Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA SOCIETA’
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA SOCIETA’
INDICE PRIMA PARTE
AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.
Le profezie per il 2022.
I festeggiamenti di capodanno.
Il palindromo.
Il Primo Maggio.
Il Ferragosto.
73 anni dalla tragedia di Superga.
65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.
60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.
52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
51 anni dalla morte di Louis Armstrong.
50 anni dalla morte di Dino Buzzati.
49 anni dalla morte di Bruce Lee.
49 anni dalla morte di Anna Magnani.
45 anni dalla morte di Elvis Presley.
43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.
42 anni dalla morte di Steve McQueen.
40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.
40 anni dalla morte di Marty Feldman.
40 anni dalla morte di John Belushi.
40 anni dalla morte di Beppe Viola.
37 anni dalla morte di Francesca Bertini.
34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.
33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.
33 anni dalla morte di Olga Villi.
32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
31 anni dalla morte di Miles Davis.
30 anni dalla morte di Marisa Mell.
29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.
28 anni dalla morte di Moana Pozzi.
28 anni dalla morte di Kurt Cobain.
28 anni dalla morte di Massimo Troisi.
27 anni dalla morte di Mia Martini.
25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.
25 anni dalla morte di Gianni Versace.
25 anni dalla morte di Ivan Graziani.
24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.
24 anni dalla morte di Frank Sinatra.
23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
22 anni dalla morte di Antonio Russo.
22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.
20 anni dalla morte di Layne Staley.
20 anni dalla morte di Alex Baroni.
20 anni dalla morte di Umberto Bindi.
20 anni dalla morte di Carmelo Bene.
19 anni dalla morte di Alberto Sordi.
19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.
18 anni dalla morte di Ray Charles.
16 anni dalla morte di Alida Valli.
15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.
15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.
14 anni dalla morte di Paul Newman.
14 anni dalla morte di Dino Risi.
13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.
12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.
11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.
10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.
10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.
10 anni dalla morte di Whitney Houston.
10 anni dalla morte di Lucio Dalla.
10 anni dalla morte di Piermario Morosini.
10 anni dalla morte di Renato Nicolini.
10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.
10 anni dalla morte di Gore Vidal.
9 anni dalla morte di Pietro Mennea.
9 anni dalla morte di Virna Lisi.
9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.
8 anni dalla morte di Robin Williams.
7 anni dalla morte di Pino Daniele.
7 anni dalla morte di Francesco Rosi.
6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.
6 anni dalla morte di Lou Reed.
6 anni dalla morte di George Michael.
6 anni dalla morte di Prince.
6 anni dalla morte di David Bowie.
6 anni dalla morte di Bud Spencer.
6 anni dalla morte di Marta Marzotto.
5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.
5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.
4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.
4 anni dalla morte di Luigi Necco.
3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.
3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.
3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.
3 anni dalla morte di Nadia Toffa.
3 anni dalla morte di Antonello Falqui.
2 anni dalla morte di Ennio Morricone.
2 anni dalla morte di Diego Maradona.
2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.
2 anni dalla morte di Gigi Proietti.
2 anni dalla morte di Ezio Bosso.
2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.
2 anni dalla morte di Kobe Bryant.
1 anno dalla morte di Lina Wertmüller.
1 anno dalla morte di Max Mosley.
1 anno dalla morte di Gino Strada.
1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.
1 anno dalla morte di Ennio Doris.
1 anno dalla morte di Paolo Isotta.
1 anno dalla morte di Franco Battiato.
I Beatles.
Duran Duran.
I Nirvana.
Gli ABBA.
I Queen.
Emerson Lake & Palmer.
I Simpson.
Il Maggiolino.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Avvocato…
Quelli che se ne vanno…
John Elkann.
Lapo Elkann.
INDICE SECONDA PARTE
I MORTI FAMOSI.
Vivi per sempre.
Le morti del Cazzo…
Il Necrologio.
E’ morto il giornalista Alessio Viola.
È morto il cantante Terry Hall.
E’ morto il regista Mike Hodges.
È morto lo storico Asor Rosa.
E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.
E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.
E’ morta la cantante Terry Hall.
E’ morto il produttore Alex Ponti.
Addio all’attore Lando Buzzanca.
E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.
È morto il fotografo Carlo Riccardi.
È morto il compositore Angelo Badalamenti.
È morto il cantante Ichiro Mizuki.
È morto Romero Salgari.
E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.
Morto l’attore Gary Friedkin.
E’ morta l’attrice Kirstie Alley.
Morto lo scrittore Dominique Lapierre.
E’ morto il pilota Patrick Tambay.
E’ morto il sarto Cesare Attolini.
E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.
E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.
E’ morto l’attore Brad William Henke.
E’ morto l’attore Frank Vallelonga.
È morto il politico Gerardo Bianco.
È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.
È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.
E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.
E’ morta la cantante e attrice Irene Cara.
Addio allo stilista Renato Balestra.
Addio al sarto Cesare Attolini.
Morto l’attore Mickey Kuhn.
È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.
E’ morto il cantautore Pablo Milanés.
E’ morta l’attrice Nicki Aycox.
Morto il filosofo Fulvio Papi.
E’ morto il regista Jean-Marie Straub.
E' morto il giornalista Gianni Bisiach.
E’ morto il cantante anni Nico Fidenco.
E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.
E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.
E’ morta la scienziata Alma Dal Co.
Addio all’industriale Vallarino Gancia.
È morto il musicista Keith Leven.
Morto il manager Luca Panerai.
E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.
E’ morta la musicista Mimi Parker.
È morto il musicista Carmelo La Bionda.
È morto il musicista Aaron Carter.
E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.
E’ morto il batterista Marino Rebeschini.
Morto il manager Franco Tatò.
Morto il manager Mauro Forghieri.
È morta la scrittrice Julie Powell.
È morto lo stuntman Holer Togni.
È morto il senatore Domenico Contestabile.
E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.
E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.
E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.
Morto il critico Marco Vallora.
Addio al critico Franco Fayenz.
E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.
E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.
Addio all’attore Ron Masak.
E’ morto il cantante Franco Gatti.
E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.
È morta la cantante Christina Moser.
E' morto l'attore Robbie Coltrane.
E’ morta Jessica Fletcher.
E’ morto il filosofo Bruno Latour.
E’ morta la cantante Jody Miller.
E’ morta la stilista Franca Fendi.
E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.
E’ morto l’industriale Armando Cimolai
E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz.
Morto lo storico Paul Veyne.
E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.
Morto il regista Franco Dragone.
E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.
Morto lo scrittore Jim Nisbet.
È morto il rapper Coolio.
Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.
Morto il comico Bruno Arena.
E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.
E’ morta l’attrice Anna Gael.
E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.
E’ morta l’attrice Kitten Natividad.
È morta la scrittrice Hilary Mantel.
