata a suor Pascalina Lehnert e a suor Vincenza Taffarel, governante e infermiera di Giovanni Paolo I. Negli atti sulla morte di papa Luciani si citano solo il segretario don Diego Lorenzi e altre figure maschili».

Wojtyla era il confessore di Póltawska.

«Fu il primo a capire il dramma di questa donna della Resistenza polacca, deportata diciannovenne a Ravensbrück. Per cinque anni i medici nazisti la usarono come cavia in esperimenti pseudoscientifici, fino a procurarle danni permanenti a una gamba. 

La sua scelta di dedicarsi alla psichiatria e alla difesa della vita nasce dagli orrori visti nel lager, che da allora la tormentano: bimbi appena partoriti dalle recluse gettati ancora vivi nei forni crematori. Il 22 novembre 1962 Póltawska era pronta a subire un intervento chirurgico all’intestino per l’asportazione di un cancro. Dalla sera alla mattina il tumore sparì per miracolo. Il suo amico Karol aveva scritto a padre Pio, supplicandolo di salvare quella giovane madre di quattro figli». 

Gli ultimi tre papi, benché stranieri, hanno puntato su donne italiane.

«La più potente era madre Tekla Famiglietti, un’irpina che fu per 37 anni badessa generale delle suore brigidine. La migliore alleata di Giovanni Paolo II in campo diplomatico. Strappò a Fidel Castro il permesso di aprire un convento a L’Avana e rese possibile la storica visita a Cuba del Papa polacco nel 1988. Invece Benedetto XVI affidò il compito di fondare e dirigere Donne Chiesa Mondo, supplemento mensile dell’Osservatore Romano, a Lucetta Scaraffia». 

Detta «la femminista del Vaticano».

«Molto apprezzata anche da Francesco, che ha scritto la prefazione di un suo libro e la chiamava al cellulare». 

Qualcosa fra loro pare essersi rotto.

«Prima Scaraffia ha pubblicato il saggio Dall’ultimo banco, in cui raccontava la sua lunare esperienza di donna convocata al sinodo sulla famiglia e isolata in fondo alla sala. Fino a lì il pontefice argentino l’aveva difesa. Ma poi il Vaticano è insorto per le sue tremende accuse, molto documentate, di abusi compiuti dal clero sulle religiose, spesso costrette ad abortire, e sulle suore ridotte a inservienti senza paga di cardinali e vescovi». 

In Vaticano non regna il Santo Padre?

«No, comanda la curia romana». 

Ora Scaraffia è critica con Bergoglio.

«L’ho incontrata. È molto delusa, direi indignata. Ma continua ad amare il Papa e la Chiesa. Le nostre storie sono molto simili. Lei, ex sessantottina, femminista, comunista, atea, apprendista buddista, tornò alla fede entrando per caso a Santa Maria in Trastevere durante la festa per il ritorno di un’icona restaurata della Madonna e sentendo intonare l’Akathistos bizantino; io in Saint-Nicolas-des-Champs, a Parigi, un mercoledì delle Ceneri, ascoltando la frase di Paolo ai Corinzi: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza”. Lì ho capito che non erano solo le parole di un libro: era Dio che mi parlava». 

Si arriverà al sacerdozio femminile?

«Non penso. Due millenni di teologia deviata hanno reso la Chiesa misogina». 

Allora come spiega la leggenda della papessa Giovanna fiorita nel IX secolo?

«Proprio con l’angoscia atavica di vedere una donna che sale al trono di Pietro fingendosi uomo e partorisce in pubblico durante una processione dal Vaticano al Laterano. Donde il grottesco rituale del diacono incaricato di confermare, attraverso una sedia forata, la presenza dei testicoli nel pontefice appena eletto: “Duos habet et bene pendentes”. 

I preti si sono posti sul piedistallo. Invece restano peccatori, come tutti. Vedono la donna come Eva la tentatrice, anziché come Maria Maddalena, la prima testimone della resurrezione di Cristo».

Time, Amal Clooney e altre: chi sono le 12 donne dell’anno. Giulia Mattioli su La Repubblica il 4 Marzo 2022.  

Il settimanale americano sceglie le "Women of the Year 2022" che si sono distinte per il loro impegno nel costruire un mondo più equo.

"Creare un futuro migliore per le donne significa costruire ponti - tra generazioni, comunità, territori. Queste straordinarie leader stanno lavorando per un mondo più equo": così Time descrive le donne che ha incoronato come Women of the Year 2022. Sono dodici donne - attiviste, giornaliste, imprenditrici, letterate, sportive - che il magazine ha premiato per il loro impegno nell'imprimere un cambiamento positivo al mondo. In pole position troviamo Amal Clooney, scelta per la determinazione e perché "non si tira mai indietro" di fronte alle violazioni dei diritti umani.

Intervistata dalla giornalista premio Nobel per la Pace Maria Ressa, che Amal Clooney ha difeso nel 2019 in una causa contro le autorità filippine, l'avvocata ha dichiarato "Devi avere una determinazione molto forte. Quando ti scontri con persone il cui potere e la cui esistenza dipendono dal commettere gravi abusi sai che non si arrenderanno. Quindi da parte nostra non possiamo assolutamente arrenderci". Parole che, scrive il Time, sembrano profetiche alla luce dell'attacco russo sull'Ucraina.

Amal Clooney non ama parlare di sé, prosegue Ressa, ma durante una conversazione con lei si viene trasportati "in alcuni dei più temibili posti del mondo, dove regnano despoti e dove sostenere i tuoi diritti può costarti la vita". Tuttavia c'è sempre chi è pronto a sfidare questi regimi, e spesso sono donne, che Amal Clooney sostiene con il suo "superpotere": la legge.

Certo, tutto il glamour che la circonda può a volte offuscare il suo impegno, ma Amal Clooney ha trovato il modo di usare la visibilità in favore delle cause che combatte. "Quello che ho imparato come sua cliente", commenta la giornalista "è che la sua empatia è forte quanto il suo coraggio e la sua conoscenza della legge".

L'oppressione di un regime che viola i diritti umani e annienta in particolare quelli delle donne è una realtà nota a Zahra Joya, giornalista afghana fondatrice di Rukhshana Media. Anche lei è nella rosa delle donne scelte da Time, selezionata per la sua tenacia nel continuare a portare alla luce la condizione delle donne in Afghanistan anche ora che il ritorno dei talebani l'ha costretta a lasciare il suo Paese. "Non è semplice giornalismo quello che facciamo", ha commentato. "Stiamo cercando di scrivere la nostra libertà".

La lista del Time prosegue con l'attivista informatica Tracy Chou, che combatte l'odio e gli abusi online. Jennie Joseph, ostetrica impegnata sul fronte della mortalità materna delle donne nere negli Stati Uniti. Ci sono Sherrilyn Ifill, che si batte per i diritti civili, e Amanda N. Nguyen, imprenditrice sociale il cui impegno è rivolto alle vittime di abusi. E poi la cantautrice Kacey Musgraves, l'atleta Allyson Felix, la Ceo Adena Friedman. Non mancano la poetessa Amanda Gorman, e infine le attrici Kerry Washington e MJ Rodriguez, che tramite la loro fama riescono a dare visibilità alle minoranze emarginate.

Solitamente il Time elegge la persona dell'anno. Lo fa dal 1999, perché in precedenza la lunga tradizione della rivista si limitava a scegliere un uomo dell'anno. Solo nel marzo 2020 la redazione del magazine decise di dedicare un'edizione speciale alle donne, e ne selezionò cento, una per ogni anno a partire dal 1920, per cercare in qualche modo di compensare la quasi-totale assenza di volti femminili nella loro iconica pubblicazione.

Leonardo Martinelli per "la Stampa" il 28 febbraio 2022.  

Sta facendo ripetizioni dalla mattina alla sera, con la sua Paris Mozart Orchestra. Claire Gibault, 76 anni, direttrice d'orchestra, è infaticabile. «Giovedì inizia il concorso - dice -, dobbiamo essere pronti». È «La Maestra», la seconda edizione, dopo quella del 2020: l'unico al mondo per direttrici d'orchestra, per sole donne. 

 Siamo alla Philarmonie di Parigi, l'edificio-balena spiaggiato al nord della città. Su 202 iscritte di 48 diverse nazionalità, 14 sono state selezionate per la fase finale, che si concluderà sabato sera. Per le prove, potranno scegliere tra una serie di brani e l'orchestra di Claire deve essere pronta a ogni evenienza. Le giovani candidate le devono tanto, tantissimo. È lei ad aver aperto la strada, molto tempo fa. 

Come racconta nella sua autobiografia (Direttrice d'orchestra: la mia musica, la mia vita, che esce in Italia in questi giorni per add editore), nel luglio 1969 due foto campeggiarono nella prima pagina del quotidiano "France Soir" «Sopra quella di Neil Armstrong, il primo uomo ad aver camminato sulla Luna. E sotto la mia con scritto: "La prima donna direttore d'orchestra di Francia". Avevo vinto un concorso, a 24 anni. Ammetto che c'era una certa sproporzione tra le due imprese»

Dopo tanto tempo, come le è venuta l'idea di "La Maestra"? 

«Nel settembre 2018 facevo parte, unica donna, della giuria di un concorso a Città del Messico. Appena arrivai, un altro membro mi raccontò che per il suo medico biologicamente le donne non potevano essere direttrici d'orchestra. Poi, quando si esibivano le candidate, lui si tappava le orecchie. In finale due giovani, una donna e un uomo, ebbero gli stessi punti, ma la giuria si rifiutò di dare un premio ex aequo. All'uomo andò il primo». 

E lei? 

«Mi opposi, poi cedetti. Ma rientrai a Parigi afflitta. Da lì è nata l'idea di "La Maestra", che ha avuto un successo incredibile. Le vincitrici del 2020 hanno ottenuto ingaggi importanti».  

Le cose stanno cambiando? 

«Ormai sì, da almeno cinque anni. E in Francia, negli ultimi due, anche grazie a "La Maestra", si è passati dal 2,7% di donne alla guida di orchestre permanenti al 10,8%. È fantastico, ma non ci fermeremo qui». 

Lei che cosa ha dovuto subire in quanto donna? 

«Mi ricordo di musicisti che dicevano: non capiamo i suoi gesti. Mentre gli altri li comprendevano perfettamente... Ci sono orchestre che si sono rifiutate di essere dirette da donne. Mi sono trovata di fronte ad atteggiamenti aggressivi, come il violoncello solista che non seguiva, stonava o non entrava al momento giusto. E lo faceva apposta. Tutto questo accadeva pochi anni fa». 

Nel 1995 fu la prima donna a dirigere alla Scala. E a lungo è stata assistente di Claudio Abbado. Da questo punto di vista lui come era? 

«Un femminista, un precursore. Ricordava come la scrittrice Karen Blixen ci avesse messo quarant' anni per essere pubblicata con un nome femminile e non con pseudonimi maschili. Per le direttrici d'orchestra diceva che era solo una questione d'abitudine. Lo aiutai a creare l'Orchestra Mozart di Bologna, dove impose un'autorità condivisa, una gestione collegiale. Lui era amichevole con i musicisti, li ascoltava. Quando, nel 2011, ho dato vita alla Paris Mozart Orchestra, ho preso spunto da quell'esperienza». 

Ma lei ha inserito anche la parità uomo-donna. 

«Cerchiamo soprattutto di avere una parità al livello dei solisti. E ogni musicista deve firmare una carta contro tutte le forme di discriminazione».  

Nel suo libro racconta la propria vita. Tutto iniziò a Le Mans, la sua città natale 

«A quattro anni ero già allieva nella classe di mio padre, professore di solfeggio al Conservatorio».  

Ma lei era introversa, vero? 

«Era il linguaggio, quello delle parole, a essere bloccato. Altrimenti avevo tante relazioni, mi piacevano gli scambi. La musica era diventata la mia lingua, mi esprimevo con quella». 

Quando decise che sarebbe diventata direttrice d'orchestra?

 «Verso i 12 anni. Non parlavo molto, ma non avevo tabù, né freni. Ero già una leader. Volevo dirigere tutti. Quando partivamo in vacanza con la famiglia, pensavo io agli itinerari da fare e dove fermarsi».  

Ai quarant' anni si è avvicinata alla religione e si è convertita al cristianesimo ortodosso. Perché? 

«Nella nostra professione c'è un egocentrismo strutturale. È piena di pericoli: la notorietà, il potere, i soldi. Bisogna fare molta attenzione a non sprofondare giù, se si vuole una vita umana di una certa qualità. La religione ti permette un lavoro sull'umiltà e la fraternità».

Roberta Metsola al Parlamento Europeo è la prova che una donna non vale l’altra. Lisa Pendezza il 19/01/2022 su Notizie.it.

"Le donne" non sono un mazzo da cui poter pescare qualsiasi carta tanto fa lo stesso, nella partita della politica il loro valore è sempre uguale (cioè pari a zero). 

Eccola, finalmente ce l’abbiamo. “Una donna” è riuscita nella scalata, è arrivata fino ai vertici di un’istituzione importante come il Parlamento Europeo e ora può andare a braccetto con “un’altra donna”, Ursula Von Der Leyen, e permettere alle femministe di tutta Europa di esultare perché finalmente “le donne” hanno preso ciò che spetta loro.

Ora, con questa vittoria così fresca, si aggiunge qui in Italia, è ancora più lampante che serve “una donna” anche al Quirinale. Oppure no? 

L’elezione di Roberta Metsola come successore di David Sassoli, prematuramente scomparso per le conseguenze di una polmonite, ha fatto discutere ancor prima che la scelta diventasse ufficiale. Il motivo? Le sue dichiarate posizioni antiabortiste.

Ebbene sì, anche “una donna” può essere contro l’aborto, anche “una donna” può votare contro quelli che “le donne” definiscono come i loro diritti fondamentali, anche se nel suo discorso alla stampa dopo l’insediamento all’Europarlamento ha assicurato che sul tema promuoverà le iniziative della maggioranza dell’emiciclo.

Insomma, terrà le sue idee e le sue battaglie anti-aborto per sé e per Malta. Anche “una donna” può andare contro le altre donne, quelle polacche, per esempio, o quelle del Molise dove c’è solo un medico non obiettore.

Metsola è la prova vivente che “le donne” non sono una categoria generica e indistinta, un mazzo da cui poter pescare qualsiasi carta tanto fa lo stesso, nella partita della politica il loro valore è sempre uguale (cioè pari a zero).

È la dimostrazione che non tutte “le donne” sono a favore del diritto all’aborto, quindi chissà su quanti altri temi non sono unite. Certe tematiche sono divisive e fanno discutere e combattere a prescindere dal sesso, perché sono questioni che toccano corde più profonde, corde che abbiamo tutti, maschi e femmine, e che hanno a che vedere non con il nostro genere (di nascita o in cui ci riconosciamo) ma con le nostre convinzioni più intime e radicate.

Convinzioni che nascono con noi o che si sviluppano nel tempo grazie alle esperienze che viviamo, alle persone che incontriamo, alle clima sociale, politico e culturale in cui cresciamo, a volte ai traumi che subiamo e alle pressioni che riceviamo.

Metsola, insomma, non è certo Emma Bonino. E allora anche da noi, in Italia, dove sta per concludersi la corsa al Quirinale, Rosy Bindi non è Elisabetta Alberti Casellati, Liliana Segre non è Marta Cartabia, e così via. E non perché una valga meno dell’altra ma perchè ogni donna non è semplicemente “una donna” ma – grazie al cielo – perché, al pari dei suoi colleghi uomini, ha pregi e difetti, idee e convinzioni, battaglie in cui crede e altre a cui è contraria. Può essere di valore – politicamente parlando – o neutra se non addirittura dannosa, se messa lì, al Quirinale, solo come controfigura, come cartonato per rappresentare “le donne” e permettere a tutti, donne e uomini, di barrare la casella del “abbiamo anche noi una donna Presidente, ora sì che siamo un Paese civile e progressista, ora sì che possiamo vantarci anche in Europa e nel mondo”.

E allora smettiamola di dire che al Colle è arrivato il momento per “una donna”, una qualunque.

Il saggio di Lisa Whiting e Rebecca Buxton. Le regine della filosofia, le donne che hanno fatto la storia del pensiero. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.  

«Immaginiamo cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella, poniamo chiamata Judith, meravigliosamente dotata. Shakespeare studiò – poiché sua madre era ricca – alla Grammar School; gli avranno insegnato il latino – Ovidio, Virgilio e Orazio – e qualche elemento di grammatica e di logica. Intanto sua sorella, così dotata, rimaneva probabilmente in casa. Lei non era meno avventurosa, piena d’immaginazione e desiderosa di conoscere il mondo di quanto non lo fosse suo fratello. Ma non aveva studiato. Non aveva potuto imparare la grammatica e la logica, per non dire leggere Orazio e Virgilio».

La forza di questo famoso brano di Virginia Woolf – tratto da Una stanza tutta per sé e pubblicato per la prima volta nel 1929 – rimane invariata se sostituiamo il nome del drammaturgo inglese con quello di uno qualunque tra i filosofi maschi che costituiscono l’ossatura dei manuali di storia del pensiero occidentale. La vita immaginaria della sorella del Bardo – dotata ma costretta a sposarsi giovanissima, relegata in casa a badare alla famiglia e ai bambini, esclusa dal privilegio di un’istruzione e dalle professioni “non appropriate” – potrebbe cucirsi addosso a quella delle tante potenziali filosofe che non abbiamo mai conosciuto e mai studiato. Come sarebbero andate le cose se la storia della filosofia non fosse stata monopolizzata dal punto di vista maschile? Dove saremmo oggi se il pensiero femminile avesse avuto la possibilità di far sentire la propria voce? Cosa sarebbe diventato l’ambiente accademico se anche le donne avessero potuto, come scrive Platone, «gettarsi indietro sulla destra il mantello, come si addice a persona libera»?

A queste domande risponde il libro Le regine della filosofia. Eredità di donne che hanno fatto la storia del pensiero di Lisa Whiting e Rebecca Buxton, pubblicato in Italia dalla casa editrice Tlon, con la prefazione di Maura Gancitano e le illustrazioni di Caterina Ferrante. Una controstoria del pensiero umano che include la voce di tante filosofe – appartenenti a tutte le epoche storiche e provenienti da tutte le parti del mondo – che, nella maggior parte dei casi, non trovano posto nei manuali ufficiali né il riconoscimento dovuto dentro e fuori l’Accademia. Le regine della filosofia colma una lacuna importante accendendo una luce sulla vita e sulle opere di venti filosofe raccontate e analizzate da altrettante filosofe e studiose. Prospettive alternative e spesso rivoluzionarie sul mondo, sulla società e sulla vita individuale che aspettano di essere riscoperte o conosciute per la prima volta. Il libro, però, è utile anche per ricordarci che la memoria storica è sempre connessa all’oblio: qualcosa viene ricordato mentre qualcos’altro viene dimenticato, qualcosa viene tramandato e qualcos’altro si inabissa per sempre. La memoria non è un meccanismo neutro e oggettivo: non tutto quello che merita di essere ricordato viene salvato e molto spesso la selezione non è dettata da motivi di merito, ma da pregiudizi e limitazioni storico-sociali.

La via dritta della memoria ufficiale ha escluso tante deviazioni, tanti percorsi alternativi, tante strade diverse: le “inclinazioni” che divergono dalla “rettitudine”, parafrasando il titolo del libro della filosofa Adriana Cavarero, si riprendono in queste pagine lo spazio che meritano. Non solo la filosofa-scienziata Ipazia, ma anche la grande intellettuale dell’antica Cina Ban Zhao. L’autrice del famosissimo Sui diritti delle donne Mary Wollstonecraft o la pensatrice del Kashmir del XIV secolo Lalla, ma anche Mary Anne Evans che si è firmata con lo pseudonimo maschile George Eliot. I nomi delle donne più note della filosofia occidentale come Edith Stein, Hannah Arendt e Simone De Beauvoir, ma anche la poco conosciuta, iniziatrice della filosofia yoruba, Sophie Bosede Oluwole. La femminista e attivista icona del Black Power Angela Davis, ma anche una delle più importanti filosofe islamiche viventi, Azizah Y. al-Hibri.

Filosofe che hanno visto e plasmato il mondo con parole e azioni, che oggi – tramite la voce di altre donne – pretendono un riconoscimento senza chiedere il permesso. Come Diotima – la sacerdotessa di Mantinea che nel Simposio platonico rivelava a Socrate la verità su Eros – abbandonano ogni timore reverenziale e affermano con determinazione “certo che ho ragione!” anche di fronte ai padri fondatori del pensiero maschile. In queste vite di filosofe raccontate da filosofe, di donne provenienti da mondi diversi ed epoche lontane raccontate da donne contemporanee risplende una forza comune. Una sorta di “filosofia della narrazione” di cui si è sempre nutrito sottotraccia il pensiero delle donne che, come Penelope, hanno intessuto trame per sopravvivere.

Le regine della filosofia è una costellazione rizomatica e plurale che non cerca di costruire un sapere definitorio e unitario che riguarda l’universalità, ma una filosofia complessa che mette insieme tante storie individuali diverse: la narrazione, come ci ricorda la Arendt, «rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo», le esperienze di vita «racchiudono in poche parole il pieno significato di ciò che abbiamo da dire». Rileggiamo l’invito con cui Virginia Woolf chiudeva la sua perorazione alle giovani studiose e aspiranti scrittrici: «È mia ferma convinzione – scriveva la Woolf – che la sorella di Shakespeare, che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio, è ancora viva. Perché i grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in carne ed ossa. E offrirle questa opportunità, a me sembra, comincia a dipendere da voi». Lucrezia Ercoli

·        Il Potere nel Telecomando.

Pierluigi Panza per Dagospia il 16 gennaio 2021.  

Se lo avessero saputo i Romani che il bastone di comando bifronte Rapa Nui/Isola di Pasqua dalla prima metà XIX secolo si chiama “’Ao” avrebbero saputo spiegare perché uno dice “’Ao, passame er telecomando”. Semplice il tele-comando è l’erede contemporaneo dei bastoni di comando tenuti in mano dai capi tribù e dai capi famiglia. Chi lo impugna è colui che comanda, il più importante del gruppo. 

Una mostra organizzata dalla Fondazione Ligabue a Palazzo Franchetti di Venezia, sede dell’Istituto Veneto, aperta sino al 13 marzo espone straordinari bastoni di comando provenienti dall’Oceania, perché lì sono stati usati sino a età “recenti”.  Il valore scultoreo dei bastoni del comando esposti in mostra è componente fondamentale della loro identità.

L’abilità scultorea degli intagliatori di questi manufatti è talvolta impressionante, ma non si trattava di semplici esperti: nelle lingue oceaniche i termini “esperto” o “specialista” includevano il nostro concetto di “sacerdote”, alludendo a una dimensione religiosa di queste figure e degli oggetti che realizzavano. A questi oggetti era riconosciuto il valore di “mana”, ovvero di un potere trascendente, quello che per Walter Benjamin è all’origine dell’Arte e del suo essere una sorta di “religione laica”.

Sorprende nella mostra “Power and Prestige” è la qualità di questi “bastoni” che spaziano da una trentina di centimetri (come un grande tele-comando) a oltre 3 metri, la fluidità delle forme, la meticolosità dell’intaglio, della lucidatura e degli ornamenti, la varietà delle tipologie.

Questi bastoni erano anche armi e molti furono fabbricati pensando a questa funzione, anche se non tutti furono usati in combattimento: come il tele-comando, usato solo per i combattimenti domestici. Inoltre, come il tele-comando, erano come accessori di arredo o di costumi e oggetti per esibizioni di vario genere, talvolta grandiose e impressionanti come quelle riportate dalle cronache di alcuni missionari della seconda metà dell’Ottocento: chi li possedeva li mostrava allo straniero come segno di forza e prestigio. Infine, i disegni superficiali possono essere enigmatici, come nelle celebri lance dai bordi dentellati delle isole Cook realizzate fino agli anni venti dell’Ottocento e del cui motivo distintivo non si conosce né l’origine né la fonte di ispirazione, un po’ come i simbolini dei telecomandi di ultima generazione. 

·        I Drag Queen.

Maria Elena Barnabi per GENTE il 31 ottobre 2022.

Mariano Gallo è un bellissimo uomo di Napoli di 45 anni («I 46 li faccio il 22 dicembre, il primo giorno del Capricorno», precisa) che per passione e per lavoro sul palco diventa Priscilla, la drag queen che vedete nella foto di questa pagina. Da più di vent’anni, Mariano fa spettacoli in giro per il mondo e da due anni è con Tommaso Zorzi e Chiara Francini nella giuria di Drag Race Italia, un programma che porta in Tv le storie di vita delle drag queen e che ne incorona la migliore (per ora su Discovery+, poi arriverà su Real Time). 

Il format è uno dei tanti fortunati spin-off internazionali del programma americano RuPaul’s Drag Race, che è giunto alla quattordicesima edizione e che ha vinto moltissimi premi. Insomma, il fenomeno drag ha davvero preso il volo negli ultimi tempi. Non avete ben chiaro di cosa si tratti? Nessun problema: ci spiega tutto Mariano.

Tanto per iniziare, spiegaci chi è una drag queen.

«È una persona che ha deciso di fare spettacolo vestita con abiti coloratissimi, trucco sgargiante, parrucche cotonatissime. È un lavoro che richiede un sacco di preparazione e molte competenze: sapersi truccare (a me vanno via due ore ogni volta), sapersi vestire, ballare, recitare. E poi non è un lavoro come gli altri, che quando hai finito torni a casa e te lo lasci alle spalle. Ti prende 24 ore su 24. È una specie di vocazione. Priscilla sta sempre con me».

Cioè ti vesti così anche al supermercato?

«No, Priscilla è solo sul palco. A casa mi vesto da uomo e sono Mariano. Ma Priscilla è un modo di essere: tutto quello che vedi, parrucche, trucco, abiti non sono una maschera, ma uno strumento. Per noi drag sono strumenti per vivere una parte di noi, una parte vera e reale. Il drag è una forma d’arte, una forma di espressione, come lo sono la scultura, la danza, la pittura. E come tale è libera: non ha orientamento sessuale, non ha identità di genere. Troppe volte si fa il binomio drag queen e omosessualità». 

Tu però ti definisci gay.

«Sì, lo sono: mi sono dichiarato a 19 anni. Sono un uomo gay cisgender, cioè in sintonia con il corpo che mi è stato assegnato alla nascita. Comunque esistono drag che sono uomini eterosessuali, donne, persone transgender...». 

Qual è la parte di te che Priscilla ti permette di vivere?

«La mia parte femminile, cioè la mia parte più intima, vera, profonda. Da quando c’è Priscilla con la mia femminilità ho fatto pace, l’ho accettata, e ci convivo molto serenamente. La offro a tutti sul palco: sono molto vulnerabile quando sto lì. E mi sento benissimo. Posso dire che grazie al drag ora sono più equilibrato, più completo. Non è sempre stato così». 

È stato un percorso difficile?

«Sì, perché agli inizi mi vergognavo un po’. Quando mi chiedevano di cosa mi occupassi dicevo che facevo l’attore. Pensavo che fare la drag mettesse in discussione il mio essere uomo. Ero intriso di pregiudizi maschilisti, come se essere maschi voglia per forza dire essere un macho. Priscilla mi metteva di fronte a una realtà diversa». 

Come è arrivata la svolta?

«Pian piano mi son reso conto che Priscilla mi stava facendo diventare migliore. Stavo finalmente conoscendo tutte le mie sfumature e scardinando quelle certezze che alla fine si sono rivelate sciocche. Perché dovevo seguire i canoni della società? Perché non potevo vivermi a 360 gradi, godermi tutte le mie sfaccettature e gioirne con il pubblico?».

Ricordi la tua prima volta?

«Sì: era il 2000 ed ero in Tv su Raidue con un programma di Alda D’Eusanio. Facevo l’attore e il ballerino. Mi proposi come drag queen, improvvisai un costume e un trucco. E fu bellissimo». 

I tuoi genitori come la presero?

«Ho una splendida famiglia che mi sostiene nel privato e nel lavoro. Mia mamma cuciva i miei costumi e mio padre, che di lavoro faceva il bodyguard nelle discoteche, molte volte è stato accanto al palco a vigilare sulla mia sicurezza. Le mie nipotine, figlie di mio fratello, non vedono l’ora di ereditare scarpe e abiti di Priscilla quando appenderò i tacchi al chiodo».

Hai polemizzato con Platinette che negli Anni 90 fu la prima drag queen della nostra Tv. Perché?

«Per me essere drag queen è imprescindibile dall’attivismo: noi abbiamo l’obbligo morale di difendere i diritti della comunità Lgbtq+ e convincere le persone che la diversità non mette in pericolo niente. Platinette non l’ha mai fatto. Drag Race Italia invece lo fa. Non è solo un programma televisivo, è un fenomeno sociale». 

·        Il Maschio.

Da “il Venerdì - la Repubblica” il 6 luglio 2022.

Ebbene sì cara signora, noi uomini siamo pericolosi, Abbiamo sempre in testa solo la femmina, anche quelle velate anzi forse di più. Spero capisca che sto scherzando. Ma in questo tempo in cui veniamo descritti come maniaci che appena vedono una bella ragazza se non le saltano addosso la insultano, risulta difficile mi creda, relazionarsi. Mi dice un mio amico di aver detto carina a una collega, senza malizia, e questa a momenti lo denunciava all'ufficio personale.

Non pensa che ci sia qualcosa di strano in questa frattura tra donne e uomini? Direi di incivile, perché è come se tutti gli uomini (che mascalzoni!) non pensassero ad altro. Io ho una fidanzata di cui sono molto innamorato, vedere una ragazza può farmi piacere ma finisce lì. Tutto questo non mi piace, mi fa paura. Gerolamo G.G.

Risposta di Natalia Aspesi

Qualche decennio fa il mio femminismo era piuttosto militante o forse il mio fidanzato del tempo mi aveva piantato, quindi gli uomini mi parevano altro che mascalzoni, forse addirittura vampiri! Così stavo dalla parte delle ragazze che difendevano il loro diritto ad andare in giro con le mini ultrainguinali senza per questo dover sopportare in strada gli sguardi lascivi degli uomini. Invecchiando si diventa più conservatori o più ragionevoli, o forse semplicemente più buoni.

Se i poveri maschi hanno una natura fragile di cui sono solo parzialmente responsabili, non sarebbe meglio non provocarli in massa, perché può capitare che tra loro ce ne siano di non eroici? 

Comunque l'altro giorno vedevo su TikTok un ragazzo impubere, il tipo di giornalista che va di più adesso, perché ha il privilegio di non saper nulla, neppure di quello di cui sta parlando, che raccontava sdegnato, le guance rosse di emozione e agitando le mani, di una nota cantante di cui io non sospettavo l'esistenza che aveva eroicamente fermato il concerto perché nella folla plaudente, anche quella impubere, qualcuno le aveva rivolto un insulto cioè quello che dieci anni fa sarebbe stato un complimento. 

La nota cantante è una bella ragazzona, sederona, pettona, labbrona, vistosamente attraente, qualcuno sussurrerebbe addirittura il vergognoso termine "sexy". E quella sera un povero scemo ci casca e commenta allegramente come fossimo negli anni 80 quel ben di Dio che si trova sotto il naso.

Lei si erge come una dea, abbassa il microfono, blocca i fianchi frementi, ulula il suo giusto sdegno e fa trascinar via lo scriteriato oltraggiatore. Sì, lei ha ragione i tempi per voi maschi sono duri, o per lo meno punitivi: temo anche per noi femmine anziane che in passato ne abbiamo passate e superate di ogni colore, davvero drammatici, e se ci dicevano culona ci veniva da ridere.

La milanese e gli animali: uomini, dove siete finiti? Tornate. Il vostro posto lo hanno preso i cani. Lina Sotis e Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 24 giugno 2022.  

(Lina Sotis) Tornate. Fatevi vivi. Dove siete? Ma è una decisione che avevate condiviso, oppure ognuno l’ha presa da solo? Come mai tutti insieme? Veramente solo perché è cambiata l’epoca? Oppure perché si scopre che le donne con gli animali, docili, ossequiosi, talvolta masochisti, sono diventate meno insopportabili? Insomma ragazzi, parto dai 17 anni, i peggio sono i 30enni, sono quelli che se ne fregano che hanno già provato questa cosa sessuale, che sì va bene, ma però anche no. E poi fatta anche con l’altro sesso (ma i gay quanti sono diventati? è vero che sono triplicati?) sembra non sia così male, tanto che viene in mente quella storia antica, nella Magna Grecia: appena il giovinetto compiva 13 anni aveva diritto a un suo compagno, di svago, di toccatacce, però poi c’era la legge, almeno una volta doveva farlo. Eh sì, era obbligato a fare un figlio, anche se lei non gli piaceva doveva farlo, era legge. Poi, dopo un po’, era passata, sapete come sono le mode, cambiano continuamente, avere un giovanotto non si poteva più e chissà quale religione aveva definito quella idiozia. Forse perché gli uomini sono più divertenti delle donne? Poi si doveva avere una donna, amarla, odiarla, ma tenerla. Adesso giovinotti, adulti, sbarbati e con le barbe, anche i calvi, quelli che non beccano palla, né da parte maschile né femminile, non ci sono neppure loro. Ecco allora perché sono triplicati i cani, grandi, piccoli, bastardini se lei è buona, trovatelli se è buonissima, di razza se è griffatissima, però cani, con quattro zampe, che annusano, sniffano, tirano fuori la lingua e perché no slinguacciano, insomma fanno tutto quello che facevate voi. Ma i cani si comprano e così, sentendo mancanza di quelle effusioni, le ragazze ne comprano 6 o 7, prima piccolissimi, poi i medi (quelli del genere benestante ma non troppo), poi ci sono quelle tremende che vogliono farsi vedere e prendono un alano, colui che vive di meno, non ama più di 9 anni e poi il suo amore indefesso cade. E su questa ondata triste non posso che concludere: tornate, miserabili, morbidi, fantastici, possenti, indifesi, tornate. E mentite. Come avete sempre fatto.

(Michela Proietti) C’è quella che il volpino di Pomerania (in grande ascesa), quella che il bassotto (stazionaria), quella che il barboncino albicocca (in crescita), il golden retriever («è cosi giocherellone con i bambini!»), il border collie («di un’intelligenza pazzesca, da non credere!») e quella che «il cane non è di razza ma si prende al canile» (per fortuna di gran moda). Nella città più animalista d’Italia, indossare una pelliccia vera fa Crudelia Demon (a meno che non si tratti di upcycling, un visoncino della nonna riportato in vita) mentre avere almeno tre cani nello stato di famiglia fa chic. Certo non è semplice, la vita a Milano è complessa: ma per fortuna ci sono loro, i dog sitter, che con il sole, la pioggia, il vento, la neve, sono sempre lì, con il loro guinzagli doppi, anche tripli, talvolta quadrupli, che trascinano e spesso si lasciano trascinare da una specie di skilift canino che punta inevitabilmente verso un punto ignoto. Ragazzi e ragazze che hanno studiato a fondo il comportamento degli animali e sanno che il cane non vuole passeggiare, ma interagire. Questo ovviamente accade nei casi più fortunati. In generale succede che sia la tata ad assumere il ruolo di dog sitter, ma solo quando non è impegnata con il bambino: purtroppo la signora, ancora in divisa da lavoro, confonde l’idea dello svago del cane con il suo svago personale. Si vedono quindi al guinzaglio cani dall’aria depressa, tenuti fermi in una aiuola da tate che chattano. Ma c’è anche un’ultima opzione: pare che con il cane si «cucchi», quindi c’è sempre qualche amica/o single disponibile a una passeggiata al parco: del resto, nella città dei cuori solitari e dei cani plurimi, anche questa può essere considerata una ottimizzazione delle risorse.

I muscoli mappano il valore del corpo maschile, ma per quali occhi? ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani il 30 marzo 2022

Come fa Tancredi, nella Gerusalemme liberata, a scambiare Clorinda per un uomo? Dobbiamo immaginarcela nerboruta come la Brienne di Game of Thrones? O sono i cavalieri maschi, nell’immaginario di Tasso, a somigliare più alla sottile Uma Thurman di Kill Bill – ma in armatura?

Molti modelli eroici, rappresentano una maschilità forte senza essere muscolare. Ma da anni lo standard del palestrato infetta anche storie come quella di Harry Potter, e l’Ercole di Disney deve gonfiarsi (anche se già forte da mingherlino) per essere degno dell’Olimpo.

La mercificazione dei corpi collega i contadini e gli schiavi di quadri e stampe di secoli fa con i profili Tinder e Instagram dei ragazzi di oggi. Questo contributo è parte del nuovo numero della newsletter Cose da maschi. Per iscriverti clicca qui.

C’è un colpo di teatro rischioso, estremo, addirittura olimpionico nell’arsenale di una drag queen all’apice della propria forma e performance. Se ne sono viste alcune esecuzioni nelle puntate davvero epiche di RuPaul’s Drag Race. La statuaria, ipertrofica incarnazione di ogni rincarata istanza del femminile, proprio sulla nota più drammatica del suo partecipato playback, si porta all’improvviso le mani nei fluenti capelli sgargianti, oppure finge artatamente di inciampare e cadere, o ancora si agita in una specie di possessione da tarantolata.

Quando l’attenzione del pubblico è senz’altro catturata, di colpo qui capelli così vistosi e perfetti si scollano inquietantemente dalla testa, rivelando di non essere altro che una splendida parrucca. Magia! L’illusione si spezza e, incongruamente, ce ne sorprendiamo, ricordandoci di botto che la stavamo in effetti nutrendo.

Ma come? Davvero ci eravamo dimenticati di aver visto quella stessa drag queen metter su quella stessa parrucca prima di salire sul palco, dopo aver battuto sulla faccia l’impressionante maquillage della sua arte metamorfica e farfallesca? Non vedevamo, prima della rivelazione del suo cranio rasato o della zazzera ordinatamente appiattita in un gambaletto da rapinatore, la muscolatura da ragazzo in salute sotto l’abito cucito a mano lustrino per lustrino?

I MUSCOLI DI CLORINDA

Una simile rivelazione, ma di senso opposto, corona la scena madre di tutta la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: nell’occhio del ciclone di una guerra tra due apparentemente inconciliabili civiltà, Tancredi, cavaliere occidentale, duella a morte con un valoroso avversario saraceno. Vincitore, porta le mani all’elmo del nemico e, all’improvviso, ne sgorgano le chiome dorate della sua amante straniera, sparse al vento come fiumi aerei: è Clorinda, la cui strana bellezza d’africana bionda si celava sotto il drag da guerriero musulmano.

L’armatura, la notte e l’abilità con la spada l’avevano fatta maschio come il trucco, le luci e le abilità coreografiche fanno femmine le drag queen. Claudio Monteverdi, che dall’episodio trasse un’immortale scena d’opera barocca quasi esattamente 400 anni fa, ne apre il libretto ricombinando le parole di Tasso stesso che confermano questo punto: non solo Tancredi non riconosce Clorinda, ma stima che sia un uomo. Possibile? Solo rimuovendo la parrucca o l’elmo l’incanto s’interrompe.

Mi domando però come potesse essersi innescato dapprincipio; come potesse apparire tanto graziosa eppure tanto gagliarda questa Clorinda: una ragazza così possente, atletica, poderosa, da scontrarsi alla pari contro un peso massimo dell’esercito crociato.

La Brienne di Tarth di Game of Thrones, unica combattente donna capace di misurarsi con gli uomini direttamente al loro classico modo cavalleresco di clangori da scherma medievale, è interpretata in tv dall’altissima e magnifica Gwendoline Christie, capace di incarnare credibilmente anche il capitano Phasma di Star Wars e il comandante Lyme di Hunger Games. Dobbiamo immaginarcela così Clorinda? Aitante, fiera e dalle spalle larghe, alta due metri, fasciata da un’inconsueta muscolatura da sollevatrice?

MASCHI FORTI MA SOTTILI

Forse, nell’immaginario di Tasso, non erano le donne a dover essere particolarmente nerborute per risultare convincenti come guerrieri. Può darsi che fossero invece gli uomini a non apparire (anche quando eroi, anche quando cavalieri) gonfi di muscoli da culturista. Può darsi insomma che, nello spettro dell’androginia, non bisogni avvicinare Clorinda a Brienne di Tarth con l’elmo, ma Tancredi a una drag queen senza parrucca. Mi pare che quando ero adolescente avrei dato per scontata tale ipotesi.

L’Achille di Brad Pitt, in quell’entusiasmante disastro cafone di peplum che è stato il film Troy del 2004, vince contro il suo grottescamente muscolare primo avversario più per via del piè veloce che non di una possanza erculea – e d’altronde il Paride di Orlando Bloom è quasi longilineo quanto la Elena di Diane Kruger.

Del resto, agile ed efebico, negli stessi anni Bloom faceva l’elfo elegantone nel Signore degli anelli e il bucaniere a malincuore nei Pirati dei Caraibi: due universi mediatici in cui i muscoli pompati sono tipici di mostri e antagonisti, mentre gli eroi maschili giovani irradiano un carisma tutto facciale, vocale, in cui la forza non è proporzionale al volume delle braccia.

Morpheus, nella più bella scena di botte di Matrix, chiede a Neo se crede che sia più forte o veloce di lui a causa dei suoi muscoli, e ovviamente non è così; Robert Pattinson, in Twilight, esibiva un petto di pollo per mostrare a Kristen Stewart la sua condizione di vampiro sbrilluccicante alla luce del sole, e le ragazze di tutto il mondo impazzivano per quella dimagrata nudità senza turgori. Ma qualcosa cambiò quando, nel secondo film, il licantropo precedentemente bambinesco esplose improvvisamente in un assurdo fisico da statua.

GONFIARSI PER ESSERE DEGNI

Ricordo benissimo il momento in cui l’Harry Potter cinematografico, fin lì ragazzino caruccio ma facile da immaginare nei miei panni, divenne di colpo un’irreale creatura siderale. Al quarto film, nudo nel bagno di Mirtilla Malcontenta, Harry si dimostrava improvvisamente allenatissimo, pieno di addominali e vene in rilievo sulle braccia: un nuotatore, o un ginnasta, che faceva finta di essere un mago con gli occhiali.

Almeno il licantropo di Twilight non faceva finta: addirittura esibiva quei muscoli cesellati per stordire Bella, per strapparle un bacio e convincerla a dimenticare il fidanzato vampiro in cambio di una seduzione elementare (toccami le diceva, sono caldo, sono vivo).

Quei corpi, modellati da diete e allenamenti totalizzanti, non erano come quelli di Wolverine o degli spartani di 300, ovviamente platonici e ultraterreni: erano corpi inimitabili che però si aspettavano di essere imitati. Erano nuovi standard, prima celati dall’elmo dell’infanzia: modelli che portavano nell’allegoria della pubertà (il risveglio della licantropia, di Voldemort, del primo Spider-Man di Tobey Maguire che, in quegli anni, si risvegliava dal morso del ragno scoprendosi nuovi pettorali allo specchio) l’idea che il passaggio da ragazzo a giovane uomo consistesse in un aumento di volume.

Chi come me ha visto Kill Bill a quindici anni non ha difficoltà a immaginare una Clorinda femminilissima e fortissima al contempo, ma si è trovato a un certo punto a dubitare che Tancredi, trasportato nel futuro, potesse assomigliare a Uma Thurman e non a Goku o He-Man. L’ercole di Disney è ugualmente forte da snello ragazzo, ma Filottete gli gonfia pettorali e bicipiti per renderlo convincente come eroe degno dell’Olimpo. Anche se la morale del cartone è in teoria opposta, quest’arco narrativo è visivamente lampante.

IL VALORE DEL CORPO

Una fetta importante del mercato corrente della maschilità è costituita da miscugli proteici, integratori da frullare, allenamenti e diete telematiche che promettono di gonfiare i muscoli, questa orografia sottocutanea che mappa geologicamente il valore del corpo maschile.

È un’opera aperta il lavoro di chi modella il proprio fisico non per renderlo capace di compiere determinati esercizi ma per farlo bello e valido, degno dell’Olimpo: è una sfida infinita che dà dipendenza, che infinitamente estende i limiti dell’inadeguatezza. La retorica promozionale è quella della salute, ma la verità mi pare puramente estetica: un drag biologico, un travestimento sotto l’epidermide.

Nel 2000, nel video musicale di Rock DJ, Robbie Williams faceva uno spogliarello che continuava oltre la nudità: si strappava la pelle e cominciava poi a lanciare i propri muscoli alla folla dei fan, rimanendo nudo scheletro. Justin Bieber, sempre più nudo e muscoloso sul palco dopo gli esordi androgini e bambineschi, fa forse lo stesso vent’anni dopo, ma senza ironia – e a un simile impulso risponde forse la metamorfosi muscolare di Jeon Jung-kook di BTS.

Da trent’anni Walter Siti, scrittore ossessionato dai culturisti, ragiona romanzescamente su questa mercificazione che fa platoniche e ideali (e dunque remote, paradossalmente impossibili da possedere o abitare) le carni dei maschi incontrabili per strada, riempiendole e arrotondandole come a imitare le curve di un materno senza femminilità.

Più che Platone e Freud però, a me vengono in mente i muscoli dei contadini che mangiano nella pittura di genere europea del Seicento, o quelli degli schiavi nelle stampe americane dei due secoli successivi: volumi da soppesare per una stima, come quelli dei bicipiti e dei pettorali attentamente inquadrati nelle odierne gallerie di Tinder e Instagram. Che siano i muscoli, questa cosa tanto ovviamente maschile, il punto su cui i maschi esperiscono la riduzione della persona a corpo, a merce, che infliggono così facilmente alle donne? 

ALESSANDRO GIAMMEI. Professore di letteratura italiana al Bryn Mawr College, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gastby di F. Scott Fitzgerald.

Sofia Gnoli per “Specchio – La Stampa” il 5 marzo 2022.

«È arrivata l'ora di decostruire l'idea di mascolinità così come si è affermata storicamente. È giunto il momento di celebrare un uomo libero di autodeterminarsi senza costrizioni sociali, senza sanzioni autoritarie, senza stereotipi soffocanti».

Con queste parole di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, si apre il libro che accompagna Fashioning Masculinities: The Art of Menswear, la grande mostra sulla moda maschile che verrà inaugurata il 19 marzo al Victoria and Albert Museum di Londra (fino al 6 novembre).

Appassionante viaggio nei meandri della mascolinità, questa esposizione si sofferma sul modo in cui l'abbigliamento è stato costruito e decostruito nel corso dei secoli e su come è stato interpretato da designers, sarti, artisti e icone del gusto. 

Moda e arte Curata da Claire Wilcox e Rosalind McKever, la mostra si snoda in tre sezioni con circa 100 look che dialogano con altrettante opere d'arte, dal Rinascimento a oggi.

«Dopo essere stata a lungo un potente meccanismo per incoraggiare la conformità o, al contrario, per esprimere l'individualità, la moda maschile» raccontano le curatrici: «sta vivendo un periodo di creatività senza precedenti. Più che una storia lineare questo è un viaggio attraverso il tempo e i generi». 

È così che modelli storici e contemporanei verranno accostati a sculture classiche, dipinti e fotografie che descrivono le innumerevoli interpretazioni del vestire maschile.

Mascolinità addio

L'esposizione si apre con un modello del designer britannico Craig Green (primavera-estate 2021) che allude alla costruzione e decostruzione dell'abito e delle convenzioni della mascolinità, tema centrale della mostra (sponsorizzata da Gucci).

La prima sezione, "Underdressed", si focalizza sul corpo e sull'underwear attraverso gli ideali classici di mascolinità, a partire dai calchi di gesso dell'Apollo Belvedere e dell'Ermete Farnese, che raffigurano tipi fisici idealizzati. 

Il percorso arriva alle rappresentazioni moderne di artisti, come David Hockney o Lionel Wendt, e di stilisti, uno su tutti Calvin Klein e le sue pubblicità anni Ottanta che, con l'obiettivo di Bruce Weber, raccontano di un corpo plasmato dalla palestra e esibito al pari di quello della donna. 

Potere e spavalderia

"Overdressed", si concentra sulle dinamiche di potere e sulla spavalderia sartoriale, dai campi di battaglia alla strada, senza trascurare l'attrazione per ricami, piume, nastri e colori come il rosa, spesso erroneamente identificati con il genere femminile («Due metri di stoffa rosa - scriveva nel 1556 Machiavelli - possono fare un gentiluomo»).

Qui un ritratto di Sir Joshua Reynolds che raffigura Carlo II d'Inghilterra avvolto in un ampio mantello di taffetà rosa, con tanto di copricapo piumato e scarpini di seta (Galleria Nazionale d'Irlanda, 1773-74), viene messo a fronte a un romantico look del designer anglo-americano Harris Reed. 

Uniforme borghese

La terza sezione, "Redressed", esplora la costruzione e la dissoluzione dell'abito maschile tradizionale partendo da una riflessione sulla sartoria inglese e sulle origini del completo da uomo, la cosiddetta "uniforme borghese". 

Dopo aver esaminato la sartoria di Savile Row, strada di culto della sartoria maschile, e il look di dandy come Beau Brummell, Oscar Wilde e Cecil Beaton, la mostra passa a indagare il riflesso dell'abbigliamento militare su quello civile.

Per poi passare a pionieristici designer - come Giorgio Armani, Tom Ford e Raf Simons - che hanno aperto la strada a nuove generazioni di creativi di cui fanno parte, tra gli altri, Jonathan Anderson e Alessandro Michele, il cui lavoro ruota intorno a modelli liberi da ogni costrizione di genere. 

Linguaggio unico

Tutti esempi che fanno tornare in mente le parole di Virgil Abloh, vero re Mida dello Streetwear, scomparso lo scorso novembre a soli 41 anni, quando diceva: «Al di là di ogni norma superflua e di quello che è tradizionalmente concepito come maschile o femminile, il mio intento è creare per tutte le persone, di ogni età e provenienza e di offrire un unico linguaggio estetico attraverso il quale comprendere e comunicare l'un l'altro». 

"L'uomo sta scomparendo. Solo così si potrà salvare". Matteo Carnieletto il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Intervista al professor Roberto Giacomelli, autore di Oltre il maschio debole. Prospettive per ritrovare la via del guerriero (Passaggio al bosco).

In principio fu Eric Zemmour. Nel 2006, il giornalista francese scrisse un libro intitolato Le premier sexe, (L'uomo maschio, nella traduzione italiana di Piemme), in cui vivisezionava la crisi dell'uomo moderno: "Quasi un trattato di educazione virile", scrive l'autore, "a uso delle giovani generazioni effeminate. Un lavoro molto più da archeologo che da polemista". Non è così, in realtà. Zemmour ripercorre quarant'anni di storia recente, partendo ovviamente dal '68, per dimostrare che qualcosa è andato storto e che, oggi, i maschi non sanno più fare i maschi. Pagine taglienti e politicamente scorrette, ma che hanno portato al centro del dibattito un quesito fondamentale: che fine hanno fatto gli uomini? Nel suo saggio, Zemmour è alla ricerca della virilità perduta. Descrive ciò che fu e che ancora oggi dovrebbe essere. Due anni fa, è stato pubblicato un denso libretto, Oltre il maschio debole. Prospettive per ritrovare la 'via del guerriero (Passaggio al Bosco), scritto dallo psicoanalista Roberto Giacomelli. Per capire cosa sta accadendo attorno a noi e dove sta andando l'uomo di oggi, abbiamo deciso di intervistarlo.

Dottore, come nasce questo libro?

Da un punto di vista clinico - faccio lo psicoanalista di orientamento junghiano - ho notato una crescente fragilità nei giovani maschi che ho avuto in terapia, e che in generale ho conosciuto. Purtroppo il maschio occidentale, quello italiano in particolare, è diventato fragilissimo. Spesso e volentieri soffre da disturbo d'ansia generalizzato, è tendente a fasi depressive. Non solo: soffre di impotenza sessuale, ma non su base fisica; si tratta semmai di un'impotenza spirituale che si riflette anche a livello fisico.

La pandemia ha peggiorato tutto questo?

Sicuramente sì. Non ha idea delle persone che ho adesso in trattamento. Nonostante la mia professione sia stata distrutta dalle chiusure, vengono da me giovani e giovanissimi che soffrono di attacchi di panico, e parecchi hanno anche quadri depressivi importanti. La pandemia ha letteralmente distrutto la psiche delle persone. Ritengo che la vera pandemia sarà quella di tipo psichico. Il motivo è semplice: i più grandi hanno perso la socialità (discoteche, serate, luoghi di incontro chiusi per molto tempo e così via), mentre i piccoli hanno dovuto fare i conti con la scuola a distanza. Alla sua domanda, non posso che rispondere, purtroppo, in modo affermativo.

Come siamo arrivati a questo indebolimento del maschio? Quali sono stati i fattori che hanno causato la crisi della mascolinità?

Innanzitutto una mancanza di valori e di idee dovute a una grande crisi politica – e di fatto storica - dell'Europa. I popoli europei si sono indeboliti per una mancanza di idee. Le idee, infatti, si trasformano in valori spirituali, come il patriottismo, il senso dell'onore e via dicendo. Scomparendo il vecchio tipo di uomo, sono scomparsi anche i valori che incarnava. Oggi a chi possono più interessare la fedeltà a un'idea, il patriottismo e valori del genere? Oggi interessano soltanto soldi e consumo.

Come è stato possibile questo?

La distruzione del mondo europeo, non a caso, è dovuta al dilagare della società materialista e consumista, che io nel libro, con un neologismo, chiamo “società nutritiva”. Con questo termine mi riferisco al secondo stadio dello sviluppo sessuale di Freud, il quale sosteneva che la stimolazione dell'area orale fosse dovuta a carenze affettive. Quindi, stando alla sua teoria, per via di tali carenze tendiamo a bere, fumare e abusare di cibo. Ebbene, ho spostato questa ricostruzione dal punto di vista psicanalitico a quello sociale. Mancando le idee e i valori, mancando i fini della vita, le persone non sanno per che cosa vivere e per cosa morire; sono quindi diventate deboli.

Come si traduce questo nella realtà?

Noto sempre di più una mancanza di passaggi "iniziatici". Nelle società tradizionali e nel medioevo, ad esempio per fare l'artigiano, dovevi passare delle prove. L'aspirante artigiano doveva affrontarle assieme al suo maestro. Oggi non c'è più nessuna scuola militare o di virilità. E di questo ne soffrono i ragazzini e gli adolescenti maschi, cresciuti in una società femminea. Fateci caso: tutte le entità sono simbolicamente femminili, dall'università all'azienda.

Come se ne esce? C'è una soluzione?

Non voglio fare la predica a nessuno, però devo osservare che la soluzione risiede nella famiglia. Se non è possibile, per i più svariati motivi, affidarsi a una famiglia di sangue, è corretto sposare una famiglia basata su valori tribali, come la fedeltà, la fratellanza e il senso dell'onore. Giusto per capirsi, mi riferisco a quel tipo di “famiglia” ideale che possiamo ancora vedere negli stadi. Ad esempio nelle curve, che non sono sempre un esempio da seguire, ma che sono in possesso di quel senso di unione al quale mi riferisco. Lo stesso senso di unione, tra l'altro, l'ho riscontrato anche in molti gruppi giovanili identitari. È fondamentale ritrovare le radici e, in ultimo, effettuare il passaggio al bosco; un passaggio che può concretizzarsi di fatto (vivere in campagna), ma anche spirituale. È possibile tornare al bosco anche vivendo in città, comportandosi da “guerrieri urbani”. La rivolta è nella nostra anima, non serve stare per forza sul picco di una montagna. Quindi la soluzione coincide con il ritorno alla natura, al tribale e alla riscoperta dei valori spirituali.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani nel mirino. Con Fausto Biloslavo ho invece scritto Verità infoibate. Nel dicembre del 2016, subito dopo la liberazione di Aleppo, ho intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Nel 2019 ho vinto il premio Prokhorenko-Paolicchi per i miei scritti sulla Siria  COSE DA MASCHI. Cose da maschi #19: Capuleti e Montecchi alla Scala & le chiavi del presidente della Repubblica. ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani il 03 febbraio 2022.

Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter, in arrivo ogni mercoledì pomeriggio, clicca qui

Ebbene sì, come leggerete oggi stesso sul sito di Domani e sabato in edicola, anch’io questa settimana mi sono messo a ragionare e scrivere di presidenza della Repubblica e (anche se di striscio soltanto) di Sanremo. Ma l’ho fatto attraverso una cosa da maschi un po’ anomala: le chiavi.

Prima però di dare qualche spiegazione, e di mostrare la strepitosa illustrazione regalataci da Didier Falzone, vorrei subito dare il benvenuto in questa rubrica e in questa newsletter a Eugenio Refini, italianista dal multiforme ingegno della New York University (ora in prestito all’American Academy in Rome) che si occupa con eguale acume d’immagini, poesia, teatro e musica.

A queste ultime due arti si dedica il suo pezzo, che trovate qui su Domani. Per scriverlo, Eugenio è andato a vedere e ad ascoltare I Capuleti e i Montecchi alla Scala, opera di Vincenzo Bellini diretta da Speranza Scappucci (prima donna a dirigere in quel teatro!) in cui la maschilità fa giravolte meravigliose da tre secoli.

Le righe divertenti e leggere, profonde e colte che ci regala Eugenio dopo questa trasferta milanese sono un piacere assoluto, e non solo perché partono da un caleidoscopio di “Romei” trans-storici e trans-media – dal gatto coatto degli Aristogatti a Leonardo DiCaprio ragazzino, da Zeffirelli a Shakespeare in Love.

Ciò che incanta è l’affabile chiarezza con cui Eugenio, che di opera ne sa a bizzeffe, è capace di invitare chi legge dentro a questioni di storia e tecnica musicale, a idee registiche e tradizioni teatrali, a fatti importanti di performance e gender (per usare due belle parole inglesi difficili da tradurre): «in teatro il genere che conta (se e quando conta) non è quello dell’interprete, ma quello costruito dall’interprete, con la voce e con il corpo, per il personaggio».

È la prima volta che in Cose da Maschi compaiono castrati, contralti che interpretano personaggi maschili, travestitismi elisabettiani, direttori e direttrici d’orchestra. Sono dunque assai grato a Eugenio, che è esattamente il tipo di amico tanto colto quanto simpatico da cui uno si vorrebbe far raccontare ogni possibile recita, spettacolo, concerto e opera di qualsiasi stagione. 

Ecco, proprio di amici in realtà si parla nel mio pezzo sulle chiavi che ho annunciato: di amicizia maschile. Giacché Pier delle Vigne, che come Pietro (suo quasi omonimo) di chiavi ne aveva due, le usava per sintonizzarsi sul cuore dell’imperatore, Federico II di Svevia, come in una bromance medievale di reciproco supporto e influenza.

Nel pezzo, che trovate cliccando qui, parto da una questione un po’ da pensiero intrusivo delle tre di notte: il presidente della Repubblica (o, d’altronde, l’imperatore) ce l’hanno un mazzo di chiavi? E perché associamo le chiavi al potere, al controllo, a un fallico possesso se poi i più potenti, in realtà, non le portano con sé, le affidano ad altri, se ne liberano quando vengono incoronati o giurano fedeltà alla Repubblica?

Tra Frank Underwood e Andreotti, gli scatoloni di Mattarella e Il portiere di notte di Liliana Cavani ho cercato di rispondere a queste domande, e come al solito me ne sono semmai venute in mente altre.

Sono deliziato dall’illustrazione a collage che, per la seconda settimana di seguito, Didier Falzone ha regalato a Cose da maschi, cogliendo di nuovo in dettagli finissimi l’iconologia sacra e profana, pop e canonica dell’oggetto della settimana. Pietro/Pier portiere (di notte) con due chiavi, in paradiso ma con la bretella sgargiante, è davvero un armonioso ircocervo del maschio con chiavi che ho cercato di tenere insieme scrivendo l’articolo.

ALESSANDRO GIAMMEI. Professore di letteratura italiana al Bryn Mawr College, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gastby di F. Scott Fitzgerald.

Bruna Magi per "Libero quotidiano" l'1 gennaio 2022.  L'argomento è stato analizzato, sviscerato e processato sotto ogni profilo. Oscar per il top del ridicolo, è stata la recente accusa di violenza al principe azzurro che si era permesso di baciare Biancaneve mentre dormiva, senza tener conto che l'aveva risvegliata dalla condanna di un sonno eterno. Conclusione diffusa: gli uomini vanno rieducati al rispetto delle donne, devono iniziare le madri a inculcare buone abitudini sin dall'asilo, affinché collaborino nello svezzamento dei figli e nelle pulizie di casa. 

Giusta la parità nei doveri, ma forse stiamo esagerando nello svilire ogni aspetto delle virilità, non c'è talk show senza la presenza di un uomo che non sia disposto a giudicare se stesso un grezzo animale jurassico.

Tutti obbligati a fare outing, incluso Clint Eastwood che a oltre novant' anni continua a dirigere e interpretare film e ci fa un gran piacere, peccato che sostenga che essere orgoglioso della virilità è stata una grande stupidaggine. Lo ha ribadito lui stesso in "Cry macho", invocando per i maschi il diritto di piangere. In quest' ultimo particolare ha ragione, ma che malinconia rivederlo spesso in televisione nei vecchi film dedicati al duro ispettore Callaghan, un fascino non replicabile.

EVASIONE ROMANTICA E a noi sorge un dubbio: non siamo del tutto sicuri che le donne, quando sognano l'evasione romantica o passionale (tipo Diane Lane nell'indimenticabile "L'amore infedele", dove tradiva il marito Richard Gere facendosi avvinghiare ovunque da Oliver Martinez in amplessi fugaci e furiosi), si rifacciano ai parametri degli uomini collaborativi, gentili, rispettosi sino alla banalità scema nel costante timore di essere posti sotto accusa. L'interrogativo trova conferma lecita anche nel fervore degli acquisti natalizi, e non c'è profumo maschile che sia stato lanciato all'insegna di scialbi requisiti politicamente corretti. Ecco Robert Pattinson, che per "Homme Dior" usa le tracce del suo vissuto da vampiro e annuncia la cupa introversione di "The Batman", che vedremo presto. Nello spot mostra i pugni, ha lo sguardo sofferto ma decisionista, afferra la sua ragazza e la innalza su un muretto per ammirarla meglio, poi a cena in un lussuoso ristorante la trascina sotto il tavolo per amarla con furiosa passione, cercando una precaria intimità sotto la tovaglia. Quasi una tenera violenza. Ed ecco Jake Gyllenhaal sfidare le onde della tempesta perfetta, tipo George Clooney ai tempi migliori, quando non era ancora stato totalmente sottomesso e revisionato dalla moglie Amal, il profumo è "Luna Rossa Ocean", firmato Prada. Il gigante Adam Driver, una montagna di muscoli perfetti (già ultramachista scudiero in "The last duel" di Ridley Scott), sfida un purosangue nella corsa e nel nuoto, e infine lo cavalca trasformandosi in centauro per "Burberry Hero".

VOCE IRRESISTIBILE La sua voce profonda di commento è irresistibile, anche le più refrattarie nel sentirlo cederebbero come la monaca di Monza. Un palestrato eroe mitologico scala un tempio immaginario lanciando frecce verso l'Olimpo per "Eros" di Versace. Un pimpante marinaio va all'arrembaggio di una bella bionda, tutta da abbracciare a bordo per "La Belle e le Male", il maschio, di Jean-Paul Gaultier. Johnny Depp sottolinea il suo oscuro lato "wild", nel deserto dello spot per "Sauvage", ancora per Dior come Pattinson. Eccetera. Conclusione: i pubblicitari e i profumieri la sanno lunga sui gusti del mercato. Cioè che queste essenze devono piacere non soltanto agli uomini, ma anche alle loro donne. Che a quanto sembra per amare preferiscono il maschio alfa. Nonostante la sua attuale pessima reputazione. 

·        Il Maschilismo.

Estratto dell'articolo di Carlo Pizzati per "la Repubblica" il 3 gennaio 2021. «Il femminismo è una malattia mentale! Un male della società! Abbasso le odiatrici di uomini! Abbasso la misandria!». Bae In-kyu, il leader del gruppo Uomo in Solidarietà il cui slogan fino a poco fa era «finché tutte le femministe saranno sterminate», è vestito da Joker del film Batman e, proprio come quel personaggio, grida i suoi slogan in piedi sul tetto di un'auto parcheggiata, cercando di disturbare una manifestazione femminista a Seul. Spruzza acqua da una pistola di plastica verso le manifestanti dicendo che sta «uccidendo le formiche».

È un'ondata che non sembra fermarsi quella dei movimenti antifemministi in Corea del Sud. Non sono insoliti questi sconfortanti quadretti di conflitto di genere, con ragazzi e uomini che sfilano per le strade cercando di scontrarsi con le manifestazioni femministe. 

Al grido di guerra: «Tad! Tad! Tad!». Dicono che è il rumore del passo pesante delle donne femministe. Bae non è né un fenomeno isolato, né un'espressione di rabbia temporanea.

Ha mezzo milione di iscritti sul canale YouTube, dove ha raccolto più di 6mila euro in tre minuti per finanziare il suo movimento. Il peso politico del livore dei maschi ventenni in una Corea del Sud sempre più competitiva è evidente. E sta causando un'inversione di tendenza politica e sociale.

Un'università è stata costretta ad annullare una conferenza di una femminista accusata di "misandria." Sotto minaccia di boicottaggio, alcuni inserzionisti hanno dovuto ritirare una pubblicità che ritraeva una mano con pollice e indice che alludeva alle dimensioni piccole del pene. Misandria anche quella.

Il bersaglio preferito di questo movimento è il Ministero per l'eguaglianza di genere e per la famiglia voluto dal "presidente femminista", come si definiva Moon Jae-In durante la campagna presidenziale del 2017. 

La promessa di difendere l'eguaglianza di genere servì ad attirargli il voto femminile, determinante per la sua vittoria. Da allora politici, star della K-pop e persone qualunque hanno cominciato a pagare il prezzo di un maschilismo opprimente, finendo incastrati per gli scandali delle spy-cam usate per spiare le donne nei bagni o nell'intimità.

Adesso, invece, è più popolare gridare che «il femminismo è discriminazione di genere», come dice Moon Sung-ho leader del movimento Dang Dang We, che chiede «giustizia per gli uomini». 

Sì, perché ora si va di nuovo a elezioni e con il presidente Moon che non può ricandidarsi il vento è cambiato. Il 79% dei ventenni maschi nei sondaggi si dice vittima di discriminazione di genere. Poco importa che solo un quinto dei parlamentari siano donne e che solo il 5,2% delle donne riesca a entrare nei consigli di amministrazione.

Non importa che sussista una differenza salariale importante tra femmine e maschi. Sono problemi, così dicono i ventenni, che riguardano quarantenni e cinquantenni. «Siamo puniti per gli errori delle generazioni precedenti», dichiara uno degli anti- femministi. 

Più del 76% dei ventenni e il 66% dei trentenni è contrario al femminismo. «Perché ci sono dozzine di università solo per donne e nemmeno una solo per uomini?», si chiedono. In più, dicono, in queste università si insegnano materie come legge e farmacia, che portano a carriere ben pagate. 

·        I Latin Lover.

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" l'1 agosto 2022.

In redazione, a via Solferino, nel bel mezzo dell'estate, c'è venuto un dubbio: ma i «Latin lover», sulla Riviera romagnola, ci sono ancora?

Boh.

Andiamo a vedere? 

(Pensateci: è una fortuna che resista con ostinazione uno spazio frivolo e spensierato oltre il Donbass e questa scellerata prospettiva di elezioni, questi che ci portano a votare dentro una pandemia, una crisi energetica, l'inflazione alle stelle e una recessione in arrivo. 

Vabbé: ricordarsi di prendere una crema spray protezione 50 per la testa, i vecchi Ray-Ban e una nuova Moleskine, perché l'ultima è finita con il racconto di Conte, Salvini e lo Zio Silvio che facevano venire giù il governo di Mario Draghi in un fumo di macerie).

Quattro giorni dopo.

Rimini sotto un cielo stupendo, temperature tipo girarrosto, un'ora per trovare parcheggio e alcune pratiche per accendere un mutuo e pagare al parcometro (il nuovo sindaco di centrosinistra Jamil Sadegholvaad, padre iraniano e madre romagnola, scriverà dicendo che è un'esagerazione: ma qui, tanto, ci sono le ricevute dei pagamenti).

Comunque, calma.

Predisporsi con animo lieve. Procedere subito con un aperitivo. Ignorare - per adesso - l'ossessivo bum bum della musica sparata a palla che arriva dalla spiaggia e varcare il cancello del leggendario Grand Hotel, un po' albergo e un po' immaginifico museo felliniano, la suite numero 315 del Maestro affittabile su prenotazione (mille euro a notte), le colonne di marmo bianco e gli stucchi in stile Liberty, la pianista che esegue Chopin, il cameriere che, nella penombra, con un mezzo inchino, chiede: «Quale gin preferisce?».

Rileggere il programma di lavoro sugli appunti: visita chiringuito/ trovare vecchio play-boy/ per Riccione telefonare Cecchetto/ fenomeno discoteche/ sentire Confesercenti/ cercare turisti russi. Mezz' ora, poi entra un WhatsApp: «Sono Lando, ti aspetto fuori». Ma puoi chiamare un figlio Lando, come il protagonista di quel fumetto per adulti degli anni Settanta? Arrivo, Lando. 

Me l'ha presentato la mia fonte: serve uno che mi accompagni in questo viaggio. Lando ha 32 anni, fisicaccio completo di tartaruga, bermuda da surf e tatuaggi giapponesi (credo, giapponesi) sul polpaccio destro. «Faccio l'elettricista fino alle sei del pomeriggio. 

Poi divento un bel "patacca": che, da queste parti, sarebbe un tipo fondamentalmente simpatico, magari solo un po' sbruffone. Ma che con le ragazze ci sa fare». Dove andiamo? «Al chiringuito del bagno 44, che va forte. Poi passiamo pure al chiringay, ci sono i preparativi per il Summer Pride. Però prima magari ti metti un costume, che vestito così sembri un carabiniere in borghese» (è chiaro che Lando ignora la bellezza di una lisa Brooks Brothers bianca). 

Poco dopo, al tramonto, siamo dentro un girone che Dante non aveva previsto. Tanto per inquadrare la scena: centinaia di uomini e donne (l'età varia tra i 18 e 40 anni) sono sulla spiaggia, a pochi metri dalla riva, tutti ammassati intorno a un grande capanno-bar. 

Spritz e vodka-lemon a pioggia, certi barcollano, le gigantesche casse acustiche contribuiscono al senso di stordimento. Il tanfo del sudore e l'odore dolciastro degli olii. Corpi tatuati e depilati (anche i maschi), trionfo di perizoma, smalti colorati sulle unghie, bellezza diffusa, allegria diffusa che, lentamente, si trasforma in una tonnara di danze sensuali.

«I Latin Lover, come li cerchi tu, corteggiatori seriali da una conquista a notte, non esistono più. L'ultimo è stato Zanza. Con lui è morto un mondo - spiega Lando -. Adesso tutto accade nei chiringuito. Ogni bagno ne ha uno. Un'idea arrivata di rimbalzo da Formentera, Ibiza, dalle isole greche». 

Essere romantici, in questa bolgia, è impossibile. «E infatti nessuno ha voglia di essere romantico. Vieni, fai amicizia. Poi, se la tipa e il tipo si piacciono, aspettano che faccia buio e procedono». Dove?

«Volendo, dietro le cabine. Ma quasi tutti preferiscono farlo sulla sdraio». E le discoteche?

«Qui, formalmente, sarebbe vietato ballare proprio per non togliere lavoro ai locali della notte. Che comunque sono ripartiti bene. Può spiegarti tutto Alain». 

Dopo tre anni di pandemia, i lockdown, i green pass e le mascherine (ormai sembra ci sia il divieto di indossarle), Rimini è ancora Rimini. La città della seduzione di massa. Luogo privilegiato del camuffamento, dell'illusione, dell'irrealtà. 

Di nuovo ancora voci tedesche, inglesi, i gutturali suoni scandinavi dentro un battente carnevale estivo di qualità media a costi medi, le piadine mediamente buone ovunque, un senso dell'accoglienza mediamente eccellente, ogni hotel mediamente orgoglioso di annunciare che per agosto, ci spiace, ma siamo al completo.

E Riccione, invece? Cosa fanno a quest' ora nella «Perla Verde dell'Adriatico»? (cit. depliant turistico). 

A Riccione hanno sempre cercato, e per lunghi periodi trovato, una luce più chicchettosa, lussuosa, moderna. Benito Mussolini ci veniva con la moglie Rachele (poi, in idrovolante, con la scusa di andare a controllare dall'alto «le nostre impenetrabili difese costiere», raggiungeva Claretta Petacci, che lo aspettava a Rimini);

gli anni Sessanta furono il tempo dei concerti mitici di Mina e di Gianni Morandi, i cummenda che arrivavano da Milano con la Giulietta Sprint, le balere con l'orchestra di Raul Casadei, le stelle - in cielo - che sembravano più basse; negli Ottanta, quando la Riviera decide di aprire la fabbrica del turismo, ecco che a Riccione esplode il fenomeno delle discoteche, le più belle al mondo stavano su queste colline. Poi però qualcosa s' è spezzato, luci soffuse come stasera, viale Ceccarini senza più quel brivido di eccitazione internazionale.

Perché? «Riccione è rimasta solo una località di vacanza, ma senza divertimento. Quel certo divertimento, intendo» - spiega Claudio Cecchetto, 70 anni e addosso una storia grandiosa, fondatore di Radio Deejay e Radio Capital, produttore e talent scout straordinario (Fiorello, Amadeus, Jovanotti), e poi pure, con una botta di inattesa passione politica, candidato sindaco proprio qui, a Riccione. «È andata male, sono consigliere: ma qualche idea la metto volentieri a disposizione».

Racconti. «I giovani devono riprendersi la notte. Illuminerei le spiagge a giorno, organizzerei serate in spiaggia. Il Jova Beach Party di questa estate è la prova che esiste una voglia forte di stare insieme, a piedi nudi, sulla sabbia. Purtroppo sembra che i giovani dei bei tempi andati invecchiando siano diventati vecchi davvero. E che vogliano impedire ai loro figli di divertirsi». 

Prosegua. «Negli anni 90 inventai Acquafan, portai a Riccione il Disco per l'Estate e i microfoni di Radio Dj. In viale Ceccarini c'era la fila per entrare al Disco Doc 70. E poi inaugurammo "Balcone per l'estate". Eravamo al primo piano, ogni sera facevo affacciare ed esibire un cantante». Immagini sbiadite. «Se non c'era casino, lo chiedevano. Oggi lasciamo i giovani con un drink nella mano sinistra e il cellulare nella destra». 

Spesso aperto sull'applicazione Tinder. «È comoda e veloce - ammette Lando, che intanto s' è cambiato e indossa una camicia in stile hawaiano su un pantalone di lino verde pistacchio -. Ti descrivi e cerchi. Magari fai dieci metri e trovi subito la tipa o il tipo che fa per te». 

Era molto diversa la tecnica del più grande play boy della costa, Maurizio Zanfanti in arte Zanza (perché ti pizzicava e poi volava via, come - appunto - una zanzara) morto, in servizio, la notte del 26 settembre 2018. Personaggio mitico o «avventuriero», come lo descrive con severità Wikipedia.

Anche la Bild gli aveva dedicato un grosso articolo: «Italienischer Papagallo machte amore mit 6.000 fraulen». Seimila donne, aveva avuto. Anche se non era troppo alto: ma ti arrivava davanti con il chiodo aperto sul petto villoso, le catene al collo, i capelli lunghi ossigenati. «Mai entrato in palestra - raccontò al Resto del Carlino -. Mi sono fatto bastare l'attività fisica nei letti».

La stagione record fu quella del 1985: 207 conquiste. «In giugno e luglio arrivi, senza fatica, a due al giorno. Ad agosto, una al pomeriggio e tre la sera». Zanza non sarebbe piaciuto a Salvini: poco sovranista. «Preferisco svedesi e norvegesi. Le italiane? Le lascio a mio fratello».

Gli domandavano: qual è il segreto? «La gentilezza. Prima i fiori, subito dopo l'invito a cena. La fai sentire la tua regina, e poi la porti a vedere la luna». Come quella notte. In via Pradella, a Rimini. La ragazza ventitreenne che era con lui: «In macchina, quando abbiamo finito, un attimo prima che gli prendesse il coccolone, Zanza mi ha chiesto: ti è piaciuto?». Quella domanda che ormai gli uomini non fanno quasi più. Aveva 63 anni. Lando, gonfio di rimpianto: «Il Zanza ha avuto la fortuna di attraversare i meravigliosi Ottanta».

Stagione pazzesca anche in Riviera: al cinema raccontata solo nell'efferato «Rimini Rimini» (1987, Sergio Corbucci), frullatone di pedalò e topless, corna e terribili doppi sensi. Il testo sacro resta «Rimini» di Pier Vittorio Tondelli, storia di un giornalista che viene catapultato nella Romagna di quel periodo.

Il lancio del libro avvenne al Grand Hotel (torna sempre): incaricato di presentare l'evento era un giovane Roberto D'Agostino. Che ricorda: «Quel giorno del 5 luglio 1985 durò qualche giorno. Eravamo tutti fatti e strafatti e bevuti. Ma anche felici e incoscienti. La presentazione di un romanzo, con Tondelli che aveva magnetizzato tutti i gay d'Italia, si trasformò in un orgasmo di lunga durata, con gruppi di svalvolati su e giù ad ammucchiarsi nelle stanze e lungo i piani del Grand Hotel. Ciò che vidi a Rimini quel giorno resta per me il quadro vivente di quella stagione, bellissima e terribile».

Ancora Lando: «Bottarella?». No, grazie. 

«Ti sei offeso? Oh, un po' di Bamba ci aiuta ad arrivare alle 2». Ne gira molta? «Come ovunque». E pasticche? «Di qualsiasi tipo. Perché: ne vorresti una? Non mi sembri il tipo». Alain - «Si pronuncia alla francese» - è il direttore artistico del «Villa delle Rose», una delle discoteche più belle d'Italia. «È la prima stagione senza restrizioni, va alla grande».

C'è voglia di ballare. «Il sabato salgono anche da Napoli. Arriviamo a oltre 3 mila persone». Altri locali? «Il Musica, la Baia Imperiale, noi abbiamo una collaborazione con il Cocoricò». Al Cocoricò capitai sei anni fa, quando chiuse, dopo che un ragazzino di 16 anni era morto per un cocktail ecstasy-alcol. «Ora il filtro comincia prima dell'ingresso. Controlliamo chi arriva, e in che stato. La sicurezza vigila nei bagni».

Alain ha detto anche che «purtroppo sono spariti i russi»: all'aeroporto di Rimini, ad aprile, cancellati 50 voli settimanali da Mosca e da Kiev. «Intendiamoci, in Riviera non arrivava l'oligarca, quello andava a Capri o in Costa Smeralda: però, ecco, qui veniva un turista medio interessato al nostro stile di vita...» - questa è la voce di Marco Pasi, direttore Confesercenti Emilia Romagna: la notte è stata lunga e adesso siamo davanti a un caffè nel Bagno dell'ex allenatore Alberto Zaccheroni, il Maré di Cesenatico (voi che l'estate risalite il Mekong, prendetevi una pausa e fatevi un giro in questa cittadina incantevole). «In generale, la gente viene perché è vero che non abbiamo un gran mare, ma il livello dei servizi è, francamente, notevole. Lei però cercava i "Latin Lover", giusto?».

A Rimini, al Bagno 26, ho incontrato Gabriele Pagliarani, un sessantenne che si definisce il Bagnino d'Italia, un furbacchione che per finire sui giornali ha bevuto un po' d'acqua di mare infetta (poi miracolosamente tornata pulita dopo poche ore); m' ha detto: «Con la milf giusta, piazzo ancora la zampata». 

«Dicono tutti così. A Torre Pedrera ci sarebbe anche Zizì, ma credo sia molto anziano». Un paio d'ore più tardi, in un bar sulla spiaggia, Zizì viene avanti incerto nel passo, con gli occhiali scuri e un libro di vecchie foto in mano. Un leone esausto. "Mi ricordo di quella volta che..."».

Chiudiamola qui. Prima di ripartire, però, per una bizzarra promessa, si va da Zanza. Il parroco della chiesa Regina Pacis si rifiutò di celebrare i suoi funerali, «Troppo clamore»: la cerimonia fu così organizzata al cimitero di Rimini. Poi l'hanno portato qui, in collina, a San Martino Monte l'Abate. Una bomboniera tra i cipressi, le cicale, la foto di quando era giovane. Ecco tre margherite di campo, Zanza. Da parte di un mio amico.

Pierfrancesco Pacoda per “La Stampa” l'1 agosto 2022.

Era una Bologna politicamente vivace e molto creativa quella dei primi Anni 80, c'erano state le rivolte studentesche del '77 con i carri armati per le strade a turbare l'immagine di città della ricchezza e della pace sociale, c'era il Dams di Umberto Eco e nasceva una scena artistica dove il fumetto (Andrea Pazienza, il gruppo di Frigidaire), la musica, con l'esordio del nuovo rock italiano e la scrittura si intrecciavano all'interno di tanti spazi occupati in pieno centro storico.

Una atmosfera nella quale la convivenza e lo scambio rappresentavano la quotidianità e facevano da sfondo a amicizie come quella tra Pier Vittorio Tondelli, reduce dal suo esordio scandalo proprio del 1980 Altri Libertini (che fu sequestrato perché accusato di oscenità e oltraggio alla morale pubblica) e Roberto «Freak» Antoni, l'indimenticabile leader degli Skiantos e «inventore» del rock demenziale, al quale tanti gruppi di successo come le Storie Tese di Elio sono debitori. 

Un giovane romanziere di talento proveniente da Correggio, provincia di Reggio Emilia che pochi anni dopo, nel 1985 avrebbe pubblicato il volume che lo fa conoscere al grande pubblico, Rimini, trasformando l'immaginario della città romagnola, e un cantante colto e scanzonato, accomunati dagli stessi interessi, dalle stesse passioni, dalle frequentazioni degli stessi luoghi, cantine del rock, club sotterranei, abitazioni di amici.

Naturale che tra i due si sviluppasse anche una collaborazione. Fu Freak Antoni a chiedere all'autore di provare a scrivere dei testi per la sua band, gli Skiantos, nessuna indicazione, libertà assoluta, nessuna finalità immediata o obiettivo professionale. E quelle parole arrivarono. 

Si tratta di cinque canzoni che svelano un aspetto sconosciuto dell'opera di Pier Vittorio Tondelli, composte senza seguire alcuna regola legata alla melodia o a una successiva messa in musica. Scherzi, quasi, anzi, come disse in seguito Freak Antoni, «Quisquilie». Ricorderà poi il cantante: «Pier Vittorio Tondelli ammirava cantanti e gruppi pop, ne era affascinato.

Perciò gli proposi di scrivere un testo di canzone, a sua completa discrezione e umoralità, secondo i (suoi) gusti personali, senza alcun obbligo o restrizione di forma e di contenuto. Che desse libero sfogo all'immaginazione e alla creatività! Mi rispose subito (spaventato) che non sapeva assolutamente come fare per comporre il testo di una canzone, che non l'aveva mai fatto, che nessuno glielo aveva mai chiesto ecc. Ho insistito molto e a lungo: credevo si schermisse per modestia o per imbarazzo esagerato, eccessivo.

Alla fine mi accontentò e fu decisamente insoddisfatto del risultato, ma tutto sommato divertito dall'esperimento. Mi regalò le canzoni dicendomi di farne l'uso che ritenevo più idoneo e sottolineando che di sciocchezze si trattava, elaborate quasi per scommessa e comunque per puro diletto, sollazzo e trastullo degli amici». Uno di quei brani, Sciare, fu inciso da Freak Antoni nel 2011 nel suo album Dinamismi Plastici, gli altri quattro sono rimasti nascosti tra le carte che aveva lasciato a Dandy Bestia, lo storico chitarrista della band e sono stati recuperati grazie al loro produttore Oderso Rubini, pronti, oltre quaranta anni dopo, a essere finalmente registrati in un nuovo disco degli Skiantos che sarà pubblicato il prossimo autunno.

·        Il Femminismo.

Dal "Venerdì di Repubblica" il 2 dicembre 2022.

Guardo con molta comprensione e un po' di vergogna i filmati che dall'Iran ci mostrano la rivolta delle donne e degli uomini che sfilano con loro, e mi umilia la nostra indifferenza: basta tagliarsi una ciocca di capelli per sostenere la loro causa di vita e morte? Mettere in vetrina i romanzi delle scrittrici iraniane? Scrivere, come sto scrivendo io adesso, il nostro dolore?

Non basta, è quasi offensivo perché già quella meravigliosa rivolta comincia ad essere usata per fare pubblicità a berretti e gonne lunghe ma molto sexy. Diciamo la verità: alle italiane di queste donne lontane e ferite, in cerca di libertà, non importa niente. È vero, stiamo vivendo un momento terribile non solo politicamente ed economicamente, ma perché ci sono nostri nuovi rappresentanti istituzionali che nei loro terrori sembrano appena usciti dalle caverne.

Ma anche noi donne, qui, siamo troppo prese dai nostri affanni, impedendoci di sentirci sorelle, sia pure lontane, di chi vorrebbe riprendersi la vita, come essere umano, qualunque sia il genere che a noi sta tanto a cuore.

Marilena Mari

Risposta di Natalia Aspesi: Vedo su TikTok una rosea stupidella universitaria che si chiama Aronohh, e si dichiara «attivista asessuale non binary», ciò né maschio né femmina, né omosessuale né trans, che vive con un uomo e vuole diventare mamma: è neutra ma provvista di utero, che, dice lei, non tutte (le persone) hanno, ma i trans sì, che quindi possono andare dal ginecologo e partorire.

Si potrebbe ribattere che una persona trans nata femmina e diventata maschio non dovrebbe avere più l'utero, e al contrario se nato maschio sarebbe per ora, difficile, ottenerlo. Quel che conta, per lei, è definire tutti quanti "persona" e basta. È una novità certo, la Bibbia non ne sapeva niente. Il cinema sì, tanto che nel 1973 il regista francese Jacques Demy ne fece un film, Niente di grave, suo marito è incinto, protagonista Marcello Mastroianni col pancione. Naturalmente Aronohh è un influencer con seguito di neutri.

Scusi la deviazione dalla sua bellissima lettera, ma per ricordare il distacco dal mondo di tante ragazze italiane e chiedere a questa influencer, se fosse in Iran, in quanto attivista sessuale non binary, porterebbe il velo o no?

Angeli del focolare e dedite alla cura: così il cinema e la tv raccontano le donne.  Silvia Andreozzi su L’Espresso il 22 Novembre 2022.

Nel report curato dall’Osservatorio per la parità di genere del ministero della Cultura, emerge un quadro «drammatico» della visione del ruolo femminile portata avanti dal mondo della cultura, a cominciare dal settore audiovisivo

Sottostimate, sottorappresentate, misconosciute. La condizione delle donne nel mondo della cultura e, in particolare, dello spettacolo è quella che tutti si aspetterebbero. «I dati confermano i timori che potevano esserci e, in alcuni casi, rendono quei timori drammatici. Sono impietosi, è quasi imbarazzante raccontarli». Nicola Borrelli, direttore della Dg Cinema e audiovisivo, commenta in questo modo i risultati del lavoro portato avanti in un anno dall’Osservatorio per la parità di genere del ministero della Cultura coordinato da Celeste Costantino.

Nel report dal titolo “La questione di genere tra immaginario e realtà” si possono leggere, rese in forma di percentuali, tutte le storture di una società che lega le donne a luoghi comuni, riducendole a stereotipi che vengono veicolati anche attraverso la rappresentazione che di loro viene resa nel cinema, nella televisione, nell’arte.

Succede così che la donna sullo schermo è spesso, molto più degli uomini, una figura legata alla cura della casa e della persona (85.2 per cento di donne contro il 14.8 per cento di uomini), raccontata solo attraverso il suo ruolo familiare (65 per cento di donne contro il 34.9 per cento di uomini) o rappresentata in ambiti di assistenza psicologica e sociale (61.7 per cento di donne contro il 38.3 per cento di uomini).

Non si pensi di trovare in tv molte donne che si intendono di ingegneria, economia e politica. Questi ruoli sono assegnati nell’ampia maggioranza dei casi agli uomini, in una percentuale che ruota intorno all’80 per cento. In quella che sembra un’ossessione, la sottorappresentazione del posto delle donne nella società, il cinema e la televisione raffigurano in minoranza le figure femminili anche in vesti professionali che le vedono invece come protagoniste nella realtà. Solo il 35.9 per cento dei ruoli legati al mondo della scuola e della formazione vengono assegnati a donne, mentre le attrici che interpretano figure legate al mondo della sanità sono il 25.1 per cento.

Non stupiscono, come si diceva, i dati, e forse questo è parte del problema a cui concorre anche il fatto che dietro la telecamera, in generale ai vertici decisionali del mondo dello spettacolo, le donne sono la minoranza.

«Il mondo prima, anche quello della cultura, era senza noi donne, che adesso stiamo cercando di entrare in massa in tutti i settori dell’umano. Stiamo facendo una rivoluzione. Dobbiamo contare come gli uomini, ma non essere come gli uomini. Dobbiamo mantenere la nostra diversità». Così la regista Cristina Comencini commenta la prevalenza degli occhi maschili che interpretano la realtà nel cinema e nella televisione. L’87 per cento dei prodotti audiovisivi in Italia è diretto da uomini, l’11 per cento da donne. Forse proprio in questo dato si può trovare l’origine della perpetrazione di una visione, sempre la stessa, che vuole la donna fedele all’idea parziale attraverso cui finora la si è definita.

Dietro le quinte, infatti, la situazione non è migliore. «La disparità di accesso ai ruoli si manifesta sia in termini qualitativi che quantitativi. Se in giovane età le possibilità di essere scelti per un ruolo è simile per gli uomini e per le donne, più si va avanti con l’età più per le donne l’accesso al ruolo diminuisce». Le parole dell’attrice Maria Pia Calzone vengono rese nella loro gravità, ancora una volta, dai dati. Le possibilità di ottenere una parte per le donne dopo i 50 anni risultano pari al 28.7 per cento, prima oscillano tra il 42.8 al 48.7 per cento.

Giovani, angeli del focolare, dedite alla cura delle persone o delle cose, spesso di aspetto stereotipato. Così il cinema italiano vuole e racconta le donne. Ma nel resto del mondo culturale poco cambia. È il caso, per esempio, della rappresentazione che viene data di due giornaliste, Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, nel monumento di Acquapendente a loro dedicato. Le due professioniste, uccise sul lavoro, sono rappresentate, si legge nel report, «nude e come se fossero due ragazzine, in uno sconcertante svilimento del loro impegno civile».

«Durante le audizioni ci sono stati momenti anche dolorosi, vedere le donne sempre rappresentate nude e più giovani è stato doloroso. Questo immaginario incide sul modo di pensare dei giovani e delle giovani». Il motivo della potenziale importanza del lavoro di cui il report è la testimonianza, è in queste parole di Celeste Costantino. La cultura può essere «antidoto alla violenza» ma perché sia davvero efficace è necessario analizzare «chi fa cultura in Italia». Fissare la realtà attraverso i dati ha questo fine, «dare gli strumenti al ministero per agire, non solo attraverso un’ampia politica di genere».

Un lavoro che, sebbene fortemente voluto dal precedente ministro della Cultura Dario Franceschini, è nelle parole della sua coordinatrice Celeste Costantini «solo all’inizio».

Dalla Posta di Natalia Aspesi dal “Venerdì di Repubblica” il 7 novembre 2022.

Il femminismo ha perso e nel modo più odioso, per mano di una donna. Io ero certa che essere donna voleva dire essere di sinistra, invece questo voto ha dimostrato di no. Che fine secondo lei farà il #MeToo, l'appoggio che anche in Italia è stato dato alle donne che hanno denunciato le molestie, e poi tutte le iniziative per dare più possibilità alle donne, dalla parità salariale alla femminilizzazione del linguaggio? E le unioni civili, che la ministra della famiglia, la signora Roccella non ha mai riconosciuto e non si capisce perché? Il 25 settembre è iniziato per noi un lungo lutto? Lettera Firmata

Risposta di Natalia Aspesi:

Mi spieghi perché se sei donna sei automaticamente di sinistra e quindi se sei uomo devi essere di destra. La scelta politica ovviamente non è legata al sesso, se no, lei dove collocherebbe i trans? 

La vitalità del femminismo dipende da voi ragazze, dal vostro impegno (io mi sono ritirata da ogni tenzone che non sia il tentativo di sopravvivere). Se necessario riempite le piazze, protestate, come avete fatto anche quando la sinistra vi sosteneva ma a voi non sembrava mai abbastanza. 

Penso però che bisogna aspettare a giudicare, anche perché questo strambo governo dovrà prima provvedere a salvare il Paese da una situazione economica disastrosa e ad assicurargli una collocazione internazionale che lo protegga. Mi limito al #MeToo che mi pare si stia già spegnendo per eccesso punitivo e per aver fatto di ogni uomo un possibile nemico. 

E per esempio negli Stati Uniti Kevin Spacey è stato assolto da una delle accuse per molestie intentatagli da un altro attore, Anthony Rapp, che chiedeva 40 milioni di dollari di risarcimento. Il misfatto (averlo preso in braccio e perciò sfiorato il sedere) sarebbe avvenuto nel 1986, 36 anni fa, quando Spacey aveva 26 anni e Rapp 14. La denuncia, del 2017, ha rovinato la carriera e la vita del meraviglioso attore, e privato noi dei suoi film e serie. Come verrà risarcito? 

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 7 novembre 2022.

Una donna diventa premier in Italia, pochi giorni prima una donna si è dimessa da premier in Svezia: da noi, su la destra, là, giù la sinistra.

Adesso i due Paesi (Nazioni?) hanno un governo di centrodestra, in più in Svezia, dove alle elezioni la socialdemocrazia aveva avuto il massimo dei voti come partito, ma meno della coalizione dei tre partiti di destra, il nuovo premier, uomo, ha l'appoggio esterno dei neonazisti che però, al contrario di FdI, hanno tolto la fiamma dal loro simbolo.

Disastro anche lassù? Chissà, ma non è che prima la Svezia, o l'Italia o il resto del mondo, fossero un modello di massima democrazia, che ci fosse armonia e non un abisso tra le classi sociali, che oltre alle chiacchiere non fossimo già divisi tra schiavi e padroni.

Ce lo spiega il regista svedese Ruben Östlund, uno che ci fa ridere delle nostre miserie e vergognare perché ne ridiamo, con Triangle of sadness, Palma d'oro a Cannes 2022 (la prima l'ha vinta nel 2017 con The square, sugli inganni dell'arte): certo non immaginava che quel suo racconto di pochi mesi fa, di confusione e disuguaglianze, forse potremmo rimpiangerlo nella improvvisa tempesta sociopolitica che ci sta riducendo a naufraghi. O invece è proprio questo film a farci capire perché la Storia si è ribaltata (al contrario in Brasile che è diventato il faro della nostra sinistra lacrimante) e, in cerca di giustizia, si è scelto una diversa ingiustizia?

Dunque c'era una volta, con Östlund L'impero della moda e il mestiere della giovinezza. Se non sei in prima fila alle sfilate sei un paria, solo se sei un maschio di bell'aspetto, muscoloso ma non troppo, bianco o nero non importa, una giuria di casting, severa, tipo Nobel, ti aprirà le porte dei tanti lavori che si servono del tuo corpo. È al modello Carl (l'attore inglese Harris Dickinson) di bionda, commovente bellezza che consigliano un paio di punturine di Botox, perché tra le sopracciglia si è già formata quella piccola ruga del tempo che passa e che immalinconisce il viso. Ma lui ha 26 anni e non è solo un corpo, quell'ombra sulla fronte è il segno della sua insicurezza, del suo desiderio di capire il mondo e se stesso. 

Parità di genere. Carl ha una compagna, amica, fidanzata, Yaya, chi sa più cosa vogliono essere le donne, bella e influencer di successo (la modella sudafricana Charlbi Dean, morta misteriosamente alcuni mesi fa). Al tavolo di un ristorante di lusso discutono su chi deve pagare il conto: toccherebbe a lei, ma è distratta. Carl non capisce, non è una questione di soldi ma di quella parità che le donne rivendicano: lei guadagna molto di più, è femminista, allora perché al ristorante si torna al passato? Ma, conclude lei, «il denaro non è sexy ».

Superricchi e chef. L'influencer Yaya è invitata con Carl a una crociera per miliardari che Östlund descrive come simpatici mostri: la coppia di gentili vecchietti inglesi industriali di mine antiuomo e bombe a mano, il grosso e ridente oligarca russo che si è arricchito, come dice lui, «vendendo merda», cioè concime. La differenza di classe è efferata, i dipendenti non esistono se non per dire sempre sì. Alla usuale Cena del Capitano gli chef di bordo si scatenano con le loro creazioni (quelle che infestano anche da noi i ristoranti più costosi) di cui si elencano i folli componenti, tipo ostriche con caviale nero, riccio di mare con tartufo, polpo affumicato con limone caramellato: e giù champagne.

Ma non è per le tremolanti gelatine che è tutto un improvviso vomitare, ormai la nave è in balia della tempesta, tutto scivola, tutto cade, i cessi esondano, e mentre i passeggeri cercano scampo nelle scialuppe le filippine di servizio si inginocchiano a pulire i pavimenti. Comunismo o dispotismo? Marxsismo o putinismo? Nel pieno della tempesta, il capitano, un formidabile Woody Harrelson e l'oligarca, l'altrettanto geniale Zlatko Buric, iugoslavo danesizzato, si affrontano ubriachi citando le frasi celebri di Marx, Kennedy, Lenin: l'americano perché è marxista, il russo perché non lo è ma gliele hanno imposte a scuola. Lotta di classe.

Sette naufraghi riescono a raggiungere un'isola deserta e lì Paula (la danese Vicki Berlin), la responsabile del personale di bordo, non ha più autorità e la ricchezza non ha più potere. Solo Abigail (Dolly De Leon, filippina) una delle addette alla pulizia dei gabinetti di bordo sa come si afferra un pesce in mare, come si accende un fuoco, ed è lei a promuoversi comandante dei sopravvissuti, è lei a gestire la distribuzione delle bottiglie d'acqua e dei salatini della scialuppa di salvataggio. Il riccone le offre il suo Rolex da 150 mila dollari per un boccone di polpo in più, lei sceglie un altro scambio con un altro scampato: «Io ti do pesce, tu mi dai amore».

La conclusione potete sceglierla. Critica. Pensosa e dubbiosa, qualche sorriso, ma ridere non è più di moda. Il New York Times poi attacca il film con una ferocia esagerata come se fosse il cine Mein Kampf. Forse per ciò che il capitano americano grida al microfono di bordo mentre la nave affonda, «è sempre stato il mio governo a premere il grilletto per eliminare i leader democratici capaci e onesti di Cile, Venezuela, Argentina, Perù, El Salvador, Nicaragua».

CONCEZIONE ARCAICA. La perturbante e oscura giustizia femminile di Antigone. BRUNO GIURATO su Il Domani il 29 settembre 2022

È facile sognare una storia del pensiero al femminile nella quale l’uomo cattivo e maschilista non abbia più potere, in cui «se comandassero le donne non ci sarebbero più ingiustizie». Ma la verità non sta così

Ad esplorare questo tema è la femminista Adriana Cavarera, che al Festivalfilosofia dedicato al tema della giustizia, ha proposto una lettura dell’Antigone di Sofocle

Nella tragedia, al di là delle aporie fra diritto positivo e diritto naturale, emerge anche un inquietante elemento arcaico, che vede nella famiglia e nella genealogia qualcosa di chiuso

Nel rosso di sera di sentimenti e intenzioni è facile sognare una storia del pensiero al femminile nella quale l’uomo cattivo e maschilista non abbia più potere. Un “se comandassero le donne non ci sarebbero più ingiustizie”. Un mondo in definitiva più giusto. Senza sorveglianze e punizioni.

Al di là delle narrazioni consolatorie la verità non sta proprio così. Lo fa presente Adriana Cavarero che al festival della filosofia di Modena, quest’anno dedicato al tema difficile, contraddittorio, “impossibile” per definizione della giustizia, ha presentato una lettura di Antigone di Sofocle.

VISIONE COMPLESSA 

Cavarero è una femminista, ha dedicato una vita di lavoro filosofico al tema del femminile. Ha spiegato (in Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli) che la costante antropologica della narrazione ha un accento femminile: l’uomo pensa, la donna racconta. Ha raccontato (in A più voci, Feltrinelli) come la trama femminile dell’espressione vocale sia in grado di mettere in crisi l’ordito maschile della visione filosofico metafisica. In breve ha sostenuto e sostiene che la differenza ontologica è interpretabile come differenza di genere.

Ma il risultato non è l’utopia di un mondo più bello e più giusto in mano alle donne, piuttosto una visione problematica che non concede granché a semplificazioni e a consolazioni. Un pensiero complesso, senza lieto fine necessari.

L’Antigone è la tragedia più ambigua e spaesante di Sofocle. Da una parte Creonte, che in base alla legge della Polis non vuole che Polinice sia seppellito. Dall’altra parte Antigone, che fa seppellire il fratello, di notte, e viene condannata a morire rinchiusa sottoterra. Ius (legge) contro Dike (giustizia). Uno scontro che da duemila anni mette alla prova il pensiero politico e filosofico, sintomatiche e tendenziose le pagine di Hegel a riguardo.

«È una tragedia intorno a un corpo, che Creonte definisce “corpo nemico”», spiega Cavarero a Domani, «e che vuole insepolto affinché uccelli e cani lo sbranino. Questa centralità del corpo è molto importante, perché ciò a cui si appella Antigone sotto il firmamento della giustizia eterna è l’amore per un corpo, materico, sanguigno».

GENEALOGIA DI SANGUE 

Ma che tipo di giustizia Antigone contrappone a quella del diritto, e della polis? «Antigone si appella a Dike, che è una divinità ctonia, sotterranea», spiega meglio Cavarero. «E mentre la legge della città è una legge fatta dagli uomini, fallibile, che può cambiare, che viene cambiata, la giustizia a cui si appella Antigone è eterna, oggettiva, i protomoderni direbbero “evidente ad ognuno”, indiscutibile, non fallibile. Dike già in Parmenide e in Platone è la giustizia che mantiene ogni cosa al suo posto. In Parmenide Dike è “colei che separa la notte dal giorno, in modo che non si confondano. Colei che separa i vivi sopra la terra dai i morti sotto la terra”. Antigone si appella a questo. E questo è lo schema elementare, ed è una tensione che attraversa tutta la storia del diritto: c’è sempre il desiderio che la legge corrisponda alla giustizia. Però è una tensione che non si può mai risolvere. Sofocle ce la offre in una figura di estrema divaricazione, perché mette in scena due posizioni inconciliabili».

E qui arriviamo all’elemento più inquietante, al di là delle aporie giuridiche tra diritto positivo e diritto naturale. Continua Cavarero: «C’è qualcosa di più profondo, e di più, come direbbe Freud “perturbante”. Perché Antigone si appella all’elemento del “ghenos”, il generare. Quindi, ricordando le vicende familiari del mito: Giocasta ha generato Edipo, e poi si è unita al figlio Edipo e insieme hanno generato altri figli: Antigone, Eteocle, Ismene, Polinice: l’elemento del “ghenos” a cui fa appello Antigone è anche un elemento chiuso, uterino, incestuoso. George Steiner dice che Antigone parla dalla profondità dell’utero. C’è una aderenza di Antigone a questa genealogia di sangue, che è una genealogia incestuosa».

Sarebbe facile insomma dare ragione ad Antigone, non fosse che nelle sue ragioni, posizioni, intenti, c’è anche la famiglia come chiusura, come incesto, come mafia. Ma anche questo è un elemento, in una forma molto arcaica, del femminile. Conferma Cavarero: «Io non sono junghiana, ma se qualcuno lo fosse si tratterebbe di una specie di archetipo del femminile materno generante legato alla terra. Basti pensare ai riti arcaici della Grande Madre. Una posizione molto interessante, come tutto ciò che è arcaico un po’ oscuro, un po’ spaventoso».

Una posizione che la filosofia a seguire, quella del Logos, ha fatto di tutto per negare. «La storia della filosofia, da Parmenide a Platone in poi, è una forma di razionalità (così la chiameremo modernamente) che si oppone a tutto ciò che è arcaico» spiega Cavarero.

E a questo punto ci si chiede se in questo modello di femminile “arcaico” ci sono degli elementi da recuperare. «Nella teoria femminista contemporanea c’è anche questo filone della rivalutazione del materno e io mi riconosco in questo filone» risponde Cavarero. «Non si tratta del materno banale, asservito, della donna “oblativa” che sta nella famiglia, non è tanto questo, ma quello che Luce Irigaray chiamava “il femminile irriducibile”. Fatto non solo di buoni sentimenti e buone intenzioni. Ma anche di uno scintillio di pericolo».

BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.

Omaggio alle donne coraggiose: Saman, le iraniane, e noi? Dacia Maraini su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.   

Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che «tanto non cambia niente». Cambia invece, se veramente lo vogliamo 

Se si volesse esemplificare cosa sia il fanatismo, basterebbe raccontare la storia del padre di Saman Abbas, la ragazza pakistana di seconda generazione che è stata strangolata, poi fatta a pezzi e quindi gettata nel fiume. La madre, intercettata al telefono avrebbe detto che «anche noi siamo morti quel giorno». Morti sì, ma avendo compiuto un dovere sociale e religioso, il piu disumano e orrendo che si possa immaginare. E non si tratta di un caso di egoismo famigliare , ma di una pratica che viene legittimata da una tirannica religione di Stato.

Si possono capire le inquietudini, i malumori di chi ha una identità debole e sente il bisogno di confermarla con la violenza. La brutalità infatti nasce sempre dalla paura di perdere qualcosa dell’idea che ci si fa di se stessi. Anche i femminicidi vengono perpetrati da uomini convinti che la loro identità virile consista nel possesso della donna che hanno deciso essere «propria». L’amore è l’ultima delle preoccupazioni. Si tratta di paure ataviche e del terrore tutto nuovo di perdere i privilegi che fanno parte di una arcaica concezione di superiorità maschile.

La povera Saman voleva semplicemente vivere come le sue coetanee, libera di scegliersi il fidanzato, libera di muoversi, libera di vestirsi a modo suo. Ma queste libertà sono considerate peccaminose e illegittime da una religione che pur nascendo dall’amore , col passare del tempo si è trasformata in intolleranza, potere oppressivo e tirannia. Noi ne sappiamo qualcosa. Ci sono voluti secoli per uscire dal dispotismo di una Chiesa totalitaria che aveva tradito le parole sagge e dolcissime del Cristo per torturare e mandare al rogo coloro che considerava nemici di Dio (guarda caso quasi tutte donne), in combutta col diavolo e quindi pericolose per la collettività.

Sembra che il padre di Saman, il pio Shabbar, che aveva organizzato per ragioni famigliari il matrimonio della figlia col cugino, si sia inalberato di fronte alla pretesa della figlia di scegliersi l’uomo da amare. Una offesa alla autorità del padre, e all’onore della famiglia. E dopo essersi messo d’accordo con il fratello, i figli e i nipoti (un’altra scelta significativa: Le donne devono partecipare agli orrori di una tradizionale patriarcale, ma sempre in posizione passiva. Non possono né agire né impedire di agire). Quindi porta in campagna la ragazza con la scusa di una passeggiata, si fa raggiungere dai parenti maschi, che terranno ferma la cugina mentre lo zio la strozzerà con una corda, poi la faranno a pezzi , la chiuderanno in un sacco e la getteranno nell’acqua che scorre.

«L’ho fatto per la mia dignità e il mio onore», ha sentenziato il pakistano Shabbar. E qui si capisce la mostruosità del concetto di onore. Il nostro delitto d’onore non era la stessa cosa? Se mia moglie mi tradisce, ho il diritto di ucciderla per difendere il mio onore. Ma chi stabilisce l’onore di un uomo? Dovrebbe essere l’etica laica. Invece in questi casi l’onore viene deciso dall’alto, dai sacerdoti barbuti che rappresentano in modo meschino e violento la volontà di un Dio da loro rappresentato come intollerante e crudele. Al Dio si può disobbedire? Chiaro che no. Per questo le religioni che si identificano con lo Stato sono pericolose.

È quello che sta succedendo in Iran, dove la polizia morale ha ucciso una ragazza perché portava male il velo, ovvero non si copriva interamente e quindi con spirito religioso, i capelli. Naturalmente oggi la polizia nega. Dicono che è morta di infarto. Ma da dove vengono quelle ecchimosi, quei segni di calci, e pugni che le coprono il corpo? Le donne iraniane, pur sotto minaccia di prigione e di frustate, sono scese in piazza per protestare. Con un coraggio ammirevole, sapendo quanto rischiano. Ma il coraggio vero lo si vede in queste situazioni: quando si rischia e si protesta lo stesso per difendere le proprie idee, i propri valori.

Mi vengono in mente le difese del velo che ho sentito da tante parti anche occidentali: sono le donne che lo desiderano, è una espressione religiosa, una scelta di pudore. Non vi dicono niente queste ragazze che si tagliano i capelli in strada gettando via il velo, mostrando quanto sia isterica e repressiva la pretesa di fare sparire il corpo femminile sotto ampie vesti scure per non destare il desiderio maschile?.

Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che «tanto non cambia niente». Cambia invece, se veramente lo vogliamo, anche se si rischia qualcosa. Tutta la mia solidarietà alle ragazze iraniane e ai giudici che hanno condannato con parole severe l’azione di un padre che ha voluto uccidere la figlia per difendere il suo vile e antistorico onore.

Masha Amini e l’ultimo abbaglio delle femministe. Alberto Giannoni il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Come si può fare finta di niente? E che significato ha l’indifferenza? La protesta delle donne e dei giovani sta infiammando l’Iran, un Paese finora oppresso da un regime teocratico islamista, totalitario e potenzialmente genocida (le minacce rivolte a Israele e agli ebrei non si fermano). Le manifestazioni anti-regime sono partite, anzi ri-partite, dopo la tragica fine di Masha Amini, la 22enne arrestata dalla polizia di Teheran (perché non portava il velo in modo «appropriato») e morta in ospedale dov’era arrivata in coma per le percosse subite in caserma. Da Teheran, le proteste si stanno allargando ad altre città dell’Iran, di altri Paesi, compresa Milano, dove martedì un centinaio di persone ha manifestato in piazza Cordusio. Vestite di nero, hanno acceso dei lumini dedicati alla giovane uccisa per una ciocca di capelli fuori dal velo. E molte donne, a Cordusio, se li sono tagliati i capelli, in segno di ribellione all’oppressione integralista (e maschilista) hanno bruciato il velo (hijab) e gridato «no alla dittatura» e «no all’hijab obbligatorio». Di fronte a tutto questo come è possibile restare indifferenti? Come possono restare indifferenti, soprattutto, quelle donne che – a parole – sono impegnate nella difesa dei «diritti». Le femministe, le progressiste, quelle che scioperano l’8 marzo, le consigliere comunali e regionali del Pd. Le donne della sinistra italiana mobilitate giorno e notte per contrastare i propositi (immaginari) della «destra», non hanno un minuto di tempo e un’oncia di energia per ascoltare l’appello delle donne iraniane? E Sumaya Abdel Qader, già dirigente dei centri islamici, poi consigliera del Pd, ora ricercatrice alla Cattolica. Volto dell’islam italiano, docente di un’università italiana, Abdel Qader si è battuta per difendere il diritto di portare il velo e non ha niente da dire sul diritto delle donne di toglierselo, quel velo? Pare che a sinistra nessuno abbia capito. Di certo, nessuno muove un dito.

Estratto dall'articolo di Daria Galateria per “la Repubblica” il 20 settembre 2022.

Mussolini e le femministe: è l'argomento, fecondo di utili riflessioni e a tratti anche dilettevole, dell'ultimo saggio di Mirella Serri, la storica di fortunati e informatissimi saggi su momenti puntuali della nostra storia recente, specie del Ventennio. Il titolo è ironico - Mussolini ha fatto tanto per le donne! (Longanesi, pp. 270); ma il sottotitolo apre un problema più vasto, "Le radici fasciste del maschilismo italiano". 

Gli stereotipi di genere elaborati nel Ventennio - duri a morire - hanno poi segnato gli anni della nascita della Repubblica, protraendosi fino a noi? 

Il saggio si apre, a sorpresa, il 14 novembre 1947, quando i Padri Costituenti iniziano a discutere sul Titolo IV, "La magistratura". Giovanni Leone argomenta che le donne debbano «stare lontano dalle più alte magistrature, dove occorre resistere all'eccesso di apporti sentimentali»; solo gli uomini hanno «l'equilibrio e la preparazione» per tali funzioni: «così emotive», le donne potrebbero essere utili semmai nel Tribunale dei minorenni.

Il repubblicano Giovanni Conti, oppositore di Mussolini dal 1922, giudica imprudente accettare le donne in magistratura «per la loro subordinazione fisiologica ci sia consentito il dirlo, in certi periodi sono assolutamente intrattabili». […] 

Eppure il movimento femminista negli anni Dieci del secolo scorso era attivo e forte; Mussolini ne ha incrociato, sfruttato, tradito e perseguitato molte esponenti. Il 2 dicembre 1912, direttore dell'Avanti!, Mussolini, «con un cappotto proletario col bavero rialzato» è ricevuto da Anna Kuliscioff, medica delle febbri puerperali e "Zarina del socialismo", nella sua elegante casa milanese a piazza Duomo.

Mussolini intende giustificarsi per aver allontanato dalle colonne del giornale un protetto della Kuliscioff e del suo compagno Turati: il giornalista ebreo Claudio Treves. 

Ma le parla invece del suo nome: lo hanno chiamato Amilcare, per ricordare Cipriani, leader della Comune di Parigi, e poi Benito, in ricordo di Benito Juarez, indio messicano che aveva combattuto nel 1860 contro gli invasori francesi; e per terzo nome ha Andrea, in onore di Andrea Costa. 

L'anarchico Andrea Costa era stato amante della Kuliscioff, e padre di sua figlia: Mussolini fa insomma alla Kuliscioff «buonissima impressione», anche se rileva: «non l'è mica per niente un socialista». Per strada, Mussolini incrocia l'avvocato Sarfatti, e sua moglie Margherita, che escono da un aperitivo al Caffè Savini e vanno, anche loro, dalla Kuliscioff.

Margherita, geniale critica d'arte e elegante salottiera di Milano, ha ottenuto dalla "Zarina" una collaborazione all'Avanti! - ma la ha irritata con un articolo su Duilio Cambellotti che le è sembrato poco impegnato. 

Margherita invita subito il direttore a uno dei suoi mercoledì - lui comperò un abito apposito coi revers di raso, e affrontò, coi suoi occhi "spiritati" e le ghette, palazzo Serbelloni, dove la padrona di casa in velluto nero chiacchierava intensamente con Umberto Boccioni, "zazzeruto come un mugik"; verso mezzanotte arrivò chiassoso Marinetti coi suoi futuristi - Margherita combinò un più quieto appuntamento all'Avanti!. 

Da lì si avviò, col tempo, una relazione di lungo e storico corso - intanto il posto di Treves era stato affidato dal direttore a un'amante, la minuta Angelica Balabanoff, sedicesima figlia di abbienti ucraini ebrei - «traditore e puttano» lo definirà lei, all'epoca dei rivolgimenti ideologici del "Mascellone".

Così, tra grande e minuta storia, la Serri ricostruisce la vicenda sentimentale di Mussolini, dalle amanti della giovinezza - malmenate, morse, accoltellate, sfruttate, forzate, rinchiuse in manicomio - e le anarchiche come Leda Rafanelli, Bianca Ceccato. 

Sono decine di vivissimi ritratti, incrociati con la prima vicenda politica - i voltafaccia, dall'interventismo alle posizioni del Popolo d'Italia: «Le donne fasciste non devono occuparsi di politica e di azioni la cui energia meglio si attaglia ai maschi»; l'allontanamento dalle pubbliche amministrazioni delle donne reclutate durante la guerra, il limite alle assunzioni femminili posto al dieci per cento, e altre più perniciose iniziative; scorre intanto nel ricchissimo testo la storia dell'associazionismo femminista e le sue martiri.

Il maschilismo in Italia è una piaga patriarcale; ma, chiede dunque la Serri, quanto è stato rafforzato dal Ventennio?

Maria Berlinguer per “La Stampa” il 22 settembre 2022.

Le donne devono stare alla larga «dalle più alte magistrature, dove occorre resistere e reagire all'eccesso di apporti sentimentali, dove occorre distillare il massimo di tecnicità». È il costituente Giovanni Leone a teorizzare che le donne non possono fare le magistrate perché hanno le mestruazioni. E tra i padri costituenti e i politici di allora non è l'unico a pensarla così. 

Il repubblicano Conti gli dà manforte aggiungendo che in quei giorni sono intrattabili. Nervose, isteriche. Stereotipi e luoghi comuni che vengono da lontano e affondano le radici nel ventennio fascista. È lì che dobbiamo cercare le radici del maschilismo di Stato. 

Lo racconta Mirella Serri che ieri ha presentato a Roma Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano con Paolo Mieli e Simona Colarizi. Il 28 ottobre Mussolini capeggiò una doppia marcia: quella per la presa del potere e per l'abbattimento delle democrazie e quella contro le donne.

Il saggio di Mirella Serri è un affascinate e lungo viaggio nel maschilismo italiano che getta la sua ombra nera fino ai nostri giorni, nei femminicidi e nel linguaggio violento di Facebook. «È la Grande Guerra a mutare le condizioni delle donne: signore e signorine, impiegate e lavoratrici dell'industria offrono un importante apporto al mondo del lavoro e sembrano essere pronte a conquistarsi il diritto al voto ambito da decenni - scrive Serri -.

Occupato lo scranno di presidente del Consiglio, Mussolini scatena la controffensiva nei confronti delle donne. 

È determinato nella volontà di costruire stereotipi che contrastino il femminismo. Ecco, poco dopo il suo insediamento, la cacciata delle donne dalla pubblica amministrazione (assunte durante la guerra, vengono licenziate in massa), ed ecco il dimezzamento dei salari femminili».

L'intervento mussoliniano ha uno scopo prioritario: dare una prova di forza, elaborare una simbologia alternativa a quella democratica e femminista: l'occupazione maschile, sostiene il neo dittatore, è un fattore indispensabile alla costruzione di una solida identità. L'occupazione femminile, invece è deleteria: «fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche morali contrarie al parto». 

Parole del duce che potrebbe pronunciare il premier ungherese Orban, che solo due giorni fa ha detto che le donne devono studiare meno perché altrimenti non si occupano della casa e della famiglia. A dare linfa alle teorie di Mussolini è un libro, Sesso e carattere di Otto Weininger, che ha teorizzato la riduzione in subalternità, per mano di uno Stato forte, delle donne e degli ebrei. 

La donna, dice, toglie dignità all'uomo con la sua presenza, lo indebolisce. «Mussolini capisce benissimo il nuovo peso sociale delle donne e ne ha paura» racconta Serri, spiegando che quando tre anni fa ha deciso di scrivere questo libro l'ascesa di Giorgia Meloni non era all'orizzonte.

Mussolini è un grande amatore non solo quando ha il potere ma anche quando è un uomo poverissimo: le donne lo aiutano moltissimo. Lo amano non ricambiate. Spesso lo mantengono, come Margherita Sarfatti che finanzia la marcia su Roma. 

Benito è un violento. Da ragazzino per un diverbio con la giovane fidanzata le pianta un coltello nella mano. Picchia spesso e volentieri Claretta ed è molto manesco anche con Sarfatti. Come dice la sorella Edvige, opera nei confronti delle donne con molta brutalità. Lui percepisce le donne come un sostegno e come nemiche. Dice: «io non posso controllare la Bestia che è dentro di me». Così definisce il suo sesso, nel senso che quando le donne gli chiedono di non tradirle lui risponde: io sono troppo «sessuato» per non farlo.

Il libro scorre su due binari paralleli. Da una parte la storia di Mussolini, dall'altra quella dei suoi antagonisti che sono Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Quando Mussolini viene nominato nel 1912 direttore dell'Avanti, li caccia. 

Il duce il voto alle donne non vuole darlo, dice che le donne sono orinatoi. I fascisti, mentre scendono su Roma per la marcia, trattano con grande violenza le antifasciste che si oppongono. Tra loro Ferola Fedolfi di Imola, che pagherà il suo impegno con la vita, e che non è neanche ricordata sul sito dell'Anpi. «Quando una dittatura va al potere la prima cosa che fa è schiacciare le donne perché sono l'anello debole della catena e un regime può dimostrare la sua autorevolezza cavandosela con poco».

La prima riforma di Mussolini è quella della scuola. «A dicembre del 1922 e gennaio del '23 lancia la riforma Gentile con una scuola solo per le donne. Le ragazze possono studiare canto, danza, lingue, pittura ma il corso non ha nessuno sbocco lavorativo». Nel '42 addirittura il governo fa un elenco dei lavori che possono fare le donne: fioriste, commesse, impiegate di serie B. E con il Codice Rocco rafforza il delitto d'onore.

L’indignazione che non c’è. Ma perché le femministe si disinteressano della lotta delle donne iraniane? Carlo Panella su L'Inkiesta il 21 Settembre 2022

Migliaia di persone contestano da giorni il regime di Ali Khamenei per condannare l’omicidio della ventiduenne Masha Amini, uccisa dalla polizia di Teheran perché i suoi capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Le cose purtroppo non cambieranno perché il resto del mondo non se ne occupa

Nel disinteresse totale del movimento femminista e progressista internazionale da quattro giorni molte piazze iraniane si sono riempite di manifestanti che protestano contro l’uccisione in carcere a Teheran da parte della “polizia morale” della ventiduenne Masha Amini. La sua colpa? I capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Tutto qui. 

La polizia iraniana ha reagito alle manifestazioni sparando, usando gli idranti e ha lasciato sul selciato almeno cinque morti. Il 13 settembre scorso Masha, una giovane curda in vacanza a Teheran, era stata duramente malmenata e gettata violentemente su un furgone della polizia del costume con l’accusa di violare le norme sullo Hijab emanate dalla Commissione per la Promozione della Virtù e la repressione del Vizio. 

Gli agenti hanno detto ai parenti della ragazza che protestavano che Masha sarebbe stata sottoposta a una «sessione di rieducazione». Gli esiti della “rieducazione” sono stati fatali: dopo tre giorni, Masha è stata dichiarata morta in ospedale. Immediate le manifestazioni di protesta davanti all’università di Teheran, a Sanandaj e in tutto il Kurdistan, regione nella quale le aspirazioni autonomiste e indipendentiste non si sono mai sopite, nonostante una repressione che dal 1979 in poi, dalla instaurazione della Repubblica Islamica di Khomeini, ha fatto decine di migliaia di morti. 

Nei cortei, moltissime donne si sono levate il velo dalla testa e molti, come già durante le grandi manifestazioni del 2020, hanno gridato lo slogan: «Morte al dittatore!» indirizzato alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei. Fortissima anche la mobilitazione in rete, con non meno di 1.600.000 visualizzazioni dello hashtag #MashaAmini.

È questa l’ennesima protesta di massa che vede le piazze iraniane riempirsi con una grande mobilitazione, soprattutto giovanile. Enorme fu l’Onda Verde del 2009 e altrettanto grandi le manifestazioni del 2020. Ambedue con centinaia di morti falciati dalle forze dell’ordine. Ma oggi la mobilitazione si presenta con una novità precisa: la protesta contro l’umiliazione della donna imposta dal regime con una stretta decisa dall’ultra conservatore presidente Ibrahim Raisi, eletto un anno fa. 

Stretta di cui si fa interprete appunto la “polizia morale”, composta soprattutto da donne, che ha imposto strumenti di verifica come il riconoscimento facciale e che setaccia autobus, treni e strade alla ricerca di “ribelli” non abbigliate secondo rigidissimi canoni islamici.

Purtroppo, queste ripetute e massicce proteste popolari in Iran non hanno mai uno sbocco politico e non preoccupano eccessivamente il regime che reagisce sempre con enorme violenza repressiva. Non esiste infatti né dentro il paese né all’estero una forza politica di opposizione che riesca a capitalizzare sul piano politico la grande forza espressa. Men che meno esiste dentro il regime – se non nella fantasia di certi media e analisti occidentali – una componente riformista in grado di contrastare o quantomeno condizionare la retriva forza conservatrice della dirigenza islamica degli ayatollah e ancor più il potentissimo blocco ultra nazionalista e ancora più retrivo dei Pasdaran.

Inoltre ha un suo grande peso l’assoluta indifferenza nei confronti della repressione, in particolare nei confronti delle donne iraniane, delle opinioni pubbliche internazionali, in particolare, lo ripetiamo, da parte dei movimenti femministi e progressisti che sanno vedere oppressione e ingiustizie solo in Occidente.

Le donne iraniane che protestano coraggiosamente in piazza sono sole.

Michele Serra per “la Repubblica” il 4 agosto 2022.

A Monteprato di Nimis, Friuli profondo, da anni si svolge una festa fallica, nata dopo il terremoto del '76. Non è elegante (nemmeno i fescennini lo erano, né i culti priapici) ma ha una sua sguaiata innocenza, con processioni di falli megalitici, molte banane, molto fracasso e la evidente partnership di Dioniso, che è il solo vero patrono del Friuli, con Priapo ha un'intesa millenaria e annaffia la notte con il nettare d'uva. 

Molte le donne presenti, apparentemente non offese né costrette a divertirsi senza essere divertite: rende bene l'idea il breve ma intenso reportage video di Simone Modugno sul sito di Repubblica. 

Si chiama Festa degli Uomini, non la inserirei tra le mie mete turistiche preferite ma è importante parlarne perché, con tutti i problemi che abbiamo (compresi i problemi con il maschile, il patriarcato eccetera), vale la pena evitare gli equivoci, che sono sempre fatica sprecata. Molte e molti, sapendo che in quella festa c'è anche un torneo di mangiatrici di banane, esplicita allusione alla fellatio, hanno giudicato inaccettabile e umiliante la cosa, anzi il coso.

Credo che tanta indignazione sia mal riposta. Intanto perché il tutto avviene tra adulti consenzienti, e questa è sempre una regola aurea. Poi perché la volgarità non è un reato, altrimenti bisognerebbe oscurare una buona metà dei palinsesti televisivi mondiali. Infine, e soprattutto, perché levate di scudi come questa rafforzano il sospetto che lo scandalo, oggi come ieri come sempre, sia il sesso in sé e per sé. Vale sempre la pena ribadire, con la necessaria brutalità, che sono molto più osceni i missili dei cazzi. La raffigurazione odiosa della fallocrazia non è la banana, è il missile.

Michele Serra difende la Gara di mangiatrici di banane, mentre le femministe sono attaccate sui social. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 04 agosto 2022

La gara con le donne in ginocchio a mangiare banane per una busta con 100 euro si è svolta, ma le polemiche continuano. Per Serra c’è ben altro di peggio: «I missili». Sotto il post di Laura Boldrini contro la gara la colpa viene data alle donne. Le promotrici della petizione per fermarla chiedono di immaginare «una produzione culturale alternativa». «Potevamo farci i fatti nostri, ma il messaggio è machista, e abbiamo diritto di critica»

La Gara di mangiatrici di banane a Monteprato di Nimis, in provincia di Udine, alla fine si è svolta: le donne, in occasione della “Festa degli uomini”, il 2 agosto si sono inginocchiate di fronte alle banane tenute ad altezza cintura dagli uomini. In palio, ha spiegato il presentatore, una busta con cento euro alla vincitrice, rigorosamente scelta da una giuria maschile. Il dibattito se questo sia giusto o no continua. Michele Serra, editorialista di Repubblica, reputa che «non sia elegante» ma c’è ben altro di più grave: «I missili».

Nel frattempo le femministe si difendono dagli attacchi social, visto che sotto i post, a partire da quello di Laura Boldrini contraria alla gara, sono partite le critiche alle donne, a chi biasimava la festa e alla fine anche personali alla deputata. Tuttavia Boldrini specifica: «Su 1.300 qualcuno negativo ci può essere, ma la maggior parte dei commenti dimostra indignazione nei confronti della manifestazione».

I SOCIAL

Le promotrici della petizione contro la festa, Valentina Moro ed Elena Tuan si aspettavano che insieme all’appoggio sarebbero nate le critiche e hanno deciso di bloccare i commenti sui social: «Non avremmo avuto tempo per moderarli», spiegano. Hanno divulgato un comunicato: «In quanto organizzatrici della petizione prendiamo fortemente le distanze da ogni strumentalizzazione della stessa, in particolare quando si traduce in attacco contro i corpi delle donne e contro l'autodeterminazione dei desideri».

Per molti, spiega Moro, dopo l’invito al boicottaggio da parte della regione, «il punto non è più l’iniziativa, sono diventate le donne che hanno deciso liberamente di partecipare, tanto che il presentatore ha ripetuto che era una loro libera scelta prima di far partire la competizione».

LA DIFESA DI SERRA 

La festa è nata degli anni Settanta, ma da allora molte cose sono cambiate. La Commissione pari opportunità della Regione ha segnalato alla vigilia della competizione che la manifestazione è profondamente scesa di livello e ha chiesto agli organizzatori di smetterla di portarla avanti. L’appello è stato inascoltato.

L’editorialista di Repubblica Michele Serra ribatte ironizzando: «Non è elegante (nemmeno i fescennini lo erano, né i culti priapici) ma ha una sua sguaiata innocenza, con processioni di falli megalitici, molte banane, molto fracasso e la evidente partnership di Dioniso, che è il solo vero patrono del Friuli, con Priapo ha un'intesa millenaria e annaffia la notte con il nettare d'uva».

Anche lui si appella all’adesione volontaria: «Molte le donne presenti, apparentemente non offese né costrette a divertirsi senza essere divertite». Per Serra a causare la reazione sarebbe stata «l’esplicita allusione alla fellatio, hanno giudicato inaccettabile e umiliante la cosa, anzi il coso».

Né le promotrici della petizione, né la Commissione pari opportunità del Friuli tuttavia hanno mai parlato di questo, ma del fatto che le immagini della gara «mortificano e infieriscono sul sacrosanto diritto delle donne a non essere continuamente soggette a violenza, nonché ridicolizzate e banalizzate». 

DONNE E BANANE

Moro aggiunge che non è chiaro cosa c’entrino le banane del 2022 con i culti nati circa tre secoli prima di Cristo: «Qua parliamo del 1970, non abbiamo un culto dionisiaco, non mi risultano templi. Noi non capiamo come una festa legata al piacere lo interpreti in maniera unidirezionale. Potevamo farci i fatti nostri, ma quel messaggio lì stava circolando, e abbiamo diritto di critica».

Da quando hanno lanciato la loro petizione per fermare la gara, sono state raccolte 3.600 firme. Anche l’attivista egiziano Patrick Zaki ha firmato e ha chiesto di firmare. Il problema non è più solo la gara, aggiunge la promotrice: «L’altra questione è mettere l’accento su quello che riteniamo importante. La veicolazione di questi messaggi», a partire dall’opportunità di una locandina con una donna in costume da bagno che addenta una banana fino ai video delle partecipanti che mimano rapporti orali in mezzo a una folla festante.

Serra si preoccupa della rappresentazione del maschio, al punto da scrivere: «Vale sempre la pena ribadire, con la necessaria brutalità, che sono molto più osceni i missili dei cazzi. La raffigurazione odiosa della fallocrazia non è la banana, è il missile»

Ma chi si oppone non ha problemi con la frutta o con “i cazzi”. La festa ha previsto spettacoli di burlesque e una competizione maschile, ma ben diversa: «L’uomo che si mette in gioco per diventare “mister” è un conto, per la donna il desiderio che risponde al piacere legato al fallo ritorna a essere sempre la solita immagine eteronormativa». Adesso «si apre uno spazio di confronto per immaginare delle produzioni culturali diverse».

Su questo non molleranno, spiega Moro: «Riteniamo che sia importante: non la sospensione della gara, ma come noi abitiamo il territorio. Abbiamo provato a farlo da un punto di vista femminista». Sulla festa invece non ha dubbi: «Ricalca un punto di vista maschilista. I video e le informazioni che ci sono giunte non ci propongono un’immagine diversa. Dalla locandina con il messaggio machista, ai video di donne inginocchiate e bendate».

Da “il Venerdì – la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Gentile Michele Serra, le scrivo a nome di tutte le volontarie del Telefono Rosa, dopo aver letto con attenzione la sua Amaca del 4 agosto "Le banane e i missili". Ha scelto di mettere in evidenza la goliardia della festa, avvenuta in Friuli, definendola «poco elegante ma con una sua sguaiata innocenza». Magari il problema fosse l'eleganza.

Cita i fescennini e i culti priapici, ma non fa altro che aumentare la confusione. I fescennini erano dialoghi sboccati che il popolo, soprattutto i contadini, rivolgevano ai novelli sposi.

Una tradizione certamente discutibile che è però preludio della nostra satira. Venivano infatti scherniti anche politici e aristocratici. Gli insulti o le frasi volgari, come preferisce, erano rivolte a tutti: uomini e donne. Nessuno escluso. Nella festa degli uomini, tralascio il titolo che la dice lunga, sono unicamente le donne le "addette a mangiare banane". Come mai nessun uomo si è prestato, mettendo in piazza la propria libertà sessuale?

Per l'ennesima volta l'ironia o goliardia vede come protagonista la donna, con esplicita allusione alla fellatio. Il cunnilingus non fa ridere?

Rispetto invece ai culti priapici, che dire: per fortuna siamo andati avanti, o almeno lo speravo. Riporto la mia dichiarazione rilasciata all'Ansa: «La giunta comunale e il sindaco dove sono? Non ci sono donne nella giunta comunale? Ai ragazzi che messaggio diamo? Un messaggio devastante, è assurdo farla passare come una festa». Lei ha ragione rispetto ai missili e alla guerra, ma mi creda, la cultura fa danni altrettanto enormi.

Quella festa è l'ennesima rappresentazione di una cultura della quale non riusciamo a liberarci, una cultura maschilista e patriarcale che vede la donna come un oggetto.

La pubblicità e il marketing non ne sono ancora privi nonostante le battaglie fatte, e oggi, nel 2022, vediamo un bel cartellone con una donna in costume e una banana con sopra scritto: "In occasione della festa degli uomini, gara di mangiatrici di banane".

Ultimo punto, è quello che tali feste possono scatenare. Tanti potrebbero arrogarsi il diritto di essere volgari, come se la volgarità andasse di moda. 

Proprio dopo la goliardica rimpatriata un signore ha ben pensato di insultare me, e quindi tutta l'associazione, attraverso varie mail. Se davvero ci fosse la libertà sessuale, di cui tanto ci piace parlare, non si sarebbe proposto un modello stereotipato della donna. Ma questa purtroppo è una vecchia storia e, se vogliamo giustificarla con il fatto che a partecipare siano stati adulti consenzienti, c'è ancora tantissima strada da fare.

Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente dell’Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa

Risposta di Michele Serra:

Gentile Maria Gabriella Carnieri, e gentili volontarie del Telefono Rosa. L'argomento è così importante, e così centrale, che forse è stato spericolato il tentativo di affrontarlo in uno scritto breve come l'Amaca. Ma dopo la vostra lettera mi sono riletto e non ho cambiato opinione. Posso però cercare di spiegarmi meglio, con più spazio a disposizione.

Nessun dubbio che la goliardia sia volgare, né che sia, da quando esiste, una "disciplina" maschile, alle quali le femmine sono ammesse solo come gregarie. Sono pienamente d'accordo anche sul fatto che nessuna espressione culturale, comprese le più popolari o le più spensierate, sia senza conseguenze. Ogni nostra parola, ogni nostro comportamento incidono nel discorso collettivo.

Ma lo sdegno - sentimento molto abusato, ultimamente - deve essere proporzionale allo scandalo; e, quanto a persistenza del maschilismo, mi preoccupa assai di più - per fare l'esempio più evidente - che la parte politica per la quale voto, la sinistra, sia stata capace di mettere in campo, negli ultimi anni, solamente leader maschi, con l'eccezione, antica e appartata, di Emma Bonino; o che ci sia disparità di salario tra uomini e donne.

Mi preoccupa assai meno (anzi, quasi per nulla) che un gruppo di buontemponi porti in processione enormi falli, o celebri la fellatio con esplicita trivialità: l'intenzione, per quanto l'esito sia discutibile, è comico-satirica (per questo ho tirato in ballo i fescennini), e la satira abbonda di cadute di stile. Dal Vernacoliere a Charlie Hebdo gli atti sessuali, dal coito alla sodomia alle pratiche, diciamo così, collaterali, sono pane quotidiano, arma di derisione, oggetto di scherno e di beffa.

Decisivo, sempre, è il contesto. Se il New York Times o Le Monde pubblicassero in prima pagina una fellatio, tutti sgranerebbero gli occhi chiedendosi se il direttore è uscito di senno. Se lo fa un giornalaccio di satira credo che nessuno si scandalizzi, al massimo si scelgono altre letture. Il mio timore è che il concetto stesso di "contesto", che è decisivo per stabilire di che cosa si sta davvero parlando, sia agonizzante, per non dire estinto.

Le parole e gli atti delle persone circolano sulle reti sociali (e di rimbalzo sui media tradizionali, gravemente gregari di ogni tweet) estirpati dal loro contesto. In un magma indistinto e infetto, che non costruisce senso critico, costruisce solo facile polemica. In aggiunta a questa perdita di lucidità del giudizio pubblico, o forse in conseguenza di essa, ho le netta sensazione che si stiano incrociando e confondendo i destini di due campi ideali ben diversi: la battaglia contro il patriarcato è il primo campo, la sessuofobia il secondo. Del primo mi sento partecipe, del secondo no. 

Quando il movimento #MeToo assunse il suo giusto rilievo mondiale, un documento di donne francesi, che conservo tra gli indizi d'epoca più significativi, mise in guardia sulla possibile confusione tra una battaglia sacrosanta, quella contro gli abusi sessuali, e la diffidenza nei confronti dell'eros, che ha manifestazioni molteplici, non tutte eleganti e virtuose. 

La Francia, si sa, è più libertina, e la strage di Charlie Hebdo («vecchi sporcaccioni massacrati da giovani bigotti» fu la mia definizione di quell'abominevole atto) è stata uno dei prezzi pagati. Almeno un paio di quei vecchi sporcaccioni erano miei amici. La mia generazione, tra tanti difetti, ebbe il pregio di credere quasi ciecamente nella libertà, compresa la libertà sessuale, e "fate l'amore non la guerra" è uno degli slogan più umani e più rivoluzionari di sempre. Per questo ho scritto che il missile è molto più osceno della banana.

E dunque, gentili amiche, accetto il vostro invito a essere meno concessivo con la volgarità sessuale, che coincide quasi sempre con la volgarità maschile. Ma in cambio vi chiedo di riflettere sul rischio che un nuovo moralismo prenda piede, e pieghi parole e comportamenti a una specie di continua autocensura. Il concetto di limite mi è ben chiaro, e ben caro, ma ci sono troppi tribunali del popolo in attività permanente, pronti a censurare, stroncare, maledire.

La repressione e l'autocensura non sono veicoli di coscienza, tantomeno di liberazione. Rientrano in questo contesto le disgustose mail che avete ricevuto. Non dovete dare troppo peso allo squallore e alla violenza di quelle voci, gli insulti e le minacce, in rete, sono un oceano putrido sul quale dobbiamo navigare sereni e guardando più in là. Tenete la vostra rotta e non curatevi degli imbecilli. Quanto a me, sono contento di avere dedicato una intera rubrica della posta a un tema così importante.

Britney e le altre: quando le donne deragliano (e tutti stiamo a guardare). Marilisa Palumbo e Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.

Depressione, dipendenze, il pedinamento di media vecchi e nuovi: così per anni la vita della popstar è stata fatta a pezzi. Storie diverse, ma stessa soddisfazione nel vedere deragliare Monica (Lewinsky), Hillary (Clinton), Pamela (Anderson)... Perché quando le donne cadono c’è sempre chi ama fare il turista tra le loro rovine. 

Britney Spears, 40 anni, americana: è una delle pop star più famose al mondo. Due figli, due ex mariti (e uno appena sposato), per 13 anni sotto tutela del padre. Nella foto è al Madison Square Garden, New York, durante la consegna degli Mtv Awards del 2016

Il primo titolo è del The Times-Picayune, un quotidiano della Louisiana: «Una ragazzina di Kentwood è stata scelta per il Mickey Mouse Club». È il 13 maggio 1993, Britney Spears ha 11 anni ed è entrata nello storico programma televisivo per ragazzi firmato Walt Disney. Lo show di Christina Aguilera, Justin Timberlake, Ryan Gosling. «È un sogno che si avvera», dichiara al quotidiano locale la biondissima bimba di McComb, Mississippi, cresciuta a Kentwood, figlia di James Spears detto Jamie, un operaio con il vizio dell’alcol, e della maestra Lynne. L’ultimo titolo è di una decina di giorni fa. Lo spara l’inglese Daily Mail: «L’ex marito di Britney Spears, Kevin Federline, rompe il silenzio per rivelare che i loro figli non la vedono da mesi e trovano i suoi selfie di nudo su Instagram “difficili” da digerire». La risposta della cantante è via social. «I commenti del mio ex mi fanno molto male», scrive in una storia infarcita di punti esclamativi ed emoticon.

GLI AMERICANI DICONO “TRAINWRECK” E C’È UN IDENTIKIT DELLE “DERAGLIATE”: FAMOSE E NON CONFORMI AI MODELLI DI FEMMINILITÀ

Britney, che si è appena risposata per la terza volta con il personal trainer e attore Sam Asghari, rivendica di poter condividere su Instagram quello che le va, compresa la storia del suo aborto spontaneo e le foto seminuda. Tra la piccola Britney targata Disney e questa sono passati trent’anni che valgono mille vite. L’ultima della popstar è cominciata otto mesi fa, quando si è liberata del controllo del padre. Dal 2008, per decisione di un giudice di Los Angeles, Jamie era responsabile della gestione di ogni aspetto della sua vita, estrema conseguenza di una carriera divenuta una trappola infernale, fatta di titoli scandalistici e paparazzi. La ragazza prodigio era andata fuori dai binari: il divorzio da Federline, la perdita della custodia dei due figli, le scenate in pubblico. Per anni nessuno ha più pensato a come stesse veramente.

«Quando dico loro come mi sento, è come se mi ascoltassero ma non mi stessero davvero ascoltando. Sono triste», diceva ai microfoni di un documentario di Mtv. Ci è voluto moltissimo tempo perché il suo grido d’aiuto bucasse la bolla. Crescesse fino a diventare un movimento: #freeBritney, liberatela. Dietro quell’onda, i fan mai spariti, ma anche un episodio di autocoscienza collettiva. Come abbiamo potuto essere così spietati? E dentro quel noi i giornali, le tv, il pubblico, donne comprese.

RECLAMATION - È UN FENOMENO CHE SI È SVILUPPATO TRA GRUPPI SPINTI AI MARGINI, SOPRATTUTTO DONNE, CHE HANNO INIZIATO A UTILIZZARE PAROLE OFFENSIVE RIVOLTE CONTRO DI LORO COME STRUMENTO DI RIVALSA SOCIALE E ORGOGLIO. DIVENTATO VIRALE NEGLI STATI UNITI, IL TERMINE SIMBOLO DELLA RECLAMATION È “BITCH”

Britney Spears giovanissima con l’attore Ryan Gosling: entrambi hanno debuttato nel «Mickey Mouse Club» di Disney (foto Shutterstock)

Britney non era l’unica. C’era Monica (Lewinsky), Lindsay (Lohan), Pamela (Anderson), Paris (Hilton). Persino Hillary (Clinton). Donne famose tra gli Anni 90 e il 2000, massacrate dall’opinione pubblica, che oggi rileggono il proprio passato, e noi con loro. Reclamation, definiscono questo processo di “bonifica” negli Stati Uniti. Per le femministe, un atto profondamente politico. Ora che il mondo binario brava ragazza/cattiva ragazza è andato quasi in frantumi (vedi Billie Eilish), sembra impossibile che solo 20 anni fa si potesse chiedere a una diciannovenne in diretta tv: «Britney, ma con Justin Timberlake alla fine hai fatto sesso?». «A un uomo non avrebbero mai fatto questa domanda», dicono ex collaboratrici e giornalisti dell’epoca nel documentario Framing Britney Spears, prodotto dal New York Times e architrave di questo processo di restauro. Per far parte del club delle trainwreck, “le deragliate”, dovevi essere donna, famosa, e non aderire a un modello di femminilità considerata standard: sexy ma non troppo, sorridente al punto giusto, madre.

TRAINWRECK - LETTERALMENTE SIGNIFICA “DERAGLIAMENTO DAI BINARI”. METAFORA CHE INDICA IL NON RISPETTO DEI LIMITI E DEI RUOLI CHE LA CULTURA PATRIARCALE HA IMPOSTO ALLE DONNE

Britney nel video di «Baby one more time» (1998) e, nella foto sotto, il suo bacio a Madonna nel 2003 (foto Getty Images)

Le cadute delle deragliate provocavano una sorta di guilty pleasure inconscio nel pubblico che aspettava ansioso l’errore da commentare. Hillary era poco femminile, «assetata di potere» secondo le descrizioni dei repubblicani che sono andati vicini a darle dell’assassina. Monica, poco più che ventenne, era una arrampicatrice che con quel vestito blu macchiato voleva incastrare il presidente idolo dei progressisti e nessuno, men che meno le femministe (una molto famosa disse: «Cosa può fare in futuro? Noleggiare la sua bocca»), si preoccupò degli effetti su una giovane donna della più grande umiliazione pubblica della storia. «All’epoca eravamo entrambe carne fresca da macello», ha scritto Lewinsky riflettendo su lei e Britney. «Mentre io sento sempre che sia importante dire che ho commesso un errore, dico anche che Britney non l’ha fatto. Con questo non intendo che ho meritato tutto quello che mi è successo, perché non era commisurato alla mia età e al livello di potere».

I MOMENTI NERI DI SPEARS SONO FINITI IN UN DOCUMENTARIO SULLA SUA “REDENZIONE”. PER L’EX BAMBINA DEL MISSISSIPPI «IMBARAZZANTE»

Britney con la testa rasata dopo un ricovero di un solo giorno in un rehab (2007)

È il 1998 quando il mondo impara a conoscere Britney in versione scolaretta sexy nel video di Baby one more time, singolo che dà il nome all’iconico album da record (24 milioni di copie vendute). La ragazzina di Kentwood è una “all-American-girl”, cristiana, che dice di voler fare l’amore solo dopo il matrimonio, sogna un marito e dei figli e da brava ragazza del Sud si definisce repubblicana. Gioca alla Lolita moderna, un po’ innocente e un po’ provocante, ma appena prova a emanciparsi da quell’immagine iniziano a farla a pezzi. La fine della storia con Timberlake? Colpa sua. «Gli hai spezzato il cuore, cosa gli hai fatto?», le chiede in una intervista più simile a un interrogatorio Diane Sawyer, volto iconico della tv americana. «Britney ha sconvolto molte mamme nel Paese», aggiunge la giornalista, citando senza imbarazzo Kendall Ehrlich, moglie dell’allora governatore del Maryland, che aveva dichiarato: «Se avessi l’opportunità di sparare a Britney credo che lo farei».

NORM SPOILING - SIGNIFICA “ROVINARE LA NORMA” ED È UN PROCESSO SOCIALE E POLITICO CHE CONSISTE NELL’INDEBOLIRE L’INFLUENZA DI LEGGI ESISTENTI CHE TUTELANO I DIRITTI DELLE DONNE

La bimba con le treccine è diventata il diavolo. I paparazzi la inseguono. La fotografano mentre guida col figlio in braccio. Tutti cercano di coglierla in fallo, per il prossimo titolo che fa vendere. «Sei una cattiva madre?», le chiede un conduttore di Nbc, e lei scoppia a piangere. È il 2007. Britney sembra sempre drogata, troppo sexy, troppo fragile, troppo sopra le righe. Diventa virale il video di quando dal parrucchiere prende la macchinetta e si rade i capelli a zero. O le immagini delle ombrellate alla macchina di uno dei paparazzi che la inseguono ovunque (una sua foto poteva valere fino a un milione di dollari). Per due volte le viene fatto un trattamento sanitario obbligatorio e lì la decisione del giudice di affidarla al padre. Jamie si giustifica con l’amore, il sospetto dei fan ed ex collaboratori è che sia piuttosto molto interessato ai soldi. Nei tredici anni di “libertà vigilata”, in cui ha il cellulare sotto controllo, non può uscire senza permesso e nemmeno ordinare una cena a base di sushi, Britney comunque produce (per scelta?) altri tre album, si esibisce in concerti da record, e trova la forza per liberarsi. Oggi scrive su Instagram: «L’esterno della mia casa, quei cancelli bianchi, sono il simbolo della mia prigionia. La tutela è finita solo 8 mesi fa, poter usufruire del mio denaro è estremamente stimolante, siamo uguali ora? Com’è l’uguaglianza?».

DOCUFILM, SERIE TV: L’IMPRESSIONE È CHE SPESSO DIETRO MOLTE “RILETTURE ILLUMINATE” SI NASCONDA UN VOYEURISMO SPIETATO

Il matrimonio di Britney (il terzo) con Sam Asghari, celebrato il 9 giugno 2022

Forse ricominciare vuol dire anche poter raccontare la propria storia, invece di scappare dal passato rivendicarlo. È quello che ha fatto, meglio di tutte, Monica Lewinsky, diventata uno dei volti più noti della lotta al bullismo e al “public shaming”. L’ex “stagista” ha prodotto una serie - American Crime Story: Impeachment, - sullo scandalo Clinton, perché «una cosa del genere non accada mai più». La reclamation in qualche modo è diventata anche un genere culturale. La serie Lorena, sulla Bobbit, trattata negli Anni 90 come materiale da barzelletta più che come vittima di abusi domestici. I, Tonya, sulla vicenda della pattinatrice Harding, il recente Pam & Tommy, sul leggendario video hard rubato di Pamela Anderson e dell’allora marito Tommy Lee Jones. Ma dietro tutte queste “riletture illuminate”, si sono chieste prima Kathyrin VanArendock sul New York Magazine e poi Jessica Bennett sul New York Times, non c’è anche un po’ di voyeurismo? E di nostalgia? Per quando eravamo adolescenti, per i top attillati, per i modem. 

Le docuserie viste come «turismo empatico»

«Questi spettacoli, film e docuserie» scrive VanArendock «sono una forma di turismo che porta gli spettatori contemporanei in un viaggio in un passato abbastanza recente da essere riconoscibile, ma abbastanza lontano da far sembrare bizzarri i suoi costumi e i suoi punti fermi culturali. Il genere può essere quello dell’arco della redenzione delle donne, ma la modalità è quella del turismo empatico». Nota Bennett che queste donne il cui passato si vuole “reclamare” sono «famose, belle, di solito bianche e sempre fraintese». Alla fine di questo viaggio nel tempo, conclude VanArendock, «si suppone che si siano redente, e il pubblico sia cambiato». Ma è così? Spears, che si è detta «imbarazzata» dal modo in cui l’apparentemente salvifico Framing Britney Spears la presenta, rimane oggetto di gossip senza tregua. Pamela non ha amato la serie. Ed è ancora Monica, su Vanity Fair, a raccontare l’ultima “trainwreck”: Amber Heard, protagonista nello scontro in tribunale con l’ex marito Johnny Depp. Non importa quanto contradditorie siano state entrambe le parti, e se la vittoria giudiziaria dell’attore sia meritata o meno. Ancora prima delle testimonianze, prima del verdetto, il tifo era tutto per lui, la violenza dei commenti — «Bipolare», «manipolatrice», «cercatrice d’oro» — i meme, gli insulti, quasi tutti per lei. Siamo cambiati, davvero?

Il ballo libero di Sanna (alla faccia dei moralisti). Bufera sulla giovane premier per il video di un party sfrenato. Ma sono immagini innocue. Valeria Braghieri il 19 Agosto 2022 su Il Giornale.  

La bella premier finlandese ha trentasei anni e non è una che vede la vita da un divano nell'angolo. Lo si è capito quando si è trattato di prendere posizione sull'ingresso del suo Paese nella Nato, quando è stato il momento di schierarsi contro la Russia («La Ue dovrebbe chiudere le porte ai suoi turisti») e quando è stato necessario gestire la pandemia di Covid. Allenata a pronunciare parole non facilmente negoziabili, è più che normale che, per quanto riguarda la sua vita privata, non sia una disposta a chiedere permesso. Sanna Marin non si è lasciata impressionare dalle critiche che le sono state mosse dopo la sua partecipazione a un festival di musica rock ad Helsinki dove si è presentata in shorts, chiodo e anfibi e ha domato anche i commenti riguardo la scollatura che ha scelto di sfoggiare sulla copertina del magazine femminile finlandese Trendi. Occhio blu fisso in camera e avanti dritta come un treno. D'altra parte è cresciuta in una famiglia composta da due mamme, probabile che abbia sviluppato una salvifica sordità selettiva nei confronti del vociare altrui. Ed è normale, quindi, che ieri, quando un suo video a un party con amici ha fatto il giro del globo, lei abbia risposto rivendicando il suo diritto a divertirsi nel tempo libero. «Si tratta di immagini private che non dovevano essere rese pubbliche», ha detto al quotidiano finlandese Iltalehti, esprimendo anche il suo disappunto per il fatto che il video fosse trapelato. Allo stesso tempo «non ho nulla da nascondere e non ha fatto nulla di illegale». Ha sentito il dovere di specificare che non aveva assunto droghe ma che aveva solo bevuto un po'. In effetti nelle immagini (che secondo alcuni potrebbero essere state rese virali nientemeno che da hacker russi per vendetta nei confronti delle posizioni della Marin), uno degli amici della premier (il parlamentare Ilmari Nurminen, anch'egli del Partito socialdemocratico) culla un cocktail proprio davanti alla telecamera, mentre sullo sfondo Sanna balla con un gruppo di amiche. Mosse audaci, cromate, decisamente allegre. Ma niente di che. Nel video, Marin, con gli altri, beve, balla e canta sulle note del rapper finlandese Petri Nygrd e del cantante pop Antti Tuisku. Sempre secondo il tabloid Iltalehti, tra gli ospiti del party si possono riconoscere: la cantante Alma, l'influencer Janita Autio, la conduttrice televisiva Tinni Wikstroem, la YouTuber Ilona Ylikorpi, la conduttrice radiofonica Karoliina Tuominen, la stilista Vesa Silver. Un manipolo di famosi in patria, insomma, che si riprende durante una festa che si è svolta prima in una casa privata e poi è proseguita in due differenti bar. Se da un lato, questo genere di cose, sono quelle per cui Sanna è adorata dall'elettorato Millenials che la considera la leader più cool del mondo, dall'altro accade che le ringhino contro di tutto «disdicevole» sono arrivati a definirla. A noi sembra che la premier più giovane di sempre, quella il cui governo ha deciso un cambiamento epocale negli equilibri delle alleanze tra Est e Ovest in Europa, possa ben meritarsi di cantare, ballare e farsi un drink. A trentasei anni non sarebbe credibile altrimenti, se non altro perché, in fin dei conti, governa il Paese più felice del mondo.

Sanna Marin, i video e la doppia morale delle femministe democratiche. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 19 Agosto 2022

Care femministe democratiche, possibile che non perdiate mai occasione per non cadere nel solito doppiopesismo, quella doppia morale che si manifesta ogni qualvolta venga sfiorata una che fa parte di voi? Una progressista diciamo così.

Vi siete palesate anche in merito alle polemiche nate intorno alla premier finlandese Sanna Marin e ai video emersi in rete mentre lei balla e si diverte “sguaiata”. Partendo dalla premessa che una persona nel suo privato può fare quello che vuole, visto che fino a prova contraria la libertà se non lede gli altri non è reato, mi ha fatto sorridere leggere tweet a difesa della Marin da parte di una pletora di donne PD che ne hanno preso le parti con uno spiccato lancio ideologicamente ipocrita. Una donna se “democratica” va giustificata e difesa senza se e senza ma.

La Morani, colei che per il bene del Paese (sue parole), è tornata sui suoi passi ed ha accettato la candidatura, in un tweet ha scritto: “Una donna che balla e si diverte. Una parentesi di normalità per una persona piena di impegni e responsabilità. Il divertimento fa parte della vita. Non c’è proprio niente di male”. Subito le ha fatto eco la deputata Gribaudo: “La premier finlandese è Marin Sanna 36 anni. In questi mesi ha compiuto scelte fondamentali in patria e in politica estera. Eppure media e politici di dx parlano di lei per il look, se va a un festival o a una festa privata. Quanto rosicano a vedere una donna così brava e libera?”.

Eh no cara Gribaudo, io per prima in quanto donna di destra non ho puntato nessun dito, non siamo soliti salire in cattedra a giudicare lo sa? Lo stesso Salvini ha scritto che pur avendo idee differenti non è giusto criticare un ballo tra amici. Mi fa sorridere leggere questi messaggi perché se alla stessa festa avesse partecipato una politica o politico di destra sarebbe decaduta la liberalità, la privacy. Si sarebbero levati messaggi di dissenso sul pericolo istituzionale di certe persone. Si sarebbe messa subito in dubbio la credibilità e non faccio fatica a pensare che se ne sarebbero chieste le immediate dimissioni.

La caccia alle streghe sarebbe partita immediata. Invece con la Marin, essendo dalla parte ‘giusta’ perdonano tutto. E ribadisco non esserci nulla da dover perdonare.

Lasciatemi però dire che il vostro doppiopesismo è imbarazzante. Sulla stessa scia la Piccolotti di Sinistra Italiana: “Ho ballato come #sannamarin un sacco di volte. Non capisco perché non dovrebbe farlo lei. Non esiste nessun divieto di divertirsi per le giovani Premier. In un mondo normale la polemica non sarebbe sul ballo, ma sulla privacy mancata della prima carica dello Stato Finlandese”.

In un mondo normale saremmo felici se la privacy valesse come diritto per tutti, donne e uomini. Perché per Berlusconi questo principio non è valso care amiche democratiche? Ah giusto era di destra!

Estratto dell'articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Qui si parlerà di donne e politica, donne in politica, della differenza che c'è fra Elly Schlein Mara Carfagna e Giorgia Meloni, si dirà che tutte e tre potrebbero essere Presidente del Consiglio di questo Paese ma una è in leggero vantaggio, diciamo così. (…) 

Una Donna Presidente o La Prima Donna Presidente non significa assolutamente niente, come da anni si ripete qui allo sfinimento, poiché le donne come ogni essere vivente, come i sacrosanti bambini persino, rispondono alle categorie degli umani: ce ne sono di intelligenti e di idiote, di generose e di avide, di corrotte e di integre, di coraggiose e di pavide, per tacere dell'aspetto che non mi pare democratico né sororale. Ci sono, al mondo della politica, Sanna Marin e Sarah Palin: ditemi voi cosa hanno in comune oltre a quel che non si può dire a meno che non sia anche percepito, J. K. Rowling è alla gogna per averlo fatto - oggi vorrei stare tranquilla e lo darò per sottinteso.

Certo, le donne se ballano sono tendenzialmente zoccole e non simpaticamente disinvolte quanto un uomo che balla, se urlano sono isteriche e non volitive, se minacciano di morte sono trattate con psicofarmaci e non diventano capi di gabinetto. Ma questo è un fatto politico, che è appunto ciò di cui si discute qui. Non è una questione di genere, è una questione di cultura diffusa.

Cominciamo dagli indizi, dagli inizi. Meloni (destra) Carfagna (centro) e Schlein (sinistra) sono persone che, per come le conosco, hanno un tratto in comune, anzi due: sono studiosissime, di quelle che quando gli altri vanno a dormire restano sul compito dell'indomani, lavorano ossessivamente, difficile che alla prova tu le trovi impreparate. Sono ambiziose, anche, e ostinate. Nessuna delle tre ha avuto stesi i tappeti rossi, al principio: a nessuna hanno detto prego si accomodi alla leadership. Il tipo di insidie che hanno dovuto affrontare è stato, tuttavia, di segno diverso.

Giorgia Meloni si è affermata in un mondo - dentro un'idea di mondo - dove le donne sono mogli e madri, servono principalmente a riprodursi: a produrre uomini che vadano in battaglia. 

Ancelle, vanto domestico. Ha ribaltato il segno perché era motivata dalla biografia e caparbia per talento, naturalmente, ma anche perché gli altri possibili leader - impresentabili avanzi del Novecento - hanno capito che con lei potevano pensare l'impensabile: vincere. Giovane, donna, nuova, perfetta: una testimonial formidabile, una front-woman, quello che serve. Bravi, perché gli altri non ne sono stati capaci.

Si immagina che a Ignazio Benito La Russa sia costato parecchio dire vai avanti tu, Giorgia, ma persino lui l'ha fatto: conveniva a tutti e la "ragazza" (a lungo e tuttora in privato irrisa, specie tra gli alleati) è, obiettivamente, tostissima.

Anche Mara Carfagna ha passato le forche caudine del sessismo, ma di tipo diverso. Le donne, nell'idea di mondo di Berlusconi, non hanno la funzione di riprodursi (tranne alcune, selezionatissime angelicate e recluse nel castello) ma di intrattenere: sono il ristoro del soldato, il premio di tante fatiche, la gioia per gli occhi e, eventualmente, per il resto del corpo

Carfagna, giovane di strabiliante bellezza, superò facilmente il casting estetico del personale politico ma si trovò presto, grazie alle sue doti di discrezione e serietà, al confine tra le due categorie: avrebbe potuto persino essergli moglie - le disse Lui un giorno, come il maggiore dei complimenti. Solo che la bellezza, incredibilmente, non era la principale delle sue virtù.

(…) Sarebbe stata un'ottima idea - un'ottima avversaria di Meloni - ma sia Renzi che Calenda vengono dal centro del Pd, dalla pancia della misoginia strutturale che, a sinistra, si nasconde a parole e si pratica nei fatti.

E difatti, Elly Schlein. (…)  non è passata dal casting paternalistico, che a sinistra percaritadiddio non esiste, ma ha dovuto forzare la saracinesca del partito col piede di porco e poi, da fuori, mostrare la potenza di fuoco. (…)  Generazioni di giovani donne bravissime, tuttavia non al punto di ribaltare il tavolo e denunciare l'andazzo. Non conveniva, del resto. 

Restare buone, al proprio posto, mettersi in fila in corrente prima o dopo avrebbe dato i suoi frutti: ti avrebbero scelta, chiamata. Ma nessuno ha mai fatto la rivoluzione prendendo il numero d'ordine alle poste, prego è il suo turno. Nessuno ha mai cambiato le regole adattandosi alle regole.

Chi ti porta, di chi sei? - è sempre la domanda declinata al femminile.

Se ti porta qualcuno, trattiamo. Vediamo di trovarti un posto in cambio del virile consenso. Se non ti porta nessuno, ti eliminiamo.

E' costellata di salme muliebri la superiorità etica della sinistra. E certo che disturba, adesso, vedere la Prima Donna a destra. Ma lì qualcosa di semplice ha funzionato, e non è meritocrazia né eguaglianza di genere: è convenienza. Di qua, maschi alla decima legislatura non mollano l'osso e giovani donne entrano, ma solo se sono state portavoci, se sono certamente valide ma almeno mogli, se hanno proceduto come da consegne. Non Elly Schlein, direi. E nel suo modo neppure Mara Carfagna. Sarebbe stato bello oggi vederle contendere a Giorgia Meloni il primato -persino in un dibattito tv. Io lo guarderei, le ascolterei. Ma in questo la destra, semplicemente, è stata come sovente accade più svelta e più spiccia.

Non sarà un bene per le donne in generale, avere una donna di destra Presidente. Ma sarà certo una lezione per la sinistra in particolare. Speriamo che serva, speriamo che ci sia più d'una, tra le ragazze del futuro della canzone popolare, che impari a dire ora basta, ora no. (Aggiungo, in margine all'ultimo dibattito parafemminista, che anziché mettere l'asterisco dichiaro di usare "presidente" come fosse di genere neutro, genere che nel passaggio dal latino l'italiano ha perduto. Ripristinare il neutro, ecco una battaglia lessicale interessante per le Femen dottorate in filologia romanza).

Poi, volendo, si può passare alla battaglia al patriarcato e fotterlo, come direbbero loro, coi fatti. Prendersi la scena da sole, perché lasciare non te la lasciano. Sarebbe ottimo già questa volta, ma se non si fa in tempo va bene anche cominciare a lavorarci per la prossima.  

Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” il 22 agosto 2022.

[…] Professoressa Eva Cantarella, lei è contro le quote rosa, contro l'idea.

Io sono contro la formalizzazione di genere. Una donna può essere dichiaratamente antifemminista. Prenda Giorgia Meloni, le sue idee non sono mie e la sua retorica oratoria suggestiona la realtà e la descrive in senso regressivo: sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana eccetera. […] Legare la persona, legare l'identità di donna alla condizione di madre è già un giudizio fondativo dell'esistenza […]

[…] Ma secondo lei non tutte le donne concorrono alla conquista di una effettiva parità tra sessi.

Contano le idee non il sesso. Le battaglie femministe della metà del secolo scorso, a cui anch' io ho concorso, adesso sembrano affievolite. […] 

La conquista dei grandi temi dei diritti civili.

Dell'aborto per esempio. La vita si tutela alla nascita o al concepimento? Una scelta che manda avanti o indietro le lancette del tempo. Temo che la Meloni sul punto non la pensi come me. 

Oggi le cose come stanno?

Un po' peggio di ieri. I diritti civili, tra cui l'aborto, sono rimessi - timidamente o meno - in discussione. E così anche gli altri diritti subiscono il clima del tempo. 

[…] Una donna al Quirinale?

Espressione orribile, non voterei mai una donna solo perché donna.

Siamo vicini a una donna a Palazzo Chigi.

Se è di destra il suo discorso pubblico ha i caratteri marcatamente antifemministi, mi sembra chiaro. Le sue idee sono legittime ma lontane dalle mie. Non la voterei mai, ecco.

Estratto dell’articolo di Claudio Reale per “la Repubblica” il 30 Agosto 2022.

[…] Meloni se la prende con le artiste, da Levante a Elodie, che si sono schierate contro di lei («Oggi - dice - il mood degli artisti è "mi alzo e insulto Giorgia Meloni". Secondo me quelli che la pensano in maniera diversa non hanno il coraggio di dirlo. Non è che lo fanno perché pensano che questa sinistra democratica poi non li fa più lavorare? »). […]Da repubblica.it il 30 Agosto 2022.

In quanto donna che non le rappresenta, Giorgia Meloni subisce la rabbia e lo scherno delle transfemministe di Olbia. Così un manifesto elettorale di FdI è stato strappato da attiviste Infogau durante il Pride celebrato nella località sarda, lo scorso venerdì 26 agosto. 

L'azione, immortalata in un video diventato virale, oltre a trovare la disapprovazione sui social - c'è chi l'ha definito un gesto "fascista" - ha provocato le proteste dei vertici locali di Fratelli d'Italia. 

Nelle immagini si vede un gruppo di attiviste attorno al manifesto - Meloni in primo piano, lo slogan "Pronti a risollevare l'Italia" - che viene poi strappato in più punti, gettato a terra e calpestato, mentre i giovani applaudono e saltano gridando "chi non salta fascista è". 

"Quel manifesto è stato affisso in uno spazio, quello spazio assegnato da un privato, previo pagamento, ad un altro privato. È questo l'esempio della civiltà che siamo/siete? È questo il modo di agire? Il non rispetto degli altri?", la denuncia della coordinatrice regionale di FdI, Antonella Zedda, e del presidente del partito a Olbia, Marco Piro, che hanno condannato l'episodio.

Il gruppo Infogau è nato nell'estate del 2001, mentre nella regione imperversavano gli incendi, di qui l'etimo del nome: "Abbiamo pensato che anche noi ci stavamo infuocando e che dovevamo ribellarci", hanno dichiarate le attiviste ai giornali locali. Le polemiche potrebbero essere destinate a continuare nei prossimi giorni. 

Venerdì 2 settembre è attesa a Cagliari la leader Giorgia Meloni, che terrà un comizio alle 18 in piazza del Carmine.

"Stiamo rosicando...". Donne (di sinistra) in crisi per la vittoria della Meloni. La prima premier di destra mette in crisi le donne di sinistra: "Stiamo rosicando, noi non ce l'abbiamo fatta". Ma in molte esultano per la nuova presidente: "L'articolo non conta, l'importante è che faccia bene". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.

Mentre i suoi oppositori ancora si arrovellano su articoli e desinenze, lei ha scoperto le ultime caselle di governo e già annunciato le prime misure. Si è presentata in conferenza stampa abbottonata nel solito tailleur "maschile", circondata da ministri che l’hanno chiamata come ha chiesto: "Il presidente". Giorgia Meloni non si piega ai diktat dello schwa. È l’immagine plastica di quanto sia sterile questo strano dibattito sulle parole, sui costumi, sulle movenze. Chi la vuole fermare di certo non ci riuscirà così, chi invece aspetta di vederci più chiaro prima di giudicare, oggi, ha qualche elemento in più.

In tanti la aspettano alla prova dei primi cento giorni, soprattutto le donne. Per raccogliere le loro prime impressioni, scegliamo un quartiere romano, il Trieste-Salario, dove alle elezioni del 25 settembre centrodestra e centrosinistra hanno ottenuto più o meno le stesse percentuali. "La prima donna al governo? È comunque una cosa positiva, perlomeno a livello simbolico, poi certo, essere donna non ti solleva dagli errori. Staremo a vedere se ne farà", ci dice una mamma sulla trentina. "Il linguaggio è importante: se si facesse chiamare presidentessa non mi disturberebbe, però non mi pare una questione fondamentale", ci tiene a mettere in chiaro.

"Uomo o donna poco importa: io guardo all’intelligenza dell’individuo, mi interessa che faccia un buon lavoro", sentenzia una donna più anziana. Cosa ne pensa di chi grida al maschilismo per la scelta dell’articolo maschile? "Che è una boiata, quella che esercita è una funzione neutra", risponde. "Il presidente, la presidente, la presidentessa, alla fine sempre quello è", sintetizza un'altra signora. Ma c’è pure chi sposa in pieno la linea Boldrini, intravedendo nella scelta linguistica del presidente oscuri presagi per la libertà e i diritti delle donne. È il caso di una ventenne: "È una firma, ci dice già che non porterà avanti la rivoluzione femminista".

Il fatto che sia donna non conta, oppure vale fino a un certo punto. Ed è davvero singolare dopo le battaglie per le quote rosa. Anni ed anni ad anteporre il genere al merito, e adesso che Giorgia Meloni è al governo le femministe ingranano la retro: "Non basta che sia donna. È Giorgia Meloni, espressione della destra più reazionaria", prosegue la nostra interlocutrice. Sarà mica che stanno rosicando? La risposta di una coetanea è all'insegna della sincerità: "È vero, stiamo rosicando, perché in tutti questi anni non siamo riuscite a fare altrettanto". "D'altronde - aggiunge - se pensiamo a che punto è lo stato del dibattito su questo tema nei principali partiti di sinistra, un epilogo di questo genere non stupisce".

In effetti, vista da altre latitudini la presenza di una donna al vertice delle istituzioni è letta come un segno di progresso. "Penso sia un passo avanti per l’Italia, noi ne abbiamo avute già tre di premier, in tutto il mondo è una cosa normale", spiega una donna inglese. La questione terminologica non riesce proprio a capirla: "Francamente, con tutti i problemi che ci sono, non credo ci si debba mettere a discutere per un articolo".  

Femministe contro Libero: ci insultano perché scriviamo "Giorgia". Claudia Osmetti Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022

Da «Sputiamo su Hegel» a «sputiamo su Libero». C'è qualcosa che non va. E non va in una parte (mica nel tutto, ma poi ci arriviamo) del femminismo tricolore che sì, avrebbe dovuto essere in prima fila ad applaudire l'entrata a Palazzo Chigi di una donna e invece no, proprio non gli va giù che sia Giorgia Meloni.

Arrivano -i -fasci, una -giornata-triste, su su fino a tacciare di maschilismo (sì, di maschilismo) chi se ne fa un vanto. Lo rivendica. Lo scrive e lo colora (di rosa), perché sabato scorso è stata per davvero una ricorrenza storica, dopo 76 anni di premier con la cravatta e di politica fatta e decisa e pensata solo dagli uomini. Eppure apriticielo. Se provi a farlo notare parte il cancan sguaiato di chi ti accusa di «perpetuare il patriarcato travestito» (le virgolette si riferiscono a uno dei tanti commenti che rimbalza sui social).

DI DESTRA...

Su Instagram la pagina "ladonnaacaso" ci incolpa, nell'ordine: uno) di aver riferito che «per la prima volta alla guida del governo c'è una donna»; due) di aver usato l'articolo determinativo davanti al nome («La Meloni si gioca tutto»); tre) di aver optato per una scelta cromatica che si usa «per le femminucce» e quattro) nientepopòdimeno che di «cuginismo». Qualsiasi cosa voglia dire.

E pazienza se la notizia, tre giorni fa ma anche oggi e sarà lo stesso tra tre giorni, è esattamente quella: che «una donna» (non una a caso, ma pur sempre una donna), finalmente, è diventata presidente del Consglio. Viene da sospettare che il problema in realtà sia un altro, e cioè che si tratti di «una donna di destra».

I VERI PROGRESSISTI

Ma allora lor signore dallo sdegno facile (e a senso unico) si dovrebbero fare una breve carrellata storica perché da Margaret Tatcher ad Angela Merkel, da Condoleezza Rice a Golda Meir, sono i partiti conservatori che arrivano laddove quelli progressisti tanto blaterano e poi s' impantano. Segno che, forse forse, le quote rosa non funzionano granché e che la sinistra di mezzo mondo, se fosse seria la metà di quanto s' incensa, dovrebbe prenderne atto.

Per tutto il resto non vale la pena di ribadire che il termine "femminucce" noi non lo abbiamo mai usato (com' è che dice, la saggezza popolare? Che la malizia è spesso nelle orecchie di chi ascolta piuttosto che nella bocca di chi parla?). Mentre sul fronte del "cuginismo", espressione che non è manco presente nei tomi della Treccani, qual è il problema? La freccetta che, sui social, lo indica punta a un articolo di Renato Farina dal titolo: «La cavalcata di Giorgia dalla Garbatella al potere». E allora? È andata così: magari è il nome proprio, questa volta che disturba? Ma basta sfogliare una qualsiasi edizione di Libero per accorgersi che un identico trattamento è riservato agli uomini (una su tutte, l'apertura del 19 ottobre: «Silvio, fermati»). Niente. Un certo femminismo (ci siamo arrivati) quello dell'uguaglianza a tutti i costi, rimugina, rosica e si fa prendere dall'ideologia. E non ha ancora imparato la lezione delle "compagne" che, negli anni Settanta, avevano capito che "differenza" non è una parolaccia, che le diversità sono arricchimento e ignorarle è un errore. Ma il discorso, a questo punto, si fa complesso: vaglielo a spiegare a quel femminismo daltonico che dice rosa e vede nero.

Per un femminismo conservatore. Se una donna di destra sia veramente una donna, se possa essere considerata femminista, se possa rappresentare un progresso per tutta quanta la condizione femminile... è un dibattito vecchio, ma di scarso senso comune. Fiamma Nirenstein il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Se una donna di destra sia veramente una donna, se possa essere considerata femminista, se possa rappresentare un progresso per tutta quanta la condizione femminile, se il fatto di sedere sulla poltrona di primo ministro produrrà un cambiamento positivo di mentalità, di ruolo, di struttura... è un dibattito vecchio, ma di scarso senso comune, come spesso i dibattiti ideologici.

È chiaro che avere una donna premier, come è stato con Indira Gandhi, con Golda Meir, con Margaret Thatcher, persino con la giocosa Sanna Marin, suscita ammirazione, emulazione, apre la mente, cambia i costumi. Induce cioè a considerare come un'indicazione di comportamento sociale quella semplice identificazione di ruoli che, detta dalla Meloni, ha creato uno strano scandalo: «Sono una donna, sono una madre».

Libera scelta, giusto? Ma già in L'origine della famiglia di Friedrich Engels e nell'Unione Sovietica, nello schiacciamento sociale e teorico delle masse di donne inquadrate nel regime e nei suoi derivati internazionali, si spiega con determinazione che la liberazione femminile è inscindibilmente connessa al cambiamento radicale, socialista, del sistema economico. Nel passato si diceva: «La liberazione della donna e impensabile senza il comunismo, e il comunismo senza la liberazione della donna». Questo modo di pensare si è sviluppato, si è trasformato in forme che collegano indissolubilmente la sinistra al femminismo, fra cui oggi quella più popolare è quella dell'«intersezionalità», per cui il gender, il colore, la preferenza sessuale - tutte identità peraltro molto egoisticamente concluse e anche razziste - si uniscono contro l'«oppressione»: Giorgia Meloni, non essendo di sinistra, è destinata per forza a essere oppressore, non un'oppressa. Che sia una donna energica con proprie scelte autonome conservatrici, risulta più che discutibile, direi insopportabile.

Le contraddizioni sono palesi: le grandi conferenze internazionaliste di sinistra, sulla scia dell'internazionalismo socialista, gloriosamente palesavano donne la cui condizione, in società islamiche, sudamericane, africane, mediorentali, era di oppressione, di sofferenza: ma della loro cultura non si parlava né si parla, solo del colonialismo e dell'imperialismo. Da quelle conferenze, le donne israeliane, femministe di kibbutz, scienziate e artiste, o le americane, venivano cacciate via e sbeffeggiate. Da altre donne, che si fregiavano del titolo di femministe e - paradossalmente - pacifiste.

Oggi, quando si nega alla Meloni la sua caratteristica di donna fra le donne perché è di destra, si ribadisce il pregiudizio che non possa esistere un femminismo liberal-conservatore, che invece ha espresso leader politiche, pensatrici, accademiche. Ma attenzione: la metà «liberal» è importante. Perché anche tra i conservatori deve vigere il rispetto per la diversità e la libera scelta, le proprie rispettabili scelte religiose non possono sconfinare nel restringimento della libera scelta altrui: la famiglia tradizionale, la maternità tradizionale sono bellissime cose, ma ormai si sono legittimati tanti modi di esistere. E meno male che è così. Lasciamo agli ayatollah le punizioni sui comportamenti personali, dato che la libertà è la prima scelta del conservatore.

"Chiamatemi 'il premier'". La Rai si ribella. Il sindacato ai giornalisti: "Usate il femminile, no alle imposizioni". Luigi Mascheroni il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Alla fine Giorgia Meloni è l'Uomo forte che l'Italia aspettava da tempo.

Nulla di strano - anzi, scelta legittima e grammaticalmente ineccepibile - che chieda di farsi chiamare il Presidente del Consiglio. Le femministe che volevano sfondare, a sinistra, il soffitto di cristallo - la barriera invisibile che impedisce loro di raggiungere le cariche più alte - se ne faranno una ragione. Anche l'Accademia della Crusca ha avvallato la decisione: si può utilizzare il femminile per riferirsi a cariche ricoperte da donne, ma chi preferisce le forme tradizionali maschili può farlo (la grammatica non è un affare di «quote rosa», ma di regole).

Aperta parentesi storica: la dem Laura Boldrini ha sempre rivendicato l'uso del femminile da Presidente della Camera, ma Giorgio Napolitano quando si riferiva a lei, utilizzava il maschile. Chiusa parentesi.

Scegliere una parola al posto di un'altra è sempre un gesto politico, e lo si è visto subito, con le nuove denominazioni di alcuni ministeri. Ed è da tanto che le battaglie politicamente correttiste passano dal linguaggio di genere. C'è chi pretende di sostituire «padre» e «madre» con «Genitore 1» e «Genitore 2», e chi preferisce aggiungere al Ministero della famiglia la parola «natalità».

L'identità di un partito passa anche dalle parole.

Poi ci sono gli ostruzionismi ideologici. Appena Giorgia Meloni ha dichiarato che per le comunicazioni ufficiali userà il maschile «il» e non «la» Presidente, il sindacato della Rai è insorto. «Ricordiamo che il contratto Rai contiene al proprio interno il Manifesto di Venezia che fa preciso riferimento al linguaggio di genere, e che la policy aziendale indica di usare il femminile lì dove esista», ha spiegato l'Usigrai.

Insomma il sindacato Rai di fatto sta dicendo che Giorgia Meloni è libera di chiedere di essere chiamata come vuole, ma «altra cosa è il racconto giornalistico». E quindi non soltanto «nessun collega può essere obbligato ad usare il maschile», «anzi i giornalisti Rai sono tenuti a declinare al femminile i nomi». E quindi la sanzione: «Ordini di servizio o indicazioni in senso contrario verranno contestati dal sindacato nelle sedi opportune. Chiediamo alle colleghe (prima le femmine e i femminili, ndr) e ai colleghi (poi i maschi e i maschili, ndr) di segnalarci eventuali violazioni» (siamo alla delazione...).

Del resto, è curioso: a chiamarla «la» Presidente saranno proprio coloro che non vogliono accettare che la vittoria di Giorgia Meloni sia anche una vittoria per le donne.

Da adnkronos.com il 24 Ottobre 2022.

"Giorgia Meloni è una donna unica nella storia d'Italia: invece di piagnucolare per le quote rosa ha preso il timone di una nave che affonda e naviga con le idee chiare". Non usa giri di parole Tinto Brass, il maestro del cinema erotico italiano, per commentare con l'AdnKronos l'inizio del nuovo governo guidato dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. 

"La sinistra - rileva Brass - ha tradito le donne. Allora io preferisco parlare con Giorgia piuttosto che con Letta o Renzi, forse perché alla inettitudine prediligo il coraggio". Oggi, fa notare il regista, tornano parole come Dio, patria e famiglia, "valori in nome dei quali tutti i miei film, 29 su 30, sono stati censurati.

Fascismo? Non è la parola giusta. E' del tutto naturale che movimenti reazionari guadagnino spazio in questo momento di crisi. Sono loro la migliore espressione della disperazione di un popolo. Ma chi preferisce dare spazio a politiche identitarie invece che accogliere le differenze può provocare enormi violenze ed esserne travolto. Lo sappiamo come va a finire, sono le dinamiche del potere ma per questo bisogna aspettare un po'". 

Quanto ai nuovi dicasteri, "scorrendo la lista leggo che c'è il ministero della Famiglia, Natalità e Pari opportunità...ma cara Giorgia - dice ironico Brass - per incentivare la natalità non sono necessari dei bonus o dei voucher: la sera basta proiettare i miei film erotici in tutte le sale italiane con ingresso gratuito".

Meloni premier fa l’Italia più “progressista” e mette in crisi visione e metodo di sinistra: ecco perché. Carmelo Briguglio su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.

Giorgia Meloni mette in crisi la cultura della sinistra. E certo, figuratevi se non capisco l’effetto della botta dalla quale il fronte progressista si deve riprendere. L’Usigrai e la “resistenza determinativa” a “il” in nome del “lei” sono un sintomo di reazione alla Reazione; d’accordo, leggero e ridévole, direte. Invece, é meno soft di quanto immaginiate. Riflettete e analizzatela: non é crisi solo politica. É transpolitica: culturale, estetica; é storica. Taglia alle radici la “ragione” dell’essere progress. Se la prima donna nella storia d’Italia a diventare capo del governo italiano é di destra, la questione é più profonda; mette in discussione non solo e non tanto l’attuale o le attuali leadership della sinistra, ma tutta la sua storia nel dopoguerra; ne interroga in modo traumatico percorso, visione e metodo. 

Giorgia Meloni mette in crisi la cultura della sinistra

E ne fa vacillare – é questo su cui richiamo il vostro pensare – le “politiche dei diritti”, quelli di nuova generazione: l’uguaglianza sostanziale, le politiche di genere, ossia i quark del suo universo valoriale. Insomma mette in dubbio che la “rive gauche” sia tuttora tra «queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive» del nostro conte-poeta Giacomo. L’ingresso della Meloni a Palazzo Chigi incide crepe nella “loro” simbologia, col suo incrocio di significati e luoghi generatori di senso; fende architetture verbali e formali: spesso solo astrazioni intellettualistiche con scarsa adesione alla realtà. Che sono state costruite sulle politiche di genere, sulla condizione femminile, su parità e pari opportunità; con tutto il seguito di eccessi in legislazioni e assessorati ad hoc; di progettualità pseudo-filosofiche: il non poco di sovrastrutture di immagine e superficie.  

La Meloni emancipa l’Italia anche sul “loro” terreno

Una psicosfera sopraffatta dal principio di realtà che si invera così: la conservative Meloni, diventando presidente del Consiglio, emancipa l’Italia, anche sul “loro” terreno: la rende più “progressista”. E, qualche minuto di attenzione, intendo in quel campo tanto contemporaneo ed “europeo”, qual é quello del Genere. Come, perché ? Ah, ragazze e ragazzi miei: quanto ancora devo scrivere per farvi comprendere la rupture-radicale – eh sì, radicale – di questa svolta? Quanti tasti e quante volte devo ancora pigiare ? Non lo sapete ? Ecco qua. Nell’indice Eige sull’uguaglianza di genere 2021 l’Italia ha un punteggio di 63,8 su 100; siamo sotto la media europea: solo al 14° posto tra i 27 Stati membri dell’Ue. Siamo più giù dei maggiori Paesi dell’Unione: Francia, Germania, Spagna. E molto lontani da quelli del Nord Europa, naturalmente. Un altro minuto per dare uno sguardo al mondo; guardate un po’ qui: l’analisi 2021 del World economic forum sul Global Global Gender  Gap – “Gender” non vi piace eh, ma dài non siate sospettosi –  l’Italia é 63esima su 156 Paesi. 

La dea Uguaglianza e le disparità italiane

Hanno misurato la nostra disparità di genere nel campo della politica, dell’economia, dell’istruzione e della salute, chiaro ? Lascio perdere i primi della classe, i soliti “nordici”; ma, cavolo, siamo il fanalino di coda – ultimi dati, giuro, poi vi lascio in pace – tra i Paesi europei: la Germania é all’11° posto, la Spagna al 14° posto, la Francia al 16°, il Regno Unito al 23°.  Mi fermo: le statistiche sono dure da ingoiare, sono fredde e in questo caso pure negative. Ma aiutano a ragionare. E passo a un filone parallelo, dove volevo portarvi. Alla Costituzione. Ah, quanto fu e viene evocata, “contro”. Occhei, ci sto. 

L’articolo 51 della Costituzione: attuarlo ora é più facile

Ma, ricordate l’articolo 51 della Carta più bella del mondo che dice? Ripassiamone il primo comma: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Ricordate quando fu cambiato? Ve lo dico io: nel 2003 con voto bipartisan, a larga maggioranza (era premier Berlusconi); la legge costituzionale n. 1 vi aggiunse il secondo periodo della norma. Vi risparmio tutto il “giuridico”, le sentenze della Consulta et cetera.

Da Giorgia Meloni la più puntuale attuazione della Costituzione

E andiamo al punto politico: in venti anni, abbiamo fatto qualche passetto in avanti, ma – vedi i numeri sopra – siamo tuttora “arretrati”, per dire: la Dea Uguaglianza sta male in Italia. Ma – vedi un po’ tu che scherzi combina l’eterogenesi dei fini – il prossimo anno solo il fatto che una donna sia diventata capo del governo, ci farà scalare molte posizioni in quelle graduatorie planetarie. Certo numeriche, ma anche “culturali”; di considerazione tra istituzioni internazionali che a questo tipo di “cultura” guardano; con cui ci pesano come Nazione.

Le classifiche mondiali diranno che l’Italia é diventata più moderna, più progressista, più al femminile, più paritaria

Diranno – a denti larghi o stretti, non vi so dire – che l’Italia é diventata più moderna, più progressista, più al femminile, più paritaria: più quello che vi pare, ci siamo capiti. E soprattutto – seconda conclusione – é la Meloni a “fare” la più puntuale attuazione della Costituzione e di quell’articolo 51. Con la sua persona: ne sarà la metafora viva; modello e stimolo per tutte le italiane. Nella società e nelle istituzioni. Oltre la destra e la sinistra. Chi lo doveva dire? E sì, la storia delle idee si prende le sue rivincite; lo sapevate, no? 