È morta l’attrice Louise Fletcher.
E’ morto il tronista Manuel Vallicella.
E’ morto l’attore Henry Silva.
È morto il playboy Beppe Piroddi.
Morto l’attore Jack Ging.
È morta l’attrice Irene Papas.
E’ morto l’industriale Andrea Riello.
E’ morto il regista Jean-Luc Godard.
Morto il regista Alain Tanner.
Addio al giornalista Piero Pirovano.
E' morto il fotografo William Klein.
È morto lo scrittore Javier Marias.
E’ morto il giornalista Roberto Renga.
Morto il latinista Franco Serpa.
E’ morto l’attore Claudio Gaetani.
È morto il regista Just Jaeckin.
Morta la poetessa Mariella Mehr.
Morto lo scrittore Oddone Camerana.
E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.
Addio al radioastronomo Frank Drake.
E’ morto il cantante Drummie Zeb.
E’ morto il pittore Gennaro Picinni.
È morta l’attrice Charlbi Dean.
È morto Camilo Guevara.
E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.
Morto il giornalista Giulio Giustiniani.
L’addio al politico Mauro Petriccione.
E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi.
Morta l’attrice Paola Cerimele.
E' morto il fotografo Tim Page.
Morta la scienziata Laura Perini.
È morto l’attore Enzo Garinei.
Addio al magistrato Domenico Carcano.
E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey.
E’ morto il comico Gino Cogliandro.
È morto il comico Vito Guerra.
È morta la comica Anna Rita Luceri.
È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.
E’ morta la stilista Hanae Mori.
È morto il regista Wolfgang Petersen.
E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.
È morto lo scrittore Nicholas Evans.
E’ morta l’attrice Robyn Griggs.
E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro.
Addio all’attrice Denise Dowse.
E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.
E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.
E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.
E’ morta l’attrice Anne Heche.
E’ morto il calciatore Claudio Garella.
È morto lo stilista Issey Miyake.
È morto l’attore Roger E. Mosley.
E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.
E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.
Morto l’attore Alessandro De Santis.
E’ morto l’attore John Steiner.
È morta l’attrice Nichelle Nichols.
E’ morto il giornalista Omar Monestier.
E’ morto l’attore Antonio Casagrande.
E’ morto il cestista Bill Russell.
Morto l’attore Roberto Nobile.
Morto il pittore Enrico Della Torre.
E’ morta la sciatrice Celina Seghi.
E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.
E’ morto lo scienziato James Lovelock.
E’ morto lo scrittore Pietro Citati.
E’ morto l’attore David Warner.
È morto l’attore Paul Sorvino.
Morto il regista Bob Rafelson.
E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.
E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.
È morto il linguista Luca Serianni.
È morta la cantante Shonka Dukureh.
È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.
E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
È morta Ivana Trump.
È morto il giornalista Eugenio Scalfari.
E’ morto il mago Tony Binarelli.
Addio il giornalista Amedeo Ricucci.
E’ morto il compositore Monty Norman.
E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.
E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.
E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.
E’ morto l’attore Tony Sirico.
E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.
È morto l’attore James Caan.
E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.
E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.
E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.
È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.
E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.
E’ morto il regista Peter Brook.
E' morta la cantante Irene Fargo.
E’ morto l’attore Joe Turkel.
E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.
E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.
E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.
E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.
E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.
E’ morto il musicista James Rado.
E' morto l'architetto Jordi Bonet.
E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.
È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.
E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.
E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.
È morto l’attore Philip Baker Hall.
È morto il produttore musicale Piero Sugar.
E’ morta la cantante Julee Cruise.
E’ morta la pittrice Paula Rego.
E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.
E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.
Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.
E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.
È morto il bassista Alec John Such.
È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund
E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata.
E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.
Morto lo scrittore Joseph Zoderer.
Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.
Addio all’attore Franco Ravera.
Morto il partigiano Carlo Smuraglia.
Morto il conte Manfredi della Gherardesca.
E’ morto il fantino Lester Piggott.
E’ morto l’attore Marino Masé.
E’ morto lo scrittore Boris Pahor.
E’ morto il musicista Alan White.
È morto l'attore John Zderko.
E’ morto il musicista Andrew Fletcher.
E’ morto l’attore Ray Liotta.
E’ morto il cardinale Angelo Sodano.
E’ morto l’attore Bo Hopkins.
I MORTI FAMOSI.
È morto Ciriaco De Mita.
E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.
E’ morto il taverniere Guido Lembo.
Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.
E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.
E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.
È morto l’attore Fred Ward.
E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.
E’ morto il musicista Richard Benson.
E’ morto l’attore Mike Hagerty.
E’ morto l’attore Enzo Robutti.
È morto l’attore Lino Capolicchio.
È morto il fotografo Ron Galella.
Addio alla cantante Naomi Judd.
Addio all’attrice Jossara Jinaro.
È morto il procuratore Mino Raiola.
E' morto il politologo Percy Allum.
Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.
E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.
E’ morto l’industriale Antonio Molinari.
È morto il cantante Marco Occhetti.
Morto Paolo Mauri.
È morto l’attore Jacques Perrin.
È morta l'attrice Ludovica Bargellini.
È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.
È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.
E’ morta l’attrice Catherine Spaak.
E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.
E’ morta la giornalista Giusi Ferré.
È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi.
E’ morto il calciatore Freddy Rincon.
E’ morto l’attore Michel Bouquet.
E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.
È morto l’attore Gilbert Gottfried.
E’ la storica Morta Chiara Frugoni.
E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.
E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.
E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.
E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.
E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.
E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.
È morto Tom Parker.
Addio al giornalista Franco Venturini.
È morto l’attore Lars Bloch.
E’ morto l’attore Gianni Cavina.
E’ morto il batterista Taylor Hawkins.
Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.
E' morto il giornalista Sergio Canciani.
E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.
Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.
Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.
E' morto l’attore William Hurt.
E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.
Addio al giornalista Stefano Vespa.
E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.
E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.
E’ morto Antonio Martino.
Morto l’attore John Stahl.
E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.
E’ morto il cantante Gary Brooker.
Addio al cantante Mark Lanegan.
E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.
E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli.
E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.
E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.
E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.
Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.
Morto il pugile Bepi Ros.
Addio al cantante Fausto Cigliano.
Morto il cantante Amedeo Grisi.
E’ morto il doppiatore Tony Fuochi.
E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman.
E’ morto l’artista John Wesley.
E’ morto il musicista Ian McDonald.
Addio a Betty Davis, la regina del Funk.
E’ morta Donatella Raffai.
E’ morto l’attore Bob Saget.
E’ morto Luc Montagnier.
E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.
Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.
Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema.
Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".
E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.
E’ morta Monica Vitti.
È morto l’attore Paolo Graziosi.
E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini.
E' morto Tito Stagno.
E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.