L’incredibile accusa della Boldrini: “Il partito della Meloni doveva chiamarsi Sorelle d’Italia”. Marta Lima su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.

Nelle ore in cui infuria la polemica delle femministe di sinistra contro Giorgia Meloni, che non si piega al linguaggio di genere imponendo a tutti di chiamarla “il presidente” e non “la presidente”, scende in campo con una delle sue inimitabili sciocchezze l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che si spinge oltre ogni immaginazione, sostenendo che il partito del nuovo premier è maschilista e dovrebbe chiamarsi “sorelle d’Italia” e non solo “Fratelli”.

La Boldrini oltre ogni limite: critica la Meloni per il nome del suo partito

Ieri anche l’Accademia della Crusca si era espressa in maniera categorica: la Meloni può farsi chiamare come vuole, come aveva spiegato il presidente Claudio Marazzini all’Adnkronos, secondo cui non si può interpretare il maschile non marcato come un errore di grammatica: “Chi preferisce le forme tradizionali maschili ha diritto di farlo”.

Nonostante tutto, Laura Boldrini, oggi, sulla sua pagina Twitter, ha scritto cose deliranti: “La prima donna premier si fa chiamare il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare anche nella lingua il suo primato. La Treccani dice che i ruolo vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FdI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?”.

L’ironia di Fratelli d’Italia e della rete

L’unico commento politico, al momento, è quello del deputato di FdI Andrea Del Mastro, glaciale: “La psicopolizia del linguaggio”.

In rete, invece, sulla stessa pagina della Boldrini, si va di sfottò e di rabbia: “Io voto a sinistra, mannaggia a me, ma quando leggo queste stronzate non mi stupisco che al governo ci si la destra”.

“Per la legge io sono il ‘medico veterinario responsabile di…’ e a me, da donna, va benissimo Per inciso ‘la veterinaria”‘ invece è il nome scelto da diverse farmacie che vendono esclusivamente farmaci veterinari”.

“Anche per l’inno nazionale è troppo. Che dice il treccani (o la treccana) sul primato di Mameli?”.

“Non è che ora riesce fuori la roba della Matria al posto della Patria, vero?”.

“Avanti così con queste cazzate facciamoli arrivare al 50% dai che la strada è giusta”.

Il Papa: «La famiglia è fatta da un uomo e una donna che creano. Le ideologie distruggono tutto». Valeria Gelsi  su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022. 

Il Papa è tornato a puntare l’indice contro le ideologie che «rovinano» e «fanno una strada di distruzione». Stavolta l’ha fatto parlando della famiglia che, ha avvertito, «non è un’ideologia, è una realtà», «fatta di un uomo e di una donna che si amano e creano». È partendo da qui, dunque, è stato il monito del Pontefice, che «la cultura della fede è chiamata a misurarsi, senza ingenuità e senza soggezione, con le trasformazioni che segnano la coscienza attuale dei rapporti tra uomo e donna, tra amore e generazione, tra famiglia e comunità».

Il Pontefice racconta «la più bella teologia sulla famiglia»: una coppia sposata da 60 anni

L’occasione per tornare a riflettere non solo sulla famiglia, ma sulla portata distruttiva delle ideologie è stata per Bergoglio l’udienza con la Comunità accademica del Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia. «Per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto: le ideologie rovinano, si mischiamo e fanno una strada di distruzione. Non dobbiamo aspettare che la famiglia sia perfetta, per prenderci cura della sua vocazione e incoraggiare la sua missione», ha detto il Papa, raccontando a braccio un aneddoto di «quando facevo il saluto in piazza prima della pandemia». «È venuta una coppia, sembravano giovani: 60 anni di matrimonio. Lei a 18, lui a 20… “Non vi annoiate dopo tanti anni? State bene?”. Si sono guardati, se ne sono andati e sono tornati un’altra volta. Piangevano: “Ci amiamo”. Dopo 60 anni. Questa – ha sottolineato il Papa – è la più bella teologia sulla famiglia che ho visto».

«Noi non siamo profeti di sventura, ma di speranza»

«La missione della Chiesa sollecita oggi con urgenza l’integrazione della teologia del legame coniugale con una più concreta teologia della condizione famigliare», ha spiegato Bergoglio, sottolineando che «le inedite turbolenze, che in questo tempo mettono alla prova tutti i legami famigliari chiedono un attento discernimento per cogliere i segni della sapienza e della misericordia di Dio». «Noi non siamo profeti di sventura, ma di speranza. Perciò, nel considerare i motivi di crisi, non perderemo mai di vista anche i segni consolanti, a volte commoventi delle capacità che i legami famigliari continuano a mostrare: in favore della comunità di fede, della società civile, della convivenza umana. Tutti abbiamo visto quanto siano preziose, nei momenti di vulnerabilità e di costrizione, la tenacia, la tenuta, la collaborazione dei legami famigliari». «Molto, in questa società piena di crepe, dipende dalla ritrovata letizia dell’avventura famigliare ispirata da Dio», ha osservato il Pontefice.

Il Papa: «La famiglia non è un’ideologia, è una realtà»

«La qualità del matrimonio e della famiglia – ha detto ancora Francesco – decide la qualità dell’amore della singola persona e dei legami della stessa comunità umana. È perciò responsabilità sia dello Stato sia della Chiesa ascoltare le famiglie, in vista di una prossimità affettuosa, solidale, efficace: che le sostenga nel lavoro che già fanno per tutti, incoraggiando la loro vocazione per un mondo più umano, ossia più solidale e più fraterno». «Dobbiamo custodire la famiglia ma non imprigionarla, farla crescere come deve crescere. Stare attenti alle ideologie che si immischiano per spiegare la famiglia dal punto di vista ideologico. La famiglia non è un’ideologia, è una realtà. E una famiglia cresce con la vitalità della realtà. Ma quando vengono le ideologie a spiegare o a verniciare la famiglia succede quello che succede e si distrugge tutto. C’è una famiglia che ha questa grazia di uomo e donna che si amano e creano, e per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto, non alle ideologie».

Comunismo e femminismo pari sono: ecco perché la premier donna agita la sinistra. Francesca De Ambra  su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022. 

È prima volta di una donna a Palazzo Chigi, ma le vestali del femminismo si bardano a lutto: «Una di noi Giorgia Meloni? Jamais». Diversamente, ragiona Laura Boldrini, oltre ai Fratelli avrebbe evocato anche le Sorelle d’Italia. Non fa una piega. E non è tutto: sull’Huffington Post la comunista Ritanna Armeni ha fatto un po’ di conti, concludendone che con sei donne ministro su 24 hai voglia a parlare di politiche al femminile. Persino se chi dirige l’orchestra è pure lei donna. E poi ci sono quelle storcono il naso per il “retaggio culturale missino” o alzano il sopracciò per il mancato “passato femminista“. Insomma, da qualunque parte la si guardi e da qualsiasi lato la si giri, la Meloni ha non è né mai sarà (meno male) una di loro.

Il patriarcato ha sostituito il padronato

E si capisce: predilige autodefinirsi “il premier” anziché “la premier” (con evidente disappunto dell’Usigrai, il sindacato simil-sovietico dei giornalisti Rai), “il presidente” piuttosto che “la presidente“, buttando così alle ortiche decenni di “conquiste“, soprattutto boldriniane. Ma tant’è: la Meloni è per la complementarità uomo-donna, le femministe doc si battono invece per la demolizione del patriarcato come nuovo simbolo, anzi reincarnazione, del padronato. Il sovvertimento degli equilibri è infatti il punto in cui comunismo e neo-femminismo s’intrecciano fino a fondersi.

Il femminismo surrogato della lotta di classe

Anzi, si può ben dire che il secondo sia divenuto il surrogato del primo. Laddove il comunismo ha perso la sua battaglia contro il capitalismo, è spuntato il nuovo femminismo a fare da contrappunto ad un insistente patriarcato, inteso come nuovo strumento oppressivo. Dalla lotta di classe alla guerra dei sessi. Robe da Ztl. Infatti la sinistra radical-chic non parla d’altro. Non per caso scarica la propria úbris sovversiva sulla cosiddetta questione di genere. E anche con grande compiacimento dei padroni del vapore, cui non sembra vero poter approfittare di una sinistra in tutt’altre faccende affaccendata per fare il proprio comodo nel campo dei diritti sociali e del lavoro. Almeno fino a quando non arriva qualcuno a dare voce alle istanze reali della gente in carne e ossa. Esattamente quel che in Italia ha fatto Giorgia Meloni.

Da liberoquotidiano.it il 24 Ottobre 2022.

Anche Alessandro Di Battista si scaglia contro Laura Boldrini. Lo scivolone della deputata del Partito democratico sul presidente del Consiglio Giorgia Meloni scatena l'ex Cinque Stelle. È lui, con un tweet, a ridicolizzare la paladina delle donne. "Sono queste potenti prese di posizione - cinguetta - che ci spiegano perché il primo premier donna è di FdI e non del Pd (ed io la Meloni non la voterei mai nella vita). Se questa sarà l’opposizione senza sconti annunciata da 'occhi di tigre' Letta prepariamoci al ventennio meloniano". 

D'altronde la Boldrini ha promesso battaglia, o come piace a loro "resistenza", all'articolo maschile scelto dalla neo premier. "La prima donna premier - ha scritto su Twitter - si fa chiamare al maschile, il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare nella lingua il suo primato? La Treccani dice che i ruoli vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FDI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?". 

Ma in queste ore Dibba non è stato l'unico a far notare alla dem di aver commesso una tragicomica gaffe. Prima di lui sulla questione è intervenuto il presidente Claudio Marazzini.

"Io non credo che qualcuno possa cercare di 'imporre' complessivamente ai giornalisti italiani la propria preferenza linguistica - ha detto il presidente dell'Accademia della Crusca - In presenza di un'oscillazione tra il maschile e il femminile, determinata da posizioni ideologiche, penso che ognuno possa e debba mantenere la propria piena libertà di espressione, optando di volta in volta per il maschile o per il femminile, in base alle proprie ragioni". Da qui la lezione alla Boldrini: "Il presidente Meloni? Nulla di strano, è corretto". E se lo dice la Crusca, c'è da crederci.

Dal centrosinistra i complimenti delle donne a Meloni: «È tutto quello che non siamo». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

Chiara Geloni, Elisabetta Gualmini e Alessia Morani applaudono il risultato della leader di FdI e di come lei sia riuscita a farcela «senza meccanismi di cooptazione»

Apprezzamenti anche da esponenti del mondo del centrosinistra per la neo premier Giorgia Meloni. A farli sono state tre donne, che hanno aderito o tuttora aderiscono al Pd, con parole dirette e cariche di autocritica. A esprimerle la giornalista Chiara Geloni, ex direttore del canale tv Youdem, un tempo vicina al segretario Pier Luigi Bersani di cui è stata portavoce e poi in rottura con il partito durante la leadership Matteo Renzi, che ha scritto su Twitter: «Ma basta con questa storia della prima donna. È molto di più della prima donna a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni. È una donna con un curriculum di partito e di origini familiari modeste che a 45 anni arriva a Palazzo Chigi. È una che arriva a fare la presidente del Consiglio partendo dall’organizzazione giovanile del suo partito. È tutto quello che non siamo a sinistra». Quindi la frecciata: «È il contrario del politicamente corretto da fighetti tanto bravi a declinare le desinenze. È il contrario di entrare nel gruppo dirigente per aver azzeccato un discorso contro il gruppo dirigente che è piaciuto ai giornali. È il contrario dell’eterno papa straniero in arrivo. E per questo è una storia che parla alle bambine e ai bambini di questo Paese. Scusate lo sfogo».

Complimenti misti ad autocritica anche da Elisabetta Gualmini, eurodeputata pd e da pochi giorni vicepresidente dell’Eurogruppo socialisti e democratici, che via Facebook ha scritto: «In bocca al lupo e complimenti a Giorgia Meloni per l’incarico ricevuto e accettato. Prima donna presidente del Consiglio in Italia. È arrivata lì senza meccanismi di cooptazione. Andrebbe fatta una vera riflessione. Possiamo dire che è un vero e proprio smacco per il centro-sinistra e la cultura cd. progressista? Sì, possiamo dirlo».

A Twitter e Instagram si è affidata poi Alessia Morani, ex deputata ed ex sottosegretaria allo Sviluppo economico con Giuseppe Conte premier, prima scrivendo: «Complimenti a Meloni. Sulla catastrofe del Pd e del centrosinistra ne parleremo diffusamente». Poi sottolineando: «Sono lontana anni luce politicamente e culturalmente da Giorgia Meloni, ma vedere tutti quei maschi dietro di lei (Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Antonio Tajani, ndr) con quelle espressioni tra il fastidio e l’imbarazzo dà una certa soddisfazione. Questa immagine cambia la storia del nostro Paese. Finalmente una donna che “guida”. Ps: guardate le espressioni dei singoli».

L'ex Procuratore Aggiunto. Gli auguri di Ilda Boccassini a Giorgia Meloni: “Che non viva quello che ho vissuto io”. Redazione su Il Riformista il 24 Ottobre 2022 

Ilda Boccassini espresso i suoi auguri alla nuova Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Che non viva ciò che ho vissuto io”, ha detto l’ex procuratore aggiunto della Repubblica intervenuta ieri sul palco de L’Eredità delle Donne, il festival sulle competenze femminili in corso a Firenze. L’ex magistrata italiana è stata intervistata dal giornalista e scrittore Gad Lerner.

Boccassini ha cessato il suo incarico nel 2019. Ha ripercorso la sua carriera in un libro pubblicato l’anno scorso dall’editore Feltrinelli, La stanza numero 30. Quando nel 1979 arrivò alla Procura di Milano Il Corriere della Sera scrisse che “il lavoro inquirente poco si adatta alle donne: maternità e preoccupazioni familiari male si conciliano con un lavoro duro, stressante e anche pericoloso”. Ha lavorato con Giovanni Falcone nell’indagine sulla mafia a Milano Duomo Connection e sugli attentati allo stesso Falcone e al giudice Paolo Borsellino.

Al ritorno a Milano dalla Sicilia è subentrata nel pool dell’inchiesta Mani Pulite ad Antonio Di Pietro e ha diretto indagini sulle Nuove Brigate Rosse. Soprannominata Ilda “la rossa” ha lavorato ai processi a Berlusconi. A Imi-Sir, Lodo Mondadori, Toghe sporche e fino al cosiddetto caso Ruby. “Quando sono usciti i ministri ho avuto un momento di vertigine – ha detto al Festival Boccassini – . Mi sono ritrovata con più di undici, dodici, tredici persone, tutti, dal sottosegretario alla presidenza, ai ministri, tutti si erano occupati di me. Quindi non so se dovrei essere orgogliosa oppure se anche in pensione temere”, ha aggiunto con ironia.

Lerner le ha quindi chiesto dell’“ascesa a Palazzo Chigi di una donna, Giorgia Meloni, che viene da un mondo all’interno del quale a essere gentili, la tradizione ‘virilista’ è piuttosto affermata”, la domanda del giornalista. “Premesso che come buona cittadina non posso che augurarmi che questo governo duri perché sennò andiamo in una crisi profonda. L’altro giorno guardavo la scena del compagno con la figlia mentre lei giurava,: quelle immagini mi hanno fatto tenerezza”.

“Io quindi non so che cosa ci aspetterà il futuro, che cosa sarà in grado di fare – ha aggiunto sempre su Meloni – . Ho altre idee sui diritti, io penso che su alcune cose non c’è né destra né sinistra, perché rispettare il prossimo, la solidarietà, concedere alle donne di abortire in maniera più pacata possibile di un trauma, perché è un trauma comunque l’aborto, sono valori che non appartengono a un partito politico. Però ritengo che siamo una democrazia con tutte le possibilità di difendere i nostri diritti”.

“Però vedere queste immagini mi ha fatto tenerezza, non so come spiegare ma guardavo più a questo. Spero che io non viva quello che ho vissuto io, considerati gli attacchi che ha subìto negli ultimi giorni. Mi auguro per lei che sia forte, perché bisogna essere forti, poi si può affrontare qualsiasi cosa. È dura però è bello, io alla fine oggi mi dico: è stato duro però è la mia vita. Si sbaglia, si riprende”.

Se le donne di sinistra scoprono di odiare il potere quando perdono il potere. Tra le formule più amate dai bambini ce n'è una che serve a cambiare le regole d'ingaggio nei giochi di ruolo. "Facciamo che..." Valeria Braghieri il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tra le formule più amate dai bambini ce n'è una che serve a cambiare le regole d'ingaggio nei giochi di ruolo. «Facciamo che...». «Facciamo che... adesso io sono una sirena e ho una lunga coda ricoperta di squame e allora abito negli abissi ma mi sono innamorata di un marinaio»; «facciamo che... adesso io sono un poliziotto e allora ho le manette, la pistola, il distintivo e vengo ad arrestarti perché tu sei un ladro e hai rubato le caramelle».

«Facciamo che... adesso Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio e allora le donne decidono che il potere non interessa più. Che è meglio essere libere piuttosto che potenti». Le donne a cui non interessa più giocare, a gioco ormai perso, sono ovviamente quelle del Pd. E attorno al nuovo ruolo del partito, il quotidiano la Repubblica ha aperto un dibattito a puntate. Un susseguirsi di importanti interventi raccolti giorno dopo giorno sotto l'autoincensante occhiello «Idee». E dai quali, ci pare di capire, a questo punto della storia si cerca disperatamente di cambiare le regole d'ingaggio. Anche le donne di sinistra, superate a destra «da quella di destra», tentano di mettere ordine nello sgomento, di riorganizzare la sconfitta: dalle stesse colonne dello stesso quotidiano.

Ieri, dopo anni di battaglie per le quote rosa, la parità di genere, le pari opportunità, le piazze infuocate, i consigli d'amministrazione occupati, contrordine compagne. Sapete cosa c'è di nuovo? «Facciamo che...» il potere (che non abbiamo più) non ci interessa più.

«Il potere non porta da nessuna parte», «Toglie libertà, sacrifica valori autentici», «C'è sempre chi ha maggior potere di chi è al potere»... Tutte citazioni da Repubblica che a sua volta cita il Blabla di Eugenio Montale, e inorridisce andando ad analizzare il vero, profondo significato della posizione «ancillare» nella società, concludendo che certo non si può relegare al grembo femminile, arginare nella sola metà del mondo. Perché ancillari non sono solo le ancelle. Si è ancillari in un sacco di modi, in un sacco di ruoli. Si è ancillari in politica tanto per cominciare. Ma anche quello, al Pd, non è servito a nulla. Alle donne del Pd, tanto meno.

«Facciamo che...» non si ancilla più. Tanto è inutile, faticoso, umiliante e non porta da nessuna parte. Ora si sta perennemente a schiena dritta, si schifa il potere, ci si sfila dalle logiche millenarie e soprattutto si dismettono le cause femminili.

«Facciamo che...» avete perso, ma imparate lo stesso a rimanere composti.

Io sono Cordelia. Meloni è una donna forte, ma le femmine vittimiste non se ne sono ancora accorte. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

La prossima premier conosce le regole del gioco della politica e ce ne farà dono. Non ha tempo per le lagne, e pazienza se re Silvio si sarebbe scelto un altro erede: ha vinto lei, decide lei

Verrà il giorno in cui Giorgia Meloni ne sbaglierà una (più di una, in più di un giorno, immagino); neanche venerdì, però, è stato quel giorno.

Non so come siano, in queste settimane, le vostre schermate di messaggi. Le mie sono quasi tutte composte da un qualche vecchio video di Giorgia Meloni, commentato da chi invia e chi riceve con analoghi «Ma come abbiamo fatto a non accorgercene prima».

Ho una scusa: erano quasi tre anni che non guardavo la televisione. Avevo smesso al principio della pandemia, quando il contagio era diventato l’unico tema di conversazione, il tema meno interessante nella storia del mondo. Guardereste un palinsesto la cui trama consiste nel dirvi di lavarvi bene le mani?

Tuttavia non è una scusa sufficiente. Alcuni dei più illuminanti video di Giorgia Meloni, alcuni di quelli in cui dimostra d’essere una che sa fare benissimo l’unica parte di sicuro consenso oggi, quella sono-proprio-come-voi, vengono da Belve, programma del quale fu ospite nel 2018: era prima che decidessi che, se i virologi erano le nuove soubrette, io preferivo leggere un buon libro; eppure non l’avevo vista. Come ho potuto essere così distratta?

Venerdì, quando Giorgia Meloni è diventata Cordelia in un universo in cui Re Lear è Silvio Berlusconi (l’universo che ci possiamo permettere), abbiamo assistito a uno spettacolo di cui Shakespeare ci aveva privati: la ribellione di Cordelia.

Ha scritto Concita De Gregorio che il ribaltamento di ruoli è imprevisto a destra come a sinistra: entrambe collocazioni dove, se hai i gameti sbagliati, solo damsel in distress puoi essere. Solo in tailleur puoi stare, e solo gli ottusi credono che quello degli abiti sia argomento secondario.

Mai come in questi giorni, in cui sembra non avessimo mai avuto una beghina per presidente della Camera, penso ai tailleur di Irene Pivetti, a quel disastro estetico causato dagli anni Ottanta, dagli spot dello shampoo ma pure da capolavori come Una donna in carriera, che è il cliché delle donne di potere; donne di potere nessuna delle quali, fino a Kamala Harris, ha più osato vestirsi come una donna normale.

Due mesi fa, al Meeting di Comunione e Liberazione, Giorgia Meloni aveva una gonna a pieghe verde, e tutte quelle con uno straccio di spirito d’osservazione hanno pensato: ma quindi si può. Si può vestirsi normalmente e vincere le elezioni, invece di perderle coi tailleur pantalone di Hillary Clinton.

Quando Silvio Berlusconi ha tenuto a farsi fotografare con gli appunti che spiegavano quanto l’avesse deluso Cordelia, nessuno gli ha chiesto come potesse essere accaduto, «l’amore della vostra vecchiaia, la figlia più cara e più stimata, ha dunque potuto, in sì breve tempo, commettere opra tanto rea da meritare che la spogliate fino alla nudità, che la priviate di tutti i doni di cui la vostra tenerezza l’avea rivestita? Certo l’offesa sua deve essere contro natura, dev’essere un prodigio d’atrocità; ovvero l’affezione che le avevate qui solennemente giurata, si è inesplicabilmente pervertita».

Certo, qualunque studioso di Shakespeare (o di Berlusconi) direbbe che, più che Cordelia, Giorgia è Regan, la figlia che tradisce: se sei maschio e tradisci, diventi il santo più importante della mia religione e la pietra su cui fondo la mia Chiesa; se sei femmina e tradisci, sei una schifosa consumata dall’ambizione.

(A proposito di schifose consumate dall’ambizione, ma se invece il parallelismo giusto fosse quello in cui la Ronzulli è Lady Macbeth? O lo è la Meloni? E se invece restiamo a Lear: se la Meloni è Regan, la Ronzulli è Goneril che la avvelena? Ci sono altri ruoli, per le femmine, che uccidersi l’un l’altra devastate dal sopravvenuto disamore del sovrano? Comunque Goneril alla fine si ammazza, e muore pure Cordelia: lo dico per non studiosi di Shakespeare che pensino a un lieto fine possibile per le femmine in scena).

Quindi venerdì Giorgia Meloni ha aspettato tutto il giorno, mentre giornalisti sempre più in calore bramavano un commento su quegli appunti al teleobiettivo (non) sfuggiti, mentre Ignazio La Russa diceva che erano certamente un fotomontaggio, Berlusconi taceva, e una di sinistra al posto suo avrebbe immediatamente dichiarato indignata che quell’orrido sessista non tollera d’avere davanti una donna di carattere, una donna di successo, una donna non a sua disposizione (cit. Rosy Bindi), una donna non ridotta a lista, come ti permetti, e anche voi che nei titoli scrivete «Giorgia» invece di «Meloni», schifosi patriarchi.

Giorgia Meloni non dice mai «è perché sono una donna». Non quando racconta a Francesca Fagnani che Berlusconi le ha suggerito di farsi il botulino alla fronte o che Ignazio La Russa la sgrida se non mette i tacchi; non quando Salvini e Berlusconi proprio non si capacitano che tocchi far governare lei, una pischella bionda; non quando i giornali intervistano la sua manicure. Giorgia Meloni conosce le regole del gioco e ce ne farà dono: è donna, è madre, è una che non ha tempo per le lagne, è quella che quando vince ha vinto lei e si fa come dice lei.

Quindi venerdì ha aspettato d’essere sotto tg, come sa fare la gente di potere, è uscita da un cancello, si è fatta alzare la palla da un inviato televisivo, e l’ha schiacciata come la Mimì Ayuhara che un’epoca di femmine vittimiste non sperava più di vedere. La mattina dopo, in tv, ho visto donne chiedersi sospirose se alla Meloni quella risposta fosse scappata. Ma certo: era in premestruo, era confusa, era fuori controllo. Siamo così: sempre più emozionate, delicate, non sappiamo dettare alla stampa risposte gelide come teste di cavallo.

Verrà il giorno in cui le femmine di quest’epoca saranno disposte a riconoscere una donna forte, quando la vedono. Purtroppo, neanche la settimana scorsa è venuto quel giorno.

DAGONOTA il 17 settembre 2022.

Per essere una femminista di ultima generazione, meglio se scrittrice femminista con finestra su un qualche giornale, è opportuno dichiarare due mitologie: “tutte quelle che conosco, me compresa, hanno subito almeno una aggressione” e “ho sofferto di problemi alimentari”, cioè anoressia (ndr di anoressia, quella vera, si muore: questa è l’altra, quella solo dichiarata perché fa gattamorta). Il resto lo fa l’autoreferenzialità di gruppo sorellanza-chic (“ho da consigliarvi un libro splendido di una mia amica…”) e il sostegno, o l’appartenenza, a una declinazione Lgbtq+ e assimilabili.

Chiara Tagliaferri è moglie dell’organizzatore del Salone del libro di Torino Nicola Lagioia e quindi, per vincolo matrimoniale, scrittrice anche lei. Con Michela Murgia ha scritto i libri “Morgana” ispirati agli omonimi podcast di culto della piattaforma Storielibere.fm. 

Se fosse scritto solo con la schwa il suo libro sulle “streghe viventi” sarebbe più leggibile; ciononostante è piaciuto a Teresa Ciabatti che, guarda te, lo recensisce entusiasta su “7” che, guarda te, è diretto dalla femminista in borsetta Barbara Stefanelli che, guarda te, organizza la kermesse femminista “La 27ma ora” dove, guarda te, invita Ciabatti, Gamberale, Avallone che, essendo mamme per loro “la gioia più grande adesso è essere mamme”.  Speriamo che i pargoli le tengano impegnate a scrivere di meno.

A parte la Tagliaferri, griffata collaboratrice del Festival “L’Eredità delle donne” (Serena Dandini direttrice) e autrice del podcast “Love stories” con quella spazzolona di Melissa P., Simonetta Sciandivasci, nuova penna di tacco e punta della “Stampa” di Giannini ha dalla sua un racconto pubblicato in “Brave con la lingua”, antologia al femminile sul linguaggio che determina la vita delle donne: ma perché l’allusione? Per vendere di più?

Ha scritto un brano pure nell’antologia “Di cosa stiamo parlando?” e, sfogliandolo, anche noi ci siamo chiesti: di cosa stanno parlando? Il suo romanzo “La domenica lasciami sola” fa il controcanto a Rita Pavone, che chiedeva di portarla a “vedere la partita di pallone”: Sciandivasci vuol stare a casa a vedere Grace Kelly ma non osate tirare in ballo l’attore Timothèe Chalamet.

Sulla “Stampa” di domenica scorsa l’ha conciato per le feste, manco fosse Johnny Depp in preda all’Aderall e senza un motivo: “un gran paraculo e figlio di puttana”; “il più immorale amorale ambiguo attore e forse il primo sfacciato stronzo platealmente arrivista della sua generazione”. 

Sulla “Stampa” discetta su Carla Lonzi “icona del femminismo” (in lei bisogno di autonomia, bisogno di amore, bisogno di collaborazione all’emancipazione… anche noi avremmo bisogno di tante cose), della Sanna tutta panna e di come cercare l’amore su Tinder  (“Tinder però declina sul serio, e non perché arrechi burnout, ma perché chi l’ha creato non poteva immaginare che avremmo mandato all’aria non la carnalità dell’amore ma la carnalità del corpo”: che vorrà di?).

Lei recensisce Rumiz e, nell’attesa che Rumiz recensisca lei, Chiara Valerio viene intervistata da Tersa Ciabatti (fanno tutto in casa) per “7” e, oltre a rivelare l’ossessione “per la crema Oil of Olaz” ricorda che fino dalla “prima adolescenza nella mia testa convivevano Vanna Marchi e Fleur Jaeggy, Woolf e l’elenco del telefono”: cosa c’entra la povera Virginia Woolf con gli altri? Lei appartiene a Lgbt: ha fatto coming out? “Mai dovuto. Un giorno ho detto: mi sono fidanzata con Elisabetta”.

Membro di “Nuovi Argomenti” e di “Nazione Indiana”, fu chiamata a guidare l’antisalone del libro di Torino, ovvero il Salone del Libro di Milano, naufragatissimo. È diventata editor della Marsilio e la sua collana Passaparola è la palestra per le Michela Murgia, Simona Vinci, Teresa Ciabatti e dintorni (tipo Claudia Durastanti, Beatrice Masini…). 

Coinvolte dalla “afro”-femminista Cecilia Alemani a scrivere per il catalogo sulla Biennale d’arte, sono tutte scrittrici tra di loro, insomma: non possono scriversi senza impegnare le case editrici? Dalla “27ma ora” Rcs, infine, viene la portabandiera di ogni rivendicazione Lgbtq+ Elena Tebano, che scrive sul “Corriere della sera”.

Qui è perennemente impegnata a rompere (ancora?) il soffitto di cristallo, con un occhio ad attaccare la Meloni ma senza “un’occhio” (sic!) per la grammatica italiana, almeno a giudicare dal suo ultimo intervento. Ma la lingua delle donne sarà pur più importante della lingua italiana!

Slogan anti Meloni al corteo contro la violenza sulle donne: «Ti mangiamo il cuore». Salvini: non ci intimidiscono. Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Striscioni e cori contro la premier alla manifestazione di Roma organizzata da «Non una di meno». Solidarietà di FdI e FI

Striscioni e cori contro Giorgia Meloni al corteo contro la violenza sulle donne organizzato a Roma da «Non una di meno». Alla manifestazione campeggiava un grande striscione con scritto «Fascista Meloni noi ti farem la guerra» e «Ti mangiamo il cuore». I manifestanti hanno poi intonato diversi cori contro la presidente del Consiglio, tra cui «Meloni fascista sei la prima della lista». «Siamo state identificate dalla polizia che ha tentato di toglierci lo striscione. Ma noi lo rivendichiamo», dicono le manifestanti che tenevano uno degli striscioni con slogan contro la presidente del Consiglio.

L’attacco a Meloni ha scatenato la polemica politica. Alla premier è arrivata la solidarietà di Fratelli d’Italia e Forza Italia. «Non sorprendono più le continue manifestazioni di odio e violenza nei confronti di Giorgia Meloni, rea evidentemente di aver vinto libere e democratiche elezioni. Semmai, quello che stupisce e ci fa sorridere amaramente è che questo odio oggi arrivi proprio da quei ragazzi e ragazze che partecipando alla manifestazione Non una di meno, sfilano contro la violenza sulle donne», commenta la ministra Daniela Santanché. «Piena solidarietà a Giorgio Meloni per gli striscioni e i cori intimidatori nel corso del corteo per dire NO alla violenza sulle donne. Tolleranza zero per chi tradisce i valori democratici di un Paese, della libertà di espressione e dei diritti di ogni donna». Lo scrive su Twitter Alessandro Cattaneo, presidente dei deputati di Forza Italia.

Anche il leader della Lega Matteo Salvini è intervenuto su Twitter: «Insulti contro di me a Milano da parte dei centri sociali, cori contro Giorgia al corteo di `Non una di meno´ a Roma. Se a sinistra vogliono continuare ad aggredire e schiumare rabbia, facciano pure: non ci intimidiscono e siamo più determinati che mai».

Secondo gli organizzatori erano 100 mila le persone in piazza a manifestare, secondo la questura 4 mila. Ad aprire il corteo uno striscione «Basta guerre sui nostri corpi», e a seguire le donne iraniane che hanno scandito lo slogan della loro protesta «Donne, vita, libertà» e ancora «Vogliamo essere libere, non coraggiose».

Le femministe in corteo vogliono morta la Meloni. La sfilata di "Non una di meno" sfocia in minacce e insulti contro la premier donna: "Fascista, sei la prima della lista". Domenico Di Sanzo il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Rieccolo, il cortocircuito. Slogan violenti contro la prima donna presidente del Consiglio della storia d'Italia durante una manifestazione contro la violenza sulle donne. Verrebbe da dire che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, se solo non fosse stata costretta a intervenire la Digos. Il motivo? Uno striscione con una foto del premier e la scritta: «Ti mangiamo il cuore».

Alla marcia femminista di ieri pomeriggio a Roma si mischiano foulard rosa e bandiere rosse. Ma soprattutto spiccano i cartelli cruenti all'indirizzo di Meloni. Difficile definire altrimenti lo slogan: «Fascista Meloni, noi donne ti farem la guerra». E ancora: «Meloni vattene». Oppure gli slogan, presi in prestito dalla più trita paccottiglia degli anni '70. Due su tutti, scanditi in coro dalle manifestanti e dai manifestanti: «Governo Meloni preparati a tremare, siamo libere di lottare» e «Meloni fascista sei la prima della lista». Per le strade della Capitale è tornato indietro l'orologio della storia, nonostante le organizzatrici di «Non una di meno» siano convinte di lottare contro le politiche «reazionarie» del centrodestra. «Contro il governo Meloni che attacca l'aborto e l'autodeterminazione riaffermando il diktat Dio, Patria, Famiglia», si legge nel comunicato delle femministe. Una macedonia in cui il ricordo delle donne vittime di violenza si confonde con la guerra, il reddito di cittadinanza e la crisi climatica. E pazienza se Meloni abbia sempre precisato che la legge 194 sull'aborto non si tocca.

Inevitabili le reazioni del centrodestra. Matteo Salvini, leader della Lega, ministro e vicepremier, twitta: «Insulti contro di me a Milano da parte dei centri sociali, cori contro Giorgia al corteo di Non una di meno a Roma. Se a sinistra vogliono continuare ad aggredire e schiumare rabbia, facciano pure». «Non ci intimidiscono e siamo più determinati che mai», conclude Salvini. «Un corteo di violenza contro una donna non è accettabile», dice Augusta Montaruli, sottosegretario all'Università e Ricerca, esponente di Fdi, che parla di «brutalità inaudita». Francesco Lollobrigida di Fdi, ministro dell'Agricoltura, commenta: «Manifestanti che partecipano a un corteo contro la violenza sulle donne espongono striscioni e intonano cori violenti contro la prima presidente del Consiglio donna italiana. Questo non è dissenso. Solidarietà al presidente Meloni. Ci aspettiamo ferma condanna da parte di tutte le forze politiche».

«Alla manifestazione contro la violenza sulle donne qualcuno ha voluto intonare minacce, addirittura di morte, contro Giorgia Meloni. Donne che odiano le donne. Gente che predica bene e razzola male. Alla premier va la mia più sentita solidarietà», twitta Licia Ronzulli, capogruppo di Fi al Senato. «Boldrini e femministe condanneranno l'episodio?», incalza la deputata di Fdi Grazia Di Maggio. Già, la sinistra. Nessuno fiata. Tranne Pierferdinando Casini (che proprio di sinistra non è ndr.) che scuote la testa: «Campagne isteriche contro la Meloni. Sono incivili. Puro autolesionismo politico dell'opposizione».

Solidarietà dal capogruppo di Fi alla Camera Alessandro Cattaneo, che invoca «tolleranza zero». Nel frattempo, dietro a bandiere inneggianti alla rivoluzione, una donna giustifica così il cartello con la scritta «Ti mangiamo il cuore»: «È una citazione del film ti mangio il cuore con protagonista Elodie». Dopo il pomeriggio d'odio viene in mente un'altra citazione, di Leo Longanesi: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola». Finito il corteo violento, tutti a cena. È pur sempre sabato sera, anche sotto il «regime» di Meloni.

“Meloni ti mangiamo il cuore”. L’incredibile slogan delle femministe. Al corteo contro la violenza sulle donne, cori di odio contro il premier. E lamentano: “Ci ha tolto il reddito minimo”. Giuseppe De Lorenzo su Nicolaporro.it il 27 Novembre 2022.

Citofonare Roberto Saviano. Mentre lo scrittore piagnucola sui giornali di mezzo mondo, fingendosi perseguitato da un presidente del consiglio che l’ha querelato quando era all’opposizione, c’è chi quel premier non nasconde di volerlo eliminare. “Meloni fascista sei il primo della lista”, cantavano le femministe di “Non una di meno”. Anzi: una di meno anche sì, basta si chiami Giorgia, abbia la colpa di essere di Destra e pure leader del Paese. Perché torcere un capello ad una signora fa giustamente scendere in piazza le femen di tutta Italia, ma se poi sono loro stesse a minacciare di “mangiare il cuore” e di “fare la guerra” alla Meloni, allora tutti zitti. Nessuno che abbia il coraggio far notare loro l’ipocrisia di chi minaccia violenza ad una manifestazione contro la violenza sulle donne.

Un giorno ci spiegheranno per quale motivo un corteo femminista dovrebbe prendersela contro il primo premier del gentil sesso. Ma forse deve essere il brodo culturale in cui crescono certi movimenti. Forse leggono grandi intellettuali convinte che Meloni sia donna ma non abbia “un modo di fare femminista”, vedasi Michela Murgia. O forse si accodano a Saviano, libero di insultare una leader dell’opposizione definendola “bastarda” ritenendola licenza poetica e non maleducazione maschilista. Allora perché stupirsi?

Basta sentire tal Donatella, intervistata dall’agenzia Dire, per capire la bassezza del ragionamento. Accusano il governo di “fare violenza” contro le donne. Un esecutivo “che ci attacca”. E dove? Su cosa? Ha forse vietato le riunioni delle femen e reintrodotto lo ius prime noctis? Siamo forse finiti sotto un regime talebano, con la scuola vietata alle bambine e il velo imposto ad ogni adolescente? No. Le femministe lamentano un governo, appena insediato, che “non dà nulla per il lavoro” e “vuole togliere il reddito di cittadinanza”. Cosa c’azzecca tutto questo col femminismo? Un fico secco. Rivendicazioni grilline, più che contro la violenza sul gentil sesso. Come non c’entra una mazza l’accusa di far passare “un messaggio che siamo donne utili solo a fare figli per le fabbriche e per la guerra”. Ma dove lo hanno letto? Nel programma di Fratelli d’Italia no di certo, possiamo testimoniarlo.

Appare ormai chiaro si tratti solo di contestazioni pretestuose, la maggior parte delle volte intrise di quell’odio che si giura di voler combattere. Donne che odiano le donne, anzi una donna sola. Donne che vorrebbero “mangiare il cuore” a Giorgia Meloni, anche se giurano sia “una citazione” del film con protagonista Elodie. Donne che però l’hanno già indicata come “la prima della lista”, frase minacciosa di facile interpretazione. Donne che usano termini intimidatori, e poi frignano se la Digos le identifica. In perfetto stile Saviano. Giuseppe De Lorenzo, 27 novembre 2022

Perché il femminismo non voterà Meloni. Rosi Braidotti su La Repubblica il 20 Agosto 2022.

Quello europeo è un movimento di massa senza capi e senza tessere di partito: attiviste/i lottano per trasformare i rapporti di potere, non solo per parificarli. E ha una matrice anti fascista

Nelle ultime 48 ore abbiamo letto di tutto sul femminismo. Bisogna ringraziare due grandi donne, che, a suon di botta e risposta, stanno riportando in auge una parola dimenticata, sia a destra che a sinistra, ma soprattutto nelle case degli italiani, nei quotidiani, nei libri, nella nostra cultura estremamente patriarcale, impossibile da abbattere.

Sono sforzi, quelli della Terragni e della Aspesi, degni di nota e stima perché dietro le loro parole, c'è un obiettivo, uno sforzo immane, un grido disperato: il femminismo sta cercando una collocazione politica. Che venga poi attribuito alla Meloni, questa è senz'altro una provocazione alla quale vorrei rispondere.

Evitando di confondere tutto, che di confusione sotto il cielo non tanto stellato di questo Ferragosto preelettorale ce n'è già abbastanza, procedo con ordine e lasciatemi dire chiaramente che Giorgia Meloni sta al femminismo come un pesce su una bicicletta: affannata, in bilico e fuori luogo.

L'affaire Terragni-Aspesi nasce dal nesso che collega Terragni, "milanese, anima vagante, femminista, madre, giornalista, scrittrice", a Meloni - un'affinità forse più elettorale che elettiva, ma comunque significativa: come la leader di FdI, anche la Terragni pone la maternità al centro della stessa identità femminile come rapporto fondante dell'umanità. Questa visione quasi metafisica della madre simbolica come colonna della civiltà fa parte della storia e della cultura del femminismo italiano, ma non è né la sola voce di questo movimento né, a mio avviso, la più utile nel momento che stiamo attraversando.  E non è utile proprio perché collude con la visione tradizionale, discriminatoria ed eterosessista della destra, che, come dimostrato da Sallusti, passa rapidamente agli insulti e le minacce contro le femministe e le donne dell'opposizione.

La visione esistenzialista ed universalizzante del potere materno come forza costituente del femminismo non è di certo condivisa da tutte le femministe. Io la critico da decenni, ricordando che non esiste solo UNA differenza unica e di stampo metafisico tra uomini e donne, che colloca le donne in pole position per la liberazione dell'umanità: una visione settecentesca che non si applica al mondo d'oggi. Siamo tutti soggetti nomadi e complessi, in divenire.

Esistono molteplici differenze fra donne e Lgbtq+, che convergono su alcuni punti fondamentali di critica femminista. Primo fra tutti, che il fascismo ha fatto della madre un monumento simbolico e reale (sussidi in base al numero di figli, i premi per le famiglie numerose, ecc.).  E, secondo, che dopo Simone de Beauvoir e le sorelle Lonzi, la maternità è stata criticata duramente dal femminismo proprio come uno strumento di potere patriarcale.

Molte di noi femministe, che lavorano sull'intersezionalità, la diversità all'interno della galassia complessa che sono le donne nelle loro molteplici differenze, sono consapevoli di non esserlo tutte allo stesso modo, o nelle stesse collocazioni sociali e simboliche. Per noi il 'simbolico' non è certo fuori dalla storia, ma radicato pienamente nel sociale. Ciò che ci accomuna sono i valori condivisi, non l'anatomia o la somiglianza biologica. Sappiamo di non essere né Una, né la stessa - ma di differire tra di noi in mille modi. Allo stesso tempo condividiamo le esperienze del nostro vissuto, fatto di discriminazioni sociali ed esclusioni, ma anche di grande ricchezza e diversità femminile e Lgbtq+.

Forse l'aspetto più problematico di come il dibattito è stato posto finora in questa strumentalizzazione del femminismo dei fratelli (senza sorelle?) d'Italia a scopo elettorale è come si colloca nel contesto attuale, nel terreno di scontro internazionale fra idee sulla famiglia, la sessualità, l'uguaglianza e il genere. 

Nel tentativo di forgiare un'immagine pubblica più "moderna" e rivolgersi a un'audience più ampio al di là del loro tradizionale collegio elettorale maschile, i partiti di destra hanno infatti mobilitato sempre più le questioni di genere: in tutte le elezioni in corso nel mondo la destra quest' anno metterà in gioco la cosiddetta "ideologia di genere" contro le rivendicazioni femministe e Lgbtq+, in difesa dei valori patriarcali, considerati come l'essenza della civiltà occidentale.

Il femminismo è un movimento di massa senza capi e senza tessere di partito, ma soprattutto che appartiene ai/alle attiviste/i che lottano per trasformare i rapporti di potere, non solo per parificarli. Il femminismo è un movimento trasformativo, non solo egalitario. Si basa su principi fondamentali, che sono etici ancor prima di diventare politici: la solidarietà, per esempio, tra donne, ma anche con il popolo Lgbtq+. E anche solidarietà intersezionale cioè tra classi, razza, etnicità, religione, generazioni ecc. Molteplici strati di differenze che si arricchiscono e si rinforzano a vicenda.

Quindi, come tante femministe tutt'altro che illuse rivendico la matrice anti-fascista del femminismo europeo e pertanto non voterò di certo la Meloni.

Ha collaborato al testo Allegra Salvadori

L'odio contro la Meloni e l'assordante silenzio delle donne di sinistra. Dopo l'attacco di Repubblica e della Jebreal, solo due voci femminili a sinistra si sono alzate in difesa della Meloni. Per il resto tutto tace...Domenico Ferrara il 30 settembre 2022 su Il Giornale.  

La risposta migliore all'attacco pretestuoso sferrato da Repubblica alla Meloni l'ha data la stessa leader di Fdi. "La propaganda di demonizzazione contro di noi - perdurata nel corso di tutta la campagna elettorale - ha inasprito gli animi e diviso gli italiani. Noi lavoreremo per unirli, perché questo non è il tempo di polemiche strumentali o di divisioni, ma quello della responsabilità. Il nostro obiettivo al governo sarà quello di rappresentare e difendere gli interessi e i diritti di tutti i cittadini".

Unità e responsabilità. Due parole chiave che danno subito l'idea di come la Meloni voglia affrontare la nuova sfida che la attende. Allargare il campo d'azione, il consenso e l'autorevolezza. Il paradosso attuale è che quelli che prima accusavano il leader di FdI di dividere, di esacerbare gli animi e di mettere in pratica una deriva fascista sono quelli che stanno dividendo, esacerbando gli animi e rasentando la violenza fascista.

Come giudicare altrimenti la vergognosa storia riesumata dal Diario de Mallorca, prontamente ripresa da Repubblica e subitaneamente rilanciata con tanto di commento al vetriolo delirante da Rula Jebreal? La storia è stata già spiegata, ma quello che fa specie è che - nel momento in cui viene pubblicato questo articolo - a esprimere solidarietà nei confronti della Meloni siano state tre persone, di cui due uomini. Parliamo di Calenda ("Una bassezza, il padre non c'entra niente") e Conte ("No al fango sul passato, la combatto sul piano politico").

Alla fine, nel silenzio assordante delle femmine di sinistra e delle femministe, come un fulmine a ciel sereno si sono alzate solo due voci femminili in difesa della Meloni. Si tratta della Cirinnà (Una barbarie. Le persone si valutano per ciò che fanno, scelte politiche, per quello che dicono") e la Boschi ("Incivile attaccare una persona impegnata in politica per ciò che ha fatto o non ha fatto sua padre"). Nessun'altra dem ha osato commentare. Boldrini non pervenuta. Serracchiani non pervenuta. Letta non pervenuto. E fa un po' sorridere, perché è il solito doppiopesismo e la solita ipocrisia della sinistra che parla di quote rosa, che vuole la parità e la difesa delle donne, ma solo se sono di sinistra. Ma ormai questo è un refrain che si ripete e quasi non stupisce più.

Il maschilismo delle donne. Tutte contro Giorgia Meloni. Intervista a Wanda Ferro, deputato di Fratelli d'Italia. Michel Dessì il 30 settembre 2022 su Il Giornale.  

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Rosicano tutti. Anzi, tutte. I risultati elettorali sono indigesti al popolo della sinistra che, da sempre, si è detto democratico ed anti fascista. Ma come? Non c’è cosa più bella e democratica del voto eppure a loro non va giù. Aja aja... Vedere una donna, Giorgia Meloni, alla presidenza del consiglio non va affatto bene.

Ad urlarlo in cinquanta piazza italiane le femministe incallite di Non una di meno che, approfittando della giornata nazionale dell’aborto sicuro, sono scese in piazza per sfogare tutta la loro rabbia nei confronti dei cittadini che hanno preferito il centrodestra al centrosinistra. Inutile dire che sotto attacco c’era lei, Giorgia Meloni. Ma come, non dovrebbero essere felici per il successo di una donna? Ci hanno triturato i cabasisi per mesi sulle donne nei ruoli di potere ed ora che succede dopo anni di attesa cosa fanno? Protestano. Evidentemente per loro non tutte le donne sono uguali. Quanta ipocrisia.

Fratelli d’Italia è il partito delle donne. Tante candidate, tante elette e non perché andava fatto. Ma a quanto pare la democrazia non piace alla sinistra. Lo dice bene Wanda Ferro, rieletta alla Camera dei Deputati tra le file del partito di Giorgia Meloni. (ASCOLTA IL PODCAST) Lei, missina della prima ora, ha militato tanto nel partito e assicura che non c’è nulla da temere.

Ma, a volte, le donne sono le peggiori nemiche delle donne. Ricordate i tempi delle elezioni per il Quirinale? Tutte a pretendere una donna alla guida del Colle più alto di Roma. Solo perché donna. Non tanto per le sue capacità. Tanto che anche la politica se ne stava convincendo. Elisabetta Belloni, Marta Cartabia i nomi più accreditati. Per non parlare poi delle parole declinate al femminile. Teresa Bellanova ci teneva ad essere chiamata ministra, Virginia Raggi insisteva per essere chiamata la sindaca. Siamo certi che Giorgia sarà il Presidente.

Giorgia Meloni? Che tristezza l'invidia delle femministe contro chi ce l'ha fatta. Simona Bertuzzi su Libero Quotidiano il 30 settembre 2022

Che tristezza un paese incapace di festeggiare la sua prima donna premier. Se al posto della Meloni avessero eletto una Serracchiani dal caschetto fugace, l'Italia stapperebbe champagne e masticherebbe fiumi di retorica e orgoglio al pensiero di avere la prima signora presidente del consiglio. Invece è stata scelta la Meloni, donna di destra. E la notizia è risultata talmente indigesta alla sinistra, e ancora più a certe femministe di questo paese ipocrita e stantio, da scivolare nelle ultime righe delle cronache e nei titoli di coda dei giornali. Improvvisamente le articolesse e i salotti sulla condizione femminile, sulla parità di genere, sulle quote rosa e sul famoso tetto di cristallo che ci ha oppresso, schiacciato e umiliato fino a questo momento, sono finite in secondo piano triturate da una foga demolitrice e ideologica che nel rispolverare vecchi spauracchi e regimi morti e sepolti vede nella Meloni la quintessenza di ogni male. È bastato che Chiara Ferragni - influencer prezzemolina di quest' era social e non certo una statista - mettesse in guardia i suoi followers sui rischi di una deriva antiabortista in caso di vittoria di FdI, per riempire le strade di cortei insensati di femministe convinte che Giorgia voglia davvero sopprimere il diritto all'aborto.

La leader del centrodestra ha spiegato che non toccherà la 194, semmai rinforzerà la prevenzione e gli aiuti alle donne in difficoltà, ma non è bastato... Persino questa estate, quando è cominciato il tiro al bersaglio del Pd e dei soliti commentatori contro la candidata della destra, nessuna delle donne di sinistra che si riempiono la bocca e la penna di diritti civili e poi si indignano per una mutandina di troppo su un manifesto pubblicitario o una letterina dell'alfabeto mal declinata ha versato, non dico una lacrima, ma almeno una riga di inchiostro per fermare lo scempio. Il famoso fattore M... M come Meloni e come Mussolini. Con quei capelli lì. Quella voce lì. Quel modo di parlare un tantino urlato per soverchiare il clamore della folla... vuoi che non sia un chiaro ritorno al Ventennio? Il paradosso è che la campagna di fango è stata a tal punto scientifica e protesa a fare carta straccia dell'avversaria che ha fatto perdere di vista le battaglie vere. La cronaca di queste pagine è lì a dimostrarlo. Si organizzano mobilitazioni in diverse città d'Italia per fermare la Giorgia nazionale. Ma non si muove refolo e neppure un modesto sit-in per la povera Masha Amini arrestata dalla polizia religiosa a Teheran il 13 settembre per mancata osservanza della legge sul velo e perché anche in quell'ora, in quel luogo, davanti a tutti i gendarmi che stavano per toglierle il futuro e la vita a suon di botte, aveva due ciocche che uscivano dal copricapo e anelavano libertà. Ma da noi il problema è la Meloni. 

E così arriviamo a salutare quella che sarà la prima donna premier italiana sessant' anni dopo lo Sri Lanka (pensate che record) - e dopo aver guardato scorrere nella carrellata dei potenti le Liz Truss, Elisabeth Borne, Theresa May, Angela Merkel (per non scomodare i tempi antichi della Thatcher) - senza neppure un festeggiamento. Mesti e tremebondi come si va a un funerale, pronti ad annientare psicologicamente e moralmente la poveretta che osi dire fuori dal seggio elettorale «finalmente una donna al potere... avremo più spazio, più attenzione, più anima e magari uno straccio di welfare che ci aiuti a lavorare e non ci mortifichi a fare la calzetta». Viene il sospetto che dietro l'impalcatura ideologica si nasconda anche quel maldestro rosicare dei successi altrui in cui noi italiani siamo maestri. La sinistra non è stata capace di produrre un premier donna. Il centrodestra sì. La sinistra è una costellazione di nomi autorevoli che si inseguono e susseguono senza mai imporsi. Meloni ha scalato il centrodestra da un misero 1,9% e si è fatta strada in un mondo - la politica - maschilista per definizione stessa di alcuni politici (e non perché agisce e pensa da maschio, come ha detto qualche autorevole commentatore). La diffidenza rende tristi, sosteneva Totò. Qui è qualcosa di più della diffidenza. Ma l'effetto è lo stesso.

Meloni e l'ipocrisia del "sistema donne". Valeria Braghieri il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

E adesso che c'è Giorgia Meloni? Alla vigilia del secondo mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, il vuotissimo slogan che girava a invocazione era "o una donna, o Mattarella"

E adesso che c'è Giorgia Meloni? Alla vigilia del secondo mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, il vuotissimo slogan che girava a invocazione era «o una donna, o Mattarella». Non ci avevano neppure appiccicato un nome a quel «o una donna». Ma era giusto dirlo, doveroso pronunciarlo, e poi indispensabile passare ad altro, il più in fretta possibile. Perché in fin dei conti, a nessuno interessava davvero giocare quella partita. Tanto che anche quando i nomi erano stati individuati, ed erano i «loro» nomi, «quelli giusti» perché seduti dalla parte corretta del mondo (Marta Cartabia, Anna Finocchiaro, Elisabetta Belloni) comunque non se n'era fatto alcunché. Però lo spauracchio-donna era stato esposto e soprattutto ritirato al momento esatto. Le femministe avevano potuto crogiolarsi nella rassicurante «potenza» di ciò che tanto non sarebbe mai diventato insidioso «atto»: una donna al Quirinale. Pericolo scampato, tormentone intatto: «Le alte cariche dello Stato ci sono inibite».

Poi arriva Giorgia Meloni. E questo è un giorno che apre gli occhi tagliandoli. Perché, come spiega Natalia Aspesi su Repubblica, si è costretti a prendere atto che anche quando una donna c'è, comunque non basta. O non va bene. O non rappresenta tutte. O non è compresa nel ruolo di «Sorella» (tanto che chiama il suo partito «Fratelli» d'Italia»). O non cita abbastanza la parola «donna» nel suo programma. La Aspesi parte dal documento firmato da un gruppo di associazioni femminili che auspicano «un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti», e le mette in guardia dal rischio di illudersi: «La candidata premier ragiona al maschile». Con la Meloni, la causa non fa passi avanti.

Da sempre fanno finta di volere una donna al Quirinale, e adesso che la Meloni può diventare la prima premier donna, non c'è nulla per cui gioire. È molto meglio quando un desiderio rimane sempre fermo nel palato. Perché i conti con la realtà non tornano quasi mai. Tanto per cominciare Giorgia è di destra, poi non è «cipriosamente» concettuale, non veste di lino d'estate e velluto d'inverno, è più sedotta dai fatti che dalle parole. Giorgia è giovane ma gonfia di certezze, ha un ego fin troppo sazio, secondo alcuni ha pretenziosamente chiamato sua figlia Ginevra mostrando un'imperdonabile fragilità nei confronti dei salotti «a numero chiuso». Insomma, è (quasi) arrivata dove nessuna prima di lei, ma i detrattori non mancano. E le donne, quelle che contano, l'hanno già ampiamente avvisata: not in my name. Tutte, ma non tu. O la Santanchè. O qualunque altra di destra

Niente male come dimostrazione del saper far «sistema», come «orizzonte unico». La Meloni sta per accomodarsi nella Storia, sta per mettersi alla guida di un Paese più straziato che abitato e sa già su chi non può contare. Ma visto che il pragmatismo non le fa difetto, ci auguriamo che saprà ottimizzare anche le defezioni.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 17 agosto 2022.

Ho ricevuto da Marina Terragni un lungo documento firmato da una ventina di associazioni di donne italiane (credo su un centinaio che non la pensano così), sostenute da altrettante straniere: titolo pacificante e bellicoso insieme "Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti". Segue, 1) citazione di Olympe de Gauges, 1791: "Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?" Segue, 2) proposta elettorale, "Nel segno di Carla Lonzi a quarant' anni dalla scomparsa: elettrici e attiviste di tutti i partiti si uniscono nel dono di un 'programma imprevisto' comune, orizzonti per un cambio di civiltà".

Commenti miei, 1), la protofemminista girondina dai rivoluzionari maschi fu ghigliottinata in quanto fastidiosa con le sue lamentele donnesche; 2), quando nel 1970 proposi a Italo Pietra, direttore del Giorno, un articolo sull'epocale "Sputiamo su Hegel" della Lonzi, quell'uomo fascinosissimo e di gran classe si mise a urlare come un pazzo in piena redazione e non mi licenziò perché ex partigiano e quindi molto democratico. E adesso ragazze come la mettiamo? 

Finalmente una di noi, cioè una donna- donna, presidente di un partito, tra l'altro quello attualmente più votato, potrebbe diventare (i menagrami e pure lei lo danno per sicuro) la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c'è: finalmente una donna a capo del governo italiano, cioè un primo ministro che essendo femmina rappresenti il massimo della democrazia, della parità, dei diritti, delle inclusioni, degli aiuti, di ogni forma di libertà verso un sol dell'avvenire che neanche ti immagini.

Eccola Giorgia Meloni, 45 anni di oggi, cioè tipo ragazzina eppure mamma, vestita classico e seducente, mai un capello fuori posto, in politica da 30 anni, da quando aveva 15 anni e già non aveva dubbi da che parte stare; la sua carriera è stata fulminea, perseguita con una volontà stupefacente, tutti i gradini superati velocemente per sua sola volontà, fondando con Crosetto e La Russa 'Fratelli d'Italia' a 35 anni e diventandone presidente due anni dopo, nel 2014, a 37 anni, un volto da Madonna vendicativa ma fresco, rispetto a quello inquietante del suo predecessore Ignazio.

A 8 anni di distanza e senza chiedere l'aiuto di nessuno, ignorando camerati e camerate e puntando solo su se stessa, ha portato il suo partito dal 3 % a essere il primo, fregando soprattutto i due alleati di destra- destra, sottraendo loro parecchi simpatizzanti. Si è proclamata da sola prossima prima ministra con tale fermezza che neppure i suoi due sodali Salvini e Berlusconi, non parliamo dei suoi oppositori, hanno aperto bocca, le hanno detto, si calmi, aspetti un momento, vediamo come va.

Nello spavento di una classe politica dormiente, o vociante, o fuori di testa, c'è poco da fare gli altezzosi, i colti, gli eleganti, gli antifascisti: solo il finimondo, temo, potrebbe scongiurare il luttuoso evento. A questo punto mi rivolgo a voi, donne di valore che avete composto e sottoscritto questo documento davvero importante per contenuto e per un modo di raccontare che ricorda i testi femministi meravigliosi e perduti degli anni '70, e vi chiedo: lo avete proposto anche a Giorgia Meloni che è donna come noi, e che però ha fondato un partito di Fratelli, dimenticando le Sorelle?

E che nei 15 punti del documento integrale del programma di governo del centro destra (che a leggerlo tutto altro che Mussolini, un bel fascismo XXI secolo, molto più ardito, checché ne dica la signora), non c'è una sola volta la parola 'donna', al massimo l'aggettivo 'femminile', quasi sempre collegato con i sostantivi 'infanzia', 'famiglia', e anche 'giovani' e 'disabili'. In centinaia di righe non una sola volta la parola 'diritti', che, è vero, forse da noi, dalla parte opposta, è stata abusata cancellando i 'doveri'.

E avete pensato prima di tutto se in questo momento di massima pressione Meloni, o chiunque altro, avrà il tempo e la pazienza di leggerlo tutto, perché nella sua intensità e verità è di una lunghezza a cui non siamo più abituati, e infatti io non ho ancora superato la prima intensissima pagina e me ne mancano ancora quattro, intensissime pure loro. 

Temo che il vostro 'Orizzonte Politico' si riveli oggi ingenuo, come del resto lo fu in passato, perché certo non è la prima volta che le donne si illudono di costituire un solo popolo: no, non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che per quanto maschi, la dividono con noi: io so che mai potrei sentirmi compagna e complice, mettiamo della Santanché o della stessa Meloni, che pure non posso fare a meno di ammirare per la sua implacabile sicurezza, mentre con cautela lo sarei di Veltroni e soprattutto di un Pisapia, se si facesse vivo e se i suoi compagni non se ne fossero dimenticati in quanto non del loro giro.

Ma poi cerchiamo di essere realisti: voi tra mille cose molto belle dite, "Non si può più tenere nascosta la verità. La verità sotto gli occhi di tutti è che troppi uomini stolti governano il mondo e la vita è diventata invivibile. Li stiamo vedendo trattare per il potere, sempre e solo loro, e siamo sgomente. Si permane nella cultura patriarcale che è la cultura della presa di potere". Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento? Le vostre parole, forse perché creatrici di visioni, mi hanno fatto pensare a una Gilead al contrario, a un luogo dove sono le donne, le ancelle, a condurre un potere armonioso e rispettoso del mondo eppure altrettanto dispotico.

È giusto, voi chiedete che la maternità torni "al centro delle comunità umane" per "orientare il programma politico , per il bene di tutte e di tutti". Questo credo non ve lo concederebbe non dico la Meloni ma neppure un Gilead femminista. Mentre su un paio di punti il centrodestra potrebbe essere d'accordo con voi, quando definite l'identità di genere "ideologia misogina e mercantile la nuova faccia glitterata del patriarcato che non vuole morire e che per sopravvivere ha bisogno di cancellare le donne persino nel linguaggio di genere". 

E quando definite "l'aspetto più straziante della gender ideologyla farmacologizzazione e la manipolazione chirurgica dei corpi di bambini e bambine dal comportamento non conforme agli stereotipi di genere - nuova lobotomia". Concludendo con l'unica cosa che conta: votereste la Meloni perché donna o per carità neanche morta, per due possibili ragioni; è chiaro che per lei le donne in quanto tali non esistono, ma anche perché alla fine si tenta di fare massa, gruppo, ma come sempre viene fuori che ci detestiamo tra noi, quindi in tutti i casi, fortunatamente, siamo costrette proprio dall'essere donna e detestare anche lei.

Natalia Aspesi al delirio: “La Meloni ragiona al maschile. Femministe, non votatela”. Adriana De Conto il 17 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.

Femministe, non cantate vittoria se la Meloni diventerà la prima donna premier. Anzi. Lei “pensa al maschile”. Il suo partito è fatto di Fratelli d’Italia e ha dimenticato le  “Sorelle d’Italia”, avverte allarmata su Repubblica Natalia Aspesi in un articolo lunare e pieno di notazioni infondate.   Scrive l’anziana editorialista: no, la Meloni non è “la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c’è: finalmente una donna a capo del governo italiano”. Niente di tutto questo. Dando per scontata l’ascesa della leader di FdI a palazzo Chigi (”Solo il finimondo, temo, potrebbe scongiurare il luttuoso evento”), si rivolge a un gruppo di donne  e femministe che le ha inviato un documento dal titolo: “Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti”. Un documento che invita a non avere pregiudizi.

Aspesi su Repubblica: “Meloni non pensa alle Sorelle d’Italia”

La Aspesi dà loro – e a tutte le donne- delle ingenue, le tratta da idiote. Perché? Perché nei 15 punti del programma di governo del centro destra “non c’è una sola volta la parola ‘donna’. Al massimo – scrive- l’aggettivo ‘femminile’, quasi sempre collegato con i sostantivi ‘infanzia’, ‘famiglia’, e anche ‘giovani’ e ‘disabili’”. Insomma, declinare il femminile in questi ambiti così delicati e dimenticati dalla cultura dei governi sarebbe per le contro le donne. Sarebbe “pensare come un uomo”. Stendiamo un velo pietoso e andiamo avanti.

“Non potrei sentirmi complice di Meloni o Santanchè…”

Scrive che ammira la Meloni per il suo coraggio, determinazione e autostima, ma poi le rinfaccia di tutto. Ne sottolinea in un passaggio il “volto da Madonna vendicativa ma fresco, rispetto a quello inquietante del suo predecessore Ignazio”. Ne rievoca la carriera rapida, conseguita confidando solo nelle sue forze e nel suo carattere. Eppure neanche il “merito” va bene per la Aspesi nell’ascesa di una donna in politica. Perché la Meloni ha il difetto di essere di destra. E infatti esce fuori il livore, la condanna: “Non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che per quanto maschi, la dividono con noi: io so che mai potrei sentirmi compagna e complice, mettiamo della Santanché o della stessa Meloni (…). Mentre con cautela lo sarei di Veltroni e soprattutto di un Pisapia, se si facesse vivo”.

Meloni premier, Aspesi: “Matriarcato altrettanto violento del patriarcato”

Alt, qui non capiamo più niente del discorso. Il filo si perde del tutto. La Aspesi per rivendicare il femminismo doc sogna un Veltroni o un Pisapia? Due uomini? Prima si dice atterrita perché la politica è tutt’ora scolpita “nella cultura patriarcale”. E poi sogna Veltroni? Pisapia?Si contorce la Aspesi: “Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento?”. Inutile dire che per lei, con la Meloni, si invererebbe la seconda ipotesi. Termina infatti con una professione di inimicizia:  “E chiaro che per lei le donne in quanto tali non esistono, ma anche perché alla fine si tenta di fare massa, gruppo. Ma, come sempre, viene fuori che ci detestiamo tra noi, quindi in tutti i casi, fortunatamente, siamo costrette proprio dall’essere donna e detestare anche lei”. Assurdo, la conclusione è: “volemose male”.

Consiglio non richiesto alla Aspesi: guardi le donne di sinistra

La Aspesi farebbe meglio a guardare in casa sua: è la famiglia di sinistra che ha qualche problema col “femminile”. Dove una Cirinnà evoca per se stessa la figura mashile del Gladiatore per definire la sua battaglia politica in un collegio ostico. Come nota argutamente sui social Annalisa Terranova, collega e storica. Dove per avere due donne capogruppo di Camera e Senato si è dovuta attendere l’“imposizione” dall’alto di Letta per segnare la distanza dal suo predecessore Zingaretti. Suggeriamo pertanto  all’anziana editorialista di fare le pulci nel suo ambito politico; di leggere con attenzione  un’analisi del sociologo Luca Ricolfi del gennaio di quest’anno, certo uno studioso che non ha la tessera di FdI. Il quale scrisse in soldoni: altro che patriarcato, è la sinistra che  esclude le donne dai luoghi di potere.

Le analisi di Ricolfi smentiscono la Aspesi

“Nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia». Ancora Ricolfi: «Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi; mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo». Parole che calzano a pennello, per prendere un esempio attuale, l’atteggiamento della dem Alessia Morano, che ha rifiutato un collegio difficile. Vincere facile tra le donne del Pd sembra essere la scelta migliore. E con tutto questo, con buona pace di Natalai Aspesi, la Meloni non c’entra nulla, anzi rappresenta l’esatto contrario.

La risposta della Meloni: “Ecco perché mi detestano”

E infatti la sua risposta dai suoi canali social non si fa attendere: “La Repubblica scrive che “ragiono al maschile”. Perché a loro non va giù che, come tante altre donne, non accetto di essere rinchiusa nel recinto delle cose “da femmina”. Mi detestano perché ho la pretesa di competere con i maschi al loro livello invece di aspettare che gli uomini mi concedano qualcosa: mi nominino, mi impongano, come accade alle donne a sinistra. Perché non mi interessa la loro benevolenza- incalza la leader di FdI. Perchè penso che le donne si debbano prendere il loro spazio e non pietirlo. Repubblica oggi ci dice che una che ragiona così è nemica delle donne, e conferma l’idea che la sinistra ha del ruolo delle donne in politica. Sempre subalterne, sempre seconde. Noi no, noi siamo per il merito sempre e comunque. Chi vale emerge, uomo o donna che sia. Fatevene una ragione”.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 18 agosto 2022.  

Natalia Aspesi, femminista firma de La Repubblica, esperta di questioni di cuore e di sesso oltre che icona del femminismo radical chic ieri è giunta a una conclusione storica: donne d'Italia non fidatevi, Giorgia Meloni è un uomo. Questa davvero ci mancava: per essere donna oggi bisogna passare il test Aspesi, che non misura il quoziente intellettivo bensì il livello di testosterone del soggetto sotto esame.

Secondo la Aspesi il problema di Giorgia non è che è un po' fascista come sostiene il suo giornale, no quello è un dettaglio. È che ragiona e si comporta come un uomo e quindi le donne, di destra e di sinistra che siano, non devono cadere nella trappola delle tette e dei lineamenti: non va votata, è una nemica come lo è chi è dotato di pisello. Siamo alla piena riabilitazione della canzone più ostracizzata proprio dalle donne di sinistra, quella «Voglio una donna con la gonna» incisa trent' anni fa da Roberto Vecchioni e caduta poi nel dimenticatoio - l'autore stesso ha raccontato di Libero vergognarsene perché ritenuta politicamente scorretta. La ricordate?

«Prendila te la signorina Rambo / Che s' innamori di te 'sta specie di canguro / Che fa la corsa all'oro veloce come il lampo, tenera come un muro, padrona del futuro / Prendila te quella che fa il "leasing" / Quella che va al "briefing" perché lei è del ramo / E viene via dal meeting stronza come un uomo, sola come un uomo». 

Già, sono passati trent' anni e il femminismo non ha ancora deciso se la donna è, come diceva Vecchioni nella stessa canzone, quella che serve per «pulire il culo ai figli» o viceversa quella che può e deve guidare un paese, ammesso e non concesso che non si possano fare entrambe le cose contemporaneamente. È che la Aspesi non vuole ammettere che il potere non ha sesso, è quella cosa lì indipendentemente se chi lo esercita porti o meno la gonna.

Giorgia Meloni è sicuramente donna e madre, su questo non si può discutere, è il potere che lei esercita ed eserciterà in futuro a essere, per dirla alla Vecchioni, "stronzo" e quindi cara Aspesi esci dalle tue contorsioni genetiche e arrenditi all'idea che non siete superiori a noi ometti né più pure né più etiche, se volete il potere, e se ne siete capaci, prendetelo e noi potremmo finalmente cantare "stronza come una donna", con licenza poetica "stronza come la Aspesi".

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 26 agosto 2022.

Se lo dice la Ferragni vale 20 volte Conte, 10 volte Calenda, 7 volte la Bonino ma anche almeno 5 volte Letta: lei sa vendere con eleganza di tutto, anche cose bruttine come le sue borse col disegnino delle ciglia, o democratiche come i suoi pensieri (si tratta di eleganza, quindi di sinistra), o sorridenti come i suoi piccini, per di più anche in inglese, così capita che pure la stampa straniera, annoiata sempre dalle curiose gesta degli italiani, venga a sapere qualcosa di noi.

Adesso nelle Marche governata dai Fratelli e neanche da una vera Sorella (semmai c'è una figlia, la Rauti) pare che molte donne così poco avvedute da ritrovarsi gravide senza volerlo (cosa voglia il complice mai responsabile resta sempre un mistero), non possano usufruire della pillola del giorno dopo e siano quasi impossibilitate a trovare un ospedale con ginecologo disponibile, che poi magari è più generoso nel suo studio se sei generosa pure tu; tanto che, dicono i menagramo, già c'è chi per interrompere la gravidanza torna ai secolari metodi un po' assassini, tipo ferro da calza o infuso di prezzemolo (siamo sinceri, non è che nelle regioni governate dalla sinistra ci sia la coda di ginecologi a disposizione).

Cose da donne, e infatti nella campagna elettorale che non se ne era mai vista una meno colpevole di negligenza, il tema non è venuto in mente a nessuno, (nemmeno alle poche donne ammutolite che i partiti si sono ricordati di candidare), tutti impegnati a darsi del fascista, del ladro, del traditore, del pirla e, massimo insulto da parte dei ragazzi rimasti nel M5S, in omaggio al loro capo che non perdona, draghiano!. 

Ma poi per fortuna ecco la soluzione cui sempre si ricorre quando si è alla frutta: una guerra tra dame (esempio impolverato Callas-Tebaldi, ma anche Elisabetta II-Thatcher, silenziato), ancor meglio una guerra tra bionde, cose da cinema, vedi "Gli uomini preferiscono le bionde", "La rivincita delle bionde", "Bionda atomica", "Odio le bionde".

La bionda Chiara (anche il nome conta, fa luce e fa santa) può vantarsi di avere poco meno di 28 milioni di consumatori (follower), che non sono pochi, mentre la bionda Giorgia continua a strappare preferenze ai suoi due alleati che standole a lato come i carabinieri di Pinocchio, paiono, senza offesa, i fratelli De Rege: tanto che oggi, domani non si sa, roteando i suoi occhioni azzurri che mettono in riga grandi e piccini, raccoglie nei sondaggi il 24% delle preferenze (dei sudditi); che (però non so far di conto) su 47 milioni di italiani con diritto al voto, ammesso che vada al seggio anche l'ultimo pastore sperduto nelle Murgie e tutti i brontoloni che si danno delle arie sui social bacchettando ogni singolo politico, corrisponderebbero a una ventina di milioni di voti: davvero tutti suoi, non certo dei suoi seguaci Fdl di cui non ci si ricorda una sola faccia; quindi meno del partito Ferragni ma, non si può negare, molto più pesanti.

Della Ferragni sono una fan più che una follower, non avendo occasione di comprare da lei alcunché, e seguo con piacere Leone, Vittoria e pure il cane, meno Fedez perché tutti quei tatuaggi mi fanno impressione, come i draghi di, appunto, House of the Dragon.

Per questo mi permetto di fare una osservazione di merito: qualsiasi rettifica chiedano alla bionda di destra, tipo togliere la Fiamma dal simbolo o chiedere scusa per usare come propaganda il video di una stupro, lei risponde sempre marameo: è cioè una vera dura.

Mentre la bionda di sinistra ha ascoltato forse i suoi ragionieri che alla fine del mese contano i milioni incassati e, come registra la nostra straordinaria Oriana Liso nella sua rubrica "Scusi lei", si è subito corretta: pettinatura da bambina e maglietta con la scritta " we should all be feminists ", prima ha scritto su Instagram «Facciamoci sentire a queste elezioni», poi si è sfumata in «Ora è il nostro tempo di agire e far si che queste cose non accadano». 

Metti il caso che le diciottenni che adorano il suo modo di truccarsi piaccia anche la Meloni perché così vuole il nonno, secondo voi non avendo alcuna nozione di quel che stanno facendo, disubbidiranno all'adorato vecchio o smetteranno di comprare succhi di frutta vegani targati C.F.?

È un brutto pensiero e per quanto la Patria con aborto certo chiami, meglio andare cauti, al massimo si potrebbe mettere sul mercato che la ditta depreca l'horror dei manifesti con embrioni che gli manca la parola. 

È immaginabile un vero duello per la conquista del governo tra due donne, mettiamo appunto Meloni e Ferragni? E chi vincerebbe? Intanto bisognerebbe che Chiara sacrificasse la sua splendida vita nella sua stolta casa milanese e rinunciasse, come nei post più recenti, a presentarsi col suo corpicino quasi del tutto nudo (ci sono i bambini! No, i parlamentari, che si spaventano di più), per passare giorni e giorni a discutere con colleghi italiani e stranieri anche cheap, anzi, a oggi molto cheap, smettendo di accumulare ricchezze e di spegnere candeline coi suoi bambini davvero meravigliosi; soprattutto sarebbe necessario che alla sempre più variegata sinistra impegnata in suoi oscuri, sanguinosi duelli, venisse in mente che le donne esistono e se ne potrebbe candidare una, non una qualsiasi, ma una brava in grado di salvarli, compito eterno delle femmine.

Come ha fatto la destra affidandosi a una giovane donna fornita di righello da battere sulle dita dei disubbidienti, che in quanto donna disprezza i maschi e li comanda come una vera mamma italiana, cui chiede ubbidienza e silenzio mentre lei rimette ordine, spazza via ciò che disturba la loro fragilità, gli ridà l'illusione di contare, rimette al loro posto le donne (in casa, ovvio) e le zittisce, non parliamo dei "deviati" cui saranno negate le famose inclusioni che immagino subito cancellate. Io non ho ancora capito cosa sia successo in poche settimane, perché tutti i maschi leader degli altri partiti si siano lasciati fregare da una persona, una donna poi, cui stupidamente non davano alcun credito. 

Visione macabra ma forse di fantasia: perché con tutte le sue vere doti di leader, che a essere sinceri non si vedono in nessun altro, osservando Giorgia muoversi con imperio tra la folla di uomini della politica, piccina, carina, svelta e mai zitta, sfida secondo lei già vinta, già primo ministro fai da te, non un dubbio, non un momento di stanchezza, non una cedimento, di una presunzione e sicurezza impressionanti; non so, forse, limitandoci soltanto a chiedere ai Ferragnez, intesi come famiglia, di dire ogni tanto la loro che qualsiasi cosa sia, fa impazzire la destra invidiosissima, consiglierei ai nostri amici di tentare la rimonta facendosi sentire col silenzio, visto che ogni volta che aprono bocca a noi che forse, ma forse, li voteremo, fanno cadere le braccia.

 Dolenze e acrilico. Meloni è la gran maestra del secolo della fragilità. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Agosto 2022

A differenza dei suoi colleghi, Giorgia ha capito come si ottengono i consensi: con le cose di cui ci si vergogna. La cosa più divertente è che le militanti dei cuoricini, essendo intellettualmente inattrezzate, non si sono ancora rese conto di quanto lei somigli a loro

Io cerco di non scrivere tutti i giorni di Giorgia Meloni, ma la strada di questo buon proposito vede riproporsi quasi ogni giorno lo stesso ostacolo: che Giorgia Meloni è l’unica, tra coloro che si agitano sul palcoscenico politico in questo momento, che non sembri al disperato inseguimento della modernità.

È l’unica che assomigli al tempo sbandato in cui si muove – in cui ci muoviamo – e non so se gli assomigli per vocazione o perché s’è messa a studiarlo per tempo, ma insomma non fa l’effetto disperato che ottengono le mie coetanee che mandano a memoria le canzoni che piacciono alle figlie quindicenni.

Se posso usare esempi che stanno dalle parti di Thomas Bernhard e Robert Musil: Giorgia Meloni gioca nel campionato delle influencer che vendono dolenze e acrilico; gli altri candidati, in quello delle cinquantenni che, per sentirsi più vicine a figli dodicenni cui piacciono i Måneskin, mettono i cuoricini all’Instagram della fidanzata – venditrice di dolenze e acrilico – di Coso dei Måneskin.

Giovedì sera, quando la Meloni ha fatto il colpo da gran maestra del secolo della fragilità di dire come vi permettete di dirmi che discrimino gli obesi, io ho la mamma obesa, mi sono alzata in piedi ad applaudire. Poi ho pensato: ma non l’avevo previsto? Certo che l’avevo previsto, dopo aver letto la sua biografia, quindici mesi fa. (Voi non sapete la noia d’aver sempre già scritto tutto: avrei diritto a un risarcimento da parte di ogni politico di sinistra che ci arrivi tardi. Il che, considerato che tutti i politici di sinistra arrivano strutturalmente tardi su tutto, potrebbe rendermi ricca).

Sempre giovedì, Daniela Santanchè ha postato la schermata d’un augurio di morte alla Meloni, ovviamente spacciandolo per gravissima minaccia. L’ha potuto fare perché sono anni che la sinistra presentabile ci vende la clamorosa stronzata dell’odio on line come prologo di chissà quale violenza.

Invece di ringraziare le multinazionali che hanno creato uno sfogatoio sul quale ogni carneade s’accontenti di dirmi che merito lo stupro nonché di morire di fame e che nessuno al mondo ha mai fatto schifo quanto me, uno sfogatoio che evita al carneade di aspettarmi sotto casa con una rivoltella; invece di ammettere che il tizio che on line ci dice quanto facciamo schifo poi, se c’incontra al bar, ci chiede un video in cui facciamo gli auguri di compleanno a sua nonna; invece d’essere razionali, abbiamo deciso di drammatizzare.

Siccome sfogarsi on line è un fenomeno di massa, eccoci qua: che naturalmente a sinistra ci saranno tanti carneadi che notificano a Giorgia Meloni la loro repulsione quanti a destra ne accumula Laura Boldrini, e la campagna elettorale potrebbe essere ancora più noiosa di così, potrebbe essere una gigantesca gara a chi è più fragile vittima d’insulti. Grande sarebbe l’orchite sotto il cielo di questo spirito del tempo, ma le militanti dei cuoricini sarebbero in brodo di giuggiole.

Militanti dei cuoricini che, essendo intellettualmente inattrezzate, non si sono ancora rese conto di quanto la Meloni somigli a loro. Sì, proprio a loro, che hanno a cuore i profughi e l’aborto e tutte le giuste cause e mai mai mai penserebbero di avere qualcosa in comune con quella fascista.

Proprio a loro, che come Giorgia fanno d’ogni fragilità valuta, ma di Giorgia non hanno il catalogo perfetto: la mamma obesa, l’adolescenza col metabolismo lento, il papà che l’ha abbandonata, il cane zoppo, la maternità col senso di colpa delle donne che lavorano. Tutte, le ha. Voialtre che vi vendete ogni endometriosi e tassista scorbutico e fidanzato malmostoso (in neolingua: abusante) e maestra che non vi capiva e capi che vi hanno sottovalutate, voialtre ne avreste da imparare, da Giorgia, sull’influencing della dolenza.

Si capiva, leggendo il suo libro, da quella scena in cui Giorgia rievocava la sé stessa povera, figlia di madre sola nonché esaurita, unica bambina senza maschera a una festa di Carnevale. Certo che era Amy March. Certo che non aveva il vestito buono per stare in società. Voialtre eravate troppo impegnate a cercare di sentirvi Jo, che in Piccole donne era la fintissima sorella contenutista che vendeva i capelli per beneficenza, per sapere in che parte di quel romanzo risiedeva l’immedesimabilità. Troppo occupate a rappresentarvi come quella buona e giusta, per sapere come si ottengono i consensi: con le cose di cui ci si vergogna.

Sono un po’ stupita che Giorgia Meloni non si sia ancora appropriata del tema dell’odio on line. Foss’in lei, farei un vero colpo da maestra. Giorgia, dai retta, ti faccio da spin doctor gratis. Sfrutta tutta l’attenzione catalizzata da «io sono stata grassa, come potete pensare consideri deviati i grassi, io ho la mamma obesa, come potete pensare non voglia bene agli obesi» (bravissima, nessuno ti batte in spirito e neppure in tempo); poi, appena quell’attenzione lì cala, prendi una manciata di schermate d’insulti e buttati su una dichiarazione tipo: Vedete, vomitano veleno anche su di me, ma sono comunque per la libertà d’espressione.

Daresti modo alla sinistra presentabile di dire lo vedete, ve l’abbiamo sempre detto che la libertà d’espressione era una priorità da fascisti (sì, siamo arrivati a questi paradossi: Rushdie non può ridere perché gli si stanno rimarginando le coltellate e gli tira tutto e insomma ci prega di smetterla; di Orwell invece si sentono le risate dalla tomba); e a Enrico Letta di fare un bel cancelletto «Viva la censura».

Giorgia Meloni, Michela Murgia: "La vera domanda da farsi", un altro caso. Libero Quotidiano il 18 agosto 2022

Dopo Natalia Aspesi, non poteva mancare la voce di Michela Murgia al coro di donne di sinistra contro Giorgia Meloni. Il tema è noto: quanto è pericolosa la leader di Fratelli d'Italia? O meglio: è più pericolosa per l'Italia o per le italiane? Il tedio post-ferragostano genera mostri e la scrittrice sarda, sempre in prima fila nelle sue (a volte balzane) battaglie politiche e linguistiche contro la destra cattiva e gli uomini padri-padroni mette subito le cose in chiaro: "Se esistano o meno femministe di destra è una domanda che non porta da nessuna parte. Il giorno in cui mi metterò a dare patenti di femminismo alle altre donne deve ancora sorgere", spiega su Instagram. Il sospiro di sollievo è relativo.

"So però per certo che esiste un modo femminista di esercitare la propria forza e uno che femminista non lo è per niente. Ogni volta che incontro una donna potente, quello che mi chiedo è: che modello di potere sta esercitando? Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista. Che sia di destra o di sinistra, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista. Che sia di destra o di sinistra, se il suo modello di organizzazione dei rapporti è la scala e non la rete, nemmeno questo è particolarmente femminista".

 "Che sia di destra o di sinistra, se la sua visione della fragilità altrui è paternalista e l’unica soluzione che le viene in mente è una protezione che crea dipendenza, questo è il contrario del femminismo. Che sia di destra o di sinistra, se per lei le funzioni patriarcali sono più importanti delle persone che le svolgono, questo senz’altro non è femminista. È quindi inutile chiedersi se Giorgia Meloni sia femminista o non lo sia solo perché è a capo di un partito. Fatevi domande sul suo modo di esercitare il potere e vedrete che il dubbio neanche vi viene". La risposta, insomma, lei la conosce già. E per mettere le mani avanti di fronte a possibili appunti, conclude: "Sì, conosco anche donne di sinistra che usano il potere così, ma nessuna corre il rischio di diventare presidente del consiglio". Forse solo perché, stando ai sondaggi, non ne hanno la possibilità. 

Mirella Serri per “la Repubblica” il 18 agosto 2022.

Il termine "donna" è da tempo per Giorgia Meloni un vero tormentone dei suoi comizi. Ma la pasionaria della destra è davvero una paladina a tutto tondo delle ragioni femminili? 

Oppure dietro alla parola magica "donna" c'è un trucco, si tratta di un modo per mascherare una concezione dell'altra metà del cielo assai conservatrice, per non dire reazionaria? 

Meloni, per esempio, sottolinea ripetutamente qualità delle donne come "serietà, responsabilità e pragmatismo". 

Ma contemporaneamente assicura che a loro non riconoscerà mai nessun percorso preferenziale: con lei al potere pari opportunità e quote rosa finiranno alle ortiche poiché trasformano il gentil sesso in panda, in una specie tutelata. 

Con l'uso e l'abuso della parola "donna" Meloni addolcisce e mitiga molte delle sue più note e meno presentabili immagini: da quella di Giorgia militante "dura e pura" all'interno della sua "seconda famiglia" (così chiama la squadra della sua adolescenza, il Fronte della Gioventù schierato contro le istituzioni e i valori democratici) all'immagine della leader che si riconosce in "Dio, patria e famiglia", imperativo di conio fascista attraverso il quale mantiene il legame con la "sua" destra, missina e tradizionale.

Sempre facendosi forte della sua identità femminile. Giorgia cerca di fronteggiare conciliazioni difficili, come le polemiche sull'aborto: "Fratelli d'Italia non vuole l'abolizione della legge 194", ripete spesso. 

Poi però opta per "il potenziamento dei centri di aiuto alla vita", ribadisce il suo "sì alla cultura della vita e no all'abisso della morte". 

In generale disegna per le donne un ruolo molto simile a quello propagandato e praticato nel Ventennio, tutto centrato sulla cura della famiglia e sulla procreazione. 

Altro che investimenti per la parità di genere in luoghi di lavoro inclusivi, altro che la creazione di sistemi di assistenza più equi, altro che la promozione dell'ascesa delle donne a posizioni di leadership! Meloni predica l'importanza dell'occupazione femminile, ma lo fa in termini generici, non adatti a tempi di grave crisi come gli attuali, e non considera le soluzioni che potrebbero davvero aiutare le donne a non essere discriminate sul lavoro, né tiene conto dell'aumento del gap salariale tra i sessi.

Sulla questione delle quote la leader di FdI aggiunge: "Da capo di un partito voglio poter scegliere le persone migliori, indipendentemente dal genere. Ma non ditelo a certe sedicenti femministe". 

E aggiunge: "Non è importante quante siano le donne al comando, ma quale sia il grado di comando". Qui casca l'asino: proprio il suo partito è largamente dominato dai maschi a tutti i livelli. 

L'obiettivo di Giorgia è "un welfare a misura di famiglia". Beninteso, una famiglia che non è contemplata per i soggetti lgbtq: "No a genitore uno e genitore due, noi difendiamo i nostri nomi perché non siamo codici". 

Anche sugli abusi nei confronti delle donne Meloni si dimostra assai reticente: la Turchia e la Polonia sono fuoriuscite dalla Convenzione di Istanbul (per la prevenzione e l'eliminazione della violenza di genere) e il premier sovranista Viktor Orbàn, a cui la leader romana ha sempre fatto riferimento, si è rifiutato di ratificarla.

La punta di diamante della destra italiana dà segni che potrebbe seguire la medesima strada in un futuro non lontano. In Fratelli d'Italia i comportamenti beceri, offensivi nei confronti delle donne sono diffusi. 

Si possono cogliere perle come "Chiamate qualcuno che le tappi la bocca con qualcosa di lungo e duro", "Povera scema", "Vomitevole", "Demente", "Posso dire du palle con 'ste propagande sulla violenza verso la donna?". 

Non risulta che questi "fratelli" fallocrati siano stati espulsi dalla "famiglia" di Giorgia la quale nega che esista un maschilismo diffuso nella destra: eppure storici autorevoli, come Giuseppe Parlato e Piero Ignazi, documentano la notevole influenza che ha tra i giovani, per esempio, il pensiero di Julius Evola, feroce contro le donne-ostacolo alla piena espressione del virilismo e dell'eroismo maschile. Adesso la leader accusa di misoginia i suoi nemici politici. Ma lei adopera l'amato slogan "sono una donna", "sono una madre" per riportarci verso il Ventennio.

L’ultima cretinata della sinistra: “Per Giorgia Meloni le donne esistono solo se sono madri”. Riccardo Angelini 3 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.

Patriarcale. Antifemminista. Fascista. Così Nadia Urbinati ha di recente bollato la proposta di Fratelli d’Italia di sostenere la natalità. Una proposta desunta da un programma elettorale che è del 2018 e non di oggi. Ma queste sono “sottigliezze” che alla sinistra non interessano. Pur di colpire l’avversario si inventano, come fa la Urbinati, che per Giorgia Meloni la donna esiste solo in quanto esercita la sua funzione riproduttiva. Come Mussolini e il fascismo, fa notare la studiosa femminista e di sinistra. Che proprio lì voleva andare a parare.

Urbinati: per Meloni la donna esiste solo se è madre

Ecco il succo del ragionamento di Nadia Urbinati, in un articolo pubblicato sul quotidiano “Domani”, uno dei più aggressivi contro Giorgia Meloni. “Si dice al primo punto che questo programma elettorale destina «il più grande sostegno alle famiglie e alla natalità della storia d’Italia». Certo! Tutto ruota intorno alla donna-madre. Non ci si faccia ingannare – e probabilmente molti/e si faranno ingannare: questa attenzione assistenziale presume che la famiglia e i figli siano l’orizzonte di vita della donna, e soprattutto che siano a suo carico. La donna, come donna, non è presente: lo è come madre e come italiana. In linea con la fotografia che Giorgia Meloni ha voluto dare di sé in questi anni: una madre italiana che lavora. La donna ha una funzione produttiva perché prima ha una funzione riproduttiva. Non serve molta immaginazione per riandare alla tradizione fascista…“.

Pregiudizi radicati a sinistra

Invece di fantasia ne occorre molta. E soprattutto ci vogliono pregiudizi molto radicati per avventurarsi in queste arrampicate dialettiche. Che tra l’altro – ripetiamo – prendono spunto da un programma del 2018.  Ecco, in ogni caso, il punto commentato da Urbinati: “Asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici. Reddito infanzia con assegno familiare di 400 € al mese per i primi sei anni di vita di ogni minore a carico. Quoziente familiare in ambito fiscale. Deducibilità del lavoro domestico. Congedo parentale coperto fino all’80% ed equiparazione delle tutele per le lavoratrici autonome. Incentivo alle aziende che assumono neomamme e donne in età fertile. Tutela delle madri lavoratrici e incentivi alle aziende per gli asili nido aziendali. Deducibilità del costo ed eliminazione dell’IVA sui prodotti per la prima infanzia. Intervento sul costo del latte artificiale. Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita“.

La libertà di scelta è sostenuta dalle politiche family friendly

Si può comprendere che Urbinati, seguendo le dotte elucubrazioni di Elodie, sia spaventata da queste istanze ma in che modo esse possano interpretarsi come nemiche delle donne è davvero difficile da dimostrare visto che la libertà di una donna di essere madre o no si misura anche col grado di sostegno che le istituzioni sono in grado di darle. Con la sostanza di politiche che oggi chiamano “family friendly” e che sono proprio quelle auspicate da FdI.  Altrimenti la strada è obbligata: si sceglie di non essere madre non per libera scelta ma per necessità. E’ questo che vuole la sinistra? 

Meloni: “L’ideologia gender mira alla scomparsa delle madri. Noi difenderemo l’identità femminile”. Augusta Cesari il 29 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.  

“L’ Occidente ha rinunciato alla sua anima, ha svenduto i suoi valori al miglior offerente”: un passaggio lungamente applaudito. Giorgia Meloni ha parlato di famiglia, di donne, di maternità, di bambini  alla Conferenza programmatica di Fdi a Milano. Il discorso non potava non toccare una battaglia che FdI ha combattuto e vinto. “I bambini non sono prodotti da banco, non si comprano. Eppure è quello che esattamente  accade ogni giorni grazie alla pratica mostruosa dell’utero in affitto. Vi rendete conto? – interroga la platea- . Uomini ricchi che pagano donne povere per portare in grembo un bambino che poi le verrà tolto. Questo, signori, non è non è sintomo di modernità. E’ una pratica infame. significa  confondere i desideri con i diritti. E’ sostituire Dio con il denaro”.

Utero in affitto e ideologia gender

Già, se la pratica che mercifica il  corpo delle donne diventerà reato punibile in Italia anche se commesso all’estero, lo dobbiamo a FdI. La Commissione Giustizia della Camera ha adottato  come testo base la proposta di legge di Fratelli d’Italia per rendere l’utero in affitto reato universale. Una vittoria su cui si cui Giorgia Meloni si è soffermata con parole vibranti che hanno infiammato la platea.

“La famiglia è sotto attacco”

La famiglia è l’architrave della società. E “‘architrave della famiglia sono le donne in quanto madri. Se andiamo oltre gli slogan, ci renderemo conto che il  vero obiettivo non dichiarato dell’ideologia gender è la la scomparsa della donna in quanto madre. Lo ha spiegato con lucidità Eugenia Roccella, in un convegno al quale ho partecipato”, ha ricordato.  “L’individuo indifferenziato di cui parlano i paladini dell’ideologia gender  non è poi tanto indifferenziato. E’ maschio. Fateci caso. L’uomo può essere tutto, madre, padre, in un’infinita gamma che va dal maschile al femminile. Se ci fate caso- ha scandito-  le parole più censurate dal politicamente corretto sono donna e madre. Perché? Perché si vuole distruggere la straordinaria forza simbolica della maternità”.

“Questo è il tempo delle donne”

Ha proseguito Giorgia Meloni: “E’ nel rapporto madre figlio che si fa esperienza dell’amore gratuito, della cura, dell’acccettazione delle imperfezioni: ecco perché quell”architrave’ è un nemico. E noi – avvisa le vestali del mainstream dominante – difenderemo non solo l’identità delle donne. Di più. Noi anzi pensiamo che questo  è il tempo delle donne. Dentro e fuori le mura domestiche“. C’è tanto lavoro da fare – ammette-. “L’unica ragione per cui vogliamo arrivare in vetta è che da lì sapremo guardare più lontano”.

Giorgia Meloni? Il paradosso rosa: femministe a lutto per il premier donna. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 07 agosto 2022

Quando negli Stati Uniti si tennero le primarie del partito democratico, nel 2008, i candidati principali erano due: Obama e Hillary Clinton. Un nero e una donna. Negli Stati Uniti, fino a quel momento, non c'era mai stato un presidente afroamericano né un presidente donna. Le femministe si schierarono compatte. Quelle più moderate e quelle più radicali: Hillary.

Dissero che la lotta tra neri e bianchi era una costante della storia da qualche secolo, mala lotta tra donne e uomini era una costante da sempre. La specie umana, dissero, è divisa tra i due sessi e la storia umana racconta di una millenaria oppressione dell'uomo sulla donna. Se nel paese più forte ricco e importante del mondo, e cioè in America, una donna diventa il capo della nazione, è una svolta nella storia dell'umanità.

SCONFITTE

Persino una femminista radical e quasi sacra come Camille Paglia disse: Hillary, Hillary! Senza dubbi. Obama è un maschio. Poi vinse Obama, confermando quanto è dura la strada del potere per le donne. E quattro anni dopo Hillary fu sconfitta di nuovo, da Trump. Ma la questione di principio posta dalle femministe americane resta intatta e limpida. Prima la donna. Woman first.

Beh, qui da noi, oggi, ci troviamo in una situazione simile alla vigilia delle elezioni. C'è la possibilità concreta che una donna diventi presidente del Consiglio prendendo il posto di Draghi. Parlo di Giorgia Meloni. Beh: dove sono le femministe? La mia non è una provocazione, è un ragionamento. Ad essere realisti, i possibili premier che usciranno dal voto del 25 settembre non sono molti. Se vince la sinistra il premier forse sarà Letta, forse Calenda (conoscete in politica qualche esemplare più machista di Calenda?

Nelle cose che dice, nelle smorfie, nelle mosse, nei toni arroganti...). Se si pareggia, o se comunque il risultato non sarà netto, c'è la possibilità che ci sia un premier centrista, sicuramente maschio: Draghi o chi per chi lui. Se vince la destra e la lista di Fratelli d'Italia risulta prima nella coalizione (cosa praticamente certa) l'Italia, dopo Israele, la Gran Bretagna e la Germania, sarà il primo Paese occidentale ad avere al suo vertice una donna. Vi pare poco? Sento l'obiezione di chi mi dice che però l'estrema destra non è mai stata femminista. E che vuol dire? La storia non è mica un libro di algebra. Non cammina mai dritta dritta. Del resto, in Italia, già da tempo le leader femmine sono molto più presenti a destra che a sinistra. E poi anche Golda Meir, e Thatcher, e Merkel non erano mica donne di sinistra. Qui stiamo ragionando sul problema dei problemi: il potere. È lì che le donne non hanno mai rotto il "tetto di vetro" della società liberali. Il potere. E oggi questo è in gioco: il potere.

IL POTERE

Le femministe non hanno sempre posto questa questione? Come rompere il potere maschile, come abbattere il patriarcato. Il patriarcato è quella cosa lì: il potere riservato solo ai maschi. Nella famiglia, nell'azienda, nella comunità sociale e poi somma questione - nello Stato. Ecco, amiche femministe - e scrivo amiche senza nessuna ironia o spirito polemico - abbiamo la possibilità di affrontare e vincere la battaglia del potere. Voi ci siete? Non c'è nessuna altra strada. Solo questa: smettetela di fare le schizzinose e sostenete Giorgia. Convinte, compatte, a gran voce. Vincere la guerra dei simboli, dare una picconata al patriarcato. Scusate se ripeto unvostro slogan e una splendida frase di Primo Levi: se non ora quando?

Il femminismo delle celebrità aiuta il movimento? I benefici superano i rischi. TheWorldNews su Twnews.it il 6 Agosto 2022.    

Il femminismo ha fatto un patto faustiano con la cultura delle celebrità in un lungo articolo pubblicato sul New York Times intitolato: Ora sta pagando un prezzo. La giornalista vincitrice del Premio Pulitzer Susan Faludista preparando un libro sul femminismo moderno. Attiviste e attiviste femministe (il rovesciamento della decisione Roe v. Wade e la decisione del processo Depp Heard) riflettono accuratamente il modo in cui si comporta il movimento.

Senza dubbio getta una cattiva luce sul movimento #MeToo e sul femminismo più in generale, ma il problema non è la frase in sé, ma piuttosto il modo in cui i media ne parlano. Questa è una questione del tutto personale e irragionevolmente emblematica del movimento più ampio.

E per questo motivo, penso che far risalire il rovesciamento di Roe v. Wade alla decisione Depp-Heard sia esagerato. Il contesto che ci ha portato qui. Invece, la reazione della società può essere vista come più suggestiva.

Secondo Susan Faldi, il femminismo pop delle celebrità è 25} è una delle principali cause di regressione forzatanel progresso delle donne. E anche qui non sono del tutto d'accordo. Potrebbe essere vero, ma mentre "la rappresentazione del femminismo da parte delle celebrità è un'arma a doppio taglio", credo che i benefici superino di gran lunga i pericoli.

Il femminismo della quarta ondata ha avuto il grande vantaggio di diffondere il movimento a livello globale, raggiungendo un potere senza precedenti anche nelle regioni più remote e sottosviluppate del mondo. Di conseguenza, ha ampliato e superato la sua linea di vista, portando tutte le parti oppresse della società nella lotta.

Celebrità e social network Non sto promuovendo alcuna forma di femminismo, ma il femminismo non era perfetto nemmeno durante la seconda ondata (principalmente bianca e borghese). Oggi, chiunque utilizzi Internet può accedere a migliaia di approfondimenti diversi sull'argomento, aggiungere la propria prospettiva e partecipare alla discussione. È quasi impossibile utilizzare regolarmente i social network o leggere giornali online senza imbattersi nella parola "femminismo".

Inoltre, il femminismo delle celebrità non ha certamente dimenticato gli insegnamenti e le pratiche della seconda ondata.

Probabilmente (e purtroppo) non ha ancora ottenuto una vittoria politica, ma ha sicuramente avuto un impatto importante sui dibattiti sociali e politici, soprattutto sull'educazione delle nuove generazioni. Non puoi aspettarti risultati immediati. In particolare, il mondo è dominato da eterosessuali bianchi prevalentemente più anziani che prendono decisioni e portano avanti pensiero conservatore.

società patriarcali

I diritti delle donne lo faranno essere sempre in pericolo a meno che le basi della società non cambino. Ma il rovesciamento delle strutture patriarcali che hanno sempre caratterizzato e organizzato le società richiede uno sforzo costante e il riconoscimento che ci vorrà molto tempo. Perché si tratta di cambiare radicalmente la cultura.

Quindi io e Susan Fardi non condividiamo lo stesso punto di vista, ma questo articolo ci fornisce importanti spunti di riflessione.

Barbara Costa per Dagospia il 2 agosto 2022.

“IO sono IO non per quanto gli altri mi hanno permesso, ma per quanto mi sono permessa da me stessa. O mi si risponde sullo stesso piano, o è meglio si stia zitti. Così sono stati zitti tutti”. C’è stato un tempo, in cui qui in Italia, e fuori… se la sono fatta sotto, tutti, e per le parole scritte di una singola persona.

Questa persona è Carla Lonzi, morta il 2 agosto di 40 anni fa, autrice di libri che sono bombe che fanno saltare in aria chiunque vi si avvicini. Libri che è mezzo secolo che hanno visto la luce, ma che saranno nuovi, e pronti a incendiarti la mente, pure fra altri 50! Perché non siamo granché progrediti, peggio, stiamo regredendo, rispetto a quando Carla Lonzi si è giocata tutto per mettere ogni cosa a sconquasso.

Non c’è lato della vita e della struttura sociale per come la conosciamo che Carla Lonzi non ha portato sul banco degli imputati. Senza appello. Non si salva niente, del rapporto tra uomo e donna, e donna e donna, uomo a uomo, e di ciascuno con sé. A cominciare dal sesso. Se il mondo (la parte occidentale, ma poi non è che altrove stiano meglio, anzi) è ordinato a norma e sembianza maschile, a privilegio e funzione maschile, secondo Carla Lonzi non c’è per la donna nessuna liberazione, e la colpa è dell’uomo. E della donna!!!

Tu, donna, puoi prendere atto di un mondo a regola maschile, la cui base è la procreazione fra pene e vagina posti in una famiglia a comando patriarcale. Stop. Le cose stanno così, ogni realtà è da secoli basata (e si basa!!!) sul pene che ingravida l’utero su cui le padrone solo di recente attuano un controllo. Gestione che non può bastare. Tutto ma davvero tutto nella Storia si fonda sulla supremazia del pene e su una donna che in passato nulla contava e che da un po’ conta, e nondimeno in stato secondario: l’uomo soggioga la donna perché è in questo riflesso, di potere, che il predominio erettile innalza il suo valore.

Predominio che nel sesso si spiega appieno: i dogmi dell’imene, di verginità femminile, di figli che devono essere di padre certo e guai sennò, della donna come e se deve godere, di un pene grosso e abile: sono miti maschili e, dal punto di vista femminile… delle gran rotture di c*glioni. Anche le parolacce sono idea e a metro maschile. Ogni insulto per deviazioni dall’eterosessualità e dalla monogamia è creazione maschile a difesa del fallo-impero a cui le donne da ancelle si son colpevolmente assise. 

La donna è p*ttana per un concetto che è dell’uomo: non esiste il p*ttano, si sa, esiste il seduttore e comunque che un uomo ponga il pene in più vagine è vanto ma una donna la cui vagina ospiti di suo gusto più peni è tr*ia. Costrutti formativi che ti inculcano dalla nascita: sei nata femmina? Sei educata a "donna" cioè a "serva".

Ti assegnano un bambolotto, ti dicono che è tuo figlio, ci giochi a curarlo. Ti alleni a madre, “a disacculturarti, nell’attesa di incontrare l’"uomo"…”. Carla Lonzi non salva l’aborto, nel senso che lo ammette, sì, ma l’aborto mai porrà uomo e donna sullo stesso piano. Carla Lonzi ammette il divorzio, ma lo spregia e isola a “correttivo storico del matrimonio”. Una donna sola – ma non senza uomini, con tutti i partner che vuole, ma che non sposa, con i quali non procrea – è enorme sfida a un sistema atto a ostacolarla. La rispettabilità sociale che assicura e specchia l’essere in coppia è – fa – più agio.

“Non esiste la meta, esiste il presente”. Carla Lonzi aumenta carne da bruciare sulle sue pagine. Non ci sono “donne liberate, non in questa civiltà, semmai donne decolonizzate” e sono quelle che mettono in discussione il posto che l’uomo stabilisce per loro, ma che non sono libere, perché esse si ribellano contro ciò con cui devono fare i conti di continuo. Non c’è libertà, se non quella di dire NO. NO al matrimonio, NO a un sesso fatto come approva l’uomo. Godi perché un pene è nella tua vagina? Non godi in te e per te, ma perché così t’hanno ammaestrata.

Come può la vagina godere tanto di un pene se un clitoride ha più radici nervose, ed è il clitoride che stimolato (a lingua!!!!) ti dà orgasmi a ripetizione? Carla Lonzi rifiuta di definire “masturbazione ogni atto sessuale che non sia il coito”. È sesso. Carla Lonzi rifiuta il matriarcato “mitica epopea di vagine glorificate”. Per lei, “tutti i salvatori del mondo sono patriarchi, ma il mondo per quella via non si salva”. Unica via è instaurare, tra PERSONE, inediti rapporti di “verità reciproca”. Scrive: “La donna non ha bisogno di apprezzarsi con le attenzioni che l’uomo le rivolge”.

Di conseguenza… ma che ti fischi, zoticone? E tu, donna, che ti commuovi con lui in ginocchio che ti chiede di sposarlo? E ti dà l’anello! Idiota, lo vuoi capire o no che stai passando dall’arbitrio di un (pene) padre a quello di un (pene) marito? Ti stai creando il tuo inferno. Lo vuoi? Stacci, ma ti voglio vedere quando la libertà busserà tra le tue cosce, con altro sesso, magari senza sentimento, il quale è sbagliato per la donna solo perché lo dice l’uomo. 'Fanc*lo Freud, 'fanc*lo il padre salvatore! “I padri sono uomini come gli altri”, mediocri, incapaci di badare a sé stessi: da chi ti devono proteggere, e da che???

Carla Lonzi non separava quanto diceva e scriveva da quanto lei viveva. Le sue prese di posizione incisero sul rapporto con Pietro Consagra, lo scultore, il quale io mi chiedo con che aspettative abbia accettato di registrare e far pubblicare trascritte nel libro "Vai Pure" le liti con la Lonzi. Carla lo massacra, lui ne esce da bambinone petulante, il peggiore prototipo del maschio. In una relazione ormai logora, è lei che lo mena, a parole, ed è lei che lo sovrasta: “Mi devo camuffare? Devo tacere? Io sto in piedi da me stessa, tu no! Tu hai bisogno di essere accudito, lusingato, io no! Tu vuoi una mamma, che ti dica ‘bravo’. Invece io voglio vedere cos’è la vita senza avere te come incubo quotidiano!”. 

Esiste uno strano tipo di uomo, femminista per rimorchiare. LORENZO GASPARRINI su Il Domani il 27 luglio 2022

Da un po’ di tempo circola questa idea: l’idea che dichiararsi femministi, o comunque rispettosi delle donne, o di credere nella parità di genere, sia un metodo, in realtà, per rimorchiare.

Questa idea ratifica lo sguardo eterosessuale come principale metro di giudizio del comportamento altrui. Ma soprattutto sono in contrasto con la natura del femminismo stesso, con quello a cui serve.

Certo che un uomo etero femminista ha una vita di relazione, sentimentale e sessuale, più appagante di uno indifferente alle questioni di genere, oppure proprio antifemminista o maschilista. Ma non per il motivo che è più facile immaginare.

Da un po’ di tempo circola questa idea: l’idea che dichiararsi femministi, o comunque rispettosi delle donne, o di credere nella parità di genere, sia un metodo per rendersi piacevoli alle donne, iniziare a conquistarle, avere accesso a un livello di vicinanza e di confidenza che potrebbe portare più facilmente a piacevolissimi traguardi sessuali. L’idea è cretina quanto poche altre, ma è sintomo di fenomeni estremamente interessanti dal punto di vista sociale.

FEMMINISTA MASCHIO ETERO

Innanzitutto questa idea ratifica lo sguardo eterosessuale come principale metro di giudizio del comportamento altrui. Un uomo sarebbe femminista perché vuole fare più sesso con le donne. Ecco già che gli uomini che non sono attratti sessualmente dalle donne non avrebbero alcun motivo per essere femministi: privi di uno scopo sessuale e non volendo un corpo femminile che subisca la pressione patriarcale, non hanno motivo di avvicinarsi ai femminismi.

Cretinata classica, che dimostra l’ignoranza riguardo le lotte femministe. Cretinata che - sia chiaro - è espressa anche da molte donne, ma ovviamente loro non sono nella stessa posizione sociale degli uomini, e hanno molte più ragioni per dubitare e criticare. A me interessano queste idee quando sono espresse da uomini - è proprio lì che sono più divertenti.

Indubbiamente è ancora difficile immaginare un uomo bianco etero che possa essere realmente interessato allo smantellamento dei poteri patriarcali in circolazione nella società, che sia effettivamente coinvolto nella ricerca di una parità sociale in tutti gli aspetti della vita in comune.

Però ci sarebbe sempre un’amara realtà da considerare: gli uomini etero vivono meno delle donne, muoiono in maniera più violenta e cruenta, si ammalano più gravemente e cadono più spesso in depressione cronica, ma guai a far loro notare che queste sono conseguenze di un’idea tossica di maschilità - come hanno dimostrato tanti femminismi.

La narrazione tossica produce già ottime spiegazioni facili da capire ma sbagliate: la colpa è del capitalismo (figlio maschio del patriarcato), la colpa è dei politici (uomini etero per la maggior parte), la colpa è delle donne (idea giusto in filino maschilista). I vantaggi a essere femministi ce ne sarebbero parecchi ma se si scambia costantemente la causa con l’effetto, e non si vuole riconoscere di essere condizionati a farlo, certi ragionamenti sociali pure evidenti sono impossibili fin dall’inizio.

I FEMMINISTI STANNO MEGLIO CON LE DONNE 

La cosa più divertente, per quanto complessa da spiegare, è proprio che l’idea del titolo, pur espressa così rozzamente, è giusta: certo che un uomo etero femminista ha una vita di relazione, sentimentale e sessuale, più appagante di uno indifferente alle questioni di genere, oppure proprio antifemminista o maschilista. Ma non per il motivo che è più facile immaginare.

Essere femminista significa innanzitutto avere smantellato la necessità di tutto quell’apparato di codici sociali che va sotto il nome di “corteggiamento”. Sottolineo: la necessità. Questo infatti non vuole dire che un femminista non corteggi: vuol dire che lo fa solo dopo essere sicuro che sia qualcosa di gradito, e che è un gioco da fare in due e non una dimostrazione di potere di uno sull’altra.

Quando grazie a una critica dell’idea maschile ancora diffusissima nella nostra cultura molti più uomini etero capiranno come vivere il loro desiderio senza bisogno di ricorrere a metafore belliche (la “conquista”), né a comportamenti nei quali mettono in mostra un potere di genere, tutto quell’indotto di frustrazione, ansia da prestazione, sicumera sfacciata, terrore di presentarsi, prosopopea maschioalfa, pavoneggiamento rituale - semplicemente svaniscono. Il mio desiderio si manifesta palese ma educato, presente ma non pressante, esistente ma non esuberante. Chi è interessata risponderà allo stesso desiderio con il suo, chi non è interessata no, e fine lì.

Una volta che avremo imparato ad agire una maschilità non tossica, non considereremo più un rifiuto come un affronto, un diniego come una umiliazione, un “no” come una sfida mortale, perché nessuno di quegli eventi rappresenterà un’offesa alla propria maschilità, ma l’espressione, lecita e pacifica, di una libertà altrui.

CORTE E POTERE

Molti e molte continuano a rispondere, davanti a questi evidenti dati di fatto, che a loro piace il corteggiamento, piace essere corteggiate e piace corteggiare “alla vecchia maniera”. Nessuno glielo vieta né credo voglia farlo, ma mi piacerebbe che chiunque fosse più consapevole di cosa sia il corteggiamento, di cosa sia “la vecchia maniera”.

Dovremmo ricordare più spesso che il corteggiamento e più in generale quell’ambito di precetti morali e comportamentali che era “la cavalleria” consisteva in un codice di condotta tenuto da persone di altissimo livello sociale. Lo scopo era, in estrema sintesi, fare in modo che i figli nobili ma senza eredità di terra e potere (non primogeniti e non votati alla carriera ecclesiastica) potessero incontrare figlie nobili che invece l’eredità di terra e potere l’avevano (uniche o primogenite) allo scopo di produrre una nuova discendenza maschile dotata di più terra e più potere.

Sì, sono passati secoli, ma la cavalleria e il corteggiamento sono rimasti comportamenti codificati per mettere in atto un preciso rapporto sociale di potere. Esattamente quello per cui ancora tanti uomini si lamentano di pagare una cena per poi non avere nulla in cambio - quando va bene, che diventano cocktail offerti come occasione per stupri.

Non sarebbe più liberante per tuttə sbarazzarci di questi rapporti di potere nascosti in inviti, precedenze in porte aperte, complimenti non richiesti e così via, e imparare a gestire ed esprimere più sensatamente il proprio desiderio?

TRAVESTIRSI DA MACHO

Questo sa fare un uomo femminista, tra le altre cose, né più né meno. Non ha alcun bisogno di indossare maschere o interpretare ruoli per far capire il proprio interesse sessuale, né richiede che chi lo interessa interpreti a sua volta particolari ruoli o si comporti come secondo lui dovrebbe fare chi ritiene sessualmente appagante. Perché sa benissimo, come tantə raccontano da anni, che un sesso felice, divertente e appagante è ogni volta una scoperta di sé e dell’altrə.

Ancora tanti uomini sono convinti di sapere come funziona il loro desiderio sessuale, cosa gli piace e cosa no, cosa desiderano e cosa no. Costruiscono il loro immaginario sessuale da quando sono ragazzini con i gusti spacciati loro da media che vendono da decenni il corpo femminile - e da un po’ anche quello maschile - a tranci di pericolose illusioni, o da una pornografia commerciale dov’è assente esattamente la componente più eccitante - l’incertezza del desiderio - rimpiazzata da un copione rassicurante, da uno sguardo confortevole, da un esito scontato come nelle migliori finzioni cinematografiche. Il risultato lo conosciamo: uomini che costruiscono la loro identità di genere sulla quantità di rapporti sessuali “portati a termine” secondo il loro criterio disumanizzante, oppure uomini paralizzati da ansie da prestazione che gli impediscono qualsiasi forma di appagamento felice, oppure uomini arrabbiati contro le donne “libere di scegliere con chi fare sesso”, come se poter scegliere fosse un delitto di lesa maestà.

Una volta compreso e fatto esperienza che tutto questo arsenale difensivo - sì, è principalmente difensivo - che gli uomini si tramandano da generazioni, attraverso una cultura gerarchica e oppressiva, produce solo sofferenze per chi lo agisce e per chi lo subisce, viene da sé anche accorgersi che si tratta di un problema sociale che possiamo risolvere solo parlandone insieme, smettendo di credere alla storia - difensiva anche questa - di qualche individuo maschile particolarmente stronzo o “pazzo”. Questo raccontano, da secoli, tanti femminismi. Questo ha capito, finalmente, un uomo femminista, che sa di non aver alcun motivo per continuare a impersonare quel maschio che non è necessario essere. LORENZO GASPARRINI

"Il femminismo è un errore". La lezione inascoltata della prima donna futurista. Elena Barlozzari il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

"Il femminismo è un errore cerebrale della donna". Chi è Valentine de Saint-Point, poetessa e autrice del Manifesto della Donna futurista, che il Vate ribattezzò "Fille du Soleil".

Chissà cosa direbbe delle quote rosa, dello scwha, del sesso liquido e di tutte le futilità in cui si è perso il pensiero femminista contemporaneo. Lei che andava fiera ed orgogliosa della propria femminilità feroce, tanto da sbatterla in faccia a Filippo Tommaso Marinetti – padre della rivoluzione futurista e teorico del “disprezzo della donna” – con un contromanifesto che a distanza di più di un secolo non ha perso un briciolo del suo vigore.

Lei è Valentine de Saint Point e sosteneva che il femminismo fosse “un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà”. Nata a Lione nel 1875 come Anna Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cassiat-Vercell e morta a Il Cairo nel 1953 come Raouhya Nour el Dine. Settantotto anni di vita vissuta senza parsimonia, con il gusto dell’avventura, la fame di sperimentarsi, il desiderio di superarsi. Senza pudori né imbarazzo. Sempre con un tocco di rosso scarlatto addosso. È stata futurista quel tanto che bastò per dare scandalo, musa di pittori e scultori, danzatrice, crocerossina ed infine esule e convertita all’Islam. Era un’anima inquieta e intrepida Valentine, espressione perfetta delle avanguardie culturali del secolo breve.

Figlia della buona società di Lione, nel suo albero genealogico c’è una lontana parentela con il poeta romantico Alphonse de Lamartine. La fascinazione per l’illustre prozio è tanta che Valentine, già scrittrice in erba, mutuerà il proprio nome d’arte dalla residenza di quest’ultimo: il castello di Saint-Point in Borgogna. Si sposa a diciotto anni con un professore di letteratura del liceo ma sei anni dopo è già costretta vestire a lutto. L’insofferenza per la realtà ristretta da cui proviene e il fermento culturale dei primi del Novecento la portano a Parigi.

La città la rapisce. Segna l’avvio della sua carriera letteraria e di tumulti personali che saranno il nutrimento della sua arte. Pur di coronare sotto forma di “unione libera” la passione con il poeta e romanziere Ricciotto Canudo, colui che per primo ebbe l’intuizione di indicare il cinema come “settima arte”, accetterà il peso di un divorzio con colpa dal secondo marito. Nel frattempo irrompe sulla scena artistica con raccolte poetiche (Poèmes de la Mer et du Soleil, Poèmes d’orgueil, La Soif et les Mirages) e romanzi (Trilogie de l’amour et de la mort). La critica la accoglie con curiosità. Guillaume Apollinaire dirà di lei che “ha innalzato mirabili canti lirici, talvolta aspri come profezie”.

Era bella Valentine. Molto più bella di quanto raccontino le foto in bianco e nero. Bella come un quadro di Alphonse Mucha o una scultura di Auguste Rodin. Fu per entrambi modella, musa e amante. Anche Gabriele D’Annunzio rimase abbagliato dal suo fascino, tanto da battezzarla “Fille du Soleil”. Ma il sodalizio intellettuale e umano a cui deve la sua fama fu sicuramente quello con Filippo Tommaso Marinetti. Quando si incontrano l’effetto è quello del fiammifero sulla superficie ruvida. È subito fuoco ma si consuma in fretta. È di quella stagione il Manifesto della Donna futurista, a cui seguirà quello della Lussuria. Sola e unica letterata – in un’epoca in cui c’è un vero e proprio florilegio del genere – ad averne scritti due.

Nati per reazione, quasi epidermica, al dirompente Manifesto futurista di Marinetti e in particolare al nono punto: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”. Valentine è fermamente convinta che nessuna rivoluzione, neppure quella dei futuristi, può prescindere dalle donne e rivendica per sé e per le sue sorelle un posto nella storia. Donne che sono le Erinni, le Amazzoni, le Giovanna d’Arco, le Cleopatra e le Messalina. Eroine come Caterina Sforza che durante l’assedio di Forlì non capitolò neppure quando, dall’alto della rocca, vide il nemico minacciare la vita di suo figlio.

“Già da secoli si cozza contro l’istinto della donna, null’altro si pregia di lei che la grazia e la tenerezza. (…) Ma gridatele una parola nuova, lanciate un grido di guerra, e con gioia, cavalcando di nuovo il suo istinto, essa vi precederà verso conquiste insperate. Quando le vostre armi dovranno servire, la donna le forbirà”. E ancora: “Invece di ridurre l’uomo alla servitù degli esecrabili bisogni sentimentali, spingete i vostri figliuoli e i vostri uomini a superarsi. Siete voi che li fate. Voi avete su loro ogni potere”.

È il concetto del superuomo nietzschiano che Valentine traspone al di là dei generi. D’altronde per lei era assurdo dividere l’umanità in donne e uomini in una illogica contrapposizione tra i sessi: “Essa è composta soltanto di femminilità e di mascolinità. (…) Ogni superuomo, ogni eroe, per quanto sia epico, (…) è composto, ad un tempo, di elementi femminili e di elementi maschili”. Trasportata dall’epos del futurismo, si arruola come volontaria nella Croce Rossa durante la Prima guerra mondiale. È un bagno di sangue e di realtà. Non c’è lirica né fierezza nel ricomporre i corpi straziati e nel conforto ai sopravvissuti. Valentine si perde.

Gli anni successivi li passa alla ricerca di una nuova identità. La ritroverà in Egitto con il nome di Raouhya Nour el Dine che significa “luce della religione”. Sotto il segno della mezzaluna, Valentine abbraccia la causa dei nazionalisti egiziani in lotta contro le ingerenze del Regno Unito e s’interroga su questioni ancora attuali: il rapporto tra Oriente e Occidente, tra spiritualità e scientismo, religione e diritto positivo. Riflessioni che la porteranno sui sentieri del misticismo e dell’esoterismo, sotto la sapiente guida dell’amico René Guénon. È morta povera e riposa sotto una lapide spoglia nella Città dei Morti a Il Cairo.

Il libro su erotismo e femminismo delle “Tre Marie” che fece infuriare la dittatura in Portogallo. Scritto da un gruppo di donne, parlava di sessualità e ridicolizzava l’idea del maschio. Generò uno scandalo nel 1972, con tanto di ritiro del volume e processo per le autrici. Ma grazie a questo si arrivò al successo mondiale. Francesca Basso, Serena Cacchioli e Federica Delogu su L'Espresso il 18 Luglio 2022.

È un Paese conservatore e immobile, da più di quarant’anni intrappolato in una dittatura colonialista, il Portogallo in cui nel 1972 esce “As novas cartas portuguesas”, “Le nuove lettere portoghesi”. Un libro scritto da tre donne in un Paese dominato dagli uomini, che parla di sessualità e piacere femminile, ridicolizza l’idea del maschio, ne smaschera vizi e presunzioni. E infatti il regime portoghese, che cadrà solo due anni dopo, il 25 aprile 1974, reagisce al libro scandaloso di Maria Isabel Barreno, Maria Teresa Horta e Maria Velho da Costa ritirando il volume tre giorni dopo la pubblicazione e incriminando e processando le autrici. Loro, da quel momento conosciute come le Tre Marie, avevano già pubblicato, ognuna per proprio conto, altre opere ritenute immorali dal regime.

L’ultima a farlo, Maria Teresa Horta, l’unica delle tre ancora oggi in vita, aveva subito, per il suo libro di poesie “Minha Senhora de mim”, “Mia signora di me,” persecuzioni personali, telefonate notturne e un pestaggio per strada. Horta, giornalista del quotidiano A Capital, in quel periodo aveva intervistato Maria Isabel Barreno, a sua volta amica di Maria Velho da Costa. Ne era nata un’amicizia e le tre avevano iniziato a incontrarsi ogni settimana per pranzo al ristorante Treze, ritrovo di giornalisti e intellettuali nel quartiere Bairro Alto di Lisbona. Fu proprio durante un pranzo al Treze che nacque l’idea delle Novas Cartas. L’arrivo di Horta piena di lividi dopo l’aggressione scosse le compagne che reagirono con la frase che diede inizio all’opera: «Se un libro scritto da una donna sola ha provocato tanto scalpore, immaginatevi che succederebbe se a scriverlo fossimo in tre». 

Le Novas Cartas ricalcano, stravolgendolo, il modello di un’opera epistolare amorosa del Seicento, in cui una monaca portoghese, Mariana Alcoforado, languisce d’amore per un soldato francese con cui aveva una relazione clandestina. Le Tre Marie riprendono la storia e le sofferenze di Mariana, riscattandola dalla sua posizione subordinata. Nelle Novas Cartas compaiono voci di donne che si intrecciano, dialogano, raccontano, si ribellano e ridono di un sistema che le penalizza e ne perpetua l’oppressione. È un’opera arguta e ironica, che indica, precisa e dissacrante, tutte le contraddizioni sociali e politiche della società portoghese, dalla guerra coloniale alla situazione delle donne.

«La scrittura a sei mani fu un gesto di solidarietà meraviglioso, sorprendente», racconta Maria Teresa Horta a L’Espresso: «Un giorno, dopo la mia aggressione, Isabel tirò fuori dalla borsa tre fogli di carta e ci disse: “Ecco, prendete, questo è il primo testo. Volevate scrivere un’opera epistolare? Ecco qua”. L’unica cosa che ci dicemmo sempre fu: la prima lettera è di Isabel, il resto nessuno saprà chi lo ha scritto. Fu un processo molto interessante, una delle cose più belle della mia vita».

Dopo l’uscita del libro le tre autrici furono sottoposte a interrogatori separati, ma non rivelarono mai chi avesse scritto cosa, nonostante l’insistenza della polizia che chiedeva chi di loro fosse l’autrice dei testi considerati più scabrosi. Si rifiutarono di rivelarlo anche successivamente. Gli interrogatori furono condotti dall’equivalente della buoncostume italiana, e non dalla Pide, la polizia politica, nel tentativo di sminuire e strappare all’opera il suo vero portato, non riconoscendone la profonda dimensione politica.

Un libro non concepito come femminista, ma che finì inevitabilmente per diventarne un manifesto, grazie anche alla lettura che ne fecero le femministe francesi e inglesi. Se in Portogallo infatti il regime lo censurò quasi immediatamente, il libro ottenne successo e notorietà all’estero. «Un amico di Maria Isabel Barreno portò il nostro libro in Francia. Non potemmo parlarne al telefono, né per posta. Ci incontrammo di persona e lui partì con due o tre copie», racconta ancora Horta.

L’opera arrivò a Marguerite Duras, Simone de Beauvoir, Doris Lessing e Iris Murdoch e soprattutto in Francia divenne un simbolo della ribellione femminile contro il potere oppressore. Fu lanciata una petizione di mobilitazione internazionale per chiedere il rinvio del processo e organizzate manifestazioni di solidarietà. Al Congresso della National Organization for Women (Now), nel giugno del 1973 a Boston, si parlò delle Tre Marie e furono distribuiti volantini con il resoconto delle udienze.

L’eco internazionale non arrivò però in Portogallo, ancora colpito da una pervasiva censura di regime. Antonio de Oliveira Salazar era morto nel 1970, due anni dopo una caduta da una sedia che lo aveva costretto a lasciare il governo a Marcelo Caetano. Nonostante la promessa di apertura del regime, Caetano aveva proseguito la politica dittatoriale, mentre cresceva nel Paese il malcontento per la decennale guerra coloniale in Africa. 

Arrivò solo, quasi nascosta e su pochissimi giornali, la notizia del processo che le tre scrittrici subirono nell’ottobre del ‘73. Qualche giornale ne parlò, dando conto della decisione del giudice di evacuare l’aula del tribunale dove si erano date appuntamento intellettuali straniere e portoghesi, giornalisti e osservatrici dei movimenti femministi.

Fu solo dopo il 25 aprile del 1974, con la fine della dittatura, che le tre Marie vennero definitivamente assolte. Un mese dopo la ritrovata democrazia il giudice Acácio Lopes Cardoso lesse la sentenza: «Il libro non è pornografico né immorale. Al contrario: è un’opera d’arte, di alto livello, come gli altri che le stesse autrici avevano scritto in precedenza».

“È un’opera senza eguali - spiega Manuela Tavares, attivista femminista e fondatrice dell’UMAR, storica associazione di donne - perché ha fatto entrare per la prima volta nella sfera pubblica portoghese le questioni intime e private delle donne. Durante la dittatura lottare per i diritti delle donne e definirsi femminista significava esporsi pericolosamente”.

Tavares racconta che “per l’Estado Novo il femminismo era un nemico ideologico perché andava contro tutto quello che la dittatura pretendeva dalle donne: una vita di sottomissione, casa, figli, marito”. Se da un lato, dopo il 25 aprile 1974, l’uguaglianza di genere si è fatta strada nella politica e nel dibattito pubblico portoghese, i temi “scandalosi” delle Novas Cartas rimangono centrali per la lotta femminista anche molto dopo la fine della dittatura. “In un paese che ha depenalizzato l’aborto solo nel 2007 - sostiene Tavares - il termine femminismo continua a essere una parola poco amata ben dopo il 25 aprile”.

Per questo e per la loro valenza letteraria, conclude, le Novas Cartas rimangono un testo fondamentale: “Quando entrai in contatto con il libro, molto tempo dopo la fine del regime, sentii che era imprescindibile che le donne portoghesi lo leggessero e ci riflettessero sopra. E continua ad essere rilevante ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, e non solo per ragioni di memoria storica, ma perché è un’opera ancora in grado di scandalizzare e sorprendere”.

L’antropologia della «Schifa». La «Schifa» è un soggetto diverso dalla comune moglie arricchita. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Giugno 2022

La «Schifa» è un soggetto diverso dalla comune moglie arricchita. Eroina del darwinismo utilitaristico, d’estate frequenta lidi a portata di zampa quando sta a Bari, appena parte, sabbie costose quanto granelli di argento. Non divorzia, non può essere single. Belloccia, mediocre o bruttina ha dai 40 ai 60 anni, ma anche sui 35 se ha programmato il futuro agiatissimo con preveggenza di pizia. Non pensa: agisce, l’azione in lei è filosofia. Si espone sul lettino per ore ai raggi che le conferiscono un colorito da mummia egizia. Mascella immota, braccia conserte, deretano atteggiato a guisa di trono che ondeggia quando cammina lungo la battigia. Gambe modellate da schiave estetiste, un tatuaggio piccolo o niente, unghie laccate dalla moda del giorno, della settimana o nei casi peggiori del mese. Anelli squillanti di griffe e soprattutto un marito sfondato di euro, dal QI 0,7, sorriso furbo ebete, andatura fra il tubista e il laureato-post mediante mazzetta.

Viene dalle classi bassa o media dalle quali si eleva bigliettone di euro su bigliettone di euro. Da quando Putin è spuntato nelle nostre esistenze, con le amiche «Schife» lamenta tirchiaggini del consorte dai polsi carichi di braccialetti: «Siamo arrivati a 11.000 euro per una vacanza. E se risparmiamo 4.000 rispetto a prima che cambia?». «Io sono una persona di stimoli, non posso andare sempre allo stesso posto». «Sono sicura che Antonio tiene la commara, se ne andasse da quella». «Scusa, che te ne frega?». «Niente, tanto sempre a me mi deve portare i soldi. Ma va sempre in Romania: e ai figli l’affetto?!».

Se ti avvicini alla Schifa ella ti squadra schifandoti con sopracciglio di strega: chi sei? Quanti soldi tieni? Che macchina tieni? Se le regali un libro ti denuncia ai carabinieri: «Un molestatore si è avvicinato offrendomi una cosa strana di carta, credo un toy per fare sesso». È semi-fedele: meglio i soldi del sesso. Ha un perpetuo grugno di seccatura sul muso bronzeo che tiene. In vacanza mangia soltanto aria, sali marini, espressino: è sempre a dieta. Anche se si trova a Dubai per fare i selfie con gli sceicchi, vola a Bari dal visagista per rimpinguarsi lo zigomo di botulino. Se litiga con il consorte si sfoga con l’amica Schifa e si cazza in shopping 3.000 dei di lui euro (tiene la carta). Ha papille di fiele, di tutti i baresi che contano sa tutto il peggio che c’è da sapere. Del meglio, briciole. Arcigna, basica, irresistibile, immarcescibile nella sua statua di «Schifa».

Camillo Langone per ilfoglio.it il 15 giugno 2022.

Sia riconsacrato il Campovolo di Reggio Emilia, profanato sabato dalle femministe in concerto (con femministi annessi, al guinzaglio). 

Il Campovolo, per chi lo ignorasse, è il tempio della differenza sessuale in musica, essendo il palcoscenico prediletto di Luciano Ligabue che ci ha appena organizzato uno dei suoi maxiconcerti. Il cantante correggese è il massimo esemplare di Vir Padano, uomo dai nervi molto ben protesi, predicatore di Genesi 1,27 grazie alla voce baritonale e alle parole perfette rivolte alla donna “che ti tiene fra le sue tette / un po’ mamma un po’ porca com’è”. 

Invece Fiorella Mannoia, Emma, Alessandra Amoroso, Giorgia, Elisa, Gianna Nannini e Laura Pausini (insieme ai collaborazionisti Diodato, Brunori Sas, Tommaso Paradiso...) hanno comiziato contro la violenza di genere e dunque, nel loro determinismo senza scampo e senza luce, contro il genere maschile.

La Nannini indossava una maglietta con scritto “La femminilità è una trappola”, slogan lanciato da Simone de Beauvoir contro la natura e contro il creatore della natura, Dio... Sia riconsacrato il Campovolo di Reggio Emilia, con una cover ligabuesca del capolavoro di Vecchioni: “Voglio una donna donna / donna con la gonna”. 

Francesca D'Angelo per “Libero quotidiano” il 15 giugno 2022.

Vasco Rossi va davvero al massimo. E non lo diciamo "solo" perché, a settant' anni suonati, ha appena tenuto due concertoni a Roma con 70mila cristiani stipati dentro al Circo Massimo, che lo osannavano entusiasti. 

Va al massimo perché se ne frega ("...di tutto, sìììì") e dice quello che gli pare infischiandosene del politicamente corretto. E il bello è che a lui, ma solo a lui, non succede nulla. Abbiamo appositamente aspettato un paio di giorni per scrivere questo articolo proprio per vedere se qualcuno si sarebbe indignato. Risultato: zero. A questo punto vi starete chiedendo a cosa diavolo ci stiamo riferendo. Giusto. Durante il suo doppio concerto romano, Vasco il rivoluzionario ha spesso intervallato le canzoni urlando (citiamo testualmente) "viva la figa".

Certo, lui lo ha sempre fatto ma oggi è il 2022, l'era dei no gender e delle femministe indiavolate. Non siamo mica negli anni 90 quando, almeno per il mondo del rock, esisteva solo un'unica opzione sessuale, ossia quella etero. Ci vuole insomma parecchio coraggio a dire quello che ha detto Vasco. Pensate che il quotidiano Repubblica, nel raccontare la seratona al Circo Massimo, non se l'è sentita di scrivere "viva la figa" che, nell'articolo del collega, è diventata "viva la biga". 

Eppure non ci sarebbe stato niente di male a usare la versione originale: è una frase di Vasco, non dello scrivente. Alla peggio il giornalista si poteva appellare al diritto di cronaca. Invece niente, Repubblica edulcora perché vai a capire se poi, alla fine, qualcuno si offende. Effettivamente l'eloquio usato dal Blasco non è il massimo anche perché ridurre le donne ai loro genitali femminili distrugge anni di lotta perla parità. Per non parlare della possibile indignazione tra chi non vuole saperne di etichette sessuali e rifiuta qualsivoglia discorso riconducibile al sesso biologico.

Della serie: non esistono maschi e femmine, ma solo la persona. In quel "viva la figa" c'era insomma abbastanza per scatenare un putiferio. Invece, nulla: sono tutti felici di cantare Albachiara e va bene così. Vasco tra l'altro ci prende gusto e rincara la dose. 

Alla fine di Ti taglio la gola, il rocker chiosa: «Ringraziamo il cielo che ci ha dato la femmina». Non l'amore o la pace nel mondo, ma "la femmina". Tra l'altro il nostro ha pure cambiato il testo della suddetta canzone con una nuova strofa che Repubblica non esita a definire (tenetevi forte) "sporcacciona". Il passaggio incriminato allude al sesso orale. Adesso non si taglia più nessuna gola, ma si lecca qualcos' altro e per chi non lo avesse capito Vasco fa pure il segno del triangolo con le dita. Un gesto tipicamente femminista, qui buttato alle ortiche. Ebbene, in passato altri cantanti hanno dovuto combattere con micidiali shit storm per molto meno.

A Roma, invece, i fan sono usciti tutti estasiati dal mega concertone, senza porsi problemi linguistici, di sensibilità o altro. Nessuno si è sentito discriminato: si è solo cantato insieme canzoni che, negli anni 80 e 90, avevano un senso diverso rispetto a oggi. E che quindi sono ancora lecite. 

Quando arriva il momento della canzone Rewind, uno stuolo di ragazze sale sulle spalle degli amici levandosi la maglietta. Per una notte Vasco ci ha quindi liberato dal politicamente corretto e dalla cancel culture. Non tutto quello che ha gridato da quel palco era saggio - ovvio che no - però era sicuramente lecito in un Paese che vuole essere libero e realmente inclusivo.

Già che c'era il nostro ha pure mandato a quel paese la guerra: non scomoda riferimenti alti come hanno fatto i Maneskin con Chaplin, ma dice solo un banalissimo «la guerra è contro le donne, contro gli anziani, contro i bambini; dove c'è musica non c'è guerra e dove c'è guerra non c'è musica». Seguono applausi a non finire, manco fosse Shakespeare. A questo punto noi la buttiamo lì: e se mandassimo Vasco, in Russia, al posto di Giletti? Magari funziona. 

Fine fatica mai. La passera floreale di Madonna e la donnitudine postmoderna. Guia Soncini su L'Inkiesta il 14 Maggio 2022.

La popstar ha deciso di produrre un NFT in cui le escono degli alberi dalla vagina. Le perdoniamo anche questa scemenza perché è una tela su cui abbiamo sempre proiettato la possibilità di farcela anche se non eri né la più bella né la più intonata.

Quasi quasi parlo degli NFT, che mentre scrivevo L’economia del sé ho passato giorni a studiare convinta mi stesse sfuggendo qualcosa: ciò di cui parlavano tutti non poteva essere la formidabile stronzata che pareva a una ricognizione superficiale. E invece era proprio una scemenza come Second Life (ve la ricordate? Era l’irrinunciabilità di vent’anni fa) o Clubhouse (ve la ricordate? Era l’irrinunciabilità di tre quarti d’ora fa): che fatica un’epoca in cui ogni settimana sei costretta a studiare una nuova scemenza che dopo tre quarti d’ora non ti servirà più conoscere.

Parlerei persino degli NFT, che mi interessano forse addirittura meno del calcio, pur di non parlare di Madonna che produce un NFT in cui le escono degli alberi dalla passera, la Courbet dell’epoca dei bitcoin (no, quello di Courbet mica era un autoritratto, e la vagina virtuale di Madonna l’ha disegnata un tal Beeple, quindi semmai Courbet sarebbe lui, e lei la modella, ma a fama invertita: di Constance Queniaux, la modella di Courbet, nessuno si ricorda il nome).

Il tema, ovviamente, non è la menopausa di Madonna, la menopausa di una che sta in scena da quarant’anni ma non si arrende, non si scansa, non si copre, e il tempo che abitiamo le ha fornito pure la copertura ideologica (se vi fa inorridire la vecchia con la passera fiorita è perché siete sessisti, siete ageisti, siete anatocisti). Il tema siamo noi.

Ha scritto ieri Maria Laura Rodotà sulla Stampa che «con Madonna e i suoi genitali molti di noi sono cresciuti» – il che è vero, per le trentaequalcosenni. Sex, il librone erotico patinato, è di trent’anni fa: noialtre eravamo già grandi. Per le mie coetanee – quelle che avevano dodici anni all’altezza di Like a Virgin e quattordici all’altezza di True Blue – Madonna è stata quasi tutto tranne che il sesso libero. Sì, nel video di Papa don’t preach aveva quella maglietta con scritto che gli italiani lo fanno meglio, ma era una canzone in cui diceva al padre che era rimasta incinta e voleva tenersi il bambino: neanche La ragazza con la pistola era così retrogrado, neanche le lettere a Cioè che chiedevano se il bidè con la Coca Cola fosse anticoncezionale facevano passare così tanto la voglia.

In compenso dopo quel video volevamo tutte tagliarci i capelli corti, così come dopo quello di Like a virgin avevamo comprato orrendi guanti di pizzo, così come da Material girl le migliori di noi impararono i fondamentali della scalata sociale: the boy with the cold hard cash is always mister right. La passera era un mezzo, mica un’installazione botanica.

Adesso che la passera è un fine – e che a chiamarla così verrò come minimo accusata d’essere Belpietro: siamo un’epoca che fa passare concetti mostruosi sterilizzandone il lessico, e quindi una detentrice di passera è obbligata a chiamarla vagina – Madonna si dev’essere giustamente chiesta perché solo lei no.

Se tra i libri più venduti in Italia ci sono le poesie di una tizia di cui non si conoscono le doti letterarie, ma si sa che si espone molto per ottenere una legge che riconosca il mal di vagina (ignoravo fosse finora illegale avere male là sotto, ma è perché ho moltissimi limiti culturali), allora vuol dire che la vagina è una corrente letteraria, artistica, espressiva. Se i giornali sono pieni della poetessa esordiente cui duole, Madonna – con la carriera che ha avuto – avrà pur diritto di farsela fiorire.

Oltretutto per beneficenza (ai bambini ucraini: c’è pure il ricatto del tema importante): l’asta per gli NFT si chiudeva ieri notte, chissà quale dei tre è stato quotato di più. Quello in cui dalla cicconica passera esce un albero, quello in cui escono farfalle, quello in cui escono bruchi (che sembra un po’ la scena dei Visitor in cui l’umana partoriva l’alieno: se siete della generazione cresciuta con Madonna ve ne ricorderete).

Il tema, insisto, siamo noi: Madonna è una tela su cui abbiamo sempre proiettato tutto, la smania di rivalsa sociale, la possibilità di farcela se non eri né la più bella né la più intonata, persino quello slogan che è sempre falso tranne quando la riguarda, quello dei quarant’anni che sono i nuovi vent’anni. A quarant’anni, Madonna era bella come mai prima. Era l’anno di Ray of Light, per capirci. Era a metà tra la prima e la seconda gravidanza, era una tizia che aveva partorito e aveva la pancia più piatta che a venticinque anni, era una che cantava da che avevamo memoria e ora faceva il suo miglior disco, era la prova che persino quando eri Madonna avevi margini di miglioramento, e che non esistevano «ormai è tardi» che avessero senso.

Adesso, ogni volta che la vediamo su Instagram piena di filtri e di iniezioni e di smaniosità e di figli e d’apparente incapacità di rilassarsi, noi ci agitiamo e rivorremmo la possibilità di dire che ormai è tardi: questa vita che è cominciata a quarant’anni ci toccherà accollarcela anche a settanta? Dovremo essere ancora in forma, ancora fotogeniche, ancora alla ricerca di modi per farci notare, pure se quei modi consistono nel far produrre un avatar di noi stesse (che in realtà sembra un avatar della Barbie) dalla cui passera far uscire flora e fauna? Non arriverà a nessuna età di questa dannatissima donnitudine postmoderna il momento di sfilarci la dentiera, metterla nel bicchiere, e passare la serata a leggere un giallo sotto la coperta? Fine fatica mai?

La 'denuncia' su TikTok. Menu senza prezzi riservato alle donne, la polemica dell’influencer in viaggio a Venezia: “Guadagno più io, il patriarcato colpisce ancora”. Roberta Davi su Il Riformista il 6 Aprile 2022. 

“Il patriarcato colpisce ancora”. Una polemica che coinvolge l’Italia e, in modo particolare, l’abitudine- spesso di ristoranti stellati o griffati– di portare all’uomo il menu con i prezzi, riservando invece alla donna un ‘blind menu‘, senza alcun riferimento alle tariffe, ma solo con il nome dei piatti e l’elenco degli ingredienti. Una consuetudine, nel 2022 che va contro il concetto di emancipazione e di indipendenza della donna.

A sottolinearlo, tramite un video sul suo profilo TikTok da oltre 298mila follower, è Abbie Chatfield, personaggio televisivo e influencer australiana.

La ‘denuncia’ social

“Siamo in un ristorante raffinato e lui (il fidanzato Konrad Bien-Stephens, ndr) ha un menù con i prezzi, mentre io no” racconta l’influencer, che qualche giorno fa si trovava in vacanza a Venezia e a cena in un locale piuttosto lussuoso affacciato sulla laguna. Una sorpresa amara per lei che, nella coppia, come tiene a sottolineare, è la persona più ‘forte’ da un punto di vista economico. Abbie Chatfield è poi tornata sull’argomento sulle stories di Instagram, considerando il risalto mediatico della vicenda e i molti commenti ricevuti, ribadendo come sia un’usanza sessista.

La polemica sui ‘blind menù’ non è di certo nuova e qualche mese fa aveva coinvolto anche un’altra star dei social, la modella Agustina Gandolfo, compagna del calciatore Lautaro Martinez.

In quell’occasione- la cena in un lussuoso ristorante di Milano per festeggiare il rinnovo del contratto dell’attaccante con l’Inter fino al 2026- la modella aveva scritto sulle storie di Instagram: “Lo sapevate che in Italia in diversi ristoranti non mettono i prezzi sul menù alle donne? E se volessi pagare io? Sono indignata. La cosa peggiore è che molti italiani giustificano questo fatto dicendo che succede solo nei ristoranti di un certo livello”. Per poi aggiungere: “E quindi le donne non possono pagare se si tratta di una cena più costosa?”

Le reazioni

Il presidente dell’ Associazione pubblici esercizi, Ernesto Pancin, prende le difese del ristorante veneziano. “Questa è la città dell’amore – minimizza – e quindi anche del romanticismo, del corteggiamento e della galanteria“.

Meno diplomatico il commento di Arrigo Cipriani, patron dell’Harry’s Bar: “Se un uomo lasciasse pagare il conto alla fidanzata sarebbe imbarazzante – sottolinea-. Nei miei locali non esiste il menu di cortesia ma se ci fosse non andrebbe certo presentato alla donna: è giusto che lei abbia ben chiara la cifra, spesso molto alta, che il suo accompagnatore pagherà per trascorrere quella serata.”

A chi è riservato il ‘menu di cortesia’

Il ‘blind menu’ in realtà è riservato agli ospiti. Segue la stessa logica applicata ai regali, ossia quando il negoziante oscura il prezzo di un oggetto oppure emette lo scontrino di cortesia. Nel nostro Paese, nel momento in cui al tavolo del ristorante arriva una coppia, il menu di cortesia viene solitamente portato alla ‘signora’. Una formula che però, a quanto pare, non si rivela al passo con i tempi. 

Roberta Davi

Alessandra Dal Monte per il “Corriere della Sera” il 7 aprile 2022.

Il menu della discordia stavolta ha il volto di Abbie Chatfield, l'influencer e conduttrice radiofonica australiana in vacanza con il fidanzato a Venezia che si è indignata su Instagram per la carta senza prezzi ricevuta al ristorante «Club del Doge»: una vecchia consuetudine diffusa non solo in Italia - in Perù, nel 2019, un ristorante è stato multato per questo - e soprattutto nell'alta ristorazione che presuppone sia l'uomo a pagare il conto. E che l'ha fatta gridare al «patriarcato». Ora Chatfield sarebbe sotto attacco da parte di «un sacco di italiani arrabbiati» che le starebbero scrivendo di «prendere lezioni di educazione»: «Ragazzi, ammettete che è sessismo», scrive nelle sue stories. 

Il tema sembra piccolo ma in realtà è enorme, chiama in causa i rapporti di coppia, di forza, il galateo e anche la galanteria. Che non guasta mai, ma nel 2022 può non essere decisa a monte: paga chi lo desidera, chi ha invitato, chi può. O si divide.

In ogni caso, visto il putiferio il ristorante si è scusato: «Siamo spiacenti di aver creato disagio a un'ospite. Faremo tesoro dell'errore per migliorarci. Chiederemo a tutti i clienti quale carta preferiscono». 

Non è la prima volta che il «menu di cortesia» genera polemiche: nel 2017 il critico dell'Observer Jay Rayner stroncò il «Le Cinq» di Parigi (anche) per questo. Nei mesi scorsi l'influencer Tea Hacic ha contestato il «Boeucc» di Milano e Augustina Gandolfo, fidanzata del calciatore Lautaro, se l'è presa con il ladies menu di vari locali italiani, postando nella fattispecie un lembo di quello del «Ristorante Cracco».

Episodio a cui lo chef vicentino non fa riferimento: «Nessuno si è mai lamentato con noi - spiega - Se poi un cliente esce e commenta diversamente non ci posso fare nulla. Ma sono almeno 4-5 anni che consegniamo il menu con i prezzi a tutti, a meno che non vi sia l'esplicita richiesta di evitarlo. Prima c'era, in effetti, l'usanza di portare al tavolo un menu normale e uno di cortesia, adesso non esiste maschio o femmina, esistono solo esigenze particolari che soddisfiamo». 

Cracco difende, poi, i colleghi veneziani: «A meno che non abbiano negato l'altro menu una volta richiesto, l'accusa di sessismo mi sembra esagerata: avranno fatto questo gesto sovrappensiero». Ecco, la sensazione è che spesso si segua una consuetudine senza troppo soffermarsi, come spiega lo stesso Andrea Berton, una stella Michelin a Milano: «Noi diamo il menu "cieco" alla donna di default, come abitudine. Ma in effetti se entrano due donne lo ricevono con i prezzi. E ci capita che qualcuna, se non lo vede completo, si infastidisca, allora lo sostituiamo subito. Io personalmente lo darei a tutti con i prezzi, ci siamo anche posti il tema con lo staff di recente e abbiamo deciso di andare avanti come sempre. Ma è un po' anacronistico anche perché, se penso alle coppie, uno scontrino su quattro lo paga la donna».

Davide Oldani al «D'O» non fa distinzioni: «È un'idea vecchia che la donna non veda i prezzi». Viviana Varese da «Viva» ha cambiato passo da dieci anni: «Un tempo si insegnava a scuola a dare il menu senza prezzi alle donne. Ma per fortuna le cose si sono evolute e oggi le clienti si incavolano. Anche la carta dei vini: va al centro o a chi la chiede, mai di default all'uomo». Antonia Klugmann al suo «Argine a Vencò» è categorica: «L'idea che la donna non paghi è antiquata. In 17 anni non ho mai consegnato un menu senza prezzi, a meno che non me lo chiedessero. Io stessa, se fossi ospite, vorrei sapere quanto paga l'altro». 

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 aprile 2022.

Caro Dago, in merito alle reazioni sconcertate di alcune donne -qualche giorno fa - al fatto che in non ricordo più quale ristorante italiano fosse stato presentato a una donna un menù ove non figuravano i prezzi ciascuna di ciascuna pietanza, e questo sulla base dell’idea pregiudiziale che non sarebbe stata di certo la signora a pagare. 

Le donne di cui sto dicendo ne erano inviperite, la reputavano un’offesa fatta al genere femminile, a donne che oggi lavorano e sgobbano come e più degli uomini e che figuriamoci se non sono in grado di pagare un conto al ristorante. Fuori di dubbio, tutti noi uomini del terzo millennio siamo circondati da donne che eccellono nei loro campi professionali.

Ti sto scrivendo a pochi giorni dalla sera in cui Michela mi ha offerto una sontuosa cena di pesce, e questo perché era il mio compleanno. Se non sbaglio il cameriere aveva portato a me il conto, e subito Michela lo aveva avocato a sé. Detto questo tanto il nostro cameriere che quello da cui siamo partiti si sono comportati correttissimamente. In linea di principio non sta né in cielo né in terra che non sia l’uomo a pagare il conto del ristorante. Ci mancherebbe altro. Ci mancherebbe altro. E’ una linea rossa fissata dai secoli che non si può oltrepassare. E difatti tutto il resto dell’anno sono io che pago le cene a due con Michela. E ci mancherebbe altro.

Quando nel 1978 mi dimisi dal “Paese Sera” perché non ne potevo più di lavorare in un quotidiano comunista, andammo a cena in quattro, io, Ernesto Galli della Loggia, Fiamma Nirenstein, una loro amica che non avevo mai visto e che non avrei mai più rivisto. Il conto era di diecimila lire ciascuno. Ernesto e Fiamma pagarono la loro quota, io che in tasca avevo in tutto e per tutto 20mila lire (e non è che nei cassetti di casa mia in quel momento ne avessi altre) pagai ovviamente la quota mia e dell’altra nostra ospite. E ci mancava altro. 

Ognuno nella sua vita si sceglie il suo di Corano. Per me è questo, che se conduco una donna da qualche parte sono io a pagare. Né ricordo che siano state numerose le donne che vi si opponessero. Lo faceva Laura, un’amica che non vedo più da quarant’anni, e che dovevi costringerla con la forza e non sempre ci riuscivi ad accettare di pagarle il cinema o il ristorante. A dire il vero non ne ricordo nessun’altra.

Ne ricordo una che mi telefonò perché andassimo a vedere un certo film in un certo cinema. Io lo feci apposta di farla entrare per prima e di avviarsi verso il botteghino con un certo vantaggio su di me. Ovvio che mai e poi mai le avrei consentito di pagare, ma mi incuriosiva come si sarebbe comportata. E difatti a due metri dal botteghino si arrestò. Ovviamente le passai innanzi e ovviamente pagai i due biglietti. Ci mancava altro. Ci mancava altro. 

Care donne, tutto potrete fare ma non toglierci l’onore di essere noi uomini a pagare quel che va pagato. Ci mancherebbe altro che ci fosse impedito di comportarci da uomini. E’ un articolo del Corano. Ci mancherebbe altro che al ristorante vi fosse dato un menu con i prezzi. Non esiste, non deve esistere. Vi rivolgo un inchino, e un grazie di esistere. Giampiero Mughini

L’Italia è una Repubblica fondata sulle donne. Fin quando si scherza. Francesco Colonnese, Comunicatore & anti-avvocato, su Il Riformista l'8 Marzo 2022 

Si fa presto a dire 8 marzo: festeggiare è sacrosanto, ricordarsi cosa si sta festeggiando probabilmente lo è di più. Poco più di un mese dopo l’elezione del nostro stimato Presidente Mattarella, a freddo, è giusto spiegare uno dei motivi per cui la sua riconferma rappresenta, in realtà, l’ultimo (a livello cronologico) grande fallimento della politica e della società italiana. Il Parlamento ha sbagliato non uno ma due rigori a porta vuota. Il primo penalty fallito consiste nel non aver avuto il coraggio, per l’ennesima volta, di eleggere una donna Presidente della Repubblica; non solo non lo abbiamo fatto ma abbiamo spedito nel tritacarne mediatico alcune delle candidature femminili di più alta levatura attualmente esprimibili dal nostro Paese: la Direttrice del DIS, la Ministra della Giustizia e la Presidente del Senato (seconda carica dello Stato). La seconda concreta occasione gettata alle ortiche si è materializzata quando si sarebbe potuto eleggere Mario Draghi al Quirinale, mettendo al suo posto la prima Presidente del Consiglio donna d’Italia. Questo scenario sarebbe stato un risultato, per certi versi, ancora più dirompente del primo perché Palazzo Chigi è, per le donne italiane, il tabù dei tabù. Il Quirinale viene sempre inteso, erroneamente, come un’istituzione di rappresentanza e più “soft”, mentre il Governo raffigura il massimo della virilità politica a cui si possa mai aspirare. Nessuno dei due “rosei” scenari si è verificato e, invece di assistere finalmente ad una svolta progressista, abbiamo visto l’ennesimo teatrino istituzionale con tutti i grandi elettori ad applaudire (record per numero di applausi) il Presidente Sergio Mattarella, dopo averne totalmente disatteso la chiara volontà di evitare un imbarazzante secondo mandato. Imbarazzante per il sistema, non per lui. La mancanza di lungimiranza della politica nostrana e la totale assenza di dialogo sul tema dell’elezione del Capo dello Stato hanno raggiunto l’apice con il Mattarella bis.

Per fortuna, al destino non manca mai un tocco d’ironia. A Palazzo Chigi, i partiti non sono riusciti a far succedere al Presidente Draghi la prima donna “Premier” ma nella BCE questo è già avvenuto: come sappiamo, infatti, a Mario Draghi è subentrata la Presidente Lagarde, avvocata parigina già direttrice del FMI. Ma non solo: ad ereditare la guida del Parlamento Europeo del compianto Presidente Sassoli è stata, di recente, la maltese Roberta Metsola. In Europa, i più grandi italiani vengono sistematicamente sostituiti da grandi europee, la legge del contrappasso. Per la prima volta nella storia, le tre principali cariche europee (Parlamento, Commissione e BCE) sono guidate da donne. La distanza, a livello di gender equality, tra la migliore Europa e l’Italia è siderale. L’Inghilterra, oltre alla Regina Elisabetta II (il Capo di Stato più longevo della storia), ha già avuto due Primi Ministri donna (Thatcher, May); in Germania, si è da poco conclusa la lunga era politica della Cancelliera Merkel; Svezia, Finlandia, Norvegia, Estonia, Lituania, Danimarca sono tutte democrazie che hanno già avuto Capi di Stato o di Governo donna. In Italia, invece, attualmente l’unica leader di Partito che può aspirare alla guida di Palazzo Chigi è Giorgia Meloni. Cosa aggiungere? 

In realtà, anche sulle leadership femminili europee ci sarebbe molto da dire. Non servono grandi analisti politici per notare che quasi tutte le leader europee sopracitate sono accomunate da “un piccolo dettaglio”: il loro orientamento conservatore. Terribile ammetterlo, ma è così: in Europa raggiungono il potere quasi sempre quelle donne che, più o meno consciamente, tutelano il modello patriarcale. Illuminante sul tema è il contributo di Davide di Maio, il quale ricorda una delle principali risposte a questo fenomeno: il “Glass cliff”, il “precipizio di vetro”. Una bislacca dinamica politica che consiste nell’affidare la responsabilità di governare ad una donna nei periodi storici più critici, come accaduto a Christine Lagarde (nominata a capo del FMI, nel 2011, in piena crisi economica), a Theresa May (che, nel 2019, non è riuscita nella complicatissima impresa di far adottare dai Comuni il suo accordo per la Brexit, vedendosi dunque costretta ad abbandonare la guida del Partito Conservatore) e a Ursula von der Leyen (giunta alla presidenza della Commissione Europea dopo un’elezione marcata dall’affermazione dei partiti più euroscettici in Europa). In buona sintesi, a ottenere la leadership sono quasi sempre donne con profili conservatori e tendenzialmente ostili ai diritti conquistati dalle donne stesse: non solo Giorgia Meloni e Marine Le Pen, ma anche la Presidente Metsola che da neo-eletta, è subito corsa ai ripari riducendo le sue storiche posizioni anti-abortiste a opinioni personali.

L’Italia del 2022 è un Paese in cui i luoghi comuni, anche e soprattutto l’8 marzo, spadroneggiano. Un Paese in cui il femminismo è sotto bersaglio di continuo ma in pochi sanno di cosa stanno parlando. Femminismo non è, banalmente, il contrario di maschilismo; si tratta di un movimento di rivendicazione dei diritti delle donne, nato alla fine del XVII secolo, che ha preso impulso soprattutto nella Rivoluzione Francese;  il maschilismo, come spiega la scrittrice e giornalista Jennifer Guerra, è un informe atteggiamento culturale, mentale e sociale che crede nella superiorità biologica e morale dell’uomo sulla donna. Quel pensiero dominante in cui le femministe appaiono come una “lobby di gattare” è totalmente privo di fondamento storico e politico e denota, peraltro, una profonda ignoranza sulle lotte concrete e vitali portate avanti da Olympe de Gouges, Mary Wollstonecraft, le Suffragette, Betty Friedan. Personalità tragicamente sconosciute ai più. 

L’Italia del 2022 è un Paese in cui (udite, udite) affidiamo l’avanguardia gender a Sanremo, ai monologhi eleganti di Drusilla Foer a fine serata, alle artiste che distribuiscono equamente i mazzi di fiori ricevuti da Amadeus ai colleghi maschi. Tutto condivisibile: l’arte deve fare la sua parte (e la fa) perché, da quando esiste l’umanità, gli artisti riescono a vedere il futuro prima degli altri. Ma, fin quando la parità dei sessi avrà briciole di eco sul palco dell’Ariston mentre le donne continueranno ad essere equiparate ad oggetti di design nei partiti (perché di questo stiamo parlando), saremo ben lontani dal permetterci il lusso di partire da zero. L’editoria ed il giornalismo, peraltro, non se la passano meglio dei partiti politici: Monica Maggioni è diventata la prima direttrice del telegiornale di Rai1 nel 2021, dopo 67 anni dalla fondazione della tv di Stato. Bene, tuttavia la saltuaria centralità giornalistica di figure come Gabanelli, Annunziata, Gruber, Schianchi, Cuzzocrea sembra più il frutto della statistica che la logica conseguenza di un sistema mediatico in salute e profondamente imperniato nella meritocrazia. Nel campo dell’editoria, il 78% dei posti dirigenziali è costituito da uomini, c’è una sola Direttrice responsabile di un quotidiano nazionale, Agnese Pini (La Nazione); il Corriere della Sera, primo quotidiano in Italia, ha firme maschili per oltre il 70%. Non meraviglia dunque la gaffe di Beppe Severgnini che, parlando a “8 e mezzo”, lo scorso novembre, del potenziale politico dei Ferragnez, ha qualificato come “carina” la più importante influencer italiana. Aldilà dei pareri soggettivi su Chiara Ferragni, vedere un giornalista del calibro internazionale di Severgnini che, con tanta leggerezza, banalizza una delle donne italiane più apprezzate al mondo, rattrista. 

L’Italia del 2022 è quel posto in cui “perfino” l’omosessualità maschile ha ragion d’essere: perché, in fondo, come dar torto ad un uomo che desidera un altro uomo? Ma quella femminile, sintetizzabile in una non madre che desidera una femmina, rappresenta l’Anticristo.

L’Italia del 2022 è un Paese in cui la cultura cattolica non solo ha ancora un ruolo decisivo nella cristallizzazione di stereotipi anacronistici profondamente ingiusti ma, spesso e volentieri, offre il fianco a quella folle convinzione, ormai di dominio pubblico, secondo cui le donne in realtà nascano già predestinate a convivere con il dolore. Icastico, sul punto, è il passo della Bibbia dedicato ad Eva: “partorirai con dolore”. In realtà, nella Genesi, come chiarisce Erri De Luca, la parola èztev significa sforzo, fatica, affanno, non dolore. C’è una bella differenza. Un errore di traduzione che, tuttavia, sta costando più del previsto.

Neanche il panorama sanitario è immune dalle discriminazioni di genere e non si tratta solo dei significativi disagi causati alle donne dalla lacunosa gestione degli obiettori di coscienza nelle strutture sanitarie. Il quadro è ancora più complesso. Sul punto, ancora J. Guerra spiega che: “Secondo uno studio pubblicato sul The New England Journal of Medicine, le donne hanno sette volte le probabilità di un uomo di ricevere una diagnosi errata e di essere dimesse dal pronto soccorso durante un infarto perché manifestano, generalmente, dei sintomi diversi da quelli maschili, e i medici non sono in grado di riconoscerli perché i loro studi si basano sui sintomi che presentano gli uomini. Per questo le donne con meno 50 anni hanno il doppio delle possibilità di morire d’infarto rispetto a un uomo della stessa età. Lo stesso problema si presenta anche nella farmacologia. Come sottolineato dal rapporto Prospettive di genere e salute. Dalle disuguaglianze alle differenze dell’Università degli Studi di Torino, la maggior parte dei farmaci vengono testati sull’idealtipo maschio di 70 chili e i dosaggi consigliati fanno riferimento a questo standard, anche se donne e uomini hanno diverse capacità di metabolizzare i principi attivi. Ne consegue che gli effetti collaterali vengono subiti più dalle donne che dagli uomini”.

In uno scenario simile, ci rendiamo subito conto di quanto impegno politico realmente occorra e di quante donne in politica ci sia bisogno. Altro che conservatori, altro che “politically correct”, altro che secondari scranni di segreterie regalati da magnanimi colleghi uomini. Se della sensibilizzazione sull’endometriosi, sulla vulvodinia, sui congedi lavorativi in caso di mestruazioni dolorose, del linguaggio dei testi scolastici con cui vengono cresciuti bambine e bambini italiani non se ne occupa la politica, chi se ne deve occupare? Sanremo? Davvero? 

L’8 marzo, in Italia assistiamo alla solita pantomima collettiva. Parte dalle prime ore dell’alba quella fastidiosa retorica che mette in scena il festival dell’ovvio (a trazione maschilista ma non solo): tra una mimosa e l’altra, si sentono riecheggiare frasi inconfondibili, “le donne sono superiori”, “una volta comandavano gli uomini ora comandano le donne”, con risate gracchianti a seguire. Ma se, per caso, una malcapitata qualsiasi presente allo show, colpevole di essere pensante, reagisce dissentendo, ecco che subito partono i cori che rispettosamente la archiviano come rompicoglioni, isterica, femminista, una delle tre o tutte e tre.

Le mimose ed i fiori non hanno colpe storiche, non c’è motivo di privarsene; ma, alla luce di tutto ciò, nel dubbio, la sera dell’8 marzo, un bel libro di Carla Lonzi ed una birra sulla poltrona sarebbe il miglior modo per festeggiare la ricorrenza. Converrebbe anche andare a letto presto e riposare perché dal 9 marzo, come ogni anno, riparte la vera lotta al patriarcato. Una di quelle lotte in cui la società civile dovrà fare a meno della politica italiana. Una delle tante.

Le verità scomode del femminismo di bell hooks. Lea Melandri su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Si avvicina l’8 marzo, e come ormai da alcuni anni la rete Non Una Di Meno si prepara a scendere in piazza per uno “sciopero globale delle donne dal lavoro produttivo e riproduttivo”. Si tratta di dare a una giornata, che aveva assunto da tempo un significato essenzialmente commemorativo, il respiro ampio di un movimento, quello femminista, che vuole essere – per citare il titolo del libro di bell hooks -, “una politica appassionata” “per tutti”, la promessa di sovvertire un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie.

La cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (Picchio), e, insieme, il sostegno materiale, psicologico e affettivo necessario all’ impegno “civile” dell’uomo. «Per secoli -ha scritto Virginia Woolf – le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla» Uno degli slogan che abbiamo visto comparire in questi ultimi anni nelle manifestazioni dell’8 marzo in diverse città del mondo – “Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo” – dice con chiarezza che le donne stanno prendendo coscienza del fatto che vivere per l’altro e attraverso l’altro è la conseguenza di una svalutazione ed espropriazione di esistenza propria, l’asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri al benessere altrui. Invitare allo sciopero da compiti che le donne sono state chiamate ad assolvere nel privato e, con l’emancipazione, anche nelle loro occupazioni lavorative fuori casa – i “servizi alla persona” -, è già di per sé la rivoluzione di un sistema, patriarcale prima ancora che capitalistico, che ha separato il corpo e la polis, la violenza contro le donne e le rivendicazioni sindacali, i residui di un dominio che passa attraverso le vicende più intime e lo sfruttamento economico. Da un accostamento inedito, la sessualità e la politica, la vita intima e le istituzioni della sfera pubblica, non possono che uscire entrambe modificate.

Visto sotto questo aspetto, il femminismo non appare soltanto come “la rivoluzione più lunga”, ma quel “movimento di massa” che, secondo bell hooks, può portare allo scoperto “nessi” che ci sono sempre stati tra le diverse forme di dominio, servitù, disuguaglianze, che la storia ha conosciuto finora: sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, nazionalismo, ecc. Eppure, non si può non constatare quanto sia ancora esiguo il coinvolgimento delle donne, comprese le generazioni più giovani, in un impegno politico che interessa prima di tutto le loro vite e le contraddizioni che le attraversano, prese dentro l’ambiguità di un asservimento che parla il linguaggio dell’amore, dell’esaltazione immaginativa e al medesimo tempo dell’insignificanza storica, come già scriveva Virginia Woolf. Paradossalmente, è solo affrontando il perverso annodamento che ancora rende “impresentabili” alcuni aspetti dell’esperienza femminile, che si può sperare in una diffusione di massa per quella che è oggi la battaglia di una ristretta minoranza. Ad aprire con coraggio un varco nel “mare ribollente” “delle cose che non siamo stati capaci fino a questo punto di dire” (Asor Rosa) è bell hooks, scrittrice, attivista e femminista statunitense, i cui libri e il cui pensiero comincia a essere oggetto in Italia di particolare attenzione, soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel dicembre 2021.

Fedele all’assunto del femminismo radicale degli anni Settanta, che intendeva portare la politica fin dentro le pieghe più profonde e oscure della vita personale, bell hooks dice con chiarezza che “il problema è il sessismo” e che “ sarebbe ingenuo e sbagliato ritenere che il movimento sia riservato alle donne a discapito degli uomini.” (bell hooks, Il femminismo è per tutti, traduzione di Maria Nadotti, Tamu edizioni 2021). Femmine e maschi sono addestrati fin dalla nascita ad accettare pensieri e azioni sessiste, e di conseguenza “le donne possono essere sessiste tanto quanto gli uomini”. Dovrebbe essere evidente che nessun dominio può durare millenni senza una qualche “complicità” di chi ne è vittima. Le donne, private di potere e di cultura, come avrebbero potuto non fare propria la rappresentazione maschile del mondo, incorporare i ruoli che permettevano loro di sopravvivere, strappare qualche potere e qualche piacere dalla loro schiavitù? Come madri, incaricate della crescita e della prima educazione dei figli, sono diventate, loro malgrado, l’anello di trasmissione della cultura patriarcale.

Scrive bell hooks: «Una madre che potrebbe non essere mai violenta, ma che insegna ai propri figli, soprattutto ai maschi, che la violenza è uno strumento accettabile per esercitare il controllo sociale, continua a essere complice della violenza patriarcale. Il modo di pensare va modificato (…) Le attiviste femministe illuminate hanno capito che il problema non erano gli uomini bensì il patriarcato, il sessismo, il dominio maschile. Prenderne atto richiedeva una teorizzazione più complessa: richiedeva che si riconoscesse il ruolo svolto dalle donne nel mantenimento e nella perpetuazione del sessismo (…) Sopravvalutando la relazione materna, torneremo sempre al determinismo biologico e saremo sempre sottomesse. Credo che dietro l’attaccamento di molte donne al mito della maternità, si nasconda la paura di perdere quello che viene visto come l’unico privilegio femminile, la nostra zona di potere…»

Riconoscere che il potere di rendersi indispensabile all’altro è anche la debolezza delle donne, il capovolgimento del bisogno d’amore di una figlia nell’abnegazione e nello spirito di sacrificio di una madre, dovrebbe essere il punto di partenza per una teorizzazione che ha il suo fondamento nel dolore che la muove, nella capacità di “trasgredire”, allontanarsi dalla propria posizione quanto basta per interrogarla e modificarla. «Sono arrivata alla teoria disperata – scrive sempre bell hooks -, bisognosa di comprendere ciò che stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione». Difficile non riconoscere in questo tenace attaccamento alle vite singole, ai segni che una storia millenaria ha lasciato, oltre che nelle istituzioni pubbliche nell’ “oscurità dei corpi” (Bourdieu), la pratica rivoluzionaria dell’autocoscienza del femminismo degli Settanta. Sulle sue potenzialità di allargamento della consapevolezza critica, per donne e uomini, bell hooks non ha dubbi, così come sul fatto che la cultura femminista, una volta entrata in ambito accademico, anziché potenziarsi del legame con altre tematiche, dal classismo al razzismo, all’omofobia, ha finito per perdere la sua radicalità, diventando una disciplina accanto ad altre, “con la sola differenza che si occupa di genere.” Lea Melandri

Dagonews l'8 marzo 2022.  

Ma che state a fa’? Il premio per la boiata dell’otto marzo 2022 va alla campagna Rai per la parità di genere “Uguali e Insieme”. I volti noti (e ignoti) di Viale Mazzini si sono fatti immortalare in una posa degna dei peggiori monaci Shaolin. Quello che dovrebbe essere un gesto che ricorda il segno dell’uguale sembra una mossa di arti marziali eseguita dopo il quinto Negroni al bar Vanni. O forse volevano scimmiottare l’haka neozelandese. Ma è uscita n’hakazzata. 

La campagna prende spunto dall’ultimo rapporto del World Economic Forum, secondo il quale ci vorranno ben 136 anni prima che le donne raggiungano la reale uguaglianza. Ma qui non sappiamo manco come riscaldarci domani per via della guerra in Ucraina. Beati voi che, non avendo una minchia da fare, strologate del mondo che verrà tra un secolo mentre qui tra pandemia e guerra non sappiamo neanche se domani mattina riusciremo a farci il bidet…

Da rainews.it l'8 marzo 2022.   

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, la Rai mette in campo tutte le sue forze e i suoi volti più amati per sensibilizzare il pubblico sulla Parità di genere. Per farlo è stato scelto come simbolo il segno “Uguale”, protagonista di un’iniziativa che si muove su più fronti: uno spot tv dedicato, una campagna social con i talent Rai e non solo, un logo che riproduce il simbolo dell’uguaglianza, e soprattutto un’intera giornata in cui l’offerta dei palinsesti sarà dedicata al tema. Tutto questo per ricordare che l’obiettivo è essere Uguali, ma per farlo bisogna prima di tutto essere Insieme. 

La campagna prende spunto dall’ultimo rapporto del World Economic Forum, secondo il quale ci vorranno ben 136 anni prima che le donne raggiungano la reale uguaglianza, per comunicare quanta strada c’è da fare se vogliamo rendere più vicino un futuro in cui avremo tutti uguali diritti e opportunità. 

Ognuno di noi può metterci la faccia, come avverrà in una campagna social in cui i talent Rai, dai conduttori ai giornalisti, si metteranno in posa per riprodurre il segno uguale mettendo le braccia sopra e sotto il volto. A loro si aggiungeranno altri protagonisti, dallo sport all’editoria, dal cinema alla musica. Il simbolo della campagna diventa così un gesto che tutti possono fare per dimostrare di essere coinvolti.

Durante la stessa giornata, il segno uguale sarà una presenza costante in tutte le trasmissioni di tutte le reti Rai, grazie all’inserimento “on screen” di un logo dedicato, che apparirà anche sulle spillette indossate dai protagonisti dei programmi Rai, diventando un promemoria per la diffusione della campagna e l’impegno di ognuno. 

Il segno uguale è il simbolo dell’operazione che la Rai vuole compiere: siamo tutti diversi, e insieme possiamo aumentare la consapevolezza e diminuire gli anni che ci separano da una reale Parità di genere

Genere femminista. L’utero è mio e lo amministro io (50 mila per lo sforzo di partorire, grazie). Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

Benedette ragazze, noi siamo diverse dagli uomini perché sanguiniamo tutti i mesi e a volte partoriamo. Mentre i maschi no. Forse è il caso di farsene una ragione e di rivendicare il diritto a farsi pagare

«Il mio stesso sesso, spero, mi scuserà», scriveva Mary Wollstonecraft duecentotrent’anni fa, «se le tratto come creature razionali, invece di lusingare le loro affascinanti grazie, e guardarle come se fossero in uno stato di perpetua infanzia, incapaci di reggersi in piedi da sole». E all’epoca nessuno ti festeggiava, nessuno polemizzava, nessuno ti portava le mimose, nessuno reclamava che anche con le tette potessi fare il soldato: beate loro.

Ieri è venuta a trovarmi la me trentenne. Era noiosa quanto la ricordavo: se mi conoscete, sapete quanto spesso dica che, se vedessi per strada la me trentenne, cambierei marciapiedi. Era ovunque: su Instagram, su Twitter, su Facebook. Tutta roba che quand’avevo trent’anni non c’era: meno male, c’era meno pubblico per il mio essere una coperta bagnata.

La me trentenne era uguale a tutte le trentenni che ieri hanno passato la giornata a lamentarsi di ciò che veniva detto, scritto, sospirato per l’otto marzo. Ricordo ancora la sera in cui mi resi conto che esisteva l’otto marzo. Ero in un ristorante pieno di tavolate di sole donne sovreccitate. Scoprii in una serata sola interi universi. Esisteva gente che festeggiava le feste comandate. Esistevano tizie che le amiche le vedevano in una data precisa. Esistevano le mimose. Avevo più o meno trent’anni.

Prima e dopo quella sera, l’otto marzo non è mai esistito. Se non per dirsi vediamoci martedì, anzi meglio mercoledì ché martedì è l’otto marzo e il posto dove vogliamo cenare sarà pieno di tizie per cui cenare fuori è un avvenimento speciale.

Però, sebbene non esistessero i social e gli altrui pareri sull’otto marzo al massimo stessero sui giornali (sui quali spesso c’era anche un parere mio: se mi pagate, mi faccio venire in mente opinioni persino su san Valentino), la me trentenne aveva tutte le insofferenze, i fastidi mal riposti, la convinzione che dettagli irrilevanti fossero inaccettabili che hanno le trentenni che ieri mattina hanno cominciato prestissimo a inveire contro i cliché femminili.

Giorni fa, su Twitter girava lo screenshot d’un post di Reddit. L’io narrante era un uomo americano che raccontava che lui e la moglie guadagnano molto, lei ora era rimasta incinta, e gli aveva fatto il conto di quanti soldi ci avrebbe rimesso con la gravidanza, e voleva cinquantamila dollari per partorire. L’ho ritwittato dicendo che era la cosa più femminista che avessi mai letto: hai voglia a parlare di parità, finché a vomitare e ad avere le caviglie gonfie per mesi, e a farsi squarciare la vagina partorendo, sono inevitabilmente le donne.

Poiché non ho la pazienza dei trent’anni, di quello come degli altri miei tweet erano chiusi i commenti. Quindi, a prendersi gli insulti dell’invasata di turno è stata un’amica che aveva condiviso il mio tweet. L’invasata di turno berciava che io prendo per femminista Reddit invece di esigere lo stato sociale, e io pensavo ai gruppi di mamme che su Facebook si consigliano come farsi certificare la gravidanza a rischio, e poi dimettersi entro l’anno di vita del bambino e avere la Naspi, e insomma in tutto stare a casa almeno tre anni spesate dalle mie tasse, e pensavo che lo stato sociale è una cosa bellissima, se sei quella parte di popolazione che viene pagata e non quella che paga.

Ma soprattutto pensavo: ma benedetta ragazza, ma che ci fai con lo stato sociale se comunque la gravidanza devi smazzartela tu? Se hanno trovato una cura per le mancate erezioni ma non una che elimini le mestruazioni? Se le donne si sentono incomplete se non allattano rendendo inutile qualunque idea di congedo di paternità? (Lo so: è transfobico dire che i padri non hanno le tette, abbiate pazienza, sono del Novecento, quel secolo in cui eravamo mammiferi).

Insomma ieri mattina Fabio Fazio ha l’ardire di twittare, a proposito della festa della donna, «La donna è colei che dà la vita. La guerra è l’esatto contrario». Apriti cielo. Un pieno di trentenni smaniose: come si permette di sminuire me che non ho figli, come osa ridurci alla funzione riproduttiva.

La me trentenne avrebbe fatto uguale. La me cinquantenne pensa: ma, benedette ragazze, è l’unica differenza tra i generi sessuali. Uno sanguina tutti i mesi e a volte partorisce, uno no.

Cos’altro renderebbe metà della popolazione diversa dall’altra metà (e meritevole d’essere festeggiata)? La spiccata sensibilità? La capacità di distinguere il malva dal pervinca? La sfiga di non poter occultare i doppi menti con la barba?

Lo dico da donna che, pur di non avere figli, avrebbe fatto e ha fatto qualunque cosa, lo dico da donna che non avrebbe mai voluto ritrovarsi un estraneo in casa, lo dico da donna che ritiene l’orologio biologico sia una leggenda e la maternità sia una scelta di risulta destinata a sparire con le maggiori opportunità che il mondo offrirà: riprodursi è l’unica caratteristica precipua femminile. Riprodursi e i suoi annessi, dall’endometriosi alle tette (che non mi stanno nelle camicette, impedendomi di dimenticarmi che sono una donna).

Questo rende le donne che non si sono riprodotte meno rappresentative del genere femminile? Forse sì, ma chi se ne frega di essere rappresentative. Sono una bolognese cui non importa nulla dei tortellini fatti a mano: volete che m’importi di non aver utilizzato l’utero per ciò cui era preposto?

Il mio stesso sesso mi scuserà, spero, se credo nel reale e nel razionale, e non riesco a negare che il mio stesso sesso sia caratterizzato da mansioni che io non ho fatto mie. Il mio stesso sesso mi perdonerà, spero, se ne approfitto per non andare in guerra, o anche solo a lavorare in un cantiere: sanguinare tutti i mesi comporterà pure dei vantaggi; invito tutte le appartenenti al mio stesso sesso ad approfittarne, invece d’indignarsi.

Da corrieredellosport.it l'8 Marzo 2022.

Fabio Fazio prova a celebrare l'8 marzo sui social, ma scatena una bufera di polemiche: "Oggi è l'8 marzo, festa della donna. La donna è colei che dà la vita. La guerra è l’esatto contrario. Non si può non pensare a tutte le madri e le mogli straziate per il dolore di questa e di tutte le altre guerre", le parole su Twitter del conduttore di 'Che tempo che fa', che però non sono state gradite a tante donne, famose e meno note. 

Le repliche a Fazio di Blasi e Jebreal

"Non è una festa, non siamo funzioni della vita degli uomini e molte donne ucraine in questo momento sono al fronte come combattenti attive", sottolinea Giulia Blasi, scrittrice specializzata in temi relativi alla condizione femminile e al femminismo.

"Cari giornalisti e presentatori TV vorrei ricordarvi che il miglior modo di celebrare le donne è l’inclusione. Serve che ogni giorno, non solo oggi 8 marzo 2022, siano coinvolte più giornaliste, inviate di guerre, analiste e attiviste… La parità va implementata non elogiata…", la replica su Twitter della giornalista israeliana Rula Jebreal. Tante altre donne hanno risposto stizzite, sui social, alle parole di Fazio.

E le femministe si offendono persino con l'innocuo Fazio. Valeria Braghieri il 9 Marzo 2022 su Il Giornale.

Disfida fra "corretti": il post buonista del conduttore sulle donne "che danno la vita" scatena Rula Jebreal & C.

Noi ormai facciamo così per orientarci: se una «causa» ha un meme, è una «causa» persa. Ci vuole niente a ridicolizzare il mondo alla velocità di Internet. Ma poi non è solo Internet: sono gli sconti al supermercato, le consegne gratuite, i carissimi, bruttissimi fiori ad ogni angolo della strada, le uscite per sole donne con maschi «all you can eat», cioè gli spogliarellisti come agli addii al celibato tamarri... Quando su un argomento, per quanto serio o delicato o doloroso, iniziano a proliferare slogan, battute, coupon o «immaginette» da social, significa che quell'argomento è, ahinoi, «bruciato». La dignità evapora e senza la dignità non si è più niente. Si diventa materiale da scaffale di autogrill, gadget da drugstore, «legna» da ardere sul fuoco fatuo e rapidissimo di internet. Ora... Provate a contare quante mimose, (tra animate, parlanti, fluorescenti o banalmente gialle) hanno raggiunto nella giornata di ieri (8 marzo) i vostri cellulari, signore. E quante frasi «epiche» (fin troppo epiche) sulle donne, vi sono state inviate nella stessa maniera. Hanno trasformato l'8 marzo nel giorno della retorica di genere, perciò festeggiare le donne significa penalizzarle, «premiarle» significa condannarle alla sotto categoria del successo: come farle sedere al tavolo dei bambini durante una festa organizzata da adulti. Hanno ridicolizzato l'8 marzo, svuotandolo di senso. È diventato un confine, un recinto, quindi una prigione. Dall'omaggio all'oltraggio. L'unica grazia, sarebbe dismetterlo. Abbandonarlo per non sporcarlo più e per smettere di affossarci, festeggiandoci. Ma ciò non toglie che, intanto, li auguri arrivino. Sui cellulari, davanti alla porta, via social. Anche sinceri: da amici e uomini inconsapevoli, da reduci ancora convinti di battaglie che andrebbero sepolte, da benpensanti affettuosi... Allo stesso modo, da Twitter, ne sono arrivati anche da Fabio Fazio: «Oggi è l'8 Marzo, festa della donna. La donna è colei che dà la vita. La guerra è l'esatto contrario. Non si può non pensare a tutte le madri e le mogli straziate per il dolore di questa e di tutte le altre guerre». Non ci sembra, francamente, una riflessione più offensiva di quelle contenute nelle mimose parlanti, più aggressive e crude di quelle dei meme dedicati alle raccolte di frasi di Alda Merini o di Oriana Fallaci... Eppure... le femministe, capitanate dalla giornalista Rula Jebreal, e seguita dalla scrittrice Giulia Blasi, si sono indignate perfino contro il flanelloso Fazio. «Non è una festa, non siamo funzioni della vita degli uomini, e molte donne ucraine in questo momento sono al fronte come combattenti attive» ha detto la Blasi. «Cari giornalisti e presentatori tv vorrei ricordarvi che il miglior modo di celebrare le donne è l'inclusione» ha continuato Rula. Ora, noi comprendiamo il fastidio di essere maneggiate come una categoria protetta (non staremo ad annoiarvi con «e allora perché non esiste una festa dell'uomo?...») e ancor di più il fatto di essere ipocritamente celebrate e invece ridicolizzate e peggio «contenute»... Ma signore... Fabio Fazio... Un uomo che non entrerebbe in conflitto nemmeno a Fortnite sulla Playstation... Perché prendersela con lui? Che di certo ha usato la stessa educazione, la stessa equidistanza, la stessa tinta media, la stessa posizione neutra, lo stesso diplomaticissimo grege che usa per vivere per tingere la sua vita, che ha usato per intervistare il Papa, e per fare tutto il resto che ha fatto da che è Fazio e forse perfino da prima. Ecco: lo stesso modo, lo ha usato per rivolgere gli auguri a tutte le signore del mondo. E quindi? Perché prendersela con lui? Ora, è vero che tante cose puoi fare a una donna, tranne che annoiarla, e forse la noia è l'unico crimine di cui Fazio potrebbe macchiarsi nei confronti di una donna, ma additarlo di maschilismo per i suoi prudentissimi auguri...