E' morto l’attore Renato Cecchetto.
Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.
È morto il faccendiere Flavio Carboni.
E’ morto lo stilista Thierry Mugler.
E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.
Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.
Addio al giornalista Sergio Lepri.
E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri.
E’ morto il cantante Meat Loaf.
E’ morto l’attore Hardy Kruger.
E’ morto l’attore Camillo Milli.
E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.
E’ morta l’attrice Yvette Mimieux.
E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.
E’ morto lo stilista Nino Cerruti.
E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.
E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.
È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.
E’ morta Silvia Tortora.
E’ morta Margherita di Savoia.
Addio all’attore comico Bob Saget.
E’ morto Michael Lang.
E’ morto l’attore Mark Forest.
E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.
E’ morto il regista Mariano Laurenti.
E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.
E’ morto l’attore Sidney Poitier.
E’ morto il regista Peter Bogdanovich.
E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.
È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.
È morto il giornalista Fulvio Damiani.
INDICE QUINTA PARTE
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le stirpi reali.
Gli scandali dei Windsor.
Vittoria.
Elisabetta.
La morte della Regina.
Filippo.
Carlo.
Camilla.
Andrea.
Anna.
Diana.
William e Kate.
Harry e Meghan.
LA SOCIETA’
PRIMA PARTE
AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.
· Le profezie per il 2022.
Nostradamus dei Balcani, terribile profezia: "Tornerà e farà milioni di morti". Libero Quotidiano il 17 agosto 2022
Da qualche giorno sui social sono tornate d'attualità le profezie di Baba Vanga, la sensitiva bulgara che dopo aver perso la vista avrebbe speso la sua vita a profetizzare il futuro. Scomparsa nel 1996, le teorie e le previsioni della sensitiva continuano ad essere di grande attualità soprattutto sui social network. E questa estate di elevata siccità che ha di fatto reso impossibile coltivare la terra sarebbe stata prevista dalla "Nostradamus dei Balcani".
La sensitiva aveva infatti previsto temperature fuori controllo con siccità e una scarsità d’acqua tale da costringere i governi a trovare soluzioni in tempi rapidi a questo problema. Inoltre, sempre la sensitiva, aveva previsto le inondazioni in Australia che si sono verificate qualche tempo fa. Ma a far tremare sono le sue previsioni per la seconda parte del 2022. La sensitiva infatti avrebbe previsto il ritorno di un virus dalla Siberia che potrebbe provocare milioni di vittime.
Un virus "dormiente" e rimasto "congelato" nel passato, potrebbe tornare a causa del riscaldamento globale. Va detto però che secondo alcuni studi l'attendibilità delle sue previsioni sarebbe intorno all'85 per cento. Ad esempio aveva profetizzato una guerra nucleare in Europa tra il 2010 e il 2014, cosa mai avvenuta. E si spera che la sensitiva si sia sbagliata ancora riguardo a questo ritorno di un virus molto pericoloso.
Nostradamus, "la morte di una Reale": la profezia sconvolge il mondo. Sergio De Benedetti Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
Mario Gilbert Priester Reading è stato uno scrittore e divulgatore britannico, nato a Bournemouth (Dorset) il 10 agosto 1953 e deceduto a Londra il 29 gennaio 2017. Specializzato nell'interpretazione delle profezie di Nostradamus, il Sunday Times lo scorso 25 settembre ha ripreso alcune affermazioni del Reading riguardo la Regina Elisabetta II, affermando che nel libro "The Complete Prophecies for the Future", edito nel 2006, sarebbe pubblicata una quartina che riguarderebbe proprio il decesso di sua Maestà. Nel libro, un tascabile che praticamente finora era stato acquistato in poche decine di esemplari, Reading non chiarisce quale sia la quartina personalizzata ad Elisabetta II e lascia quindi al lettore il difficile compito di andarla a trovare e "decifrarla".
Già, perché dovete sapere che invece nella settimana 10/17 settembre la pubblicazione è balzata nella classifica dei bestseller con oltre 10mila copie vendute. Le profezie sono scritte dall'astrologo francese in forma esoterica di complicata interpretazione e se ne deduce quindi che gli improvvisati lettori troveranno non poche difficoltà a trovare e "trasformare" la quartina poetica che, più o meno, dovrebbe dire: «La regina Elisabetta II morirà, intorno al 2022, all'età di circa 96 anni». Michel de Nostradame nacque a Saint-Remy-de-Provence il 14 febbraio 1503. Astrologo, scrittore e farmacista, i suoi sostenitori dicono che abbia predetto una serie incredibile di eventi quali, ad esempio, la rivoluzione francese, l'ascesa di Hitler, la bomba atomica e gli attentati alle torri gemelle di New York.
Studente precoce presso l'Università di Avignone nel 1518, studiò latino e greco ma anche matematica, retorica, astronomia e astrologia. Intraprese diversi viaggi per cercare erbe officinali nella speranza di giungere all'elaborazione di un antidoto per debellare la peste. Nel 1529 frequentò l'Università di Montpellier ma venne espulso quando i Docenti seppero delle sue pratiche di speziale, disciplina all'epoca proibita. Tuttavia, nel 1532 venne ufficialmente definito "Dottore" e si dispose ad una "pillola rosa" contro la peste i cui benèfici effetti non sono noti. Sposò lo stesso anno Henriette d'Encausse che gli dette due figli, deceduti purtroppo con la madre nel 1537 proprio a causa del male.
Nel 1547 si stabilì a Salon, Provenza, dove sposò una ricca vedova, Anne Ponsarde, dalla quale ebbe sei figli. Interessato più all'occulto che alla medicina, nel 1550 scrisse un Almanacco annuale e così continuò fino al 1564, sempre scrivendo profezie nel modo accennato ma aggiungendo, per il timore di fanatismi religiosi, parole in varie lingue quali il provenzale, il greco, il latino, l'italiano, l'ebraico, l'arabo e l'occitano. Si disse che in quegli anni avesse elaborato 6.338 profezie. Il suo Segretario, Emìle Chavigny, raccontò che la sera del 1° luglio 1566 augurandogli la buona notte al termine della giornata, si sentì rispondere "addio" e il giorno dopo lo trovò senza vita, ucciso dalla gotta sfociata in idropisia. Quanto alla Regina Elisabetta, profezia o no, riposi in pace poichè miliardi di ammiratori veglieranno sudi lei.
Le profezie di Nostradamus bestseller in Gran Bretagna: "Ha predetto l'anno della morte di Elisabetta". Redazione cultura La Repubblica il 25 Settembre 2022.