Fabio Fazio, "chi sono le donne". La frase sull'8 marzo scatena l'inferno: fucilata di Rula Jebreal. Libero Quotidiano l'08 marzo 2022

Fabio Fazio nell'occhio del ciclone. Il conduttore di Che Tempo Che Fa ha voluto lasciare un messaggio su Twitter dedicato alla Giornata Internazionale della Donna, scatenando però reazioni tutt'altro che favorevoli. "Oggi è l'8 marzo, festa della donna. La donna - ha scritto sui social il volto di Rai 3 - è colei che dà la vita. La guerra è l’esatto contrario. Non si può non pensare a tutte le madri e le mogli straziate per il dolore di questa e di tutte le altre guerre".

Frasi che nel giro di poche ore hanno sollevato il polverone. Prima tra tutte a prendersela, la scrittrice Giulia Blasi: "Non è una festa, non siamo funzioni della vita degli uomini, e molte donne ucraine in questo momento sono al fronte come combattenti attive". Quello che ha fatto più discutere è stato il considerare il gentil sesso solo in relazione al ruolo che ha nella vita degli uomini (mogli e madri) o in quanto in grado di dare la vita.

"Ragazze - ha replicato un'utente del web - mi raccomando o date la vita o niente. O siete appendici e funzionali di qualche maschio o non siete donne. Madri e mogli. Questa retorica è pericolosissima per la sicurezza delle donne, riusciamo a mettercelo in testa?". A fare loro eco anche Rula Jebreal. La giornalista è voluta intervenire criticando "giornalisti e presentatori TV" e ricordando loro che "il miglior modo di celebrare le donne è l’inclusione. Serve che ogni giorno, non solo oggi 8 marzo 2022, siano coinvolte più giornaliste, inviate di guerre, analiste e attiviste… La parità va implementata non elogiata". 

«Noi, uomini femministi, che parliamo di patriarcato, paternità e affettività». Un’associazione riunisce diversi gruppi sparsi per l’Italia che discutono online e in presenza di temi e “osano” mettere in discussione l’attuale modello di identità maschile. Il contrario delle chiacchiere da spogliatoio (foto di Marco Valle). Adil Mauro su L'Espresso il 21 febbraio 2022. 

Stefano Ciccone, 57 anni, lavora come impiegato all’Università di Tor Vergata di Roma ed è uno dei fondatori dell’associazione Maschile Plurale.

«Dove sono le femministe?» è la domanda che viene posta, spesso in maniera pretestuosa, quando le donne sono vittime di abusi e violenze, ma a ben guardare i veri assenti sono gli uomini. Una presa di parola chiara e forte dei maschi fatica infatti a emergere nel dibattito pubblico sulla violenza maschile contro le donne.

Per questa ragione nel 2007 è nata l’associazione Maschile Plurale, una rete di uomini «impegnati in riflessioni e pratiche di ridefinizione della identità maschile, plurale e critica verso il modello patriarcale, anche in relazione positiva con il movimento delle donne», come si può leggere sul sito che riunisce i vari gruppi sparsi per l’Italia.

Striscia la notizia, "non tutte le donne...". Laura Boldrini inchiodata: la frase choc della "femminista".  Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

Altroché sorellanza. Questa sera 18 febbraio, a Striscia la notizia, su Canale 5, l'inviato del tg satirico Enrico Lucci indaga sulla fine che ha fatto la cosiddetta "sorellanza". L’inviato lo chiede alla massima paladina dei diritti femminili, Laura Boldrini, che qualche giorno fa, nel pieno delle trattative sul Quirinale, aveva affermato: "Non è che le donne sono tutte uguali". E con questa frase aveva di fatto bocciato la ventilata candidatura alla massima carica dello Stato di Maria Elisabetta Alberti Casellati.

E così l'inviato di Striscia la notizia è andato a porre ad alcune politiche italiane dei quesiti sull'argomento "sorellanza". DaLaura Ravettoa Vincenza Bruno Bossio fino aMarianna Madia, le domande sono state di questo tenore: "Quando una è stro***è stro*** quanto un uomo?". 

E ancora: "Se una è una pippa perché deve stare in un posto solo perché è donna?", ha chiesto Enrico Lucci. "Ormai certi insulti li usano anche le donne contro le altre donne", ha ammesso infine Laura Boldrini, senza cedere però ai tentativi di mansplaining dell'inviato di Striscia. 

In Onda, Marianna Aprile smonta il femminismo di facciata della sinistra: figure femminili solo a destra. Il Tempo il 23 gennaio 2022.

Si parla tanto di una candidatura di una donna per il Quirinale, ma poi i buoni propositi restano sempre parole e vengono spazzati via dai fatti. Marianna Aprile, caporedattrice del settimanale Oggi, distrugge la sinistra nel corso della puntata del 22 gennaio di In Onda, programma di La7 condotto da David Parenzo e Concita De Gregorio: “Non solo a destra non voteranno Rosy Bindi, anche a sinistra. Sono abbastanza pessimista che una delle due caselle tra Quirinale e Palazzo Chigi possa essere riempita da una donna. Anche se in questo giro forse qualche profilo davvero votabile ci sarebbe stato. Se le cose sulla riforma della giustizia fossero andate diversamente ad esempio Marta Cartabia avrebbe avuto un curriculum da uomo, passatemi l’espressione. Quindi sufficiente per arrivare al Quirinale. Elisabetta Belloni è altrettanto autorevole e solida come figura ma non come candidatura, visto che le due cose spesso non coincidono. Sia in Europa che in Italia la leadership femminile si forma a destra invece che a sinistra. Se n’è discusso molto quando è stata eletta la nuova presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, abbiamo gioito perché la triade dei vertici europei è tutta al femminile. Ma poi molte sostenitrici della battaglia della parità di genere hanno storto il naso perché è una donna ma non la pensa come loro, sono tutte donne di destra. Il problema è proprio questo, gioire per i progressi che fanno le donne solo se la pensano come me, questo indebolisce molto la faccenda”.

“Il problema vero - continua la Aprile sul fronte Quirinale - è che anche all'interno dei singoli partiti non c'è unione e non c’è capacità dei singoli partiti di orientare il voto di lunedì e dei giorni successivi. Non soltanto a guardare le coalizioni a destra e sinistra. Lo stesso Enrico Letta ha esplicitato la volontà di puntare su Mario Draghi, ma sogna Sergio Mattarella. All’interno del Movimento 5 Stelle una grande fronda non vorrebbe Draghi e ha fatto il nome di Mattarella e poi altri hanno fatto nomi puramente di bandiera. Nel centrodestra non ne parliamo. Draghi potrebbe essere la vittima di una mancanza di capacità politica, più che ci sia l’intenzione di non mandarlo al Colle. Sarebbe la debacle più totale, ci rimettiamo Draghi e ci rimettiamo sei leader dei sei partiti. Dimostrino - chiude la giornalista - di saper fare qualcosa”.

Elodie si unisce al coro contro la Meloni: “Dovrebbe andare in terapia per gestire la rabbia”. Mia Fenice venerdì 24 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.

Non solo gli attacchi virulenti della sinistra. Giorgia Meloni è stata bersagliata pretestuosamente anche da personaggi del mondo dello spettacolo. L’ultima ad averla presa di mira è stata la cantante Elodie Di Patrizi, meglio nota come Elodie. Il motivo è sempre lo stesso: le parole pronunciate dalla Meloni in Spagna. «Vedo una donna molto arrabbiata, mi dispiace per lei…», commenta al settimanale 7 del Corriere della Sera.

Elodie contro la Meloni

Ad Elodie è stato chiesto se la destra conservatrice può pescare nel disagio. “Prendiamo Giorgia Meloni di recente, in Spagna, ha attaccato la lobby Lgbt in difesa della famiglia naturale”, chiede il settimanale. Da qui la risposta. Per Elodie, «non dovrebbero esserci queste distinzioni, e mi spiace ci siano persone che le fanno. Famiglie di serie A, serie B, serie Z… I diritti sono per tutti e poi bisogna capire come vivere bene, in società, assieme. C’è troppa rabbia in queste persone». «Io pure – dice Elodie – sono arrabbiata, ma vado in terapia e non la sfogo sugli altri. Solo che devi essere cosciente di questo problema con la rabbia».

Giorgia Meloni stanca degli attacchi concentrici di stampa e avversari, nei giorni scorsi aveva risposto con un lungo post sui social agli accusatori.

«“Sì alla famiglia naturale, no alle lobby Lgbt. Sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere”. Mi dispiace – aveva scritto su Fb – per i vari menestrelli mobilitati in queste ore dalla sinistra – terrorizzata dal successo di FdI nelle elezioni amministrative e dai sondaggi – ma questo estratto del mio discorso pronunciato in Spagna ha un significato molto chiaro. Significa sostenere la maternità e non terribili pratiche come l’utero in affitto, che mercificano il corpo delle donne e trasformano la vita umana in un prodotto da banco. Significa che ognuno può amare chi vuole, ma non può far prevalere i propri desideri di genitorialità su un bambino che ha il diritto di avere un padre e una madre. E non c’è nulla di omofobo in questo, tant’è che vale anche per i single».

Francesca Galici per ilgiornale.it il 15 luglio 2022.

Elodie torna a parlare di Giorgia Meloni e lo fa incalzata da Peter Gomez nel programma La confessione, in onda sul Nove. La cantante sarà l'ultima ospite di questa stagione del programma nella puntata che andrà in onda questa sera a partire dalle 22.45. Stando alle anticipazioni riportate da il Fatto quotidiano, nel corso dell'intervista il giornalista ha stuzzicato la cantante sul tema politico, ben consapevole dell'orientamento di pensiero della cantante, che non si è lasciata sfuggire l'occasione, parlando di "fascismo" in riferimento a Giorgia Meloni.

Durante la chiacchierata, che solitamente nel programma di Peter Gomez si svolge per temi, il conduttore ha mostrato a Elodie una foto di Giorgia Meloni, e la cantante, senza farselo ripetere due volte ha attaccato: "La verità? Io non capisco... Non ha delle cose più importanti da fare? Gestire un Paese, fare delle cose anche più burocratiche che stare a decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato per le persone? Non sta a te, non sei Dio, non ti ci avvicini neanche a Dio se dovesse mai... Ovviamente magari esiste, non lo so...".

Il riferimento è al comizio della leader di FdI in Spagna, che già era stato criticato da Elodie, che non si esime dal menzionare il fascismo nel discorso incentrato sulla leader di Fratelli d'Italia: "È questo che a me disturba di più. Cioè, del fascismo è questo che mi disturba. Possiamo avere idee diverse, vedere la vita in modo diverso, ma non c'è bisogno con tutto quel livore, quella cattiveria... Incazzata... La lobby... Stai calma". Quindi, Elodie si spinge perfino a dare un consiglio a Giorgia Meloni su come fare politica: "Posso capire che dici: 'Ma io sono lontana da quella vita lì...', però non te ne frega un cazzo. Ci sta, ok? Non è che poi dobbiamo per forza... Cioè, non è che viviamo nella montagna del sapone. Ognuno ha la sua vita, il suo modo di vedere le cose. Però ci sono modi e modi di dire, di parlare e di fare politica. Non credo che sia questo il modo giusto".

Quindi, Elodie chiude il concetto con una spennellata di idealismo: "Dovremmo, anzi, cercare di capire come convivere tutti insieme nelle nostre diversità". E sul perché Giorgia Meloni sia ora il partito più apprezzato dagli italiani, come dimostrano i sondaggi, Elodie ha una sua personalissima visione: "La gente ha paura, ha tanta paura, perché non ha il coraggio di fare un passo verso gli altri. Quindi è molto più semplice additare, sfogarsi, incazzarsi col prossimo per le frustrazioni che però non riguardano molto la vita degli altri. Riguarda sempre il nostro modo di vivere". Quindi, ha concluso: "È molto più facile dire: stronzi, vaffanculo, te sei nero, te sei gay... Mi dispiace, perché è veramente una perdita di tempo enorme".

Non è la prima volta che Elodie attacca la leader di Fratelli d'Italia, in passato ha puntato in dito anche contro Matteo Salvini, com'è avvenuto al gay pride di Roma. E Peter Gomez ha colto la palla al balzo per ottenere nuove dichiarazioni.

Elodie, contro Meloni e Salvini: quando la musica non basta per farsi notare. Francesca Galici il 27 Giugno 2022 su Il Giornale.

Attacchi contro Matteo Salvini, la Lega e Giorgia Meloni da parte della cantante romana che così fa breccia sul pubblico buonista

Da qualche tempo, la cantante Elodie è beneficiaria di una straordinaria attenzione da parte dei media, che in pochi capiscono. Certo, non si può negare che sappia cantare, ci mancherebbe, ma di certo non è 'sta grandissima voce della quale l'Italia non può fare a meno. Eppure, la cantante romana originaria del popolare quartiere del Quartaccio, viene osannata come la nuova Madonna. E scegliete voi quale delle due si intende, vista la devozione che la circonda. Elodie è entrata nelle grazie del pubblico che conta, quello che fa più rumore: la lobby dei buonisti e dei paladini del politicamente corretto, che sui social hanno il dominio totale.

È stata furba in questo, c'è da ammetterlo, perché è andata a far leva con forza sui temi che scuotono maggiormente quella comunità, fatta prevalentemente di giovani alla ricerca del proprio idolo da venerare e innalzare a semi-Dio. Elodie ha innalzato il livello, perché ormai sono tutti bravi a professarsi paladini del politicamente corretto, dei diritti Lgbt+, amanti della schwa e tante altre belle cose "cool", ma lei è andata oltre e ha puntato direttamente l'obiettivo grosso: i leader politici più invisi da quella comunità. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono finiti nel mirino di Elodie, come già erano finiti in quello dei Ferragnez qualche mese prima, per dire. La cantante romana è un'ottima stratega e ha ottenuto l'attenzione di quelli che passano le loro giornate a insultare i due leader sui social, tra bandierine arcobaleno e inviti alla pace. Perché la coerenza non è mai di casa da quelle parti.

"Indegni, siete omotransfobici" E Elodie sbraita contro la Lega

Chiamata come madrina del Pride di Roma, Elodie durante la sua presentazione che fa? Attacca Matteo Salvini. Copione abbastanza scontato di questi tempi, che in quel contesto le ha fatto racimolare facili consensi. Una risposta volpina, la sua, che a pensar male si direbbe perfino studiata: "Non vorrei aprire il discorso Salvini, però quando leggo determinate cose, quando devo sentire determinate cose, mi sembra veramente assurdo. Certe cose non vorrei proprio sentirle perché stiamo parlando della base, della correttezza, di essere un essere umano corretto". Non certo il primo attacco contro la Lega da parte della cantante, che ha definito i suoi eletti "indegni".

Vista l'acclamazione ricevuta parlando di Matteo Salvini, Elodie pochi giorni fa (dopo il successo al primo turno di Fratelli d'Italia), è entrata a gamba tesa anche su Giorgia Meloni: "Vedo una donna molto arrabbiata, mi dispiace per lei". Poi ha aggiunto: "Io pure sono arrabbiata, ma vado in terapia e non la sfogo sugli altri". Una strategia comunicativa che porta i suoi frutti, visto che di Elodie si parla soprattutto quando esterna certe dichiarazioni, piuttosto che per la sua musica. Bella, ci mancherebbe, ma evidentemente poco incisiva se ha bisogno di certi trucchetti per farsi notare.

   "La Meloni? Violenta e poco donna": Elodie non perde il vizio di insultare. Giorgia Meloni parla "come un uomo del 1922", è "violenta" e "poco donna": così Elodie definisce la leader di FdI. E se queste parole fossero state rivolte a una donna di sinistra? Francesca Galici il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ormai, non è più una novità. Sono ormai mesi che Elodie, quasi a ogni occasione disponibile, non manca occasione di attaccare Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che lei risponde alle domande che le vengono poste dai giornalisti. Ed è vero. Ma se lei non avesse in passato parlato in un certo modo di politica, esponendosi con prese di posizione nette, oggi i giornalisti la intervisterebbero sulla sua musica e non capiterebbe che, a ogni intervista, le venissero fatte domande sui leader di centrodestra. Anche durante la Mostra del cinema di Venezia, Elodie ha trovato il modo di attaccare Giorgia Meloni, in quello che per lei sembra essere diventato uno scontro personale.

Stavolta, Giorgia Meloni è stata paragonata a "un uomo del 1922" dalla cantante, che l'ha definita "poco donna", rispondendo a un giornalista che le chiedeva un suo parere sulle parole di Hillary Clinton pochi giorni fa, rilasciate proprio dalla città lagunare. Se c'è una cosa che di Hillary Clinton non si può dire è che l'ex segretario di Stato americano sia vicino alle posizioni di Fratelli d'Italia. Hillary Clinton è uno dei più importanti esponenti del Partito democratico americano ma, nonostante questo, si è espressa positivamente nei confronti di Giorgia Meloni, senza alimentare il clima d'odio con argomentazioni banali e, da un certo punto di vista, anche offensive. "L'elezione della prima premier in un Paese rappresenta sempre una rottura col passato, ed è sicuramente una buona cosa. Però poi, come per ogni leader, donna o uomo, deve essere giudicata per quello che fa. Non sono mai stata d'accordo con Margaret Thatcher, ma ho ammirato la sua determinazione. Chiaramente poi si votano le idee", ha detto l'ex segretario di Stato.

Quell'ossessione per la Meloni. La calda estate dei radical chic da Scurati a Elodie

Un discorso maturo quello di Hillary Clinton, soprattutto democratico e rispettoso del politico. Il rispetto dell'avversario politico, invece, sembra essersi completamente annebbiato nel nostro Paese, non solo tra i gli artisti che vorrebbero essere considerati come dei maitre a penser politici, ma dagli stessi politici. Quel che è ancora più grave è che l'avvelenamento dei pozzi di questa campagna elettorale da parte degli esponenti della sinistra probabilmente nasce proprio dalla volontà dei politici di imitare gli artisti che, con le loro invettive, raccolgono consensi sul web. "È incredibile che una donna parli come un uomo del 1922, questo è il problema. Una donna, una madre, dovrebbe avere un'attenzione per i diritti e dovrebbe capire che ci sono da sempre situazioni complesse dal punto di vista femminile. È incredibile come sia violenta e come sia poco donna", ha detto Elodie. Tralasciando ogni altra considerazione, superflua davanti al fatto che la leader di Fratelli d'Italia venga definita "poco donna", è evidente che Elodie non conosca la storia, se dice che la leader di Fratelli d'Italia "parla come un uomo del 1922". Domanda retorica: cosa sarebbe accaduto se a essere definita così fosse stata un'esponente politica della sinistra?

“Giorgia ci fai paura”. Le donne della musica in campo contro Meloni. Maria Novella De Luca il 30 Agosto 2022 su La Repubblica.

Dopo Elodie e Levante anche la ventenne Ariete ha invitato i giovani a non votare la destra

No, Giorgia, con te mai. Anzi, dice Elodie, "il tuo programma mi fa paura". E Giorgia (artista) pochi giorni dopo, versus Meloni: "Anche io sono Giorgia ma non rompo i coglioni a nessuno". Chiaro riferimento allo slogan della leader di Fratelli d'Italia: "Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana".

La (solita) campagna elettorale dei vip rossi contro Giorgia Meloni. Non hanno argomenti validi ma solo slogan, eppure se la credono tantissimo: sono gli artisti e gli influencer rossi che provano a parlare di politica. Francesca Galici il 29 Agosto 2022 su Il Giornale.

Quando la politica diventa strumento di consenso social, non per i politici ma per chi nella vita si occupa di intrattenimento, vuol dire che si è rotto qualcosa. Ormai la questione è diventata anche monotona, anche perché le cose sono due: o i cantanti che in questi giorni affilano i coltelli contro i leader politici e del centrodestra, guarda caso, lo fanno in particolare contro Giorgia Meloni, lo fanno perché sanno che così guadagnano qualche like, oppure sono manovrati da qualcuno. Togliendo pochi, che in realtà usano da sempre l'attacco politico per slogan, buttando nella mischia qualche accusa di fascismo a caso per raggranellare qualche "mi piace", tutti gli altri si sono svegliati giusto giusto a ridosso delle elezioni.

È come se, ma magari non è così, gli artisti e gli ingluencer siano stati arruolati per sponsorizzare la battaglia dei kompagni. C'è chi sponsorizza borse, chi sponsorizza scarpe e abiti e chi sponsorizza il Pd. Forse pensando sia più onorevole e più "alto" come tema, ma a volte gli utenti preferiscono vedere una onesta pubblicità di qualche barretta energetica piuttosto che un'occulta sponsorizzazione politica. Anche perché i temi che vengono portati per attaccare il centrodestra sono piuttosto scarsi, a tratti perfino ridicoli. Ma non c'è da dare la responsabilità agli artisti per questo, perché utilizzano gli stessi argomenti degli stessi politici del Pd in campagna elettorale. Se a sinistra, chi la politica la fa di professione, non riesce a creare un dibattito sul merito e si limita a insultare gli opponenti, come si può pretendere che siano gli artisti e gli influencer a farlo? Non si può.

Tuttavia, quel che fa tenerezza dei cantanti simil-impegnati e delle varie influencer di City Life, è che loro credono davvero in quel che dicono e non si rendono conto che invece di apparire dotti ed elevati con i loro interventi, suscitano un senso di fremdschämen. È una parola tedesca che indica la sensazione di imbarazzo per qualcosa che hanno fatto terzi. Ed è comprensibile la confusione di questi personaggi nel non capire perché questo accade, visto che fremdschämen non ha una traduzione letterale in italiano. E così, tra un "hi guys" e un altro cadono nella fake news a buon mercato oppure si sforzano nel creare un post social paraculi, meno furbi di chi si limita a pubblicare storie che durano 24 ore, senza però mai menzionare i partiti e i leader di riferimento e utilizzando argomenti che in 10 minuti verrebbero smontati. Tempo che noi che lavoriamo tutti i giorni seriamente per informare (senza fake news) i lettori preferiamo dedicare ad altro.

Ps: abbiamo volontariamente scelto di non fare nomi e cognomi in questo articolo perché, tanto, cambiano i personaggi ma non cambiano i contenuti. Che non esistono. Dei falsi rivoluzionari radical chic che vogliono irretire qualche povero stolto con argomenti di lotta rossa intrisi di una stantia e inensistente superiorità morali dall'alto dei loro attici di City Life a Milano o dalle loro ville con piscina sul mare in qualche località amena ma cool, ci piacerebbe iniziare a fare a meno.

La sinistra fa solo propaganda, il centrodestra continua ad eleggere donne. Francesco Boezi il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Mentre la sinistra fa delle donne una bandiera ideologica, il centrodestra continua ad eleggere, per meriti, esponenti in ruoli apicali. Dalla Metsola alla Meloni: perché la "questione femminile" a destra è già stata superata.

L'elezione di Roberta Metsola, esponente del Partito popolare europeo, a presidente del Parlamento europeo contribuisce a squarciare un velo d'ipocrisia che risultava già di per sé compromesso. Il centrodestra, tanto quello italiano quanto quello continentale, continua, su base meritocratica, a proporre donne per i vertici politico-istituzionali, mentre il centrosinistra ha fatto della "questione femminile" un aspetto puramente propagandistico.

La tendenza diviene evidente, per il Belpaese, con il dibattito attorno alla successione del presidente Sergio Mattarella: il centrosinistra ventila da mesi la necessità di proporre una donna per il Colle ma non fa nomi. Il dibattito verte sul genere ma non su una personalità specifica. E questo contribuisce a rivelare la natura strumentale dell'impostazione del "campo largo" guidato da Enrico Letta, Giuseppe Conte, Roberto Speranza e così via.

"Donna al Colle? Irritante senza nomi". Rivolta rosa nei giallorossi

In merito a tutto questo, si è pronunciato anche il direttore del Tg La7 Enrico Mentana quando, attraverso un post apparso sui social, un ragionamento successivo all'elezione della Metsola, ha posto il tema senza troppi fronzoli. Mentana ha ricordato i casi della Metsola, di Ursula Von der Leyen e di Christine Lagarde. Tre donne molto diverse tra loro per provenienza politica e competenze settoriali ma accomunate dall'essere associabili al centrodestra. La Lagarde è una tecnica, certo, ma è anche stata capo di Dicastero in due governi repubblicani in Francia. Le altre due esponenti politiche, ad oggi, ricoprono due diversi ruoli apicali a Strasburgo e Bruxelles, essendo espressione del Ppe.

Poi c'è lo schema partitico italiano che prevede un solo leader femminile di grande rilievo: Giorgia Meloni che guida Fratelli d'Italia sin dalla sua fondazione e che è arrivata, in specie negli ultimi mesi, a poter contendere il primato elettorale nella coalizione di centrodestra (ma pure rispetto al quadro partitico nel suo insieme). Fatti che lo storytelling progressista non può smentire.

Il dibattito propagandistico per il Colle

Sin da quando si è iniziato a ragionare di chi avrebbe potuto prendere il posto del presidente Sergio Mattarella, il centrosinistra tutto, con consueti toni moralistici, ha decantato la necessità di eleggere una donna. Ipotesi che, in questo momento preciso, appare del tutto archiviata. Giuseppe Conte, il "capo grillino", ha proposto una donna per il Quirinale ma non ha fatto nomi. Massimo D'Alema, attraverso un'intervista al Manifesto, ha detto che i partiti sarebbero dovuti entrare nell'ordine d'idee di avanzare candidature femminili. Ma pure in questo caso non sono emersi nominativi e figure precise. Siamo, insomma, alla pura propaganda fine a se stessa.

"Dire 'una donna al Quirinale' è offensivo. Serve il merito"

La pensa in maniera simile l'onorevole Erica Mazzetti, parlamentare di Forza Italia, che anzitutto rivendica quanto messo in campo, in termini pragmatici e non teorici, dal suo partito: "Metsola, von der Leyen, Lagarde, tre donne di centrodestra al vertice - premette la deputata al Giornale.it - , a livello italiano pensiamo a Elisabetta Casellati e alle nostre ministre, Gelmini e Carfagna che portano certamente un valore aggiunto alla società come lo portono molti uomini". E ancora: "Nel centrodestra e soprattutto in Forza Italia - continua - vengono premiate e proposte donne nei ruoli chiave in modo naturale senza un'ideologia sessista che ha dato il peggio di sé anche in questa elezione per il Capo dello Stato, con una stucchevole propaganda senza finalità, fatta "forse" di belle parole e non di azioni concrete. Quando sento qualcuno che dice "ci vuole una donna al Quirinale" - conclude la Mazzetti - mi viene spontaneo rispondere: ci vuole una persona capace di ricoprire il ruolo e non una selezione differenziata!".

"La questione femminile a destra non è mai esistita"

Se l'elezione della Metsola è una notizia delle ultime settimane, scendendo sul piano nazionale, non rappresenta certo una novità il fatto che sia una donna a guidare la destra italiana. Giorgia Meloni, che aveva già conquistato da giovanissima la leadership del movimento giovanile di Alleanza Nazionale e che era stata la più giovane vicepresidente della Camera, è il vertice inscalfibile di Fratelli d'Italia sin dalla scissione operata nei confronti del Pdl. "La questione femminile a destra - premette Chiara Colosimo, consigliere regionale di Fdi nel Lazio - non è mai esistita. Lo spazio è stato sempre dato a chi è più bravo e più presente di altri. Il merito - sottolinea - è sempre stato l'unico criterio di selezione della classe dirigente". La stessa Colosimo rivendica di aver ricoperto una serie d'incarichi in funzione della meritocrazia, che è la cifra culturale cui associa il suo mondo: "Sì, sono esistite delle quote ma io sono sempre stata contraria alle "quote panda". Non sono emersa in quanto donna, ma perché ho portato avanti delle battaglie. La stampa, all'inizio, era sorpresa che io coordinassi anche il servizio d'ordine delle manifestazioni: non c'è da sorprendersi, invece, perché a destra contano l'impegno e la propria capacità di farsi valere. Il che non dovrebbe avere un rilievo per il genere ma a prescindere".

"Può diventare la prima premier donna": l'Economist promuove Meloni

"Gran parte della vostra condizione di rifugiate, oserei dire - insiste la Colosimo, rivolgendosi a chi, da donna, ha scelto di militare a sinistra - dipende proprio da voi. Vi battete per farvi chiamare "consigliera"... . Beh, credo che questo sia gran parte del problema: il tema non è se c'è la "a" finale ma se siete capaci di fare le cose per bene, e soprattutto quelle giuste". La "questione femminile", che per il consigliere regionale di Fdi non risiede dalle sue parti ma altrove, dipende quindi dallo stesso comportamento politico di chi, preferendo lottare per le desinenze, fatica spesso a rivendicare ruoli.

Il protagonismo delle donne nel centrodestra

Non si tratta soltanto di ottenere spazi ed incarichi, insomma, ma anche di parità effettiva, in specie rispetto alle condizioni di partenza. Questi elementi consentirebbero - dicono tutti e tre i partiti principali della coalizione - di far sì che le donne, nel centrodestra, siano protagoniste. Di questa opinione è anche l'onorevole Laura Cavandoli, che è espressione della Lega di Matteo Salvini. "Il centrodestra - annota le leghista - esprime nel governo ottimi ministri e sottosegretari donne, solo con una maggioranza di centrodestra è stata eletta una donna Presidente del Senato, la seconda carica dello Stato". E ancora: "Le donne del centrodestra sono ottimi sindaci e assessori comunali e regionali. Solo il centrodestra ha candidato donne a presidente di Regione, eleggendo Jole Santelli in Calabria, Nicoletta Spelgatti in Valle d'Aosta e Donatella Tesei al governo dell'Umbria, e individuato in donne ruoli apicali nell'amministrazione delle regioni e province autonome", ha osservato la parlamentare, parlando con IlGiornale.it

La carica delle donne di destra 

Per la parlamentare leghista, oltre alla forma, esistono differenze di sostanza che fanno della sinistra una parte politica che tende a strumentalizzare la "questione femminile": "La realtà è che la sinistra promuove le donne come quote, nella Lega e nel centrodestra, invece, le donne vengono valorizzate e sono protagoniste. A pochi giorni dal voto per il prossimo presidente della Repubblica, non mi stupirei - conclude la Cavandoli - se si trovasse una convergenza su una proposta del centrodestra per una donna tra le tante competenti che hanno espresso le loro capacità nella società civile e nell'attività politica".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Figuraccia femminista su Miss Francia. Francesco De Remigis il 24 gennaio 2022 su Il Giornale.   

Da regolamento non era previsto. Ma per assecondare le urla delle femministe che denunciavano l'assenza di remunerazione per le reginette di bellezza, accusando gli organizzatori di «sfruttamento» a scopo di lucro, l'edizione 2022 di Miss Francia ha scelto di pagare le 29 concorrenti. Con tanto di firme in calce ai contratti.

Alexia Laroche-Joubert, presidente di Miss Francia, sosteneva che un concorso tv non poteva rientrare nelle regole del codice del lavoro. Ma l'associazione «Osez le féminisme!» ha scosso a tal punto la giuria, fino ai probiviri, che a novembre qualcosa si è mosso; un compromesso, col plauso della ministra della Cultura Roselyn Bachelot che parlò di grande passo nei «diritti del lavoro».

Per la prima volta nella storia, le candidate firmavano un contratto a tutti gli effetti. L'operazione-denuncia delle militanti si è rivelata un boomerang. Che ora imbarazza tanto il collettivo femminista, per il magro risultato, quanto gli organizzatori dello show, nella bufera per l'entità irrisoria dei compensi. Il quotidiano Le Parisien ieri ha infatti svelato gli incassi delle reginette: 7 euro l'ora. Meno delle comparse. L'equivalente del salario minimo in Francia: 84 euro al giorno, 252 euro netti in tutto. Apriti cielo. Il vaso di Pandora si è rotto. Il «gettone» da miss, si scopre, non tiene neppure conto dei 30 giorni di preparazione allo spettacolo tv, ma solo degli ultimi tre di diretta.

Il caso finirà in tribunale. Giustizia o resa dei conti? Alcune reginette parlano persino di mancanza di cibo. «Non ci veniva dato da mangiare abbastanza», dice una concorrente, che evoca «piatti aggiuntivi consegnati» a certe bellezze. Altre giurano di aver visto colleghe perdere «fino a sei chili». Da ascensore sociale a spettacolo «sessista e discriminatorio» che si consideri, non c'è pace per Miss Francia. Le Parisien svela pure che il canale fatturava nel frattempo agli inserzionisti «114mila euro lordi per uno spot pubblicitario di 30 secondi» durante la finale su Tf1. Il titolo 2022 l'ha vinto Diane Leyre. Che ricorda piuttosto l'opportunità di crescita professionale che un palcoscenico con oltre 7 milioni di spettatori le ha offerto.

Davvero le reginette erano tenute a stecchetto, come denuncia Le Parisien? O dietro le quinte tira aria di scontento, voglia di vendetta, per una corona non conquistata? La spruzzata di fango sul concorso di bellezza più antico del globo (1920), che va in tv dal 1987, colpisce anzitutto il vertice, la produttrice di reality show di successo Laroche-Joubert che già a ottobre si diceva «stufa degli attacchi strumentali» delle militanti di Osez le féminisme!: contestavano pure le regole del gioco, dall'altezza richiesta senza tacchi, 1,70 cm, all'età (18-24 anni). Vero, l'agenda di una candidata al titolo di Miss Francia è fitta durante il mese di preparazione. Campagne fotografiche, prove, cene. Tutto fuori sacco. «Muse da sfruttamento», riassume Gwenegann Saillard, Miss Champagne-Ardenne 2020. «Ma non ti iscrivi a Miss France per i soldi», ribatte Lena Massinger, Miss Champagne-Ardennes 2021, che ricorda anzi i regali ricevuti, da un iPad agli abiti. Dopo la polemica sulla possibile accettazione di transessuali, nonostante i regolamenti consentissero la sola chirurgia post-incidente, ora è guerra sul tour de force pre-gara. A giugno, parola ai giudici del lavoro.

È l’ora del glitch feminism: «Il mondo digitale è il più sovversivo, dà la libertà di sperimentare ciò che siamo». “Glitch” come errore, anomalia. E disobbedienza. È la strada per smantellare il genere binario, collegare la battaglia sul corpo ad altre lotte. E costruire identità nuove. Colloquio con Legacy Russell, curatrice di mostre e attivista statunitense. Gaia Manzini su L'Espresso il 7 gennaio 2022. In questi anni abbiamo assistito con interesse alle nuove ondate dei movimenti femministi che hanno trovato in #MeToo una delle loro espressioni più note. Ma cosa succede quando la lotta per i diritti delle donne incontra uno dei dibattiti fondamentali di questo secolo, ovvero la domanda aperta sul corpo e sull’identità di genere? Legacy Russell vive a New York City e si occupa di arte contemporanea.

Barbara Costa per Dagospia il 6 gennaio 2022. “Non è il momento per me di andare in stampa, io devo andare in overdose!”. Troppo duro? Scorretto? Oltraggioso? Cos’è quello che si fa e non si deve fare, dire, ostentare, mettere per iscritto… chi stabilisce il confine? Il livello di moralità consentita? Aveva più di una ragione, Eve Babitz, a dire che se fosse stata scrittrice oggi, nessuno avrebbe pubblicato i suoi libri.

Libri che però ci sono, in Italia editi Bompiani, libri che a scoprirli ora, in chiusi tempi ammorbatamente metooisti, non reggerebbero la censura editing, qualsivoglia fact-checking, libri che sarebbero messi al rogo dalle odierne chiese social. E invece Eve Babitz c’è stata e ha pubblicato, quel che lei era e ha vissuto e visto di un certo jet set, e tuttavia non si pensi che anche allora si fosse chissà che liberi, e dalla critica.

Se Babitz si trovò (o si mise) contro misura e perfezione di donna moglie madre e femminista scrittrice naso all’insù Joan Didion maritata Dunne, i suoi libri – di Eve – già al tempo vennero bollati spazzatura, e perché? Perché non erano – e non sono – come uomo vuole e donna acconsente. 

Perché a Eve Babitz eccome se le donne glielo biasimavano, arcigne e risentite, “cara, non è carino scrivere ciò che scrivi tu”, vale a dire mettere e mettersi a nudo, il proprio corpo e quello altrui, e fosse solo il corpo… ma quanto terrore fa, intaccare la rispettabilità? Se le cose conta farle e non esporle, Eve Babitz ha fatto entrambe, e tutta la vita. Dando fastidio. 

Nei suoi libri c’è sempre una donna – il suo alter ego – che non segue gli uomini ma si fa seguire non seguendo le regole dagli uomini decise. Scrive Babitz: mie care, siete femministe?

Tonte, non lo sapete che il femminismo è una concessione maschile, è la lotta a un mondo maschile ma solo quando e se vi conviene, ma solo quando e se vi serve, poiché è la femminilità come finora intesa una creazione maschile. 

È questo che Babitz su pagina inquadra, e soqquadra. Eve Babitz nei suoi libri svetta su una società dove il frivolo, la superficialità sono schermo di una realtà altra e dura che lei afferma. 

Scrive Babitz: come si può parlare di femminismo, di un ruolo femmina, se non parlando di quello che un uomo reclama, sicché annoiandosi a morte? Babitz sveste le donne che femministe si fanno e berciano e sfilano: non sono esse sempre e comunque e non hanno esse il loro posto nel mondo in quanto mogli di, e figlie di? E quante tra loro hanno messo al mondo figli per tenere un uomo legato a sé? 

Di Babitz ti smorfiano inaccettabile il suo esser donna e trattare gli uomini da oggetti, e su carta ma prima in vita, senza rimorso o colpa. Ma nemmeno rivalsa. 

Contro chi, poi? Ogni volta le sue protagoniste – cioè Eve – provengono da ovunque e da nessuna parte, non hanno radici se non in ciò che vogliono essere, pagina dopo pagina. Il loro background non è familiare, a una famiglia nemmeno si contrappongono, non “ci pensano”. 

Non pesa, su di loro, non fa parte dei loro programmi. Questo viene dalla vera eredità di Eve, i Babitz erano bohémien, e la madre di Eve era una artista, una che aveva un lavoro, una sua vita, non stava a casalingare per il suo uomo, e questo negli anni '40.

Eve cresce in una realtà culturale che non la imprigiona in nessun cliché. Non deve ribellarsi a nessun modello, per tale ragione le sue ragazze su pagina respirano e corrono e non si fermano insofferenti ad alcun arbitrio. Le sue ragazze su pagina non battagliano contro l’età, stupida attività ansiogena imposta alle donne dagli uomini.

Per tale motivo Eve Babitz può senza impegno dare “consigli a giovani donne che vogliono divertirsi” e quel giovane sta nella vecchiaia che c’è, ma anche a 20 anni, se te li vivi non come vuoi ma come vogliono la società, e il buon nome. 

L’inadattabilità di Eve e delle sue ragazze su pagina a impegni di ogni genere non è immaturità, ma guerra e rifiuto. Contrasto a uno stereotipo. Nei fatti, però.

Da lì il sesso non monogamo e libero e sincero, altro che promesse di amore eterno false da secoli! Nei libri di Babitz il suo ego ridondante è alieno all’ego narrativo corrente che è la lagna che ci impesta, suscitante buoni sentimenti e un consenso ampio che, per essere tale, deve per forza essere conservativo, e ancorato alla mediocrità. 

Mi saran sfuggite, ma non trovo ai libri di Babitz italiane prefazioni: cos’è, si teme a metterci la faccia, la firma? Né si leggono su Babitz chissà che saggi, pochi, e per lo più rimarcanti la morale distanza, in nome di un io non sono come lei, e ci tengo a sottolinearlo.

Ogni libera esistenza esige il suo prezzo? Babitz, del suo incidente del 1997 (ustioni di terzo grado, una sigaretta le ha incendiato i vestiti) ne ha scritto, del suo corpo “mutato a sirena, metà donna metà squame”, a burla di chi ne vedeva la più che meritata punizione di una donna così immorale… Ma la responsabilità è personale. Per tutti e sempre. 

Andare controcorrente, non importa con quanta grazia, schianta. Dicono sia il destino di ogni artista. Ma i personaggi di Eve – cioè, Eve stessa – non sono mai vittime. 

Di niente. Di nessuno. Hanno scelto di non esserlo. Per questo sono indigesti, antipatici al sentire comune, e perciò domande (“devo proprio fare qualcosa nella vita?”) e risposte bizzarre che Eve scrive, spiazzano: se non ti comporti bene, vai a sbattere, “dove? su un cumolo di neve?”. 

Cioè: non è che evito l’ostacolo, ma faccio spallucce a angosce e a pene impostemi. Se non è forza questa! Se non è carattere!

Eve Babitz nella vita – e su pagina – mai ha rinnegato il suo passato di dipendenza, e in lei – e nelle sue pagine – trovi le droghe, trovi il quaalude, e sostanze di chi è “la ragazza che anima la festa”. 

Se negli anni '60 molti la indicavano quale nuova Edie Sedgwick, e se Eve, al contrario della sfortunata Edie, la vita se l’è goduta anche grazie alla scrittura… Andy Warhol a New York l’avvicinò per invitarla in Factory. 

Ma Eve Babitz non avrebbe permesso a nessuno – nemmeno al signor Popism – di guidarla. Scrive Eve, ribadendolo in una intervista: “Andy Warhol? Sì, l’ho conosciuto. Di lui non posso raccontarti niente, stavamo tutt’due sotto LSD”.

Barbara Costa per Dagospia il 6 gennaio 2022. Meglio un uomo in mezzo alle gambe che tra i piedi. Avete finito i coccodrilli per Joan Didion? Che il dio della letteratura l’abbia in gloria, RIP e amen, ma meno male che al mondo vi sono state femmine non da marito antidiodiane decise, femmine come (non) si deve, femminone esagerate, femmine come… Eve Babitz. Mai sentita nominare? Amico, lasciatelo dire, ti sei perso qualcosa, ti sei perso molto, tutto, qualche sc*pata di rilievo di sicuro. Se c’è stata una donna, una californiana, una scrittrice sfrontatamente antitetica alla stra-incensata Didion, fatevi da parte, scansatevi, prostratevi davanti a Eve Babitz! E ai suoi libri. Ehi, non lo sai che le ragazze vogliono solo divertirsi? Questo e solo ha fatto Eve Babitz per più di metà della sua vita, Babitz che al contrario della Didion sì che la dava, a chiunque le piacesse e le andava, a chiunque con lei voleva tuffarsi nel divertimento il più carnale e esuberante e seduttivo.

Puro divertimento, senza impegno, senza legami, senza monogamia, ovvero senza monotonia, e però Joan Didion, che ne poteva sapere, per lei che aveva valore una cosa opinabile e ipocrita quale la moralità? Tutta una vita opposte, l’una contro l’altra nelle scelte di vita e di scrittura, entrambe tutta la vita hanno scritto di loro stesse e però Eve Babitz da più furba, partendo sempre da basi di verità e poi mischiando nomi e corpi, e fatti e orgasmi, e feste, e alcool e droghe.

Tutta una vita contro, e alla fine, la morte, che le ha portate via quasi insieme, Babitz il 17 dicembre scorso, Didion il 23. Fu la critica nei '70, a metterle contro? Sì e no, dai, era Babitz che fin dal suo libro di esordio l’ha sfidata e lo ha scritto, e in introduzione, “Ringrazio Joan Didion (e suo marito) per essere ciò che non sono né dovrò essere”. E pure: “Dedico questo mio libro a quello la cui moglie si infurierebbe se mettessi anche solo le sue iniziali”. Che perfida, ma quanta interessante vita mi ha preceduta in quegli anni!?

Basta, via Didion, parliamo della it girl Eve Babitz, nata in una famiglia ebraica di musicisti troskisti “senza nessun senso del peccato, e nessuna educazione”, ma con Igor Stravinsky quale padrino di Eve (sarà vero che l’ha iniziata al bere a 13 anni???) e di sua sorella Mirandi (che ha avuto un flirt con Ringo Starr). Babitz che va a scuola, studia e di più per conto suo legge Proust, Virginia Woolf, Colette, okay, ma chi sono stati tra gli amanti di Eve cresciuta?

Se non il primo tra i primi lui, Walter Hopps, fidanzato con Eve ma sposato con un’altra, Hopps curatore della mostra del 1963 di Marcel Duchamp a Pasadena. Il Duchamp fotografato da Julian Wasser mentre gioca a scacchi con una Eve Babitz nuda. Foto e partita e nudo su "Time" “fatto per vendetta: Hopps non mi voleva all’inaugurazione! Non voleva che andassi perché lì ci doveva andare la moglie…”. In quanti in quella foto, e per quella foto, l’hanno invidiata, e poi l’hanno invano imitata? 

Altro che giornalismo di moda e corretto su "Vogue" della Didion, altro che mariti (se non altrui): Eve Babitz non pensa, lei fa, lei ha da fare, lei è troppo occupata a vivere. La vita lei la mangia, la ghermisce, la sfinisce, la sferza. Los Angeles è la sua terra, la sua casa, la sua amante perpetua. Il suo sfondo esistenziale. Eve Babitz non pensa, né intellettualizza: lei agisce. Non palpita per un uomo: se lo prende. Non sta a casa ad aspettarlo: esce con un altro.

Non spadella, per lui, non scodella figli, con lui, lei è presa da sé stessa e dalle sigarette al giorno da fumare e dalla vita che si deve divorare. Senza starci a pensare. È il "canone Babitz". Un edonismo sfacciato. Una automobile in continuo movimento, che sfreccia piacere, alimentata a champagne. I suoi sono amori di una notte, forse qualcuna in più, e i suoi amori sono tanti e sono uomini belli, e sexy, e a volte si chiamano Jim Morrison (“il suo corpo…era come stare a letto col David di Michelangelo, ma con gli occhi azzurri”), e Harrison Ford (“lui sì che sapeva sc*pare!”).

Per Eve Babitz “scegliere un uomo è come scegliere un aggettivo: mi fanno tutti sentire modificata”. Allora per lei l’uomo è oggetto, l’uomo è spasso e orgasmo, l’uomo è ottimo sc*pamico. Si prende, si gusta, si cambia. Il romanticismo, il per sempre? Puah!, roba da donnette, roba di un altro secolo, tema da romanzetto rosa. La sincerità la più spudorata, la lealtà dei corpi, qui e ora, nel sesso, sono l’unica cosa che conta. Altro che intellettualistiche pagine su un’università Ivy League, e femminismo e borghesucole lagne: Babitz non ha tempo, Babitz non ha voglia. Babitz deve uscire, urlare, correre. Ridere.

Esserci. Starci. Frignare? E su che? Chi? Piglia quel telefono: che si fa stasera? Sei mai stata a una festa “con persone perfettamente in grado di parlare di aeroporti per ore senza annoiare né annoiarsi?”. Babitz ingenua, superficiale, bambina? Per te, se ti piace crederlo. Troppo frivola? Prova ad esserlo tu. E a renderlo su pagina. Ma se non vivi a mille, che caz*o scrivi? Se la vita non la inghiotti ogni istante, che caz*o ne sai? Delle storie che ti racconti, sai, e ammorbi i disgraziati che capitano sulle tue pagine. Le pagine di Babitz no, le pagine di Babitz sono il sole di L.A., il suo cielo all’alba “che diventa rosa arrossato, poi giallo, poi lo smog". Los Angeles “che è regno auto incantato, una volta più devastante di quello di Cesare”. 

Joan Didion icona di stile? Sì, e di eleganza e sobrietà, e chi lo mette in dubbio, ma Eve Babitz alza le spalle, lei ha un impegno, lei deve farsi fotografare in boa e reggiseno nero, e fotografare quel che quel reggiseno a stento contiene, due seni da infarto, immortalati da Annie Leibovitz, e mica una a caso (e amante di Eve), e foto e seni che fanno copertina dei suoi libri. Stordendo. Invogliando. Strabordando. Come la pancia di Eve nella foto con Duchamp: “Tutto il tempo a tenerla in dentro, stando attenta che non si vedesse… io che ero così gonfia! Perché avevo da poco iniziato a prendere la pillola, e non volevo fare brutta figura!”.

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 5 gennaio 2022. Nel 1979 l'artista americana Judy Chicago, femminista militante della prima ora, completò un'opera molto importante, definita epica dalla critica. The Dinner Party, ovvero l'installazione di una tavola imbandita con 39 posti a tavola sui lati di un triangolo, per un pranzo cui furono simbolicamente invitate soltanto donne escluse o mal interpretate dalla storia predisposta dai maschi: la dea primordiale e quella della fertilità, la poetessa Saffo, Teodora imperatrice di Bisanzio, Elisabetta I d'Inghilterra, Artemisia Gentileschi, Mary Wollstonecraft, Emiliy Dickinson, Virginia Woolf, Georgia O' Keeffe, tra le altre. Pioniera di un diverso modo di far cultura e di avvicinarsi al tema della parità dei diritti, The Dinner Party segna un passaggio cruciale nell'arte contemporanea perché nata in un determinato spazio e tempo.

Qualsiasi opera o intervento d'arte pubblica sorto dopo la seconda metà del '900 e in particolare nel XXI secolo, non può non tener conto di quanto la sensibilità sia cambiata rispetto al passato. Allo stesso modo, però, non si può pretendere di applicare la mentalità del presente a epoche lontane, quando le donne - ahimè - erano marginali nella vita attiva e anche nella cultura, rispetto ai colleghi maschi.

Sarà ingiusto, ma i monumenti nelle piazze italiane celebrano soprattutto uomini. Tra duecento o trecento anni chi sarà al nostro posto apprezzerà la differenza di prospettiva del 2022, finalmente matura e sicuramente diversa rispetto al 1775 quando a Padova cominciarono i lavori al Prato della Valle, una delle cinque piazze più grandi d'Europa, con i suoi 78 monumenti, tutti rigorosamente dedicati a uomini.

Le statue celebrano papi, condottieri, scienziati, guerrieri, letterati, artisti. Alcuni sono molto noti (Guicciardini, Canova, Savonarola, Petrarca, Galileo, Ariosto, Tasso), altri conosciuti soprattutto dagli storici patavini. Dopo il 1797 cinque piedestalli rimasero vuoti, perché altrettanti dogi vennero abbattuti dall'esercito napoleonico, evidente precursore di quella cancel culture che combattiamo con ogni mezzo in quanto foriera di ignoranza. Prende spunto proprio da questi vuoti l'idea di inserire una nuova statua dedicata a Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna laureata del mondo, proprio a Padova, nel 1678.

Favorevole il consiglio comunale e la sovrintendenza, non ostile la magnifica rettrice dell'università, Daniela Mapelli. In effetti c'è poco da obiettare, Prato della Valle è la più grande piazza di Padova e la quinta più grande d'Europa. Vi campeggiano 78 statue dedicate a uomini illustri soprattutto in un caso del genere quando ci sarebbe pure lo spazio fisico, l'aggiunta avrebbe un forte valore simbolico e non snaturerebbe la forma architettonica complessiva dell'ellissi.

Altra è la nota stonata: una donna su 78 è proporzione persino avvilente, suona da contentino umiliante, una tassa da pagare al politicamente corretto senza una profonda convinzione culturale. Non si può e non si deve riscrivere la storia soltanto per mondarsi la coscienza, facendoci eredi di un senso di colpa che peraltro non ci appartiene. Scherzando, ma neanche troppo, si potrebbe dire che allora dietro la Madonnina ci va San Giuseppe o a fianco di Vittorio Emanuele II la bela Rosin (in certi casi l'amante conta più della moglie).

 A esser più seri, pur sapendo che nessun maschio occidentale (e mi soffermo sull'aggettivo "occidentale" perché di sicuro non è così ovunque, neanche nel 2022) di sufficiente cultura e intelligenza rifiuterebbe di considerare oggi la donna totalmente paritaria in qualsivoglia campo di applicazione, la storia ci dice altro. 

Ci dice che fino ai primi del '900 e forse anche dopo, donne di valore ne emersero pochissime perché si viveva in un altro modo. Sbagliato ma era così, perciò individuarne soltanto una suona ancor più di beffa, e se fossi una donna questo piccolo risarcimento risulterebbe ben più umiliante rispetto al vedere una piazza con 78 monumenti maschili, tirare un sospiro di sollievo, pensando "meno male che vivo in un tempo diverso". 

Questa vicenda delle statue di Prato della Valle fa il paio con l'appello delle "femmes savants" per eleggere una donna al Quirinale. Non una persona di valore, equilibrata, autorevole, con il senso dello Stato. No, semplicemente una donna. Posto che, ancora una volta, nessun italiano direbbe di no, a tirarne fuori una tanto per rischieremmo di fare come a Padova e proporre l'equivalente di Cornaro Piscopia. Un'Angela Merkel non ce l'abbiamo, sennò l'avremmo già scelta come primo ministro e poi Presidente della Repubblica.

Interrompiamo il monopolio dei maschi per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Valeria Fedeli su editorialedomani.it il 05 gennaio 2022. Quando abbiamo lanciato il movimento Se non ora quando lo abbiamo fatto per condividere e costruire un paese per donne e per uomini.

Non mi interessa dire dobbiamo eleggere «una donna presidente della Repubblica», mi interessa valutare profili maschili e femminili con lo stesso sguardo attento al merito, alle esperienze e alle competenze.

È il momento di interrompere il monopolio maschile delle prime responsabilità. È per queste stesse ragioni che non si può prendere in considerazione la candidatura di Silvio Berlusconi. Serve una figura come Sergio Mattarella.

«Una ricca e varia esperienza di vita è cancellata dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale. […] Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di raggiungere mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici. […] Il modello di relazione tra donne e uomini, ostentato da una delle massime cariche dello Stato, incide profondamente negli stili di vita e nella cultura nazionale, legittimando comportamenti lesivi della dignità delle donne e delle istituzioni».

Sono alcune frasi dell’appello che 11 anni fa lanciavamo con il movimento Se non ora quando, per promuovere la grande manifestazione del 13 febbraio 2011.

Frasi che racchiudono le ragioni per cui allora ci mobilitavamo in tante e tanti per un cambiamento culturale, per pensare, condividere e costruire un paese per donne e per uomini. Per invertire pensieri e attitudini dominanti - patriarcali, maschilisti e sessisti - che Silvio Berlusconi non ha mai smesso di alimentare e perpetuare con la sua azione pubblica.

Quella mobilitazione è stato il primo segnale di un cambiamento che negli anni successivi ha poi coinvolto molti aspetti della società, della politica e delle istituzioni. Un cambiamento ancora in corso, ancora più urgente dopo la pandemia. 

Quella per una democrazia paritaria è una sfida e una battaglia quotidiana la cui priorità necessita di essere ribadita e fatta vivere a ogni livello possibile, come giustamente sta accadendo: dalle scelte dell’Europa a quelle del Pnrr nazionale, fino alle responsabilità e alle priorità che come Paese sapremo assumere facendo della parità di genere la sfida centrale per costruire opportunità, crescita, benessere per tutte e tutti. 

LA DISUGUAGLIANZA DI GENERE

Quella di genere è la disuguaglianza più profonda e trasversale che condiziona ogni ambito della vita, da contrastare con processi educativi e culturali, superamento di ogni gap nel mondo del lavoro, condivisione delle responsabilità genitoriali, accesso alle cariche istituzionali.

Ecco perché ritengo che non possa più essere il tempo di un monopolio maschile sulle due più alte cariche istituzionali del paese. Non mi interessa dire dobbiamo eleggere «una donna presidente della Repubblica», mi interessa valutare profili maschili e femminili con lo stesso sguardo attento al merito, alle esperienze e alle competenze, mi interessa che la persona scelta abbia quelle caratteristiche di autorevolezza e unitarietà che servono per rappresentare tutte le italiane e gli italiani, e mi interessa che tutto il processo sia vissuto da tutte e tutti i protagonisti con la consapevolezza che l’equilibrio di genere, anche nelle più alte cariche, è decisivo per una democrazia davvero rappresentativa, che non può che essere pienamente paritaria.

INTERROMPIAMO IL MONOPOLIO MASCHILE

È il momento di interrompere il monopolio maschile delle prime responsabilità, solo nella condivisione possiamo guardare con fiducia al futuro, solo con la condivisione possiamo superare il più profondo e trasversale dei gap che ci impediscono di crescere.

È per queste stesse ragioni, per le stesse ragioni racchiuse nelle frasi citate all’inizio dell’appello del 2011 che credo che non si possa prendere in considerazione la candidatura di Silvio Berlusconi. Non faccio obiezioni di forma, convinta che in termini di legge ne abbia il diritto, né di ordine giudiziario, da ferma garantista.

È quello che ha rappresentato con il suo modo di intendere il Paese, la società, la cultura, i media, l’informazione, lo spettacolo, la politica che mi pare a dir poco del tutto fuori tempo, inadeguato alle sfide dei prossimi mesi e dei prossimi anni.

Una figura come Berlusconi non può essere una carica apicale quando di fronte a noi c’è prioritaria la sfida dell’uguaglianza, di rendere società e democrazia più paritarie, non per le donne, ma per il futuro di tutto il Paese.

UN UOMO O UNA DONNA DIVERSI

Serve una figura - uomo o donna che sia - che sappia interpretare sentimenti, speranze e bisogni di oggi e di domani, con capacità inclusiva e rappresentativa fuori dal comune,  come ha saputo essere il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in questi anni densi di difficoltà e crisi.

Sono fortemente convinta, come espresso dal segretario del Pd Enrico Letta, che sia importante cercare un nome capace di unire un fronte largo, che guardi alla maggioranza di governo, ma questo non è possibile se fosse portata al tavolo la proposta Berlusconi. Nè avrebbe senso che il centrosinistra arrivasse con un suo nome da contrapporre in un gioco di bandiere.

Non è quello che serve al Paese, non è quello che si aspettano le italiane e gli italiani. Non è il tempo di contrapposizioni, ma di condividere da subito un percorso. E il percorso deve essere aperto, inclusivo, rappresentativo, paritario.

VALERIA FEDELI. È una politica e sindacalista italiana. Senatrice del Partito democratico dalla XVII legislatura, dal 21 marzo 2013 al 12 dicembre 2016 ha rivestito la carica di vicepresidente del Senato con funzioni vicarie per poi essere nominata ministra dell'Istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Gentiloni.

Dagospia il 3 gennaio 2021. Da “Radio Capital”. “Che noia questi appelli rosa per una donna al Quirinale. Ma a chi va di passare sette anni leggendo discorsi scritti da altri? Molto meglio Netflix datemi retta!” 

Natalia Aspesi, 92 anni, scrittrice e giornalista, si mette di traverso e straccia l’appello lanciato da scrittrici ed intellettuali italiane affinché al Colle possa salire una donna. Ad Andrea Lucatello di Radio Capital risponde che la sua non è una provocazione.

 “Ci credo seriamente” spiega la Aspesi, “le donne vengono chiamate perché donne e non in quanto figure eccellenti, e allora a fare la presidente della Repubblica potrebbe andare anche la mia cuoca che fa piatti divini.  Il problema è che alle donne si affidano le cose nei momenti drammatici e non è giusto! Bisogna che abbiano loro l’intelligenza di aspettare quando gli uomini avranno risolto le loro porcherie. 

Non succederà mai? E Allora non ci romperemo le balle ad andare in giro ad accarezzare scolaresche. La parità  non è fare le stesse cose degli uomini. Io non capisco perché il giorno in cui salirà una donna al Colle ci sentiremo più pari. No, non è vero perché nella società non è così. Quindi il mio appello è lasciate questo fastidio agli uomini”.

Sì ho letto l’appello della Maraini e delle altre sui giornali. Ma che  noiose che sono! Donne legate a dei vecchi schemi e non alla libertà. C’è una sola donna che mi piacerebbe come Capo di Stato. Una donna di sinistra, imprenditrice e con le carte in regola: Miuccia Prada! Tanto chi l’ha detto che deve essere un politico?  Io un incarico del genere non lo accetterei mai perché non sto in piedi e ho solo voglia di vedere Netflix”.

Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 3 gennaio 2021. (…) Il mondo è pieno di donne capi di Stato e di governo che se la cavano benissimo, ma non so perché, in quanto italiana, penso che sia meglio avere pazienza, lasciar risolvere il peggio dagli uomini che l'hanno creato e come donne, aspettare tempi più sereni. (...) Perché la prima donna che salirà al Quirinale dopo 12 uomini e non tutti di assoluta magnificenza, resterebbe pericolosamente femmina, e solo la vedova sarebbe ben accetta, o forse la lesbica, ma non la signorina (come mai non ha trovato marito?) né la divorziata (cornuta!); e se c'è il marito dove lo mette, e i figli pure, perché anche alla più alta carica dello Stato, in Italia sposa e mamma e nonna resta, e vuoi che i siti femminili non la fotografino mentre lava i piatti o rimesta il risotto nelle cucine presidenziali? 

Per non dispiacere alle sentinelle di genere l'eletta si dovrà chiamare Presidenta e qui non si potrebbe protestare, perché Presidentessa fa venire in mente alle più anziane la soubrette Yvette Jolifleur, alias Mariangela Melato nel film di Salce con quel titolo lì. Una sola figura femminile italiana mi viene in mente per il difficile ruolo, Liliana Segre che giustamente ha subito detto no grazie.

Senza contare la massima inimitabile immagine di un Capo di Stato donna, però con carica di Regina, Elisabetta II, una lunga vita un lunghissimo romanzo e una inesauribile fiction, immagine eternizzata dal cappello, dalla borsetta e dai colori pastello. Invece mi pare del tutto plausibile, e non so perché, una italiana premier, forse perché ne abbiamo già visti di ogni colore e perché in fondo si tratta di un impegno quasi da massaia della nazione e non di esserne il simbolo. 

Purtroppo la sola che mi viene in mente, che la sorte mi bastoni, è la Giorgia Meloni, ed è per questo che di notte ho gli incubi e come fossi la presidentessa trumpiana di Don't look up scesa sul pianeta sconosciuto, mi lascio divorare la testa da un animale mostruoso.

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano" il 3 gennaio 2021. Le donne non gli vogliono più bene, anche se non porta la camicia nera come nella canzoncina di Salò. Lui è Mario Draghi, aspirante capo dello Stato, loro sono le donne di sinistra riunite in un'immaginaria assemblea sindacalizzata per promuovere una donna purchessia al Quirinale. 

Esigono una successora di Sergio Mattarella - «vogliamo dirlo con chiarezza: è arrivato il tempo di eleggere una donna» - e lo scrivono in un appello carico di aspettative rivolto «alle forze politiche chiamate a votare il prossimo Presidente della Repubblica».

Le firme, ovvio, sono altrettanti blasoni: Dacia Maraini, Edith Bruck, Liliana Cavani, Michela Murgia, Luciana Littizzetto, Silvia Avallone, Melania Mazzucco, Lia Levi, Andrée Ruth Shammah, Mirella Serri, Stefania Auci, Sabina Guzzanti, Mariolina Coppola, Serena Dandini, Fiorella Mannoia. Insomma il meglio del bel mondo intellettuale goscista, letterario e spettacoloso, televisivo e accademico, invariabilmente pensoso.

La tesi è trasparente perfino: «...crediamo sia giunto il momento di dare concretezza a quell'idea di parità di genere, così tanto condivisa e sostenuta dalle forze più democratiche e progressiste del nostro Paese... ci sono in Italia donne che per titoli, meriti, esperienza ed equilibrio possono benissimo» salire al Quirinale, anche se «non è questa la sede per fare un elenco di nomi, ma molte donne hanno ottenuto stima, fiducia, ammirazione in tanti incarichi pubblici ricevuti, e ci rifiutiamo di pensare che queste donne non abbiano il carisma, le competenze, le capacità e l'autorevolezza per esprimere la più alta forma di rappresentanza e di riconoscimento.

Questo è il punto. Non ci sono ragioni accettabili per rimandare ancora questa scelta». Le firmatarie non fanno nomi, dunque, ma ci ricordano che «l'Italia è una democrazia largamente incompiuta, tanto più rispetto a paesi come Germania, Gran Bretagna, Austria, Belgio, Danimarca, Islanda, Norvegia, Finlandia». 

Sicché, avanti o popolo, urge uno slancio rosa e consapevole: «Ci rivolgiamo a voi, fate uno scatto. L'elezione di una donna alla Presidenza della Repubblica sarà la nostra, e la vostra, forza».

Il ragionamento non fa una piega, in fondo completa in via bisex la proposta lanciata in mancanza di meglio da Giuseppe Conte ma per la quale in molte- come anche la vice segretaria del Pd Irene Tinagli - hanno già inchiodato l'ex bispremier alla sua cinica fantasticheria: e come ti permetti, maschio bianco dei nostri stivali, di uscirtene in questo modo vago e conformista se non pure patriarcale? 

Perché le quote rose o sono rosa o non sono, sin dalla loro primaria manifestazione rivendicativa. Peccato ci vada di mezzo Draghi (ma a Palazzo Chigi potrebbe comunque restare, chiediamo per un'amica?) del quale senz' altro pensano ogni bene anche le nostre suffragette michelamurgesche che tuttavia, sempre ieri, devono aver letto con qualche disappunto il coincidente corsivo della stellare Natalia Aspesi su Repubblica.

Lei, la gran dama del giornalismo liberal Dall'alto: Fiorella Mannoia, Michela Murgia, Luciana Littizzetto, Dacia Maraini e Sabina Guzzanti. «Tra poco», si legge nel loro appello alle forze politiche, «sarete chiamati ad eleggere il Presidente della Repubblica, e crediamo sia giunto il momento di dare concretezza a quell'idea di parità di genere, così tanto condivisa e sostenuta dalle forze più democratiche e progressiste del nostro Paese.

Vogliamo dirlo con chiarezza: è arrivato il tempo di eleggere una donna». E ancora: «Si parla di democrazia dei generi ma da questo punto di vista l'Italia è una democrazia largamente incompiuta. Non ci sono ragioni accettabili per rimandare ancora questa scelta». Tra le altre firmatarie Edith Bruck, Liliana Cavani, Silvia Avallone, Melania Mazzucco, Lia Levi, Andrèe Ruth Shammah, Mirella Serri, Stefania Auci, Mariolina Coppola e Serena Dandini (qualunque cosa ciò voglia dire), sì che sa dare un tono d'ironica ineludibilità ai suoi desideri così come ai brutti sogni, e ha già risposto all'appello in questione senza neppure averlo letto: «Una donna al Colle? No grazie».

Deliziose le motivazioni, peraltro, fra le quali segnaliamo un passaggio degno di Aristofane: «Il mondo è pieno di donne capi di Stato e di governo che se la cavano benissimo, ma non so perché, in quanto italiana, penso che sia meglio avere pazienza, lasciar risolvere il peggio dagli uomini che l'hanno creato e come donne, aspettare tempi più sereni».

Meglio lasciare il peggio ai peggiori e augurare il meglio alle migliori per quando le condizioni lo consentiranno. Aspesi al limite accarezza il nome di Liliana Segre, ma la vorrebbe semmai con prerogative regali modello Elisabetta II; e la desidera, se non maestà, «Presidenta» giocoforza «per non dispiacere alle sentinelle di genere».

Ma poiché incombe l'astuzia perfida della ragione, anche la cara Natalia s' immerge nelle acque gelide della verità e ammette che un nome più realistico sarebbe quello di Giorgia Meloni: «...ed è per questo che la notte ho gli incubi». Piuttosto che gridare «ve la meritate la Meloni!», al netto degli impedimenti anagrafici, Aspesi preferisce rinunciare alla partita. Quello che le donne non dicono stavolta è più interessante di quel che scrivono.

Oksana Lyniv: «Sono direttrice senza quote rosa. Voglio riportare in sala i giovani». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2022. Bologna, Oksana Lyniv è la prima donna alla guida di un teatro lirico in Italia.  

«Spero che tutto questo un giorno sarà Storia e che le donne nel mio lavoro abbiano le stesse opportunità» dice Oksana Lyniv. C’era una volta l’ultimo regno incontrastato dell’uomo: il podio del direttore d’orchestra col suo fascino di magnetismo, autorità, mistero. In fondo è la professione di uno che muove l’aria, producendo suono. Il Karajan femminile si chiama Oksana Lyniv. Il Guardian le ha appena dedicato la prima pagina, perché è la prima donna a dirigere una Fondazione lirica in Italia: Teatro Comunale di Bologna, debutto il 14 gennaio. Il New York Times l’ha inserita tra le migliori sorprese del 2021. Ucraina, 44 anni il 6 gennaio, è la donna che infrange i tabù: è stata la prima (dopo 176 uomini e 145 anni) che ha diretto al Festival di Bayreuth, a luglio, nel tempio wagneriano. È una combattente dei diritti femminili, ma senza elmetto: usa la forza del talento.

Bologna è da sempre avamposto del nuovo nella lirica.

«Non avevo realizzato di essere la prima a ricevere un incarico del genere, e nel Paese che ha inventato la musica. In qualche modo sto facendo la Storia! Sono onorata di far parte di un cambio epocale».

Obiettivi?

«Fra i tanti, quello di portare i giovani a teatro. Le prime produzioni? Yolantha e Andrea Chénier. Tra opera e sinfonica, accanto agli italiani, porterò Ciajkovskij, Bruckner, Strauss, l’ucraino Boris Lyatoshinsky, Wagner...».

Ricorda gli inizi?

«Difficili. Alle masterclass mi sono sentita dire: chi te lo fa fare, non avrai mai il successo di noi uomini. Maschi direttori e insegnanti. Ero sola, non c’era modo di avere consigli e confrontarmi con una collega. Un giorno mi dissi: non importa se non andrai lontano, fai ciò che ami e sii te stessa. Ora vedo molte donne nelle orchestre, non ci si fa caso se il primo violino sia uomo o donna, solo negli Anni 90 era diverso. La società in termini di eguali diritti è migliorata e noi siamo pronte ad afferrare le opportunità».

Lo scettro, in forma di bacchetta, era destinato all’uomo quasi come diritto divino.

«Ci sono due eccezioni, a parte Nadia Boulanger: l’americana Antonia Brico che diresse i Berliner nel 1930, e sette anni prima, sconosciuta, Eva Brunelli. Il maschilismo riguardava ogni ambiente. In Germania Ovest, la terra dei compositori e delle grandi orchestre, fino al ‘77 si veniva licenziate se il marito sosteneva che un qualunque lavoro fosse in conflitto con gli obblighi familiari. Sono contro le quote rosa: a contare dev’essere la qualità. Noi donne possiamo avere successo solo attraverso una sana concorrenza».

Lei fu assistente a Monaco di Kirill Petrenko, il direttore dei Berliner. Come ci arrivò?

«Un musicista israeliano che per caso mi aveva ascoltato gli diede un mio dvd. Kirill mi chiese come avessi potuto mettere su così tanto repertorio da giovane; risposi che cercavo ogni opportunità per migliorare. Non mi aveva aiutato nessuno. All’Opera di Odessa davo dieci recite al mese. Avevo scritto a una ventina di agenzie, dicevano di non voler lavorare con donne. Da ragazza poi c’era l’Urss: non si poteva viaggiare».

Lei è nata a Brody, la città crocevia di Joseph Roth.

«È stata teatro di guerra, vi ho diretto nelle rovine di una sinagoga la Sinfonia Kaddish di Bernstein; sua figlia mi scrisse una lettera molto bella, pochi sanno che Leonard era figlio di emigranti ebrei di origine ucraina. Organizzo un festival a Leopoli, città dove per 30 anni visse Franz Xaver Mozart, figlio di Wolfgang. Ho fondato in Ucraina un’orchestra giovanile con musicisti provenienti dalle zone di guerra, cerco un dialogo tra Ovest e Est, in questo momento critico per noi vorrei diffondere un’immagine moderna e positiva del mio Paese».

Cosa pensa di chi, essendo donna, vuole essere chiamato direttore?

«Si rischia di riportare indietro di oltre 50 anni le conquiste delle donne. Per secoli alcune professioni erano destinate agli uomini, perciò sono d’accordo che mi si chiami direttrice altrimenti sarei un’eccezione nel mondo patriarcale. Oggi su 100 direttori 3 sono donne, fra poco saremo di più. In Italia c’è Speranza Scappucci, brava e nota».

Una donna a Bayreuth: Wagner, i nazisti che se lo accaparrarono ma anche il fascino di un’esperienza unica.

«Da studentessa, al tempo dell’Urss, Wagner era associato al nazismo, si diceva che le sue opere erano lunghe e complicate. Quando vidi le sue partiture fui travolta. Le Valchirie mi hanno sempre affascinato perché lottano, e nel creare figure femminili Wagner è stato progressista. A Bologna esordisco col primo atto della Valchiria. L’Italia è centrale per le arti e l’opera, è importante che il cambiamento avvenga ora. Dico sempre che più che parlare di voler cambiare le cose, dobbiamo farlo. Barbara Hannigan, direttrice e cantante, dice che se si chiudono gli occhi, da un uomo o da una donna si hanno le stesse aspettative».

"Una donna al Quirinale". Ma la quota rosa va bene solo se è di sinistra. Luca Sablone il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il modus operandi della sinistra: porre veti sugli altri e scommettere su una canditatura femminile per il Colle, ma solo se appartiene al fronte rosso. Nell'intricata partita per il Quirinale la sinistra non sembra avere le idee chiarissime. Al caos che regna sovrano nei partiti del fronte giallorosso si sovrappone però una voce, una richiesta che sa molto di uno slogan vuoto senza alcun significato concreto. E così a sinistra si torna a fare pressing per eleggere una donna come prossimo presidente della Repubblica. Rimarrà deluso chi si aspettava che i discorsi per il Colle vertessero sulle capacità e sulle doti politiche di un determinato candidato. Alt però: la figura femminile deve necessariamente appartenere alla galassia rossa.

"Una donna al Quirinale"

All'accorato appello di scommettere su una quota rosa hanno preso parte diverse donne. Da Michela Murgia a Fiorella Mannoia passando per Luciana Littizzetto. È stato chiesto alla politica di non "rimandare ancora questa scelta", di fare in fretta nell'elezione di un capo dello Stato al femminile. Il punto è sempre lo stesso: è stato proposto un nome? È stata avanzata una candidatura ben specifica? Niente di tutto ciò. La solita mossa per dire tutto e non dire niente.

Il messaggio che passa è sbagliato: si considera il sesso come il primario valore di merito. Ma a predominare nelle strategiche scelte, soprattutto in quella cruciale per il Quirinale, devono essere professionalità e competenze. A prescindere dalla figura, uomo o donna che sia. Un approccio al merito che difficilmente porterà al risultato auspicato e che finisce per essere intrerpretato come una sorta di "sessimo al contrario". Per capire: uno statista, un politico di grande spessore che sappia svolgere le sue mansioni varrebbe meno di una donna con le stesse qualità?

I capricci della sinistra

A fornire qualche primo nome è stata Dacia Maraini, la prima firmataria dell'appello di intellettuali e artiste per il Quirinale. Intervistata da Il Fatto Quotidiano, la scrittrice ha ribadito come sia arrivato il momento di far rappresentare il vertice dello Stato da una donna. E ha provato a fare qualche nome: Rosy Bindi, Marta Cartabia, Emma Bonino, Anna Finocchiaro, Paola Severino, Roberta Pinotti.

Le ritiene tutte "assolutamente all'altezza di questo onore e questa responsabilità". E considera normale il suo augurio che venga premiato un profilo di sinistra: "Sono una donna di sinistra, vorrei al Colle una personalità di sinistra. Poi, ovviamente il capo dello Stato deve essere al di sopra delle parti, ma essere imparziali non significa non avere un pensiero e una storia personale".

Il modus operandi della sinistra sembra essere questo: porre veti nei confronti degli avversari (vedi contro Silvio Berlusconi) e propinare continuamente il discorso della candidatura femminile, a patto che appartenga allo schieramento rosso. Ma sono i numeri ad avere l'ultima parola, e i numeri dicono che il centrodestra ha le carte in regola per eleggere un proprio capo dello Stato. La sinistra deve metterselo in testa: è certamente nelle sue prerogative partecipare al dibattito e provare a fare il gioco politico, ma a questo giro il centrodestra conta numericamente di più.

Lo strano concetto di super partes

Curioso anche lo strano concetto del colore del super partes maturato dalla sinistra. È oggettivo riconoscere l'importanza di eleggere un candidato il più trasversale possibile, in grado di spogliarsi delle sue appartenenze politiche quando sarà chiamato a rappresentare l'intera Nazione. Ma ad esempio il Partito democratico è andato oltre, sostenendo che i leader dei partiti non debbano partecipare alla corsa per il Quirinale poiché eccessivamente divisivi e di parte.

Un ragionamento che ha come scopo quello di provare a togliere dal campo l'ipotesi Silvio Berlusconi, che comunque gode dell'apprezzamento delle varie anime europeiste presenti in Parlamento. Eppure per i maggiori esponenti della sinistra italiana, anche nei salotti televisivi, il vero super partes devere tingersi di rosso. Altrimenti è da considerarsi tagliato fuori dalla scelta.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

·        Gli Omosessuali.

(ANSA-AFP il 29 novembre 2022) - Il parlamento di Singapore ha abrogato oggi una legge che criminalizzava il sesso tra uomini, cancellando una normativa di epoca coloniale che è stata a lungo criticata come discriminatoria e stigmatizzante per la comunità Lgbtq. La legge sanzionava il sesso tra uomini con un massimo di due anni di carcere, anche se non veniva applicata attivamente.

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2022.

Nella democrazia più popolosa del mondo, Fathima e Adhila sono due puntini di felicità: «Sposate non ancora - raccontano alla Bbc - ma un giorno ci piacerebbe molto». Un giorno quando? In India l'omosessualità è stata depenalizzata nel 2018 (in 70 Paesi resta un crimine) ma le unioni gay non sono riconosciute dalla legge: «Di recente ho accompagnato Adhila all'ospedale - dice la ventitreenne Fathima - ed era come se fossimo due estranee anche se siamo insieme da tanti anni. Per farci riconoscere, abbiamo dovuto dare le generalità dei nostri padri».

E al di là della frustrazione, bisogna considerare che padri e madri delle due giovani non sono gente aperta. A giugno, un mese dopo aver saputo della loro relazione, i familiari di Fathima Noora l'hanno di fatto rapita e sequestrata in casa. Allora la compagna, Adhila Nassrin, si è rivolta alla magistratura. C'è un giudice, nel Kerala, che ha decretato che le due giovani musulmane tornassero a vivere come volevano: insieme. E in attesa di nozze «vere», loro hanno cominciato dal «contorno», dal servizio fotografico.

Immagini di un virtuale «matrimonio lesbico» che ha riscosso molto successo (e qualche critica) quando sono state postate su Facebook. Corone di fiori, abiti sgargianti, baci e anelli, colori arcobaleno. «Siamo libere adesso, possiamo vivere il nostro sogno». Una vita coniugale documentata sui social come quella di milioni di altre coppie: il cane, gli amici, la casa. Ma tenendo conto delle difficoltà che circondano le persone LGBT anche in un Paese come l'India dove sulla carta i diritti sono tutelati, Adhila e Fathima sono una coppia speciale.

Da dove viene questo loro trionfante coraggio? Entrambe hanno un lavoro, ed è un fattore importante: «Lo diciamo a tutte coloro che ci chiedono consiglio. Ragazze, finite gli studi, trovatevi un lavoro. L'indipendenza economica è fondamentale». 

Nella democrazia più popolosa del mondo, Fathima e Adhila sono diventate quasi celebri. Hanno rilasciato interviste, sono apparse in tv. Tengono alta la bandiera arcobaleno con ironia: «Su Instagram un tizio ci ha scritto che la nostra condizione è temporanea, perché non si è mai vista una lesbica quarantenne. Che cosa? Va be', tanto per cominciare l'abbiamo invitato alla festa dei nostri 40 anni».

Stefano Arosio per “il Giornale” il 28 novembre 2022.

Il disturbo visivo di chi ha confuso il rosso e il verde in Svizzera-Camerun non è il solo daltonismo di questo Mondiale. Perché ci sono diritti arcobaleno osteggiati in questa rassegna iridata di nome e monocromatica sulle questioni di libertà. Ma anche un perbenismo afflitto da maculopatia, che è quello di chi al centro del campo visivo fissa il solo Qatar.

Chiederne conferma alla Corea del Sud, espressione di una Nazione che è quanto più di occidentale si possa avere al di là del 40mo meridiano est, simbolo dell'alta tecnologia. Ma anche baluardo di quella contrapposizione storica con i fratelli della Corea del Nord, che dall'abbattimento del pioppo negli anni Settanta sono passati a puntare testate intercontinentali verso Giappone e Stati Uniti.

La Corea del Sud, anche per questo, è sentita «vicina». Lei che nei Mondiali assegnategli nel 2002, quando spedì a casa l'Italia con la complicità di Byron Moreno. Una presbiopia cultural-occidentale, la stessa che tende a non vedere la discriminazione dell'omosessualità di Seul. Lì dove permane la politica di rieducazione dell'orientamento dei non etero, con indici di suicidi tra i più alti al mondo tra chi ha fatto outing.

Le «terapie riparative» sudcoreane perdurano nei fatti e nella cultura popolare, come da tradizione militare e relativa concezione di «stupro reciproco» per l'omosessualità. Oggi la Corea del Sud va in campo con il Ghana dopo il pareggio all'esordio contro l'Uruguay. Ma nel baraccone mediatico, ogni altra partita per ora può restarsene in panchina.

Dal vangelo secondo Malan. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022.

Se il Levitico, il libro di Ezechiele e la Lettera di Paolo ai Romani sono tornati di stringente attualità, il merito è del senatore italofraterno Lucio Malan, che a Un giorno da pecora ha ricordato come le Scritture considerino l’omosessualità «un abominio». Non è la prima volta che un politico di destra interpreta la Bibbia in modo originale. A Lorenzo Fontana, presidente della Camera, si deve la sorprendente rielaborazione del precetto evangelico «Ama il prossimo tuo», laddove per «prossimo» non va intesa l’umanità intera, come erroneamente pensavano i santi e i missionari, ma soltanto quella più a portata di citofono, e comunque mai oltre Lampedusa. Al biblista Malan si potrebbe obiettare che san Paolo trova sì indecorosi gli uomini che vanno con altri uomini, ma anche quelli che portano i capelli lunghi, e quindi persino il ciuffo del senatore sarebbe a rischio di peccato mortale. Quanto all’abominio con cui Ezechiele marchia gli abitanti di Sodoma, non si riferisce ai loro gusti sessuali, ma al rifiuto di «sostenere la mano dei poveri e dei bisognosi»: più che ai fautori del modello unico di famiglia sembrerebbe fornire una pezza d’appoggio a quelli del Reddito di cittadinanza. Resta il passo del Levitico, è vero. E poco importa se i teologi discutono da sempre se un testo sacro vada interpretato in senso letterale, specie su argomenti mutevoli come il costume: negli ultimi due-tremila anni l’ex berlusconiano Malan può avere cambiato partito, ma non posizione.

Quel profeta di un Malan e l’esegesi della bibbia. Redazione L'Identità il 23 Novembre 2022

"Un libro per tutti e per nessuno", è il sottotitolo di una celeberrima opera nicciana che però ben si presta all’esegesi ideologizzata del libro per antonomasia, la Bibbia. Come nel caso di Lucio Malan di FdI, che per dar forza al suo no alle nozze gay tira in ballo sia l’Antico che il Nuovo Testamento, secondo cui "l’omosessualità è un abominio". Parole che hanno scatenato come la saliva dei cagnoletti di Pavlov la consueta polemica politica. Ma noi vogliamo restare nel campo di Malan. Non è forse la Bibbia a suggerirci che non v’è peggior cieco di chi non vuole vedere? Non è forse questo il vero abominio? Il non voler vedere che i tempi sono cambiati da quando nel deserto si adorava il vitello d’oro? "Siamo forse ciechi anche noi? Gesù rispose loro: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane". (Gv 10,40-41). L’esegesi biblica, nei millenni palestra di coscienza critica è al contempo baluardo della difesa del dogma. Una differenza sottile come un rasoio (di Occam). Perché complicarsi la vita, dunque, Malan (che si è allontanato dalla chiesa valdese proprio perché favorevole ai matrimoni gay), mettendosi ad interpretare la Bibbia? Quando è evidente che dare forza a una posizione politica basandosi sull’interpretazione di un testo sacro evoca pericolosamente i fondamentalisti (islamici).

I biblisti: "Quei versetti nacquero in un preciso contesto storico". Malan e la caccia agli omosessuali, chi è il senatore meloniano che vive nel VI secolo Avanti Cristo. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 24 Novembre 2022 

Mezza retromarcia del senatore Lucio Malan. L’omosessualità è un abominio, è scritto nella Bibbia, dice lui. Poi di fronte alle reazioni fa un passo indietro, commentando di avere solo citato dal capitolo 18 del libro del Levitico. La spiegazione è peggiore del guaio, come ora vediamo. Il senatore di Fratelli d’Italia, originario della Val Pellice, era ospite della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora. Tutto è nato da una semplice domanda. I conduttori hanno chiesto al politico di raccontare quale fosse il principale motivo che lo avesse indotto ad abbandonare Forza Italia. La sua risposta è partita dalla legge Zan.

«Un esempio la posizione del governo Draghi sulla legge Zan, a cui io sono contrario». Da qui il contraddittorio con i giornalisti che gli hanno fatto notare come la Chiesa Valdese, di cui Malan fa parte, sia favorevole ai matrimoni omosessuali: «Non abbiamo il dovere di obbedienza, la Chiesa Valdese è fondata sulla Bibbia e non sulla gerarchia». E poi ha aggiunto: nella Bibbia «c’è scritto che l’omosessualità è un abominio, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento». In seguito arriva la precisazione che sa di "mezzo" dietrofront, con Malan che sottolinea di aver riportato il versetto del Levitico 18,22 ("Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole") ma di essersi sempre battuto per la libertà sessuale. A ribellarsi di fronte al ‘biblista’ Malan è sceso in campo un vero biblista, teologo ed esegeta cioè padre Alberto Maggi, prima con un post su Facebook, poi con un’intervista a Repubblica.

In sostanza, spiega Maggi, «il termine omosessualità è assente nella Bibbia. Nei tanto citati versetti del Libro del Levitico non si tratta di omosessualità. In essi viene considerato abominevole l’uomo che si corica con un uomo come si fa con una donna ma nulla viene detto della donna che si comporta allo stesso modo. Se si parlasse del concetto attuale di omosessualità, dovrebbe valere anche per la donna. La proibizione non riguarda la sfera sessuale della persona, ma quella importantissima in quella cultura della generazione. In quella cultura non mettere al mondo dei figli era considerato quello sì un abominio, perché chi non si sposava era considerato alla stregua di un omicida perché negava l’immagine di Dio, ma non c’entra niente con la sessualità. Nello stesso capitolo del Levitico in cui si condannano rapporti tra maschi, si legifera anche: ‘Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte’. Non sembra che questo precetto abbia frenato l’adulterio, ma è certo che nessuna nazione civile punisce con la morte gli adulteri». E aggiunge ancora Maggi, rispondendo ad una domanda sulla condanna dell’omosessualità nei testi dell’apostolo Paolo: «Ancora una volta, a quel tempo non c’era la nozione di omosessualità. Nella Lettera ai Romani, Paolo inveisce sia contro le femmine che ‘hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura’, sia contro i maschi, i quali ‘lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi’. Non esistendo la nozione di omosessualità, ovvero la normale attrazione che può avere una persona verso un’altra dello stesso sesso, Paolo vedeva questo comportamento come una deviazione, basandosi su quello che riteneva fosse il ‘rapporto naturale’. Le sue opinioni in materia hanno lo stesso valore di quando afferma che è ‘la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli’, identificando il concetto di natura con la cultura che varia secondo le popolazioni».

Insomma, siamo di fronte ad un grossolano scivolone, perché inventarsi biblisti induce a commettere degli errori piuttosto gravi. La Bibbia infatti va interpretata e su questa linea, dal Concilio Vaticano II in poi, la Chiesa cattolica ha assunto una posizione molto chiara. L’interpretazione fondamentalista della Scrittura, soprattutto l’Antico Testamento, è appannaggio, delle sétte evangelical nordamericane, poi diffuse in America Latina, che predicano una versione del cristianesimo completamente disancorata dalla comprensione del contesto delle diverse scene bibliche. Basti pensare ai Testimoni di Geova e al divieto delle trasfusioni di sangue, basato su un’interpretazione letterale che fa perno esattamente sul Levitico. Questo libro è uno dei testi più complessi e difficili della Bibbia, in quanto raccoglie e codifica le norme rituali di Israele. Come ha osservato acutamente un altro dei più raffinati esegesi cattolici, il cardinale Gianfranco Ravasi, il Levitico non è altro che una raccolta ordinata delle norme di comportamento e di prescrizioni rituali messe a punto dai sacerdoti d’Israele. Norme che per quell’epoca avevano una risonanza che a noi oggi sfugge. Perché siamo nel sesto secolo prima di Cristo, quando parte della popolazione ebraica è deportata a Babilonia ed in quel clima nasce l’esigenza di fissare per scritto le norme e le regole cultuali, al fine di non disperdere l’identità religiosa e la tradizione dei vinti e deportati, per quando faranno ritorno in patria.

Le norme fanno riferimento ad una purezza rituale che diventa ‘metafisica’ cioè l’essenza del popolo ebraico che si vuole salvaguardare. E Gesù trasgredisce di continuo tali norme: toccando i lebbrosi, non giudicando l’adultera, rispettando in generale il messaggio che viene dall’ebraismo – in cui è comunque nato e vissuto – ma al tempo stesso è capace di scioglierne le gelide ritualità, come si vede nella discussione accademica, tra dottori della legge, se fosse possibile operare una guarigione nel giorno di sabato, giorno del riposo nel senso della non interferenza con i ritmi della natura. Sappiamo come va a finire: Gesù guarisce di sabato perché le regole non devono soffocare la ragione e la misericordia (Luca 14,1-6). Conclude Ravasi: «Facciamo in modo di non creare mai una religiosità puritana, gelida, inesorabile, che non conosca misericordia». Considerazione cui si potrebbe aggiungere quella di Papa Francesco, quando di ritorno dal viaggio in Brasile, nel 2013, rispondendo ad una domanda sugli omosessuali e sulle lobby gay (anche in Vaticano?, chiedevano), disse: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?». Dovrebbe bastare per far capire che dietro a tante espressioni forti di politici che tirano in ballo la religione a sproposito, non c’è la religione ma soltanto il desiderio di farsi propaganda, rivelandosi per quello che si è: abbastanza ignoranti in religione. Ed essere valdesi non mette al riparo, evidentemente.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Malan (FdI): «No a nozze gay, già la Bibbia diceva che l’omosessualità è un abominio». Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2022.

Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato scatena una bufera dopo le sue parole in radio. Zan (Pd): «Questa è anche la posizione di Meloni?». Calenda: «Parole indegne»

«Il motivo principale per cui sono passato a FdI? Ad esempio la posizione del governo Draghi sulla legge Zan, a cui io sono contrario». A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è il capogruppo Fratelli d’Italia al Senato Lucio Malan. «La Chiesa Valdese, di cui lei fa parte, è però favorevole ai matrimoni omosessuali», gli fanno osservare in studio. «Ma non abbiamo il dovere di obbedienza, la chiesa Valdese è fondata sulla Bibbia e non sulla gerarchia». Sulla Bibbia c’è scritto che i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono vietati? «C’è scritto di peggio, ed in modo anche più esplicito. Non sui matrimoni ovviamente, a cui nessuno aveva pensato duemila anni fa». E cosa ci sarebbe scritto nella Bibbia su questo tema? «C’è scritto che l’omosessualità è un abominio, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento», ha detto il senatore.

Frasi che innescano una bufera: «Questa è anche la posizione di Giorgia Meloni e del primo partito di governo?», incalza Alessandro Zan del Pd. «Come fa Malan a non rendersi conto che accostare l’omosessualità alla parola abominio è davvero sconcertante? — attacca Barbara Floridia, capogruppo M5S al Senato —. I parlamentari di Fratelli d’Italia dovrebbero prendere le distanze da queste parole inqualificabili».

Dura anche la reazione di Carlo Calenda: «Non so come qualificare queste esternazioni — dice il leader di Azione —. Personalmente le considero indegne e sintomo di una profonda ignoranza. Se le nostre regole derivassero dal vecchio testamento non saremmo molto diversi dai talebani. Per fortuna abbiamo avuto il Vangelo e lo Stato laico».

Malan: “Mai detto che l’omosessualità è un abominio, io sono per la libertà delle persone”. Vittorio Giovenale su Il Secolo d’Italia il 22 novembre 2022.

“Leggendo le dichiarazioni di vari esponenti dell’opposizione su una mia frase detta nel corso della trasmissione ‘Un giorno da pecora’, mi rendo conto di quanti sono coloro che, anche istruiti, hanno difficoltà a capire un testo scritto. Come correttamente scrive l’agenzia di stampa che ha riportato le mie parole, non ho detto che l’omosessualità è un abominio”. Lo dichiara il presidente del gruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan.

Malan: “Mi hanno chiesto cosa dice la Bibbia su precisa richiesta del conduttore”

“Al conduttore della trasmissione che mi chiedeva come mai fossi contrario al ddl Zan, visto che la chiesa valdese di cui sono membro è favorevole, ho risposto che la chiesa valdese è fondata sulla Bibbia, che è molto severa sull’omosessualità. E su specifica richiesta del conduttore ho citato, come esempio Levitico 18:22. La prossima volta, per evitare problemi di comprensione a chi mi ha attaccato, mi limiterò a citare il numero del versetto. E ricordo anche a tutti costoro, sempre pronti a parlare di laicità dello Stato, forse senza sapere di cosa parlano, che riconoscere giudizi morali di una religione, non significa volerli applicare per legge o non rispettare coloro che li infrangono. Il Cristianesimo insegna proprio il contrario. Mi sono sempre battuto per la libertà religiosa, e per la libertà sessuale delle persone. Libertà che vanno garantite in Italia e promosse nel mondo. Spesso la sinistra se ne è dimenticata”, conclude l’esponente di Fdi.

Il motivo principale per cui è passato a FdI? “Ad esempio la posizione del governo Draghi sulla Legge Zan, a cui io sono contrario”: queste le parole di Malan, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Il capogruppo FdI al Senato, interpellato sulla posizione della Chiesa Valdese favorevole ai matrimoni omosessuali, ribatte: “Ma non abbiamo il dovere di obbedienza, la Chiesa Valdese è fondata sulla Bibbia e non sulla gerarchia”. Sulla Bibbia c’è scritto che i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono vietati? “C’è scritto di peggio e in modo anche più esplicito. Non sui matrimoni ovviamente, a cui nessuno aveva pensato duemila anni fa”, “c’è scritto – ha ricordato Malan – che l’omosessualità è un abominio, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento”.

Lgbt, vicepresidente circolo Fdi: "Sono omosessuale ma difendo Malan". Da adnkronos.com il 22 novembre 2022.

"Sono omosessuale, di Fratelli d'Italia, ma difendo Lucio Malan". E' bufera sul capogruppo di Fdi al Senato a causa delle sue dichiarazioni sui matrimoni omosessuali rilasciate alla trasmissione radiofonica 'Un giorno da pecora', dove l'esponente del partito di Giorgia Meloni ha ribadito il suo no alle nozze Lgbt, ricordando che nella Bibbia "è scritto che l'omosessualità è un abominio, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento". Ma dopo le aspre critiche arrivate dall'opposizione (Pd in primis) nei confronti di Malan, in Fratelli d'Italia si alza una voce a sostegno del senatore. Ed è quella di Klevis Gjoka, omosessuale dichiarato e vicepresidente del Circolo "Pirandello" di Fratelli d'Italia a Milano. "Non credo che il senatore Malan abbia ragione alcuna di scusarsi", dice Gjoka, intervistato dall'Adnkronos. Per il giovane militante di Fdi, il capogruppo meloniano "non ha offeso la sensibilità di nessuno ribadendo un concetto sacrosanto, ovvero che l'istituzione del matrimonio nasce come istituzione religiosa ed è pertanto da sempre eterosessuale per definizione". "Questo - puntualizza - non significa che le coppie omosessuali debbano avere o abbiano meno diritti di fronte alla legge".

Da gay dichiarato, cosa ne pensa del matrimonio egalitario? "Semplicemente credo che ci sia una differenza tra cultura e legge. Non è possibile affermare che il matrimonio come concetto religioso sia 'apribile' alle coppie omosessuali, sarebbe svilente per la tradizione religiosa e per la fede stessa", risponde il vicepresidente del Circolo "Pirandello" di Fdi. Quanto è numerosa la comunità Lgbt in Fratelli d'Italia? "Non saprei darne una quantificazione, in tutta onestà, ma non c'è alcun tipo di discrimine legato alla sessualità o ad altre caratteristiche innate in Fratelli d'Italia. Quello che conta per noi sono i valori e l'impegno che il militante o l'esponente porta all'interno della nostra comunità e mette al servizio del territorio e della Nazione. Conosco personalmente alcuni esponenti locali omosessuali", conclude Gjoka. (di Antonio Atte)

Antonio E. Piedimonte per “La Stampa” il 21 novembre 2022.

Legalità, lotta alle mafie, carceri. È la delega assegnata alla donna trans napoletana Daniela Lourdes Falanga nel corso dell'ultimo congresso dell'Arcigay. Niente di strano, si dirà. Se non si trattasse di una scelta ad alta densità simbolica. Perché la nuova componente della segreteria nazionale dell'associazione ha una storia personale con caratteristiche del tutto eccezionali, una su tutte: quando ancora si chiamava Raffaele, era figlio di un boss della camorra, per giunta il primogenito, dunque destinato a ereditarne il potere. 

Da mancato capoclan della camorra all'esecutivo nazionale Arcigay, un bel viaggio.

«E una grande emozione. È stato un congresso importante, per la prima volta è stata eletta una presidente donna (la giornalista Natascia Maesi, ndr) e per la prima volta si è scelto di tener cura di quello che a Napoli facciamo da tanto tempo: il contrasto alle mafie, l'assistenza ai carcerati, la quotidiana battaglia per la legalità».

Un orizzonte che per lei assume significati ulteriori.

«Sono nata e cresciuta nell'hinterland napoletano, ero il primo figlio di boss molto temuto, impegnato nella guerra in Campania tra Cutolo e gli altri. Erano gli Anni 80-90, la violenza regnava sovrana su tutto. E sebbene trascorressi la maggior parte del tempo con mia madre ricordo fin troppo bene quell'atmosfera». 

Genitori separati?

«Sì, mamma, di fatto una ragazza madre, viveva per conto suo ma mi costringeva a trascorrere tutti i fine settimana con mio padre, forse pensando di darmi qualcosa in più. Noi eravamo molto poveri, lui viveva nel lusso, noi stavamo in una stanza, lui in una villa. O forse voleva solo che lui non dimenticasse che l'erede ero io».

Per un bambino sarà stato difficile...

«Specie per un bambino che in realtà si sentiva una bambina.

È stata un'infanzia di negazione totale. Senza giochi, senza gioia, senza l'emozione della ricerca. Un'infanzia segnata da chi non accettava il prevalere di una sensibilità diversa. Per quel mondo, fortemente caratterizzato dal machismo, rappresentavo l'inaccettabile». 

Suo padre come si comportava con lei?

«Il dolore maggiore lo provocava con l'esclusione. Non mi guardava, non mi considerava. Mi lasciava da parte, giocava con gli altri bambini. Dalla nuova compagna ebbe quattro figlie».

 Insomma, non ripudiato, ma sicuramente negato.

«Sempre. Poi è finito in carcere, all'ergastolo».

 Però c'era mamma.

«Mi ripeteva sempre: meglio un figlio drogato che ricchione». 

E a scuola?

«Di semplice per me non c'è mai stato niente. Sui banchi ero sempre e comunque il "figlio di". Ricordo gli sguardi dei compagni, ricordo tutto. Ero al liceo scientifico "Pitagora" di Torre Annunziata. E dove non c'era il timore reverenziale per il ramo paterno, scattava il bullismo. La scuola è sempre stata uno spazio non sicuro». 

L'università?

«Eravamo molto poveri, chiesi a mia mamma dei soldi per l'iscrizione, non ci fu modo». 

È vero che il «Maurizio Costanzo show» le ha cambiato la vita?

«Eh, sì (sorride). In una puntata Eva Robbins disse di non essere un "ermafrodito" ma una donna trans. Fu come se un faro si fosse accesso e avesse illuminato la donna che già viveva dentro di me. Avevo 17 anni e l'orizzonte si aprì su un mondo nuovo». 

Un percorso non agevole.

«Una battaglia immane. Ma ho fatto la mia strada, passo dopo passo. Lasciando da parte la mia storia. Almeno fino a dieci anni fa...». 

Cosa è successo 10 anni fa?

«Gliela faccio breve. Ero già un'attivista Lgbti, in un'affollata riunione con ospiti importanti e istituzioni improvvisamente si alzò quello che si usa chiamare femminiello e davanti a tutti disse: "Tu non devi parlare perché sei figlio di un camorrista". Fu devastante. Mi crollò il mondo addosso. Ancora oggi solo a raccontarlo mi viene da piangere». 

Poi?

«L'episodio fece scalpore. In sala, tra gli altri, c'era anche Alessandra Clemente (assessore nelle giunte De Magistris, ndr) che, come è noto, è figlia di una vittima innocente della camorra. Lei capì la situazione e mi abbracciò, poi venne la solidarietà dello stesso sindaco e di molti altri. L'impegno per i diritti per le persone trans divenne la mia vita».

 Dove nasce il suo nome?

«Ero nel corridoio dell'ospedale in cui fui trasportata d'urgenza per una complicazione dopo l'operazione di vagino-plastica, dalla barella vidi una statua della Madonna di Lourdes e in silenzio le chiesi di salvarmi». 

Ha più rivisto suo padre?

«Sì, dopo 25 anni. Esattamente il 21 dicembre 2018. Ero stata appena eletta presidente del comitato "Antinoo" Arcigay ed ero relatrice a un incontro sulla violenza di genere all'istituto "Ferdinando Galiani" di Napoli. Me lo trovai davanti, era lì con una compagnia teatrale di Rebibbia, interpretava il ruolo di un uomo violento che si era pentito. Incredibile, vero?». 

Cosa accadde?

«Per la prima volta mi vedeva donna e adulta. Ero seduta assieme ad altri, si avvicinò e si sedette vicino a me. Era emozionato, disse: "Pensavi non ti riconoscessi? 'O sanghe è sanghe" (il sangue è sangue, ndr). Si commosse». 

E lei?

«Fui sopraffatta dall'emozione. Cominciai a piangere. Non si può descrivere a parole».

Che farà come responsabile Arcigay per la legalità e la lotta alle mafie?

«Continuerò a fare quello che già faccio da anni per i carcerati e per tutti quelli hanno bisogno di un'altra occasione, di un'opportunità. Faremo, in modo che la questione violenza sia sempre prioritaria. Specie per i giovani che dobbiamo imparare ad ascoltare perché questo è l'unico modo per coinvolgerli e per farli entrare nelle dinamiche democratiche. È la sfida più importante, una battaglia culturale».

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 4 ottobre 2022.

Lo scorso fine settimana si è tenuto uno degli eventi più rilevanti per gli attivisti e i teorici dell'universo Lgbt, la Eurocentralasian lesbian community conference. Una grande kermesse, con invitate e invitati da tutto il mondo e il finanziamento dell'Unione Europea. Lo slogan di questa edizione, la terza, era «resistenza lesbica», con tanto di bandiera ucraina sui volantini promozionali. La splendida rassegna si è svolta - pensate un po' - in quel di Budapest, in Ungheria. A quanto pare, dunque, nella terra di Viktor Orbán non si spara a vista agli omosessuali, come qualcuno vorrebbe far credere. Non risulta, infatti, che alla conferenza ci siano stati morti e feriti. Anzi, come hanno scritto gli organizzatori della rassegna, la città magiara è sede di uno dei più longevi gruppi di attivismo lesbico d'Europa, Labrisz, fondato nel 1999.

La notizia però è un'altra.

Alla lesbian conference, in effetti, un'epurazione c'è stata, ma non l'hanno messa in atto gli ungheresi crudeli e omofobi. No, sono stati proprio i responsabili dell'evento a impedire l'ingresso a una esponente politica. Si tratta di Faika El Nagashi, eletta al Parlamento austriaco e nota per il suo convinto attivismo a favore della causa lesbica. La signora in questione, dal 2017 in avanti, è stata tra le principali promotrici delle prime edizioni della lesbian conference, ma quest' anno le sue (presunte) colleghe hanno deciso di escluderla, come lei stessa ha scritto sui social il 28 settembre.

A poche ore dall'inizio della manifestazione, ha raccontato la parlamentare, gli organizzatori le hanno inviato una mail in cui le spiegavano perché non fosse più la benvenuta, cancellando l'invito risalente a diverso tempo prima.

La conferenza, si leggeva nella missiva elettronica, «è uno spazio trans inclusivo», e in alcune «recenti dichiarazioni pubbliche» la El Nagashi ne aveva calpestato i «valori fondamentali». 

Messa così, la faccenda pare un po' oscura, ma ci ha pensato la politica austriaca a fare chiarezza. «Prima dell'estate, ho rilasciato un'ampia intervista a un settimanale liberale in Austria in cui ho affermato che fosse necessario mantenere la categoria di "donna" basata sulla realtà materiale», ha dichiarato la diretta interessata alla stampa. «Nella stessa intervista ho anche chiesto la protezione delle persone trans dalla discriminazione. Ma in seguito, ho incontrato una tremenda ostilità. Presumo che questo sia ciò che è arrivato nel cda della conferenza e ciò ha causato la mia esclusione».

È l'ultimo di una lunga serie di avvenimenti paradossali. Un'attivista lesbica, per altro molto combattiva e molto radicale, viene esclusa da una conferenza (che in teoria dovrebbe essere luogo di confronto fra opinioni diverse) per aver osato difendere la differenza sessuale, andando così in contrasto con i più intransigenti sostenitori dell'ideologia trans. Siamo senz' altro di fronte a uno dei più lampanti esempi di quella che due studiosi anglofoni di rilievo, Helen Pluckrose e James Lindsay, hanno definito «la nuova intolleranza». Stiamo parlando di due autori di dichiarato orientamento liberale, che appaiono tendere piuttosto a sinistra, non certo di pericolosi sovranisti o, appunto, seguaci di Orbán. Ebbene, persino loro si sono accorti della deriva liberticida che i movimenti transfemministi e Lgbtq+ hanno preso negli ultimi anni.

A tale riguardo è interessante notare un altro fenomeno. La ferocia e la violenza degli attivisti trans aumenta proprio mentre le fondamenta culturali e politiche del gender si sgretolano. Un esempio radioso di questa tendenza lo fornisce un saggio appena pubblicato in Italia dal Mulino e intitolato Oltre il gender. A firmarlo è Judith Lorber, il cui nome al grande pubblico italiano risulterà probabilmente sconosciuto. Costei è una delle Grandi Madri della teoria gender assieme alla più celebre Judith Butler. La Lober, professore emerito di sociologia al Brooklyn College, nei decenni passati ha contribuito a costruire l'edificio teorico Lgbt, ma oggi è giunta a una sorprendente (per lei) conclusione: il gender non elimina le diseguaglianze.

Anzi, a dire il vero la nostra eroina ci va giù ancora più pesante: «Dietro l'apparente cancellazione di un rigido binarismo di genere e delle sue norme discriminatorie», scrive, «si cela il perdurare del potere maschile e del privilegio patriarcale». Nel libro la Lorber racconta un episodio incredibile. Spiega di essere stata invitata da altri attivisti a utilizzare i pronomi «neutri» (they e them in inglese) per contribuire a cancellare le differenze di genere anche nel linguaggio. «Pur essendo da molto tempo una sostenitrice dell'eliminazione del genere», dice, «mi sono trovata a osteggiare la cancellazione della mia identità di donna, anche a costo di perpetuare lo stesso binarismo di genere che ritenevo fosse all'origine dell'oppressione delle donne. Così ho rifiutato di seguire il suggerimento.

Voglio essere identificata come donna». Esplosivo: una delle principali teoriche della cancellazione della differenza oggi insiste a rimarcare proprio la tanta odiata differenza sessuale. Per quale motivo? Lorber la prende alla larga, e la comprendiamo: non se la sente di smontare tutto il castello intellettuale che ha costruito in decenni di attività. Però le sue affermazioni sono abbastanza chiare: a suo dire, esistono ancora diseguaglianze fra donne e uomini. E tali diseguaglianze non si possono sanare se la distinzione tra maschi e femmine viene eliminata. «Al momento attuale continuano a sussistere pratiche istituzionali e interazionali di diseguaglianza di genere che devono essere rese visibili e combattute.

E per combattere la diseguaglianza di genere dobbiamo distinguere le "donne" dagli "uomini" come categorie giuridiche e sociali. Dobbiamo poterle mettere a confronto per rendere visibile la diseguaglianza di genere». A tratti la studiosa pattina sugli specchi, ma le va riconosciuto di aver compreso di essersi infilata in un vicolo cieco, e di aver capito che chiamando «donna» un essere umano con la barba e il pene di sicuro non si aiuta l'emancipazione femminile. «Ciò che si rischierebbe di perdere è la valorizzazione delle donne, la loro storia, le loro conquiste e le loro ricche e variegate culture per produrre, tramandare e rendere visibili le quali le femministe si battono strenuamente da 50 anni».

Ecco l'amara verità: la psicosi gender non ha garantito più libertà, ma solo più intolleranza e più discriminazioni. Peggio: le derive trans non fanno altro che cancellare la specificità femminile. Se ne sono accorte le attiviste lesbiche, e se ne sono accorte pure tante femministe, madrine del gender comprese. Qualcuno, forse, dovrebbe riferirlo alle giovani assatanate che in Italia vanno in piazza «per i diritti» e contro la destra: sono appena arrivate e già sono fuori dal tempo.

(ANSA-AFP il 25 settembre 2022) - Matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anche maternità surrogata e filiazione allargata: oggi i cubani sono chiamati alle urne per un referendum su un nuovo Codice della Famiglia, un testo molto avanzato in termini di diritti sociali ma ancora oggetto di forti resistenze. Oltre otto milioni di cubani sono chiamati a rispondere sì o no a una sola domanda: "Sei d'accordo con il Codice della Famiglia?" I seggi saranno aperti dalle 7:00 alle 18:00 ora locale (dalle 9:00 alle 20 in Italia).

La nuova legge, che modifica profondamente il testo in vigore dal 1975, definisce il matrimonio come l'unione di "due persone", legalizzando il matrimonio omosessuale e l'adozione da parte di coppie dello stesso sesso. Oltre a rafforzare i diritti dei bambini, degli anziani e dei disabili, il codice introduce la possibilità di riconoscere legalmente più padri e madri, oltre ai genitori biologici, nonché la maternità surrogata senza fini di lucro. Molti di questi temi sono fortemente sentiti a Cuba, in una società ancora intrisa di maschilismo e il cui governo comunista ha ostracizzato gli omosessuali negli anni '60 e '70. Tuttavia, negli ultimi vent'anni, l'atteggiamento delle autorità nei confronti degli omosessuali è cambiato notevolmente e il governo ha svolto una intensa campagna per il "sì".

(ANSA il 26 settembre 2022) - Con quasi il 67% dei voti favorevoli, Cuba ha detto "Sì" alla riforma del Codice della Famiglia sottoposta ieri a referendum, che introduce nel Paese matrimoni e adozioni gay e la maternità surrogata, tra le novità. 

 Lo ha annunciato oggi la presidente del Consiglio elettorale nazionale (Cen), Alina Balseiro, secondo quanto riportato dall'agenzia statale Prensa Latina. Balseiro ha affermato che, sebbene il conteggio debba ancora concludersi in alcuni collegi di tre province, il Cen convalida questi risultati come "validi e irreversibili". (ANSA).

Riportando i dati preliminari sul referendum, il Cen ha riferito che hanno partecipato al voto 6.251.786 cubani, pari al 74.01% degli 8,4 milioni di elettori registrati. Il numero totale di schede valide è di 5.892.705, che rappresenta il 94,25%. A favore del "Sì" sono state contate 3.936.790 schede, pari al 66,87%. A favore del "No" sono andate 1.950.090 schede, pari al 33,13%. Con la vittoria del 'Sì' al referendum, risulta approvato il nuovo Codice della Famiglia cubano, che andrà a sostituire il precedente del 1975.

Il nuovo testo introduce il matrimonio tra persone dello stesso sesso e le adozioni per coppie omosessuali. Disciplina la maternità surrogata e porta novità nel contrasto alla violenza di genere, insieme al divieto del matrimonio infantile. Tra le novità, prevede inoltre il trasferimento della "responsabilità genitoriale" dei minori agli anziani, cosa fondamentale per l'isola, terra di emigrazione.

Diritti negati, storia parlamentare del Ddl Zan: ecco perché l'omotransfobia rimane impunita. Alessandra Del Zotto su La Repubblica il 2 Settembre 2022.

Il 21 luglio con la caduta del governo Draghi anche le battaglie per i diritti aperte in Parlamento sono venute meno. Una legislatura che, sulla carta, sembrava avere una maggioranza (Pd e M5s) per far approvare la proposta di legge Zan contro l'omotransfobia, lo Ius Scholae, la cannabis e il fine vita, non è riuscita di fatto a portare a casa nulla.

In vista del voto del 25 settembre, ripercorriamo l'iter Parlamentare di alcuni tra i disegni e le proposte di legge che hanno provato a colmare vuoti legislativi in materia di diritti - talvolta anche su impulso della Corte Costituzionale, si pensi al fine vita - ma che non hanno passato l'esame delle Camere. Nonostante siano state a lungo al centro di infuocati dibattiti.

Il disegno di legge Zan contro l'omotransfobia è il primo tra i 'diritti mancati' che affronteremo. Dalla presentazione della proposta a luglio 2020, alla 'tagliola' dell'ottobre 2021 che ne ha bloccato l'iter parlamentare per sei mesi, passando attraverso manifestazioni di piazza e battaglie di influencer. Ecco perché l'omotransfobia rimane impunita.

“Noi omosessuali non ci facciamo strumentalizzare dalla sinistra”. Francesca Russo l'8 Settembre 2022 su Culturaidentita.it

In questi ultimi giorni a scatenare l’ennesima polemica su Giorgia Meloni è stata l’incursione di un attivista Lgbt+ durante il comizio che la leader di Fratelli d’Italia ha tenuto a Cagliari in vista delle prossime politiche. Il ragazzo, Marco Marras, salito sul palco munito di bandiera arcobaleno, ha voluto rivendicare i propri diritti sulle adozioni da parte delle coppie gay. La Meloni lo ha ascoltato e lui l’ha anche ringraziata tramite social.

Ma il mondo omosessuale non ha voce unanime sulla questione anzi: abbiamo intervistato Umberto La Morgia, omosessuale, 33 anni, romano, business developer di un’azienda multinazionale veneta, che invece la pensa all’opposto rispetto al pensée unique del mondo arcobaleno.

Perché sei contro l’omogenitorialità? E perché una coppia omosessuale non sarebbe in grado di educare un figlio al pari di una etero?

Non si tratta di essere in grado o non di in grado come se essere genitori fosse riconducibile a una mera competenza genitoriale. Senz’altro due persone dello stesso sesso potrebbero essere capaci di dare amore e crescere un figlio, ma comunque lo priverebbero dell’opportunità di conoscere la maternità o la paternità: due dimensioni naturali, complementari e fondamentali per la formazione della persona. Sono contrario all’omogenitorialità perché penso che si debba accettare in toto la propria condizione e le relative conseguenze. Se sei omosessuale, dalla tua unione possono nascere tante belle cose e sentimenti, ma non figli. E questa non è omofobia, ma la realtà delle cose. Per permettere a due persone dello stesso sesso di avere figli bisogna ricorrere ad artifici come l’utero in affitto o la gestazione per altri che dir si voglia. Io ritengo che non tutto ciò che è tecnicamente possibile con il progresso scientifico sia anche eticamente giusto e, anzi, ritengo che queste modalità per avere un figlio a tutti i costi siano un segno di egoismo, altro che progressismo! Per quanto riguarda le adozioni, ugualmente ritengo che la condizione ottimale per un bambino sia quella di avere la maggiore stabilità possibile e di avere una madre e un padre. Una persona che viene adottata normalmente già parte da una condizione non facile e non vedo perché non dovrebbe avere il diritto ad avere un padre e una madre che tutti, anche noi omosessuali, abbiamo avuto. Ciò non vuol dire che la famiglia naturale sia una garanzia a priori, ma penso sia la base: la miglior base da cui partire.

Hai mai ricevuto pareri negativi da parte di altro omosessuale riguardo il tuo punto di vista?

Le mie posizioni sono condivise da una gran parte della popolazione, ma certamente ho ricevuto parecchi attacchi, anche molto pesanti, da parte della cosiddetta comunità LGBT+: da coloro che si presentano come paladini dell’amore universale e dei diritti civili e che in realtà non esitano a emarginare, discriminare, offendere e anche in alcuni casi diffamare chiunque si discosti da quella che è la totalità della dottrina gender e del loro pensiero unico. Per essere contrario a determinate politiche mi hanno dato dell’omofobo interiorizzato, mi hanno detto che ho la sindrome di Stoccolma, la sindrome di Norimberga, che sarei come un maiale che vuole andare alla sagra della porchetta e potrei continuare a lungo coi loro epiteti. Perché per gli attivisti LGBT+ mainstream o comunque per i gay ideologizzati dalla sinistra, se non la pensi come loro, sei omofobo e se sei omosessuale sei omofobo interiorizzato. In poche parole, non hai diritto a pensare con la tua testa.

Hai mai avvertito il desiderio di diventare padre? E se si come gestisci il tuo senso di paternità?

Penso che faccia parte dell’essere umano a un certo punto della propria vita sentire una sorta di slancio a diventare padre o madre. Ma lo si può essere in tanti modi, non solo a livello biologico. Michelangelo e Leonardo non hanno avuto figli, ma hanno esercitato un’indiscussa paternità in campo artistico che ha fatto la storia. Madre Teresa di Calcutta nemmeno ha procreato, ma sfido a dire che non sia stata una vera madre per tanti. Io mi sento di difendere la cultura della vita e penso che questo potrebbe essere il mio modo esercitare la paternità: ostacolando quella che Giovanni Paolo II chiamava la cultura di morte.

Cosa diresti alle coppie etero che invece sono d’accordo alle adozioni gay?

Alle coppie etero che sono a favore delle adozioni gay direi di riflettere più in profondità sull’importanza del maschile e del femminile: delle differenze tra i sessi. Oggi si tenta in tutti i modi di negarle, in favore di un indifferentismo sessuale che è un appiattimento ingiusto, a mio modo di vedere. La natura e la biologia hanno ancora tanto da dire. Anzi, oggi più che mai.

Sul gay-pride qualcuno dice sia una carnevalata, sei d’accordo?

Il gay pride ha avuto il suo ruolo importante nel corso degli anni per far sì che ci fosse più accettazione delle persone non eterosessuali. Tuttavia oggi non ne condivido né lo stile né i contenuti. Non vado ai pride perché andarci significa implicitamente condividere le battaglie politiche odierne relative all’omogenitorialità e all’ideologia di genere, ad esempio. Lo sfoggio di eccessi e il vilipendio della fede cristiana, poi, oltre che essere di cattivo gusto, possono avere l’effetto di allontanare alcune persone già dubbiose dal mondo gay e generare una repulsione o un’avversione controproducente.

Ti senti discriminato? Oppure le notizie sulle aggressioni omofobe vengono enfatizzate per fare share?

Io non mi sento discriminato. Le discriminazioni e le aggressioni motivate dall’orientamento sessuale vanno sempre condannate senza se e senza ma, ma penso siano enfatizzate perché l’Italia tendenzialmente non è un Paese omofobo e non ritengo giusto parlare di escalation di crimini di odio, quando i dati ufficiali dell’OSCAD ci comunicano che questo clima da Arabia Saudita non c’è. Bisogna sempre verificare i casi in cui effettivamente un reato sia motivato dall’omotransfobia e ricordo che la normativa vigente già tutela qualunque persona da aggressioni e discriminazioni e se oggi non c’è una legge ad hoc per questa fattispecie legata all’omofobia è colpa della sinistra che non ha voluto mediare e ha preferito andarsi a schiantare senza portare a casa nessun risultato: per ideologia.

Pensi che la sinistra strumentalizzi i gay per avere consensi?

Sicuramente la comunità gay è molto numerosa e fa gola alla politica. La sinistra cerca di accaparrarsi da tempo il voto dei gay in vari modi, ma penso e spero che tante persone libere non ci stiano a farsi ghettizzare per finalità elettorali e che ragionino a tutto tondo sulle loro politiche e su quelli che sono i cosiddetti diritti civili che la sinistra promuove, che a mio giudizio non sono diritti. Il matrimonio egualitario, ad esempio, non è altro che un modo per riconoscere l’esistenza di due padri e due madri e sdoganare l’omogenitorialità. Non tutte le persone omosessuali sono d’accordo su questo ed è ora che si sappia.

Peppa Pig, Fratelli d'Italia denuncia: “Stop all'indottrinamento dell'ideologia gender”. Il Tempo il 09 settembre 2022

Si discute ancora di Peppa Pig all’interno della politica italiana. La senatrice di Fratelli d’Italia, Isabella Rauti, responsabile del Dipartimento Pari Opportunità, Famiglia e Valori non negoziabili, è ritornata sul cartone animato che vedrà la presenza di un personaggio con due madri omosessuali: “Fratelli d’Italia da tempo denuncia il tentativo di indottrinamento da parte dei sostenitori delle teorie gender, di cui il ddl Zan è stato uno degli esempi più evidenti. Adesso registriamo un’ulteriore offensiva utilizzando i famosi personaggi, amati dai bambini, per fare propaganda gender. È il caso del cartone animato Peppa Pig dove gli autori hanno deciso di inserire un personaggio con due madri. Una scelta inaccettabile e riguardo alla quale mi auguro la Rai non vorrà prestarsi per fare da megafono a quantomai discutibili ideologie”. 

“Per quanto ci riguarda - prosegue Rauti - ribadiamo il diritto dei bambini ad essere considerati come tali ed a non essere strumentalizzati. Inoltre riteniamo che abbiano il diritto ad avere un padre e una madre e un modello di famiglia naturale tradizionale che per noi rappresenta un valore da difendere, custodire e tutelare”.

Svolta arcobaleno di Peppa Pig, è rivolta: "La Rai non mandi in onda l'episodio". Il Tempo l'08 settembre 2022

Bufera sulla Rai per la svolta arcobaleno di Peppa Pig, il popolare cartone animato dedicato ai bambini in età pre-scolare. Nell'episodio trasmesso mercoledì 7 settembre in Gran Bretagna è apparso infatti un nuovo personaggio, Penny Polar Bear, che vive con due mamme. "È inaccettabile la scelta degli autori del cartone animato Peppa Pig di inserire un personaggio con due mamme. Ancora una volta il politicamente corretto ha colpito e a farne le spese sono i nostri figli. Ma i bambini non possono essere solo bambini?", ha dichiarato Federico Mollicone, responsabile cultura di Fratelli d’Italia e candidato nel collegio plurinominale Lazio 1-01 della Camera dei Deputati. 

"Come ha dimostrato recentemente Giorgia Meloni siamo e saremo sempre in prima linea contro le discriminazioni, ma non possiamo accettare l’indottrinamento gender. Per questo chiediamo alla Rai, che acquista i diritti sulle serie di ’Peppa Pig’ in Italia col canone di tutti gli italiani, di non trasmettere l’episodio in questione su nessun canale o piattaforma web", dice Mollicone che si riferisce al fuori programma in un comizio in cui è salito sul palco un attivista per i diritti delle coppie omosessuali.

La vicenda ha provocato la reazione anche dell'associazionismo. Jacopo Coghe, portavoce di Pro Vita & Famiglia, ha affermato che "è intollerabile usare cartoni animati in salsa LBTQIA+ per influenzare la mente dei bambini e normalizzare situazioni che si fondano sull’ideologia gender. Per questo il primo episodio di Peppa Pig trasmesso in UK con la presenza di 'due mamme lesbiche' è di una gravità assoluta. Due donne possono dotarsi di un figlio solo acquistando gameti umani e praticando la fecondazione artificiale, violando il diritto del figlio di crescere con suo papà. I cartoni animati devono divertire ed educare i più piccoli, non confonderli con la presenza di elementi politicamente corretti", si legge in una nota in cui si chiede alla Rai di non trasmettere l’episodio. 

Valeria Braghieri per “il Giornale” l'8 settembre 2022. 

Tutta questa rivoluzione per poter rappresentare una famiglia composta da due mamme anche nei cartoni animati, per poi averne una che «fa il medico» e una che «sta a casa a cucinare gli spaghetti». Una classica famigliola arcobaleno... anni Cinquanta. 

È stata una delle amiche di Peppa Pig, l'orsacchiotta con gli occhiali Penny Polar Bear, (in una puntata dell'episodio «Families» in onda su Channel 5 in Gran Bretagna), a raccontare come fosse composta la sua famiglia e a spiegare felice di vivere con due mamme. Si è trattato della prima volta in cui il tema ha fatto irruzione nella serie animata di Peppa. Fino ad oggi c'erano stati solo tradizionalissimi mamme e papà.

Ma va detto che il padre di Peppa è sempre stato tratteggiato in maniera così goffa e poco incisiva (per usare decisamente due eufemismi) che ci siamo stupiti del fatto che a scappare con una compagna donna non fosse stata la mamma di Peppa. Indeciso a tutto, bersaglio di scherno, mai risolutivo e corredato di una voce acuta e tremula. Ah beh, ovviamente è rosa pure lui, essendo il papà di Peppa. Era normale che il maschile avesse i minuti contati in questa serie. 

La maialina rosa, invece, è un fenomeno globale che va in onda in ben centottanta Paesi. Tanto per capire, Quentin Tarantino ha detto di lei «È la più grande importazione britannica del decennio».

Quindi è normale che si sia scelto questo contenitore per dare il via all'inclusione e accontentare le molteplici richieste che, nel corso degli anni, sono state rivolte dalle associazioni LGBTQ ai produttori del cartone visto che, dopo l'uscita di «Peppa' s Adventures: The Album», pubblicato nel 2021, Peppa è diventata una vera e propria icona per la comunità gay. I fan hanno notato che diversi aspetti delle canzoni presenti nell'album facevano riferimenti ai diritti LGBTQ, inclusa la canzone «Rainbow».

Insomma era il terreno perfetto per il complicato innesto. D'altra parte è comprensibile che le mamme e i papà arcobaleno abbiano voglia di vedersi rappresentati nei programmi che guarderanno i loro figli. E anche che i figli delle famiglie arcobaleno abbiano il diritto di vedere nei ppropri cartoni famiglie come le loro. Peppa, ovviamente, li ha accontentati tutti.

Per l'esattezza lo ha fatto la sua amica Penny Polar, con i suoi occhiali, la sua vocina ancora compressa dall'età, la naturalezza disarmante che i bambini sanno maneggiare con tanta perizia eppure inconsapevolmente: «Vivo con mia mamma e l'altra mia mamma. Una mamma è un dottore e una mamma cucina gli spaghetti. Io amo gli spaghetti». Et voillà. L'inclusione. In rosa e arcobaleno.

Venezia 79 è Queer, il programma: ci sono Elodie, Guadagnino, Amelio con Braibanti e Monica di Pallaoro. Dal 31 agosto al 10 settembre, il mondo del cinema tornerà al Lido di Venezia, mai come quest’anno tanto LGBTQ+. Federico Boni su Gay.it il 26.07.2022. 

Alberto Barbera, Direttore Artistico del Settore Cinema, ha oggi ufficialmente presentato il programma della 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, che si terrà a Venezia dal 31 agosto al 10 settembre 2022. Un Festival straordinariamente queer, come a noi anticipato da Daniel N. Casagrande, creatore del Queer Lion in un’intervista ad hoc tra passato, presente e futuro del premio.

Ad inauguraere il Festival sarà White Noise, scritto e diretto da Noah Baumbach, con Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle, Raffey Cassidy, Sam Nivola, May Nivola, Jodie Turner-Smith, André L. Benjamin e Lars Edinger. Torna in Concorso Luca Guadagnino con Bones and All, storia d’amore cannibale che vedrà il regista di Chiamami col tuo nome ritrovare Timothée Chalamet.

Guadagnino ha dichiarato: «C’è qualcosa in coloro che vivono ai margini della società che mi attrae e mi emoziona. Amo questi personaggi. Il cuore del film batte teneramente e affettuosamente nei loro riguardi. Mi interessano i loro viaggi emotivi. Voglio vedere dove si aprono le possibilità per loro, intrappolati come sono nell’impossibilità che si trovano di fronte. Il film è per me una riflessione su chi si è, e su come si possa superare ciò che si prova, specialmente se è qualcosa che non si riesce a controllare in sé stessi. E da ultimo, ma non meno importante, quando saremo in grado di trovare noi stessi nello sguardo dell’altro?».

Torna al Lido  anche il grande Gianni Amelio con Il Signore delle Formiche, che ricostruirà il famigerato caso Braibanti, intellettuale condannato per plagio ai danni di un ragazzo.  Uno dei più eclatanti casi di omofobia d’Italia.  Grande ritorno anche per Darren Aronofsky con The Whale,  con un irriconoscibile Brendan Fraser uomo gay distrutto dalla morte dell’amato, professore d’inglese che soffre di grave obesità e tenta di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, che si è allontanata da lui, per cercare un’ultima possibilità di riscatto. Altro italiano in gara Emanuele Crialese, che torna a Venezia 11 anni dopo Terraferma con L’Immensità, pellicola trainata da Penelope Cruz. 

Annunciato da più parti, ci sarà Blonde di Andrew Dominik, biopic su Marilyn Monroe, così come Cate Blanchett, divina direttrice d’orchestra che si innamora di una violincellista in Tar.  8 anni dopo Birdman, Alejandro González Iñárritu torna a Venezia con il suo film più personale, Bardo, mentre  Tilda Swinton è la protagonista di The Eternal  Daughter di Joanna Hogg, pellicola di fantasmi all’inglese. 5 anni dopo il boom di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, torna in sala Martin McDonagh con The Banshees of Inisherin, con Susanna Nicchiarelli di nuovo in concorso con un film su Santa Chiara, interpretata da Margherita Mazzucco. Altro italiano in gara è Monica di Andrea Pallaoro, girato negli USA e con con protagonista transgender (definita “un transessuale” dal direttore Alberto Barbera), interpretata da Trace Lysette. Un ritratto intimo di una donna che esplora i temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono, mentre dopo il boom di The Father, Florian Zeller ha girato The Son con Hugh Jackman e Laura Dern.

Fuori concorso Siccità di Paolo Virzì e Don’t Worry Darling di Olivia Wilde, con Harry Styles protagonista. A chiudere la Mostra sarà Francesco Carrozzini, figlio di Franca Sozzani, con il thriller The Hanging Sun.

In Orizzonti ci sarà Elodie con Ti Mangio il Cuore di Pippo Mezzapesa, esordio in qualità d’attrice per la popstar, così come Michele Bravi per Carolina Cavalli con Amanda è in Orizzonti Extra, mentre tra i documentari Anselma Dell’Olio ha girato Franco Zeffirelli: Conformista Ribelle, omaggio al regista scomparso nel 2019. Tra i film in gara per la Settimana della Critica spiccano tre titoli a tinte LGBTQ+.  Il colombiano Anhell 69 di Theo Montoya, il francese Three Nights a Week di Florent Gouëlou e l’austriaco Eismayer di David Wagner, con protagonista un temuto vice tenente segretamente omosessuale attratto dalla nuova recluta Falak. Tratto da una storia vera, il film racconta quanto accaduto a Charles Eismayer e Mario Falak, oggi felicemente uniti civilmente. 

Gianni Amelio alla Mostra con il caso Braibanti: "Alle elezioni pensate ai diritti, non solo all'economia".  Arianna Finos su La Repubblica il 6 settembre 2022. In concorso 'Il signore delle formiche' film sul processo del '68 che ufficialmente condannò lo studioso per plagio, ma in realtà perché omosessuale. Con Luigi Lo Cascio e Elio Germano.

"Capisco che la situazione economica è grave, ma quando andrete a votare ricordatevi anche dei diritti civili", dice Gianni Amelio. La storia del film Il signore delle formiche, quarto italiano in concorso alla Mostra, è iniziata quando il regista, nel 1968, allora 23enne, assiste al processo ad Aldo Braibanti per il reato di plagio, ma il crimine contestato è quello di amare un altro uomo, Ettore. "Sul banco degli imputati avrei potuto esserci io".  Ora quella storia è diventata un film, "che solo per coincidenza arriva alla vigilia delle elezioni, non era certo prevedibile, ma che serve a far pensare e riflettere su una storia ingiustamente dimenticata", racconta Amelio, che al Lido è accompagnato dagli interpreti del film, Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Sara Serraiocco e il sorprendente co-protagonista esordiente, Leonardo Maltese. Il film, prodotto da Kavac film, Ibc movie, Tenderstories, Rai Cinema, arriva in sala l'8 settembre con 01 Distribution.

Braibanti unico caso di condanna per plagio

Figlio del medico condotto di Fiorenzuola d'Arta, una giovinezza da antifascista, poi partigiano - torturato dalla banda Carità, e nel dopo guerra un periodo di impegno politico con il Pci - Aldo Braibanti è stato l'unico, nella storia della Repubblica, a essere condannato per il reato di plagio, inteso come la riduzione al proprio potere "e in totale stato di soggezione di un'altra persona", come recitava la legge ereditata dal codice Rocco dell'Italia fascista. Viene in realtà incarcerato e processato in quanto omosessuale e il giudizio cui fu sottoposto tra il '64 e il '68 racconta un'Italia lontana solo nel tempo. Il reato verrà dichiarato incostituzionale solo nel 1981, Braibanti è stato il primo e unico a subirne le conseguenze, condannato a nove anni in prima istanza, ne dovette scontare due in carcere. Il suo compagno, malgrado fosse maggiorenne, fu rinchiuso in manicomio dai genitori, "curato" con gli elettroshock e infine abbandonato dalla famiglia in povertà perché non era riuscito a rientrare "nella normalità".

Amelio: "Noi giovani del '68 non siamo riusciti a cambiare le cose"

Amelio ragiona su quanto sia importante oggi questo film, in un momento storico in cui il segretario di quello che nei sondaggi è il primo partito, Giorgia Meloni, parla di "devianza". "Quanto è cambiato è cambiato in Italia dal caso Braibanti a oggi? Io mi auguro che sia cambiato qualcosa. Però non abbiamo fatto il cammino che speravamo di fare noi giovani, che adesso siamo dei vecchi, persone mature, di età e anche di cervello. Nel Sessantotto scendevamo per strada per cambiare le cose, per uscire dalla ristrettezza mentale che albergava soprattutto nelle famiglie. Non ci siamo riusciti. Mentre scendevamo nelle strade si consumava la tragedia, nelle aule giudiziarie di Aldo Braibanti, condotto con una violenza verbale enorme contro un uomo mite, fortemente intelligente, aperto alla vita, studioso di una società perfetta che era quello delle formiche. E lo si fa perché la famiglia di uno dei due, lo studente, decide di portare in tribunale il cosiddetto seduttore di un figlio maggiorenne. La legge va incontro a quelle richieste, addirittura punendo con una pena terribile: Il pubblico ministero aveva chiesto 14 anni, un anno in meno rispetto a un omicidio". Spiega, Amelio: “Nei miei film c’è sempre lo scontro e incontro tra generazioni. E’ iniziato in un film, avevo 27 anni, La città del sole sul filosofo Tommaso Campanella e gli ho messo di fronte un contadino ignorante e Colpire al cuore e Hammamet. Questo film è una storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, ed è molto autobiografica". 

"Braibanti è stato dimenticato"

Il motivo per cui il regista ha sentito il dovere di raccontare questa storia oggi, "è perché Braibanti è stato dimenticato. Dimenticato in vita e anche ora che è morto. Poi volevo raccontare la vicenda del ragazzo amato da lui. La madre per guarirlo voleva mandarlo da padre Pio, invece, gli hanno consigliato di mandarlo in un istituto per malattie mentali, dove è stato curato, si fa per dire: gli hanno distrutto il cervello". Ma la  genesi della storia è oggetto di un aneddoto divertente in conferenza stampa: “Non voglio essere quello che smonta la retorica di certe situazioni, la conferenza stampa bella è quella sincera. Io in genere faccio un film se qualcuno me lo offre, non perché lo penso io seduto da solo in una stanza. No, io aspetto che mi chiamino. Ne ho diritto perché ho un’età. Mi chiama un regista, Marco Bellocchio, mi invita nel suo ufficio di produzione, la Kavac, che ha un solo difetto, è sulla Nomentana. Vado e mi propongono un documentario su Braibanti. Avevo fatto un film, mi consideravano specialista, Felice chi è diverso. Nell’occasione avevo chiamato Aldo e ci eravamo parlati tante volte perché io andassi a trovarlo. Non stava bene, non si è potuta fare. Io avevo trovato documenti, ma non eccezionali, suo suo interesse malsano per le formiche. Ho detto non lo so fare. Ma perché non facciamo un film ? Il giorno dopo ricevo una telefonata da Simone Gattoni che mi dice “ti va di venire di nuovo, ti paghiamo noi il taxi? Io uso i mezzi, qualunque mezzo per arrivare, che ha anche un altro significato. Sono andato e mi hanno detto “aggiudicato, facciamo i film”. E io dico si chiamerà Il signore delle formiche”.

Il dibattito sui diritti civili

Il film racconta di chi, come Emma Bonino, che compare in un fotogramma, si impegna con altri per sollevare il dibattito, ma anche di una sinistra "in realtà Bonino non era ancora nei radicali nel '68, ma volevo rendere omaggio al Partito Radicale che è stato quello che si è piùs speso per le battaglie dei diritti civili. E di un giornale "del più grande partito di massa", il Pci, insensibile ai diritti civili, con qualche componente omofoba. Oggi la partita dei diritti civili è una di quelle che si gioca alle imminenti elezioni. "Io sono ottimista, perché credo nell'intelligenza degli umani, perché non possiamo essere sempre, costantemente, masochisti. Fare harakiri tutti i giorni no. Quindi io non sapevo che il film uscisse durante un periodo di elezioni. Chi me lo avrebbe detto? Ma c'entra con i cervelli che andranno a votare. Io mi auguro che votino per migliorare le cose, ma migliorarle non solo economicamente. Siamo in un periodo in cui l'economia è allo sfascio, ma non pensiamo solo a quello. Pensiamo anche ai diritti civili, alla nostra libertà, al nostro bisogno di essere noi stessi".

Luigi Lo Cascio: "È stato un artista totale e uno scienziato"

Luigi Lo Cascio, bravo come sempre sullo schermo, confessa che non conosceva la storia di Braibanti prima del film, "cosa che mi dispiace molto per due motivi importanti: quella di essere l'unico condannato in un processo per plagio, che a guardare gli atti ha qualcosa di incredibile, ha subito l'enorme torto di vedere troncata una storia d'amore importante, essere perseguitato dalla famiglia, sprofondare economicamente. Ancor di più mi spiace il fatto che non conoscevo la sua importanza politica e culturale. Non ha voluto, dopo, farsi bandiera di quanto subito, reclamare qualcosa in cambio. Parlava della vicenda solo se gli veniva chiesto. Come del resto del suo essere stato antifascista e partigiano. C'è stata nei suoi confronti una dimenticanza strana, ha inventato il teatro di avanguardia, è il primo a Roma a cominciare quella stagione, dove ci sono tutti: Memè Perlini, Giancarlo Nanni, Carmelo Bene. Era scrittore e filosofo con pensieri soprattutto adesso da ascoltare, è stato uno dei primi a parlare di ecologia, un artista totale e uno scienziato, mirmecologo. Mi spiace non averlo conosciuto e incontrato quando c'era ancora, è morto nel 2014 a novant'anni, tra le difficoltà economiche, sfrattato dalla casa al ghetto di Roma. Gli ultimi anni sono stati tristi. Spero che ci sia un ritorno di considerazione per la sua opera".

Elio Germano: "La giustizia dalla parte dei potenti"

Elio Germano interpreta il giornalista che segue il processo e si batte per raccontare la verità. "Abbiamo tante volte assistito a una giustizia che si accanisce contro la parte più fragile e spesso tutela i vari potentati e gli speculatori del nostro Paese che non solo non riescono a essere puniti in nessun modo, ma cascano sempre in piedi. Vediamo anni e anni inflitti, per esempio, alle persone che fanno le manifestazioni con questo reato di devastazione e saccheggio che colpisce soltanto i manifestanti e non colpisce le grandi industrie che speculano sulla salute delle persone. Come dire, la giustizia servirebbe a tutelare gli anelli più fragili della nostra società, invece si mette dalla parte dei potenti e questa è una prima cosa che vediamo non essere cambiata, così come lo stigmatizzare con le etichette a bullizzare pubblicamente degli individui, discriminandoli per le proprie scelte sessuali, religiose o addirittura peggio per il colore della propria pelle. Insomma, sono questioni che siamo abituati a vedere e come poi la politica sfrutta queste cose per il proprio tornaconto personale". Il film, prosegue l'attore, "è uno spaccato dell'epoca dove sicuramente c'era maggiore libertà, dove c'era un giornalista che è quello che interpreto, che con un'etica ancora pulita del proprio mestiere sceglie di voler raccontare quello che avviene, invece di guardare il proprio tornaconto. Questa distanza tra i rappresentanti della politica e il popolo, per esempio. E quindi un film che ci parla di tante cose, al di là del fatto in sé, del racconto, della storia, di un viaggio. Braibanti ci apre una finestra su quello che siamo noi come italiani e quello che è che che la nostra società ha prodotto. Questo è un momento in cui i diritti civili sono a rischio, ma le cose dobbiamo impegnarci in prima persona, ogni giorno, per cambiarle, non basta mettere una croce sulla scheda elettorale".

Quando i gay erano "malati". Amelio rilancia il caso Braibanti. Luigi Mascheroni il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il regista dedica Il signore delle formiche al celebre processo per plagio del '68. Ma dimentica la vera vittima...

Le domande sono due. La prima: chi è Aldo Braibanti? E la risposta è semplice: un intellettuale, poeta, chiamato il Professore, anche se in realtà non insegnò mai, fu piuttosto un attivissimo organizzatore culturale che si occupava di arte, cinema, teatro e letteratura ma anche - con intuizioni profetiche sulla scia di Pier Paolo Pasolini - di ecologia e di società dei consumi; nato a Fiorenzuola d'Arda, famiglia risolutamente antifascista, partigiano, arrestato due volte, nel '43 e nel '44, anche torturato, poi comunista critico (dichiaratamente omosessuale non era gradito neppure nella sentina omofoba e bigotta della cosiddetta sinistra ormai di poca lotta e molto potere), anima del laboratorio artistico-comunitario di Castell'Arquato, nel piacentino, Aldo Braibanti divenne famigeratamente celebre negli anni '60 allorché unico caso nella storia della Repubblica italiana - fu condannato per il reato di plagio, ossia riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un'altra persona, come recitava la legge 603 ereditata dal Codice Rocco.

Braibanti dal 1962 convive a Roma con un ragazzo, peraltro già maggiorenne, fino a quando il padre-padrone di una famiglia ultracattolica rapisce il figlio e denuncia alla Procura di Roma il Professore, il quale alla fine di un lungo processo, durato dal '64 al '68 - anno di contestazioni mondiali per ottenere più libertà e maggiori diritti - viene condannato a nove anni di carcere, ridotti a sette e infine a due in Corte d'Appello per riconosciuto merito patriottico di partigiano. Braibanti, al quale nel 2006 fu concesso dal governo Prodi l'assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli», è morto nel 2014, a 92 anni, lasciando in eredità alla biblioteca di Fiorenzuola i suoi 15mila libri e le carte personali, ancora tutte da studiare.

La seconda domanda, invece, è più delicata. Chi era il suo giovane compagno e, soprattutto, che fine ha fatto? La risposta è laconica e lacunosa. Si chiamava Giovanni Sanfratello, era un ragazzo al quale piaceva il disegno e aveva 24 anni quando fu riacciuffato dalla sua famiglia, rinchiuso in manicomio, a Verona, dove fu sottoposto a 40 elettroshock e 19 trattamenti di coma insulinico con l'intenzione di farlo guarire da quella che era considerata una malattia, cioè l'omosessualità; poi liberato ma con la proibizione di uscire di casa e leggere libri che avessero meno di cent'anni. Al processo cercò inutilmente di difendere l'amante-Professore. E poi, una volta chiuso il caso, di lui non si seppe più niente, se non che cambiò città e morì nel 2018, risucchiato nel vortice del peggiore oblio. Non ci resta né un documento, né un disegno, né una foto, solo quelle scattate durante le udienze. Una vita nullificata.

Chi ha cercato di fare parlare questo «nulla» è stato l'autore napoletano Massimiliano Palmese il quale già nel 2011 a Il caso Braibanti dedicò un testo teatrale «Gli atti del processo, così grotteschi, erano una pièce già fatta e finita», racconta al Giornale - e poi a partire da quello spettacolo ha realizzato nel 2020 un documentario tanto antisentimentalistico quanto inquietante, dallo stesso titolo, girato con Carmen Giardina, che ha debuttato in agosto alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro di Pedro Armocida, osannato dalla critica e poi vincitore del Nastro d'Argento 2021 come Miglior Docufiction. Un'opera che continua a girare: è su Sky Documentaries e Prime video e la sera del 31 agosto sarà proiettato a Roma, a «L'Isola del Cinema». «Sono felice di avere riacceso una luce su Braibanti dice il regista e spero che ora la tv pubblica compri il documentario per tenerlo su RaiPlay. Servirebbe a due cose: ricordare Aldo Braibanti, un uomo definito da Carmelo Bene un genio; e documentare l'omofobia di uno dei peggiori scandali della storia italiana».

È vero. Il caso Braibanti, una delle macchinazioni più mostruose e lasciate impunite del dopoguerra, assieme al caso Tortora, fu lo specchio di quel Paese e uno scandalo non solo giudiziario, ma politico e civile, come disse Umberto Eco. Anche se in realtà l'indignazione degli intellettuali arrivò dopo: gli Eco, i Moravia, le Morante, le Maraini, i Bellocchio, lo stesso Pasolini intervennero più tardi, a lottare sì per Braibanti ma anche per loro stessi, mentre il primo a correre in soccorso del Professore fu, come sempre, rischiando del suo, Marco Pannella.

E comunque, ora, aperta la strada da Massimiliano Palmese, omosessuale militante, arriva il regista Gianni Amelio, omosessuale dichiarato: alla Mostra del cinema di Venezia porterà, in concorso, il film Il signore delle formiche (tra le varie passioni di Braibanti c'era anche quella per la mirmecologia) con Luigi Lo Cascio nella parte del Professore (ruolo e attore sono di quelli già in profumo di David di Donatello, almeno guardando i due minuti di trailer) e Elio Germano in quella di Ennio, giornalista di fantasia che segue l'inchiesta. Curiosamente e c'è da chiedersi come mai nella scheda del film di Amelio, «basato su fatti realmente accaduti», il personaggio di Giovanni Sanfratello, la vera vittima di tutta la vicenda, più di Braibanti, ancora una volta, sparisce: il suo nome non c'è (Per evitare querele? Autocensura? Scelta autoriale? Paura della reazione della famiglia, visto che Agostino, fratello di Giovanni, è ancora vivo?). E così il ragazzo amante di Braibanti nel film è chiamato Ettore (interpretato dall'attore Leonardo Maltese), ma a lui è riservata la battuta centrale: «Il processo è assurdo: non c'è nessun colpevole perché non c'è nessuna colpa».

Sparito il vero nome del convitato di pietra - un ragazzo che in una lettera scritta quando è rinchiuso nell'ospedale psichiatrico chiede ad Aldo di raccontargli le tecniche che usava per disegnare, perché non ricorda più nulla - speriamo, ma dubitiamo, ci siano almeno quelli dei magistrati che compirono lo scempio.

Gianni Amelio: "Sono un gay a cui l'adozione ha cambiato la vita. Ora sono nonno, papà e marito. Ed è straordinario". Giuseppe Fantasia su huffingtonpost.it il 25 Marzo 2018.

Uno dei registi italiani più apprezzati affida al romanzo "Padre Quotidiano" il suo racconto più intimo, quello della paternità

"La vita ti sorprende sempre, ma dal punto di vista umano, la mia conferma l'ho avuta negli anni Novanta". Inizia così la conversazione dell'HuffPost con Gianni Amelio, 73 anni da poco compiuti, uno dei simboli del nostro cinema, regista e scrittore di romanzi di successo. Il suo piatto di riso è troppo fumante per poter essere mangiato all'istante e lui, con quella calma che lo contraddistingue, ne approfitta per lasciarsi andare ai ricordi fissandoci sempre con i suoi occhi scuri.

"Stavo girando "Lamerica" (uno dei suo film che ha avuto più successo, ndr), era il 1993 ed eravamo in Albania. Ad un certo punto si avvicina a me un uomo di nome Ethem che mi prende il braccio, lo stringe forte e mi dice: "Fino a oggi questo figlio è stato mio. Da domani sarà figlio tuo". Il figlio in questione era uno dei ragazzini che vediamo nella scena finale del film, la più toccante, quella che è rimasta nella memoria di chiunque l'abbia vista, perché ogni altra reazione è impossibile. Una proposta sconcertante quella di quel padre che è stata un ordine e una preghiera insieme, un gesto che fece risvegliare nel "regissore" italiano – come veniva chiamato dagli altri ragazzini della troupe, tutti albanesi –" le tracce di un'antica ferita, l'assenza di un altro padre" – il suo – conosciuto troppo tardi.

Quell'episodio così intimo, tragico e poetico insieme, Amelio ha deciso di raccontarlo non con la sua cinepresa – come è solito fare - ma attraverso le parole e la scrittura che sono poi diventate un libro, "Padre Quotidiano", appena uscito per Mondadori, il quarto dopo Il vizio del cinema (2004), Un film che si chiama desiderio (2010) - entrambi Einaudi - e Politeama (2016). Si è deciso tardi, venticinque anni dopo, "perché ho avuto la necessità di prendere una certa distanza da un'esperienza come questa, un atto d'amore – da un lato – ma anche un atto di abbandono allo stesso tempo", ci spiega. "Quel padre anziano e malato, ha pensato a garantire un futuro al figlio, ben sapendo che lì in Albania non poteva averlo e ha deciso di separarsene portandosi per sempre dentro di sé il trauma del distacco", aggiunge. Amelio ha deciso di dargli voce e allo stesso tempo di far sentire la sua nelle pagine di questo libro dal profondo respiro corale e ben scandagliato in momenti. C'è quello del suo "apprendistato da padre"- come lo definisce - quello della lavorazione del film – non certo facile – e quello dedicato alla descrizione di un Paese come l'Albania schiacciata dalle macerie della dittatura e molto simile alla Calabria del dopoguerra, la regione dove lui ha vissuto la sua infanzia.

Cosa le ha insegnato e cosa le ha dato questa esperienza?

"Sono estremamente innamorato di questo libro. Tengo più a questo libro che a tutti i film che ho fatto e non sto esagerando. Ho scritto quattro libri in totale e anno dopo anno ho trovato una scrittura che non credevo di possedere. Sono un regista – ho pensato più volte - e non so scrivere, invece da un romanzo all'altro so che ho fatto dei passi avanti. Il libro ha una sua valenza letteraria, c'è molto romanzo dentro, ma la materia è estremamente autobiografica. È la mia storia, la storia di quella che oggi è la mia famiglia. Il contenuto è l'adozione che nel mio caso mi ha cambiato la vita radicalmente e mi ha permesso di avere una famiglia incredibile. Non ho adottato solo lui, ma ho portato a Roma, dall'Albania, anche i suoi genitori naturali. All'inizio, non lo nego, ero terrorizzato: cosa ne sapevo io di come si faceva il padre? Poi però ho deciso di mettercela tutta e, passo dopo passo, abbiamo costruito quello splendido rapporto che abbiamo oggi. Lui ha conosciuto la sua compagna con cui è da ventiquattro anni, hanno avuto tre figlie e sua madre abita con me. Sono nonno, papà e marito, perché è mancato il padre naturale di mio figlio che mi ha scelto come futuro padre di suo figlio. Non è straordinario?

Dal 2014 – anno in cui lei realizzò il documentario "Felice chi è diverso", raccontando diversi episodi di omosessualità più o meno dolorosi – qualcosa è cambiato anche in Italia. Lei che non ha mai nascosto di essere gay, che opinione ha in merito?

"Ha ragione lei, non c'è dubbio, la situazione è cambiata molto, ma c'è ancora tanto, tantissimo da fare. Nel documentario da lei ricordato, ho raccontato di quando gli omosessuali erano mandati al confino: in Italia non c'era una legge contro l'omosessualità, però cercavano sempre con un'altra scusa di isolare e di cacciare dalla vita comune chi, secondo loro, era portatore di disturbo. Si inventavano di tutto. Dal carcere per il disturbo della quiete pubblica alla corruzione e molto altro. Per Aldo Braibanti ("l'intellettuale mite" secondo Pasolini, "un genio straordinario" secondo Carmelo Bene, ndr) si inventarono il reato di plagio, poi tolto dalla legge italiana, qualcosa di assurdo. Perché applicarlo a un omosessuale e non ad un eterosessuale? Si cercava un'altra via perché in Italia non c'era una legge che proibisse l'omosessualità tra adulti consenzienti e questo perché Mussolini non volle far promulgare una legge. Se lo avesse fatto, avrebbe ammesso che in Italia esistevano gli omosessuali. È stata una fortuna da un certo punto di vista, perché negli stessi anni c'erano tanti omosessuali che venivano ricattati, soprattutto in Inghilterra, come venne spiegato in Victim, un film dell'epoca, molti attori e registi vennero imprigionati e una legge in tal senso fu attiva fino al 1975. Da non credere".

Lei è mai stato ricattato?

"Assolutamente no, ci mancherebbe! Ho una vita sentimentale e sessuale molto aperta, molto libera, ma alla luce del sole

Oggi, soprattutto tra i più giovani, si parla spesso di fluidità sessuale: per lei cos'è la sessualità?

"La sessualità è per me un fatto di libertà, ognuno sceglie la propria idea e tendenza, il proprio gusto, purché non da fastidio agli altri e non commetta delitto. Non vedo perché debba essere combattuto o imprigionato".

Vive bene in Italia? è soddisfatto delle ultime elezioni politiche?

"Sì, ci sono sempre stato bene da queste parti (sorride, ndr) e sinceramente non vedo pregiudizi, ma non mi faccia parlare di politica. Pensi che soprattutto al sud, la società contadina non ha mai avuto pregiudizi nei confronti di un gay. C'è stato però un modo di spingerlo a nascondersi con un concetto di tolleranza che trovo completamente sbagliato. La tolleranza, quando noi la accettiamo, implica che esista l'intolleranza. Perché non le cancelliamo tutte e due diciamo libertà"?

La libertà, oggi, si manifesta in mille modi, ad esempio scrivendo frasi e pensieri sui social network: che idea ha al riguardo? Usa Facebook?

"So che esistono, ma non li uso, perché sono mentalmente incapace di farlo. Mi piacciono altre cose, tutto qui. Non mi verrebbe mai in mente l'idea di scrivere i fatti miei su Facebook che ha la sua pericolosità. Sui social si leggono cose e frasi insultanti e prive di contenuto reale. Tutti si arrogano il diritto di scrivere e dire quello che vogliono e pensano. Non mi piacciono perché danno parola a chi potrebbe tacere".

Lei è una persona che nella sua vita non ha mai taciuto, ma denunciato ciò che non andava e non va con i suoi film, i suoi libri, i suoi documentari. L'ultimo, "Casa d'altri", premiato con il primo cortometraggio racconto dell'anima ferita di Amatrice dopo il terremoto del 24 agosto 2016 premiato al Festival Cortinametraggio con un Nastro D'Argento speciale dal Sindacato dei Giornalisti Cinematografici. Perché quella storia?

"Il mio è stato un gesto di protesta contro certi silenzi che riguardano la tragedia del terremoto di Amatrice, ma non solo. Sono partito da questa domanda: perché certe tragedie accadono periodicamente? Non si deve piangere dopo la tragedia, ma un riparo, una soluzione, vanno trovate prima perché le vittime, una volta che ci sono, non possono più protestare".

Nella sua vita ha avuto più delusioni o sconfitte?

"Non me ne ricordo nemmeno una di sconfitte, ma di delusioni sì e anche tante, soprattutto quando faccio un film di cui non posso ovviamente mai saperne prima l'esito".

Quale è stata la usa più grande conquista?

"Oltre ad essere diventato padre, la mia conquista più grande è fare questo lavoro con una serenità che prima non avevo. Per il primo lungometraggio, avevo anni di tv e gavetta come aiuto e sceneggiatore, ma ero nel panico da prestazione. Nel 1982 parlavo di terrorismo quando era una realtà di tutti i giorni e lo facevo in termini particolari: la storia di un figlio che sospetta un padre terrorista, un cattivo maestro come si diceva allora. Farlo mentre a Milano dove ogni giorno c'erano sempre attentati, mi turbava molto in rapporto al mio lavoro. Accadeva quello che raccontavo nel film. Poi con "Porte Aperte", altro mio film, il macchinista mi disse che gli ricordavo Monicelli e da quel momento qualcosa cambiò. Ho iniziato a lavorare accettando anche di poter sbagliare".

L'ultimo suo film, "La tenerezza", è stato molto apprezzato ed amato dal grande pubblico, ha ricevuto premi, tra cui il recente David al suo interprete, Renato Carpentieri. Dopo aver preso il premio ha detto che la tenerezza "è un virtù rivoluzionaria". Per lei, Amelio, cos'è la tenerezza?

"Prima di me e di Carpentieri c'è stata la voce di sua santità, Papa Francesco, che ha ricordato in un'omelia che l'uomo ha bisogno di tenerezza. La tenerezza è per me un bisogno che noi esseri umani cerchiamo di nascondere. In genere, soprattutto noi uomini, non abbiamo quel coraggio di fare il gesto perché scambiamo la tenerezza per debolezza, o abbiamo paura che un'altra persona ci consideri fragili perché chiediamo scusa dopo qualcosa che ci ha divisi, o sembriamo arrendevoli, deboli...no, non siamo affatto così, lo ha detto anche il Papa che è una mente politica straordinaria oltre che un uomo di chiesa. La tenerezza è necessaria, è uno stato d'animo che ci rende felici, non scordiamolo mai".

VENEZIA 79. Le Favolose, ribelli senza rimpianti, e il tema Lgbtq+ che attraversa il Festival. Teresa Marchesi su huffingtonpost.it l'1 Settembre 2022

Le amiche transessuali riunite da Roberta Torre in un film delle Notti Veneziane sono testimoni di un’epoca di rivoluzione sessuale, tra gli anni ’70 e gli ’80, consegnata al passato.

"Noi siamo fantasmi. Non madri, non mogli, non figlie, non lavoratrici riconosciute, non donne, non uomini: persone che non esistono, per la società civile": è bella la dichiarazione in margine di una de "Le Favolose", le amiche transessuali riunite da Roberta Torre in un film delle Notti Veneziane che va in sala il 5, 6 e 7 settembre con Europictures.

Sono ribelli senza rimpianti, testimoni di un’epoca di rivoluzione sessuale, tra gli anni ’70 e gli ’80, consegnata al passato. Si riuniscono nella casa dei loro incontri giovanili per ricordare Antonia, una di loro che la famiglia ha sepolto vestita da uomo, per vergogna della sua identità scelta. C’è una seduta spiritica, anche, ma senza barriere tra i vivi e i morti. È una fiaba nostalgica e vitale insieme, quella intessuta da Roberta Torre, con il filtro della memoria a guidare i racconti, perché “il tempo fa vedere le cose, non le cancella”. Hanno vissuto di prostituzione (ma senza protettori), ”perché senza la prostituzione, in un mondo che non ci prevedeva, non saremmo sopravvissute". Diverse perché hanno scelto il corpo che si sentivano, capaci di godere, ora che l’età su molte di loro ha lasciato il segno, della leggerezza contagiosa di un ballo: è “Ain’t Misbehavin” di Fats Waller, memoria di una indimenticabile Gena Rowlands per John Cassavetes. Storia inseguita da tempo dalla regista, partendo dalla vicenda di una famiglia che si era ‘appropriata’ in morte del corpo del figlio trans, dopo una vita trascorsa a inseguire la femminilità. Ma c’è una parte ‘privata’ e personale della regista nei super 8 che corredano il film: vecchie riprese di suo padre bambino, “che tra le vecchie foto delle mie ragazze trovavano la loro giusta collocazione emotiva”. “Le Favolose” hanno un nome: Porpora Marcasciano (autrice di saggi su argomento trans), Sofia Mehiel, Mizia Ciulini, Veeth Sandeh, Nicole De Leo, Massimina Lizzeri. Sono non-attrici con il carisma da attrici.

Parlo di “Le Favolose”, al di là del merito, anche perché il tema LGBTQ+, ovvero lesbian, gay, bisexual and transgender è il vero tema-guida di Venezia 79. E’ trasversale, attraversa tutte le sezioni della Mostra. È al centro di tre dei cinque film italiani: ne “L’immensità” Emanuele Crialese affronta per la prima volta la sua formazione di uomo in un corpo di ragazza; Gianni Amelio rievoca il clima da Inquisizione del processo Braibanti, dove il crimine non detto era l’omosessualità; Andrea Pallaoro, con “Monica”, racconta una bellissima trans americana e la sua riconciliazione con la famiglia. Ancora: “Tàr” di Todd Field, in concorso, mette in scena un one-woman-show di Cate Blanchett, direttrice d’orchestra in un universo maschile, che cade in disgrazia per omosessualità e accuse di molestia (e viene in mente anche il suo “Carol”, con Todd Haynes). Preciso che il film, nonostante i miracoli di Cate, è di un tedio infernale. Già nei primissimi giorni, è un tema che dilaga in “Three nights a week”, alla Settimana della Critica, e poi in “L’Origine du Mal”, a Orizzonti extra, con la magnifica Laure Calamy. Battaglie civili di integrazione, dunque, e complicati rapporti tra genitori e figli: sono i due fili rossi da seguire in questa Mostra.

Venezia 79, gender e libertà: la Mostra racconta il coraggio di scegliere. Arianna Finos su La Repubblica  il 3 settembre 2022.

Da “Monica”, accolto da undici minuti di applausi, a “Le favolose”, la rassegna declina in tanti modi il tema dell’identità sessuale

Venezia - Monica torna a casa dopo vent'anni ad accudire la madre che aveva rifiutato la sua transizione, Adriana è un'adolescente che negli anni Settanta veste da maschio e vuole essere chiamata Andrea, le favolose sono un gruppo di amiche riunite al festoso "funerale" risarcitorio dell'amica trans, seppellita dalla famiglia in abiti maschili. Alla Mostra quest'anno, sparsi tra le sezioni, ci sono tanti film - alcuni interessanti, altri brutti, altri ancora sorprendenti, e poi sentimentali, comici o rabbiosi - affrontano i temi dell'orientamento sessuale e quello dell'identità di genere. E ci sono storie in cui personaggi gay, lesbiche e trans non sono il centro o la questione, ma il semplice riflesso della nostra realtà quotidiana, alla vigilia di un possibile cambio di matrice conservatrice.

L'orizzonte narrativo, si è allargato. E da quanto visto (finora), se Trace Lysett fosse, con Monica, ritratto delicato di un personaggio femminile - accolto da undici minuti di applausi - la prima trans a vincere la Coppa Volpi, lo dovrebbe all'intensità della sua interpretazione, senza dover scomodare il politicamente corretto. "Ho fatto il provino a trenta attrici trans, ho capito subito che Trace era Monica", dice il regista Andrea Pallaoro. Grande attesa, tra gli italiani in gara, per Emanuele Crialese, che racconta l'adolescenza anni '70, tra crisi familiari e momenti musicali di una ragazza che si sente maschio (e si veste come tale), un film "non strettamente autobiografico, ma basato sulla mia esperienza personale", dice Crialese. Affermazione che dovrebbe bastare: al di là della curiosità suscitata, fuori dal racconto sullo schermo il regista è libero di non condividere le proprie scelte di genere.

Nelle sezioni collaterali Pinned into a dress, storia di Kurtis, cresciuto queer dentro una famiglia di abusi e dipendenze, ha creato l'alter ego Miss Fame, super modella drag, ma il successo che non ripara le ferite. Alle Giornate degli autori, Le favolose di Roberta Torre affronta la cancellazione dell'identità subita da molte transgender: la famiglia di Antonia si è impossessatw dei suoi beni e distrutto le foto, seppellendola con il nome maschile: "Antonia - dice Roberta Torre - rappresenta le persone trans che hanno perso la battaglia del riconoscimento della propria identità nel momento della morte". Sempre più spesso nelle biografie degli artisti emerge la volontà di identificarsi come persone non binarie: è il caso, alla Mostra di Tessa Thompson, la Valchiria di Thor, in giuria del premio Opera prima e Quintessa Swindell, 22 anni, coprotagonista di Master Gardener di Paul Schrader: "Essere non binari significa esplorare sé stessi al di fuori dei confini della società eteronormativa. Combattere per i sottorappresentati è allo stesso tempo un dovere e un privilegio. Essendo dove sono oggi, niente significa più per me che essere una voce per la mia famiglia prescelta".

Natalia Aspesi per “Il Venerdì – la Repubblica” il 29 agosto 2022.

Ho chiesto a una coppia di trentenni serenamente omosessuali e a un paio di loro coetanei serenamente etero, se sapessero chi era Aldo Braibanti e tutti, serenamente, mi hanno risposto di no. È vero, la sua è una storia nera italiana di più di cinquant' anni fa, estranea a quel '68 in cui i giovani erano certi di cambiare il mondo, e forse avrebbero potuto farlo, di prendersi il potere, e invece furono sconfitti, di liberarsi da ogni oppressione compresa quella sessuale, oggi con qualche risultato. 

Forse anche chi aveva vent' anni allora, i nonni di oggi, ne seppero poco, e in ogni caso in tanti se ne sono dimenticati. Ma non Gianni Amelio, che ha 77 anni ed è nonno appassionato di tre ragazze, due gemelle adolescenti e una di 19 anni che vive con lui.

«Avevo 23 anni, ero arrivato a Roma da un paio d'anni deciso a uscire dalla mia nullità, avevo grandi sogni, e avevo fatto i primi passi nel mondo del cinema, come aiuto di Vittorio De Seta per Un uomo a metà. Il processo contro Aldo Braibanti, che allora aveva 46 anni, era iniziato in Corte d'Assise a Roma il 12 giugno 1968, e io ebbi il coraggio di assistere, in mezzo al pubblico, a una sola udienza.

Fuori c'era la grande confusione delle manifestazioni studentesche, interessate ad altro. Lo vedevo solo di spalle, perché era rivolto verso i giudici, così fragile, così forte, deciso a non difendersi, a non rispondere alle domande provocatorie. E mi batteva il cuore. L'atmosfera era allucinante, colpevolizzante, la ritrovai poi al processo del Circeo, contro quei giovani fascisti stupratori, torturatori, assassini. Ero inquieto, immaginavo cosa avrei potuto provare se fossi stato al suo posto, se come tanti, allora, quasi tutti, non avessi continuato a negarmi». 

Quel ricordo crudele, quel senso di colpa, il destino umiliante e l'orgoglio dell'imputato, la ferocia stupida di quell'Italia di potere, solo adesso sono diventati un suo film, che sarà tra i cinque italiani in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia e in sala dall'8 settembre. 

«Se sono arrivato oggi a questa storia così italiana è stato per un percorso naturale che mi ha sempre spinto, anche attingendo al passato, a parlare dell'aria che sentivo attorno. Ed è proprio dall'aria che respiriamo oggi che è nata in me l'esigenza di riproporre la figura di Braibanti, rispettando quello che lui dice in una scena: "Non voglio essere considerato un martire. Né mostro né martire"».

Titolo quasi fantasy, Il signore delle formiche, perché Braibanti era un appassionato mirmecologo, le nutriva, le studiava, le teneva con sé dentro una teca di vetro, e gli studenti che lo amavano cercavano per lui nei prati le regine ancora alate. 

Ma era soprattutto un intellettuale rispettato, un Maestro amato e temuto, un poeta, artista plastico e figurativo, drammaturgo e regista teatrale con un suo laboratorio a Castell'Arquato, nel piacentino. Figlio del medico condotto di Fiorenzuola d'Arda, aveva avuto una giovinezza di impegno politico, antifascista sotto il fascismo, arrestato e torturato dalla terribile banda Carità, partigiano, e nel dopoguerra per un certo tempo impegnato col Pci. E omosessuale. Ho visto al Teatro Parenti lo spettacolo ideato da Massimiliano Palmese sul processo, poi in parte incluso nel bel documentario Il caso Braibanti, 2020, di Carmen Giardina e dello stesso Palmese.

La sua immagine è quella di un uomo rimasto ragazzo, troppo magro, una gran testa di capelli neri, occhiali da vista enormi con grossa montatura nera: molto somigliante a Pasolini, di cui era coetaneo. Amelio gli ha dato la faccia ancora giovane di Luigi Lo Cascio e del suo personaggio il vestire trasandato e l'inflessione emiliana. 

Dice: «Il crimine di Braibanti era l'omosessualità, anche se per la nostra legge il reato di omosessualità non era previsto nemmeno allora, quando ancora vigeva il codice Rocco, perché secondo Mussolini il maschio italiano non poteva essere che virile.

Eppure il Pubblico ministero chiese per lui 14 anni di reclusione, precisando che era un anno in meno della pena per l'omicidio premeditato, "perché comunque di un omicidio si è trattato, quello della coscienza di un ragazzo innocente"». 

Il "ragazzo innocente" era Giovanni Sanfratello, un giovane di 23 anni che, questa l'accusa formale, Braibanti aveva "plagiato". Alla fine la Corte ridusse gli anni di carcere a nove, e dopo qualche tempo a due "per meriti partigiani".

Racconta ancora Amelio: «Per girare il film in quello stesso Palazzo di Giustizia di Roma dovevo mostrare la sceneggiatura e quindi ho limitato le parole infamanti e vergognose dell'accusa. Ma mi restano vaghi ricordi di invettive come "Voi donne siete fortunate, perché se non siete consenzienti con le vostre fauci potete stritolarglielo"; o anche "L'accusato si vantava di essere stato con un negro, una razza che ve la raccomando"». 

Allora non esisteva ancora il coming out, la ribellione scoppiò un paio d'anni dopo. E lei non fu certo tra i primi, dichiarò la sua omossessualità nel 2014. Un mio amico gay con consorte, una coppia felice, mentre raccontavo loro del nostro incontro, mi ha urlato: «Troppo facile fare coming out a 80 anni!»...

«A parte che non è vero, ognuno ha la sua storia. Io sono nato in Calabria, a San Pietro Magisano, nel centro della Sila. Mio nonno era emigrato in Argentina lasciando mia nonna incinta e non tornò mai più, forse si era fatto un'altra famiglia. 

Anche mio padre se ne era andato e fui io, da adulto, 15 anni dopo, ad andarlo a riprendere. Il nostro era un paese di vedove bianche, anche la mia famiglia era di sole donne e solo le donne hanno contato per me.

Io ero il loro riscatto. Per farmi uscire dal paese e studiare hanno affrontato qualunque sacrificio. Mia madre mi mandò a Catanzaro dalla nonna perché frequentassi le medie. Mia nonna mi spinse al liceo, mia zia all'università a Firenze: lei era cresciuta in orfanotrofio e, quasi analfabeta, era riuscita a diplomarsi infermiera e a diventare caposala operatoria. 

Diciamo che già da allora il trastullo del pisello non era la mia priorità: prima dovevo sfamarmi, e non sempre era facile, poi dovevo studiare, dovevo farcela, per me, per le mie donne. E per il mio sogno, che era quello di diventare maestro, di insegnare. Anche se ben presto capii che così come ero non me lo avrebbero mai permesso». 

Nel gruppo creativo attorno a Braibanti c'erano i giovani Agostino e Giovanni Sanfratello, che appartenevano a una famiglia del piacentino tradizionalista, ultraclericale e di estrema destra. E forse Agostino non accettò la preferenza di Braibanti verso il fratello o immaginò che quel legame fosse una diavoleria.

La famiglia perse la testa, doveva salvare il suo ragazzo dall'inferno del peccato mortale, e maestro e allievo furono costretti ad andarsene insieme a Roma, a dividere la stessa stanza in una pensioncina. Era l'ottobre del 1964, Giovanni era maggiorenne (allora lo si era a 21 anni) quando una notte quattro maschi Sanfratello piombarono in quel rifugio dove il letto era uno solo, matrimoniale, e riuscirono con la forza a rapire Giovanni che fu rinchiuso contro la sua volontà in una casa di cura per malattie mentali. 

Meglio pazzo che frocio?

«Nel film ci sono anche momenti della mia vita davvero crudeli. Quando avevo 16 anni un insegnante mi disse: "Se sei omosessuale o ti curi o ti ammazzi!". In quegli anni i giovani contestavano anche la famiglia, il suo potere senza scampo. Quella di Giovanni si dimostrò esemplare nella sua furia distruttiva: per "curarlo" consentirono che gli praticassero 40 elettroshock e ottennero di tenerlo prigioniero in casa». 

Dal paio di clip e dal trailer del film a disposizione di noi curiosi, ho visto la bella, fiduciosa, faccia dell'innocente Giovanni che si contorce nell'orrore degli elettroshock.

Una faccia sconosciuta, chi è l'attore?

«Per i due fratelli non ho voluto attori, ma ho cercato le facce giuste, di quegli anni e di quei luoghi, girando per bar, con gli avventori che portavano ancora la mascherina. Giovanni è Leonardo Maltese, Agostino è Davide Vecchi. Li vedrà, hanno una carriera assicurata». 

Nei giornali d'epoca la loro madre, seduta in tribunale, massiccia, col cappello da gran signora calato sugli occhi e sulle ginocchia, la borsa stretta tra le mani, è già una immagine da film.

«Vedrà la mia! È Anna Caterina Antonacci, il soprano che mi ha conquistato per il suo fisico forte e il modo di interpretare Verdi, perché è la musica di Verdi, così melò, carica di amore, a percorrere tutto il film. Anche lei non ha mai fatto cinema». 

Elio Germano, nelle poche immagini viste, ha sempre il cappello in testa (mi ricorda Italo Pietra quando era direttore del Giorno) e sotto il braccio la mazzetta dei giornali.

Figura davvero anni 60 del rude cronista: nel film lavora all'Unità e rappresenta quella parte della stampa di allora che non titolava "Il demonio in Corte d'Assise".

«Però il giornale comunista era anche molto prudente, la cronaca del processo non finiva in prima pagina, altri erano gli interessi della classe operaia...». 

Con Braibanti stavano i Radicali, che poi nel 1981 riuscirono a far cancellare il reato di plagio, in parte i socialisti, e gli intellettuali: Moravia, Elsa Morante, la Maraini, Piergiorgio Bellocchio e Pasolini, Maria Monti, Carmelo Bene...

«Ma erano ingenui, certi che Braibanti sarebbe stato assolto perché l'accusa di plagio era assurda. Non tenevano in conto che quella vecchia Italia era già furiosa per la contestazione, e aveva l'ossessione di difendere la famiglia come massimo potere».

Lei, come dicevamo, scelse il coming out nel 2014, e non so perché lo fece con me (in un'intervista a Repubblica il 28 gennaio 2014, ndr) parlando del documentario in cui raccolse le storie di persone che erano state giovani quando l'omosessualità era clandestina: titolo bellissimo dalla poesia di Sandro Penna, Felice chi è diverso.

«Ripeto, avevo altre priorità. La mia omosessualità, che non metto in discussione, non è mai stata il motore principale della mia vita. Questo film su Braibanti l'ho fatto con onestà e partecipazione sincera, ma non perché volessi tirare in ballo, come fosse una mia autobiografia traslata, i miei gusti sessuali o quelli di Aldo. Se c'è un elemento che mi ha colpito della sua esistenza, è stato l'accanimento su una persona indifesa, la carcerazione, la prepotenza dell'ingiustizia. Senza dimenticare la spinta dei sentimenti che hanno caratterizzato la sua storia, la tensione morale, la tenacia con cui ha affrontato le avversità senza farsi piegare. E il suo studio sulle formiche non è già una metafora bellissima di quanto lui tenesse all'umanità? Quanto al mio silenzio, non volevo essere "un gay che fa il regista".

Ero e sono un regista, e mi riconosco solo come tale, perché il sesso, per quanto importante, non è il mio tutto. E poi senta, non mi piacciono le etichette: la parola gay mi fa pensare quando si chiamavano "donnine allegre" le puttanelle. Ancor meno "non binario": ma se la ricorda Binario, la canzone di Claudio Villa, "...triste e solitario / tu che portasti via col treno dell'amore, la giovinezza mia". Allora mi pare più simpatico "culatòn", come era scritto in lettere nere, giganti, sulla casa materna di Braibanti a Fiorenzuola...».

Nel 2008, intervistato da Andrea Pini, il poeta si era espresso più o meno nello stesso modo e già preoccupato per il clima: «Il mio mestiere di vivere è stato ed è la poesia, e non posso dimenticare i miei interessi verso i gravi e attuali problemi ecologici. E voglio subito togliere di mezzo un possibile equivoco: io credo nella libertà sessuale e per questo penso sia giusto abolire ogni forma di etichetta». 

Pini, da quell'incontro, così lo descrive nel suo bel libro Quando eravamo froci (2011, Il Saggiatore): "Un meraviglioso signore dolce e gentile ma dal carattere assai fermo. È agile nei movimenti per la sua età, veste in modo semplice, non è molto alto di statura, una testa di capelli bianchi. Viveva col cane Lado in una vecchia casa popolare del ghetto di Roma sostenuto dalla legge Bacchelli". 

Il direttore della fotografia di Il signore delle formiche è Luan Amelio Ukai, che è già stato premiato per altri film e che è suo figlio adottivo.

«L'ho conosciuto quando giravo Lamerica in Albania, il ragazzo aveva 17 anni, ci aiutava in tutto sul set, e emanava la gioia di scoprire una vita magica. Diventai amico di suo padre, pieno di malanni dovuti al carcere per motivi politici. Mi disse: "Fa che diventi figlio tuo". Mi spaventai, non ero preparato. 

Ma poi mi convinsi. Gli trovai un piccolo alloggio vicino a casa mia a Roma e cominciai le pratiche di adozione. Dopo tre mesi incontrò una ragazza polacca e vivono insieme da 27 anni con tre figlie splendide. Il mese prossimo si sposeranno. Sono fiero di lui, del suo talento e del suo doppio cognome...». 

Aldo e Giovanni si sono incontrati ancora dopo quella tragedia?

«Nella realtà no, l'ultima volta è stato in tribunale mentre il ragazzo stroncato dalle cure non cadde mai nelle domande-trappola, difese sempre sia la sua libera scelta d'amore che l'innocenza del compagno. Ma i film consentono immaginazione». 

E lei, ha più visto Braibanti dopo il processo? 

«L'ho incontrato spesso negli anni 70 per strada, ma non ci siamo mai palesati. Una volta mi sono infilato nella cantina dove lui dirigeva un gruppo di attori, tra i quali c'era un mio amico. Ero sulle spine, oggi benedico quella intrusione perché mi ha permesso di raccontarlo "al lavoro" in una scena del mio film: brusco, duro, sgarbato, feroce, ai limiti di una arroganza che mi ha turbato. Era tutto tranne che simpatico».

Da tempo ormai film e fiction raccontano allegrissime storie gay anche con scene di sesso che se le vede Pillon si sente male: lei le ha osate nel suo film? 

«C'è un nudo frontale in campo lungo e tanti abbracci che sono ormai abituali. Nient' altro. In tutti i miei film non c'è un bacio. Il sesso sullo schermo è difficile da rappresentare. Meglio che stia fuori campo».

Il signore delle formiche esce nelle sale negli ultimi giorni di una orribile campagna elettorale, in cui si confondono l'Italia che è approdata a FdI e Lega e quella che ha disperso la sua forza in mille rivoli, tutti di poca e inconciliabile sinistra: secondo lei quale schieramento potrebbe esserne avvantaggiato?

«Non credo che un film abbia questo potere, soprattutto oggi. Piuttosto penso che sarà il film ad essere avvantaggiato da questo clima furibondo». 

Marco Giusti per Dagospia il 6 settembre 2022.

“Ah, noi… birbanti… Braibanti…”. Così Paolo Poli, travestito da Rita da Cascia, con tanto di parrucca con i treccioni, accennava a teatro negli anni '60 a un caso celebre e doloroso come quello di Aldo Braibanti che ora, sessant’anni o quasi dopo Gianni Amelio porta sullo schermo con “Il signore delle formiche” a risarcimento di una tragedia tutta italiana e di un processo farsa vergognoso che vedeva il professor Braibanti assurdamente accusato di plagio seconda una legge fascista che copriva indecorosamente la presenza dell’omosessualità nel nostro paese.

E quindi non prevedeva un processo e una punizione, come accadeva in Inghilterra, per l’omosessualità dichiarata. Nel caso specifico la “colpa” di Braibanti era quella di aver plagiato un suo giovane allievo, col quale viveva a Roma, ripreso prontamente dalla famiglia e massacrato con elettroshock, mentre a lui la nostra legge, dopo quattro anni di processi, sentenziò ben nove anni di carcere, che diventarono sei in appello e vennero poi ridotti a due per meriti partigiani.

Film difficile da fare, ancor più da scrivere presumo, non tanto per la storia in sé, quanto per la ricostruzione esatta del personaggio di Aldo Braibanti e il suo complesso ruolo nella cultura italiana del tempo. Studioso di insetti, poeta, commediografo, cineasta, scrittore, amico di Sylvano Bussotti, che nel film diventa un certo “Vanni Castellani”, di Alberto Moravia, di Alberto Grifi, di Carmelo Bene, legato a esperimenti teatrali come quelli del Living, attivissimo inchiestista politoc su Quaderni Piacentini, cosa che qui scompare del tutto, ma anche provinciale a Roma come già lo era stato Pasolini.

Luigi Lo Cascio ne dà un ritratto preciso di intellettuale chiuso in se stesso, quasi in una torre di superiorità, cosciente della sua intelligenza ma che sentenzia un filo troppo. Ma forse, a ben ricordare, allora, gli intellettuali isentenziavano tutti un po' troppo, con le frasi a effetto, cosa che faceva davvero effetto sui giovani del tempo. E, parlo per esperienza. L'idea di plagio altro non era, in fondo, che il fascino un bel po' predatorio che tanti di questi intellettuali spargevano fra i loro giovani amici e amiche. Pratica diffusa al di là dell'essere omo o etero.

Anche perché la differenza tra gli omosessuali alla Bussotti o alla Paolo Poli, più esibiti, più chiari, e alla Braibanti, più chiusi, in giacca e cravatta, era piuttosto chiara. Anche se la giacca e la cravatta, a teatro come alla Rai come nei giornali anche non di partito, mascheravano parecchio. Certo, la grande ventata libertaria sessantottina avrebbe cambiato un po’ le cose, ma nella prima metà degli anni ’60 non era facile capire come muoversi e cosa aspettarsi in ambienti non così protetti come quelli del teatro d’avanguardia o del cinema di Pasolini-Visconti-Bolognini o delle piccole comunità gay a Roma. 

E comunque, e in questo il film di Amelio ci prende, pure un partito come il PCI o un giornale come “l’Unità”, aveva un problema di evidente imbarazzo a difendere Braibanti omosessuale partigiano e dirigente di partito. Anche se la ricostruzione della redazione del giornale non mi sembra riuscita.  Detto questo “Il signore delle formiche” ci racconta, con qualche omissis e qualche nome cambiato una storia che andava raccontata trenta-quarant’anni fa, ma siamo fatti così, arriviamo sempre in ritardo, colpa dei produttori, si dirà, ma anche colpa di una certa codardia nel tentare imprese difficili da raccontare e da far digerire nel sistema maschilista e patriarcale della cultura italiana.

Del resto siamo ancora impegnati sul caso Moro e chissà quando spiegheremo al cinema il ritorno del fascio-sovranismo di meloni e Salvini. Uno sguardo meno lontano dalla storia, avrebbe potuto coprire qualche ingenuità. O spingere su qualche bertoluccismo in più, che da Amelio magari avremmo gradito, specialmente nella parte emiliana, dove brilla pur senza dire una battuta il Francesco Barilli protagonista di “Prima della rivoluzione” o la Adua di Gina Rovere che ci rimanda invece all’Adua di Pietrangeli, e dove si muove con grande attenzione e partecipazione il Braibanti di Lo Cascio, che poteva diventare un po’ più personaggio bertolucciano alla Gianni Amico.

Personaggi, ahimé, che da anni non esistono più, come non esiste più Gianni Amico e tutto quel mondo di intellettuali di provincia che fecero la nostra nouvelle vague e la nostra rivoluzione, anche teatrale (come Bussotti) . Non mi piace tanto, confesso, una sorta di messa in scena col personaggio che apre bocca come fossimo in uno sceneggiato anni ’60, che forse è una cosa voluta da Amelio per riportarci a quel mondo. 

 E trovo estremamente curioso il momento, importante nella storia, della vecchia madre di Braibanti che legge sotto i portici della sua città la lettera del figlio, finalmente un editore gli pubblicherà un libro, mentre la macchina da presa scopre la scritta terribile ma anche un po’ comica “la casa del culatòn”, che fa un po’ troppo Nando Cicero e che sembra assolutamente voluto. Un gesto di volgarizzazione di una storia che nella realtà comunque ne ebbe parecchia.

Strutturato in due parti, la storia d’amore e la fuga a Roma e il terribile processo-gogna, che è ricostruito fedelmente dagli atti e dalle cronache del tempo, il film è pieno di figure interessanti, a cominciare dal giornalista comunista Elio Germano, l’unico che prende davvero a cuore la vicenda, a sua cugina Sara Serraiocco, dall’esordiente Leonardo Maltese, che ritroveremo nel nuovo film di Marco Bellocchio, a Valerio Binasco. Forse, ripeto, avremmo voluto qualche bertolucciata in più, qualche travelling, un po’ più cinema rispetto alla storia. Ma forse la storia, stavolta, era la più importante da raccontare.

"Il signore delle formiche". Caso Braibanti, Gianni Amelio non ha detto la verità: il direttore dell’Unità non licenziò nessuno. Michele Prospero su Il Riformista il 25 Settembre 2022 

Ha fatto discutere in rete il falso storico contenuto nell’ultimo film di Gianni Amelio. Il regista inventa la notizia del licenziamento di un giornalista dell’Unità, reo di aver seguito in maniera simpatetica la vicenda di Aldo Braibanti, ricoperto dalla procura di Roma con una “orribile cappa mefistofelica” (le parole, fuori dalla finzione cinematografica, sono del quotidiano fondato da Gramsci). Nel 1964 il filosofo-artista era finito sotto processo per “plagio”, con un capo d’imputazione in cui confusamente confluivano omosessualità, ateismo, panteismo, tendenze ideologiche e anche un amore sospetto per le formiche. Lo stesso giorno della condanna, nel 1968, nella prima pagina del foglio del Pci compare un articolo dedicato alla morte del filosofo Galvano Della Volpe.

Proprio Della Volpe potrebbe prestare soccorso per dipanare la spinosa questione, di ascendenza aristotelica, del rapporto tra poesia e storia, segno e contesto. Insomma: la creazione artistica può ricorrere, per ragioni di rappresentazione o forma, al falso in merito ad una condotta individuale o particolare? Suggerisce Della Volpe che l’organicità del discorso filmico, con i suoi risvolti tecnici specifici che ne caratterizzano il linguaggio, in quanto rappresentazione dell’universale, può scostarsi dalla descrizione del fatto ma non sino a perdere verosimiglianza. Tocca ai critici cinematografici stabilire se obbedisca a delle stringenti ragioni artistiche lo spirito di vendetta attribuito al dispotico direttore dell’Unità, che secondo il film tipizza un’azione repressiva che ogni esponente comunista farebbe. Al pubblico è invece lecito chiedersi se, con l’invenzione della cacciata del cronista, non si intenda ricercare un espediente per accompagnare il pur legittimo cammino di un lavoro a tesi. Accanto ad una ragione artistica si unisce un obiettivo estrinseco, cioè impoetico, per sostenere una battaglia politica contro la trinariciuta anima di una subcultura rossa dal regista ritenuta estranea al progredire delle libertà civili.

Entro questa visuale, il film opera anche come ricostruttore di un contesto, e però lo fa con prove narrative poco credibili nel corroborare la storia dei ritardi dei vertici comunisti nella comprensione delle libertà individuali e nell’accettazione dei nuovi orientamenti sessuali. Una conferma significativa la offre la rivista della nuova sinistra “Quaderni piacentini”, in quegli anni non proprio tenera verso il Pci. Dopo il silenzio (il regista Bellocchio venne pure ascoltato dai giudici in qualità di teste), dedicò nel numero di luglio un breve articolo non firmato che inizia proprio con una lunga citazione del pezzo assai duro verso la magistratura apparso sull’Unità. Esplicita era la chiosa: “per una volta siamo d’accordo con l’Unità”. Mentre i grandi giornali borghesi del tempo come La Stampa e Il Giorno, scrive la rivista, “non hanno mai celato un certo schifo per l’imputato”, un settimanale radicale-democratico come L’Espresso “non ne ha mai parlato”, il giornale del Pci in perfetta solitudine “è passato all’attacco”.

Riconsiderata a oltre mezzo secolo di distanza dagli accadimenti tipici di un’Italietta bigotta, la copertura che il giornale di via dei Taurini diede alla vicenda processuale in effetti colpisce per l’apertura, la curiosità, insomma la nettezza della presa di posizione. Un giovane cronista, Paolo Gambescia, che si vede catapultato dai paesaggi abruzzesi alle cronache di un processo scabroso celebrato in una grande metropoli, segue con regolarità il dibattimento. I titoli sono sempre all’insegna della partecipazione ad una battaglia civile: “Sentenza da caccia alle streghe. Vivaci proteste contro i giudici”. Al cospetto dei toni del quotidiano non regge la coerenza razionale, o concepibilità artistica, dell’evento del direttore che licenzia un giornalista in odore di modernità. Già nel 1967, prima della pronuncia della sentenza di condanna, si legge: “In Assise un filosofo per plagio”. Il falso licenziamento, oltre che irreale, è una trovata irrazionale anche ai fini dello svolgimento narrativo, visto che l’Unità condanna sempre con forza le “tesi oscurantiste del Pm” che raffigura Braibanti come un “diabolico invasore di spiriti”. E si scaglia contro la sua demagogia reazionaria (“venivano in mente le requisitorie contro Savonarola, contro gli eretici medievali”).

Per l’Unità, che esalta le manifestazioni davanti al Palazzaccio, è in corso un vero e proprio processo politico organizzato da una magistratura politicizzata che intende celebrare “un rito di esorcizzazione contro gli intellettuali e gli artisti d’avanguardia”. In questo senso, la ricostruzione di Amelio è poco persuasiva non tanto perché falsa, ma perché lo svolgimento drammatico (il licenziamento del giornalista) è un fatto del tutto inaspettato, e dunque un costrutto irrazionale, privo cioè della spendibile connessione causale che deve pur accompagnare la narrazione.

Uno sbocco tragico, se risulta incredibile una volta considerato sul piano della logica e della coerenza delle azioni, può tramutarsi in un più o meno incisivo colpo politico inferto al Pci. Resta però che, con il prendere a schiaffi la razionalità della narrazione, il regista si avvale di una forzatura sul terreno dell’invenzione artistica, che non può permettersi di spezzare nessi causali credibili. Il fatto narrato (licenziamento), anche se non viene misurato semplicemente sulla griglia reale-irreale che l’opera d’arte sempre scavalca, risulta comunque non razionale.

Dinanzi ad una copertura come quella dell’Unità, pur con tutto il riconoscimento dovuto alla fantasia, persino al furore artistico che può trasfigurare i fatti, poco credibile (in senso di narrazione cinematografica) appare il ritrovato filmico, che sembra invece funzionale ad un lecito attacco politico-culturale. Nella misura in cui anche nei film spuntano tracce di conoscenze storiche, nelle immagini in questione la storia reale come sempre possibile viene tradita e però resa irrazionale perché l’organo comunista, ribadendo che l’amore omosessuale non è “plagio”, stigmatizza con forza “il processo alle idee e alle tendenze particolari”. Insiste il giornale anche su un punto rilevante: “Il magistrato cita Freud, Marcuse e Vasilev ma non riesce a nascondere la sostanza profondamente reazionaria delle sue argomentazioni”. Se per essere artistico-poetica una invenzione deve comunque risultare razionale (una azione incredibile è impoetica), allora il processo alla cultura comunista non possiede i crismi della credibilità. Sabato 13 luglio infatti l’Unità dedica addirittura tre articoli alla vicenda. Uno parla dell’iniziativa del senatore Ossicini, l’altro del dibattimento e un terzo è l’editoriale del direttore Maurizio Ferrara contro un “processo aberrante”.

La penna, per giunta di un “destro” del partito, è di una nitidezza esemplare. Critica i giudici, i “poteri costituiti” che sono in perfetta continuità con la cultura del ventennio (il giustizialismo non è mai stato nelle corde della consapevole sinistra italiana). La passione civile suscitata dalla “torva borghesia clericale di Piacenza” lo fa insorgere contro “un reato inesistente” come quello di plagio o influenza e contro una brutale repressione penale di scelte individuali. Rilevante, a segnalare l’abisso che separa le parole di allora dalle costruzioni odierne di una destra che demonizza l’identità di genere, è quanto Ferrara scrive contro “un rilancio dei temi dell’Inquisizione, una chiassata avvocatesca contro il terzo sesso”. Se paragonata alle credenze della destra che oggi è divenuta egemone, l’impostazione di Ferrara sulla questione dei diritti nella sfera sessuale pare caratterizzata da uno spirito laico e quasi libertino. Paiono scritte contro le parole fresche della Meloni, sullo sport come “cura della devianza”, le frasi in cui si contesta il fascismo con la sua lotta “in difesa del conformismo razzista che voleva i giovani tutti fusti, tutti rasati a zero”.

Rispetto all’omofobia, che ancora circonda lo spazio pubblico, Ferrara è di una nettezza assoluta: “Se c’è qualcosa di marcio che il processo Braibanti sta dimostrando, non è tanto l’esistenza dell’omosessualità, quanto la ferocia razzista, il dileggio becero, l’odore di linciaggio che il suo sospetto scatena in ambienti nei quali la morale si identifica con il moralismo più oscurantista e repressivo; tanto più spietato quanto più ipocrita e attestato su una tradizione benpensante marcia fino alle midolla, che scatena, ogni giorno, drammi e contraddizioni laceranti”. Nell’ostilità verso le tendenze omosessuali c’è una “ferocia razzista”, il “dileggio becero” di persone che vengono scaraventate entro un dramma e sottoposte a pratiche di “feroce linciaggio”, ad una “orgia di oratoria da Inquisizione”: insomma, atteggiamenti da “caccia alle streghe”, che a quasi sessant’anni di distanza ancora proseguono e giustificherebbero un intervento normativo per colpire l’omofobia. A smentire la storiella di una cultura comunista arcaica, Ferrara invita a comprendere quanto “di nuovo, e anche di sconosciuto, si agita nel profondo della società e della morale tradizionale”. La repressione, il moralismo, la difesa della famiglia non servono a nulla perché “più lontane, più profonde, sono le radici del malessere della famiglia tipo e della gioventù, delle forme di crisi e di rivolta”.

Un film non è un documento storico costretto al riscontro obiettivo in ciò che realmente è accaduto, ma, appunto per questo, dovrebbe avvertire, nel suo linguaggio peculiare, la necessità semantica di ricorrere a segni che risultino comunque adeguati allo sforzo di dosare verosimile e inverosimile. Se l’urto tra il direttore e il cronista avrebbe dovuto incarnare per Amelio qualità tipiche più generali (il conformismo repressivo del Pci), i riferimenti storici evocati non sono in grado di conferire un verosimile fondamento per garantire la credibilità della narrazione. Postulare che gli intellettuali comunisti sono stati ostili ai diritti è un assunto dogmatico, un pregiudizio quindi, che non solo non corrisponde al reale svolgimento delle cose (si può anche fare cinema, arte, poesia tradendo il reale, ma non costruendo uno svolgimento del tutto irrazionale), ma che evidenzia l’impossibilità che i fatti siano realmente potuti accadere nella maniera immaginata nel film. Se è vero che in arte è credibile ciò che è possibile, non è verosimile che siano accaduti su ordine di Ferrara i fatti repressivi narrati nella finzione cinematografica. Michele Prospero

Gianni Amelio: «Essere gay per tanti è ancora un tabù o una malattia». Stefania Ulivi, inviata a Venezia, su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

Il regista in gara a Venezia con «Il signore delle formiche», storia del processo al poeta e scrittore Aldo Braibanti. 

«Ho fatto questo film dare voce a chi non la ha. Le cose sono cambiate dal 1968, il reato di plagio non esiste più ma ci sono ancora persone che non possono dichiarare apertamente il loro essere gay, per tanti è ancora un tabù, o peggio una malattia». Gianni Amelio torna in gara a Venezia (dove vinse nel 1998 il Leone d’oro con «Così ridevano») con «Il signore delle formiche», il racconto dello sconvolgente processo al poeta, scrittore e drammaturgo Aldo Braibanti, che nel 1968 fu condannato a nove anni di prigione, accusato di plagio (un reato del Codice Rocco, poi abolito) ai danni di un giovane, Giovanni Sanfratello, con cui conviveva a Roma.

Il ragazzo fu rinchiuso dalla famiglia in ospedale psichiatrico e sottoposto a cure atroci tra cui l’elettroshock. «È un film sulla violenza e sulla ottusità della discriminazione. E sull’indifferenza. Io c’ero, sono andato a assistere a un paio di udienze, e posso dire che era ancora più doloroso per me sentire l’indifferenza generale, a parte i radicali e un gruppo sparuto di socialisti che protestavano nei giardinetti di fronte al Palazzaccio a Roma, come mostro nel film. E alcuni appelli sui giornali in favore. Il tema del processo contro un invertito, come si diceva allora, faceva paura. E non è finita». «Il Signore delle Formiche», prodotto da Kavac film, Ibc Movie, Tenderstories con Rai Cinema, uscirà in sala dall’8 settembre con 01 Distribution

Braibanti è Luigi Lo Cascio, il ragazzo («ma era maggiorenne») a cui Amelio ha cambiato il nome in Ettore è interpretato da Leonardo Maltese, Elio Germano è un giornalista dell’Unità, personaggio di fantasia e Sara Serraiocco è Graziella, sua cugina. «Per me il caso Braibanti ma soprattutto la storia d’amore tra un uomo e un ragazzo. Durante la lavorazione io ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Forse il film si è giovato di questo, ho scoperto le stesse fragilità del protagonista che è diventato molto autobiografico». Anche la conferenza stampa lo è stata quando il regista se l’è presa con un giornalista, rinfacciandogli il titolo a una critica su «Hammamet». Si è tornati all’attualità grazie a Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay: «La questione omosessuale non è risolta — ha detto mentre Amelio e il cast lo applaudivano — basti pensare al vergognoso applauso in Senato per lo stop alla legge Zan».

Luigi Lo Cascio in 'Il signore delle formiche'. "I diritti meriterebbero una rivoluzione". Arianna Finos su La Repubblica il 7 Settembre 2022.

E' il protagonista del film di Gianni Amelio che ripercorre il caso Braibanti. "Forse l'arte può sensibilizzare chi ancora parla di devianze".

Non erano le folle di Harry Styles, ma ad attendere Luigi Lo Cascio all'arrivo in motoscafo all'Excelsior c'erano due ammiratori speciali: "I miei figli, dalla terrazza urlavano "papà, papà!". Da quando è venuto la prima volta con I cento passi, che ha dato il via alla carriera cinematografica ogni edizione "è una festa di famiglia, vengono da tutta Italia mamma e i fratelli, quest'anno anche i ragazzi". In Il signore delle formiche, il toccante film di Gianni Amelio in concorso, presta il volto a Aldo Braibanti, filosofo, docente, mirmecologo, condannato per plagio al carcere nel 1968, per aver "rubato l'anima" (parole del pubblico ministero) al giovane studente di cui era innamorato e con il quale era andato a convivere, contro il volere della famiglia.

Conosceva la storia di Braibanti prima del film?

"No, cosa che mi dispiace molto per due motivi importanti. Il primo è che è stato l'unico condannato in un processo per plagio che aveva l'intento di distruggere un diverso: ha subito l'enorme torto di vedere troncata una storia d'amore importante, essere perseguitato dalla famiglia, sprofondare economicamente. Ancor di più mi spiace il fatto che non conoscevo la sua importanza politica e culturale. Non ha voluto, dopo, farsi bandiera di quanto subito, reclamare qualcosa in cambio. C'è stata nei suoi confronti una dimenticanza strana, ha inventato il teatro di avanguardia, è il primo a Roma a cominciare quella stagione, dove ci sono tutti: Memè Perlini, Giancarlo Nanni, lo stesso Carmelo Bene dice che è stato lui a insegnargli adii diversi. Era scrittore e filosofo con pensieri soprattutto adesso da ascoltare, è stato uno dei primi a parlare di ecologia, un artista totale e uno scienziato, mirmecologo. Mi spiace non averlo conosciuto e incontrato quando c'era ancora, è morto nel 2014 a novant'anni, tra le difficoltà economiche. Spero che ci sia un ritorno di considerazione per la sua opera".

Nel film, sul caso Braibanti, la sinistra e l'Unità non fanno una bella figura.

"Rispetto ai diritti civili la sinistra si preoccupava di altre cose: del lavoro, dell'economia, delle ingiustizie sociali. Non è stata capace di stare vicina alla vita reale, legata dall'identità, alla vita intima delle persone, considerandola secondaria".

Oggi il tema dei diritti civili ha un ruolo importante nel dibattito politico.

"È vero, l'asse si è spostato sui diritti civili, ma lasciando indietro conquiste del lavoro - flessibilità, disparità sociale - perché oggi si pensa che il mondo non si possa più cambiare, che la gabbia sia d'acciaio. Si lotta sul punto dei diritti civili perché è come se nel resto i partiti si equivalessero, oscillando nella quantità dentro un unico registro un unico canone, che sembra impossibile e da cambiare. Dando per scontato che non ci sarà più una rivoluzione, che il mondo in mano a certi gruppi economici: dentro un mondo guasto cerchiamo di stare meglio che possiamo, ma senza grandi orizzonti. Lo dimostra il disinteresse per la politica, lo scontento generalizzato, in cui è scomparsa la dimensione del futuro e del comune".

Braibanti non era un personaggio empatico, spesso scelse il silenzio. Ha pagato anche per questo?

"Non si poneva il problema di come porgersi. Era quel che era, con i suoi difetti, limiti caratteriali nel rapporto con gli altri. Era una persona netta. Secondo lui - ed è vero - il processo è stato costruito. La sentenza era già scritta. Ripeteva che la vera vittima era il compagno Ettore, coma insulinici e una quarantina di elettroshock, esce dall'ospedale psichiatrico e ha una vita segnata dal programma dalla famiglia, che poi lo abbandona in malattia e povertà perché 'non raddrizzabile'".

Giorgia Meloni parla di devianza, parola non lontana da quelle del processo.

"Difficile dire cose che non suonino ovvie. Queste persone vivono nel nostro stesso mondo, ma non sono attrezzati affettivamente, cognitivamente, per capire il carico di sofferenza di chi è discriminato per la sua identità, affettività. L'arte forse, con parole e immagini riesce forse adaarrivare al cuore di chi queste cose non le ha ancora pensate. Spero che il film dia il suo contributo".

Alla Mostra arriva con tre film. È anche il cardinale/papa Ugolino nel film Chiara, in gara di Susanna Nicchiarelli e in Spaccaossa di Vincenzo Pirrotta.

"Mi piaceva la sceneggiatura di Susanna Nicchiarelli, e le figure di Santa Chiara e San Francesco, un mondo rivoluzionario. Braibanti è su quell'onda lì, la sua vita era francescana, non solo per la povertà, ma per l'unione con gli altri, l'amore per la vita in tutte le sue forme, l'ecologismo. Oggi nessuno di noi potrebbe vivere un solo giorno nella nuda povertà. In Spaccaossa sono "Machinetta", giocatore di videopoker vittima della banda che proponeva a chi era in difficoltà, di farsi spaccare le ossa per incassare dalle assicurazioni, che incassavano loro".

È stato un anno pieno di cinema, per lei.

"Sì, complice la pandemia e i teatri chiusi. Ho avuto anche Delta di Michele Vannucci a Locarno, e a dicembre sono protagonista della seria Amazon The bad guy. Sono un giudice integerrimo, barbuto, cento chili di peso. Vengo incastrato, condannato al carcere. All'uscita decido di vendicarmi, cambio identità, mi trasformo fisicamente, entro nel mondo dei mafiosi spacciandomi per uno di loro. È una comicità assurda, ma funziona".

Il cinema la vede più in ruoli impegnati.

"Sì, ma io vengo dal cabaret. Da studente di medicina facevo teatro da strada e cabaret nel gruppo 'Le ascelle', sketch sulle secrezioni del corpo umano, dal sudore al resto. Eravamo un gruppo di palermitani a Bologna, ex atleti e supporter della nazionale atletica leggera. Ci pagammo il viaggio a Helsinki con spettacolini a ogni tappa del viaggio. All'Accademia ho portato Petrolini, facevo parti comiche. I cento passi e Luce dei miei occhi, entrambi a Venezia, sono stati i film che hanno acceso l'interesse dei registi. A Venezia sono venuto dieci volte, per me è ogni volta è un ritratto di famiglia che si allarga".

Amelio, storia d'amore, di plagio e d'autobiografia. "Il signore delle formiche" racconta il caso Braibanti, quando (nel '68...) l'omosessualità era una malattia. Pedro Armocida il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

La storia è stata raccontata con precisione nel bel documentario di due anni fa di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese dal titolo Il caso Braibanti. E cioè il processo, nel fatidico 1968, al drammaturgo, poeta e mirmecologo Aldo Braibanti con l'accusa di plagio per aver sottomesso alla sua volonta, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia che portò Braibanti dietro il banco degli imputati, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché «guarisse» da quell'influsso «diabolico». Braibanti fu condannato a nove anni di detenzione.

Ora la vicenda, che ripropone uno spaccato dell'Italia in cui le persone omosessuali venivano definite «invertiti» o «pederasti» e ovviamente il processo basato sul reato di plagio voleva colpire questo tipo di «devianza» , è diventato un film presentato in concorso a Venezia 79, Il signore delle formiche, diretto da Gianni Amelio che fa un'operazione simile a quella del Craxi in Hammamet, innestando una vicenda reale nella sua (auto)biografia più politica o personale. Perché è vero che il racconto del personaggio di Aldo Braibanti, interpretato con straordinaria aderenza da Luigi Lo Cascio, segue esattamente quello storico dal laboratorio artistico di Castell'Arquato in provincia di Piacenza, agli anni romani e al processo ma Amelio, insieme agli sceneggiatori Edoardo Petti e Federico Fava, poi inizia a inventare la realtà siamo pur sempre in un film di finzione cambiando il nome e cognome alla giovane vittima di tutta questa vicenda, che qui si chiama Ettore (bravissimo l'esordiente Leonardo Maltese) mentre nella realtà è Giovanni Sanfratello, e costruendo un peculiare personaggio, il giornalista dell'Unità Ennio impersonato da Elio Germano. «Non potevo tacere il nome di Braibanti che è il focus del film spiega il regista ma ho cambiato i nomi della famiglia vera perché non volevo che la storia diventasse un fatto personale mentre invece volevo che rappresentasse una famiglia simbolica classica della provincia italiana». Questa invenzione, se da una parte esclude dal ricordo, e dalla denuncia di quanto gli è accaduto, la principale vittima, lobotomizzata, della vicenda, dall'altra apre il film agli spunti più autobiografici del settantenne Gianni Amelio che, solo qualche anno fa, ha fatto coming out: «Certe parole sono state dette a me, quando avevo 16 anni, e nel film le faccio ripetere ad un personaggio in calabrese, perché io sono calabrese: L'omosessuale ha due scelte, o si cura o si ammazza» sottolinea il regista de Il signore delle formiche che uscirà nelle sale domani.

Sembra proprio che Amelio abbia voluto chiudere alcuni conti personali con il suo passato perché, attraverso il personaggio del giornalista dell'Unità ossia, ricordiamolo ora che non c'è più, il quotidiano organo del Partito Comunista italiano attacca proprio quell'area politica. Spingendosi a mettere in scena un caporedattore, anche qui interpretato con grande efficacia da Giovanni Visentin, che censura gli articoli del suo giornalista sul caso Braibanti spingendolo addirittura alle dimissioni. Sui titoli di testa del film campeggia la scritta «Liberamente ispirato a fatti accaduti negli anni Sessanta» per cui è indubbio che Amelio abbia voluto raccontare la «sua» esperienza di realtà celebrando invece il Partito Radicale che, grazie a Pannella omaggiato con l'immagine di una Emma Bonino ripresa al giorno d'oggi che però ha iniziato a fare politica successivamente, nel '74, è stato quello che ha capeggiato la protesta di tanti intellettuali, da Moravia a Pasolini a Marco Bellocchio che ora è il produttore del film con Ibc Movie, Tenderstories e Rai Cinema, contro un processo scandaloso, arrivando poi, nel 1981, alla cancellazione del reato di plagio.

Un film dunque molto personale come evidenziato dallo stesso Amelio che, all'inizio della conferenza stampa, prima di aver avuto un diverbio con il critico dell'Espresso Fabio Ferzetti per un titolo di due anni fa su Hammamet, si è confidato così con i giornalisti: «Ci sono in me delle fragilità umane che io ho rivissuto con questo film. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo Braibanti, questo ha giovato al film ma non a me come persona. Penso di aver dato il massimo come regista. Braibanti si è innamorato, mi sono innamorato anch'io. Non mi è andata male come a Braibanti, non sono andato in carcere come lui ma sono chiuso in un mio carcere personale. Sono l'uomo più disperato del mondo».

Processo ad Aldo Braibanti, quando Pannella accuso: “Questa è l’inquisizione”. Valter Vecellio su Il Riformista il 7 Settembre 2022 

Non è vero che si stava meglio quando si stava peggio. Quando si stava peggio, si stava peggio. È che molte cose non si sanno, o si dimenticano. Gianni Amelio con il suo Il signore delle formiche, non ha solo il merito di riprendere un filone cinematografico che sembrava smarrito: il cinema “civile”, dei Marco Bellocchio e dei Damiano Damiani, dei Carlo Lizzani e dei Nanni Loy, degli Elio Petri e dei Francesco Rosi, dei Giuliano Montaldo, per citare solo alcuni grandi registi. Amelio con Il signore delle formiche ci riporta alla fine degli anni Sessanta, quando si celebra un processo che fa scalpore: un intellettuale, Aldo Braibanti, viene condannato a nove anni di carcere, accusato di “plagio”: aver cioè sottomesso alla sua volontà, in senso psicologico e fisico, un suo studente e amico da poco maggiorenne.

La famiglia del ragazzo fa in modo che sia rinchiuso in un manicomio (allora esistevano, Franco Basaglia ancora non ha cominciato la sua lotta per il superamento di quelle terribili istituzioni), sottoposto a un incredibile numero di elettroshock, allo scopo di “guarirlo” dall’influsso malefico e diabolico di Braibanti. La “colpa” vera dei due è quella di essere omosessuali, di volersi bene. La vicenda è il pretesto per imbastire un processo politico e una vera e propria caccia alle streghe. Pochi hanno l’ardire e il coraggio di opporsi a quella deriva clerical-reazionaria: Piergiorgio Bellocchio, Umberto Eco, Franco Fortini, Vittorio Gassman, Giovanni Jervis, Dacia Maraini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Pier Paolo Pasolini, Marco Ramat… “l’Astrolabio” di Ferruccio Parri e Mario Signorino, con i puntuali articoli di Giuseppe Loteta; e Marco Pannella, già allora leader e anima del Partito Radicale. Pannella in particolare con la sua martellante campagna su “Notizie Radicali” non solo segue passo passo le udienze dei processi nei confronti di Braibanti; opera perché i magistrati, pesantemente chiamati in causa, lo citino in giudizio, e così ha luogo un ulteriore processo che, come da miglior tradizione radicale, “processa” a sua volta gli inquisitori.

Facciamo prima un passo indietro. Il primo processo ha luogo nel 1968. Sul banco degli imputati, appunto Braibanti. Pannella si affaccia in Aula. Dirà di aver avuto l’impressione di assistere a un processo dell’Inquisizione. L’imputato sembra rassegnato, anzi: estraneo all’ambiente che lo circonda. Sul suo capo pende un’accusa scovata tra le pagine meno esplorate del codice penale, l’articolo 603, che viene dopo quello dedicato al commercio degli schiavi. Un articolo che transitato dal codice Rocco, fascista, a quello repubblicano, e che colpisce duramente il reato di plagio. Non ci sono precedenti, tranne il processo, mesi prima contro l’attore Maurizio Arena per la sua storia d’amore con Maria Beatrice di Savoia, (concluso con un’assoluzione). Braibanti, è il primo imputato (per fortuna anche l’ultimo) ad essere condannato in un tribunale della Repubblica italiana per il reato di plagio. Neanche il fascismo l’ha utilizzato troppo. Negli anni ‘30 gli unici condannati per gli articoli 602 e 603 del codice penale erano stati i “mercanti” che imbarcavano gli schiavi a Massaua e li sbarcavano sulla costa araba.

Chi è Braibanti? Un intellettuale “disorganico”, di tendenza anarchica e dagli interessi più disparati, dalla poesia alla saggistica, dalla pittura al teatro, dalla lavorazione delle ceramiche allo studio della vita e dell’organizzazione sociale delle formiche. Soprattutto, è un omosessuale. È proprio questa propensione sessuale che gran parte della società di allora, pienamente rappresentata dal tribunale romano, gli rimprovera. Il “piccolo e stortignaccolo Braibanti”, come lo definisce la parte civile, è condannato a nove anni di reclusione. Naturalmente, l’omosessualità non poteva essere contestata come reato. Braibanti è accusato di avere plagiato uno dei due giovani con cui vive e con cui ha un rapporto omosessuale. Sono i familiari di questo giovane a dar vita al processo. Sequestrano il ragazzo con la forza, lo rinchiudono in manicomio e denunciano il presunto plagiatore. Malgrado i quaranta elettroshock ai quali è sottoposto, il presunto plagiato dichiara sempre, tutte le volte che viene interrogato durante il processo, di avere scelto liberamente il suo rapporto con Braibanti. Non è creduto. Il vero artefice del processo, soprattutto nella sua fase istruttoria, è il pubblico ministero Antonino Loiacono. Per tre anni e mezzo raccoglie pazientemente fatti e testimonianze, inseguendo una sua ricostruzione della personalità di Braibanti, da calzare poi sul reato di plagio. Mantiene sempre l’istruttoria sommaria, senza mai formalizzarla per tutto quel periodo.

La sua arringa è memorabile, un atto d’accusa contro la diversità e l’omosessualità. L’imputato è preda di “pervertimento demoniaco…I negri, sono una razza che te la raccomando…Chiedo una pena esemplare, affinché nessun professoruncolo possa venire a togliere domani la libertà a un innocente”. Ma a questo punto la mobilitazione degli intellettuali e dei giornali più progressisti diventa imponente. Pannella apre la strada, facendo fuoco e fiamme su “Notizie radicali”. Un altro giornalista, anche lui purtroppo scomparso, Giuseppe Loteta, ne scrive su “l’Astrolabio”.

Si spera nel presidente della Corte d’assise giudicante, Orlando Falco, che si sa essere più moderato di Loiacono. Non in questo caso. Braibanti è condannato a ben nove anni di reclusione. Quando, dopo cinque mesi, si leggono le motivazioni della sentenza, c’è da trasecolare. In 340 roboanti cartelle si scomodano Freud, Bernheim, Musatti, Janet, Morgue, Marcuse, Vasilev, Cesare, don Giovanni, Napoleone, Socrate, Alcibiade, perfino il diavolo, nel tentativo di dimostrare che Braibanti ha sottoposto al proprio potere i due giovani discepoli. Per Falco, Braibanti è “un diabolico, raffinato seduttore di spiriti, affetto da omosessualità intellettuale”.

In Corte d’Appello non cambia molto. La pena è ridotta a quattro anni per “meriti resistenziali”: il “diabolico professore”, infatti è stato arrestato e torturato dai seviziatori della famosa “banda Carità”. Ma l’impianto accusatorio è pienamente confermato. Tra il primo e il secondo grado del processo, Pannella e Loteta sono denunciati dal Loiacono per diffamazione a mezzo stampa e calunnia. Falco no, non querela. Proprio in quei giorni è incaricato di dirigere la Corte che giudicherà Pietro Valpreda, un altro anarchico, per la strage di piazza Fontana. Evidentemente pensa che stare zitto sia la cosa migliore. Il processo contro Pannella, Loteta (e il direttore responsabile di “Astrolabio”, Mario Signorino), si svolge all’Aquila nel 1972. È come riaprire il caso Braibanti. Riemerge così tutta la vicenda del “diabolico professore”.

Parri, malgrado i suoi 82 anni viene a testimoniare: “Sono venuto qui per assumermi la mia responsabilità morale di direttore de “l’Astrolabio” e rivendicare la mia piena solidarietà col giudizio che Loteta e Pannella hanno dato sul processo Braibanti. E quindi la mia piena punibilità a pari titolo”. Naturalmente, non è incriminato. A Loteta e Pannella invece, caduto il reato di calunnia che non c’entrava proprio per niente, danno nove mesi di reclusione, confermati in appello e poi annullati in Cassazione. Il lieto fine (se così si può dire), arriva l’8 giugno del 1981: la Corte Costituzionale cancella il reato di plagio. Nel codice Rocco, e poi in quello della Repubblica italiana, erano previsti da 5 a 15 anni di reclusione per chiunque sottoponga “una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. La Consulta rileva “l’imprecisione e l’indeterminatezza della norma, l’impossibilità di attribuire ad essa in contenuto oggettivo, coerente e razionale”. Giustamente, concludono, “essa è stata paragonata ad una mina vagante nel nostro ordinamento”. Una mina che non esploderà più. Per ora, almeno. Valter Vecellio

Chi pretese il carcere per Braibanti oggi va a caccia di nuove streghe da bruciare. Il professore piacentino, omosessuale dichiarato, fu colpevole per la convivenza con uno studente maggiorenne e consenziente. Per questo fu arrestato e condannato. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 16 settembre 2022.

Il film di Gianni Amelio presentato a Venezia sul “caso” Braibanti, ha indignato e commosso molte persone convinte però che oggi un caso analogo non potrebbe accadere. E si sbagliano. Sarebbe perciò necessario sommare all’indignazione e alla commozione, l’analisi rigorosa della realtà attuale e poi sulla base dei fatti, arrivare alla conclusione che “Braibanti” viene bruciato ogni giorno sulle nostre piazze e la percentuale degli indifferenti è oggi maggiore che mezzo secolo fa. Mentre quel ‘ Potere’ che segregò Braibanti nelle patrie galere è più forte che mai. Il professore piacentino, omosessuale dichiarato, fu colpevole per la convivenza con uno studente maggiorenne e consenziente. Per questo fu arrestato e condannato.

Credo che prendere posizione a favore di Braibanti sia stato difficile ovunque ma comprenderete quanto lo sia stato nel Sud Italia. Eppure un confronto aspro c’è stato anche nelle regioni meridionali e finanche nei più piccoli paesi e ciò ha consentito di aprire un varco nell’egemonia delle classi dominanti e di avviare una semina che ha portato alla vittoria sul divorzio e alla grande stagione dei diritti civili.

Ma andiamo con ordine. Braibanti era un ex partigiano, un poeta, uno scienziato ma era soprattutto una persona innocente che dinanzi a una accusa degna della peggiore caccia alle streghe fu difeso solo da pochi, o meglio da una coraggiosa minoranza costituita da intellettuali, da giovani- spesso irregolari- di Sinistra e da qualche liberale raro come i lupi bianchi. Braibanti fu marchiato a fuoco come pervertito, pederasta, degenerato, corruttore di giovani e il marchio divenne garanzia per l’infame condanna prima nelle piazze, quindi sui giornali e infine in Tribunale. La televisione fu il megafono della pubblica accusa.

Come abbiamo detto all’inizio, a 50 anni di distanza, qualche riflessione bisognerebbe pur farla. Innanzitutto quando esplose il “caso Braibanti” non abbiamo difeso solo il diritto naturale di dichiararsi omosessuale e vivere liberamente la propria vita ma anche e soprattutto il diritto alla Libertà e il rispetto dell’integrità della persona umana per come prescritto dalla Costituzione.

Oggi quelle stesse forze che pretesero il carcere per Aldo Braibanti vanno a caccia di nuove streghe da bruciare sul rogo. Così quasi ogni giorno, una certa stampa crea il “mostro”, la piazza (ormai solo virtuale) si scalda e pretende la purificazione attraverso il sacro fuoco, le procure non vanno per il sottile e le carceri si riempiono di innocenti. E per questa via lo Stato “degenera” e da Istituzione necessaria per la tutela dei cittadini, diventa un pericolo in quanto sceglie di legittimarsi con la giustizia sommaria, la galera e la guerra.

Oggi c’è l’aggravante che le minoranze che difesero Braibanti sono quasi sparite, spesso distratte, e a volte si sono trasformate in sentinelle di “regime”. Così chi dovesse capitare (e capita quotidianamente) nell’ingranaggio perverso che 50 anni fa distrusse l’ex partigiano è terribilmente solo. Provate voi a difendere una persona innocente finito nelle maglie della “giustizia”, o a esprimere qualche dubbio sulle frequenti retate che sanno più di teatro che di applicazione della legge. Provate a dire che una persona non può essere messa alla gogna per il reato di “parentela”, che un consiglio comunale non può essere sciolto senza una sentenza che stabilisca le responsabilità penali del sindaco e dei consiglieri comunali. Oppure che un imprenditore non può essere messo al lastrico con un semplice rapporto di polizia.

Chiunque lo faccia verrà marchiato come potenziale complice. Conosco almeno un migliaio di persone messe alla gogna e poi scagionati da ogni accusa. Cambia il capo di imputazione ma il metodo resta uguale e chi non ha la forza e il coraggio dell’ex partigiano muore di crepacuore. Credo che quel varco aperto in occasione del caso Braibanti grazie ad una minoranza coraggiosa, stia per essere definitivamente chiuso e ciò avrà come sbocco naturale un regime che già ha preso forma negli anni passati.

Il dottor Scarpinato candidato al Senato in Calabria, parlando alla festa del Fatto quotidiano ha affermato che la difesa della Costituzione deve essere la nuova linea del Piave. Si può e si deve essere d’accordo, premettendo però che c’è chi su quella linea c’è sempre stato. Sia quando s’è trattato di difendere la Costituzione contro la secessione di Bossi o per contrastare la legge sull’autonomia differenziata e ancora di più quando retate degne delle peggiori purghe staliniane hanno distrutto migliaia di vite. In Calabria molto più che altrove. La Costituzione è veramente una trincea… sempre! Anche quando un solo uomo (chiunque esso sia) dal profondo di una galera grida la sua innocenza, pretende la sua dignità, reclama la tutela della legge. Anche quando il carnefice è un magistrato o comunque un rappresentante di quel potere che è – in linea storica – erede di coloro che sacrificarono Aldo Braibanti.

Emanuele Crialese racconta la sua storia di uomo transgender: «Per cambiare il nome sul passaporto ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.

Il regista è a Venezia con «L’immensità», storia autobiografica: «È il film che inseguo da sempre, ora sono pronto»

«Che importanza ha che sia stato una donna? Quello che conta è ciò che faccio oggi. Sono un uomo e una donna come gli altri? No: sono io. Ho fatto cinema nella speranza di raccontare un giorno questa storia». 

Emanuele Crialese torna in gara al Lido con «L’immensità» (esce il 15 per Warner) e una musa chiamata Penelope Cruz. È nato — è lui a dirlo — Emanuela: è diventato Emanuele. Nell’ambiente un po’ si sapeva, lui la racconta oggi, questa storia che non potrebbe essere più intima e personale: quella di una bambina che si sente maschio. 

La sua storia. «Sì, mi riguarda molto da vicino. Ma non è un film sulla transizione e sul coming out, sarebbe disinformazione dirlo. È un film fortemente autobiografico». 

Roma, Anni ’70, un marito traditore seriale che picchia la moglie, lei lo subisce, della figlia maggiore dice: si chiama Adri. «Hanno una connessione forte – racconta Penelope - la casa per loro due è una specie di carcere, la figlia dice mi avete creato male, e che viene da un’altra galassia, invoca un extraterrestre che la porti in un’altra dimensione. Ho fatto questo film anche per il tema delle violenze domestiche». 

Crialese, perché ora?

«È il film che inseguo da sempre, il più desiderato. Ora sono pronto. Se l’avessi fatto prima sarebbe stato palloso e didascalico, un poveraccio che usa la crisi di genere. Ho aspettato per avere consapevolezza di me e del linguaggio cinematografico. Si può raccontare una storia quando si è capaci di esprimersi. Una rinascita. Ero pronto a rinascere con questa storia». 

È stato molto coraggioso.

«Io sono quello che sono, perché devo rassicurare? C’è bisogno che dica io sono maschio o femmina? Sono quello che lei ha davanti, non basta? Sono e non sono, essere o non essere… Spero di non minacciare nessuno. Voglio dire una cosa politica: questo Paese sta cambiando, siamo impauriti, tutto si può fare tranne avere coraggio. La donna è la parte migliore dell’uomo che sono, è quella dentro di me, è l’oggetto dei miei desideri, è lei che ascolto più volentieri. La donna è un campo di battaglia, dà la vita, allatta, rinuncia, si sacrifica, ha lottato per emanciparsi. Descrivere un uomo sarebbe noioso». 

Sua madre?

«Si nascondeva insieme a me, abbiamo vissuto l’immensità. Non sapeva dove sbattere la testa. I tempi sono cambiati. La mentalità è la stessa. Il personaggio del padre (Vincenzo Amato) non è mai cresciuto, è rimasto un bambino, la madre l’ha autorizzato a comportarsi in quel modo con le donne». 

Lei sul passaporto…

«Per cambiare la A con la E del mio nome, ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, il pegno che mi ha chiesto la società, sennò non avrei potuto cambiare nei documenti. Ne parlavo col regista Inarritu, non c’è film che non sia autobiografico. Si raccontano le proprie ossessioni e passioni. Da “Terraferma” a “Nuovomondo”, ho sempre fatto film sulle migrazioni, sulle transizioni anche da un luogo all’altro. C’è molta trasfigurazione, non giro documentari, è la mia esperienza di vita. Il cuore del film è la libertà, come si possa cambiare, come l’identità sia un fatto relazionale. La casa è una sorta di navicella spaziale, è il corpo non c’è nulla di realistico, dentro c’è il cuore e il cuore è malato. I bambini ci portano oltre i nostri confini e i tre figli esprimono il disagio attraverso il corpo, mangiano troppo o non mangiano…». 

Il suo alter ego nel film è Luciana Giuliani: come l’ha trovata?

«Ha 13 anni, sarebbe stata un errore cercarla in chi vive quel disagio, ho pensato a una disciplina sportiva maschile, Luciana è una campionessa di mini motociclette. Compete con i maschi. È difficile gestire un adolescente sul set, vengono trattati come dei, lei doveva cercare il suo spazio di libertà». 

Penelope Cruz?

È l’archetipo femminile, è una donna del passato, presente e futuro. Parla l’italiano con accento spagnolo, una sporcatura, avrebbe potuto parlare in romanesco ma ho preferito così». 

A un certo punto, lei si sovrappone nelle immagini a Patty Pravo e Raffaella Carrà, due icone del mondo gay.

«Raffaella è un mito per Penelope, che però non ha mai conosciuto ma in Spagna ballava le sue canzoni al parco per le amiche della nonna. Volevamo invitarla sul set, è morta qualche ora prima. Da 18 a 60 anni, è sempre rimasta fedele a sé stessa, ma sempre moderna. Patty Pravo… La vidi a Roma che usciva da una Rolls Royce bianca con degli occhi che mi facevano paura, è uno stordimento, un vortice. Le persone che si amano di più è meglio non incontrarle». 

Emanuele, ha parlato con la sua famiglia d’origine?

«Se fosse stato il mio debutto le reazioni sarebbero state scomposte. Trattandosi del mio quinto lavoro non c’è stato il panico, ma curiosità e preoccupazione rispetto alla verosimiglianza dei personaggi». 

Cosa vorrebbe che arrivasse di questa storia?

«Che ho fatto un film, affrontando una grande prova di coraggio. Mi sono esposto, non dal punto di vista sessuale ma nella mia privacy, nella mia dimensione umana».

Paolo Giordano per il “Corriere della Sera” il 19 settembre 2022.

Gli ho chiesto un posto significativo dove incontrarci e lui mi ha invitato al lago. Un lago minore, a mezz' ora da Roma. Così, prima di sederci qui a parlare, abbiamo nuotato un po'. Emanuele - il motivo per cui, in un eccesso di confidenza, ricorro al suo nome di battesimo sarà chiaro in seguito - mi ha spiegato come entrare in acqua senza sprofondare nella fanghiglia e mi ha assicurato che le alghe in superficie sarebbero scomparse dopo qualche metro. Era vero. Ci siamo allontanati abbastanza dalla riva, senza che il suo cane ci perdesse mai d'occhio. 

Si è preso qualche giorno di riposo qui, da solo, fra la presentazione di L'immensità a Venezia e l'uscita nelle sale. La sua partecipazione al festival si è svolta in un terreno difficile, inesplorato, fra l'artistico e il personale, quando Emanuele ha avvicinato la storia della protagonista del film, Adriana, alla propria biografia e svelato la sua prima giovinezza come bambina. Forse, considerato il film, era inevitabile che accadesse, ma Emanuele Crialese ha 57 anni, una carriera consolidata come regista, avrebbe potuto continuare come aveva sempre fatto e lasciare quella zona di sé nell'indeterminatezza. Invece.

«Invece l'ho deciso. Si è trattato di una scelta artistica e politica. Perché come essere umano, e come cittadino, mi sento oppresso da questa atmosfera pervasiva di paura. Io non ho paura, anche se so di appartenere a una categoria di persone fra le più attaccate.

So anche, però, che questo tipo di informazione non dovrebbe interessare a nessuno, perché non è inerente all'opera. Ho girato film che hanno come denominatore comune la marginalità, è quello il mio tema. Mi rifiuto di guardare al mondo sotto un profilo classificatorio». 

E tuttavia siamo in un'epoca classificatoria. Perciò, quando dici che «l'informazione», ovvero il tuo coming out, non è rilevante perché non inerente all'opera, capisco quello che intendi, ma mi sembra un'affermazione fuori dal presente. 

«Allora io sono fuori dal presente. Ricordi quello che disse James Baldwin su La stanza di Giovanni ? Nell'84 si parlava del suo coming out e (in un'intervista a Richard Goldstein) lui disse qualcosa di intellettualmente puro: Domani, nel futuro, vorrei che le persone gay non dovessero più autodefinirsi come tali, perché non ce ne sarà più bisogno. L'essere umano è l'essere umano».

Insisto che derubricare «l'informazione» come irrilevante mi sembra eccessivo. A maggior ragione dopo vent' anni di carriera in cui è stata mantenuta riservata, come un segreto. 

«Io non l'ho resa pubblica nel pubblico, ma l'ho resa pubblica nel privato. Il coming out non l'ho fatto a Venezia una settimana fa, l'ho fatto a ventitré anni. Oggi sento una responsabilità nei confronti di tutte le famiglie e di tutte le persone che stanno intraprendendo questo percorso. Al tempo stesso continuo a pensare che l'artista debba celarsi dietro l'opera, non esserne rivelato. Che il suo bozzolo nutritivo debba restare il più possibile intatto».

Proviamo un esercizio mentale: fra due mesi vieni invitato a una rassegna, ovviamente in quanto regista ma anche in quanto persona trans. Accetti? 

«Bisognerà vedere il contesto. Non ho mai fatto parte di nessun gruppo. Il mio atteggiamento sociale, relazionale, perfino esistenziale appartiene a un altro tempo. Ho subito delle emarginazioni violente e quell'angoscia di rifiuto mi è rimasta. Ma sento la responsabilità delle mie dichiarazioni. Baldwin, in quell'intervista, dice: Perché dovete continuare con questa storia? Ho già scritto quel che ho scritto. Volete fare di me un attivista? Va bene, se serve ci sono, ma non sarebbe la mia prima scelta. Perché nel mio mondo ideale non c'è bisogno di sapere qual è il mio orientamento sessuale, chi mi sento, in chi mi riconosco». 

Il mondo di oggi è migliore per la marginalità rispetto a quello in cui sei cresciuto, almeno riguardo al genere?

«C'è stato un cambiamento culturale ma non legislativo. Per ottenere un cambio di vocale su un nome bisogna ancora presentarsi davanti a un giudice. Io, all'epoca, ho dovuto mettere in mostra i miei organi riproduttivi, mostrare qualcosa di invisibile perché fosse visibile la mia determinazione agli occhi dello Stato. Non avrei avuto i nuovi documenti se non avessi subito prima un'operazione demolitiva». 

Mentre lo racconta, la mia mente visualizza fulmineamente una scena di Nuovomondo , quando la famiglia di migranti sbarca a Ellis Island e il bambino viene sottoposto a un test cognitivo. Una scena verso la quale ho un debito artistico personale. Glielo dico.

«Per vivere, il bambino di Nuovomondo deve dimostrare di essere idoneo. Allo stesso modo, la mia ambizione di cambiare nome doveva essere accompagnata da un pegno, da una rinuncia». 

A che età? «Vent' anni». Dove? «A Roma». Da solo? «In quel momento mi ero autoescluso dalla famiglia, perché la situazione era ingestibile. Mia madre non sapeva più dove sbattere la testa. Temevo che mi avrebbero ospedalizzato, e che l'avrei accettato, perché per amore avevo già fatto cose simili. Dai quattordici anni ero stato in cura da psicoterapeuti di ogni tipo, cercavano di correggermi, di pacificarmi , e io invocavo lo stesso nelle mie preghiere».

In questa traversata di solitudine chi ti ha aperto il primo spiraglio su una possibilità diversa?

«Una trasmissione di Raffaella Carrà. Intervistava la prima persona in transizione che io abbia mai visto. Era di spalle, e più avanti l'avrei conosciuta e frequentata. È stata una catarsi. Quindi non ero pazzo. E dovevo trovare la forza di intraprendere un cammino, anche se tutti i miei affetti lo vedevano come una via per l'autodistruzione». 

In L'immensità la mente di Adriana entra più di una volta nella tivù in bianco e nero. Sua madre (Penelope Cruz) diventa Raffaella Carrà, lei Adriano Celentano mentre cantano Prisencolinensinainciusol in una performance iconica. Durante la prima per il pubblico in Sala Grande, a Venezia, sono scoppiati degli applausi spontanei in corrispondenza di quella e di altre scene affini. 

«Prisencolinensinainciusol», mi dice ora Emanuele: «una parola nuova, da inventare, per descrivere un essere al mondo diverso».

Nonostante la propria solitudine, Adriana ha una convinzione incrollabile riguardo a chi è.

«È una caratteristica comune a tutti noi. La nostra determinazione rasenta la vita e la morte. A sedici anni ho tentato il suicidio. E non è vero che ne parlo pubblicamente solo adesso, lo feci già alla partenza per gli Stati Uniti. Fu il mio primo atto come Emanuele e l'ultimo prima di lasciare l'Italia. Ogni individuo ha una storia a sé. Ognuno arriva dove può e dove vuole. La fatica comune è nell'accettare di essere unici e quindi, forse, non appartenenti. Non vere donne, non veri uomini. 

Altro. Questo crea smarrimento, dà l'idea di un cupio dissolvi , ma è la realtà, anche biologicamente. E tuttavia, come si può avere un rapporto sano con la realtà se tutto quello che ti viene rimandato da fuori è non-conformità?

Ti viene detto: O sei maschio o sei femmina, scegli! Ti viene detto: Spiegati, perché se non sei conforme, devi spiegarti! Anche a questo aveva già risposto Baldwin: il problema identitario non è nostro, è vostro. Siete confusi, non sapete dove metterci. E se io dicessi semplicemente: Sono ciò che sono?». 

Che lo si ritenga rilevante o meno, Venezia è uno spartiacque nella tua carriera di regista. Aggiunge qualcosa? «Forse toglie. Ho il timore che da oggi in Italia mi arriveranno solo proposte sul tema del genere. Magari non sarò più libero di fare un film, ad esempio, sulla guerra». 

L'hai comunque fatto. «Ho affrontato questa situazione come affronto i film: mi preparo molto, studio studio studio, poi butto tutto all'aria e mi lascio andare. Devo perdere il controllo, perché se mi illudo di controllare la mia opera - e la mia vita - fallisco. Per avere una speranza di rinascere, devi essere disposto a morire a te stesso». 

Un'immagine di te che muori a te stesso, prima di arrivare a questo film. «Una piscina vuota, in inverno, provavo a scrivere e non veniva fuori nulla. Mi sentivo stordito e basta. Era iniziato, per la seconda volta nella mia vita, un percorso di autodistruzione».

Così sono passati undici anni tra Terraferma e L'immensità , un tempo insolitamente lungo per i canoni contemporanei. A qualcuno dev' essere sembrato proprio un cupio dissolvi. 

«C'è stata una coincidenza diabolica di eventi. La fine di un amore importante. Il ritorno nella mia città, Roma, che avevo abbandonato presto. La morte dei miei nonni e abitare nella loro casa mentre venivano portati via i mobili. Poi una fase di nomadismo, su un camper, un altro tentativo di autoeliminazione. L'immensità comincia con Adriana che aspetta un segnale dal cosmo. Anche Nuovomondo comincia con le parole "dammi un segno". Io non ricevevo più segni».

Prima, mentre nuotavamo, Emanuele mi ha detto che questa è stata l'edizione di Venezia più felice a cui abbia partecipato. Perciò gli chiedo ora se la rivelazione che ha fatto abbia disinnescato una volta per tutte la spinta autodistruttiva. Si prende qualche secondo prima di rispondere. 

«Penso di sì. Perché io... perché per la prima volta ho sentito una comunione tra me e i membri della mia famiglia, tra me e gli altri, che...». Un'altra pausa. Nella registrazione si sentono il vento e i versi degli uccelli. Poi: «È stato improvviso, un salto quantico. Mi sono ritrovato in un altrove». 

In effetti in Sala Grande, il giorno della prima con il pubblico, l'emozione aveva una consistenza diversa da quella che si può raggiungere con la visione di un film. Ed è forse il motivo principale che mi ha portato qui, a parlare con lui, e adesso a chiedergli se in fin dei conti l'angoscia di rifiuto non fosse che un mostro di carta. «Di sicuro me la trascinavo da molto tempo. Da quando ha preso forma la mia identità, quando mi percepivo in un modo e il mondo attorno mi percepiva diversamente. Quel dolore è insanabile, lo porterò con me fino alla fine».

E costituisce il motore principale dell'artista? «Se dopo i vent' anni non avessi fatto un passo successivo, verso la rappresentazione cinematografica di quel dolore, probabilmente sarei morto». Talvolta Adriana sfida la morte. Fa calare i bambini più piccoli in un pozzo, coinvolge i fratelli in prove di coraggio. Ma il suo tratto principale è lo sguardo implacabile sulla madre. Uno sguardo amorevole, preoccupato, adorante, talvolta accusatorio, che è il vero cuore del film. 

«Io ero inorridito nell'osservare come la donna che mi aveva dato la vita venisse mortificata di continuo, anche socialmente, vittima di sguardi e di palpate. Ed ero inorridito dal mio nome: Crialese. Perché dovevo avere quel nome, il nome di un uomo in cui non mi identificavo, quando l'unica cosa certa era che mia madre mi aveva dato la vita? Il bambino che era in me voleva essere una proposta alternativa per lei. Una figura maschile diversa, più comprensiva».

Cosa succede ad Adriana dopo la fine del film e prima del momento in cui diventerà sé stessa? «Nella storia che volevo raccontare Adriana era più piccola, aveva dieci anni, un'età in cui c'è ancora il pensiero magico, la possibilità di essere tramutati, rapiti dagli alieni. Poi mi sono trovato davanti Luana Giuliani (l'attrice che la interpreta), il suo corpo da adolescente che diceva: eccomi, sono qui, esci da quello che hai pianificato, perdi il controllo e prendi me. 

L'ho fatto. Ma il film non vuole oltrepassare la soglia dell'infanzia. Perché nell'adolescenza cambia tutto, diventa impossibile non essere espliciti, il pensiero magico finisce. Allora sarebbe stato un film con uno stile diverso, dove il corpo diventa un limite, qualcosa che se ne va per i fatti propri e non si può più controllare, anche se si fa di tutto per. L'immensità , questo film, finisce dove finisce». 

Carlo D’Elia per corriere.it il 13 agosto 2022.

«Se vi avvicinate vi scanno». «Vi ammazzo tutti». Queste le minacce che Elsayed Donia, egiziano di 22 anni, ha rivolto venerdì mattina ai poliziotti intervenuti sull’A1 tra Casalpusterlengo e Lodi prima di essere bloccato con il taser. 

L’uomo, senza fissa dimora, ma in passato domiciliato a Bareggio (Milano), dopo aver trascorso quasi 24 ore piantonato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Codogno, è stato processato sabato mattina per direttissima dal tribunale di Lodi con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, minacce e detenzione di arma. 

Canottiera blu, pantaloncini bianchi, un cerotto ben visibile sul collo per coprire i tagli che si è autoinflitto con il taglierino con una lama lunga otto centimetri, il 22enne, in aula davanti al giudice Eliana Capursi ha voluto parlare, ricostruendo cosa è accaduto venerdì sull’autostrada quando ha scatenato l’inferno lanciando sassi e oggetti su quasi 20 auto in viaggio (14 al momento le denunce presentate dagli automobilisti che hanno subito danni).

Ricostruite dagli inquirenti le ultime ore dell’uomo prima di arrivare in autostrada. Partito con il Frecciarossa Reggio Calabria-Milano dalla stazione di Firenze Santa Maria Novella con in tasca un biglietto regolarmente acquistato, Donia, poco prima delle 9 di venerdì, all’altezza del Lodigiano, ha tirato il freno d’emergenza. Poi si è diretto in mezzo all’Autosole, scatenando il panico. 

 «Mi hanno rubato il telefono alla stazione di Firenze Santa Maria Novella, mi hanno fatto tante cose brutte — ha iniziato a raccontare al giudice il 22enne —. Allora ho deciso di prendere il treno per andare a Milano da mio zio per prendere dei soldi. Non mi va più questa vita di merda. Poi ho fermato il treno e sono sceso. Mi sono diretto in autostrada, volevo un passaggio, ma nessuno si è fermato. Così ho iniziato a lanciare i sassi verso le auto. Cercavo di parlare con qualcuno». E sulle minacce di morte rivolte agli agenti ha replicato: «Volevo solo fare del male a me, non ho mai minacciato i poliziotti».

Il sostituto procuratore Antonella Dipinto ha chiesto la convalida del fermo e la misura cautelare del carcere. «La condotta dell’uomo è stata minacciosa e violenta. Gli agenti sono stati costretti a utilizzare il taser per immobilizzare il 22enne. L’uomo nutre un forte risentimento verso gli altri, come ha lui stesso dichiarato. Può ripetere il gesto. Inoltre il soggetto è senza fissa dimora. Quindi l’unica misura che si ritiene idonea è quella del carcere». Il giudice di Lodi ha accolto la tesi della procura e ha disposto la misura cautelare del carcere. «L’individuo è pericoloso e aggressivo», ha sottolineato il giudice Capursi. Il proseguo del processo è fissato in tribunale a Lodi per il 9 settembre. 

Antonio E. Piedimonte per “La Stampa” il 13 agosto 2022.

La figlia abbraccia la fidanzata e lui cerca di accoltellare entrambe con l'aiuto della moglie. Una serata da incubo quella vissuta da due ragazze gay lo scorso 6 agosto ma resa pubblica solo ieri, un'aggressione che ha rischiato di trasformarsi in tragedia. Immacolata e Francesca, 23 e 39 anni, dopo la violenza subita si sono rifugiate a Crotone, la città natia della più grande. Ancora provate, dicono di non voler parlare con i cronisti, ma attraverso il tramite del consigliere regionale di Europa Verde Francesco Borrelli - che ha divulgato la notizia - rispondono a qualche domanda della Stampa. 

Cominciamo dall'inizio, come è nata la vostra storia d'amore? «Con Francesca ci siamo conosciute su TikTok, grazie ad un'amica, circa un anno fa, e poi...». Dunque una relazione non recente, in qualche modo già metabolizzata, come spiega la reazione di suo padre? «Non so dirle. Di recente eravamo state a Napoli da loro per alcuni giorni e non era successo niente. Non avevo notato nessuna anomalia, nessun atteggiamento violento».

Poi, invece, la situazione è degenerata quando vi siete ritrovati vicino a Salerno, a Castel San Giorgio. «Eravamo nella casa di una parente perché di lì a qualche giorno avrei cominciato lavorare in un negozio della città. Quella sera abbiamo notato che lui appariva alterato dall'alcol. Ci ha chiesto di scendere. A un certo punto ha preso a dire che era pronto a «prendersi 30 anni di carcere (la pena massima dopo l'ergastolo per il reato di omicidio, ndr). Ma conoscendolo, non abbiamo dato peso alle sue parole». E invece le cose hanno preso un'altra piega. 

«A un certo punto - continua la ragazza - ci ha chiesto di uscire per prendere un caffè e ci siamo accorte che aveva un coltello con sé. Abbiamo iniziato ad avere paura. Poi, quando la mia fidanzata mi ha abbracciato, lui ci ha preso da parte ripetendo ancora "voglio fare 30 anni di carcere". Infine ci ha chiesto: "voi volete morire insieme? Allora è arrivato il momento". E ha estratto il coltello». 

E sua madre cosa ha detto o fatto? «Mamma non ha provato a fermare mio padre, anzi. Quando eravamo in strada ha bloccato Francesca per aiutarlo, io le dicevo che si stava accanendo su una donna, ma lei mi ha allontanata». 

Suo padre voleva davvero uccidervi? «All'inizio ho temuto volesse ammazzarci entrambe. Poi credo abbia realizzato che ero suo figlia e si è fermato un attimo, in quel momento, quando ho capito che non mi avrebbe ucciso, mi sono buttata davanti per evitare che accoltellasse Francesca». 

A quel punto le due ragazze, nonostante le botte, sono riuscite a scappare ma l'uomo ha continuato a minacciarle e a dar loro la caccia, fino all'arrivo dei carabinieri, il cui intervento non ha però calmato la furia dell'uomo. Infine immobilizzato, è stato perquisito (nessuna traccia del coltello che avrebbe brandito poco prima) e quindi condotto in caserma, mentre ancora indirizzava insulti alla figlia e alla compagna.

Sotto choc le due ragazze, nonostante le dolorose ferite (compresi due denti rotti) hanno preferito allontanarsi il più possibile e sono andate nella città di Francesca, Crotone, dove i medici dell'ospedale hanno refertato a entrambe diversi traumi, escoriazioni e lievi tagli. A una settimana dai fatti la tensione non si è ancora placata, alla domanda sul futuro Immacolata risponde senza incertezze ma con una nota incrinata nella voce: «Ora siamo qua. Per adesso restiamo in Calabria. Tornare a Napoli? Eh, sì certo, se trovassimo un lavoro...».

Che lavoro? «Io so fare di tutto. Ho lavorato come cameriera, come scaffalista, ho fatto tante cose e la mia ragazza pure». Intanto, il papà violento è ai domiciliari e la Procura di Nocera dovrà fare piena luce su tutto. Il resto è nella solidarietà di tanti e nella immediata disponibilità espressa dall'Arcigay Salerno: «Siamo pronti a dichiararci parte civile in un eventuale processo», ha detto ieri il presidente, Francesco Napoli, offrendo alle due giovani supporto legale e psicologico. Un modo per ricominciare a non aver paura.

"Morite insieme". Accoltella la figlia gay e la compagna. La denuncia della donna e della sua compagna: "Mio padre ci ha inseguite e minacciate, poi ci ha colpite". L'uomo nega, ma le due fidanzate assicurano: "Abbiamo le prove di quello che ha fatto". Marco Leardi il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.  

"Volete morire insieme? È arrivato il momento". Avrebbe puntato il coltello contro la figlia e la compagna di lei, dando sfogo alla violenza. A Salerno, un padre si sarebbe spinto a compiere un gesto folle ed esecrabile motivato dalla sua contrarietà alla relazione omosessuale della figlia. Secondo quanto denunciato dalla stessa donna, il genitore si sarebbe scagliato contro di lei e la sua fidanzata, dicendosi disposto a tutto - anche a "fare 30 anni di carcere" - pur di impedire quella loro storia d'amore. L'episodio è stato portato all'attenzione dei carabinieri, che hanno avviato gli accertamenti. L'uomo infatti nega tutto, ma le due fidanzate insistono con fermezza nella loro denuncia. "Abbiamo le prove di quello che ha fatto", dicono.

Il riprovevole fatto sarebbe accaduto il 6 agosto scorso a Salerno ai danni di Francesca e Immacolata, 39 anni di Crotone la prima, 23 anni della provincia di Napoli la seconda. Le due, secondo quanto emerso, erano arrivate all'inizio del mese nella città campana per lavorare in un negozio e avevano soggiornato a casa di una parente di Immacolata. Lì sarebbe avvenuta l'aggressione a sfondo omofobico. "Entrambe abbiamo riportato qualche ferita, ma siamo riuscite a scappare. Fino alle 5 del mattino però mio padre ci ha inseguite e minacciate. Abbiamo chiamato il 112 e i carabinieri sono intervenuti accompagnandoci nel nostro domicilio di Salerno per fare le valigie e tornare poi a Crotone in sicurezza", ha raccontato Immacolata, la cui denuncia è ora in mano agli investigatori.

Le ragazze al centro della vicenda si sono recate al pronto soccorso dell'ospedale di Crotone e i sanitari hanno refertato sul loro corpo escoriazioni e ferite da arma da taglio. Secondo l'accusa delle due, a infliggere quelle ferite sarebbe stato proprio il padre di Immacolata. Da sempre contrario alla relazione omosessuale della figlia, che ormai prosegue da un anno, l'uomo avrebbe perso il controllo vedendo la donna che abbracciava la propria fidanzata. A quel punto, avrebbe estratto un coltello e lo avrebbe puntato contro Francesca, tra minacce e parole di ira. Nel tentativo di difendere la compagna, Immacolata denuncia di essere stata colpita dal genitore.

"Siamo riuscite a scappare ma lui fino alle 5 del mattino ci ha inseguite e minacciate", ha testimoniato la giovane, aggiungendo anche un altro dettaglio preoccupante: "Mia madre ha assistito all'aggressione e non ha fermato mio padre, anzi ha provato a bloccarci mentre scappavamo". Mentre le forze dell'ordine cercano di accertare i fatti e le responsabilità, quella denuncia suscita indignazione. "Si tratta di una storia folle e agghiacciante, nel 2022 è assurdo rischiare la vita per i propri orientamenti sessuali. Chiediamo alle forze dell'ordine di tutelare queste due ragazze", ha affermato consigliere regionale campano, Francesco Emilio Borrelli, che aveva per primo rilanciato e stigmatizzato l'episodio.

"Mamma sono gay", il coming out vissuto dai genitori. Pasquale Quaranta su La Repubblica il 10 Agosto 2022.  

Storie di madri e padri che scoprono l'orientamento sessuale o l'identità di genere del proprio figlio o figlia. Sono raccolte in un libro dallo psicologo Pier Luigi Gallucci

"Cari mamma e papà, ho una cosa importante da dirvi". Arriva un giorno, nella storia di alcune famiglie, in cui i figli sentono il bisogno di condividere con i propri genitori il fatto di essere gay, lesbica, bisessuale, transgender, queer, non binari (sì, ci sono parole nuove da imparare). Lo fanno per stare meglio con se stessi, per condividere qualcosa di essenziale della propria vita con chi li ha messi al mondo, per evitare delle aspettative, infingimenti, ipocrisie.

Elvira Serra per corriere.it il 21 luglio 2022

Hanno attraversato un ponte di spade tenendosi per mano. Lei in alta uniforme, l’altra lei in abito bianco. Elena Mangialardo, 33 anni di Cefalù, e Claudia De Dilectis, 40 anni romana, si sono sposate lunedì nel Castello Bordonaro, nel Palermitano. Un matrimonio tra due donne che non è certo una novità, come ci hanno ricordato le nozze di Paola Turci e Francesca Pascale a Montalcino. Ma che qualcosa di nuovo lo aveva: l’uniforme storica e il picchetto d’onore per una delle due spose, Elena, che è vicebrigadiere in servizio al Radiomobile Cassia di Roma (Claudia è imprenditrice).

Il rito (e lo scherzo)

Non si tratta del primo matrimonio tra persone dello stesso sesso all’interno dell’Arma: pionieri furono Paolo e Nunzio, due carabinieri che si unirono con il rito civile a Paestum nel 2018 per mano del sindaco di San Rufo, Michele Marmo. Allora, però, gli abiti degli sposi erano stati tradizionali. Questa volta la vicebrigadiera Mangialardo si è presentata in alta uniforme, dopo aver chiesto l’autorizzazione all’Arma senza la quale non avrebbe potuto indossare quegli abiti, destinati esclusivamente ad attività di servizio.

Non è mancato, nemmeno questa volta, il tradizionale colpo di sciabola sul cappello, che «spetta» alla moglie raccogliere, cui segue stoccatina sul didietro mentre lei si inchina (la pratica di recente è stata biasimata dalla matrimonialista casertana Carmen Posillipo). Ma Claudia è stata al gioco, ha raccolto la lucerna, ed è stata sommersa con sua moglie dal lancio del riso tra le risate e gli applausi degli ospiti. 

La serata con i fuochi d’artificio

Poi al ricevimento le due spose si sono presentate entrambe in bianco, lungo, con lo strascico. Per ballare allacciate Io che amo solo te sotto i fuochi d’artificio. «Speriamo che il nostro amore sia solo un monito per tutti ad avere il coraggio di amare», ha detto a Palermo Today Claudia De Dilectis. Niente interviste per la sposa carabiniera: l’Arma, questo, non lo permette.

La diagnosi choc di Freud: "I gay? Paranoici e nevrotici". Daniele Abbiati il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

Hans Blüher, ex membro dei Wandervogel, teorizzava una società basata sull'"inversione". Ma fu respinto.

Tra il 1912 e il 1913, Sigmund Freud aveva tre problemi non da poco. Due erano esterni, pubblici, il terzo era interno, intimo. Partiamo dall'esterno. L'internazionale psicanalitica, nata al Congresso di Norimberga nel marzo del 1910, registrava già le defezioni di grossi calibri, come Adler, Stekel, Bleuler e Jung: una diaspora inaccettabile per il padre-padrone, offeso dal comportamento irriconoscente degli allievi. Inoltre la psicanalisi stessa veniva percepita da molti come una materia da ebrei; dunque, vuoi per bieco razzismo, vuoi per diffidenza nei confronti di una scienza nata in un contesto fortemente connotato dal punto di vista culturale come la Vienna ebraica, la si guardava o con odio o con sospetto. Quanto al problema interno, riguardava ancora Jung. In una lettera di fine '12 a Ernest Jones, suo futuro biografo, Freud parla di sé stesso e lamenta «un pizzico di nevrosi», e dice che nel suo rapporto con Jung «si trova, dietro, una porzione di un sentimento omosessuale incontrollato». Insomma, anche l'uomo che della psicanalisi era il totem, aveva un tabu...

Il caso volle che il 2 maggio 1912 a Freud si rivolgesse per lettera, caldeggiando la pubblicazione di un suo articolo sulla rivista Imago, un tale che avrebbe potuto dare una mano a der Professor per risolvere tutti e tre i suoi problemi. Il berlinese Hans Blüher aveva 24 anni, si era abbeverato alla fonte psicanalitica leggendo con entusiasmo le opere di Freud, era stato fra i primi ad aderire al Wandervogel, il movimento giovanile tedesco di opposizione alla società borghese, qualcosa fra il comunitarismo agreste e lo stile di vita hippy, di cui stava pubblicando una corposa storia in tre volumi, l'ultimo dei quali ne costituiva, per così dire, l'apparato filosofico, incentrato sull'amore virile come fondamento dello Stato, in opposizione alla ginecocrazia, basata sulla famiglia.

«Sarà proprio Freud uno dei primi lettori di questa terza parte, ancora inedita (e si potrebbe perfino ipotizzare che la sua lettura abbia potuto influenzarlo nelle riflessioni di quel tempo, specificamente quella che poi lo condurrà alla stesura di Totem um Tabu)». Lo afferma Gabriele Guerra, docente di Letteratura tedesca alla Sapienza di Roma, nell'introduzione a Sull'inversione. Carteggio su omosessualità, eros e politica (1912-1913), vale a dire lo scambio epistolare fra Blüher e Freud (Castelvecchi, pagg. 98, euro 13,50). Il punto nodale del confronto fra il giovane... studente in Dad e il quasi sessantenne maestro è appunto l'«inversione». «Inversione» che Blüher prima aveva conosciuto nell'ambito della filologia classica (l'eros paidikos, la «pederastia pedagogica» dei filosofi greci), poi aveva vissuto personalmente (con il compagno di wandervogelismo Willie Jansen), infine ora faceva assurgere, come accennato sopra, ad autentica filosofia morale a dispetto della morale accademica da filistei e a filosofia politica a dispetto dei perbenisti. Tuttavia, come spiega benissimo Stefano Franchini nel saggio che precede il carteggio, per quanto Freud accolga con interesse la teoria di Blüher, il pansessualismo psicanalitico del primo non arriva al punto di abbracciare l'omoerotismo del secondo, che Franchini definisce «psicosessuologia sociale dell'età evolutiva».

Anche al netto di una certa spocchia manifestata da Blüher quando parla di «ambiguità» e di «incrinature» nella dottrina freudiana, e anche sorvolando sulla pretesa dello stesso di veder uscire a tempo di record il suo articolo «Niels Lyhne di J.P. Jakobsen e il problema della bisessualità» (con il refuso della «k» al posto della «c»), sull'omosessualità Freud aveva allora, e continuerà ad avere in seguito, una posizione che Blüher non poteva accettare. La illustra chiaramente una lettera del Professor molto posteriore, del 1935 (ma scoperta pochi anni fa), in cui, rivolgendosi a una madre che gli aveva chiesto consigli su come comportarsi con il proprio figlio omosessuale, rispondeva fra l'altro: «L'omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c'è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale».

L'espressione «arresto dello sviluppo sessuale» dice molto. Dice che secondo Freud all'omosessuale manca qualcosa, e questo qualcosa che manca è la causa di una psicopatologia. Laddove, al contrario, per Blüher l'omosessualità del Männerbund, traducibile con «lega maschile» o «lega virile», è una conquista, un'emancipazione. Per questo lui uscì dal Wandervogel quando vide gli omosessuali repressi, che definisce «nevrotici», diventare i persecutori di quelli «sani». Ma Freud, dopo avergli detto che il lato più negativo dell'inversione è «l'impotenza con la donna» (del resto, non poteva aver visto il bellissimo film del '77 Una giornata particolare, in cui il frocio Marcello Mastroianni, durante la visita di Hitler a Mussolini - Roma, 6 maggio 1938 - prima di essere condotto al confino soddisfa appieno anche sessualmente, oltre che con la sensibilità e l'intelligenza, la casalinga disperata - e stupita - Sophia Loren...), rincara la dose: «I Suoi persecutori sono più che altro autori di una rimozione e non si può chiamarli nevrotici, tranne in casi davvero spuri, poiché a loro la rimozione dell'autoriconoscimento riesce anziché fallire. I nevrotici di cui parla Lei sono i perseguitati, i paranoici».

Dopo il breve carteggio, Blüher sparì dalla vita e dalla bibliografia di Freud. Invece il giovane, scrivendo di Freud, oscillò tra ammirazione e disprezzo. Posizioni che comunque non lo resero gradito (tutt'altro) al regime nazionalsocialista in cui, come è noto, abbondavano gli omosessuali «nevrotici» o «autori di una rimozione» che dir si vogliano.

Ma la cosa forse più triste, nella vita di Hans Blüher, è che dovette piegarsi al volere dei più, addirittura sposandosi due volte, nel '17 e nel '22 (dalla seconda moglie ebbe anche due figli). E si dà il caso che da allora abbia iniziato ad assumere posizioni chiaramente antisemite. Del resto, nell'autobiografia Werke und Tage del 1920 affermava: «La lotta contro gli altri è soltanto un teatro di guerra dislocato da dentro a fuori»...

Idahobit. La giornata mondiale contro l’omofobia ci ricorda quanto l’Italia sia ancora indietro. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 17 Maggio 2022.

La celebrazione ricorre il 17 maggio per ricordare il giorno in cui l’Oms ha depennato, nel 1990, l’omosessualità dalla classificazione delle malattie mentali. Nonostante siano passati più di 30 anni i pregiudizi sono ancora tanti ovunque e il nostro Paese non se la cava benissimo.

Ricorre oggi la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia che, anche nota con l’acronimo IDAHOBIT o IDAHOT+, fu ideata nel 2004 dall’attivista martinicano Louis-George Tin e celebrata, la prima volta, il 17 maggio dell’anno successivo. Largamente promossa dalle Nazioni Unite e attualmente osservata in oltre 130 Paesi, essa è stata ufficialmente istituita a livello europeo il 26 aprile 2007 con relativa risoluzione del Parlamento. Risoluzione, questa, che è stata espressamente richiamata dall’oramai ben nota circolare del ministero dell’Istruzione al centro delle ultime polemiche di Fratelli d’Italia e Lega da sempre uniti nell’ossessione antigenderista. Insomma, la solita tiritera della peggiore destra italiana, che si è stracciata le vesti contro uno scarno testo in cui non si fa che invitare docenti e scuole di ogni grado «nell’ambito della propria autonomia didattica ed organizzativa a creare «occasioni di approfondimento con i propri studenti sui temi legati alle discriminazioni, al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali».

Sarebbe perdita di tempo soffermarsi ulteriormente su una tale ridicola crociata, la cui risposta migliore è indubbiamente costituita dall’odierno messaggio del presidente della Repubblica – è dal 2010 che il Capo dello Stato rilascia un’ampia dichiarazione in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia – e dalle innumerevoli veglie di preghiera in luoghi di culto cattolico, non poche delle quali organizzate avranno luogo in serata con la partecipazione di vescovi.

Resta piuttosto da chiedersi perché una tale ricorrenza sia celebrata il 17 maggio e quali sono le finalità a essa sottese. La data odierna fu scelta per commemorare una decisione storica: il 17 maggio 1990 l’Organizzazione mondiale della Sanità stabilì infatti che l’omosessualità fosse definitivamente depennata dalla classificazione delle malattie mentali. La pur tardiva depatologizzazione di quello che, per la prima volta, da un organismo scientifico internazionale fu definito «variante naturale del comportamento umano» e «una caratteristica della personalità», abbatté finalmente una delle prime cause di discriminazione per orientamento sessuale. Si sarebbe invece dovuto attendere il 18 ottobre 2018 per vedere l’Oms cassare l’incongruenza di genere – ossia il disaccordo fra genere assegnato alla nascita e identità di genere, precedentemente indicato come disforia di genere – delle patologie mentali e del comportamento, collocandone la relativa diagnosi in nuovo capitolo dell’ICD-11 (undicesima edizione dell’International Classification of Diseases in vigore dal 1° gennaio scorso) intitolato Condizioni associate alla salute sessuale.

Nonostante l’importante duplice atto dell’Organizzazione mondiale della Sanità l’omo-lesbo-bi-transfobia si presenta pur sempre come radicato pregiudizio ben lontano dall’essere estirpato. Le stesse decisioni dell’Oms sono ancora rigettate da quanti si fanno sostenitori e attuatori delle cosiddette “terapie riparative”, la cui antiscientificità si tinge d’un carattere quasi criminale soprattutto se praticate su minori. Sono atti d’inaudita violenza al pari di quelli che si concretano nelle aggressioni e, in forma estrema, nelle uccisioni. Bisogna poi ricordare che in 67 Paesi i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso sono puniti per legge con pene carcerarie fino all’ergastolo. Numero che, in realtà, va portato a 69 considerando che in Egitto e Iraq sono criminalizzati de facto. In cinque Paesi vige inoltre la pena di morte: mentre in tre di essi (Arabia Saudita, Iran, Yemen) essa è applicata sull’intero territorio statale, negli altri due (Somalia e Nigeria) solo in alcune specifiche province. In altri sei, infine, cioè Afghanistan, Brunei, Emirati Arabi, Mauritania, Pakistan, Qatar ne è contemplata la possibilità anche se da tempo non è irrogata a chi si macchiasse di “sodomia”. Doppia stigmatizzazione e violazione dell’umana dignità è quella, infine, che subiscono le persone transgender, le cui morti per omicidio sono annualmente ricordate il 20 novembre (Transgender Day of Remembrance) e il cui numero, purtroppo, non tende mai a diminuire quanto ad aumentare.

I casi di violenza e discriminazione verso le persone Lgbt+ sono drammatica emergenza anche in Italia, come spesso attestano le cronache e come annualmente ricorda l’Oscad rilevando che circa i casi censiti si tratta sempre di stime per difetto. E questo perché il monitoraggio dei crimini d’odio risente fortemente di due problematiche: l’under-reporting (ossia la mancanza di denunce, che determina una sottostima del fenomeno) e l’under-recording (ovvero il mancato riconoscimento della matrice discriminatoria del reato dal parte delle forze di polizia e degli altri attori del sistema di giustizia penale).

Non meraviglia pertanto che l’ultima Rainbow Map di Ilga-Europe, ufficialmente presentata a Cipro il 13 maggio durante il convegno di IDAHOT+, collochi l’Italia al 33° posto in riferimento alla situazione delle persone Lgbt+ nei 47 Paesi del Consiglio d’Europa in una con Bielorussia e Federazione Russa. Su una scala di riferimento che, basata sull’esame di specifiche leggi e politiche vigenti, va da 0 a 100%, essa si attesta inoltre al 24,76%. È vero che c’è un lieve miglioramento rispetto allo scorso anno ma è indicativo che a direttamente precederla in tale classificazione siano Paesi come l’Ungheria, la Macedonia del Nord, la Repubblica Ceca sopravanzandone di poco altri come Georgia, Lituania, Lettonia.

Rilevando come «l’Italia guadagni pochissimi punti percentuali, attestandosi al 33° posto rispetto al 35° detenuto 2021, e sia così appaiata a Paesi che non hanno una reputazione positiva in materia di legislazioni e politiche in tema di diritti umani delle persone Lgbt+», Triantafillos Loukarelis, coordinatore dell’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), spiega a Linkiesta: «Un posizionamento, il nostro, dunque poco dignitoso. È pur vero che quella percentuale bassa è dovuta soprattutto a un vivere di rendita rispetto alla legislazione sulle persone trans, che risale al 1982, e quella sulle unioni civili del 2016. Ha invece influito positivamente lo stato di buona salute delle associazioni Lgbt+».

Costantino della Gherardesca per “Il Foglio” il 5 maggio 2022.  

Una volta, più di vent’anni fa, Roberto D’Agostino mi prese da parte e mi disse: “Tu sei frocio, non ti mischiare con questi gay”. È una distinzione che mi onora, ma che a molte persone – sia omosessuali dell’ultima ora sia etero genuini – sfugge del tutto.

Qualche giorno fa, per esempio, ho dovuto spiegarla al mio manager, Umberto Chiaramonte. Umberto è sempre pronto a darmi una mano, soprattutto quando si tratta di proteggermi da me stesso, quindi mi è sembrato giusto, per una volta, ricambiargli il favore aiutandolo a identificare i pericolosissimi gay. D’altronde, da vent’anni a questa parte, raggirano agenti e casting director di tutto l’occidente celando la propria mancanza di talento dietro al loro orientamento sessuale. 

Per sfondare le resistenze della sua mente etero, ho dovuto ricorrere a un espediente retorico che un frocio radicale come me teme e rifugge più della monogamia: la metafora calcistica. 

Per essere certo che Umberto cogliesse l’abisso semantico che separa noi froci da loro gay, ho dovuto usare un termine di paragone a lui familiare: il derby Roma-Lazio, una partita nella quale si scontrano due squadre che, agli occhi di chiunque viva a nord di Terni, sono essenzialmente la stessa cosa, ma che per chi è nato fra Formia e Tarquinia sono diverse quanto una poltrona Chippendale e uno sgabello di Kartell.

Mentre un frocio spera di essere trasportato in carrozzina come una Liz Taylor in pieno coma farmacologico, i gay sognano di sposarsi in chiesa per poi portare in passeggino i loro figli biologici battezzati. Un frocio punta a dissipare senza rimorsi capitali propri e altrui. 

Un gay sogna un bravo marito e una prole numerosa, proprio come una quindicenne mennonita. Loro, i gay, ascoltano i podcast di Nicola Lagioia prodotti da Mario Calabresi. Noi, i froci, leggiamo Richard Hawkins che chiacchiera con Dennis Cooper di twink che si segano su OnlyFans. 

Loro collezionano uteri da fecondare. Noi collezioniamo vasi (rigorosamente senza fiori: le presenze floreali comunicano al malcapitato ospite che il tuo vaso non può essere rivenduto sul mercato secondario). 

Loro risparmiano per garantire un futuro ai propri figli. Noi sperperiamo in gioielli convinti che ci faranno rimorchiare i giovani figli di qualcun altro.

Loro vanno in vacanza in un agriturismo a Noto. Noi ci compriamo svariate camice a maniche corte da Prada, così le possiamo mettere alla sauna Babylon di Bangkok. Ma poi passiamo le vacanze a Lugano a farci un qualche interventino.

Loro, quando hanno gente a cena, non sanno dove nascondere i passeggini. Noi, quando alla porta c’è il rider che ci consegna il gelato, non sappiamo dove nascondere i cadaveri delle marchette. 

Loro vanno in palestra. Noi di queste palestre ne abbiamo sentito parlare. Ce le nomina sempre il concierge quando soggiorniamo al Claridge’s. 

Se penso che negli anni Settanta il povero Michel Foucault si era illuso che noi froci avremmo convertito gli etero alla libertà sessuale… Chissà che magone gli prenderebbe se vedesse da che generazione di gay siamo stati soppiantati: un esercito di cripto-etero palestrati con i denti bianchi come le piastrelle di un cesso, tutti eccitati all’idea di sposarsi in una chiesetta di montagna.

Un esteta irredento come Cristopher Gibbs si rivolterebbe nella sua tomba nel cimitero di Tangeri se sapesse che, anziché dilapidare ingenti somme di denaro per arredare divinamente un rudere nel cuore della casba, questi gay scriteriati non fanno altro che mettere da parte i soldi necessari per fecondare una povera ragazzotta di Winnipeg che gli sforni un bambino da sfoggiare in testa ai cortei dei loro gay pride, probabilmente sponsorizzati da una multinazionale che fa biberon ma, per fortuna, anche sigarette. 

Come posso io – brutto, povero e infedele – vivere sereno in un’èra in cui da un onesto omosessuale ci si aspetta che si iscriva a pilates, abbia il sorriso di Bradley Cooper e metta su famiglia? Come posso fiorire e prosperare in una società che da me non si aspetta più commenti tranchant sul look di tizio e caio, ma consigli su come caricare in maniera ottimale la lavastoviglie? 

Nel caso non l’abbiate ancora capito, io sono frocio e il mio manager è della Lazio.

Giuliano Guzzo per “La Verità” il 28 aprile 2022.

Una nuova omofobia s' aggira per l'Occidente e i primi a doversene preoccupare sono, ovviamente, loro, le persone con tendenze omosessuali. A suonare il campanello d'allarme, su Twitter (che, acquisito da Elon Musk, si candida finalmente a divenire piattaforma del pensiero libero), è stata la scrittrice britannica J. K. Rowling. 

L'ideatrice di Harry Potter ha denunciato l'esistenza di un'omofobia 2.0, rilanciando un lungo intervento uscito sulla rivista statunitense Newsweek. Un articolo interessante fin dal suo autore, Ben Appel, intellettuale al di sopra di ogni sospetto in quanto non solo notoriamente omosessuale, ma pure con dei trascorsi da attivista Lgbt in favore delle nozze gay.

Per la sua biografia, Appel è, dunque, qualcuno lontanissimo da qualsiasi istanza discriminatoria. Proprio per questo appare credibile quando scrive che, in America, «c'è una nuova, spaventosa, versione dell'omofobia, mascherata da attivismo Lgbtq» che non solo «non promuove l'uguaglianza» delle persone omosessuali, ma arriva a compromettere, per costoro, la «possibilità di vivere pacificamente nella società, minacciandone la stessa esistenza». 

La minaccia in questione ha un nome ben preciso: teoria queer. «Una oscura disciplina accademica, basata sul contributo dell'intellettuale francese Michel Foucault», spiega Appel, «il quale credeva che la società classifichi le persone, maschi o femmine, eterosessuali o omosessuali, per opprimerle».

A livello pratico la nuova omofobia, continua l'intervento su Newsweek, si traduce in «un'agenda antiliberale che reifica gli stereotipi di genere e minimizza la gravità» delle conseguenze sulla salute del «cambio di sesso». Che ci sono e andrebbero prese sul serio dato che, sottolinea lo scrittore gay, solo «in rari casi» l'iter di riassegnazione sessuale «è il percorso corretto» per giovani con problemi legati dall'identità di genere.

Anche perché, evidenzia Appel, «la non conformità di genere è esperienza molto comune per la maggior parte» delle persone omosessuali.

«Da piccolo mi immaginavo anche io come una bambina», aggiunge, «ma sono cresciuto fino a diventare un uomo equilibrato, di successo, persino mascolino, a suo agio nella propria identità sessuale». 

Viceversa, la nuova omofobia, chiosa Appel, «alla fine cerca di abolire la mia stessa identità di maschio omosessuale perché, senza sesso, non c'è omosessualità». Ne consegue, conclude l'intellettuale gay, come oggi i luoghi più intolleranti per le persone omosessuali siano «le organizzazioni Lgbtq, dove la minaccia potrebbe non essere la violenza fisica ma è comunque una terribile stigmatizzazione».

Naturalmente, che un simile intervento abbia colpito J. K. Rowling non è casuale. Infatti, a prescindere che conosca direttamente o meno Appel, l'autrice britannica è la prima che, da anni, sperimenta sulla sua pelle le conseguenze della «una nuova spaventosa versione dell'omofobia, mascherata da attivismo Lgbtq». Tutto ha avuto inizio nel dicembre 2019, quando Rowling aveva reso noto il suo sostegno a Maya Forstater, una ricercatrice licenziata per aver affermato il primato del sesso biologico.

Da allora, sulla celebre scrittrice si è abbattuta una polemica che, pur conoscendo fasi cicliche, non si è mai esaurita; questo perché anche lei stessa, in realtà, ha più volte contribuito a rinfocolarla. 

Come quando, nel dicembre nello scorso anno, sempre su Twitter, aveva scritto: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza, l'individuo munito di pene che ti ha violentata è una donna». Parole molto nette per denunciare il fenomeno, radicato in ambito angloamericano, degli stupratori che, dichiarandosi donne una volta arrestati, tentano così d'esser indirizzati alle prigioni femminili, notoriamente meno dure, dove, peraltro, c'è il rischio che possano continuare la loro catena di abusi. Tutto ciò a J. K. Rowling, e non solo a lei, evidentemente, appare inaccettabile.

Anche per questo, poche settimane fa, a metà aprile, l'autrice aveva dato notizia di un pranzo tenutosi in un ristorante italiano di Londra insieme a varie femministe «gender critical», come vengono da tempo chiamate le attiviste persuase del primato del sesso biologico sul genere. A quel ritrovo, organizzato in sostegno della campagna «Respect my sex», erano presenti varie personalità, da Kathleen Stock , costretta a lasciare la sua cattedra all'Università del Sussex dopo mesi di minacce a causa delle sue idee, alla già citata Maya Forstater.

Ecco che, allora, la condivisione dell'articolo di Ben Appel sulla nuova omofobia dilagante costituisce, da parte della celebre scrittrice, solo l'ennesima tappa di una battaglia che dura da tempo; e che l'autrice, nonostante le tante minacce ricevute («potrei tappezzarci la casa», aveva reso noto lei stessa lo scorso autunno) non pare intenzionata ad interrompere. Probabilmente perché trattasi di una personalità dalle spalle larghe, dato che si stima abbia un patrimonio da oltre un miliardo di dollari. Eppure c'è da scommettere che, se Rowling resta nella trincea della battaglia culturale, lo faccia anche perché ha capito quale sia la vera posta gioco: la libertà di pensiero. Un valore che non solo non ha una matrice partitica, essendo patrimonio comune, ma che oggi si medita di sottrarre non solo a chi è su posizioni conservatrici, ma perfino a militanti gay come Appel, rei di non essere abbastanza entusiasti, se non scettici, dinanzi alla rivoluzione antropologica in corso.

Luciana Grosso per “L’Espresso” il 16 aprile 2022.

C'è sempre qualcuno che fa qualcosa per primo, da qualche parte. Come minimo c'è qualcuno che paga per primo, per aver fatta questa cosa. 

William Dorsey Swann, ex schiavo nell'America della fine dell'800, è stato uno di questi primi. Forse non è stato il primo uomo a indossare sgargianti vestiti da donna, ballare e cantare fasciato di raso. 

Di certo però è stato il primo a pagare, per averlo fatto. E anche il primo a dire che non era giusto, che nessuno poteva finire in carcere per il modo in cui si vestiva a una festa privata, che nessuno poteva finire in carcere per il modo in cui era, per le cose che amava fare, per le persone che amava, per il modo in cui le amava. 

Ovviamente, per come andavano le cose all'epoca, le sue parole di libertà non trovarono udienza, e il sistema giudiziario americano dell'800 archiviò la faccenda come quella di un immorale, anche se di preciso, non avrebbe saputo dire perché.

 Di certo, per la morale dell'epoca, Swann era un tipo strambo che era bene tenere il più lontano possibile dalla società dei gentiluomini della capitale. Dunque, per la colpa di aver indossato con un po' troppa convinzione abiti da donna, fu condannato a dieci mesi di carcere e fu allontanato da Washington. 

Dopo la sua morte la sua casa fu data alle fiamme, nella speranza, evidentemente inesaudita, che il fuoco potesse mondare il mondo dalla storia e dalle parole dell'uomo che non solo è stato la prima Drag Queen di cui le cronache riportino notizia, ma anche di quello che, a tutti gli effetti, è stato il primo attivista americano per i diritti degli omosessuali.

Eppure, quando William Dorsey Swann è nato, probabilmente nel 1852, in una fattoria del Maryland, il suo destino sembrava già scritto. E non aveva l'aspetto di uno di quelli che finiscono nei libri di storia. Era il quinto di 13 figli, nato da schiavi e, dunque, destinato a essere schiavo per tutta la vita anche lui. A quell'epoca, del resto, se eri nero in America non è che ci fossero molte alternative. 

Poi però quando Swann aveva nove anni, scoppiò la guerra di secessione. Gli Stati Uniti si scissero in due e si diedero battaglia: a nord, la borghesia industriale, che non voleva più schiavi, ma operai salariati per le sue fabbriche che macinavano carbone, acciaio e producevano ricchezza e potenza. A sud, l'aristocrazia delle piantagioni, la cui inamidata ricchezza si fondava ancora sui ritmi lenti ed eterni delle piantagioni di cotone e tabacco dove lavoravano gli schiavi, delle specie di non uomini, considerati alla stregua di zappe parlanti. 

La guerra creò una frattura che ancora oggi non si è del tutto rimarginata e produsse 750 mila morti, prima di concludersi con la resa del sud e, a guardarla in prospettiva, con il cambio del mondo. Nel 1866, a vincere, non furono solo gli antischiavisti di Lincoln, ma anche il modello economico che propugnavano: quello della produzione industriale, delle grandi città, del carbone, del ferro, in cui la schiavitù era bandita.

 Contrariamente a quel che la vita sembrava aver apparecchiato per lui, William si ritrovò a essere un uomo libero. I suoi genitori riuscirono a comprare una piccola fattoria, ma siccome i soldi non bastavano, lo spedirono a cercarsi un lavoro. 

L'ex schiavo William si ingegnò, facendo prima il cameriere in un albergo della piccola Hancock nel Maryland e poi il bidello in un college di Washington, dove, recuperando appunti e libri, imparò da solo a leggere e scrivere.

Ma la storia di Swann non è la storia di una persona cui la vita ha dato in sorte di trovare la libertà. La storia di Swann è la storia di una persona che, ottenuta la sua libertà, ha provato a darla anche agli altri. A quelli come lui. E non stiamo parlando dei neri americani. Stiamo parlando degli omosessuali. O, meglio (perché le categorie non sempre coincidono) degli uomini che amavano indossare abiti femminili: Swann è stata la prima drag queen di cui le cronache riportino traccia e la prima a lottare per il suo diritto a ballare e cantare vestita come più le piaceva.

La storia di William, il bidello ex schiavo, finisce nello stesso momento in cui inizia quella della "Queen of Drag", come amava farsi chiamare. E di preciso lo fa la sera del 12 aprile del 1888. Quella sera, in una casa privata di Washington, c'è una festa. La musica è forte, gli schiamazzi anche. 

Così i vicini chiamano la polizia che prima bussa e poi fa irruzione. Quel che i poliziotti si trovano davanti è una cosa che non sanno bene come interpretare e maneggiare: un paio di dozzine di uomini, per lo più (ma non tutti) neri, truccati e vestiti da donna, con sfarzosi abiti in raso. Alla vista della polizia, gli uomini si fanno prendere dal panico. C'è chi tenta di scappare dalla finestra, chi si strappa frettolosamente vestiti, corsetti, piume, chi si chiude a chiave in un'altra stanza.

Solo uno tra questi uomini non prova a scappare. Anzi: con i suoi vestiti di raso, le sue piume e il suo belletto, si para davanti alle guardie, e dice loro che non avevano nessun diritto di entrare in casa sua e di interrompere la festa del suo trentesimo compleanno.

Quell'uomo era William Dorsey Swann e, manco a dirlo, fu arrestato. La polizia di Washington, in realtà, non sapeva bene dire cosa avesse fatto di male, di quale reato si fosse macchiato. 

Così, nel dubbio, lo arrestarono con la non meglio precisata accusa di essere una «persona sospetta». L'arresto, per quanto insolito, non era gran cosa. Una storia da niente, finita in un trafiletto in cronaca dell'epoca e poi dimenticata, relegata al rango di una delle mille strambierie che succedono nel mondo e di cui non ha parlato più nessuno per quasi 150 anni.

Poi, un giorno del 2004, Channing Joseph, un ragazzo che studiava giornalismo alla Columbia University, scartabellando tra vecchi giornali, si imbattè nelle righe che raccontavano questo surreale arresto. Lesse curioso, pensò di raccontarla lui, ma poi (come spessissimo capita ai giovani giornalisti) scartò l'idea, dicendosi che era impossibile che non se ne fosse già occupato qualcuno di più titolato di lui. 

Così, benché per lui, nero e non binario, fosse anche una faccenda personale, passò ad altro. E ad altro si è dedicato per 16 anni, nei quali ha fatto carriera e lavorato in decine di giornali diversi. Sempre con quella storia in testa e sempre con la certezza che qualcun altro se ne stesse occupando. In realtà non c'era niente. E la storia di Swann era rimasta incastrata in quel trafiletto. Fino a quando Joseph - come dice nel suo sito - ha deciso di diventare «lo storico che stava aspettando» e di mettersi lui sulle tracce di William Swann.

E sono state proprio le ricerche di Joseph a portare alla luce l'ennesima trasformazione di Swann: da schiavo a cittadino, da bidello a regina, da regina a detenuto, da detenuto a attivista, il primo di cui si abbia traccia. Nel 1896, infatti, dopo l'ennesimo ballo e l'ennesimo arresto, Swann fu condannato a dieci mesi di carcere con l'accusa di aver allestito un postribolo. 

Probabilmente non era vero, o lo era solo in parte, ma altrettanto probabilmente quello di gestire una casa di appuntamenti fu l'unico modo che i pubblici ministeri dell'epoca trovarono per tradurre, con le parole, gli strumenti giuridici e culturali dell'epoca, quello che Swann faceva nei suoi balli. 

Nessuno che non vi partecipasse sapeva ben descrivere cosa fossero quelle feste, quindi, nel dubbio, le liquidarono come una faccenda di prostituzione. In realtà, scrive il suo biografo Channing Joseph, quei balli e quelle feste sgargianti, cui partecipavano uomini truccati vestiti in abiti di raso, avevano poco a che fare con il sesso, quanto con la trasgressione e il bisogno di libertà di chi era nato in catene e, per di più, sentiva di avere un'identità di genere per dire la quale non esistevano neppure le parole: «A differenza degli uomini che si incontravano per sesso anonimo nei cespugli del Lafayette Park (appena a nord della Casa Bianca), o degli effeminati artisti maschi e prostitute pagati per divertire e scioccare la folla di ospiti eterosessuali nei "resort delle fate" di New York, gli uomini che partecipavano alle riunioni di Swann sperimentarono qualcosa di inedito. Swann offrì ai suoi soci l'opportunità di trasgredire le norme sociali del diciannovesimo secolo in un ambiente favorevole e principalmente non sessuale. Mentre amavano la musica, la danza, il cibo e le bevande, hanno avuto l'opportunità di approfondire i legami sociali senza aspettarsi il sesso, il bisogno di prostituirsi o la pressione di esibirsi davanti a un pubblico di estranei maliziosi».

Un concetto di libertà che suscita un non raro stigma ancora ai giorni nostri, e che per gli Stati Uniti della fine dell'800 era inconcepibile, nel senso proprio che non si poteva concepire. Al processo, il giudice che condannò Swann commentò di essere dispiaciuto del fatto che non fosse possibile comminare a Swann un pena più severa dei dieci mesi previsti per il reato di cui era accusato, perché il suo desiderio sarebbe stato quello di mandarlo «dove non avrebbe mai più visto la faccia di un uomo e di liberare la città da tutte le altre persone sconvenienti della stessa specie».

Furioso per questa condanna ingiusta, Swann fece richiesta di grazia al presidente Grover Cleveland, diventando il primo americano a intraprendere un'azione legale per difendere la comunità queer. La grazia fu rifiutata, come era ampiamente prevedibile. Da allora in poi le tracce di Swann si perdono e di lui restano solo frammenti. Sappiamo (o per lo meno così ipotizza Channing Joseph che sta lavorando a un libro dedicato alla storia di Swann la cui uscita è prevista nei prossimi mesi) che la salute di Swann fu danneggiata dal carcere e che dopo il 1900 lasciò Washington e tornò ad Hancock dove, forse, continuò ad organizzare i suoi sgargianti balli e a essere e sentirsi regina.

Ma sono per lo più ipotesi. La sua storia, in realtà, si perde e, anzi, è stata quasi cancellata dalla storia. Dimenticata. Ed essere dimenticata non è cosa che si confà a una regina. 

Estratto dell'articolo di Caterina Giusberti per “la Repubblica” l'8 aprile 2022.

L'incontro si intitolava "La gioia dell'amore" e la brochure era con tanti omini Lego colorati a passeggio su un tappeto arcobaleno. Lo scorso weekend, dalle suore Orsoline di Cesenatico, si è tenuto il primo ritiro nazionale per coppie cristiane gay e lesbiche. E per la Chiesa italiana è una piccola rivoluzione. Due giorni di preghiera, amore e omosessualità. C'erano don Maurizio Mattarelli, che sotto le Due Torri segue il gruppo "Coppia e incolla". E don Gabriele Davalli, parroco e responsabile dell'ufficio pastorale della famiglia della diocesi. Oltre a ventitré coppie arrivate da tutta Italia. Chi stava insieme da vent' anni, chi da uno. Chi dalla Chiesa era stato sbattuto fuori. Chi nella vita di prima era una suora. Tra loro si chiamano consorti, perché a differenza di marito e moglie è una parola senza genere.

Annachiara ha 42 anni ed è fidanzata con la compagna da tre anni e mezzo. «Personalmente - racconta - ho dovuto fare un percorso per capire qual era il vero volto di Dio. Se era un Dio che faceva figli sani e figli malati. E perché consentiva ad alcuni di vivere l'amore e ad altri no. Oppure se c'era da interrogarsi su un amore più grande. Per anni ho tagliato pezzi, ho cercato di guarire, mi sono state proposte terapie riparative.

Poi, quando mi sono trovata di fronte al desiderio di morte, mi sono detta che forse il Dio della vita non voleva questo da me. Ma nei testi ufficiali si dice che io, in quanto lesbica, sono "disordinata"». Pietro, 39 anni, invece ha un percorso più sereno. Si unirà civilmente al suo compagno a giugno. «Sono cresciuto in una parrocchia che ancora frequento - dice - ho avuto un'esperienza fortunata. Ma non è scontato trovare il prete che ti ascolta, che mette l'incontro e la persona davanti al pregiudizio».

Non è la prima volta che la Chiesa incontra fedeli Lgbt. Ma una cosa è accogliere i singoli, un'altra fare insieme un percorso, simile ai corsi prematrimoniali. «Le persone sono arrivate da Trieste, Gallarate, Genova, Pescara - spiega don Maurizio - Il sabato abbiamo fatto attività sulla vita di coppia. La domenica la messa. Si è parlato anche dell'accompagnamento nella Chiesa, è ovvio. Del resto il dibattito è aperto: il cardinale tedesco Reinhard Marx ha chiesto di cambiare il catechismo». Lo ha fatto in un'intervista sul settimanale Stern , in cui afferma che «l'omosessualità non è peccato». A Cesenatico però, assicura don Davalli, non si è parlato di dottrina.

La Stonewall italiana. Cinquant’anni fa a Sanremo il movimento di liberazione omosessuale FUORI! ha fatto la storia. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 6 Aprile 2022.

Nel 1972 al teatro del Casinò si è svolto il primo evento in Italia in cui si è parlato apertamente di temi Lgbti. Angelo Pezzana ricorda a Linkiesta come riuscirono a tenere nascosta la cosa fino all’ultimo per evitare censure: «C’eravamo iscritti come congressisti, facendoci passare per psichiatri e pagando anche la relativa quota, fra l’altro salata, per poter seguire i lavori dall’interno» 

Ricorre oggi il 50° anniversario della manifestazione di Sanremo, che il FUORI! inscenò per protestare contro il 1° Congresso internazionale di Sessuologia organizzato dal CIS nel teatro del Casinò dal 5 all’8 aprile 1972. A scatenare l’allora reazione del neonato movimento di liberazione omosessuale, fondato nell’aprile 1971 dal dotto libraio Angelo Pezzana, il tema scelto per l’assise convegnistica: «comportamenti devianti della sessualità umana» con esclusiva attenzione all’omosessualità declinata secondo coordinate patologizzanti e terapeutiche.

Col coinvolgimento di esponenti dei gruppi inglesi e francesi Gay Liberation Front (GLF) e Front homosexuel d’action révolutionnaire (F.H.A.R.), rispettivamente rappresentati da Mario Mieli e Françoise d’Eaubonne, ma anche del belga Mouvement homosexuel d’action révolutionnaire (M.H.A.R) nonché di gruppi olandesi e norvegesi, lo sparuto drappello di attivisti e attiviste – «meno di 20», come specifica a Linkiesta Angelo Pezzana – riuscì a svolgere una tale azione di destabilizzazione e disconoscimento del Congresso quale «manifestazione in sé mistificante e, quindi, repressiva» (così ne parlò Alfredo Cohen) da portare a una chiusura anzitempo dello stesso.

Tra gli altri partecipanti anche Enzo Francone, Emma Allais, Francis Padovani, Manfredi Di Nardo, Mario Franco Tridente, Robert Payen.

Ma di più ampia portata fu l’effetto mediatico della contestazione sarnemese, che si concentrò nella giornata del 5 aprile ed ebbe il suo epilogo – stando almeno alla cronaca che ne fece Cohen sul numero 1 della rivista FUORI! – la mattina del giorno seguente con il mirabile intervento di Françoise d’Eaubonne.

Agli occhi dell’Italia d’inizi anni ’70 il FUORI! si stagliava oramai in quella fisionomia e in quel ruolo di movimento unitario per i diritti di gay e lesbiche, che avrebbe detenuto fino al 1982, anno dello scioglimento. E con esso si mostravano in tutta loro visibilità e dignità esistenziale quelle persone omosessuali, di cui «si parlava unicamente sulle pagine di nera quando avvenivano omicidi o rapine: noi eravamo gli anormali, gli invertiti, gli appartenenti al torbido mondo».

A ricordarlo ancora una volta al nostro giornale lo stesso Pezzana, che dall’alto dei suoi 82 anni è, insieme con Riccardo Rosso, l’unico sopravvissuto della manifestazione sanremese: «Costituito a Torino quasi un anno prima e con una propria sede, il FUORI! aveva già una trentina di punti di riferimento in tutta Italia. Per farci conoscere e documentare la nostra azione politica, avevamo anche avviato nel dicembre ‘71 la nostra rivista col numero 0. Ma ci mancava una visibilità esterna al nostro mondo.

Ecco perché, quando circa un mese prima abbiamo appreso del Congresso d’aprile a Sanremo, ho subito visto in esso l’occasione opportuna per realizzare un qualcosa cosa che potesse coinvolgere i media. Coinvolgerli per far sapere a tutti che da un anno era nato il movimento ma anche per denunciare il tentativo di far passare l’omosessualità come malattia in nome della scienza».

Il fondatore del FUORI! ricorda quindi la preparazione della manifestazione: «Ci confrontammo soprattutto con esponenti del F.H.A.R. Stilammo un invito per i giornalisti e stampammo manifesti, volantini, cartelloni. Il 4 aprile eravamo già a Sanremo. Io, Carlo Sismondi e Françoise d’Eaubonne c’eravamo iscritti come congressisti, facendoci passare per psichiatri e pagando anche la relativa quota, fra l’altro salata, per poter seguire i lavori dall’interno».

La mattina del 5 nel piccolo giardino antistante la Porta Teatro del Casinò ebbe così inizio la protesta. Ai singoli partecipanti del simposio e ai partecipanti furono consegnati i volantini, mentre attivisti e attiviste indossavano cartelli con scritte provocatorie o dannatorie del tipo: Psichiatri, siamo venuti a curarvi; La normalità non esiste; Psichiatri, ficcatevi i vostri elettrodi nei vostri cervelli; 1° e ultimo Congresso di Sessuofobia; Gay is Proud; Psichiatri fascisti, tornate a casa dalle vostre mamme.

La manifestazione in quanto non autorizzata fu successivamente interrotta da agenti della polizia, che, accorsi sul posto dopo essere stati allertati dagli organizzatori del Congresso, sequestrarono i cartelloni e ritirarono i documenti dei partecipanti. Le dichiarazioni di Giacomo Santori, presidente del Cis, su un intervento spontaneo delle forze dell’ordine sarebbero state poi contestate per ben due volte come false in pieno Congresso.

«Avendo saputo dell’arrivo della polizia – continua Pezzana – mi precipitai all’esterno armandomi di cartellone e partecipando alle contestazioni. Quando arrivarono gli agenti e chiesero chi fosse l’organizzatore, tutti indicarono me. Mi invitarono allora a seguirli in commissariato, dove spiegai di non sapere della necessità di un’autorizzazione per tenere una manifestazione: era per noi la prima volta. Passò circa una mezzoretta per espletare le varie formalità. Ma alla fine mai mi sarei aspettato che mi si chiedesse: Lei ha intenzione di tornare alla manifestazione? Possiamo allora darle un passaggio? Cosa che infatti avvenne».

Ricondotto al Casinò insieme con Mauro Molinari, che era stato anche lui portato in commissariato, il libraio sotto mentite spoglie di psichiatra prese nuovamente parte ai lavori. E fu allora che, secondo il suo racconto, sarebbe avvenuto il famoso intervento della poeta ed ecofemminista Françoise d’Eaubonne: «Tenne un discorso mirabile di circa quindici minuti da vera amazzone. Preso il microfono, esordì col dire: Voi non parlate a noi d’omosessualità. Ma dobbiamo insegnare noi a voi chi siamo».

Poi creammo lo scompiglio. Avevamo due scatole di fiale puzzolenti: le abbiamo pestate. A quel punto tutti i presenti si sono turati il naso, lasciando la sala. In ultima analisi, soggiunge Pezzana, «quel giorno ottenemmo l’effetto desiderato: i media nazionali parlarono di noi. Luciano Curino, ad esempio, scrisse un articolo per La Stampa, riportando le mie dichiarazioni con la parola “tabù” omosessualità. C’era anche la Rai: realizzò dei servizi orrendi ma li fece». Il riferimento è all’inchiesta di Gigi Marsico, che sarebbe stata inserita nella puntata speciale di “AZ: un fatto come e perché” mandata in onda il 6 giugno 1972.

Non meraviglia pertanto che il cinquantenario della manifestazione di Sanremo sia al centro di numerosi eventi volti non solo a commemorare ma anche ad attualizzare quanto si ricorda e celebra in un percorso di riflessione condivisa. Mentre si terrà stamani al Casinò il convegno “Sesso e Società. Il mondo Lgbt+ 50 anni dopo” su organizzazione di Agedo nazionale e del Coordinamento Liguria Rainbow, la città del festival della canzone italiana ospiterà invece sabato prossimo il suo primo Pride.

Per non parlare poi della puntata speciale del podcast “Le radici dell’orgoglio”, realizzata da Giorgio Bozzo per l’occasione. Ma un rilievo tutto particolare ha indubbiamente l’incontro di stasera a Torino presso il Circolo dei Lettori: su moderazione di Maurizio Gelatti, co-presidente della Fondazione Sandro Penna/FUORI!, Angelo Pezzana, Elena Loewenthal, Luca Beatrice, Francesco Urbano Ragazzi e Roberto Mastroianni parleranno della protesta del ’72 a partire dal catalogo della mostra del Polo del ‘900 FUORI! 1971-2021 (hopefulmonster) e della raccolta FUORI! 1971-1974 (Nero editions), che riproduce i primi tredici numeri della storica rivista.

Insomma, conclude Pezzana a Linkiesta, «senza tirare in ballo definizioni erronee del tipo “Stonewall italiana”, perché quanto avvenne a Sanremo non evoca neppure lontanamente motivi e aspetti dei moti newyorkesi, è importante ricordare un tale anniversario. Quel giorno, infatti, noi abbiamo fatto la storia, pur senza rendercene conto».

«Diciassette persone, fialette puzzolenti e un atto radicale: così cinquant’anni fa noi omosessuali siamo diventati visibili». «Non ci potevano neanche nominare, eravamo isolati ai margini. E allora abbiamo capito che serviva avere una voce». Nel 1972 la prima protesta della comunità Lgbt in Italia a Sanremo cambia la narrazione sull’intero movimento. Parla Angelo Pezzana, il padre fondatore del FUORI in occasione del LGBT+ History Month. Simone Alliva su L'Espresso il 5 aprile 2022.

È il 5 aprile del 1972 quando il movimento omosessuale italiano inizia la sua rivoluzione. «Noi non lo potevamo neanche immaginare», racconta Angelo Pezzana, 82 anni, padre fondatore del F.U.O.R.I (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), il primo movimento Lgbt italiano nato nel 1970 dentro la sua libreria al centro di Torino.

Pezzana ha il volto severo e iroso, attraversa con la memoria i giorni che dal Casinò di Sanremo lo porteranno lontano: a un passo dalle carceri dell’Unione Sovietica fino al Parlamento italiano. La sua voce corre dentro questo racconto che intreccia le piccole cose quotidiane alla Storia con la lettera maiuscola, e intanto ci interroga su quello che abbiamo saputo decifrare, e imparare, dal tempo che abbiamo attraversato.

È un racconto commovente ed esatto di un secolo in cui “non ci potevamo neanche nominare, la parola più dolce che usava mia madre era ‘invertiti’”. Incontri clandestini nei cinema e nei parchi (“si diceva battere, ma cercavamo l’amore”), uomini ammazzati e dimenticati ai margini. «Avevamo bisogno di uscire Fuori. Nel dicembre del 1971 pubblicammo una rivista, ventimila copie che venivano distribuite nei luoghi a noi concessi: parchi, cinemini, bagni pubblici. Ma serviva qualcosa che ci rendesse visibili su giornali e televisioni. Dovevamo far capire che non eravamo solo i cadaveri ridotti dalle cronache nere agli ambienti particolari».

Sanremo è il palcoscenico del primo atto rivoluzionario italiano, dove un gruppo ridotto di uomini e donne prende azione e parola contro l’omofobia italiana. L’occasione era di quelle che la storia presenta una sola volta nella vita: il primo congresso internazionale di Sessuologia del CIS (Centro Italiano di Sessuologia) dal titolo “Comportamenti devianti della sessualità umana”.

«Di giorno lavoravamo. Eravamo un gruppo di insegnanti, intellettuali, artisti. Poi ci ritrovavamo a casa di qualcuno per fare autocoscienza. Una pratica che avevamo preso in prestito dalle nostre amiche femministe. Loro si riunivano e chiedevano a turno: come vivi la tua femminilità. Noi facevamo lo stesso parlando di omosessualità. Un giorno un amico si alzò e raccontò di questo convegno previsto a Sanremo». Bisogna inquadrare lo spirito del tempo, a un anno dall’uscita di un libro edito da Feltrinelli dal titolo “Diario di un omosessuale”.

Al suo interno Giacomo Dacquino, psichiatra e psicoterapeuta aveva registrato un paio d’anni di terapia con un ragazzo che la famiglia aveva obbligato a “curarsi” da lui. Dacquino aveva promesso “di restituirlo” eterosessuale. “Lo scopo di questo convegno era chiaro: definire l’omosessuale come una malattia, diffondere questo concetto e aumentare un mercato. Per noi non poteva che essere un’occasione per farci sentire”.

Lettere, telefonate e telegrammi. Il F.U.O.R.I entrò in movimento cercando di uscire anche dai confini italiani. «Oggi dicono che a quella manifestazione c’erano persone da tutta Europa. Ma sono balle. Eravamo pochissimi, circa 17, non certo i Pride di oggi. Riuscimmo a contattare il francese FHAR (Fronte omosessuale di azione rivoluzionaria) e il Gay Liberation Front britannico. Per la Francia arrivò Francoise d’Eaubonne con un suo amico gay, da Londra ci mandarono Mario Mieli che viveva lì da qualche anno».

Era un’azione radicale, sottolinea Pezzan ma con una specifica: “Da Partito Radicale, oggi usano la parola radicale per dire estremista. Ma non c’era nulla di estremo in quello che volevamo fare”.

«Ci ritrovammo lì davanti. Io andai da Torino con l’amore della mia vita: Alfredo Cohen, vivevamo insieme dal 1969». I cartelloni al collo con la scritta “Psichiatri siamo qui per curarvi”, “Gli omosessuali escono fuori e con orgoglio”, “Nessuno ha il diritto di reprimere la nostra sessualità”. E volantini da distribuire in un ingresso deserto. Angelo Pezzana vestito di tutto punto, insieme a Carlo Sismondi e Francoise d’Eaubonne entrarono dentro il Congresso pagando una quota e registrandosi come psichiatri: “Volevamo sentire cosa avrebbero detto. Con noi avevamo delle fialette puzzolenti. Ci eravamo detti, se succede qualcosa le rompiamo e disturbiamo il congresso poi a inizio lavori successe qualcosa”. Quel qualcosa era Francoise d’Eaubonne, filosofa francese che avrebbe introdotto da lì a poco il termine “ecofemminismo” sulla scena mondiale. “Si alzò e andò sul palcoscenico. Prese il microfono e sembrava Giovanna D’Arco, un intervento magnifico di ferro e di fuoco: siete qui per parlare di omosessualità, ma siamo noi a dover parlare di noi stessi. Non vi permetteremo più di definirci come malati, siamo qui per impedirvelo”.

Subito dopo ruppero le fialette puzzolenti. La sala iniziò a svuotarsi: “Ci fu un bel trambusto. Ci portammo i fazzoletti alla bocca e ci raggiunse un amico che si trovava fuori per dirci che era arrivata la polizia. Mi preoccupai moltissimo. Non per me, ma per Alfredo. Era una persona molto timida, la timidezza che accompagna sempre i poeti e gli artisti. Con quel cartello sulle spalle rischiava grosso: era un insegnante e non era pensabile un insegnante omosessuale all’epoca. Valeva lo stesso per Carlo Sismondi che era con me dentro la sala. Corsi fuori. Raggiunsi tutti e mi ritrovai le dita che mi indicavano. Il poliziotto aveva chiesto chi fosse l’organizzatore della manifestazione. Indicarono tutti me. Così mi lasciai accompagnare in stazione dalle forze dell’ordine. In tranquillità”.

Con tranquillità Angelo Pezzana sale in macchina, arriva in questura e mette tutto a verbale: siamo omosessuali, non siamo persone malate. Dobbiamo essere visibili. “Non avevamo chiesto il permesso alla questura. Non sapevamo neanche che avremmo dovuto farlo. Ingenui certamente. Ma la polizia non fece troppe storie. Poco dopo mi riaccompagnarono nuovamente al Casinò. Erano arrivati i giornalisti. La Rai, alcuni del Corriere della Sera ma soprattutto l’inviato della Stampa, Luciano Curino, un giornalista molto colto, tra l’altro affezionato cliente della mia libreria a Torino, la Hellas”.

Coincidenze che nel disegno grande della storia non sono mai coincidenze, dice Pezzana, bisogna metterle bene a fuoco per capirle: «Curino mi chiese se fossi anche io uno psichiatra, gli risposi che ero semplicemente omosessuale e gli chiesi di scriverlo. Era titubante. Del resto di noi si parlava solo come pederasti, malati. Non dovetti insistere molto. Gli dissi: ma lo scriva, sarà il primo giornalista italiano a farlo. E fu così. Il giorno dopo La Stampa parlava di noi dandoci dignità».

È una storia, questa, priva di vetrine rotte e marciapiedi divelti. Nessuno scontro, nessuna aggressione. Il F.U.O.R.I cresce nel paese a ritmo costante. «Nella società non era poi così pericoloso esporsi. L’Italia non ha mai promulgato delle leggi dichiaratamente omofobe. Venivamo lasciati ai margini, quello sì. Perciò cercavamo visibilità. Mia madre capì tutto dopo Sanremo. Aveva letto La Stampa, naturalmente. E così scoprì di me e di Alfredo. Le spiegai che convivevo con il mio compagno e che gli volevo bene. Non si usavano termini come amore, fidanzato. Lei pianse, subito. “Allora siete anormali”, ci disse ma senza intento offensivo. Poi anche lei si affezionò molto ad Alfredo. Erano diventati amici».

Una vita senza paura né vergogna: «Solo quando andai a Mosca cinque giorni ebbi davvero paura. Ho perso cinque chili, non riuscivo a mangiare nulla». Era il 1977, Angelo Pezzana volava a Mosca per protestare contro l’incarcerazione del regista Sergei Parajanov, accusato di essere un “degenerato”, come il codice penale sovietico definiva gli omosessuali, condannato a dieci anni.

«Mi iscrissi a un viaggio organizzato dall’agenzia turistica del Pci. Consentiva di andare a Mosca senza problemi. Ma telefonai a un mio ex compagno di liceo, all’epoca inviato per Il Corriere della Sera, Piero Ostellino. Gli raccontai che stavo preparando una protesta, avevo un lenzuolo bianco, un pennarello. Sarei andato a protestare nella piazza Rossa. Finita la telefonata Ostellino esclamò: “Sanno già tutto. Il Kgb controllava i giornalisti e infatti mi fermarono in piazza Rossa».

L’arresto di Pezzana fece il giro del mondo. Una fotoreporter del New York Times riuscì a immortalare il momento e Pezzana era certo: «Mi avrebbero spedito in Siberia. Ricordo ore di interrogatorio. Chiedevano i nomi di altri omosessuali. Mi minacciarono in tutti modi. Ma ero nel partito Radicale. Pannella era pronto a far scoppiare un pandemonio dal Parlamento italiano. Mi dissero: lei rischia di non mettere più piede in Russia. Risposi che avrei messo piede quando la Russia sarebbe diventata socialista. Si arrabbiarono ancora di più mi misero in macchina. Poi in cella. E poi in aeroporto, diretto verso l’Italia».

Era un tempo fuori dai cardini, di lotta per i corpi e visibilità. «Oggi più che grandi rivoluzioni servono grandi leggi. Quella delle unioni civili è servita. Adesso bisogna riformare le adozioni. Bisogna partire da una legge che sia al servizio delle persone e non delle ideologie. Abbiamo inventato i Pride che non si chiamavano Pride, le marce, le proteste. Ma adesso serve andare oltre. Oltre le ideologie e gli schemi rigidi della destra e della sinistra. Per la dignità di tutti».

Paolo Rondelli uno dei nuovi capitani reggenti. La Repubblica l'1 Aprile 2022.

La Repubblica di San Marino è, da oggi, il primo stato al mondo con un Capo di stato appartenente alla comunità Lgbt.

Paolo Rondelli, ex vicepresidente di Arcigay Rimini e primo ambasciatore della Repubblica negli Stati Uniti, è infatti uno dei due nuovi capitani reggenti, capi di stato che non hanno poteri esecutivi e che stanno in carica per sei mesi.

Finora, nel mondo, ci sono stati ministri e capi di governo dichiaratamente gay, ma mai capi di Stato.

Tra le varie cariche ricoperte da Rondelli, laureato in Comunicazione storica all'Università di Bologna, quella di Direttore Generale presso Istituti Culturali della Repubblica di San Marino e presidente del Rotary di San Marino.

"Apprendo - aveva scritto su Facebook pochi giorni fa - che qualcuno ha pruderie scandalistiche sulla mia vita privata e sul mio orientamento sessuale, tanto da segnalare la cosa a testate giornalistiche. Posso tranquillamente affermare pubblicamente che sono iscritto da anni all’Associazione Naturista Emiliano Romagnola, parte della Federazione Naturista Internazionale. Il Naturismo è una filosofia dì vita. A beneficio dì coloro che cercano a tutti i costi lo scandalo nella vita dì personaggi pubblici allego immagini della tessera. Magari potrebbe interessare più la notizia che sarò probabilmente il primo capo dì Stato al mondo appartenente alla comunità LGBT+ (solo ministri e Primi Ministri fino ad ora). E la schiantiamo così…"

Mario Gerevini per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2022.

La notizia ha varcato i confini della Rocca, della Romagna e anche quelli dell'Italia quando perfino l'agenzia France-Presse è uscita con un lancio sulla «minuscule république»: «Saint-Marin se dote d'un chef d'Etat gay, une première mondiale». Paolo Rondelli, 59 anni, ingegnere, storico, scrittore drammaturgo e anche delegato Uefa e commissario Fifa, ex vicepresidente di Arcigay Rimini, è il primo capo di Stato Lgbt+ al mondo.  

Da ieri è infatti uno dei due Capitani reggenti di San Marino. Torna alla sua farmacia, da ex Reggente, Giacomo Simoncini, 27 anni (il più giovane capo di Stato al mondo), di recente accusato di molestie sessuali da una segretaria. «Posso affermare con certezza - ha scritto in una lettera - di non aver fatto nulla di male e di essere pronto a tutelare in ogni sede la mia onorabilità».

La carica dura solo sei mesi (record mondiale) durante i quali la coppia di Reggenti è la massima autorità del Titano. L'altro capo di Stato è il democristiano Oscar Mina. Da ieri godono di uno scudo giudiziario: non sono imputabili né possono fare dichiarazioni. È così fin dal 1243. Finora nel mondo ci sono stati ministri e capi di governo dichiaratamente gay ma mai capi di Stato. «È una giornata storica che mi riempie di gioia e di orgoglio», ha detto la senatrice Monica Cirinnà, responsabile diritti del Pd.

Eppure fino a diciotto anni fa dichiarare l'omosessualità era un reato a San Marino, punibile con il carcere. Rondelli è un dirigente pubblico a capo degli istituti culturali. Fa parte di Rete, un movimento civico al governo con la democrazia cristiana. È un intellettuale con grande capacità di costruire relazioni e ponti politici e culturali. Non a caso nel 2016-2019 è stato ambasciatore all'Unesco e prima, per dieci anni (2007-2016), ambasciatore di San Marino negli Usa. 

Tra le sue innumerevoli esperienze c'è quella di conduttore tv, «drammaturgo, regista teatrale, scrittore», si legge nello stupefacente curriculum. Ha quattro lauree e parla quattro lingue. Manca qualcosa? Il calcio. Eccolo: delegato Uefa (dal 2013) e commissario Fifa (dal 2016). «In tal veste - parole sue - ho gestito come top officer circa 30 incontri di calcio a livello europeo e mondiale per Champions League, Europa League, campionato Europeo, campionato Europeo Under 21, gironi eliminatori del Mondiale Russia 2018». 

Qualche giorno fa Rondelli, che da alcuni anni ha una relazione stabile, ma è assai riservato sulla sfera familiare, nelle fasi in cui si stava delineando la sua candidatura ha scritto un ironico post su Facebook: «Apprendo che qualcuno ha pruderie scandalistiche sulla mia vita privata e sul mio orientamento sessuale... sono iscritto da anni all'Associazione Naturista Emiliano Romagnola... Il naturismo è una filosofia di vita... Magari potrebbe interessare più la notizia che sarò probabilmente il primo capo di Stato al mondo appartenente alla comunità Lgbt+... E la schiantiamo così...». Basta così anche sul curriculum perché ci sarebbero altre 10-15 pagine. Nei prossimi sei mesi l'inarrestabile Rondelli farà «solo» il capo di Stato. E potrà riposarsi un po'. Forse.

Giovanni Berruti per “la Stampa” l'11 marzo 2022.

«My girlfriend's daughter got me pulling my hair out», tradotto non letteralmente: «La figlia della mia fidanzata mi ha fatto disperare». Una frase semplice, non avrebbe nulla di eclatante se non fosse che a pronunciarla è Specter, una poliziotta ciclope che compare nel film del 2020 Onward-Oltre la magia, lungometraggio della Pixar: con queste parole Specter rivela di essere il primo personaggio dichiaratamente omosessuale in un film della Disney (che dal 2006 possiede la Pixar).

Una battuta, un semplice accenno, che però ha fatto scalpore: la parola girlfriend non ha lasciato spazio ad equivoci e così si è arrivati al bando del film in alcuni Paesi, e il divieto è tuttora in corso in Kuwait, Oman, Qatar e Arabia Saudita, mentre in altri paesi del Medio Oriente, come Egitto e Libano, il doppiaggio arabo ha sostituito il termine con «sorella». 

In Russia hanno usato la parola «partner», senza connotazioni di genere. Poco dopo il timido affaccio di Specter, la Pixar ha fatto un deciso passo avanti: il cortometraggio Out (uscito sempre nel 2020) è incentrato sulla lotta interiore di un ragazzo omosessuale, che decide di fare outing con i suoi genitori. Sembrava filare tutto liscio sulla nuova strada dell'inclusività intrapresa da Disney, che ora però si ritrova al centro delle polemiche per una lettera firmata dai dipendenti Lgbtq+ della Pixar che lancia una dura accusa ai dirigenti Disney: «Per ordine dei vertici, quasi ogni momento di aperto affetto gay viene censurato senza tener conto di eventuali proteste da parte dei team creativi e della leadership». 

La polemica nasce giorni fa, con l'approvazione in Florida di una legge controversa che sta creando grandi polemica in Usa. Chi la avversa l'ha ribattezzata «Don't say gay», «Non dire gay», perché impedisce il dibattito su orientamento sessuale o identità di genere dalla scuola materna fino al terzo grado: non il dibattito spontaneo, ma la sua integrazione nei programmi scolastici. E autorizza i genitori a far causa alle scuole in caso di violazioni.

Un terreno oggi scivolosissimo e il mondo Lgbtq+è partito all'attacco: nel dibattito nato dalla sua approvazione (manca solo la firma del governatore della Florida Ron DeSantis), la casa di Topolino ha preso subito le distanze, come sottolineato in un promemoria aziendale inviato ai dipendenti dall'amministratore delegato Bob Chapek, che ha sottolineato che «il grande impatto che l'azienda può avere al fine della creazione di un mondo più inclusivo è proprio attraverso la produzione di contenuti stimolanti».

Una presa di posizione giudicata da molti troppo timida, ed ecco che ieri è spuntata la lettera (non datata), diffusa da Variety: «Siamo delusi, feriti, spaventati e arrabbiati. Speravamo di essere difesi dalla nostra azienda. Alla Pixar abbiamo assistito allo sviluppo di storie bellissime, piene di personaggi diversi, ridotte in briciole a seguito della revisione aziendale da parte di Disney. Anche se la creazione di contenuti Lgbtq+ è la risposta per la correzione della legislazione discriminatoria, finora abbiamo avuto solo impedimenti».

Nella lettera si chiede alla Disney di ritirare il sostegno finanziario a tutti i partiti che hanno appoggiato il disegno di legge e di «prendere una posizione pubblica decisa contro simili progetti di legge in altre parti del Paese». Durante l'ultima assemblea degli azionisti, Chapek ha parlato pubblicamente per la prima volta dell'opposizione della Disney alla legge, annunciando che la società donerà 5 milioni di dollari alla «Human Rights Campaign» e ad altre organizzazioni per i diritti Lgbtq+, e che lui stesso incontrerà il governatore DeSantis per esprimere «la sua preoccupazione».

Ma la donazione è stata respinta dall'associazione: «Non accetteremo questi soldi - hanno detto - fino a quando non vedremo la Disney rafforzare il proprio impegno pubblico e collaborare con i sostenitori Lgbtq+ per garantire che proposte come il disegno di legge "Non Dire Gay" non diventino leggi pericolose». 

Dagotraduzione dal New York Post l'11 marzo 2022.

Jane Campion, la regista di "Power of the Dog" ha raccontato di aver subito una perdita incommensurabile solo pochi mesi prima della sua vittoria all'Oscar nel 1994. La 67enne ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura originale per il suo lavoro nel film drammatico di Holly Hunter "The Piano". 

Tuttavia, solo 10 mesi prima della cerimonia degli Academy Awards, Campion ha perso suo figlio Jasper a solo 2 settimane.

Campion ha parlato con Vanity Fair del suo trauma passato. Ha rivelato che quando ha vinto il trofeo, era di nuovo incinta di sua figlia Alice, che ora ha 27 anni. 

«Semplicemente non riuscivo più a fare niente; Sono rimasta sbalordita dall'esperienza del lutto e non riuscivo proprio a lavorare», ha detto a proposito della perdita del suo bambino.

«È stata l'esperienza più umanizzante che ho avuto», ha aggiunto Campion. «Sei solidale con tutti quelli che esprimono dolore. Non puoi mai distogliere la testa dalla sofferenza perché sai davvero che è un club». 

Ha aggiunto: «Penso che la maggior parte del mio lavoro provenga da quella parte di me in cui non ho il controllo delle emozioni o altro. È una sorta di verità psichica». 

Il New York Times ha riferito nel 1993 che Campion ha accolto Jasper tramite un taglio cesareo d'urgenza. Dopo la nascita, le è stato detto che non sarebbe stato in grado di vivere senza un'incubatrice. È morto quasi due settimane dopo. 

Dopo la sua morte, ha preso una pausa dal lavoro ed è tornata nel 1996 per dirigere "Portrait of a Lady" e ha scritto la sceneggiatura per "Holy Smoke" del 1999. 

La regista neozelandese è in nomination quest'anno per “Power of the Dog” nelle categorie Miglior regista, Miglior sceneggiatura non originale e Miglior film. Il dramma interpretato da Benedict Cumberbatch racconta le vicende di un allevatore gay nel Montana nel 1925. 

Ma il mitico attore di tanti western Sam Elliot ha recentemente cestinato il film e criticato i temi gay nella trama. «Vuoi parlare di quel film di merda?» ha detto il 77enne nel "WTF Podcast" di Marc Maron. Ha poi paragonato il costume di Cumberbatch a quello dei ballerini di Chippendales «che indossano papillon e non molto altro». 

«Ecco come sono tutti questi fottuti cowboy in quel film», ha continuato l'attore di "A Star is Born". «Vanno tutti in giro con gli stivali e senza magliette. Ci sono tutte queste allusioni all'omosessualità in tutto il fottuttissimo film». 

«Dov'è il western in questo western?» ha chiesto Elliott. «Voglio dire, Cumberbatch non si è mai tolto di mezzo i suoi fottuti gambali». 

La star di “Imitation Game” ha risposto alle critiche di Elliot il 7 marzo, dicendo: «Qualcuno si è davvero offeso per il fatto che l'Occidente fosse ritratto in questo modo. Sto cercando di non dire nulla su una reazione molto strana che è accaduta l'altro giorno in un podcast radiofonico qui».

«Se vogliamo capire cosa crea una mascolinità tossica, dobbiamo guardare dentro a personaggi come Phil Burbank per vedere qual è la loro lotta e perché sono lì», ha spiegato. «Altrimenti questa cosa continuerà a ripetersi».

Immagini di liberazione. L’irripetibile attivismo omosessuale degli anni Settanta. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 2 Febbraio 2022.

Le fotografie di Giovanni Rodella testimoniano le prime lotte per i diritti civili delle minoranze LGBTQ+. L'organizzazione intorno a quei movimenti favorirono un'emancipazione che non si è mai più arrestata.  

Ha chiuso i battenti mercoledì 2 febbraio a Firenze la mostra fotografica Come eravamo. La presa di coscienza del movimento omossessuale italiano dal 1970 al 1980, che, inauguratasi l’11 gennaio presso la Galleria Immaginaria in via Guelfa, racconta per immagini anni cruciali e complessi d’un attivismo estroso, sbrigliato, provocatorio nel nome di una radicale liberazione sessuale. Attivismo per l’improrogabile riconoscimento di essere, sempre e ovunque, semplicemente se stessi: lesbiche, gay, bisessuali, trans, nell’orgogliosa riappropriazione d’esistenze negate per millenni.

È quanto documentano gli scatti del fotografo mantovano Giovanni Rodella, che di quella stagione irripetibile fu testimone privilegiato fissandone, attraverso l’obiettivo dell’inseparabile Contax, emozioni, figure, momenti determinati.

Stagione in cui alla fondamentale azione del primo movimento di liberazione omosessuale, avviato nel 1971 da Angelo Pezzana a Torino, subito conosciuto con l’appellativo acronimico F.U.O.R.I. (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) o anche FUORI! e federatosi tre anni dopo al Partito Radicale, s’affiancava sempre più preponderantemente quella di collettivi autonomi, così chiamati perché indipendenti dallo schieramento pannelliano.

La federazione del movimento di Pezzana aveva subito costituito un problema per tante persone di sinistra e aveva portato nel 1975, grazie a Mario Mieli, alla formazione del gruppo Fuori! Autonomo di Milano, alla conseguente uscita dal Fuori! e alla trasformazione, all’inizio del 1976, nei Collettivi omosessuali milanesi o Com.

Di realtà esemplate su quella lombarda ne sarebbero poi nate in tutta Italia proprio nella seconda metà degli anni ‘70: si pensi, ad esempio, al Collettivo frocialista bolognese, ideato dall’esule cileno Samuel Pinto alias Lola Pugnales insieme con Beppe Ramina e poi divenuto Circolo di cultura omosessuale XXVIII giugno, o al Collettivo Narciso (Nuclei armati rivoluzionari comunisti internazionali sovversivi omosessuali), fondato a Roma da Marco Sanna, Enzo Ienna, Porpora Marcasciano. A esprimerne le istanze e documentarne le iniziative era dal 1978 la nuova serie del bollettino Lambda, diretto da Felix Cossolo.

Tutte le immagini sono di Giovanni Rodella

Su quel variegato e complesso universo in costante evoluzione s’affaccia nel 1976 un giovane fotografo omosessuale originario di Castelgoffredo, poi trasferitosi a Firenze negli anni ’80. È appunto Giovanni Rodella, la cui mostra si pone in linea di continuità con quella tenutasi lo scorso anno a Torino in occasione del 50° anniversario di fondazione del FUORI!, che così spiega a Linkiesta le motivazioni a essa sottese: «Ho avuto l’hobby per la fotografia dall’età di 18 anni. Ma solo dopo i 24 ho potuto frequentare un corso biennale a Brescia per la riproduzione audiovisuale di opere del ministero per i Beni culturali e quindi aprire il mio primo studio fotografico a Castiglione delle Stiviere. Sette anni dopo ho scelto di optare per una città come Firenze, dove il mio lavoro si è incentrato su scatti per pubblicazioni turistiche, cataloghi d’arte e brochure. Sentivo però il bisogno di fare anche altro».

Un bisogno che l’autore della rassegna fotografica esplicita subito col dire: «È così che iniziai a realizzare sia nella mia terra d’origine sia a Firenze reportage sul movimento per i diritti civili e Lgbt+, per il quale ho sempre nutrito il tipico sentimento di appartenenza insieme col desiderio d’esprimere la mia identità. Contemporaneamente, però, ho sempre creduto che tutto ciò sarebbe stato nel tempo un’importante testimonianza. È così che a mano a mano s’è arricchito sempre di più il mio archivio fotografico a partire dal 1976. Anno in cui ho eseguito i primi scatti di eventi pubblici, dove la comunità omosessuale poteva esprimersi con le Istituzioni ma soprattutto confrontarsi con gente dalla mentalità aperta al dialogo».

A distanza di decenni quegli eventi continuano ad affascinare e a interpellare gli animi attraverso un dossier fotografico di palpitante interesse, che, anche a mostra conclusa, potrà essere ammirato attraverso l’omonimo catalogo Come eravamo. La presa di coscienza del movimento omossessuale italiano dal 1970 al 1980, edito per i prestigiosi tipi Nardini (Firenze 2021, pp. 128).

A impreziosirlo gli importanti testi didascalici di Ivan Teobaldelli, scrittore, giornalista e cofondatore con Felix Cossolo del celebre «mensile di cultura e informazione gay» Babilonia, che con stile conquidente fornisce particolari importanti sugli scatti della 6° Festa del Proletariato giovanile al Parco Lambro di Milano (1976); dello spettacolo en travesti Pissi Pissi Bao Bao e delle performance teatrali tanto degli Immondella-Elusivi con Mario Mieli quanto del gruppo lesbico Le gaie a Parma (1977); del Gay Greek Camp nell’isola di Paros (1978); del Camping La Comune a Isola di Capo Rizzuto (1979); della 1° Giornata dell’Orgoglio omosessuale a Bologna (1980); del Controcapodanno di Torino a opera del COSR (Collettivo omosessuale sinistra rivoluzionaria) e delle Brigate Saffo (1980-1981); della manifestazione mantovana de FUORI! in occasione del bimillenario della morte di Virgilio (1981); della presentazione del neonato magazine Babilonia a Brescia (1983).

Sempre attuali, quelle foto contengono però in sé anche aspetti di caducità. «Ripercorrendo – si legge nella presentazione al catalogo redatta dallo stesso Rodella – gli scatti eseguiti di quei primi eventi pubblici (che furono anche i primi della mia esperienza professionale) riemerge in me una frenesia liberatoria oggi difficilmente riproponibile. Cambiano i tempi, anche nella documentazione sociale e politica, e cambiano i modi di esprimersi anche nella fotografia».

L’autore spiega poi così «la scelta del nudo: fu una libera espressione, per nulla “forzata”; è tuttora la conferma che non vi dev’essere censura o proibizione di sorta, nonostante qualcuno abbia ancora la convinzione che siano “altri” i problemi di cui la società si deve occupare. C’è sempre “altro” da fare e di cui “occuparsi” per non occuparsi dei diritti. E dunque è necessario qualche volta reagire, con i mezzi che abbiamo a disposizione. Per me, la fotografia».

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” l'11 gennaio 2022.

«Mentre conseguivo il dottorato in matematica all'Università della Pennsylvania, ho incontrato un omosessuale, Dominic Bash, durante una Messa in casa. Mi disse che aveva molti amici gay che avrebbero voluto partecipare, così abbiamo iniziato a tenere liturgie settimanali nel suo appartamento. Era il 1971. Quella prima Messa mi sarà per sempre impressa nell'anima. Era la chiamata di Dio nella mia vita».

Suor Jeannine Gramick, 79 anni, da cinquant'anni si occupa negli Stati Uniti delle persone Lgbt. «Quando gli amici di Dominic arrivarono, sentii la loro apprensione. Ma durante la Messa ho percepito che si sentivano ricongiunti alla Chiesa che amavano. Ho visto la luce nei loro occhi, la felicità sui volti. 

Le lacrime di gioia di un uomo che teneva stretto il suo rosario. Mi disse che anni prima era stato cacciato dal confessionale, il prete gli aveva detto che sarebbe andato all'inferno». Nel 1999 l'ex Sant'Uffizio le vietò di proseguire la sua missione. Il mese scorso Papa Francesco le ha scritto per ringraziarla di tutto ciò che ha fatto e continua a fare.

Suor Jeannine, cosa ha significato questa lettera?

«Mi sono sentita felicissima di ricevere la lettera di Francesco sui miei 50 anni di ministero Lgbt e onorata perché ha paragonato il mio modo di fare allo "stile di Dio" di "vicinanza, compassione e tenerezza". Era scritta a mano, come la lettera di un amico. Ho pensato al Vangelo di Giovanni: "Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamato amici". I cattolici non sono d'accordo su molte questioni, ma Gesù e il Papa ci chiamano a condividere le opinioni e a vivere come una comunità di amici». 

Qual era la situazione quando ha cominciato?

«Per i cattolici Lgbt, negli anni 70 e 80, era di paura e rifiuto. La maggior parte era nascosta e molti, se uscivano allo scoperto, erano respinti dalla famiglia e dalla società. Si sentivano estranei alla Chiesa perché la Chiesa non li voleva. Oggi è molto diverso, centinaia di parrocchie accolgono cattolici lesbiche e gay, ma abbiamo bisogno di molte più parrocchie per essere una Chiesa dove tutti i cattolici emarginati possano sentirsi a proprio agio. Le persone transgender sono ancora trattate con paura e rifiuto». 

Cosa facevate, lei e padre Robert Nugent, quando fondaste «New Ways Ministry»?

«Credevamo che la paura, dovuta alla mancanza di conoscenza della sessualità, fosse la causa del rifiuto delle persone. Così abbiamo condotto workshop educativi in circa tre quarti delle diocesi Usa».

Nel 1999, la Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, vi vietò di continuare, parlando di «ambiguità» ed «errori». Ad «America Magazine», lei ha detto di essersi sentita «scomunicata». Tuttavia, ha aggiunto di Ratzinger: «Penso sia un uomo santo». E allora cosa non fu compreso?

«Non si capì che ci saranno inevitabilmente ambiguità e confusione su questioni complicate. La confusione e persino gli errori sono inevitabili. Ma questo diventa un momento di discussione, non di silenzio. Le nuove idee spesso confondono e causano ansia o paura. Queste reazioni dovrebbero essere discusse in modo che la comunità della Chiesa possa arrivare a una certa comprensione. Se crediamo nella presenza dello Spirito Santo, che condurrà la Chiesa alla pienezza della verità, allora dobbiamo mettere da parte le nostre paure e rimanere nella nostra fede». 

Cosa è cambiato?

«Dal 1999, il mondo e la Chiesa sono cambiati. Non abbiamo più un laicato che si limita a "pagare, pregare e obbedire". Il Popolo di Dio non accetta senza riserve i pronunciamenti dei capi della Chiesa. Anche i vescovi non agiscono più secondo i piani articolati del Papa. Se questo cambiamento non è una vera e propria ribellione, allora è un segno di crescita, la gente comincia a pensare e agire secondo la propria coscienza. Il popolo di Dio sta iniziando a capire che il luogo dell'autorità non risiede nei vescovi e nemmeno nel nostro buon Papa Francesco. Il luogo dell'autorità risiede in tutta la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo. Francesco ce lo ha ricordato: "La Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia... E l'insieme dei fedeli è infallibile in credendo..." . Ma bisogna cambiare di più. La responsabilità è di ogni singolo membro del Corpo di Cristo. La pienezza della Chiesa avverrà solo se non ci mettiamo a tacere. È qui che il Papa ci sta conducendo con dolcezza, convocando i sinodi mondiali. Dopo una discussione mondiale, lo Spirito Santo comincerà a chiarire il giudizio». 

Cosa direbbe a coloro che nella Chiesa la contestano?

«Credo abbiano profonde preoccupazioni e ansie, radicate nella paura del cambiamento. Lo capisco, io stessa trovo difficili molti cambiamenti. Dico loro che siamo veramente uno in ciò che conta. Crediamo tutti nel Vangelo di Gesù che ci ha insegnato a seguire le Beatitudini dell'amore, della cura e della misericordia. Prego perché tutti noi possiamo vedere che queste differenze sono doni che possono arricchire la famiglia umana».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 dicembre 2021. La principale figura religiosa dell'Arabia Saudita ha dichiarato l'omosessualità «uno dei crimini più efferati» e gli omosessuali «una vergogna in questo mondo e nell'altro». Il Gran Mufti Abdulaziz al-Sheikh ha detto che il regno, che ospita i due siti più sacri dell'Islam, rifiuta categoricamente l'omosessualità, anche se Riyadh cerca di trasformare la sua immagine ultraconservatrice in una spinta alla modernizzazione. I suoi commenti sono arrivati dopo che l'ambasciatore dell'Arabia Saudita alle Nazioni Unite, Abdallah al-Mouallimi, ha espresso riserve su una bozza dell'Assemblea generale sulla democrazia che includeva i termini «orientamento sessuale e identità di genere».

L'Arabia Saudita è ampiamente considerata come uno dei peggiori paesi al mondo per i diritti LGBT+, perché punisce spesso le persone per l'omosessualità. 

Il mufti ha affermato che «l'omosessualità è uno dei crimini più efferati», secondo quanto diffuso dall'agenzia di stampa ufficiale saudita. 

Ha detto che gli omosessuali sono «una vergogna in questo mondo e nell'aldilà», aggiungendo: «I diritti umani... sono prima di tutto all'interno della legge di Dio e non nei desideri pervertiti che seminano la corruzione sulla Terra». 

I commenti del gran mufti arrivano dopo che il sovrano de facto dell'Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman, ha cercato di proiettare un'immagine moderata e favorevole agli affari del suo regno austero mentre cerca di aumentare gli investimenti per diversificare l'economia dal petrolio.

Tra i cambiamenti adottati dallo stato del Golfo ci sono la revoca del divieto alla guida per le donne, l’autorizzazione ai concerti misti e ad altri eventi e la diminuzione del potere della polizia religiosa, una volta molto temuta. L'Arabia Saudita ha anche investito molto negli ultimi anni nei settori del turismo, dell'intrattenimento e dello sport, anche se permane una severa repressione del dissenso. 

Ma nonostante i tentativi del Paese di presentare un'immagine riformista, molte cose - tra cui l'omosessualità e l'ateismo - sono illegali in Arabia Saudita. Sebbene le punizioni per le relazioni omosessuali non siano previste dalla legge in Arabia Saudita, sono severamente vietate dalla legge della Sharia, da cui il paese trae il proprio quadro giuridico. 

·        I Transessuali.

I travestiti di Lisetta Carmi per capire che già nel 1965 si andava oltre i vincoli fisici. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022.

La foto, tratta dal libro I travestiti di Lisetta Carmi, ritrae la Cabiria mentre è in strada, tra i vicoli cari a De André. Presto Lisetta capirà, dirà lei stessa, che la nuova sensibilità acquisita non riguarda tanto l’accettazione di uno “stato”, quanto il rifiuto di un “ruolo”

Uno scatto da I travestiti fotografato da Lisetta Carmi nel libro omonimo: è la Cabiria mentre è in strada nella zona di via del Campo, tra i vicoli di Genova amati da De André (foto Lisetta Carmi/Contrasto)

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 16 dicembre. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

«Ma io credo che il giudizio che noi diamo degli altri è quasi sempre un giudizio che noi diamo di noi stessi; ciò che negli altri ci spaventa è in noi ; e difendiamo noi stessi sempre offendendo quella parte di noi che rifiutiamo».

Lisetta Carmi

Ci sono storie che non conosciamo perché è stato difficile registrarle e ancor più difficile è stato trovare la forma per renderle pubbliche. Storie piccole, private, intime che però formano, messe insieme, la storia grande e pubblica dell’evoluzione del nostro sentire, del nostro linguaggio, della nostra apertura a quel che dapprima ci appare scabroso, poi pittoresco, poi altamente simbolico e poi – finalmente! – umano. Profondamente umano, e in quanto umano nostro. Ho tra le mani un libro che ha una storia incredibilmente bella, una storia che sento di voler raccontare. Il suo titolo è I travestiti (Contrasto) e la sua autrice è la fotografa Lisetta Carmi. E anche Lisetta Carmi ha una storia eccezionale, come quelle delle persone che popolano le pagine del suo libro. Per fortuna qui ho un numero di caratteri limitato e questo vi salva dal pericolo spoiler, ma spero davvero che le mie parole riescano a innescare in voi curiosità, perché questo libro vi dirà tantissimo del mondo che ci circonda e, soprattutto, del mondo che abbiamo dentro.

LA FOTOGRAFA GENOVESE CI MOSTRA CHI HA AVUTO IL CORAGGIO DI RACCONTARE LA NECESSITÀ DI ESSERE SÉ STESSO

Lisetta Carmi nasce a Genova nel 1924 da una famiglia di origini ebraiche e quindi vive sulla propria pelle il dramma delle leggi razziali. Si diploma in pianoforte al conservatorio di Milano e diventa concertista. Presto, però, sente il richiamo dell’impegno civile. Nel 1960, il governo Tambroni autorizza a Genova il primo convegno del Msi dopo la guerra e la città insorge; anche Lisetta manifesta la sua aperta volontà di scendere in piazza e, al suo maestro di pianoforte, che le consiglia di preservare le sue mani da pianista – e forse anche la sua serenità di concertista –, dirà: «Se le mie mani sono più importanti dell’umanità, smetto di suonare». Con questo spirito prenderà la macchina fotografica e inizierà a raccontare il mondo attraverso il suo sguardo, che non è uno sguardo convenzionale e che, soprattutto, ci dà oggi la possibilità di comprendere quanto il nostro presente sia in debito con chi, nel passato, ha avuto il coraggio di raccontare la necessità di essere sé stesso.

« OSSERVARE LA CABIRIA E LE ALTRE MI HA FATTO CAPIRE CHE TUTTO CIÒ CHE È MASCHILE PUÒ ESSERE ANCHE FEMMINILE»

«(…) quando Lisetta Carmi inizia a fotografare i “travestiti” di Genova è il 1965. Lei ha il coraggio di fotografarli, loro di farsi fotografare, di esistere alla luce». Tutto avviene per caso, mentre Carmi realizzava un reportage sulle condizioni di lavoro a Genova Porto un amico la invita a una festa di Capodanno. Ma non è una festa come le altre: «Era una festa per uomini che si travestivano da donna e per donne transessuali nella zona di Via del Campo (l’ex ghetto ebraico)». Nasce da quest’incontro qualcosa di speciale. Un legame basato su fiducia e affetto, che porterà Lisetta a frequentare l’ex ghetto per poter raccontare la vita della comunità dei travestiti in ogni momento: «Mentre si vestivano, si truccavano, cucinavano, cenavano insieme, o quando, in alcuni casi, si mantenevano con il lavoro sessuale».

La fotografia che ho scelto questa settimana, tratta dal libro, ritrae la Cabiria mentre è in strada, tra i vicoli cari a De André. Presto Lisetta capirà, come dirà lei stessa, che la nuova sensibilità acquisita non riguarda tanto l’accettazione di uno “stato”, ma il rifiuto di un “ruolo”: «I travestiti (o meglio il mio rapporto coi travestiti)» scriverà «mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza ruolo. Osservare i travestiti mi ha fatto capire che tutto ciò che è maschile può essere anche femminile, e viceversa. Non esistono comportamenti obbligati, se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta fin dall’infanzia». Osservando i volti truccati, le parrucche e gli abiti femminili, capirete che la possibilità di superare il vincolo fisico è sempre esistita attraverso quella che appare la più semplice delle scelte… semplice, non facile. Perché trovare il coraggio per assomigliare a sé stessi è forse l’impresa più difficile che esista. I travestiti viene pubblicato per la prima volta nel 1972. Cinquant’anni fa era un libro coraggioso, oggi è un libro necessario perché è la rappresentazione della libertà che, come diceva Lisetta Carmi «si può fotografare».

Chris Beck, l'ex trans denuncia la "mafia degli ormoni". Mauro Zanon  su Libero Quotidiano il 15 dicembre 2022.

La sua storia era finita in prima pagina su tutti i grandi giornali del progressismo dieci anni fa: Christopher Beck, ex Rambo pluridecorato dei Navy SEAL americani, lasciò il corpo dei Marines nel 2013 dopo 21 annidi servizio e fece coming out come transgender, cambiando nome in Kristin Beck. Il suo volto era ovunque: perché era il primo marine americano a dichiararsi trans. Le sue ultime dichiarazioni, invece, non le troverete facilmente sulla stampa liberal americana e nemmeno su quella europea. Perché ha appena annunciato di aver interrotto la sua transizione sessuale e di aver ripreso il nome di Chris Beck, invitando gli americani ad «aprire gli occhi» su come i servizi che si occupano di transizione di genere in età evolutiva stiano danneggiando i bambini e dunque l'intera società. «Tutto quello che mi è successo negli ultimi dieci anni ha distrutto la mia vita. Non sono una vittima. L'ho fatto io a me stesso, ma sono stato anche aiutato. Mi assumo la piena responsabilità. Sono andato sulla CNN e tutto il resto, ed è per questo che sono qui adesso, sto cercando di correggere il tiro», ha dichiarato Chris Beck in un'intervista all'influencer statunitense Robby Starbuck.

LE CLINICHE HORROR

La sua storia di transizione era balzata al centro delle cronache dopo essere stato intervistato dal celebre anchorman della CNN Anderson Cooper. «Sono stato usato...ero molto ingenuo, stavo davvero male e hanno approfittato di me. Sono stato strumentalizzato in maniera cattiva da molte persone che avevano molte più conoscenze delle mie. Sapevano cosa stavano facendo», dice oggi Chris Beck, sconsolato per essersi fatto manipolare da chi lo vedeva unicamente come uno strumento di propaganda. «Ci sono migliaia di cliniche di genere allestite in tutta l'America. Non appena (i bambini, ndr) entrano e il giorno dopo, sono sotto ormoni. Gli stessi ormoni che usano per la castrazione medica dei pedofili, ora li stanno dando a tredicenni sani. Questo è il motivo per cui sto cercando di dire all'America di svegliarsi», ha aggiunto l'ex Navy SEAL.

Quando ha iniziato la transizione di genere da uomo a donna, ha raccontato Chris Beck, è bastato soltanto un incontro di un'ora per ricevere gli ormoni al Veteran Affairs, ossia il dicastero che si occupa degli ex-combattenti delle forze armate statunitensi. «Sono entrato nell'ufficio di uno psicologo e in un giorno avevo una lettera in mano in cui si diceva che ero transgender. Sono stato autorizzato a ricevere gli ormoni», ha testimoniato l'ex membro delle forze speciali americane, denunciando il sistema perverso e il giro d'affari che ruota attorno a queste cliniche: «Questa è un'industria da miliardi di dollari tra psicologi, interventi chirurgici, ormoni, prodotti chimici e trattamenti di follow-up. Ci sono migliaia di cliniche di genere che stanno spuntando in tutto il nostro Paese». 

LA PROCEDURA EUNUCO

Pochi giorni fa, la Tribune de Genève ha pubblicato un articolo sulle nuove cliniche americane specializzate nella cosiddetta "riassegnazione di genere", che propongono l'emasculazione totale alle persone cosiddette non-binarie (che non si sentono né donna né uomo). Ribattezzato «nullificazione», "eunuch procedure" o "smoothie», l'intervento, secondo quanto riportato dal giornale svizzero, punta a creare una «zona liscia e continua dall'addome all'ano». In altre parole: vengono rimossi interamente gli apparati riproduttivi e lasciati soltanto due orifizi. Il centro MoZaic Care a San Francisco mostra alcune foto, mentre il Post Street Surgery Center, situato nella stessa città, spiega nel dettaglio di cosa si stratta: la nullificazione «permette alle persone di genere non conforme di esteriorizzare ciò che provano interiormente». 

Lui non arretra: “Opporsi alla dittatura del pensiero unico costa caro, ma non mi fermo”. Pillon condannato a pagare 30mila euro, aveva definito gli attivisti lgbt “adescatori di minorenni”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Dicembre 2022

Co-fondatore del Family Day, ex senatore della lega, Simone Pillon era finito a processo dopo aver definito gli attivisti Lgbt dell’associazione Omphalos come degli “adescatori di minorenni”. La sentenza della Corte d’Appello di Firenze ha prosciolto l’imputato, il reato, infatti, si è estinto per intervenuta prescrizione, ma ha riconosciuto nei confronti dell’ex parlamentare il reato di diffamazione, condannandolo al pagamento delle statuizioni civili della sentenza di primo grado e quindi anche alla provvisionale di 30.000 euro riconosciuta dal tribunale di Perugia, nonchè alle spese legali di tutti i gradi di giudizio.

In passato l’ex senatore era stato al centro di polemiche per le sue posizioni sull’affido condiviso. Nel 2014 durante alcuni eventi pubblici aveva definito i membri dell’associazione Omphalos come “adescatori di minorenni” dopo che gli attivisti erano intervenuti in un liceo di Perugia per sensibilizzare sul tema Lgbt. Repubblica ricorda le parole che usò in quella occasione: “Quelli di Arcigay vanno nei licei e spiegano ai vostri figli che per fare l’amore bisogna essere o due maschi o due femmine e non si può fare diversamente e…venite a provare da noi, nel nostro welcome group”, aveva detto in pubblico. Più avanti in aula Pillon si era giustificato parlando del suo discorso come una ironia “sferzante, la satira dei libri di Guareschi, per arrivare al paradosso”.

Dopo la decisione del tribunale dura la risposta di Pillon: “Sono soddisfatto per il proscioglimento in sede penale ma intendo ricorrere nuovamente contro le statuizioni civili per Cassazione e alla Corte Europea se sarà necessario”, ha scritto su Facebook. “La Corte fiorentina ha deciso inspiegabilmente di ignorare le nuove allegazioni istruttorie depositate dai miei difensori, nelle quali uno dei fondatori del movimento LGBT Perugino confermava esplicitamente e nei dettagli più delicati la mia versione dei fatti – ha spiegato nel post – Approfondiremo anche questo aspetto, nelle sedi più opportune. Opporsi alla dittatura del pensiero unico costa caro, ma non ci fermeremo”.

E conclude: “Non possiamo permettere che l’educazione dei nostri figli minorenni sia fatta dalle organizzazioni gay, senza che i genitori siano neppure informati. Porto volentieri questo carico non certo facile, pensando a quelle mamme e a quei papà che non hanno gli strumenti culturali o economici per far fronte alla tracotanza delle ideologie. Non ci fermeranno. Avanti, umilmente al servizio della verità”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

"Farò partorire i trans". Quelle ombre sul business del cambio di sesso. Inchiesta sulla clinica di Belgrado che vuol far partorire chi prima era uomo. Il professor Djordjevic: "Tecnicamente siamo già pronti". Ma ecco cosa c'è dietro. Martina Piumatti il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Manca solo “una terapia immunosoppressiva adeguata”. Poi, anche chi era uomo potrà diventare madre. “Noi, come chirurghi, - ci assicura il professor Miroslav Djordjevic, tra i massimi esperti al mondo delle riassegnazione chirurgica del sesso - abbiamo già sviluppato tutti i dettagli tecnici per un possibile trapianto di ovaie e utero”. Gli specialisti della clinica St Medica di Belgrado, dove opera il luminare che può vantare sei mila interventi di cambio di sesso eseguiti in trent’anni di carriera, stanno lavorando per essere i primi a permettere a un uomo, diventato donna, di concepire e partorire un bambino.

A Belgrado l'hub del cambio di sesso

Dalla rinoplastica alle vene varicose, alla ricostruzione genitale. Alla St Medica di Bulevar Peka Dapčevića 21A, a Belgrado, si fa di tutto. Ma il business della clinica sono gli interventi di riassegnazione chirurgica del sesso, eseguiti dall’equipe del Belgrade Center for genital surgery, capitanata dal professor Miroslav Djordjevic. I pazienti che si sottopongono al cambio di sesso sono tra i 150 e i 200 all’anno. E arrivano un po’ da tutto il mondo. Ungheria, Qatar, Arabia Saudita, Bosnia, Francia, Sudafrica, Singapore, Russia, Iran, Stati Uniti, Australia. E Italia. Circa una ventina su i 60 italiani che annualmente, secondo il censimento della Sicpre (Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica), cambiano sesso si affidano al professor Djordjevic.

Ad attrarli sono le tecniche all’avanguardia, ma soprattutto i prezzi competitivi. Per la transizione chirurgica da uomo a donna si va, in base alla tecnica scelta, da un minimo di 13.400 a un massimo di 20 mila euro. Molto meno rispetto alla Spagna, dove si sfiorano i 30 mila euro, o agli Stati Uniti dove si arriva anche a 50 mila dollari. Al di là delle prospettive low cost, a convincere i pazienti sono anche le tempistiche da record. Se in Thailandia i prezzi possono essere inferiori, bisogna mettere in conto una degenza di circa un mese. Mentre a Belgrado si fa tutto in 10 giorni. E volendo si può scegliere il pacchetto comprensivo di mastoplastica additiva. Servono dai 4 ai 5mila euro in più, “a seconda del tipo di protesi e dell’approccio chirurgico”, si legge nel pdf informativo che ci ha inviato Il portale del turismo medico, una sorta di agenzia viaggi per gli italiani che vogliono cambiare sesso. Il centro del dottor Djordjevic, invece, ci risponde di rilasciare informazioni sui prezzi solo a fronte di una “documentazione clinica” che dimostri un reale interesse a intraprendere il percorso e di una “lettera di raccomandazione di un professionista” che attesti la disforia di genere del paziente.

Dall'aereo al cambio di sesso in sei ore

Alla clinica St Medica di Belgrado, l'intervento di riassegnazione del sesso si risolve in un'unica procedura di sei ore, “salvando il paziente dal trauma di più operazione”. Basta compilare il modulo presente sul sito del Belgrade Center for genital surgery per essere ricontattati entro 7 giorni e pianificare l’operazione in quattro mesi. Una bella differenza rispetto agli almeno due anni previsti nei centri italiani specializzati di Palermo, Pisa, Torino, Trieste e Roma. Per avviare la procedura sono necessari “due lettere di raccomandazione di specialisti psichiatrici che - si legge sul sito - attestino un disturbo dell'identità di genere, per cui un uomo o una donna si identifica meglio con il sesso opposto. Almeno un anno di consulenza e un anno di terapia ormonale”. Poi, un mese prima dell’intervento, per ottenere il via libera definitivo, viene organizzato un colloquio anamnestico via mail con l’anestesista. Ogni paziente potrà rivolgere gratis tutte le domande inerenti l’operazione direttamente al dottor Djordjevic, in presenza a Belgrado, o negli Stati Uniti quando opera al Mount Sinai di New York, oppure via telefono o skype.

L’hub serbo del cambio di sesso organizza anche il trasporto dall’aeroporto alla clinica e mette a disposizione una rete convenzionata di strutture ricettive e di assistenza post operatoria garantita h24 per dieci giorni, tutto compreso nel prezzo (in media sui 15mila euro) a cui però, specificano, va aggiunta “una tassa obbligatoria del 14%”. Al netto delle eventuali complicazioni che “possono includere rimpianto postoperatorio, problemi di funzionalità o infezione”, il centro di eccellenza di Belgrado vanta di applicare le tecniche più avanguardistiche nella riassegnazione chirurgica del sesso. Dalla vaginoplastica ideale "senza cicatrici", con “lunghezza e dilatazione adeguate” e “un risultato estetico soddisfacente” alle sfida più grande per il team del dottor Djordjevic: permettere anche a chi prima era uomo di diventare madre.

Maternità nelle donne trans

Il dottor Mirosoav Djordjevic è convinto sia solo una questione di tempo. Tecnicamente, ci assicura, la sua equipe è pronta. L’obiettivo è creare un database mondiale di candidati transgender, in modo da incrociare i trapianti degli organi in base alla compatibilità, evitando di scartare quelli sani rimossi durante l’intervento. Ma se “il trapianto di utero e di ovaie sono già fattibili”, resta ancora da “sviluppare una terapia immunosopressiva adeguata” e da fissare dei “principi di carattere bioetico”. Poi, anche le donne trans potranno concepire e partorire un bambino. Non è d’accordo Adriana Cordova, direttrice dell'UOC di chirurgia plastica del Paolo Giaccone di Palermo, presidente della Sicpre nel biennio 2017-2019.

“È vero - ci dice la professoressa - il trapianto di utero si è fatto, ma da donna a donna. E non basta trapiantare l’utero per garantire una gravidanza, poi come nascerebbe il bambino, con parto cesareo o dalla neovagina? Sinceramente non so come sia possibile, non siamo maghi che hanno a che fare con stoffe! Che una donna trans possa partorire mi sembra più una millanteria”. Non solo. La direttrice della scuola di specializzazione di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica di Palermo e Catania ricorda come il luminare serbo non sia nuovo a sparate che suscitano dubbi nella comunità scientifica internazionale. “Tempo fa - aggiunge Cordova - era stato molto contestato per la pubblicazione di un cospicuo numero di casi di ricostruzione del pene in pazienti pentiti dopo l’intervento. Tutti perfettamente riusciti, quando invece è noto si tratti di un’operazione che non riesce quasi mai”.

L’agenzia viaggi per il cambio di sesso

Non tutti alla St Medica di Belgrado ci arrivano direttamente. Alcuni italiani che vogliono cambiare sesso si affidano a Il portale del turismo medico: una piattaforma che raccoglie informazioni, stila preventivi, offre la possibilità di richiedere prestiti, assistenza legale, ma soprattutto agevola la prenotazione di voli aerei, alberghi, visite guidate, attività sul posto, interpreti, trasferimenti da e per l'aeroporto e mette in contatto con le “cliniche selezionate da italiani per italiani”. Una sorta di agenzia viaggi della chirurgia estetica facente capo alla TESCORPORATION doo che ha sede legale a Budva, in Montenegro, e nata “per dare - si legge sul sito - la possibilità a chi voglia usufruire di cure o trattamenti all'estero, di ricevere un ventaglio di proposte da cliniche di altissima qualità nel mondo, con proposte vantaggiose”. Dalla liposuzione in Costarica al trapianto di capelli in Croazia, alla gluteoplastica in Repubblica Ceca, fino cambio di sesso. A cui sempre la TESCORPORATION doo ha dedicato un altro portale specifico, Cambio sesso, “su iniziativa di un gruppo di professionisti che da anni supportano pazienti transgender nel loro percorso di transizione”. Sul sito sono indicati i contatti del Consultorio di Salerno per la disforia di genere e dell’endocrinologo, “che mette a disposizione la propria professionalità e competenze al fine di rispondere a tutte le domande e approfondimenti relativi ai trattamenti ormonali di femminilizzazione e mascolinizzazione”. Si accede previo contatto telefonico e le prestazioni sono soggette al pagamento ticket, “così come previsto dalla normativa vigente”.

Segue il nominativo di un avvocato (che contattato, non ci ha risposto) per ottenere l’autorizzazione ad effettuare intervento chirurgico e cambio di nome. E si specifica: “Qualora l’assistito voglia effettuare l’intervento chirurgico presso centri di altissima specializzazione all’estero, l’avvocato si occuperà anche della successiva procedura per ottenere il rimborso dell’80% delle spese sanitarie sostenute”. Peccato che, come confermato sia dallo studio legale Navarro-Uberti che dalla professoressa Adriana Cordova, la legge italiana non garantisca rimborsi per interventi, come il cambio di sesso, che si possono fare gratuitamente anche in Italia tramite il sistema sanitario nazionale. Infine, per l’assistenza logistica di pazienti transgender che vogliano recarsi all’estero per sottoporsi alla riassegnazione chirurgica del sesso si rinvia (tramite apposito link) all’esperienza decennale contraddistinta da “professionalità e umanità” de Il portale del turismo medico. Basta compilare il form inserendo la tipologia di intervento, la città di provenienza e la destinazione che a breve rispondono con pdf informativi, listino prezzi e confronti/consigli per orientarsi nella scelta tra le varie opzioni. Tutto, dall’assistenza nella scelta della clinica all’organizzazione del viaggio e del soggiorno, alla reperibilità continua durante la permanenza all'estero, all’assistenza dal rientro fino alla ripresa definitiva, “è completamente gratuito e - assicurano nel pdf allegato alla mail - non comporta costi aggiuntivi”.

I rischi di operarsi all’estero

A spingere le persone a farsi operare all’estero, sobbarcandosi tutte le spese (che in Italia sono coperte quasi integralmente dal sistema sanitario) sono le tempistiche, lunghissime, delle procedure legali per ottenere l’autorizzazione al cambio di sesso. “In media, - ci dicono dallo studio legale Navarro - Uberti, specializzato nell’assistenza per la rettifica del sesso - a Brescia e a Milano si va da un minimo di un anno e mezzo a un massimo di tre anni, per arrivare fino a cinque anni a Treviso”. Il primo step, come sancito dalla legge 164/1982, è la richiesta presso il tribunale territorialmente competente in base alla residenza di essere autorizzati: uno, alla rettifica dei documenti da maschio a femmina o da femmina a maschio; due, a procedere con un intervento chirurgico per la rimozione dei genitali primari. Prima in Italia bisognava avanzare la richiesta di essere autorizzati all’intervento e poi, una volta eseguito, si seguiva una seconda procedura per la rettifica dei documenti. In seguito alle sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale del 2015 e del 2017, per richiedere al tribunale il cambio di genere anagrafico, non è necessario essersi già sottoposti all’intervento di riassegnazione del sesso.

“Serve però - precisa lo studio legale Navarro-Uberti - che la persona interessata si sia rivolta a un endocrinologo per iniziare i trattamenti ormonali e abbia già ottenuto un cambio d’immagine. E l’endocrinologo prima di procedere richiede una valutazione psichiatrica che accerti la stabilità psicologica. Questi due passaggi sono fondamentali per arrivare alla fase giudiziaria vera e propria”. Se da una parte farsi operare all’estero accorcia i tempi, dall’altra, chiedere la rettifica in Italia a cose fatte potrebbe comportare dei problemi legali non indifferenti. “Oltre a possibili conseguenze penali, - aggiungono gli avvocati - dato che per la legge italiana è necessaria l’autorizzazione del giudice prima di procedere con l’intervento, è comunque sconsigliabile rivolgersi a cliniche straniere. Qualora dal punto di vista medico sorgessero delle complicazioni, come e a quale titolo chiedere i danni?”. Un’eventualità che succede spesso. Moltissimi dei pazienti in lista d’attesa all’ospedale di Palermo - ci dice la specialista in chirurgia plastica e ricostruttiva Adriana Cordova - sono persone che necessitano di correzioni dopo essersi operate all’estero. Si va dalle più semplici, come la riduzione delle grandi labbra, alle più complesse, come interventi per la riapertura della vagina. “La riassegnazione chirurgica del sesso - ammonisce la professoressa - è un intervento rischioso, che richiede una particolare attenzione pre e post operatoria. E il rischio che le cose vadano storte è sempre alto”.

(ANSA il 30 novembre 2022) - E' polemica a Empoli (Firenze) per un progetto promosso in un liceo sul 'Voguing', un tipo di ballo che sarebbe particolarmente legato agli ambienti Lgbtqia+, durante le ore di educazione fisica. Sulla questione, come riportato oggi dai quotidiani locali, la deputata di Fratelli d'Italia Chiara La Porta ha presentato un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, "per valutare se ritenga opportuno che dei ragazzi minorenni a scuola vengano costretti, in orario di lezione, a prendere parte a lezioni di ballo Lgbtqia+", "che prevede sfilate e balli di gruppo invertendo i ruoli maschili e femminili, abiti compresi".

Per Della Porta "è inaccettabile e lesivo delle libertà personali obbligare dei ragazzi minorenni a seguire un corso" del genere, e "questi tipi di progetti non sono altro che l'ennesimo tentativo di inculcare e diffondere la teoria gender nelle scuole". Per la dirigente del liceo, Valeria Alberti, "è stato sollevato un polverone per nulla. E' stata fatta una strumentalizzazione su una nostra eccessiva trasparenza dal momento che nell'oggetto della circolare, in cui si invitavano studenti e docenti alla partecipazione, è stato inserito in una parentesi 'ballo Lgbtqia+'. Questo solo per spiegare in quale comunità nasce il Voguing, visto che non tutti lo sanno".

La preside precisa che "nessuno è stato obbligato a sfilare, a ballare, né a invertire i ruoli. Il progetto prevedeva che ogni alunno portasse da casa un oggetto, un cappello, un paio di occhiali, e camminasse tenendo una postura corretta. A livello educativo si tratta di una attività che aiuta i ragazzi ad accrescere la sicurezza di sé, a prendere coscienza del loro modo di muoversi".

L'idea, aggiunge, "è stata proposta solo con finalità didattiche che si sposavano con i temi dell'inclusione, della riflessione su uno spaccato che fa parte della nostra comunità. La scuola in ogni cosa è super partes, va oltre le questioni politiche e ideologiche. Tutto ciò che viene svolto in classe è per fini educativi".

Empoli, studenti maschi vestiti da ragazze: a scuola i balli travestiti. FdI: «Basta teorie gender». La Porta segnala in Parlamento il Virgilio di Empoli per l’attività col «Voguing», ballo nato nella comunità gay newyorkese. Jacopo Storni su Il Corriere della Sera il 30 Novembre 2022 

Studenti maschi vestiti da ragazze? L’istituto Virgilio di Empoli finisce nel mirino della politica nazionale con la più giovane tra i deputati di Fratelli d’Italia, Chiara La Porta, che ha presentato un’interrogazione al ministero dell’Istruzione. Il progetto ricade nell’ambito delle iniziative per la parità di genere previste dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: per far riflettere i ragazzi sulla parità di genere e il superamento delle disuguaglianze la scuola intende organizzare incontri Voguing, ballo nato nella comunità gay di New York negli anni Settanta, reso famoso da Madonna e ispirato alle modelle sulle copertine di Vogue.

Il Voguing consiste nell’imitare con gesti fluidi le pose plastiche dei modelli delle sfilate e prevede che i maschi utilizzino vestiti da donna. Sono previste ore per classe, una teorica e una pratica, tra novembre e dicembre durante le ore di educazione fisica. «Si comunica — è scritto nella circolare della scuola — che sono aperte le iscrizioni per la partecipazione agli incontri di Voguing». Fratelli d’Italia ha presentato una nota congiunta della deputata toscana Chiara La Porta e del Capogruppo consiliare di Empoli Andrea Poggianti. «Ho chiesto al ministro dell’istruzione — ha detto La Porta — se ritenga opportuno che dei ragazzi minorenni a scuola vengano costretti, in orario di lezione, a prendere parte a lezioni di ballo Lgbtqia+, con cambio di vestiti fra maschi e femmine». Anche se non è previsto alcun obbligo. «È inaccettabile — prosegue — e lesivo delle libertà personali obbligare dei ragazzi minorenni a seguire un corso in cui ci si scambiano ruoli e vestiti e dal quale non sarebbe possibile nemmeno astenersi e che sembra possa influire addirittura sulle valutazioni finali dell’andamento scolastico. È l’ennesimo tentativo di inculcare e diffondere la teoria gender».

«In Honduras mettono al rogo noi persone trans per entrare nelle bande criminali». Simone Alliva su L’Espresso il 25 Novembre 2022.

L’attivista Gabriela Redondo racconta in esclusiva cosa vuol dire vivere nel luogo più pericoloso al mondo. «I miei occhi hanno visto compagne uccise giorno dopo giorno. Chiediamo solo il diritto di essere libere»

Le candele sono accese, le piazze poco illuminate, si recitano i nomi delle vittime di transfobia a voce alta, quelli che le persone trans hanno dato a sé stesse e che non compaiono quasi mai nelle cronache dei giornali. È il 20 novembre del Transgender day of remembrance, in sigla «Tdor», un suono che accosta luci e ombre, che affianca la lucentezza dell’«oro» alla «T» di trans troppo spesso circondata da pregiudizi e stereotipi.

Presente a Roma anche Gabriela Abigail Redondo del Colectivo Unidad Color Rosa dell’Honduras. In Italia grazie al progetto, Centroamerica Diversa, co-finanziato dall’Ue e promosso da Arcigay e Terra Nuova. Un viaggio lungo per l'attivista trans che lavora per i diritti delle persone transgender nel paese più violento del mondo. Lì i tassi di omicidio sono tra i più alti in America centrale e sono dieci volte superiori a quelli negli Stati Uniti. Le prime vittime le persone trans. Come racconta Gabriela a L’Espresso: sulla loro pelle si consuma da anni un rito tragico. «Bisogna ammazzare una persona trans per entrare a far parte delle Maras», cioè le bande criminali che da decenni insanguinano il paese.

Redondo ha condotto azioni di incidenza politica a livello nazionale, in particolar modo riguardo l’uccisione di Vicky Hernandez, sua compagna di lotta, per la quale la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) ha condannato lo stato honduregno.

«Il 28 giugno di 2009 quando c'è stato il colpo di stato, sono aumentati gli assassinii nella nostra comunità trans. Viky è stata tra le prime vittime. Era una volontaria e attivista del collettivo. Era uscita durante il coprifuoco, non lo sapeva. Doveva lavorare in strada, l’unico lavoro che possiamo portare avanti per sopravvivere. Fermata dai militari, le hanno sparato alla testa».

La Cidh ha condannato lo Stato dell’Honduras il 26 marzo 2021. Una sentenza senza precedenti nella quale il paese centroamericano è stato ritenuto responsabile della morte di Hernández. La Corte aveva sottolineato nella sentenza la partecipazione di agenti statali in quell’omicidio, ma soprattutto aveva denunciato il grave contesto di violenza contro le persone Lgbt e in particolare contro le donne trans in situazione di prostituzione. Ma questo non ha fermato la transfobia che dilaga nel paese. Le ultime vittime: Lorenza Hernandez, una giovane donna trans di 23 anni, violentata, lapidata a morte e il suo corpo bruciato da membri di una gang. E ancora Lady Oscar Martinez Salgado di 45 anni, accoltellata a morte numerose volte nella sua casa e il suo corpo bruciato.

In Honduras molte trans subiscono il rogo. Il fuoco altera le fattezze, “purifica” la scena. Chi si vuole liberare di una donna trans dopo averne abusato la brucia, perché non rimanga più nulla. È la barbarie. Gabriela lo racconta: «Come popolazione trans è difficile anche esercitare la prostituzione. Le bande obbligano le donne trans a pagare il pizzo, a vendere droga e spesso anche a consumarla. I miei occhi hanno visto compagne uccise giorno dopo giorno: una ragazza è stata avvolta da una busta di nylon e investita più volte da una macchina, a un’altra hanno amputato i genitali. Sono riti di iniziazione. I nostri corpi sono una porta che permette ai criminali di entrare nelle bande». Non esseri umani ma oggetti: «Lavorare è impossibile, prostituirsi è difficile. Alle persone trans non viene neanche permesso di giocare alla lotteria. Spesso vengono aggredite anche quando vanno a ritirare il premio della lotteria domenicale. Anche quella rendita episodica viene a loro preclusa».

Gli attivisti, come sempre, sono più esposti. Come Melissa Nuñez, uccisa il 18 ottobre a Morocelí, dipartimento El Paraiso, centro urbano a circa 60 km dalla capitale dell’Honduras, Tegucigalpa. L’attivista è stata attaccata da alcune persone incappucciate che le hanno teso un’imboscata mentre stava uscendo di casa. Gli assalitori le hanno sparato diversi colpi da distanza ravvicinata, due dei quali alla testa.

Ha rischiato tante volte anche Gabriela: «Come direttrice del Colectivo Unidad Color Rosa sono sempre esposta mediaticamente, soprattutto nel chiedere giuste indagini e giustizia per la morte delle mie compagne trans. Questa visibilità costa. Subisco continue minacce dalle bande armate e anche dalla stessa polizia. Vengo perseguitata. Ma non posso lasciare il Paese. L’ho fatto durante l’ultima condanna della Corte nei confronti dell’Honduras. Dovete sapere che l’Honduras ha all’attivo dieci sentenze che le impongono di rispettare la legge sul riconoscimento anagrafico delle persone trans. Sono scappata e sono tornata. Non posso lasciare sola la mia famiglia e le mie compagne. L’unica paura che ho sono le ripercussioni sulla loro pelle, invece che sulla mia».

Il lavoro dell’associazione è quello di aiutare le vittime e far sì che lo Stato applichi le leggi: «Xiomara Castro è la prima presidente donna dell’Honduras ed è anche la prima presidente di sinistra da oltre dieci anni: l’ultimo presidente eletto di sinistra era stato suo marito Manuel Zelaya, deposto nel 2009 con un colpo di stato militare. Abbiamo grandi aspettative». Nell’attesa che qualcosa cambi, Gabriela lancia un appello alla comunità mondiale perché resti vigile l’attenzione sul secondo paese più povero delle Americhe.

«L’Honduras è l’inferno per le persone trans. Lo Stato ha chiesto perdono durante un vento a maggio. Ma niente è cambiato. Molte sono costrette a immigrare, chi non può perché non ha i soldi o non è istruita, rimane e subisce. Chiediamo solo il diritto di essere libere. Di vivere dignitosamente. Di non dover affrontare il pericolo di morte ogni volta che ci svegliamo la mattina. E soprattutto il diritto al nostro nome».

Letizia Tortello per “la Stampa” il 22 novembre 2022.

«Ora sì che ha un bel colore, eh? Molto ma mooolto meglio di prima». Il dottor Miroslav Djordjevic si fa largo tra le bende e le garze innervate di sanglue. Spacchetta i lembi di pelle di quella che una vagina fatta e finita ancora non è, ma entro un'ora e mezza vedrà la luce, dopo quattro ore di chirurgia. Da Belgrado vuole fare la storia. Sorride, decisamente compiaciuto, ai quattro assistenti più anestesista che gli stanno attorno come un Presepe della creazione genitale. Il paziente non è più uomo. 

Giace completamente addormentato sotto i nostri occhi, braccia e gambe aperte, il volto coperto dal lenzuolo verde. Si intravedono solo i lunghi capelli rossi raccolti in una coda. È ungherese, ha 22 anni, lo chiameremo Fabian. È arrivato qui nella capitale serba a terminare il suo viaggio per diventare donna, come una liberazione. Il corpo morto, quel che resta dell'organo genitale maschile, è in un cestino, i testicoli sono stati inviati al laboratorio per i controlli di rito.

Al secondo piano dell'ospedale St. Medica, il professor Djordjevic, 57 anni, allievo della rinomata scuola serba del luminare Sava Perovic e oggi uno dei massimi esperti al mondo delle tecniche del cambio di sesso, si giostra tra due sale operatorie. «Non ho un attimo di tregua fino a fine anno. Nel prossimo mese e mezzo opererò 35 pazienti - spiega -. Portiamo a termine tra i 150 e i 200 interventi l'anno». Non l'ha fermato nemmeno il Covid. Nella Serbia autoritaria di Vucic, che voleva vietare addirittura l'Europride e fa i conti con venti di omofobia, la stanza di questo chirurgo ricostruttivo urogenitale sembra uno Stato a parte.

Un'isola dei diritti umani, dove contano solo le persone stese sul lettino. Ungheria, Italia, Qatar, Arabia Saudita, Bosnia, Australia. Dalle sue mani, tra le poche specializzate in falloplastica e metoidioplastica, passano pazienti che arrivano da ovunque. A partire dall'Ue, dai Paesi come il nostro («Ho circa venti richieste l'anno di italiani, dal Nord e dal Sud»), dove i reparti specializzati nella transizione sessuale sono affidabilissimi, ma ancora troppo pochi, le liste d'attesa, le tecniche non tutte sviluppate. O da Stati di religione musulmana, come l'Iran («30-40 casi l'anno, prima delle sanzioni»), dove solo confessare la propria omosessualità è proibito e punito. 

In pochi giorni, Djordjevic volerà nell'altra sede di lavoro: il Mount Sinai di New York, una delle migliori strutture sanitarie del pianeta. «Sto due mesi a Belgrado, uno in America», dice. Ha raggiunto il tetto dei seimila interventi in trent' anni, ma il gradino più alto è ancora da salire: «Oggi è possibile eseguire con successo il trapianto di un utero o di un pene. Ma la mia sfida più grande è arrivare al punto in cui un paziente uomo diventato donna sarà in grado di concepire e partorire un bambino, dopo l'impianto di utero e ovaie. Vogliamo essere noi i primi al mondo».

Un tema medico, ma anche etico, destinato senz' altro ad accendere un dibattito. Le statistiche dicono che un uomo su 30 mila non si sente a proprio agio nel corpo in cui è nato, per le donne, una su 100 mila. Chris, Phd colombiano, spiega i passi preliminari per arrivare al miracolo della scienza: «Il professore vuole creare un database mondiale di candidati transgender, in modo da incrociare i trapianti degli organi in base alla compatibilità e a non buttare via quelli sani dopo l'operazione». 

Come hanno appena fatto col qui presente Fabian a Belgrado, che ormai è una lei.

«Dai ragazzi, cuciamole l'esterno e poi la svegliamo», dice energico Djordjevic. Sono le sei di sera. Riprende in mano bisturi, aspiratori, pinze e gli altri strumenti con cui darà prima di tutto forma al clitoride, creato con un lembo del glande, poi alle labbra della vulva.

Si avvicina a cinque centimetri, si allontana, scruta. Si perde in silenzi profondi, poi riprende a parlare. «Il bello è che questo clitoride sarà completamente sensibile! Nel novanta per cento dei casi, i miei pazienti riescono ad avere una vita sessuale normale e a raggiungere l'orgasmo». 

La Rinascita non è certo una passeggiata. I pazienti vengono tenuti sotto osservazione diversi giorni, una volta tornati a casa resta attivo il contatto col dottore, che spesso si trasforma in profonda amicizia. Ma la strada è talmente tanto tracciata, che sembra pretendere ottimismo: «Un giorno il trapianto di genitali diventerà lo standard, come si fa quello delle mani e del viso». È convinto che non si possano «fermare i diritti, è solo questione di tempo. Né chiese, né governi possono arginare una pulsione naturale».

Nemmeno la politica serba conservatrice a lui ha mai impedito qualcosa. Così come non è entrata nelle sale operatorie di Kiskunhalasi, 100 chilometri a Sud di Budapest, la linea dura anti-Lgbt di Viktor Orban in Ungheria, dove tre anni fa il luminare serbo e la sua prima assistente hanno aperto un reparto di «sex reassignment surgery (SRS)» in un ospedale pubblico. «Il mio è un mestiere incredibilmente emozionale - racconta, con gli occhi accesi -. Aiutiamo i pazienti a sentirsi uguali». 

Ogni storia è un universo di vita, sofferenze, ricerca, riconoscimento, redenzione: «Alcuni mi chiamano padre. Il paziente più anziano? Tra i serbi, un 67enne: era professore all'università. Quando è andato in pensione si è sentito libero di operarsi. Non si doveva più nascondere».

I clienti di oggi, però, sono molto più giovani: hanno poco più di vent' anni. Anche se l'incontro indimenticabile è quello con un trans 74enne americano, che dopo la chirurgia da donna a uomo piangeva come un bambino: «Ha urlato "It' s a boy! - racconta l'anestesista -. Se solo i suoi genitori avessero potuto dirlo alla nascita avrebbe vissuto una storia migliore».