In un libro di qualche anno fa lo scrittore inglese Mario Reading interpreta le quartine dell'astrologo francese, inclusa quella sulla data della scomparsa della regina. In pochi giorni è balzato in testa alle classifiche
Tutto quel che riguarda la regina Elisabetta, scomparsa lo scorso 8 settembre, riscuote in questi giorni un enorme interesse popolare. A stupire non solo i tabloid inglesi, ma anche il prestigioso Sunday Times, è però nelle ultime ore un caso editoriale: un libro uscito parecchi anni fa e scritto da Mario Reading, dal titolo Nostradamus: The Complete Prophecies for the Future, del 2006, è infatti in grande ascesa nelle vendite.
Secondo Reading una delle quartine può essere interpretata come “la Regina Elisabetta II morirà, nel 22 circa, all’età di circa 96 anni”. Insomma, l’idea che l’astrologo francese, oltre 450 anni fa, possa aver predetto con tale precisione la scomparsa di "the Queen", ha fatto lievitare le vendite del libro: nella settimana precedente alla morte di Sua Maestà, il libro ha venduto soltanto 5 copie; nella settimana conclusasi il 17 settembre, invece, ne ha vendute circa 8000, entrando nella così nella classifica dei tascabili. Secondo i suoi estimatori, Nostradamus avrebbe predetto il Grande Incendio di Londra, l'ascesa al potere di Hitler e le guerre che hanno colpito l'Europa, incluso l'attuale conflitto in Ucraina. La maggior parte delle previsioni di Nostradamus sono contenute nel suo famoso libro Les Prophéties, che contiene 942 previsioni sotto forma di quartine, ispirate ai testi biblici e sapienziali.
Dopo aver viaggiato il mondo, venduto libri rari e gestito una scuderia di cavalli da polo in Gloucestershire, Mario Reading si è dedicato alla scrittura. Ha scritto sei romanzi, tra cui la trilogia dell'Anticristo che include Il codice Maya, Le profezie perdute e Il terzo Anticristo, titoli pubblicati anche in Italia.
Maya, la profezia sulla fine del mondo nel 2012? Errore di battitura: "Apocalisse nel 2022", ecco quando. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022
La fine del mondo potrebbe essere molto più vicina di quanto pensiamo? La profezia dei Maya sulla catastrofe che si sarebbe dovuta abbattere sul pianeta nel 2012 e che poi non c'è stata sarebbe stata sbagliata. Nulla, infatti, è successo quell'anno. Nel frattempo sono trascorsi 10 anni tra pandemie, terremoti e guerre. Ma nessuna fine del mondo. Adesso si parla dell'ipotesi che la profezia si riferisse in realtà al 2022 e non al 2012.
Stando al Messaggero online, infatti, che cita gli ultimi studi sulla storia dell'America Latina antica, a creare un certo caos sarebbe stato un errore di battitura, che ha portato alla confusione tra i due anni, 2012 e 2022. Pare, insomma, che la data prevista dai Maya fosse sbagliata e che quella giusta fosse invece molto più vicina a noi. Nello specifico, l'Apocalisse potrebbe arrivare in un giorno compreso nel periodo che va dal 21 giugno al 31 dicembre 2022.
Ovviamente si tratta di una profezia e come tale va considerata. In questi casi, infatti, non c'è assolutamente nulla di scientifico. C'è chi è affascinato dalle profezie, chi le teme o le ritiene inquietanti, chi semplicemente le trova curiose. In ogni caso, però, non c'è nulla di certo, anche perché la scienza è tutt'altra cosa.
Nostradamus, la profezia per il 2022. Anno drammatico per l'Italia: "Sette volte appreste", che cosa ha previsto. Libero Quotidiano l'11 dicembre 2021. Ha predetto la rivoluzione francese, la bomba atomica, Adolf Hitler e gli attentati dell'11 settembre 2001. Ma cosa ha presagito per il 2022 Nostradamus? L'astrologo francese conosciuto in tutto il mondo per le sue profezie nelle sei quartine che riguardano l'anno che verrà prevede un'invasione di immigrati, la caduta dell'Unione europea, la morte di Kim Jong un e un terremoto terrificane in Giappone. Ma vediamo nel dettaglio. "Di sangue e fame maggiore calamità / Sette volte appreste alla spiaggia marina/ Monech di fame, luogo preso, prigionia", si legge nella prima quartina. Potrebbe significare che le guerre e i conflitti spingeranno migliaia di persone a migrare. In particolare, Nostradamus vuole dire che sulle spiagge d’Europa arriveranno migranti per sette volte di più del normale. E sarà proprio l'Europa a crollare: "I templi sacri del primo stile romano / Rifiuteranno le fondamenta della Dea”. Secondo Nostradamus insomma potrebbe essere la caduta dell'Unione europea. Inoltre potrebbe esserci una sorta di guerra a Parigi che potrebbe subire un assedio: "Tutt’intorno alla grande Città / Saranno i soldati alloggiati dai campi e dalle città". Secondo gli interpreti delle profezie Nostradamus potrebbe aver previsto anche la morte del dittatore nordcoreano Kim-Jong Un: "L’improvvisa morte del primo personaggio / Porterà un cambiamento e potrà porre un altro personaggio nel regno". Insomma, Kim Jong un potrebbe essere vittima di una morte improvvisa ma essere succeduto da una persona della famiglia. Infine l'astrologo avrebbe presagito per il 2022 un disastroso terremoto in Giappone: "Verso la mezza siccità estrema / Nella profondità dell’Asia diranno terremoto". Un evento che potrebbe verificarsi nelle ore centrali della giornata e potrebbe causare molti danni materiali.
Vittorio Sabadin per lastampa.it il 29 dicembre 2021. Non bastava il Covid: a rovinarci il Capodanno arrivano puntuali anche le profezie di Nostradamus. Il 2022 sarà un anno terribile, caratterizzato da inflazione, fame, cannibalismo, inizio della supremazia dei robot sugli esseri umani, crisi economica con il trionfo delle criptovaulte e siccità seguita da devastanti inondazioni. Il veggente francese ha scritto intorno al 1550 le sue profezie in un modo sufficientemente vago e confuso da prestarsi a decine di interpretazioni, ma la sua figura è stata ammantata nel corso dei secoli da tali aloni di mistero da causare la pubblicazione di decine di libri che si sforzano di venire a capo delle sue inquietanti quartine. Ecco dunque che cosa ci riserva il 2022 secondo le anticipazioni del “New York Daily”.
Tutti sono preoccupati dall’inflazione e dai prezzi dei prodotti alimentari, che segnano ogni giorno nuovi record. Nostradamus lo sapeva già: «Così alto il prezzo del grano – scriveva - / Quell'uomo è agitato / I suoi simili da mangiare nella sua disperazione». La fame causerà episodi di cannibalismo? Gli esseri umani, agitati e disperati, mangeranno i loro simili come si era visto nei film horror sulla fine del mondo? Ancora qualche mese di prezzi alti e di raccolti scarsi e lo sapremo.