Matteo Cassol per mowmag.com il 22 novembre 2022.

Efe Bal, transessuale più famosa d’Italia, non è una che le mandi a dire. E, anche dopo il caso delle prostitute uccise a Roma, parla senza possibilità di fraintendimento: “Capiterà anche a me – ci dice la transgender di origine turca –. Io so perfettamente che prima o poi qualcuno mi ucciderà”. Ma andiamo con ordine e riavvolgiamo il nastro del colloquio. 

Efe, dopo l’assassinio delle tre prostitute a Roma c’è chi torna a evocare la legalizzazione della prostituzione. Tu eri vicina alla Lega, e Salvini si era detto favorevole, anzi la proposta a un certo punto era uno dei cavalli di battaglia del Carroccio. Che fine ha fatto?

La Lega era l’unico partito che voleva regolarizzare la prostituzione, anche se non so se soltanto per la tassazione o se anche per riconoscere e aiutare le prostitute dal punto di vista dei diritti. Se chiedi le tasse devi dare in cambio un riconoscimento sociale, detrazioni fiscali e una minima pensione per il futuro, anche se è molto complicato perché è difficile che una prostituta possa lavorare 42 anni.

Mi auguro di poterlo fare, ma credo che sia impossibile, tra età, malattie e tutto ciò che circonda il mondo della prostituzione, come abbiamo visto in questi giorni con le prostitute assassinate a Roma. 

Secondo te perché non è stata portata avanti questa proposta della Lega?

Probabilmente perché c’è la Chiesa, per questo non lo fanno. Ma la Chiesa non voleva riconoscere nemmeno i gay: poi un bel giorno è arrivata una lettera da Bruxelles che diceva che l’Italia era molto indietro come diritti civili e dopo due mesi c’è stata la legge sulle unioni civili. Dobbiamo aspettare un’altra lettera del genere da parte di Bruxelles? In altri Paesi dell’Unione Europea come Olanda e Austria la prostituzione è riconosciuta e regolarizzata, come pure, fuori dall’Ue, in Svizzera. 

Mi dispiace, perché io non merito di essere un evasore fiscale, una specie di verme che usa tutti i privilegi, guadagna e vive ma non paga le tasse. Avevo un debito con il Fisco da più di un milione di euro, un debito che non c’è più perché è prescritto. Io avrei voluto pagare le tasse, l’ho detto per anni, ormai non lo dico più perché non mi ascolta nessuno.

Quindi cosa farà il Governo riguardo alla prostituzione? Ammesso che faccia qualcosa, anziché glissare come tutti gli esecutivi precedenti…

Ogni volta che arriva la destra ci sono politici o sindaci che propongono o ordinano le multe per i clienti, a volte anche per le prostitute. Anch’io anni fa ho preso una multa di 450 euro, mai pagata ovviamente: tra l’altro quasi tutte le prostitute risultano nullatenenti. La parola multa non voglio sentirla nemmeno per i clienti: è chiaro che si danneggia anche la prostituta, è come multare chi passa davanti a un negozio. 

O come fare l’area C a Milano: meno traffico vuol dire meno incassi. Se multi i clienti, i clienti non vengono più e noi moriamo di fame. Non vorrei che di nuovo si cercasse di arrivare a questo, anche se non credo che sia l’orientamento della Meloni. Però in genere la mentalità della destra sulla prostituzione è questa: spero che ci lascino fare o, se vogliono tassare le prostitute, in cambio riconoscano il nostro anche come mestiere. In un Paese civile dovrebbe essere così. 

Quindi l’Italia non è un Paese civile?

Io non ce l’ho con gli italiani, io amo gli italiani, sono persone eccezionali. Ce l’ho con i politici e con i media: in un Paese civile non si può parlare di prostitute solo quando ci sono i morti, che sia una prostituta o un cliente, o ci sono degli scandali come quello di Marrazzo o di Lapo Elkann. Bisogna parlarne perché sono più di 9 milioni gli italiani che frequentano il mondo della prostituzione e ci sono più di centomila tra donne, uomini e trans che lavorano in questo mondo. Una cifra enorme. 

Si parla di 170 mila morti di Covid, per i quali mi dispiace, ma i numeri che girano attorno la prostituzione sono molto più grandi. Peraltro io ho continuato a ricevere clienti anche con i vari Dpcm, per cercare di sopravvivere… C’è chi veniva con il cane, chi veniva con il sacchetto del supermercato quando era l’unico modo per uscire di casa. Non ho fatto qui sette, otto, dieci clienti al giorno, ma uno o due a settimana sì, quelli che abitavano attorno a casa mia, in pieno centro di Milano. 

Quindi, quale potrebbe essere la soluzione?

Come in Svizzera, visto che la prostituzione è un lavoro particolare, si dovrebbe andare a versare ogni mese le proprie tasse, con scaglioni per età e per città. Così hai i contributi, il riconoscimento fiscale e il riconoscimento sociale. E se mai ti capita un cliente violento o comunque vuoi fare una denuncia ti devono dare la stessa importanza o considerazione che si darebbe a un altro professionista, come un avvocato, un dottore o un infermiere, senza essere declassato perché sei una succhiacazzi a pagamento. 

In un Paese civile fare questo sarebbe molto semplice, solo che ci sono tante idee: quelli di sinistra pensano che una donna non dovrebbe mai vendere il proprio corpo e che la prostituzione sia indegna, quindi nascondono la questione sotto il tappeto e la ignorano. Quelli di destra invece magari parlano di sfruttamento e di stupro a pagamento, quindi non se ne esce, un po’ come con l’immigrazione. 

È un tunnel senza uscita. Io sono fortunata, ho potuto crearmi una carriera particolare, perché oltre che essere una prostituta sono quasi un personaggio pubblico. Non tutti sono fortunati come me e mi dispiace per loro: nonostante ci siano giornate mondiali per tutti i diritti di noi non ne parla nessuno. E se non ci vogliono riconoscere almeno ci lascino in pace: come si fa a fare contestazioni fiscali a chi nemmeno riconosci? Così lo Stato diventa il più grande mafioso di sempre: ti chiede soldi ma non ti dà diritti. 

Tornando al caso delle prostitute uccise, c’è un problema di sicurezza?

Il pericolo c’è. Prima o poi morirò anch’io. Tra tutti i pazzi che ci sono in giro sicuramente prima o poi capiterà anche a me. Fare la prostituta è come avere una gioielleria: prima o poi provano a rapinarti o altro. Il problema, più che la prostituzione, è la droga. Se sei una prostituta e ti droghi o hai dei clienti drogati, lì rischi dieci volte più di me, che non fumo, non bevo, non mi drogo. Lì poi dicono che non erano in loro, che avevano perso la cognizione e così magari dopo averti fatto a pezzi non vanno neanche in galera. 

E la droga è un problema anche per una persona “normale” che non si prostituisce, vedi il caso Genovese. Se si sommano droga e sesso non sempre va a finire bene, anzi, ci sono mille casi in cui va a finire veramente male. E quando muore una prostituta o una trans non è che le forze dell’ordine o i media danno così tanta importanza alla cosa. Del caso di Roma si parla perché ci sono state tre morti, in poche ore, e tutto attorno agli studi de La7 e della Rai.

Ma di solito quando muore una prostituta molti sono felici e magari dicono “una di meno” (mi ricordo anche l’hashtag). Io so perfettamente che prima o poi qualcuno mi ucciderà: perché drogato, perché le mie idee non gli piacciono, perché mi trova arrogante, perché sono Efe Bal e non mi sopporta, perché mi vede come un peso e una vergogna per la società, una rovinafamiglie. Io me lo sento. Nel 2007 sono già stata aggredita da tre uomini in casa: un cliente più altri due che sono arrivati fingendo di essere la polizia. 

Riesci a capire se qualcuno dei potenziali clienti è pericoloso?

Molti li elimino dopo averli sentiti al telefono, però qualche volta non ci riesco. Nel caso del 2007 il cliente era tranquillo al telefono, poi in tre mi hanno aggredita e derubata. Oggi non aprirei più la porta se qualcuno volesse entrare. Anzi, magari, spruzzerei il peperoncino al cliente e chiamerei io la polizia… Viviamo in un mondo pericoloso. Vediamo come andrà a finire.

Giuliano Guzzo per “La Verità” il 10 novembre 2022.

Una condanna per lui e una per lei, anche se l'imputato era uno. Sembra un assurdo, e sotto molti aspetti probabilmente lo è. Eppure è precisamente questo il caso riferito in questi giorni dalle cronache del Regno Unito rispetto alla singolare vicenda di Alan Morgan, 50 anni, condannato a tre mesi di restrizione della libertà in relazione a quattro diverse denunce, due in relazione a fatti accaduti nel 2021 e due invece avvenuti quest' anno. 

Si è trattato, in tutti i casi, di atti contro l'ordine pubblico, con l'imputato che, nell'ordine, aveva gridato oscenità per strada, insultato la polizia, si era fatto sorprendere con addosso un coltello e aveva pure pronunciato minacce ai danni di una persona. Insomma, non proprio un cittadino modello ed equilibrato dato che nelle denunce si legge come Morgan abbia anche lanciato pizza per strada e urinato in pubblico, oltre che - poc'anzi si diceva - urlato oscenità.

Tuttavia, fin qui la vicenda non ha oggettivamente alcunché di così singolare; un aspetto che la rende unica comunque c'è. Sì, perché nel condannare l'imputato il giudice - come si anticipava all'inizio - si è rivolto contemporaneamente ad Alan Morgan e ad «Alannah». Una cosa in sé incomprensibile, se non fosse che, nella maggior parte degli atti che lo riguardano Morgan egli è indicato con pronomi sia maschili che femminili, alternati a seconda che i reati descritti fossero stati commessi nella sua veste maschile o femminile. Questo perché, come ha riportato Gordon Currie sullo Scottish Sun, in due denunce l'imputato era «indicato come uomo e in due come donna».

Il giudice della Dundee Sheriff Court non ha dunque potuto che adeguarsi emanando un verdetto che comunque, a detta di più di un osservatore, è risultato assai benevolo. Merito forse dell'arringa dell'avvocato Jane Caird, la quale ha affermato che il suo cliente era assai angosciato dalla prospettiva di essere condannata alla detenzione. Sta di fatto che il pronunciamento della corte ha scontentato tanti; tra questi, lo stesso sceriffo, Alistair Carmichael, il quale non ha nascosto il suo malcontento segnalando che alla luce della «combinazione di questi reati» Morgan - che vanta pure una lunga lista di precedenti - avrebbe stato sicuramente meritato «una pena detentiva».

Carcere o meno, e quindi al di là del merito giuridico della vicenda, resta in questo processo palese l'assurdo cui può condurre l'identità di genere; al punto che uno stesso soggetto, a distanza di poco tempo - mesi se non giorni - può risultare ora come imputato ora come imputata. Da questo punto di vista, si può ironizzare su un fatto, e cioè che è meglio che Alan e «Alannah» Morgan non abbia ricevuto una pena detentiva. Sarebbe infatti stato impegnativo un trasferimento costante da un carcere femminile a uno maschile.

Alessia Rabbai per fanpage.it il 10 novembre 2022.

 "Davanti a me ho una donna, non posso riferirmi a te diversamente" sarebbero le parole che un professore del liceo Cavour di Roma lo scorso martedì 8 novembre ha rivolto a un ragazzo transgender. A denunciare l'episodio di transfobia sono stati gli studenti, che hanno raccontato quanto sarebbe accaduto in classe, ribadendo che "la scuola deve essere un luogo sicuro e inclusivo".

 Per venerdì è in programma un'assemblea straordinaria, durante la quale verrà affrontato l'argomento. Non sarebbe la prima volta che accadono abusi nei confronti degli studenti romani, i precedenti nei Licei Plinio Seniore e Pilo Albertelli. "Troppo spesso vediamo nei nostri istituti discriminazioni e violenze – ha commentato Valeria Cigliana, Rete degli Studenti – il 18 Novembre saremo in piazza in tutta Italia".

"Uno studente trans riceve il suo compito in classe, che ha firmato con il nome di elezione, come previsto dall’art. 4 del Regolamento dell’Identità Alias approvata nell’istituto, che permette  di utilizzare il genere che si vuole a scuola – raccontano gli studenti – Il nome è sbarrato, riceve un attacco dal suo docente che dice: ‘Non hai nessun diritto di farlo, non mi interessa il regolamento'. La discussione continua nella vicepresidenza, dove il docente esclama: "Davanti a me ho una donna, non posso riferirmi a te diversamente". 

"La vicepreside ha aiutato e sostenuto lo studente ma – spiegano – non sono state presi provvedimenti disciplinari nei confronti del professore, che si rifiuta di applicare gli strumenti compensativi di diritto dello studente. Ora i compagni di scuola e genitori chiedono alla direzione che vengano prese anche delle misure legali: "Faremo in modo che nessuno possa dover più vivere eventi del genere, nel luogo dove ognuno ed ognuna di noi dovrebbe essere se stesso al 100 per cento".

Sulla vicenda è intervenuto anche il portavoce del Gay Center Pietro Turano: "Esiste una sola legge degli anni '80 in Italia per il riconoscimento dei percorsi di affermazione di genere: una legge ormai superata. Le Carriere Alias, nel deserto normativo italiano, sono uno strumento fondamentale per garantire a migliaia di studenti e studentesse il benessere e rispetto minimi. Quello che è accaduto al Liceo Cavour, già noto per numerosi episodi di omotransfobia, è grave e violento. Gay Help Line ha ricevuto segnalazione e chiederà immediati chiarimenti".

Valentina Lupia per “la Repubblica - ed. Roma” il 10 novembre 2022.

«Mi sento Andrea, ma sul registro c'è ancora scritto Anna e io sono stufo ». È lo sfogo di Andrea G., 19 anni, che non sa più « come farsi ascoltare ». Giocare col suo aspetto, ammette, gli piace: così nel video- appello pubblicato sui social appare coi suoi « nuovi » capelli rossi, ombretto color pesca. 

È stato vittima di bullismo, ma ora non ne può più e per questo si espone. Così come meglio lo fa sentire. All'occupazione del liceo che frequenta, il Cavour, si è parlato di «riprendersi i propri spazi». E così lui è potuto andare al bagno dei maschi: « Vorrei che fosse mio diritto ». E invece, nel terzo scientifico della Capitale secondo Eduscopio della Fondazione Agnelli, la " carriera alias" ancora non è realtà.

Si tratta del «sistema che consente di riconoscere un profilo alternativo e temporaneo a chi è in fase di transizione di genere » , spiega Michele Sicca della Rete degli studenti medi, che ha aiutato i collettivi di diverse scuole ad adottare questo modello, già prassi in alcune scuole del Lazio. 

Mentre qui, ha spiegato in un colloquio del 30 novembre la dirigente ad Andrea, c'è ancora da attendere: « Non sono né a favore né contraria all'istituzione della carriera alias - spiega la dirigente, Claudia Sabatano -. Per me sono sovrani il collegio dei docenti e il consiglio d'istituto, appena rieletto. Non ostacolo la discussione, il mio ruolo è assicurare che tutti si esprimano democraticamente. Se il Cavour è pronto alla carriera alias? Lo è come il resto del mondo: in parte. Alcuni sì, altri meno. Vedremo se il consiglio d'istituto accetterà di sentire il ragazzo in una audizione ».

Cosa pensa di fare nel frattempo?

«La dottoressa del Saifip, Servizio di adeguamento tra identità fisica e identità psichica, che mi segue parlerà con la preside, intanto mi sono messa in contatto col Collettivo Tommie Smith chiedendo aiuto. 

Nel frattempo continuare a firmare le verifiche col nome che mi è stato dato alla nascita e non con quello che mi identifica. Perché si tratta di "un documento ufficiale", mi dicono i docenti. Non tutti: la prof di italiano scrive solo "A." e poi il mio cognome».

Come la fa sentire scrivere Anna e non Andrea?

«È particolarmente faticoso. Se dovessi dirlo con delle immagini, direi che in quel momento sento degli aghi conficcarsi nel corpo, poi una coltellata, mi sa di acido. Però la prof di italiano, almeno lei, scrive "A." e poi il mio cognome». 

Se ci fosse la carriera alias utilizzerebbe il nome che ha scelto.

«La preside mi ha detto che questo è un momento delicato, che ci vorrà del tempo affinché venga approvata e che devo avere pazienza affinché questo sistema capisca la mia situazione. Ma questa situazione è la mia vita, la mia quotidianità».

Qual è stata la reazione dei suoi compagni quando ha fatto coming-out come persona trans?

«La mia è una situazione particolare: sono orfano, dislessico, mi sono trasferito dall'artistico al Cavour, sto sotto ormoni. Non è stato semplice fargli capire cose magari banali per loro ma dolorose per me, ma ora mi sembra siano tutti tranquilli, come anche alcuni prof, anche se non tutti.». 

Perché ha aspettato l'occupazione per andare nel bagno dei maschi? Non avrebbe potuto farlo anche prima, sperando che i suoi compagni capissero?

«Mi sono ripreso i miei spazi. Sembra banale ma per le persone trans è particolarmente significativo. Lo ammetto: non ci sono mai andato perché ho paura di incontrare persone sbagliate». 

È mai stato vittima di bullismo?

 «Sì, fuori. Sputi, "frocio". E al mio partner dei coattelli hanno messo una scatola in testa. Eravamo in Centro, in mezzo alla gente e nessuno ha fatto niente. Quel che mi fa più male è vedere soffrire anche le persone che amo». 

Nel video ha lanciato un appello alla condivisione. Cosa spera di ottenere da questa battaglia?

«Voglio diventare ingegnere e costruire protesi per persone trans. Ma per ora il mio rimpianto più grande sarebbe uscire da questa scuola, dopo la maturità, senza vedere il mio nome cambiato sul registro».

Valentina Lupia per repubblica.it l’11 novembre 2022. 

"Il prof mi ha sempre chiamato "signorina", calpestando i miei diritti. E poi ci ha anche detto: "Ora vedrete voi che succede col governo di destra..."". Si sfoga così Marco (nome di fantasia), lo studente trans del liceo Cavour di Roma che tre giorni fa è stato vittima di discriminazione. "Sei una donna, non un uomo", gli ha detto il docente di arte nel riconsegnargli la verifica col nome sbarrato.

Marco aveva firmato il compito non col nome anagrafico, bensì con quello d'elezione, in virtù del regolamento sulla carriera alias adottato dall'istituto che consente a chi è in fase di transizione di genere di utilizzarne uno col quale si identifica. "Non mi interessa del regolamento, non hai diritto a usare un altro nome", ha detto il docente in classe, per poi proseguire in vicepresidenza: "Davanti a me ho una donna, non posso riferirmi a te diversamente". 

Come l'hanno fatta sentire queste parole?

"Male. Quando martedì il professore mi ha dato il compito col mio nome sbarrato mi ha detto che non avrei potuto scrivere quello che mi pare, che quella era una verifica". 

Come ha reagito a quel punto?

"Gli ho spiegato che c'è un regolamento d'istituto che mi tutela e mi consente di utilizzare il nome con il quale mi identifico. L'ho cercato col cellulare e gliel'ho messo davanti. Ma ha detto che non gli interessava".

Poi il colloquio con la vicepreside.

"Sì. Tremavo, quasi piangevo. Io non mi agito mai con gli insegnanti, sono una persona che sta al suo posto. Ma se ricevo una risposta sgradevole, mi alzo e mi faccio sentire. Lì ho avuto una conferma ulteriore: il prof non è stato sbadato a chiamarmi "signorina" anche quando gli chiedevo di non farlo. Lì ha detto: "Davanti a me ho una donna, non posso riferirmi a te diversamente". Un'altra frase recente è stata: "Ora vedrete che succede col governo di destra". Non so a cosa si riferisse esattamente".

Però il ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara, sosterrà "tutte le opportune verifiche che riterranno di mettere in campo il dirigente scolastico e l'Ufficio scolastico regionale per appurare se si sia in presenza di un caso di discriminazione". Si aspettava queste parole dal neo ministro?

"Ne sono contento, i miei diritti sono stati violati. È positiva anche quest'attenzione mediatica". 

A raccontare quanto le è accaduto sono stati i suoi compagni e le sue compagne, coordinati dal collettivo della scuola, intitolato a Tommie Smith, poi le famiglie e anche la Rete degli studenti medi e il Gay Center che ora chiedono l'approvazione della carriera alias a livello nazionale. Che ne pensa?

"Ho ricevuto molti messaggi di solidarietà e questo è bello. Sono contento che si stia parlando della mia storia, perché non sono sicuramente l'unico al quale sono capitati episodi simili. Ci sono persone che non possono appellarsi alla carriera alias, mentre io un documento che mi difende ce l'ho".

Denuncerà?

"Intanto farò ricorso. Anche se ho preso 6,5, il compito proposto dal prof andava bene per il resto della classe, ma non per me, che devo seguire un piano educativo individualizzato. Ho già contattato una persona che fa parte di una commissione apposita. Per quanto riguarda i miei diritti e quelli degli altri, il prof può pensarla come vuole, davvero. Ma c'è un regolamento e va rispettato: io sono Marco, non "signorina"".

Barbara Costa per Dagospia il 2 novembre 2022.

Cos’è osceno? Una vagina spalancata? Che erutta piacere? O due vecchiette che sc*pano? Te la senti di vederle? Ne vuoi? Quanto? Certo, una eiaculazione femminile vale sempre la pena, provarla, provocarla, in questo caso su uno scherno ammirarla, a Milano, Teatro Parenti, dal 3 al 6 novembre, i giorni del "Gender Border Film Festival", la rassegna cinematografica, e non solo, del sesso non etero. 

E questa terza edizione non poteva svolgersi in un momento migliore, e più necessario: bello sarebbe, fruttuoso, se a questo Festival assistesse chi è arciconvinto che la sessualità sia intangibile e che sia una, quella basata sull’incastro di un pene etero e una vagina etero, e perché no, benedetti da madre chiesa, in nome del patriarcato più becero! Si fa finta di nulla, ma si sa, che questa non è l’unica realtà, mai lo è stata, se non per secoli il simulacro di un ordine sociale quasi sempre infelice.

Ma se oggi si vuole fare il pieno di realtà, di più realtà, sfumature sociali, e scelte individuali, che ci riempiono orgogliosamente l’orizzonte, e ne rivendicano il giusto spazio, è al Gender Border Film Festival che si deve andare: qui si scopriranno film, corti, parole, spie di verità altre, indici di ben altre verità, e che fin troppi maestrini tuttora vorrebbero velate, dissimulate, se non ipocritamente nel presente già ben assimilate. 

Ma al Gender Border Film Festival, sera dopo sera, proiezione dopo proiezione, si potrà denudare che per un tempo troppo lungo i peni hanno regnato su seggi pesanti, e seggi che ora iniziano a rifiutare, esigendo a pieni polmoni altri posti, pensieri, ipotesi di libertà (nella community Mica Macho). 

Si vedrà che non essere e non appartenere a una eterosessualità per millenni stabilita come sola normalità, porti a duelli per chi vi nasce, ci cresce e la vive in sé, e inevitabilmente per chi gli sta accanto (i film "Colors of Tobi", "Acts of Love"). E si percepirà che ogni corpo è diverso ma solo nel reclamare il suo diritto, bisogno, al sessuale piacere (i film "Because of My Body", "Wash Me"). E che la famiglia, benedetta o maledetta che sia, è causa di traumi, e tornaconti, e provvidenze, sotto ogni cultura, parallelo, cielo (i film "Change The Rule", "Zuhur’s Daughters").

E poi, il porno. Specchio e profeta di ciò che siamo. Quest’anno al Gender Border Film Festival fanno le cose in grande: la rassegna si apre col chiacchierato "Pleasure", di Nynja Thyberg, con Sofia Kappel nel ruolo di Bella, che vuole identitariamente costruirsi nel porno, col porno, sfidandolo per così decostruirsi. Un punto di vista, molto discutibile, poiché ingorgato di femminismo stantio. 

Almeno per me (solo secondo me…?) Ed è femminista e di lotta e tendente a una etica che il porno non discerne (se non per farci a cazzotti) il corto "Pierce: a Porn Revolution". Qui si ambisce a un porno a sguardo femmina: ma c’è, e dov’è? Se non lo creiamo, in noi, sicuro e delineato, questo sguardo femmina (che, se c’è, uno solo non può essere) smettendo di rispondere stizzite o squittite a ogni rutto maschile, mai avremo un porno autenticamente tale, ma solo un porno da rimbecco (ma poi, un porno, se femmina, è meglio? E di chi…? E perché...? Il cervello non ha genere. Ciò che assorbe sì).

Gran porno finale domenica 6 con la proiezione di "Gola Profonda", di Gerald Damiano, completamente restaurato, in occasione del 50ennale dalla sua uscita, film che ha portato la pornografia – e un pene intero in gola – nelle agorà mainstream. 

Al Gender Border Film Festival, mostre, talk, spettacoli, tavole rotonde, dove sono attesi, tra gli altri, Ayzad, il massimo esperto italiano di BDSM, e Stefano Ferri, uomo etero in abiti femminili, e tacchi e make up, e sposato, e con una donna, e padre. Autore di "Crossdresser. Stefano e Stefania. Le Due Parti di Me", ottimo libro che racconta la sua storia, e ci mette alla prova. Aprono i battenti e presentano il Festival le italianissime Enorma Jean, drag-queen, e la dama burlesque Ella Bottom Rouge.

Andrea Camprincoli per Libero Quotidiano il 2 novembre 2022.

Con "Lady Oscar" le ragazzine di tutto il mondo si identificarono con il potere. Per la prima volta veniva proposto loro un "cartone animato" in cui - anziché un uomo - era una donna a capo delle forze armate di una nazione. 

Si trattava di un personaggio immaginario di nome Oscar Francois de Jarjayes, una ragazza dai lunghi capelli biondi che, fingendosi uomo, arrivò al comando della Guardia Reale, durante gli anni della Rivoluzione Francese del 1789. In Italia la serie animata venne proposta nel 1982 e fu subito un successo. 

Nacquero i primi gadget e l'industria del giocattolo si adeguò a ciò che stava diventando un fenomeno di costume. Le bambine si sfidavano a colpi di spada. Anche se altre preferirono identificarsi con la piccola orfanella infermiera Candy Candy, protagonista di successo del cartone animato che spopolava tra i più piccoli in quegli anni.

A raccontarci la vita dell'intrepida Oscar e di un intero immaginario, che cinquant' anni fa si è introdotto nella cultura di massa, è il libro Lady dal fiocco blu? (Edizioni Graphe.it, pp. 148, euro 13,50), di Silvia Stucchi, firma di Libero. L'autrice di monografie e saggi, laureata in Letteratura Latina - che insegna nei licei e all'università Cattolica di Milano - racconta con passione come la formazione dell'immaginario femminile sia passata anche attraverso i "cartoni animati" (anime, diremo oggi). 

Un'altra eroina di successo del piccolo schermo era La principessa Zaffiro, che con la spada sul cavallo bianco si esibiva in abiti maschili. Zaffiro, del giapponese Osamu Tezuka (1928-1989) - detto "il Dio del manga" - fu una delle fonti di ispirazione per l'ideatrice di Oscar, la giapponese Riyoko Ikeda. 

L'autrice, classe 1947, ha iniziato a disegnare manga mentre era studentessa universitaria. Poi ebbe l'intuizione di creare Oscar, un fumetto pensato perle ragazze. In origine doveva avere come protagonista Maria Antonietta. Lo intitolò Le rose di Versailles, che alludeva al fatto che cinque erano le figure femminili della storia, ognuna associata a una rosa. Maria Antonietta è la rosa rossa, la contessa di Polignac la rosa gialla, Jenne de La Motte la rosa nera, Rosalie la rosa rosa, e Oscar la rosa bianca.

Terminato questo breve viaggio tra le pagine, si pensa a quanto sarebbe bello riproporre "Lady Oscar" alle nuove generazioni di bambine che grazie ai riferimenti storici potrebbero essere stimolate allo studio della Rivoluzione Francese, oltre al piacere di vedere cartoni animati di alto livello stilisti co. Ci sarà sempre bisogno di una "Oscar" o di un'eroina della serie Ragazze Ribelli, la collana di libri sulle biografie femminili nella storia. O del "branco di lupe", il libro scritto dalla ex bomber di calcio femminile della nazionale americana, Abby Wambach, che fin da bambina diceva che ciò che più l'appassionava, non era vincere, ma essere membro di una squadra "unita". Lei divenne una leader.

La società ha deciso che non poteva: si è impiccata. Chiara aveva 18 anni, era trans e si è tolta la vita perché noi non lo accettavamo. Francesca Sabella su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Giovanni era nato uomo, ma voleva essere una donna. Estraneo al suo corpo e al suo sentire, aveva intrapreso il percorso per cambiare sesso. Giovanni sentiva che il suo nome non corrispondeva alla sua assenza e per questo aveva scelto di chiamarsi Chiara. Chiara è morta, a diciotto anni. Si è stretta un lenzuolo intorno al collo, l’ha attaccato a una trave di legno della sua camera da letto e ha deciso di porre fine alla sua vita. Chiara si è suicidata lunedì nella sua casa di Miano. Chiara non c’è più e non ci sono più nemmeno i sogni, le aspirazioni, gli amori di una ragazza di diciotto anni. E non ci sono più perché Chiara sentiva che per lei e i suoi sogni in questo mondo non c’era spazio, un mondo che le si è rivoltato contro con minacce, atti di bullismo, scaraventandole addosso una quantità di sofferenza inimmaginabile.

Chiara non ce l’ha fatta, il lenzuolo è stato più stretto della mano che qualcuno a provato a tenderle. Chiara non c’è più e noi dobbiamo chiederci se è umanamente accettabile, se è comprensibile che accada questo: che una ragazza di diciotto anni si tolga la vita perché la società non accetta la sua identità sessuale. Dobbiamo chiedercelo perché siamo tutti coinvolti. A interrogarsi sulla morte di Chiara c’è anche la Procura di Napoli che ha disposto l’autopsia del corpo per chiarire dinamiche ed eventuali violenze subite dalla giovane. A dare la notizia della morte di Chiara il Gay Center di Roma, il numero verde contro l’omotransfobia al quale Chiara si era rivolta due anni fa, quando era ancora minorenne, per raccontare la violenza, il bullismo e l’emarginazione che subiva da tempo per aver deciso di esprimere la sua identità femminile.

Dopo la denuncia, che Gay Help Line l’ha aiutata a presentare tramite l’Oscad (l’Osservatorio interforze del Ministero degli Interni, contro gli atti discriminatori), Chiara aveva trovato accoglienza e supporto nella Comunità per minori a rischio. «Eppure, la strada per chi denuncia è in salita, in particolare per i ragazzi minorenni: l’assenza di protocolli di protezione e allontanamento immediato dagli autori delle violenze, il lungo ed estenuante percorso della giustizia che spinge le giovani vittime a giustificarsi, la mancanza di comunità per minori che accolgono ragazze e ragazzi trans sulla base della loro identità del genere e non del sesso, il rischio di essere vittimizzati da operatori impreparati ad accogliere le identità senza pregiudizi. Tutto questo Chiara aveva dovuto e saputo affrontarlo. Ci era passata attraverso. Ma non c’è l’ha fatta» racconta Gay Center.

«Ho seguito Chiara quasi dall’inizio fino a pochi mesi fa, ed unisco il cordoglio a quello dell’associazione, e dei suoi cari, e proprio nella sua memoria lavoreremo per accogliere sempre più ragazze e ragazzi come lei che vengono emarginati dalla società e/o dalle famiglie» assicura Sonia Minnozzi, responsabile della Casa famiglia “Refuge Lgbt” di Gay Center. Ora il dolore si mischia alla rabbia, non solo verso quella fetta della società civile bigotta e retrograda che non ha ancora capito che la mia libertà finisce dove inizia la tua, non un passo prima, ma anche e soprattutto con quella politica che un passo per normalizzare i gay e condannare fermamente chi ancora li trovava “strani” poteva farlo approvando il Ddl Zan. Ma niente da fare, lo affossarono in Parlamento.

Ricordo L’esultanza degli avversari al momento della sconfitta subita in Senato dai suoi promotori, fu un momento di rara bassezza del genere umano e della politica. Quando si alzarono dalle poltroncine rosse per esultare sapete che giorno era? Era proprio il 27 ottobre di un anno fa. Chi sa se lo stesso giorno di quest’anno avranno qualcosa per cui gioire. Chiara non ce l’aveva più. E come cantava Fabrizio De Andrè per la morte di Pierpaolo Pasolini: “Cos’altro vi serve da queste vite, ora che il cielo al centro le ha colpite…”

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Da lastampa.it il 20 ottobre 2022.

Al via domani giovedì 20 ottobre a Torino il ciclo di Conferenze 2022-2023 del Museo Egizio, una ventina di incontri con accademici, curatori del Museo e studiosi internazionali, che si svolgerà tra ottobre 2022 e maggio 2023.Protagonista del primo appuntamento giovedì 20 ottobre alle 18.00 sarà Federico Poole, curatore del Dipartimento Collezione e Ricerca dell’Egizio e direttore della Rivista del Museo Egizio.

«Statuette funerarie ‘transgender’: un problema epistemologico» il titolo della prima conferenza, tutta dedicata agli ushebti, antiche statuette funerarie, sorta di alter ego del defunto. A partire dall’epoca ramesside, ad accompagnare le defunte nella tomba spesso si trovavano statuette in abiti maschili, un’ambiguità questa che fa da spunto per indagare la natura della rappresentazione artistica nell’antico Egitto e la natura degli ushebti. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.

Alla base del ciclo di conferenze c’è l’idea di mantenere vivi la collaborazione e il dialogo tra il Museo Egizio e la comunità scientifica internazionale, ma anche di divulgare presso il grande pubblico le ricerche e gli studi, condotti non solo in ambito accademico, ma anche dai curatori del Museo Egizio.

Il ciclo, curato in collaborazione con Acme (Amici Collaboratoti del Museo Egizio di Torino) e il Dipartimento Studi Storici dell’Università di Torino, porterà in museo a Torino egittologi ed esperti di fama internazionale, provenienti dai più prestigiosi atenei a livello mondiale. Non mancherà poi un appuntamento con il direttore del Museo, Christian Greco, che  il 31 gennaio parlerà della della Tomba di Tutankhamun, di cui il 4 novembre ricorre il primo centenario della scoperta.

(ANSA il 24 settembre 2022)- Ha il diritto ad essere considerato donna dalle certificazioni anagrafiche un 20enne della provincia di Avellino che, dopo una lungo e complesso iter giudiziario, ha ottenuto dai giudici civili del tribunale di Avellino la rettifica, al femminile, degli atti di stato civile del suo comune di residenza. 

Il riconoscimento del cambio di sesso anagrafico, anche senza intervento chirurgico, è stato riconosciuto dalla sezione civile del tribunale irpino, presidente Maria Iandiorio, a latere Federica Rossi, che hanno accolto la tesi degli avvocati del giovane: "Sin dall'infanzia ha avuto comportamenti femminili, ritrovandosi non nel suo genere anagrafico, ma in quello femminile vivendo per questo in disforia di genere". 

Il tribunale ha ordinato all'ufficiale di stato civile di "procedere in conformità" e d'ora in avanti il giovane, sottolineano i legali, Fabiola De Stefano e Stefano Iacobacci, "potrà vivere e sperimentarsi secondo il genere percepito".

Antonio E. Piedimonte Per “la Stampa” il 25 settembre 2022.  

«Ho pianto, ho esultato, ma voglio aspettare che sia davvero tutto finito. Ho avuto tante delusioni in passato». È un'emozione che vuole controllare, Sarah. Dopo la sentenza di ieri, la giovane avellinese non dovrà più sopportare gli sguardi di chi non riusciva a conciliare la ragazza che aveva davanti con ciò che leggeva sulla carta d'identità.

A renderlo possibile è stata una sentenza del Tribunale di Avellino che ha accolto la richiesta di riconoscimento del cambio di sesso anagrafico anche senza intervento chirurgico. E ha ordinato al Comune di «effettuare la rettificazione di attribuzione del sesso nel relativo registro da maschile in femminile».

I giudici hanno accolto la tesi presentata dallo studio legale De Stefano & Iacobacci, ritenendo di dare la priorità al rispetto del diritto alla salute, «garantito dall'equilibrio psico-fisico derivante dal riconoscimento del genere percepito». Passo non da poco, specie per chi ha vissuto il disagio di una profonda dicotomia psicofisica (tecnicamente: disforia di genere).

La storia è incominciata quando il suo nome era un altro, posso chiederglielo?

«Assolutamente no. Anzi, guardi, mi faccia una cortesia, lo scriva in grassetto che ci sono due cose che non devono mai chiedere a una ragazza transessuale, e una di questa è il vecchio nome». 

E l'altra?

«Cos' ha tra le gambe. Scusi la brutalità». 

Si figuri. Prosegua pure...

«Non credo sia una storia così diversa da tante altre. Sin da piccolina avevo le idee chiare.

Ero una bambina anche se il corpo diceva altro, e lo stesso, purtroppo, facevano tutti». Anche la sua famiglia?

«Quando avevo 7-8 anni mi portarono dallo psicologo. Disse che era una fase. Poi i miei genitori l'hanno capito, molti altri invece no». 

È cresciuta in un paese piccolo, immagino ci siano state delle criticità...

«Meglio chiamare le loro cose con il loro nome».

Facciamolo.

«Sono stata bullizzata, dall'asilo alle scuole superiori». 

Come l'ha affrontata?

«Con determinazione, forza, dolore. E con l'aiuto di mia sorella e di mia madre. E di chi ha saputo ascoltarmi. Perché non c'è solo l'aggressione dell'ignoranza e dei pregiudizi». 

Che altro? 

«C'è che una ragazza transessuale deve fare i conti anche con lo specchio. Si vede sempre sbagliata. Vive in un vortice di depressione costante. Conosco tante persone che non hanno retto e si sono rifugiate nella droga o nella prostituzione. Io ho resistito e combattuto». 

E continua a farlo... 

«Certo. Mica finisce. Ma non sono il tipo che si arrende. A 17 anni ho cominciato il percorso di transizione e a 18 quello ormonale».  

E poi, la battaglia finita ieri per il cambio del nome.

 «Sì, grazie agli avvocati Fabiola De Stefano e Stefano Iacobacci (che a giugno hanno seguito con successo un caso analogo, ndr)». 

Prossimo step? 

«Grazie alla sentenza ora potrò operarmi. Poi vorrei affermarmi professionalmente».  

Il primo desiderio che le viene in mente?

 «Vivo a Roma e lavoro nel campo dell'estetica. Sarebbe meraviglioso fare la truccatrice nel mondo dello spettacolo. Ora, mi scusi ma sono appena rientrata e vorrei farmi qualcosa da mangiare. Come vede, sono una ragazza normale che dopo il lavoro deve cucinare».

DAGONEWS il 24 settembre 2022.

Polemica in Canada per un’insegnante trans che si è presentata in classe con delle mega protesi: i genitori hanno sollevato la polemica, alcuni studenti dicono di non sentirsi a proprio agio in classe, ma la scuola difende la prof dicendo che sarebbe illegale criticare e impedirle di indossare le protesi. 

Kayla Lemieux, un'insegnante di tecnologia alla Oakville Trafalgar High School in Ontario, è stata recentemente fotografata mentre faceva lezione in classe. Nonostante le polemiche la scuola ha fatto sapere che non sarebbe più intervenuta sulla questione e che non avrebbe né interferito con la scelta dell’insegnante né criticato perché sarebbe contrario al Codice dei diritti umani dell'Ontario. 

«L'HDSB riconosce il diritto di studenti, personale, genitori/tutori e membri della comunità a un trattamento equo senza discriminazioni basato sull'identità di genere e sull'espressione di genere» si legge in una nota. Ma nonostante tutto genitori e studenti sono divisi sulla questione: alcuni ragazzi dicono di non provare alcun disagio e c’è chi, invece, pensa sia troppo. Un gruppo di genitori ha reso noto che si riunirà per chiedere che si faccia qualcosa per l'abbigliamento di Lemieux.

Pierangelo Maurizio per “la Verità” il 24 settembre 2022.  

Il principio di libertà, questa volta, deve vedersela con due forme sferiche oblunghe, in perenne sfida con la forza di gravità. È l'enorme protesi mammaria ostentata da Kayla Lemieux, una professoressa transagender. Insegna tecnologia, più o meno le nostre applicazioni tecniche, alla Oakville Trafalgar High School, nell'Ontario, in Canada. Fino allo scorso anno il prof Lemieux era un uomo, poi si è ripresentata a scuola donna con il corollario di due seni mastodontici e proporzionati capezzoli sempre puntati come missili. 

 Il caso sta facendo molto discutere un Paese che non può certo essere tacciato di omo o transfobia. Per dire, sono pienamente legali le adozioni da parte delle coppie omosessuali; idem il cambio di sesso. Fin dagli anni Ottanta sono state varate leggi ad hoc per garantire stessi diritti a proposito di alloggi, pensioni, assistenza sanitaria e per evitare ogni forma di discriminazione. Piena parità anche in tema di abusi, stesse norme sia per omo che per etero.

In questo quadro, pesano le protesi alle quali la professoressa Kayla non intende rinunciare. Gli studenti, figuriamoci, tutti adolescenti, non hanno perso occasione per girare un video, durante le lezioni, di lei impegnata nel maneggiare una sega elettrica, video diventato subito virale. Le famiglie sono in subbuglio. C'è anche chi avanza il sospetto che questa figura caricaturale serva in realtà a ridicolarizzare decenni di battaglie Lgbt. Il che può essere.

Proprio la legislazione molto avanzata rischia di gettare il Canada in un dilemma che sembra il classico cul de sac. La scuola ha spiegato che «proibirle di indossare quelle protesi sarebbe illegale» e che Kayla Lemieux è «una brava insegnate». Il provveditorato scolastico della regione di Haltan, di cui Oakville è appunto il capoluogo, ha emesso un comunicato ecumenico: «La Oakville Trafalgar High School riconosce i diritti di studenti, persone, tutori e membri della comunità a un trattamento equo senza discriminazioni basate sull'identità di genere e l'espressione di genere. 

Cerchiamo di promuovere un ambiente di apprendimento positivo e di garantire un ambiente inclusivo per tutti gli studenti, il personale e la comunità». Peggio la toppa del buco. Perché con tutta evidenza la questione non viene presa di petto. Il problema è la dimensione senologica. Ma, una volta che ci si è avventurati sul terreno impervio del discriminare le discriminazioni, chi stabilisce, e soprattutto perché, quali sono misura e fattezza congrue e socialmente accettate di una protuberanza siliconica? 

Kayla Lemieux è diventata naturalmente il bersaglio privilegiato di tutti i blog suprematisti, para-nazisti e fuori di testa vari. Sul compassato Corriere Canadese (anche in italiano) un collega si è chiesto: «Domani mattina uno potrebbe decidere di presentarsi a scuola completamente nudo, pronto a difendere il suo libero diritto di espressione». 

Insomma, le propaggini oversize dell'insegnante trans sono quanto mai divisive. Ora, nel più che liberal Canada, si affaccia un quesito: se in ambiti come la scuola, l'istituzione dove si formano le persone, vadano stabiliti limiti precisi, compreso il modo in cui ci si presenta.

La materia ci riguarda, con le sue mille implicazioni, alcune anche drammatiche (basterebbe ricordare il suicidio della prof transagender veneziana Cloe Bianco). Al di là dei casi personali, anche da noi è ricorrente il tema dell'abbigliamento da discoteca (o peggio) trasferito in classe, dei centimetri di pelle scoperti. Che sia il caso di riaffidarsi, oltre che al buonsenso, al pudore? Anzi, al «comune senso del pudore»? 

 Vale a dire a quella riservatezza che dovrebbe riguardare l'apparato di riproduzione e, dunque, il sesso. Che, al contrario di quanto si creda generalmente, è ancora vigente nel nostro codice penale (art. 529 e 527). Sarebbe da chiedersi che senso abbia - e ce l'ha - e perché, lascito «fascista» del codice Rocco, sia ancora nel nostro ordinamento.

Tumori, il 71% delle persone transgender non accede agli screening. Elisa Manacorda su La Repubblica il 23 Settembre 2022.

Dai dati del convegno "Giornate dell'etica in oncologia" di Assisi emerge anche che il 32% ha subito discriminazioni da parte del personale sanitario

Un uomo con tumore alle ovaie, una donna con tumore alla prostata. Una situazione che gli oncologi devono cominciare a prendere sempre più spesso in considerazione, visto che la popolazione transgender e gender non conforming (cioè di genere diverso da quello dichiarato alla nascita), è in aumento. E i primi tra coloro che hanno intrapreso in passato un percorso di transizione verso l’altro sesso stanno ora raggiungendo l’età nella quale il rischio di sviluppare una qualche forma di tumore diventa più concreto. Di loro si parla oggi ad Assisi, al Convegno Aiom sulle Giornate dell’etica in Oncologia. “Tra il 2 e il 4 per cento dei pazienti oncologici in trattamento attivo presso la nostra struttura è transgender”, dice per esempio Davide Dalu, oncologo al Sacco di Milano, “eppure gli operatori sanitari non sono ancora pronti ad accogliere e gestire nel migliore dei modi questi pazienti”, aggiunge Dalu, se è vero che - come dimostrano i risultati di una indagine realizzata in collaborazione con ELMA Research su 190 persone transgender e gender non conforming - gli ospedali rappresentano il quinto luogo in cui questi pazienti subiscono discriminazioni (dopo gli spazi comuni all’aperto, la scuola, i mezzi di trasporto pubblici e i locali notturni). Il 32% infatti riferisce di essere stato vittima di comportamenti discriminatori da parte del personale sanitario. Una discriminazione che può assumere diverse forme: dall’utilizzo del nome assegnato alla nascita al posto di quello scelto, ad atteggiamenti di curiosità inappropriata, a un comportamento meno rispettoso di quello riservato agli altri pazienti, all’ignorare necessità specifiche, al biasimo per il problema clinico fino all’utilizzo di un linguaggio aggressivo. Le cause? La mancanza di esperienza nel trattamento dei problemi specifici di queste persone, la scarsa conoscenza delle loro esigenze cliniche, talvolta anche paura o pregiudizio.

Discriminazione e difficoltà di accesso a prevenzione e cure

Dall’altro lato, quasi la metà degli oncologi (46,2%) riconosce che questi pazienti siano discriminati nell’accesso all’assistenza oncologica e il 18,4% è stato testimone di episodi di questo tipo riconducibili all’identità di genere da parte di operatori sanitari. Una delle conseguenze di questa distanza tra la popolazione LGBTQI+ e il mondo dell’assistenza sanitaria è che il 71 per cento delle persone transgender non ha mai partecipato ad alcun programma di screening anticancro, e quasi un terzo non è in grado di trovare informazioni specifiche per la prevenzione oncologica declinate sulla propria condizione specifica. Molte di loro, inoltre, accedono ai centri per affrontare i problemi oncologici con sensibile ritardo (67,9%), non hanno fiducia nei professionisti della sanità (57%), non accedono del tutto ai centri di cura (44,6%) e non ricevono cure appropriate (22,6%). 

Comprendere e gestire il rischio di tumore nelle persone transgender

E invece il rischio di tumore per questa popolazione c’è e va riconosciuto: nella fase di transizione fra i sessi, queste persone vanno incontro a cambiamenti biologici così importanti da poter favorire l’insorgenza del cancro. “Penso per esempio alla somministrazione di ormoni nelle transizioni MtF, cioè da uomo a donna, per inibire la crescita dei peli o per sviluppare il seno”, sottolinea Saverio Cinieri, Presidente Nazionale AIOM, “aumentando il rischio di tumore”. Non solo: anche in seguito a chirurgia per la trasformazione dell’apparato genitale, la prostata può non essere rimossa e diventare sede di tumore. Con un contorno di questioni legali se il medico di famiglia non può prescrivere un esame del PSA (il marcatore che si utilizza per valutare il rischio di neoplasia alla prostata) a quella che anche all’anagrafe è ormai una donna. 

Formare gli operatori sanitari

Questioni complesse, delicate, spesso sommerse, che coinvolgono aspetti biologici, psicologici, sociali. Che Aiom ha deciso di affrontare, visto che negli ultimi 5 anni il 41,3% degli oncologi ha curato almeno un paziente transgender o gender non conforming colpito da tumore. “L’Oncologia si deve aprire alle molteplici sfaccettature della società e deve essere pronta ad accoglierle con un linguaggio inclusivo – spiega Giordano Beretta, Presidente Fondazione AIOM - Così come individuiamo i sottogruppi di pazienti in base alle alterazioni molecolari per scegliere il trattamento migliore, dobbiamo anche capire come trattare alcuni gruppi di pazienti che hanno bisogno di particolare attenzione per essere curati al meglio”. Per migliorare la qualità dell’assistenza, continuano gli oncologi riuniti ad Assisi, è necessario implementare la formazione dei professionisti, investire in campagne istituzionali per proteggere questi cittadini da ogni forma di discriminazione basata sull’identità di genere e prevedere studi clinici che li includano, considerando le loro specifiche esigenze. 

“La scelta di occuparsi della salute della comunità LGBTQIA+ pone Aiom in linea con le decisioni adottate da tempo dalle società scientifiche dei principali Paesi Europei e degli Stati Uniti”, aggiunge Filippo Pietrantonio dell’Oncologia Medica Gastroenterologica alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano e membro del Direttivo Nazionale Aiom. “È necessario impegnarsi di più per ridurre le disparità di accesso ai trattamenti e agli screening anticancro, che ancora esistono per alcune categorie. Spesso il timore di subire discriminazioni rappresenta per questi cittadini una barriera nei confronti della prevenzione e delle cure”.

L’antigender Massimo Gandolfini insegna ai giornalisti come parlare di persone trans. Simone Alliva u L'Espresso il 22 Settembre 2022.

Relatore in un corso organizzato dall’Ordine contro la disinformazione, il neurochirurgo leader del Family Day ha spesso definito il cambiamento di sesso «assurdo», l’incongruenza di genere «un movimento filosofico» e la transizione «un’operazione di maquillage». Dopo il nostro articolo, l’annuncio della cancellazione dell’evento

«L’omosessualità è un disagio identitario». «L’intersessualità non esiste». «Il transgender è un movimento filosofico». «Parlare di cambio di sesso è assurdo». Queste permesse portano la firma del leader del Family Day Massimo Gandolfini che sarà relatore di un corso dell’ordine dei giornalisti Lombardia e della Fondazione Brunelli Onlus, a Brescia il 23 settembre per offrire “una informazione qualificata ai giornalisti relativamente alla disforia di genere”.

Il corso di formazione dal titolo: “Approccio alla persona con disforia di genere e medicina transgender” riconoscerà 4 crediti per gli iscritti e coinvolgerà oltre Gandolfini (presentato dall’ordine come primario di neurochirurgia alla fondazione Poliambulanza di Brescia) anche giornalisti, medici, endocrinologi. Ma il corso, dopo la pubblicazione dell’articolo dell’Espresso, è stato cancellato: «Il corso di formazione su "Approccio alla persona con disforia di genere e medicina transgender" organizzato da Fast - Federazione delle associazioni scientifiche e tecniche e previsto per domani 23 settembre a Brescia è stato CANCELLATO», annuncia su Facebook l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia.

Da tempo l’Ordine prevede corsi per combattere la scarsa diffusione dell’informazione scientifica sull’argomento, aprire ad un linguaggio inclusivo e non discriminatorio e lavorare sul modo in cui la cronaca restituisce fatti ed eventi che riguardano le tematiche Lgbt. Genera dubbi, dunque, la presenza di Massimo Gandolfini che ha fatto il suo ingresso nella scena mediatica nel 2015 proponendo di risolvere l’incidenza dei suicidi tra i giovani lgbt con una «correzione del disagio identitario”. In poche parole: si suicidano i gay? Li spingiamo verso l’eterosessualità.

Il formatore scelto in un primo momento dall’Ordine dei Giornalisti Lombardia vanta di una carriera sfolgorante nel mondo pro-vita. In Italia è stato tra gli organizzatori del World Congress of Family, cioè il Congresso di Verona che nel 2019 ha riunito «il movimento globale» antiabortista, antifemminista e anti-Lgbt, classificato come “gruppo d’odio” dal Southem Poverty Law Center (organizzazione americana senza fini di lucro impegnata nella tutela dei diritti delle persone).

Tra le altre battaglie che lo hanno lanciato nel firmamento dei negazionisti, troviamo vere e proprie crociate contro l'eutanasia, contro i diritti delle coppie gay e lesbiche, delle famiglie arcobaleno e dei loro figli, contro l'educazione di genere e sessuale, contro il supporto e l'accoglienza di bambini e giovani trans.

Pochi giorni fa dalle colonne del quotidiano “La Verità” ha bollato l’aborto come “omicidio” e definito “doverosa” la decisione ungherese si far ascoltare il battito cardiaco del feto prima di interrompere la gravidanza. Nel 2015 Gandolfini sostenne che tra le 58 identità di genere approvate da Arcigay e tra cui era possibile optare su Facebook per connotare il proprio profilo, vi fosse anche la pedofilia e per questo nel 2019 il Tribunale di Verona lo ha condannato per diffamazione: quattro mesi di reclusione, poi convertiti in una sanzione pecuniaria di 40mila euro all’Arcigay.

Gandolfini ha regalato teorie anti-scientifiche in diverse occasioni e rintracciabili anche sul web da video di conferenze e dichiarazioni. Per fare una sintesi basta andare sul sito “Cultura in pillole” -lanciato da Angela Pellicciari, promotrice e ideologa del format dei Family Day- che raccogliere le voci dell’universo cattolico. Qui Gandolfini, che si definisce «scienziato galileano», bolla così la questione oggetto del corso dell’ordine dei giornalisti: «Il transgender è sostanzialmente un movimento filosofico, culturale e politico e porta avanti l’idea, l’assioma della ideologia gender, cioè un soggetto appartiene a un determinato sesso biologico, maschio o femmina, ma il genere non è strettamente collegato e interdipendente con la identità sessuata».

Convinto che gli intersessuali «non esistono», il neurochirurgo nega la necessità di un percorso di transizione: «Parlare di cambiamento di sesso è assurdo» perché trattasi di «operazioni di camouflage o di maquillage».

Non può mancare nel rosario del leader pro-vita «l’ideologia del gender» che si vorrebbe diffondere con lo scopo di distruggere il «modello antropologico» dell'essere umano, plagiando fin dalla prima infanzia i bambini e le bambine attraverso un'educazione al sesso e alla sessualità slegata dai «grandi valori» dell'umanesimo cristiano secondo cui non deve esserci rapporto sessuale senza affettività.

Eppure la questione “transgender” non ha nulla a che fare con tutto questo come ampiamente dimostrato da anni dalla comunità scientifica e come dichiara a L’Espresso, Guido Giovanardi psicoterapeuta, dottore di ricerca presso il dipartimento di Psicologia dinamica e clinica, all’università La Sapienza di Roma: «Bisogna parlare di identità di genere. Può succedere che, per un insieme molto complesso di fattori (biologici, psicologici e sociali) che il genere percepito non corrisponde al sesso biologico, per cui si parla, usando la terminologia dell’ultima edizione dell’ICD - il manuale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – di incongruenza di genere e di identità transgender. Tali condizioni, considerate un tempo patologiche (come del resto anche l’omosessualità), oggi, dopo anni di ricerche, sono riconosciute come normali varianti identitarie, che non vanno interpretate come disturbi mentali. Le ricerche longitudinali hanno infatti dimostrato che i percorsi di transizione sociale (ovvero l’assunzione di un nome e pronomi, o la scelta degli abiti, legate al genere percepito e non al sesso biologico), o di terapia ormonale e riassegnazione medico-chirurgica, determinano un netto miglioramento del benessere psicologico e una significativa diminuzione della sofferenza individuale».

Se il corso, come si legge nell’invito diffuso dall’Odg, punta a offrire “una informazione sulla disforia di genere”, viene banalmente da chiedersi: cosa ci fa il presidente del Family Day, negazionista delle persone transgender, tra i relatori?

Omotransfobia. Diffamò l'Arcigay, condannato il leader del Family Day Massimo Gandolfini. Redazione su L'Espresso il 10 giugno 2019. 

Dovrà pagare 40 mila euro di multa. Il portavoce del comitato "Difendiamo i nostri figli" aveva sostenuto che tra le 58 identità di genere approvate dall'associazione vi fosse anche la pedofilia

Il tribunale di Verona ha condannato Massimo Gandolfini per aver diffamato l’Arcigay. Il giudice ha inflitto al portavoce del "Comitato Difendiamo i nostri figli" e leader del ’Family Day’ una condanna a quattro mesi di reclusione, convertiti in una sanzione pecuniaria di 30mila euro, oltre a una provvisionale di 7.000 euro per l’associazione e 3.000 euro per l’allora presidente, Flavio Romani, più il pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno. 

I fatti contestati a Gandolfini risalgono al 2015, quando durante un intervento pubblico sostenne che tra le 58 identità di genere approvate da Arcigay vi fosse anche la pedofilia. Soddisfazione è stata espressa da Gabriele Piazzoni, segretario generale d’Arcigay. «Ancora una volta - ha dichiarato in una nota - un esponente del mondo ultraconservatore viene condannato per la sua condotta nei confronti delle persone e delle associazioni Lgbti.

Pochi mesi fa Pillon veniva condannato a Perugia, oggi Gandolfini fa il bis a Verona. Questa condanna ci dice molto sulla modalità che i patron del Family Day usano per affermare le proprie idee, cioè la diffamazione. Con molta soddisfazione oggi diciamo nuovamente che giustizia è fatta e che continueremo a difendere in ogni sede la dignità e l’onorabilità delle persone Lgbt. Un ringraziamento sentito all’avvocata Rita Nanetti, che con grande competenza ci ha assistiti in questa vicenda».

Omofobia, Simone Pillon condannato per aver diffamato Arcigay. Si è conclusa al tribunale di Perugia, la causa che vedeva sul banco degli imputati il primo firmatario del contestato disegno di legge sulla riforma dell'avviso condiviso. L'attuale senatore della Lega dovrà versare una somma complessiva di 30mila euro per la campagna omofoba. Il suo commento: «Difendere la famiglia costa caro». L'Espresso l'11 aprile 2019.

Il giudice unico di Perugia ha condannato l'avvocato Simone Pillon, attuale senatore della Lega, a 1.500 euro di multa per diffamazione nei confronti del circolo gay Omphalos per alcune affermazioni omofobe con le quali aveva commentato (quando ancora non era parlamentare) una loro iniziativa nelle scuole.

«Suicidi gay? Spingiamoli all'eterosessualità»: La strana teoria del neurochirurgo anti-gender Massimo Gandolfini. Simone Alliva su L'Espresso il 15 aprile 2015.

Un professore di neuroscienza si scaglia contro le persone LGBT: «Il problema è il disagio identitario, che l'educatore deve correggere». Non la discriminazione e l'omofobia, quindi. Ecco il video del suo discorso

Meglio che gay, lesbiche e transessuali tornino “nell’armadio”. Indietro nel tempo e nello spazio: nascosti come sessant’anni fa. L’omosessualità non è una variante naturale del comportamento umano, come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma un “disagio identitario” che va corretto dall’educatore che deve spingere il gay verso l’eterosessualità. 

Lo ha sostenuto Massimo Gandolfini, direttore del dipartimento di neuroscienze e primario di neurochirurgia alla fondazione Poliambulanza di Brescia, durante un convegno organizzato da Comitato Articolo 26, associazione che da tempo si schiera contro quella che definiscono “teoria del gender”. La stessa associazione che durante le audizioni per la nuova legge sulle unioni civili in Senato, paragonò il vincolo affettivo tra due persone dello stesso sesso a quelle che i padroni hanno verso i propri cani. 

Gandolfini, che è anche professore a contratto di Neurochirurgia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, affronta così il tema del suicidio giovanile all’interno della comunità LGBT: “L'incidenza suicidaria della popolazione gay-friendly è molto superiore e si dice che i suicidi sono maggiori perché la società non è accogliente. Per sfatare questa bugia basta andare a vedere i dati del Belgio e della Scandinavia. L'incidenza suicidaria in questi paesi che sono gay friendly rimane molto alta perché in fondo a tutto questo ci sta un disagio identitario. Nella misura in cui una persona si sente disagiata verso se stesso, non è poi così facile vivere.”. Nessuna discriminazione dunque, l’omofobia non c’entra. Non c’entrano gli insulti o i pestaggi. 

Frasi che si scontrano con quello che afferma l’American Association of Suicidology, istituzione nel panorama internazionale dello studio e prevenzione del suicidio, per la quale essere lesbiche, gay, bisessuali o transgender non è un fattore a rischio di suicidio, fuorigioco di dubbio, ma lo è per una società che discrimina la gioventù LGBT e che spinge volontariamente e spesso in maniera manifesta verso tentativi di suicidio. Le persone più a rischio sono quelle tra i 15 e i 24 anni, gli adolescenti gay hanno un rischio di suicidio 7 volte maggiore degli adolescenti etero. Uno studente su quattro ammette di essere stato discriminato, insultato, offeso fisicamente per il suo orientamento sessuale. 

Tornando in Italia, Gandolfini sostiene che l’omosessualità è un male di vivere che viene da dentro e l’unica soluzione è correggerlo: “Un eventuale "Disagio identitario" va affrontato nella prospettiva del supremo interesse del bimbo. Lo scopo dell'educazione non è scoprire l'orientamento sessuale del bambino per poi indirizzarlo da quella parte perché la sua scelta è libera. E se scopriamo una cosa che si chiama "disagio identitario", lo scopo dell'educatore non è quello di correre dietro al disagio identitario ma è quello di cercare di indirizzare verso una coerenza questo disturbo verso il proprio psichismo.” 

Per gli omosessuali italiani dunque si propongono cure, correzioni. A differenza degli Stati Uniti dove solo qualche giorno fa il presidente, Barack Obama, ha condannato senza mezzi termini le cosiddette “teorie riparative”, vale a dire quelle “cure” psichiatriche, ma anche coercitive, che vorrebbero correggere l’omosessualità o, meglio, l’orientamento sessuale di persone gay, lesbiche e bisessuali e l’identità di genere delle persone transessuali. Come se tutto fosse una malattia, cosa che invece non è.

Da “Il Venerdì – la Repubblica” il 27 agosto 2022. Luxuria: la mia identità e la mia privacy

Da tempo noto con interesse che nelle sue lettere viene spesso trattato il tema dell'identità di genere. In una recente lettera scritta dal professor Franco Viviani dell'Università di Padova (sul Venerdì del 12 agosto, ndr) vengo citata: «come mai la leggiadra e onnipresente Luxuria conserva il suo sesso maschile? La supposizione più semplice è che abbia paura di un'operazione che, oltre a essere dolorosa e faticosa, le toglierebbe anche il prepuzio coi suoi ricettori sessuali». Le confesso che spesso noi persone transgender siamo state studiate, analizzate, giudicate e anche purtroppo messe in laboratori medici e psichiatrici col tentativo di essere "curate" a base di trattamenti di testosterone forzato per fare di noi "maschi e padri di famiglia": obiettivo mai raggiunto, perché nessuna trans è mai diventata "cisgender" (conforme al suo genere, quindi maschio) ma è stata trasformata in persona depressa, in vittima di transfobia interiorizzata con forti sensi di colpa e odio per se stessa.

Molte sono decedute negli esperimenti, altre hanno preferito togliersi la vita. Le confesso altresì che questa è la prima volta che qualcuno che non conosco si erge a conoscitore delle mie più profonde motivazioni e delle mie attività sessuali. Non starò certo qui a chiarire quali siano, poiché un minimo di privacy mi rimane, però tengo a precisare che ognuno non sceglie chi essere o meno, ma sceglie solo di seguire la propria "natura", nel mio caso una identità di genere femminile che non mi pone in antitesi alle donne nate tali (con le quali mi sento sorella e compagna contro la misoginia e la transfobia) ma mi mette in armonia con me stessa. Un abbraccio

Grazie signora, le sono grata di avermi scritto. Il professor Viviani rispondeva a una curiosità mia, che le assicuro priva di malizia o offensiva: noi vecchie che abbiamo affrontato la sessualità quando alle donne era proibita, siamo rimaste maldestre tutta la vita e con una curiosità innocente. Avevo letto una bella intervista fattale dal Corriere della Sera dove lei ha parlato del suo sesso. Io, zoticona del ramo, mi sono posta delle domande, a cui lei giustamente ha il diritto o addirittura il dovere di non rispondere. Però si metta nei miei panni molto sdruciti: di quel che capita tra etero e tra omosessuali può darsi che la mia fantasia mi accontenti. Il mondo trans invece è misterioso e variegato, e insomma mi perdoni.

Natalia Aspesi Da “Il Venerdì – la Repubblica” del 12 agosto 2022 

Lei si chiede: come mai i gay primeggiano per sapienza e impegno nel mondo culturale?

La risposta è semplice: possono fare a meno della donna idealizzata (se maschi) o dell'uomo idealizzato (se donne). A loro interessa creare il pensiero e non hanno bisogno della religione e del potere, ma aspirano a ciò che tanto affascina e impaurisce il modello culturale maschile, perché è fuori dal suo mondo: l'Arte, che in questo contesto assume il genere femminile.

Oltretutto, una vita piena di ostacoli assicura in alcuni il cosiddetto pensiero divergente che starebbe alla base della creatività. Come mai la leggiadra e onnipresente Luxuria conserva il suo sesso maschile?

La supposizione più semplice è che abbia timore di una operazione che, oltre ad essere dolorosa e faticosa, le toglierebbe anche il prepuzio coi suoi recettori sessuali. Se mai presumesse di non poter godere in altre forme, perché mai dovrebbe privarsi del batacchio? Perché sono più gli uomini che vogliono essere donne? Fin da piccoli, immagino, si sono chiesti osservando le dinamiche tra i generi che si aggirano nel modello culturale: ma perché mai devo diventare qualcuno che trascorre la sua esistenza nel dimostrare di avere gli attributi a tutto campo? Emergere e competere, lottare nello sport, sacrificarmi per fare una famiglia e avanti di questo passo. Meglio essere donna, all'interno del modello dominante però in modo tale da usufruire dei suoi cascami, vissuti spesso dalle stesse donne come privilegi.

Da adolescente si sarà anche chiesto, «Perché non posso seguire come fanno le donne i miei innamoramenti coi loro sperdimenti e dovrei invece assecondare il modello che vuole che io diventi un maschio senza smancerie, magari anelando al culmine eroico che vuole che mi immoli per una causa più o meno giusta?». Il sesso poi. Probabilmente chi si vuole privare del privilegio fallico, inconsciamente non vuole partecipare neanche un po' alla violenza implicita nello stesso atto sessuale. Perché l'ex ragazza Page non ci racconta, dopo essersi tolta i seni, come ha proceduto con le sue parti inguinali? Forse le bastava immedesimarsi in un maschio, chissà? Ne voleva acquisire i privilegi, assumendone la forma. La quale è anche sostanza data l'importanza che la società occidentale dà al corpo visibile (visto che siamo incapaci di dar parola a tutto ciò che un corpo manifesta inconsciamente anche se siamo bravissimi nel captare i segnali subliminali corporei altrui). Franco Viviani

Gentile professore, non si offenda, ma ne so meno di prima. Forse è giusto così, ogni corpo deve avere un suo mistero, essere sconosciuto agli altri. Del resto neppure io so cosa voglia dire essere donna, non ritenendolo né un privilegio né una condanna ma un percorso. Mi consenta qualche pensiero svagato in riferimento ai suoi di studioso.

Ovviamente non sapevo cosa fosse il "pensiero divergente", mi sono informata e le chiedo: se è alla base della creatività e nasce dagli ostacoli della vita, visto che la nuova società della correttezza e dell'inclusione è impegnata virtualmente a eliminarli tutti, non saremo più creativi?

Del tutto ovvio che un trans rifiuti interventi dolorosi e distruttivi, ma come ci si sente donna, chiedo scusa ai lettori, se è quello che lei chiama simpaticamente "il batacchio" a darti il piacere? È vero che esser maschio obbliga a fatiche, atteggiamenti, vittorie, rinunce, pesanti e inutili, ma pure essere femmina, e lo saprà perché le donne se ne lamentano in continuazione, può essere fastidiosissimo. Quanto alla penetrazione, veda lei. Comunque davvero la ringrazio e malgrado la mia zucconaggine in una materia che non mi riguarda, la prego di concedermi altre lezioni. Natalia Aspesi

Da leggo.it l'11 agosto 2022.

La storia di Maura Nardi ed Emanuele Loati è una vera odissea che, finalmente, è giunta al termine. L'ufficio anagrafe del comune di Recanati, in provincia di Macerata, ha provveduto a rettificare i loro documenti di identità e a breve si sposeranno. Sono entrambi due persone transgender, che hanno terminato il percorso di transizione. Hanno cambiato sesso insieme, senza mai smettersi di amarsi e, dopo un processo molto lungo, coroneranno il loro sogno. 

Il cambio di identità

Maura ed Emanuele, rispettivamente di 41 e 25 anni, hanno atteso tanto. Il cambio dei documenti in Italia è un processo molto lungo che per molti anni limita la libertà di scelta di tantissimi uomini e donne. Ma adesso potranno sposarsi. «Siamo una coppia e stiamo pensando alla nostra unione e al nostro futuro. Per noi è una cosa naturale, ma sappiamo che per molti non è così», raccontano al Resto del Carlino. 

Le difficoltà riscontrate

Maura Nardi ha iniziato la transizione nel 2016. Si è prima rivolta a uno psicologo privato, poi al Movimento identità transessuale di Bologna e, infine, ha iniziato la terapia ormonale. Maura racconta, al Resto del Carlino, di soffrire da quando ha 19 anni, di una forma di cecità a causa dello sviluppo di una rara malattia alla retina. Per lei però «è stato più semplice convivere con la cecità che con l’incongruenza di genere». 

Una vita complessa, con molti ostacoli, ma sempre con il supporto della famiglia. «Non è stato facile, ma sono stata sempre accompagnata dalla consapevolezza e dalla convinzione che stavo facendo la cosa giusta», spiega. 

E gli amici? Alcuni le hanno tolto il saluto, altri si sono allontanati. Ma c’è anche chi non l’ha mai lasciata sola, soprattutto quando vedeva «tutto buio». E adesso arriverà anche la sua rivincita con Emanuele: le nozze.

Estratto dell'articolo di Gian Luca Bauzano per il “Corriere della Sera” il 4 agosto 2022.

Valentina Sampaio ha 17 anni quando debutta nel mondo della moda. Pronta a salire sulle passerelle di San Paolo del Brasile. «Quando il marchio che mi aveva contattata scoprì che ero una ragazza trans non mi volle più. Sono stata malissimo. Adolescente, con il sogno della moda. Crudele farti sentire sbagliata. Però erano gli altri, sbagliati, non io». Invece quella che oggi è la top model transgender più famosa al mondo, salita sulle passerelle di Victoria' s Secret , voluta da Giorgio Armani come testimonial della sua linea beauty donna, racconta di essersi «sempre sentita in armonia con me stessa. Sin da piccola».

Lo rivela nell'intervista di copertina del nuovo numero di 7 in edicola domani con il Corriere della Sera . La modella brasiliana, nata in un piccolo villaggio di pescatori a sud di Fortaleza, sin dall'infanzia quando si guardava allo specchio, vedeva riflessa non l'immagine del bambino che era, bensì la futura Valentina. «La mia? Non è stata una scelta. Un'evoluzione naturale. Sapevo perfettamente chi fossi e cosa volevo». 

Benché i genitori, le tre sorelle e i tre fratelli l'abbiano sempre sostenuta con il loro affetto, la sua crescita non è stata facile. Anche bullismo, solitudine e sofferenza. Determinata e ottimista Sampaio non si è mai scoraggiata. Così riviste come Vogue Paris e Sports Illustrated le dedicano la copertina. «Ho avuto successo per quello che sono. Mai ho voluto nasconderlo. Il mondo della moda è più aperto. Ha aiutato. Ma non è così ovunque. Quando dichiari di essere una persona trans spesso ti vengono chiuse le porte in faccia». […] 

I sessi? Non dite che sono due. Luigi Mascheroni il 19 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'onda lunga della cancel culture, partita dai campus universitari degli Stati Uniti ormai si è già abbattuta anche sull'Europa. 

L'onda lunga della cancel culture, partita dai campus universitari degli Stati Uniti - a riprova che i peggiori orrori culturali di solito li commettono le élite intellettuali, studenti e professori, e non gli emarginati analfabeti delle periferie del mondo - ormai si è già abbattuta anche sull'Europa. L'ultimo flutto in ordine di tempo ha travolto Berlino, Humboldt-Universität, qualche settimana fa (la coda di polemiche e reazioni continua però a propagarsi, fino a oggi), dove a fine giugno la biologa Marie Luise Vollbrecht doveva tenere una conferenza sul tema: «Perché in biologia ci sono solo due sessi». Titolo, come si può immaginare alla luce dell'ideologia gender, delicatissimo. L'iniziativa faceva parte dell'evento «La lunga notte della scienza» organizzato dall'Università assieme ad altri istituti culturali tedeschi, ma l'argomento dell'intervento in programma è stato più che sufficiente per aizzare l'ala dura e pura dell'attivismo di sinistra. Il Gruppo di lavoro dei giuristi critici («Akj») ha infatti immediatamente sollevato una protesta formale. Motivo: l'affermazione che in biologia esistono solo due sessi sarebbe «non scientifica» oltre che «disumana e ostile» nei confronti delle persone queer e trans.

Conseguenza? Sembra strano, ma l'Università Humboldt, invece di schierarsi in difesa di Marie-Luise Vollbrecht, ha annullato l'incontro per «motivi di sicurezza», cedendo alle richieste degli attivisti. È così: ora non si può più sostenere che i sessi biologici siano due: maschile e femminile (anche se, ovviamente, esistono persone che trascendono il binarismo biologico - cioè «si sentono» altro - e le loro vite, così come i loro diritti, non possono essere ignorati; ma ciò con la scienza ha poco a che vedere).

Comunque. In Italia il caso viene rilanciato, qualche giorno fa, da MicroMega (non proprio un foglio propagandistico dell'Alt Right trumpiana...) riprendendo la notizia dal sito femminista tedesco EMMAonline. Da notare il paradosso che Marie-Luise Vollbrecht è vicina alla sinistra radicale ed è sempre stata a favore delle battaglie femministe. Tanto che nella sua conferenza - bocciata preventivamente - non intendeva affatto negare i diritti delle persone transessuali, ma solo, semmai, spiegare che l'ideologia non ha posto nella scienza. Marie-Luise Vollbrecht, però, è ingiustificabile agli occhi dei guerriglieri della cancel culture: è infatti uno dei cinque autori dell'appello, lanciato a maggio, per denunciare l'unilateralità dell'informazione sul tema della transessualità e per chiedere di «abbandonare l'approccio ideologico al tema della transessualità» presentando i fatti biologici in base allo stato della ricerca e della scienza. Un appello firmato da oltre cento scienziati tra medici, biologi e psicologi. Niente da fare. Il loro appello è stato definito «transfobico».

Penny Mordaunt (la favorita per il dopo Boris Johnson) e le persone trans: una guerra culturale per affondarla? Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.  

Nel 2018 Penny aveva affermato che «gli uomini trans sono uomini, le donne trans sono donne»: una frase controversa per la base del partito conservatore. Gli attacchi a colei che potrebbe prendere il posto di BoJo

È lei la donna da affondare. A sorpresa, Penny Mordaunt è la favorita nella corsa alla successione a Boris Johnson : 49 anni, viceministra per il Commercio, già ministra della Difesa per un breve periodo sotto Theresa May, è quasi sconosciuta al grande pubblico. Nonostante ciò, ha scombinato le carte nella gara per diventare primo ministro con la sua personalità diretta e accattivante: e per questo sono partite quelle che lei ha definito «operazioni oscure» per bloccarne l’ascesa.

La polemica principale si concentra sui diritti delle persone transgender. Nel 2018 Penny aveva affermato in Parlamento che «gli uomini trans sono uomini, le donne trans sono donne»: una frase controversa che è un anatema per la base del partito conservatore, i cui favori vanno conquistati per poter sperare di insediarsi a Downing Street.

Nei giorni scorsi la Mordaunt ha provato a fare marcia indietro: «Una donna come me non ha un pisello», ha detto citando un intraducibile gioco di parole di Margaret Thatcher. Affermazione che ai più potrebbe apparire scontata, ma non ai sostenitori dei diritti trans, secondo i quali anche chi ha un pene può essere una donna, se si identifica come tale. «Io sono biologicamente una donna — ha continuato Penny —. Alcune persone nate maschi e che sono passate attraverso un processo di riconoscimento di genere sono anche legalmente donne. Questo NON significa che sono donne biologiche, come me».

Una inversione a U che ha soltanto agitato le acque, perché Penny si è vista accusata di ambiguità: infatti è emerso un documento che suggerisce che lei, quando era sottosegretaria all’eguaglianza, aveva appoggiato una legislazione controversa - poi abbandonata - che avrebbe autorizzato l’auto-identificazione di genere a prescindere da un parere medico. E la Mordaunt si sarebbe opposta anche all’introduzione delle parole «donna» e «madre» a proposito di donne incinte.

Insomma, ce n’è quanto basta per far dire a Sarah Vine, seguitissima commentatrice del Daily Mail — tabloid conservatore che ha guidato il cannoneggiamento contro Penny — che «se Penny Mordaunt non si batterà per i diritti delle donne, non avrà mai il mio voto».

È tutta una controversia che può stupire, ma non in Gran Bretagna, dove la «guerra culturale» attorno alla questione trans è una delle più divisive e ha visto, ad esempio, una scrittrice come JK Rowling, la creatrice di Harry Potter, condannato all’ostracismo dai custodi del politicamente corretto per aver sostenuto la realtà del sesso biologico. Dall’altro lato, la destra usa la polemica come una clava per additare al pubblico ludibrio quanti — come la Mordaunt — si mostrano sensibili alle ragioni dei trans.

Ed è un peccato, perché Penny ha sicuramente le carte in regola per dimostrarsi una scelta vincente da parte dei conservatori. Figlia di un paracadutista, lei stessa riservista della Marina, vanta un curriculum tutt’altro che convenzionale: da ragazza ha lavorato come assistente di un prestigiatore per aiutare la sua famiglia in difficoltà dopo la morte della madre, mentre alcuni anni fa ha partecipato a un reality tv, «Splash», di tuffi dal trampolino. E una volta, per una scommessa con i suoi commilitoni, ha pronunciato in Parlamento un surreale discorso sul benessere del pollame al solo scopo di scandire il più volte possibile la parola «cock» (che in inglese sta per gallo, ma volgarmente anche per c...). Insomma, una donna di spirito in grado di risollevare le sorti dei conservatori dopo l’ottovolante di Boris Johnson: ma che rischia di essere impallinata per troppo progressismo.

Pietro De Leo per “Il Tempo” il 18 Luglio 2022. 

Effetti collaterali della politica gender. In un carcere femminile del New Jersey sono ospitati 27 detenuti transessuali, assieme a circa 800 donne. Tutto questo è avvenuto dopo una battaglia pubblica, e legale, intentata da un trans supportata da un’associazione per i diritti civili. 

La struttura correzionale in questione, peraltro, non contempla la condizione di un intervento chirurgico di “riassegnazione di genere” per ospitare persone transgender. Risultato? Due detenute sono rimaste incinte, dopo aver avuto dei rapporti sessuali all’interno del carcere, con altri detenuti. 

Al momento si sa ancora poco di questa storia (riportata dal quotidiano inglese Daily Mail), non si è ancora a conoscenza se vogliano proseguire o meno la gravidanza, né se abbiano avuto rapporti con lo stesso transessuale. Tuttavia, quel che è trapelato dall’istituto penitenziario è che tutto si sia svolto nel pieno consenso.

Una circostanza, questa, che tuttavia non cancella alcuni precedenti poco felici. Nel 2021, infatti, una detenuta aveva sporto denuncia per presunte molestie da parte di alcuni detenuti trans. Così come il sindacato delle guardie carcerarie si era sempre opposto all’affiancamento donne-trans paventando conseguenze spiacevoli per tutta la popolazione carceraria e problemi di gestione.

Che puntualmente si sono verificati, a riprova di quanto sia rischioso seguire i dettami di una società dove il desiderio diventa ideologia.

Dal “Venerdì di Repubblica’’ l'8 luglio 2022.  

LA LETTERA: Ho seguito la serie di articoli di Repubblica che riguardano i trans: io stessa sono una donna transgender, ma non solo per questo l'unico commento che mi è sembrato serio e coerente è quello di Monica Romano: ho saputo che è una consigliera del Comune di Milano molto attiva e ho visto il suo aspetto simpatico su Facebook.

Anche lei, signora, che ogni tanto leggo, ha capito poco di noi, non è informata sulla nostra vita difficile se non talvolta umiliante e si è espressa con molta superficialità su di noi, come del resto le studiose che si sono soffermate sulla nostra "pericolosità" o meno, nei luoghi pubblici di separazione come le carceri e i "lavatory". 

Io ho la fortuna di essere figlia di una professionista che mi ama molto, e di poter quindi lavorare protetta nel suo studio: tra l'altro viviamo in una piccola città civile, e c'è chi mi ricorda bambino.

Non mi hanno mai messo a disagio. 

LA RISPOSTA DI NATALIA ASPESI: A disagio sono io, che mi sento in colpa e "reazionaria" perché non mi batto troppo per donne e uomini transgender. Per anni l'ho fatto per i diritti dei gay che allora però erano persone combattive e spiritose. 

Per le loro battaglie il loro coraggio e il sostegno democratico, molto è cambiato (vedi unioni civili, anche se c'è ancora da lottare) e se dico che ho molti amici gay non è per concludere "però" come nelle barzellette, ma perché i mondi che mi interessano sono quelli della cultura, dove, non so perché, i gay primeggiano per sapienza e impegno.

Ho trovato quel dialogo tra opposti femminismi privo di senso, perché per esempio, per quello che riguarda le toilette pubbliche, in tanti posti non sono divise e la gloriosa università di Pisa ha appena inaugurato 86 bagni "genderless", con una cerimonia epocale, addirittura alla presenza del rettore, dell'assessora all'Istruzione della Toscana e di ogni autorità che intenda mandare «un bel segnale forte e chiaro» contro discriminazioni e pregiudizi. 

Se posso osare l'inosabile accettando ogni punizione, le chiedo perché il vostro corpo, le vostre scelte sessuali e sentimentali, il vostro dolore e il vostro percorso, restano, per noi "diversi", un mistero? Perché l'amabile Vladimir Luxuria è una donna che ama una donna e conserva il sesso maschile? 

Perché l'ex ragazza Elliot Page si è tolta il seno ma non dice cosa ha fatto del suo sesso femminile? Perché sono più gli uomini che vogliono essere donne, quando come uomini sarebbero ancora privilegiati?

Che cosa vuole dire sentirsi donna se non lo sappiamo neppure noi donne, se non quando ci innamoriamo e desideriamo l'altro? Ebbene sì, sono una sporcacciona che rispetta moltissimo le persone trans ma le vorrebbe capire di più, sentirle più vicine, più comprensibili.

Vittorio Feltri, "che roba è il Gay Pride": la verità (crudissima) sulla "Carnevalata". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 luglio 2022

Uno dei tanti e ingiusti pregiudizi in voga in tema di omosessualità è che il sottoscritto sia irrimediabilmente e assolutamente omofobo, mentre a me di cosa accade nei letti e nelle mutande altrui non è mai fregato un fico secco. Giudicare una persona dalle sue preferenze o tendenze sessuali e, sulla base di queste, determinare il trattamento da riservarle, trovo che sia operazione indegna e indecente. È un po' come stabilire di rispettare un essere umano in relazione a quanti denari abbia in tasca. Cose che accadono nei Paesi più incivili del mondo, come quelli islamici dove chi se la fa con persone del suo medesimo sesso viene addirittura ammazzato, e che poco si addicono dunque ad una società come la nostra, progredita dal punto di vista giuridico, civile e culturale.

Non soltanto non coltivo alcuna ostilità gratuita nei confronti dei gay, ma devo altresì ammettere che, sebbene un individuo non sia tenuto a dichiarare se preferisca il pisello o la patata, ammiro chi non nasconde la propria omosessualità, bensì la dichiara con orgoglio. A questo proposito, ricordo un avvenimento che ha come protagonista il mio caro amico e collega Paolo Isotta. Invitato a prendere parte ad un dibattito televisivo, a Paolo fu posta una domanda indiscreta: «Ma è vero che lei è gay?». Egli rimase qualche secondo in silenzio. Poi, quasi risentito, con tono grave esclamò: «No, io non sono gay, io sono ricchione». Ritengo che con queste parole Isotta intendesse dirsi orgogliosamente omosessuale e altresì esprimere disprezzo nei confronti di quel conformismo imperante, travestito di falso perbenismo e ricamato di squallido buonismo (tutta roba che sta a cuore al Pd), che ha vietato l'uso di certi termini considerati ingiuriosi, lesivi della dignità di categorie reputate fragili e minoritarie.

Nonostante io abbia stima verso chi non si vergogna della propria omosessualità, ho difficoltà a comprendere coloro che la esibiscono come fosse un distintivo in occasione, ad esempio, del Gay Pride, che si è tenuto proprio ieri a Milano. Queste sfilate in maschera, grottesche, persino volgari, rumorose, anzi chiassose e fortemente disturbanti, non finiscono forse con lo svilire una battaglia giusta come quella riguardante i diritti civili e la sacrosanta parità tra etero e omo, trasformando tutto questo in una gigantesca pagliacciata? Le cose serie andrebbero affrontate, difese e trattate in maniera sobria e non zingaresca. Non sostengo che gli omosessuali dovrebbero fare una marcia funebre su Milano anziché allestire carri allegorici e travestirsi da pornostar. Però un minimo di temperanza sarebbe utile affinché la difesa dei diritti dei gay non risulti una squallida buffonata. Quando si parla di diritti, di uguaglianza, di identità, la faccenda è sempre tutt' altro che frivola. Il carnevale, del resto, è passato da un pezzo.

L'ossessione del sesso. Natalia Aspesi su La Repubblica il 23 giugno 2022.

Il dibattito femminista sui transgender.

Si chiude per ora l'appassionato dibattito femminista su quanto sia giusto includere i trans nel genere femminile, avendone discettato tra loro, accademiche femmine di rango, il tutto ufficializzato dalla conclusione di Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicanalista di massima sapienza: e uomo. Nessun trans è intervenuto per dire la sua, forse i loro problemi stanno risolvendoli da soli, come sarebbe giusto e vincente.

Naturalmente si teneva conto dei trans che si sentono donna, che sanno di essere donne, pur non sbarazzandosi di quel di più che alla nascita li aveva erroneamente classificati maschi. Le studiose del pensiero del sociale e del politico, hanno dovuto anche soffermarsi su problemi pratici quali i luoghi di separazione dei sessi, i conventi, le carceri, e soprattutto i gabinetti pubblici, quelli segnati separatamente con donnina e omino sulla porta, non essendosi ancora provveduto ad altro simbolo per non binari, transgender, asessuati.

Consentire o non consentire l'uso di quello con donnina anche alle donne provviste di pene? Diventato accessorio femminile, non potrebbe in certi casi conservare la sua origine virile e non sentir ragione, costituendo così una minaccia, una pericolosità per le frequentatrici normodotate dei cessi? Son tutte cose nuove da studiare e mi spiace di non trovare per mia incapacità, ricerche che si occupino dei trans che nati biologicamente femmine, rifiutano il loro sesso scegliendo una identità maschile. diventando uomini.

Quale saranno i loro Wc di riferimento, tenendo conto che in quelli maschili potrebbero diventare loro le vittime di molestie? 

Su Netflix è arrivata la terza stagione di The umbrella Academy , storia confusa e apocalittica, in cui Elliot Page che negli episodi precedenti si chiamava Vanya essendo ragazza, finalmente diventa Viktor, essendo diventato anche nella vita ragazzo. Questioni di gusti: quando si chiamava Ellen e nel 2007 era una adolescente piccina e di grazia delicata, protagonista di Juno , adesso a 35 anni è un giovanotto sempre piccino e di grazia delicata.

Purtroppo sono gli americani, anzi le americane, una valanga di persone di grande scienza e impegno, a occuparsi voracemente della sessualità, però sempre come identità e poco come pratica, perché studiare e approfondire va bene, ma peccare è una brutta cosa. Quindi non esiste ancora un dizionario italiano, che renda praticabile a tutti l'approccio e la comprensione di questi nuovi problemi. Nel mio piccolo di non studiosa del ramo e di persona impegnata ad evitare fastidi e scocciature, questo dibattito che immagino troppo impegnativo per molti (compresa me), mi suscita qualche dubbio.

Non è che stiamo ridando al pene, sia pure al gabinetto pubblico, il valore simbolico del fallo, cioè della mitica erezione, come fosse un obelisco, un monolito dell'antichità, da temere ma anche adorare, e meno male che per consolarci molti studiosi del ramo ci ricordano la sua somiglianza con un mestolo da cucina. Temo anche che con questo insistere su esclusioni e separazioni, questi progetti di rifiuto e difesa, questi cipigli e sfiducia, ci troveremo senza saperlo a vivere in clausura, in un harem, velate. Tra noi e speriamo qualche trans.  

Michele Serra per “la Repubblica” il 22 giugno 2022.

Dopo la Federazione internazionale degli sport d'acqua, anche quella del rugby ha deciso di sospendere l'ammissione delle atlete trans alle competizioni femminili. Anche se i comunicati ufficiali non lo dicono esplicitamente, la causa è l'evidente sproporzione di mezzi fisici tra le persone nate e cresciute con corporatura maschile e le atlete cisgender, ovvero femmine per nascita e per identità di genere.

Clamoroso il caso di Lia Thomas, la nuotatrice americana che ha stravinto ogni gara e frantumato ogni record femminile perché, avendo più o meno il fisico di Michael Phelps, non aveva avversarie.

Se è del tutto comprensibile il duro travaglio di una persona transgender, bersaglio di umiliazioni e discriminazioni feroci, è tutt'altro che trascurabile la mortificazione di atlete femmine che si vedono surclassate da corpi maschili, o ex maschili, che rivendicano una identità femminile. Inevitabile, nelle nuotatrici sgominate da Lia Thomas, la sensazione di essere vittime di slealtà sportiva.

Le accuse di transfobia (in casi come questo, insensate) non devono confondere le acque. Tali e tante sono le manifestazioni di vera transfobia e omofobia, che confonderle con la tutela delle atlete femmine e dello sport femminile equivale a togliere autorevolezza e forza alle battaglie per l'autodeterminazione e la dignità di tutte le persone. Difendere una identità a scapito di un'altra non sembra essere una buona causa.

Bologna, poliziotti Lgbt esclusi dal Pride: è bufera. Scoppia la polemica a due giorni dalla manifestazione. Gli organizzatori: "Ambiente maschilista, no a simboli e striscioni". Il Dubbio il 23 giugno 2022.

Il Gay pride di Bologna comincia con una polemica. A due giorni dalla maxi sfilata che si terrà sabato, è bufera infatti sugli organizzatori della rete Rivolta Pride, che hanno deciso di escludere l’associazione Lgbt di appartenenti alle forze di polizia e forze armate, Polis Aperta, dalla manifestazione.

A denunciarlo sono gli stessi poliziotti, ai quali è stato chiesto di presentarsi senza loghi e striscioni dell’associazione, ma di partecipare eventualmente in forma anonima. «Quello che mi ha fatto più male è stato sentirmi rispondere che non era importante fossi trans perché prima di tutto sono un poliziotto», racconta a LaPresse Alessio Avellino, 26 ragazzo transgender presidente di Polis Aperta. «Ci stiamo organizzando internamente per la partecipazione – chiarisce Avellino – perché ci è arrivata tantissima solidarietà, tante mail, e abbiamo capito che è la situazione è ristretta a piccolo un gruppo di persone tra gli organizzatori che ha direzionato questo evento». «Ma – chiarisce il presidente di Polis Aperta – così facendo non produciamo altro che narrazione negativa per la nostra comunità. Del resto cosa si pensa di ottenere attaccando la parte sana? Noi lavoriamo dal 2005 e sono 10 anni che siamo interlocutori delle associazioni nazionali, io personalmente se non avessi incontrato Polis Aperta non avrei il nome di Alessio Avellino».

Gli organizzatori, da parte loro, hanno ricordato che la manifestazione nasce per ricordare i moti di Stonewall quando, nel 1969, nel quartiere Greenwich Village di New York, la comunità si ribellò a una retata della polizia in un locale. «Riconosciamo – replica Rivolta Pride- che l’omolesbobitransafobia è presente in tutti i luoghi di lavoro, anche all’interno della polizia e delle forze dell’ordine. Anzi, spesso è proprio in questi settori che le discriminazioni trovano spazio, incentivate da un ambiente, quello delle caserme, intriso di machismo e maschilismo». Ed ecco perché, sottolineano, «ci teniamo a chiarire che la nostra non è una presa di posizione contro Polis Aperta, ma di critica aperta alle forze dell’ordine come istituzione, e come luogo di riproduzione di violenza sessista, omolesbobitransfobica, abilista e razzista».

«Apprendiamo con sconcerto che il coordinamento del Pride di Bologna ha fatto divieto alle associazioni di forze dell’ordine e militari Lgbt+ di partecipare al Pride di sabato a Bologna con striscioni o bandiere delle loro organizzazioni, in quanto gli ambienti militari o delle forze dell’ordine sono sessisti e violenti. Ricordo agli organizzatori del Pride che le associazioni Lgbt+ in tale ambito servono proprio per sensibilizzare tali ambienti e tutelare i militari, poliziotti, etc, Lgbt+ e non solo, che sono spesso vittime di quel sessismo e di quella violenza, ancora oggi. Quindi la scelta degli organizzatori del Pride è chiaramente discriminatoria e contro i valori di inclusione del Pride», dichiara invece Fabrizio Marrazzo, portavoce partito GayLgbt+, Solidale, Ambientalista, Liberale.

«Il Pride non è di chi lo organizza ma è patrimonio di tutti, io stesso da quando ho organizzato il Pride di Roma del 2010 mi sono scontrato con associazioni ed attivisti Lgbt+ che non volevano associazioni di militari o non di sinistra Lgbt+, ed allora come oggi reputo sbagliate tali scelte, perché la comunità Lgbt+ è varia ed è presente in tutti gli ambienti e nessuno di noi può o deve escludere nessun membro che si riconosca nei valori del Pride. Cosa differente se parliamo di organizzazioni che sostengono pensieri o azioni discriminatorie, violente o antidemocratiche di qualsiasi tipo, ma non è questo il caso», conclude.

Filippo Fiorini per “La Stampa” il 24 giugno 2022.

Sono molte le realtà che compongono la comunità LGBT+ italiana e ognuna ha una visione del mondo. Da ieri, però si sono venuti a creare due schieramenti: chi crede che gli omosessuali nelle forze dell'ordine abbiano diritto di manifestare al Pride di Bologna, domani, esponendo gli striscioni della loro associazione e quelli che invece pensano che per tradizione della marcia e critica al sistema, possano farlo solo deponendo le insegne e sfilando come semplici partecipanti.

Il problema, è che la seconda di queste due scuole di pensiero si è imposta nelle assemblee di preparazione all'evento e il comitato organizzatore, Rivolta Pride, ha detto di non avere nulla contro il gruppo di poliziotti e soldati LGBT+ di Polis Aperta, ma di non volere che si presentino ufficialmente come tali.

«Ci hanno proprio detto di non scomodarci a venire - racconta Daisy Melli, di Polis Aperta - Rivolta Pride ha prima fatto un comunicato in cui invitava chi fa il mestiere delle armi a non presentarsi al Pride con bandiere o simboli dell'associazione. Poi, l'ha sostituito con uno meno aggressivo, ma la sostanza è quella».

Il fatto viene confermato da Camilla Ranauro, prima presidente donna dell'Arcigay Bologna e una delle portavoce della manifestazione: «Abbiamo voluto correggere il tiro per spiegare, è un discorso complesso».

Innanzitutto, c'è la tradizione: «Il primo Pride della storia è stato nel '69 a New York - continua Ranauro - dopo l'ennesima retata della polizia allo Stonewall Inn, un bar gay frequentato da trans nere e prostitute, in virtù di una legge che vietava agli uomini di vestirsi da donne, loro hanno reagito lanciandogli delle bottiglie».

Poi, c'è la politica. Rivolta Pride è andata oltre i confini delle lotte LGBT+ e contesta l'ordinamento sociale: «Noi parliamo di tanti temi. Lavoro, migranti e ne parliamo non solo in termini LGBT - spiega la portavoce - non possiamo quindi evitare di criticare anche le istituzioni e la polizia. Viviamo tutta una serie di discriminazioni che ci fanno arrabbiare, tutto il sistema è pensato per escludere le persone LGBT».

Da Polis Aperta, ribattono che il loro scopo è proprio sensibilizzare e formare: «Ieri abbiamo iniziato un corso per agenti che si devono rapportare coi crimini d'odio, presso la scuola della Polizia Locale di Toscana, Emilia e Liguria». 

Ma allora, se le idee sono affini, perché non c'è accordo? «Perché Polis Aperta non si è mai confrontata con Rivolta Pride - dice Ranauro - non sapevamo se concordava con noi o no. Di base, c'è la naturale diffidenza verso un'istituzione violenta come la polizia».

Le stesse posizioni sono state assunte anche da chi organizza il Pride di New York, da cui gli appartenenti alle forze dell'ordine sono stati esclusi fino al 2025. Lì come qui, molti hanno gridato alla discriminazione da parte di chi dovrebbe combatterla. Per quanto riguarda Bologna, Polis Aperta ha deciso di partecipare solo con le magliette con scritto «diversamente uniformi».

Polis Aperta. Lo stupido divieto agli agenti Lgbtq di sfilare con logo e striscione al Pride di Bologna. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

Gli organizzatori della manifestazione che si tiene nel capoluogo emiliano hanno deciso di escludere l’associazione che riunisce le persone Lgbti+ presenti nella polizia e nelle forze armate. Ma così verrebbe meno il senso di questa festa nata per includere e non certo per escludere

Pesa come un anatematismo il niet che le realtà organizzatrici del Rivolta Pride di Bologna hanno solennemente formulato contro la partecipazione di Polis Aperta, associazione di agenti Lgbt+ delle forze dell’ordine e delle forze armate, all’odierna marcia dell’orgoglio. Non sarà dunque ammesso alcun logo o striscione che possa ricondurre al sodalizio nato nel 2005 e facente parte di EGPA (European Gay Police Network). Chi ne è componente potrà invece intervenire ma «in modo anonimo – così il comunicato di protesta – quasi dovessimo nascondere chi siamo». 

Alle prime reazioni di Polis Aperta, subito attaccata sui social da rappresentanti o persone comunque vicine al Rivolta Pride con «parole pesanti come pietre» e toni trasudanti «dileggio, discriminazione, pregiudizio», è seguita una polemica che s’è vieppiù ingigantita con esiti inattesi.

Di qualsivoglia età, condizione, appartenenza (o non) politica, la maggior parte delle persone Lgbt+ s’è infatti schierata apertamente accanto alle loro omologhe in divisa e stigmatizzato i veti escludenti posti dalla rete bolognese. Rete che, nata nel 2020 attraverso le mobilitazioni #moltopiudizan, è dovuta correre ai ripari martedì con un lungo post su Facebook per «chiarire che la nostra non è una presa di posizione contro Polis Aperta, ma di critica aperta alle forze dell’ordine come istituzione, e come luogo di riproduzione di violenza sessista, omolesbobitransfobica, abilista e razzista. Riteniamo necessario aprire una riflessione seria sul tema della polizia e delle forze armate e delle discriminazioni vissute dalla nostra comunità». 

Insomma, la classica toppa peggiore del buco tanto più che da 17 anni l’invocata «riflessione seria» la compiono, e con risultati ben visibili, agenti Lgbt+ delle forze armate e delle forze dell’ordine. «Persone – si legge sempre nel comunicato di Polis Aperta – che, pur avendo scelto un lavoro, dove non sempre la comunità Lgbtqi+ è stata accolta a braccia aperte, hanno deciso di metterci la faccia. Di uscire allo scoperto, sfidando ogni convenzione per abbattere diffidenza e pregiudizi. Fin dalla nascita, l’associazione si è impegnata per il riconoscimento dei diritti civili, dalla legge Cirinnà al ddl Zan, per il riconoscimento degli alias alle persone in transizione e dell’omogenitorialità. Perché siamo consapevoli che solo tutelando le molteplici identità individuali della società si garantisce la difesa di quella democrazia che abbiamo deciso di rappresentare indossando una divisa».

A questo punto è necessario però riavvolgere il nastro e ritornare indietro alla New York di 53 anni fa che tutte e tutti, anche il Rivolta Pride l’ha fatto, finiscono sempre per citare. Di strada ne è stata fatta, e non poca, dalla notte del 28 giugno 1969, quando nel bar Stonewall Inn di Christopher Street lesbiche, gay e soprattutto donne trans, che, come Marsha P. Johnson, amavano definirsi drag queen, reagirono contro l’ennesima retata della polizia. Arresti, violenze, soprusi agiti dalle forze dell’ordine verso persone considerate deviate, verso persone dallo status illegale e dunque da perseguire. Fu l’inizio di quei moti di Stonewall che, durati fino al 3 luglio, sono riguardati quali l’iniziale momento simbolico del moderno movimento di liberazione Lgbt+.

A tenerne viva la memoria sono innanzitutto i Pride, che, inizialmente chiamati Christopher Street Liberation Day March, si tengono dal 1970 annualmente in giugno (ma non solo) ben al di là dei confini statunitensi. Ma proprio i Pride, spazi di libertà per antonomasia in cui chiunque marcia orgogliosamente come vuole – e giustamente lo si puntualizza a fronte delle periodiche e trite polemiche sulle modalità partecipative –, possono, e talora si traducono, in marginalizzazione, isolamento, esclusione di soggettività Lgbt+ singole o comunitarie. Capitò agli albori alle componenti dello S.T.A.R. (Street Transvestite Action Revolutionaries) sì da indurre Sylvia Rivera a tenere il famoso discorso del Gay Power al termine della Christopher Street Liberation Day March del 28 giugno 1973. 

Sta ora capitando, mutatis mutandis, a Polis Aperta che pure sta sgretolando, al pari di altre associazioni europee, americane, oceaniane di militari o forze dell’ordine rainbow, lo storico muro di antagonismo tra polizia e comunità Lgbt+. Lo rilevava nel 2018 l’allora presidente Gabriele Guglielmo nel dire: «Noi in qualche modo facciamo nostri i moti di Stonewall, li rivendichiamo come esempio di quello che la polizia oggi nel 2018 non può e non deve mai più fare. Gli abusi delle forze di polizia quel 28 giugno 1969 hanno creato quella scintilla da cui è divampata quella fiamma fortissima che è il movimento Lgbt+. Quella fiamma che porta oggi gli operatori di polizia Lgbt+ non solo a non osteggiare i Pride, ma addirittura a sfilarvici e organizzarli». Ma con vistose differenze con quanto avviene in molti Paesi dell’Occidente, dove alle marce dell’orgoglio agenti sfilano in divisa mentre da noi vigono ancora appositi divieti, come da regolamento interno.

Forse lo ignora chi continua a menare il can per l’aia con un tale fantomatico argomento, mentre bellamente sottace che anche a Bologna ci si è dovuti recare in Questura per i relativi permessi e che oggi le forze dell’ordine saranno presenti per garantire lo svolgimento sicuro del Pride. Il quale, nonostante tutto, vedrà alla fine una massiccia e festosa partecipazione.

Caterina Soffici per La Stampa il 23 giugno 2022.

Jennifer Lopez sul palco del Los Angeles Blue Diamond Gala ha presentato sua figlia Emme Maribel Muniz, 14 anni, usando i pronomi neutri «them/they», né maschio né femmina. Munita di microfono color arcobaleno ha detto: «L'ultima volta che ci siamo esibiti insieme è stato in un grande stadio come questo. Da allora, chiedo loro (I asked "them") di cantare con me ma non l'ha fatto. Però questa è un'occasione molto speciale».

Uno dei sette figli di Elon Musk ha avviato le pratiche per cambiare genere e nome. Xavier Musk, 18 anni, vuole diventare Vivian Jenna Wilson. Nei documenti pubblicati dal sito americano Tmz che dà la notizia si legge che la richiesta è motivata da «ragioni di identità di genere e dal fatto che non desidero essere imparentata con mio padre biologico in alcun modo o forma». 

Sono due notizie, le ultime di una lunga serie destinata ad accrescersi. Perché l'identità di genere è un tema attuale e non più ignorabile e perché le nuove generazioni sono fluide. Si adeguano gli abiti (viste le ultime sfilate di Prada e Gucci?) e la società richiede che si adeguino anche le parole. Se le parole servono a definire e a indicare, la dicotomia cisgender maschile/femminile non basta più.

Il linguaggio non è mai neutro, e se non riteniamo più accettabile usare parole come «negro» o «invertito» è perché la nostra sensibilità è cambiata. Quello che prima era neutro, oggi è considerato razzista o sessista. Quindi They/Them, un generico pronome plurale per definire persone che in un dato momento della propria esistenza non vuole identificarsi in un genere.

In Italia il maschile generico sta imboccando il viale del tramonto ed è aperto il dibattito sugli asterischi («care tutte o tutti» oppure car* tutt*?) e sulla schwa, la «e» rovesciata che non riesco a scrivere perché sulla mia tastiera non c'è, ma che probabilmente nelle future tastiere fluide e inclusive ci sarà. (Al proposito consiglio l'interessante saggio pubblicato da Einaudi Così non schwa, dove Andrea De Benedetti analizza quelli che lui ritiene «i limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo»). La questione non è semplice.

C'è sempre da capire se nasce prima l'uovo o la gallina, cioè se si parla in una certa maniera perché la società si è evoluta in una certa direzione (vedi il caso di «negro») o se è invece l'uso di certe parole che incentiva la società a evolvere in quella direzione. Mi spiego meglio con un aneddoto. Collaboro da anni al Ministry of Stories di Londra, il laboratorio di scrittura per bambini provenienti da realtà disagiate. Siamo un gruppo di scrittori, pubblicitari, creativi, disegnatori, registi, insegnanti eccetera e lavoriamo con l'immaginazione dei ragazzini per tirare fuori il loro potenziale e aumentare la loro fiducia grazie al potere delle parole e della scrittura.

Prima di ogni sessione ci sediamo in circolo e ognuno si presenta. Nome, cosa fai nella vita, cosa ti aspetti oggi da questo laboratorio. Sembra una pratica da alcolisti anonimi, ma in Inghilterra si usa così. Da quando siamo tornati in presenza, dopo il nome è stato inserito il pronome. Anche ai bambini delle elementari viene chiesto quindi di definirsi: he/him, she/her oppure they/them. La cosa mi ha inizialmente spiazzato, per la questione dell'uovo e della gallina. Chiedere a dei bambini di sei o sette anni di definire il proprio genere mi è parso eccessivo. 

Ho pensato che induca un pensiero che non avrebbero e che a quell'età è giusto non abbiano. Ma poi ho anche pensato che in quelle stanze, su quei piccoli tavoli, le parole sono importanti. Uno dei motti del Ministry è che con le parole si può cambiare il mondo. E quindi forse anche con un pronome. E quindi forse è giusto che se lo chiedano già a quell'età.

Insomma, la questione non è facile, e da parte mia ho sospeso ogni giudizio. Però è chiaro che se anche al Ministry è arrivato il pronome, la questione non è più ignorabile. Se ce lo ponessimo anche qui, casi come quello del suicidio della professoressa trans Cloe Bianco non sarebbero neppure casi (ma questo è un discorso ancora più complicato e ci porterebbe troppo lontano). 

Per rimanere ai due casi del giorno, molti teenager alle prese con la propria identità vorrebbero avere una madre come Jennifer Lopez, anche se 14 anni sono decisamente pochi per sapere se stai seguendo una moda o se è una presa di coscienza veramente consapevole. Mentre più chiara pare la scelta di Xavier/Vivian rispetto all'ingombrante padre Elon, che dopo aver votato Joe Biden ha cambiato di recente casacca e si è dichiarato repubblicano, allineandosi con un partito che sta cercando di limitare i diritti dei trans in molti stati d'America.

Uno per tutti il governatore della Florida Ron De Santis, promotore della legge «Don't Say Gay» che impedisce di parlare di questioni legate all'identità di genere nelle scuole e ha suscitato la reazione indignata della Disney. Lo stesso Elon Musk che sulla questione dell'identità di genere aveva scritto un messaggio su Twitter - poi cancellato- dove diceva: «Sostengo assolutamente i trans, ma tutti questi pronomi sono un incubo estetico». E quindi eccoci tornati alla lingua, come laboratorio sociale e di vita. 

 I pronomi sono solo un incubo estetico (come le schwa e tutti gli asterischi del caso) o sono sostanza? Sono flessibilità innovative oppure, come sostiene invece Andrea De Benedetti, solo storpiature finto-inclusive, perché «il linguaggio inclusivo è un'idea seducente, ma il cuore del problema sta quasi sempre altrove»? Porsi queste domande è già qualcosa. 

La moda gender contagia le star. Andrea Indini il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dopo aver cavalcato ogni sorta di battaglia progressista, dai poliziotti brutti-e-cattivi alle discriminazioni razziali, dalle campagne contro le armi alle famiglie arcobaleno, Shonda Rhimes non poteva che giocarsi la carta del gender.

Dopo aver cavalcato ogni sorta di battaglia progressista, dai poliziotti brutti-e-cattivi alle discriminazioni razziali, dalle campagne contro le armi alle famiglie arcobaleno, Shonda Rhimes non poteva che giocarsi la carta del gender. Era solo questione di tempo. Così, proprio mentre negli Stati Uniti il delirio woke fa sempre più strage delle libertà, l'ha usata per «ravvivare» la 18esima stagione di Grey's Anatomy. Il figlio adottivo di Owen e Teddy prende a vestirsi da bimba e chiede che ci si rivolga a lui col pronome femminile.

Le piattaforme di streaming (Disney in testa) fanno a gara per inseguire questa tendenza, non tanto per i diritti quanto per assecondare il pubblico (pagante). Si chiama woke capitalism. E non sempre paga. Netflix ne sa qualcosa. Eppure molte star di Hollywood sgomitano per partecipare alla sagra del politicamente corretto. Così succede che a Los Angeles, poco prima di esibirsi sul palco, JLo presenti la figlia 14enne usando il pronome neutro «loro» perché non si riconosce né nel «lui» né nel «lei». Ci sono già passate, già più grandicelle, Elliot Page (la Ellen di Juno) e Demi Lovato. Stupisce? Macché. In un'epoca in cui J.K Rowling viene minacciata di morte per aver difeso il concetto di «donna», la biologia è ormai un'opinione.

È un po' di anni che viene imposta questa ideologia. Più sulle riviste patinate che nella vita reale. Nello stesso calderone c'è finito pure il tema dei «bambini gender variant». Ovvero bambini che esprimono il genere in modo diverso rispetto al sesso biologico. La terzogenita di Angelina Jolie e Brad Pitt, per esempio: nata Shiloh, si sentiva John e come tale si vestiva. Sui giornali si parlò di cura ormonale e transizione. Tutto smentito, poi. Xavier, il figlio 18enne di Elon Musk vuole cambiare genere e cognome, anche se il padre non sarebbe d'accordo.

Tutto questo con le battaglie per i diritti non c'entra nulla. Ognuno a casa propria fa ciò che vuole, e certo per questo non può essere discriminato. Il problema sorge quando una tendenza personale evidentemente minoritaria - si trasforma in totem, in un idolo da adorare sull'altare del politicamente corretto. Ed è quello che sta accadendo.

Ormai un'intera generazione viene bombardata su questi temi. Basti guardare l'incoronazione di Caitlyn Jenner (nato William Bruce) a donna dell'anno o la Barbie dedicata all'attrice (trans) di Orange is the new black, Laverne Cox. Chiunque provi a pensarla diversamente finisce all'indice. È il caso di Ricky Gervais e Dave Chappelle, messi in croce per aver detto che «si viene al mondo tra le gambe di una donna» e per aver elogiato le «donne all'antica, quelle con l'utero, non le nuove con la barba e le palle».

Irene Soave per il "Corriere Della Sera" il 22 giugno 2022.

L'equivalente italiano non sarebbe proprio «loro», meglio semmai «l*i» o «l e i»: il « they » inglese, riferito a una persona sola, indica che è di genere non binario. Non si riconosce, cioè, nei pronomi maschili (he/him) né in quelli femminili (she/her). Così, con «they», Jennifer Lopez si è riferita alla figlia Emme Maribel Muñiz, 14 anni, in un duetto sul palco del Blue Diamond Gala, indetto dalla squadra di baseball losangelina dei Dodgers. 

« They », cioè «l*i», ha annunciato la superstar, «sono i miei partner di duetto preferiti [per praticità di coniugazione, noi trascriviamo lo stesso «loro», ndr ]. Chiedo sempre loro di cantare con me, ma non lo fanno quasi mai. Questa è un'occasione speciale.

Loro sono molto occupati e costosi. Ma valgono ogni centesimo», e sul palco, in tuta fuxia e microfono arcobaleno, si presenta Emme Maribel, una dei due gemelli avuti nel 2008 con il cantante Marc Anthony. «L'ultima volta che ci siamo esibite insieme era in uno stadio grande come questo», ha continuato mamma J.

Lo. Ed era il 2020; lo show era quello dell'intervallo del Superbowl, Emme Maribel non aveva ancora 12 anni e il suo aspetto era quello di una bambina che si identificava con una bambina: mossette, abitino bianco, chignon.

Da un anno invece le foto che circolano di Emme la ritraggono con abiti larghi e corti ricci neri. Insieme hanno cantato la hit Thousand Years di Christina Perri; l'evento, le cui foto J. Lo ha condiviso su Twitter, ha raccolto 3,6 milioni per beneficenza, e i video sono virali. Ma non solo per la musica.

La scelta di definirsi con pronomi non binari, in epoca di identità di genere fluida, è sempre meno rara: per il dizionario americano Merriam-Webster «they» era già la parola dell'anno nel 2019 (nel 2018: «giustizia». Nel 2017 post-meToo: «femminismo»). E i 334 linguisti che formano l'American Dialect Society avevano già definito «they» parola del 2015.

Del resto la « e », che consente di crearne gli equivalenti in lingua italiana, è comparsa in quasi tutti gli smartphone. Anche nello star system ci sono precedenti: la supermodella Emily Ratajkowski, a ottobre 2020, annunciò la sua gravidanza in un lungo articolo in prima persona su Vogue , in cui dichiarava che il genere del nascituro (alla nascita poi biologicamente maschio, registrato all'anagrafe come Sylvester Apollo) l'avrebbe dichiarato lui stesso solo quando avesse compiuto 18 anni. J Lo, 52 anni, è forse all'apice della carriera: il successo del documentario sulla sua vita Halftime su Netflix e il ritorno di fiamma con l'amatissimo ex Ben Affleck ripercorrono le tappe del suo sfolgorante passato. Al futuro ci pensa la figlia Emme, sostenuta dalla mamma e da generazioni di nuovi fan coetanei, non a disagio coi pronomi. 

Dagotraduzione dal Daily Beast il 22 giugno 2022.

Uno dei figli di Elon Musk ha presentato una petizione per un cambiare il suo nome, dichiarando che «non vivo più né desidero essere imparentato con il mio padre biologico in alcun modo o forma». Il diciottenne vuole assumere il nome da nubile di sua madre, Justine Musk, che è stata la prima moglie di Elon. 

La petizione per far riconoscere ufficialmente il suo genere come femmina e il suo nome formalmente cambiato su un nuovo certificato di nascita è stata depositata presso la Corte Superiore della California ad aprile e ci sarà un'udienza a riguardo alla fine di questo mese.

TMZ è stata la prima a segnalare la notizia, che all'improvviso ha iniziato a circolare su Reddit e Twitter questo fine settimana. 

Il Daily Beast ha inviato un'e-mail a Elon Musk in merito alla petizione di sua figlia prima del rapporto TMZ e lui ha risposto: «Non vuole essere un personaggio pubblico. Penso sia importante difendere il suo diritto alla privacy. Per favore, non pubblicizzare qualcuno contro la sua volontà, non è giusto». 

Successivamente, diversi altri media, tra cui il Los Angeles Times, hanno pubblicato la notizia. Il Daily Beast non è riuscito a contattare Justine Musk o sua figlia per un commento. Ma la mamma ha twittato quando la storia ha iniziato a diffondersi. 

Cathy Renna, direttrice delle comunicazioni della National LGBTQ Task Force, ha dichiarato al Daily Beast che il gruppo «non approverebbe né perdonerebbe mai l'uscita di un giovane perché ha genitori famosi».

«Si spera che questo sia un campanello d'allarme per Elon Musk, che ha una storia di commenti anti-trans e irrispettosi in particolare sull'uso dei pronomi. Ci auguriamo che la ragazza trovi sostegno da altri membri della famiglia e sappia di avere una grande comunità che la supporta in ogni caso», ha aggiunto Renna. 

Il CEO di Tesla e SpaceX, un autodefinito «assolutista della libertà di parola», è stato preso di mira nel 2020 per aver twittato che «i pronomi fanno schifo», spingendo persino il suo partner, Grimes, a chiedergli di spegnere il telefono perché «non può sostenere l'odio». 

Mesi dopo, Musk ha insistito in un altro tweet dicendo che «sostiene assolutamente i trans, ma tutti questi pronomi sono un incubo estetico».

In altri tweet, Musk ha deriso l'idea delle differenze di genere, twittando l'11 giugno che «ci viene detto contemporaneamente che le differenze di genere non esistono e che i generi sono così profondamente diversi che la chirurgia irreversibile è l'unica opzione». «Forse qualcuno più saggio di me può spiegare questa dicotomia», ha aggiunto. 

Allo stesso tempo, lui e la cantante Grimes, che si identifica come "neutro di genere" , avrebbero adottato un sistema genitoriale neutrale rispetto al genere per i loro due figli. 

«Non voglio identificarli con il genere nel caso in cui non sia così che si sentono nella loro vita», ha detto Grimes in precedenza durante un live streaming su YouTube. 

Musk ha cinque figli, gemelli e terzine, con Justine, che nel 2010 ha scritto un saggio feroce per Marie Claire sul loro matrimonio.

«Era cresciuto nella cultura dominata dagli uomini del Sud Africa, e la volontà di competere e dominare che lo ha reso così vincente negli affari non si è spenta magicamente quando è tornato a casa. Questo, e il vasto squilibrio economico tra noi, ha fatto sì che nei mesi successivi al nostro matrimonio, una certa dinamica ha iniziato a prendere piede», ha scritto. 

«Il giudizio di Elon ha prevalso sul mio, e lui continuava a rimarcare i modi in cui mi trovava carente. "Sono tua moglie", gli ho detto più volte, "non una tua dipendente". "Se tu fossi un mio dipendente", diceva altrettanto spesso, "ti licenzierei"».

Dopo il loro divorzio, Justine, una scrittrice di successo, ha continuato a crescere i propri figli fuori dai riflettori, anche se di recente ha attirato l'attenzione per aver twittato sul processo per diffamazione Amber Heard-Johnny Depp, in cui Elon Musk ha svolto un ruolo di supporto.

Facciamo fooding out. Ama chi vuoi, compresa la pizza con l’ananas. Gastronomika su L'Inkiesta il 22 Giugno 2022.

Nel mese del Pride, molte aziende legate al mondo del cibo si sono schierate a favore dei diritti LGBTQ+. Ora arriva anche una campagna social che invita a dichiarare apertamente i propri orientamenti a tavola 

Il cibo è sinonimo di condivisione, partecipazione, inclusione e molte aziende del settore si sono inventate il modo di testimoniare la loro vicinanza al mondo LGBTQ+. Absolut ha appena lanciato un’edizione limitata della celebre Vodka, la Absolut Rainbow Limited Edition 2022, ispirata alla bandiera arcobaleno, simbolo universale di inclusione e amore; Oreo ha creato un nuovo packaging in edizione limitata dei suoi biscotti. 

Lo scorso 17 maggio in occasione della giornata contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia Ikea ha trasformato il suo celebre claim “Home sweet Home” in “Home Pride Home”, invitando il popolo della rete a impegnarsi per rendere il mondo – digitale e non solo – più inclusivo e a diffondere il messaggio sui canali social. Basta poco per fare in modo che sul lavoro, nei contesti sociali, in Rete ogni membro si senta libero di esprimere se stesso sapendo di non essere giudicato e di essere sempre il benvenuto.

Lo stesso pensiero alla base di Fooding Out, la campagna che la media company di foodtainment Chef in Camicia ha appena lanciato con l’intento di aiutare le persone a dichiarare i propri orientamenti a tavola, in libertà e senza dover sentirsi giudicati dagli stereotipi che la cucina italiana spesso “impone”. E quindi ecco la possibilità di rivelare apertamente i propri gusti: pizza col ketchup, carbonara con panna e cipolla, frittata con marmellata, zuppa di pesce con latte… le combinazioni che vengono condivise sotto l’hashtag #FoodingOut e @chefincamicia possono sembrare agghiaccianti agli occhi dei più, ma la campagna mira proprio a sensibilizzare le persone verso un’apertura mentale e ad un’accettazione delle differenze di ognuno di noi. Perché i pregiudizi sono ovunque, anche nella nostra tradizione culinaria.

«Abbiamo voluto dire la nostra su un argomento così delicato nel modo in cui ci riesce meglio, ovvero usando il cibo come chiave di lettura – spiega Giulia Cavallini, Head of content marketing di Chef in Camicia. Noi amiamo il cibo senza pregiudizi, lo studiamo, lo scopriamo. La cucina è un qualcosa che unisce, non divide. Ognuno dev’essere libero di amare chi vuole, vestirsi come vuole, e anche mangiare quello che vuole, ma soprattutto essere chi vuole».

Nella pagina web dedicata alla campagna, si racconta anche la storia del Pride e delle persone che ne hanno fatto la storia, da Harvey Milk fino a Keith Haring. Ma non solo online: per fare Fooding Out, Chef in Camicia, durante The Square per il Fuorisalone 2022, ha invitato le persone a scrivere su un bigliettino il proprio amore proibito in cucina e ad inserirlo nella Secret Box. L’attività continuerà per tutto il mese con la realizzazione di stickers con QR code che riportano alla Landing Page della campagna. Gli stickers verranno attaccati in diversi punti strategici di Milano e tramite Instagram stories si spingerà la community di Chef in Camicia a trovarli e a dichiarare il proprio #FoodingOut.

La campagna non ha uno scopo commerciale, non è finanziata da sponsor e non fa acquisizione di contatti. Il suo unico obiettivo è quello di diffondere un messaggio di amore che parte dal cibo e che si estende alla comunità LGBTQIA+, durante il mese del Pride e non solo.

 Torino Pride: “Siamo queer, transgender, non binari. Ascoltateci: ciò che non si dice non esiste”. PASQUALE QUARANTA su La Stampa il 17 giugno 2022.

La nuova generazione è fluida, queer, non binaria, non conforme. Cosa vogliono dire queste parole e come vivono le ragazze e i ragazzi che chiedono di essere chiamati così? Quali pronomi bisogna utilizzare per rivolgerci ai ventenni di oggi che non si riconoscono nei generi maschile e femminile? Dall’asterisco alla schwa per evitare il «maschile sovra-esteso», come sta cambiando la nostra lingua? Le sperimentazioni questi ultimi anni stanno funzionando? Lo abbiamo chiesto ai protagonisti di questa rivoluzione culturale in occasione del Torino Pride, a cui La Stampa partecipa per la prima volta con un carro e una delegazione di giornalisti (partenza il 18 giugno da corso Principe Eugenio alle 16,30). Lo facciamo grazie a TorinoSette, il supplemento da cui è partita l’iniziativa, e al supporto di Coca-Cola e di Xerjoff, aziende impegnate nel sostegno ai Pride nazionali che, nel capoluogo piemontese, finanzieranno insieme a La Stampa il progetto ToHousing dell’associazione Quore di Torino, un co-housing sociale che accoglie le persone lgbtqia+ in difficoltà e in condizioni di estrema vulnerabilità. «Le risorse disponibili non ci permettono di accogliere tutte le persone che hanno bisogno – ci spiegano Alessandro Battaglia e Silvia Magino, promotori della casa rifiugio – ma ci auguriamo che questo possa essere un inizio proficuo». In questo longform troverete le testimonianze video di Tosca e León, due ventenni che ci raccontano cosa vuol dire per loro essere persone lesbiche e non binarie. Ci sono poi le storie di Mattia Sasso, primo bimbo d’Europa affidato nel ‘95 al padre gay, e quella di Angelo Pezzana, classe 1940, fondatore del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), che ricorda le difficoltà incontrate negli anni Settanta, quando le persone omosessuali erano «pederasti» o «invertiti». Il quarto e ultimo video spiega lettera per lettera cosa vuol dire lgbtqia+, una sigla che racchiude decenni di battaglie. Tosca e León: rifiutiamo le etichette ma rivendichiamo le nostre identità «Mi imponevo di guardare i ragazzi perché ero una ragazza - racconta Tosca - ma ogni giorno rimanevo incantata a guardare la stessa ragazza bellissima che prendeva la metro con me». «Quando a scuola veniva chiesto di dividersi in maschi e femmine, io andavo in crisi» confessa León. Cosa vuol dire essere lesbica? E cosa vuol dire essere una persona non binaria? Tosca e León, due ventenni impegnati in Arcigay a Torino, ci raccontano come hanno scoperto, poco a poco, il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere. Dal coming out in famiglia ai primi baci, dalle parole che cambiano ai diritti negati. Link embed Mattia Sasso: cresciuto serenamente da un papà gay, famiglia è dove c’è amore Nel 1995, a Gaeta, viene emessa una sentenza rivoluzionaria: il giudice Antonio Paolino, presidente del tribunale, si convince nel corso di una causa di divorzio di affidare un ragazzo di 15 anni al padre «che si era dichiarato omosessuale», riporta La Stampa il 10 febbraio. Mattia Sasso, oggi quarantenne, è venuto a trovarci in redazione e ci ha raccontato la sua storia. «Con lui vivevo sereno, non mi importava il suo orientamento sessuale». Al giudice disse: «Se mi affidate a mia madre, scappo». La sua storia è raccolta ora nel libro Pensione Aurora, in cui racconta con ironia, tra party, viaggi e scorribande, la vita di un bambino che grazie all’amore riesce a superare muri di pregiudizi. Un romanzo ambientato tra Roma, Bologna, Ibiza e il Sud America che mette al di sopra di tutto la forza dell’amore. Link embed Angelo Pezzana: altro che asterischi, attenzione all’ideologia e alle parole pericolose «I ricordi della mia gioventù sono comuni a tutti quegli omosessuali che avevano vent’anni quando li avevo io». Alla vigilia del Torino Pride, Angelo Pezzana, classe 1940, ricorda la prima generazione gay italiana che cominciò a rivendicare i diritti civili in Italia e uscire allo scoperto: «I nostri luoghi di incontro erano i gabinetti, le strade buie, i cinemini di terz’ordine». Il fondatore del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) e organizzatore dei primi Pride, libraio della storica Libreria Internazionale Luxemburg e promotore del primo Salone del libro di Torino, racconta quando le persone omosessuali erano considerate «anormali». Dal primo amore, quello che sembra germinare dal seme dell’errore, alla fierezza di vivere finalmente alla luce del sole. Dall’importanza di partecipare ai Pride alle «pericolose» evoluzioni linguistiche degli anni recenti. Con un invito ai più giovani a non cadere nella trappola dell’ideologia. Link embed Cosa vuol dire lgbtqia+, una sigla che racchiude decenni di lotte. Lesbiche, gay, bisessuali, transgender. E ancora queer, ma per alcuni anche questioning. E poi intersessuali e asessuali. Ma c’è chi in quella «a» include anche gli alleati della comunità arcobaleno. Insomma, qual è il significato di questo acronimo che nasce negli anni ‘80? Scopriamolo lettera per lettera, senza dimenticare le persone non binarie e il simbolo + che c’è alla fine.

C. Gu. Per “Il Messaggero” il 15 giugno 2022.

C'è un prima e un dopo nella vita di Cloe Bianco. Nel 2015 era Luca Bianco, cinquant' anni, insegnante all'istituto Mattei di San Donà di Piave: è entrato in classe indossando abiti femminili e non se li è più tolti. Tre giorni di sospensione, l'assegnazione a mansioni non a contatto con i ragazzi, fino alla sua ultima nomina a Mestre. Da qui in poi è diventata Cloe, doveva essere la sua liberazione e invece si è isolata sempre di più. Fino a che non è riuscita ad andare avanti.

CIBO E BUON VINO Il cadavere carbonizzato di Cloe è stato ritrovato all'alba di sabato scorso nel furgone che usava come casa mobile, era parcheggiato a lato della strada regionale tra Auronzo e Misurina. Il mezzo era completamente bruciato e di Cloe restavano solo i resti carbonizzati, l'esame del dna chiuderà per sempre la sua storia. Fatta di sofferenza e pregiudizi che l'hanno allontanata poco alla volta dalle relazioni sociali, dal lavoro, dalla comunità. 

È stata lei, il 10 giugno, ad annunciare la volontà di suicidarsi nel suo blog. «Subito dopo la pubblicazione di questo comunicato - ha scritto - porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte. In quest' ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l'ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall'ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. 

Qui finisce tutto». Nel sito aveva riprodotto le immagini del testamento e raccontava le sue inquietudini, denunciando i «tentativi di annientamento» della sua persona, il dolore che le causava chi le stava intorno. Dal suo primo ingresso in classe in minigonna, unghie laccate e caschetto biondo. Un'allieva è uscita piangendo dall'aula, sconvolta dalla rivelazione, ha riferito tutto al padre che ha scritto all'assessore regionale all'istruzione Elena Donazzan, che definì l'episodio come «una carnevalata». «Ma davvero - ha aggiunto - la scuola si è ridotta così?». 

Cloe uscì sconfitta, il presidente del Tribunale del lavoro di Venezia, pur «senza voler criticare una legittima scelta identitaria sognata da Bianco dall'età di cinque anni», ha stabilito che la sospensione inflitta dalla scuola «era giusta» perché l'outing in così breve tempo, senza preparare adeguatamente le scolaresche, non è stato «responsabile e corretto».

Da repubblica.it il 17 giugno 2022.

"È sconvolgente che il movimento Lgbtq+ stia usando la morte tragica di una persona per fare una polemica politica. Io credo che chi ha lasciato solo il professor Bianco sia proprio il movimento Lgbt, perché a 7 anni di distanza, solo per cercare di trovare la visibilità, per attribuire una responsabilità, senza farsi una domanda sul modo del suo coming out?". Così Elena Donazzan, assessore all'Istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità del Veneto, in quota Fratelli d'Italia si esprime sulla tragica fine di Cloe Bianco, la professoressa suicida vittima di transfobia su cui lei stessa 7 anni fa prese provvedimenti dopo la lettera di alcuni genitori allievi di Bianco.

"Polemiche politiche assurde"

"Dire che si è omosessuali è una affermazione, presentarsi in classe, perché questo accadde, con una parrucca bionda, un seno finto, una minigonna ed i tacchi è un'altra cosa - aggiunge Donazzan - . Venne usato allora come bandiera di grande coraggio e oggi viene usato in morte per fare una polemica tutta politica, perché sono di Fratelli d'Italia". 

Le offese e le minacce degli odiatori seriali

Donazzan racconta poi le offese degli odiatori seriali ricevuto sui suoi canali social. "Da tre giorni i miei social sono attaccati con minacce di morte, con parole d'offesa a me e alla mia famiglia, alla mia vita, quindi se c'è una responsabilità di alzare i toni, è dall'altra parte - racconta - Io sono andata a rileggermi il post in cui parlavo di Cloe Bianco e pubblicai la mail arrivatami in ufficio e scrissi: 'Traete da soli le conclusioni'. "Nelle successive interviste, parlai di chi va abbigliato in un certo modo - puntualizza -  senza aver preparato la cosa". E aggiunge: "Ho definito Cloe Bianco 'un uomo vestito da donna' e cos'è se non questo? Oggi a Milano c'è il sole o la pioggia? Qui c'è il sole e anche se volessi la pioggia il sole splende nel cielo". 

La scuola non si deve usare come una vetrina

Per Donazzan  "sentire la propria sessualità in modo diverso, particolare, omosessuale, transessuale è una cosa, ma non è la scuola il luogo della ostentazione perché di questo si trattò. Ci sono molti insegnanti gay che conosco, che si confrontano con me, che di certo non usano la scuola per farne una vetrina, che rispettano il luogo della scuola. In queste ore sono tornata su alcune vicende che hanno aperto un dibattito nazionale, non sono in Veneto, sui ragazzi richiamati ad un abbigliamento più consono al luogo istituzionale. Allora questo vale per i ragazzi - si domanda - ma non può valere per un docente? Che tipo di messaggio diamo?". 

Vito (FI), dopo suicidio Bianco, Donazzan si dimetta

"Ho atteso qualche giorno. Di fronte al suicidio di Cloe Bianco mi aspettavo un gesto, una parola di scuse, di commozione dall'assessore Elena Donazzan, protagonista a suo tempo dell'allontanamento dall'insegnamento di Cloe Bianco perché aveva manifestato la sua identità di genere. Invece silenzio, un silenzio che è grave quanto lo furono le parole che l'assessore Donazzan pronunciò in quella occasione. A questo punto sono necessarie, doverose non le scuse ma le dimissioni di Elena Donazzan!". Lo scrive su Twitter Elio Vito, deputato di Forza Italia.

Gabriella Cantafio per repubblica.it il 17 giugno 2022.  

"Era la mia professoressa, è stata ammazzata dal pregiudizio di una comunità retrograda. Mi sento inerme dinanzi a questa cattiveria inammissibile" afferma Sara Mazzonetto, oggi 21enne, ricordando Cloe Bianco, la docente trovata morta carbonizzata nel suo camper, in provincia di Belluno. 

In questi giorni è riapparsa una lettera in cui, nel 2015, il padre di un'alunna, con toni forti, denunciava all'assessore regionale all'istruzione il disagio provocato dall'arrivo in classe del docente di fisica con abiti femminili. Cosa successe realmente quel giorno?

"Eravamo a metà del primo anno scolastico, quando il professore arrivò in classe vestito da donna. Era la prima ora, arrivai un po' in ritardo e vidi un capannello di compagni che usciva dal laboratorio ridendo a crepapelle. Entrai, stranita, ma mi resi conto che quella loro reazione era spropositata". 

Eravate a conoscenza della sua transizione di genere?

"Nessuno sapeva nulla, non avevamo mai avuto alcun sentore. Avevamo notato che portava le unghie lunghe, ma credevamo suonasse la chitarra. Con noi alunni era sempre stata sorridente, pacata e disponibile. Come ha continuato ad essere, semplicemente indossava abiti femminili". 

Per tale motivo, però, fu giudicata pesantemente da tanti suoi compagni, ma anche tra i docenti?

"Quel primo giorno, con serenità, ci spiegò cosa l'aveva portata a quel cambiamento. La discriminarono subito, anche i colleghi la guardavano con disprezzo. Quando scoppiò il caso tutti le voltarono le spalle. Alcuni docenti, addirittura, si sfogavano con noi dicendo che aveva rovinato la reputazione della scuola". 

I genitori degli alunni, invece, come reagirono?

"Fu una vergogna: tanti che, fino a quel momento, non erano mai andati ai colloqui di fisica perché la reputavano una materia inutile all'istituto agrario, tutto d'un tratto iniziarono a fare lunghe code per vederla come se fosse l'attrattiva del circo e schernirla". 

E l'istituzione scolastica non intervenne, anzi la allontanò dall'insegnamento. A suo parere, che azione sarebbe stata necessaria per normalizzare la situazione?

"Secondo me, sarebbe bastata una circolare in cui ci avvisavano che, da quel giorno, ci saremmo dovuti rivolgere alla docente al femminile. E, magari, per sensibilizzare maggiormente noi alunni, avrebbero potuto prevedere lezioni sull'identità di genere che, spesso, proprio a causa di retaggi culturali, è ancora un argomento tabù". 

Un silenzio assordante proviene anche dalle istituzioni?

"Già, purtroppo, in Veneto, siamo indietro in merito ai diritti Lgbt+. C'è gente che non manifesta la propria identità per timore di essere disprezzato e isolato, come è capitato alla nostra professoressa. Che io sappia non ci sono associazioni né eventi a tutela dei diritti delle minoranze". 

Qual è il suo rammarico?

"Con il senno di poi, mi rattrista non essere riuscita a mostrarle la mia vicinanza, a dirle anche soltanto "mi dispiace", ma ai tempi ero poco più che una bambina. Poi non l'ho più vista, finché la triste notizia mi ha confermato che non era scappata a farsi una nuova vita, come speravo per lei, ma era stata abbandonata dall'intera società, a cui ha dedicato l'ultimo amaro saluto sul suo blog, il suo unico spazio di libertà, segreto".

La morte di Cloe Bianco ci ricorda che l’odio di genere deve essere combattuto a scuola. La professoressa si è uccisa dando alle fiamme la sua roulotte. E qualche mese fa Sasha, 15enne transgender, ha deciso di buttarsi dal sesto piano. Ma anche dopo la loro morte, si continua a offenderne la memoria. Francesco Costabile su La Repubblica il 27 Giugno 2022.

Ho appreso della morte di Cloe Bianco attraverso la sua stessa voce, una dichiarazione di fine vita affidata al suo blog personale. Sono parole che pesano, che feriscono, perché disintegrano la dignità umana e annientano ogni possibilità di riscatto. Una morte che diventa quasi rito, festa macabra di chi vede nel proprio corpo un’anomalia da eliminare, uno sberleffo violento alla vita e alla società che l’ha condannata all’isolamento, alla marginalità, a vivere nella sua «piccola casa con le ruote», così come ha descritto quella roulotte data alle fiamme, quel perimetro di vita in cui viene consumata la sua ultima tragedia.

Cloe era una donna transgender, professoressa in un Istituto Tecnico di Agraria in provincia di Belluno, aveva espresso pubblicamente la sua identità di genere, in classe davanti ai suoi studenti, nel 2015. Il fatto scatenò polemiche e dibattiti, soprattutto tra gli insegnanti e i genitori, apprendiamo solo ora che dall’insegnamento Cloe era stata sospesa, demansionata in lavori di segreteria, un fatto anomalo su cui il ministero dell’Istruzione ha il dovere di accertare modalità e motivazioni.

Negli ultimi mesi anche un altro ragazzo transgender, il suo nome è Sasha, ha deciso di togliersi la vita a solo quindici anni. Il suo è stato un salto nel vuoto dal sesto piano della sua abitazione, a Catania, la città in cui viveva. Anche Sasha ha scelto di non vivere, ha sentito sulle sue spalle tutto il peso di una società ancorata su modelli troppi rigidi, pronta a giudicare e a non riconoscere il diritto di ognuno all’autodeterminazione. Due suicidi nel giro di qualche giorno, due episodi che gettano un’ombra nel mese del Pride e delle manifestazioni dell’orgoglio LGBTQ+.

Una professoressa e un giovanissimo studente transgender. Entrambi vittime di misgendering, anche dopo la loro morte si è continuato a parlare del «professore vestito di donna» e di una giovane «ragazzina morta suicida». Una mancanza di rispetto che palesa in modo chiaro quanto le persone transgender debbano ancora lottare per rivendicare le proprie identità, i propri corpi, i propri diritti. Soprattutto se persone non omologate e non conformi a schemi di genere prettamente binari.

C’è un campanello d’allarme da dover ascoltare. Oggi la fluidità di genere troneggia sulle copertine patinate di giornali, nella musica trap, nei costumi e nella moda, influenza i giovanissimi e scardina i parametri di genere anche tra le persone cisgender. Questa piccola rivoluzione di costume nasconde però un sommerso drammatico e stratificato, soprattutto nelle province italiane. Un mese fa, in Calabria, un ragazzino è stato pestato pubblicamente da suo zio, e un gruppo di uomini, per aver osato uscire con le amiche con un nastro arcobaleno legato al suo zaino. Un affronto indicibile che gli ha comportato la frattura di quattro costole, la deviazione del setto nasale e varie lesioni. Sempre i primi di giugno, una giovane sex worker transgender viene uccisa con due colpi di pistola a Marinella di Sarzana, il suo nome è Camilla e il suo corpo è stato ritrovato senza vita in una zona piena di sassi e rovi. Quattro episodi drammatici nel giro di un mese. Eppure c’è chi sostiene che una legge contro l’omotransfobia in Italia non è una priorità, né un emergenza.

Sono anche io un insegnante, sono una persona non binaria, vivo serenamente la mia fluidità di genere senza dovermi incasellare in un genere o nella scelta di un pronome che possa determinare la complessità del mio essere.

La scuola è il luogo deputato all’incontro dell’altro, è qui che si mette in pratica la vera inclusività sociale. È nella scuola che si costruiscono le coscienze e si formano dei liberi cittadini. Formazione di individui, prima ancora dei contenuti e dei programmi ministeriali, è questa la vera missione di noi insegnanti.  

Qual è la prima competenza che un professore deve maturare nella sua relazione con gli studenti? L’autenticità. Essere veri, autentici, mostrare le proprie fragilità. È il dono più bello che possiamo dare ad uno studente, soprattutto in una società che ci vuole sempre al primo posto, competitivi, performanti. Spogliamoci degli abiti del professore e mostriamoci per quello che siamo. La scuola deve farsi promotrice di questo cambiamento, perché la sua ricchezza, il suo compito sociale è quello di formare cittadini liberi da pregiudizi e da ogni forma di sentimento omotransfobico. Ed è grave che esponenti pubblici delle istituzioni siano i primi ad alimentare l’odio e la diffidenza verso chi decide di fare questo passo e vivere la propria identità di genere nello spazio pubblico e sociale di un posto di lavoro. È il caso di Elena Donazzan, la prima a scagliarsi nel 2015 contro la scelta di Cloe e farla oggetto di una vera e propria gogna mediatica. Ex missina, assessore all’istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità del Veneto, in quota Fratelli D’Italia. Una donna che vanta un curriculum degno delle peggiori destre nazionaliste, xenofobe e sessiste: dalle foto alla commemorazione della X Mas, alla difesa degli alpini sul caso delle molestie, alle battaglie contro i libri “gender”. L’assessora non ha avuto il buon senso di tacere neanche dopo la morte di Cloe, ha continuato ad infangare il suo nome definendola «un uomo vestito da donna», ribadendo le sue posizioni contro le scelte di Cloe e il suo coming out tra i banchi di scuola. Non solo, oggi l’assessora si dichiara vittima di minacce di morte e si scaglia contro la comunità LGBTQ+ responsabile di aver abbandonato Cloe al suo tragico destino. La stessa Giorgia Meloni dovrebbe assumersi la responsabilità delle sue parole, nella sua arringa al popolo di Vox, in Spagna. Sono parole pericolose che cavalcano e alimentano l’odio verso l’intera comunità, pronunciate dal leader di un partito che secondo i sondaggi politici guida ormai la coalizione di centrodestra. «Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt. Sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere, sì alla cultura della vita, non a quella della morte». È l’ennesimo spot elettorale che a suon di claim è pronto a diventare il nuovo tormentone estivo dopo il gettonassimo «Io sono Giorgia, sono una madre, sono una donna, cristiana».

L’Italia ha il triste primato per il maggior numero di vittime della violenza transonica in Europa. Oggi ci apprestiamo a combattere un futuro incerto, le nostre battaglie sono ancora più urgenti e siamo pronte a combattere per rivendicare il nostro diritto ad esistere. Il Ddl Zan è stato affossato, dall’ala cattolica della sinistra parlamentare e dalle destre, proprio per aver provato a tutelare le persone transgender dai crimini di odio e dalle violenze di genere. La comunità T. non esiste, non ha alcuna visibilità politica e sociale, viene troppo spesso riconosciuta solo ed esclusivamente in qualità di vittima. Ma esistono transgender vive, professioniste, artiste, dottori, avvocati, di cui nessuno parla. Ed è questa marginalità sociale ad uccidere. È questo senso di estraneità a renderci fragili. È questo senso di non appartenenza, corpi estranei al tessuto sociale, a piegarci le gambe. Spesso viviamo questa condizione di sfiducia, paura di non essere all’altezza, paura di sbagliare. È perché siamo cresciute in un mondo a cui ci siamo sentite da sempre estranee. Ci siamo isolate, ci siamo nascoste, ma abbiamo anche deciso di stringere i denti e ribellarci, perché ne vale la nostra sopravvivenza e quella dei nostri figli. Noi crediamo e lottiamo per un mondo migliore.

Chiuderei questo articolo con le parole di Cloe, estrapolate sempre dal suo blog, è un inno alla libertà e alla vita. Mi piace ricordarla così, Cloe.

«Guardami. Io ci sono. Sono qui. Esisto. Io sto parlando, m’ascolti? Non vuoi sentirmi? Allora alzerò la voce. Non mi vuoi vedere? Allora diventerò sempre più appariscente. Sono rimasta velata per molto, troppo tempo. Ora basta. Voglio poter vivere i miei vissuti interiori e il mio corpo, come desidero ora e come in futuro sentirò corrispondere al desiderio che emergerà. Ama il mio genere, amo il mio corpo. Tu amale queste realtà o perlomeno rispettale. Voglio poter vivere ogni spazio, pubblico e privato, sentendomi a casa mia. Sono una persona che ha una caratteristica rara. È una bellezza, perché tu vuoi che me ne vergogni?». 

Francesco Costabile è un regista, autore del film “Una Femmina”

In memoria dell'insegnante suicida. Il dramma di Cloe Bianco ci racconta un’Italia barbara e retrograda. Fulvio Abbate su Il Riformista il 24 Giugno 2022. 

Cloe che aveva scelto d’essere se stessa. Persona: donna. Il mondo è abituato a fare caso all’apparenza, peggio, alle “apparenze”. Il misero mondo incapace di volo interiore sicuramente avrà fatto caso a Cloe Bianco. Ai suoi abiti femminili, alla sua femminilità. Probabilmente, ritenendo lei e il suo mondo un “corpo estraneo”. Scandaloso, perfino caricaturale. Al più piccino comune senso, appunto, delle apparenze, alla miserrima idea di un pudore incapace di comprendere le aspirazioni, l’essenza, la sostanza di Cloe, deve essere risultata estranea, oscena, perturbante. Una creatura da subito rimuovere.

Una morte impronunciabile, irriferibile, un fine vita atroce racconta infatti la storia di Cloe. Nessuno provi adesso però a rubricare la scomparsa di Cloe Bianco come un ordinario caso di “cronaca nera” già trascorsa, sia detto in nome di una chiarezza umana, civile e insieme politica affidata alla coscienza di tutti, e non unicamente riferita, “d’ufficio”, al mondo LGBTQ+ che adesso giustamente piange la fine della “sua” ragazza, Cloe, ritenendola ingiusta, di più, irricevibile, inaccettabile, vergognosa.

Non meno inaccettabile che debba essere lo scorrere del tempo, quando una nuova consapevolezza civile avrà fatto ancora strada, a salvarne la memoria, denunciando come uno stigma l’ottusa volontà di chi non ha saputo comprenderla, peggio, ha ritenuto “osceno” il fatto che Cloe Bianco sentisse d’essere parte dell’“altra metà del cielo”: donna, femmina.

Il mondo, l’ho detto, fa caso soprattutto alle apparenze, e anch’io ho fatto caso a un’altra apparenza della cronaca che fa seguito alla sua morte: esattamente alla foto di Cloe accostata alla foto di una signora assessore, Donazzan, di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, ossia del fascismo come bene rifugio subculturale endemico e persistente in un Paese “orribilmente sporco”, così certamente avrebbe detto Pier Paolo Pasolini pensando a certo piccolo mondo. Il viso e il sorriso di Cloe posti accanto al volto ordinario di Elena Donazzan, assessore all’istruzione del Veneto mostrano un abisso. Cloe, per chi lo ignori, si è suicidata il 10 giugno nel camper in cui abitava, località Auronzo di Cadore, provincia di Belluno. Provincia, ripeto.

Cloe Bianco insegnava fisica, materia in cui era laureata, in un istituto di San Donà di Piave, “prima di essere allontanata dalla cattedra e ricollocata con funzioni di segretaria”, così leggo. Donazzan, in nome del suo assessorato istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità del Veneto, ha accusato, non meno “d’ufficio” il movimento Lgbtq+ di “usare la morte tragica del professor Bianco per fare una polemica politica, solo per cercare di trovare la visibilità, per attribuire una responsabilità, senza farsi una domanda sul modo del suo coming out”. “Il professor Bianco” (sic), notate bene. Nel suo biglietto d’addio Cloe scrive: «Oggi la mia libera morte, così tutto termina di ciò che mi riguarda. In quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò».

Fate caso alle apparenze, fate caso allo sguardo dell’assessore Donazzan, e al suo lessico da mattinale di questura, linguaggio che riverbera la stessa ipocrisia di cui ci raccontava anni fa Giò Stajano, persona trans, tra le prime che l’Italia abbia mai conosciuto al tempo in cui lo scandalo veniva strillato dai rotocalchi. Così Giò, nipote di Achille Starace, che del fascismo ebbe i galloni di segretario del partito: “… un giorno chiesero a Mussolini di inasprire le leggi per reprimere gli omosessuali in pubblico, e allora sembra che Lui abbia risposto: ‘Non occorrono, in Italia non abbiamo omosessuali’”. Molti anni dopo, in un comizio tenuto in Spagna, davanti a una platea di nostalgici del franchismo, il regime che metteva i pantaloni al Cristo crocifisso, la signora leader del partito di Donazzan ha pronunciato ancora: “Sì alla famiglia naturale, no alla lobby LGBT…”. Si noti, il sentire clerico-fascista non mente mai, riappare intatto. Cloe ovvero la voglia di vita, il desiderio di affermare ciò che si è conquistato, di più, donato a se stessa: la consapevolezza di sentirsi persona e ancor prima donna. Così Cloe che ancora adesso ci guarda tutti dal suo cielo.

P.S. È stata Carla, diciannove anni, mia figlia, a chiedermi di raccontare, non abbandonare alla dimenticanza, la storia, la presenza di Cloe. 

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

La matrice di Elena Donazzan. L’attacco alla professoressa trans suicida Cloe Bianco, i boia chi molla su Facebook, le commemorazioni di Salò, la battaglia conto i libri “gender”, i cori di Faccetta Nera. Curriculum della assessora veneta di Fratelli d’Italia. Più forte di ogni richiesta di dimissioni. Simone Alliva su L'Espresso il 21 Giugno 2022.

È il 27 marzo 2020 sotto la foto profilo di Elena Donazzan, assessora all’Istruzione della Regione Veneto un commento: “Forza Elena. È giunto il momento che il Veneto riceva i fondi corretti per tutelare i nostri lavoratori. Continua così!”. Risponde l’assessora: “Boia chi molla!”.

In un commento la sintesi della traiettoria di vita di Elena Donazzan, ex missina, assessore all'Istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità del Veneto, in quota Fratelli d'Italia. La sua carriera regala un effetto di potere inamovibile. Dalle foto alla commemorazione della X Mas, alla difesa degli alpini sul caso delle presunte molestie all’adunata di Rimini. Dalla battaglia contro i libri "gender” alla circolare fatta uscire dopo l’attentato presso la sede di Charlie Hebdo, in cui chiedeva a tutti i genitori degli alunni musulmani di dissociarsi dal terrorismo, in quanto “tutti i terroristi sono musulmani”. Tutti episodi accompagnati da un polverone mediatico e una richiesta di dimissioni, inascoltata.

Le ultime dopo che l’assessora ha intonato “Faccetta Nera” durante il programma radiofonico “La Zanzara” su Radio 24. “Non sono pentita, sono io che ho subito un attacco squadrista”.

Salda al suo posto. Mai rimossa, mai pentita. Neanche dopo aver definito “un uomo vestito da donna”, Cloe Bianco, la professoressa trans suicida su cui lei stessa 7 anni fa prese provvedimenti dopo la lettera di alcuni genitori allievi di Bianco.

Iscritta al Fronte della Gioventù dal 1989, quando aveva 17 anni, Donazzan è stata presidente provinciale del Fronte della Gioventù e poi dirigente nazionale di Azione Giovani; è presente alla Svolta di Fiuggi, quando è nata Alleanza Nazionale, e da allora ne ha seguito tutte le sfumature, fino a dichiarare amore a Fratelli d’Italia con cui è stata eletta in Veneto, dove siede sugli scranni del governo regionale dal 2000, insomma un ventennio. Ogni anno si reca per commemorare il suo particolare 25 aprile, Il Monte Como, è, a suo dire, una foiba dove vennero gettati soldati repubblichini e civili.

Sui social il suo nome è associato spesso a una foto che ritrae Donazzan alla commemorazione dei “marò” del Battaglione N.P. della X Mas. Non è riportata una data né una didascalia ma è tratta da “Littorio”, periodico della Federazione R.S.I. di Treviso, n.7, luglio-settembre 2010. Proprio nel trevigiano la X Mas fu responsabile di rastrellamenti, torture ed esecuzioni di partigiani, persino dopo la Liberazione. L’episodio più noto è l’eccidio di Crocetta del Montello, 28 aprile 1945. 

Resta nella memoria della rete anche un video che ha scatenato l’11 gennaio 2021 la richiesta di dimissioni e l'intervento della magistratura per l'ipotesi di reato di apologia del fascismo da alcune forze di centrosinistra che registra Elena Donazzan intonare "Faccetta nera”.

Ribattezzata nel blog di Alternativa Sociale di Schio «principessa di Pove» e «patrimonio d’Italia». Non è difficile individuare la “matrice”, come direbbe la leader del suo partito Giorgia Meloni, della Principessa di Pover, basta scorrere gli atti che costellano una carriera politica di nitida origine.

Nel 2010 l’assessora, durante un Consiglio regionale sulla tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, politico e culturale dell’antifascismo e della Resistenza, interviene prima ricordando un suo zio fascista in Russia, quindi le contestazioni alle presentazioni dei libri di Pansa fino a teorizzare: «Sotto la bandiera dell’antifascismo militante sono caduti Marco Biagi e Sergio D’Antona…». La seduta fu interrotta. 

Nel 2011 invita le scuole del Veneto a non adottare o conservare nelle biblioteche libri di «cattivi maestri» che avevano firmato l’appello a favore di Cesare Battisti. «Un boicottaggio civile è il minimo che si possa chiedere davanti a intellettuali che vorrebbero l’impunità di un condannato per crimini aberranti». Nello stesso anno decide di regalare un testo alle scuole: la Bibbia.

«Oggi è certamente un’emergenza, in un mondo globalizzato non solo economicamente ma soprattutto culturalmente, quella di riconoscere la propria identità e certamente la scuola, con chiarezza, deve affrontare quegli approfondimenti capaci di costruire un orizzonte comune di riferimento», diceva Donazzan. «La cultura cristiana, cioè i principi ispiratori del cristianesimo e i precetti religiosi, ha intriso il vivere sociale e civico dell’Italia e dell’Europa e ha costruito un linguaggio comune fatto di consuetudini e di tradizioni».

Nel dicembre 2014 decide di promuovere la Festa della famiglia naturale da tenersi l’ultimo giorno nelle scuole prima della pausa natalizia. Idea tradotta in delibera e quindi un semplice invito, non avendo la Regione poteri sulle scuole.

«Questa è una scelta semplice e bella presa per valorizzare la famiglia naturale come pilastro della nostra società ed esprimere con un atto e un appuntamento il nostro riconoscimento di valori indiscutibili, che discendono dalle leggi millenarie della natura e che nessun atto umano può modificare».

Nel 2015 l’ex missina firma una circolare indirizzata ai presidi della regione in seguito all’attentato presso la sede del giornale satirico Charlie Hebdo. La richiesta è quella di adoperarsi affinché tutti i genitori degli alunni musulmani possano dissociarsi dal terrorismo, in quanto “tutti i terroristi sono musulmani”.

Per ultima la difesa degli alpini dopo eventi legati al raduno degli Alpini svoltosi dal 5 all’8 maggio. In questa occasione oltre 250 donne hanno segnalato di essere state molestate: «Chi getta fango sugli alpini dovrebbe vergognarsi. Ci sono state denunce? Vediamo chi si è macchiato di questo, sono quasi certa che non si tratta degli Alpini. E poi, perdonatemi, se uno mi fa un sorriso e mi fischia dietro io sono pure contenta» – ha commentato Donazzan sollevano critiche e, come sempre, richieste di dimissioni.

In questa nebulosa nera, segue l’ultima provocazione di Donazzan contro Cloe Bianco, morta suicida e definita post-mortem definito: «'un uomo vestito da donna' e cos'è se non questo? Oggi a Milano c'è il sole o la pioggia? Qui c'è il sole e anche se volessi la pioggia il sole splende nel cielo».

«L’assessora regionale Elena Donazzan è transfobica. Si dimetta subito». A chiedere il passo indietro dell’esponente di “Fratelli d’Italia” sono a gran voce i giovani della Rete degli studenti medi e l’Unione degli universitari che si riuniranno giovedì 23 giugno a Venezia in Campo San Geremia. Con loro Alessandro Zan, deputato del Partito Democratico e simbolo della lotta all'omotransfobia: «È inaccettabile che in una Regione di 5 milioni di abitanti l'assessora alle pari opportunità si dichiari fascista. Inaccettabile l'uso di epiteti razzismi e omotransfobici. Nel caso particolare di Cloe ha fatto pressioni politiche affinché venisse emarginata dalla scuola: prima il demansionamento, poi l'allontanamento. Lei non si dimetterà, non ha mostrato neanche umanità dopo la morte di Cloe. Anzi ha rivendicato quelle frasi. Zaia deve toglierle le deleghe».

Il presidente del Veneto, Luca Zaia, nel turbinio di polemiche ha preso le distanze dalla sua assessora all'istruzione: «Di certo per me era una donna a tutti gli effetti, visto che tale si sentiva. Penso che la Costituzione garantisca questi diritti». L'assessora Donazzan anche questa volta resta al suo posto. L'immagine di una politica immobile che non riesce più a fare un passo indietro. Forse non è stata ancora individuata la matrice.

Le toghe di Md: «Il dramma di Cloe Bianco è anche il fallimento della giustizia». Magistratura democratica: «La comunità scolastica aveva l’obbligo giuridico di rispettare l’identità della prof.ssa Bianco. Il fatto che non sia successo è anche responsabilità del sistema giudiziario». Il Dubbio il 21 giugno 2022.

«Non ci lascia indifferenti non solo come cittadini e cittadine, ma prima come magistrati/e di questa Repubblica cui spetta di rimuovere di fatto gli ostacoli che impediscono una vera uguaglianza. Perché la professoressa Bianco aveva chiesto nel processo che fosse riconosciuto il suo diritto a essere quella che sentiva di essere, aveva chiesto di dichiarare che quello che lei era (una donna, non un uomo vestito da donna) non rappresentava alcuna violazione degli obblighi del suo lavoro di insegnante». È quanto scrive Magistratura democratica in un un documento approvato all’unanimità dal parlamentino in ricordo di Cloe Bianco, ritrovata carbonizzata nel camper in cui viveva in provincia di Belluno.

«Un documento sacrosanto, che riporta le regole del diritto e il sistema valoriale che le sostiene, nella giusta dimensione della tutela dei diritti », ha sottolineato il giudice Gaetano Campo, presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Vicenza, dopo la lettura del documento. Nel processo Cloe Bianco ha avuto torto, ma «è stata una decisione sbagliata – scrivono le toghe di Md – non moralmente o eticamente non condivisibile, ma giuridicamente sbagliata. Perché i divieti di discriminazione proteggevano la diversità della prof.ssa Bianco e quindi impedivano che quella diversità potesse essere qualificata inadempimento disciplinarmente sanzionabile. Già con una decisione del 1996 infatti, (la sentenza Cornwall County Council),  la Corte di Giustizia, ha affermato che “il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana” e che l’applicazione di un tale divieto non può “essere ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso”».

«Al contrario esso deve applicarsi anche alle discriminazioni che hanno origine, come nel caso rimesso al giudizio della Corte, nel mutamento di sesso – prosegue il documento -. In quella decisione il giudice dell’Unione ha anche affermato che “siffatte discriminazioni si basano essenzialmente, se non esclusivamente, sul sesso dell’interessato” e che, quindi, “una persona, se licenziata in quanto ha l’intenzione di sottoporsi o si è sottoposta ad un cambiamento di sesso, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenere prima di detta operazione”, per poi sostenere che “il tollerare una discriminazione del genere equivarrebbe a violare, nei confronti di siffatta persona, il rispetto della dignità e della libertà alle quali essa ha diritto e che la Corte deve tutelare”».

Dopo aver menzionato la giurisprudenza della Corte in materia, Md ricorda l’ordinanza 185/2017  della Corte Costituzionale, per sottolineare che la comunità scolastica non aveva «diritto di interferire con le manifestazioni di quell’identità». «A fronte dell’affermazione del giudice remittente secondo cui il mutamento dei caratteri sessuali secondari non dovrebbe ritenersi condizione idonea alla rettificazione del sesso, in quanto l’esplicazione del diritto della persona transessuale alla propria identità personale dovrebbe essere bilanciato con quello della collettività a non essere costretta “ad elaborare regole di comportamento certamente molto lontane dalla tradizione secolare”», la Consulta infatti «ha al contrario affermato che “la denunciata imposizione di un onere di adeguamento da parte della collettività non costituisce affatto una violazione dei doveri inderogabili di solidarietà, ma anzi ne riafferma la perdurante e generale valenza, la quale si manifesta proprio nell’accettazione e nella tutela di situazioni di diversità, anche «minoritarie ed anomale”».

«L’amministrazione scolastica, i genitori, gli allievi non avevano quindi diritto di pretendere un coming out “corretto” o “responsabile”, avevano invece l’obbligo giuridico di rispettare l’identità della prof.ssa Bianco. Il fatto che non sia successo è anche responsabilità del sistema giudiziario, una responsabilità che sentiamo come nostra, di ciascuno di noi. L’unico modo per riparare e onorare la memoria della prof. ssa Bianco è diffondere anche al nostro interno la cultura del rispetto delle diversità come espressione dei doveri inderogabili di solidarietà affermati così chiaramente dalla Corte Costituzionale», conclude il documento.

Il caso Cloe spacca le correnti delle toghe. Mi contro Md: «Da voi parole pericolose». I giudici “moderati” attaccano i colleghi “progressisti”: «Mettono a rischio il magistrato che diede torto alla professoressa». Simona Musco su Il Dubbio il 23 giugno 2022.

Il caso Cloe Bianco, la professoressa transgender morta suicida nel bellunese, divide la magistratura. E dopo la presa di posizione di Magistratura democratica, che nei giorni scorsi ha commentato la vicenda criticando la sentenza con la quale, sei anni fa, il giudice Luigi Perina respinse il ricorso della professoressa contro la sospensione di tre giorni inflittale dalla scuola per essersi presentata in aula con abiti femminili, a replicare è Magistratura indipendente, che ha respinto al mittente quelle che, secondo la corrente di destra, sono vere e proprie accuse capaci di mettere in pericolo l’incolumità dello stesso Perina.

«Non possiamo accettare che venga posta una relazione tra quel drammatico epilogo e una decisione giudiziaria assunta da un collega oltre sei anni prima», si legge in un documento licenziato dal direttivo di Mi. Una sentenza, aveva commentato la corrente di sinistra delle toghe, «giuridicamente sbagliata», pur precisando, dalle colonne di questo giornale, di non voler «processare» nessuno, consapevoli delle difficoltà che stanno dietro ogni decisione. L’intento, ha infatti chiarito Elisabetta Tarquini, giudice del Lavoro a Firenze e membro della segreteria di Md Toscana, era quello di «richiamare tutti noi operatori del diritto a questa cultura della diversità – che allora era meno diffusa di adesso e che invece dovrebbe esserlo sempre di più – come nostro dovere professionale, non come opzione ideologica».

Per Mi, però, le accuse di Md sarebbero irricevibili. «Non è in discussione il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari, se esercitato nei limiti della continenza e con serietà di argomentazioni, ma la vicenda di personale sofferenza della professoressa Cloe Bianco, culminata in un tragico gesto sulle cui intime e profonde ragioni potremmo a lungo, ma forse inutilmente, interrogarci, avrebbe meritato anzitutto un rispettoso silenzio», si legge in un documento. Secondo il quale la mossa di Md sarebbe stata un «pericolo azzardo», in quanto «potenzialmente in grado di sovraesporre e anche mettere a rischio l’incolumità dei colleghi estensori di difficili provvedimenti, su temi fortemente discussi e contrastati anche nella società civile».

Quello che indigna Mi, però, è anche la scelta di «attaccare» pubblicamente il collega, «sull’onda del clamore mediatico», mentre sarebbe stato necessario, continua il documento, «interrogarci tutti, nelle sedi opportune e con umiltà, se vi sia o meno un problema diffuso di adesione inconsapevole al pregiudizio di genere nell’attività giudiziaria, e mettere a tema questi interrogativi» . ù Pregiudizio sul quale pure Tarquini si è interrogata, evidenziando la necessità «rimanere sempre vigili», dal momento che «gli operatori del diritto fanno parte a loro volta della comunità discriminante».

Per Mi i toni della corrente di sinistra sarebbero però «censori», al punto da richiamare i colleghi alla necessità di «un impegno comune nell’acquisizione di consapevolezza circa la necessità di una formazione interdisciplinare estesa alle scienze psico- sociali, quale prerequisito per affrontare con competenza il lavoro giudiziario, quando involge questioni di genere». Direzione già intrapresa da Mi, da ultimo con il convegno di maggio scorso sul tema “Stereotipi di genere e decisioni giurisprudenziali” in collaborazione con l’osservatorio italiano sulla violenza di genere, «nel quale si è riflettuto sul fatto che il pregiudizio più pericoloso, perchè sotto traccia e spesso inconsapevole, è quello che influisce sulla ricostruzione del fatto, invece che sull’interpretazione della norma. Questo, riteniamo, è il modo migliore per onorare la memoria della professoressa Bianco».

E sul punto, almeno, le due correnti possono dirsi d’accordo: Tarquini, infatti, ha evidenziato l’esigenza di una formazione costante, «anche extragiuridica, perché alcune questioni, come quelle di genere, richiedono delle conoscenze non giuridiche. Inoltre – aveva concluso dobbiamo esercitare una critica fortissima su noi stessi: è dovuta, dato il potere che esercitiamo sulla vita delle persone».

Il suicidio di Cloe Bianco mi riguarda. Quali danni ai «nostri ragazzi» da una gonna e una parrucca? Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.

La foto che ho scelto questa settimana ritrae sorridente, in primo piano, Cloe Bianco, una insegnante dell’istituto tecnico Scarpa-Mattei di San Donà di Piave che si è suicidata perché subiva discriminazioni per la sua identità di genere di cui aveva deciso di mettere a parte il suo ambiente lavorativo. 

Non conoscevo Cloe Bianco, non sapevo del dramma che stava vivendo, fino alla sua morte. Troppo tardi, ho pensato istintivamente. Sono cresciuto con una serie di moniti, quello che più mi si è piantato in testa è: non credere che ciò che accade agli altri non possa accadere a te. Chi mi ha cresciuto probabilmente si riferiva a incidenti quotidiani come la rottura di un braccio o di una gamba per eccessiva esuberanza, una caduta dal motorino, un litigio che finisce in rissa. Però io ho rielaborato questo concetto al punto da finire col pensare che tutto ciò che accade agli altri può davvero accadere a me, dunque richiede la mia attenzione. Perché se non accade a me, può riguardare un mio familiare; se non lei o lui, persone legate a loro, e così via, in una catena che di fatto annulla ogni distinzione tra noi e loro. Per essere ancora più chiari, non urlerei mai da un palco: «Sono Roberto, sono un uomo, sono italiano, sono cristiano»: affermare sé stessi in questo modo significa negare gli altri. Significa dire: io sono questo e tutto il resto è altro da me.

La discriminazione

Ecco, io non la penso così. Io penso che siamo tutti partecipi di un destino comune e se Cloe Bianco si è suicidata perché subiva discriminazioni per la sua identità di genere, ciò mi riguarda. Perché può accadere a te che mi leggi, o a qualcuno a cui vuoi bene. O può accadere a qualcuno vicino ai tuoi affetti. E allora lo vedi che tutto ciò ci riguarda? Cloe Bianco era una insegnante dell’istituto tecnico Scarpa-Mattei di San Donà di Piave che, entrata in ruolo, decide di mettere a parte il suo ambiente lavorativo della sua identità di genere. Nulla di scandaloso, ma una coraggiosissima e direi sana volontà di aggiungere verità alla propria vita. Come ha reagito il mondo attorno a lei? Non posso giudicare ogni singola reazione perché immagino - e spero! - non siano state tutte solo di scherno e disapprovazione. Queste, però, devono essere state prevalenti e avere avuto il sopravvento sulle altre. Quando c’è di mezzo la scuola, quando c’entrano i «nostri ragazzi», ci si consentono le più indicibili enormità. E allora «l’abbigliamento di Cloe non era consono», e ancora: «gli studenti sono rimasti traumatizzati». Viene chiamata in causa l’assessora di Fratelli d’Italia all’istruzione, formazione, lavoro e pari opportunità Elena Donazzan, che ha fatto tutto quanto in proprio potere per silenziare Cloe Bianco, per costringerla a vivere nascosta. Oggi leggiamo testimonianze discordanti: dagli ex studenti che denunciano pesantissime discriminazioni verso la loro insegnante, al dirigente scolastico secondo cui la scuola non fece nulla per metterla in difficoltà. Però Cloe fu sospesa per tre giorni, e la sospensione è una punizione, significò sanzionare il suo coming out. Che messaggio è questo? Menti, fingi, non mostrarti per quello che sei, la società non ti accetta, la tua comunità ti espellerà come corpo estraneo. Ma sono davvero queste le esperienze che devono fare i «nostri ragazzi»?

L’assessora Donazzan non infanghi il ceto produttivo

Ho commentato questa terribile vicenda e l’assessora Donazzan mi ha risposto tirando in ballo il ceto produttivo veneto che avrei offeso non ho ben capito perché. Ma ora sono io a esortare l’assessora a smetterla di infangare il ceto produttivo veneto che, sono certo, non vorrà prendere come propria stella polare l’ignoranza di una classe politica che si crede in diritto di poter esprimere qualunque idea, del tutto incurante delle conseguenze. Giorgia Meloni, capo politico del partito nelle cui file milita l’assessora Donazzan, ritiene che la Costituzione garantisca a lei e a chiunque altro la libertà di poter dire qualunque cosa. Ma non è così quando le nostre parole sono discriminatorie e lesive della dignità altrui. La Costituzione italiana stabilisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». La tua libertà, di parola e di pensiero, non mi deve discriminare; se questo accade, stai facendo qualcosa che non dovresti. Elena Donazzan non si è dimessa e non ha nemmeno chiesto perdono, ha anzi mantenuto la sua posizione sulla tragedia di Cloe Bianco. Per la scuola, per gli studenti e per la comunità tutta, questo è il vero danno. Non una prof che decide di fare coming out e indossa una gonna e una parrucca. Dare il giusto peso ad azioni e parole è fondamentale.

BLOG. Suicidio Cloe Bianco, il moralizzatore Saviano cavalca la polemica e si scaglia contro l’assessore Donazzan. Hoara Borselli, Opinionista, su Il Riformista il 23 Giugno 2022. 

Il moralizzatore che si fa trovare sempre in prima linea quando si parla di immigrati, quello che difende poveri e disgraziati dal suo lussuoso attico a NewYork, quello che ha costruito la sua fortuna parlando di mafia e camorra, è tornato.

Roberto Saviano, l’intellettuale osannato nei salotti radical chic, quelli dove l’unico verbo ammesso è sparare a zero sulla destra, su quel sovranismo sostenuto da ignoranti, reietti, sprovvisti di umanità ed ovviamente di cultura.

Eh già, perché l’intellighenzia non è affare di destra.

E Saviano non perde occasione per sottolinearlo, mettendo in atto quel gioco perverso di chi, per accendere un faro su di sé, getta fango e tenebre su chi non appartiene alla sua schiera.

Ogni volta sceglie una vittima sacrificale da gettare sul patibolo della gogna.

È toccato a Salvini e Meloni che ha definito “bastardi insopportabili”, ribadendo che per lui questi non sono insulti bensì “una feroce critica politica”.

Una critica forse un po’ troppo feroce visto che gli costerà un processo per diffamazione.

Mi meraviglia che uno come lui, che appartiene all’empireo degli intellettuali, non abbia saputo distinguere l’esercizio di critica dall’insulto.

Pure il dizionario di Oxford ci dice che “bastardo” è un’ingiuria.

Gli sarà sfuggito, del resto anche i migliori possono scivolare.

Però non si è scoraggiato.

Anzi, ci ha detto che non sarà certo una querela a dissuaderlo da ciò che ama di più fare.

Il nemico di destra va perseguito, combattuto e offeso anche se ci sono giudici che avvertono di cambiare registro.

Si è scatenata una polemica che coinvolge un Assessore donna, che appartiene a Fratelli d’Italia, quindi fascista, che non si può non cavalcare, avrà pensato il buon Saviano.

C’è coinvolta una donna trans, Cloe Bianco, che si è suicidata e che circa sette anni prima aveva incontrato sulla sua strada Elena Donnazan, assessore all’Istruzione della regione Veneto.

Lo scrittore è andato ad ingrossare le fila di chi sta chiedendo a gran voce le dimissioni dell’Assessore addossando a lei tutte le colpe della tragica fine di Cloe.

Cosa era accaduto?

Una mattina di sette anni fa Cloe, all’anagrafe Luca Bianco, si era presentata in classe in abiti femminili. Aveva deciso di mostrarsi con l’aspetto che sentiva rispecchiare la sua vera identità. Agli alunni aveva chiesto di essere chiamata Cloe e aveva spiegato il motivo della sua scelta. Ma non tutti capirono. Non tutti accettarono. Il padre di un alunno scrisse una lettera indignata ad Elena Donazzan che all’epoca era Assessore regionale all’Istruzione.

Nel pieno delle sue funzioni ritenne che l’abbigliamento con cui l’insegnante si era presentata a scuola non fosse consono a quel rigore che si chiede agli stessi ragazzi ((parrucca minigonna e tacchi a spillo).

Venne successivamente spostata ad occupare ruoli di segreteria.

Non spetta a noi giudicare se abbia fatto bene o male, tracciare i confini delicatissimi che separano la libertà di autodeterminazione della persona e le regole da rispettare all’interno di un istituto scolastico.

Sicuramente addossare alla Donazzan tutte le responsabilità di questa tragica morte la ritengo una becera strumentalizzazione politica .

E Saviano non è mancato all’appello

Ecco cosa scrive in un tweet:

“Elena Donazzan appartiene a una classe politica che per un pugno di voti blandisce un elettorato omofobo e razzista. Avrebbe dovuto scusarsi per aver messo alla gogna Cloe Bianco, una cittadina, una professionista. Invece ha rincarato la dose. Deve dimettersi”.

Elena Donazzan appartiene a una classe politica che per un pugno di voti blandisce un elettorato omofobo e razzista. Avrebbe dovuto scusarsi per aver messo alla gogna Cloe Bianco, una cittadina, una professionista. Invece ha rincarato la dose. Deve dimettersi.

Il moralizzatore è salito nuovamente in cattedra per fare ciò che gli viene meglio: insultare.

Caso Cloe, «Il procedimento fu regolare. Mi disgusta chi ora accusa la scuola». La provveditrice regionale Palumbo: «Inviata la relazione al ministro, la prof non fu perseguitata». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.

«I miei uffici hanno ultimato la relazione che è stata inviata a Roma e ora verrà analizzata dal ministro dell’istruzione» spiega la direttrice dell’Ufficio scolastico regionale Carmela Palumbo, riferendosi alle verifiche avviate dal ministero dell’Istruzione in merito al caso della veneziana Cloe Bianco, la prof transgender morta suicida l’11 giugno.

Che cosa è emerso?

«Innanzitutto è evidente che alcune delle cose riportate negli ultimi giorni da alcuni giornali sono inesatte. Cloe Bianco non fu allontanata dal ruolo di insegnante dopo il suo coming out avvenuto durante l’anno scolastico 2015-2016. Era una supplente iscritta a due graduatorie: quella per i docenti tecnico-pratici e quella relativa al personale amministrativo. Accettò di insegnare nei due anni successivi, mentre nell’anno scolastico 2018-2019 scelse di lavorare in amministrazione. Poi più nulla. Evidentemente, per motivi personali, ritenne di non assumere altri incarichi».

Perché avrebbe dovuto rinunciare alla carriera?

«Non è detto che volesse rinunciare definitivamente a lavorare nel mondo della scuola, visto che nel maggio di quest’anno, appena un mese prima del dramma, chiese l’aggiornamento della propria graduatoria. Ad ogni modo, sostenere che fu demansionata è una fesseria e nessuno può dire che l’Ufficio scolastico regionale, o gli istituti nei quali ha lavorato, l’abbiano spostata arbitrariamente».

Le istituzioni scolastiche sono sotto accusa: Cloe Bianco fu perseguitata perché transessuale?

«Spetta al ministro esprimersi. All’epoca non ero io a dirigere l’Ufficio regionale ma, leggendo i documenti, l’impressione che ne ho ricavato, sinceramente, è che non ci sia stato nulla di irregolare nella gestione dei procedimenti disciplinari ai quali fu sottoposta in quel periodo».

In quanti e quali procedimenti incappò la prof?

«Non posso entrare nel dettaglio: quei procedimenti sono al centro delle verifiche avviate dal ministro».

Dalle nostre, di verifiche, furono aperti almeno tre procedimenti disciplinari in sette mesi, tra il novembre 2015 e il giugno 2016. Il primo per il plateale coming out di Bianco, che si concluse con tre giorni di sospensione.

«Anche quell’episodio è stato distorto. Nessuno mai contestò la sua scelta di fare coming out, bensì le modalità con le quali lo mise in atto, che all’epoca furono considerate un po’ troppo frettolose, non lasciando al preside il tempo di preparare adeguatamente studenti e personale».

Il secondo procedimento fu per delle frasi inopportune rivolte ad alcuni studenti.

«Si chiuse a giugno con una archiviazione. E questa decisione sembrerebbe sintomatica di come all’epoca non ci fu una volontà persecutoria».

Il terzo, mai emerso finora, risale alla primavera del 2016: un giorno di sospensione perché si ostinava a presentarsi a scuola in minigonna.

«Esatto. Ma anche di questo non posso parlare: spetta al ministro trarre dei giudizi».

Resta che da questa vicenda l’immagine della Scuola ne esce malconcia…

«Nessuno sembra tenere conto di un particolare: i fatti risalgono a sette anni fa, quando l’intera collettività, e non solo la Scuola, non era pronta ad affrontare queste scelte con la stessa serenità con quale vengono accolte oggi. La situazione è migliorata: molti istituti stanno regolamentando la “carriera alias” che permette di scegliere il nome che più si avvicina alla propria identità di genere. Con questo intendo dire che un percorso è stato fatto e ora, un episodio come quello del 2015, non scatenerebbe lo stesso scandalo».

Cosa si può fare per migliorare?

«La politica, specie a livello nazionale, dovrebbe fornire alle pubbliche amministrazioni delle linee guida più precise, in merito alla gestione di queste situazioni. Ma il caso di Cloe, col suo carico di divisioni e veleni, sta dimostrando quanta strada ci sia da fare anche da parte dei diversi schieramenti che in questi giorni si sono espressi su ciò che è avvenuto. A volte sarebbe meglio tacere».

Cosa intende dire?

«Ho provato disgusto di fronte alla strumentalizzazione che è stata fatta della morte di questa professoressa. Bisognerebbe rispettare la scelta dolorosissima che ha portato avanti, e invece c’è chi ne ha approfittato per tentare in tutti i modi di collegare cose avvenute sette anni fa al suo suicidio. È uno spettacolo vergognoso».

Il prete degli Lgbt che sfida la chiesa: “Per vivere non si chiede permesso”. Ridotto allo stato laicale, sposa anche sacerdoti e suore. Le gerarchie gli hanno imposto il silenzio. Ma dal 1971 la sua comunità a Pinerolo è un punto di riferimento. “L’ascolto di un coetaneo in seminario mi ha guarito dal pregiudizio” (foto di Simone Cerio). Marco Grieco su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

La rivoluzione di don Franco Barbero, sacerdote di 83 anni, gli ultimi venti dei quali fuori dalla gerarchia cattolica romana, è tutta racchiusa nella sua biblioteca: «Ho contato 14mila libri in tutto», ammette. Non c’è metonimia più calzante degli scaffali vertiginosi in cui si alternano i commenti ai Salmi di Gianfranco Ravasi alla “teologia ribelle” di Hans Küng per descrivere la vita vorticosa del primo presbitero italiano che ha prestato ascolto e dato una casa ai cristiani Lgbt+, orfani non solo di genitori troppo intransigenti, ma della chiesa stessa. Dal 1971, anno di fondazione della prima comunità di base per credenti omosessuali, don Franco dice loro che Dio, il padre dei padri, non li ha mai abbandonati, «malgrado il vescovo ci definì una comunità di “fuori posto” quando, nel 1988, chiedemmo di incontrarlo». Le frizioni con la gerarchia arriveranno, però, dopo: «Negli anni Sessanta, la parola gay era innominabile. Per questo, quando decisi di trovare uno spazio in cui poterci incontrare, all’affittuaria dissi che avrei accolto ragazzi un po’ particolari», spiega, pensando alla prudenza di allora quale sorella stretta del coraggio. 

Presto il piccolo appartamento in corso Torino, nel cuore di Pinerolo, sarebbe diventato l’occhio di un ciclone che avrebbe scosso anche il Vaticano. Il 25 gennaio 2003, con un provvedimento della Congregazione per la dottrina della Fede firmato dall’allora prefetto Joseph Ratzinger, papa Giovanni Paolo II ridusse don Franco allo stato laicale, con una sentenza che escludeva la possibilità di appello: «Mi temevano perché io, in coscienza, avrei continuato a fare il prete. Ai funzionari che mi giudicarono, anzi, rivelai che, nel giro di una settimana, avrei sposato due donne».

Vent’anni dopo, don Franco non ha perso quell’ironia ai limiti del provocatorio, che ammette di ereditare da Cristo: continua a sposare coppie Lgbt+ e spesso è invitato in gran segreto a matrimoni fra preti cattolici: «Alcuni di loro continuano ancora il ministero di parroci. E io li ammiro, perché hanno il coraggio di vivere in libertà di coscienza unendo la missione sacerdotale alla loro vita affettiva e sessuale».

Sessant’anni fa per lui, formatore in seminario, non era così scontato: «Era il 7 dicembre 1963, e un ragazzo, mio coetaneo, mi confessò con coraggio di amare un altro uomo. Sarà il primo dei nostri incontri, conoscerò il suo compagno, e l’ascolto della loro esperienza di autentico amore mi guarirà dal pregiudizio». È il primo incontro a cuore aperto che don Franco fa con la vita incarnata nella quotidianità di vite sospese, quelle che lo porteranno, venti anni più tardi, ad organizzare con Ferruccio Castellano il convegno europeo su “Fede cristiana e omosessualità”. 

Nel 1964 negli Usa il titolo VII del Civil rights act sancisce il divieto di discriminazione sessuale, ma al di qua dell’Atlantico, nel «lago di Tiberiade del Mediterraneo», società e cultura sono ancora inibiti dal colpo di frusta del fascismo. Don Franco, però, si mette in ascolto e decide di incontrare un giovane Franco Basaglia, fresco di nomina a direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia: «Io gli parlavo del Vangelo di Marco e lui m’invitava a curare l’ascolto degli altri». Si respirano i prodromi di quel cammino che portò allo smantellamento dei manicomi e a un ripensamento dei servizi territoriali per la salute mentale grazie alla legge 180/1978. Ma il percorso non è semplice se, poco prima dell’entrata in vigore della Legge Basaglia, sulle colonne de La Repubblica si racconta dello studente partenopeo Carlo Di Marino che, uscito dal manicomio di Villa Chiarugi dove era stato sottoposto a elettroshock per la sua omosessualità, denunciava famiglia ed équipe medica per i trattamenti disumani a cui era stato sottoposto: «Essere omosessuali non vuol dire essere pazzi», disse.

Laddove la società internava, don Franco creava uno spazio di accoglienza, e lo fa mostrando i libri di Edward Schillebeeckx, Karl Rahner e Marie-Dominique Chenu, i teologi protagonisti del cammino di rinnovamento di quella «chiesa coraggiosa» che volle conoscere personalmente a Nimega, dove tra 1964 e 1965 erano in corso i lavori preparatori per la stesura del catechismo della chiesa olandese: «Lì ho visto una chiesa che metteva le persone al centro, che discuteva con libertà su tutto, compresa la presenza di donne nel ministero. Io venivo dalla chiesa del dogma e ho trovato una chiesa dell’ascolto, che non parlava di infallibilità, ma di ricerca; non di potere, ma di servizio».

Al di qua delle Alpi, però, non c’è quel vento di rinnovamento per lui, che comincia a vedere nella chiesa di Roma l’atteggiamento intransigente dei padroni delle fabbriche. Nel 1967 paga le sue aperture in campo dottrinale con il divieto d’insegnamento e il trasferimento in una parrocchia periferica. Due anni dopo sarà processato per la sua militanza accanto agli operai: «Avevo preso le parti degli emarginati delle fabbriche. Erano gli anni della migrazione dal sud Italia e trovavo Gesù fra gli esclusi». Sono passati anni dall’ascolto di quel ragazzo e al suo volto se ne sono aggiunti altri, inclusi quelli di sacerdoti e suore che lo contattano in anonimato: «Avvertivo nei loro occhi un disagio, che poi diventava anche il mio. Poi trovavano un luogo in cui parlare con franchezza di tutto, senza essere condannati dalla comunità. Noi non facevamo distinzione tra omosessuali o eterosessuali, separati o divorziati, uomini o donne» puntualizza lui, che alla parola coming out preferisce il verbo riflessivo «svelarsi», più idoneo a descrivere quel guizzo dello sguardo contemplativo verso se stessi che rivela la sindone della nostra identità, come il Cristo dormiente all’alba della sua risurrezione. 

Don Franco è ancora presbitero quando si avvicina al dramma di chi, dall’interno della chiesa cattolica, gli chiede aiuto: «Ho accolto preti, suore, religiosi impauriti: alcuni mi hanno confidato i loro dolori, altri si sono tolti la vita. La cosa che mi ha rattristato di più è stato vedere che dovevano vivere nascosti, controllati, indotti a fare il doppio gioco. Ma che senso ha avere un amore nascosto?».

Nel cuore dell’epidemia di Aids, si occupa di alcuni sacerdoti ammalatisi dopo aver avuto rapporti non sicuri. Eppure, quanto più si avvicina alla carne sanguinante della chiesa, tanto più lo allontanano le gerarchie ecclesiastiche: «Nessuno ti tocca se ti occupi di tossicodipendenza, di mafia, di lotta non-violenta. La gerarchia scatta quando vai a toccare la sacralità del suo potere, quando si trasgrediscono le regole ecclesiastiche che escludono i divorziati o i gay e le lesbiche dalle nozze cristiane». Alcune tra queste testimonianze sono venute alla luce, confluite nel volume “Amori consacrati” (Gabrielli editori): «C’è tanto coraggio in loro, che hanno scelto di mettere al primo posto Dio e la preghiera e sono andati oltre le barriere poste dall’istituzione. La persona possiede una libertà che va oltre qualsiasi istituzione, e la libertà è come un mattone che si sottrae al palazzo». Molti di loro sono ancora dentro la chiesa, si ghettizzano, sviluppano una schizofrenia che permette loro di vivere in una realtà ecclesiale dove la sessualità è ancora l’elefante nella stanza.

Negli Usa, Andrew Sullivan, giornalista naturalizzato americano, ne ha trattato ampiamente sul New York Magazine. Secondo Sullivan, le inchieste indipendenti riportano che, nel 2019, il 15 per cento dei 37mila sacerdoti statunitensi si è dichiarato omosessuale: «Dalle mie ricerche emerge che sono intorno al 30-40 per cento tra i diocesani e molti di più – almeno il 60 per cento – in ordini religiosi come i francescani e i gesuiti». In Italia mancano i dati. Andrea Grillo, il teologo dell’Ateneo Sant’Anselmo di Roma che ha aiutato Papa Francesco nella recente riforma liturgica, autore del recente saggio “Cattolicesimo e (omo)sessualità” (Morcelliana editore), spiega: «Di fronte alle vite omoaffettive che mettono radici e che vivono la fedeltà, la stabilità e la generosità, la chiesa deve precisare la propria disciplina e la propria dottrina, deve superare anzitutto la lettura della omosessualità come negazione della differenza e della trascendenza e uscire da una lettura del fenomeno come “vizio della castità”. Il resto verrà di conseguenza», evidenziando il paradosso di una chiesa che accoglie tutti, ma che nei suoi documenti ecclesiali - come la lettera Persona Humana del 1975 - qualifica l’orientamento omosessuale «una minaccia per la vita e il benessere di un gran numero di persone».

Per aver parlato di «dono dell’omosessualità» al Giubileo del Duemila, don Franco è invitato a ritrattare: «Non l’ho fatto, anzi ho risposto che bisogna vivere la propria vita senza chiedere permesso». Alle proposte avanzategli dalla chiesa cattolica e ortodossa in cambio del suo silenzio, ha risposto con un sereno diniego: «La mia chiesa è dei poveri, invece nelle gerarchie vaticane ho visto una chiesa che badava a farmi tacere piuttosto che ascoltarmi». Oggi don Franco non conta le norme a cui ha trasgredito. Per lui conta solo l’amore. Lo riafferma con l’entusiasmo di un giovane prete nel cuore di Pinerolo, divenuta l’ombelico di un mondo nuovo.

Da blitzquotidiano.it il 13 Giugno 2022.

Negli Usa gli ufficialmente transgender ammontano all’1,6% della popolazione. L’1,6% della popolazione americana si dichiara transgender (o non si riconosce come “binario“). La percentuale cresce tra i giovani: sotto i 30 anni rappresentano il 5,1% del campione (di cui il 2% non binario).

Negli Usa gli ufficialmente transgender ammontano all’1,6% della popolazione

L’ultimo sondaggio del Pew Research Center (condotto su circa diecimila persone) rivela la maggiore propensione fra la popolazione giovane a percepire la propria identità sessuale fuori dall’alternativa maschio/femmina.

Diversamente dai “cisgender” (chi fa coincidere la propria identità di genere nel proprio sesso biologicamente inteso), i transgender non si riconoscono nelle categorie di genere tradizionali. Si dichiara transgender sia chi rifiuta la divisione binaria maschio/femmina, sia chi la mantiene ma assume il genere opposto al sesso biologico d’origine (coloro per i quali sempre meno utilizziamo il termine transessuali).

Numero triplicato in tre anni

“Il dato secondo cui l’1,6% della popolazione si identifica come trans o non binario è estremamente significativo. Sebbene possa sembrare un numero esiguo, è tre volte superiore alla stima della popolazione trans fatta dal Williams Institute nel 2016, quando i ricercatori avevano stabilito che circa lo 0,6% di tutti gli adulti statunitensi si identificava come trans.

Allo stesso modo, quel rapporto ha rilevato che solo lo 0,7% degli adulti tra i 18 e i 24 anni si identificava come trans, mentre il rapporto del Pew Research Center ha rilevato che il 3,1% degli adulti di età inferiore ai 25 anni erano uomini o donne trans”. 

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 13 giugno 2022.

Per la bizzarria di un incontro fortuito tra uno spermatozoo incauto e un ovulo compiacente, io sono nata femmina. Almeno così mi è stato subito comunicato con una certa mestizia dalla mia stessa mamma (aveva partorito nel gabinetto di casa, velocemente, quasi senza accorgersene). Ubbidiente e impegnata in altre faccende che mi parevano più interessanti, ho vissuto sempre da femmina, dovendomene ogni tanto lamentare, ma di solito senza problemi. 

È solo adesso, avvicinandomi al mio centenario quindi enormemente fuori tempo, che mi è venuto in mente di chiedermi, "cosa vuole dire essere donna?". Cosa vuole dire per me, visto che oggi l'anatomia e la biologia, i miei soli banali riferimenti, sono del tutto secondari e talvolta dispettosi e bugiardi. Michela Marzano, la mia filosofa di riferimento, ha cercato di spiegare con un suo bell'articolo in queste stesse pagine, che se si vuole mettere la coscienza a posto bisogna saperne di più, dimenticarsi delle ragioni di quel che ci siamo ritrovato tra le gambe senza chiederci il permesso, e districarci tra orientamento sessuale, genere e identità.

Così a prima vista, impegno non alla portata di tutti, anche perché non tutti, me compresa, avrebbero la cultura, oltre che l'istinto, per capire. E invece mi pare di averlo capito subito: io non so cosa voglia dire essere donna, come non saprei cosa vuol dire essere uomo, sono etichette legate al corpo e non al resto della persona: e perciò io sono io, e come tale mi pare giusto comportarmi da io, senza chiedere il permesso a nessuno. 

 Con l'articolo "Se non è il sesso a fare la donna" Marzano è finalmente andata oltre l'omosessualità che se non fosse per i piagnoni di Instagram sempre a lamentarsi dei cattivi etero, non la noterebbe nessuno, e sprona la sinistra che poverina di problemi ne avrebbe di impellenti, «a fare un esame di coscienza » e a prendersi carico dell'ennesima differenza, quella delle persone trans: tipo un'anagrafe separata, o la cancellazione di M e F ovunque (la mia nuova carta d'identità ha un bel F sotto il nome) e certamente cessi in comune (figuriamoci i resti del MeToo!). Si sa che la sinistra adora le buone cause che non costano nulla, ma certo il leader dei laburisti inglesi deve essersi sentito smarrito nel dover riconoscere che «una minoranza di donne poteva avere il pene».

Nel dibattito di grande e complesso pensiero, insinuo una mia scemenza. Perché se sei trans col pene vuoi essere chiamato donna, e se sei trans con vagina vuoi essere chiamato uomo? Proprio adesso (in verità se ne parla da cinquant' anni) che forse stiamo per raggiungere ogni forma di parità tra uomo e donna, di lavoro, di carriera, di stipendi, eccetera, perché l'aspirazione politica e umana dei trans è quella di affermare la differenza, uomo se donna e donna se uomo, e non semplicemente essere riconosciuti come trans o addirittura persone?

E mi permetto di sussurrarlo anche alle Terf, femministe (americane ovvio, solo gli americani pensano sempre a quelle cose là) gelose della loro femminilità, perché sofisticano sul fatto che puoi vantarti di essere donna solo se hai l'utero con tutti gli annessi e connessi? 

Altra curiosità: negli anni '70 tra i gruppi femministi ce ne erano un paio di combattive trans italiane che intervistavo: andavano avanti e indietro da Casablanca, per eliminare ciò che impediva loro di essere apparentemente donne e lottavano per ottenere come donne Cultura ciò che avevano già come uomini; vere eroine. Poi penso a Girl , quel film belga del 2018, delicato e intelligente, in cui un quindicenne di grazia commovente inizia col consenso del padre e il sostegno degli psicologi il percorso chimico e chirurgico per diventare una ragazza, la ballerina classica che vuole essere. 

Anche in Italia ci sono reparti d'ospedale riservati a queste cure che mi pare siano sostenute anche dalla sanità pubblica. Però politica e ideologia sembrano più interessati al trans che è donna conservando fieramente i suoi gioielli. Curiosità di vecchia peccatrice che nulla sa dei riti contemporanei: talvolta se ne fa ancora un uso non del tutto femminile? Oppure il trans è davvero una donna in tutto tranne che nel comportamento sessuale?

Ecco la scuola "gender free". Scegli tu di che sesso sei. Francesco Giubilei il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'ultima follia sui diritti: in alcuni licei si può indicare se ci si sente uomo o donna, a prescindere dalla carta di identità.

L'ideologia gender prende sempre più piede nelle scuole italiane, l'ultima novità è l'introduzione del «registro gender free» alle superiori che consente a uno studente o a una studentessa di registrarsi presso il proprio istituto non con il nome e il sesso di appartenenza scritto nella carta d'identità ma con quelli che si sente di avere. Si tratta di un'iniziativa per realizzare la cosiddetta «carriera alias» introdotta nei giorni scorsi al liceo artistico Nervi Severini di Ravenna in occasione della «giornata internazionale contro l'omofobia, la bifobia e la transfobia» poi seguita dal liceo Serpieri scientifico e artistico di Rimini e dal liceo classico Scipioni-Maffei di Verona. L'idea si è diffusa in altre città arrivando anche a Cesena dove si è sviluppato un dibattito politico tra i sostenitori e i detrattori della proposta nata, secondo il liceo ravennate, «per evitare a persone con disagio continui e forzati coming out, mettendoli al riparo dal bullismo».

In realtà è una decisione che ha suscitato numerose proteste a partire dai genitori come nel caso delle mamme e papà del Comitato per la Scuola in presenza di Rimini che definiscono la carriera alias «illegittima» invitando il liceo cittadino a fare retromarcia. La possibilità di cambiare il proprio nome con la stessa facilità con cui si cambia una maglietta, rischia di favorire l'incertezza dei ragazzi in una fase delicata della loro vita. L'introduzione delle «carriere alias» peraltro bypassa la legge ed è un modo per legittimare la teoria della fluidità di genere fondata sull'autopercezione ovvero non essere più maschio o femmina in base al sesso naturale ma ciò che ci si sente al momento.

Il registro gender pone anzitutto un problema di legittimità poiché le carriere alias non sono contemplate dalle normative vigenti e, il fatto che si tratti di uno strumento di pressione ideologica nei confronti delle istituzioni, non è solo un'ipotesi ma viene apertamente affermato dai suoi promotori. Si tratta perciò di un tentativo anche da un punto di vista mediatico di forzare provvedimenti legislativi quantomeno fuori luogo.

Inoltre, secondo il principio dell'autopercezione, se uno studente nel corso dell'anno scolastico si sente per alcuni mesi di un sesso, poi dell'altro sesso e nuovamente del sesso di nascita, si va incontro a una situazione caotica generando confusione anche tra i docenti e i compagni di classe. Un caos accresciuto nel caso di studenti che si definiscono «non binari» ovvero che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. Proprio al liceo artistico Nervi Severini di Ravenna, c'è un caso di questo genere e lo studente «non binario» preferisce essere chiamato con il proprio cognome e così devono fare i professori.

Il messaggio di fondo è una legittimazione della scissione dell'identità sessuale dal dato biologico verso adolescenti che stanno formando la propria personalità e che dovrebbero trovare nella scuola un punto di riferimento e non un luogo che avvalli una visione di parte della società. Promuovere la carriera alias significa rischiare di mettere in crisi l'identità psicologica di studenti e studentesse anche minorenni. Peraltro, l'introduzione del registro gender free, può rappresentare il primo passo per successive misure come i bagni «gender neutral» favorendo un approccio di carattere ideologico che dovrebbe rimanere fuori dalla scuola.

L’epopea dei diritti. La legge 164, 40 anni fa, diede dignità alle persone trans e ci mise all’avanguardia. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 20 Aprile 2022.

Ai tempi fu una conquista, ottenuta grazie all’impegno costante e profondo di parte della società civile e della politica. Per paradosso, oggi un atto simile sarebbe più difficile. 

Con una legge, la 164, l’Italia s’attestava quarant’anni fa su posizioni d’avanguardia in tema di diritti civili. Promulgata a Ventimiglia il 14 aprile 1982 dal presidente Sandro Pertini e pubblicata in Gazzetta ufficiale il 19 successivo, il provvedimento recante Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso riconosceva alle persone trans una dignità a lungo misconosciuta e poneva fine a un annoso calvario giudiziario per le stesse. Ripercorrendone oggi l’iter, si ha la fondata impressione che raramente una disposizione, come in questo caso, abbia acceso gli animi e alimentato un serrato dibattito dentro e fuori dal Parlamento.

Potrebbe suonare strano, eppure la 164 prende l’avvio da un’iniziativa dei militanti del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) Enzo Cucco ed Enzo Francone, che nell’ottobre del 1979 scrivono un progetto di legge a seguito della sentenza della Corte costituzionale del 12 luglio precedente. Con tale decisione, il cui contenuto si sarebbe conosciuto solo in agosto con il relativo deposito e pubblicazione, la Consulta sembrava infatti precludere ogni tentativo di cambio legale del nome a persone trans.

A offrire interessanti particolari al riguardo è proprio Enzo Cucco, che ci spiega come «il gruppo torinese fosse molto attento a tale situazione, il cui evolversi seguivamo da tempo. La sentenza 98/1979 era infatti il finale di battaglie giudiziarie, caratterizzate da pronunce di giudici di primo livello, Corti d’appello, Cassazione. Insomma, la storia di sempre. A Torino era inoltre già attivo da alcuni anni un gruppo di persone transessuali. Si trattava del Collettivo Travestiti Radicali secondo il termine allora in uso. Scrivemmo anche un Manuale di autodifesa del travestito, perché ragazze e ragazzi che si prostituivano potessero avere rapide informazioni su come agire in caso di arresto, perquisizione, processo. Ma anche, per essere precisi, in caso di botte da parte di agenti delle forze dell’ordine».

Sottolineando i profondi legami tra il Fuori! e il partito di Pannella, lo storico attivista, che ha istituito la Fondazione Sandro Penna ed è stato presidente dell’associazione Certi Diritti, aggiunge: «Il compianto Enzo Francone era all’epoca segretario regionale dei Radicali. Prendemmo quindi subito contatto col gruppo parlamentare, per discutere sul da farsi. All’inizio il referente fu Mauro Mellini, cui subentrò Franco De Cataldo. Con lui, persona competente e intelligente, avemmo inizialmente un accesso dibattito. Io ed Enzo avevamo infatti presentato un articolato di legge, che toccava tutti i diritti delle persone trans. Ma De Cataldo, che aveva annusato l’aria e conosceva bene il Parlamento, si oppose fermamente, facendo notare che bisognava intervenire sul Codice civile e garantire che il cambio anagrafico sui documenti avvenisse per sentenza del giudice. Era quello l’intoppo giuridico. E aveva ragione».

Incentrata infatti sulla sostituzione dell’articolo 454 del Codice civile, la proposta di legge a prima firma Francesco Antonio De Cataldo viene presentata il 27 febbraio 1980 alla Camera dei deputati. Ma rischia di cadere nel dimenticatoio. Basti pensare che, dopo l’assegnazione, il 2 aprile successivo, alla Commissione Giustizia in sede referente, si sarebbe dovuto attendere il 18 marzo 1981 per l’inizio dell’esame.

Saranno il coraggio e la determinazione di attiviste trans, che nella primavera del 1980 avevano costituito il Movimento Italiano Transessuale o Mit – dal 2017 l’acronimo è reso con Movimento Identità Trans – a essere risolutivi per lo sblocco dello stallo, il miglioramento del testo normativo e la definitiva approvazione. A dare l’avvio al tutto è la catanese Pina Bonanno, che, su consiglio dell’artista Marzia Siclari, scrive a Marco Pannella per interessarlo dei diritti delle persone trans. Apprende così che è stata presentata una proposta di legge e si reca a Roma per incontrare De Cataldo.

«Il deputato – racconta Pina a Linkiesta – fu molto disponibile. Ma mi disse che spettava a noi muoverci, organizzarci, farci sentire perché la legge fosse discussa e approvata. Tornata a Milano, dove all’epoca abitavo, ne parlai con varie amiche, che mi diedero inizialmente della pazza. Cominciammo a incontrarci e a discutere. Il progetto fu subito condiviso da Paola Astuni, Roberta Franciolini, che era a Torino, e Gianna Parenti di Firenze. Poi, in un secondo momento, si aggiunsero Roberta Ferranti di Roma e tante altre. In una riunione all’Eur costituimmo il Mit». Il neonato movimento si fa subito conoscere con gesti eclatanti a Milano. Il più celebre è inscenato il 4 luglio nella piscina comunale di piazzale Lotto, quando un centinaio di donne trans in bikini, togliendosi improvvisamente il reggiseno, muovono un chiaro j’accuse contro la «paradossale legislazione – così Paola Astuni al XXIV Congresso del Partito Radicale del 2 novembre 1980 – secondo cui i transessuali sono considerati a tutti gli effetti anagrafici uomini. L’essere rimasti con gli slip, appunto come degli uomini, è stato l’atto che ha provato l’inadeguatezza di tale disposizione».

Il 23 ottobre, a Villa Reale, Pina Bonanno, in tailleur di broccato nero e garofano verde all’occhiello, dà invece vita con la radicale Simona Viola, di bianco vestita, a «una grossa provocazione. Ci presentammo davanti all’assessore liberale Roberto Savasta per essere sposate. I nostri documenti erano in regola: io con le carte da uomo, Simona con quelle da donna. Quando siamo state davanti all’assessore, tra lo sbalordimento delle altre coppie, alla domanda rituale dell’ufficiale di stato civile io risposi: Sono qui per protestare contro lo Stato italiano che non mi permette di sposare, come donna, l’uomo che amo. L’assessore Savasta, con molto autocontrollo, disse: Non posso che prendere atto delle ragioni di questa protesta e pertanto interrompo la cerimonia augurando che il Parlamento voglia al più presto considerare il problema giuridico del transessualismo che interessa tanti cittadini italiani».

Ed è proprio per sollecitare il Parlamento che il 31 ottobre si tiene la prima manifestazione nazionale, partita dalla sede romana del Partito Radicale in piazza di Torre Argentina e arrivata a Montecitorio. Pina Bonanno e una delegazione del Mit hanno modo d’incontrare i deputati Silvano Labriola (Psi), Flavio Colonna (Pci), Valerio Zanone (Pli), ma soprattutto la presidente della Camera Nilde Iotti. Una seconda protesta ha luogo il 10 marzo davanti a Montecitorio, cui segue il colloquio tra alcune attiviste, sempre guidate da Pina Bonanno, e i vicepresidenti della Commissione Giustizia, Gianfranco Sabbatini (Dc) e Maria Teresa Granati Caruso (Pci).

Col passar del tempo una tale azione di pressing su esponenti dei vari gruppi parlamentari dà risultati sempre più concreti. Accogliendo quanto concordato dalla capogruppo e significato dal socialista Luigi Dino Felisetti, che guida la Commissione, la presidente Iotti assegna la proposta di legge al medesimo organismo in sede legislativa. Il che vuol dire sottrarre del tutto il provvedimento all’intervento dell’Aula. Dopo due discussioni si giunge così all’approvazione in prima lettura il 2 ottobre 1981.

Lo ricorda bene Angela Bottari, all’epoca deputata del Pci e componente della Commissione Giustizia, per la quale «è stato merito del Mit e, in primo luogo di Pina Bonanno, che è riuscita a convincere tutti i gruppi parlamentari. Certo ci siamo mossi con la massima accortezza: abbiamo voluto la discussione in Commissione perché non ci fosse dibattito in Aula. Cosa che probabilmente avrebbe fatto naufragare l’approvazione. Ci fu al riguardo uno straordinario lavoro unitario soprattutto tra radicali, comunisti, democristiani e socialisti».

Ma è soltanto il primo step. Difficoltà sorgono col passaggio al Senato, dove la Democrazia cristiana sembra mettersi di traverso presentando, il 5 novembre, un suo ddl a prima firma Giorgio Renzo Rosi. Almeno questa è l’interpretazione che al momento forniscono soprattutto il Fuori! e i Radicali. Il Mit non resta a guardare e dà il via alle manifestazioni davanti a Palazzo Madama.

Memorabile è quella del 10 novembre, mentre è in corso la visita di Indira Gandhi al presidente del Senato Amintore Fanfani. «La polizia – a dirlo al nostro giornale è sempre Pina Bonanno – non voleva che stazionassimo lì. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di muoverci. A quel punto iniziarono a caricarci. Noi reagimmo. Entrammo in un bar di fronte e iniziammo a scagliare di tutto, compresi i tavolini, contro i poliziotti. Quante botte che prendemmo. Ci caricarono sui cellulari e ci portarono in questura. Ma la sera eravamo libere. Il giorno dopo organizzammo una nuova manifestazione in piazza del Pantheon. Avevo chiamato Marta Marzotto, che conoscevo bene, e lei venne con tantissime persone. A un certo punto si vide lo stesso poliziotto che ci aveva detto il giorno prima di sgomberare e aveva iniziato a caricarci. Mi fece la battuta: Eh, Bonanno, sei venuta con la scorta oggi? E io per tutta risposta: Manganellaci ora se hai il coraggio».

Modificato in testo unificato con quello presentato dai senatori democristiani Rosi, Di Lembo, Bausi, De Giuseppe, Fracassi, Fimognari e strutturato alla fine in sette articoli, il provvedimento è approvato dalla Commissione Giustizia del Senato in sede deliberante (equivalente della legislativa alla Camera) il 16 febbraio 1982. Il sì definitivo, dopo il rinvio a Montecitorio, ha luogo il 1 aprile da parte della relativa Commissione con ventiquattro voti su ventiquattro. A votare a favore anche i missini con tanto d’intervento previo del deputato Vincenzo Trantino che così conclude: «Ritengo che la proposta di legge in esame debba essere approvata con la massima urgenza».

Anche l’approvazione in terza lettura era stata preceduta da manifestazioni del Mit davanti a Montecitorio e in varie città italiane. Ma anche da colloqui con parlamentari. «Continuai fino alla fine – racconta sempre Pina – a incontrare rappresentanti dei vari partiti. Un giorno fui ricevuta insieme con altre da Flaminio Piccoli, segretario della Dc, che mi disse: “Non ho nessuna difficoltà al cambio del nome sui documenti. Ma bisogna aggiungere la sigla Ts”. Voleva insomma che ci fosse un chiaro riferimento al fatto che fossimo trans. Presi le pile di carte che aveva sulla scrivania e gliele scaraventai in faccia. Un altro brutto ricordo lo ho di Tina Anselmi. Una volta la incontrai in aeroporto e le chiesi di sostenere la nostra causa. Lei mi rispose con freddezza: Lasciamo stare il mondo com’è». Al contrario, continua la fondatrice del Mit, «chi ci sostenne della Democrazia cristiana fu Maria Pia Garavaglia: disponibilissima. Ma il più grande aiuto lo avemmo da Giglia Tedesco e Angela Maria Bottari del Pci: furono straordinarie. Grazie al loro impegno e a quello dei radicali abbiamo portato a casa la legge. Per non parlare poi di don Luigi Ciotti, che ha pure benedetto le mie nozze, e di Marta Marzotto: il suo era il salotto dei politici e lei ha molto influito su Fanfani».

Il ricordo dell’approvazione definitiva è ben vivo proprio nella memoria di Angela Bottari, che confessa al nostro giornale: «Ancora oggi il ripensare all’approvazione della legge 164 mi procura emozione. Come mi emozionano le immagini indelebili di Montecitorio, letteralmente presa d’assalto dalle transessuali capitanate da Pina: non ci davano tregua e facevano bene, avendo ben capito che l’essere presenti e, direi, l’inseguirci avrebbe portato al risultato sperato». Per l’ex deputata comunista quella «è stata una battaglia davvero significativa. Quando ci penso, ancora mi domando come possa essere accaduto che 40 anni fa il Parlamento si sia dimostrato così moderno, così consapevole di dover rispondere positivamente alle esigenze di una minoranza».

Una riflessione, questo, che trova rispondenza nelle parole di Simona Viola, oggi componente della segreteria di +Europa. «Quel Parlamento di 40 anni fa, dominato da Dc e Pci, si rivelò più scevro di pregiudizi e di opportunismi di quello attuale che, in balia di populismi e ideologismi, non riesce ad agire con riguardo in materia di diritti civili: dal contrasto all’omo-lesbo-bi-transfobia al matrimonio egualitario. Per non parlare poi di questioni come la cannabis o l’eutanasia». Per l’avvocata milanese è inoltre indicativo che «le varie situazioni di guerra contrappongano Stati autoritari, che non a caso minacciano e perseguono le comunità Lgbt+. Quelle minoranze, cioè, che hanno bisogno di noi». Resta indubitabile, conclude Simona Viola, «che il Parlamento è riuscito nel 1982 a licenziare una legge, che forse oggi è un po’ obsoleta ma che, all’avanguardia a quei tempi, continua a rivelarsi giusta ed equilibrata».

Giudizio quanto mai fondato, che solleva la questione di una riforma della 164 come chiesto dal Mit bolognese, a lungo guidato da Porpora Marcasciano, da e da varie associazioni trans. A pesare è soprattutto l’interpretazione che, ancora fortemente influenzata da un approccio medico dell’identità di genere quando non patologico, si continua a dare al provvedimento. È un dato di fatto, come già rilevava l’avvocato e giurista Alexander Schuster, che i giudici si rifanno quasi esclusivamente alle consulenze mediche e all’aspetto fisico. D’altra parte, per quanto la 164 sia chiara nel merito, non è un caso che la Corte Costituzionale abbia dovuto chiarire con sentenza 221/2015 come la corretta interpretazione della legge, già modificata nel 2011 con la riforma dei riti processuali, escluda la necessità dell’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso (o, più correttamente, di affermazione genere) per accedere all’iter legale di rettificazione anagrafica.

Corsa a ostacoli. I problemi quotidiani delle persone transgender in Italia. Francesco Bertolucci Linkiesta il 15 Aprile 2022.

Dalla scuola all’età adulta, sono numerose le difficoltà burocratiche che devono affrontare, alle quali si aggiungono problemi nei servizi per la salute e la tendenza altrui a patologizzare la loro condizione.

«Appena si parla di noi, si parla di teorie del gender. Ci hanno disumanizzato. Non si parla di persone ma di teorie. Noi siamo persone con bisogni concreti ma i nostri corpi non sono previsti. Siamo un problema». Christian Leonardo Cristalli, presidente dell’associazione Gruppo Trans di Bologna, non usa mezzi termini per parlare della situazione delle persone transgender in Italia. Piccola premessa: non si tratta di un numero trascurabile. In Italia si stima che ci siano, ad oggi, almeno mezzo milione di persone che non si riconoscono nel genere o sesso che hanno alla nascita.

Sono individui comuni di tutte le età e ogni fascia ha bisogni specifici che, a prescindere da come la si possa pensare, non possono essere ignorati né dalla società né dallo Stato. Farlo equivarrebbe a fingere che città come Genova, Bologna, Bari, Firenze, Catania o Venezia non esistano. Il che risulterebbe alquanto difficile oltreché insensato. Spesso le persone transgender finiscono nelle cronache perché, come chiarisce il professor Paolo Valerio di Onig, Osservatorio nazionale sull’identità di genere, «le denunce di abusi e violenze subite sono all’ordine del giorno: l’Italia rispetto all’Europa è il secondo Paese, dopo la Turchia, che ha il maggior numero di violenze verbali e fisiche fino all’omicidio».

Le violenze sono il lato più evidente, che viene calcolato nelle statistiche. Tuttavia ci sono altre difficoltà quotidiane di cui non si parla e che non entrano nel dibattito mediatico. Quali sono i problemi di ogni giorno che incontrano le persone transgender oggi in Italia? Cosa si potrebbe fare per risolverli? Dalle persone più piccole a quelle più grandi, cerchiamo di fare una panoramica.

Carriera Alias

La comprensione che alla nascita sia stato assegnato un sesso e quindi un genere che la persona non sente proprio avviene di solito già durante l’infanzia o l’adolescenza. Un periodo della vita non facile dove ogni cosa, che può essere una singola parola o un episodio, può segnare l’individuo. Immaginate, ad esempio, se a scuola tutti vi chiamassero con un nome non vostro. Da adulti sembra una quisquilia, ma da adolescenti e preadolescenti no.

Una possibile soluzione è la carriera Alias. «Si tratta – spiega Fiorenzo Gimelli, presidente di Agedo, associazione formata da famiglie e amiche e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender e qualsiasi altra identità sessuale con sedi in tutta Italia – di un accordo che permette di mettere nel registro elettronico della scuola il nome scelto dalla persona transgender al posto di quello anagrafico, evitando così sofferenze ed episodi di bullismo. L’ansia di essere chiamati davanti ai compagni con un nome assegnato alla nascita nel quale non si riconoscono spinge molti ragazzi e ragazze alla depressione, all’autolesionismo e all’abbandono scolastico».

Ad oggi, grazie al lavoro di Agedo e altre associazioni come Genderlens, sono 68 le scuole in Italia dove è in vigore la carriera Alias. Ma la strada è lunga e un intervento dello Stato sarebbe probabilmente necessario se si considera che le scuole, escludendo le private e senza dati precisi su quelle di Trentino e Val d’Aosta, sono 53.313 tra statali e paritarie. Migliaia di adolescenti e preadolescenti italiani sono quindi senza questo “ombrello”. «Ottenere una carriera Alias nella scuola è veramente una cosa allucinante – ammette Cinzia Messina, presidente di Affetti Oltre il Genere, associazione di genitori di persone transgender presente in Emilia Romagna e genitore di una ragazza transgender – spesso i dirigenti sono restii perché sanno che potrebbero andare incontro a una serie di seccature. Noi ad esempio a Ravenna non siamo riusciti. Eppure non farebbe male a nessuno e semplificherebbe la vita di tanti ragazze e ragazzi in un’età complessa. Non riusciamo a sfondare il nulla, cioè ad ottenere nessun tipo di autodeterminazione con delle lotte disumane: basta il monito di un politico e crolla tutto».

Spogliatoi e bagni

Per adolescenti e preadolescenti non secondario è il problema di bagni e spogliatoi divisi per generi. C’è chi smette di fare sport o chiede l’esonero dall’educazione fisica a scuola per questo motivo. «Prendiamo il caso di un ragazzo che si senta come identità di genere femminile – dichiara Antonella Muraca della sezione di Genova di Agedo e genitore di un ragazzo transgender. Se va nello spogliatoio delle ragazze deve necessariamente fare coming out con tutte le presenti. Non è semplice a quell’età. E magari pur di non farlo smette di fare sport oppure ha problemi ad andare in bagno». Probabilmente per molti è un problema relativo. «Se non lo si coglie, basta far bere due litri di acqua a chi pensa non lo sia e poi non mandarlo in bagno chiedendogli come si sente», osserva Camilla Vivian, autrice del libro “Mio Figlio in Rosa” che ha fatto seguito al blog omonimo dove per la prima volta in Italia veniva affrontato il tema dell’identità di genere nell’infanzia e che ha permesso poi a tante famiglie di entrare in contatto.

«In Italia va tutto bene fin quando sei nei binari. Io ora abito in Spagna e qui è tutto molto facile. Va in automatico: se vai a scuola e dici “Io sono Chiara”, tu sei Chiara. Punto. Se un bambino assegnato maschio alla nascita ti dice “Io sono una bambina” questo ti fa capire che è la cosa più naturale del mondo. Qua se vuoi fare la transizione medica, nel momento in cui puoi cominciare vai e nel giro di 2-3 mesi cominci senza nessun tipo di terapie psicologiche, test e tutte le cose che fanno in Italia. Il resto del mondo non si rende conto che siamo messi così. Al medioevo».

Facendo un parallelo con la Spagna quindi la musica è totalmente diversa. «In Catalogna – spiega Michela Mariotto di Genderlens, collettivo di genitori di persone trans o gender creative, nonché antropologa con una tesi di ricerca sulla varianza di genere nell’infanzia all’università catalana – dal 2017 è attivo un protocollo per le scuole, anche quelle private o cattoliche, dove c’è obbligo di cambiare il nome sul registro scolastico e rivolgersi alla piccola persona unicamente secondo il genere che con cui si identifica. La stessa cosa vale per l’utilizzo dei bagni, spogliatoi, divise eccetera. Una differenza enorme che ho potuto verificare è che la varianza di genere nell’infanzia in Italia è una questione privata, in qualche modo da contenere o nascondere. In Spagna è una questione sociale con supporto in ogni ambito, dai genitori alla scuola fino allo sport. Si fa tantissima formazione non solo sulla possibilità che ci siano dei bambini trans ma rispetto al fatto che l’essere maschio o femmina sono solo dei costrutti sociali».

Proprio la preparazione del personale in Italia costituisce un altro grosso problema. « Quello che sarebbe necessario è proprio la formazione di tutto il personale sui temi dell’identità di genere. Parliamo di uffici, scuole e anche i medici. Non sono così formati», aggiunge Muraca di Agedo.

Le poche figure mediche

Crescendo, la mancanza di figure formate comporta anche problemi di salute. «C’è pochissima formazione nelle figure specialistiche come endocrinologo o psicoterapeuta – dice Michele Formisano, presidente del CEST, centro salute trans e gender variant a cui si rivolgono decine di persone ogni mese – Non è che un laureato in materia può farlo al volo: qui c’è un mondo nel mondo. L’endocrinologo deve avere esperienza e specificità, ad esempio nelle persone che fanno una terapia ormonale sostitutiva, quindi i centri sono pochissimi e le liste d’attesa lunghissime con disparità sul territorio. Un problema che va avanti da anni. Dovrebbe esserci in ogni città non dico un centro multidisciplinare ma almeno una presa in carico nella propria Asl con una minima specialistica. E una chirurgia più diffusa».

Per sopperire alla mancanza di formazione qualcosa si sta muovendo. Nel luglio del 2021 è stata fondata la Sigis, società italiana genere identità e salute, che ha lo scopo di tutelare le persone con incongruenza di genere e formare dal punto di vista scientifico i professionisti. «La salute transgender – ammette Alessandra Fisher, tra la fondatrici di Sigis ed endocrinologa del Careggi, uno dei pochi centri dove si possono fare cure ormonali in Italia e a cui si rivolgono almeno 300 persone ogni anno – deve confrontarsi con la scarsa conoscenza da parte dei professionisti e un livello abbastanza elevato di transfobia sociale. Manca un po’ di percorso. Un altro grosso limite alla programmazione sanitaria è la mancanza di dati precisi a livello nazionale.

Per questo motivo il nostro centro con l’Università di Firenze, l’Istituto Superiore di Sanità Fondazione The Bridge e Onig sta raccogliendo dati e facendo uno studio che si chiama SpoT che ha lo scopo di definire, tramite un breve questionario online, il numero delle persone transgender adulte in Italia, informazione ad oggi non disponibile. Lo studio si concluderà nei prossimi mesi».

Il problema del Covid e la post-transizione

Sottolineando che «non tutte le persone transgender hanno bisogno di fare un intervento medico – precisa Jiska Ristori, psicoterapeuta del Careggi – perché non tutte provano disagio nei confronti del loro corpo», vi è da dire che nonostante l’importante nascita nel 2020 del portale infotrans.it creato dal governo italiano per dare una mappatura dei servizi, al momento in Italia a fare da testa di ponte tra i pochi centri multidisciplinari presenti e le persone più che le stesse Asl sono spesso le associazioni di volontari sparse sul territorio, come quelle già citate. Danno informazioni, fanno supporto psicologico, offrono prima assistenza, supporto genitoriale, gruppi di auto-mutuo-aiuto, incontri online e in presenza, consulenze lavorative e sono talvolta il punto di partenza per chi vuol fare la transizione.

«Siamo 23 volontari – spiega Ilaria Ruzza di Sat Pink, Servizio Accoglienza Trans/Transgender con sedi a Verona, Padova e Rovigo dove si può anche iniziare il percorso di transizione con enti convenzionati – e in 10 anni abbiamo accolto 1.484 persone di cui circa il 70 per cento negli ultimi 3 anni. Vengono da Veneto, Friuli e anche dal bresciano, modenese o mantovano. I numeri sono in costante aumento e col Covid c’è stato il boom, anche se quest’ultimo può essere stato un caso. La maggior parte sono giovani tra i 15 e i 22 anni e, ovviamente, se si rivolgono a noi non significa che necessariamente attueranno una transizione. Dobbiamo capire che non sono una minoranza ma sono tantissime le persone non binary in Italia. Parliamo di circa mezzo milione di persone».

Molti problemi si riscontrano anche per chi fa la transizione. «Una cosa che mi preme sottolineare – prosegue Formisano del Cest – è il problema per la salute. Se sei un uomo transgender che non ha fatto l’intervento di falloplastica, non puoi accedere a una visita ginecologica di prevenzione. O ad una visita della prostata se sei una donna transgender che non ha fatto la vaginoplastica. E se hai fatto la vaginoplastica, non c’è attenzione alla cura della neovagina. Praticamente la persona viene operata e abbandonata a sé stessa. Ci vorrebbe un percorso di screening di salute».

La burocrazia

Le problematiche quotidiane per una persona transgender in Italia non riguardano solo l’aspetto sanitario ma anche quello burocratico. «Non cerchiamo pietismo e non ne abbiamo bisogno – afferma Monica Romano, eletta in consiglio comunale a Milano alle ultime elezioni e che, per dare un segnale, sta cercando di istituire il nome Alias per i servizi erogati dal comune milanese – anche perché questo fa crescere i giovani con un disvalore. Ci vuole logica. Se una persona oggi compie 18 anni, per il nostro ordinamento può votare e chiedere un prestito in banca. Quindi la potremmo considerare capace di sapere ciò che desidera per sé e il suo corpo. In Italia se si vuol ricorrere alla chirurgia per ritoccare esteticamente il proprio corpo secondo il genere di nascita, nessun problema. Se ad esempio una persona di sesso genetico maschile fa gli stessi interventi di una donna, c’è da chiamare lo psichiatra e il giudice. È un problema anche cambiare il nome. Io per chiamarmi Monica Romano ho dovuto parlare con un pubblico ministero. In molti paesi con un atto amministrativo in comune, hai un cambio di nome. Siamo indietro. La società civile italiana è più avanti delle istituzioni e l’ho visto anche durante la campagna elettorale dove interessava discutere dei problemi non del fatto che fossi transgender. In Italia c’è una emergenza laicità. Lo abbiamo visto con la legge Zan o quella sul fine vita: ogni volta che tocchiamo temi eticamente sensibili per una certa visione cattolica non si riesce a procedere a livello legislativo».

La necessità di depatologizzare

L’ultima edizione dell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2018 ha corretto la dicitura “disforia di genere” con “incongruenza di genere” spostandola dal capitolo dei disturbi a quello della salute sessuale. «Il problema – osserva Egon Botteghi di Rete Genitori Rainbow, associazione nazionale che si occupa

di supporto dei genitori LGBT con figlie e figli avuti da precedenti relazioni eterosessuali – è cambiare la legge che abbiamo, rimasta indietro. Non essendo più considerata malattia mentale non dovrebbe più esserci un iter diagnostico come accade, sia che una persona voglia fare una rettifica anagrafica o una operazione. Ci vorrebbe una nuova legge sull’iter di cambiamento di genere che lo rendesse più veloce, semplice e slegato da valutazioni mediche e del tribunale. Tante persone devono vivere con documenti non rettificati a causa delle nostre norme piene di ostacoli».

Ostacoli che colpiscono sia chi vorrebbe diventare genitore dopo la transizione sia chi lo era già prima. «Io, ad esempio, per lo Stato italiano sono al 100% un uomo, però sono anche la madre dei miei figli – continua Botteghi – e questo non viene cambiato. Quando devo andare a compilare un documento sono obbligato a scrivere sotto la dicitura “madre” e il personale non sa come comporarsi, tirando fuori mille problemi. Basterebbe lasciare la scritta “genitore”. Non occorre “1 e 2”. Aggiornare la modulistica e fare formazione non è fantascienza. Per quanto riguarda chi diventa genitore dopo la transizione, fino al 2015 (secondo alcune interpretazioni) i giudici richiedevano la sterilizzazione per fare il cambiamento di documenti: è chiaro che la concezione fosse che le persone trans non dovessero diventare genitori dopo la transizione. Anche oggi ci sono molti ostacoli, mentre in altre parti del mondo è normalità. Stiamo ad esempio traducendo una guida finanziata dal ministero della famiglia tedesco rivolta a genitori trans dove è spiegato praticamente tutto, sia per chi è già genitore sia per chi vuole diventarlo».

La “patologizzazione” della persona transgender in Italia avviene anche attraverso la terminologia e il modo in cui se ne parla. Lo ha riscontrato l’antropologa Mariotto di Genderlens nella sua tesi di ricerca in cui ha intervistato famiglie italiane e spagnole. «In Italia – spiega Mariotto – gli unici termini a disposizione dei familiari stessi per dare un senso all’esperienza dei propri figli e figlie era il linguaggio medico. I genitori stessi parlavano di disforia di genere, cosa che non accadeva in Spagna. Nelle interviste realizzate in Italia ho trovato la parola disforia di genere 21 volte, mentre in quelle fatte in Catalogna solo una, quando un padre spagnolo l’ha usata per dire che “la disforia non è quello che ha mio figlio”, cioè per prendere le distanze rispetto al termine. In Italia se ne parla spesso e male. Si interpellano i medici e le risposte sono sempre mediche».

Un atteggiamento che sembra conclamato. «In Italia le persone trans esistono tramite diagnosi – sentenzia Christian Leonardo Cristalli, presidente dell’Associazione Gruppo Trans costituita da persone transgender, non binarie e intersex – Anche la decisione dell’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) di dare gratuitamente le terapie ormonali, dopo apposita diagnosi in determinati centri, ci ha di fatto patologizzati. Io appartengo all’ultima generazione di persone trans che si è dovuta sterilizzare per avere documenti. Perché in Italia prima del 2015 siamo stati sterilizzati in massa dato che potevamo essere un pericolo per potenziale minore. Contrariamente a quanto accade in tanti Paesi europei, oggi siamo ancora chiamati ad andare in psicoterapia, spendere migliaia di euro e farci diagnosticare la nostra condizione. Anche Malta è più avanti di noi su questo. Qua in Italia ci sono persone che rinunciano ad andare in ospedale per evitare imbarazzi dovuti spesso alla mancanza di formazione. Altre che non vanno a votare perché le file sono divise per sesso e quindi si trovano in situazioni dove gli viene detto continuamente che hanno sbagliato fila. Basterebbe dividere per cognome. I problemi sono tanti, ci sono ma non si vogliono vedere. Abbiamo raccolto firme, inviato lettere, ma le istituzioni non fanno niente. In Italia il corpo è tabù, basta vedere che si cerca addirittura di rivedere la legge sull’aborto. Non vogliamo un miracolo, vorremmo solo far capire che esistiamo e abbiamo dei bisogni, come tutti. Foste al nostro posto, cosa fareste?» 

Dagotraduzione da dailymail.com il 14 Aprile 2022.

Due donne nell'unico carcere femminile del New Jersey sono rimaste entrambe incinte dopo aver fatto sesso con detenuti transgender. 

Le donne incinte, che non sono state identificate, sono ospitate all'Edna Mahan Correctional Facility, a Clinton, che il governatore del New Jersey ha annunciato l'intenzione di chiudere l'anno scorso.

I capi della prigione hanno detto che in entrambi i casi il sesso era consensuale. Non è chiaro se le donne abbiano fatto sesso con lo stesso detenuto transgender o se si trattasse di due detenuti diversi. 

Edna Mahan ospita 27 prigionieri transgender e oltre 800 donne in tutto. Non è inoltre chiaro a che punto siano le gravidanze delle due detenute e se loro intendono continuarle. È stata avviata un'indagine.

La struttura correttiva ha iniziato a ospitare donne transgender, comprese quelle che devono ancora sottoporsi a un intervento chirurgico di riassegnazione di genere, l'anno scorso. 

Ciò è avvenuto come parte di un accordo a seguito di una causa intentata da una donna trans e dall'American Civil Liberties Union (ACLU) del New Jersey. 

Martedì, il direttore legale dell'ACLU Jeanne LoCicero ha difeso questa decisione, dicendo che era sicura che i diritti dei prigionieri trans non fossero violati.

I critici dell'accordo con l'ACLU sostengono che la misura è l'ennesimo onere per una prigione statale che ha visto segnalazioni allarmanti di abusi e stupri da parte delle guardie nell'ultimo decennio. 

Il sindacato che rappresenta gli ufficiali penitenziari presso la struttura ha rilasciato una dichiarazione in cui denunciava la politica che consente alle donne transgender di essere incarcerate a Edna Mahan. 

"Ci siamo opposti a questo cambiamento di politica ritenendo che sarebbe stato dannoso per la popolazione delle detenute ospitate a Edna Mahan e avrebbe anche portato ulteriore stress ai nostri agenti di polizia penitenziari assegnati a questa istituzione", ha detto il presidente del sindacato a NJ.com.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.

Intervenendo - come fa spesso - in modo irruento su un tema assai delicato, il premier inglese Boris Johnson ha spiegato che «pur essendo io vicinissimo alle esigenze e ai sentimenti di chi cambia sesso, non ritengo corretto che soggetti biologicamente maschi gareggino in prove sportive riservate alle donne». Immediata la reazione di Sally Muday, a.d. dell'agenzia governativa Uk Sport: «Su questi argomenti - ha spiegato la governatrice dello sport britannico - ci vogliono rispetto e sensibilità per la dignità umana di persone che fanno scelte incredibilmente coraggiose».

Il riferimento è al caso di Emily Bridges, la ventunenne ciclista che sabato scorso è stata esclusa dai campionati nazionali su pista dell'Omnium per una non chiarita «mancata idoneità». Nata Zach Bridges, junior di ottimo livello tra i maschi, Emily ha completato il suo percorso di transizione da oltre dodici mesi registrando «costantemente valori di testosterone inferiori alle 5 nmol/L» come prevede il regolamento dell'Unione Ciclistica Internazionale che però -senza spiegazioni - le nega il nulla osta per gareggiare tra le donne.

 Al suo fianco si sono subito schierati Comitato Olimpico e federazione inglesi e 80 tra colleghe ed ex colleghe celebri. «Il rifiuto - spiega Emily - mi ha devastato emotivamente e sta provocando episodi di bullismo nei miei confronti». 

Oltreoceano si respira un'atmosfera molto diversa. Lia Thomas (nata Will Thomas nel 1999 ad Austin, in Texas) fresca campionessa americana universitaria delle 500 yards stile libero è stata duramente contestata da attivisti anti-trans durante le gare ma anche da alcune colleghe e dai loro genitori. Mentre la federazione internazionale la giudica idonea a gareggiare tra le donne, la politica cerca in ogni modo di impedirle di scendere in vasca.

La settimana scorsa Kevin Stitt, numero uno repubblicano dell'Oklahoma, è diventato l'ennesimo governatore americano ad abbracciare il «Save Women's Sport Act» impedendo per legge nel territorio di sua competenza agli atleti transitati dal sesso maschile a quello femminile di gareggiare tra le donne, con un lapidario «ragazzi contro ragazzi, ragazze contro ragazze. Proteggiamo lo sport femminile garantendo condizioni di parità per le atlete che lavorano duramente, che si impegnano, sognano di essere le numero uno nel loro sport e meritano una competizione leale. Gli uomini sono biologicamente diversi dalle donne».

La legge è stata subito impugnata davanti alla corte costituzionale da diverse associazioni per i diritti civili. In un contesto simile, a poco valgono le regole liberiste del Comitato olimpico internazionale, in vigore dal 2016, che non pongono limiti alla partecipazione alle gare a chi transita dal sesso femminile a quello maschile e impongono solo un intervallo temporale di «riposo» e una soglia di testosterone a chi invece segue il percorso inverso.

Lorenzo Rotella per “la Stampa” il 2 aprile 2022.

«Ho accettato il mio passato, ormai siamo grandi amici». Sfoglia le foto di un caschetto biondo e occhi azzurri di nome Daphne e scorre le immagini di una ragazza in un costume a due pezzi, in un abito bianco da sera, in shorts e maglietta fina. «Traspare un certo disagio», dice ridendo Bryan Ceotto. Il corpo che abitava prima della terapia ormonale è diverso, ma gli occhi e il carattere sono rimasti gli stessi. Ora vive felice nei panni di un ragazzo ventiduenne di Conegliano.  

Si racconta sui social, dando voce alla comunità transgender, macinando milioni di like e sostegno tra migliaia di followers su Instagram e TikTok. Studia Lettere alla Statale di Milano, vuole diventare un giornalista storico e adora il calcio. Che per la sua scelta non può più praticare.

«Non tutte le squadre ti permettono di giocare a livello agonistico quando si inizia una terapia ormonale», spiega. «Da un lato per il testosterone assunto sono un uomo, dall'altro per lo Stato sono ancora una donna. Potrei scendere in campo coi maschi, ma non per giocare partite ufficiali». 

Anche nel mondo del lavoro tutto è più complicato. «Al primo anno di Lettere cercavo un impiego e avevo un buon livello di "passing" (capacità di sembrare del sesso opposto a quello di nascita, ndr). La mia voce però mi tradiva, non ero ancora in terapia, e molti datori mi hanno sbattuto la porta in faccia. Però non capisco che differenza faccia essere uomo o donna per fare il barista o il cameriere». 

Bryan, però, si è chiesto che differenza facesse per lui essere maschio o femmina già in tenera età: «Alle elementari avevo capito che non mi riconoscevo nei gruppi sociali "bimbo e bimba". Alle medie, vedendo i corpi cambiare, mi sono terrorizzato.Ho scoperto in quel momento la disforia di genere». Il Bryan adolescente si sentiva in trappola dentro il corpo di Daphne. 

«Però mi comportavo a forza da ragazzina, disprezzavo la transessualità e non accettavo di sentirmi diverso». Con un tema in terza liceo sulla musica lirica, sua grande valvola di sfogo per i momenti di crisi, è avvenuta la svolta: «Ero un fiume in piena e ho steso su carta ciò che sentivo. Il prof mi ha preso da parte, mi ha ascoltato e aiutato a trovare il coraggio di dire tutto ai miei compagni». Alcune reazioni a scuola non sono state positive: «Una professoressa mi ha detto che non ero una persona e non avevo diritto di voto». Poi è toccato dirlo ai genitori, che vivono separati. «Mamma mi ha accolto a braccia aperte», dice. 

«Papà, invece, temeva tutto: la cura ormonale, il bullismo, che qualcuno mi picchiasse sotto casa. Ma ha rispettato la mia scelta, ne sono felice. Anche se a volte fa ancora "deadnaming" (riferirsi a una persona transgender col suo vecchio nome, ndr) e "misgendering" (indicare una persona con un pronome del sesso opposto, ndr)».

È un percorso pieno di ostacoli quello che Bryan ha deciso di intraprendere per essere felice nel dicembre del 2020. «Il primo step - spiega - è fare sedute da uno psicologo e farsi rilasciare un documento per eseguire la Tos (terapia ormonale sostitutiva, ndr). Il secondo l'ho cominciato lo scorso giugno: iniezioni di testosterone seguiti da un endocrinologo. Io le faccio ogni 11 settimane». Racconta entusiasta pregi e difetti della cura: «Mi è aumentata la forza, la peluria. Anche la voce è diversa, ormai è mascolina. Però a causa della botta ormonale ci sono sbalzi d'umore». 

A complicare le cose ci si mette la legge: «Il terzo step è farsi riconoscere come Bryan sui documenti con un giudice che decreta se sono un uomo. Se la richiesta viene respinta, si passa a un consulente legale che valuta a sua volta. Una burocrazia da incubo: in poche ore un esterno può decidere come devo sentirmi, a discapito di anni di terapia». A tutto questo si aggiungono le spese.  

«In Italia si può fare tutto gratis il problema sta nei tempi biblici della sanità pubblica. Io mi sono mosso tramite privati: fino a 70 euro per la psicologa, agli 80 per le visite dall'endocrinologa e 180 a iniezione. Ci sarebbero anche le operazioni chirurgiche da migliaia di euro, come la mastectomia e falloplastica, ma non le ho fatte». Per ora non sono importanti, dice. Quello che conta è il riconoscimento legale della sua identità. «Per dire tra qualche anno al vecchio Bryan di non mollare, perché ce la farà». 

(ANSA il 25 febbraio 2022) - Militanti di Azione Studentesca, organizzazione giovanile di Fratelli d'Italia, hanno affisso nella notte a Torino, davanti al liceo Classico Alfieri, lo striscione 'Maschi e femmine Punto!'. Una protesta contro la decisione degli studenti e della dirigenza dell'istituto di creare bagni' neutri', per chi non si riconosce nella distinzione di genere tra maschi e femmine, all'interno della scuola. 

"Abbiamo deciso di apporre questo striscione perché è necessario ribadire che i sessi esistenti sono due: maschio e femmina - spiega Azione Studentesca - Nella scuola non deve esserci spazio per folli ideologie gender che vorrebbero rendere anche la sessualità fluida e indefinita. Si pensi, piuttosto, a risolvere i veri problemi che ad oggi affliggono la scuola italiana, a partire dalle morti durante l'alternanza".

(ANSA il 25 febbraio 2022) - Dopo l'Alfieri anche il Gioberti, storico liceo del centro di Torino, ha un bagno neutro. Gli studenti dell'istituto di via Sant'Ottavio hanno deciso di seguire l'esempio di quelli dell'Alfieri e hanno affisso dei cartelli sulla porta del bagno con la sagoma che indossa sia la gonna che i pantaloni con la scritta 'bagni neutri'.  

Per il momento, si apprende dai ragazzi, è una risposta "allo striscione che questa notte è apparso davanti al liceo Alfieri a firma di Azione Studentesca contro l'iniziativa", ma l'obiettivo è quello di creare anche al Gioberti i bagni senza distinzione di genere.

Il calvario di Alessia per cambiare nome sui documenti. Ha iniziato la transizione a 20 anni, a 48 lo Stato la riconosce donna: “Burocrazia infinita e risate in faccia, non può essere così”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Febbraio 2022. 

“Farsi riconoscere donna dallo Stato è una fatica e non è giusto perché io sono una donna e non devo soffrire”. Alessia Cantore, 48 anni, di Torre del Greco, ha iniziato la sua transizione quando aveva 20 anni. Si chiamava Santo ma sin da giovanissima si sentiva donna e così ha deciso di intraprendere il difficile percorso della transizione. “Ma non ero felice – racconta Alessia – perché sui miei documenti di riconoscimento c’era scritto ‘Santo Cantore’, così ho deciso di fare la rettifica del nome. Ma se avessi saputo che era così difficile forse avrei rinunciato”.

Donna da più di 20 anni, Alessia ci ha messo 5 anni per avere tra le mani il documento con il nome femminile. “Una mia amica in Germania ci ha messo 5 mesi per avere il documento corretto. Io in Italia per avere il mio nome sulla carta di identità ci ho messo 5 anni. Vi pare normale?”. Una storia incredibile ma comune a tante donne che hanno deciso di intraprendere lo stesso percorso. Per queste donne cambiare il nome sui documenti non è solo un’esigenza psicologica ma anche una concreta necessità: “Avendo documenti maschili ho avuto molta difficoltà a trovare lavoro – racconta Alessia – Sono tutta donna fisicamente ma appena leggevano i documenti, vedevano che ero un uomo e non mi assumevano o mi licenziavano anche se ero brava”.

E il cambio del nome sui documenti è un diritto garantito dallo Stato. “Penso che ognuno è libero di fare ciò che vuole, amare chi vuole, essere ciò che si vuole – ha continuato il racconto – E non è possibile che una ragazza come me deve soffrire tutti i giorni con le discriminazioni, con il lavoro, con i documenti, con il green pass. Dobbiamo morire noi? Non siamo esseri umani?”. Alessia racconta le procedure che ha dovuto affrontare per riuscire nell’impresa di vedere il suo nome scritto sui documenti.

Prima gli incontri con gli psicologi poi il passaggio in tribunale. E ancora dallo psicologo e poi in tribunale. “È davvero un giudice a dover decidere se io sono donna?”. Una trafila burocratica insormontabile e dolorosa, inaccettabile per chi già si sente discriminato tutti i giorni. “Quando è arrivata la sentenza del Tribunale che mi riconosceva come Alessia ero felice, pensavo che era finita lì. Invece no. Ho dovuto aspettare un altro anno di burocrazia inseguendo i funzionari del comune. Ogni venerdì per un anno sono andata a chiedere se erano arrivati i miei documenti e loro mi rimandavano di continuo. Mettetevi nei miei panni, non è bello tutto questo”.

“Ancora peggio – continua il racconto – mi ridevano in faccia di continuo. Fino all’ultimo mi hanno fatto soffrire. Quando poi sono arrivati i miei documenti il funzionario mi ha detto ‘Auguri, ora sei Alessia grazie a me’. Grazie a lui? Ma è un mio diritto”. La procedura è complessa e a questo si aggiunge che non sempre i funzionari dei comuni sono adeguatamente formati all’utilizzo dei sistemi informatici e la cultura e la conoscenza di tematiche come il mondo lgbtq è molto scarsa. E questo rende tutto ancora più complicato, praticamente e umanamente.

“Una volta avuta quella telefonata pensavo che era finita là – continua Alessia- Ero tutta felice ma quando ho guardato i documenti mi sono accorta che c’era ancora il sesso maschile. Sono una donna trans però il mio sesso è femminile, anche se non sono operata. Per legge se lo voglio fare lo faccio. E quell’errore è un insulto. E ho ricominciato ad andare al comune a litigare con tutti. La delusione era tanta perché avevo aspettato già 5 anni per averli. Come si fa a essere così ignoranti e insensibili? Ho dovuto aspettare ancora ma poi ce l’ho fatta. È stata una grande soddisfazione”.

Ancora una volta Alessia ha pensato che la sua trafila fosse finita lì. Invece no, ha riscontrato un’altra difficoltà sulla sua strada: il green pass. Vaccinata con tre dosi, Alessia, all’epoca delle inoculazioni aveva i documenti con su scritto ‘Santo Cantore’ e di conseguenza anche il suo green pass porta quel nome. Ora che sulla sua carta di identità c’è scritto ‘Alessia Cantore’, ai controlli la fermano e le dicono che l’identità non corrisponde.

“Per prendere il treno per andare a operarmi al seno – perché finalmente Alessia può farlo – ho dovuto portare con me una copia dei vecchi documenti. Mi avvio con grande anticipo perché devo spiegare questa situazione a chi controlla il green pass che non è semplice. Ma se per legge sono Alessia Cantore, automaticamente non dovrebbe cambiare anche il green pass?”. Alessia è molto grata all’Associazione Trans Napoli di Loredana Rossi e Ileana Capurro, oltre che presidente anche l’avvocato che l’ha aiutata nella difficile impresa del cambio del nome. “Senza di loro non avrei saputo come fare”, dice.

Alessia fin ora non si è mai operata, forse potrebbe decidere di farlo prossimamente ma ha paura di dover iniziare d’accapo tutta la trafila burocratica. “Essere una donna trans non è facile – dice Alessia – Combattere questa società con i pregiudizi e le discriminazioni, non è semplice. Io cerco di realizzarmi ogni giorno. Ho un lavoro da badante, faccio viaggi per andare a operarmi, ora mi faccio il seno, poi mi opererò alle corde vocali perché la mia voce non mi piace. Io lo so che dobbiamo morire tutti ma voglio morire completa. Io mi accetto così come sono, e cammino a testa alta. Non sono io che devo avere vergogna, è lo Stato che si deve vergognare perché ha qualcosa contro di noi. Io mi apro alla società, è la società che si chiude verso di me. Ma io l’ho capito: bisogna vivere e combattere, e così sto facendo. Però sarebbe l’ora di dire basta a queste discriminazioni e a questa burocrazia così lunga. Deve cambiare qualcosa”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Pierluigi Panza per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022. 

Sarà la Biennale del Postumano e del post-maschio bianco, illuminista, quella che si aprirà il 23 aprile a Venezia. L'uomo vitruviano di Leonardo, custodito nelle vicine Gallerie dell'Accademia, non è più la misura di tutte le cose. Anzi, nella 59ª mostra d'arte intitolata The Milk of Dreams («Il latte dei sogni», da un libro per bambini di Leonora Carrington) curata dall'italiana, ma più americana, Cecilia Alemani, non è misura di un bel niente. 

Figure fantastiche e ibride, mutanti che variano dal naturale al meccanico, un mondo dove tutti possono diventare altro è quanto vedremo alle pareti del Padiglione centrale ai Giardini e all'Arsenale. Intorno, padiglioni di 80 Paesi con cinque nuovi ingressi: Camerun, Namibia, Nepal, Oman e Uganda (con Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan ciascuno con un proprio padiglione). Sarà una Biennale che punta alla neutralità carbonica (l'ex impatto zero), che fornirà a tutti i partecipanti (anche ai visitatori) dei protocolli di comportamento e costerà 18 milioni, dei quali 20% da sponsor (partner Swatch, Illy caffè main sponsor).

«The Milk of Dreams sarà un viaggio che, attraverso le metamorfosi dei corpi, racconta come sta cambiando la definizione di umano e quali le nuove differenze tra umano e animale», racconta la curatrice Alemani, che ha preparato la mostra nei due anni di lockdown. Il riferimento culturale può essere quello della mostra Identità/ alterità di Jean Clair; ma qui si viaggia verso il distopico spinto, sino a ipotizzare come sarebbe il Pianeta senza di noi e non si sa bene con chi. Divisa in tre sezioni, la rassegna si concentra sulla rappresentazione dei corpi (metamorfosi, fusion), sulle relazioni tra individui e tecnologie (passaggio dall'uomo al robot) e sulla connessione tra corpi e Natura «come fine dell'antropocentrismo e nuova comunione tra esseri e animali». 

È la messa in mostra della filosofia del Post-umano, la «fine della centralità dell'uomo, specie quello bianco illuminista, il farsi macchina e terra dell'uomo, il suo disfarsi in favore di corpi permeabili». Vedremo opere di 213 artiste/i di 58 nazioni (26 dall'Italia), 180 dei quali mai stati alla Biennale. Ci saranno 80 nuove produzioni per complessivi 1.433 opere/oggetti. Protagoniste «le donne, artisti non binari e coloro che stanno mettendo in crisi la figura dell'uomo al centro del mondo».

L'esposizione, infatti, ruota anche intono a «capsule», ovvero piccole esposizioni tematiche tran-storiche di sole artiste. Tutto è trans , qui, ma nella visita meglio partire dal Padiglione centrale ai Giardini con la capsula La culla della strega , lavori di 30 artiste su ambiguità e metamorfosi del corpo «contro l'idea di uomo unitario, rinascimentale»: negritudine , fusion e opere del recente passato da Paesi non eurocentrici al posto di quel che furono 500 anni di antropocentrismo, Leon Battista Alberti, Palladio e compagnia. 

«Il fine è anche quello di sovvertire i cliché sulla donna nella storia dell'Arte presentando corpi intersex», afferma la neo-mamma Alemani.

A seguire, artiste contemporanee come l'americana Christina Quarles, Andra Ursuta con i suoi corpi disfatti, Sara Enrico e Chiara Enzo (i maschi sono solo nei cognomi delle donne) con i suoi iperrealistici rilievi di epidermide. Altre capsule sono Tecnologia dell'incanto (dove ci sono Grazia Varisco, Nanda Vigo, Marina Apollonio) e Corpo orbita con artiste e scrittrici che utilizzano figure espanse, scrittura automatica, quadri tipografici, grafemi o creature simbiotiche come quelle di Paula Rego e performance come quelle della rumena Alexandra Pirici «che parlerà di interazioni simbiotiche e parassitarie tra individui». 

Capsule anche all'Arsenale e molte foto, come quelle della scomparsa Belkis Ayón sulle comunità matriarcali e vari filmati di individui persi tra i licheni della Lituania e altri che «flirtano con la Natura». 

Poi le sculture uterine dell'americana Ruth Asawa, corpi che diventano carapaci, modelli anatomici deformati, una Venere di Botticelli sostituita da un pescatore nero. Abbiamo capito; ma chi vuole dare un'occhiata anche alla capsula La seduzione di un cyborg scoprirà artiste che hanno immaginato avatar postgender e post-umani.

«Alla fine - dice Alemani - la mostra diventa sintetica, senza figura umana, con creature criogeniche e l'animale che prende il controllo sull'uomo, anche con fiori postatomici e macchine robotiche che ricorderanno le figure umane» (ormai defunte). Ci sarà pure il compleanno del cyborg e un site specific di Barbara Kruger di critica alla comunicazione. Una mostra distopica e un po' inquietante. Si salvi chi può - tanto, «quando i cieli diventano più scuri... noi non ci saremo», come cantava Guccini. E, forse, anche questo mondo ci sarà solo alla Biennale per sette mesi.

Il Miur si arrende al politicamente corretto e usa la schwa in un documento ufficiale: la deriva. Adriana De Conto mercoledì 2 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Se anche il Miur si inchina allo schwa nei documenti ufficiali vuol dire che siamo alla frutta. L’inchino al politicamente corretto non è solo arrivato nelle università italiana con i vari percorsi alias, per chi non si riconosce nel proprio nome anagrafico; ma anche sui documenti ufficiali del Miur. Provare per credere: sul sito ufficiale del il ministero dell’istruzione e dell’università, alla voce Abilitazione scientifica nazionale (Abn);  alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia, il fatto compiuto salt agli occhi. “Nelle numerosissime pubblicazioni degli esiti relativi all’abilitazione scientifica nazionale 2021-2023, ce n’è una che salta all’occhio non appena il file pdf si apre. Si tratta del verbale degli esiti del settore concorsuale 13/B3: per la materia di studio di Organizzazione aziendale”. Un’indagine di cui dà conto la Verità diretta da Belpietro.

Il Miur ha usato la schwa in un documento ufficiale: siamo alla deriva

La famigerata schwa, vocale indistinta e asessuata diventata l’alibi dei diritti Lgbt entra da protagonista in un documento ministeriale ufficiale. Il quotidiano reca una foto che lo attesta. La sottomissione alla deriva del pensiero unico è compiuta. Nel documento consultato e consultabile tutte le desinenze sono state scritte con la schwa.  Di fatto abolisce la distinzione tra maschile e femminile, appecoronandosi alle teorie gender . E’ la famosa “cappa” di conformismo di cui parla nel nuovo libro Marcello Veneziani (intitolato, appunto, La cappa).

La Crusca aveva bocciato la schwa, il Miur usa la sillaba neutra

A nulla è servito il giudizio negativo dell’Accademia della Crusca, che aveva bocciato la schwa e asterischi vari, con un lungo articolo del linguista Paolo D’Achille: «Non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo». Anche Roberta D’Alessandro, professoressa di Sintassi e variazione linguistica presso l’Università di Utrecht, aveva tuonato: «Il cambiamento linguistico non accade mai come risultato di un ragionamento a tavolino». Centrando il punto: si tratta di una forzatura linguistica, per cercare di modellare la realtà secondo un’immagine imposta da un pensiero unico. Un ideologismo che abolisce le differenze. Dispiace constatare l’acquiescenza dei nostri studenti se la paragoniamo alla ribellione  in molti atenei francesi un tempo tempio della cultura progressista contro un ideologismo astratto e neutro. Se anche il Miur si adegua è la fine…

Francia, cosa rischiano i genitori che non assecondano la "transizione di genere". Roberto Vivaldelli il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nella legge che vieta le terapie di conversione, viene inserita altresì "la revoca totale o parziale della potestà genitoriale" per i genitori che non assecondano la "transizione di genere" dei propri figli. Follia transgender

Addio alle "terapie di conversione" in Francia. Il disegno di legge è stato approvato all'unanimità dall'Assemblea nazionale, con 142 voti a 0. La Francia si accoda dunque a Stati Uniti, Germania, Canada e altri Paesi dove queste terapie volte a modificare l'orientamento sessuale o" l'identità di genere" delle persone omosessuali sono vietate. Il presidente Emmanuel Macron ha elogiato l'approvazione del disegno di legge, twittando che "essere se stessi non è un crimine". La normativa bandisce "pratiche, comportamenti o parole volti a modificare o reprimere l'orientamento o l'identità sessuale, con effetto che ne alteri la salute fisica o psichica", con l'inserimento di un nuovo reato nel codice penale che prevede fino a due anni in carcere e una multa fino a 30.000 euro. La pena può aumentare a tre anni di reclusione e multa di 45.000 euro per tentativi che coinvolgono minori o altre persone particolarmente vulnerabili.

Revoca della podestà genitoriale per chi non asseconda la "transizione di genere"

"È fatta", ha twittato la ministra francese per le pari opportunità, Elisabeth Moreno. "Le terapie di conversione, queste pratiche barbariche di un'altra epoca, sono decisamente vietate nel nostro Paese", ha proseguito, aggiungendo l'hashtag #RienAGuerrir (Niente da curare). Fino a qui, si direbbe, tutto bene. Ma dietro la (sacrosanta) iniziativa del parlamento francese c'è un "però" e non di poco conto: come riportato da Libero, infatti, dietro la legge promossa dalla deputata della République en marche Laurence Vanceunebrock, si nasconde anche altro. Il testo legislativo prevede, infatti, nel caso in cui un genitore non volesse assecondare la "transizione di genere" della figlia o del figlio, "la revoca totale o parziale della potestà genitoriale". Capito? L'ennesima follia dell'ideologia transgender. Altra ossessione della sinistra identitaria: l'immancabile inserimento del concetto di "identità di genere" nel testo della legge, un po' com'era accaduto con il Ddl Zan in Italia. "Non potremo più occuparci di minori affetti da disforia di genere", ha protestato l'Observatoire de la petite sirène, gruppo che riunisce medici, psicologi e psichiatri infantili: "C'è il rischio di rinchiudere i giovani in un'identità che forse non era altro che l'espressione delle loro difficoltà, molto comuni anche nell'adolescenza". Ma questo alla sinistra identitaria non interessa: l'imposizione del concetto di "identità di genere" è infatti una prerogativa essenziale dei progressisti, in tutto l'occidente.

Cosa sono le terapie di conversione

Un peccato perché la legge, spogliata da questi preoccupanti vizi ideologici, non sarebbe tutta da buttare, a cominciare dal divieto di praticare le terapie di conversione. Come ricorda Firstpost, queste pratiche ora vietate in Francia e in altri Paesi risalgono almeno al 1890, quando lo psichiatra tedesco Albert von Schrenck-Notzing disse in una conferenza di aver "trasformato" con successo un uomo gay attraverso l'ipnosi, secondo il Southern Poverty Law Center. Altri medici, come l'endocrinologo austriaco Eugen Steinach, hanno condotto in passato esperimenti di trapianto di testicoli in cui alcuni uomini omosessuali sono stati castrati e poi hanno ricevuto "testicoli eterosessuali" da altri maschi. Altri medici ancora vedevano l'omosessualità come un disturbo mentale e iniziarono a utilizzare percorsi psichiatrici nel tentativo di "curare" persone con identità e orientamenti sessuali diversi da ciò che era considerato la norma. Ciò includeva l'uso di lobotomie e la terapia dell'avversione. Nel 1952, l'American Psychiatric Association (APA) ha elencato l'omosessualità nel suo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Dopo molte polemiche e ricerche, l'APA ha annullato l'elenco nel 1973 e ha rimosso l'omosessualità dal DSM.

Un caso a Montpellier

Nel frattempo, a Montpellier, come riportato da Le Figaro, la procura ha aperto un'indagine preliminare per sequestro di persona e reclusione forzata dopo la scomparsa di un adolescente transgender che sarebbe stato portato dalla sua famiglia in un centro di "terapia di conversione" nel centro della Francia. In un video pubblicato domenica su Instagram e diventato presto virale, una ragazza, Julie, spiega che il suo nuovo coinquilino di 17 anni, Enzo, studente di teatro al Cours Florent de Montpellier, era stato portato via la scorsa settimana dal suo genitori, dopo aver rivelato loro che desidera essere considerato maschio nonostante sia nato femmina. Sarebbe stato portato via contro la sua volontà dai genitori per seguire le terapie di conversione vietate dal nuovo disegno di legge appena approvato. In un comunicato, il pubblico ministero di Montpellier, Fabrice Belargent, ha spiegato di essere stato informato dal "mondo associativo" della "scomparsa di un minore che sarebbe stato condotto sotto costrizione in un luogo da definire per subire una terapia di conversione".

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al 

"Sì al pronome neutro". La Norvegia sposa il vocabolario gender. Manila Alfano il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale. Il consiglio scandinavo per la lingua approva l'uso di "Han". Nei dizionari dalla primavera.

Non più lei o lui. Un nuovo pronome «gender neutral» entrerà con tutta probabilità entro un anno nel dizionario della lingua norvegese, dopo che il suo utilizzo nella lingua corrente si è di fatto stabilizzato. Così il pronome neutrale «hen» potrà a breve essere ufficialmente riconosciuto come alternativa al maschile ha' e al femminile hun nella terza persona singolare, stando a quanto scrive il Guardian citando il Consiglio per la lingua norvegese. «Col passare del tempo abbiamo riscontrato che l'utilizzo di hen è aumentato e si è stabilizzato», ha spiegato Daniel Ims dello stesso consiglio linguistico ai meda norvegesi, sottolineando che sebbene l'utilizzo di pronomi gender neutral era stato oggetto di discussione da tempo nell'ambito delle comunità linguistiche, una posizione a sostegno del suo utilizzo non era stata ancora riscontrata a livello ufficiale. E invece entro un anno farà il suo ingresso nel dizionario. Ma non è il primo Paese a compiere questa scelta.

Già nel 2015 la Svezia sua vicina di casa decise di utilizzare il pronome di genere neutro «Hen» aggiunto ufficialmente nel dizionario. La reazione in Svezia è stata di consenso generale. Tuttavia, sono sorte delle questioni sull'impatto che il nuovo termine ha sulla società. Nel 2012 la giornalista svedese Nathalie Rothschild scrisse che la Svezia stava prendendo una brutta china, mettendo al bando ogni forma di distinzione di genere, ed il caso di «hen» era solo l'ultimo esempio in questo senso. E così, dopo le toilette senza distinzione di genere, a scatenare il dibattito erano stati i libri per bambini in cui si è deciso di introdurre il pronome neutro «hen» al posto di «lui o «lei», per tutta la narrazione. Ma sarà poi giusto eliminare le distinzioni, è la domanda, o sarà piuttosto una limitazione, un togliersi qualcosa in nome del rispetto di ogni sensibilità?

È indubbio che la lingua sia un mezzo eccellente capace di promuovere l'integrazione ed una maggiore parità di genere, ma sicuramente non l'unico.

La Norvegia non è dunque nè il primo nè l'unico. Anche la lingua turca, fa giustamente notare Viral Shah di CafeBabel, ha un pronome neutro: «o», che include il lui, il lei e anche i pronomi tipo l'inglese «it». Anche il Bangladesh ha introdotto di recente un terzo elemento per l'identità di genere, chiamato Hijra. Ciononostante, nessuno oserebbe affermare che queste siano le nazioni più attente all'integrazione di genere, arrivate rispettivamente al 125° e al 68° posto nel rapporto del 2014 sulla parità di genere del World Economic Forum. La Svezia è arrivata al 4° posto, dietro ai vicini scandinavi Islanda, Finlandia e Norvegia. La lingua è solo un ulteriore mezzo a nostra disposizione per cercare di rendere la società più equa e aperta all'integrazione dal punto di vista del genere. Manila Alfano

Enrico Caiano per “Sette - Corriere della Sera” il 15 gennaio 2022.

Trova una sola parola per definirsi. Terribile. «Io sono un intruglio». Lucy Salani, a 97 anni, è la trans più vecchia d’Italia, vive a Bologna nella periferia di Borgo Panigale, assistita da volontari che sono ormai diventati suoi amici. 

Ospita un quarantenne marocchino con lavoro povero ma regolare, Said, a tutti gli effetti ormai un suo nipote. Lucy a questa sua età impossibile ci vede ancora benissimo e non usa occhiali: «Ho appena superato la visita medica per il rinnovo della patente!» dice con comprensibile orgoglio in quella sua voce orgogliosa e non certo flebile.

Ma è da un po’ che non guida: «Mi sono tornati dei problemi alla gamba alla quale mi hanno sparato durante la liberazione del lager di Dachau. Se guido mi fa molto male». 

Nel documentario sulla sua vita, al cinema da lunedì, "C’è un soffio di vita soltanto", cominciato nei primi giorni della pandemia dalla coppia di registi romani 40enni Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, la vediamo al volante della sua utilitaria Ford girare per Bologna tra uffici e farmacie.

Una vita da film

«Mai avrei pensato che qualcuno avrebbe fatto un film sulla mia vita! È la prova che l’esistenza può sempre dare delle soddisfazioni, anche quando non ti aspetti più niente». Un’esistenza in cui Luciano/Lucy è stata un po’ di tutto: soldato e disertore dopo l’8 settembre, tappezziere, ballerina, madre adottiva. 

E «ho fatto marchette, sì: normale per quelli come me». I due registi l’hanno trovata per caso, su YouTube. «Era intervistata da un’emittente locale: è stato Dario a scoprirla facendo uno scrolling annoiato», racconta Matteo Botrugno parlando del suo amico e compagno di cinema Coluccini, che conosce da quando avevano 5 anni.

«L’abbiamo contattata e alla fine chi la segue si è fidato e soprattutto lo ha fatto lei, pur salutandoci con un “ecco altri due rompicoglioni” il giorno del nostro primo incontro». 

A fine novembre al Torino Film Festival

Il carattere di chi è arrivato fin qui dopo una vita tremenda non può esser docile. Ma poi, tutto è andato più che liscio. Ora la stima è massima, i due registi finora autori di film di finzione (Et in terra pax del 2010 e Il contagio del 2017) hanno capito che solo con il documentario avrebbero potuto rendere con la giusta completezza una storia come quella di Lucy e si sono buttati nel loro primo docufilm.

Lei annovera «quelli con Matteo e Daniele durante le riprese tra i ricordi felici» della sua lunga e tormentata vita. Loro hanno deciso di portare Lucy alla prima mondiale del doc al Torino Film Festival di fine novembre e la porteranno alla presentazione del film in un cinema della sua Bologna il prossimo 27 del mese per il Giorno della Memoria. 

Il valore della memoria

«Perché la storia di Lucy», come dice Botrugno «come superstite del lager di Dachau (dove è finita non come omosessuale nonostante così si dichiarasse allora, ma come disertore dell’esercito tedesco a cui aveva aderito dopo l’8 settembre, quando fu fermata in fuga da quello italiano, ndr) è testimonianza della memoria storica che non va cancellata.

Ma come trans è anche un esempio dell’importanza della diversità e della sua tutela nella nostra società». A Torino Lucy è andata perché vi ha vissuto (è nata nel Cuneese, a Fossano, nel 1924) e vi ha lavorato da tappezziere. 

Di quei giorni ricorda «la dolcezza di Patrizia, mia figlia, la ragazza che ho praticamente adottato quando ero lì» e che un tumore in giovane età le ha strappato nel 2014. Anche questo le è toccato vivere.

Con «il sorriso del mio fidanzato inglese negli Anni 50 e i miei viaggi in giro per Europa e Nord Africa», racconta oggi Lucy, «Patrizia è stata tra i pochi momenti felici della mia vita». 

Dal lager alla vita su altri mondi

I più brutti li ha vissuti sicuramente a Dachau, dove ha voluto tornare portata dai registi nel settembre 2020: «Quello che ho visto nel campo è stato spaventoso. Bruciavano i morti e c’era chi era ancora vivo e si muoveva tra le fiamme. Terribile. La mattina quando guardavi la recinzione elettrificata trovavi un mucchio di ragazzi attaccati con le fiammelle che uscivano dal corpo».

In Dio non crede. Ma da prima, da quando un prete la molestò da ragazzino a Fossano in un confessionale. Invece sogna gli extraterrestri e ama i film di fantascienza: «Avatar è il mio preferito: esplorare un nuovo mondo in un nuovo corpo, un capolavoro. Io ne ho viste e passate troppe, comincio davvero ad avere voglia di cercare vite su altri pianeti». 

Non lo dice lei ma tra le esperienze orrende ci fu anche il cambio di sesso, negli Anni 80 a Londra: «Era sessualmente attiva», racconta Botrugno, «ma lì non hanno pensato a garantire che provasse ancora piacere, dopo. Hanno fatto i macellai: tagliato e fatto un buco», conclude crudo.

L’equivoco del nome

Quello che di Lucy esalta il regista è il suo essere «per proprio istinto in linea con i movimenti trans di oggi. Lei dice di non capire perché una donna, una persona che si sente donna non possa continuare a chiamarsi Luciano», come ha voluto restare all’anagrafe. «Il nome è sacro», dice, «me l’hanno dato i miei genitori».

Eppure, proprio i suoi genitori e i suoi fratelli, non hanno mai capito «l’intruglio» fino in fondo. «Sono un intruglio perché in me ho sempre sentito prevalere la parte femminile: avevo movenze femminili da piccolo, mi piaceva giocare con le bambole. Sono andata avanti con una doppia identità ma mi sentivo donna. Alla fine l’unica che mi ha accettata è stata mia madre». 

A 14 anni scrisse una poesia. Si chiudeva così: Riposan le foglie ingiallite/su un mondo di cose appassite/c’è un soffio di vita soltanto. Il verso finale ora titola il «suo» film.

Una vita straordinaria piena di coraggio e dolore. La storia di Lucy Salani, a 97 anni è la trans più vecchia d’Italia: da superstite dei lager a nonna adottiva. Elena Del Mastro su Il Riformista l'11 Gennaio 2022.

La sua vita ripercorre un secolo di Storia d’Italia. Lucy Salani, al secolo Luciano, a 97 anni è la trans più vecchia d’Italia. Ma ha ancora tanto da raccontare, come la sua storia fatta di lotte e dolori. Lo ha fatto in un docufilm dal titolo “C’è un soffio di vita soltanto” di Matteo Bortugno e Daniele Coluccini.

Per i registi Lucy è “per proprio istinto in linea con i movimenti trans di oggi – dicono intervistati dal Corriere della Sera – Lei dice di non capire perché una donna, una persona che si sente donna non possa continuare a chiamarsi Luciano”, come ha voluto restare all’anagrafe. “Il nome è sacro – ha detto – me l’hanno dato i miei genitori”. Eppure, proprio i suoi genitori e i suoi fratelli, non l’hanno mai capita fino in fondo. “Sono un intruglio perché in me ho sempre sentito prevalere la parte femminile: avevo movenze femminili da piccolo, mi piaceva giocare con le bambole. Sono andata avanti con una doppia identità ma mi sentivo donna. Alla fine l’unica che mi ha accettata è stata mia madre”.

Lucy è nata nel 1924 a Fossano in una famiglia antifascista di origini emiliane. Sin da piccola si è sempre sentita donna. “Mia madre era disperata – racconta Lucy nel documentario – Volevo sempre fare ciò che a quell’età facevano le bambine: cucinare, pulire e giocare con le bambole. Mio padre e i miei fratelli non mi accettarono. Negli anni trenta i miei genitori si trasferirono nel bolognese e fu così che in città allacciai amicizie con diversi omosessuali. Che colpa ne ho io, se la natura mi ha fatto così? Me lo sono sempre chiesta e ho cercato di farlo capire”.

Erano gli anni ’30 del ‘900, il fascismo era in auge e in quel tempo la vita per Lucy non era semplice. Si era creata una cerchia di amici omosessuali tra cui si sentiva al sicuro e libera di essere ciò che voleva. Poi come tutti i giovani ragazzi di quegli anni, anche per lei arrivò la chiamata alle armi, provata a scampare inutilmente dichiarandosi omosessuale. È da quel momento che parte la sua drammatica esperienza. Prima portata in un campo di lavoro, poi nel campo di sterminio nazista di Dachau dal novembre del 1944 al maggio del 1945.

Visse un vero e proprio inferno nel lager di Dachau. Ci finì non come omosessuale nonostante così si dichiarasse allora, ma come disertore dell’esercito tedesco a cui aveva aderito dopo l’8 settembre, quando fu fermata in fuga da quello italiano. “Quello che ho visto nel campo è stato spaventoso – ha raccontato ancora Lucy al Corriere – Bruciavano i morti e c’era chi era ancora vivo e si muoveva tra le fiamme. Terribile. La mattina quando guardavi la recinzione elettrificata trovavi un mucchio di ragazzi attaccati con le fiammelle che uscivano dal corpo”.

In Dio non crede. Ma da prima, da quando un prete la molestò da ragazzino a Fossano in un confessionale. Invece sogna gli extraterrestri e ama i film di fantascienza: “Avatar è il mio preferito: esplorare un nuovo mondo in un nuovo corpo, un capolavoro. Io ne ho viste e passate troppe, comincio davvero ad avere voglia di cercare vite su altri pianeti”. Non lo dice lei ma tra le esperienze orrende ci fu anche il cambio di sesso, negli Anni 80 a Londra: “Era sessualmente attiva – racconta Botrugno – ma lì non hanno pensato a garantire che provasse ancora piacere, dopo. Hanno fatto i macellai: tagliato e fatto un buco”, conclude crudo.

A Torino Lucy è andata perché vi ha e vi ha lavorato da tappezziere. Di quei giorni ricorda “la dolcezza di Patrizia, mia figlia, la ragazza che ho praticamente adottato quando ero lì» e che un tumore in giovane età le ha strappato nel 2014. Anche questo le è toccato vivere. Con “il sorriso del mio fidanzato inglese negli Anni 50 e i miei viaggi in giro per Europa e Nord Africa – racconta oggi Lucy – Patrizia è stata tra i pochi momenti felici della mia vita”.

Ora Lucy vive a Bologna nella periferia di Borgo Panigale, assistita da volontari che sono ormai diventati suoi amici. Ospita un quarantenne marocchino, Said, che a tutti gli effetti è ormai un suo nipote. Lucy non si arrende mai e ci vede ancora benissimo: “Ho appena superato la visita medica per il rinnovo della patente!”, ha raccontato. Ma è da un po’ che non guida: “Mi sono tornati dei problemi alla gamba alla quale mi hanno sparato durante la liberazione del lager di Dachau. Se guido mi fa molto male”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da lastampa.it il 29 dicembre 2021. Come ricorda il quotidiano The Guardian, annunciando la scomparsa, George Jamieson - questo il vero nome -, nato il 29 aprile 1935 a Liverpool, è stato uno dei primi cittadini britannici a sottoporsi alla chirurgia di riassegnazione del sesso.

Nel 2012 la regina Elisabetta aveva insignito la modella e attrice della medaglia dell'Ordine dell'Impero britannico, la massima onorificenza del Regno Unito, per il suo impegno a favore dei diritti dei transgender. 

E proprio la comunità transgender ha reso omaggio al personaggio considerato pioniere della comunità in Gran Bretagna. Il cantante Boy George ha twittato: «Rip April Ashley! Una forza della natura e sacerdotessa transgender!».

Peter Tatchell, attivista per i diritti Lgbtq+, l'ha definita «la grande pioniera trans per decenni» ed «eroe». «Sono stato così onorato di conoscerla e sostenerla in un’epoca in cui è stata vituperata dopo essere stata dichiarata trans», ha detto Tatchell.

L'attivista e attore trans Jake Graf ha scritto sui social: «Una vera pioniera della comunità trans ci ha lasciato. April Ashley era la definizione di grazia e umiltà, nonostante abbia combattuto duramente per tutta la vita per il suo posto nella società. Una vera regina». 

Cresciuto a Liverpool, figlio di padre cattolico e madre protestante, con altri cinque fratelli, George Jamieson da adolescente dal corpo efebico è entrato nella Marina Mercantile, da cui fu congedato poco dopo.

Ashley nel suo libro di memorie “The First Lady” (2006) racconta la traumatica esperienza vissuta in Marina, parla dello stupro subito dal suo compagno di stanza, che gli provocò ferite indelebili sia a livello fisico che psicologico. 

Dopo ripetuti tentativi di suicidio e un periodo in manicomio, nel 1957 si trasferì a Parigi, esibendosi al nightclub “Le Carrousel”, famoso per i suoi spettacoli di drag queen, capitanate dal trans francese Coccinelle.

All'età di 25 anni, dopo aver messo da parte un po’ di soldi, volò in Marocco, destinazione Casablanca, per sottoporsi a un intervento chirurgico di riassegnazione del sesso.

Rientrata a Londra con il nome di April Ashley, la sua carriera di modella prese il volo: iniziando a sfilare e a essere fotografata dai nomi più importanti di quegli anni nel settore della moda, come Brian Duffey, Richard Dormer e Terence Donovan. 

«Sapevano tutti della mia operazione, sapevano tutti chi ero - ha raccontato April Ashley - A nessuno dei fotografi fregava niente del mio passato. Mi volevano nel loro portafoglio e basta».

L'apice del successo fu la copertina conquistata su Vogue scattata dal fotografo David Bailey e il ruolo da interprete nel film Astronauti per forza (1962, Road to Hong Kong) con Bob Hope, Bing Crosby e Joan Collins. 

La sua carriera di modella fu bruscamente interrotta nel 1961 quando il Sunday People rivelò che era transgender, generando scandalo e stupore collettivo. Al tempo stesso nella Swinging London, Ashley divenne una delle ospiti più richieste della mondanità. 

Nel 1963 sposò l'aristocratico Arthur Cameron Corbett a Gibilterra. Il matrimonio annullato nel 1970 perché il cambio di sesso intervenuto era motivo di nullità. L’esito della sentenza fu utilizzato come base per negare ai cittadini transessuali il più fondamentale dei diritti civili.

Emigrata sulla costa occidentale degli Stati Uniti per sfuggire, è tornata in Gran Bretagna nel 2005 quando è stata legalmente riconosciuta come femmina grazie al Gender Recognition Act.

·        I Bisessuali.

Veronica Mazza per repubblica.it il 30 luglio 2022.  

“Carlo e io viviamo assieme da quattro anni. E iniziare questa relazione è stata una vera sfida per me, una lotta contro i miei preconcetti, ma soprattutto verso quello che non avevo mai sperimentato prima: una storia d’amore con un uomo bisessuale. Ci siamo conosciuti durante un’escursione in montagna organizzata da un gruppo di amici e devo dire che per me è stato un vero colpo di fulmine. Carlo non solo mi piaceva fisicamente, ma era attento, gentile ed estroverso. Dopo questo incontro, l’ho cercato io per prima, perché mi sentivo profondamente attratta e non volevo perdere l’occasione di conoscerlo meglio.

Lui viaggia molto per lavoro e prima di rivederci è passato un mese. Ma nel mentre ci siamo scritti e la sera passavamo le ore al telefono. Sentivo che c’era un profondo feeling tra di noi, tanta empatia e una profonda sensibilità e mi faceva sentire accolta e capita. Una rarità per me, che venivo da storie superficiali, con uomini spesso introversi con cui era difficile parlare profondamente. Quando ci siamo incontrati a cena ero incredibilmente emozionata e anche lui aveva gli occhi gli brillavano. 

Seduti a tavola è finalmente uscito il discorso degli ex, tema che non avevamo ancora affrontato. Io non volevo sprecarlo su una chat, Carlo non ne aveva mai parlato. Ho iniziato io a raccontargli delle mie ultime relazioni, dicendo che per lungo tempo non avevo più frequentato con nessuno, perché mi rendevo conto che uscivo sempre con la stessa tipologia di uomini, a questo punto sbagliati per me, perché alla fine non costruivo nulla e restavo sempre delusa. “E tu?”, gli ho chiesto curiosa.

“Fino ad ora non ti ho svelato nulla delle mie storie precedenti, perché volevo dirtelo di persona. A me piacciono anche gli uomini Monica, sono bisessuale. E spero che per te non sia un problema”. Così ha iniziato a parlami di Luca e poi di Martina, Rachele e Giovanni, il suo primo amore maschile. L’ho ascoltato senza interromperlo non solo perché volevo sapere, ma anche perché quella rivelazione mi aveva scosso e colto impreparata. Sono sempre stata sessualmente libera, ai tempi dell’università ho avuto anche un breve flirt con una mia compagna di studi, ma è stato solo un esperimento, perché in realtà ho capito presto di essere una etero convinta. 

Era però la prima volta che mi trovavo a flirtare con un uomo bisessuale e non sapevo come comportami. Avevo mille domande che mi frullavano per la testa e Carlo mi ha anticipato: “Lo so che magari ti ho spiazzato con questa confessione, ma tu mi piaci molto e ho voluto essere limpido fin da subito. Immagino che avrai voglia di capirne un po’ di più e sappi che io sono disposto a rispondere ad ogni tuo quesito se ne hai voglia. Quello che posso dirti è che quando mi innamoro di qualcuno e decido di iniziare una relazione lo faccio seriamente e quindi non ho mai tradito nessuno.

Questo per dirti che la mia bisessualità non significa promiscuità. Per me la sessualità come l’amore va al di là del genere, mi piacciono le persone e tu Monica mi piaci molto”. Anche lui mi attraeva tanto e non mi volevo far fermare dai miei pregiudizi, uno su tutti, quello che lui aveva colto in pieno: l’infedeltà. E il discorso che aveva fatto mi aveva rincuorato. Nessuno ha certezze quando inizia una nuova rapporto e se mi ero buttata con partner che mi coinvolgevano un quarto di quanto riusciva a fare Carlo, perché non provarci? 

Quella sera siamo stati assieme: era da tanto che non facevo l’amore così bene e mi sentivo pienamente donna. E così un altro tassello dei miei dubbi è crollato: non è vero che un bisex è meno virile, anzi, e tra le sue carezze mi sono sentita affascinante, desiderata e voluta. Abbiamo iniziato a stare assieme naturalmente, senza giochetti, scoprendo che avevamo altre passioni condivise oltre al trekking, come la buona cucina e l’arte. Un giorno ad una mostra ho visto che un ragazzo lo guardava con interesse e mi sono sentita minacciata, ma non ho detto nulla. 

Qualche tempo dopo ad una cena con dei suoi amici, un uomo che neanche lui conosceva ha iniziato a stuzzicarlo, ignorando totalmente il fatto che stavamo assieme. Non volevo marcare il territorio e ho finto sicurezza e distacco. Carlo con garbo lo ha messo al suo posto e poi una volta soli in macchina è stato lui a tirare fuori il discorso. “Non era il mio tipo, a te piaceva?”, buttandola sullo scherzo.

“Ho apprezzato come ti sei comportato, ma dimmi la verità, se fossi stato solo gli avresti dato corda?” gli ho risposto. “Intanto non sono da solo perché sto con te e non vorrei stare con nessun’altra persona. E poi perché pensi che la mia bisessualità mi renda un libertino? Non ti dico che dovremmo arrivare al punto di commentare assieme gli uomini che ci passano davanti perché questo sarebbe forse troppo, ma almeno a riderci su assieme questo potremmo farlo. Sai le volte che ho visto sguardi maschili soffermarsi troppo su di te e rendermi incredibilmente geloso? Non te l’ho mai detto, ma è successo. Per favore togliti dalla testa che voglio tradirti e che ho bisogno di fare sesso con qualcun altro, uomo o donna che sia”. 

Mi stava dicendo la verità, perché i fatti fino ad ora gli davano ragione. E nel tempo questa promessa la sta ancora mantenendo. Dopo due anni assieme, abbiamo deciso di convivere e man mano ogni mio timore si è sciolto come neve al sole. Ogni giorno ringrazio di aver incontrato Carlo. Perché non solo mi sta facendo vedere la vita da un altro punto di vista, più ampio e più inclusivo, libero dai tabù e dagli stereotipi, anche perché finalmente ho una relazione equa, rispettosa e appassionata, con un partner che non ha paura di mostrarmi anche le sue fragilità e vulnerabilità. Cosa ho scoperto nell’innamorarmi di un uomo bisessuale?

Che si può amare ed essere profondamente connessi a un qualcuno al di là del genere e dell’orientamento sessuale. Che contano le persone e che la felicità e la bellezza si può trovare in chiunque. E poi Carlo non solo è la persona più sensibile, mentalmente aperta e accogliente che abbia mai incontrato in vita mia, ma anche quella che mi ha portato a esplorare la mia sessualità senza preconcetti. Stiamo pensando di avere un bambino e so che sarà un padre fantastico, che saprà insegnarli come sfidare stereotipi maschili e femminili, crescendo un essere umano di valore”

Monica, 38 anni, dentista di Roma

Ci sono ancora tanti miti e idee sbagliate e dannose che circolano sulla bisessualità e per sfatarle abbiamo deciso di intervistare Gabriella Di Cosmo, psicoterapeuta e sessuologa. 

Ad oggi ci sono ancora tanti tabù nel vivere una storia con un uomo bisessuale?

“Sì, nella nostra società ci sono ancora molti pregiudizi riguardo ad avere una relazione con un uomo bisex. La visione distorta sulle persone bisessuali nell’immaginario collettivo è frutto di una mancanza di cultura e informazione su questo orientamento sessuale. E questo continua ad alimentare tabù e stereotipi. Spesso si pensa che gli uomini bisessuali possano essere più promiscui, quindi anche più esposti alla trasmissione di malattie sessuali, oltre che degli indomiti infedeli e quindi incapaci di costruire relazioni stabili e durature. Ma essere bisessuali, non vuol dire essere poligami o avere la necessità di stare contemporaneamente con un uomo o con una donna. 

La fedeltà resta sempre una scelta personale, che non ha nulla a che fare con l’orientamento sessuale. È ancora diffusa anche la considerazione di percepire i bisex come “confusi”, cioè come persone che non hanno ancora deciso se essere etero o gay. Molte volte le donne che hanno una storia con un uomo bisex si illudono e sperano che sia solo una fase di passaggio, convincendosi che grazie al loro amore prenderanno finalmente una decisione.

Ma non è così, presto ci si scontrerà con la realtà e con la paura di essere tradite, non solo da un’altra donna, ma anche da un altro uomo. Vi è infatti una doppia minaccia e questo genera nella donna un vissuto di gelosia e di insicurezza, tanto da iniziare a sentirsi poco attraente e femminile per il proprio partner. A questo si aggiunge un altro tabù, nell’immaginario della donna, l’uomo bisex è percepito come meno “virile” ed “effeminato” quindi agli occhi della propria partner perde la sua carica erotica”. 

Può accadere che anche gli amici e la famiglia stigmatizzino una relazione tra una donna etero e un uomo bisessuale. In che modo va affrontato?

“Nella società di oggi, essere bisessuali è sempre più frequente, soprattutto tra giovani, che sono molto più fluidi e open mind rispetto alle precedenti relazioni. Eppure il forte bisogno di categorizzare, rende più difficile l’accettazione e alimenta preconcetti e false visioni, che danno vita a delle discriminazioni. Può capitare che la famiglia o gli amici valuti un uomo in quanto bisex come perverso, infedele, libertino e strano, quindi non un compagno adatto per un rapporto d’amore felice. E che la scelta fatta di stare con un partner così porti a considerare anche la donna come problematica e fuori dalle righe, diventando così pure lei vittima di critiche. Non bisogna farsi travolgere da questo vortice di disapprovazione e provare a dialogare, magari creando situazioni, sia tra amici che in famiglia, per conoscersi meglio e smantellare così questi tabù. Non è anomalo avere una relazione con un bisex e qualunque sia la reazione delle persone che vi circondano, ricordati che tu e il tuo partner andate bene così come siete. Se tu per prima imparerai a non giudicarti, anche per chi ti sta vicino sarà più difficile cadere nel pregiudizio”.

Quali sono i maggior timori nell’avere accanto un uomo si sente attratto anche dagli uomini?

“Una delle paure più ricorrenti è pensare di non essere in grado di soddisfare il proprio partner, di non essere più l’unico oggetto di desiderio. Nella donna può innescarsi la paura di essere tradita a causa dell’attrazione dell’uomo bisex per entrambi i sessi. Questi timori creano frustrazione, scatenano forme di gelosie e difficoltà a sentirsi all’altezza. Tali vissuti creano un blocco emotivo che genera un ulteriore paura: quella di non riuscire a costruire una storia duratura, proprio perché l’altro è visto come “inaffidabile”. In realtà essere attratti sia dal genere maschile sia da quello femminile, non influenza la scelta e il desiderio di avere un rapporto stabile, né tanto meno è indice di propensione al tradimento”.

Un rapporto sentimentale con un bisex quali pregi e criticità può avere ?

“Normalmente, le relazioni con un uomo bisex sono più eque, libere da tabù e pregiudizi. Gli uomini bisex possono essere gli amanti e i compagni migliori e questo dipende dall’apertura, dal lavoro di introspezione che hanno fatto su loro stessi e dalla capacità di trovare compromessi. Le donne che hanno dei partner bisessuali, possono avere una vita sessuale più divertente, perché vengono accompagnate a indagare in modo giocoso sulla loro eroticità e ad esplorare nuove pratiche. L’uomo bisex, viste le preferenze sessuali, si è dovuto scontrare con le strutture normative rispetto a ciò che ci si aspetterebbe da un maschio e di conseguenza sono più portati a mettere in discussione gli ideali di dominanza tipici degli uomini e a mettere all’angolo ogni forma di mascolinità tossica. Tutto questo ha portato i bisex a diventare uomini più sensibili, empatici e ad avere una maggiore apertura comunicativa, creando più connessione e complicità nella relazione. Come nella storia di Monica, lei grazie a Carlo vede la vita da un altro punto di vista, più ampio e inclusivo, all’interno di una relazione basata sul rispetto e la fiducia, con un partner che si mostra in tutte le sue fragilità. Parlando di criticità invece, lo scoglio più difficile da superare è la non accettazione fino in fondo della bisessualità da parte della partner. La donna etero che sceglie di intraprendere una relazione con un uomo bisex deve essere pienamente consapevole che la bisessualità non sarà solo un periodo, ma una scelta ben chiara. Ecco perché è fondamentale fin da subito parlarne serenamente e limpidamente. L’accettazione renderà entrambi liberi di vivere a pieno la relazione rimanendo sé stessi”. 

Quali sono le sfide che devono affrontare queste coppie?

“La prima sfida che devono affrontare queste coppie, come abbiamo già visto, è superare tutti i pregiudizi, false credenze, tabù e paure. Di fronte ad una persona bisessuale non è necessario fare nulla di differente di ciò con un partner etero. Cioè conoscere profondamente una persona, vivere le sensazioni ed emozioni che suscita e capire se si hanno le stesse richieste nei confronti della relazione. Nel momento in cui si sono condivisi tutti i presupposti per stare bene insieme, la coppia potrà lavorare sul rapporto in modo da nutrirlo e farlo crescere. Un passaggio fondamentale è quello di vedere l’altro in quanto “persona” andando al di là dell’“orientamento sessuale”. Solo quando la coppia percepirà la bisessualità come un’identità completa e fluida e “normale”, quindi non come un problema, potrà sentirsi pienamente accettata e libera da preconcetti. La grande sfida di queste coppie alla fine è la stessa di tutte le coppie: avere fiducia nell’altro e amarlo per quello che è”. 

E se si decide di diventare genitori?

“Spesso gli uomini bisessuali sono padri più sensibili perché hanno dovuto

mettere in discussione molti stereotipi sulla mascolinità. Sfidando le idee più tradizionali, nell’uomo bisex c’è un maggiore desiderio nella condivisione dei doveri parentali, dimostrandosi padri e compagni presenti e più attivi nella gestione della casa. Quando uscire allo scoperto con i propri figli? Si può pensare di aspettare che siano un po’ più grandi, per poterne parlare e comprendere appieno la scelta del papà. Sapere che il tuo genitore è attratto da entrambi i sessi è sicuramente una esperienza unica. Ma se sei cresciuto con questo bagaglio, tra i membri di una famiglia che rispettano e sostengono le diversità, accettare il genitore sarà naturale”.

·        Gli Asessuali.

Il quarto orientamento sessuale. Essere asessuali, Paola e Alex raccontano la loro coppia: “Non siamo contro natura, l’amore è più importante del sesso”. Rossella Grasso su Il Riformista il 10 Novembre 2022

“La nostra relazione è basata sul conoscersi a fondo e sapere cosa c’è dentro una persona e non fermarsi al fatto che in una relazione serve il sesso. No, non ci serve”. Così Paola e Alex, studenti di 18 anni, entrambi asessuali, spiegano la loro relazione. Si tratta di un orientamento sessuale in cui sempre più persone si riconoscono. Secondo alcune stime, si conta che oggi ci siano circa settanta milioni di individui asessuali, orientativamente l’1% della popolazione mondiale. Una scelta che ancora oggi è spesso difficile da comprendere soprattutto per chi è più grande d’età. Il Riformista ha chiesto a Paola e Alex di fare chiarezza e raccontarsi.

Paola è una persona genderfluid che si identifica come queer e asessuale. “Genderfluid è una persona che non si identifica in nessun genere, un giorno può identificarsi nel genere maschile, un giorno in quello non binary – spiega Paola – Queer significa che non ha preferenze di partner, di genere maschile o femminile”. Il suo partner è Alex, un ragazzo trans e asessuale. È nato donna ma già da quando aveva 13 anni ha avuto la consapevolezza di essere un uomo e a breve inizierà la transizione. “Asessualità è un orientamento sessuale in cui le persone che non provano attrazione sessuale si identificano. È il provare attrazione romantica, platonica, e nient’altro”, spiega Paola.

“Ognuno vive la sua asessualità come preferisce – continua – Io per esempio non provo proprio attrazione sessuale ma c’è chi invece la prova saltuariamente. C’è la demisessualità che è quando una persona inizia a provare attrazione sessuale dopo un certo tempo con una persona. Le sfaccettature dell’asessualità sono immense. Ci sono tante subcategorie, asessuale è un termine ‘ombrello’”. Paola ha 18 anni però ci spiega di avere già le idee molto chiare sulla sua sessualità. Ha capito di essere asessuale verso i 16 anni, quando i suoi amici iniziavano a parlare di sesso. “Tutti ne parlavano – racconta a Il Riformista – ma io ho capito che a me non interessava. Non è importante per me in una relazione e nemmeno è un punto di riferimento. Ho avuto delle esperienze con dei partner e mi sono accorta che non vedevo il sesso come cosa mia. Mi serve solo sapere cosa c’è dentro una persona a livello caratteriale e nient’altro”.

Poi sempre a 16 anni ha iniziato a spiegare la sua scelta ai suoi coetanei. “Ne ho sempre parlato con i miei amici – continua – poi a 17 anni ho fatto outing con mia madre che mi ha dato una risposta un po’ all’antica. Mi disse che una donna, se rifiuta di avere rapporti sessuali con il proprio partner, può essere lasciata. Ma è così anche nell’ideale cristiano: il matrimonio è visto come una unione che poi porta alla procreazione. Mia madre parla così perché è molto religiosa e perché così le hanno insegnato”.

“La masturbazione non è esclusa dall’asessualità – spiega ancora la 18enne – Non è categorizzato come sesso perché questo non è con il partner. Se uno ha un bisogno fisico lo soddisfa da solo. Non c’è sottomissione, il bisogno fisico si soddisfa in un altro modo”. Nella coppia la scelta dell’asessualità deve essere condivisa, non è però semplice trovare un partner. “Soprattutto al Sud Italia è difficile trovare un partner asessuale – continua Paola – È molto diffuso l’approccio religioso al sesso e si conosce poco di questo orientamento sessuale. Altrove le persone sono molto più informate su questo tipo di scelta: qui sembra essere un tabù, per tutti, quando si conosce una persona nessuno parla delle proprie preferenze sessuali. È un tema che si lascia ai margini della conversazione e invece è importante parlarne. Mi è capitato di iniziare una relazione e appena ho detto di essere asessuale l’altra persona è fuggita. Le persone ci vedono come strane, contro natura. Mi è capitato di parlare con persone che non considerano importante il sesso ma non scelgono di essere asessuali perché per loro un rapporto intimo col proprio partner è una testimonianza di gradimento fisico“.

Secondo l’esperienza di Paola sono per lo più le donne a scegliere l’asessualità. “Si è iniziato da poco a parlare maggiormente del consenso e del poter dire di no – spiega a Il Riformista la studentessa – Così molte persone si sono identificate nell’ideale dell’asessualità. È difficile incontrare persone asessuali oltre i 20 anni, al massimo 30 anni. C’è molta disinformazione, anche a scuola non si parla mai di sessualità. In famiglia non ne parla nessuno e tra i coetanei magari c’è solo molta ‘competizione’ sul sesso e se ne parla in maniera sbagliata e superficiale. Succede così che nel rapportarsi al sesso i ragazzi è come se si smarrissero, non sapessero dove andare e quindi si professano asessuali. Ma questa è una cosa che può pure cambiare. Può succedere anche che alla fine una persona capisca di identificarsi in un altro orientamento sessuale”.

Paola sottolinea che quello dell’asessualità è un concetto che racchiude tantissime sfumature. Ognuno la vive come preferisce. Lei racconta al Riformista la sua esperienza che sarà certamente diversa rispetto a quella di un’altra persona: “Ognuno ha il suo ideale modo di viversela”. E infatti Alex, il suo fidanzato, spiega di vivere l’asessualità in maniera differente rispetto a Paola. “Per me è diverso perché sono un ragazzo trans – spiega Alex – A differenza di Paola io provo attrazione fisica, magari non al punto di voler fare sesso con un’altra persona: ho la disforia di genere e mi blocco. Penso che una volta conclusa la transizione questa situazione potrebbe cambiare. Ma per me il sesso non è un obbligo. Con Paola parliamo molto di questi temi e lei mi rassicura. Mi è capitato di stare con una persona non asessuale e non mi sono sentito apprezzato e capito. A scuola c’è lo psicologo soprattutto per le persone lgbt ma di sessualità non si parla affatto, io l’ho dovuto capire da solo che sono asessuale”.

Alex e Paola hanno trovato un valido supporto nell’associazione Pride Vesuvio Rainbow di Torre Annunziata. È lì che trovano terreno fertile per il confronto con gli altri attivisti, che per la coppia è fondamentale soprattutto in questa fase di vita. Supporto che purtroppo non riescono a trovare altrove: “Non ci sono persone disponibili ad attivarsi per parlare di questo orientamento sessuale – spiega Paola – Si tende sempre a nascondersi. Ma secondo me è tutto un problema di ignoranza, non si parla abbastanza di sessualità”.

Paola racconta che per molti non è facile capire e accettare la sua scelta. E spesso si trova ad essere bersaglio di battute: c’è anche chi le chiede come trascorra il tempo con il suo fidanzato. “Voglio spiegare a tutti che in una relazione asessuale le persone possono fare tantissime cose – continua la 18enne – Non esiste solo l’atto fisico. Le persone vedono l’asessualità come qualcosa di disumano, mi chiedono di continuo come sia possibile che io non provi attrazione sessuale per nessuno. Magari provo attrazione fisica ma non cederei al sesso tradendo i miei ideali. A volte mi sono sentita discriminata però sono fortunata perché ho amici che hanno capito la mia scelta”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Da Bieber a Simona Tagli, quelli che... «noi l’amore senza sesso»: perché non lo fanno. Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Asessuali e matrimoni bianchi. L’esperto: «Oggi meno sesso anche per colpa dei social». L’ultimo sondaggio sul comportamento sessuale degli italiani: 1,6 milioni di persone tra i 18 e i 40 anni non hanno mai avuto rapporti completi. 

Aveva cominciato Justin Bieber, 200 milioni di dischi venduti, 250 milioni di follower e un matrimonio con Hailey Baldwin essendo arrivati casti al giorno delle nozze. Era il 2019, lui aveva 24 anni, la modella 22, ed erano stati fidanzati solo tre mesi: l’astinenza era stata breve, ma era bastata a lanciare ai giovani un messaggio globale che ridimensionava l’odierna immanenza del sesso. Poi l’anno scorso, Sangiovanni, 18 anni, 140 milioni di streaming in poche settimane per il suo primo Ep, e Giulia Stabile, 19, ballerina, vincitori di Amici 2021, si raccontano e a lei viene chiesto: «Come è stata la prima volta?» Giulia risponde che non c’era ancora stata. «L’amore si può fare anche senza toccarsi, standosi vicino, parlandosi», aggiunge lui. Sono piccoli segnali che si fa largo fra i giovani la tendenza a fare meno sesso o a fare a meno del sesso.

Tutto intorno a noi ci parla di corpi e di eros, eppure... Da una parte, ci sono il bombardamento social di influencer ipererotiche, il porno online con l’89 per cento dei giovani che lo guarda abitualmente stando a una stima della Fondazione Foresta di Padova, e poi il boom dei sex toys (più 227 per cento di vendite online nel 2020, secondo il motore di ricerca Idealo). Eppure, sembra che molti comincino a considerare il sesso sopravvalutato. Fra i giovani, soprattutto, e anche fra chi è in coppia. Un po’ per solitudine, molto per scelta.

L’ultimo Rapporto Censis-Bayer sul comportamento sessuale degli italiani risale al 2019 e rilevava che 1,6 milioni di persone fra i 18 e i 40 anni non avevano mai avuto rapporti sessuali completi. Quota salita a un milione e 800 mila secondo il portale Incontri-ExtraConiugali.com del gennaio 2022. Inoltre, agli illibati del Censis andavano aggiunti 700 mila che non avevano una vita sessuale al momento e un milione che avevano avuto solo rapporti incompleti: totale 3,3 milioni di under 40. Sempre Bieber aveva confessato d’aver deciso di astenersi perché, disse, «avevo una dipendenza dal sesso da cui non ricavavo più piacere». Insomma, l’eccesso di sesso aveva portato a zero sesso.

Da qualche anno, anche in Italia fa sentire la sua voce la comunità asessuale (in gergo LGBTQ+, Ace), emersa soprattutto per lamentarsi di non essere stata inclusi nel Ddl Zan contro la transomofobia. Si stima che gli asessuali siano fra l’1 e il 2 per cento della popolazione e si suppone che ci siano sempre stati, solo che ora sono più visibili e si vergognano meno a palesarsi.

Arono Celeprin, 22 anni, è un’attivista Ace e racconta: «A 16 anni ho letto il termine "demisessuali", sono quelli che provano attrazione solo se c’è anche un legame emotivo. Anni dopo, ho letto che appartenevano allo spettro degli asessuali, che provano zero o poca attrazione per nessun genere, ma possono anche avere rapporti. Ho pensato: "Cavolo, rientro appieno"». Domando: "L’asessuale può fidanzarsi solo con un altro asessuale?" Risposta: "Dipende, c’è chi col sesso non vuole avere niente a che fare e si astiene". Altri, come me, hanno una relazione, io ce l’ho da tre anni e mezzo, il mio ragazzo è eterosessuale e ci faccio sesso per motivi affettivi, senza considerarlo spiacevole».

Arono assicura che, da quando ha capito di essere asessuale, la sua vita è migliorata: «Ho capito che vado bene essere come sono. Su questo tema, c’è bisogno di informazione. L’ignoranza porta bullismo: chi dice “non è vero, non esistete, siete malati”. Per questo sto girando un documentario sulla comunità, fatta di minorenni come di cinquantenni». Ma l’asessualità è davvero una tendenza nuova o c’era e solo ora sta emergendo mediaticamente? Lavinia Farnese, direttrice di Cosmopolitan, rivista cult della Generazione Z, si è fatta l’idea che di sesso se ne faccia meno: «Uno studente coinvolto in un nostro progetto l’ha spiegato così: “Siamo ancora animali caldi in cerca di un contatto con gli altri, ma l’essere sempre connessi ti sconnette dai corpi”. In più, credo che non ci sia più la scoperta: i quarantenni di oggi vivevano la curiosità, il senso del proibito, leggevano su Cioè “si può restare incinte col petting?” e non sapevano che fosse il petting. Oggi, c’è Google. Cosa resta che non puoi sapere? Però sapendo tutto, non fai niente».

C’è un troppo di tutto: «Nelle app di dating — prosegue Farnese — puoi scegliere un partner con profilazione altissima, allora non scegli, come quando sei su Netflix, cerchi un film, ce ne sono milioni, nessuno ti convince e non guardi nulla». E poi c’è, nella generazione social, quello che Farnese chiama «la paura del giudizio universale». Mai come oggi i giovani sono così esposti alla stroncatura. È stata lei a raccogliere le confessioni di Sangiovanni e Giulia: «A Giulia, chiedo: com’è stata la prima volta? E lei “non è ancora successa, perché ho paura”. Stava con quello a cui le fan strappavano la camicia, ma la paura giocava la parte più grande».

Il professor Emmanuele A. Jannini sta chiudendo le bozze di Monogami infedeli , che uscirà per Tecniche nuove, e non crede molto nell’asessualità: «Da sessuologo medico, osservo che lo stimolo sessuale è localizzato nell’ ipotalamo e governato dalle stesse sostanze che governano la sopravvivenza. Il Padreterno ha pensato che fosse intelligente mettere il desiderio sessuale nello stesso luogo di fame e sete. Già nel Medioevo quel gigante della Filosofia che era Pietro Abelardo disse che il desiderio sessuale non solo è naturale, ma è insopprimibile, e parliamo di uno castrato. Ora, lungi dal voler patologizzare, non sarà che queste persone hanno esperito inadeguatezze, frustrazioni tali da imporsi di coercire la fame di sesso? Quando uno non fa sesso, diminuiscono i livelli di testosterone, lo hanno dimostrato i nostri esperimenti». Emmanuele A. Jannini è ordinario di Endocrinologia e Sessuologia Medica all’Università Tor Vergata di Roma ed è tra i venti autori al mondo col maggior indice bibliometrico per la ricerca sulle disfunzioni sessuali maschili. Ora, riflette: «Le molle degli asessuali possono essere diverse, non ultima il narcisismo.

Oggi, ti si nota di più se ti dichiari casto. Quando il filosofo Diego Fusaro è emerso sui media, la moglie dichiarò d’essere vergine, poi, lui ritrattò accusando il giornalismo di basarsi su fake news. Inoltre, ci sono studi belli che documentano come il desiderio sessuale sia alimentato dal desiderio dell’altro: se mi sento desiderato, desidero di più, ed è vero anche il contrario. È così che si arriva ai matrimoni bianchi». Anche quest’ultimo fenomeno è sempre meno tabù. Vittorio Feltri, per dire, ha dichiarato di essere stato con la moglie l’ultima volta nel 1982, quando l’Italia vinse i Mondiali.

C’è poi chi si astiene per motivi religiosi. È di metà giugno l’appello alla castità prematrimoniale, contenuto nelle nuove linee per la preparazione al matrimonio del Dicastero per i laici. G iacomo Celentano, 56 anni, cantautore, scrittore di libri a tema religioso, è il secondogenito di Adriano Celentano e di Claudia Mori e si è sposato con Katia Cristiano nel 2003, dopo quattro anni di fidanzamento casti. Adesso, confida al Corriere che, da un pezzo, anche il matrimonio è senza sesso.

Ma procediamo con ordine. Racconta Giacomo: «Abbiamo scelto di arrivare casti all’altare perché siamo credenti e mi sento di invitare i giovani a fare quest’esperienza perché, poi, quando arriva il matrimonio, è bello donarsi totalmente uno all’altra». C hiedo: in che modo la castità ha cementato il rapporto? «Portare avanti insieme un impegno non leggero unisce, è stato difficile, ma anche gioioso. E aiuta anche dopo, perché il matrimonio passa attraverso fasi: si parte da una passione forte che, a noi, è durata otto o nove anni; abbiamo avuto un figlio, e poi l’amore è cresciuto, è diventato altruismo, carità e tenerezza, fino a che, di comune accordo, undici fa, è diventato casto. Una scelta che ci ha fortificato».

La decisione è arrivata piano piano: «Dialogando, abbiamo capito che il nostro amore era passato dall’essere molto fisico a molto spirituale. Io e Katia siamo uniti anche da tanti progetti. Abbiamo fondato “La cittadina della divina misericordia: sul sito, vedrà che aiuta bambini e adolescenti disagiati». Nella castità, momenti di tentazione? «Quelli ci sono quasi ogni giorno: non siamo ancora in paradiso e il diavolo fa il suo lavoro. La tentazione c’è, da parte mia e di Katia. Però preghiamo e, con la preghiera, riusciamo a batterla». Perché mai marito e moglie dovrebbero rifuggire la tentazione? «Io intendo la tentazione se vedo una bella ragazza o lei un bell’uomo». I due sposi, in quel caso, se lo dicono: «Raccontandocelo, la cosa diminuisce di forza e aumenta la fiducia reciproca». Alla fine, Giacomo ci tiene ad aggiungere una cosa. Questa: «Non si deve pensare che a casa nostra non ci siano il peccato o l’incomprensione. C’è qualche peccato che poi uno confessa, c’è qualche litigio, ma dopo mezz’ora facciamo pace. Lo dico per sottolineare che si può essere come noi e rimanere una famiglia concreta». Amen.

A volte, qualcuno smette di fare sesso perché è credente e fa un voto. Simona Tagli è stata un sex symbol degli anni ’80 e ‘90. Ha fatto Drive In e Domenica In. Nel 1998, ebbe una storia col principe Alberto di Monaco. Ora, ha lasciato la tv, fa la parrucchiera per mamme e bambini a Milano e, rivela, è casta da 16 anni: «La mia castità nasce da una situazione di forte dolore durante la separazione del mio ex compagno e padre di mia figlia. Ho chiesto la grazia alla Madonna di Lourdes per avere l’affido della bimba e perché i rapporti col padre restassero nel nome di una buona genitorialità, e perciò ho fatto voto di castità. Dopo tre anni d’inferno e di preghiera, in Corte d’Appello, ho avuto la grazia».

Il voto non doveva essere eterno, ma lo sta diventando per altri motivi: «Mi sono ritrovata a svegliarmi in una realtà in cui il concetto di sessualità è davvero troppo urlato. Oggi non si dà spazio al “vedo non vedo” dell’anima». Insomma, va così. Va che pure i sex symbol si prepensionano. 

·        I Fictiosessuali.

Chi sono i «fictiosessuali» del Giappone, persone che si innamorano di personaggi di fantasia. Elena Tebano su Il Corriere della Sera.it il 27 Aprile 2022.

Si innamorano e sposano “ufficiosamente” con protagonisti di manga, anime e videogiochi. L’interazione con gli ologrammi è permessa da un dispositivo chiamato Gatebox. La storia di Akihiko Kondo e della sua Hatsune Miku, «cantante pop sintetizzata dal computer». 

Akihiko Kondo, 38 anni, giapponese, è il primo attivista fictiosessuale. «Vuole che il mondo sappia che là fuori ci sono persone come lui e che il loro numero è destinato ad aumentare, con i progressi dell’intelligenza artificiale e della robotica che permettono interazioni più profonde con l’inanimato» spiega il New York Times che dedica un articolo al fenomeno, nato in Giappone e considerato dal governo giapponese un movimento culturale caratteristico del Paese e degno di «esportazione». I fictiosessuali sono uomini e donne che si innamorano di personaggi di fantasia e rivendicano la dignità del loro rapporto. «Il signor Kondo è una delle migliaia di persone in Giappone che negli ultimi decenni hanno contratto matrimoni non ufficiali con personaggi di fantasia, serviti da una vasta industria volta a soddisfare ogni capriccio di una fervente cultura dei fan. Altre decine di migliaia di persone in tutto il mondo si sono unite a gruppi online dove discutono il loro impegno con personaggi di anime, manga e videogiochi» scrive il Nyt.

Kondo nel 2018 si è sposato ufficiosamente (o meglio, per finta) con Hatsune Miku, una «cantante pop dai capelli turchesi, sintetizzata dal computer, che è stata in tour con Lady Gaga e ha recitato nei videogiochi». Il loro rapporto, racconta, si è intensificato a partire dal 2017, quando in Giappone è stata commercializzato un dispositivo chiamato Gatebox, diretto ai «giovani uomini soli» (costo 1.300 dollari), che permette di interagire con gli ologrammi di personaggi di fantasia. Kondo dice che Miku gli dà «amore, ispirazione e conforto» e che con lei (sotto forma di bambola) va al ristorante, guarda film e viaggia per weekend romantici. «Il signor Kondo sapeva da tempo che non voleva un partner umano. In parte, era perché rifiutava le rigide aspettative della vita familiare giapponese — spiega ancora il New York Times —. Ma soprattutto, era perché aveva sempre sentito un’intensa e, anche per lui, inspiegabile attrazione per i personaggi di fantasia. Accettare i suoi sentimenti è stato difficile all’inizio. Ma la vita con Miku, sostiene, ha dei vantaggi rispetto a quella con un partner umano: lei è sempre lì per lui, non lo tradirà mai, e lui non dovrà mai vederla ammalarsi o morire». Anche se ci sono stati momenti molto difficili per lui, come quando Gatebox ha smesso di produrre gli avatar di Miku: Kondo adesso deve accontentarsi delle bambole e della sua fantasia per interagire con la sua “amata”.

Sarebbe facile liquidare la questione come il vaneggiamento di un gruppo di persone fuori di testa che hanno trovato conferme reciproche e visibilità grazie al web. Ma dietro l’attivismo fictiosessuale ci sono fenomeni più ampi e rilevanti. Sicuramente c’è la cultura dei fan giapponese, con le sue peculiarità. E la capacità del mercato di fare i soldi a partire dalle predilezioni più astruse. E un aspetto rilevante che riguarda i limiti dell’autodefinizione delle minoranze che lottano per riconoscimento e diritti.

Molte delle obiezioni che si possono sollevare nei confronti dei fictiosessuali sono state sollevate in passato nei confronti di omosessuali e bisessuali. Oggi però riconosciamo come validi questi orientamenti affettivi, grazie alle lotte di gay, lesbiche e persone bisessuali. Perché per i fictiosessuali non dovrebbe funzionare allo stesso modo? La risposta è semplice: perché una relazione d’amore per essere tale — e quindi per essere riconoscibile — deve riguardare soggetti reali e autonomi, comprendere l’imprevedibilità di confrontarsi con l’altro da sé. Un personaggio di fantasia è la proiezione della nostra mente, e quindi è impossibile avere una relazione con lui o lei: avremo sempre e comunque una relazione con noi stessi. In questo senso l’attivismo fictiosessuale sembra soprattutto un modo di sfuggire al confronto e alla relazione con gli altri. La questione potrebbe cambiare quando e se la tecnologia sarà in grado di sviluppare programmi o robot che si comportano «come se» fossero umani, con una loro personalità e capacità di agire autonoma. Ma questa al momento è materia da fantascienza.

·        Gli indistinti.

Così l'uomo scivolò in un sesso indistinto. L'icona di Fashioning Masculinities, l'esposizione al Victoria&Albert Museum (fino al 6 novembre) dedicata alla moda maschile nel corso dei secoli, è nella immagine che fa anche da copertina al sontuoso catalogo stampato per l'occasione. Stenio Solinas il 29 Agosto 2022 su Il Giornale.  

L'icona di Fashioning Masculinities, l'esposizione al Victoria&Albert Museum (fino al 6 novembre) dedicata alla moda maschile nel corso dei secoli, è nella immagine che fa anche da copertina al sontuoso catalogo stampato per l'occasione. Jean Baptiste Bellay è il titolo e in essa Omar Victor Op, il suo autore, non fa altro che fotografare sé stesso nell'uniforme e nell'atteggiamento che fu del settecentesco uomo politico Bellay, il primo deputato di colore a far parte della Convenzione di Parigi. Senegalese di origine, schiavo auto-riscattatosi e poi combattente anticolonialista a Santo Domingo, nel ritratto di lui fatto all'epoca da Girodet, Bellay appare fiero, ma come consumato, la vita, le lotte, la rivoluzione, e il suo braccio destro sfiora il busto del filosofo Raynal, tenace avversario della schiavitù.

Diop invece è un giovane altero, il cui braccio destro è attorno a un pallone da football, mentre la mano sinistra tiene qualcosa di simile a un guanto da baseball. La battaglia, par di capire, è la stessa e la foto del resto fa parte di una serie intitolata Diaspora e dedicata allo sradicamento africano Diop è un francese di ottima famiglia e, al di là delle buone intenzioni, vien in mente quella frase di Karl Marx secondo la quale quando la Storia si ripete è la farsa a prendere il posto della tragedia.

Il perché sia questa foto di Diop a introdurre Fashioning Masculinities rientra probabilmente nell'ottica con cui Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, il marchio che significativamente fa da sponsor della mostra, interpreta la moda maschile contemporanea come rifiuto di ogni stereotipo nonché di ogni modello storicamente impostosi nei secoli, la libertà di vestirsi che è anche libertà da qualsiasi condizionamento, sociale, politico, di genere L'impressione è che la moda maschile, quella almeno concepita da stilisti come Michele, farebbe volentieri a meno del maschio, qualsiasi cosa si voglia intendere con questo sostantivo, anche se resta il fatto che nel ferreo mondo del fashion business le modelle sono più pagate rispetto ai loro omologhi dell'altro sesso, il che dovrebbe imporre qualche interrogativo in materia. E va da sé che l'eccesso, la trasgressione, la confusione dei generi, compresi quelli sessuali, più che indicare un futuro contempla un più o meno inconscio ritorno al passato: il seicentesco ritratto del Duca di Bavaria, dipinto da Sebastiano Bombelli, vede scarpe con fibbie, fiori decorati e tacchi, gonne e sovra-gonne, nastri, merletti, sbuffi e ricami, lunghe parrucche e ventagli, seta e velluto come se piovesse. Ciò che allora era eccentricità aristocratica, oggi è diventata eccentricità democratica, ovvero di massa, il che è un controsenso di cui non si accorge più nessuno. Allo stesso modo, la necessità di modelli cui ispirarsi, ha visto la società dello star system, cioè dello spettacolo, attori, attrici, cantanti, presentatori eccetera, sostituirsi alla élite nobiliare imperante ancora sino al XIX secolo e la strada prendere il posto della corte o della reggia quanto a fonte di ispirazione, un po' come i fanatici di McDonald's si estasiano all'idea di un cibo eguale per tutti, con lo stesso gusto per tutti, negli stessi luoghi per tutti L'uniformità rivendicata come fosse una diversità... Resta il fatto che la moda maschile, per quanto la si rigiri, è condizionata da un fisico che nel vestirsi così come nel disvelamento, ha meno elementi di seduzione con cui giocare di quello femminile: può paradossalmente esaltarsi nella nudità, come attestato dalla statuaria classica, ma per non immiserirla ha bisogno di coprirla: nei secoli la corazza, il corpetto, l'uniforme, la toga, l'abito da sera è questo che hanno raccontato.

Divisa in tre sezioni, «Undressed», «Over dressed», «Redressed», con un ricco corredo di quadri, foto, abiti, filmati, oggetti d'arte, documenti, Fashioning Masculinities ha il suo elemento centrale in quel Settecento del Grand Tour in cui la nobiltà continentale comincia a prendere le misure di sé stessa andando a lezione dalle civiltà del passato, i marmi e i bronzi del mondo classico greco-romano, la sontuosità, l'intelligenza, ma anche la pericolosità, intrighi, delitti, congiure, libidini, dell'età rinascimentale. Le nazioni, tranne significativamente l'Italia e la Germania, hanno avuto il loro compimento, gli imperi si alternano fra albe e tramonti, la Spagna, la Francia, l'Inghilterra, l'Austria, c'è tempo per una società della conversazione che si interroghi su abiti, comportamenti, stili e regole di vita. Il venire alla ribalta del mondo borghese accentua la necessità di un comun denominatore e insieme lo allarga restringendo gli elementi di eccentricità nonché il sentirsi al di sopra di ogni regola civile in virtù del puro e semplice privilegio di nascita. Nel catalogo della mostra si dà giustamente risalto a quelle Lettere al figlio, di Lord Chesterfield, che sono una sorta di manifesto di che cosa dovesse essere l'uomo educato del suo tempo, e con esso l'idea che la forma fosse sempre e comunque sostanza.

Sull'abbigliamento, Chesterfield traccia a metà Settecento quello che cinquant'anni dopo Lord Brummell renderà esemplare nel suo dandismo come arte della semplicità: «Mi auguro che tu vesta bene, ovvero secondo l'uso comune nella buona società: questo significa che non dovrai farti notare né per eccesso né per difetto, poiché un gentiluomo deve distinguersi per l'eleganza, non per lo sfarzo».

Curiosamente, nella mostra è assente quel quadro di Tiziano, L'uomo dal guanto (1523) che era al centro degli insegnamenti di Chesterfield, l'immagine e insieme l'insegna di una linea di condotta dove un busto da adulto e un viso da adolescente avevano il loro completamento in una mano nuda con l'indice verso terra e l'altra in riposo, ma guantata, una sorta di pugno di ferro in mano di velluto come modello comportamentale. Assente è anche il ritratto di Baldassar Castiglione, sempre di Tiziano, ma del primo e del suo trattato Il Cortegiano, è ripreso l'elogio del nero come colore che dal Settecento in poi ridisegnerà la moda maschile. Il nero, ammonisce Castiglione, si addice alla normalità del vestire, e non del piacere, e singolarmente il Novecento finirà con il rovesciare definitivamente questo assioma affidandogli nelle forme del dinner jacket, dell'abito scuro, il compito di incarnare l'ultima trincea dell'eleganza classica.

Nel gioco dei rimandi, degli intrecci, dietro a un David Bowie che si dà al maquillage c'è il pallore incipriato del duca di Richmond, protégé di Carlo II d'Inghilterra, dietro allo smoking al femminile di Saint-Laurent anni '70, c'è il tuxedo maschile di Marlene Dietrich anni Trenta nel film Morocco o gli abiti maschili della seicentesca regina di Cristina di Svezia Le parole più sensate rispetto allo scivolare della mascolinità verso un sesso indistinto visto come una possibilità di uscire dalle gabbie della propria condizione, la dice nel catalogo lo stilista italiano Giorgio Armani quando osserva che la sua moda «non è unisex: richiede delicatezza per l'uomo, forza per la donna».

·        I Nudisti.

Antonio Riello per Dagospia il 22 novembre 2022.

Il Nudismo (oggi definito sempre più spesso con il termine "Naturismo") nei paesi del Nord Europa ha sempre avuto una sua certa popolarità: esiste per tradizione una cultura del corpo di un certo tipo. Un'accezione positiva accompagna da sempre la fisicità corporale e il culto anglosassone dell'attività sportiva origina di sicuro da qui. Storicamente la Religione Protestante è decisamente meno ossessionata dalla nudità rispetto alla Chiesa Cattolica (che vede la fisicità corporale come una minaccia all'integrità dell'anima).

Ci sono poi elementi legati al clima e alla salute. Captare quanto più sole possibile sulla pelle a certe latitudini è salutare: attiva la produzione della Vitamina D, e il rachitismo è stato purtroppo a lungo endemico da queste parti. In effetti basta che spuntino pochi raggi di sole e i Britannici tendono a scoprirsi (gli indumenti intimi in genere non sono rimossi) con una certa facilità. Sembra piuttosto una attitudine collettiva automatica più che un atto volontario. Le temperature non sempre miti, d'altra parte, non costituiscono un problema particolare, almeno per l'indole Inglese e Scozzese.

Il Regno Unito ci ha già abituati fin dagli anni '60 agli "strikes", forme di protesta che avvengono in occasioni di manifestazioni sportive o universitarie: qualcuno si spoglia completamente ed inizia a correre mostrando ai numerosi spettatori la propria nudità (deretano e "gioielli di famiglia" inclusi). Eccentrica sfida al comune senso del pudore e (antropologicamente parlando) una atavica forma di insulto. All'inizio fu un vero shock mediatico, adesso ordinaria amministrazione che rientra nel folklore locale. 

Poi, a Londra, è arrivato il "London Naked Bike Ride" una specie di "giro di Londra con chiappe al vento" (la prima edizione è nel 2004, si tiene di solito in Giugno) dove tutti i partecipanti pedalano rigorosamente come mamma li ha fatti. Lo scopo dichiarato dovrebbe essere la sensibilizzazione dei cittadini contro lo strapotere delle auto e la dittatura combustibili fossili. 

In pratica è solo una delle tante seccature che quotidianamente a Londra creano problemi alla viabilità del trasporto urbano di superficie (pubblico e privato). Quando passano (e sono in tanti/tante) ormai nessuno fa caso alla nudità.  Più che altro viene spontaneo pensare a quanto possa essere non-confortevole pedalare per ore senza una protezione tra la pelle e la sella: siamo probabilmente al limite del ciclo-masochismo. 

La British Naturism Association (che potremmo definire come la "Lega dei Nudisti", fondata nel 1964) sostiene che circa 6 milioni di Britannici nel 2022 si professano "Naturisti". Le cifre sono fornite dall'associazione stessa, quindi non verificate indipendentemente ma, comunque sia, rimangono evidentemente cifre importanti. Mark Bass, l'attuale segretario, afferma  che l'esperienza del Covid abbia irrobustito le file considerevolmente. 

In effetti non è raro constatare che ovunque, dopo la pandemia, molte persone hanno iniziato a fare cose che prima consideravano sconvenienti o addirittura impossibili. Si professano in qualche modo naturisti (o almeno simpatizzanti, con livelli diversi di adesione) attori come Orlando Bloom e Helen Mirren. Cantanti come Robbie Williams. E noti presentatori televisivi come Kate Humble. Siamo di fronte, in ogni caso, ad atteggiamenti molto più radicali ed ideologici rispetto ai soliti topless dei luoghi di villeggiatura alla moda, tipo Saint Tropez o Ibiza. Si tratta, per capirci, di "nudo integrale" tipo Cap d'Agde.

A lungo le attività sociali dei Nudisti sono consistite essenzialmente nel prendere il sole assieme in apposite spiagge o fare in compagnia passeggiatone in luoghi deserti (o molto poco frequentati). Il numero, lo sappiamo, procura sempre coraggio e infatti, piano-piano, i naturisti d'Albione si sono allargati (nel senso del dialetto romanesco). Chiedono insomma di poter fare delle esperienze comunitarie meno "turistiche" e più legate alla vita di ogni giorno. 

La loro voce si è fatta più sicura ed esigente, hanno un piglio ormai "sindacale". Sono già una lobby nel Sussex. Si considerano in pratica una delle tante "minoranze escluse" e vogliono quello che pensano spetti loro per diritto: una convivenza senza pregiudizi con i Non-Naturisti. Ovvero, girare completamente spogliati dove e come pare-e-piace. Lo scopo politico ultimo rimane appunto quello di una integrazione paritaria dove assieme vestiti-e-non-vestiti si possano mescolare armoniosamente. Basta ghetti per nudisti, si deve giocare allo scoperto e colonizzare senza pregiudizi lo spazio urbano.   

Già nel 2019 l'associazione ha ottenuto il permesso di far visitare ai propri adepti ignudi una mostra alla Royal Academy che, sempre alla affannosa ricerca di fondi e di politically correct, ha concesso la visita (seppure con un orario a parte nel quale, in questo caso, il pubblico "vestito" non aveva accesso). Keith Hillier-Palmer uno dei portavoce del movimento ha enunciato in una intervista il fatto che vengono fatte regolarmente visite a vigneti e cantine: ai nudisti piace il vino. Frequenti sono anche partite a bocce e a bowling. Sempre tante le attività ricreative: bingo, carte e gli immancabili e britannicissimi "darts".

Ad un certo punto - inevitabile, siamo in Gran Bretagna - è emersa a grande richiesta la decisione di poter frequentare in totale libertà un bel pub. E' stato scelto lo Swan Inn a Sandhurst, amena cittadina del Berkshire che è, tra l'altro, sede della prestigiosissima Accademia Militare della Royal Army. Dopo un iniziale accordo con il proprietario del locale, a soli 3 giorni dall'evento, la cosa è diventata impossibile per la manifesta ostilità della popolazione locale che ha interpretato la presenza di gente nuda nel proprio amato pub come una sacrosanta ed imbarazzante offesa. Ne è nata una grande frustrazione, con vivace contorno di polemiche. Scontento a mille. 

L'iniziativa è stata temporaneamente sospesa in attesa di trovare un altro luogo, meno retrivo e più accondiscendente, per coronare il grande sogno di libertà paritaria. Avviso ai proprietari di locali pubblici: si accettano candidature (anche all'estero, nel continente).

Da luccaindiretta.it il 16 agosto 2022.

E’ del 29 luglio, la “denuncia” del consigliere di opposizione, in forza alla Lega, Alessandro Santini, sul sesso sfrenato alla spiaggia dei nudisti tra Viareggio e Torre del Lago. E il 30 luglio, non è tardata la risposta del Comitato naturisti Versilia.  

“Quando il Comune di Viareggio in primavera ha autorizzato il naturismo in un piccolo tratto della spiaggia della Lecciona, su iniziativa di AnIta (Associazione naturisti italiani), sapevamo di dover affrontare difficoltà e ostilità. Oltre alla scontata opposizione di chi è per principio contrario al naturismo (e che resta comunque libero di non praticarlo), tra i nemici della spiaggia naturista c’è anche chi, approfittando di un contesto naturale in cui la presenza umana è per la gran parte del tempo rara, si dedica ad attività lecite in privato ma che, se svolte in pubblico, sono punite dall’articolo 527 del codice penale. – spiegano in una nota -. Gli “atti osceni” sono vietati in qualsiasi luogo pubblico e sono considerati tali se possono violare, turbare o ferire il naturale senso del riserbo a riguardo di fatti e manifestazioni che si riferiscono alla sfera sessuale. 

Ora, in piena stagione turistica, qualche personaggio in cerca di visibilità elettorale sta cercando di stabilire una connessione tra la neonata spiaggia naturista e le attività di esibizionisti e guardoni del sesso per cui la Versilia è assurta più volte in passato agli onori delle cronache nazionali. Sono perciò stati girati e diffusi video amatoriali di atti sessuali parzialmente dissimulati con l’effetto nebbia”. 

“Chi ha diffuso i video – aggiunge il comitato – sostiene che i fatti si siano svolti proprio in quel piccolo tratto di spiaggia in cui è autorizzato il naturismo, ma in realtà quei video potrebbero essere stati girati da chiunque (anche da un guardone), in qualunque luogo e, peraltro, sia prima sia dopo l’adozione della delibera che ha autorizzato la spiaggia naturista. Si impongono alcune doverose precisazioni”. 

“Anzitutto, fare sesso in luoghi pubblici, con o senza vestiti, che si tratti della spiaggia o della passeggiata, è vietato. Il naturismo è cosa del tutto diversa e, infatti, può essere autorizzato, come nel nostro caso – si precisa –  Poi, gli “atti osceni” possono essere consumati anche con i vestiti addosso, a riprova del fatto che il problema non sono il naturismo e la stragrande maggioranza delle persone che lo praticano nel rispetto delle regole, ma soltanto i pochi soggetti, estranei alla realtà naturista, che fanno gli affari propri in pubblico. Infine, chi si trova di fronte a un comportamento illecito ha l’onere non solo di denunciare il fatto alle pubbliche autorità, indicando soprattutto tempi e circostanze, affinché quel fatto sia punito e con l’obiettivo non secondario che quel fatto non si ripeta, ma anche di intervenire per interrompere quel comportamento illecito, soprattutto se pubblico ufficiale (è il caso di un consigliere comunale). 

Ci risulta che le forze dell’ordine siano intervenute più volte negli ultimi tempi nell’area in cui si trova anche la spiaggia naturista per contrastare diverse attività illecite che venivano consumate laggiù da anni, come per esempio camminare sulle dune al di fuori dei percorsi stabiliti. Restando agli atti osceni, l’articolo 527 del codice penale prevede una sanzione di almeno 5.000 euro nei confronti dei trasgressori. Alla spiaggia della Lecciona, nei momenti di maggiore affollamento, soprattutto grazie al senso di responsabilità dei frequentatori, quei comportamenti non leciti semplicemente non succedono, così come nelle spiagge attrezzate.  Non si può certo escludere che sporadici episodi devianti avvengono, nelle zone o nelle fasce orarie meno frequentate, come in qualunque altro posto appartato. “Chi non ha mai peccato una volta nella vita scatti la prima foto”, si potrebbe dire per tentare di sdrammatizzare, ma, come dimostrano ad evidenza le strumentalizzazioni di questi giorni, le principali vittime di quei fatti illeciti, commessi da pochi, sono proprio le tante persone che frequentano la spiaggia protetta del Parco e a cui fin da oggi chiediamo di farsi parte proattiva per evitare e disincentivare atti e metodi lontani ed estranei al Naturismo come pratica di vita e ambientalista”.

“Ben vengano quindi controlli e sanzioni a chi sgarra – concludono i naturisti – ma non si insulti l’intelligenza della gente facendo di tutta l’erba una questione di bassa lega. Da ultimo, vogliamo mettere in evidenza l’impegno a costituire, in parallelo alla spiaggia naturista, una tela di relazioni commerciali e turistiche legate al futuro distretto naturista, che coinvolga attività pubbliche e private nello stimolare, proporre e risolvere le numerose esigenze di un turismo di qualità, qual è quello naturista”.

Tra i nudisti di Cap d’Agde: sabbia, frustini e schiuma-party nel lunapark del sesso. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

Cap d’Agde, in migliaia nel villaggio degli scambisti. Gli italiani: «Vieni in spiaggia, rimarrai senza fiato»

Piccole beghe familiari, primi di agosto, Maremma.

«Non ho capito: dov’è che ti mandano?».

A Cap d’Agde.

«Il giornale ti manda a Cap d’Agde?».

Esatto.

«E il direttore lo sa?».

Ma ti pare che non lo sa?

«Vabbè. Però un costume, per sicurezza, portatelo».

Una settimana dopo.

Sole a picco, sabbia rovente e palme al vento del Mediterraneo, in Linguadoca, dove la Francia ospita il più grandioso lunapark del sesso esistente sul nostro pianeta, un gigantesco villaggio vacanze nel quale il naturismo è lentamente diventato scambismo di massa, per etero/gay/bisex, insomma proprio per tutti, belli e brutti, giovani, milf e signore complete di dentiera, quelli pelosi come orsi e quelli perfettamente depilati, le pance con la tartaruga mischiate a marsupi di cellulite, con o senza tatuaggi, in un packaging straordinario che tiene insieme anche puro esibizionismo e sadomaso felice, curiosità e perversione, decadenza, solitudini abissali e contagiose trasgressioni.

Adesso, però, calma.

Entriamo.

Seguitemi.

Dissimulare, sopire lo stupore, restare cronista.

Non è esattamente come camminare sulla spiaggia nudista di Formentera: perché qui sono nudi a migliaia (età compresa tra i 25 e gli 80 anni). Dopo un sommario sopralluogo di un paio d’ore, sulla Moleskine restano questi primi appunti: il costume di cui sopra è, ovviamente, superfluo; il villaggio è recintato e accessibile solo attraverso due varchi, uno pedonale e uno carrabile, controllati da vigilantes tipo Guantanamo; effettuata la registrazione, il biglietto d’ingresso giornaliero varia — a seconda della stagione, bassa o alta — tra i 10 e i 20 euro (chi alloggia all’interno fa l’abbonamento); definirlo villaggio è però forse riduttivo: c’è un enorme residence in stile Valtur (l’Heliopolis), ci sono appartamenti, villini, due hotel, un immenso campeggio a quattro stelle e un porticciolo; manca un sindaco, ma il resto c’è tutto: farmacia, lavanderia, tabaccheria, cinema (porno, ovvio), bar, ristoranti, negozi (molto curati quelli di orientamento fetish/bondage: eccezionale offerta di anelli, cappucci, bavagli, corde, catene), due banche e un supermercato. Comprare una bottiglietta d’acqua è stato piuttosto divertente.

Pornosupermarket

L’angolo panetteria vende baguette a forma di pene. Vendono anche biscotti per fare colazione a forma di pene. Uomini e donne fanno la spesa completamente nudi (il che, francamente, li aiuta comunque a sopportare i 39 gradi di oggi). Solo alcune donne indossano delle curiose foglie di plastica rosa che, misteriosamente, restano attaccate lì. In coda per la cassa con una certa precauzione, un filo distanziati. Davanti: una quarantenne con i capelli biondi sfumati sulla nuca, piercing ovunque, anche dove non riuscireste ad immaginare (o forse sì, ma dovete sforzarvi). Dietro: un tipo tarchiato, sui sessanta portati maluccio, sguardo lupesco, una busta di pomodori e insalata, anche lui nudo e con un paio di anfibi ai piedi. Si sta nel mezzo con la bottiglietta d’acqua. Costo: 3 euro. Prima sensazione: prezzi, mediamente, alti. Seconda sensazione: è pieno di italiani. «Tedeschi, inglesi e olandesi — conferma la cassiera, in sobria canottiera trasparente — a giugno e luglio. Spagnoli e soprattutto italiani, adesso».

Italiens

Mezz’ora dopo, al bar.

Italiani che bevono spritz. Buongiorno, piacere, solite presentazioni. Sono tre amici che vengono qui dal 2012, «una settimana all’anno, soldi benedetti». Hanno saltato le ultime due sessioni per la pandemia, questa estate sono tornati: e si è aggiunta un’amica. Si presentano con i soprannomi che si sono dati per fare queste scorribande: «Io sono Birillo, e lo capisci da solo perché mi chiamano così. Ho 54 anni, faccio l’imprenditore, ho alcuni negozi di abbigliamento tra Padova, Vicenza e Brescia. Lui, invece, è Piccolo Chimico…». Come il gioco da tavolo di quand’eravamo bambini? «Eh eh…» — risponde allusivo questo dentista padovano di 51 anni. Poi c’è Ringo: «Quando decido di rimorchiarne una, non sbaglio un colpo». Però, insomma: siccome qui, prevalentemente, ci si scambia, alla compagnia si è aggiunta la Vale, che sarebbe Valentina, incantevole commessa in un negozio che Birillo gestisce in via San Fermo, a Padova. «Dai retta: questi son tre bei fanfaroni. Tu, piuttosto, giornalista: non hai caldo ancora tutto vestito?».

La compagnia italiens saluta, vanno a uno schiuma party, però mi invitano a una festicciola che hanno organizzato stasera, in casa. Suggerimento: nel pomeriggio non devo assolutamente perdermi lo spettacolo giù in spiaggia. «Vedrai, il gioco dell’“orologio” ti lascerà senza fiato», soffia Piccolo Chimico. Ecco, aspetti, non vada via: ma questo suo soprannome? «Mi prendono in giro perché ho inventato un protocollo per fare bella figura». Non la seguo. «Amico mio: non siamo più ragazzi, e dobbiamo aiutarci. In un posto così, sette giorni su sette, più che mai». Capito: quindi? «Una dose di Cialis 5 mg alle 11 del mattino. A mezzogiorno: un grammo di ginseng rosso coreano. Verso le 15, un caffè doppio. Poi, quando pensi sia il momento, che sia pomeriggio o sera, ti spari una bella dose di Sildenafil orodispersibile da 100 mg, e fai entrare il turbo». Funziona? «Garantito. Ma non devi eccedere. Qualche anno fa, Ringo esagerò con il Cialis, gli venne un mezzo coccolone, e fummo costretti a portarlo all’ospedale di Narbona».

Il collare

Il miglior ristorante è considerato il Waiki Beach. È a Port Nature, la zona più chicchettosa del villaggio (agenzie spietate: appartamenti affittati anche per mille euro a settimana; e, comunque, tutto esaurito). Sul vialetto, dietro l’ultima siepe, c’è un tizio carponi. Capelli brizzolati, la faccia di uno che potrebbe essere il tuo commercialista, indossa un grosso slip di pelle nera e ha un collare di cuoio con le borchie. Il collare è assicurato a un guinzaglio, legato alla staccionata. Lo guardo, mi guarda. Me ne esco con un: «Salve». E lui: «Bau! Bau!». Dio Santo. Non solo l’hanno legato come un cane: questo abbaia come un cane (si capisce bene perché fare foto sia rigorosamente vietato).

Faccio per proseguire, e sento una voce: «Lo accarezzi pure, non morde». Mi volto: una signora paffuta, con i capelli rossastri a caschetto e le lentiggini, un body a rete, zatteroni di sughero. E un frustino. «È Oreste, il mio schiavo. Bell’esemplare, vero?» (in realtà sono marito e moglie, entrambi impiegati, arrivano da Lecce). Poi passa una coppia di anziani francesi, due nonni magretti dall’aria simpatica — nudi, ovviamente, a parte le Birkenstock d’ordinanza — e sul serio accarezzano, teneramente, Oreste. Che abbozza un mezzo sorriso. Errore. La sua padrona gli molla subito una frustata terribile. Slang! Signora, piano. «Macché piano! Se l’è meritata. Deve ridere quando decido io». Va così.

Certo, non va esattamente come questo posto se l’erano immaginato i fratelli Paul e René Oltra, nel 1974. Leggenda: figli di un vignaiolo, un pomeriggio — dopo ore di duro lavoro — invece di buttarsi sotto la doccia, decidono di andarsi a fare un tuffo in mare; arrivano e scoprono decine di tedeschi che prendono il sole nudi. La vigna rende, ma un grande campeggio naturista — pensano — potrebbe essere la scommessa giusta per quegli anni Settanta, ancora così rivoluzionari. Ha funzionato per molte stagioni: poi, inesorabile, la marea libertina. Adesso, le f amiglie nudiste (qualche mattacchione porta anche i bambini) sono relegate sul lato destro della spiaggia. A sinistra, si apre invece la Baia dei Porci (la chiamano proprio così). Ombrelloni e asciugamani e centinaia di genitali d’ogni età, ceto sociale, gradazione di bellezza. Un mischione pazzesco. Ora: spiegarvi cosa succede, nel dettaglio, non si può. Però, insomma: ci siamo capiti. Quanto al famoso gioco dell’«orologio»: parte non appena una coppia inizia a darsi da fare. Allora, dalle dune, calano decine di uomini famelici, zainetto e occhiali da sole, e si mettono in circolo. Punto. Per il resto, andate di fantasia (considerate che queste scene si susseguono ininterrottamente fino al tramonto, talvolta pure in acqua: che, essendo però gelida, non aiuta ma, almeno, disinfetta).

Carnevalata sexy

Ecco, a proposito di igiene: lo schiuma party. Tutti ne parlano con entusiasmo. Sembra essere qualcosa di imperdibile. Sarebbe riservato soltanto alle coppie. Ma poi Gerard, un magrebino grasso e pacioso molto poco nel ruolo del buttafuori, accetta 50 euro per un caffè: e così si entra a dare un’occhiata. Praticamente: una tonnara. Con dj e musica a palla, tutti contro tutti, dentro una enorme mousse bianca che copre la piscina. Sulla Moleskine c’è scritto: totale, folle sprezzo del pericolo di infezioni (il Covid, francamente, sarebbe l’ultimo dei problemi). All’ora dell’aperitivo si arriva con un cielo bellissimo e il tanfo delle grigliate, l’odore dolciastro degli olii doposole e in un clamoroso struscio erotico/carnevalesco (e davvero stupisce che tutto questo abbia finora ispirato solo uno scrittore, Michel Houellebecq, che nel 1998 pubblicò per Bompiani, e con notevole successo, «Le particelle elementari» — sebbene all’epoca qui l’impronta naturista fosse ancora prevalente). 

Comunque : trionfo di sandali con tacco 16 e perizomi, orecchini fallici e corsetti leopardati, il povero Oreste portato sempre al guinzaglio, birra, vino, rossetti celesti, unghie argentate, un paio di fosforescenti drag queen, un «Beddamaaatri!» lanciato da un ragazzo siciliano al passaggio di due stupende gemelle olandesi, gran sfoggio delle chirurgie plastiche invernali, spensieratezza diffusa che, progressivamente, si trasforma però in sguardi torbidi, silenzi da savana, caccia al piacere. I club sono numerosi. Il privé più bello è il Glamour (ma arrivare fin qui per chiudersi in un privé, boh). Poi c’è il Tantra, dove sono ammessi anche i singoli. Quest’anno va forte pure un club BDSM. Le saune chiudono tardi. Un classico — mi spiegano — resta però la passeggiata nelle stradine di Port Nature, dove si organizzano le feste private più divertenti (e dove può capitare di essere coinvolti nei party: come è chiaro, molto — se non tutto — si gioca sul brivido del libertinaggio imprevisto, dell’emozione battente, dell’azzardo).

La cena hot

Ecco, appunto: andiamo allora a vedere com’è la festicciola della comitiva italiana conosciuta al bar. Tanto per inquadrare la scena: piccolo giardino, fiaccole, un tavolo con tovaglia di plastica a fiori, un vassoio colmo di salsicce, bicchieri vuoti, una candela all’essenza di vaniglia, la voce calda di Barry White, quella di Ringo: «Ah, bravo… sei arrivato giusto in tempo…». Risate eccitate dall’interno: c’è Piccolo Chimico che stappa una bottiglia di prosecco e brinda con altre due coppie. Sono tutti nudi. Vengo osservato distrattamente. Brindo anche io. Ringo: «Oh, bello… devi rilassarti un po’, eh? Non c’è mica soltanto il lavoro». Dal corridoio sbuca la Vale. «Con Birillo stiamo giocando di là… ci sono due coppie spagnole molto carine… se ti va, puoi unirti». Poi fa un’occhietto, prende la bottiglia di prosecco, e sparisce. Ringo dice che Cap è questa. È assolutamente questa. Ed è da matti farsi venire sonno sul più bello. Fuori, nel vialetto, la luce dei lampioni gialla, le cicale che cantano, quel prosecco era pessimo. Entra un whatsapp. Dalla Maremma. «Solo per sapere: a Ferragosto ci sei, o pensi di fermarti lì?».

·        L’Amore.

Ivan Cotroneo: «La fine di un amore? Dovrebbe avere i tempi supplementari». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.  

Nel nuovo film racconta una coppia che la clausura del Covid costringe a una terapia senza terapista. « L’intimità e la cura valgono più della sincerità» 

Ivan Cotroneo, 54 anni, scrittore, autore e sceneggiatore, al suo quarto film da regista.

Per il film Quattordici giorni si può partire dai titoli di coda, dopo i quali c’è la dedica a tutte quelle coppie in crisi che non hanno avuto 14 giorni supplementari, per scoprire se riescono a tornare assieme o almeno godersi, con spietata sincerità, il proprio finale di partita. Quattordici sono i giorni di autoisolamento da rispettare dopo un possibile contatto Covid, ma per quanto sia realistico il dettaglio - Ivan Cotroneo, che è anche regista, ha scritto da remoto con Monica Rametta il romanzo da cui il libro è tratto - la pandemia è una cornice, un pretesto di clausura che moltiplica la solitudine e amplifica la crisi. La storia diventa una terapia di coppia coatta, senza terapista, un carnage malinconico tra Marta (Carlotta Natoli), fisioterapista, e Lorenzo (Thomas Trabacchi) , avvocato: senza figli, senza voglie, con le valigie pronte e un’amante di mezzo.

È stato girato in 14 giorni, ognuno dei quali è un capitolo a parte, composto da un’unica scena che dà ulteriore forza alla linea temporale, un countdown verso l’addio: riusciranno a negativizzare l’odio in cui è mutato l’amore che fu? Parlandone con Cotroneo via Zoom si finisce sull’autobiografico, perché sia lui che Rametta hanno messo molto delle rispettive storie di lunga durata. Colpisce che lo sguardo si illumini quando si parla di “meschinità” e “bugie”, ma non perché stiamo parlando con una persona meschina che dice bugie, ma con un narratore multiforme che conosce il valore della verità romanzesca, le zone più in ombra dell’animo umano, e diffida dall’abbaglio della sincerità, una romantica bugia. E la verità romanzesca è nella credibilità dei personaggi dei suoi libri, film, opere di teatro e serie tv (tra cui i grandi successi Tutti pazzi per amore e La compagnia del cigno).

Il conto alla rovescia crea suspense narrativa. Come è nata la scelta di questo dispositivo narrativo?

«Viene dall’ angoscia retrospettiva per le storie finite, in cui non sai mai prima quando sarà l’ultima volta che farai l’amore con quella persona o entrerai in quella casa. Poi l’idea del conto alla rovescia deriva dall’analisi che ho fatto per 10 anni: la fine di questo percorso non è stata netta, ma annunciata dall’analista con un anno di anticipo, durante il quale abbiamo continuato le visite. Come un lutto programmato. Se da un lato c’era l’urgenza di dire cose mai venute fuori, dall’altro era inutile cominciare discorsi nuovi che non c’era il tempo di finire. Le storie d’amore, se c’è un tradimento, finiscono con litigate, telefoni chiusi, porte sbattute. Sarebbe bello invece un tempo extra, speciale. A me sarebbe piaciuto averlo, nella mia vita».

Una delle frasi più amare la dice Lorenzo, quando in bagno, dove con il tempo la confidenza ha inibito il desiderio, si trovano a guardarsi allo specchio: si erano promessi di invecchiare assieme, dice lui, e alla fine hanno mantenuto la promessa, perché sono invecchiati anzitempo.

«Sì, lui ripensa alla promessa che si erano fatti e pensa di non averla mantenuta, poi invece ribalta il punto di vista, la promessa è stata rispettata, ma con questa accezione negativa».

Altro ribaltamento di sguardo, ce l’ha lei quando stanno dividendosi i libri e gli rinfaccia di averle scritto, già nei primi anni di convivenza, una dedica a un libro di Carver in cui la definisce anche “migliore amica”.

«Sì, lei pensa che fosse il segnale di un desiderio che andava già scemando, ma in realtà era un modo con cui lui sottolineava la loro complicità. Devo dire che anche io in una relazione sono bravissimo a fare la parte dell’amico, è quella che mi riesce meglio».

Le è mai capitato di scrivere o leggere una dedica che non è stata capita?

«Mi viene in mente una dedica che è stata in qualche modo fraintesa dalla persona con cui stavo, vent’anni fa, e diceva “Spero che questa scrittrice diventi importante per te come lo è per me”. Accompagnava In fuga di Alice Munro. Sono stato preso alla lettera perché meno di una settimana dopo sono stato mollato, e insieme alla Munro, In fuga c’era andato pure lui».

Nella resa dei conti tra Marta e Lorenzo ci sono momenti di spietata sincerità, che fanno male. Ce ne è uno particolarmente autobiografico?

«C’è molto di mio nel dolore del monologo di Marta sull’ossessione del corpo di lui che è entrato nel corpo di un’altra, non tanto per il tradimento in sé, ma perché l’ossessione monopolizza i suoi pensieri; però c’è una pandemia mortale e lei si sente meschina a non partecipare del dolore degli altri. Io ho attraversato quel sentimento, che mi faceva sentire solo ed egoista, arido, quando nel 2004 c’era stato lo tsunami nel sud est asiatico e arrivavano immagini e racconti di morte, dolore e disperazione che però per me non erano importanti come la telefonata che non arrivava mai dalla persona di cui ero innamorato. Come in Frammenti di un discorso amoroso. Avevo la percezione di quanto fosse misera e meschina quella mia ossessione, perché io sono una persona empatica, ma in quel momento no e allora noi abbiamo un’idea dell’amore che è tutta positiva, che ci rende migliori, ma non è sempre così».

Tradimenti e bugie mandano in pezzi la storia d’amore del film. Ma non vengono demonizzati.

«La cosa più importante in una coppia per me è l’intimità , quella che condivido da 15 anni con il mio compagno Andreas , la montagna di cose belle e brutte che si conoscono l’uno dell’altro, che non finiscono mai se si vuole, come per i protagonisti di Quattordici che fanno i conti con la montagna di cose vissute in comune, una montagna nel tinello che assomiglia a quella che il protagonista si costruisce in casa nel film Incontri ravvicinati del terzo tipo. L’intimità si coltiva con la fiducia di non ferirsi, che è la promessa che mi è stata fatta e che io ho fatto, e con la cura. E se la bugia tutela la cura, va bene. Tu puoi anche tradire, come nel film, e prenderti cura della persona che hai accanto. Se invece gli racconti tutto, magari per liberarti la coscienza, non dico per mettere in discussione e costruire qualcosa di nuovo, ma solo per liberarti la coscienza, allora non mi piace».

La sincerità spesso oscilla tra chi la sopravvaluta e chi la sottovaluta.

«Io non sono per la sincerità a tutti di chi dice che bisogna confessare tutto, le cose accadute e pure i desideri inespressi. Ma così è meschina, serve a sgravarti da un senso di colpa. Io la penso come il Massimo Troisi in Pensavo fosse amore invece era un calesse quando Francesca Neri, che era la sua fidanzata, si rifidanza con un altro e il gruppo di amici va da Troisi a dirgli “tu lo devi sapere” e lui “ma chi ve l’ha chiesto?” e loro insistono “è importante che tu lo sappia” e lui dice “no, io non voglio sapere niente, fatevi i fatti vostri”».

Arte, dolore, eros e vanità: tutto è "in nome dell'amore". Stefano Zecchi ci fa immergere fra gioie e abissi del sentimento per eccellenza. Dall'antichità a oggi. Giuseppe Conte il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.

Da giovane, all'inizio della sua lunga e fortunata carriera, Stefano Zecchi era un fenomenologo, studioso di Husserl e allievo di Enzo Paci. Allora, quando vivevamo tra le aule di Via Festa del Perdono e il Collegio dell'Università Statale a Sesto San Giovanni, nelle nostre lunghe, appassionate conversazioni mi sembrava chiaro che il suo amore dominante fosse quello della conoscenza. Oggi, in questo suo nuovo libro (In nome dell'amore, Mondadori, pagg. 180, euro 18), vedo che dopo tante multiformi esperienze, tra cui quella del romanzo, Stefano Zecchi mette ancora a frutto la fenomenologia e, per amore della conoscenza, offre ai suoi lettori un panorama ampio, dettagliato, dialettico, nutrito di mito, letteratura, musica, cinema del sentimento più importante per ciascun essere vivente, che è l'amore. Ebbene, cosa vuol dire amare? Quali gesti pietosi e generosi, o quali violenze e nefandezze si compiono in nome dell'amore? Quale è la «intenzionalità» dell'espressione «ti amo»? Il lettore troverà tutto questo in un libro sapiente e agile, che può leggere in due sere, o tenere come vademecum per i suoi momenti di riflessione e autoanalisi.

Per gli antichi, amore si poteva declinare come filia, agape e Eros: amicizia e inclinazione, comunanza solidale, passione. Di questi tre aspetti, il più problematico e ambiguo è quello incarnato nel dio Eros, sin dalle sue origini mitiche come sono raccontate in Esiodo e in Platone. Diretto discendente del Caos primordiale o figlio di Poros (Espediente) e Penìa (Povertà), Eros porta nelle sue frecce dominio e perdizione, benevolenza e avidità, volontà di possesso e desiderio di fusione. La prima forma di amore analizzata è quella passionale: quella che cambia, travolge e sovverte, che ha in sé il demone del delitto e della morte: esempio supremo la vicenda di Paolo e Francesca raccontata da Dante nel V Canto dell'Inferno. Amore passionale è anche quello civile, politico, alimentato da un grande ideale per cui ci si immola (nessuno si immola, scrive Zecchi, per un bilancio di previsione economica ben fatto).

La seconda è quella romantica, in cui il desiderio di libertà si coniuga col sentimento dell'immenso, dell'infinito, e spesso ha esiti tragici, come nel Werther di Goethe e nel Tristano e Isotta di Wagner. Il terzo tipo di amore è quello sentimentale, che edulcora e fa vivere come in un'aura spesso falsa di sogno: esempio di sentimentalismo assoluto è quello di Love Story di Erich Segal (che al suo apparire in Italia un filosofo definì in due parole: parolacce e lacrimucce).

Poi viene l'amore «vanitoso»: quello estetico, egoistico, pieno di compiacimento per se stesso, incurante dell'essere amato. Don Giovanni, affascinante e detestabile, Casanova, di cui colse la maschera «empia e funerea» Federico Fellini nel suo film omonimo. Nell'epoca dei social media, l'amore vanitoso deborda e trionfa nello sbandieramento e nell'esibizione continua di se stesso. C'è l'amore sbagliato, come quello di Anna Karenina, che nasce dal sacrificio e dall'illusione. C'è infine l'amore per l'amore, in cui l'amata diventa un pretesto per la glorificazione dell'Amore in sé e, forse, per la gratificazione di se stesso.

Troviamo anche nel libro pagine più improntate all'amore nella quotidianità dell'esistenza: riflessioni sulla famiglia (che bisogna dirlo, da Montaigne, Proust e Balzac sino a tantissimi altri grandi autori, non gode di buona fama nella letteratura), la proposta di un «test d'ingresso» nel matrimonio per giovani studenti, in cui Zecchi attinge con un certo humour alla sua esperienza di docente universitario alle prese con le nozze e i divorzi dei propri studenti, una «fenomenologia» dei momenti chiave dell'amore quotidiano, il colpo di fulmine, il primo bacio, l'attesa, la telefonata, l'appuntamento. Non mancano analisi storiche e sociologiche che seguono l'evolversi dell'amore verso la libertà da ogni vincolo e da ogni condizionamento sociale, che inizia dal processo di urbanizzazione industriale delle masse contadine e trionfa nel nostro tempo.

Molto interessante leggere nella corrispondenza di Lenin con Clara Zetkin la preoccupazione del capo comunista per l'anarchico desiderio sessuale esploso tra i giovani rivoluzionari. Ci penserà Stalin a far sbollire gli ardori. Come il clima libertario e licenzioso creatosi nella repubblica di Weimar sarà cancellato da Hitler. E allora se è vero che i totalitarismi reprimono l'eros, come la mettiamo con la rivoluzione sessuale, il fenomeno più impressionante e apocalittico della nostra giovinezza? Zecchi cita Reich, Marcuse, Deleuze, Guattari e vede quella rivoluzione fallita nelle sue intenzioni liberatorie e ridotta oggi a un mercato del sesso, dove pillola contraccettiva e citrato di sildenafil, comunemente chiamato Viagra, fanno la parte del leone. Se da un lato non si può non cogliere questa condizione attuale di degradazione, di mercificazione, l'espressione panica e cosmica del sesso, almeno come ne scrive D.H. Lawrence, ne rimane un grande meraviglioso antidoto.

Alla fine, il discorso sull'amore si salda immancabilmente con quello sulla bellezza, di cui Zecchi è stato il maggior teorico negli ultimi decenni. Scrive: «Se l'arte viene spogliata dalla sua magia di raccontare l'indicibile ciò che la normalità dell'espressione non sarà mai in grado di dire - essa non significa più niente». È così, anche se molti non lo vogliono capire. L'arte e la bellezza vogliono significare, raccontare, avere una storia. Proprio come l'amore.

L’arte di amare è tutto. O quasi. Come solo i veri scrittori sanno fare, Kureishi ha parlato con estrema semplicità e sincerità: utilizzando parole capaci di arrivare a tutti, ovvero ciò che le parole vere sanno e devono saper fare. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Luglio 2022

Grazie alla segnalazione di un’amica ho potuto seguire un dialogo su Instagram organizzato da Vogue Italia avente ospite lo scrittore anglo pakistano Hanif Kureishi.

Tema della conversazione era l’amore: l’amore «tout court», l’amore per come è e per come sta cambiando, per i suoi margini di possibilità, sopravvivenza, resilienza. Come solo i veri scrittori sanno fare, Kureishi ha parlato con estrema semplicità e sincerità: utilizzando parole capaci di arrivare a tutti, ovvero ciò che le parole vere sanno e devono saper fare.

Della conversazione ho trattenuto due passaggi, intensi per come hanno riecheggiato in me. Una considerazione di Kureishi: si parla sempre di amore romantico, ma mai delle relazioni, della loro consistenza, realtà, durata. Già, cosa sono i rapporti d’amore, di cosa si compongono? Della bellezza e dell’incanto dell’aver trovato una compagnia nella vita: qualcuno con il quale sia bello stare, commentare, chiacchierare, tacere. Conversare e stare bene insieme è il presupposto più sano e duraturo di ogni relazione d’amore.

Può risuonare ovvio, si tratta invece di una verità profonda sulla quale è prezioso portare l’attenzione. Seduzioni, passioni, innamoramenti folli, clamorose rotture, inspiegabili silenzi. Dell’amore tutto si dice, tranne che di ciò che davvero lo cementa: la bellezza del farsi compagnia.

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Titolava i suoi racconti un altro grande scrittore, Raymond Carver. E prima di lui un poeta, Auden, poneva stessa questione in forma di versi, La verità, vi prego, sull’amore. L’amore per antonomasia sfugge a qualsiasi definizione, e tuttavia, tra i tanti suoi sinonimi virtuosi c’è questo, solo agli occhi dei superficiali dimesso e malinconico: «farsi compagnia».

Parlare o tacere insieme, come che sia essere l’uno per l’altro «compagni», insieme commentando la vita e il mondo e in generale divertendosi moltissimo a chiacchierare. Nella durata, la cosa più bella che l’amore regali è proprio questa: ne abbiamo avuta chiara immagine giorni fa, nelle fotografie di una gita di due anziani coniugi sardi andati su una barca a vedere per la prima volta il mare, ultranovantenni con tanti figli e nipoti e pronipoti che la meraviglia della immensità del mare vivendo nell’entroterra ancora non l’avevano mai provata.

La loro emozione, quel calmo, sicuro starsi accanto, ognuno con il proprio sguardo, con la sua visione.

Non c’è niente di più bello del trovare e vivere accanto a una persona con la quale ci si trova benissimo a parlare, ha ribadito Kureishi. Subito poi la sua brillante intervistatrice, Chiara Stangalino, gli ha chiesto perché l’amore non si insegni nelle scuole. Qui anche, ragione da vendere.

Già: perché mai analogamente alle già esistenti ore di educazione civica, non ve ne sono altre di educazione amorosa? Ce ne sarebbe un tale bisogno. Parlare d’amore, senza troppo dannarsi o arenarsi sull’idea della sua congenita assenza di definizioni. Invece dirlo, argomentarlo, cercarne declinazioni e definizioni nuove, adatte a questi tempi difficili e di sì scarsa cultura amorosa. Trovarne esempi nella letteratura, nel cinema, nell’arte, nell’antropologia sociale. L’amore manca e poco se ne cercano le parole. Piuttosto se ne sente parlare secondo formule trite, scontate, se ne leggono qua e là (sulla stampa peggio che sui libri) definizioni monche, vittime del luogo comune per cui dell’amore nono si può dire niente – o arriva, e lo si vive, e lo si fa, altrimenti meglio star zitti non rischiando di cadere nel banale. Lezioni d’amore, dialoghi d’amore, educazione sentimentale, riflessione condivisa sulle relazioni.

Nelle scuole, nelle Università, in altri contesti collettivi dove sia possibile ragionare insieme. Senza timore di passare per ingenui. «Alla sera della vita verrai giudicato sull’amore» poetava Juan De La Cruz. Gira gira, l’arte di amare è tutto. O quasi.

·        Sesso o amore?

Tracey Cox per dailymail.co.uk il 31 agosto 2022.

Dovremmo aspettare i fuochi d’artificio per tutta la vita o avere una relazione con una persona con cui stare in buona compagnia? 

Sono stata a lungo una sostenitrice del dare la possibilità a relazioni "non del tutto perfette ma con potenziale". Troppo spesso, il "fulmine" dell'amore si scopre essere solo lussuria e aspettare di trovare "The One" o “Mr o Miss Perfect” potrebbe rivelarsi frustrante e, soprattutto, potrebbe non arrivare mai. 

D'altra parte, conoscere qualcuno che sembra normale e gentile - e scoprire che in realtà è un ottimo padre/madre affidabile - potrebbe essere ciò che alla fine stai cercando. Vero amore.

Abbastanza simile è abbastanza buono

Le persone che sposano la loro "seconda scelta" - qualcuno che inizialmente pensavano significasse "sistemarsi" - è più comune di quanto si pensi. Uno studio del 2020 sugli inglesi ha rilevato che il 41% degli adulti si è trovato in una relazione con qualcuno che inizialmente non pensava fosse "The One". 

I ricercatori hanno concluso che questo indica un'accettazione da parte delle persone che le cose non possono essere sempre perfette. Non sempre la relazione con “la prima scelta” va bene, ma questo non vuol dire che il mondo è finito. Spesso la seconda scelta potrebbe renderti ancora più felice di prima.

Come mai? Perché ci sono molte persone che possono renderci felici. Non importa quanto tu abbia amato quella persona, la probabilità per la maggior parte di noi è che ce ne sarà un'altra che ameremo altrettanto. 

Il concetto di "The One" è per i bambini di 10 anni che credono ancora in Babbo Natale. È infantile, immaturo ed estremamente inutile. Sebbene sia un ottimo cliché per una commedia romantica, le possibilità che un momento magico si trasformi in un matrimonio solido e di lunga durata è inferiore a zero.

Hai bisogno di qualcosa di più dell'amore per essere felice

Essere innamorati non garantisce che una relazione funzionerà. Una forte connessione e una chimica sono fantastici blocchi di partenza, ma hai bisogno di più per costruire una relazione.

Cose noiose ma importanti. Aiuta essere più o meno allo stesso livello intellettualmente. Aiuta ancora di più se i tuoi stili di comunicazione funzionano bene insieme e il tuo desiderio di sesso è simile. Tua madre lo sapeva bene quando ti ha consigliato di sposare l'uomo della porta accanto: è una buona notizia se vieni dalla stessa estrazione sociale e condividi gli stessi valori morali e credenze religiose.

Avere gli stessi atteggiamenti nei confronti del denaro, andare d'accordo con gli amici e le famiglie dell'altro, concordare se avere figli: tutte queste cose possono creare un rapporto o distruggerlo.

Il rispetto reciproco, la capacità di lavorare in squadra… potrei andare avanti all'infinito. 

Tutte queste cose sono molto più importanti che sentire una scintilla. Certo, devi essere fisicamente attratto dal tuo partner, ma il sesso e l'amore – le cose che la maggior parte delle persone pensa siano gli ingredienti chiave per una relazione felice e di successo – non sono sufficienti da soli. 

Il lieto fine è obsoleto

Il lieto fine è un concetto da favola che è irrimediabilmente obsoleto. Buttalo via e questo allevierà la pressione. Invece di cercare una persona che amerai da ora a per sempre, cerca qualcuno che fa per te in questo momento. Questa è la differenza tra 'The One' e 'The love of your life'.

La prima convinzione è pericolosa. C'è solo una persona là fuori per te: spreca quell'occasione e sei destinato a rimanere solo e infelice per sempre. Il secondo riconosce che ci sono alcune persone che amiamo con le quali ci sentiamo disperatamente, beatamente felici. Ma se ciò dovesse finire per qualsiasi motivo, ci sono anche altri che potrebbero renderci felici. Non è un pensiero più confortante? 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 30 luglio 2022.

Innamorarsi è una delle esperienze più mistiche e magiche della vita. È così meraviglioso che circa il 3-10% della popolazione ne è dipendente. Sì, la dipendenza dall’amore esiste. E anche se suona innocua, non lo è affatto. Volete scoprire se voi o il vostro partner ricadete in questa categoria? Ecco nove indizi per aiutarvi a scoprirlo. 

Sono più interessati all'innamoramento che all'amore 

Molte persone sosterrebbero che innamorarsi è un'esperienza estremamente piacevole. Ma c'è del fascino anche nel ritmo meno eccitante e più pacifico di una relazione sana e consolidata. La corsa edonistica del nuovo è fantastica, ma siamo realistici: sappiamo che svanisce man mano che la relazione progredisce dall'infatuazione a un amore "più vero". La fase dell'amore è ciò a cui aspirano la maggior parte delle persone. Sapere che il tuo partner ti vede chiaramente - con i tuoi difetti e con i tuoi pregi - e ti ama comunque è il massimo.

Ma non per i drogati d'amore. Nel momento in cui lo sballo emotivo inizia a diminuire, si fanno prendere dal panico, credendo che questo significhi che la relazione non è giusta per loro. «So sempre quando è ora di lasciare. Se il mio cuore non batte quando la vedo per la prima volta, significa che ho scelto male», mi ha detto un drogato di 24 anni. 

Trovare “L’Unico e il Solo” è lo scopo più importante della vita 

Tutto il tempo e l'energia dei drogati di amore sono dedicate alla ricerca di quell'unico “amore” magico: quasi tutte le loro scelte di vita si basano sulla ricerca della relazione perfetta. Il luogo dove vivono (ci sono tanti single), cosa scelgono di studiare all'università (il corso con i partner più papabili), l’azienda dove lavorare (un lavoro che li espone alle persone più disponibili), i loro hobby (un corso di meccanico di auto perché sarà pieno di uomini, lezioni di yoga perché ci sono principalmente donne), gli amici (la persona che ha tre fratelli o sorelle non sposati). 

Questo è il quadro. E non sorprende… 

Faranno di tutto per conquistarti

All'inizio, i dipendenti dall’amore sembrano essere il partner che hai aspettato per tutta la vita. Nel disperato tentativo di compiacere, faranno finta di essere interessati a cose che sono lontane da loro anni luce, solo per presentarsi come il tuo alter ego perfetto. 

I tossicodipendenti tradiranno felicemente tutta la loro morale, se ciò significa tenere vicino una persona che percepiscono come potenzialmente "L'Unico". Gli amici, la famiglia, il lavoro: tutto viene messo da parte. Rinunceranno alle loro credenze religiose o adotteranno le tue come proprie per compiacerti. I vegani diventeranno carnivori, i pro-vaxer improvvisamente anti-vax, gli attivisti per i diritti degli animali decideranno che le pellicce vanno bene dopo tutto.

Desiderosi di ottenere la conferma che provi lo stesso sentimento, portano avanti rapidamente le relazioni, volendo dimostrare il loro amore e mantenere alta l'eccitazione. 

«Mi ha detto che ci saremmo sposati al primo appuntamento. Ho ricevuto fiori al lavoro, mi ha portato fuori nei fine settimana. Voleva pianificare ogni dettaglio della nostra vita insieme quando eravamo solo a tre settimane dall'inizio della relazione». Questa donna era appena sfuggita a una relazione particolarmente tossica iniziata in modo favoloso. 

Ed è quello che succede di solito quando l'ossessione prende il sopravvento. 

Sono ossessionati dalla persona

Chiunque abbia visto "You" su Netflix sa come va a finire: è difficile sfuggire ai tossicodipendenti. 

Se non telefonano, mandano messaggi o non si presentano senza essere invitati ovunque tu sia, stanno fantasticando su come sarà la vita con te. Riproducono nella loro testa riunioni o conversazioni passate, alla ricerca di conferme che il tuo sentimento è simile al loro, leggono e rileggono testi o e-mail più e più volte. 

Costantemente ansiosi di essere lasciati, diventano sospettosi e gelosi di chiunque altro osi attirare la tua attenzione. Non riescono a smettere di pensare a te perché il loro partner è l'unica cosa che li fa sentire bene nella vita. «Il pensiero di vivere senza di lui era inimmaginabile. Non potevo sopportare di pensarci. Le discussioni, i suoi tradimenti, i continui cambiamenti d'umore, niente di tutto ciò importava. Avrei sopportato qualsiasi cosa per stare con lui», mi ha detto una donna. 

Sono co-dipendenti

Chiunque abbia sentito parlare del termine "co-dipendente" penserà che la co-dipendenza e la dipendenza dall'amore sono amici intimi. Le persone co-dipendenti, per chi non lo sapesse, non sono in grado di essere autosufficienti o di cavarsela da sole. Sono parzialmente o completamente dipendenti dal loro partner. 

Tutti i tossicodipendenti sono co-dipendenti in misura estrema: è un precursore della dipendenza. «Voleva il mio contributo su tutto, da cosa indossare quel giorno fino al numero di sacchetti da portare con sé quando portava a spasso il cane», mi ha detto un uomo. «Aveva bisogno, minuto dopo minuto, ora dopo ora, di rassicurazioni sul fatto che amassi più lei di chiunque altra avessi mai incontrato prima. È stato estenuante». 

La loro scelta nei partner è spesso spaventosa

Poiché i dipendenti dall'amore vedono l'amore come una "ricerca dell'anima", considerazioni pratiche come avere una moglie o un marito o un problema di abuso palesemente ovvio vengono liquidati come semantica. Di conseguenza, spesso finiscono con persone che sono già impegnate con qualcun altro o eliminano un problema evidente come l'alcol o la tossicodipendenza. 

Poiché il loro sentimento di "vero amore" è qualcosa ordinato da poteri superiori, trovano difficile lasciare relazioni malsane o abusive, aggrappandosi alla convinzione che il loro amore alla fine curerà la persona.

I tossicodipendenti spesso tornano da ex che li hanno feriti profondamente, nonostante abbiano promesso ai loro cari che non l'avrebbero fatto. «Non avevo intenzione di innamorarmi di lui», ha affermato una tossicodipendente di 54 anni, dopo aver avuto una relazione con il suo terzo uomo sposato in due anni. «Se le tue anime si connettono, sei destinato a stare insieme. Sarà molto più felice con me che con lei. È destino». Ma c'è un rovescio della medaglia.

Non possono tollerare alcuna imperfezione

Mentre alcuni dipendenti dall'amore si aggrappano fino alla fine al partner, la maggior parte ha relazioni di breve durata. Una volta che la lucentezza svanisce e la persona reale si svela con i suoi difetti, molti amanti dell'amore vogliono uscire dalla relazione. Le loro relazioni raramente superano alcuni mesi perché una volta che l'amore e gli ormoni sessuali svaniscono, non sono più interessati. 

L'idea che dovresti "lavorare a una relazione" è incomprensibile per loro. Se sei con il tuo vero amore, è destino! Tutto andrà magicamente a posto. La tua vita sarà come una favola in cui i personaggi si baciano e vivranno felici e contenti. 

Il conflitto non può esistere. I tuoi suoceri fastidiosi, amici esigenti, un lavoro che li priva del tempo con te: nessuna di queste intrusioni nella vita reale che ha un impatto su tutte le relazioni può avere un impatto sulle loro.

Questo è ciò che mi ha detto una giovane innamorata quando le ho chiesto come fosse finita la sua ultima relazione. «Pensavo davvero che fosse la mia persona. Abbiamo parlato di avere figli insieme e andare a convivere. È stata sua madre a rovinare tutto. Mi odiava e lui non mi difendeva abbastanza. Non sono al secondo posto per nessuna donna». 

Si arrabbiano quando li lasci. 

Quando l'infatuazione svanisce, i tossicodipendenti si sentono ingannati, arrabbiati perché la relazione non è stata all'altezza delle aspettative. Sono irritabili, iniziano a distaccarsi, diventano critici e distanti e se ne vanno. Questo non è amore! L'amore non include dover scendere a compromessi o sopportare di fare cose che non si vogliono fare!

I tossicodipendenti pensano che l'amore sia eccitazione sessuale e romantica. Non hanno idea che impegno, tolleranza e buone capacità comunicative siano ciò che forgia relazioni davvero profonde. 

Se TU osi rompere con LORO, prima che siano pronti, sono capaci di pensare che vivere sia inutile. La maggior parte dei tossicodipendenti, tuttavia, raramente crogiola nella disperazione. Di solito passano molto rapidamente al loro prossimo partner, desiderosi di altre emozioni. 

Quando non sono innamorati, sono disperatamente infelici

Ma non sempre. Se scoprono che l’amore richieda molto tempo per essere trovato, iniziano a sentirsi disperatamente infelici. I tossicodipendenti, ovviamente, non hanno molta autostima. Lo scopo principale di trovare questa relazione perfetta è sentirsi "completi", "interi". 

Odiano stare da soli perché non si amano e non si sentono a proprio agio con la propria compagnia. Alcuni tossicodipendenti useranno il sesso per riempire la solitudine, collegandosi con estranei per ottenere almeno uno sballo fisico.

Non sorprende che la dipendenza dall'amore possa manifestarsi in due modi: ossessione o evasione. I tossicodipendenti ossessivi perseguono l'amore, pensando che gli impedirà di sentirsi male con loro stessi. I tossicodipendenti evasivi evitano a tutti i costi l'intimità emotiva. Il dolore di un'altra relazione "fallita" supera la speranza di trovarne una. 

Aiuto! Questo sono io! 

Non farti prendere dal panico se stai leggendo questo e stai pensando: «Oh mio Dio ho fatto questo – e quello – e quello!». L'amore a volte ci fa impazzire temporaneamente, specialmente all'inizio. La cosa fondamentale da chiedersi è questa: sei così in tutte le tue relazioni sentimentali? O ti lasci un po' trasportare di tanto in tanto?

La dipendenza dall'amore è un modello, non una tantum.

·        Gli orecchini.

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 9 gennaio 2022.

Ci sarà sempre qualcosa che luccica su una delle orecchie di Terence Ho. Lo studente universitario londinese di 21 anni, che sta per iniziare un lavoro presso la società di contabilità KPMG, indossa orecchini in argento sterling del gioielliere londinese Alan Crocetti sia alle feste che alle lezioni. Li fa scivolare sulla sua cartilagine inferiore o superiore, dove pendono come mini lampadari incrostati di pietre preziose.  

I suoi compagni di università sono entusiasti. Un gran numero di loro decora i lobi con conchiglie (al centro dell'orecchio) ed eliche (sulla cartilagine esterna dell'orecchio) con cerchi, borchie e ciondoli simili a quelli indossati dai pirati. «La gente non vede questi come... un segnale di una certa sessualità», ha detto Ho, i cui amici maschi etero e gay hanno abbracciato orecchini di dichiarazione. Sono «solo qualcosa di bello da indossare».