I robot, in ogni caso, sono pronti a prendere il nostro posto, secondo gli interpreti delle centurie. «La Luna nel pieno della notte sopra l'alta montagna / La vede il nuovo saggio con un cervello solo / Dai suoi discepoli invitati ad essere immortali / Occhi a sud. Mani nel petto, corpi nel fuoco». Il nuovo saggio immortale con un cervello solo è il robot, destinato a regnare sulla Terra come profetizzato anche da Stephen Hawking, l’astrofisico che ci avvertiva che l’intelligenza artificiale avrebbe causato l’estinzione dell’umanità. E gli occhi a sud? Il “Daily” dà una spiegazione confusa come le quartine di Nostradamus, sostenendo che si tratta di un riferimento a Elon Musk, che ha appena spostato a sud del Texas la sua produzione di robot. I nostri corpi, mani nel petto, sembrano invece destinati a perire nel fuoco, forse per una guerra, forse per un’esplosione, forse per gli incendi che devasteranno il pianeta come hanno già fatto con la California.
Il veggente ha infatti previsto anche le sciagure causate dai mutamenti climatici, che peggioreranno nel 2022": «Per 40 anni l'arcobaleno non si vedrà / Per 40 anni lo si vedrà ogni giorno / La terra asciutta diventerà sempre più arida / E ci saranno grandi inondazioni quando lo si vedrà». Sembra di capire che un lungo periodo di siccità della durata di 40 anni sarà seguito da un analogo periodo di piogge bibliche, che causeranno inondazioni più gravi di quelle che abbiamo visto negli ultimi anni.
Nostradamus invita inoltre a fare attenzione al conto in banca e ai propri investimenti, dando l’impressione di conoscere il potenziale delle criptovalute, i rischi determinati dal crescente debito di tutti i paesi occidentali e quelli connessi alla bolla degli indici di Borsa, da tempo pronta a scoppiare. «Le copie d'oro e d'argento gonfiate – scrive - / Che dopo il furto furono gettate nel lago / Alla scoperta che tutto è esaurito e dissipato dal debito / Tutti gli scritti e le obbligazioni saranno spazzati via».
Bisogna crederci? Molti lo fanno, anche se è evidente che queste profezie sono un esempio di chiaroveggenza retroattiva: volendo, vi si può trovare qualche riferimento all’attualità dopo che le cose sono accadute, e non prima. Nostradamus era lo pseudonimo di Michel de Nostredame o Notre Dame, un astrologo e farmacista nato nel dicembre 1503 in Provenza e morto nel 1566 nella stessa regione a sud della Francia.
Si dice scrivesse in modo confuso usando varie lingue per sfuggire alle persecuzioni dell’Inquisizione, che infatti non lo degnò mai di attenzione. Secondo i suoi estimatori avrebbe predetto la rivoluzione francese, l’avvento al potere di Hitler, l’invenzione della bomba atomica e persino gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Ma si tratta di interpretazioni.
L’unica volta che Nostradamus ha indicato una data precisa, quando profetizzò per il 1792 una lunga e crudele persecuzione religiosa, si è clamorosamente sbagliato. Speriamo sia così anche questa volta, e che inflazione, scarsità di cibo, inflazione, crisi economica e mutamenti climatici siano solo nostre fantasie.
Oroscopo 2022, le previsioni astrologiche di Barbanera l'astrologo che incantò Gabriele D'Annunzio. Franco Bechis su Il Tempo il 30 dicembre 2021. La lettera portava la data del 27 febbraio del 1934, ed era diretta al parroco di Gardone Riviera, don Giovanni Fava. Sotto la firma di Gabriele D'Annunzio, che si compiaceva dello scandalo che stava per provocare nel sacerdote: “La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l'Odissea o l'Iliade (vi è più profonda poesia nell'Odissea che nell'Illiade), o la Bibbia, o Virgilio, o Flacco, o Dante, o l'Alcyone di Gabriele D'Annunzio. Il libro del mio capezzale è quello ove s'aduna 'il fiore dei tempi e la saggezza delle Nazioni': il Barbanera...”. Era una passione del Vate compulsare il più celebre almanacco astrologico, che gli inviava ogni anno in dono la moglie, Maria Hardouin, duchessa di Gallese (fu l'unica sposa di Gabriele, tradita mille volte, madre dei suoi tre figli, separata ma restata amica e confidente fino all'ultimo giorno).
Al Vittoriale sono conservate le copie annuali del Barbanera, sottolineate e appuntate dal poeta, che con una certa superstizione a quelle previsioni si affidava, anche per decidere la celebre impresa di Fiume. Manca una sola edizione dell'almanacco astrologico, ed è la più importante: quella del 1938, che era aperta sul tavolo di D'Annunzio il giorno della sua morte, accanto al capo del poeta reclinato, fulminato da una emorragia cerebrale. Quell'almanacco sparì nel 1975, quando il Vittoriale fu aperto al pubblico e qualche manina lo trafugò facendone perdere le tracce. Non c'è più quella pagina che turbò molto D'Annunzio, sul cambio di luna di fine febbraio, con la fosca previsione annotata a margine con la matita rossa dal poeta: “Gravissimo lutto per la Nazione con la scomparsa di una grande personalità...”. E lutto fu il primo di marzo, ultimo giorno in Terra del Vate.
Il Barbanera è uno dei più antichi almanacchi italiani, pubblicato a Foligno per la prima volta nel 1762, ed è così caro alla storia italiana perché insieme a vaticini assai più fausti e allegri di quello che sottolineò D'Annunzio, trasmetteva la tradizione e i consigli anche minuti dei padri. Ne sono stati affascinati anche altri importanti scrittori come Umberto Eco e Leonardo Sciascia. I lettori de Il Tempo lo conoscono, perché ne possono leggere le rapide e ficcanti previsioni astrali nell'ultima pagina del giornale, con quel linguaggio diretto che lo rende così alla mano e diverso dagli altri oroscopi. A loro per questo fine anno abbiamo riservato una sorpresa: il 31 nel giornale ci sarà un fascicolo da tenere lì sullo scrittoio o sul comodino per tutto il 2022, con le previsioni astrologiche di Barbanera mese per mese su ogni segno zodiacale. Una allegra compagnia, da leggere con un sorriso e magari anche con un pizzico di speranza che non fa male dopo i due anni che ci siamo lasciati alle spalle.
Posso anticiparvi che le previsioni sono di un anno di svolta, e c'è tutta la convenienza nello sperare che Barbanera ci azzecchi. Sugli scudi soprattutto i nati sotto il segno di Ariete, Pesci e Gemelli, ma c'è chi leggerà gli sperati vaticini nelle questioni di cuore o di lavoro. Avendone scorso le bozze, sembra proprio che l'anno che abbiamo davanti per Barbanera sarà di reale svolta. La sua storia secolare dice che di solito ci azzecca, e quindi incrociamo le dita: ne abbiamo davvero bisogno tutti.
· I festeggiamenti di capodanno.
Marino Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 31 dicembre 2021. Solare o lunare, solstiziale o equinoziale, primaverile o invernale, rumoroso o silenzioso, il Capodanno è sempre Capodanno. E da che mondo è mondo non c'è popolo che non lo festeggi. Gli antichi romani legavano i rituali d'inizio del nuovo anno al dio Giano, in latino Ianus, da cui deriva il nome di gennaio, il primo dei mesi.
I popoli del Nord Europa festeggiavano il giro di boa stagionale mascherandosi da animali per propiziarsi la natura e le sue specie. In quasi tutti i casi, però, in Occidente come in Oriente, gli elementi fissi di questo rito di passaggio stagionale sono da sempre fuoco, luce e rumore. Il baccano rituale serviva a scacciare gli spiriti maligni, a mettere in fuga tutti i demoni cattivi. Da questo uso, peraltro, deriva la parola pandemonio.
I falò e le lampade accese avevano invece la funzione di illuminare il cammino dell'anno che entrava. Poi con l'invenzione della polvere da sparo luci e suoni sono diventati una cosa sola dando origine ai nostri botti di Capodanno. Non è un caso che ancora oggi, nonostante i richiami alla prudenza, la notte di San Silvestro città e paesi si accendano come polveriere.
È una autentica febbre del fuoco che ogni anno miete vittime, tant'è vero che i notiziari del primo gennaio iniziano quasi sempre con l' elenco degli infortuni. Ma ci sono anche capodanni alla rovescia, come quello di Bali, in Indonesia. Che viene celebrato nel silenzio più assoluto. Uno stand by della vita per ingannare le potenze del male facendo credere loro che l' isola sia disabitata. È una giusta pausa dell' anima. Fra due giorni potremmo provarci anche noi. Forse riusciremmo a sentire il suono del silenzio.
Da ilmessaggero.it il 22 febbraio 2022.
Il 22 febbraio 2022 sarà un giorno particolare: è l'ultima data palindroma fino al 2030. La data 22 02 2022 è infatti simmetrica: potrà essere letta specularmente, sia da sinistra a destra che al contrario, senza perdere il suo significato.
Cosa significa "palindromo"
Il termine palindromo viene dall'unione di due parole del greco antico "palin", che significa "indietro", e "dramein", correre. Comunemente indica una sequenza di caratteri che, letta al contrario, rimane invariata. Per esempio, in italiano: "Ai lati d'Italia" o il nome "Anna". Secondo una leggenda l'inventore e il primo virtuoso del genere sarebbe stato il poeta greco Sotade, vissuto ad Alessandria d'Egitto nel III secolo.
In letteratura si possono trovare diversi esempi di palindromi: tra gli esempi più famosi si trova sicuramente il verso latino attribuito a Virgilio "in girum imus nocte et consumimur igni", ovvero "andiamo in giro di notte e siamo arsi dal fuoco".
Il 22 febbraio 2022 sarà un giorno particolare: è l'ultima data palindroma fino al 2030. La data 22 02 2022 è infatti simmetrica: potrà essere letta specularmente, sia da sinistra a destra che al contrario, senza perdere il suo significato.
Cosa significa "palindromo"
Il termine palindromo viene dall'unione di due parole del greco antico "palin", che significa "indietro", e "dramein", correre. Comunemente indica una sequenza di caratteri che, letta al contrario, rimane invariata. Per esempio, in italiano: "Ai lati d'Italia" o il nome "Anna". Secondo una leggenda l'inventore e il primo virtuoso del genere sarebbe stato il poeta greco Sotade, vissuto ad Alessandria d'Egitto nel III secolo. In letteratura si possono trovare diversi esempi di palindromi: tra gli esempi più famosi si trova sicuramente il verso latino attribuito a Virgilio "in girum imus nocte et consumimur igni", ovvero "andiamo in giro di notte e siamo arsi dal fuoco".
Curiosità, le altre date palindrome
Si tratta di una particolarità già accaduta altre sei volte in questo secolo, 10-02-2001, 20-02-2002, 01-02-2010, 11-02-2011 e 21-02-2012 e il 02.02.2020. In questo secolo accadrà altre 22 volte: l’ultima sarà il 29-02-2092, un anno bisestile.
La data speciale scelta per "il raduno dei gemelli d'Italia"
Questa data speciale è stata scelta anche per celebrare un evento curioso: ad Altavilla Irpina si terrà il secondo raduno dei "Gemelli d'Italia" (il primo è avvenuto in un'altra data palindroma, il 2 febbraio 2020).
Il raduno è organizzato dal comune di Altavilla Irpinia e prevede dei riconoscimenti speciali per i gemelli più somiglianti. Perchè viene celebrato proprio in questa cittadina? Perchè tradizionalmente circola la leggenda che in città ci sia un numero stranamente alto di parti gemellari, come testimonierebbe anche il culto dei Santi gemelli Cosma e Damiano.
A confermarlo c'è anche uno studio anagrafico condotto dallo storico Giancarlo Mauro che attesterebbe che tra il 1802 ed il 1950 nel paese irpino siano nati 552 gemelli, una media superiore al 2% della popolazione. Tra gli eventi organizzati, l'idea di raccogliere foto per creare una parete con coppie di fratelli uguali da tutto il mondo.
Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.
Si sono esibiti con il passamontagna in testa, davanti a una bandiera delle Brigate Rosse, mettendo in musica trap versi come «Zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una Renault 4», con la stella a cinque punte a incorniciare il nome della band, "P38".
Così i "trapper brigatisti" si sono presentati il 1° maggio sul palco dello storico circolo Arci "Tunnel" di Reggio Emilia, davanti a una sessantina di persone, in una tappa del loro Br Tour.
Nella terra d'origine di fondatori delle Br, come Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Tonino Loris Paroli, il concerto adesso viene definito «un vero insulto alla memoria delle vittime» dal sindaco Luca Vecchi. Uno schiaffo a chi ancora fa i conti con il lutto, come Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ucciso nel 2002 a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse. «Le cose schifose sono due: la prima è che il titolare del locale li ha difesi dopo l'esibizione - ha scritto Lorenzo sui social - e la seconda è che non è la prima volta che questo "gruppo" viene invitato nei locali».
Il tour dei trapper aveva già toccato Roma, Bergamo, Padova e Bologna, ma la ribalta concessa da un circolo Arci ha provocato una vera bufera. «È successa una cosa gravissima, noi ci dissociamo totalmente - dice il presidente regionale Arci, Massimo Maisto, dopo che il presidente del circolo aveva minimizzato parlando di provocazione artistica - Questo non è un gioco, siamo un'associazione nonviolenta e pacifista e non dimentichiamo cosa sono stati gli anni di piombo in termini di morte e dolore».