Un numero crescente di giovani condivide questo punto di vista. La star dei BTS Jungkook sfoggia una serie di cerchi d'argento. Evan Mock, lo skateboarder professionista e star di "Gossip Girl", nella serie indossa una croce elicoidale d'oro oscillante. E al Met Gala del 2019, Harry Styles è stato memorabile come il Ragazzo con l'orecchino di perla. Secondo Lyst, una società che tiene traccia del comportamento degli acquirenti online, le ricerche di orecchini da uomo sono aumentate del 147% da gennaio 2021, con "orecchini a polsino" in aumento del 90% e "piercing a elica" in aumento del 303%. Anche le query "mono orecchino" sono popolari, il che fa pensare che a molti piaccia abbellire un solo orecchio. 

Gli uomini non sono nuovi agli orecchini. Ötzi, la mummia più antica d'Europa, vissuta oltre 5.000 anni fa, aveva entrambe le orecchie trafitte. Così fece il faraone adolescente Tutankhamon. Cerchi d'oro hanno oscillato dai lobi di William Shakespeare, da quelli di antichi soldati persiani e di marinai muscolosi, mentre gli orecchini di perle erano alla moda nell'Europa rinascimentale. Più di recente, hippy e punk degli anni '70 indossavano diversi piercing sull’orecchio e negli anni '90, i fan erano pazzi delle boy band con i loro anelli luccicanti e le borchie di diamanti.

Tuttavia, secondo Saisangeeth Daswani, che analizza la moda presso l'agenzia di previsione delle tendenze globale Stylus, il modo in cui gli uomini stanno ora sperimentando diversi stili di orecchini non ha precedenti, tanto da definirlo un fenomeno mainstream. Brian Keith Thompson, il proprietario dell'hotspot delle celebrità Body Electric Tattoo a Los Angeles, ha detto che nei suoi 15 anni come piercer, non ha mai visto ragazzi così avventurosi. In passato, ha detto il signor Thompson, gli uomini si perforavano solo i lobi. 

Ora i clienti tra i 20 e i 30 anni - imprenditori commerciali e "artisti" allo stesso modo - stanno abbracciando di tutto, dagli anelli a lobi impilati a pietre preziose pendenti dalle cartilagini fino alle borchie del trago (il trago è il lembo di cartilagine che copre il condotto uditivo). Sembra che gli avvocati, tuttavia, debbano ancora salire a bordo. «Gli avvocati che trafiggo devono tenerlo sul lobo dell'orecchio». 

Questa tendenza è in sintonia con l'allentamento dei codici di abbigliamento sul posto di lavoro che un tempo vietavano i piercing, ha affermato Lisa Bubbers, co-fondatrice della catena di piercing Studs con sede a New York. Ed è un'estensione naturale del recente abbraccio maschile della moda e degli accessori una volta visti come "femminili", come lo smalto per unghie e le perle.

Per molti, gli orecchini da uomo sono più audaci di altri accessori, in parte a causa della loro visibilità. «A meno che non indossi i paraorecchie, non puoi nascondere [gli orecchini]», ha detto Sammy Shawi, 28 anni, di Los Angeles. Indossa una costellazione di sette cerchi, catene e borchie sull'orecchio sinistro, ed è riluttante a rimuoverli, anche quando gioca a basket. «[Gli orecchini sono] qualcosa che le persone possono vedere istantaneamente all'altezza degli occhi», ha aggiunto il signor Ho, lo studente inglese. 

L'orecchino può essere difficile da realizzare. Come punto di partenza per i ragazzi più riservati, la signora Bubbers consiglia uno o due piercing al lobo mentre Taylor Okata, uno stilista di celebrità. suggerisce un piercing al lobo e all'elica nello stesso orecchio (e consiglia di attenersi ai classici puliti in argento sterling di base o oro giallo). 

Al signor Thompson, nel frattempo, piace che gli orecchini siano strategicamente sparsi, non impilati ordinatamente come gli anelli delle "tende da doccia", e sostiene che è meglio indossare pezzi sorprendenti a metà dell'orecchio e design più semplici altrove. Soprattutto, devi farti sentire a tuo agio. Puoi dire quando qualcuno sta sfoggiando un piercing «per prendere parte a una tendenza rispetto a quando lo apprezza personalmente», ha detto il signor Okata. «Dipende dall'atteggiamento: funziona per te o [l'orecchino] ti appesantisce?».

·        Il Pelo.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 13 agosto 2022.

Dakota Cooke è la nuova star di TikTok a stelle e strisce. L'influencer è una trentenne non binaria di Las Vegas e il suo profilo social @dakotasbeard è sempre più popolare. Il motivo? Ha deciso di non tagliarsi più la barba e adesso, finalmente, si sente «più sexy che mai». 

La storia di Dakota

Dakota ha notato per la prima volta una crescita anormale dei peli sul viso all’età di 13 anni e ha dovuto sempre radersi due volte al giorno. La sua infanzia è stata segnata da questa disavventura che la costringeva a tagliarsi la barba due volte al giorno e, così, ha fatto vari test e consultato molti medici per determinare il motivo della sua anomalia. 

Tuttavia, i medici le hanno detto che era dovuto a problemi ormonali: in pratica le sue ghiandole surrenali producono livelli eccessivi di testosterone. Ma la sua rivincita la sta avendo a 30 anni.

Dopo aver cercato di sembrare una donna impeccabile per diversi anni, Dakota ha finalmente deciso di accettarsi così com’è e ha smesso di radersi la barba. E adesso ha deciso di usare i social per diffondere positività sui difetti del corpo e, nel suo caso, sui peli sul viso. 

«Mi sento più sexy che mai»

«Quando ho raggiunto la pubertà a 13 anni, ho iniziato a vedere una peluria color pesca sul viso che poi è diventata più lunga e scura - racconta Dakota al Daily Mail -. 

Un amico di famiglia me lo ha fatto notare, poi il mio patrigno mi ha portato dai medici per fare i test, per poi portarmi dal parrucchiere dove ho fatto la mia prima ceretta in assoluto.

Era super scomodo e all’epoca non sapevo nemmeno radermi le gambe. Sono cresciuta in un periodo in cui le donne con i peli sul viso erano così stigmatizzate che le donne del salone mi dicevano che le ragazze non dovrebbero farsi crescere i peli del viso. Mi è rimasto impresso, perché per i successivi dieci anni sono semplicemente sprofondata in una spirale di vergogna in cui cercavo di nascondere la mia faccia nelle foto e facevo cerette ogni settimana». 

«Sono arrivata a un punto, quando ho cominciato uno dei miei primi lavori, che mi radevo la faccia due volte al giorno, una al mattino e poi durante la pausa perché i peli erano così visibili e stavo lavorando nel reparto trucco dove non era accettabile essere nient’altro che una donna stereotipata». Ma nel 2015 è arrivata la svolta: ha iniziato ad accettare il suo corpo e la sua barba facendola crescere senza più vergogna.

«Ero a una festa con la mia amica, Sunshine, 35 anni, e lei mi raccontava tutte queste meravigliose storie su com’era lavorare al circo, e ho adorato l’idea di tutto. Le ho detto ‘Vorrei potermi far crescere la barba e unirmi a te’, a cui lei ha risposto, ‘perché no?’. All’inizio avevo molta ansia per lo sguardo fisso delle persone, ma sono arrivato a un punto in cui ho deciso di non preoccuparmene più. 

La mia famiglia e i miei amici sono stati di grande supporto durante il mio viaggio di accettazione di me stessa e mi hanno persino comprato un cartello “non fot*ere con la signora barbuta” che adoro. Adesso mi sento più sexy che mai!».

«Anche i miei follower su TikTok sono stati fantastici e adoro rispondere alle loro domande, oltre a ricevere parole di supporto. Ho persino ricevuto i complimenti da uno dei miei eroi assoluti, John Waters, dopo essere andata a trovarlo a un evento dove firmava il suo libro truccato, vestito da donna e la barba folta. Mi ha detto che amava il mio look e che avevo bisogno di fare campagne pubblicitarie, che la mia faccia doveva essere ovunque.

Carmen Covito per “la Stampa” l'8 luglio 2022.

Tra la seconda e la terza stagione della serie televisiva The Umbrella Academy, l'attore Elliot Page aveva annunciato la sua transizione da donna a uomo, dichiarando di non voler più sentir parlare di Ellen Page, la vecchia identità di attrice con cui aveva vinto premi ed era stato candidato a un Oscar per la migliore interpretazione femminile. 

Eravamo perciò molto curiose di vedere che cosa sarebbe successo alla donna che interpretava nella serie, la supereroina tormentata, emarginata e un po' psicopatica Vanya Hargreeves, dotata di poteri così terribili da poter causare un paio di apocalissi nei diversi livelli temporali su cui lei e i suoi fratelli si inseguono cercando di salvare il mondo. Elliot avrebbe rinunciato a sostenere il ruolo? Vanya sarebbe stata eliminata dalla trama? Non è insolito che gli sceneggiatori di una serie debbano fare modifiche al volo quando un interprete non è più disponibile e nessun altro può sostituirlo.

In questi casi, il personaggio muore, o si trasferisce, o, come don Matteo/Terence Hill, può anche venire misteriosamente rapito. Vanya no. Con una puntigliosa intrusione della realtà nella finzione, Vanya diventa Viktor così come Ellen è diventata Elliot, pari pari. La cosa accade all'inizio della seconda puntata, gli altri personaggi restano un attimo interdetti ma si riprendono nel giro di pochi fotogrammi, tutti accettano la trasformazione senza fare domande e l'America progressista del politicamente corretto si concede un minuscolo trionfo nel bel mezzo della catastrofe dei diritti umani che, nel nostro livello temporale, minaccia di schiacciarla.

Peccato che l'emergere di Viktor sia letteralmente tirato per i capelli. Vediamo Vanya fermarsi davanti alla vetrina di un barbiere. La sua attenzione è attratta da una pubblicità che illustra diversi tagli maschili con lo slogan «Uno stile senza tempo per ogni situazione». Vanya entra nel negozio del barbiere.

Quando la rivediamo, è Viktor che si sta avvicinando ai fratelli per dichiarare di aver trovato finalmente la sua vera identità, ma per gli spettatori è uguale a prima: stesso abbigliamento unisex pantaloni e felpa su t-shirt, stessa faccia pulita senza un filo di trucco. L'unica e sola differenza sta nel fatto che i suoi capelli lunghi e lisci sono diventati un taglio corto con frangetta, del tipo che i parrucchieri chiamano «alla Cesare». 

Per carità, è normale che in un prodotto televisivo si ricorra a una sintesi visiva efficace. Non si poteva certo dare conto di tutto il lungo, complesso e spesso doloroso processo che accompagna nella realtà la riassegnazione di genere, tra somministrazioni di ormoni e interventi chirurgici. Fermarsi al look però rischia di far sembrare tutto troppo facile. E per giunta il segnale di virilità scelto da Umbrella Academy è clamorosamente fuori moda.

 Già nel 1977 Desmond Morris in un saggio sulla comunicazione non verbale intitolato L'uomo e i suoi gesti notava che la lunghezza dei capelli non fa parte dei segnali di identità sessuale della specie umana, ma va collocata piuttosto nella categoria dei «segnali inventati», destinati a cambiare nel corso della storia e nei meandri della geografia. I capelli corti non sono stati sempre segno di mascolinità.

Lo furono nel mondo romano, e guarda caso fu il romano Paolo a dichiarare nella Prima Lettera ai Corinzi (11:14-15) che «è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna». Evidentemente non conosceva l'aneddoto biblico di Sansone che viene privato della forza con l'astuto espediente di tagliargli i capelli. Altri uomini chiomati e zazzeruti avrebbero poi invaso l'antico impero (potete immaginare un Obelix senza le trecce?) ma è nel lontano Giappone che troviamo la più stretta analogia con quella che potremmo definire la sindrome di Sansone.

L'acconciatura tipica del samurai (anche nella versione da disoccupato, il rnin vagabondo senza padrone) prevedeva capelli abbastanza lunghi da poter essere raccolti in una crocchia (mage). Questa foggia era nata per imitazione dello stile degli uomini dell'aristocrazia di corte, che usavano la crocchia per tenere a posto i loro cappellini di crine, ma in battaglia il mage poteva offrire un appiglio al nemico (poi, una volta troncata la testa, era un comodo manico per trasportare il trofeo) e forse fu per questo che i samurai finirono per assegnargli un valore simbolico molto alto.

Lasciarsi tagliare la crocchia per il guerriero significava perdere l'onore, cioè la vita stessa.

Era una castrazione neanche tanto simbolica. È comprensibile quindi che ci siano state non poche resistenze quando nel 1871 il nuovo governo Meiji nello sforzo di modernizzare il Giappone emanò il cosiddetto «editto dei capelli corti» (iwayu danpatsurei), che pur non imponendolo permetteva ai cittadini di tagliarsi i capelli e vestirsi come preferivano. 

 Il taglio corto (zangiri) si affermò comunque in breve tempo, diventando sinonimo di modernità, a tal punto che nel teatro Kabuki le opere ambientate nella realtà quotidiana furono chiamate zangirimono. Alcune spettatrici ne furono così entusiaste da cominciare a copiare il taglio del loro attore preferito. 

Il governo intervenne con un nuovo decreto per proibire alle donne di accorciarsi le chiome, ma in pratica riuscì soltanto a ritardare di un mezzo secolo quello che successe negli Anni Venti del Novecento, in Giappone così come in Europa e in America, con i tagli alla maschietta delle moga giapponesi e delle flapper europee e americane.

Furono quelle nostre nonne e bisnonne scapestrate ad avviare una rivoluzione forse piccola ma niente affatto frivola, perché è merito loro se nell'universo che ci piace - purtroppo solo uno degli universi culturali esistenti - l'abbigliamento e la lunghezza dei capelli sono una scelta libera e non un'uniforme femminile o maschile a cui attenersi obbligatoriamente.

Da “Corpo e Cuore” - “Oggi” il 19 maggio 2022.

«Mia figlia è fissata con la depilazione totale, anche genitale, a 17 anni! Ho provato a dissuaderla, ma mi risponde che vivo nel medioevo e che è una scelta più igienica. Ci sono dei rischi?»

Silvana T., Vicenza 

Risposta di Alessandra Graziottin, Direttore del centro di ginecologia San Raffaele Resnati, Milano 

Gentile signora, sì, i rischi ci sono. Purtroppo minimizzati perché l’effettomoda&business, legato alla depilazione laser, ha creato un’aura di “normalità” nei confronti di un gesto, la depilazione, innaturale e negativo per la salute della vulva.

Togliendo i peli, con modalità temporanee o definitive, eliminiamo solo la parte più visibile dello scudo biologico, raffinato e dinamico, che protegge i genitali esterni femminili. Lo strato sottile e invisibile che protegge la vulva contiene miliardi di cellule desquamate, disposte a strati come tanti mattoncini. 

Interposti, come nella millefoglie, troviamo minime quantità di acqua, che dà il senso di idratazione, e sebo, fondamentale perché contiene feromoni. Sono sostanze sessualmente attraenti, uniche per ciascuna di noi come le impronte digitali, perché sono codificate dal nostro “sistema maggiore di istocompatibilità”. 

Il sistema immunitario codifica infatti i componenti chimici di quella nuvola invisibile di feromoni da cui dipende gran parte della nostra “visibilità” e attrattività erotica, finalizzata nei millenni a garantire il maggior successo riproduttivo, ossia l’avere bimbi vitali. Interposti sono anche miliardi di microrganismi amici, che costituiscono il microbiota vulvare, vere truppe alleate preposte a svolgere funzioni preziose, tra cui la nostra difesa da germi invasori.

Quando depiliamo la vulva, o la laviamo troppo, la priviamo del suo scudo protettivo biologico. Le conseguenze? Gli studi scientifici ci dicono che questa pratica aumenta la secchezza vulvare, ora lamentata anche da molte giovani depilate, raddoppia le infezioni da virus sessualmente trasmessi, come il Papillomavirus e l’Herpes, e da germi a provenienza intestinale, come l’Escherichia coli, che causano vaginiti e cistiti, e raddoppia la probabilità di dolore vulvare, la vulvodinia.

Inoltre, togliendo i feromoni specifici, si privano i genitali del profumo e dell’attrattività “unica” di quella donna. Il sesso può essere più divertente per lui, se la vulva è glabra, ma il prezzo è alto: una vulva vale l’altra, o quasi. Questa distruzione in nome dell’igiene merita una riflessione non conformista, giusto?

Da liberoquotidiano.it il 17 aprile 2022.

Le Iene tornano sul tema “peli”. Sono sempre più le donne che scelgono di lasciarli crescere senza ricorrere a cerette o depilazioni maniacali. Libere da ogni pregiudizio. È su questo tema che il programma di Canale 5 aveva costruito un servizio andato in onda qualche settimana fa, intervistando delle “attiviste”. Una di loro era Giorgia Soleri, la fidanzata di Damiano, leader dei Maneskin. “Questa è esattamente una polaroid della realtà in cui viviamo. È doloroso pensare che siamo ancora a dire che se alzo le ascelle e ho i peli e chiedo di essere accettata la gente ride” aveva dichiarato l’influencer.

Nella puntata di mercoledì 13 aprile, Le Iene ritornano su questo “argomento caldo” intervistando un’altra ragazza: l’attivista Maria Sofia, bullizzata in tv per i suoi peli. La 16enne è stata messa a confronto con tre personalità dirompenti come Vittorio Sgarbi, Vittorio Feltri e Giuseppe Cruciani. All’interno del servizio Alessandro Onnis, inviato del programma rivolge anche qualche domanda a Fiamma Sanò, giornalista e autrice esperta in temi femminili. Alla domanda del perché la donne si depilano lei risponde: “Per moda, per cultura, per politica oltre che per piacere”.

Maria Sofia prima di procedere con il confronto mostra i suoi tanto criticati peli a Onnis. Lei ne va orgogliosa e non se ne vergogna, come invece tanti altri le dicono di fare. Alla domanda a Vittorio Sgarbi: “Cosa pensi della depilazione femminile?” Lui risponde: “Non dovrebbe esistere. È una forma di perversione. Disboscare la fi** è una delle violenze più disumane”. Il critico d’arte si trova quindi d’accordo con l’attivista. “In realtà a una parte di maschi depravati è piaciuta la depilazione” continua Sgarbi: “Qualche fi** però può essere anche compatibile con la depilazione”. Per Maria Sofia depilarsi per piacere ad uomo è inaccettabile: “E’ triste” afferma.

A Giuseppe Cruciani quando viene chiesto: “Peli nelle gambe, uguale maschio, uguale schifo?” Replica: “Oggettivamente una donna con i peli sulle gambe capisco che possa essere respingente”. Ma la 16enne risponde: “Noi vediamo una donna con i peli brutta perché non possiamo concepire una donna in quel modo”. Cruciani aggiunge ancora: “Il patriarcato non c’entra assolutamente nulla. Associare questo termine è una follia.”

Le “attiviste dei peli” sostengono che depilarsi sia sinonimo di sottomissione ma Vittorio Feltri risponde: “A me sembra una stronz***”. E aggiunge: “Le donne si depilano perché vogliono apparire migliori di quanto già lo siano.” A fine intervista Maria Sofia confessa che cosa succede quando si mostra sui social con i peli in vista: “Non riesco a capacitarmi di come le persone si possano permettere di dire che sono una tro** pelosa o una scimmia. Esprimere questa cattiveria gratuita non credo sia utile.”

Da liberquotidiano.it il 28 aprile 2022.

Ormai è un appuntamento fisso, quello de Le Iene che indagano sul pelo delle donne: depilarsi oppure no? Il programma di Italia 1 ha mostrato come dietro alla scelta ci sia un vero e proprio scontro culturale, non soltanto estetico. Le donne che dicono "no" alla depilazione, infatti, rivendicano il loro diritto di non farlo e rimarcano come gli uomini non siano costretti a simile pratica onde incappare in pregiudizi o battute di dubbio gusto.

E così, ecco che nella puntata di mercoledì 27 aprile, si torna sulla vicenda. Nel servizio ecco parlare Malena, Taylor Mega e Selen, oltre a due attiviste che si dicono contrarissime alla depilazione. Una di queste ultime parla addirittura di "scelta politica" nel non depilarsi: tesi, ammettiamolo, piuttosto peculiare. Ma tant'è.

Al contrario, Taylor Mega su tutte, si dice favorevole alla depilazione. Anzi, non solo favorevole: spiega come a suo giudizio sia del tutto inconcepibile una donna con il pelo. Dunque la biondissima influencer spiega con dovizia di particolari di non avere pelo su nessuna, ma proprio nessuna, parte del corpo. E aggiunge di depilarsi al massimo ogni due giorni (oltre ad aggiungere che anche gli uomini che frequenta devono essere completamente depilati).

E nel servizio di Alessandro Onnis c'è un momento bollente, ad altissimo tasso erotico. Infatti, la Iena chiede a Malena di fornire una prova del fatto che anche le sue parti intime siano depilate. E lei, senza pensarci due volte, ecco che abbassa pericolosamente i pantaloncini, fino a mostrare la prova: già, del pelo non vi è traccia.

Da liberoquotidiano.it il 28 aprile 2022.

Le Iene tornano sul tema “peli”. Sono sempre più le donne che scelgono di lasciarli crescere senza ricorrere a cerette o depilazioni maniacali. Libere da ogni pregiudizio. È su questo tema che il programma di Canale 5 aveva costruito un servizio andato in onda qualche settimana fa, intervistando delle “attiviste”. Una di loro era Giorgia Soleri, la fidanzata di Damiano, leader dei Maneskin. “Questa è esattamente una polaroid della realtà in cui viviamo. È doloroso pensare che siamo ancora a dire che se alzo le ascelle e ho i peli e chiedo di essere accettata la gente ride” aveva dichiarato l’influencer.

Nella puntata di mercoledì 13 aprile, Le Iene ritornano su questo “argomento caldo” intervistando un’altra ragazza: l’attivista Maria Sofia, bullizzata in tv per i suoi peli. La 16enne è stata messa a confronto con tre personalità dirompenti come Vittorio Sgarbi, Vittorio Feltri e Giuseppe Cruciani. All’interno del servizio Alessandro Onnis, inviato del programma rivolge anche qualche domanda a Fiamma Sanò, giornalista e autrice esperta in temi femminili. Alla domanda del perché la donne si depilano lei risponde: “Per moda, per cultura, per politica oltre che per piacere”.

Maria Sofia prima di procedere con il confronto mostra i suoi tanto criticati peli a Onnis. Lei ne va orgogliosa e non se ne vergogna, come invece tanti altri le dicono di fare. Alla domanda a Vittorio Sgarbi: “Cosa pensi della depilazione femminile?” Lui risponde: “Non dovrebbe esistere. È una forma di perversione. Disboscare la fi** è una delle violenze più disumane”. Il critico d’arte si trova quindi d’accordo con l’attivista. “In realtà a una parte di maschi depravati è piaciuta la depilazione” continua Sgarbi: “Qualche fi** però può essere anche compatibile con la depilazione”. Per Maria Sofia depilarsi per piacere ad uomo è inaccettabile: “E’ triste” afferma.

A Giuseppe Cruciani quando viene chiesto: “Peli nelle gambe, uguale maschio, uguale schifo?” Replica: “Oggettivamente una donna con i peli sulle gambe capisco che possa essere respingente”. Ma la 16enne risponde: “Noi vediamo una donna con i peli brutta perché non possiamo concepire una donna in quel modo”. Cruciani aggiunge ancora: “Il patriarcato non c’entra assolutamente nulla. Associare questo termine è una follia.”

Le “attiviste dei peli” sostengono che depilarsi sia sinonimo di sottomissione ma Vittorio Feltri risponde: “A me sembra una stronz***”. E aggiunge: “Le donne si depilano perché vogliono apparire migliori di quanto già lo siano.” A fine intervista Maria Sofia confessa che cosa succede quando si mostra sui social con i peli in vista: “Non riesco a capacitarmi di come le persone si possano permettere di dire che sono una tro** pelosa o una scimmia. Esprimere questa cattiveria gratuita non credo sia utile.”

Pelo o non pelo? La lunga storia della depilazione dall'età della pietra ai giorni nostri. Michele Mereu su La Repubblica il 19 luglio 2021. Una pratica obbligatoria nelle battaglie preistoriche, oggi è diventata uno dei trattamenti di bellezza più richiesti dalle donne nei centri estetici. Dall'Antico Egitto, in cui i peli del corpo identificavano lo stato sociale, sino alle celeb che li "indossano" con orgoglio sui red carpet, come simbolo di accettazione. Ripercorriamo insieme l'evoluzione della depilazione nel corso dei secoli. Per qualcuno è una dichiarazione politica, per altri una semplice scelta estetica. Fatto sta che la depilazione si praticava già migliaia di anni fa. Dalle pietre rasoio rudimentali ai laser dei giorni nostri, ecco aneddoti e curiosità sulla lotta ai peli. Prima che la depilazione fosse utilizzata per scopi estetici, radersi i capelli durante l'età della pietra era una tattica di sopravvivenza, radersi infatti era una misura di sicurezza durante la battaglia, poiché avere una testa e un viso senza peli proteggeva dagli avversari che avrebbero potuto afferrare i guerrieri per capelli o la barba.

Dagospia il 27 giugno 2021. Da dailymail.co.uk. Ragazze, basta con quest’ossessione del pelo pubico. Passate più tempo a farvi toccare dall’estetista che dal vostro ragazzo. E non è vero che la vagina liscia liscia, come quella di una bambina, sia più igienica. D’altronde se i peli là sotto esistono ci sarà un motivo? Primo tra tutti, quello di proteggere la fessura più esposta e delicata del corpo di una donna. Sempre più ragazze optano per rasarsi in parte o del tutto i peli pubici, riportando la vagina al suo aspetto più infantile. Lo fanno prima del sesso, prima di una festa, dell’estate o di una visita dal medico, per sentirsi più fresche e pulite. Ma gli esperti mettono in guardia: la depilazione intima elimina lo strato protettivo della peluria e aumenta il rischio di contrarre infezioni e malattie sessualmente trasmissibili. A capo dello studio il dottor Benjamin Breyer, professore associato presso il dipartimento di urologia di San Francisco: “Crediamo che la ceretta all’inguine sia associata alla trasmissione di malattie e virus”. Più di 3.316 donne tra i 18 e i 65 anni hanno partecipato allo studio e l’84 per cento di queste era rasata. “La cosa più evidente dai risultati è che le donne si fanno la ceretta intima sulla base di numerose pressioni esterne che sono probabilmente aumentate negli ultimi dieci anni.” Il dottor Tami Rowen, dal reparto di ostetricia, ginecologia e scienze della riproduzione di San Francisco, commenta: “La depilazione è diventata un aspetto fondamentale per le donne del 21esimo secolo”. Tra queste, però vi sono però differenze demografiche sorprendenti. Le donne che si depilano di più hanno meno di 50 anni sono per lo più bianche e hanno frequentato l’università”.

Barbara Costa per Dagospia il 27 Febbraio 2022.

"F*ga pelosa", "F*ga peli lunghissimi", "Peli sedere donna", "Peli nell’ano donna", "F*ga peli bianchi", "Pelo sul seno": sapete cosa sono? Sono categorie porno di recente in netto balzo, e per questo motivo: il pelo tira, il pelo arrapa, e una f*ga senza è in ribasso, è superata! 

Il porno lo vuole lungo, e le porno f*ghe senza pelo se la passano male, e le brulle corrono… alla ricrescita! Chi è sveglio di porno se n’è giusto accorto, della rinascita del cespuglio, e di come sempre più attrici non presentino se non di rado una "compagna di lavoro" totalmente depilata. 

Riley Reid, 30enne pornostar americana, tra le più amate su Pornhub e co., guida la riscossa del pelo: lei è stata tra le prime a non depilarsela più, o meglio, a depilarsi le labbra intime per regalare nitidi "interni" alle telecamere, e il resto no, il resto sta lì, intatto, come mamma l’ha (pelosa) fatta.

Riley segue ciò che ricercano oggi i registi, ma non solo: Riley ha anticipato un trend che varie influencer si intestano dandogli spazio, richiamo, dibattito, accettabilità social e sociale: un corpo – anche peloso, vieppiù peloso – che non va dietro ad alcuna norma, perché ognuna – e ognuno – è libero di mostrarsi e di essere come vuole, e coi peli sul corpo, su tutto il corpo, o su una parte, e pur intima. 

Se i pornostar maschi non ci pensano a rinfoltire il loro pene (è inscalfibile fuori e dentro il porno la convinzione che un pene rasato sembri più grosso) si trovano ora a dover affondare pene e bocca e naso in sessi e ani ridiventati pelosi.

Gran parte del pubblico del porno apprezza, e non potrebbe essere altrimenti: il porno non pompa consumo di scene che non riscuotono views, cioè quattrini. E le f*ghe col pelo intercettano l’interesse delle nuove generazioni – sobillate dai social – e delle vecchie, il cui evidente peloso primo amore batte indefesso: e infatti sessi e ani e ascelle pelosi nel porno sono mica una novità, anzi. 

Se non sbaglia chi imputa al porno (e alle sue decennali esibizioni di sessi senza il minimo pelo) l’influenza su donne e uomini comuni, del porno spettatori e dal porno spinti a fare spietata guerra al pelo per apparire più belli e adeguati (e non sani, perché è il pelo che protegge il sesso da tante infezioni, non il contrario), è pure vero che il porno stesso ha dagli anni '90 in poi subito il fascino di ciò che la moda presentava.

Era quello il tempo in cui le top-model imperavano, la TV imperava, e sono state top-model e telefilm-cult quali "Baywatch" a rendere corpi e sessi e specie delle donne senza peli. 

Il porno degli inizi aveva  ani e sessi e ascelle – e gambe e petti maschili – pieni di peli. Graditissimi (anche se non so fino a che punto da attori e attrici che su quei sessi pelosi praticavano orali affondi: mai uno o più peli molesti finitigli in gola, strozzandoli?).

È però dagli anni '80 che nel pornostar maschio radersi è divenuto strumento di etero contrapposizione a un mondo gay avanzante e che con le star gay porno (e non) rivendicava diritto di esistere, anche esteticamente a suon di baffi e corpi villosi. 

Il porno ha virato per corpi e sessi glabri man mano che le inquadrature e gli strumenti di ripresa fornivano figure ultra definite, e modo e stile di recitare e girare progredivano, convintamente indirizzandosi verso il porno gonzo (solo sesso, solo coiti, e amplificati) e verso insistiti primi piani di sessi spalancati. 

Una progressione che non ha riguardato solo il porno girato: uno sguardo a riviste storiche quali "Penthouse" e si vede come i corpi (veri!!! senza fotoritocchi!!!) delle donne lì sublimate hanno perso il pelo, riguadagnandolo in quest’ultimo periodo. Chi invece sul pelo ha infinitamente puntato è "Hustler" di Larry Flynt: nel suo impero di riviste porno, "All Bush" è stato e sta lì, con le sue modelle pelose, nude e sensuali.

Studios porno come "ATKingdom" mai hanno smesso di girar porno irsuto: dopo profitti di nicchia, stanno attraversando più gloria, soprattutto per i pelosi porno serial "Scary Hairy". Un ramo del porno che il pelo mai ha tagliato, è l’amatorial: sorprende che qui le pelose più cercate siano granny, cioè donne in età con peluria bianca…? 

Curiosità: qual è il metodo di depilazione più usato dalle porno attrici? Il rasoio usa e getta! Le pornostar si depilano ogni giorno se devono glabre girare e usano rasoi usa e getta anche maschili, con saponi e schiume, e abbondanti oli pre e post depilazione che prevengono le minime irritazioni. 

Sono pochissime quelle ricorse alle depilazione definitiva del sesso (le quali credo abbiano come soluzione il trapianto di peli pubici, operazione indolore, e i peli trapiantati li prendono dalla testa) e sono poche quelle che usano creme depilatorie (troppe allergie) o cerette di qualsiasi tipo.

La ceretta al sesso per una pornostar non è agevole: per ottenere una pelle che più liscia non si può, bisogna che il pelo ricresca e abbastanza, e come e cosa fa nel frattempo? Se ci aggiungi che frequenti cerette sono causa di peli incarniti e brufoli e rossori, che non puoi certo presentare sui set… vai con la lametta! 

E poi ti può capitare un set con un regista che richiede un sesso glabro, dopo pochi giorni un altro che invece lo vuole peloso: se hai fatto la ceretta, come fai, vai di parrucca pubica?!? (la quale poi esiste, si chiama merkin, e ha pure sfilato in passerella a New York).

Se il pelo nel porno torna in auge, non spinge però le pornostar e nessuna donna a rendersi sciatta là sotto: se una sforbiciatina ai peli più ribelli e inestetici è d’obbligo, lascio la parola a Riley Reid, che svela come fa lei, ad avere un cespuglio invitantissimo: “Uso burro di karitè, ma il mio segreto è gocce di olio di argan sui peli della mia f*ga. Il profumo che lascia è così delizioso che non esiste partner che non vorrà strofinarci faccia e lingua e bocca!”.

·        Le Tette.

Barbara Costa per Dagospia il 4 settembre 2022.

Hustler ci chiama tutti in causa: qual è oggi il seno più bello del porno? Nell’ultimo numero fa lo spoglio dei "Busty Beauties", e chi vince? 

Non c’è poppa che tenga: le tette più adorate, lumate, tette a cui non si resiste, e che fanno dalla più rosea trepidazione rizzare i peni, spruzzanti nelle mutande… sono quelle di Angela White! 

Uffaaa, sempre lei, ogni volta lei, non se ne può più! Va bene, sto esagerando, dei cocomeri di Angela White non se ne ha mai a sufficienza, schiacciano ogni confronto, competizioni che di sicuro non possono essere tacciate di maschilismo, perché la cara Angela è pure, è tanto, dalle donne prediletta, donne che delle sue tettone mica sono invidiose, al contrario, e bene se potessero vi affonderebbero bocca e lingua, e sì che ci starebbero, e ore!, a succhiarli, quei capezzoli, se non a strusciarcisi, petto a petto…!

Dietro a Angela, Hustler pone queste star del porno poppute e io, prima di rivelarvi i nomi, vi avverto che trattasi di bocce tutte naturali! Chissà perché hanno bocciato innesti mammari i più ragguardevoli, e comunque, ecco a voi gli altri tre posti, occupati dalle porno bocce di Angel Youngs, Nia Nacci, e Jenna Foxx. 

Volete la verità? A parte le zinne di Angelona White, e quelle di Nia Nacci, a me le altre arrivate… non piacciono! Non me ne piace la forma, i capezzoli, io che per i capezzoli non transigo e sono per la proporzione la più classica: a seno grande capezzolo piccolo, a seno piccolo capezzolo importante. Giusto? 

Ok, ok, non tutti sarete d’accordo con me, e legittimamente: il gusto senoso e capezzolato è di diritto personale, e va da sé che molti maschietti prediligono seni grandi magari per educazioni felliniane (sono sincera: a me la Tabaccaia non ha mai fatto né caldo né freddo, il mio clitoride a quel zinnoso prototipo è indifferente) o magari per feticismi lattofili più che comprensibili, o magari perché non han voglia di mettersi a far discussioni col proprio pene, il quale mira egotista a sfregarsi su e giù nell’incavo di due montagne lattee. Il mio seno pornografico preferito?

Negli ultimi tempi riempie le mie più riuscite masturbazioni il davanzale di Blake Blossom (dai, che le volete dire?) anche se le tette della diabolica Autumn Falls restano onanisticamente imbattibili, difatti il mio clitoride – che farci, comanda lui! – al solo scriverne il nome, all’istante si mette in allegria… 

Ma il sogno mammario più recondito del mio clitoride, sapete qual è? Lo so che tocco un totem, e però si va in festa davanti alle altere tette di una giovanissima Sophia Loren, il cui scatto proibito Hugh Hefner nei '50 rubò… ehmm… cioè, pagò, e non poco, per metterlo su Playboy. Scatto che sta in rete: ehi, non ditemi che non l’avete visto, non vi credo! 

Un rapido scrollo in chat, ed ecco come la pensano i pornomani italiani in fatto di porno tette: i tettofili nostrani sono esigenti, e a tette patriottici e nostalgici: vince lei, Selen! È lei la più citata, indimenticata, e le sue tette sono le migliori su cui fantasticare – e s*gare – docce di sperma e olimpiadi di spagnole.

I tettofili del porno sono attenti alla forma dei capezzoli delle loro beniamine e a singolarità quali nei e tatuaggi: per questo, nell’universo delle poppe, trovano modo di spiccare le tettine di Lola Fae, le quali sono sì minuscole, e però ingemmate da capezzoli tatuati a cuore. 

Signori p*pparoli, mettetevi d’accordo: perché se da una parte sbrodolate per le sisone – stuzzicantissime – di Bonnie Rotten, la regina dello squirting, dall’altra vi imbronciate del suo corpo e del suo look aggressivo, simboleggiato dalle due grosse ragnatele a ghirlanda dei suoi seni?

Peccano di invadenza epidermica, o vi mettono fastidiosa soggezione? E c’è gente che premia i seni di Anissa Kate, e complimenti, e altra che proprio non si sposta e vuole fortissimo vuole rimanere incastrata, imprigionata, tra la prodigiosa sesta di Roberta Gemma…

Dagotraduzione dal Sun il 17 aprile 2022.

Tre aspiranti Barbie che hanno speso decine di migliaia di euro per aumentare la taglia del seno ora sembrano irriconoscibili dopo aver rivelato il loro nuovo aspetto. 

Le loro trasformazioni sono costate loro una piccola fortuna, avendo speso un totale di 36.000 euro. Amber, Yvonne, Cathy e Neyleen credono che non ci sia niente di troppo grande quando si tratta di tette – e qui spiegano perché. 

La modella Yvonne Bar, 26 anni, di Francoforte, in Germania, una volta si è lamentata di non riuscire a trovare un fidanzato perché i suoi seni erano troppo grandi. Ora, è andata così tante volte sotto i ferri che non riesce a vedere le dita dei piedi e deve dormire con un reggiseno sportivo. L'ex banchiera di investimento ha speso 70.000 euro in diverse procedure cosmetiche nel corso degli anni. Crescendo, si sentiva insicura riguardo al suo corpo ed è stata vittima di bullismo per il suo aspetto, con le persone che la chiamavano "maschiaccio" o "bastone con i capezzoli".

Ma dal 2013, Yvonne ha subito quattro ingrandimenti del seno, un lifting brasiliano, liposuzione e filler alle labbra, così come al mento. E di recente è tornata al tavolo operatorio per farsi una coppa taglia H. 

Ma nonostante ami il suo aspetto, ci sono sfide quotidiane che deve affrontare con un petto così grande. «Non riesco a vedere le dita dei piedi quando guardo in basso», ha detto Yvonne. 

«Alcuni compiti sono difficili, soprattutto se mi richiedono di muovermi molto o velocemente. A volte mi fa male il collo perché i miei impianti sono molto pesanti. Indosso un reggiseno sportivo principalmente durante il giorno e sempre di notte per il supporto». 

Amber May, una "tossicodipendente" di chirurgia plastica che ha speso 84.000 euro in diverse procedure, fatica ad allacciarsi le scarpe per via del suo seno. La 23enne del Leicestershire è stata in missione per anni per realizzare il corpo sinuoso dei suoi sogni ed è stata sotto i ferri otto volte.

La modella ha avuto più operazioni di seno, sollevamenti di testa brasiliani (BBL), due interventi di rinoplastica, un ciclo di rimozione del grasso buccale, tre cicli di liposuzione di tutto il corpo e ha avuto riempitivi facciali e interventi ai denti. 

Ad oggi, Amber ha speso 36.000 euro per il suo seno e dice che vuole continuare a sottoporsi a interventi chirurgici a tempo indeterminato. «Mi piace sembrare falsa», ha detto. «Mi piace avere un aspetto diverso, aspetto ogni intervento chirurgico con ansia, è come un hobby, per adesso ne ho fatti otto».  «Direi che ne sono dipendente, non sono mai nervosa il giorno dell’operazione, ma eccitata». 

Cathy lavora a tempo pieno come cam girl e modella e ha aumentato le dimensioni del suo seno quattro volte. L'obiettivo della 30enne è diventare «perfetta come Barbie». 

Ha iniziato a trasformare il suo aspetto alcuni anni fa, volendo sembrare più «femminile» e «simile a una bambola» - e dice che farà di tutto per ottenere l'aspetto di una bambola vivente. Finora, la modella ha aumentato le sue dimensioni del seno da A a 80E, oltre a iniettarsi più volte l'acido ialuronico su labbra, guance, mento e mascella e un sistemare il naso. 

Ma prevede di sottoporsi ancora a numerosi interventi chirurgici nel prossimo futuro. «Ho cambiato il mio aspetto per sembrare più femminile, più simile a una bambola e per diventare perfetta come una bambola Barbie», ha detto. «Sì, sono dipendente dal perfezionismo della femminilità. Alcune cose ne valgono la pena».  

Neyleen Ashley, 33 anni, ha gli impianti di dimensioni legali più grandi negli Stati Uniti, ma la modella sta pianificando di rimuoverli dopo aver sofferto di dolorose emicranie e tensione alla schiena. L'influencer dei social media della Florida, negli Stati Uniti, è conosciuta online dai suoi 2,5 milioni di follower su Instagram (@neyleenashley) per la sua figura snella.

Tuttavia il suo aspetto ha avuto un prezzo elevato. «Ho sempre sofferto di orribili emicranie, ma sono peggiorate tre anni fa», ha detto Neyleen. 

«Quasi ogni giorno, la parte superiore delle spalle e i tendini sono in tensione e sembra che le mie spalle e il collo siano tesi. Le mie tette mi impediscono anche di correre e di fare esercizio. Ho intenzione di rimuovere completamente i miei impianti e di fare una brutta copia, o semplicemente di ottenere un impianto più piccolo». 

«Diversi medici mi hanno detto che sarà un intervento chirurgico importante, in cui avrò molte cicatrici e rimuoverò i tessuti».

·        Il Ritocchino.

La strana storia dei "Guinea Pig" e del pioniere della chirurgia plastica. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, un dottore venuto da lontano rese salva la vita e integro il morale dei suoi piloti spezzati. Uomini senza volto destinati a una vita solitaria per aver difeso il loro Paese. Tra loro scherzavano definendosi delle "cavie". Davide Bartoccini il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

C'è un buffo inno che uomini messi a dura prova dalla guerra e da una lunga degenza avevano composto per tirarsi su il morale, in attesa di potersi riguardare allo specchio senza tremare di terrore. Tra loro si chiamavano i "Guinea Pigs" - porcellini d'India, le cavie per eccellenza - ed erano i membri di un esclusivo tanto sfortunato club, in quanto tutti sottoposti alle pionieristiche cure di un dottore che avrebbe fatto la storia della chirurgia plastica: l'encomiabile Archibald Hector McIndoe. Un uomo che era arrivato dalla Nuova Zelanda e che sarebbe diventato "Sir" per i servigi resi alla corona ma soprattutto ai suoi "porcellini d'India" gravemente feriti in combattimento.

Quando il 3 settembre del 1940 il pilota e futuro scrittore Richard Hillary fu abbattuto dal suo "Ultimo avversario", mentre volava sul suo Spitfire per difendere i cieli d’Inghilterra in quella che Churchill avrebbe definito l'ora più buia, si ritrovò bruciato e sfinito a dondolare appeso al paracadute che aveva aperto per miracolo. La pelle gli pendeva a brandelli sul volto ustionato, e le dita erano diventate un tutt’uno con la pelle dei guanti da aviatore. Ammollo nel mare salato dove si era inabissato il suo aereo in fiamme, svenne pensando al suo destino e alla sua sfortuna nel non essere morto sul colpo. Perché era l’atroce destino dei giovani piloti da caccia quando non vincevano un duello: potevano morire o rimanere gravemente ustionati, perché le pallottole avversarie spesso colpivano il serbatoio dei loro aeroplani lasciando che le fiamme avvampassero in meno di un istante. Conoscere il loro destino, sapere che potevano ritrovarsi a essere uno delle centinaia di sfortunati che diventavano noti come gli "uomini senza volto" - ossia coloro che in seguito a quelle terrificanti ustioni rimanevano sfigurati al punto di non avere più alcun lineamento - li terrorizzava più di ogni altra cosa. Avrebbero trascorso un futuro privato dell'espressività. Di sorridere, o piangere. Sarebbero stati condannati forse a una vita solitaria, per il solo timore d'essere guardati, rifiutati, o addirittura di spaventare chi poteva imbattersi nella loro immagine.

Recuperato a un passo dall'oblio, Hillary, come altri prima e dopo di lui, si ritrovò ricoverato nel terzo reparto del Queen Victoria Hospital di East Grinstead, nel Sussex. Era là che venivano convogliati tutti i piloti della Royal Air Force che in quei giorni di battaglie aeree così forsennate, avevano subito le ferite e le ustioni più gravi. Era là che li attendeva il dottor McIndoe, nominato consulente di chirurgia plastica dal Ministero della Guerra nel 1938.

Nato nei sobborghi di Dunedin, nella lontana Nuova Zelanda, Archibald McIndoe, specialista in chirurgia, effettuava fino a quattro interventi chirurgici al giorno ed era contornato di uomini senza naso o senza mascella, con vistosi bendaggi, che spesso li facevano sembrare delle curiose "mummie" in pigiama da notte. Molti avevano moncherini, altri, più fortunati almeno a un primo sguardo, erano solo privi dei capelli - nonostante avessero appena festeggiato i loro vent’anni - e con una benda su un occhio. Tutti facevano parte di quello che sarebbe divenuto noto come il Guinea Pigs Club: perché erano le cavie della chirurgia (a volte solo pionieristica, a volte quasi sperimentale) di quel dottore che li osservava senza lasciar trasparire il minimo sgomento o imbarazzo dal suo sguardo gentile e rassicurante.

Le garze, l'acqua di mare e l'affetto per i "suoi ragazzi"

Dei 4500 piloti abbattuti durante la guerra, almeno 3.600 subirono ustioni del corpo: 700 di queste erano estremamente gravi e almeno 200 di loro rischiavano di rimanere completamente sfigurati. Per ogni paziente arrivato al suo reparto, McIndoe programmava un piano di ricostruzione ad hoc, senza seguire protocolli standard nel caso di ustioni e ricostruzioni. Così facendo, riuscì presto ad avere brillanti intuizioni e aggiornare tecniche e trattamenti. Ad esempio (e questo era il caso di pazienti come il succitato Hillary), McIndoe si rese conto dell’efficacia dei bagni salini nel processo di guarigione notando la differenza tra le ustioni presentante dai pazienti che erano stati recuperati dal mare e quelli che erano stati soccorsi a terra. Ritenendo obsoleta la cura delle ustioni impiegata durante la guerra, preferì mantenere tratti di pelle feriti e ustionati asciutti ma coperti da garza imbevuta di vaselina, in modo che non si attaccasse alle ferite, e abbandonò così la "terapia della coagulazione", che prevedeva l’uso dell’acido tannico, reputandola oltre che vecchia anche dolorosa. Essa impediva inoltre l’innesto cutaneo, oltre a causare, in alcuni casi, la cancrena e causando spesso la cecità a coloro che erano rimasti ustionati nella zona degli occhi. Eventualità molto comune nei piloti.

In media ogni paziente di McIndoe sarebbe stato sottoposto a un minimo di 10 fino a un massimo di 50 operazioni nel corso di tre lunghi anni. Al termine delle prime cure, tutte le tecniche della moderna chirurgia plastica venivano impiegate o sperimentate per ricostruire palpebre, labbra, guance, nasi, sopracciglia e orecchie. Lo stesso valeva per le ferite agli arti. È noto che il famoso asso da caccia Geoffrey Page - che rinforzava segretamente le dita ferite schiacciando una pallina di gomma che teneva nascosta sotto le coperte - subì ben 15 operazioni. Ottenuta la riabilitazione al volo in combattimento, giurò di abbattere un aereo nemico per ogni operazione subita riuscendo ad onorare il suo impegno.

Un lato importante della missione di McIndoe era il modo di prendersi cura di quelli che chiamava "i suoi ragazzi". Il dottore dava un grande peso alla riabilitazione e ricordava a tutto il personale medico quanto fosse importante supportare quei giovani piloti nel superamento del trauma psicologico che stavano vivendo. "Creare ordine dal caos e fare una faccia che non susciti pietà o orrore. In questo modo possiamo riportare un'anima perduta alla vita normale". Questo era l’impegno di McIndoe, che parlando dei suoi giovanotti in uniforme da pilota - gliela lasciava indossare a piacere, per non farli perdere d’animo - spesso ripeteva: "I loro corpi possano essere spezzati... ma il loro spirito no".

Porcellini d’India con le ali da pilota appuntate sul petto

Il Guinea Pigs Club venne fondato nel luglio 1941 dopo una serata di bagordi, dato che i piloti che erano finiti al terzo reparto avevano in dotazione radio, alcolici e una serie di svaghi per passare il tempo tra di loro alleviando la lunga degenza. Venne fissata una quota partecipativa da versare annualmente e le somme di denaro sarebbero servite anche ad aiutare economicamente i piloti che una volta congedati potevano trovarsi in difficoltà. Come tesoriere venne scelto pilota che aveva entrambe le gambe gravemente ustionate e ingessate. Il motivo? "Era senz’altro incapace di scappare con i fondi del club", dicevano i commilitoni.

Una delle principali sfide di McIndoe - tolto l’impegno ospedaliero puro e semplice - fu quella di cambiare le regole dalla Raf. Fra tutte, quella che era considerata la "regola dei 90 giorni": termine di tempo che stabiliva se un militare ferito fosse in grado o meno di tornare in servizio attivo. In caso contrario sarebbe stato dichiarato invalido e, dopo il congedo, avrebbe ricevuto una pensione piuttosto modesta, "basata su la gravità delle sue ferite". McIndoe spronò il Ministero della Guerra a riconsiderare questi limiti di tempo, dilatandoli in virtù delle operazioni e del tempo che necessitavano, e ottenendo che, in caso di impossibilità di ritornare al servizio attivo, il pilota avrebbe ricevuto come pensione il 100 per cento della sua paga precedente. Un caso raro, dato che l'80% dei pazienti venne riabilitato e tornò al servizio attivo. Molti addirittura in combattimento.

I pazienti rimasero molto tempo accanto al loro benvoluto medico, sviluppando un’amicizia profonda che in tutti i casi sopravvisse alla guerra e al ritorno alle proprie case. Il Guinea Pigs Club, infatti, era un piccolo club internazionale dove non erano escluse tensioni e piccole baruffe per la sola provenienza. Quando entravano in discussione tra loro, i giovani avieri erano soliti scambiarsi frasi come "Ti darei un cazzotto sul naso, se ancora ne avesti uno" e "e io te lo restituirei se solo avessi una mano per dartelo". Secondo i resoconti, potevano andare avanti così per tutta la giornata. Ma questo non faceva altro che rafforzare le tesi sostenute da McIndoe, e il suo impegno nella riabilitazione psicologica oltre che fisica di quei giovani inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi, americani che erano partiti volontari ancora prima di Pearl Harbor, francesi, cecoslovacchi e polacchi. Tutti ragazzi che avevano più o meno venti anni e avevano combattuto uno a fianco dell’altro, in aria come nella corsia d'ospedale.

Durante e dopo la guerra Archibald McIndoe, baronetto dal 1947, ottenne il plauso della comunità medica internazionale. Invitato spesso a conferenze in giro per il mondo, aprì uno studio privato di grande successo. Morì nel sonno all’età di 59 anni. Una morte dolce per un uomo gentile. Seppure troppo precoce per qualcuno che aveva saputo dare così tanto a quei pochi che passarono alla storia come i few. Membri di quell’esclusivo club di coraggiosi che brindarono fino alla fine dei loro giorni, riunendosi e cantando quel buffo inno in ricordo del loro medico curante. "Noi siamo l’esercito di McIndoe" gridavano, boccale di birra o bicchiere di sherry alla mano, "siamo i Guinea Pigs, con dermatosi e peduncoli, occhi di vetro, denti fini e parrucche, e quando avremo il nostro congedo grideremo con tutte le nostre forze: 'Per ardua ad astra'".

Martina Manfredi per repubblica.it il 14 novembre 2022.

Non è un caso se tra i diversi ideali estetici, a fare da scuola e avere più successo in tutto il mondo è stata la bellezza alla francese (e in particolare alla parigina). Dai primi decenni del Novecento in poi, la Francia si è conquistata il ruolo di patria dell’industria cosmetica e Parigi quello di capitale mondiale della bellezza: è qui che, complici le riviste femminili francesi, si è affermato il canone estetico - tuttora dominante - che vuole le donne slanciate e longilinee.

Per questo non deve sorprendere troppo che quello che oggi viene considerato come il più odiato degli inestetismi, ovvero la cellulite, sia proprio un’invenzione francese. L’ultimo a ricostruirne la storia è stato un video di Le Monde ripreso da Internazionale, che racconta come e perché una comunissima manifestazione cutanea - riguarda circa il 90% delle donne - è stata trasformata in un inestetismo. Di seguito la storia della cellulite in sei tappe. 

1. I secoli pre-grassofobia

Lo standard di bellezza femminile prima del Novecento era ben diverso da quello odierno: ce lo ricordano molte tele del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento - da Diana e Callisto di Pieter Paul Rubens alle donne nude dipinte da Francois Boucher e Gustave Courbet.

Nei loro quadri la cellulite viene celebrata come forma di bellezza, evidenziandola e ritraendola in primo piano. Oggi guardando questi dipinti siamo in grado di riconoscerla, ma all’epoca la cellulite non "esisteva": non era proprio un argomento, tanto che la parola è nata solo nella seconda metà dell’Ottocento. 

2. La prima definizione di cellulite

La parola "cellulite" compare per la prima volta in Francia precisamente nel 1873, nella dodicesima edizione del Dizionario di Medicina scritto dai medici Émile Littré e Charles-Philippe Robin. In particolare, i due dottori usano la parola cellulite per indicare "un’infiammazione del tessuto cellulare o laminare", senza mai fare riferimento all’adipe o al grasso o all’aspetto "buccia d’arancia". 

3. La nascita del problema della cellulite

Il periodo tra le due guerre mondiali, dagli anni Venti agli anni Quaranta del Novecento, è la culla del concetto di cellulite per come lo intendiamo oggi. È in questo periodo, infatti, che alcuni medici francesi cominciano a parlare di cellulite, in modo sempre più allarmista, associandola a delle formazioni di grasso sotto pelle, ed è in questo stesso periodo che la cellulite fa il salto dai libri di testo medici al lessico comune.

Il percorso non è lineare ed è frutto di una concatenazione di eventi: come spiega la tesi della professoressa Rossella Ghigi sulla storia della cellulite (la fonte più approfondita sull’argomento, usata anche dal video di Le Monde), bisogna considerare che in quest’epoca la scienza medica avanza tanto velocemente quanto l’espansione dell’industria della bellezza, a sua volta definita da rivoluzioni del costume e della società. 

4. Il ruolo delle riviste femminili

Nel periodo tra le due guerre, infatti, la donna diventa sempre più autonoma e centrale nella società e, mentre le mode del tempo invitano ad accorciare le gonne e andare in spiaggia con il costume da bagno, il corpo femminile viene sempre più analizzato (e criticato).

In questo, come ricorda Ghigi, le riviste femminili dell’epoca hanno un ruolo determinante: la lotta alla cellulite si trasforma da questione medica a estetica quando, nel 1933, il concetto di cellulite appare per la prima volta in un numero del magazine Votre Beauté. 

Visto che all’epoca cosce e glutei si mostravano pochissimo, la cellulite viene descritta come un problema che riguarda soprattutto la parte inferiore della gamba e la nuca, le parti più scoperte (complice anche la moda dei tagli di capelli à la garçonne, lanciata da Coco Chanel). Da questo momento in poi l’ossessione dilaga: sempre più lettrici chiedono consigli a riguardo e, nel disperato inseguimento del nuovo modello estetico longilineo, la lotta alla cellulite diventa universale. 

5. L'ossessione verso il grasso degli Anni Sessanta

Negli anni Sessanta la questione della cellulite ha ormai valicato la Francia e preso piede anche nel resto del mondo, America in primis. Vogue è il primo numero in lingua inglese a parlare di cellulite nel 1968 con l’articolo Cellulite: il grasso che non sei mai riuscita a perdere, dove una giovane donna racconta come è riuscita a sbarazzarsi della cellulite grazie a un mix di esercizio fisico, dieta, postura corretta e massaggio della pelle con uno speciale mattarello.

Di pari passo con l’ossessione verso la cellulite, infatti, si moltiplicano anche i rimedi per contrastarla: produttori cosmetici e saloni di bellezza intravedono fin da subito l’interesse commerciale e il mercato assiste a un boom di prodotti anticellulite (guaine, massaggiatori, impacchi, creme, trattamenti, fino agli attuali laser, ultrasuoni, onde d’urto, radiofrequenza, eccetera). 

6. La cellulite oggi: malattia o inestetismo?

Oggi la cellulite viene trattata dalla cosmetica e della medicina estetica come una malattia, ma sulle sue cure non c’è unanimità. Il video di Le Monde fa riferimento a uno studio francese del 2015 che sottolinea la dubbia efficacia di tutti gli attuali rimedi per la cellulite ("non esistono prove chiara dell’efficacia", si legge nelle conclusioni dello studio), salvando in parte il trattamento con le onde d’urto, capace di dare "alcuni benefici". Lo studio ricorda che la cellulite non è una malattia propriamente detta, ma su questo molti dermatologi non sono d'accordo.

"La cellulite è una vera e propria patologia, identificata in medicina con il nome scientifico di panniculopatia edemato fibro sclerotica (PEFS)", ci dice la dottoressa Valentina Amadu, medico chirurgo specialista in dermatologia e venereologia. Che cos'è esattamente la cellulite? 

"La cellulite è un’infiammazione del tessuto sottocutaneo che di riflesso coinvolge anche l'epidermide e il derma. L'aspetto cosiddetto 'buccia d’arancia' non è una patologia, ma è una manifestazione della riserva di grasso, senza pericoli per la salute", continua la dermatologa. 

Questo è il punto che fa riflettere di più: per quanto considerata da molti dermatologi una patologia, la cellulite in sé non è pericolosa per la salute, quindi si cura principalmente per motivi estetici. "Bisogna valutare se la cellulite è sintomo di qualche altra problematica, come un'insufficienza venosa, linfatica o ormonale: in questo caso va curato il problema all'origine, altrimenti la cellulite si cura principalmente per motivi estetici", chiarisce la dottoressa Amadu.

 Quello che sorprende è che la cellulite riguarda circa il 90% delle donne e si forma indipendentemente dalla forma fisica: proprio perché è così ampiamente diffusa, le sue cause sono ancora poco chiare. "Le cause della cellulite sono molto varie, dalla predisposizione genetica al fumo, dalla sedentarietà ai fattori ormonali, fino alla dieta sregolata", spiega la dermatologa. 

"L'eziopatogenesi della cellulite rimane ancora un enigma, ma il derma e il tessuto sottocutaneo sono coinvolti da soli o in combinazione e diversi sono i fattori che sembrano interessati nella comparsa di questo inestetismo", aggiunge Elisabetta Fulgione, dermatologa dell’Università degli Studi della Campania Vanvitelli e Tesoriere Nazionale SIME (Società Italiana di Medicina Estetica).

Tuttora misteriosi sono anche i meccanismi che portano alla formazione della cellulite: "Non sono stati chiariti tutti i meccanismi alla base della PEFS, ma grande importanza riveste il cattivo funzionamento della microcircolazione venosa e linfatica, che provoca rallentamento del flusso sanguigno a livello dei capillari, ristagno linfatico e riduzione dell’irrorazione", continua la dottoressa Fulgione. 

"A oggi sappiamo, dunque, che il meccanismo alla base della cellulite è piuttosto complesso e le alterazioni che portano all’ inestetismo cutaneo si verificano per lo più a livello dell’ipoderma, lo strato più profondo della pelle".

Parlare di "cure" per qualcosa di così diffuso e innocuo per la salute, forse, è fuori luogo: meglio parlare di rimedi, tenendo a mente che, come ricorda la dottoressa Fulgione, "non esiste una terapia risolutiva per la cellulite, ma si può intervenire per prevenire evoluzione, ridurre i segni e i sintomi più importanti". 

In questo senso, "l'ultima frontiera sono le micro onde - il macchinario si chiama Onda Coolwaves® - che scendono in profondità nell’ipoderma e sciolgono il grasso stimolando le fibre di collagene e il tessuto connettivo intorno ai globuli adiposi, levigando così l'aspetto buccia d’arancia", ci dice la dottoressa Amadu. I risultati? "Ci sono studi che ne dimostrano l'efficacia, ma i risultati variano molto da persona a persona". Come molti rimedi che, appunto, non sono cure. Perché se non c'è qualcosa di pericoloso per la salute, non c'è nulla da curare.

Donne straordinarie. Suzanne Noël, la femminista pioniera del "ritocchino". Il concetto di libertà della donna è più forte solo quando si conserva la bellezza naturale o anche con quel ritocco in più? Era sicuramente del secondo pensiero Suzanne Noël, colei che utilizzava i bisturi per modificare i connotati dei volti. Laura Lipari il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il concetto di bellezza e i primi studi

 La separazione e gli anni di ricerche

 La Grande Guerra e il deturpamento

 Gli anni post bellici e le battaglie per il suo credo

 “Soroptimist”

Suzanne Blanche Marguerite Gros nasce il 19 gennaio del 1879 a Laon, un paesino francese di origine medievale e cresce con la madre vedova che le impartisce una severa educazione insegnandole a diventare la classica brava moglie per un buon partito. A quell'epoca era questo il massimo a cui puntare per una donna. Sin da piccola, quindi, impara l’arte del cucito ma anche la composizione di miniature, passione che sarà la sua fortuna nel tempo.

A 19 anni sposa un dottore dermatologo, Henry Perat, e nel 1897 la coppia si trasferisce a Parigi in un quartiere famoso per essere frequentato da artisti come Alexander Dumas e attori emergenti di quell’epoca. Suzanne e il marito vivono negli agi, ma non è pienamente soddisfatta. Si sente incompleta e ha un irrefrenabile impulso di curiosità nei confronti del mondo che non può appagare stando ferma nella sua condizione. Inizia a recarsi spesso nello studio di dermatologia a osservare, affascinata, il lavoro del marito, cui fa continue domande memorizzando ogni cosa.

Il concetto di bellezza e i primi studi

Proprio in quegli anni spopola la “beauty culture”: il canone femminile per eccellenza, un prototipo ideale di come dovrebbe essere il corpo delle donne. A dare le misure sono i film le riviste e le pubblicità che sponsorizzano un corpo magro e longilineo. Si comincia quindi a inseguire affannosamente quell’ideale di perfezione con diete e strumenti di tortura. Per chi invece può permetterselo, la strada più breve è quella della chirurgia plastica che nei primi del ‘900 è solo agli inizi. Suzanne, che è un’osservatrice attenta anche a questi cambiamenti, si affeziona talmente tanto all’idea di poter modificare qualcosa di già compiuto da chiedere l’autorizzazione al marito di poter studiare medicina. Durante quegli anni, infatti, vige ancora il codice napoleonico che tiene ben saldo l’ideale dell’uomo padrone di ogni decisione. Henry non ha nulla da obiettare e, anzi, la incoraggia a iscriversi all’università per poter lavorare insieme nel suo studio.

Iniziano le lezioni e Suzanne è una delle pochissime donne a studiare tra una moltitudine di uomini. La disparità è notevole sia nella scuola per raggiungere il diploma, si tra i banchi in facoltà di medicina. Ma Suzanne è determinata, non si fa intimorire e ottiene voti brillanti, soprattutto nelle materie dove viene messa in pratica la destrezza di mano. Il suo passatempo preferito impiegato a costruire miniature le aveva dato un’ottima preparazione che viene notata, in modo differente, da colleghi e professori.

Il fatto di essere donna costituisce ancora un grosso problema e lo diventa ancora di più quando inizia il tirocinio all’interno di un ospedale. Alcuni medici, infatti, denunciano la sua presenza al tribunale di Parigi, chiedendo l’esclusione e l’interdizione sua e di tutte le donne della facoltà di medicina. Richiesta, però, respinta.

Tra i banchi dell’università Suzanne stringe una forte amicizia con André Noël, un giovane studente come lei appassionato di medicina. Nel frattempo apprende da un brillante medico la tecnica per “riparare” i danni sui volti: rimane stupita di come una mano ferma e abile possa ridare un aspetto migliore a chi viene sfregiato. In particolare, l’intervento su una bambina con la guancia deturpata da un’ustione mette in moto in Suzanne l’assoluta convinzione che il suo futuro sia tutto racchiuso nella chirurgia estetica.

La separazione e gli anni di ricerche

Dopo undici anni di matrimonio, nel 1908, dà alla luce la sua prima figlia, Jacqueline. Sin dall’inizio la paternità della bambina è dubbia e cominciano a vociferare pettegolezzi su una storia extraconiugale proprio con André. Anche se le chiacchiere da strada si dimostreranno vere, lei negherà per anni custodendone il segreto. Né la gravidanza, né la nascita della figlia frenano la sua passione verso gli studi e la voglia di apprendere. È proprio questa sua assenza in famiglia a spingere lei e Henry a litigare sempre più spesso, fino a che il rapporto si incrina e i due si separano mantenendo un buon rapporto.

Nel 1911 Suzanne si trasferisce insieme a Jacqueline in un appartamento che, però, non riesce a gestire da sola perché giuridicamente risulta ancora legata al marito e dunque dipendente da ogni sua decisione. Henry è perfettamente consapevole della situazione e spinto dal bene e dalla grande considerazione verso l’ex moglie, decide che può continuare a collaborare con lui così da poter sostenere le spese.

Nel contesto universitario è contesa tra i suoi due grandi mentori. Con uno continua il lavoro nel reparto di ginecologia e ostetricia, con l’altro si esercita nella chirurgia plastica ed estetica. Un giorno il marito la informa di un evento unico: Sarah Bernhardt, un’attrice di 66 anni, si era appena prestata a un intervento di lifting frontale eseguito dal professor Charles Miller per eliminare le rughe.

Suzanne è curiosa di vedere il risultato e quando ci riesce decide di contattare la star del cinema per convincerla che il lavoro fatto sul suo viso, nonostante sia buono, è a metà perché ha lasciato diversi solchi della vecchiaia all’altezza degli occhi e nella parte inferiore nel volto. Bernhardt la ascolta con interesse e accetta il consiglio di sottoporsi a un ulteriore intervento. Il risultato è sorprendente e sembra che l’operazione le abbia tolto almeno 10 anni di vita. A quel punto Suzanne è completamente entusiasta e affascinata dalla magia della chirurgia.

La Grande Guerra e il deturpamento

Nel 1914 inizia la Prima Guerra Mondiale. I deturpamenti bellici non incidono solo sul territorio ma anche sui volti e i corpi delle persone e così, dal 1916, Suzanne che è ancora solo una tirocinante, mette a disposizione le sue conoscenze occupandosi dei feriti. Successivamente, durante l’occupazione nazista, si prenderà cura di partigiani ed ebrei torturati dalla Gestapo, dedicandosi alla rinoplastica facciale per modificare totalmente i tratti del volto e permettere loro la libertà.

Nel frattempo Henry, che si era arruolato come volontario, crede molto alla causa e combatte in maniera eroica. Un giorno, durante l’addestramento, perde la sua maschera antigas e inala una sostanza chimica che gli compromette totalmente i polmoni e dopo una lenta agonia, nel 1918, muore. È un duro colpo per Suzanne, ma reagisce al dolore come ha sempre fatto: impegnandosi a proseguire la sua ricerca. La sua occupazione diventa quella di sostenere le vittime di guerra, anche le donne vedove che capisce e comprende e rassicura con parole motivanti e prodotti per la cura del viso e del corpo.

Gli anni post bellici e le battaglie per il suo credo

Con la morte del marito muoiono anche quei pochi diritti che Suzanne aveva conquistato tramite la firma alle autorizzazioni. È consapevole del fatto che adesso non ha più un lavoro con cui sfamare la figlia e la madre che nel frattempo si era trasferita da lei. La soluzione è davanti ai suoi occhi: André. Il giovane, però, essendo più piccolo di sette anni, non ha concluso gli studi, è ancora un tirocinante e quindi neanche lui ha un lavoro stabile. Sarà proprio lei ad aiutarlo a laurearsi e a fornirgli tutte le ricerche.

Nel 1919 i due si sposano ufficialmente e lei diventa Suzanne Noël. Insieme alla figlia si trasferiscono in un appartamento all’interno del quale una stanza era utilizzata come sala operatoria per i suoi interventi chirurgici con cui modifica e perfeziona i connotati del corpo e del viso delle sue clienti. Negli anni successivi, con una mano sempre più esperta, eseguirà i suoi interventi più complessi e invasivi in una delle cliniche più prestigiose della Francia, così da poter utilizzare anche l’anestesia totale per operazioni che riguardano altre parti del corpo come il seno.

Gli ostacoli, però, sono ancora tanti e la medicina si spacca in due tra chi è pro e chi contro a questo tipo di interventi ritenuti non necessari perché esclusivamente estetici. Ne seguiranno anche battaglie legali durante le quali chi è contro presenterà esempi in cui la chirurgia ha rovinato visi e corpi in maniera irrecuperabile. Questo dibattito, anche se in termini più placati, dura ancora fino a oggi. Ciononostante i lavori di Suzanne continuano ad avere successo e la sua passione è sempre più legata all’attivismo a cui crede, operando gratuitamente donne che lavorano in fabbrica e licenziate perché considerate "troppo anziane”. La sua è una battaglia femminista perché trasforma la chirurgia in sicurezza e la sicurezza nell'obiettivo di far prevalere i propri diritti in qualsiasi ambito della società.

Quando la figlia muore a 13 anni per aver contratto la spagnola, André reagisce chiudendosi in se stesso e sperperando tutti i loro guadagni. Segue un periodo di profonda crisi per la coppia dove l’unica soluzione rimane quella di portare l’uomo in un istituto psichiatrico, ma prima di farsi fare internare, mentre stanno passeggiando, André si getta con uno scatto improvviso nella Senna e muore.

“Soroptimist”

È il 1924 e Suzanne si trova nuovamente in uno stato disastroso da cui ne uscirà ancora buttandosi a capofitto sul lavoro. Per ironia della sorte si trova a 47 anni con una fama che la precede in campo chirurgico, ma nessuna carta in mano che lo dimostri perché non ha discusso la tesi di laurea e dunque non ha mai ottenuto alcuna licenza per esercitare. Così l’anno dopo decide che a tutti i costi deve finire i suoi studi e ci riesce. Adesso può dedicarsi alla sua passione alla luce del sole. La battaglia femminista rimane al centro delle sue attività. La sua volontà è quella di far sì che le donne acquisiscano sempre più indipendenza dalla figura dell’uomo e possano riuscire a cavarsela da sole proprio come ha fatto lei durante la sua vita.

L'ennesimo cambiamento della sua vita avviene con l’associazione “Soroptimist” del medico Stuart Morrow che la contatta per poterne far parte. Soroptimist International è un’organizzazione statunitense no profit che raccoglie donne da ogni parte del mondo con un’elevata professionalità per metterla a disposizione della condizione e dei diritti femminili. Sarà proprio Suzanne a fondare in Francia il primo Club Soroptimist dell’Europa continentale e poi ad allargarsi fino in Cina e Giappone.

In seguito a un problema alla vista si ritira dalle sale operatorie e dai salotti a cui partecipava grazie alla sua fama e trascorre la sua vecchiaia occupandosi, solo con le sue idee pragmatiche e non più con le mani, all’attivismo di cui va orgogliosa. Muore l’11 novembre del 1954 all’età di 76 anni.

Del suo nome intriso di lavoro e battaglie resta una borsa di studio, la “Dr. Suzanne Noël Scholarship”, destinata a donne medico che intendano specializzarsi nel campo della chirurgia plastica e ricostruttiva, una targa commemorativa e una via parigina che riporta il suo nome.

·        Le Mestruazioni e la Menopausa.

Da “la Stampa” il 17 agosto 2022.

La Scozia è diventato il primo Paese al mondo a rendere gratuiti i prodotti per il ciclo mestruale. Assorbenti e tamponi saranno disponibili nelle farmacie, nei centri sociali e giovanili, nelle scuole e nelle università per «chiunque ne abbia bisogno» e senza sborsare nulla. 

La legge, presentata dalla deputata laburista Monica Lennon, era stata approvata all'unanimità e punta a mettere fine alla "period poverty", la povertà da ciclo: «C'è un modo molto semplice per descrivere la povertà da ciclo - ha detto Georgie Nicholson dell'ente sociale Hey Girl: vai al supermercato e devi effettivamente scegliere se puoi comprare del cibo o una scatola di assorbenti. Molte madri sono costrette a rinunciare ai prodotti igienici solo per poter nutrire i propri figli e a usare cose come giornali infilati nei calzini».

Alcune alternative fatte in casa, inclusi stracci e fazzoletti, possono causare rischi per la salute gravi o addirittura mortali, ha più volte ribadito Lancet. Con mestruazioni che in media durano circa cinque giorni, gli assorbenti in Scozia (già meno cari che in Italia, comunque) possono costare fino a 10 euro al mese e alcune donne faticano a permettersele. Ma il Period Products Act ha anche un altro, importante, effetto positivo, quello di parlare di mestruazioni e di aiutare, soprattutto le giovani donne a superare lo stigma e l'imbarazzo quando devono comprare prodotti per il ciclo.

In Italia, dopo anni di battaglie, finalmente è stata abbassata l'Iva sugli assorbenti. A deciderlo è stato l'esecutivo di Mario Draghi che nella legge di Bilancio ha portato l'aliquota dal 22% al 10% per i prodotti igienici femminili. Un primo passo.

Laura Salonia per iodonna.it il 2 ottobre 2022.

Dal 1985 al 2022 è un attimo. Così come dalle mestruazioni alla menopausa. E da protagonista di uno spot in cui tra le prime, parlava esplicitamente di mestruazioni e di tamponi (gli iconici Tampax), l’attrice statunitense Courtney Cox – classe 1964, celebre per il ruolo di Monica Geller in Friends – in questi giorni ha postato su Instagram una spassosissima parodia di quella pubblicità. Vista con gli occhi di chi, oggi, ha 58 anni e di menopausa non ne può più.

Menopausa, il tabù si sta infrangendo

Quello di Courtney Cox e di molte altre star, che ultimamente postano messaggi di ribellione agli stereotipi sulla menopausa, è un modo per infrangere quell’odioso tabù sulle donne over 50. Contro i pregiudizi sull’invecchiamento, la rassegnazione al dolore, alle vampate, all’irritabilità, alle emozioni sempre in bilico, ai disturbi sessuali e genitali che molte donne, circa la metà di chi è intorno ai 50 anni, si trova a dover affrontare.

Una rivoluzione di pensiero per ritrovare un nuovo piacere

Di solito, finora, lo si faceva in silenzio, anzi evitando abilmente di sfiorare il tema nelle conversazioni. Perché “essere in menopausa” secondo gli stereotipi significa essere fuori dai giochi. Professionali, sentimentali, e ovviamente sessuali. Invece no. Le donne che hanno 50 anni e che 30 anni fa ci sembravano “andate, vecchie”, oggi siamo noi. E di “andarcene” e rinunciare alla bellezza del vivere e al piacere (anche sessuale, sì) non ne abbiamo proprio nessuna intenzione. Anzi. 

Senza arrivare a travestirsi da adolescenti, e a definirsi “la migliore amica di mia figlia” – errore educativo deplorevole – le cinquantenni ora hanno voglia di trovare una nuova identità, un nuovo stile esistenziale ma anche estetico rinnovato, più in linea con la propria storia.

Il ginecologo giusto per stare bene

Ma per farlo occorre stare bene, fisicamente e psicologicamente. Ecco perché serve informarsi, scambiarsi consigli, esperienze, ma anche consultare specialisti in menopausa. Perché non tutti i ginecologi lo sono. E spesso trattano con sufficienza i disturbi che le pazienti riferiscono, dall’atrofia vaginale al dolore durante i rapporti, dai dolori alle ginocchia al calo della libido. Motivando tutto questo disagio con il naturale calo degli ormoni.

Ma qualcosa, anzi molto, si può fare. Dalla TOS, la Terapia Ormonale Sostitutiva, agli ormoni bioidentici. Dal laser alla radiofrequenza. Dagli ovuli di prasterone alle iniezioni di acido ialuronico in vagina. Se il ginecologo quindi vi liquida con una pacca sulla spalla, cambiatelo. Cercate online o tra le amiche un ginecologo (meglio se ginecologa) specializzato in menopausa e troverete il vostro modo per alleviare almeno qualche sintomo, se non tutti. E tornerete a vivere meglio anche il piacere. 

Una nuova generazione di donne che entra in menopausa

l 28 Aprile 2022 il Washington Post ha riportato un editoriale che esprimeva la richiesta di una “nuova generazione di donne che entra in menopausa” capeggiate da Michelle Obama di avere giuste informazioni e rassicurazioni, in primis dal National Institute of Health e da FDA, riguardo la sicurezza della terapia ormonale in modo che non vengano private, come è stato per le donne del ventennio precedente, del benessere che possa derivare dall’uso della terapia ormonale.

Richiesta ancora più doverosa se si pensa che solo il 20% dei medici ha le conoscenze adeguate ed è in grado di prescriverla correttamente. Forse è veramente arrivato il momento di smettere di avere paura della terapia ormonale sostitutiva e di cominciare a trarre tutti i vantaggi che può darci il suo utilizzo. Sempre e solo con il nulla osta del proprio ginecologo.

Comunicato stampa di Rosamaria Spina l’1 Dicembre 2022.

"Ad alcuni suonerà strano – dice la sessuologa Spina - ma il sesso in menopausa non solo si fa ma può essere anche molto appagante. C’è purtroppo ancora l’idea che dopo una certa età è quasi disdicevole abbandonarsi ad alcune pratiche sessuali. In realtà si è visto che la curva legata all’attività sessuale mostra dei picchi in altezza che ci raccontano una maggiore frequenza dei rapporti nel tempo.

Questo significa che il sesso lo si fa per tutta la vita anche quando si è più in la con l’età. È giusto, come ha affermato recentemente anche Antonella Clerici, lasciarsi andare alla trasgressione magari usando parrucche oppure si potrebbero aggiungere sex toys. Queste cose fanno bene alla coppia."

È vero che nella donna il cambiamento ormonale, dato dalla menopausa, rappresenta un cambiamento fisico e sessuale – prosegue la Dott.ssa Spina - Ma il sesso non è fatto solo ed esclusivamente di ormoni ma c’è una enorme parte legata agli aspetti psicologici.

Quindi se ci si sente in buona salute, in buona forma fisica, se ci si vede ancora attraenti, perché abbandonare qualcosa che da piacere? Ci sono poi possibilità come il lubrificante vaginale che facilita i rapporti riducendo il dolore da sfregamento e che, per esempio, può aiutare la donna a ritrovare il piacere del sesso anche se più in la con gli anni."

"Quando si è più grandi di età c’è poi una maggiore consapevolezza di ciò che piace e ciò che non piace. Questo aiuta a sperimentare maggiormente e di lasciarsi andare di più nel sesso. Quando si è giovani durante il rapporto si teme sempre il giudizio del partner (cosa penserà di me se faccio certe cose?) o si è molto attenti alla forma fisica influenzando molto l’attività sessuale perché sono pensieri che non permettono di lasciarsi andare completamente.

Da adulti ci si accetta di più e poi c’è maggiore consapevolezza di se con la capacità di dire quello che piace e quello che non piace. Tanti tabù cadono rispetto al passato, a quando si era più giovani, e cadendo rendono la sessualità più libera e appagante. Anche per questo molti giovani scelgono una partner più matura, perché capace di lasciarsi andare ed inoltre restituisce un’immagine più rassicurante per il partner maschile. Alcuni uomini si sentono rassicurati dal fare sesso con donne più mature perché le percepiscono più accoglienti e risultare più ‘pratiche’ rispetto all’attività sessuale."

·        Il Feticcio.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 aprile 2022.

Hai mai provato una strana eccitazione sessuale per qualcosa di insolito? Potresti avere un feticcio. Succede a molti di noi: gli studi mostrano che un'alta maggioranza delle persone a cui piace il sesso ne ha almeno uno! 

Un feticcio significa che hai un fascino accresciuto per un oggetto specifico o una parte del corpo non genitale e lo usi per la gratificazione sessuale. 

Menziona "feticcio" e la maggior parte delle persone pensa a qualcosa di "sexy": volere che un amante indossi un corsetto, calze, tacchi alti o un collare per cani. 

Ma secondo lo psicologo sociale Dr Justin Lehmiller le persone possono sviluppare feticci sessuali praticamente per qualsiasi cosa. «Non è un'esagerazione dire che qualsiasi cosa potrebbe essere un feticcio per qualcuno». Macchine, insetti, statue, gatti, sono tutti nella lista dei feticci. 

Due persone possono avere lo stesso feticcio – un feticismo del piede, per esempio – e viverlo in modi completamente diversi. A una persona potrebbe piacere annusare o leccare i piedi; un altro toccare e sentire mentre un terzo potrebbe semplicemente divertirsi a guardarli.

Come si sviluppano i feticci?

 La maggior parte degli esperti del settore pensa che il feticcio si sviluppi per via di un'esperienza sessuale precoce con un'eccitazione elevata (con o senza orgasmo) in cui era presente un particolare oggetto o esperienza. 

Se la tua maestra a scuola ti ha sculacciato per aver fatto qualcosa di sbagliato quando avevi sei anni, e la cosa ti ha eccitato, potresti sviluppare un feticcio per i vestiti che indossava. 

Fondamentalmente, si tratta di "accoppiare" e "condizionare", due atteggiamenti illustrati nel famoso studio sul cane di Pavlov. 

Il fisiologo Ivan Pavlov ha condizionato i cani a produrre saliva non solo come risposta al cibo, ma anche al suono di una campana. Suonava il campanello, quindi dava loro da mangiare una polvere di carne che gli induceva la salivazione. Ripetendo l'esperimento più e più volte, i cani hanno iniziato a sbavare al suono del campanello, prima di ricevere la polvere di carne, perché l’associavano al cibo.

Se abbini qualcosa a una ricompensa sessuale, la persona ne sarà eccitata. 

Il dottor Jim Pfaus, un ricercatore in neuroscienze comportamentali, ha utilizzato gli stessi metodi per collegare l'eccitazione sessuale nei ratti agli odori e ai vestiti. 

Ha permesso a ratti maschi vergini di fare sesso con femmine di ratto che indossavano piccole "giacche". Più tardi, quando gli scienziati hanno dato ai maschi la possibilità di accoppiarsi di nuovo, i topi hanno preferito fare sesso con le femmine che indossavano la giacca piuttosto che con quelle "nude".

Studi precedenti hanno addestrato i ratti ad associare un certo odore al sesso (mandorla), e i ratti maschi hanno preferito accoppiarsi con le femmine che avevano quel profumo. 

Va tutto bene, posso sentirti dire, ma i risultati sono gli stessi per gli esseri umani? Puoi rendere un centesimo "sexy"? Negli anni '60, i ricercatori decisero di testare la teoria della risposta pavloviana e vedere se si applicava al sesso. 

Hanno chiesto agli studenti universitari maschi di visualizzare immagini di donne nude e immagini di stivali. Inizialmente, gli uomini non erano eccitati dall'immagine degli stivali da soli. Ma quando l'esperimento è stato ripetuto più e più volte, lo sono diventati. 

L'abbinamento di stivali e nudità ha funzionato: gli stivali li hanno fatti sentire vicini al sesso.

Chiedendosi se il legame stivali-sesso stesse distorcendo i risultati (dato che molti uomini trovano gli stivali sulle donne sexy), i ricercatori negli anni '90 hanno deciso che avrebbero cercato di far eccitare gli uomini con qualcosa di completamente e assolutamente non eccitante. 

Hanno optato per l'immagine di un barattolo di monete – niente di sessuale lì! - e hanno ottenuto lo stesso risultato. Una volta che i penny sono stati collegati con immagini di sesso, le immagini dei penny da sole hanno eccitato i partecipanti maschi.

Ecco come si formano i feticci. Ma in quali persone si sviluppano? Alcune persone hanno maggiori probabilità di sviluppare un feticcio rispetto ad altre? 

Sì: gli uomini hanno maggiori probabilità di sviluppare feticci rispetto alle donne. Ci sono vari motivi sociali che spiegano questo fenomeno (le donne non sono così incoraggiate a esplorare il 'kink' e hanno maggiori probabilità di essere giudicate se lo fanno). 

I feticci potrebbero anche essere collegati al nostro livello di "eccitabilità" personale. Alcune persone si eccitano facilmente, altre hanno bisogno di una stimolazione fisica più intensa. Non sorprende che le persone che hanno un'elevata eccitabilità apprezzino il sesso più di quelle che non la hanno.

Se il tuo livello di eccitazione è basso, ci vuole una grande quantità di stimoli per interessarti anche solo lontanamente al sesso. È molto in basso nella tua lista di "Cose che mi piacciono"... a meno che non succeda qualcosa che ti faccia finalmente eccitare. 

Cerca un amante più avventuroso. Che voglia provare qualcosa che tu non fai - un gioco con le manette, sculacciate, strapparsi i capelli - e improvvisamente sentirai che le tue terminazioni nervose prendono vita. «Quindi ECCO come dovrebbe essere il sesso!», penserai, euforico. 

Qualunque cosa tu abbia appena provato diventerà rapidamente il modo preferito per goderti il sesso - e perché non dovrebbe! Più "combatti" un feticcio, più lo desideri. 

I feticci diventano potenti perché sono etichettati come "perversi" e "sbagliati" dalla società, il che li rende ancora più attraenti. Più hai voglia di goderti qualcosa, più forte diventa il desiderio per esso.

Il sesso che la maggior parte delle altre coppie vive non può essere paragonato al brivido cattivo che provi indulgendo nella tua "cosa". Ma è brutto. Non dovresti volerlo ma lo vuoi ancora di più. In effetti, preferiresti non fare sesso, piuttosto che fare sesso senza di esso. 

Guardare il porno può creare un feticcio? 

Il porno può avere un ruolo nello sviluppo di un feticcio. 

Sei eccitato sessualmente mentre guardi il porno, quindi è abbastanza facile "abbinare" quell'eccitazione a qualcosa. Potresti iniziare a notare che il tuo video porno preferito include donne che hanno un tipo specifico di tatuaggio. Improvvisamente Marnie, un'amica da cui non sei mai stata attratto prima, prende dell'inchiostro e senti un'emozione che prima non c'era.

Entra in gioco anche l''assuefazione': se fai qualcosa più e più volte, ti ci abitui e il brivido svanisce. È quindi necessario spingersi a un nuovo livello per ottenere la stessa spinta. 

Questa è spesso la teoria che viene propagata per spiegare l'attrazione dell'asfissia autoerotica: soffocarsi per ottenere lo "sballo" euforico che secondo alcuni si innesca quando il cervello ha fame di ossigeno. Alla ricerca di quel livello successivo, alcuni si spingono così lontano da morirne. 

Il dottor Pfaus, l'uomo che ha messo le giacche ai topi, trova interessante che il porno vecchio stile – il porno che guardavamo all'inizio – non abbia effetto su questa generazione. 

Il porno di oggi è molto più grafico. Ed è disponibile in grande quantità, il che ci rende necessario immagini sempre più esplicite.

Riesci a sbarazzarti di un feticcio? 

Non proprio. Siccome si sviluppano durante l'infanzia e di solito si formano durante le nostre prime e più intense esperienze sessuali, diventano parte della nostra sessualità. 

La maggior parte dei feticci non fa male alle persone (a meno che il feticcio non riguardi il dolore e di solito viene fatto con un adulto consenziente). La maggior parte è abbastanza innocua, anche se gli amanti tradizionali e conservatori possono trovare difficile capirle e relazionarsi.

Invece di cercare di sradicare un feticcio che ti sta causando angoscia, è meglio imparare ad accettarlo e conviverci. 

Questo di solito significa trovare una comunità di persone che condividono lo stesso feticcio e imparare a goderselo, piuttosto che esserne traumatizzato.

·        Bondage; Fetish: Il Feticismo.

Da "donnaglamour.it" il 10 dicembre 2022.

Circa trent’anni fa anche l’omosessualità era considerata parte delle parafilie. Oggi le caratteristiche essenziali di una parafilia sono fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente che riguardano oggetti inanimati, la sofferenza o l’umiliazione di se stessi o del partner, o altre persone non consenzienti. Rientrano in questo gruppo l’esibizionismo, il feticismo, il frotteurismo, il masochismo, il sadismo, feticismo da travestimento e voyeurismo.

Le principali parafilie. Insomma, come avrete facilmente intuito, qui siamo decisamente oltre il limite del sesso estremo. Andiamo a scoprire quali sono le principali parafilie e le caratteristiche di ognuna di queste. 

Esibizionismo L’esibizionismo non è altro che il piacere di mostrare i propri genitali a un estraneo, a volte anche masturbandosi. Questa parafilia spesso si verifica nel soggetto prima dei 18 anni e causa un certo disagio in chi la prova. Gli impulsi devono manifestarsi per almeno sei mesi.

Feticismo Il feticismo è una delle parafilie più conosciute a livello popolare. In questo caso il soggetto utilizza oggetti, in genere calze, mutande, stivali o reggiseni, per eccitarsi. Questi vengono fatti indossare dal partner durante il rapporto sessuale, oppure, nei casi più estremi, strofinati durante la masturbazione. In alcuni casi, un feticista non raggiunge l’erezione senza l’uso di questi oggetti. 

Feticismo da travestimento Simile al feticismo, in questo caso il soggetto interessato è un collezionista di abiti femminili, con i quali poi si traveste per raggiungere l’eccitamento. Questo atteggiamento riguarda anche i trucchi e spesso è sintomatico in soggetti maschili e perlopiù eterosessuali.

Voyeurismo Questa parafilia non è altro che il desiderio di osservare le persone, solitamente estranei, quando sono nudi o mentre sono nel bel mezzo di un rapporto sessuale. Solitamente si sviluppa prima dei 15 anni e, nei casi più gravi, rimane l’unico modo per eccitarsi. 

Frotteurismo Pratica molto particolare, consiste nel cercare il contatto con una persona non consenziente, spesso in luoghi affollati. Le zone interessate? I seni, i genitali, le cosce e i glutei. Solitamente questa fantasia ha il proprio picco tra i 15 e i 25 anni, ma tende poi ad affievolirsi.

Masochismo Sessuale Il masochismo è quella fantasia che lega il dolore, l’umiliazione e la sofferenza al piacere. I masochisti amano essere legati, subire umiliazioni ed essere percossi, e tutto ciò provoca in loro un forte eccitamento.

Sadismo Sessuale Il sadismo è una pratica sessuale volta a provocare sofferenza sia fisica che psicologica alla vittima, la cui sofferenza diventa eccitante per il sadico. Può accadere che il partner sia consenziente, ma anche che il soggetto passivo non lo sia. Ci sono casi estremi, infatti, in cui la vittima viene imprigionata, malmenata e torturata, fino ad arrivare addirittura… alla morte! 

Di Ottavia Casagrande per “Sette – Corriere della Sera” il 26 novembre 2022.

Suprema sacerdotessa del bizzarro l’ha definita un cronista della vita intellettual-mondana di Parigi; icona erotico-culturale cementata nell’immaginario francese; moderna Marquise de Sade. Come ci si sente a essere concepita come un assoluto? Questa la domanda che mi ronzava in testa, mentre preparavo l’intervista. Rintracciare il numero di telefono è stata la parte più semplice dell’impresa. È bastato recarsi nella boutique più à la page in fatto di moda BDSM (acronimo per bondage e disciplina, dominazione e sottomissione, sadismo e masochismo) di Parigi, il Métamorph’Ose nel quarto arrondissement. Il titolare non solo la conosce, la venera. 

E comunque Madame esce sull’elenco. Recuperati dunque due numeri di telefono fisso, quello dell’apparta- mento parigino e quello del castello in Normandia dove trascorre le vacanze. È estate e normalmente — mi dicono —, come tutte le signore che si rispettano, la trascorre in campagna. A più riprese compongo il numero e lascio squillare. Immagino il trillo risuonare lungo inter- minabili corridoi, attraverso infiniti saloni. Stessa scena con il numero di Parigi, meno i corridoi, meno i saloni, suppongo. Comunque sia, non risponde nessuno. Azzardo un tentativo con la casa editrice che ha pubblicato il suo ultimo libro. Dall’altro capo del filo percepisco il sorriso garbato dell’addetta stampa: «Nei miei ricordi, è inutile chiamarla prima delle due».

Finalmente, complici le elezioni legislative, la trovo nella capitale dove era tornata per votare. Neppure la do- minatrice più celebrata di Francia si sottrae al suo dovere di cittadina. La voce — a sorpresa — è brillante, festosa e, come presto scoprirò, capace di tutte le sfumature. Gli anni per lei sono un velo leggero. Catherine Robbe-Grillet, protagonista di una delle vite più originali mai viste sul pianeta, ha novantadue anni e mille impegni, tant’è che fissiamo un appuntamento a distanza di tre mesi. Appena il tempo per compiere un po’ di ricerche, leggere i libri suoi e del marito, vedere i loro film... 

Esile, minutissima, potrebbe sembrare fragile, se non avesse la serena grazia di chi possiede una sicurezza assoluta. Stivali di pelle nera, pantaloni neri, golf nero abbottonato stretto sotto il collo, icastico turbante anch’esso nero. Eleganza definitiva, terminale. Coco Chanel non avrebbe saputo fare di meglio. Il passo è agile, svelto, leggero come quel- lo di una bambina. Infantili sono anche lo slancio e il riso ai quali si abbandona mentre racconta, rivive, ricorda.

Crollo immediato del primo cliché, quello dell’immaginario corrente BDSM che vuole la dominatrice come una valchiria imponente dal tono imperioso: niente latex, tacchi 24, ciglia finte, nessuna enfasi autoritaria, nessuna ostentazione sexy. Neppure il più lieve ammiccamento. Alla bambina dagli occhi innocenti e profondi manca solo il colletto bianco smerlato. Mentre parla il viso è lucente, aperto, attento, mobile, come le mani che muove con garbo per sottolineare le parole. Un ossimoro vivente Catherine, infantile eppure überfemminile.

Lei riesce a trasformare un semplice bagno in un rito...

«A me interessa scatenare un’emozione erotica. Le mie cerimonie sono degli spettacoli, delle messe in scena, immaginate e preparate meticolosamente. Scelgo gli attori, ossia i partecipanti, la scena, i costumi. Ne scandisco il ritmo, i tempi, le entra- te, le uscite, lo svolgimento. C’è un copione con preludio, inizio, sviluppo, fine, a volte anche l’epilogo, per prendersi il tempo di tornare alla realtà.

Allestisco dei quadri vi- venti, elaborati e solenni, dove la tensione non solo erotica, ma anche drammaturgica sale fino all’impossibile, fino a diventa- re insostenibile. Questo m’interessa. Non c’è per forza sesso. Anzi, non c’è quasi mai sesso. Il sesso è un pretesto. Tra l’altro alla mia età... ho comunque un’etica! (Ride). Vogliono farci credere che il sesso non ha età. Non è vero, il sesso ce l’ha eccome. L’erotismo non ha età».

Lei trasforma l’erotismo in arte.

«Infatti sono finita in un museo! (Ride ancora). Al Centre Pompidou. Un aspetto importante delle mie cerimonie è che sono effimere. Gli attori, gli officianti sono anche gli spettatori. Gli unici spettatori. Dei miei riti rimangono solo la memoria e i racconti fatti a mezza voce. Questo li colloca in una dimensione a parte, sospesa, parallela, forse sacra. Se si aggiunge che non c’è, non c’è mai stato, scambio di denaro, questo li rende unici. Ci sono molte professioniste che praticano il BDSM, ma il denaro trasforma i rapporti in transazioni economiche. Come si fa a stabilire se c’è stato vero piacere? Mentre il legame che si forma tra me, il sottomesso e le aiutanti è unico, indissolubile».

 Spesso nelle sue cerimonie si circonda di donne.

«È vero. È una sorta di club femminile. Mi piace avere delle complici. Mi piace concepire delle messe in scena ambiziose, dirigere varie persone, osservare le loro reazioni. Siamo arrivati fino a quattordici partecipanti. Di solito il sottomesso o sottomessa, due o tre uomini chiamati ad aiutare e delle amiche. Io metto in scena i sogni erotici più inconfessabili. O che per lo meno la società reputa tali. Per me, solo le passioni non condivise sono sinistre». 

Questo genere di messe in scena oggi si chiamano performance.

«Quando è uscito il mio libro Cérémonies de femmes (cerimonie di donne) ero convinta che molte altre donne mi avrebbero scritto per dirmi che anche loro alle- stivano simili rituali. Ho ricevuto migliaia di lettere da uomini. Una corrispondenza da ministro! (Ride). Molti si proponeva no come sottomessi. Solo sette donne mi hanno scritto. Lettere d’ingiurie. A quanto ne so, sono l’unica al mondo a praticare questo genere di cerimonie non per denaro». 

A proposito, come si è svolta quella cerimonia che è finita al Centre Pompidou?

«È stata una novella del Boccaccio a darmi l’ispirazione. Quella di Nastagio degli Onesti che racconta una caccia alla donna. Avevo intuito, senza che fosse mai detto esplicitamente, che a questa mia amica, con la quale avevamo un rapporto di dominazione e sottomissione, interessava la caccia. Una notte, in un parco chiuso di cui avevo le chiavi, ho messo in scena quella che ho capito essere una sua fantasia. Le fantasie spesso sono inespresse, o meglio inesprimibili. Lei voleva correre nuda, di notte, in un bosco, inseguita da cani e cacciatori. Io l’ho reso possibile. Questa cerimonia è stata talmente inusuale e riuscita che ho chiesto ai partecipanti e alla “preda” di scriverne un resoconto. Di solito, al chiuso, ho la situazione sotto controllo. In questo caso lo spazio era troppo grande e dispersivo. Volevo conoscere il punto di vista di ciascuno dei presenti: come ave- vano vissuto quest’esperienza. Al Pompidou, siamo state invitate a leggere questi resoconti. La “preda”, che è cineasta, ne ha tratto un film».

Lei cita spesso Leonardo da Vinci, secondo il quale il piacere è «cosa mentale».

«Il piacere ha percorsi strani, tortuosi. Siamo portati a credere che passi principalmente dal corpo, che sia legato quasi esclusivamente a elementi estetici, fisici. Su quest’idea si fonda la società dell’immagine. Forse questo vale per le fotografie. Funziona in superficie. Ci si può accontentare e rimanere lì, ma il piacere ha radici molto profonde. Perché non esplorarle? Siamo arrivati a livelli elaboratissimi, vedi nevrotici, in ambiti come la moda, la gastronomia, mentre il sesso è rimasto fermo ai tempi della preistoria. La seduzione, il piacere è un incessante gioco di forze. Più penetriamo nelle profondità di questa trama, più intenso è l’appagamento». 

Nei suoi libri torna a più riprese sulla condanna dei clichés. In ambito erotico sono molto presenti, a volte determinanti: tacchi, fruste, bende, corde. È difficile sfuggir loro, ma in arte sono una disgrazia.

«Sa, io ricordo i tedeschi che marciavano per strada. Perfetti, elegantissimi. Gli italiani invece erano sgangherati, ma cantavano benissimo. Sono stata educata in un istituto religioso. Il martirio, il sacrificio di sé, era la massima aspirazione per una ragazza della mia generazione. (Ride). Per forza l’immaginario, almeno il mio, è costellato di San Sebastiani, croci, calvari. Probabilmente cambierà. Anzi, è già cambiato. Oggi ricevo richieste particolarissime, molto personali. Se vogliamo l’apparato religioso non è più di moda. L’immaginario muta al pari della società».

All’inizio c’erano Jeanne de Berg e Catherine Robbe-Grillet.

«Nel 1956 è uscito il mio primo libro, L’image. È stato bruciato pubblicamente e censurato a più riprese. L’ho firmato con uno pseudonimo, Jeanne de Berg, perché volevo una carriera indipendente da quella di mio marito. Alain Robbe-Grillet all’epoca era lo scrittore più conosciuto di Francia, considerato il papa del Nuovo romanzo. Ho mantenuto l’anonimato fino al 1985, quando è uscito Cérémonies de femmes. Per promuovere il libro ho partecipato alla trasmissione Apostrophes di Bernard Pivot, allora seguitissima. Ero velata e mascherata per non essere riconosciuta. Al termine della trasmissione, Bernard ha fatto un gioco di parole svelando la mia identità. Da allora ho assunto e unito i due ruoli. I tempi erano cambiati». 

Mi dica di Alain...

«Di Alain (gli occhi le si illuminano) non sono mai stata innamorata. Abbiamo avuto una vita particolare, fuori norma, forse irripetibile. Molti nostri amici hanno provato ad avere lo stesso tipo di rapporto. Per lo più non ha funzionato. C’era una tenerezza infinita e una fiducia assoluta, ma anche libertà, una libertà totale. Molti dei tabù che abbiamo sfatato allora, penso alla coppia aperta, al BDSM, non sono più tali. Forse ne rimane ancora uno... l’impotenza maschile. Quest’anno, Alain avrebbe compiuto cent’anni...».

Il 1922 è un anno capitale per la letteratura europea: muore Marcel Proust, esce l’Ulisse di James Joyce, nascono Alain Robbe-Grillet, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Manganelli. Le lettere francesi però hanno un tratto unico: flirtano spesso e volentieri con lo scandalo, la provocazione, l’abiezione anche. Da de Sade, passando per Baudelaire, Rimbaud, Genet, fino ai contemporanei Houellebecq e Despentes.

«Alain sarebbe sorpreso da ciò che si scrive oggi. Siamo circondati da un bullismo moraleggiante, che limita la libertà d’espressione, di seduzione, di sperimentazione. La libertà di rischiare. Lui credeva nella forza dell’arte per l’arte, senza buone intenzioni, senza lezioni da impartire. Ora l’arte è salita sul pulpito». 

Da Jeanne de Berg a Catherine Robbe- Grillet; da sottomessa a dominatrice; da Alain a Beverly Charpentier, da qualche anno sua moglie.

«Spostamenti progressivi del piacere come il titolo di un film di Alain. La vita sta nel movimento, nella metamorfosi».

Da blitzquotidiano.it il 12 agosto 2022.  

Nel 2012, a 37 anni, un trentino morì durante una pratica di sesso sadomaso nel corso di una relazione extraconiugale. A dieci anni di distanza due assicurazioni sono state condannate a riconoscere ai familiari (la moglie e i due figli) l’indennizzo, complessivamente di 42.000 euro, previsto dalle polizze stipulate a suo tempo dall’uomo. 

Il risarcimento per moglie e figli

“Le due assicurazioni non volevano pagare – commentano i responsabili di Giesse Risarcimento Danni a Trento – così abbiamo avviato una prima causa e il Tribunale di Milano ci ha dato ragione”. A quel punto, forti del primo risultato ottenuto, è stato chiesto alla seconda assicurazione di pagare l’altro indennizzo. Anche in questo caso, il Tribunale di Trento ha dato ragione ai familiari del trentasettenne. 

La morte durante il sesso sadomaso

Secondo quanto ricostruito nel corso del contenzioso, l’uomo morì a causa di un incidente durante una pratica sadomaso nota come “breath control”. Cioè controllo del respiro. Si legge, infatti, nella sentenza, che la morte del 37enne “non è frutto di una scelta suicidaria. Ma diretta conseguenza di un grave infortunio e pertanto rientrante nella copertura assicurativa”.

Da corrierefiorentino.corriere.it il 2 agosto 2022.

La compagna di Ricky Bibey, il rugbista inglese trovato morto il 16 luglio in una stanza d’albergo a Firenze, a due passi dal Ponte Vecchio, è tornata in Inghilterra. Jennie Platt, cittadina inglese di 44 anni, è stata ascoltata dagli inquirenti la scorsa settimana, dopo che precedentemente era stata sottoposta a due interventi chirurgici perché gravemente ferita. 

«Non l’avevo mai visto così, non era in sé ma non c’è stato nessun gioco erotico. Ricky mi ha preso con la forza - aveva raccontato -. Non volevo dormire con lui e abbiamo litigato. Era fuori di sé e urlava che voleva cancellare tutti e due». 

Quella mattina, la donna sotto choc uscì dalla camera da letto che condivideva con Bibey chiedendo aiuto al personale e ai clienti. Poi perse i sensi. All’arrivo delle ambulanze, era in condizioni disperate. Per lui, ormai non c’era più niente da fare, stroncato da un infarto. Le criticità mediche di Jennie Platt sono rientrate, ma la donna dovrà continuare a sottoporsi a cure.

In Inghilterra, un’amica di famiglia della compagna del rugbista morto ha raccontato al DailyMail alcuni dettagli della relazione tra i due e come sta Jennifer da quando è tornata a casa: «Sono stati insieme per tre anni. Erano andati a Firenze per quella che avrebbe dovuto essere una vacanza rigenerante, ma negli ultimi sei mesi Ricky aveva avuto un crollo psicologico. 

Era stato dentro e fuori da alcuni centri e il viaggio avrebbe dovuto rimetterlo in carreggiata - racconta l’amica di Jenny -, ma è finita in tragedia. Jennie è fortunata a essere ancora tra di noi dopo l’attacco che ha subito. La ferita che ha all’orbita oculare ci preoccupa e in questo momento è su una sedia a rotelle».

Firenze, ex rugbista morto in albergo; adesso l'ipotesi è di violenza sessuale. Luca Serranò su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

Segni compatibili con una colluttazione sono stati riscontrati sul corpo della vittima. La donna è ancora in prognosi riservata.

Segni compatibili con una colluttazione sono stati riscontrati sul corpo di Ricky Bibey, l'ex rugbista inglese di 41 anni trovato morto, sabato scorso, nella stanza di un hotel a 4 stelle a due passi dal Ponte Vecchio. Segni che potrebbero condurre a un'altra verità gli investigatori che indagano sulla sua fine e sulle gravissime lesioni riportate dalla compagna, quarantacinquenne, ancora tenuta sotto stretta osservazione in ospedale, con prognosi riservata.

Valentina Marotta per corrierefiorentino.corriere.it il 26 luglio 2022.

«Non l’avevo mai visto così, non era in sé ma non c’è stato nessun gioco erotico. Ricky mi ha preso con la forza». Sono le parole della compagna di Ricky Bibey, il rugbista inglese trovato morto il 16 luglio in una stanza d’albergo a Firenze, a due passi dal Ponte Vecchio. 

La donna, cittadina inglese di 45 anni, è stata ascoltata oggi dagli inquirenti, dopo che nei giorni scorsi, è stata sottoposta a due interventi chirurgici perché gravemente ferita. Quella mattina, la donna sotto choc uscì dalla camera da letto che condivideva con Bibey chiedendo aiuto al personale e ai clienti. Poi perse i sensi. All’arrivo delle ambulanze, era in condizioni disperate. Per lui, ormai non c’era più niente da fare, stroncato da un infarto.

Agli inquirenti la donna ha raccontato i dettagli di quella notte di follia e di orrore: «Non volevo dormire con lui e abbiamo litigato. Era fuori di sé e urlava che voleva cancellare tutti e due». La coppia, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, era arrivata venerdì 15 luglio a Firenze nell’hotel Continentale di vicolo dell’Oro. I due vivevano a Manchester, dove lei era proprietaria di un’agenzia immobiliare in cui lavorava anche lui e il viaggio in Italia doveva essere un momento di riappacificazione dopo un periodo di crisi.

Erano usciti a cena. Avevano bevuto ed erano rientrati in albergo a notte fonda. Una volta in camera, i due avrebbero prima litigato, poi avrebbero avuto un rapporto sessuale, che la compagna nega essere stato consenziente. La donna ha riportato gravi ferite tra cui segni sul collo. 

L’inchiesta ora deve appurare quanto i due avessero fatto uso di sostanze stupefacenti: Bibey era un consumatore di cocaina e secondo i primi accertamenti tossicologici sul cadavere, ne avrebbe assunta anche quella notte. 

Il consolato inglese è stato immediatamente informato dell’accaduto. Sono stati i diplomatici a informare poi le rispettive famiglie. Ricky Bibey è un ex calciatore professionista della lega di rugby inglese che ha giocato negli anni 2000 e 2010.

Luca Serranò per firenze.repubblica.it il 17 luglio 2022.

Lui riverso a terra con gli occhi sbarrati. Lei ferita e in stato confusionale. Indaga la polizia su quanto avvenuto questa mattina sabato 16 luglio in un albergo a 4 stelle a due passi da Ponte Vecchio: un cittadino inglese di 41 anni, ex rugbista nelle serie minori inglesi, è stato trovato senza vita nella sua stanza, mentre la compagna, 45 anni, anche lei inglese, presentava gravi ferite. 

Gli agenti sono arrivati nell'hotel per la segnalazione di una violenta lite, ma dal sopralluogo e dall'ispezione del corpo del quarantenne non sono stati trovati riscontri. Altri particolari sono stati invece considerati compatibili con una seconda ipotesi, quella di un gioco erotico finito male.

E' stata infatti proprio la donna dare l'allarme, dopo aver visto il compagno accasciarsi a terra: portata all'ospedale fiorentino di Careggi per un intervento chirurgico d'urgenza, si trova ancora ricoverata sotto stretta osservazione, ma fuori pericolo di vita. Appena le condizioni di salute lo permetteranno sarà ascoltata dagli inquirenti. 

Secondo le prime informazioni i due avevano un'agenzia immobiliare a Manchester ed erano una coppia affiatata. Intorno alle due di notte sono arrivati al Continentale in vicolo dell'Oro, apparendo alterati ma senza creare disturbo agli altri clienti. 

Poche ore e poi la tragedia: dalla stanza hanno iniziato a rimbombare grida e lamenti, fino a quando lei è corsa fuori nel corridoio, ferita e sotto shock, per chiedere aiuto ai vicini di stanza. Il personale del 118 è arrivato in pochi minuti, ma per il quarantenne non c'era più niente da fare.

Sul posto la squadra mobile, la pm Ester Nocera, e la polizia scientifica. Dalla prima ispezione sono emersi elementi tali per ipotizzare che l'uomo sia morto durante un rapporto sessuale estremo. Colpito da malore, forse dopo essersi accorto di aver ferito la compagna. Prima di scartare altre piste si attendono comunque altri accertamenti, e soprattutto la testimonianza della donna. Il corpo è intanto finito alla medicina legale di Careggi, dove nei prossimi giorni si terrà l'autopsia. L'esame dovrà accertare tra le altre cose se, come alcune circostanze lascerebbero supporre, l'uomo avesse fatto uso di alcolici o di stupefacenti.

Barbara Costa per Dagospia il 21 maggio 2022.

Ci vediamo a un munch? O a un peer rope? Preferisci una rope jam? Ah, sei su FetLife… Ma tu sei top e bottom? Switch? Fai sploshing? E qual è la tua safeword? Anche tu “banana”…!?ì Se non capisci una mazza di ciò che hai letto significa che non sei un feticista, e se non lo sei ma di questo argomento sei attirato e incuriosito, il libro che fa per te è "Be Kinky!" (Giunti editore, dal 25 maggio), una guida al sesso "kink" (sigla ombrello di ogni sessualità fetish) scritta da Andrea Farolfi, insegnante bondage e uno dei massimi esperti in materia. Be Kinky! è un libro che con competenza ma pure con linguaggio appropriato e semplice conduce nei meandri di realtà sessuali le più molteplici e le più fraintese.

E infatti, che mezzi abbiamo per conoscerle? Il porno, via più immediata, ma pure la più alterata, dacché il porno ce ne dà versione recitata e levigata. Peggio il cinema tradizionale, con tutte le sue sfumature di rosso e di nero e di grigio, autore di un fetish falso poiché romanzato e inesistente. 

Infine, i media, che, se trattano il tema, lo fanno con superficialità. Non hanno e non ne sanno voci e strumenti i più adatti che sono quelli di Andrea Farolfi, maestro che non spaventa il lettore il più alieno di tali faccende e però voglioso di saperne, e magari di sperimentarle, insieme a un partner con cui l’ostacolo più ostico sta nel trovarle, le parole e l’occasione le più propizie per rivelarlo, il lato kinky che vorremmo assaporare!

Con Be Kinky! potremmo scoprire che vorremmo legare oppure esser legati, sculacciare o far da zerbini umani, o da secchi umani, o trasformarci in cane al guinzaglio, o in eunuco. Tutte fantasie stralegittime, e giochi che un feticista deve praticare perché in ciò sta la sua sanità mentale: essere un feticista, e di ogni genere, non presuppone avere una sessualità superiore, o più godente, o più complicante, di chi fa sesso a letto in missionario e a ora e giorno stabiliti.

Se è contento e appagato così, è giusto faccia così, come però è giusto che chi per natura si ubriaca di piacere nel farsi mummificare, cioè di farsi fasciare il corpo da pellicola per alimenti… o di farsi sodomizzare e con le gambe aperte da una barra divaricatrice… o di farsi legare a hog tie, cioè a incaprettamento, o a matanawa, che è la legatura bondage dell’inguine… o di mutarsi in piatto umano di sushi da ingozzare… che se lo viva e se lo goda, e nessuno pensi di fare di più, o di meno, o di sbagliato, se sc*pa in modo altro e vanigliato. 

Scrive Andrea Farolfi che la contrapposizione "sesso vaniglia" – il sesso più tradizionale – contro "sesso pistacchio" – il sesso più alternativo – non ha ragione di esistere, perché non esiste un far sesso "valido" in sé. La sessualità è cognitiva, non ha tappe fisse, e l’orgasmo non sempre e non per tutti è acme obbligata e finale. La sessualità “deve essere libera da condizionamenti, non solo quelli che la società esercita su di noi ma anche quelli che noi riflettiamo sugli altri”.

Sicché “quando nel sesso il nuovo e il diverso smettono di essere qualcosa di immorale o – peggio – di anormale, diventano una possibilità, che possiamo conoscere e se vogliamo esplorare”. Non fa una piega, no? E allora chi voglia in libertà propria e altrui entri su FetLife (social kinky) o incontri kinky-partner in munch (aperitivi tra kinky), peer rope (gruppi di studio kinky), e capisca se è top (kinky dominante), o bottom (kinky sottomesso) o switch (entrambi, alternati) e si munisca di safeword (parola che stoppa ogni atto kinky che non piace più, o che fa male).

Ma ci avverte il maestro Farolfi: non esiste pratica kinky senza minima dose di rischio, e non date mai per scontato niente, i kinky-patti siano chiari prima di cominciare, e diffidate di compagni di gioco che dicono “puoi fare di me quello che vuoi” o “non so i miei limiti, devi essere tu a scoprirli”: sono persone non kinky-mature, e a volte sono "famolostranisti", ovvero coloro che di filosofia kinky e di sesso kinky nulla sanno, e te ne danno inette dimostrazioni buone a sfamare nient’altro che il loro ego. 

Andrea Farolfi dà risposte kinky a ogni quesito kinky: il sesso kinky non dà dipendenza, e non è la conseguenza di scapaccioni presi da piccoli, e non è vero che una volta iniziato non si riesce a smettere finendo per cacciarsi in contesti sempre più estremi. E però mai fare self-kinky (è troppo pericoloso) e mai stare senza forbici da primo soccorso, e mai legare il collo, e mai spalmare oli e creme su pelle su cui poi si cola cera calda (ti ustioni!). 

E tu lo sapevi, che i sex toy pulsatori (con i magneti che simulano spinte penetrative) sono preclusi a chi ha pacemaker? e che i collari tra i migliori li compri nei negozi per animali? e che rafano e zenzero già nell’antica Grecia erano usati per scaldare ani e genitali…? e che ci son artigiani che ti confezionano una croce di Sant’Andrea che può esser ripiegata e usata come tavolo da pranzo…?!!!

·        Mai dire… Porno.

La replica: "Siamo un parco per famiglie". Ilaria Rimoldi dipendente di Gardaland che ha aperto Onlyfans, ora l’azienda non le rinnova il contratto: “Prendevo solo mille euro”. Redazione su Il Riformista il   13 Dicembre 2022

Pochi mesi fa aveva dichiarato: “Guadagno 2mila euro al mese con Onlyfans, ma il mio lavoro è un altro”, e orgogliosamente aveva sponsorizzato le ‘ampie vedute’ dei propri datori di lavoro che “non mi hanno detto niente, c’è rispetto”. Oggi però la vita della 25enne veronese Ilaria Rimoldi, un diploma professionale a Monza in arredamento e design e un contratto a tempo determinato a Gardaland, il parco divertimenti di Castelnuovo del Garda, è cambiata ancora.

Ilaria, fino al mese scorso, si occupava di accogliere i visitatori, lavoro che ha svolto per due stagioni: da luglio 2021 a gennaio 2022, e da marzo di quest’anno fino al 27 novembre. Poi, il contratto non le è stato più rinnovato. “Il mio stipendio era di circa mille euro – racconta al Corriere – e mi serviva un’entrata in più: tra affitto, auto, spesa e bollette, facevo fatica ad arrivare a fine-mese”. La soluzione l’ha trovata in Onlyfans, il portale che permette di scaricare contenuti visibili a chi paga un abbonamento.

“Io non pubblico foto di nudo – specifica -, mi limito a condividere immagini sexy, in lingerie. Iscriversi al mio canale costa dieci dollari al mese”. Neppure lei si aspettava che il suo profilo venisse preso d’assalto. “Il primo mese ho guadagnato 600 euro, ma poi il numero delle persone che mi seguono è aumentato e a novembre sono arrivata a guadagnare 5mila euro”. Ma poi la voce si è sparsa: “È capitato che alcuni visitatori mi riconoscessero, poi sono stata convocata dalla direttrice del parco divertimenti e dal capo del personale”.

Un colloquio che non è andato benissimo: “Mi hanno fatto presente che quella è una struttura per famiglie e che le mie foto su Onlyfans non si addicono all’immagine che il parco vuole dare all’esterno. Ho risposto che nel mio tempo libero faccio quel che voglio e non possono impedirmelo, ma che se volevano potevano alzarmi lo stipendio permettendomi di guadagnare la stessa cifra che mi garantisce quella mia seconda attività. Ovviamente hanno rifiutato”. Il confronto non era un aut aut, ma da quel momento in poi, racconta Ilaria, “ogni pretesto serviva per mettermi in difficoltà: ad esempio mi sono ritrovata con l’orario di lavoro che, all’improvviso, è stato quasi dimezzato”. Arrivata alla scadenza il contratto, nonostante la struttura resti aperta anche d’inverno, non le è stato rinnovato.

L’azienda risponde con una nota: “Gardaland riconosce e promuove l’importanza delle risorse umane all’interno dell’ambiente lavorativo – spiegando che – nell’ambito delle politiche aziendali si invitano i collaboratori, per le proprie attività digital, a evitare l’utilizzo improprio dei loghi o delle immagini di Gardaland non in linea con la vocazione familiare del parco divertimenti”. Una società può ritenersi danneggiata dal fatto che il dipendente pubblichi foto su Onlyfans? Anche per gli esperti i confini non sembrano così netti, Patrizia Gobat, coordinatrice regionale dell’Ordine dei Consulenti del lavoro, spiega al Corriere che una persona può utilizzare il proprio corpo come meglio crede “ma deve sempre tenere a mente che le proprie attività private non devono essere associate all’azienda con la quale collabora né devono compromettere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e dipendente”.

Da “bestmovie.it” il 30 ottobre 2022.

LITTLE ASHES (2008) - Robert Pattinson, evidentemente, ama il realismo visto che si è trovato in diverse occasioni a non voler solo simulare scene di masturbazione sul set. L prima è nel film Little Ashes di Paul Morrison dove Pattinson, nei panni di Salvador Dalì, una coppia che sta avendo un rapporto sessuale e si lascia andare all’autoerotismo. Pat ha dichiarato di essersi davvero procurato piacere per rendere la sua espressione più realistica davanti alla macchina da presa. 

THE LIGHTHOUSE (2019) - La seconda occasione di Robert Pattinson è arrivata con lo sperimentale The Lighthouse di Robert Eggers, dove, racconta lo stesso attore, c’era «u scena di masturbazione feroce» sulla spiaggia. Stavolta Pattinson ha deciso di andare fi fondo: «Ho pensato, ok, a posto, nessuno mi ha detto di fermarmi quindi vado avanti», h al New York Times ammettendo di aver lasciato la troupe un tantino scioccata.

THE BROWN BUNNY (2003) - Tra i casi più celebri di vero sesso sul set c’è quello di The Brown Bunny, il film diretto e interpretato da Vincent Gallo che ha scandalizzato il Festiv Cannes nel 2003. Il passaggio controverso arriva quando l’attrice Chloë Sevigny, che allora era anche la fidanzata di Gallo, gli pratica del sesso orale: si è dibattuto a lungo sull'autenticità della scena, ma poi la stessa Sevigny ha dichiarato che era tutto vero.

NYMPHOMANIAC (2013) - Il dittico di Lars von Trier's dedicato a una donna ossessiona sesso ha, ovviamente, moltissime scene a tema, alcune non simulate. Per esempio, la s in cui Shia LaBeouf ha un rapporto con Stacey Martin. Attenzione però: il sesso è vero, m fra le due star. A metterci il corpo davvero sono state due controfigure, e i volti di LaBeo Martin sono stati applicati poi in CGI. 

LOVE (2015) - Il regista francese Gaspar Noé è da sempre un provocatore. Nel film Love solo ha filmato vere scene di sesso tra gli attori Karl Glusman e Aomi Muyock, ma le ha addirittura girate in 3D. La maggior parte delle sequenze non erano coreografate ma lasciate alla spontaneità dei due interpreti.

GLI IDIOTI (1998) - Il cinema estremo di Lars von Trier ha spesso liberato i corpi dalle convenzioni e dalla finzione. In Gli idioti, del 1998, racconta di un gruppo di amici che rinunciano alle proprie inibizioni cercando "il piccolo idiota dentro ognuno di loro". Tra le scene di nudo, ce n'è una di gruppo che chiaramente non è simulata, anche se non most chiaramente i volti degli attori.

SHORTBUS (2006) - John Cameron Mitchell racconta un gruppo di giovani a New York in sentimentale e sessuale che si incontra ogni settimana nel club Shortbus, incrociando rapporti, arte e politica. Il regista ha incoraggiato gli attori a lasciarsi andare davvero in scene di sesso volutamente non simulate. 

PINK FLAMINGOS (1972) - Impossibile non citare il film cult di John Waters interpretato Divine, la drag queen più celebre del cinema. Pink Flamingos è stato censurato in diversi paesi, tra i quali il Canada e l’Australia, proprio per le sue scene di sesso più esplicite, co quella in assoluto più controversa: il rapporto orale che Divine pratica a suo figlio nella finzione.

MEKTOUB MY LOVE: INTERMEZZO (2019) - Nel film di Abdellatif Kechiche c’è una lunga scena di quasi 13 minuti in cui un uomo pratica sesso orale alla protagonista Ophelie in discoteca. Il film aveva già scandalizzato Cannes, ma le polemiche si sono accese anco più quando alcuni giornali francesi hanno raccontato che la scena non era simulata, e che regista avrebbe convinto gli attori a girarla dopo molte insistenze.

ECCO L’IMPERO DEI SENSI (1976) - Il dramma giapponese diretto da Nagisa Oshima è centrato su un uomo che lascia sua moglie per un'altra donna e, con la nuova compagna sperimenta varie situazioni sessuali, fino allo scioccante finale. Sada, interpretata da Ei Matsuda, pone infatti fine alla vita del suo amante, Kichizo, soffocandolo durante un giochi erotico e poi castrandolo. Alcune delle scene più focose (non la castrazione, ovviamente sono state vissute davvero sul set dai protagonisti.

Da ansa.it il 26 ottobre 2022.

Il Papa mette in guardia i seminaristi dalla pornografia digitale e avverte che è un "vizio" anche di "sacerdoti e suore". "È un vizio che ha tanta gente, tanti laici, tante laiche, e anche sacerdoti e suore. Il diavolo entra da lì. E non parlo soltanto della pornografia criminale come quella degli abusi dei bambini: questa è già degenerazione. Ma della pornografia un po' 'normale'. Cari fratelli, state attenti a questo", ha detto il Papa in un incontro con i seminaristi che studiano a Roma, che si è tenuto lunedì 24 ottobre ma del quale il Vaticano diffonde ora i contenuti. 

Il Papa ha risposto ad un seminarista che chiedeva al Papa come comportarsi con il mondo digitale e i social media. "Credo che queste cose si debbano usare, perché è un progresso della scienza, fanno un servizio per poter progredire nella vita", ha risposto il Pontefice.

Poi ha ammesso: "Io non li uso perché sono arrivato tardi, sapete? Quando sono stato ordinato vescovo, 30 anni fa, me ne hanno regalato uno, un telefonino, che era come una scarpa, grande così, no?. Io dissi: 'No, questo non ce la faccio a usarlo'. 

E alla fine ho detto: 'Farò una chiamata'. Ho chiamato mia sorella, l'ho salutata, poi l'ho restituito. 'Regalami un'altra cosa'. Non sono riuscito a usarlo. Perché la mia psicologia non andava o ero pigro, non si sa". Ai giovani seminaristi dice invece che i telefonini e tutti i dispositivi digitali vanno usati. "Voi dovete usarli, dovete usarli solo per questo, come l'aiuto per andare avanti, per comunicare: questo va bene".

Poi ha aggiunto che occorre prestare attenzione per esempio a non perdere troppo tempo. Ma anche a non usarli come strumento per la pornografia. "C'è un'altra cosa, che voi conoscete bene: la pornografia digitale. Lo dico a chiare lettere. Non dirò: 'Alzi la mano chi ha avuto almeno un'esperienza di questo', non lo dirò. Ma ognuno di voi pensi se ha avuto l'esperienza o ha avuto la tentazione della pornografia nel digitale", ha detto parlando con i seminaristi. 

"Il cuore puro, quello che riceve Gesù tutti i giorni, non può ricevere queste informazioni pornografiche. Che oggi sono all'ordine del giorno. E se dal tuo telefonino tu puoi cancellare questo, cancellalo - ha indicato il Papa ai futuri sacerdoti -, così non avrai la tentazione alla mano. E se non puoi cancellarlo, difenditi bene per non entrare in questo. Vi dico, è una cosa che indebolisce l'anima. Indebolisce l'anima. Il diavolo entra da lì: indebolisce il cuore sacerdotale". 

E ha concluso: "Scusatemi se scendo a questi dettagli sulla pornografia, ma c'è una realtà: una realtà che tocca i sacerdoti, i seminaristi, le suore, le anime consacrate. Avete capito? Va bene. Questo è importante".

Barbara Costa per Dagospia l'8 ottobre 2022.

Volete cambiare le leggi sul porno? Magari! Fatelo, fatelo subito, e però nel rispetto di chi nel porno ci lavora e nel rispetto di chi il porno legalmente lo produce. Se volete regolamentare e a fondo e meglio il porno, è al porno – a chi il porno lo conosce – che dovete con fiducia chiedere aiuto e idee, è col porno che dovete lavorare in tandem.

Non come propongono in Francia, dove parlamentari e convinte e femministe e con pregiudizi enormi nei confronti del porno, vogliono il porno punire, se non abolirlo del tutto. Ma, mie care politiche, e attiviste per i diritti delle donne, e studiose, e a vanto femministe, voi che tanto alle "donne" tenete, davvero fate il bene delle donne quando accusate la pornografia di ogni male? E quale pornografia, poi? La pornografia è una?

Dopo mesi di indagine, il Senato francese pubblica un rapporto sul porno, tutto al negativo, ovviamente, giudicandolo quale un inferno deciso e guidato da uomini cattivissimi, che fanno porno a danno delle donne. Questo rapporto riporta testimonianze di chi nel porno francese lavora, ha lavorato, e di attiviste, nonché di alcune vittime, e conclude con l’esortazione a regolamentare una realtà bollata come nefasta in sé. 

Sbagliando e alla grande nel non fare netta distinzione tra il porno professionale e quello amatoriale, e nel porre alla gogna il porno che c’è sul web ma non si sa fino a che punto quello sì criminale che circola indisturbato nel dark web, questo rapporto mette in un unico calderone chi nel porno ha avuto condotte criminali insieme a chi nel porno lavora e in osservanza delle leggi, e pagandoci le tasse, ed è un colosso della vita e del fulgore francese sia in campo economico che sociale che culturale.

Mi riferisco a "Dorcel", colosso porno francese e europeo e mondiale, attivo dagli anni '70, e che contro questo rapporto si è scagliato, e a ragione. Per bocca del suo capo Gregory Dorcel, figlio del fondatore Marc, ribadisce che il porno è un genere cinematografico (e fotografico, e scultoreo, e letterario, ecc.), e ribadisce che Dorcel per primo riconosce la necessità di normarlo e più severamente, ma che lo si deve fare con l’apporto di chi del porno ne sa e fa e non per decisione di chi del porno nulla sa né fa, e, peggio, lo tratta come feccia. 

Si deve partire dalla distinzione BASILARE tra porno professionale – che è già normato in sé e da sé – e porno amatoriali il quale è in larga parte una landa selvaggia senza regole e che, e tanto coi social, è figliato e senza sosta figlia in difformità. Si deve far sì che attori e attrici e tutti del porno siano riconosciuti quali professionisti, con correlativi statuti, e tutele, e garanzie.

Che venga su di loro rimossa ogni etichetta morale, e che vengano accolte denunce di eventuali soprusi senza preconcetti su chi le fa (ma questo punto nel report pare sia stato recepito). Che gli agenti porno vengano raccolti sotto status giuridico certo. E che si prenda esempio dal codice etico (di verifica, documentale e video, di consensualità, di maggiore età, benessere fisico e mentale, presa di responsabilità del materiale girato) che grossi gruppi come Dorcel si sono – e da tempo! – autocreati e autoimposti, e in collaborazione con i e le performer. L’amatoriale deve esser normato a questo modello.  

Sussiegoso e assennato, il report sottolinea: serve educazione al porno, servono rigori, servono controlli, perché dei milioni di francesi che guardano il porno online, un’allarmante percentuale sono minori. Bene, risponde il porno, poneteli questi controlli al web, sarebbe ora!!! Il porno per primo vorrebbe – e da anni ai governi lo chiede – un serrato diniego online dei minori al porno. Ma come fare? Si può fare? E allora, governo, quand’è che lo fai? Non è competenza di chi nel porno è e lo fa quella di regolare – e in maniera necessariamente s-o-v-r-a-n-a-z-i-o-n-a-l-e – l’accesso al porno dei minori sul web. È dovere della politica!!!

Il rapporto francese lega la sua offensiva al porno forte di due inchieste che in Francia hanno portato a arresti e tutti nel porno amatoriale, e non professionale, perché è nell’amatoriale che tanti individui via web si spacciano per autorità porno, attirano donne molto giovani, in difficoltà economica, le allettano con servizi di foto hot pagati lautamente, ma servizi che si rivelano trappole di indicibili violenze, filmate in video smerciati in rete. 

Donne che hanno altresì denunciato, delinquenti che sono stati arrestati, e processati (è il caso "Axelle Vercoutre", alias di un uomo che nei social si spacciava per donna con account falsi e per adescare donne e drogarle e vessarle in un sistema di porno amatoriali putiferi di soprusi. Ed è sotto inchiesta il team francese di porno dal consistente ramo amatoriale "Jacquie et Michel", il cui capo è stato arrestato per tratta di esseri umani e violenze).

Ma se è sacrosanto che chi – dopo verdetto processuale di colpevolezza – deve pagare del reato fatto, non è da due o più mele marce che il porno tout court dev’essere giudicato e alla ghigliottina mandato. Il porno, come ogni altra sfera professionale, ha lati positivi e negativi. Luci e ombre. 

Persone stimatissime che secondo legge vi lavorano, e altre no. Sicché è fortemente ingiusto condannare il porno in sé (Dorcel mantiene altresì un florido ramo porno di riviste cartacee, e di megastore fisici: aboliamo pure questi?! Se sì, Macron, aspettati un aumento di disoccupati non irrilevante) ma servono – e al più presto!! – leggi inedite e non novecentesche bensì atte a un presente in continuazione mutante, e tanto nella sua impalpabilità (realmente è possibile conquistare un diritto all’oblio in rete???

Sicuri che nel web foto e video non consensuali possono sparire per sempre???) E servono leggi non viziate da nessun –ismo, men che mai femminista, perché il porno sono 20 anni che gli uomini non lo comandano più!!! Siete pronti? Di sole parole, e di intenti, unti di biasimi e lamenti inutili, e di essere marchiati quale motivo di devianze sociali, noi del porno siamo ARCISTUFI. Come di far da secchio a rigurgiti di coscienza. La verità non sta mai da una parte sola. Giammai il Bene.

Barbara Costa per Dagospia il 2 ottobre 2022.

Malena l’ha dichiarato: vorrebbe avere un bambino! Scatenando il panico: si ritira dal porno!!! Ma no, ma tranquilli, ma perché poi??? A parte che il suo è un desiderio, futuro, e imprecisato, perché una pornostar che fa un figlio si dovrebbe ritirare? Un utero porno non può andare in maternità? Un ventre porno che ha di diverso da uno non porno? Il giudizio cattivo degli altri. 

Se il mondo del porno professionale è pieno di pornostar che hanno figliato tornando agili a pornare, a darci sotto sui set e pure il doppio, di prima, avendo un’altra persona da mantenere, forse i più ignorano che una pornoattrice può benissimo lavorare i primi mesi di gravidanza (ma pure oltre) se fortunata la sua gestazione non le procura i minimi disturbi. Una pornostar SE LO VUOLE può benissimo girare, scene soft, certo non strong, certo non hard sadomaso: dove sta il problema?

E che, tale f*ga non può essere "violata" da lingue e peni che della lì dentro in fieri creatura non sono il padre? Il problema sta nella integrità e nella santità che quel gruppo di cellule cioè di vita, assume… e per chi? Per chi ci sbarra, a sé e ci sta, ma sugli altri no, la sua etica patriarcale e morale di religione e tabù. L’utero che ospita quel feto è sacro per chi così lo identifica, impastato di dogmi che grazie a dio non sono universali. E infatti, chi decide e dispone di quell’utero? La proprietaria, che ha indiscusso arbitrio pure su quelle cellule che stanno formando nuova vita. Pornare gravide è sacrilego per chi in suddetto peccato crede, e suddetto precetto osserva.

D’altronde, pornare incinte non è una novità: numerose attrici lo hanno fatto, lo fanno, lo faranno. Tra le più note, Belladonna, ex pornostar oggi porno boss e producer, mamma se non sbaglio di due bambini. I suoi porno gestanti sono in rete. Asa Akira, che si masturbava in folli video col pancione. Milly D’Abbraccio, che ha pornato incintissima.

E si è esibita in show sexy, nei locali, fino al sesto mese: mi dicono – mi giurano! – che si faceva la fila, per ammirarla… Una performer che figlia nel porno – e specie made in USA – è prassi. Tante star sono madri in piena attività, e vi è chi ha "profittato" dello stop Covid per farne uno. "Dopo" rientra sui set, e mi sovviene la grande Tori Black che, a ogni annuncio di stop maternità univa il suo addio alle scene, per poi ricalcarle trionfante, e con nuovo contratto sonante. 

Ritornando a Malena, l’Italia provincialotta indebitamente si e le chiede come spiegherà al suo futuro pargoletto il suo lavoro. E perché Malena dovrebbe sentirsi in difficoltà, peggio vergognarsi di ciò che ha scelto di fare per soddisfatta campare? È chiunque lo pensi, con quel sorrisetto di superiorità, che una porno attrice sia intrinsecamente una madre sbagliata, a doversi pentire di una simile superbia. Non mi risulta un figlio di pornostar venuto su male, un criminale.

Semmai, il contrario. Ne è piena o no, la cronaca, di figli "bene" delinquenti e ineducati? Ciò nonostante, il pregiudizio della pornostar donna scostumata, malafemmena, da noi non morirà mai. La pornostar mette in crisi il modello italico della donna mamma, cioè santa, se casalinga pure meglio. Ma, se lo mette in crisi, significa che tale prototipo è scalfibile. Moana Pozzi, interpellata con malafede sul tema, sicura rispose che lei figli non li avrebbe fatti, per non far ricadere su di loro le sue scelte. 

Moana dava a chi se lo meritava del bigotto moralista, sia chiaro. Al contrario, Ilona Staller un figlio lo ha voluto e fatto, e dopo di lui ha ripornato, smettendo un po’ per l’età (è diventata mamma a 41 anni, ma allora le milf non andavano) molto per la dispendiosa guerra che il suo ex Jeff Koons le scatenò contro.

Valentina Nappi si è sposata due anni fa, con Giovanni Lagnese, suo amore più che decennale. Alla notizia, allarme nazionale sul suo addio al porno. Per una fede al dito e un giuramento??? Vale non è scampata dalla più banale tiritera nostrana: a quando un figlio? Ovvero: quando lasci il porno per fare la donna "onesta"...? Ma Valentina il porno lo vuole e un figlio no, e per motivi suoi che col porno nulla c’entrano.

Italiani, perché non andate mai a rompere il pene ai pornostar maschi che vogliono e diventano e sono e fanno i padri???

Olga Noel Winderling per repubblica.it il 18 settembre 2022.

Il consumo di materiale pornografico è in costante crescita soprattutto fra i maschi, confermando un convincimento diffuso supportato dai dati: sì, il tema interessa gli uomini nella stragrande maggioranza dei casi. Come dimostrano gli utenti di Pornhub – il colosso canadese della pornografia in rete – donne solo nel 35 per cento dei casi, molto spesso per condividere un’esperienza con il partner. 

L’argomento merita attenzione, specie per quanto riguarda i più giovani, e infatti si moltiplicano gli studi che indagano gli effetti del porno sulla vita delle persone. Va detto, tuttavia, che le conclusioni degli esperti rimangono opposte: per alcuni il suo consumo favorirebbe la sessualità; per altri invece rappresenterebbe una minaccia all’espressione di sé e a un “sano” rapporto con il piacere.

Jacques Berent, ricercatore e docente di psicologia all’Università di Ginevra, e il collega Nicolas Sommet (SNSF Ambizione Lecturer in social psychology, centro LIVES, facoltà di Losanna) hanno deciso di affrontare la questione da un altro punto di vista, impegnandosi in una ricerca che finalmente potesse rispondere alla seguente domanda: “Qual è l’effetto della pornografia sulla sessualità degli uomini e quale, invece, su quella delle donne?”. 

Ed ecco la sorpresa: “Da un lato, abbiamo scoperto che più gli uomini guardano il porno, più riferiscono di avere dubbi sulle proprie prestazioni e di soffrire di problemi sessuali, per esempio in termini di pulsioni o di erezione, con conseguente insoddisfazione delle partner”, spiega Sommet.

“Al contrario, abbiamo riscontrato che nelle donne il consumo di pornografia accresce la sensazione di competenza sessuale, riduce le problematiche e tutto questo si traduce anche in una maggiore soddisfazione dei partner”. 

Naturalmente si tratta di una tendenza generale, dove sono previste eccezioni, ma i risultati del nuovo studio risultano chiari: “Negli uomini, l'uso della pornografia diminuisce la fiducia sessuale, il funzionamento e quindi la soddisfazione del partner. Mentre si osserva la tendenza opposta per le donne”.

L’indagine è stata condotta nel massimo rigore, con il cosiddetto campione Wave 1 di 100.000 partecipanti intervistati nel 2015 e il campione Wave 1-3 di 22.000 persone seguite annualmente dal 2015 al 2017. “L'età media era di 21 anni, con il 90 per cento dei partecipanti tra i 18 e i 25”, riprende Nicolas Sommet. “Il fatto è che la giovane età adulta è un periodo-chiave nello sviluppo della sessualità, e nella letteratura scientifica esiste un dibattito di lunga data sull'influenza dell'uso del porno sui ragazzi. 

Alcuni ricercatori suggeriscono che il porno distorca le opinioni dei giovani sulla sessualità e abbia un impatto negativo su di loro. Ma altri hanno messo in guardia contro gli "approcci di ricerca basati sul danno", che cioè si concentrano quasi esclusivamente sul lato negativo ignorando gli effetti neutri o forse anche benefici che il porno potrebbe esercitare. Quindi abbiamo deciso di condurre questo studio molto ampio per fornire una risposta più affidabile, nel tentativo di risolvere il dibattito”.

E come vi siete spiegati, alla fine, gli effetti “positivi” e “negativi” che la pornografia esercita in modo diverso sulle donne e sugli uomini? “Sappiamo da vari studi che il porno può essere utilizzato per acquisire conoscenze su determinate tecniche sessuali, come il sesso orale. 

Dal momento, però, che gli uomini tendono ad avvertire una maggiore pressione rispetto alla propria perfomance, è possibile che la pornografia trasmetta loro standard irraggiungibili nel confronto con gli attori, impedendo così di trarne ispirazione. Poiché le donne sentono meno questo tipo di pressione, è invece plausibile che il porno consenta loro di espandere i propri orizzonti”.

Barbara Costa per Dagospia il 17 settembre 2022.  

E se scoppiano le coppie porno? Pure il porno finisce a avvocati e a velenosi e non congiunti comunicati? E i loro followers coi cuori spezzati? Tutti o quasi a lutto per la fine della coppia Totti-Blasi, ma è di quelle porno che dovremmo occuparci: e se si lasciano loro??!? Fine dell’amore, quindi dello show di sc*pate, sicché del business? Mi riferisco apertamente alle coppie porno homemade, quelle che fanno da sé, e che del porno sono star. 

MySweetApple, i LeoLulu, Steve e Danika Mori: ragazzi che del loro amore e del loro sesso fatto porno e reso pubblico e monetizzabile beatamente campano. Fondere una vita a due fin nell’intimità più profonda, e sperma e secrezioni e orgasmi, col pubblico, nello stesso sudore, ogni giorno, fortifica una coppia porno, o la logora senza rimedio?

Considerate questo fatto curioso: le coppie homemade del porno più famose e vincenti sono ragazzi che già stanno insieme da un bel po’. Gli italo-argentini MySweetApple, i francesi LeoLulu, gli italiani Mori si sono conquistati fama e denaro col porno auto prodotto, settore in cui si sono buttati forti del loro rapporto di coppia collaudato. Di conseguenza: il porno come scelta di vita, come scopo di vita, come fusione piena tra ciò che sei in privato e ciò che mostri in pubblico, funziona come mestiere se la coppia è caratterialmente e tra le lenzuola super sperimentata? 

Vediamo nello specifico: dietro l’alias MySweetApple ci sono Kim e Paolo, 28 anni lei, 33 lui, insieme da 9, nel porno da 5 anni. Kim si è messa con Paolo che era una 19enne non più vergine da un anno e che si masturbava da soli 4. Kim ha perso la verginità anale con Paolo e in attività, in cam davanti a una platea pagante e applaudente, e Paolo ce l’ha talmente grosso e oversize per il suo ano che in quell’occasione ne è entrato appena la metà (Paolo ha perso la verginità a 15 anni, ma è analmente intatto e tale vuole restare).

Kim e Paolo si sono conosciuti in un ufficio, impiegati nella stessa azienda, e la loro prima volta è stata a una festa, in una sc*pata a tre con una amica comune. Sono andati subito a abitare insieme, facendo sesso ininterrottamente per un mese. E riprendendosi, e postando per gioco i loro amplessi. È questo che conta e fa curriculum in una coppia che fortemente decide di unire la sua vita sentimentale e sessuale con quella sociale e lavorativa. Kim e Paolo finanziano i loro viaggi intorno al mondo con lo sc*pare intorno al mondo filmandosi, e però tutto quanto, la loro alchimia, la loro stabilità e (in) felicità, e il loro successo, è legato e interamente dipendente dal loro amore.

Cosa succederà il giorno in cui i loro cuori non batteranno più all’unisono? Giuro, non gliela sto tirando, ma… c’è ancora chi crede al per sempre??? Parliamoci chiaro: la nostra sessualità cresce e evolve con noi ed è normale che ciò che sessualmente facciamo e desideriamo a 20 anni non può combaciare con ciò che aneliamo a 40, e a 60, e ancor meno con la stessa persona. Con la basilare differenza che, se non sei una coppia porno e ti disamori, ti lasci e ci soffri e ti trovi di fronte a incombenze legali se sei sposato.

Ma se sei una coppia porno… se ti disamori muore chi sei stato fino a quel momento in ogni aspetto del tuo vivere. Uscirne più o meno con le ossa rotte dipende da se e come ti sei premunito prima di iniziare a far sesso con la tua metà per sentimento ma anche per lavoro. Ci si faccia cinici e prudenti: va bene scoppiare d’amore, va bene sc*pare come ricci, ma se si lavora col sesso di coppia, si stenda e nitido si metta nero su bianco tutto, si firmi e ci si tuteli contro la fine di una passione pur ritenuta a prova di bomba. 

Se le coppie porno non parlano volentieri di quanto guadagnano, men che mai ti svelano se un contratto a divisione di porno beni e diritti lo hanno fatto. Kim e Paolo si doppiano e si sdoppiano con altre coppie porno e tra tali video apprezzatissimi spiccano i foursome coi francesi LeoLulu, due che vanno forte su OnlyFans, due che spopolano su Pornhub, e pure loro giovani e innamorati fin da adolescenti: 25 anni lei, 27 lui, insieme da 9, in porno online da 5.

Anche loro si dichiarano pazzi d’amore come il primo giorno e indistruttibili, e anche loro insieme 24 ore su 24, anche loro giù e su a sc*pare tra loro e tra altre coppie porno. Anche loro a diluire se stessi con chi li guarda e li paga e con loro si s*ga ma che con indifferenza passa a altro porno, ad altre coppie, qualora la chimica dei LeoLulu e dei loro colleghi dovesse venir a noia, prosciugarsi, rompersi come una coppia qualunque. 

E rompersi anche per possibile invidia lavorativa: il porno paga e premia di più le donne, e si vede da come si muove Pornhub.

Dei nostri Steve e Danika Mori (cioè Stefano, 33 anni, e Federica, 28, insieme da 11 anni, nel porno da 4) come dei LeoLulu, e come di ogni altra coppia porno che retribuisce e coi quali stra-incassa, Pornhub è della parte femminile che fa maggior uso e risalto e smercio. Sono le vagine di Leo e Danika che hanno porno lavoro e proposte e opzioni doppie della loro maschia metà di cuore e di professione. Nel loro paradiso di amore e sesso magari oggi passa sottotraccia, ma sono le donne che portano a casa parecchi soldi.

Barbara Costa per Dagospia il 12 settembre 2022.

Si ritorna agli anni '90? Ci rimettiamo ai 90s? Pura illusione, lampi di utopia per un passato che non ritornerà. Impossibile far rivivere quel decennio e pure nel porno, dove non solo il porno era diverso (tanti soldi per poche star), i corpi delle donne erano diversi, chirurgicamente ritoccati o no (ma non com’oggi piallati) staccati dalla medietà, ma soprattutto… come clonare le menti di chi il porno dei 90s a sua visione plasmava? 

Dove sono i nuovi Andrew Blake, i nuovi Michael Ninn? Chi tocca simili apici di maestria? Nessuno. Eppure… se ci sono siti all’estetica di Blake e di Ninn sfacciatamente rifacentisi, e da ultimo "Slayed", nato dalla mente del blakeiano e ninniano regista Laurent Sky, c*li e tette e gambe e armonia di insieme ai 90s tendente è da un po’ visibile in porno puntanti su modelle nuove, a moina nineties.

Come Christy White, 21 anni, tedesca, lunghe gambe che non finiscono più, in posa a 90s Claudia Schiffer style. Non ha niente dell’iconica Claudia. Nondimeno è quel canovaccio che tentano di venderci, e sulle foto di Christy ti si fermano gli occhi. Su quel femmineo etereo glamour. E però… qual è la differenza abissale tra le star, anche pornostar, dei 90s, e le star, anche pornostar, odierne, comprese quelle che ai 90s mirano? 

Questa: che oggi sì brillano ma pure postano, twittano, e parlano parlano parlano… e ti cadono le braccia dalle banalità che pronunciano. Ti vanno in depressione e pene e clitoride. Garantito. Se infatti nei 90s era raro, era un evento, sentir parlare le top model (chimere erotiche sublimi) ben di più le pornostar (ma a loro i media mainstream allora erano verboten), e ciò faceva parte del gioco, faceva il loro gioco, di sirene intoccabili, inaccessibili… oggi è tutto un pigolare noiosità.

Ecco cosa ci dice la bionda Christy White: faceva la modella, ha iniziato col porno perché innamoratasi di un porno attore, Ken Sinner, col quale ha fatto le prime scene, e col quale è fidanzata tuttora. Non solo la bella Christy il nome (cognome) del suo amore se l’è tatuato sulla chiappa, ma pone pure i suoi bei porno paletti: faccio 5 anni di porno, poi mi sposo, e faccio la mamma. Può esistere progetto più ovvio? Aveva ragione Riccardo Schicchi: le pornostar mai devono rivelare cosa sono nel privato, giammai che vogliono sposarsi e sfornare poppanti.

Rovinano il sogno di donne libere, "tue" nei tuoi onanistici amplessi, aliene all’immagine di donna tradizionale che da 2 millenni ci asfissia. Ma sono i social, è la forma mentis social, in sé regrediente, ad aver distrutto, e in via definitiva, ogni mito, ogni divismo, e ogni discorso ad essi riferente. Trastullante. Rincuorante dal grigiore quotidiano. Che farci, ormai? Ogni cosa va social, si fa social, si vive social… due p*lle… Christy White lavora per Inna Innaki, greca milf modello 90s. Suo Sugarbabes.tv, sito giostrante corpi porno che agli eccelsi 90s ambiscono (vorrebbero…). A giudicare dai monetari risultati, il porno che offre Inna piace, e funziona.

La super pornostar Abella Danger, il cui corpo masturbante ha nulla a che fare coi 90s, appare sul suo OnlyFans in partnership con un vero personaggio dei 90s: l’attrice Denise Richards! Chi se la ricorda, nel thriller "Sex Crimes - Giochi Pericolosi", con Matt Dillon? “Dov’è la sua "pompa", signor Lombardo?”: così, bagnata, sexy, gocciolante, Denise Richards si presentava. E nella scena in piscina, con Neve Campbell, altra icona dei '90, dove le due sc*pano (ma recitano…?) La scena è ora omaggiata dalla 51enne Denise Richards, con Abella Danger al posto di Neve Campbell.

Solo che… elettricità sessuale pari a zero. Ingrifamento visivo pari a zero. E inutile chiamino a soccorso Sami Sheen, figlia di Denise Richards e Charlie Sheen. Sami che è un nome social, e in quanto a seduzione… si vuole, cosa, rievocare, e in che modo, il maledettismo di cotanto padre, lo charme di cotanta madre? Sami è divetta social, e sta bene così. È già detto tutto, mostrato tutto. Esserci, in ogni momento, nel tap tap social generale che si crede reale (???) fama attuale.  

Barbara Costa per Dagospia il 21 agosto 2022.

Non lo saprà nessuno. Non metteremo il tuo video online. Non lo vedranno nella tua città. E il tuo nome non comparirà. Ti diamo fino a 6000 dollari. Cash. Lo fai? Firma qua. E sei all’inferno.  Si è concluso il processo contro "GirlsDoPorn", il sito porno ora condannato per frode, coercizione e violenza sessuale. Avete mai visto un suo video? Forse sì, e non avete nulla da rimproverarvi: come sapere che quelle ragazze sul video, in quella camera da letto, non erano attrici che giravano un porno, ma ragazze chiuse in una stanza, forzate a subire atti sessuali non richiesti, e non pagati, e divulgati a loro insaputa?

Ecco qui i fatti: GirlsDoPorn nasce a San Diego nel 2009 a idea di due neozelandesi, Michael Pratt e Matthew Wolfe. Sul web, reclutava ragazze giovanissime, dai 18 al massimo 25 anni, proponendo loro servizi fotografici o brevi video di nudo non pornografici o, se pornografici, destinati non al web ma a dvd privati, e fuori dagli USA. Per questi video, offrivano paghe molto alte, dai 2000 dollari in su, viaggio aereo e alloggio in hotel compresi. A tali annunci rispondevano per lo più studentesse universitarie, precarie e/o disoccupate, attratte dalla possibilità di lauti guadagni extra. E facili. 

Appena una ragazza lasciava i suoi contatti per più informazioni, veniva raggiunta da mail e sms di sue sedicenti coetanee, che le si presentavano quali ex o attuali modelle, che avevano posato per questi signori, e si erano trovate benissimo: la paga era quella proposta, via cash, e ogni cosa si svolgeva nella massima correttezza. Nel momento in cui una ragazza accettava il lavoro, le arrivavano biglietto aereo e indirizzo dell’albergo.

Tutto spesato. Tutto secondo i piani… e invece ecco che, sbarcata a San Diego e giunta in hotel, e fatte a lei firmare ingannevoli liberatorie (e che in realtà attestavano il suo illimitato consenso per uso e distribuzione web del materiale da girare, nonché la perdita su di esso di ogni diritto: moduli che le sventurate non leggevano, o in ogni modo non capivano, data la giovane età), veniva serrata in camera, e sottoposta a filmato sesso totalmente non consensuale. A fine "trattamento", veniva pagata e un’inezia rispetto a quanto pattuito, buste che tante tra loro non controllavano, per l’angoscia e la fretta di fuggir via.

Poco tempo, e ogni ragazza ritrovava il suo video in rete, nei siti porno i più frequentati (come Pornhub) spesso col suo vero nome, e presentata quale attrice. Molte ragazze hanno subìto bullismo e molestie online, hanno perso il posto (tali video sono stati visti dai loro datori di lavoro, dai loro padroni di casa), e deteriorato affetti familiari e personali, costrette a trasferirsi per tentar una nuova vita altrove. Non denunciavano per paura e vergogna, ma principalmente per assenza di prove a loro discolpa: non solo i contatti che avevano non erano più attivi quando vi ricorrevano devastate, ma anche le identità dei loro violentatori erano false, falso il nome della società che intendevano accusare. Soprattutto si sapevano imprigionate a quei documenti, a quella firma che le esponeva quali consenzienti porno performer amatoriali.

GirlsDoPorn ha proseguito la sua condotta criminale, e pure con spot sui più noti social – e a farci soldi, e parecchi, visto che agli utenti era chiesto un abbonamento mensile di 30 dollari, che a loro fruttavano introiti milionari – fino al 2020, cioè fino a che un gruppo di donne, incoraggiate da avvocati decisi, ha finalmente denunciato. L’attore con loro nei video è stato riconosciuto, così il cameraman. Alle prime denuncianti, se ne sono aggiunte molte altre, forti della legale garanzia che i loro nomi non sarebbero stati dati in pasto ai media. Così è stato.

Tutt’oggi, non sappiamo i nomi reali delle ragazze nel processo denominate Jane Does 1, Jane Does 2 e così via, e però quelli di GirlsDoPorn sono stati arrestati e, nonostante abbiano tentato di sottrarsi al processo con un’istanza di fallimento giudicata frivola (e per la quale sono stati a parte condannati), alla fine si sono dichiarati colpevoli – e con loro le "ragazze" che telefonavano alle vittime spacciandosi quali modelle: in realtà era la contabile di GirlsDoPorn… – e sono stati condannati a 20 anni di reclusione, più al pagamento di risarcimenti di oltre 12 milioni di dollari (ma l’ammontare complessivo sarà stabilito a ottobre, le donne da risarcire sono 402, sia testimoni al processo sia no, e il loro numero aumenta, e probabilmente che si aprirà un nuovo processo: si teme che vi siamo rimaste coinvolte minorenni).

Cosa importantissima, ogni vittima di GirlsDoPorn ha tratto i diritti di proprietà e immagine del materiale girato, e solo così è riuscita a ottenere la rimozione dei filmati in rete, a partire da Pornhub. Pornhub che da 50 donne è stato tacciato di sapere come operava GirlsDoPorn. Pornhub che dai video di GirlsDoPorn ha ricavato cifre notevoli. Pornhub che aveva GirlsDoPorn in Top 20, (era tra i brand più visti, con quasi 700 milioni di views (ma, se si sommano i video di GirlsDoPorn postati su altri frequentati siti porno, le views sono miliardi).

Pornhub ribatte che non ne sapeva niente, che ha tolto GirlsDoPorn dal suo bouquet nel 2019, prima dell’imposta chiusura giudiziaria, e che con le sue 50 querelanti ha raggiunto un accordo extragiudiziale i cui termini sono tenuti riservati.

E non è finita qui. Michael Pratt, il capo dei capi di GirlsDoPorn, al contrario dei suoi complici, è riuscito a sfuggire all’arresto, è tuttora latitante e irreperibile – si dice sia in Nuova Zelanda – e sulla sua cattura, o per notizie che la possano agevolare, l’FBI ha posto una taglia di 10mila dollari da ultimo aumentata a 50mila.

Damian Oliver, l’ex calciatore diventato pornostar racconta il suo flop. Jacopo Romeo il 18/08/2022 su Notizie.it.

Damian Oliver, ex calciatore delle giovanili del Crystal Palace, ha lasciato il calcio per fare il pornoattore: ad oggi, però, si è pentito della scelta 

Damian Oliver era una giovane promessa del calcio inglese. Era un giocatore importante delle giovanili del Crystal Palace, club di Premier League, che ha deciso di lasciare il suo sport quando era molto giovane. Oliver aveva un altro sogno, quello di diventare un pornoattore.

Recentemente, Damian Oliver, ha raccontato in un’intervista la sua prima esperienza da pornostar, dopo l’addio al calcio. Il talentino della Premier League pensava che quel lavoro sarebbe stato facile, ma così non è stato, almeno all’inizio: “È stato terrificante… essendo al mio primo set è stato piuttosto spaventoso, dovevo tirare fuori il c***o davanti al cameraman e iniziare a darmi da fare.” Damian spiega che, fortunatamente, l’attrice che era con lui fu molto gentile, ma le cose andarono comunque male: “Ero su un pavimento in laminato, ero nudo e sudato e scivolavo nel mio stesso sudore.

Dovevamo continuare a tagliare, continuavo a scivolare sul pavimento e loro dovevano continuare a pulirlo, ero solo un pasticcio gocciolante.”

L’addio al calcio e il pentimento

Il problema di Damian è stato credere che questo nuovo lavoro sarebbe stato molto più semplice che sfondare nel calcio. Oliver, però, non ha trovato nel mondo del porno ciò che credeva: “Quando ero al Crystal Palace, se fossi rimasto con loro, avrei potuto guadagnare molto di più giocando a calcio.

Mi impegnavo, forse sarei potuto andare da qualche parte. Ero bravo in entrambe le cose, ma ho pensato che fare la pornostar sarebbe stato altrettanto buono. Ma non è buono come pensa la gente…” 

Marco Giordano per Tuttosport il 19 agosto 2022.

«Il vento sta cambiando, i tabù stanno cadendo. Tutti vogliono parlare di sesso con me e non mi guardano più con timore»: Davide Iovinella nella vita fa il difensore centrale. Nel passato recente, però, non è più stato il ragazzo nato a Marcianise nel ‘93 e che ha sempre sognato di giocare a calcio, ma Davide Montana, pornostar scelto e voluto direttamente dall’eminenza dell’hardcore, Rocco Siffredi. 

E quel cognome-pseudonimo che nasce da una somiglianza con quel Tony Montana di Scarface: Davide è stato l’Al Pacino del cinema per adulti. Calciatore e pornoattore: con tanto di accademia e film girati. Scene su scene, scelto direttamente dalle attrici: «Una vera e propria laurea conseguita nel mondo del porno»: con tanto di quella punta di orgoglio che non fa mai male. 

Ora, però, quel percorso è finito.

«Sì, dovevo rinunciare al calcio e alla famiglia. Ho preso la mia strada, senza perdere l’esperienza fatta, Anzi, la voglio mettere a frutto». 

Ci perdonerà, ma oggi è difensore della Scafatese: diventa complesso immaginare un legame col porno.

«Ovviamente, parlo di attività extra-calcio. Voglio diventare consulente, fare terapie per coppie che hanno difficoltà anche nella loro intimità, aiutarli a esplorare la loro sessualità. Ogni persona quando mi incontra vuole delle risposte sulla sua vita privata». 

Che lei non conosce.

«Esatto. Lo schema, però, è sempre lo stesso: partono col chiedermi come è stata la mia esperienza per poi arrivare alla loro vita sessuale, mi fanno domande sui loro desideri, anche più particolari. Ed è per questo che ho deciso di far diventare un lavoro questo tipo di consulenza. Da mesi e mesi tantissime persone mi fanno domande, mi fermano, si interrogano e mi pongono tanti quesiti. E c’è anche una novità». 

Quale?

«L’apertura mentale. Prima il sesso era un argomento difficile, del quale si provava vergogna. Ora, non è più così: sia per gli uomini sia per le donne c’è una serenità nel toccare certi argomenti che prima non ravvisavo. Ed è un qualcosa che mi sta spingendo a specializzarmi in questo campo, perché ci sarà sempre più bisogno di avere i consigli giusti». 

Sessualità che nel mondo del calcio è spesso un tabù. È un mondo omofobico, chiuso?

«Ho sempre avuto lo stesso approccio con colleghi calciatori eterosessuali e omosessuali. E anche il nostro mondo sta evolvendo: giocare con un compagno omosessuale è una normalità. Anzi, oggi, ognuno ha la voglia e il diritto di mostrarsi per quelli che sono i propri orientamenti. Ed è un arricchimento per tutti». 

A proposito del calciatore Iovinella, lei a chi si ispira.

«Vivo un bel conflitto di interessi. Sono tifoso del Napoli ispirato da uno juventino...».

Non male.

«Sono nativo di Marcianise, mi sento napoletano a tutti gli effetti e sono tifoso del Napoli da sempre. Tra l’altro, quest’anno i nuovi arrivi stanno dando alla squadra quella rinnovata freschezza, quella forza che serviva. In particolare, serviva un attaccante come il Cholito Simeone. Uno aggressivo, un attaccante di razza. Ci voleva nel reparto offensivo azzurro. Così come sarà importantissimo Raspadori per gli schemi di Spalletti. Assieme agli altri acquisti, si sta formando una rosa molto interessante». 

Torniamo al riferimento bianconero.

«Leonardo Bonucci. Lo seguo da sempre. Nasco marcatore puro, poi ho evoluto il mio gioco. Quando guardo la Juve, la seguo solo per Bonucci, per provare a migliorarmi. È un pilastro della Nazionale, per chi vuole scendere in campo provando anche a impostare la manovra non esiste riferimento migliore».

Torniamo al porno. Le manca quel mondo?

«In quel periodo giocavo a Marcianise in Promozione e alternavo l’accademia a Budapest con l’attività calcistica. Una spola che, però, mi teneva in grande forma (ride, ndr). Quel percorso, però, come detto, è terminato». 

Lei è stato scelto direttamente da Rocco Siffredi, se la sente di fare un giochino?

«Prego». 

Invertiamo i ruoli: facciamo che è lei a dover seguire un casting. C’è un giocatore della Serie A su cui punterebbe per un porno.

«Senza alcun dubbio. Anzi, attraverso Tuttosport, vorrei chiedere a Zlatan Ibrahimovic di misurarsi nel mondo dell’hard. Ha il volto rude, fisicamente è perfetto e ha il giusto egocentrismo. Potrebbe sbarcare nel porno senza problemi, sarebbe una star anche lì. Aspetto una risposta da Ibra: da sempre è un mio mito: se vuole percorrere la strada del porno, mi contatti immediatamente».

Stefania Ulivi per “la Lettura – Corriere della Sera” il 25 luglio 2022.

Non si trova una foto in cui non indossi un completo; solo in qualche scatto lo si vede senza cravatta. Un vezzo di rispettabilità a cui non rinunciò mai, fino alla fine, ucciso a 59 anni da una grave forma di diabete. 

Riccardo Schicchi, «il re dell'hard», artefice di «provocazioni e trasgressioni che hanno cambiato il costume degli italiani», come recitava il sottotitolo della sua autobiografia ''Oltraggio al pudore'' uscita nel 1995, era nato ad Augusta, in Sicilia, nel 1953. 

Il padre, Giacinto, era stato aviatore fascista - si era guadagnato i gradi in Africa settentrionale -, la madre, Giuditta, fu Miss Bellezza a Reggio Calabria, ma in famiglia giocò un ruolo importante anche lo zio Paolo, anarchico condannato dal fascismo al carcere e al confino. Fu l'incontro con Ilona Staller a farne il «Pippo Baudo dell'hardcore nazionalpopolare».

Dai microfoni di Radio Luna con ''Voulez-vous coucher avec moi? - una trasmissione in onda dalla mezzanotte alle due, il titolo rubato al celebre singolo delle Labelle - Cicciolina, militante di un eros allergico ai tabù, sussurrava in diretta consigli agli ascoltatori in tema di libertà sessuale, provocazioni e desiderio. 

Fu il primo passo per la costruzione di un piccolo grande impero dell'hard. Nel 1983 a Roma in un comprensorio sulla Cassia i due fondano insieme Diva Futura, agenzia per modelle e modelli per il mercato, nascente e carico di potenzialità, della pornografia. Divenne la Hollywood del cinema porno italiano, una risposta sfacciata alla clandestinità in cui era stato fino ad allora relegato. Arrivarono a gestire tre locali, sempre pieni.

Lui e le sue dive apparivano in tv, davanti al pubblico di Raiuno. L'agenzia non sfuggì all'attenzione della magistratura: Schicchi e l'allora moglie Eva Henger furono condannati per sfruttamento della prostituzione, accusa sempre rispedita al mittente. 

Ora quella storia sta per diventare un film con la regia di Giulia Steigerwalt, sceneggiatrice fresca di esordio con la fortunata opera prima Settembre. Lo sta scrivendo, lo girerà nel 2023. Lei è nata un anno prima di Diva futura.

Da dove nasce l'interesse per questa vicenda?

«Alla base c'è il romanzo di Debora Attanasio (Non dite alla mamma che faccio la segretaria. Memorie di una ragazza normale alla corte del re dell'hard, uscito per Sperling & Kupfer, ndr ) che ci lavorò per anni come segretaria. Me lo ha segnalato Greta Scarano con cui ci troviamo spesso in sintonia. Pagine che offrono una prospettiva diversa su quel mondo».

«Sono entrata nella sede di Diva Futura, l'agenzia di Riccardo Schicchi, Moana e Cicciolina, perché avevo un mutuo da pagare e nemmeno lo straccio di un lavoro. Ho conosciuto un genio per il quale ho fatto di tutto: ho risposto al telefono e consolato le "stelline", ho dato quaglie in pasto al suo pitone e gli ho fatto da ghost writer. 

Di tutto, tranne spogliarmi o finire sul set. Perché, come diceva il signor Schicchi, è più facile trovare una pornostar che una brava segretaria. In quegli uffici ho trascorso gli anni più belli e spensierati della mia vita», si legge nel libro, di cui uscirà entro l'anno una nuova edizione per Sonzogno. 

«È stata la scintilla che mi ha spinto. Di quella storia conoscevo come tanti solo l'eco arrivata fino a oggi. Raccontato dall'interno diventa un'altra cosa. Debora è una testimone preziosa: partita da segretaria è diventata manager, la più preziosa collaboratrice di Schicchi. Si diedero sempre del lei. Oggi fa il mestiere che desiderava fare, la giornalista. 

Confesso che sono partita con molti preconcetti, come in fondo capitò anche a lei all'inizio del suo lavoro. Ci ha fatto da guida per conoscere le vicende personali, ci ha presentato tutti i protagonisti - quelli che sono rimasti. Tanti non ci sono più». 

Come Schicchi e Moana Pozzi.

«Ho parlato a lungo con suo marito, mi ha raccontato molto di lei. La sua è la parabola più tragica, il finale che rende la diva eterna con la morte improvvisa, come accadde a Marilyn Monroe che adorava. Lei è il cuore della storia».

Se ne andò a 33 anni, il 15 settembre 1994, all'Hôtel-Dieu di Lione. Sulla sua morte si speculò vergognosamente, per attaccarla si disse che la causa fu l'Aids.

«Morì di tumore al fegato. Racconteremo il momento in cui cercò di cambiare carriera, abbandonare il porno, senza però rinnegare nulla. Si sentiva frustrata a non essere presa sul serio. 

Si buttò nella scrittura, pubblicò le sue memorie - La filosofia di Moana -, confidò nel successo del film Amami diretto da Bruno Colella, in cui aveva creduto molto come opportunità di rilancio. Il suo obiettivo era ricominciare a fare l'attrice per l'altro cinema. Fu un flop e per lei una grande delusione».

Ci fu, anche per lei, come già per Ilona Staller e Schicchi, una stagione politica.

«Si presentò alle elezioni politiche del 1992, capolista del Partito dell'amore, e alle Comunali di Roma nel 1993, candidata sindaca. Ci credeva, non era una boutade , investì tutta sé stessa. Ma andò male: un'altra delusione». 

Ha già pensato al cast?

«L'unica certezza al momento è l'attrice che interpreterà Moana. Sarà Greta Scarano. Pur avendomi suggerito il progetto non dava per scontato di doverne essere parte. Ma non ho avuto dubbi: è perfetta, ha già dimostrato di avere la sensibilità per affrontare ruoli estremi». 

E gli altri: Schicchi, Ilona Staller, Eva Henger?

«Il film inizia dal personaggio di Schicchi e finisce con la sua uscita di scena. Sarà l'attore più difficile da individuare, non solo per questioni di somiglianza, ma perché lo vedremo dai venti ai sessant' anni. 

Ma non è il suo punto di vista, si tratterà di un film corale. L'arco narrativo va, appunto, dagli anni Settanta - quando lui e Ilona con la radio volevano portare l'amore nelle case, rompere i tabù di un Paese sessuofobico - fino all'inizio del Duemila. 

Ho scelto di scriverlo da sola, è più impegnativo di quel che credessi. Prevediamo un lungo lavoro di casting. Di sicuro si saranno anche diverse attrici straniere. E va trovata l'interprete giusta per la parte di Debora. Gireremo a Roma nel 2023».

Personaggi maschili?

«Sono di contorno. Nella scuderia c'erano anche attori maschi, ma quel mondo del porno, a parte eccezioni clamorose come Rocco Siffredi, si basava sulle icone femminili. Pagate anche in certi casi fino a dieci volte i colleghi uomini». 

Tra le figure centrali c'è Eva Henger. L'ha incontrata: che idea si è fatta di lei?

«Una donna molto interessante. Ci siamo viste a Campagnano dove sta ancora il grande archivio di Schicchi e mi ha raccontato di quegli anni. Lei ha i diritti del catalogo dei film. Si sposò con lui nel 1994, stavano insieme da tempo.

Lui ha adottato la figlia di lei, poi hanno avuto un bambino loro, Riccardo jr. La vedo come una grande storia familiare. Quando si sono lasciati sono comunque rimasti legati. Lei e il suo nuovo compagno lo hanno curato a casa loro, non l'hanno mai lasciato solo. Schicchi non voleva che lei facesse il porno, non per volontà di possesso ma per evitarle lo stigma». 

Ma Eva Henger non lo ascoltò, giusto?

«Lei firmò un contratto solo per quattro film. Ma da quelli ne montarono ventotto. Nonostante le denunce non poté bloccare nulla. Tutte loro hanno vissuto l'illusione di potersi mostrare libere con il risultato di trovarsi, tragicamente, ingabbiate in un pregiudizio che le ha segnate. Pregiudizio su di loro e non sulla società che sfrutta, giudica, condanna».

Ci saranno scene di repertorio nel suo film? O ricostruzioni di scene dai titoli del catalogo?

«Non credo che serva, vedremo, non ho tabù. Mi interessa l'aspetto personale e sociale, la mia prospettiva è di sospendere il giudizio. L'unica eccezione è l'ultimo film che girò Moana, magrissima, segnata dalla malattia. Fece solo i primi piani, il resto fu affidato a una controfigura». 

Chi era secondo lei Riccardo Schicchi?

«Tutti quelli con cui ho parlato me lo hanno descritto come una persona priva di tabù, non concepiva l'idea che il senso del pudore di qualcuno condizionasse la vita di altri. Si dice che entrò dodicenne nella redazione della rivista Le ore per chiedere al direttore: perché non posso comprare in edicola il suo giornale? 

Si illuse di dare un racconto ai suoi film, scriveva la sceneggiatura, voleva che ci fosse una storia. Anche se sapeva bene che gli spettatori non andavano oltre il decimo minuto. Era contrario alla deriva violenta del porno. E, secondo i ricordi di Debora, scoraggiava la maggior parte delle ragazze che si presentavano a Diva Futura: solo quando percepiva un'adesione totale al progetto le scritturava». 

È cambiato il costume degli italiani?

«Il film sarà anche l'occasione per abbozzare un affresco sociale. Il motto di Schicchi era: "Siamo amorali, non immorali". Oggi tante cose sono sdoganate, di sesso si parla più liberamente, gli equilibri tra uomini e donne sono cambiati. Ma vedo comunque molto moralismo». 

Barbara Costa per Dagospia il 10 luglio 2022.

Si porna a 21??? Sembra questa la strada che vuole prendere il porno, quella di alzare a 21 anni l’età minima – per maschi e per femmine – con cui iniziare a fare "da adulti" porno professionale. Si è sempre iniziato a 18, ma l’asticella della "maggiore" età per pornare va aumentata, e per questa ragione principale: arrestare la massa di adolescenti che bussano alla porta del porno.

È una conseguenza del porno sul web, è un mutamento del "cosa farò da grande" puntellato dai social, i quali spingono per una narrazione del porno e per una immagine della pornostar se non normalizzata di sicuro mainstream: mettetela come vi pare, ma non si può negare che sempre più adolescenti premano per una possibile carriera in un settore che non sanno quanto spietato e competitivo.

Lo testimonia Mark Spiegler, 71 anni, nel porno da tre decenni, agente di pornostar tra le più famose, svelando due tendenze inquietanti: una, la novità delle ragazze giovanissime, neo18enni, che sono portate al suo cospetto dalle loro madri (!!!) improvvisatesi loro manager, disposte a tutto per farle sfondare; l’altra, il problema delle minorenni che si presentano al provino con documenti falsi che le attestano maggiorenni. 

Sono questi bugiardi documenti reperibili nel Dark Web, dove pagando sui 200 dollari hai in mano patenti e carte di identità con la tua vera foto e la data di nascita che preferisci tu. Allarmato dalla fluida potenza criminale disseminata nel web, Mark Spiegler da par suo da un po’ non accetta di provinare ragazze con meno di 21 anni, e non solo: sono preferite fanciulle con diploma di scuola superiore, meglio ancora se vi sono abbinati due anni di college. A Spiegler e all’ingresso di promesse porno non meno che 21enni si associa l’agente porno Dave Rock, e altri concorrenti.

Nel mondo del porno, la paura della galera se fai lavorare – pure se a tua insaputa – un/a minorenne, è atavica e paranoica: se è dalla nascita del porno e dalla sua tramutazione a impresa che il fantasma della minorità anagrafica gli aleggia sopra, alitandogli addosso, materializzandosi a metà anni '80 col caso Traci Lords, che ha gabbato tutti pornando a 15 anni con nome e documenti falsi (e il terrore del carcere è rimasto stampato negli occhi del suo agente, il grande Jim South, deceduto nel 2021: South al solo ricordo dei poliziotti col mandato di perquisizione, sbiancava, e si vede nel documentario "Hardcore: la vera storia di Traci Lords"), non è Traci la prima né la sola ad aver fatto porno minorenne: la coetanea Ali Moore ha fatto esattamente come lei, munendosi di nome e documenti falsi come lei, girando porno come lei tra cui "Hot Tails" e "Love Bites", ora reliquie per collezionisti, essendo parte delle copie state distrutte in raid di polizia (poiché evidente materiale pedopornografico). 

In seguito Ali Moore ha rilasciato interviste contrite, sostenendo di averlo fatto per il guadagno facile. E che non si è mai rivista, nei suoi film, perché rivedersi le farebbe male (mai avuta la tentazione di cercarsi su Google…?). Due altre "innocentine" storiche che dicono di aver iniziato col porno a 18 anni appena compiuti (ma sulle quali cade il sospetto di avere imbrogliato di un mese o due) sono Kristara Barrington e Nikki Charm: quest’ultima prova la sua maggiore età col fatto che in famiglia sua sapevano, e approvavano: lei ha detto di aver iniziato perché sedotta dal lavoro della cognata, la pornoattrice Mercedes Perez.

E che è da lei che ha "appreso" i rudimenti del mestiere, questi sì dalla minore età di anni 17 (!). La milf porno star Eva Angelina ha rivelato: “Io ho cominciato a girare porno amatoriale a casa mia, a 14 anni, rubando l’handy-cam dei miei genitori, e filmando con quella. E non vedevo l’ora di averli, i 18 anni, per entrare e farlo professionalmente, il porno”.

Indubbiamente è da tempo che nel porno professionale si preme per mettere l’ingresso ai 21 anni, e specie dopo il caso di qualche minorenne che si fa stanare: chi si ricorda di Alexandra Quinn, la canadese "trovata" a girare porno da minore? Per anni il porno l’ha bandita, anche perché a lei non confà il ruolo da pentita o da ingenua. Perché lei, a 14 anni, già si spogliava nei locali di strip-tease. 

Perché lei, a 16 anni, con un passaporto falso, è volata a Los Angeles, decisa a fare porno con una carta di identità che le dava sei anni in più. Il suo è stato un debutto mica soft, e mica male, in quell’orgia con donne e uomini (è in "Space Virgins"). Alexandra in due anni gira più di 100 film: circa 60 da minore. E vince pure un Oscar del Porno (per la sua scena di sesso a tre in "Buttman’s Ultimate Workout").

Come la scoprono? Per una sua sbadataggine. Un giorno, su un set, al momento di compilare le consuete liberatorie, Alexandra, invece del suo documento falso, porta e allega quello vero. E lì risultava maggiorenne soltanto da sette mesi!!! Tuttavia Alexandra Quinn sostiene che è facilissimo riconoscerla nei suoi porno "minorenni": lei si è rifatta le labbra il giorno del suo 18esimo compleanno. Ci fidiamo?

Mattia Rossi per “il Giornale” il 5 luglio 2022.  

Gian Francesco Malipiero scrisse che Claudio Monteverdi, il celebre compositore considerato il padre del melodramma, «fu il precursore di tutto e di tutti». In effetti, fu così anche in fatto di allusioni a luci rosse. 

L'aria Pur ti miro dalla sua Incoronazione di Poppea è, infatti, la prima messa in scena moderna della sessualità: «Pur ti miro, pur ti godo, pur ti stringo, pur t' annodo, più non peno, più non moro, o mia vita, o mi tesoro. Io son tua, tuo son io Speme mia, dillo, dì, tu sei pur, speme mia l'idol mio, dillo, dì, tu sei pur, sì, mio ben, sì, mio cor, mia vita, sì». 

Un'aria la cui allusività al sesso è resa in maniera inequivocabile dagli avviluppi delle suadenti linee melodiche alternate la cui armonia si conclude all'unisono.

Doppi sensi, erotismo, sesso, prostituzione sono ingredienti che, anche quando non ce ne accorgiamo, condiscono il melodramma italiano. Federico Fornoni, docente di storia della musica al Conservatorio di Novara, ha dedicato al tema della seduzione e della sessualità nella lirica del secondo Ottocento un documentatissimo studio: L'opera a luci rosse (Olschki, pagg. 396, euro 40). 

L'innesco dello studio di Fornoni sono stati i mutamenti intercorsi tra l'inizio e la fine dell'Ottocento, un secolo, infatti, che ha visto di tutto: si pensi alla Cenerentola di Rossini nella quale, nel 1817, alla scarpetta venne sostituito un bracciale per evitare lo scoprimento del piede; piede nudo che Musetta, nella Boheme pucciniana, anno 1896, mostra tranquillamente a Marcello come arma seduttiva. 

Una escalation di allusioni del teatro italiano che spinse la Civiltà cattolica a pronunciarsi, nel 1854, in tali termini: «Vi trionfa ugualmente e forse ancor più la concupiscenza. La voluttà e la bellezza son presentate come cose divine. Or tai sensi malvagi, i quali non sarebbero stati tollerati per avventura in un teatro di popolo pagano, vengono a fronte alta divulgati presso un popolo cristiano».

Ma, nota Fornoni, non c'era solo la chiesa: «I progressi scientifici portarono la biologia, la medicina, più tardi la psicanalisi, a dire la propria in materia di sessualità. Pur affrontando il discorso dalla prospettiva medica, le conclusioni non furono difformi dalla morigeratezza predicata dalla chiesa. L'eccessiva pratica sessuale rischiava di condurre al degrado della società». 

In questo quadro, è evidente come il melodramma, forma d'arte calata trasversalmente tra le classi sociali dell'epoca, abbia condotto ad attuare un percorso di «de-eroticizzazione» del melodramma ottocentesco così colmo di temi legati a vicende sentimentali e, spesso, di soggetti pruriginosi. 

Se, dunque, sessualità, erotismo, infedeltà, prostituzione erano alla mercé della scure della riprovevolezza, un soggetto quale fu quello della Traviata portò con sé una potenza sovvertitrice ben chiara a Verdi che, con il suo solito acume, notò in una lettera a Cesare De Sanctis: «I vostri preti e i vostri frati avrebbero paura di vedere sulle scene quelle certe cose che loro fanno bene all'oscuro».

Fornoni, analizzando la trilogia popolare di Verdi (Il Rigoletto, Il Trovatore e La traviata) evidenzia che, per il compositore di Busseto, «l'opera d'arte dovrebbe far riflettere su tematiche considerate sconvenienti eppure parte dell'esistenza umana, così da conseguire una nuova mentalità, frutto di tale riflessione». 

C'è, poi, Un ballo in maschera, «una delle più impressionanti, celebrate e studiate scende di seduzione dell'intero repertorio lirico», ma che affronta anche l'adulterio, in cui Verdi traduce in musica un orgasmo con un pieno orchestrale che scivola progressivamente a un appagato pianissimo.

Ancor più accurato nella messinscena della sessualità fu Puccini per il quale «la tematica sessuale è una delle grandi fonti di ispirazione». Manon, Boheme, Tosca, Madama Butterfly sono tutti titoli che il libro passa in rassegna mostrando le sfumature lussuriose e lubrìche che il compositore lucchese non esitò a inserire. 

Non solo, Puccini utilizzò la stimolazione sensoriale, propria del melodramma, in chiave erotica: «La vista, l'udito, il tatto erano solleticati per suscitare un'eccitazione sessuale coinvolgente il pubblico al pari dei personaggi». 

Così, ad esempio, il pubblico di Butterfly è in grado di accendersi con l'eccitazione di Pinkerton: «Ma tale mulïebre grazia dispiega, ch' io mi struggo per la febbre d'un subito desìo». 

Questo libro è un grande affresco sulla sessualità nel melodramma ottocentesco che, come il piedino di Musetta, è tutto da scoprire e assaporare.

Barbara Costa per Dagospia il 19 giugno 2022.

Chi tra voi è interessata ad accalappiare un neo miliardario? Lui si chiama Leonid Radvinsky, detto Leo, ha appena compiuto 40 anni, è un imprenditore, un investitore, un filantropo, ed è… il proprietario di OnlyFans! Del sito il più chiacchierato, sbirciato, cliccato, e che negli ultimi 2 anni ha salvato dalla disoccupazione pornostar e modelle e stripper e prostitute/i e gente comune, e a questi ultimi permettendo di guadagnare in media 100 dollari al mese, ma solo in rari e fortunati casi mettersi in banca un bel gruzzolo, se non cifre folli, che hanno dato loro la ricchezza la più agognata di questa era: la fama mediatica.

Fama mediatica a cui è allergico il miliardario Leo: nato in Ucraina, a Odessa, è a tutti gli effetti americano, poiché a 6 anni, con mamma Anna e papà Savely, è emigrato negli USA. E però se si vuole sapere qualcosa di più "intimo" su questo giovane diventato uno dei businessman porno… niente da fare, perché di Leo, del vero Leo, si sa poco e nulla. Quelle che vedi sono le uniche e nemmeno recenti foto che di lui si trovano in rete: ma quello che di Leo si sa è che il suo patrimonio (stima Forbes) ammonta a 1,1 miliardi di dollari!!!

Come questo misterioso signore abbia potuto accumulare così tanto denaro è tema di ampio e inconcludente dibattito: testate e firme in quest’ambito più specializzate si sono fatte seriamente gli affari privati di Leo. Firme competenti di Forbes e di Forensic News (sito investigativo autore di un documentato report su Leo, e ci hanno investito un anno a realizzarlo, entrando anche dentro casa di Radvinsky) non solo dicono che sotto la sua gestione - e in pieno anno pandemico 2020 - OnlyFans è esploso, diventando da semisconosciuto un sito capace di aumentare il suo fatturato del 540 per cento (e solo nel 2020!) cosicché da incoronare Leo quale new entry tra i paperoni, ma, scavando nel suo nebuloso passato, si apprende che Leo ricco lo era già prima, e sempre rendendo grazie al porno: Leo è il creatore di MyFreeCams, sito cam dove modelle/i possono guadagnare tramite i propri show di sesso dal vivo.

Leo imprenditore c’è nato, se è vero che solo 17enne era - non formalmente, ma sotto la firma di sua madre - a capo di una piccola impresa digitale. Dopo essersi laureato con lode in lettere e economia alla Northwestern University, Leo ha gestito portali canalizzanti traffico verso siti per adulti, e per questo è stato accusato - senza prove - di averne consentito l’accesso anche a siti illegali di pornografia zoorastica e minorile. 

Leo Radvinsky ha sempre negato tutto, non vi sono prove contro di lui e, benché non ami parlare coi media - non esistono sue interviste - il suo nome è salito alla ribalta quando Amazon e Microsoft gli hanno fatto causa per campagne spam usanti nomi Amazon e Microsoft per vendere fuffa via mail. Anche qui, Leo ha negato tutto e tutto è stato chiuso per vie extragiudiziali.

Da un po’, Leo ha lasciato Chicago e l’attico principesco all’81esimo piano dell’Aqua Tower, per un villone ancora più principesco e con imponente campo da golf, a Boca Raton, in Florida, come in Florida ha pure spostato parte delle sue attività. Leo possiede immobili di lusso e terreni agricoli in Illinois, e uno yacht che ha chiamato "Mar Nero". Gli piace giocare a scacchi, come pilotare elicotteri. È politicamente bipartisan, poiché ha in casa, incorniciata, una foto con le firme dei presidenti USA degli ultimi 30 anni…?

Tutt’oggi si maligna che suo padre abbia fatto fortuna negli Stati Uniti commerciando alimenti per animali, ma che in realtà fosse immensamente ricco già nella natia Odessa, grazie alle losche ruberie che, negli anni '90, hanno spadroneggiato e razziato l’Ucraina e tutta l’ex URSS all’indomani del crollo. 

Ma anche qui, mancano prove a riguardo. Se invece i miliardari vi piacciono mori, virate alla conquista di Tim Stokely, 39 anni, inglese, dell’Essex, detto lo "Hugh Hefner dei social media", ovvero colui che insieme a suo fratello Tom - e coi soldi di papà Guy, ex banchiere in pensione, e mamma Debby - nel 2016 ha ideato e creato OnlyFans, per poi rivenderne nel 2018 la maggioranza a Leo, e rimanendone però amministratore delegato fino a dicembre 2021, quando CEO di OnlyFans è stata nominata la donna d’affari indiano-americana Amrapali Gan.

Sarà vero che il patrimonio netto di Tim Stokely è di 1 miliardo di sterline? Chi lo sa, quel che si sa è che Mr. Stokely, quando andava all’università, si è buttato nel porno online creando siti fetish - sua grande passione - che però non hanno dato i risultati sperati, tanto che, per avviare OnlyFans, Tim ha usato i soldi del facoltoso papà. Dice Tim Stokely: “Io ho capito prima degli altri che il futuro (leggi: la cuccagna) del porno sarebbero stati video e foto hot personalizzati, in uno scambio diretto tra porno creator e porno consumatori”. 

Attualmente Tim Stokely vive in un villone (completo di sala cinema, sala giochi e sauna) nell’Hertfordshire, pagato 2,4 milioni di sterline (e dicono in contanti). È single, e la sua vita da riccone, le sue auto, le sue barche, ma soprattutto le sue feste che ad alcuni ricordano i fasti di Hefner alle Playboy Mansion, son tutte postate e sfoggiate sul suo profilo Instagram.

E poi su Leo Radvinsky in rete gira questa astrusa assurdissima storia: la cantante russa Natasha Koroleva, 48 anni, sposata e madre di un figlio grande, ha detto in TV davanti a suo marito - a quanto pare all’oscuro di tutto quindi incredulo - che lei dietro pagamento di 2,4 milioni di dollari ha venduto i suoi ovuli per permettere a due suoi ricchissimi amici omosessuali, ucraini e emigrati negli USA, di avere un figlio con maternità surrogata. Figlio nato femmina nel novembre 2019 e che vive in Florida, e che Natasha ha visto una volta (sul web c’è una foto - vera? fake? - con lei che prende in braccio un neonato vestito di rosa…). In rete uno di questi amici gay ricchissimi ha preso proprio il nome di…Leo Radvinsky! 

Peccato che Leo risulti etero e una volta sposato e ora divorziato, e senza figli… questa storia appare una patacca tanto più perché stridente con la politica di OnlyFans che, se da un lato limita post di bdsm particolarmente violenti, è in prima linea nella lotta contro ogni discriminazione sessuale. Dice OnlyFans: “La libertà sessuale è un diritto umano e vitale, un diritto che va riconosciuto, e protetto e garantito”: per questo Leo supporta e finanzia "Woodhull Freedom Foundation", che da decenni legalmente difende chi per natura e espressione sessuale - in campo personale, sociale e/o lavorativo, e stiamo parlando di escort, pornoattori, e ogni lavoratore nel sesso - viene ostacolato. 

Leo è cresciuto negli USA ma rimane ucraino nell’anima: è dalla parte di Zelensky, e mica a parole: appena la Russia ha attaccato l’Ucraina, Zelensky ha chiesto soldi, anche via social e in cripto-valute, e Leo Radvinsky gliene ha subito fatti avere una cifra pari 1,3 milioni di dollari. 

Arianna Finos per “la Repubblica” il 19 giugno 2022.

Il sesso al cinema visto dalle donne. Si moltiplicano, in sala e sulle piattaforme, le regie e gli sguardi femminili sull'erotismo - d'autore o commerciale - come pure sull'industria del porno, dominato dall'immaginario e dal potere maschile. Il titolo di punta della piattaforma Mubi, disponibile dal 17 giugno, è Pleasure , esplorazione dell'industria hardcore della svedese Ninja Thyberg. Il festival "Il cinema ritrovato" di Bologna propone, il 30 giugno e il 2 luglio, la versione restaurata del "classico" Gola profonda . Al marché del festival di Cannes i titoli più venduti erano gli erotici 99 moons e La maison , la francese Audrey Diwan girerà il remake di Emmanuelle , con Léa Seydoux.

Il titolo, Pleasure , non difetta d'ironia. La regista racconta di una giovane svedese che atterra a Los Angeles sognando di diventare una pornostar. Sarà un viaggio verso la disillusione in un mondo dominato dagli uomini, tra umiliazioni e brutalità che vanno ben oltre le esigenze di uno show disegnato sul desiderio maschile. Ad affiancare la protagonista, Sofia Kappel, un gruppo di professionisti del porno. «Il porno - spiega Thyberg, che da dieci anni studia il tema - ha un impatto enorme sulla nostra cultura. Le statistiche ci dicono che gli uomini trascorrono più tempo guardando porno che news. È un tema che resta nell'ombra, mai discusso in modo aperto, eppure ha un profondo impatto sulle nostre vite, sulla sessualità, sui rapporti tra uomini e donne».

Il 99% dei film porno eterosessuali adottano un punto di vista univoco. Dice Thyberg: «Incarnano una fantasia maschile legata all'oggettivazione della donna, obbligata a seguire certe regole». Questo, ragiona l'autrice, influenza la nostra vita sessuale, «è come se l'industria del porno formasse la nostra educazione sessuale. Ma, salvo eccezioni, lo sguardo è maschile, come del resto lo è la nostra cultura in generale».

Quarant' anni fa, nel 1972, arrivava in sala Gola profonda , che per primo rese disponibile l'hardcore sul grande schermo a un pubblico misto accendendo i riflettori sulla drammatica vicenda della protagonista, Linda Lovelace, pseudonimo di Linda Susan Boreman: «Nella sua biografia Linda dice che tutto sommato si è divertita a realizzarlo, è stato un modo per sottrarsi al compagno violento che la costringeva a un terribile sfruttamento sessuale. L'idea di una donna con il clitoride nella gola è assurdo e stupido, ma almeno si riconosceva il fatto che un donna potesse provare piacere in un modo inconsueto rispetto al proprio corpo, mentre oggi tanti film porno mostrano solo atti di violenza ai danni delle donne. Ma credo che Linda non volesse che il film fosse visto, perciò forse oggi non lo guarderei».

Come Hollywood, anche l'industria del porno si sta evolvendo. «In otto anni le cose sono cambiate, in meglio. L'avvento dei social media ha permesso alle donne di interagire con i fan, crearsi delle piattaforme e vendere contenuti in modo diretto. Una rivoluzione rispetto a quando dipendevano dai loro agenti, produttori, registi uomini. Oggi la gestione è più orizzontale, meno gerarchica. Con la pandemia l'industria ha chiuso i battenti: le attrici lavorano da casa, ingaggiano partner maschili, registi e fotografi in queste produzioni casalinghe guadagnando di più e avendone il controllo. Non sono disposte a tornare indietro. Sono anche aumentate il numero delle registe». Anche il cinema erotico oggi si rivolge più a un pubblico femminile.

Tra i titoli più attesi c'è 99 moons dello svizzero Jas Gassmann, in Italia con Teodora, sul rapporto tra una studiosa che organizza i suoi incontri di una sera da dominatrice spietata e un giovane imprigionato dal cliché sul dominio della penetrazione, che non riesce ad ammettere di provare desiderio in questi giochi in cui ha una posizione subordinata. La maison , dramma erotico di Anissa Bonnefont, dal bestseller omonimo, è la cronaca di due anni vissuti da prostituta in un bordello di Berlino.

A firmare la nuova versione di Emmanuelle , sulla giovane borghese dalla vita sessuale intensa e libera, è Audrey Diwan, Leone d'oro per il film sull'aborto La scelta di Anne , mentre nel ruolo che nel '74 fu di Sylvia Kristel ci sarà la diva Léa Seydoux: «È importante che ci siano nuove storie erotiche, abbiamo bisogno di diversità. Anche il cliché dell'uomo dominante è una fantasia che appartiene al femminile, ma può essere raccontata da una prospettiva diversa. Credo che il futuro sia immaginare anche un'industria porno femminista.

E ben vengano i film erotici, le Cinquanta sfumature di grigio , i 365 giorni (record su Netflix un paio di anni fa). Qui c'è una oggettivazione degli uomini, anche se agiscono in modo dominante. Il desiderio femminile è radicato nel modo in cui siamo cresciute. Ma la direzione da prendere è rendere erotico il consenso e non l'idea che qualcuno domini qualcun altro. Il sesso non più come gioco di potere, dunque, ma scambio consensuale perfetto».

Barbara Costa per Dagospia l'11 giugno 2022.

Noi in Italia abbiamo avuto per più di 50 anni intellettuali boriosi convinti di doverci spiegare la vita, e di dirci cosa è giusto e cosa no. Questa pallosissima e non richiesta catechesi non ha risparmiato il porno e tutt’oggi, che sono 50 anni esatti da quel 12 giugno 1972, giorno in cui il porno "Gola Profonda" veniva proiettato a New York, incassando 1.300.000 dollari nelle prime settimane (e solo a New York: fuori e nel tempo "Gola Profonda" ha superato la cifra monstre di 100 milioni di dollari, entrando a pieno titolo nella top 10 dei migliori incassi di sempre, accanto a film non porno) in Italia ancora patiamo i postumi di un tale moralismo spacciato per sapienza.

Se "Gola Profonda" è arrivato da noi solo nel 1977, con le scene di sesso intatte ma con storia mutata, e dialoghi tagliati, e nomi e ruoli inventati, senti come non due intellettuali presi a caso ma due pezzi da 90, che tutti conoscono, e che si chiama(va)no Umberto Eco e Franca Rame, blateravano le loro ponzate su pornografia in generale e su "Gola Profonda" in particolare, e propagandole per nettare di pensiero. 

Se per Umberto Eco, “un film porno si riconosce dai movimenti degli attori che quando non sc*pano si spostano da un posto all’altro, preferibilmente in auto e con la radio accesa”, ecco che Franca Rame divulga per alta cultura un suo – strapatriarcale – giudizio personale: “Io ne so poco”, (e però apri bocca lo stesso…), “ma ritengo Gola Profonda bassissima pornografia: ha il solo fine di chiudere ogni rapporto col mondo. Ma più grave resta la non maturazione della donna che accetta di fare questi film”.

Per troppo tempo abbiamo creduto – c’hanno educato a credere –tali intellettuali superiori al sapere comune cosicché intoccabili. Non era così, almeno non su ogni campo nozionistico che essi si illudevano di padroneggiare forti dei loro libri – sempre quelli – per di più letti sotto politica schiavitù ideologica.

Evidentemente non davano importanza a ciò che succedeva nel mondo mentre lo vivevano, oltre i loro paraocchi: altrimenti avrebbero inteso che Gola Profonda, porno diretto da un ex parrucchiere d’ascendenza italiana, Gerard Damiano, in una settimana, con un budget di 23 mila dollari, e basato sulla trama stupidella di una anorgasmica a cui diagnosticano che per uno scherzo di natura il suo clitoride sta in gola, e quindi basta che trovi e ci faccia entrare un pene non misero, per sentire campane e fuochi di artificio (così sullo schermo Damiano dà i lineamenti all’orgasmo femminile)… come un filmetto simile abbia fatto fare bei balzi in avanti alla civiltà occidentale, rendendola più libera e in sé e di sé sicura, in campo giuridico, politico, sociale, sessuale, e pure sancendo inediti modi di dire e costumi, di netto emancipando lo sguardo comune.

Gola Profonda scosse la Casa Bianca non solo perché tale era il nome in codice incollato all’informatore di Carl Woodward, reporter del Washington Post e coautore dell’inchiesta su impicci e imbrogli del presidente Nixon, (informatore che era Mark Felt, numero 2 dell’FBI), ma perché alla Casa Bianca Nixon se lo fa proiettare e se li vede, p*mpini, cunnilingus, orge e feticismi vari, bollandoli oscenità. Diversi giudici stabilirono “questa gola merita di essere tagliata”, sentenze capovolte in appello in base a quella libertà di espressione che è caposaldo USA.

E altri giudici misero in galera Harry Reems, protagonista maschile di Gola Profonda, per porno contrabbando: Reems (porno attore per caso, sul set era il tecnico delle luci, fu promosso attore dopo forfait del designato) aveva le sue percentuali nella distribuzione del film: condannato in primo grado, ma assolto in appello, Reems divenne un eroe nazionale vezzeggiato da star di Hollywood quali Jack Nicholson, Warren Beatty, Sinatra e il suo clan... 

Eh, che farci, chiaro che i nostri intellettuali stavano appresso a altro, nei '70, e di sicuro a fuffa perché, se un porno concentra a sé il dibattito di USA e Europa, inondando TV, radio, quotidiani, rotocalchi, e scomodando firme prestigiose, entrando e uscendo da bocche e menti della società… qualcosa vorrà certamente dire, o no? Invece i nostri intellettuali seguitarono a nulla capire pure quando Gola Profonda arriva in Italia 5 anni dopo lo scompiglio causato negli USA, e vi arriva non censurato ma a caz*o tagliato. Come avranno ragionato per rifilare agli italiani un porno con le scene sessuali intatte, ma tritato e profondamente alterato nella trama…?

Secondo i nostri censori (a dipendenza governativa) gli italiani potevano vedere l’orgia tra 12 stalloni e 2 donne, la protagonista Linda Lovelace e Dolly Sharp (che in versione originale è la coinquilina di Linda, si chiama Helen, ma in Italia passa per la sorella di Linda, si chiama Jenny, e addirittura è sorella carnale di Linda Lovelace nei crediti, dove l’attrice Dolly Sharp qui da noi diventa… Laura Lovelace!!!) ma non vedere il post orgia, quando Helen pretende il bis e i 12 non ce la fanno…! 

E nemmeno agli italiani nel 1977 è consentito vedere che nell’orgia fa un cameo il regista Damiano, nel ruolo del gay: tutto reciso, com’è del tutto silenziato l’iniziale cunnilingus: negli USA è dialogato, Dolly parla a chi gliela lecca (“ti dispiace se fumo mentre la mangi?”).

E a non dire che i tronfi intellettuali nostrani avrebbero potuto sfogliare giornali quali il New York Times, che con il successo di Gola Profonda pubblica articoli dettagliatissimi sul rapporto porno-mafia rivelando che i Peraino, produttori di Gola Profonda, erano mafiosi taglieggianti i compensi del povero Damiano (“volete le mie gambe spezzate?” rispondeva Damiano se gliene chiedevi conto), e di come il porno nel finanziamento e nella distribuzione fosse legato ai soldi della mafia, che usava il porno come sistema di riciclaggio… i nostri soloni intellettualoni avrebbero potuto prestare attenzione verso chi in Italia Gerard Damiano lo ha conosciuto, e la nostra Moana Pozzi (da lui diretta in 4 film) e la nostra Milly D’Abbraccio che, con Damiano, ha girato “Proposta Oscena: lui era all’antica, mi faceva fare solo posizioni standard… Gerald era un tranquillone, banalissimo”.

Beh, non credo più banale dei nostri borghesissimi intellettuali, la cui probità loro ma più delle loro donne (perenni figlie mogli madri) nella Gola Profonda italiana fu tutelata dalla scritta che ammoniva gli – adulti – spettatori italiani sulla loro impreparazione a sostenerne l’integrale visione, una avvertenza che spuntava all’inizio delle primissime riproduzioni in Italia. 

Sicché gli italiani adulti si sarebbero potuti turbare nel guardare la Lovelace che guida per le strade di Miami, nelle sequenze, per intero cancellate, dei titoli di testa??? Oppure la virtù di italiani e italiane è stata meglio custodita dalla "conversione" di Wilber, nell’originale Gola Profonda un feticista a cui gli si alza se sogna di prender con violenza le donne e il cui pene lungo e a curva alla fine soddisfa la gola profonda di Linda: in Italia Wilber diventa Calogero, gelosissimo siciliano fidanzato di Linda, e suo sposo e per la vita l’unico legittimato a metterglielo in bocca, e a gola profonda, ovviamente sotto benedizione di santa madre chiesa…

Da style.corriere.it il 7 giugno 2022.

L'illustrazione erotica passa anche su Instagram, censura permettendo. Sono moltissimi gli illustratori specializzati nel filone erotico che gestiscono profili Instagram per diffondere la propria arte. E, neanche a dirlo, macinano centinaia di migliaia di follower.  Spesso le loro identità sono occultate dietro evocativi nickname, anche perché l'algoritmo del social spesso tende a censurare le immagini più bollenti. Moltissime autrici donne si nascondono dietro ai profili più seguiti, non di rado per abbattere tabù e stereotipi sul sesso e l'eros.

In alto l'illustrazione di Frida Castelli, una delle illustratrici erotiche italiane più apprezzate, su Instagram nota come @fridacastelli, vanta 462k followers. Frida Castelli, artista dall’identità ignota, elabora illustrazioni dal forte potere evocativo, accompagnate da citazioni e poesie. Donne e uomini nell'atto di procurarsi piacere a vicenda sono i protagonisti delle sue opere.

Forte del suo anonimato, Senior Coconut @Milkmycoconuts,119mila follower, si sente cittadino dei social network. Pennellate (digitali) appena abbozzate e dai colori tenui, corpi sensuali belli e talmente realistici da incorrere nella censura di Instagram che già una volta gli ha bloccato il profilo. "Quello che oggi amo di più del lavoro che faccio è la possibilità di esprimere la mia estetica e i miei pensieri senza vincolo alcuno"."Amo disegnare i corpi nudi, soprattutto quelli femminili che trovo più versatili per via delle forme, per tutti coloro che amano godere della bellezza tradizionale dei corpi umani. L’immaginazione e l’esperienza forniscono materia ai miei disegni".

Sfuggente e misteriosa, Apollonia Saintclair dice di presentarsi alle sue mostre sotto le spoglie di una mosca. All'attivo tre raccolte delle sue opere dal titolo "Ink Is My Blood". Famosi i suoi lavori realizzati in collaborazione con la regista porno Erika Lust. Ha scelto di restare anonima e ha affermato "Non siamo solo animali sociali, ma anche sessuali: attraverso l’erotismo si può dire tanto di noi".

Classe  1993, Waite è un'artista americana le cui opere su carta sono state esposte negli Stati Uniti e in Europa. Il suo approccio sovversivo al disegno a grafite fotorealistico è stato riconosciuto in importanti pubblicazioni di arte e cultura. Nel 2018 Frances è stata inclusa nel World 100 di Vogue Magazine, riconosciuto come uno dei creatori più influenti dell'anno. Frequenta il Pratt Institute di Brooklyn, New York, nel 2015 si è laureata con un Bachelor of Fine Arts in Drawing.

Nikki Peck è un'artista che vive e lavora a Vancouver, BC. Il lavoro di Peck esamina ed esplora la rappresentazione della sessualità e della forma femminile nella società contemporanea. Concentrandosi specificamente sulla forma identificata dalla donna nella società attuale, il lavoro di Peck indaga la pluralità dei modi in cui lo sguardo, le pratiche artistiche femministe, la sessualità, la censura e gli eventi storici hanno plasmato, definito e condizionato la percezione del nudo femminile nell'arte. Studiando e ricercando le teorie dietro gli sguardi, il suo lavoro intende sovvertire e rifiutare lo sguardo maschile, nel tentativo di porre lo sguardo queer femminile in prima linea nella ricerca artistica.

Dietro a questo nickname si cela un’artista Parigina trentenne, che oggi è considerata una delle artiste dell’arte erotica su Instagram più seguite e apprezzate. Nelle sue opere parla soprattutto di emozioni, intimità e rapporti affettivi.

Roomi è un'illustratrice russa. Ha iniziato a pubblicare i suoi lavori su Instagram nel marzo 2017 e subito ha ricevuto molte reazioni positive. Tra le sue fonti d'ispirazione ci sono il fumettista belga Brecht Evens e l'illustratore italiano Lorenzo Mattotti.

Illustratrice emergente italiana che sul suo profilo Instagram si presenta così: "La mia visione è senza freni, rigorosamente in 6 sfumature di rosa". Si batte per le minoranze sessuali e per infrangere i tabù relativi al sesso: "il mio monocromatismo è in grado di attenuare il suo D.O.C.”, almeno così dicono. Non mi piace dare un nome, un limite ed etichettare cose e persone".

Artista per metà francese e per metà danese del 1984, che vive a Odense, in Danimarca. Si è specializzata nell'arte sensuale ed erotica dal punto di vista di una donna. Ha iniziato a lavorare con il tema sensuale ed erotico nel 2015, da autodidatta. Ama combinare i colori con una forte definizione degli spazi che lascia spazio a un'interpretazione onirica dell'atto sessuale. "Mi sento una privilegiata nel poter esprimere i miei pensieri e idee artistiche e la mia speranza è che l'esposizione di scene altamente emotive non finisca mai in provocazione né volgarità".

Barbara Costa per Dagospia il 5 giugno 2022.

Qualcuno la vuole doppia? Tripla? Ogni antro avido e disponibile è infilzato, è imbottito, e bocche che paiono spezzarsi e invece no, ce la fanno bene e tanto, a prenderne uno, a succhiarne un altro, e a popparne due, e insieme, e sono grossi, pulsanti, ingestibili! 

Se il porno che ti eccita è quello più estremo, se alle tue sinapsi che scuotono il tuo sesso (e attivano la tua mano) non basta un pene ma ce ne vogliono due (minimo) in atto su una donna il cui corpo è ingordo di sesso e di maschi, e che in gangbang è maestra e insaziabile… presto, aggiungi alla tua lista di hobby preferiti "DPDiva.com", sito neonato carico di doppie e triple penetrazioni, anali e vaginali! Tutto sesso strong, il più tosto e senza tregua, e allora: quali sentimenti i più porno patriottici istigo se dico che il padre padrone di DPDiva.com è il nostro Claudio Bergamin?

Lui, Claudio Bergamin, italiano di Trieste, e negli Stati Uniti da più di 20 anni e a farne, di porno! Lui, celebre nel settore per la sua vigorosa casa di produzione "PervCity", su cui comanda con l’alias "Maestro Claudio" (dacché si sente e proclama nientemeno che “il Michelangelo del porno”…!) se n’è inventata un’altra, l’ha chiamata DPDiva, e vi ha messo le pornostar le più attizzanti e flessuose e seguite, e le più valenti a farsi regine di peni che forti le varcano e da più parti in contemporanea… 

Maestro Claudio lo sa e sicuro lo decreta: il pubblico del porno ha voglia, inesausta, di pirotecnici spettacoli penetrativi e assolutamente multipli. Ha voglia di contemplare davanti a uno schermo donne e uomini che ci danno sotto, realizzando sudici porno sogni i più improponibili nella realtà. Maestro Claudio i suoi aficionados sa come viziarli per assicurarsene la fedeltà! 

Guardate che ha messo in catalogo su DPDiva, e sono solo le prime scene: c’è Syren De Mer che gode di 3 maschi, delle loro doppie penetrazioni anali, alternate e no, e del loro bukkake finale. C’è Ashley Lane in mezzo a 3 uomini che ne fanno porno giostra davanti, e dietro, ma pure la fistano, ma pure la inondano di sperma sul viso, e sul corpo, e dentro.

C’è Lana Analise in una gang bang a penetrazioni profonde e da ogni parte, e dove non bastano i peni entrano in scena i dildo. E nuovi e più diabolici video sono in caricamento, con pornostar quali Alexis Tae, Savannah Blond, Jane Wilde, e tante, tante altre… 

A Maestro Claudio piace teen, ma anche milf, e piace depilata e però all’occasione pure bella pelosa: d’altronde, lo stesso Maestro a peli non scherza: l’avete visto nudo in porno azione? Nooo? 

Se c’è una cosa che distingue i porno diretti da Claudio Bergamin, oltre il suo personalissimo stile di ripresa, fatto di angolazioni inusuali, mobilissime, è il suo "entrare" nell’inquadratura porno, la sua rapidità nell’immettere l’occhio della telecamera nei sessi che si sollazzano, ma non solo: a volte, Maestro Claudio entra diretto, fattivo, attivo negli incastri sessuali che sta riprendendo.

E infatti Maestro Claudio, se per DPDiva ha subito chiamato a sé, sul set, il suo socio e sodale Michael Stefano (pornostar nato negli USA ma italiano, figlio di immigrati di prima generazione), non si sottrarrà dal girare e caricare lavori in cui è lui stesso a pornare: lui, il suo pene, vispo e in azione, sui corpi e nei sessi di femmine libidinose (di solito, Claudio opta per threesome con lui, una attrice, e Michael Stefano: chi lo sa se per DPDiva varierà trend…). 

Non dimentichiamo che il grande Claudio Bergamin ha iniziato nel porno da attore, negli anni '90, quando il porno era tutt’altra roba, e che è su quei set che ha incontrato Tiziana, sua attuale moglie: ma che vuoi dire contro chi, da quasi 3 decenni, è un potente Maestro del porno, a idearlo, e a dirigerlo, in creativa esaltazione, così come è egli stesso a farlo, il porno, col suo pene di arzillo 67enne che nulla invidia a peni più giovani e aguzzi?

Da leggo.it il 4 giugno 2022.

Sono giovani e sono diventati in breve tempo star di Onlyfans a Varese. Sulla piattaforma si chiamano Teo e Noemi di "Shinratensei98" -  account da centinaia di migliaia di followers - mentre nella vita sono Vittoria e Matteo, di 24 e 26 anni. 

Una ha perso il lavoro a causa della pandemia di Covid, l'altro si era stancato di lavorare al supermercato, così hanno cambiato vita e attualmente guadagnano per i loro video di coppia hard e amatoriali.

«Certo che ci riconoscono, è successo anche in questi giorni. Ci fermano per strada e domandano. Ma non ci siamo montati la testa, e a quanti chiedono la dritta per fare soldi in fretta rispondiamo sempre allo stesso modo: non abbandonate il posto fisso per avventurarvi in un lavoro difficile e molto volatile», spiegano al Corriere della Sera.

Al mese hanno entrate da decine di migliaia di euro, ma non c'è alcun contratto di lavoro: «Non è stato facile e non sappiamo quanto durerà, ma oltre a girare i video veri e propri, ora l’attività che ci tiene impegnati per il maggior numero di ore al giorno è quella di seguire i canali social... All’estero, dove peraltro c’è un atteggiamento diverso riguardo al sesso, abbiamo conosciuto chi guadagna anche un milione di dollari al mese facendo video».

Nessuna intenzione di finire sul set di un vero film porno, ma ogni giorno bisogna seguire le interazioni dei followers con metodo: «Di affrontare un set vero e proprio non ce la sentiamo. Meglio la semplicità e la cura dei luoghi che scegliamo per girare i nostri video».

Poi raccontano come è nata l'idea: «Una mattina l’ho vista piangere, seduta sul letto. Aveva da poco comprato la macchina e non sapeva come pagarla... Ho cominciato a studiare il fenomeno e quasi per gioco abbiamo pubblicato il nostro primo video, senza troppe speranze. Però piaceva e le visualizzazioni crescevano. Nulla di molto diverso da quello che facevamo nella nostra intimità: funzionava e abbiamo cominciato a crederci». I video sono andati così bene che Matteo ha deciso di licenziarsi.

Barbara Costa per Dagospia il 4 giugno 2022.  

Sul porno e sulle pornostar girano leggende, falsità, mitologie… dure a morire! Eccone alcune che vorrei smentire.

Le pornostar sul set godono sempre

No. Non è vero. Godono poche volte. E per un solo motivo: non ne hanno tempo e modo. È canone, sul set, non poter arrivare al climax bensì recitarlo in base al volere del regista. Anche in un cunnilingus.

Le scene che sui siti di un porno si vedono non sono girate in quella sequenza e maniera. Ci sono stacchi, e specie da penetrazioni anali a orali, e per pulire il pene, e asciugare il sudore agli attori. Per ripetere la scena. Per farla secondo determinate angolazioni e quadri.

Le pornostar mentre fanno il porno non pensano al loro piacere ma a realizzare la scena nel miglior modo possibile. È il loro lavoro. Ciò non vuol dire che non si divertano a farlo, ma non sempre gli capita di girare con un collega con cui vanno d’accordo e/o con un regista che gli sta simpatico.

Come in ogni altro mestiere, sul set vale la propria professionalità. Su un set si fa sesso per creare e vendere un prodotto avente il fine di eccitare e soddisfare chi lo guarda, non chi lo realizza. 

E questo vale per il porno gonzo (solo azione, solo sesso) non vale però per il porno girato in libertà di espressione, ovvero il porno in cui tempi di esecuzione e mosse e posizioni li decidono i due o più in azione (ad esempio, i porno a firma Bellesa). 

O in quelle rare scene la cui chimica tra gli attori si fa potente e assoluta. Valga come prova sovrana quel creampie con Angela White e Manuel Ferrara dove Angela gode fino alle lacrime, non previste dal copione e lasciate nel prodotto finale.

Le pornostar nelle scene anali hanno l’ano anestetizzato

Ma siamo pazzi? È questa una storia nata negli anni '80 e nel porno di serie scadente e pure messa in giro da vecchie pornostar ciarliere in astinenza da gloria. È pericolosissimo anestetizzare l’ano, anche perché la mancanza di sensibilità non ti consente di avere il pieno controllo di quello che stai e ti stanno facendo (in ogni scena anale, chi "subisce" l’anale ha pieno potere di fermare l’azione se ciò le procura il minimo fastidio). 

Si crede che nelle scene di sesso anale estremo le attrici anestetizzino l’ano per non sentire dolore, ma non è così. Quelli in azione sono ani speciali, nel senso che sono ani super allenati e addestrati. 

Nel porno non giri un anal senza prima aver preparato la "parte" da giorni, con diete e digiuni e lavande, e con sex toys particolari e che sono enormi e gonfiabili. Le attrici hanno destrezza con questi insoliti oggetti, sanno come usarli per approntare il loro ano a sostenere sollecitazioni extralarge.

Sono ani-atleti! Di porno anale estremo le attrici ne girano pochissimo, a distanza anche di settimane, e periodicamente (come ha giusto svelato Joanna Angel) marcano visita dal proctologo per controllare che dietro sia tutto a posto. 

Le pornostar sono ricchissime

Macché, e certamente non all’inizio. Le ricchissime sono una élite e sono le dive – Angela White, Asa Akira, Mia Malkova, Adriana Chechik… – e queste sì abitano in case lussuose. 

Tra le pornostar poi c’è una parte che è benestante, parte che guadagna bene, e parte che guadagna non abbastanza perché il porno sia la sua unica fonte di reddito…

E pure fuori dal set sono tutte promiscue

Chi l’ha detto che è un obbligo? Chi lo ha stabilito? Ognuna decide per sé, come della sua vita sessuale e privata decide ogni donna, ogni persona. Tra le pornostar tuttavia tante sono sposate, hanno una vita regolare e fuori dal set anche monogama. Quel che di sesso recitano non ha ragione di corrispondere alla loro sessualità nella vita reale. 

Le pornostar sono anche escort

Sta alla scelta personale di ognuna. Ma le pornostar che sono anche escort non sono porno star ma più precisamente attrici porno di minor fascia. Se sei una pornostar guadagni e bene col porno sicché non hai motivo né tempo per fare e vendere sesso in altro modo per arrotondare.

Le escort che fanno anche porno lo segnalano sui loro account di lavoro con la sigla "PSE" (Porn Star Experience) e per questo, per i loro escort servizi, vogliono essere pagate di più. 

Le pornostar che fanno lesbo sono lesbiche

No, vabbè. Te lo fanno credere! Possono recitare benissimo da etero! In gran parte sono bisex, in gran parte sono etero che fanno lesbo per lavoro. 

Le pornostar rispondono personalmente su OnlyFans

No, non può essere così per le pornostar che hanno fan dal numero considerevole. Le pornostar tali perché hanno ampissimo seguito pagano uno staff che gestisce OnlyFans al posto loro, "parla" per loro, posta il loro materiale. Una pornostar non ha in concreto tempo per contentare e seguire da sé tutti i fan su OnlyFans.

Le scene di violenza sono vere

No, sono recitate come nel cinema tradizionale. C’è il sesso e c’è il sesso bdsm, vero e fatto e ricevuto da corpi, anche qui, appositamente allenati e preparati. Ad esempio gli schiaffi nel porno bdsm sono schiaffi reali e però "calibrati": i segni sul corpo sono veri ma non così pesanti come sembrano. È esagerato perché reso funzionale al prodotto finale, ma è recitato la sua parte, da professionisti bdsm di prim’ordine. 

Nel porno sono tutti drogati/1

Come in ogni altro ambito di lavoro, droghe pesanti e leggere possono essere usate dai singoli pornostar nella loro vita privata a loro esclusiva scelta e rischio e pericolo (è recente la morte per overdose della performer trans Angelina Please, in un festino privato a casa sua).

Non è il porno che porta alla droga. Drogarsi è sempre una scelta personale. Su ogni set inoltre le droghe sono bandite, e se ti beccano "fatto" ti cacciano dal set e dal settore intero. 

Drogarsi non rispecchia le regole basiche di professionalità, che nel porno vengono prima di tutto. Tali norme non erano così rigide nel porno del passato, dove la circolazione di droga anche pesante non era infrequente. 

Nel porno sono tutti drogati/2

Se per droga si intende l’uso di Viagra e affini per erezioni chimiche, sui set ricorrervi è vietato ma nessuno può frenare e/o controllare l’eventuale uso che un attore di sua sponte decide di farne.

E però non è vero che ogni attore ha il pisello drogato. Come dice il pornostar Luca Ferrero: “Non ci sono trucchi per mantenere l’erezione su un set. Certo, l’esperienza aiuta, ma mantenere un’erezione per un pornoattore è un fattore psicologico. Gli aiuti chimici esistono e sono utili a volte se, su un set, devi fare sesso per molte ore di seguito”. 

“Che ci vuole a scopare per lavoro, posso farlo pure io!”

Ecco, a tutti quelli che si ostinano a pensarlo e, peggio, a dirlo, e a non credere che fare porno sia un mestiere, e difficile, e dove servono necessarie competenze specifiche… Ok, girate un porno professionale, e poi venitecelo a raccontare.

Paolo Travisi per leggo.it il 18 maggio 2022.

Che paradosso. Il porno, nato per soddisfare gli istinti sessuali degli uomini, da alleato del desiderio diventa quasi un... nemico. Infatti più video porno si guardano e meno gratificanti diventano le prestazioni sessuali, mentre diminuisce di pari passo l’insoddisfazione della partner femminile.

A sostenerlo è una ricerca condotta da Nicolas Sommet dell’Università di Losanna e Jacques Berent dell’Università di Ginevra, che hanno reclutato oltre 100 mila uomini e donne, 8 mila coppie eterosessuali che per 3 anni sono stati sottoposti ad un questionario per valutare tre indicatori: la percezione delle loro capacità sessuali, il livello di funzionamento sessuale, la soddisfazione del proprio partner. Ma c’è di più.

Come un boomerang del piacere - se è stato l’uomo a creare l’industria del sesso, per placare i suoi ardori inconfessabili - oggi nell’era del porno di massa e gratuito della rete, quel boomerang torna indietro, ma ad afferrarlo, stavolta, sono le donne: “più guardano porno, maggiore è la loro sensazione di competenza sessuale, minore è il numero di problemi sessuali e per le coppie etero, il partner maschile è più soddisfatto di alcuni aspetti della sessualità di coppia” dicono i due ricercatori svizzeri, sottolineando il tramonto dell’industria machista del porno solo appannaggio della soddisfazione maschile. Anzi. È proprio il contrario, quando il consumo si fa elevato.

«L’uomo riferisce di avere dubbi sulle sue prestazioni e problemi come l’erezione ed il funzionamento biologico», precisa Sommet, mentre le donne traggono il maggior benefico dal ricorso alla pornografia. 

Non è la prima volta che ricercatori accademici, hanno rivolto il loro interesse scientifico al porno e sono gli stessi relatori a sostenerlo: «Alcuni studiosi sostengono che l’uso del porno stabilisca standard irraggiungibili di confronto generando ansie per le proprie prestazioni, mentre altri studiosi sostengono che il porno possa essere una fonte di ispirazione e potrebbe essere utilizzato per diventare un partner sessuale migliore».

Fino ad oggi il campione di riferimento era piccolo e le conclusioni poco affidabili, mentre i due svizzeri hanno condotto uno studio su oltre 100mila persone provenienti da cinque diversi Paesi, di età 21-45 anni. 

Ma attenzione, ribattono i ricercatori, «il porno non è il principale fattore da incolpare per problemi sessuali degli uomini e non può essere considerato una sorta di panacea sessuale per le donne». 

Alessia Vinci per il corriere.it il 7 maggio 2022.

Immagini di nudo per calamitare l’attenzione verso il messaggio che si desidera veicolare: un «trucco» più che noto in ambito pubblicitario. Ma funzionerà anche nello spazio? Gli scienziati della Nasa sono convinti di sì. 

È quanto emerge da un nuovo studio condotto da un gruppo di esperti guidato da Jonathan Jiang, capo ricercatore del Jet Propulsion Laboratory dell’agenzia spaziale americana. Intitolato «A Beacon in the Galaxy» («Un Faro nella Galassia»), contiene infatti le istruzioni necessarie per rappresentare in maniera realistica la figura umana in codice binario allo scopo di entrare in contatto con forme di vita extraterrestri.

Il perché del codice binario

«Il codice binario – si legge nel paper – è la forma più semplice della matematica, poiché comporta solo due stati opposti: zero e uno, sì o no, bianco o nero, massa o spazio vuoto». In altri termini, è un linguaggio «probabilmente universale per tutte le intelligenze»: per questo è stato scelto per massimizzare le chance di comprensione da parte degli alieni. 

Nello specifico, l’immagine elaborata dagli scienziati consta di tre elementi stilizzati: la raffigurazione del corpo maschile e di quello femminile, la struttura a doppia elica del nostro Dna e una serie di oggetti in caduta libera a simboleggiare la forza di gravità.

Le altre informazioni

Non è finita qui. Il messaggio predisposto dagli autori della ricerca, infatti, include anche «concetti matematici e fisici di base», «informazioni sulla composizione biochimica della vita sulla Terra», «rappresentazioni digitalizzate del sistema solare e della superficie terrestre» e «la posizione del sistema solare nella Via Lattea». Chiude poi le fila «un invito a qualsiasi intelligenza ricevente a rispondere». 

I precedenti

Sarà la volta buona per stabilire una connessione? Un primo tentativo in codice binario venne effettuato tramite il «compianto» telescopio di Arecibo nel 1974, ma un’eventuale risposta arriverà, nella migliore delle ipotesi, soltanto tra 50 mila anni. Dal 2017 si sta invece puntando a comunicare con il sistema della stella nana ultrafredda Trappist-1. Non è dunque da escludere che il nuovo messaggio, ben più dettagliato dei precedenti (anche) dal punto di vista anatomico, venga impiegato già a partire dai prossimi invii.

L’idea di spedire ai confini dell’universo immagini di nudo umano, comunque, non è una novità. A dimostrarlo, le incisioni riportate sulle placche di alluminio posizionate nei primi anni Settanta a bordo delle sonde Pioneer 10 e Pioneer 11, che stanno ancora vagando silenti e indisturbate a miliardi di chilometri da noi.

Barbara Costa per Dagospia il 7 maggio 2022.

Come sta messo Putin con la pornografia? In Russia consumare – ma peggio girare – porno, è grande confusione: è un posto dove ognuno deve prendere i rischi che crede perché, se da un lato non c’è nessuna legge che vieti “il consumo e la produzione di porno lecito”, non c’è nessuna norma che precisamente indichi cosa in Russia sia pornograficamente lecito e no.

Di questo inghippo ne sa qualcosa Giorgio Grandi, nostro connazionale che tanto porno fa, Giorgio che per il porno, e per la forte visione che ne ha, ha piantato l’Italia per fare fortuna prima a San Pietroburgo e poi a Praga. Giorgio ha 46 anni, ed ha cominciato nel porno 19 anni fa, e da attore, e quando in Italia il porno era ancora remunerativo. Prima degli altri Giorgio ha capito che il web ne avrebbe fatto rivoluzione e, poiché da noi nessuno gli dava retta, ha lasciato che gli allora porno-capi frignassero sul web che si pappava ogni cosa, per fare di testa sua.

Senza conoscere il russo, Giorgio si è trasferito a San Pietroburgo, con un Putin già al potere da 8 anni ma con le leggi russe che sul porno non erano strette come quelle attuali. In Russia, Giorgio ha trovato forma e nutrito materiale (donne dotate e capaci) per concretizzare la sua idea di porno che è la seguente: “Bei buchi del c*lo da spanare in tutti i modi…!”. Con Giorgio e per Giorgio lavorano performer che in video danno vita a pesantissimi e multipli anali, e fisting, e pissing, per una pornografia che "smonta" i corpi femminili imbrattati di sperma. Che queste donne lo facciano perché pornoattrici serie e coscienti di guadagnarne non poco denaro, c’è bisogno che lo scriva?

Per Giorgio porno e soldi a iosa fino al 2012, cioè fino a quando il porno in Russia non finisce in tv e in prima pagina per il caso – contorto e mai provato – di una russa che accusa registi porno stranieri di averla drogata. Shock nazionale e Duma che ratifica nuove leggi rigidissime anti oscenità. Una attenzione mediatica che provoca spiate, perquisizioni ai set e fermi di polizia. Giorgio ne subisce più d’uno. 

Fare porno gli diventa difficile. Pericoloso. Lascia la Russia e va a Praga, odierna mecca del porno europeo (tallonata da Budapest), e oggi lo trovi quale firma di punta dei porno estremi di LegalPorno.

Per Giorgio Grandi, che ha vissuto in Russia e la conosce, le sanzioni occidentali rafforzano Putin in patria e avranno ripercussioni pure nel settore del porno, dove il problema nel breve periodo sarà competitivo: se il rublo tiene, e con quel cambio… e col costo di produzione più basso che c’è lì… se le sanzioni occidentali porteranno la Russia se non al default a una grave crisi interna, sul porno avranno altresì il riflesso di avere più russe a bussare alla porta del porno russo, a discapito di quello estero… 

Per le produzioni europee si prevedono tempi complessi per il fatturato, non negando che vi sarà chi guarderà più alla struttura aziendale che alla qualità del prodotto. Giorgio Grandi ragiona da porno imprenditore, e la guerra in Ucraina l’ha spinto finora alla ristrutturazione di tre quarti del processo produttivo del porno che dirige. Ed è solo un primo contrappeso. 

E Putin, sarà mai stato un "povesa"? È in russo parola che più si avvicina al termine playboy, ed era appunto nella vecchia URSS la più usata per indicare non solo la rivista di Hefner, ma lo stile di vita che Hefner vi celebrava e per cui i sovietici sbavavano in segreto. Playboy era proibito in URSS, ma clandestinamente vi entrava per l’élite che se lo faceva spedire insieme a scientifiche pubblicazioni occidentali. Ma era pure ben riposto in biblioteche, e accessibile a qualificati sovietici studiosi della nemica cultura americana…

Playboy varca libero la Russia nel 1995: “Che si può fare contro Pamela Anderson?!!?”, brontolava Artëm Troitskij, il primo direttore di Playboy Russia, dissidente da tette e c*li, per lo più siliconati, che Hefner imponeva in copertina e nei paginoni centrali. No, Pamela Anderson non la fermi, il suo potere iconico ha oltrepassato e distrutto muri i più ideologici. Playboy ha dato a tante russe playmate capacità di emanciparsi: ha dato loro una strada – e soldi in tasca – per farcela da sole. “Tu starai seduto in pantofole con tua moglie su un divano sfondato mentre io sarò una star”, scriveva al suo ex fidanzato la futura attrice e volto tv Dana Borisova, un anno prima di finire in copertina su Playboy.

Ma il Putin che ha più volte senza riuscirci tentato di bandire Pornhub e YouPorn, e che adesso blocca i social occidentali, e che gongola per ogni “marcia degradazione occidentale” che si illude di arrestare, è lo stesso Putin che acclamava l’elezione (tra le file del suo partito, ovvio) di Mariya Kozhevnikova, ex playmate??? La Mariya che applaudiva le repressioni di Putin, civettando che “Putin… io l’ho avuto accanto più volte… è un uomo che emana vibrazioni molto forti... per questo l’Occidente ha paura di lui”??? E pure la di Putin amica/amante/nuova moglie Alina Kabaeva ha posato LIBERA, sensuale e svestita (e ben retribuita!), sì o no???  

Justin Jones per thedailybeast.com il 24 aprile 2022.

Per molte persone la pornografia è un argomento tabù. Nonostante il sesso e l’immaginario sessuale facciano ormai parte della nostra cultura, tendiamo a considerare il materiale  erotico ancora come qualcosa di privato, da nascondere in uno scaffale o dietro la televisione e da consumare di nascosto. 

“Siamo convinti di aver inventato la pornografia hardcore” dice Mark Snyder, direttore del museo del sesso di New York City, riferendosi all’aumento della domanda di materiale pornografico conseguente al boom di internet, “ma in realtà è qualcosa che esiste da molto prima di quanto si pensi”. 

Ammirando l’ultima mostra del museo, tema “Hardcore: un secolo e mezzo di immaginario osceno”, si capisce subito a cosa Snyder faccia riferimento: appena entrati ci si imbatte subito nella letteratura erotica del 1500, farcita di desideri e fantasie sessuali che, a tratti, “possono sembrare più spinte di qualunque cosa ci sia in giro oggi”, dice Senyder.

Lo scrittore cinquecentesco Pietro Aretino, considerato “il padre della pornografia”, aveva inserito nelle sue opere “vari discorsi con esplicite allusioni erotiche sulla corruzione del clero e le ingiustizie sociali, descrizioni dettagliate del sesso omo ed eterosessuale, parlò di orge e masturbazione in modo diretto e senza ricorrere a perifrasi o eufemismi”. 

Il romanzo erotico “Fanny Hill, Memorie di una Donna di Piacere”, pubblicato in Inghilterra nel 1748, ha fatto il giro del mondo da quando Joe Cleland lo scrisse nella cella di una prigione di Londra, dove era stato rinchiuso per non aver pagato i suoi debiti. Il romanzo racconta la storia di una ragazza, Fanny, che si trasferisce a Londra a 15 anni dopo la morte dei suoi genitori. Nella capitale diventerà una prostituta, venderà la sua verginità e scoprirà la masturbazione e altre perversioni sessuali.

Fanny Hill è considerato il primo romanzo pornografico e anche uno dei libri più perseguiti della storia. Nel 1821, quando si diffuse negli Stati Uniti, il suo editore Peter Holmes fu accusato di distribuire materiale “volgare e osceno” ma il processo servì solo ad aumentare la popolarità e l’interesse attorno al libro. 

Il caso Fanny Hill portò anche gli americani ha produrre i loro primi esperimenti di materiale pornografico, i “Fancy Books”, che tramite le illustrazioni fornivano una guida ufficiosa alle pratiche sessuali. Nel museo di New York sono anche in mostra i cataloghi dei bordelli che venivano venduti agli angoli delle strade e che informavano la gente sulle attrazioni dei “palazzi del piacere” e le loro dame. Una sorta di Yelp! in cui erano recensiti i casini della città. 

“La gente pensa che la cultura vittoriana fosse molto puritana – dice Sneyder – in effetti, questa è l’immagine che volevano passasse alla storia, ma la gente di quell’epoca era anche molto curiosa, le piaceva esplorare e documentarsi su ogni aspetto della vita”. 

Proseguendo nella mostra, si trovano i “money shot”, foto di eiaculazioni, liquidi corporei, primi piani su organi sessuali e masturbazioni ma la cosa più interessante sono i giocattoli erotici: candelieri, manici di scopa e torce venivano usati dalle donne per eccitarsi all’interno delle loro casette vittoriane. 

“All’epoca non esistevano i dildo e le persone si arrangiavano con quello che avevano in casa”, dice il direttore del museo Mark Snyder. All’inizio del ‘900 si iniziò anche ad esplorare tabù come orge, sesso omo e travestimenti religiosi, pratiche che all’epoca erano considerate illegali. 

Alla mostra ci sono perfino alcune delle prime documentazioni fotografiche del BDSM: in uno scatto una dominatrice impugna la sua frusta mentre calpesta la faccia di un uomo, in un’altra una coppia è legata insieme con delle catene. Un altro pezzo interessante è una collezione di 120 fotografie erotiche scampate alla “Società per la Soppressione del Vizio”, che nei primi anni venti bruciò più di 160 tonnellate di materiale erotico.

Il passaggio dalle immagini alla pellicola cinematografica avvenne con gli “stag movie” ma la consacrazione ufficiale arrivò nel 1972 con Gola Profonda, il film nel quale Linda Lovelace scopre di avere il clitoride in fondo alla gola. Gola Profonda venne proiettato in tutti gli Stati Uniti e si guadagnò l’apprezzamento di Jackie Onassis e Truman Capote, incassando più di 6 milioni di dollari.

“Gola Profonda ha segnato l’inizio dell’era del “Porno Chic” – dice Sneyder – e da allora è cambiato tutto. La pornografia non era più illegale, ma la libertà d’espressione causò una reazione negativa e che portò il porno ad essere fortemente denigrato negli anni ‘80. Fu un periodo di cambiamenti molto interessanti che pose le basi per la moderna industria del porno”. 

Da leggo.it il 18 aprile 2022.

Il 2003 fu la sua miglior stagione, ma forse la vera occasione persa resta il secondo turno contro Maria Sharapova al secondo turno degli Australian Open 2006. Erano gli anni in cui Masha era un osso duro. 

Lei, Ashley Harkleroad, biondina statunitense di Rossville (Georgia profonda), dopo aver perso il primo set iniziò una partita diversa, fatta di variazioni e scelte inattese. Abbastanza per far perdere la pazienza alla statuaria russa che, sempre più in difficoltà, arrivò a concedere un set-point che - trasformato - avrebbe rimesso l'incontro in equilibrio e spostato forse l'inerzia del match e della sua carriera. Ma quella palla, vitale, la biondina la affondò in rete per perdere poi game, set e match. 

Harkleroad, il 2003 suo anno migliore

Forse era troppo minuta la Harkleroad, che pure si issò nel 2003 al numero 39 della classifica mondiale Wta, per sfondare in un tennis di giganti. Non solo Sharapova, ma soprattutto Serena Williams, la sorella Venus, la potente Ivanovic.

Erano gli anni di transizione delle racchette, dalla grazia di Martina Navratilova e Steffi Graf, ai muscoli che oggi la fanno da padrone. Sempre e ovunque. Quei muscoli la statunitense non li aveva. 

Dal basso del suo metro e 65, all'americanina mancava la profondità dei colpi, non il talento (numero 39 Wta non si diventa a caso). Ma la sua apparizione sui campi non passò inosservata. Ashley Harkleroad in campo era un piccolo angelo biondo, una Camila Giorgi con 15 anni di anticipo. Playboy la notò e, dopo un breve corteggiamento, realizzò un servizio fotografico che ancora oggi fa scandalo. 

Harkleroad, il servizio su Playboy

La Harkleroad fu la prima tennista professionista, era il 25 maggio 2008, a mostrarsi come mamma l'aveva fatta. Il tutto dopo l'ennesimo schiaffo in campo, questa volta al Roland Garros, contro una big, Serena Williams. 

La allora 23enne Ashley salì alla ribalta mondiale con un servizio di copertina che le fece conquistare finalmente, e non per doti tennistiche, le prime pagine. Fra tante ipocrisie di colleghi si ricorda proprio il commento di Serena che disse: «È una gran cosa che qualcuna sia tanto coraggiosa e forte». 

Una vita tormentata, quella della biondina, che sposò giovanissima (era il 2004) il collega Alex Bogomolov, altro outsider del grande tennis. Un apparente idillio destinato a durare solo due anni. Ashley trovò il compagno ideale in Chuck Adams, anche lui discreto giocatore, che fu per un po' suo maestro. Con lui arrivarono Charlie e Loretta che sta cercando di seguire le orme materne sui campi della California del sud. Poi il ritiro dal tennis prof.

Harkleroad, star su Instragram e Onlyfans

E oggi? La biondina è sempre stata uno spirito inquieto. A 34 anni sul suo profilo Instagram pubblicò una foto del suo lato B che non passò inosservata (anche il britannico Sun dedicò all'evento un servizio scandalistico). 

Poi, e arriviamo ai giorni nostri, l'inizio di una nuova era, quella di Onlyfans. La bionda Ashley non è cambiata molto dai tempi del servizio di Playboy. Chirurghi esperti le hanno regalato un paio di misure in più di seno, le altre doti gliele aveva già concesse madre natura. Come tante ragazze che si avvicinano al social "privato", l'inizio è stato soft.

Ma la spirale travolge tutti e tutte. «Se ho fan disposti a spendere 5 euro per una foto sexy, fin dove posso arrivare?». Una foto (e un video) dopo l'altro, l'annuncio, attesissimo da migliaia di fan il 15 aprile: «Ecco il mio primo video porno». 

Un porno domestico, con il suo compagno di sempre - sacrificatosi in nome del dio denaro - ma un porno a tutti gli effetti, che la fa tornare alle luci della ribalta in una versione sicuramente insolita per un'ex atleta professionista. La biondina della Georgia fa ancora parlare di sé e, all'alba dei 37 anni, molti ritengono che potrebbe non essere finita qui.

Barbara Costa per Dagospia il 9 aprile 2022.  

La pornostar Kristina Rose ha questo problema: lei ha un ciclo mestruale che le dura 10 giorni! Se ci aggiungi una sindrome pre mestruale di 7 giorni, per lei i giorni di "tregua" al mese sono 13. Soltanto! Se ciò lo rapporti al suo lavoro basato sull’impiego della vagina in rapporti sessuali all sex multipli e sostenuti, si capisce che la sua non è una situazione semplice. Kristina la prende con spirito, ora che ha ripreso la pillola, mestruo-regolarizzandosi, e però è lecito domandarselo: come fanno le pornostar quando hanno il ciclo? Pornano lo stesso? Fanno solo anale? Si danno malate? Si prendono giorni di ferie pagate? Come lo nascondono?

Una pornostar non ha ferie pagate né malattia, è un lavoratore autonomo vieppiù a partita IVA che se sta male non lavora e non guadagna, e in ferie ci va se e quando vuole lei, e se le paga lei. Nel mondo del porno il ciclo mestruale non è un tabù, e ci sono porno, amatoriali e no, girati con protagoniste le mestruazioni e sono i porno destinati ai feticisti del genere, che esistono e si chiamano menofili, e sono coloro che alla vista del sangue ma di più del mestruo gli viene duro e vanno in estasi, e se non hanno al loro fianco una compagna che gioiosa li asseconda con vigore quando è mestruata, si vivono il loro feticismo masturbandosi gli assorbenti ma pure vedendo porno con sessi mestruati.

Le attrici porno in genere sono solite assumere la pillola anticoncezionale che le libera dal rischio di gravidanze e gli regola il ciclo in modo che possano programmare le riprese senza sgradite sorprese. Ci sono anche attrici che assumono anticoncezionali che azzerano del tutto il ciclo. 

Ogni corpo risponde a suo modo e ognuna decide per sé, e le attrici che sono in sospensione di pillola o sono donne a cui la pillola non è consigliata, o donne con ciclo irregolare, o… in definitiva, se un’attrice deve girare ma scopre un "imprevisto" tra le gambe, è raro che a causa del ciclo spostino le riprese (gli studios ci perdono soldi), ancor più raro che venga sostituita (se per quel porno hanno chiamato te, vogliono te, e non un’altra e comunque, se ti sostituiscono, non ti pagano).

Quindi alle attrici porno con ciclo restano due opzioni: o il regista accetta di mutare la scena in un anale, che col ciclo si può girare, lo fanno sparire l’assorbente interno e specifiche angolazioni di riprese e tagli di regia e in sede di montaggio, oppure si fa quello che finora poche pornostar hanno svelato, soprattutto due, Jessica Drake e la (ex) collega Stoya: una pornostar gira porno pure mentre ha il ciclo e vi fa penetrazioni vaginali con l’uso di una… spugna di mare! 

È la spugna di mare una spugna di medie dimensioni che si applica nella vagina, posizionata bene in fondo, e sterilizzata e bagnata e strizzata. Questa spugna di mare va inserita in una vagina svuotata del mestruo già depositato e vagina sottoposta a lavanda, e a tamponature a freddo.

In una vagina in tal modo preparata una pornostar con mestruazioni pone una spugna di mare ed è pronta per il set, e lì attori e regista accortamente informati della presenza di ciclo si accingono a girare la scena come da copione, non di corsa ma senza perder tempo, perché la spugna ha capacità di assorbenza limitate. In particolare l’attore – che non si schifa delle mestruazioni, non può farlo, non ne ha ragione né motivo, ché per un lui è prassi, è contesto lavorativo – deve stare col pene pronto e in tiro e portare a compimento una o più penetrazioni di cui tu, spettatore, rimani all’oscuro sia della presenza della spugna come pure di possibili macchie di sangue su pene e ovunque poi cancellate nel montaggio. 

Finita la scena, l’attrice con mestruazioni se ne torna in bagno a disinserire la spugna, operazione un po’ complicata che si risolve nel modo più felice in doccia o sul water alzando e bene in alto una gamba e tramite maestria e confidenza che le dita a rimuovere la spugna sporca dalla vagina con abitudine e abile esercizio si sono dotate. 

Luca Giampieri per “La Verità” l'8 aprile 2022.

Bisogna chiarire un aspetto. A prescindere dalle opinioni, Onlyfans non è solo un'app: è un fenomeno di costume internazionale. Nata nel 2016 per condividere contenuti, la piattaforma con sede a Londra ha assunto presto i contorni di un social a sfondo erotico grazie a una politica aziendale meno restrittiva rispetto a quella della concorrenza (Instagram, TikTok). 

Esplosa nel 2020 grazie alla colonizzazione dei sex worker, Onlyfans fattura 5 miliardi di dollari l'anno, con oltre 1 milione di creatori e 150 milioni di utenti nel mondo (circa 15 milioni nuovi iscritti ogni mese). 

Ad agosto 2021, su pressione dei partner bancari, la società aveva annunciato che a partire da ottobre avrebbe vietato la pubblicazione di qualsiasi contenuto di natura sessuale.

Salvo fare retromarcia una settimana più tardi. In Italia, le ragazze che si mostrano a pagamento sull'app di Tim Stokely sono oltre 120.000: una categoria professionale a tutti gli effetti. 

Per comprenderne meglio le proporzioni, basta soffermarsi su qualche numero: gli psicologi iscritti all'albo nel nostro Paese sono circa 100.000, i geometri 95.000, i commercialisti 70.000. 

Beatrice Segreti, pseudonimo di N., è una delle creatrici più seguite del momento. Veronese, 24 anni, una laurea in economia aziendale, si guadagna da vivere gestendo full time un account assieme al marito Alex, imprenditore turistico. Nell'intestazione del suo profilo Instagram si legge: «L'arte non potrebbe esistere senza rappresentare la bellezza della nudità». 

Si parla molto del corpo delle donne, di come viene percepito dagli uomini e rappresentato dai media. La sua posizione è in quella frase?

«Se visita un qualsiasi museo, troverà una scultura o un dipinto raffiguranti donne e uomini nudi. La premessa è che considero il mio corpo arte, ma solo io ho il diritto di utilizzarlo nei modi che ritengo opportuni. Il problema nasce nel momento in cui qualcun altro pretende di averlo a modo suo, quando la gente si sente giustificata ad avvicinarsi perché amo mostrarmi».

Parità dei sessi, quindi, significa anche poter scegliere di pagarsi il mutuo di casa col proprio corpo?

«Certo. Non vedo differenza tra me e un cantante che vive della sua voce. Solo perché mi servo di qualcosa che dalla società è ancora considerata tabù, non significa che stia facendo qualcosa di immorale. Per me, immorale è un lavoro che ti tiene 12 ore in ufficio senza soddisfazioni». 

Da quanto è iscritta a Onlyfans?

«Poco più di un anno. Ma gravitavo attorno al mondo dell'erotismo già da quattro, pubblicando gratuitamente foto e video di me e mio marito su blog e forum». 

Quando è diventata una professione?

«Col tempo ci siamo accorti che, con l'aumentare delle attrezzature per la creazione dei contenuti, crescevano anche i costi. Nel frattempo Onlyfans stava esplodendo. Ci siamo detti: proviamo. La risposta è stata sorprendente».

Alla luce dell'egemonia social, crede che l'esibizione sia un totem dei nostri tempi?

«Beh, alla fine chi non è un po' esibizionista? Quale uomo, nell'indossare una cravatta o un particolare orologio, non ama mostrarsi? Lo stesso vale per una donna che sceglie un abito sexy. È un esibizionismo che ha un ritorno su di sé. L'apprezzamento altrui germoglia in noi e accresce l'autostima». 

Mi spiega qual è il suo core business?

«Anzitutto, un abbonamento fisso con dei contenuti base (foto e video) ai quali è possibile accedere solo versando una somma prefissata. Ogni creator decide il suo prezzo, il mio è di 9,90 dollari al mese. Dopodiché, ci sono altri contenuti, più espliciti, da sbloccare con contributi extra». 

Di quei 9,90 dollari, quanto le rimane in tasca?

«La piattaforma trattiene il 20%. Poi si aggiungono le tasse italiane. Ciò che resta è all'incirca 4 euro. Praticamente, tre caffè».

Sul suo sito c'è una dicitura con un numero percentuale: «Top 0,3%». È un rating?

«Grossomodo. In sostanza, maggiore è la risposta degli utenti, minore è il numero percentuale. Più è prossimo allo zero, più significa che sei popolare. Il concetto è che, in tutto il mondo, solo lo 0,3% dei creator ha quei numeri. E di conseguenza quei guadagni». 

Si è arricchita, quindi.

«Sì. Sono arrivata anche a 30.000 dollari in un mese. Facendo una media, difficilmente scendo sotto i 10.000». 

Sono cifre da dirigente d'azienda.

«Buona parte di quel denaro la reinvesto: sulla mia immagine, ma anche su beni immobili, per esempio. Non ho mai sperperato i miei soldi».

Non teme che simili entrate possano darle alla testa?

«Sono buone, ma nulla a che vedere con quelle di un cantante o di un attore. E poi, già prima, conducevo un certo stile di vita mio marito non mi ha mai fatto mancare nulla». 

Dunque, l'annuncio di un giro di vite da parte di Onlyfans non l'aveva scomposta più di tanto.

«No, ma tutte le ragazze presenti su Onlyfans si erano trasferite in blocco su una piattaforma creata subito dopo l'annuncio. Si chiamava Fansly. Suppongo che i fondatori si stiano ancora mangiando le mani». 

Già. Erano a un passo dal bingo. Che idea si è fatta di quel dietrofront?

«In quei giorni girava un meme: diceva che era come se Taco Bell avesse smesso di fare i tacos. Credo che a Onlyfans abbiano capito che eliminare i contenuti erotici significava suicidarsi, e hanno trovato un accordo con le banche».

Come mai, secondo lei, l'app ha avuto un tale boom tra le ragazze?

«Penso che il motivo fosse già visibile con Instagram. Tante, anche se non tutte lo ammettono, amano mettersi in mostra. Onlyfans è un modo di farlo. E sono contenta che ci sia, perché sento storie di minorenni che inviano privatamente foto di nudo per una ricarica del cellulare. Quando non peggio. Onlyfans è un circuito sicuro che tutela creatori e utenti». 

Che tipo di interazione si crea fra lei e i suoi abbonati?

«Molto stretta, ma sempre virtuale. Spesso non si parla nemmeno di sesso».

In che senso, scusi?

«Alcuni utenti hanno solo bisogno di sentire una presenza. Vogliono confidarsi, essere ascoltati».

Ha anche donne tra i suoi follower?

«Donne e coppie. È bello sapere che quello che faccio può servire ad aumentare l'intesa sessuale di una coppia». 

Richieste bizzarre?

«Persone disposte a pagare per venire a casa a fare le pulizie, oppure donne che vogliono regalarmi ai loro compagni per il compleanno». 

Se dovesse definirsi, cosa direbbe?

«Sono una persona solare, aperta, di cui ci si può fidare. Molti su Onlyfans si confidano con me, è importante che io sia per loro un posto sicuro. Specie per le persone note». 

A chi si riferisce?

«Personaggi della politica, dello spettacolo, imprenditori, calciatori». 

Ah. E per quale motivo la cercano?

«Per ciò che non trovano quando tornano a casa. Molti tentano di sfruttare la loro posizione per andare oltre il virtuale, ma è un approccio che non funziona: se mi sbatti in faccia quello che sei per arrivare al sodo, non ottieni nulla. Lo trovo meschino, per nulla eccitante. Un docente universitario mi ha promesso una laurea facile se andavo con lui». 

Che idea si sta facendo degli uomini?

«Da una parte, mi dispiace vedere che esistono uomini con vite tristi, soprattutto fra i vip. Hanno tutto, ma quando vengono da me sembra che non abbiano niente. Altri hanno solo bisogno di un conforto che viene a mancare. Alcuni uomini, invece, possono essere degli animali».

A proposito: avrà letto la vicenda di Carol Maltesi.

«Sì, orribile. Era molto vicina a una mia cara amica, era solo questione di tempo perché ci conoscessimo». 

Il fatto che fosse su Onlyfans ha sollevato dibattiti e preoccupazioni. Vuole dire la sua? Magari per tranquillizzare tanti genitori.

«Onlyfans non ha nulla a che vedere con ciò che è accaduto a Carol. Sarebbe successo comunque. Essere sex worker non aumenta le probabilità di essere perseguitate o uccise.

Sentiamo continuamente storie di ex fidanzati e di mariti che uccidono, e quasi mai riguardano donne che fanno il mio lavoro».

In un video circolato dopo il fattaccio, Carol parlava di una violenza verbale delle donne sulle donne. Lei l'ha mai avvertita?

«Sì, assolutamente. Certe donne sanno essere più cattive degli uomini. Non capiscono, e magari i loro compagni sono abbonati al mio profilo. Anche sul lavoro noto grande arroganza: quando si tratta di fare numeri, ci sono ragazze che venderebbero la propria madre». 

A chi pensa che sia facile fare soldi in questo modo, cosa risponde?

«Semplicemente: provateci. Provate a stare dietro a 2.000 fan. Tantissime ragazze mi contattano perché vorrebbero cominciare: la maggior parte si accorge presto che non è per tutti. Se fai qualcosa contro la tua natura solo per un tornaconto economico, la gente lo nota».

Diversamente da tante sue colleghe, ha scelto di non metterci la faccia. Perché?

«Si ricollega al modo in cui è nato tutto: un gioco. Mi diverto ma tengo alla mia privacy. E mio marito anche, essendo un imprenditore. Non voglio che i piani si confondano. Mi piace l'idea di avere due vite: a volte posso scegliere la carta di Beatrice, altre quella di N.». 

Cosa la gratifica di più del suo lavoro?

«Sapere che, oltre a portare gioia a me e alla mia relazione, è fonte di piacere per tante persone. In qualche modo le stimola, le ispira». 

Un po' come le influencer.

«La differenza tra me e un'influencer è che l'influencer pubblicizza un prodotto al quale magari non è interessata per avere un compenso. Io pubblicizzo solo me stessa, quando e come voglio».

Barbara Costa per Dagospia il 2 aprile 2022.  

Del porno non si butta via niente! Lo sai che fine fanno top e slip e reggiseni e reggicalze e perizomi, indossati dalle attrici sui set? Se li prendono i fan! Sì, la lingerie che si vede all’inizio delle sc*pate e durante le sc*pate, quei completini deliziosi strappati di dosso alle tue pornostar preferite, finiscono a te, se li vuoi, e non solo loro! 

Se alcune pornostar li vendono sui loro social, ce ne sono altre che li affidano a piattaforme terze, piattaforme come Fansutopia.com: mai sentita nominare? Vai su questo sito e entri in uno spazio e-commerce dove sex creator e pornostar vendono ciò che hanno indossato per pornare, e si fermassero a questo! Se sei un feticista del genere, trovi sì la loro lingerie usata, ma pure quella non lavata, tutta inzaccherata di umori e sperma e sudori!

Ma quale lavatrice, quale lavanderia, il mercato dello slip usato sui set porno è un ramo fetish poco conosciuto e però lucroso. Su Fansutopia.com ti cadono gli occhi dal bendidio messo in vendita. Il costo delle mutande lo decidono le star, e va da sé che più una è famosa, più mette in vendita biancheria di marca, più alza il prezzo.

E specie pornostar quali Kenna James, Tasha Reign, nel porno prime donne e vincitrici di porno Oscar, chiedono non poco per i loro tanga, e Kenna James si toglie pure le scarpe, sneakers e decolleté, e Tasha Reign i più micro tra i suoi perizomi, e che sono quelli da lei sfoggiati sui set lo riconosci facilmente, dacché sono esposti sia in fotogramma del porno in cui sono stati esibiti, sia una volta sfilati. E chi pensa che tali slip siano i pezzi più pregiati di questa porno esposizione… sbaglia! Gli indumenti le cui quotazioni toccano cifre sensibili, sono nientedimeno che… i calzini sporchi!!!

Giuro, i calzini sozzi delle pornostar vanno via come il pane, e c’è chi mette in commercio persino i collant che durante la scena le si sono rotti. Ogni pornostar ha la sua pagina con i suoi oggetti in vendita, pagina in cui si possono richiedere anche le mise che in un porno ti hanno particolarmente ingrifato e che lì non vedi.

Se varie attrici ti attirano con la vendita delle loro foto autografate sui set e dietro le scene e su riviste, e di dvd porno autografati e sceneggiature, ci sono articoli autografati che sono assolute chicche e che altrove non trovi: i sex toys di scena! Succosi giocattolini usati cioè entrati e usciti da bocca e ano e sesso delle star e dalle star non puliti ma da loro col pennarello firmati sono lì che ti aspettano, funzionantissimi. 

Astutamente Fansutopia.com – sito ideato e gestito da una donna, Natasha Root – declina ogni responsabilità per eventuali irritazioni e/o allergie che tali giocattoli e/o intimo non lavati possono causare. E non fanno cambi né rimborsi, nemmeno se ti si f*ttono il pacco durante la spedizione. Vabbè, io l’unico grande neo che rimarco è la scarsità di materiale di pornostar maschi, a cui spero presto si rimedi.

Se ci sono pornostar che vendono i loro attrezzi bdsm in azione sui set, come paddle, morsetti per i capezzoli, palline per la bocca e vaginali (proprio quelle usate nei video, impacchettate umide e insalivate) e vestiti di scena in lattice, c’è chi come la curvy Creole Barbieee mette la sua roba a prezzo stracciato. Sì, ma chi ce l’ha quelle poppe??? e pure di c*lo, io sono una 42… però… potrei prenderli lo stesso, e rimetterli all’asta online… 

Barbara Costa per Dagospia il 2 aprile 2022.

Ci sono o ci fanno? Ci fanno, eccome, perché loro ci guadagnano, e a te, te lo rizzano, e ti imbambolano. Se non sei te comunque sono tantissimi gli uomini che si toccano e si s*gano e che vanno pazzi per le asian, modelle giovanissime dello sterminato mondo asiatico, e che gremiscono OnlyFans e Pornhub, con i loro porno amatoriali. I maschi e specie occidentali ne sono porno-infatuati, e le cercano smaniosi. Maschi che stanno lì, ogni giorno, ogni momento libero, a desiderare quegli esili corpi, la loro (recitata) disponibilità.

Stanno lì ad ingrossare una p*pparola tendenza sovranazionale, e se non ci credi passo ai fatti: HongKongDoll ha 27 anni, è cinese, di Shanghai, ed è la moretta che non vedi bene in viso ma sì nel sesso sui siti porno, sui quali in un anno è salita a più di 136 milioni di visite. 136 milioni per una che non ha nome né chiari lineamenti perché in ogni video che carica sc*pa con su la mascherina, che si toglie solo per praticare fellatio col viso nascosto dai capelli. 

Questa bambolina è in rete dal 2021, e nei video (alcuni dei quali seducono 20 milioni di sguardi!) sc*pa con lo stesso uomo che si presenta quale suo marito. Uomo di cui vedi pene e squarci di pube e gambe, e uomo che se la sc*pa sotto e sopra e giochi orali e insomma, un po’ sempre la stessa solfa se non fosse che questo sesso standardizzato – girato in posti esotici e elitari – innegabilmente ecciti milioni di maschi.

HongKongDoll già dal nome non fa altro che marciare su uno stereotipo: hanno ragione a strillar insolentite le asiatiche che di questo modello hanno piene le scatole! Dopo tutto il lavoro fatto nel porno da Asa Akira per liberarsi e liberarci dell’archetipo della femmina asiatica non cresciuta, infantilizzata, ecco la Hong Kong bambola di turno che riespone un sesso puerile, subalterno (nota come a inizio di ogni performance, HongKongDoll passi la scritta che lei ha più di 18 anni, e come subito dopo nelle clip si atteggi però a una che di sesso non sa e non sa cosa vuole, non è consapevole del suo piacere, né di come dare piacere: ha sempre bisogno del marito che la inciti, la porti, la sproni.

L’ennesimo fiore delicato, virgineo in eterno, timida e vulnerabile… è lei che fa godere lui, il suo di piacere e di volere è anteposto a quello di lui. Grottescamente adiacente al porno con le asian che frignano di recitati paura e dolore ad essere possedute da peni – specie se occidentali – inadatti alle loro vagine mitologicamente strette e delicate…). 

Siamo davanti a una nuova generazione di asian che sceglie di porno rifomentare la "Yellow Fever Sex"? Sissignori, anche se in tempi di Covid è sgradevole ricorrere a paragoni di febbri, siamo ancora lì, in tanti sono fermi lì, a fidare in una donna orientale che si fa credere asservita a volontà e potenza del maschio. 

Si fa presto a social sproloquiare di femminismo ed emancipazione, se poi eccole qua, le asian new entry, che girano video in cui orgasmano in pigolii remissivi. Eccole, le asian new entry, va a sapere se consce o no di proporre porno stravecchio. E a farsi un giro per le chat di seguaci di codesti video, è tutto un applauso per l’asiatica “virginale ma sempre p*ttana…”, “evviva queste asiatiche, ti puliscono casa, cucinano, ti fanno p*mpini, e zitte…!”. Come se fosse la realtà! Come se questo genere di porno ritraesse ciò che le donne orientali sono per davvero, e ognuna nella sua specifica e individualissima storia e personalità!

Siew PuiYi è malese, ed è un’influencer con 16 milioni di follower e solo su Instagram. Tutta felice posta che lei è la cover girl di Penthouse Gennaio '22. Non solo: lei è la “prima donna malese su Penthouse!” Cioè: una rivista, nata nel 1969, a New York, e che ha fatto e tanto la storia del porno, in 53 anni non ha mai trovato tempo, e modo, di inserire una malese. È progresso? C’è da rallegrarsene? Oggi??? In web-era??? Ma di che?

Francesca Scorcucchi per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.

Un vecchio signore in vestaglia da camera. Un nonno d'altri tempi. Solo che a circondare Hugh Hefner, il fondatore dell'impero Playboy, non erano nipotini ma giovani donne. Bionde, sexy, poco più che ventenni. Erano le sue numerosissime «girlfriend», ospitate nella Playboy Mansion, lussuosa villa sulle colline di Hollywood dove c'erano campi da tennis, uno zoo privato, una sala giochi e una dependance rivestita di specchi, arredata con divani in pelle. Piuttosto intuitivo immaginare la destinazione d'uso.

Chi fu Hefner? L'uomo che liberò la donna dalle convenzioni perbeniste del XX secolo o un sessista che avrebbe passato guai se non fosse morto giusto una settimana prima dell'uscita dell'articolo sul New York Times che avrebbe dato vita allo scandalo Weinstein e alla conseguente nascita del #MeToo? 

A questa domanda tenta di rispondere la docuserie in 10 puntate Playboy: le ombre di un impero , dal 17 marzo alle 22.55 su Crime Investigation (Sky, 119), prodotta e diretta da Alexandra Dean. «La domanda dalla quale sono partita è una: quale luce avrebbe l'impero di Playboy raccontato oggi dalle protagoniste femminili?».

Per rispondersi Alexandra Dean ha chiamato un discreto numero di ex-playmates e scoperto un mondo variegato e contraddittorio: «Pensavo che da quelle telefonate sarei riuscita a ricavare un'ora di racconto, forse svelando qualche aspetto un po' più complicato, ma non mi aspettavo le storie che mi sono arrivate. Alla fine ho dovuto dividere il racconto in dieci episodi». 

Ognuno vede protagonista una ragazza, una vittima. Sondra Theodore ad esempio, una delle voci più critiche, che frequentò Hefner negli anni Settanta, nel periodo più difficile delle sperimentazioni tra droga e festini; oppure Holly Madison che arrivò a pensare al suicidio; o Jennifer Saginor, la figlia del medico di Hefner, che crebbe nella villa «e vide cose che una ragazzina non dovrebbe vedere». Hugh Hefner però non fu Harvey Weinstein e nella serie Dean da spazio anche a chi difende Hefner. 

«Quando si analizza il comportamento di Hefner - dice la regista - le cose sono molto più complicate. Perché in fondo è vero: lui fu un campione di idee progressiste, sincero quando diceva di voler promuovere la libertà sessuale delle donne». Fu anche un attivista impegnato nel difendere i diritti della comunità afro-americana nell'America segregazionista, lottò per i diritti dei gay e finanziò la lotta contro l'Aids negli anni 80. 

Ora scopriamo però che esisteva un lato oscuro di quest' uomo che a parole proclamava la libertà sessuale della donna ma che allo stesso tempo si definiva «Gesù che perdonò la prostituta». «Se lui era davvero il campione liberale che diceva di essere perché pensava di dover perdonare la donna? Cosa c'era da perdonare? E perché prostituta? In molte hanno paragonato quel mondo a una setta.

Quelle ragazze entravano nella Mansion con una speranza di libertà, fama e glamour e ne uscivano con la vita a pezzi, spesso dipendenti dalla droga». La serie racconta anche episodi di cronaca nera accaduti fuori dalla villa, nei Playboy club disseminati nel mondo. I frequentatori «ordinari» non potevano toccare le famose conigliette. 

Ai clienti vip però erano fatte concessioni che spesso finivano in notti selvagge, di rapimenti e stupri. Squadre di «pulitori» vennero create per mettere le cose a tacere. «Era un comportamento che rifletteva i tempi. Quelle donne non denunciavano le violenze subite perché sapevano di essere colpevoli agli occhi di un mondo che le voleva sexy e libere ma che non le difendeva dai rischi di questa loro ipertrofica sessualità».

Barbara Costa per Dagospia il 13 marzo 2022.

Il porno è un mestiere pericoloso? Sì, anche. Ha fatto il giro del web la notizia che Adriana Chechik, 30enne diva pornostar, da 8 anni nel porno ad altissimi livelli, si sia ritrovata con “il collo distrutto, un nervo schiacciato, due vertebre fuori posto” dopo aver girato una scena porno. Ma non è vero!!!

Magari prima di diramare tali mediche informazioni sarebbe opportuno precisare, e magari a tradurle ai lettori italiani sarebbe auspicabile porno informarsi meglio, perché se è vero che Adriana Chechik si è fatta male durante le riprese, una tale serie di infortuni dopo un porno non è possibile, credibile, e infatti è un elenco di incidenti che a Adriana son capitati nel corso della carriera, e una carriera inusuale come la sua, di porno eccessivo e che solo lei, con un corpo come quello che ha lei, allenato e preparato, è in grado di realizzare.

Posizioni porno estreme che possono causare traumi “come quelli di un lottatore di wrestling!”, esclama sorridente Adriana, e non nel suo podcast come erroneamente riportato, ma ospite di "Plug Talk", adult podcast condotto dagli adult web-star Adam22 e Lena The Plug e i cui fervidi 10 minuti di intervista a Adriana Chechik li vedi e li senti su YouTube, e ci vedi lei, nella sua sfolgorante bellezza, lei, Adriana Chechik, in reggiseno e pacchiani leggings che ne baciano le forme e il sesso… e ti pare che stia male? Che sia grave? Ma dove lo dice che deve col porno smettere “per diagnosi medica”???

Ma poi non è vero che Adriana starà ferma un anno, ma no, ma manco per niente! Tranquilli, porno-fan: a Adriana è stato solo cautelativamente consigliato di astenersi dal porno girato quello più selvaggio e multiplo (lei che aveva in programma di girare un’orgia), non di astenersi da performance porno meno… "distruttive". 

Meglio che per un po’ di nuovo non si cimenti in simili intricate acrobazie, acrobazie che nel porno non sono certo la prassi… e però niente e nessuno le vieta di girare altri porno, diversi, se più quieti comunque non meno accendenti (e che si rimirino a prova le ultime anal-fatiche di Adriana fuori e dentro il suo OnlyFans). La mitica Adriana sta così bene che in questo podcast parla con orgoglio della sua vita nel porno, e dei suoi record (“una gang-bang di 35 uomini”), e che lei nel porno il più eccedente ci sta da dea e non se ne pente e col cavolo che smette (“io sono una lottatrice del sesso e la mia arma è la mia vagina, i suoi muscoli: è con lei che ho il controllo degli uomini”).

I miei Dago-lettori più affezionati lo sanno, che i pornostar quelli famosi, quelli che fanno porno di serie A, sono degli atleti. Hanno un corpo ad hoc temprato, hanno una resistenza porno peculiare, sono atleti a tutti gli effetti che in più come performer conoscono e applicano codici porno per girare porno che a chi guarda paiono naturali nella loro ingenita innaturalità: ricordatevi sempre che nel porno ogni scena, anche la più basica - anche il più classico missionario girato su un letto! - in nulla e neppur minimamente corrisponde a un missionario da noi comuni mortali fatto (bene? male?) nel letto di casa nostra.

Le posizioni nel porno sono in sé innaturalissime e recitate a favore di telecamera (con genitali e ano e pisello inquadrati in azione) e non vanno imitate a casa, anche perché (e non mettendo in dubbio le capacità amatorie di nessuno tra voi) non se ne è capaci, e questo appunto perché non si hanno muscoli e abilità che un attore porno in quanto tale ha.

Detto questo, gli incidenti sui set porno ci sono, e certo, e possono capitare a uomini e donne. Son passati alla storia, e riempiono i suoi racconti scritti e orali, gli incidenti accaduti a Rocco Siffredi, lui che una volta su un set per il troppo sc*pare è addirittura svenuto (ma solo dopo aver completato e perfettamente l’ultima scena!), lui che una volta, da ragazzo, su un set, e lo dirigeva il fu re Gabriel Pontello, quasi non finisce arrostito, lui e le ragazze con cui stava pornando vicino a un marchingegno che doveva a un certo punto simulare scoppi e incendio, una roba scenica, che però per poco non li "cuoce"...! e mettici pure che una volta Rocco su un altro set ci ha rimediato un occhio nero, per una gomitata non prevista, e ancora: lui una volta ha "sfasciato" la mandibola a una collega che gli stava praticando fellatio!

Rocco si spaventò a morte, però mica era colpa del suo pisellone, macché, la colpa era del vero ex della tipa, un vero criminale, che le aveva rotto l’arcata dentale, che un dentista aveva aggiustato, e però arcata che, col gran pene di Rocco, era ceduta di nuovo (non erano tempi di MeToo e piagnistei, sicché ecco come la tipa ha sistemato l’ex violento: l’ha aspettato sotto casa, in macchina, e qui inchiodato al muro e con l’auto accesa schiacciato e cucinato il pacco…).

Franco Trentalance è quasi finito in shock anafilattico, lui e la partner con cui stava girando, all’aperto, per le punture che uno sciame di api incaz*ate gli avevano fatto sulla schiena e non solo. Trentalance è stato altresì fermo giorni a letto da indicibili dolori causati una scena di sesso girata su una scala a pioli. Valentina Nappi si è ferita la vagina, per colpa di un fisting di una collega dalle unghie poco o male tagliate. 

Malena durante una fellatio di quelle pornostrong, quelle che prevedono la testa "incastrata" tra le gambe di lui, si è sentita male e ha vomitato (da scene BDSM come questa nel porno ti "salva" l’obbligatoria safeword, a parola o con gesto, che prima di girare va concordata col regista e tra gli attori). 

In una scena lesbo infuocata, Asa Akira e Jessica Drake sono capitombolate, nude, sudate, avvinte, contro un impianto di luci di scena, rimediandoci per fortuna solo ematomi e risate (e posizioni da rifare). Perché alla fine nel porno chi ci rimette e peggio di tutti è lui, il pene, che in più che rare e sfigate scene si può pure "spezzare": è accaduto a uno dei 69 peni della gang-bang con Malena e Martina Smeraldi. Crack avvenuto nell’ano di Martina. Spavento e dolore inenarrabili per un danno sanato al pronto soccorso e guarito con un riposo mi pare di un mese o due.

Dagotraduzione dal Sun il 7 marzo 2022.

Gli scienziati hanno scoperto che gli uomini che guardano grandi quantità di materiale pornografico subiscono un calo delle prestazioni sessuali e sono meno in grado di compiacere i loro partner. Non solo. Hanno maggiori probabilità di avere problemi con l’intimità e di sentirsi inadeguati, scarsamente dotati e incapaci di durare abbastanza a lungo. 

Al contrario, le donne che guardano molta pornografia sono più inclini all’orgasmo, al desiderio e traggono dall’atto maggiore soddisfazione. Il porno le fa anche sentire più sicure e a proprio agio riguardo al sesso e viene preso in considerazione per trattare la bassa libida.

Gli esperti dell’Università di Losanna in Svizzera hanno analizzato la vita amorosa di oltre 100.000 persone e hanno pubblicato i loro risultati sulla rivista Psychological Medicine.

Barbara Costa per Dagospia il 27 Febbraio 2022.

"F*ga pelosa", "F*ga peli lunghissimi", "Peli sedere donna", "Peli nell’ano donna", "F*ga peli bianchi", "Pelo sul seno": sapete cosa sono? Sono categorie porno di recente in netto balzo, e per questo motivo: il pelo tira, il pelo arrapa, e una f*ga senza è in ribasso, è superata! 

Il porno lo vuole lungo, e le porno f*ghe senza pelo se la passano male, e le brulle corrono… alla ricrescita! Chi è sveglio di porno se n’è giusto accorto, della rinascita del cespuglio, e di come sempre più attrici non presentino se non di rado una "compagna di lavoro" totalmente depilata. 

Riley Reid, 30enne pornostar americana, tra le più amate su Pornhub e co., guida la riscossa del pelo: lei è stata tra le prime a non depilarsela più, o meglio, a depilarsi le labbra intime per regalare nitidi "interni" alle telecamere, e il resto no, il resto sta lì, intatto, come mamma l’ha (pelosa) fatta.

Riley segue ciò che ricercano oggi i registi, ma non solo: Riley ha anticipato un trend che varie influencer si intestano dandogli spazio, richiamo, dibattito, accettabilità social e sociale: un corpo – anche peloso, vieppiù peloso – che non va dietro ad alcuna norma, perché ognuna – e ognuno – è libero di mostrarsi e di essere come vuole, e coi peli sul corpo, su tutto il corpo, o su una parte, e pur intima. 

Se i pornostar maschi non ci pensano a rinfoltire il loro pene (è inscalfibile fuori e dentro il porno la convinzione che un pene rasato sembri più grosso) si trovano ora a dover affondare pene e bocca e naso in sessi e ani ridiventati pelosi.

Gran parte del pubblico del porno apprezza, e non potrebbe essere altrimenti: il porno non pompa consumo di scene che non riscuotono views, cioè quattrini. E le f*ghe col pelo intercettano l’interesse delle nuove generazioni – sobillate dai social – e delle vecchie, il cui evidente peloso primo amore batte indefesso: e infatti sessi e ani e ascelle pelosi nel porno sono mica una novità, anzi. 

Se non sbaglia chi imputa al porno (e alle sue decennali esibizioni di sessi senza il minimo pelo) l’influenza su donne e uomini comuni, del porno spettatori e dal porno spinti a fare spietata guerra al pelo per apparire più belli e adeguati (e non sani, perché è il pelo che protegge il sesso da tante infezioni, non il contrario), è pure vero che il porno stesso ha dagli anni '90 in poi subito il fascino di ciò che la moda presentava.

Era quello il tempo in cui le top-model imperavano, la TV imperava, e sono state top-model e telefilm-cult quali "Baywatch" a rendere corpi e sessi e specie delle donne senza peli. 

Il porno degli inizi aveva  ani e sessi e ascelle – e gambe e petti maschili – pieni di peli. Graditissimi (anche se non so fino a che punto da attori e attrici che su quei sessi pelosi praticavano orali affondi: mai uno o più peli molesti finitigli in gola, strozzandoli?).

È però dagli anni '80 che nel pornostar maschio radersi è divenuto strumento di etero contrapposizione a un mondo gay avanzante e che con le star gay porno (e non) rivendicava diritto di esistere, anche esteticamente a suon di baffi e corpi villosi. 

Il porno ha virato per corpi e sessi glabri man mano che le inquadrature e gli strumenti di ripresa fornivano figure ultra definite, e modo e stile di recitare e girare progredivano, convintamente indirizzandosi verso il porno gonzo (solo sesso, solo coiti, e amplificati) e verso insistiti primi piani di sessi spalancati. 

Una progressione che non ha riguardato solo il porno girato: uno sguardo a riviste storiche quali "Penthouse" e si vede come i corpi (veri!!! senza fotoritocchi!!!) delle donne lì sublimate hanno perso il pelo, riguadagnandolo in quest’ultimo periodo. Chi invece sul pelo ha infinitamente puntato è "Hustler" di Larry Flynt: nel suo impero di riviste porno, "All Bush" è stato e sta lì, con le sue modelle pelose, nude e sensuali.

Studios porno come "ATKingdom" mai hanno smesso di girar porno irsuto: dopo profitti di nicchia, stanno attraversando più gloria, soprattutto per i pelosi porno serial "Scary Hairy". Un ramo del porno che il pelo mai ha tagliato, è l’amatorial: sorprende che qui le pelose più cercate siano granny, cioè donne in età con peluria bianca…? 

Curiosità: qual è il metodo di depilazione più usato dalle porno attrici? Il rasoio usa e getta! Le pornostar si depilano ogni giorno se devono glabre girare e usano rasoi usa e getta anche maschili, con saponi e schiume, e abbondanti oli pre e post depilazione che prevengono le minime irritazioni. 

Sono pochissime quelle ricorse alle depilazione definitiva del sesso (le quali credo abbiano come soluzione il trapianto di peli pubici, operazione indolore, e i peli trapiantati li prendono dalla testa) e sono poche quelle che usano creme depilatorie (troppe allergie) o cerette di qualsiasi tipo.

La ceretta al sesso per una pornostar non è agevole: per ottenere una pelle che più liscia non si può, bisogna che il pelo ricresca e abbastanza, e come e cosa fa nel frattempo? Se ci aggiungi che frequenti cerette sono causa di peli incarniti e brufoli e rossori, che non puoi certo presentare sui set… vai con la lametta! 

E poi ti può capitare un set con un regista che richiede un sesso glabro, dopo pochi giorni un altro che invece lo vuole peloso: se hai fatto la ceretta, come fai, vai di parrucca pubica?!? (la quale poi esiste, si chiama merkin, e ha pure sfilato in passerella a New York).

Se il pelo nel porno torna in auge, non spinge però le pornostar e nessuna donna a rendersi sciatta là sotto: se una sforbiciatina ai peli più ribelli e inestetici è d’obbligo, lascio la parola a Riley Reid, che svela come fa lei, ad avere un cespuglio invitantissimo: “Uso burro di karitè, ma il mio segreto è gocce di olio di argan sui peli della mia f*ga. Il profumo che lascia è così delizioso che non esiste partner che non vorrà strofinarci faccia e lingua e bocca!”.

Da “bestmovie.it” il 20 febbraio 2022.

LITTLE ASHES (2008) - Robert Pattinson, evidentemente, ama il realismo visto che si è trovato in diverse occasioni a non voler solo simulare scene di masturbazione sul set. L prima è nel film Little Ashes di Paul Morrison dove Pattinson, nei panni di Salvador Dalì, una coppia che sta avendo un rapporto sessuale e si lascia andare all’autoerotismo. Pat ha dichiarato di essersi davvero procurato piacere per rendere la sua espressione più realistica davanti alla macchina da presa. 

THE LIGHTHOUSE (2019) - La seconda occasione di Robert Pattinson è arrivata con lo sperimentale The Lighthouse di Robert Eggers, dove, racconta lo stesso attore, c’era «u scena di masturbazione feroce» sulla spiaggia. Stavolta Pattinson ha deciso di andare fi fondo: «Ho pensato, ok, a posto, nessuno mi ha detto di fermarmi quindi vado avanti», h al New York Times ammettendo di aver lasciato la troupe un tantino scioccata. 

THE BROWN BUNNY (2003) - Tra i casi più celebri di vero sesso sul set c’è quello di The Brown Bunny, il film diretto e interpretato da Vincent Gallo che ha scandalizzato il Festiv Cannes nel 2003. Il passaggio controverso arriva quando l’attrice Chloë Sevigny, che allora era anche la fidanzata di Gallo, gli pratica del sesso orale: si è dibattuto a lungo sull'apice della scena, ma poi la stessa Sevigny ha dichiarato che era tutto vero.

NYMPHOMANIAC (2013) - Il dittico di Lars von Trier's dedicato a una donna ossessiona sesso ha, ovviamente, moltissime scene a tema, alcune non simulate. Per esempio, la s in cui Shia LaBeouf ha un rapporto con Stacey Martin. Attenzione però: il sesso è vero, m fra le due star. A metterci il corpo davvero sono state due controfigure, e i volti di LaBeo Martin sono stati applicati poi in CGI. 

LOVE (2015) - Il regista francese Gaspar Noé è da sempre un provocatore. Nel film Love solo ha filmato vere scene di sesso tra gli attori Karl Glusman e Aomi Muyock, ma le ha addirittura girate in 3D. La maggior parte delle sequenze non erano coreografate ma las alla spontaneità dei due interpreti.

GLI IDIOTI (1998) - Il cinema estremo di Lars von Trier ha spesso liberato i corpi dalle convenzioni e dalla finzione. In Gli idioti, del 1998, racconta di un gruppo di amici che rinunciano alle proprie inibizioni cercando "il piccolo idiota dentro ognuno di loro". Tra le scene di nudo, ce n'è una di gruppo che chiaramente non è simulata, anche se non most chiaramente i volti degli attori. 

SHORTBUS (2006) - John Cameron Mitchell racconta un gruppo di giovani a New York il sentimentale e sessuale che si incontra ogni settimana nel club Shortbus, incrociando rapporti, arte e politica. Il regista ha incoraggiato gli attori a lasciarsi andare davvero in scene di sesso volutamente non simulate. 

PINK FLAMINGOS (1972) - Impossibile non citare il film cult di John Waters interpretato Divine, la drag queen più celebre del cinema. Pink Flamingos è stato censurato in diversi paesi, tra i quali il Canada e l’Australia, proprio per le sue scene di sesso più esplicite, co quella in assoluto più controversa: il rapporto orale che Divine pratica a suo figlio nella finzione. 

MEKTOUB MY LOVE: INTERMEZZO (2019) - Nel film di Abdellatif Kechiche c’è una lunga scena di quasi 13 minuti in cui un uomo pratica sesso orale alla protagonista Ophelie in discoteca. Il film aveva già scandalizzato Cannes, ma le polemiche si sono accese anco più quando alcuni giornali francesi hanno raccontato che la scena non era simulata, e che il regista avrebbe convinto gli attori a girarla dopo molte insistenze.

ECCO L’IMPERO DEI SENSI (1976) - Il dramma giapponese diretto da Nagisa Oshima è centrato su un uomo che lascia sua moglie per un'altra donna e, con la nuova compagna sperimenta varie situazioni sessuali, fino allo scioccante finale. Sada, interpretata da Ei Matsuda, pone infatti fine alla vita del suo amante, Kichizo, soffocandolo durante un gioco erotico e poi castrandolo. Alcune delle scene più focose (non la castrazione, ovviamente sono state vissute davvero sul set dai protagonisti. 

Da lascimmiapensa.com il 5 Febbraio 2022.

Capitolo d’apertura della famigerata trilogia della depressione, Antichrist è tra i film più controversi del regista danese Lars von Trier. Forse il suo più horror, insieme a La Casa Di Jack, sicuramente uno dei suoi migliori. Complice anche un cast perfetto, composto da Charlotte Gainsbourg e Willem Dafoe. E proprio quest’ultimo diede qualche problema al buon von Trier. O per meglio dire, il suo pene più dell’attore in sé. 

Scambiando due chiacchiere con Peter Keogh, von Trier ha raccontato un aneddoto molto particolare circa il pene di Willem Dafoe, che costrinse il regista ad apporre alcune modifiche nel suo Antichrist. Soprattutto in alcune scene dove sono presenti primissimi piani dei genitali, brutalmente mutilati durante le folli sequenze finali.

Sequenze che diedero non pochi problemi a causa di una misura eccessiva, soprattutto nel momento in cui Dafoe, non esser stato martoriato, eiacula sangue. Proprio le grandi dimensioni del pene di Willem Dafoe, costrinsero il regista ad apportare alcune modifiche, giacché aleggiava il dubbio che potesse intimidire chi avrebbe guardato il film. Tanto all’inizio, quanto alla fine.

“Abbiamo dovuto usare una controfigura per le scene in cui si vedeva il pene di Dafoe. Quello di Will era davvero troppo grande e non per adattarsi allo schermo. Eravamo tutti molto confusi quando l’abbiamo visto e le persone si sarebbero potute intimidire. Nella scena iniziale ma soprattutto quando eiacula sangue” 

Quasi come andò per Melancholia, sotto certi aspetti. Infatti, per questo secondo capitolo della trilogia, Lars von Trier decise di mostrare il finale del film nell’immediato, così da far focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla triste vita di Justine. Anche in Antichrist, meglio un pene nella media piuttosto che un pene enorme che avrebbe catalizzato a sé l’attenzione. A Lars non gliela si fa mica.

Barbara Costa per Dagospia il 5 Febbraio 2022.

“Io dovevo andare a Sanremo! Nel 1978! Con Franco Franchi!”. E sarebbe stato un superbo duetto, la canzone meritava, e fin dal titolo, "Cappuccetto Rosso", e il verso "lupo grosso/grosso/grooo"! Un successo assicurato, un pezzo comico-cabarettistico a cui i di allora dirigenti e direttori artistici hanno detto no, non ne hanno voluto sapere, del duo Ilona Staller – Franco Franchi sul palco di Sanremo, e c’è da dire che questo pezzo porta la firma autoriale di Franchi e di Vito Tommaso, già autore di Mia Martini. 

E un no a Ilona Staller motivato da che, visto che nel 1978 ancora non girava porno esplicito, era solo una voce, radiofonica, e un corpo, discinto su riviste +18. Di Ilona non mi dite che non lo sapete, che non lo ricordate, delle sue canzoni sigle dei suoi film e porno spettacoli, lei che due anni prima di tentare Sanremo, già aveva debuttato con la sua cover di "Voulez Vous Coucher Avec Moi"? 

E se “tira fuori il caz*o duro/ ti faccio un p*mpino/ voglio il caz*o più duro del muro/ voglio il caz*o nel buco del c*lo”, sono versi di "Muscolo Rosso", hit discotecara della Staller, inadattissima per Sanremo, secondo voi "scelgo il mio piacere/ diluito a grammi nel tuo pene" sono frasi che al Festival sarebbero passate, e anche se a cantarle, sussurrandole, fosse stata Moana Pozzi? 

Le nostre più celebri pornostar sono state anche popstar, hanno inciso brani in dischi oggi materiale introvabile di collezionisti. Nei loro anni di porno gloria hanno inciso canzoni in album per i cui contenuti espliciti non tutti usciti in Italia, alcuni in Francia (come "Muscolo Rosso", nel 1987, stesso anno in cui Cicciolina è eletta in Parlamento, e alcune copie di questo LP a quanto se ne dice vendute col logo del Partito Radicale in copertina), altri in Spagna e in Sud America e in Inghilterra e in Grecia, e uno di Ilona è finito in Giappone. 

E lì ci è finito con una rara pregiata versione di "Cavallina a Cavallo", brano altresì inserito in "Ilona Staller", disco di Ilona del 1979 (distribuito nientemeno che dalla RCA) e Cavallina scritta e arrangiata da un signore della musica quale Ennio Morricone (e per Ilona un altro grandissimo, Mogol, firma "Lascia L’ultimo Ballo per Me" e per Ilona arrangia "Buone Vacanze" e "Ska Skatenati" Angelo Valsiglio, colui che ha scritto "Gente Come Noi" per Ivana Spagna, terza a Sanremo, e "La Solitudine", vittoria di Laura Pausini a Sanremo Giovani).

E per quale motivo le dive del porno che hanno tentato di traslare la loro porno fama in musica, non avrebbero dovuto ricorrere ai competenti di note? Va bene, l’esito vocale boccheggia tra il trash e il demenziale, tuttavia, ecco varie curiosità sulla mai decollata carriera musicale delle pornodive nostrane: chi lo sa che Ilona sa suonare il violino, ha cantato temi serissimi quali il post mortem ("Pipistrello Dance"), e ha cantato di pissing (“goccioline di pipì/ quello che vorreiii/ godere, masturbarmi con teee”), che ha inciso un intero disco in ungherese ("Kebelbarátság"), e un altro diffuso in sole 100 copie ("San Francisco Dance"), e ci sono sue incisioni non andate in commercio ma rilasciate ai fan al termine dei suoi porno show, e fortunato chi ce le ha!

Chi lo sa che Jessica Rizzo ha inciso una di Schubert (!) "Ave Maria Dance"? E chi lo sa che Moana Pozzi ha studiato chitarra classica, ha inciso 15 canzoni, in italiano, in inglese, e in tutte e due nella medesima canzone ("Woman in Your Life"), e in falsetto ("Autostop"), e che in alcune la voce forse non è la sua? Seppur giudicato “un’atrocità canora”, "Supermacho" rimane pezzo forgiante il mito Moana, distribuito in tiratura limitata con lei stampata su disco (quasi) nuda. 

E se pure Barbarella ha pornato in canoro, in "Però Mi Piace", (“non è bello, però mi piace/ non è ricco, però mi piace/ non è muscoloso, però mi piace/ non è famoso, però mi piace”…) e se pure Eva Henger lo ha fatto, (in "Oooh Yeah", del 1993, e non si capisce perché non sia stato scelto come inno europeo, "vogliamo tutti europii uniti", miagola Eva), la mitica Selen dal 1996 al 2010 ha realizzato 4 brani dance ("Lady of the Night", "Planet O", "It’s Raining Again" e "The Star of the Night").

Negli Stati Uniti non mancano pornostar che ci provano o che ci hanno provato, con la musica, tra cui le celeberrime Marilyn Chambers e Gynger Lynn. Tra le poche a vantar risultati è Traci Lords, premiata in critiche e in vendite per "1000 Fires", suo lontano disco di debutto. 

Se a cantare a Sanremo è stato Rocco Siffredi, nel 2013 con Elio e Le Storie Tese, nella serata delle cover e dei duetti, e nel brano straziato "Un Bacio Piccolissimo", adesso Dago-lettori aiutatemi: chi conosce e gelosamente custodisce le musicassette vendute in allegato alla fu rivista "Blitz"? Erano registrazioni hard? Storie sozze? Anticipatrici degli 199? Che c’è in quella con Moana Pozzi intitolata "Sapore di Maschio", e in quella con Baby Pozzi, sua sorella minore, per breve pornoattrice, "Una Lolita Ninfomane"?

Dagotraduzione dal Sun il 30 gennaio 2022.

Volete sapere in quale città del mondo gli utenti sono più attivi su Pornhub? Nonostante gli Stati Uniti siano «il paese più sessualmente consapevole», non è lì che si trova la capolista. Al primo posto, a pari merito, ci sono infatti Londra e Parigi, con più di 4 milioni di viste al sito ogni mese.  Al secondo posto ci sono New York e Los Angeles (3.350.000 visite al mese), mentre al terzo c’è Milano. A seguire Sydney, Roma e Houston. 

«Quando si tratta di Pornhub e di utilizzare questi giocattoli per il piacere personale, Londra e Parigi vincono a mani basse. Ogni mese, da entrambe le città partono 4.090.000 ricerche sul sito. Seguono New York e Los Angeles. Anche le città australiane Sydney e Melbourne si classificano tra i primi 10 hotspot, insieme a Roma e Madrid».

Da tgcom24.mediaset.it il 24 gennaio 2022.

"Ero una bancaria, facevo questo mestiere da 17 anni un po’ per volontà della famiglia, un po’ per cultura, è stato un percorso quasi obbligato. Poi ad un certo punto ho cominciato a tirare fuori la mia vena artistica ma non durante gli orari di lavoro". Con queste parole inizia il racconto di Benedetta D’Anna a "Controcorrente", la bancaria licenziata per la pubblicazione di video hot.

"Sono una mamma single - racconta D’Anna - e devo ammettere si è palesata l’esigenza di aumentare il guadagno: con il Covid il mio business ha avuto un exploit e in banca sembravano prendere coscienza di questa mia attività diventando anche fruitori in prima persona della mia piattaforma". 

Ad un certo punto però la dipendente avverte un clima sempre più teso nel luogo di lavoro: "A causa di un intervento mi sono dovuta assentare per malattia. Nel momento in cui dovevo rientrare c’erano diversi ostacoli: non riuscivo a prolungare la malattia, ho chiesto un’aspettativa per motivi personali ed è stata ostacolata". 

"Dopo essere stata convocata presso la sede centrale - spiega la 40enne - vengo messa in pausa non retribuita dall’istituto bancario per questa mia condotta “poco morale”. Non ho più avuto alcuna notizia dal giorno in cui mi sono recata presso la sede. Improvvisamente circa dieci giorni fa ricevo uno strano messaggio da un responsabile che mi invitava a comunicare anche verbalmente per dare una conclusione a questa vicenda bonariamente".

"Su questa piattaforma condivido dei contenuti per mia scelta homemade - dice l’ex bancaria - c’è chi mi chiede anche dei contenuti personalizzati: in un momento di privacy nel mio comfort casalingo realizzo circa 5 minuti di video che viene poi acquistato dal singolo. Le richieste ai miei video arrivavano anche dai miei colleghi di banca".

Dagotraduzione dal New York Post il 24 gennaio 2022.

Quando giocare con la biancheria sulle prosperose conigliette che lo attorniavano è diventato troppo noioso per Hugh Hefner, il fondatore di Playboy, è passato ai cani. La presunta propensione di Hefner per la bestialità è solo una delle accuse lanciate nel documentario di A&E “Secrets of Playboy”, che sarà trasmesso a breve in America. 

La serie in 10 puntate smaschera il defunto magnate, finora venerato come un dio, e rivela la verità sull’uomo che ha costruito il suo impero sessuale sulle spalle di donne vulnerabili. «Era un predatore» ha detto al Post l’ex fidanzata di Hefner, Sondra Theodore, 65 anni. «L’ho guardato, ho guardato come giocava. E ho visto molte ragazze attraversare i cancelli (della Playboy Mansion) con l’aria fresca da fattoria e andarsene con l’aria stanca e smunta».

«Ero minorenne»

Sondra Theodore, ex insegnante di scuola diventata modella della rivista Playboy nel 1977, iniziò a frequentare Hefner dopo averlo incontrato a una delle sue tante feste. Le donne intervistate nella docuserie hanno descritto questi raduni settimanali come dissoluti, con ospiti vip abituali come Bill Cosby, Tony Curtis, Wilt Chamberlain e Arnold Schwarzenegger.

Nel documentario, si vede Schwarzenegger abbracciare in vita due Playmates e dare a ciascuna un bacio sulle labbra. 

Theodore aveva solo 19 anni quando Hefner ha messo gli occhi su di lei per la prima volta. Lui ne aveva 50. «Ha distorto la mia mente facendomi pensare che la sua vita fosse normale. Mi ha fatto conoscere le droghe. Non avevo mai bevuto né mi ero mai drogata prima di andare alla Playboy Mansion. La prima notte che ho passato lì mi hanno dato dello champagne, la droga è arrivata dopo, ero minorenne».

Theodore è rimasta accanto a Hefner per cinque anni tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80. La sua scorta personale di droga (cocaina e metaqualone, droghe chiamate “allarga gambe” da Hefner) l’ha aiutata a superare le orge cinque sere a settimana, a soddisfare l’ordine di Hefner di fare sesso con uomini e donne mentre lui guardava voyeuristicamente, o a digerire il fatto di aver sorpreso il fondatore di Plaboy in attività sessuali con il suo cane. «L’ho visto con il mio cane e gli ho detto: ‘Cosa stai facendo?’ Sono rimasta scioccata. Mi ha lasciato intendere che fosse solo una cosa una tantum, che stesse scherzando. Ma non l’ho mai più lasciato solo con il mio cane».

Come la docuserie ha preso una svolta oscura

La rivelazione di Theodore è stata la «più scioccante» tra quelle scoperte dalla regista Alexandra Dean durante il periodo trascorso ad ascoltare le storie delle donne transitate per la Playboy Mansion. 

«Non avrei mai pensato di sentire cose così scioccanti» ha detto Dean, che inizialmente non aveva interesse a frugare tra i panni sporchi del magnate del porno. «Pensavo sarebbe stato divertente, e un po’ leggero». «Ma quando ho iniziato ad avere queste conversazioni, il progetto si è trasformato di 180 gradi, da leggero a super critico» ha detto. 

«Le donne mi dicevano cosa avevano passato e perché era importante riesaminare chi fosse veramente Hef» ha continuato Dean. «Le nostre idee di femminilità emancipata, sessualità e libertà sessuale sono tutte racchiuse in Playboy. Ma un uomo come Hugh Hefner è adatto a esserne la definizione?».

La Mansion era come un culto

Durante l'epidemia di COVID-19, Dean ha intervistato più di una dozzina di leali difensori di Playboy, inclusi ex dirigenti aziendali, membri del personale delle ville e compagne di gioco diventate amanti come la star di "Girls Next Door" Holly Madison, 42 anni. 

Nel documento, Madison - che dal 2001 al 2008 è stata una delle tre mogli di Hef - ha paragonato l'harem dell'allora ottuagenario a un "culto" e ha affermato che lui non voleva usare i preservativi durante il sesso di gruppo.

«È stato davvero disgustoso per me vedere come Hef non volesse usare la protezione», ha detto, citando la prima volta che è stata costretta a un'orgia. «Non mi sarei mai aspettata di essere la prima persona a fare sesso quella notte. Mi sono sentita decisamente umiliata». 

Altre donne, come l'ex coniglietta di Playboy PJ Masten, hanno ricordato di aver assistito alla richiesta di Hefner a Linda Lovelace di eseguire un atto sessuale su un pastore tedesco. «Tutti i ragazzi stavano ridendo quando Linda è scesa dalla limousine», ha detto Masten. «Era ubriaca e drogata... L'hanno incasinata così tanto che le hanno fatto fare sesso orale a un pastore tedesco. Vuoi parlare di depravazione? Questo è spregevole».

Masten ha continuato descrivendo in dettaglio le ripetute aggressioni sessuali che ha subito personalmente mentre era alle dipendenze di Hef, incluso un presunto attacco dal suo amico Bill Cosby. 

Il documentario ricorda che Cosby è stato accusato di aver drogato e violentato una diciottenne all'interno della villa di Playboy nel 2008 (Cosby ha fatto sapere che le forze dell'ordine hanno dimostrato che non era nella villa quando la 18enne è stata aggredita. Quando è stato contattato per un commento, un rappresentante di Cosby ha respinto le varie accuse nel film come "non provate".) 

Masten dice che nel 1979 Cosby l'ha drogata e violentata in una stanza d'albergo dopo una cena amichevole a Chicago.  «Ho avuto sangue che mi scendeva lungo la gamba perché mi ha sodomizzato», ricorda nel documentario. «Il sangue gocciolava sul pavimento. Mi sono messa i vestiti, ma c'era molto sangue. Ho continuato ad avere perdite fino all’atrio dell'hotel».

Scoprendo la verità

Per filmare il racconto straziante di Masten e di altre donne, Dean ha utilizzato una telecamera specializzata per intervistare ogni persona a distanza al fine di garantire la sicurezza di tutti. 

«Inizialmente, il processo di intervista è stato terrificante perché temevo che se fossi saltata su un aereo per incontrare queste persone di persona, avrei potuto ucciderle inavvertitamente», ha detto Dean, osservando che la maggior parte degli informatori di Hefner aveva più di 65 anni ed era suscettibile al coronavirus.

Ma per Dean, la parte più difficile delle riprese è stata convincere le donne a confessare gli orrori che avevano subito per mano di Hef.  

«Una delle cose più sorprendenti nel riportare questa storia è stata quanta paura c'era da parte dei testimoni nel dire la verità e quanto lentamente sono stati in grado di aprirsi», ha detto Dean. «È stato un processo molto lento. Non volevo spingere la storia troppo oltre, volevo davvero che le persone mi dicessero quello che si sentivano a proprio agio nel dirmi, e ci è voluto molto tempo».

Theodore ha detto che rivivere l'inferno dell'edonismo sfrenato di Hef per la docuserie è stata un'esperienza "attiva", ma necessaria.  Secondo la donna prima della sua morte, Hefner ha messo le cose «a posto per proteggersi», il che ha impedito a lei e agli altri suoi detrattori di svelare le loro verità. 

E nella serie, ex membri della cerchia ristretta del magnate affermano di aver dotato la sua villa di telecamere nascoste per registrare compagni di gioco, conigliette, celebrità, forze dell'ordine e membri dei media impegnati in atti sessualmente espliciti e depravati. Presumibilmente per minacciarli se e quando qualcuno avesse tentato di denunciarlo per cattiva condotta.

Tuttavia, Theodore e l'ex direttore di Playboy Promotions Miki Garcia hanno trascorso l'ultimo decennio a lottare instancabilmente per porre fine al ricatto di Hefner. 

Nonostante la loro impresa vittoriosa, Theodore si sente ancora "colpevole" per non essere stata in grado di impedire a Hef di compiere atti illeciti in passato. (Un rappresentante di Playboy non ha risposto a una richiesta di commento sul documentario).

«Non è un eroe, ma avrebbe potuto esserlo», ha detto Theodore a The Post. «Avrebbe potuto essere un grande uomo, ma ha fatto tutte queste cose [orribili]». E la donna crede che se Hefner fosse vivo, defininerebbe «amara» questa vicenda e accuserebbe Theodore di cercare di «riscrivere la storia». 

«Be', sto riscrivendo la storia, Hef», ha detto con orgoglio. «La sto raddrizzando».

Dagotraduzione da PageSix il 24 gennaio 2022.

La modella e amica di Hugh Hefner, Brande Roderick, si è spesa per difendere il fondatore di Playboy, finito sotto accusa per via della docuserie “I segreti di Playboy” della A&E. «Hef era una persona meravigliosa» ha detto Roderick con entusiasmo durante un episodio del programma di NewsNation “Banfield”. «Ho imparato tanto da lui. Le ragazze erano lì di loro spontanea volontà: nessuno gli puntava una pistola alla testa. 

Non la pensa allo stesso modo Sondra Theodore, una delle ex fidanzate di Hefner, che ha raccontato come l’uomo abbia organizzato dei “Big Party” inviando i suoi assistenti lungo Sunset Boulevard alla ricerca di ragazze molto giovani da portare alla villa di Playboy. Una volta lì, venivano riforniti di alcol e cibo e portati nella famigerata grotta.

«Stanno parlando di uomini che depredano queste ragazze, e che ne dici delle ragazze che depredano questi uomini ricchi?» ha commentato Roderick. «Stanno parlando di andare a Sunset Boulevard a prendere le ragazze? Mi stai prendendo in giro, è ridicolo. È naturale. È quello che fanno le persone: escono (e incontrano altre persone)» ha aggiunto. 

«Mi sento così triste a doverlo difendere perché era una persona straordinaria che ha fatto così tanto per così tante persone» ha detto. «Alcune donne fanno coming out perché hanno un libro in uscita (o) vogliono altri 15 minuti di fama… E farlo ora è disgustoso. Perché non hanno parlato negli altri documentari, quelli girati mentre era in vita? Lui non era così».

A scagliarsi contro il fondatore di Playboy è stata anche Holly Madison, ex compagna di giochi di Playboy, che ha descritto il suo tempo trascorso nella villa come traumatico e «simile a un culto». «Il motivo per cui penso che la Mansion fosse molto simile a un culto, ripensandoci, è perché eravamo tutti inebriati e pensavamo che Hef fosse davvero buono» ha raccontato.

Da liberoquotidiano.it il 18 gennaio 2022.

Altro che "paladino della libertà sessuale". Hugh Hefner, l'inventore di Playboy, era un "vampiro" che "manipolava e drogava le donne costringendole a partecipare a orge degradanti e pensando che fossero di sua proprietà". 

Le verità scomode e scabrose della Playboy Mansion, la villa mastodontica in cui l'imprenditore ed editore viveva insieme alle sue celebri "conigliette" e dov'è morto nel 2017 a 91 anni vengono portate a galla da una docuserie in 10 puntate, trasmessa in anteprima da A&E dal 24 gennaio.

Gli ingredienti per lo scandalo ci sono tutti: droga, umiliazione e soprattutto abusi sessuali e perversioni. A parlare, spesso per la prima volta in questi termini, sono alcune delle famose ex fidanzate e "muse" di Hefner, considerato tra i personaggi più iconici (nel bene e nel male) della cultura americana del Novecento.

Davanti alle telecamere sfilano bellezze come Holly Madison e Sondra Theodore o l'ex Bunny Mother PJ Masten, e le accuse sono gravi e circostanziate. Nei confronti di Hefner, certo, ma anche dei suoi amici "intoccabili" come il conduttore Don Cornelius, volto e voce della celebre trasmissione Soul Train, che secondo le ricostruzioni avrebbe addirittura tenuto in ostaggio due conigliette violentandone una a più riprese.

Pesanti i dettagli su Hefner, che lanciò la prima edizione di Playboy nel 1953. "Mi offrì droga e cercò di plagiarmi", ha rivelato Holly Madison, sua fidanzata per 8 anni, durante i quali il potente partner l'avrebbe obbligata più volte a fare sesso senza protezione e spinta sull'orlo del suicidio.

L'ex pornodiva Linda Lovelace, interprete del cult Gola profonda, denuncia di essere stata trattata come un "pezzo di carne" da Hefner e i suoi sodali, che l'avrebbero addirittura costretta a fare sesso orale a un pastore tedesco, mentre loro assistevano.

E Sondra Theodore conferma le "brutali" richieste sessuali del padrone di casa: "Spesso mi spaventava... non potevi soddisfarlo. Voleva sempre di più e di più. Con ognuna delle nuove ragazze andava in scena lo stesso copione ogni volta, lui le accoglieva in famiglia abbracciandole ma era tutta un bugia. Non eravamo niente per lui... Era come un vampiro. Ha risucchiato la vita a queste ragazze per decenni".

Nella "Mansion", la droga veniva definita "divaricatore di gambe". Non solo: Hefner era solito organizzare ogni settimana una "Pig night", con dozzine di prostitute che lui definiva "brutte".

Barbara Costa per Dagospia il 24 aprile 2022.  

A una festa da Hugh Hefner ti hanno costretta a leccarlo a un cane!??? No, Linda Lovelace, suprema pornostar, a me non la fai, e quello che oggi in serie tv spifferano (quanto pagate?) le prima allegre amichette di Hef ora redente non mi smuove: tu, Linda Lovelace, suprema pornostar, conosci Sammy Davis Jr., forse ci vai a letto, ma è grazie a Sammy che entri alla corte di Playboy. Al tempo Playboy veleggiava sulle 5 milioni di copie a numero, e Hefner ti offre un servizio fotografico dal compenso stellare.

Tu accetti, come accetti gli inviti alle esclusive feste di Hef, dove chi voleva poteva far sesso a due, a tre, o di gruppo, consensuale e felice. Ma quale zoorastia, siamo seri: la zoorastia nel porno c’è e c’è stata – purtroppo – ma solo nelle produzioni illegalissime di serie Z, nei porno che tu, Linda, hai girato quando ancora non ti chiamavi Linda Lovelace, e non eri famosa!!! Porno amatoriali zoorastici fuori legge e clandestini di cui tu, Linda, guarda un po’ ometti di raccontarci nei tuoi libri di memorie best-seller, e porno che però sono venuti fuori lo stesso, e porno dove tu hai negato che in quelle scene disgustose fossi tu. Mentendo. Tanto è vero che sbiancavi tutte le volte che qualcuno, e specie se giornalista, e specie se ben informato, te ne chiedeva lumi, e conto.

I danni che Linda Lovelace ha fatto al porno sono incalcolabili e li scontiamo tutt’oggi. Linda, con la sua vita travagliata e le sue disgraziate esperienze matrimoniali, ha macchiato il porno di infamia ponendogli addosso la nomea di posto lurido e violento e misogino tout court. Ma il porno è ed è sempre stato un settore dove si trova di tutto, in positivo e in negativo: sta a chi ne entra a far parte valutare e decidere cosa fare e cosa no. Sta alla sua consapevolezza.

Sicché non è giusto, cara Linda Lovelace, buttar fango su un ambiente intero se tu hai pescato la mela la più marcia che c’è nel cesto!!! Tu, Linda Lovelace, la prima pornostar riconosciuta e come tale acclamata al mondo, dea di quel "Gola Profonda" che ha dato onore e riconoscimento al porno quale genere cinematografico con tutti i crismi… tu, Linda Lovelace, morivi il 22 aprile di 20 anni fa.

A soli 53 anni e nel modo più straziante (i familiari decidono di staccare la spina a un corpo dilaniato da un incidente automobilistico) terminava una vita tormentatissima e ricca di mistero. Scompariva corpo e viso di un personaggio in vita leggendario ma personaggio che Linda mai ha destreggiato con matura coscienza né adeguata abilità. 

Linda Lovelace (nata Boreman) nasce a New York, figlia di un poliziotto e di una cameriera cattolici osservanti che le inculcano che il sesso è peccato mortale. Linda perde la verginità a 19 anni da non sposata col suo primo ragazzo e ci rimane incinta. Per il disonore la madre non la fa abortire perché Dio non vuole ma la chiude in casa fino al parto di un maschietto dato in adozione. Linda studia informatica ma ha un primo incidente in macchina che la porta a una lunga convalescenza anche perché all’ospedale è vittima di trasfusione di sangue infetto che le passa l’epatite.

Linda conosce e si innamora di Chuck Traynor, di professione magnaccia, e lo sposa. In un locale scambista che frequenta con lui si imbattono nel regista porno Gerard Damiano che, vista "l’ampia" capacità orale di Linda, le scrive una sceneggiatura su misura, ed è quel "Gola Profonda" che la incorona a star. Linda gira il seguito (e la dirige Joe Sarno) e altri porno che non hanno uguale successo. 

Sorridente accanto a Traynor rilascia interviste a tutto spiano (“io non ho mai incontrato niente di troppo grande per la mia gola!”), e firma e promuove due autobiografie, "Inside Linda Lovelace" e "The Intimate Diary Of Linda Lovelace", dove vanta ciò che di porno sa e fa (“quella sullo schermo sono io, è ciò che faccio, ed è come sono davvero!”). È una star e come tale sfila alla prima hollywoodiana di "Ultimo Tango a Parigi": per lei il film “è disgustoso, le scene di sesso non sono credibili”.

Poi Linda lascia Chuck Traynor per un produttore per cui gira "Linda For President", porno in cui fa la candidata alla Casa Bianca in un tragitto elettorale a forma di pene. Porno poco apprezzato. Linda tenta la carriera non porno in prove teatrali flop assoluti. Non sa recitare. È arrestata per possesso di cocaina e amfetamine. Fuori dal giro che conta, Linda sposa l’operaio Larry Marchiano, fa la casalinga, fa due figli, i riflettori su di lei si spengono.

Nel 1980, la bomba: esce "Ordeal", terza autobiografia di Linda, dove scrive che tutto quello che nel porno ha fatto lo ha fatto perché costretta picchiata minacciata di morte dal primo marito Chuck. E che il porno l’ha sfruttata, violentata, degradata. Su Ordeal scrive che Chuck la pestava, e le puntava pistole e fucili contro per farla recitare. Che ne controllava mente e movimenti, che la sorvegliava pure mentre era in bagno, che poteva dormire e stare al telefono solo con lui accanto che le puntava un’arma alla tempia. Che Chuck le ha fatto perdere la verginità anale in un’orgia di 5 uomini.

Con Ordeal, Linda diventa la paladina del neo-femminismo anni '80 e con femministe celebri quali Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon gira l’America in conferenze e convegni e crociate anti-porno, forti dello spirito reaganiano che considera il porno e le non eterosessualità mali assoluti. 

A nulla valgono le ragioni di chi da Linda è attaccato (Gerard Damiano e Harry Reems, partner di Linda in Gola Profonda, hanno negato con veemenza vi siano state violenze sul set. Ha detto Damiano in un’intervista: “Traynor era terribilmente geloso, stava sempre con lei sul set, tanto che io l’ho promosso factotum, per mandarlo via per commissioni quando dovevamo girare le scene di sesso”. Damiano e Reems affermano che Linda non sembrava felice con Chuck, ma che Linda, sul set, e in tutto ciò che ha fatto sul set, “era libera, e si confidava con me”, continua Reems, “nelle pause, mi confessava come il set fosse per lei rigenerante e riscattante. Ma Chuck, suo marito… Damiano lo cacciava via dal set perché Chuck era geloso di come Linda si godeva le scene di sesso. Lei ci metteva davvero l’anima”. Si noti che il rabbioso Chuck Traynor, dopo Linda, sposa un’altra illustre pornostar: la rivale di Linda Marilyn Chambers).

E Linda presto litiga con le femministe nuove amiche sue, secondo lei delle furbe che usano il suo nome e la sua storia per arricchirsi. Pertanto Linda scrive una quarta autobiografia, "Out of Bondage", in cui ribadisce che il porno le fa schifo e che, a ogni buon conto, non rimpiange nulla. Divorzia da Larry Marchiano e torna al porno non recitato ma presenzia fiere dell’eros dove è pagata e celebrata per la gola profonda che è stata. Infine, l’incidente stradale mortale. Larry Marchiano corre da lei sul letto di morte: sapete cosa Linda dice di lui in "The Other Hollywood", maxi raccolta (620 pagine!!!) di biografie orali di pornostar? Che è un ubriacone manesco e insopportabile. 

Alberto Riva per “il Venerdì di Repubblica” l'1 gennaio 2022.  La prima "luce rossa" ad accendersi fu nel 1977 al cinema Majestic di Milano, una sirena presa in prestito dai pompieri: era il segnale che si proiettavano pellicole erotiche. Soft o hard a seconda del metraggio perché si usava aggiungere o togliere scene esplicite per dribblare la censura o gli ordini di sequestro.  

Quei film, titoli come Vibrazioni carnali e Labbra vogliose, erano girati in più versioni, un po' per confondere le acque un po' per essere esportati in Francia e altri paesi più liberali. Ma ormai la diga era caduta.

Lo racconta Tomaso Subini nel suo La via italiana alla pornografia. Cattolicesimo, sessualità e cinema 1948-1986 (Le Monnier-Mondadori Education, pp. 260, euro 34), un saggio ricco di dati e aneddoti. 

Il primo campanello d'allarme era suonato dopo la Seconda guerra mondiale con il ritorno del cinema americano. Nel 1950, il neanche troppo peccaminoso Belle, giovani e perverse, diretto da Vorhaus e Ulmer, aveva fatto scattare la censura del Vaticano a causa della frase sui manifesti tacciata d'immoralità: «Il più dolce peccato del mondo».

Ma nonostante i divieti fioccassero a decine la «sessualizzazione delle immagini» era ormai inarrestabile. Oggi sembra incredibile, ma ancora nel 1953 nel giorno di Venerdì Santo in molte città italiane i cinema restavano chiusi. 

Era, secondo l'analisi di Subini, l'epoca del «controllo». A cui subentrò quella del «conflitto», di cui la La Dolce Vita di Fellini fu simbolo e spartiacque, sdoganando contenuti erotici (pensiamo alla scena finale dello spogliarello) destinati però a una platea immensa.

Così come Teorema di Pasolini che nel 1968 inaugura quella che l'autore chiama la «caduta» o «l'apocalisse della famiglia borghese», anche se il limite «irreversibile» è con il Decameron (1971) e una serie di altre pellicole, d'autore o meno, che si affermano nonostante censure, sentenze, condanne. 

L'approdo via via all'hard, con le sue star talvolta popolari è il racconto di un Paese sotto «regime clericale» che ha faticato più di altri a fare i conti con la liberazione dei costumi ma che, proprio grazie all'ostracismo, ha intrattenuto con la pornografia un rapporto di «interesse e preoccupazione, di attrattiva e di angoscia», a conti fatti un fenomeno di comportamento tutto italiano.

·        Mai dire …Prostituzione.

L’idea di multare i clienti delle prostitute non piace a tutti. Simone Alliva su L’Espresso il 7 Dicembre 2022.  

Un disegno di legge 5 Stelle ripropone l’idea che trova consensi anche in Fratelli d’Italia e nel Pd. Si oppongono invece le rappresentanze dei sex workers

Sommerso da stratificazioni del costume, della morale e della legalità il dibattito pubblico sulla prostituzione da sempre oscilla tra proibizionismo e legalizzazione. Sull’opportunità di legalizzare o meno il lavoro sessuale la società è divisa, così come i movimenti femministi, tra chi considera la prostituzione una forma di oppressione e chi, come “Non una di meno”, chiede invece di «attuare sforzi culturali per distinguere sex worker e prostituzione forzata, denunciando e combattendo lo stigma nel primo caso e la violenza patriarcale nel secondo» e di riconoscere i diritti di questi lavoratori. Incerta è la politica che aveva fatto riemergere il tema nel mese di giugno, a 64 anni di distanza dall’approvazione della legge Merlin che nel 1958 decretò l’abolizione della regolamentazione della prostituzione e quindi anche delle cosiddette “case chiuse”.

La miccia che ha innescato per mesi discussioni tra le associazioni per i diritti civili è stata il disegno di legge presentato a Palazzo Madama dalla senatrice Cinquestelle Alessandra Maiorino, che puntava a criminalizzare i clienti delle prostitute, seguendo l’approccio «neo-abolizionista» introdotto in Svezia nel 1999 e oggi in vigore anche in Francia. Modello, afferma la prima firmataria, riconfermata al Senato con le ultime elezioni, che ha portato ad una diminuzione del fenomeno del 65 per cento. Oggi quel ddl torna, sulla scia del dibattito scatenatosi sui delitti di Roma.

«La scintilla iniziale- spiega la senatrice a L’Espresso - era scattata già a marzo 2019. Sui giornali Salvini chiedeva di riaprire le case chiuse. Ho approfondito la questione, avviato un’indagine conoscitiva di due anni. Il mio disegno di legge non colpisce chi è in prostituzione ma chi, utilizzando il denaro, pensa di poter comprare l’accesso al corpo di un altro essere umano. Senza sapere che quel gesto mette in moto tutto il sistema di tratta». Va ricordato che nell’ordinamento attuale, non è vietata la prostituzione in sé e per sé, ma solo l’intermediazione di terzi, sia in termini di promozione sia di sfruttamento. La novità introdotta dal ddl Maiorino sarebbe la possibilità di perseguire legalmente i clienti, tramite sanzioni pecuniarie e, in casi estremi, anche pene detentive. Lo scopo è colpire la domanda.

La legge potrebbe convincere Fratelli d’Italia, già nel 2018 la leader Giorgia Meloni e attuale Presidente del Consiglio dichiarava: «Non ha senso colpire le prostitute che sono solo delle vittime. Probabilmente la via che può portare a dei risultati più efficaci è quella adottata dalle nazioni del nord Europa che punta a disincentivare la domanda. Un tentativo che vale la pena fare».

Un tentativo che stona con le uscite del leader della Lega Matteo Salvini da anni favorevole alla riapertura delle case chiuse. «Oggi in Italia questo mercato lo gestisce la criminalità. E riguarda 80 mila persone. In Austria, Svizzera, Germania si mettono le regole, si danno garanzie. È un lavoro come un altro che si fa per scelta ed è sanitariamente tutelato e tassato. Io al governo voglio un Paese con delle regole».

E il Pd? Naviga a vista. «Non ne abbiamo ancora discusso», fanno sapere. Tuttavia, per la senatrice Valeria Valente «potrebbe esserci una maggioranza del partito favorevole a una legge che punisca i clienti».

Dentro questo dibattito muta sembra la voce delle e dei sex worker. «Cavalcando le notizie delle terribili uccisioni di sex worker a Roma si propone ancora il modello abolizionista nordico osteggiato dalle e dai sex worker la cui vita è resa più fragile proprio dalla criminalizzazione dei loro clienti», sottolinea Pia Covre, presidente del Comitato per i diritti civili delle prostitute.

La politica sul tema semplifica la complessità, dimentica che la realtà è fatta di pieghe e non di linee rette, fanno sapere da Ombre Rosse collettivo femminista di sex worker e attivisti: «Togliere il reddito alle lavoratrici vuol dire cancellare la complessità delle loro vite. Il cliente per non farsi multare potrebbe attirare le lavoratrici fuori da uno spazio sicuro. La maggior parte del lavoro sessuale è indoor, esistono dei meccanismi tra lavoratrici di mutua tutela. Il ddl aggrava e non risolve».

Da blitzquotidiano.it il 30 novembre 2022.

In un periodo di crisi economica, uno dei settori che non ne ha mai risentito è quello del sesso a pagamento, in particolare quello delle escort. Una delle vetrine più note di questo mondo è il portale Escort Advisor, primo sito di recensioni di escort in Europa.

Brescia la città più cara, Roma tra le più convenienti

Il sito con 4,5 milioni di utenti unici mensili, continua a raccogliere ed elaborare dati relativi al mondo delle professioniste del sesso. Nell’ultimo report diffuso, Escort Advisor sottolinea come Brescia sia la provincia più cara per questo tipo di servizi, con una media di 103 euro, seguita da Bergamo, che con Bolzano si ferma a 102 euro di media a prestazione. A Milano è a 98 euro (dodicesima) e Roma addirittura a 89 euro (47esima).

Prezzi in aumento dopo il Covid

I dati in questione risultano dall’ultima analisi di Escort Advisor. Quest’ultimo ha estrapolato le tariffe medie delle escort operanti in Italia e suddivise per province. Il tutto attraverso le recensioni degli utenti del sito i quali indicano le fasce di prezzo reali delle professioniste da loro. Il trend generale conferma un aumento generale dei prezzi pari al 7,4% nel 2022 rispetto all’anno precedente il che evidenzia un graduale ritorno ai livelli del 2019 pre pandemia.

Ragazze di famiglie della Roma “bene” escort per comprarsi vestiti griffati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Novembre 2022.

Continua il fenomeno delle prostitute di "famiglia" a Roma e dopo il caso scoppiato ai Parioli, viene alla luce un episodio analogo. Le ragazze coinvolte tutte di nazionalità italiana hanno tra i 18 e i 22 anni . Indagato un 24enne, è accusato di sfruttamento della prostituzione

Facevano le escort per comprarsi vestiti all’ultima moda, borsette griffate, scarpe di marca e cellulari di ultima generazione. A prostituirsi in due hotel tra Prati e Trastevere, al centro di Roma, tre ragazze originarie dell’Infernetto, periferia della Capitale confinante con il quartiere dell’ Eur. Le ragazze quindi non vivevano in un ambiente economico degradato. Anzi. Sono tutte giovanissime, tra i 18 e i 22 anni e di nazionalità italiana, figlie di facoltosi commercianti e di agiati dipendenti con dignitosi redditi.

L’imponente giro d’affari sotterraneo andava avanti da un anno sotto la regia di Edoardo B., 24 anni, un amico ed ex compagno di classe delle ragazze, fidanzato con una di loro (la più grande) , che le controllava con un’app. Sapeva esattamente dove erano le sue amiche, le ragazze della sua stessa comitiva, quando erano con i clienti a prostituirsi. Tutto era nato come un gioco. Prostituirsi anche per divertirsi ed evadere dalla noia. I clienti non arrivavano solo dalla Capitale. Da Barcellona, un uomo, faceva visita ad una delle ragazze con cadenza mensile. Con un “cadeaux” di mille euro a notte in un hotel a Prati. Poi la mattina, in fretta e furia, prendeva il taxi per Fiumicino e quindi saliva un aereo di ritorno verso la Spagna. E così di seguito per quasi un anno. 

Era la ricerca sfrenata del lusso a muovere le ragazze, per permettersi alcuni costosissimi accessori che altrimenti, i loro genitori non gli avrebbero mai comprato: borse delle più esclusive maison di moda internazionali, scarpe ed abbigliamento griffate, e cellulari di ultima generazione. Successivamente il “gioco”, è diventato un vero e proprio business. Il patto era chiaro: le giovani ci mettono il corpo, lui le amicizie, la pubblicità nei posti che contano e, quindi, una clientela selezionata. Molti i soldi incassati, anche se nelle case delle rispettive famiglie, il denaro non mancava assolutamente. Anzi.

I genitori erano totalmente all’oscuro del “lavoro” delle figlie. Soltanto il padre di una ha scoperto cosa faceva realmente la figlia 18enne venendo a saperlo solo dopo l’indagine. Un’autentico shock. Le giovani sono state molte scaltre nel nascondere ai familiari quello che facevano in realtà. Quando gli incontri si prolungavano durante la notte, telefonavano a casa e si inventavano le scuse più note come ad esempio “rimango a dormire a casa di un’amica“. Gli appuntamenti sessuali si svolgevano anche di giorno. Negli alberghi extra lusso, il conto della stanza lo pagava sempre il cliente facoltoso di turno.

Numerosi i professionisti e gli imprenditori che hanno usufruito delle prestazioni sessuali delle tre ragazze per le quali i clienti diventavano tutti pazzi . Il “”gioco” ha infatti funzionato oltre le aspettative. per le tre giovani. E così, in appena 12 mesi, il business messo in piedi ha iniziato a volare. Il 24enne non ha operato come protettore, ma semplicemente come manager incassando la metà dei soldi, intorno ai 200 euro ad incontro, a patto che chi le incontrasse fosse una persona di fiducia. Il business è stato bloccato dai pm Carlo Villani e Pietro Pollidori della procura di Roma che hanno chiuso le indagini dell’inchiesta portata avanti nei suoi confronti, notificando il 415 bis all’indagato, atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio, dopo una delicata indagine congiunta della Guardia di Finanza e Polizia di Stato. Redazione CdG 1947

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 16 ottobre 2022.

«Nei primi mesi della pandemia uno era salito col cane, l’altro con due casse d’acqua. Uscivano con un pretesto e si presentavano da me. Bisognava farlo con la mascherina, c’era da ridere su come mettersi per non stare attaccati... Sì, da ridere: già si piangeva troppo. Io vivo con il sorriso e la pazienza. Tanta pazienza». 

Milano, Porta Romana, vecchio elegante palazzo, due rampe di scale. La porta blindata dà su un monolocale. Aria condizionata, candele, moka sul fornello, crocifisso, bagno con vasca, camera da letto con matrimoniale, musica caraibica dall’altoparlante collegato all’iPhone, televisore sintonizzato su Canale 5; giù le tapparelle: «Di fronte non abita nessuno, ma una ragazza mi ha raccontato che dal cortile un tizio aveva alzato un drone per scattare delle foto».

Gli sconti e le mance

Ventinove anni. Escort. «Appena maggiorenne ero partita per l’Italia seguendo quanto fatto da amiche più grandi. All’inizio avevo lavorato come commessa nei negozi di vestiti di via Torino, passando dall’uno all’altro senza che cambiasse lo stipendio, ma almeno avevo potuto mettermi in regola con i documenti.  Avevo lasciato perdere i negozi tentando la carta della baby-sitter. Non avevo esperienza diretta: niente fratelli né figli o nipotini. Ma nelle campagne dove sono nata e cresciuta, noi piccoli stavamo tutto il giorno insieme e uno badava all’altra in una specie di grande famiglia.

I genitori di solito non c’erano: chi fra questi raggiungeva ogni mattina le città cercando un mezzo mestiere, chi se n’era andato negli Stati Uniti, chi era in prigione per omicidio... Impari presto a stare al mondo con tutte le conseguenze del caso. Sono ancora una baby-sitter, aiuta a svagarmi, ma c’è poco lavoro: da quando sono terminate le vacanze d’agosto sono finiti anche i soldi. 

La gente si è indebitata pur di andare al mare. E allora se il denaro non c’è, si rinuncia alla baby-sitter, e allo stesso tempo si rinuncia al resto dopo aver provato a supplicare uno sconto... Mi chiedono sconti su sconti, non lasciano più mance. Parto da 80 euro per mezz’ora, rapporto non completo. Se uno vuole di più, ci mettiamo d’accordo, tipo iniziare senza preservativo. 

Nell’ultimo anno aumentano le richieste su WhatsApp attraverso messaggi scritti oppure vocali, di farlo a tre. Le coppie più me. Gente di cinquant’anni, sposata. Ma io con le donne no, grazie, a meno che non offrano tanti soldi». Altro tema: molte di voi specificano nei profili di accogliere anche i disabili. «Evito, non me la sento proprio». 

Agenti, non protettori

La comunicazione affidata in via esclusiva a WhatsApp è una tendenza che ci viene raccontata da altre escort. Questione di rapidità evitando di interagire col prossimo. «Prima della pandemia, gli uomini si fermavano a parlare. Adesso basta, anche i vecchietti stanno zitti».  Di che età? «Oh, basta che una persona sia perbene. A vederli, direi anche ottant’anni... Si impegnano, però le mie sono per lo più carezze, con calma, casomai si sentano male. Si fanno la camminata al parco, poi mi telefonano. Finito, vanno dal barbiere». 

Come fa a giudicare se una persona è perbene?  Quali sono le misure di sicurezza di fronte a un estraneo che potrebbe essere una potenziale minaccia? «Da noi, intendo a un certo livello, i protettori non esistono. Semmai ci aiutiamo, le cubane con le cubane, noi brasiliane con le brasiliane, le portoricane con le portoricane».

Premesso che molte escort si appoggiano ad agenti, i quali curano le relazioni con i fotografi, aiutano nella burocrazia e nell’organizzazione di «eventi», pare impensabile l’assenza di amici o conoscenti pronti a entrare in azione se necessario per gestire eventuali agguati; sono figure non stanziali nei dintorni ma attivabili a chiamata. Le escort, in prevalenza, risiedono ai primi e secondi piani; e per non infastidire i vicini, laddove vi siano ascensori invitano a non utilizzarli preferendo le scale. 

«Spengo il cellulare al massimo alle 9 di sera. Lo faccio per proteggermi: non voglio uomini reduci da notti di droga». Sono le trans ad essere disponibili fino all’alba, a gestire squilibrati in botta di cocaina. Ma è un’altra storia. 

Jeans e maglioncini

Sul tema dei guadagni non otteniamo una risposta diretta. Sicché, per giungere a un conteggio verosimile, proviamo a monitorare un’intera giornata di questa donna che fuori casa indossa abitualmente maglioncini, jeans, sneaker bianche (solo marchi di moda). 

L’appuntamento è in un bar nella fascia oraria successiva all’infornata dei facenti colazione. Questa fascia oraria, ovvero le 10, coincide con il gratta e vinci. Un flusso tarantolato di muratori, badanti, portinai, tramvieri, tassisti, pensionati, postini che acquistano, grattano e perdono, grattano e perdono...

«Mai giocato una volta. Risparmio ogni centesimo.  Spedisco tutto a mamma e papà, zii, cugini, loro figli. Mi tengo il denaro per affitto, mangiare, vestiti e piscina». Ha due cellulari. Il principale è l’iPhone; il secondo un Nokia. «Evito gli stranieri. Ne capitano troppe». Un fenomeno sommerso. Le rapine alle escort, sovente con conseguenze fisiche da pestaggi, sono frequenti anche se non esiste statistica poiché mancano le denunce. 

«Non puoi chiamare la polizia altrimenti l’intero palazzo viene a sapere... E non tutte abbiamo i documenti in regola per denunciare...». Ci avviamo verso la piscina. In bicicletta: «Regalo di un cliente». Altri doni? «I veri doni sono le cene nei ristoranti, le notti negli alberghi di lusso, ma è tutto sempre finalizzato al sesso, ovvio».

Avevamo lasciato per strada il tema dei guadagni: lecito ipotizzare un incasso mensile di almeno ottomila euro in nero? «Se legalizzassero la prostituzione potrei pagare le tasse. Comunque non duro in eterno: due anni poi stop. Aprirò un negozio di abbigliamento. Me lo merito, con quello che passo». 

Non è obbligata. «I miei genitori non avevano nemmeno il denaro per mangiare. Questo è giusto? Ora fanno i signori». Arriviamo alla piscina. La lasciamo impegnata per un’ora. Stile libero e dorso. Esce alle 11.45. «Ho tre appuntamenti. I primi due di mezz’ora e l’ultimo di due ore: ha l’abitudine di arrivare con del sushi e pranzare lentamente». 

L’indirizzo sbagliato

Una misura di auto-protezione delle escort è rappresentata dall’indirizzo sbagliato. Non forniscono mai l’esatto numero del civico. Per due motivi: non rendere nota agli sconosciuti la propria dimora; dopodiché, «manovrando» gli uomini che vanno avanti e indietro sul marciapiede in attesa della comunicazione del civico, le escort possono verificare se hanno dei complici, pronti ad accodarsi per una rapina una volta aperto il portone. 

Altra misura è segnarsi il numero telefonico dell’uomo su un foglietto, da nascondere in un posto segreto, nell’eventualità che venga rubato il telefonino. Ma come fa a non vivere in uno stato di perenne tensione? «Se davvero entra un tipo malato, e che mi credi oppure no, non è mai successo, vedo di gestirlo. Assecondandolo. Divento psicologa.

Devo badare alla sopravvivenza, e a questo proposito i siti Internet sui quali sono iscritta garantiscono una certa tranquillità. Per dire, con “rosa rossa” sei nelle mani di personale esperto, riservato, iper-professionale, ti senti tutelata». Per l’iscrizione ai siti bisogna presentare carta d’identità o passaporto, codice fiscale, fotografie di nudo; si paga con bonifico, bollettino postale, carta di credito. 

Soltanto parole

Dopo le 15, le richieste di appuntamento calano fino alle 17. Quante volte pensa di smettere all’improvviso? «La mia è una scelta precisa. Non uccido nessuno né rubo niente». Lei non ha mai utilizzato termini come escort, prostituzione, vendersi. «Faccio quello che faccio, sicura che sarà per un periodo determinato. E un domani verrò ripagata anche da Dio dalla quantità infinita di pazienza che spendo ogni giorno». 

Nel dettaglio? «Ricevere i ragazzi. Una pena. Vent’anni. Bellissimi, atletici cortesi. Vengono da me, e pagano, poi tornano...». Quale risposta si dà? «Sono impacciati, sembra che non conoscano il sesso. Quello vero. Capita che si concluda tutto subito, e se ne scappano chiedendo scusa oppure, se si fermano, è per piangere e venir consolati nemmeno fossi la mamma». 

L’ora della spesa

Alle 16 è l’ora della spesa, con preferenza a una piccola e assai costosa bottega biologica. Nel carrello insalata, pomodori, parecchia frutta, carne bianca. Un domani vorrebbe costruirsi una famiglia? «Manca l’uomo adatto». Nell’elenco dei commenti degli uomini che sono stati con lei, ricorre un passaggio: «Ragazza della quale innamorarsi». 

Che cosa dice? «Parole. Paghi, lo fai, ti rilassi e sei in pace col mondo... Molti me l’hanno detto dal vivo, che hanno perso la testa, che non ci dormono, che impazziscono, che mi vogliono sposare e portar via da questa vita... Eh, blaterano dopo che gli sono servita a sfogarsi. Uno viene da me, paga il sesso e fa il dispiaciuto sostenendo che dovrei smetterla... Parole, quante parole». Musica caraibica di sottofondo, lei alza il volume e accenna, cantando, un passo di danza.

Francesco Merlo per “la Repubblica” l'11 luglio 2022.

Nella realtà della vita la prostituta di strada non fa mai tenerezza, e non c'è comprensione né per il ricco cliente che compra né per la professionista che si vende. E però il bel filmaccio che li celebra, Pretty Woman , ancora 32 anni dopo è più amato della Traviata e commuove più di Romeo e Giulietta. 

Così lunedì scorso 3.352.000 italiani hanno riguardato Pretty Woman e va bene che la commedia romantica mette felicemente a riposo l'intelligenza, ma questa era la trentesima replica della Rai.

Insomma, c'è qualcosa di disperato nel ri-commuoversi ogni volta che "la puttana" si intrufola nel macchinone del bel maschione elegantone, "ehi amore, cerchi compagnia?" e nel risoprendersi perché, nella sordida Los Angeles, invece del seguito "cinquanta in macchina e cento in camera", comincia un dialogo di grazia e di ironia. 

Una canzone, si sa, la ascolti e riascolti finché diventa il tuo angolo di tempo e di spazio. Si tratti di "Pretty woman, walkin'down the street" o di "Via del campo, c'è una puttana" o ancora di "una puttana ottimista e di sinistra", il canto è un mettersi "da canto", è un piccolo rifugio emotivo. Ma un vecchio film d'amore del 1990 già alla terza volta non fa battere ma sbadigliare il cuore. 

Fosse pure un capolavoro, ricordarlo è molto meglio che rivederlo. Capisco i cinefili che sanno tutto sulla controfigura di Julia Roberts e sulla sceneggiatura originale, ma sono una patologia sociale tre milioni e mezzo di italiani che, tutti insieme e tutti gli anni, si ritrovano, a bordo di una bruttissima Lotus, nella stessa storiaccia di buoni sentimenti da marciapiede.

Né basta a spiegare lo share del 22 per cento, appena dietro don Matteo , la doppia redenzione: della Maddalena evangelica, e soprattutto del capitalista cattivo che promette di costruire palazzi o navi e di smetterla di arricchirsi impoverendo l'avversario e riducendolo, come nel Monopoli, a una vita da cani nei quartieri miserabili del Vicolo Corto. Pretty Woman sa prenderci per il naso come tutte le favole, da Cenerentola a My Fair Lady , ma 8 punti più della volta precedente, la ventinovesima lo scorso anno, sono un tic nervoso collettivo che rivela i poveri italiani in disperata ricerca dell'happy ending su Raiuno.

Neppure le celebri Demoiselles d'Avignon , le chicas del bordello di Picasso, che non sono pretty, evocano l'happy ending. Se si esclude Moll Flanders, che muore ricca e pentita, non è mai a lieto fine la donna perduta, neppure la Boule de suif di Maupassant, che è la novella perfetta che le contiene tutte, anche Ombre rosse. Pretty woman commuove ma non eccita, piace ma non è sexy. Non ha la comica pruderie di Boccaccio né la coscienza timorata di Sartre. Non è la diabolica di Buzzati e non ha, come Zebedia di Vittorini, il divieto di innamorarsi. Non ha il cuore di Filumena Marturano e di Mamma Roma . E non è nemmeno la nipote di Mubarak. 

DAGONEWS il 9 luglio 2022.

Una donna che ha lavorato per un'agenzia di escort a 20 anni ha rivelato com'è essere una prostituta. Sul forum Mumsnet l’utente ha raccontato di essere pagata 200 sterline l’ora, riuscendo a mettere da parte 30mila sterline che ha usato per il matrimonio. 

L'ex escort ha iniziato la conversazione semplicemente scrivendo: «Sono stata pagata per fare sesso a 20 anni e lavorare grazie a un’agenzia. Molti incontri li ho fatti in hotel quindi erano uomini d’affari, abbastanza puliti e dignitosi. Forse alcuni erano spacciatori, ma in numero ridotto.

Alcuni clienti erano "abbastanza giovani" altri "piuttosto vecchi". Alcuni erano sposati, altri single.

«Era una cosa normale. Avevo un lavoro di giorno e poi questo di notte: mi ha occupato tre sere a settimana per sei anni in totale». La donna ha ammesso che la maggior parte delle volte non era attratta dai suoi clienti e odiava tornarci perché temeva di non essere in grado di nascondere che non le piacevano.

E alla domanda se ci fosse qualcuno che aveva chiesto qualcosa di particolare o brutale, lei ha risposto di essere stata fortunata perché in fin dei conti le richieste erano molto normali: «Non mi sarei fatta soffocare o sputare addosso». Di un incontro si è pentita perché ha avuto paura di essere arrestata: «Sono andata a Dubai nel 2005 ed è stata una delle mosse più stupide. Un cliente mi ha chiesto di fargli sesso orale sotto il tavolo del Ritz Carlton. Avevo così paura di essere arrestata che ho detto di no. Ma mi sono sentita a disagio». E sui rimpianti ha detto: «Onestamente non ho rimpianti perché mi ha permesso di avere più soldi. Non sono sicura che avrò problemi a lungo termine. Mi piacciono ancora gli uomini, sono sempre stata trattata bene e per lo più avevano gusti semplici».

Da “liberoquotidiano.it” il 30 maggio 2022.

L'influencer milanese che vuole restare anonima svela da Massimo Giletti, a Non è l’arena, su La7, nella puntata del 29 maggio, i retroscena a luci rosse delle serate milanesi. Nei locali, spiega, "il giro è quello, donne che aspettano il pollo da spennare. Magari sai sono anche... Sai le cose in gruppo, sei con l'amica, ti va più veloce perché da sola ti rompi un po' invece con l'amica ti diverti". 

E ancora, "sono ambienti dove non mi vergogno neanche di farmi vedere perché comunque ci vanno tutte per quello quindi sono una in mezzo a tante", aggiunge la ragazza.

"Durante la serata puoi incontrare tante persone, di solito dopo cena si va in hotel e si fa quel che si deve fare... Ci pagano minimo 500 euro per arrivare a cifre più alte, anche 2mila euro", rivela l'influencer. 

"Poi sai dipende se è tutta la notte o si fa festa. Sai com'è, ci si droga un po'. Ogni tanto vado in bagno mi faccio una botta con la mia amica e con la persona che ce la dà e poi sai lì te la danno proprio come niente fosse. E poi se mi drogo vivo meglio la situazione, sono più rilassata".

Quindi riceve una telefonata da un cliente: "Facciamo domani ho finito tardi, porta i preservativi io non ce li ho". E spiega: "Ecco questo per esempio era un cliente, mi paga 1500 euro per un'ora. 

Per una ragazza che magari ci impiega dieci minuti, apre le gambe e il gioco è fatto. E hai fatto lo stipendio di una persona normale o anche di più, quindi fai questo un paio di volta e arrotondi, a 20mila euro al mese ci arrivi". 

Da liberoquotidiano.it il 30 maggio 2022.

Show a luci rosse, sesso a pagamento, cocaina. E' quello che succede dentro uno dei locali di Milano, dove si fanno feste a luci rosse. In un servizio realizzato da Moreno Pisto, direttore di Mowmag, e mandato in onda ieri sera 29 maggio da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, si vede questo "party" bollente in un locale dove nel prive puoi passare 10 minuti con una "ragazza" al costo di 300 euro. 

"Gli unici pali che vogliamo vedere questa sera sono i vostri ca*** duri. Nascondete tutto quello che avete, occhio arrivano gli sbirri", annuncia la conduttrice dello show. Quindi sul palco salgono un nano vestito da poliziotto e una ragazza completamente nuda con solo delle calze a rete e tacchi a spillo. 

Il nano è seduto sulla sua schiena: "Cioè ragazzi un cavallo che monta e smonta una cavalla". Poi la ragazza si siede sopra di lui mentre il nano prende un vibratore. Il resto si può ben immaginare. 

"Nel privée si può fare anche sesso?", chiede un cliente. "Chiedi a me", risponde la conduttrice, "qualsiasi cosa vuoi chiedi a me che ti tratto bene". "Il priveé con Martina, sono 300 euro dieci minuti, può entrare una persona sola. Ti chiederei di aspettare un attimo perché c'è la fila".

Non manca la cocaina, "la botta te la fai senza chiedere alla ragazza".

«Il Ddl prostituzione? L’approccio repressivo è inutile». Don Marcello Cozzi, per anni a sostegno delle vittime di tratta: «Non è pensabile il carcere per i clienti». Il Dubbio il 10 aprile 2022.

«Non si possono mettere sullo stesso piano gli sfruttatori delle prostitute, che costringono queste ragazze a prostituirsi per speculare sui loro corpi e arricchire le associazioni criminali, e i cosiddetti clienti. Non è pensabile il carcere per questi clienti, che io chiamo sfruttatori secondari. Anzi, come fanno non poche associazioni come la nostra, bisogna pensare a delle politiche di accompagnamento per cogliere gli aspetti problematici delle loro vite». Così all’Adnkronos don Marcello Cozzi, sacerdote di Potenza e presidente del centro studi Cestrim che negli anni ha assistito le vittime della tratta, commentando la proposta di legge presentata dai senatori del Movimento 5 stelle con la previsione di pene durissime per i clienti.

«C’è sempre un approccio repressivo nel fronteggiare il fenomeno della prostituzione – dice ancora -. Le pene bisogna inasprirle per i veri sfruttatori che sono la causa principale della tratta e sono strumento della criminalità. Sui cosiddetti clienti va fatta invece un’altra riflessione. Le ragazze ci raccontano che molti di loro sono mariti, padri di famiglia, compagni di donne e ci dicono anche che dopo essere stati con loro questi uomini si confidano, parlano delle loro relazioni matrimoniali o dei problemi con i loro figli. C’è qualcosa di più profondo da comprendere se sentono la necessità di andare con un’altra donna e pagarla».

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«Bisogna anche cambiare le politiche nei confronti delle ragazze – afferma don Marcello Cozzi – perché con l’esigenza della tutela del decoro sono state respinte dai marciapiedi e, per non essere multate, costrette ad andare nelle case. È successo anche a Potenza. Se vanno nelle case non sappiamo cosa accade, se sono vittime di tratta o di criminali non abbiamo più la possibilità di assisterle e di sentire il loro grido di aiuto. Anche in questo caso, una politica repressiva che non risolve il problema. Servono invece delle politiche adeguate di accompagnamento e di sostegno a queste ragazze, anziché farle sparire dalle strade e non sapere più cosa succede».

Niente multa a chi si accosta per far salire a bordo le prostitute: la sentenza della Cassazione. Attilio Ievolella su Il Tempo il 03 marzo 2022.

Impensabile multare un automobilista sol perché si è fermato a bordo strada per far salire in macchina una prostituta e per poi dirigersi con lei in un luogo appartato. A lanciare questo messaggio ai Comuni italiani sono stati i giudici della Cassazione, i quali hanno accolto la richiesta presentata da un uomo e hanno cancellato la multa di 500 euro comminatagli dalla Polizia locale di Brescia nell’agosto del 2015.

Infruttuoso il ricorso proposto dal Comune lombardo e mirato a rivendicare la legittimità del provvedimento, frutto di un regolamento con cui si era stabilito il divieto alle prostitute di esercitare il loro mestiere sulle pubbliche vie cittadine e in aggiunta si erano previste sanzioni pecuniarie per i clienti.

I magistrati hanno respinto il ragionamento proposto dai legali del Comune e hanno chiarito che l’attività di meretricio non è illecita ma rientra nelle attività economiche, e quindi non può esserne vietato l’esercizio, se non attraverso una norma dello Stato. Impossibile, quindi, per i Comuni italiani vietare la strada alle "lucciole" adducendo di voler tutelare la sicurezza dei cittadini.

Quando Lina liberò le donne dai bordelli…Il 20 febbraio 1958 la legge della senatrice Merlin metteva fine alle "case chiuse". Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

L’art. 3 della nostra Costituzione recita così: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». E va bene, lo conosciamo tutti. Eppure, quel «senza distinzione di sesso», lo dobbiamo a Angelina Merlin, detta Lina. Era stata eletta all’Assemblea costituente del 1946 e aveva fatto parte della Commissione dei 75, incaricati di redigere la Carta costituzionale. C’erano solo altre quattro donne, oltre la Merlin: le due democristiane Maria Federici e Angela Gotelli, e le comuniste Nilde Iotti e Teresa Noce. Tutte avevano a vario modo partecipato alla Resistenza.

Vita straordinaria, quella della Merlin. Nata nel 1887 a Chioggia, aveva conseguito la maturità magistrale e si era poi trasferita in Francia, per meglio conoscere la lingua e la letteratura francesi, materia in cui conseguirà la laurea e che insegnerà. Nel 1919 aderisce al Partito socialista, e inizia a collaborare con Giacomo Matteotti, proprio sulla condizione femminile, arrivando a dirigere la rivista “La difesa delle lavoratrici”. Quando, dopo l’assassinio di Matteotti, il fascismo si consoliderà, il suo destino è già segnato. Subirà cinque arresti in due anni, perderà il lavoro di insegnante perché si rifiuterà di prestare giuramento al regime, si trasferisce a Milano dove collabora con Filippo Turati, ma viene condannata a cinque anni di confino in Sardegna, si sposa e rimane vedova, riprende l’attività antifascista e alla Liberazione si trasferisce a Roma, per l’impegno politico a tempo pieno. Viene eletta al Senato nel 1948 e rieletta nel 1953, poi alla Camera dei deputati nel 1958. Il ’ 58 è l’anno cruciale, quello della legge Merlin.

Ma Lina Merlin il disegno di legge sulla chiusura delle “case di tolleranza” lo aveva in realtà presentato dieci anni prima, nel 1948. A parte la sua sensibilità e le indagini sulla condizione della donna, di tutte le donne, la Merlin era rimasta colpita dall’abolizione del “registro delle prostitute” in Francia nel 1946, all’indomani della Liberazione. A compiere “l’impresa” era stata una donna dalla vita rocambolesca e leggendaria, Marthe Richard, dell’età della Merlin, che a sedici anni era già prostituta e nel 1912 aveva conseguito il brevetto di pilota e guidava un aereo tutto suo, regalatole dal marito, un facoltoso commerciante.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Richard era stata poi arruolata nei Servizi segreti francesi, nella stessa divisione di Mata Hari, un ruolo che le venne persino riconosciuto ufficialmente ma che intanto le fece scrivere libri vendutissimi da cui si girarono dei film. Quando Hitler invade la Francia, Martha si salva diventando amante di un boss marsigliese, che – si scoprirà dopo – faceva il doppio gioco. Finita la guerra, intraprende la carriera politica, e riesce a eliminare prima in un distretto di Parigi e poi a livello nazionale il registro della prostituzione.

In Italia, presentato il progetto nel 1948, dopo un lungo iter parlamentare c’era stata sua prima approvazione solo nel 1952. Ma per la fine del mandato parlamentare la proposta non divenne legge, e nel 1953 la Merlin, rieletta, ripresentò il disegno di legge, che finalmente terminò il suo iter parlamentare il 20 febbraio 1958.

L’espressione “case di tolleranza” si doveva al Cavour che, dopo i numerosi casi di malattie veneree contratte dai soldati sabaudi tra il 1859 e il 1860, aveva affidato al medico Casimiro Sperino il compito di compilare un efficace regolamento che, con la dizione “Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione”, venne emesso nel febbraio 1860. Esteso prima alle province settentrionali fino alla Toscana annesse al Regno con i plebisciti di quell’anno, con l’unificazione nazionale tale regolamentazione entrò anche nelle province del Sud. Con il Regolamento si autorizzava, dietro rilascio di apposita licenza, l’apertura di postriboli di Stato suddivisi in due categorie e tre classi, si fissavano le tariffe, il guadagno della tenutaria e della prostituta oltre alle imposte da pagare allo Stato. Insomma, “si tollerava”.

Invece l’espressione “case chiuse” si doveva al Crispi, e al suo ‘ Regolamento sulla Prostituzione’ del 1888. Oltre agli aspetti igienici e amministrativi, si raccomandava che le “case” fossero distanti da luoghi pubblici e di culto, che non si tenessero feste, e che le finestre e le persiane restassero sempre visibilmente “chiuse”, per non dare scandalo.

A gennaio del 1958 perciò la proposta di legge Merlin giunge alla Camera. Le case chiuse autorizzate sono cinquecentosessanta, per un totale di duemilasettecento prostitute. Ogni prestazione costa da un minimo di duecento lire ( cinque minuti in un bordello di terza categoria) fino a quattromila ( un’ora in una casa di lusso). Ogni ragazza serve da trenta a cinquanta clienti al giorno. Il denaro non finisce solo in mani private, ma anche allo Stato, che incamera una percentuale sul ricavato per un totale di cento milioni di lire all’anno in cambio di alcuni servizi, fra cui il controllo sanitario delle lavoratrici.

È dal 1948 che se ne parla, e ora sembra si sia arrivati in dirittura d’arrivo. Due anni prima Indro Montanelli, nel suo Addio, Wanda aveva scritto: «Tette e bandiera, Signora. Sono il riassunto della storia d’Italia, i suoi inseparabili pilastri, il suo motore, la chiave per comprenderla. Abolire l’uno significa distruggere l’altro. Un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli: la Fede Cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre grandi istituzioni trovavano la più sicura garanzia».

Alla Camera, il dibattito è violento, surreale. Angelo Rubino, medico sifilografo, del Partito monarchico: «Ancora più importanti sono i dati pervenutimi da Milano, dove nel 1954 si sono avuti 350 casi di sifilide, da Bologna dove se ne sono avuti 97, con notevole aumento rispetto al precedente anno 1953, quando se ne erano registrati solo 13, a Bari con 220 casi nuovi nel 1954, da Pavia con 50 casi mentre nel 1953 se ne erano registrati solo 37 e nel 1952 solamente 14. A Pavia negli ultimi mesi del 1953 e primi del 1954 due prostitute girovaghe, successivamente ospedalizzate, sono state responsabili di 29 casi di contagio nella città di Pavia e 15 a Voghera».

Gli risponde a muso duro Gisella Floreanini del Partito comunista: «Riferendoci all’Unione Sovietica notiamo che gli affetti da malattie veneree erano il 50 percento negli ultimi anni del regime zarista; dopo il 1917 furono subito e solo il 6 percento e oggi là, come accadrà da noi grazie all’approvazione di questa legge, non esiste più la prostituzione». Chissà come si sarà procurata quei dati. Comunque, la legge Merlin è approvata definitivamente dall’assemblea della Camera dei deputati con 385 voti a favore e 115 contrari.

Oggi, la sensibilità sociale sulla questione si è di nuovo modificata. Strumentalizzata, a fini di propaganda politica, spesso venata da caratteri di razzismo e di intolleranza, nuovi fenomeni sociali interrogano sulle forme e sull’utilità di quella legge e sui suoi limiti, anche per la crescita di una consapevolezza tra chi si definisce “sex worker”. Da questo punto di vista molto si deve, a esempio, all’attività di Pia Covre, fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute: «Criminalizzarle è sbagliato: relega sempre di più le lavoratrici del sesso nell’underground, mettendole in pericolo».

È, per capirci, proprio il rovesciamento di quell’ideologia che aveva trovato nelle considerazioni di Cesare Lombroso una sua sistematizzazione. Nel suo libro del 1893, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, puntualizzava che «la regressione naturale delle donne è la prostituzione e non la criminalità, la donna primitiva essendo una prostituta più che una criminale». Se esse divenivano prostitute ciò era dovuto non alla ‘ lussuria’ ma alla ‘ pazzia morale’, alla mancanza di pudore e alla insensibilità, insomma ‘ all’infamia del vizio’, venendo attirate da ciò che è vietato e dandosi, così, a tale genere di vita, trovandovi ‘ la maniera migliore per guadagnarsi l’esistenza senza lavorare’.

Ma sarebbe ingiusto ricordare la Merlin solo per quella legge. A lei si devono, anche: l’abolizione del ‘ nomen nescio’ che veniva apposto sugli atti anagrafici dei trovatelli, i figli di N. N.; l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi in materia fiscale; la legge sulle adozioni che eliminava le disparità di legge tra figli adottivi e figli propri; e la soppressione definitiva della cosiddetta ‘ clausola di nubilato’ nei contratti di lavoro, che imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano.

Storia. La storia della prostituzione. Da Focus.it il 20 settembre 2021

Il 20 settembre 1958 venivano chiuse oltre 560 case di tolleranza in Italia: quando è nata la prostituzione? Come si è sviluppata lungo la storia? 

Il 29 gennaio 1958 venne approvata alla Camera la legge, presentata da Lina Merlin, che stabiliva la chiusura delle case di tolleranza in Italia. La legge entrò in vigore a marzo e impose che alla mezzanotte del 20 settembre 1958 venissero chiuse oltre 560 case di tolleranza distribuite su tutto il territorio nazionale.

Etèra, meretrix, cortigiana, fille galante, mantenuta, lucciola, bella di giorno, puttana... e l'elenco potrebbe continuare, fino alle escort e alle sex workers di oggi. È comunque quello che, con un eufemismo e molta maschile arroganza, chiamiamo il più antico mestiere del mondo.

Ma lo è per davvero? In realtà no, perché il concetto di prostituzione implica un contesto di rapporti economici e culturali che è estraneo all'uomo primitivo.

Osservando le nostre cugine scimmie si è portati però a credere che la prostituzione abbia, in un certo senso, basi biologiche. Fra gli scimpanzé pigmei dell'Africa Centrale, per esempio, le femmine si concedono ai maschi in cambio di frutti e altre leccornie. Perché lo fanno? Dovendo sostenere per anni il mantenimento di cuccioli, la natura impone loro di selezionare maschi che "pagano", cioè aiutano a mantenere i piccoli. E i doni finiscono per essere desiderati da queste scimmie anche in assenza di piccoli da mantenere.

CACCIATRICE DI UOMINI. La prostituzione umana ha però radici diverse. Ai tempi dell'uomo preistorico la coppia era probabilmente a termine (ai 6-7 anni di età, i figli passavano sotto il controllo della tribù) e, secondo gli antropologi, nel sesso anche la donna era "cacciatrice".

Solo con lo sviluppo dell'agricoltura e il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale, circa 10 mila anni fa, nacquero, con la coppia stabile, la divisione fra sessualità maschile e femminile e, contemporaneamente, una divaricazione nel destino sociale delle donne.

Il motivo fu in effetti soprattutto economico: per difendere e tramandare la proprietà privata (nata appunto con l'agricoltura) ai propri figli maschi, la paternità doveva essere certa. Quindi diventava necessario imbrigliare la sessualità della "moglie", limitandone le relazioni sociali al di fuori della famiglia. È a quel punto che, per soddisfare la richiesta sessuale dei maschi non accoppiati e le "eccedenze" di sessualità di quelli già accoppiati, nacquero le prime forme di prostituzione femminile, che da una parte non mettevano a repentaglio la famiglia e dall'altra permettevano la sopravvivenza di molte donne sole. 

SESSO SACRO. In origine alla prostituzione si dedicavano le schiave, le giovani sterili o le vedove senza protezione, ma c'erano anche culti che la incoraggiavano (anche quella maschile) e sacerdotesse che diventavano "prostitute sacre".

L'istituzione delle prime case di tolleranza si fa invece risalire al padre della democrazia: Solone, il riformatore di Atene (VI sec. a. C.). Nella società ateniese, la vita sessuale maschile era a due facce: una privata, orientata verso le donne, di cui però si pensava non valesse la pena di parlare; l'altra pubblica, orientata verso i ragazzi. La disparità dei prezzi (vedi la gallery Millenni di sesso e soldi) fa capire che vi erano diversi mercati sessuali per clientele diverse e con funzioni sociali diverse.

Al livello più basso vi erano le pornai dei bordelli pubblici, schiave appartenenti a un custode, il pornoboskos, che era tenuto a pagare una tassa sulla rendita delle sue dipendenti a un funzionario statale che si fregiava del titolo di pornotelones. Appena un gradino più in alto vi erano le prostitute da strada: potevano essere donne libere ma povere, oppure schiave. 

Banchetto con etère nell'antica Grecia: gli amanti erano ostentati, le amanti nascoste.

Gli archeologi hanno ritrovato un sandalo disegnato in modo da lasciare impressa nella polvere la parola greca akolouthi (seguimi). Le danzatrici e le suonatrici che provvedevano a procurare l'indispensabile intrattenimento durante i banchetti erano un po' più care.

Vi erano poi le etère, collocate sul gradino più alto della scala: alcune offrivano i loro favori a chiunque, altre a clienti fissi che però tenevano nascosti uno all'altro. Anche i filosofi frequentavano le etère; molte entravano nella scuola di Epicuro, anche come studentesse, e lo stesso Socrate si intrattenne varie volte con Aspasia. 

FORNICARE SOTTO GLI ARCHI. Parente dell'etèra greca era nell'antica Roma la raffinata meretrix, mentre il popolo frequentava le prostitute dei lupanari, le lupae appunto. Nei bordelli (postribula) si incontravano schiavi, artigiani, soldati e marinai. L'élite, che aveva schiave in abbondanza per i propri piaceri, disprezzava quei posti. Luoghi di prostituzione erano taverne, bagni, terme (ad stuphas), le osterie con alloggio situate lungo le grandi vie romane, e sotto gli archi (fornices, da cui deriva il nostro verbo fornicare) dei principali edifici pubblici cittadini.

Le prostitute di basso rango erano, per la maggior parte, di proprietà di un leno, padrone di schiavi, mezzano e protettore (assistito da un servo detto villicus puellarum) che rastrellava l'intero bacino del Mediterraneo alla ricerca di ragazze e bambini da vendere sulla piazza del sesso a pagamento.

Accanto alla prostituzione femminile era infatti diffusa anche quella infantile, finché non fu proibita da un editto di Domiziano (fine I sec. d. C.). «Nessuno ti impedisce di andare dai prosseneti (mezzani)», esclama un personaggio di Plauto, «a patto che tu non tocchi una donna sposata, una vedova, una vergine, una giovane o dei fanciulli di nascita libera, ama chi vuoi!»

E Catone il Censore si felicita così con un amico incontrato all'uscita di un lupanare: «Bravo! È qui che i giovani devono soddisfare i loro ardori, piuttosto che attaccarsi alle donne sposate!»

32 MILA PROSTITUTE. I Greci avevano un magistrato addetto al controllo della prostituzione, mentre a Roma esisteva un "tribunale domestico" che vegliava sulla condotta di 32 mila prostitute. Durante l'impero divennero un capro espiatorio della crisi e furono oggetto di leggi speciali. Caligola (che pure aveva fatto aprire un bordello a corte) tassò le prostitute con il vectigal (abolito in seguito da Settimio Severo), Domiziano tolse loro il diritto di successione, Teodosio il Giovane soppresse i lupanari e punì con pene severissime i genitori che costringevano le figlie a prostituirsi. Giustiniano infierì su lenoni e tenutari, mandandone a morte alcuni, e introdusse protezioni per le prostitute che intendevano cambiare vita. La sua stessa moglie,Teodora, secondo lo storico Procopio di Cesarea, avrebbe esercitato in gioventù il meretricio.

CONDANNA COL FUOCO. Presso i barbari sembra che la prostituzione fosse meno diffusa. Ma Teodorico, re degli Ostrogoti, decretò la pena di morte per coloro che accoglievano presso di sé "donne infami". Pene severe contro il commercio del corpo furono emanate anche da Carlo Magno e dai suoi successori: per esempio, percorrere per 40 giorni la campagna, nuda fino alla cintola, con il motivo della condanna scritto in fronte con un ferro rovente. A partire dalla metà del XIII sec., col fiorire delle attività mercantili, la cura dei postriboli divenne anche motivo di propaganda politica: era simbolo dell'efficienza dello Stato.

Molte prostitute si spostavano secondo il calendario di fiere, mercati, pellegrinaggi, concili. Oppure accompagnavano gli eserciti (consuetudine tramandatasi fino a epoche recenti: si pensi alle francesi putaines de regiment della Prima guerra mondiale), compresi quelli crociati. Quando re Luigi IX di Francia proibì ai suoi uomini di portarsele dietro (VI e VII crociata), essi rimediarono con schiave musulmane.

Nel 1400 la paura dello spopolamento dovuto a guerre ed epidemie fu all'origine, indirettamente, delle fortune del meretricio. Secondo le autorità civili era infatti necessario convincere molti giovani, distratti dai "crimini contro natura" (sodomia e masturbazione), a riscoprire le gioie dell'accoppiamento eterosessuale come viatico per il matrimonio e la procreazione.

Il Rinascimento vide affermarsi la cortigiana (così chiamata perché seguiva le corti), che ricalcava la figura dell'etèra greca. Le meretrices honestae possedevano un'educazione raffinata e nelle loro dimore passavano cardinali, artisti, nobili e re. Ma «per una che riesce ad acquistarsi delle terre al sole», scrisse Pietro Aretino nel 1536, «ce ne sono mille che finiscono i loro giorni in un ospizio».

LE REGOLE DI NAPOLEONE. L'atteggiamento della società verso le prostitute mutò quando in Europa si diffuse la sifilide, considerata un castigo divino, e prese avvio il vasto movimento di moralizzazione promosso da Riforma e Controriforma.

I postriboli vennero chiusi, le prostitute sottoposte a pesanti imposizioni fiscali e si tentò di relegarle in quartieri-ghetto. Tolleranza e repressione si alternarono nel corso dei secoli. Fino a Napoleone, fondatore della moderna regolamentazione delle case di tolleranza (passate sotto controllo dello Stato nel 1804; l'Italia ne seguì l'esempio col regio decreto del 15 febbraio 1860).

10 ANNI DI BATTAGLIE. Sempre nell'800 prese piede la casa d'appuntamenti, dove l'incontro fra cliente e prostituta si accompagnava a una parvenza di seduzione. È del 1904 il primo accordo internazionale contro lo sfruttamento della prostituzione, del 1910 la convenzione per la repressione della cosiddetta "tratta della bianche".

Una foto alle pareti di una casa di appuntamenti degli Anni ’30: serviva ad accendere le fantasie dei clienti.

Nella Russia dei soviet la prostituzione, considerata vergognoso retaggio dello "sfruttamento capitalistico", resiste: nel '22 furono censite 62 mila prostitute a Pietrogrado e Mosca. Solo nel '46 la Francia chiuse i bordelli, seguita dalla Germania. In Italia la legge per l'abolizione delle case chiuse, presentata dalla senatrice socialista Lina Merlin nell'agosto del '48, passò 10 anni dopo, il 4 marzo '58, tra accese polemiche e tesi ancora oggi dibattute. È stata l'ultima fermata di un lungo percorso di regolamentazione del sesso a pagamento nell'Italia unita. Ecco le principali tappe.

1859: Cavour approvò un decreto che autorizzava l'apertura di case controllate dallo Stato per l'esercizio della prostituzione in Lombardia.

1860: il decreto diventò legge con l'emanazione del "Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione". Nacquero le "case di tolleranza" (perché tollerate dallo Stato) di tre categorie: prima, seconda e terza. Furono fissate le tariffe (da 5 lire per le case di lusso a 2 lire per quelle popolari), la necessità di una licenza per aprire una casa, le tasse da pagare e istituiti controlli medici sulle prostitute per contenere le malattie veneree.

1888: secondo la legge Crispi, all'interno delle case di tolleranza era vietato vendere cibo e bevande, fare feste, balli e canti. Non si potevano aprire case di tolleranza in prossimità di luoghi di culto, asili e scuole. Le persiane dovevano restare chiuse (da qui il nome "case chiuse").

1891: furono ridotte le tariffe in modo da limitare la prostituzione libera, che non era soggetta a controllo sanitario.

1958: fu approvata la legge Merlin, che chiuse le case di tolleranza, e fu introdotto il reato di sfruttamento della prostituzione o lenocinio (favoreggiamento allo sfruttamento).

Da escort-advisor.com il 25 gennaio 2022.

Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa, presenta la Classifica delle Top Escort del 2021. 

Per l'occasione le influencer e cantanti Le Donatella (Silvia e Giulia Provvedi), prestano il volto e svelano le migliori Escort d’Italia che sono state scelte dagli italiani (35 milioni di utenti unici hanno frequentato Escort Advisor lo scorso anno) con le quasi 123.000 recensioni scritte solo nel 2021.

In un video vivace e pieno di curiosità sul settore (online su Escort Advisor e a cui si accede senza registrazione) le frizzanti conduttrici svelano le preferenze degli italiani quando si parla di escort. 

Infatti la classifica è stilata direttamente dagli utenti e vengono presi in considerazione il numero delle recensioni ricevute nel 2021, il loro punteggio, oltre al grado di affidabilità degli autori delle recensioni. Le Escort così vengono premiate direttamente dagli utenti proprio attraverso il racconto delle loro esperienze durante gli incontri. 

Gli italiani hanno incoronato l’austriaca Alessia Spa Deluxe, attraverso le sue 105 recensioni, come la Migliore Escort d’Italia per il 2021.

Si legge in una delle sue recensioni: “Dopo averla cercata più volte nella giornata, mi risponde al telefono con una voce fantastica, e riesco a incontrarla in serata. Un incontro perfetto, personalmente la migliore non solo per bellezza. Orale da urlo, mai provato una cosa così, gioca con degli sguardi da farti innamorare... molto brava a farti rilassare e provare emozioni magnifiche.

Simpatica e solare riesce a rendere speciale sia il rapporto che il social. Nonostante la sua bellezza possa mettere in soggezione è sembrato un incontro tra due vecchi amici. Ti accoglie con una elegante vestaglia che fa intravedere le sue forme da fare venire la pelle d'oca. 

Appartamento pulito e molto bello, facile da raggiungere con possibilità di parcheggio nelle vicinanze... vale veramente la pena. Curatissima, profumata e pulita, attenta all'igiene per tutto il rapporto. Dopo una giornata di lavoro è bello farsi coccolare dalle sue braccia…”

Al secondo posto la portoghese Isabella con 189 recensioni e al terzo posto la thailandese Angie Thai con 161 recensioni. 

Per la categoria Miglior Escort Trans, invece le preferenze sono state per l’italiana Chanel, 111 recensioni. Un utente ha scritto di lei: “Sognavo da così tanto tempo di stare con una bella ragazza come questa. E sono così felice di aver scelto di stare con lei. L'ho incontrata martedì pomeriggio a casa sua in una villetta molto carina e molto appartata. Alta, slanciata, indossava una lingerie nera sexy, da farmi eccitare immediatamente, dopo una piccola conversazione siamo passati all'opera dove si è dimostrata una grande professionista, ma con atteggiamenti da ragazza. Un incontro bello, rilassante e senza fretta…”

Al secondo posto l’italiana Roberta Tx, con 41 recensioni, e al terzo posto la brasiliana Patricia Ginnari, con 21 recensioni. 

Il 2021 si è rivelato un anno di crescita per il settore del sesso a pagamento. Questo lo si vede dai numeri registrati da Escort Advisor: 122.875 recensioni scritte, 35.719.757 di utenti unici annui, 329.541.852 profili escort visualizzati e 565.692430 ricerche sul sito.

Inoltre, lo scorso anno sono stati più di 107.664 i numeri di cellulare di escort visibili su Escort Advisor, pari a circa l’82% del totale delle escort che si sono pubblicizzate online nel 2021.

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Escort Advisor è il primo sito di recensioni di escort in Europa, in Italia ha oltre 3 milioni e 800 mila utenti unici mensili ed è tra i siti più visitati in assoluto (fonte: Alexa.com - Amazon). È attivo inoltre in Spagna, Germania e UK. 

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'1 gennaio 2022.  Solo un Paese come l'Italia, cattolico, col culto della famiglia e con un rapporto totalizzante nel bene e nel male col sesso, come peraltro col sacro, poteva riempire la sua cinematografia di così tante ragazze di vita e protettori, forse addirittura più di preti e religiose. Del resto il mélo italico si muove tra due poli estremi, la suora e la prostituta. Si calcola che nella nostra filmografia, solo tra il 1945 e il 1965, in oltre duecento pellicole - il 10 per cento dei film usciti in sala, una cifra esorbitante - compaiono prostitute, squillo, escort o ragazze di vita, in vari ruoli, piccoli o grandi, ma incredibilmente sempre scritti benissimo: segno che sceneggiatori e registi conoscevano direttamente la materia. La lucciola non è una comparsa, ma una star. 

Esempi: dive come Giulietta Masina, Alida Valli, Silvana Pampanini, Anna Magnani (Mamma Roma, 1962: abbandonare il mestiere e diventare una donna rispettabile non è così facile...), Sophia Loren (inarrivabile sia come squillo d'alto bordo nel celebre episodio «Mara» di Ieri, oggi, domani, 1963, sia come Filumena Marturano in Matrimonio all'italiana, 1964), Claudia Cardinale (l'ex prostituta Jill in C'era una volta il West di Sergio Leone, 1968) hanno svestito, alcune fra loro più volte nella carriera, gli abiti delle belle di notte odi giorno. 

Nel caso migliore erano eleganti guêpière, nei peggiori, collant da due soldi smagliati. Così era, ed è, l'Italia. Come si dice? Paese di sante e di puttane. Quando non c'era il MeToo. Mantidi, marianne, mamme, felliniane (dalle Notti di Cabiria alle peripatetiche del Satyricon), mantenute, maîtresse, Massaggiatrici (di Lucio Fulci, 1962) e «segnorine», come le chiamavano i soldati americani...

Alessandro Chetta, filmaker e studioso di cinema, ce le fa rincontrare tutte nel suo saggio Splendori e miserie delle prostitute nel cinema italiano (Robin), incentrato sopratutto sul periodo compreso fra la guerra e gli anni '70, un libro sfogliando il quale, tra le altre cose, si scopre che...

I film degli ultimi anni di guerra e quelli neorealisti - il cinema come «documento e interpretazione» con la sua ossessione per il sociale - sono quelli che più di tutti hanno assoldato professioniste del sesso: soldati, povertà e fame erano elementi che innegabilmente alimentavano il mestiere.

Si segnala il filone delle pellicole ambientate al Tombolo, la pineta fra Pisa e Livorno che nel '44-46 richiamò migliaia di donne che si davano alla prostituzione. Tombolo, paradiso nero (1947) di Giorgio Ferroni o Senza pietà (1948) di Alberto Lattuada. 

Le «peccatrici», professioniste o occasionali, erano presenti nei film in modo così massiccio che anche nell'Italia democristiana degli anni '50 passavano indenni i controlli ministeriali. 

 Il sesso in vendita alla fine era quello che nuoceva meno al comune senso del pudore. E forse il moralismo comunista era anche più pruriginoso del sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega sul cinema Giulio Andreotti, per il quale le prostitute commettevano un peccato già rimesso dalla Storia e quindi tollerabile.  Ma perché così tante passeggiatrici lungo i viali del nostro cinema? Forse la risposta migliore è nello scambio di battute, firmato da Luciano Salce, sceneggiatore del film Il mantenuto (1961), fra Ugo Tognazzi e Ilaria Occhini: «Ma perché ti sei messa a fare quel mestiere?». «Perché è facile».

Alcuni titoli emblematici. Persiane chiuse diretto nel 1951 da Luigi Comencini e girato a Torino: le case di tolleranza all'epoca avevano l'obbligo di lucchetto alle finestre perché ciò che accadeva dentro le stanze del piacere non disturbasse il pubblico decoro, da cui l'espressione «case chiuse». 

La tratta delle bianche, del '52, sempre di Comencini: pellicola fra il poliziesco e il drammatico sul traffico di donne. Le soldatesse, del '65, di Valerio Zurlini; trama: durante l'occupazione italiana della Grecia un ufficiale (Tomas Milian) riceve l'ordine di accompagnare alle rispettive sedi un gruppo di dodici prostitute destinate ai militari. 

Film d'amore e d'anarchia, prima parte del chilometrico titolo del film del '73 di Lina Wertmüller il cui seguito è: Ovvero "Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza...". Poi naturalmente verrà anche Paprika di Tinto Brass, anno di ubertosa grazia 1991.

Fra le tante, due. In Campane a martello (1949) di Luigi Zampa un gruppo di «segnorine» salutano commosse gli ultimi marines in partenza dall'Italia. Una di loro dice all'amica: «Senti, io me ne vado». E l'altra: «E aspetta, no? Lasciameli guarda' nantro po'... fino alla prossima guerra chi li rivede più?». In Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy dalle finestre - per una volta senza lucchetto- di una casa chiusa spunta il tricolore e una voce: «'A guerra l'hanno vinta pure 'e zoccole».

Alida Valli (nata a Pola, come la Paprika-Debora Caprioglio di Tinto Brass...) interpreta «una di quelle» per ben tre volte, ma sempre prostituendosi per giusta causa: per salvare un figlio (La vita ricomincia), o l'uomo che ama (Ultimo incontro) o il matrimonio (Noi vivi).

In Miss Italia di Duilio Coletti il personaggio di Lilly (ragazza molto schietta: «Quando portavo a casa le scatolette e il tabacco, nessuno mai mi domandava come li avevo avuti... eppure ora si ricordano il resto»), è interpretata da Constance Dowling, l'attrice statunitense di cui si innamorò Cesare Pavese. Il film esce nel 1950, anno in cui lo scrittore muore suicida.

Arrangiatevi, film del 1959 diretto da Mauro Bolognini, non è solo un'opera selezionata tra i 100 film italiani da salvare; ma anche il miglior instant movie - insieme forse a Adua e le sue compagne, del '60 - sulla celebre legge Merlin, passata nel 1958. Il film si conclude con Peppino De Filippo che dalla finestra grida ai militari - i quali hanno scambiato la sua palazzina per un casino - che ormai quelle case le hanno chiuse. «E ora, Arrangiatevi!». Appunto.