I componenti del gruppo, che si firmano Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Yung Stalin, non hanno trovato di meglio che rispondere con un comunicato delirante: «Aldo Moro è stato un morto, come lo sono i morti di overdose, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente».
Un terribile salto all'indietro, a pagine di storia che si speravano chiuse. Sui concerti del gruppo adesso sono in corso accertamenti della Digos, su disposizione dell'autorità giudiziaria. Mentre i versi terribili, che rievocano quella stagione di violenza cieca, suonano anche su You Tube.
Rap Br dei P38 Gang, indagato presidente circolo Arci. Maria Fida Moro: "Denuncio quella band". La Repubblica il 6 Maggio 2022.
La figlia dell'onorevole assassinato dai terroristi adirà alle vie legali contro il gruppo che inneggia alle Brigate Rosse. Denunciati anche a Pescara dal figlio di un'altra vittima, Giovanni D'Alfonso. Il presidente del circolo Arci 'Il Tunnel' di Reggio Emilia che il primo maggio ha ospitato il concerto della band 'P38 - La Gang' è indagato per istigazione a delinquere. Secondo quanto si apprende ne risponderebbe in concorso con i componenti del gruppo musicale, che nei testi si ispira alle Brigate Rosse, che però sarebbero ancora da identificare, dal momento che si esibiscono a volto coperto. Lo stesso Vicini commenta sui social un avviso ricevuto nell'ambito dell'indagine seguita dalla Digos di Reggio Emilia.
Martedì è previsto un presidio di solidarietà dei Carc davanti alla Questura per l'interrogatorio di Vicini.
"Intendo agire per vie legali. Qui non si tratta di libertà di pensiero, ma è istigazione al terrorismo. Mio padre, Aldo Moro, era il contrario di tutto ciò che c'è in quei testi, altrimenti sarebbe stato comprato come altri. Invece è stato ucciso. E ancora oggi in Italia e in Europa paghiamo l'assenza della sua politica lungimirante".
Così, alla Gazzetta di Reggio, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista democristiano ucciso dalle Br, annuncia l'intenzione di affidarsi al suo legale per valutare gli estremi di una denuncia nei confronti della band P38 - La Gang.
"Solo chi è passato per un dolore del genere può davvero capire cosa si prova e può capire che anche una canzone può avere esiti volgari e pericolosi - aggiunge Maria Fida Moro - Mio padre era una persona ad esempio che non era assolutamente attaccata al denaro, che non ha mai accettato regali e usava l'indennità parlamentare per far studiare i bambini poveri del sud. Di tutto questo ci si dimentica, spesso si dimenticano anche le persone aiutate, ora diventate adulte. Se fosse stato attaccato al denaro non sarebbe mai morto ammazzato. Invece era attaccato a solidi principi giuridici del fare il bene e non il male, sapendo che, ahimè, proprio facendo il bene sarebbe stato ammazzato. Purtroppo lo ha sempre saputo".
I quattro componenti del gruppo sono stati inoltre denunciati per apologia di reato dalla Digos di Pescara in riferimento alla loro esibizione al circolo Arci Scumm nel capoluogo adriatico la sera dello scorso 25 aprile. A riferirlo è l'edizione abruzzese de Il Messaggero.
Sulla vicenda sono arrivati due esposti in procura, uno dei quali a firma di Bruno D'Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni il carabiniere pennese di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse l 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Denuncia per ora contro ignoti visto che i componenti del gruppo sono anonimi: adottano nomi di fantasia e indossano passamontagna bianchi. Per identificarli anche dopo la seconda esibizione a Reggio Emilia lo scorso primo maggio è al lavoro la direzione centrale Anticrimine della Polizia.
Michele Serra per “la Repubblica” il 6 maggio 2022.
Per giocare con la morte bisogna conoscerne il peso. La sola cosa interessante da sapere, a proposito del trio "P38-La Gang" che si è esibito a Reggio Emilia cantando le gesta delle Brigate Rosse, è se il loro gioco sia spensierato (nel quale caso si tratta di tre stupidi, e il caso è chiuso) oppure cosciente.
In questo secondo caso l'arte, vera o presunta, non può essere un alibi, e i tre pitrentottini per primi non possono non saperlo o non capirlo. Se scrivo un inno allo stupro, in qualunque contesto, le stuprate e gli stuprati me ne chiederanno conto. Se scrivo un inno al sequestro e all'assassinio, i sequestrati e gli assassinati me ne chiederanno conto. Non ci sono sconti possibili, di fronte alla sopraffazione, e se è vero che il mondo spesso appare come una somma di sole sopraffazioni, non è un buon motivo per iscriversi all'albo dei sopraffattori: questo, non altro, fu il crimine orrendo del terrorismo rosso.
Anche nel caso che il trio voglia richiamarsi all'ambiguità dell'arte, alla sua non corrispondenza ai canoni triti del buon senso, sappia, il trio, che per ambire all'ambiguità (o al sarcasmo, o alla seconda lettura) bisogna essere artisti per davvero. L'arte non è, in sé e per sé, un lasciapassare. Ci sono fior di coglioni che, avendo studiato da "provocatore", credono che le loro coglionate siano provocazioni. Ma bisogna anche avere studiato da artista, averne il talento e lo spirito di sacrificio, per potersi permettere di parlare di rapimenti, omicidi, sangue. Lo scandalo dell'arte ha bisogno, per pretendere attenzione, di enorme lavoro, fatica, studio. Altrimenti è solo uno scandalo - uno dei tanti - della mediocrità.
Emilio Orlando per leggo.it il 3 maggio 2022.
Musica, ballo e sballo, tra i centocinquantamila spettatori di piazza San Giovanni, a Roma. Lo storico “Concertone” del Primo Maggio trasformato (anche) in uno “spinello party” all’aperto post Covid. Dopo due anni di stop all’evento e divieti anti assembramento, la piazza romana davanti alla basilica è diventata il luogo ideale non solo per ascoltare musica e ballare, ma anche per fare altro.
Infatti, mentre i tecnici audio e gli addetti alla sicurezza del palco lavoravano per ottimizzare la macchina organizzativa del maxi evento, si muoveva intorno alle strade adiacenti il palco una fitta rete di pusher pronti a vendere droga. Così quella che doveva essere la festa della musica e la festa del lavoro è stata anche la pacchia degli spacciatori.
Sei arresti, tredici persone denunciate per spaccio e alcune segnalazioni alla prefettura come consumatori di sostanze stupefacenti: è il bilancio dell’attività dei carabinieri della Capitale per garantire uno degli eventi più attesi, che come sempre porta a Roma migliaia di persone da tutta Italia.
La prefettura ha potenziato i servizi per il controllo dell’ordine pubblico in piazza e predisposto un servizio di pattugliamento a piedi, in auto e moto, anche in borghese. Non solo droghe classiche, come marijuana e hashish, sono state sequestrate, ma anche potenti stupefacenti sintetici e pasticche di barbiturici pronte ad essere assunte da giovanissimi.
Tra gli arrestati e i denunciati per spaccio ci sono ragazzi di età comprese fra i 18 e i 25 anni, provenienti da varie regioni italiane del Centro e del Sud. I detective in borghese hanno sequestrato più di mezz’etto di hashish, quasi tre etti di marijuana, diverse dosi di cocaina e molte pasticche di farmaci a base di benzodiazepina, micidiali per la salute se assunte e mischiate insieme ad alcolici o ad altri tipi di droghe.
In mezzo allo strepitare di chitarre, tastiere e strumenti musicali, tra la folla non sono mancati nemmeno i venditori abusivi di alcolici, che sono stati sanzionati e a cui è stata sequestrata la merce.
La storia delle celebrazioni. Primo Maggio, quando e perché è nata la festa dei lavoratori: “8 ore di lavoro, 8 di svago, 8 per dormire”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Maggio 2022.
Il Primo Maggio ricorre la festa dei lavoratori in quasi tutti i paesi del Mondo. Ma perché proprio in questa data? Come è nata l’idea di celebrare tutti i lavoratori? La storia di questa festività inizia nel 1867 negli Usa, precisamente a Chicago. Ma la prima nazione a ufficializzare la ricorrenza fu la Francia. Era il 20 luglio 1889 quando durante il congresso della Seconda Internazionale, riunito nella capitale francese, venne indetta una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche di ridurre la giornata lavorativa a otto ore.
“Otto ore di lavoro, otto di svago e 8 per dormire”. Era questo lo slogan dei lavoratori, nato in Australia, ma che a fine ‘800 si diffuse in tutto il mondo. Inizia tutto negli Usa, a Chicago, il 1° maggio 1886. Una data che resta scolpita nel diritto dei lavoratori. Quel giorno, infatti, viene approvata la legge per il tetto delle otto ore lavorative nella giornata, secondo il principio dei “tre otto”. Fino ad allora le persone lavoravano anche fino a sedici ore al giorno, spesso in pessime condizioni e rischiando la vita.
L’episodio che ha dato origine a tutto è noto come Haymarket Affair. Nei primi giorni di maggio del 1886 negli Stati Uniti fu organizzato uno sciopero generale, definito dai sindacati “La Grande Rivolta” per ridurre la giornata lavorativa a 8 ore. In quei giorni a Chicago in piazza Haymarket si tenne un raduno di lavoratori e attivisti anarchici in supporto ai lavoratori in sciopero, trasformatosi in tragedia. La protesta durò tre giorni e culminò appunto, il 4 maggio, con un massacro represso nel sangue: le vittime furono 11.
Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi, tranne che negli Stati Uniti dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre ed è differente dall’”International Workers’ Day” che in America è stato riconosciuto ma mai ufficializzato come giorno dei lavoratori.
In Italia la festa dei lavoratori fu ratificata nel 1891 ed è legata ad un altro evento storico tragico, la strage di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo. Il primo maggio 1947 una folla di lavoratori si trovava lì per celebrare la ricorrenza – sospesa durante il fascismo ma poi ristabilita dopo la Seconda guerra mondiale – e per protestare contro il latifondismo. Sul luogo però c’erano anche gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, che aveva rapporti sia con i monarchici sia con la mafia. Giuliano e i suoi uomini spararono sulla folla uccidendo sul momento 11 persone (un’altra morì in seguito a causa delle ferite) tra cui due bambini. Altre 27 furono ferite. I mandanti della banda di Giuliano non furono mai scoperti.
Dal 1990 i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, in collaborazione con il comune di Roma, organizzano un grande concerto in pizza san Giovanni per celebrare il Primo maggio, rivolto soprattutto ai giovani.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".
Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.
Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?
Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.
Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.
«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?
Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.
Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;
Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;
Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;
Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;
Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;
Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;
Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;
Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;
Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».
Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.
Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.
In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.
Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.
A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.
Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.
· Il Ferragosto.
Ferragosto, quel rito irrinunciabile. La festa inaugurata dall’imperatore Augusto, con l’industrializzazione ha assunto un altro significato. Senza però perdere la sua sacralità. Marino Niola su La Repubblica il 14 Agosto 2022.
Da antica festa in onore dell’imperatore Augusto a data dell’Assunzione di Maria. Da ricorrenza religiosa a transumanza stagionale del popolo vacanziero. Da rito sacro al riposo dei contadini e degli operai a nuovo Capodanno della società del tempo libero. Sono le metamorfosi del giorno simbolo delle ferie. Che sospende ogni attività lavorativa e mette in stand by la società intera.
Marino Niola per la Repubblica il 15 agosto 2022.
Da antica festa in onore dell'imperatore Augusto a data dell'Assunzione di Maria.
Da ricorrenza religiosa a transumanza stagionale del popolo vacanziero. Da rito sacro al riposo dei contadini e degli operai a nuovo Capodanno della società del tempo libero. Sono le metamorfosi del giorno simbolo delle ferie.
Che sospende ogni attività lavorativa e mette in stand by la società intera. In attesa di quella rigenerazione dei corpi e delle anime che segue ogni dì di festa. Soprattutto se si tratta di una festa che fa girare i cardini dell'anno, di un accapo del calendario.
E perfino adesso che il nostro lavoro, proprio come il nostro tempo, si è fatto liquido, interinale, parcellizzato, precario, occasionale, a progetto, part time, il 15 agosto conserva una sua sacralità surriscaldata e stralunata, stremata e stressata. Un raptus collettivo, come lo definiva Pasolini, una frenesia liturgica da rito di passaggio stagionale, da Capodanno senza zampone, ma con obbligo di cenone. In parte perché la pausa dal lavoro non è un'eccezione negoziata, né una concessione occasionale, né un'una tantum. Ma un diritto garantito per la prima volta nel 1936 da una legge rivoluzionaria votata dal Parlamento francese che prevede 15 giorni di vacanze pagate per tutti. E l'anno successivo approfittando dei biglietti ferroviari a prezzi politici, oltre un milione dei nostri cugini d'Oltralpe parte per le vacanze.
Un doppio boom, politico ed economico. Il provvedimento virtuoso ispira nel 1947 la nostra Carta costituzionale che, all'articolo 36, dice testualmente che «Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». il principio viene fatto proprio anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani che nel 1948 stabilisce che «ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite». E nonostante i tentativi di far saltare gli argini costituzionali e di introdurre nel mercato del lavoro una deregulation sempre più selvaggia, quelle norme scritte a chiare lettere e ripetute come un mantra democratico, restano ben stampate nella mente dei cittadini, anche di quelli che non hanno letto una riga della Costituzione.
In più, il giorno del riposo conserva un senso sociale e simbolico dalla remotissima origine sacrale, che ci riporta al terzo Comandamento. Ricordati di santificare le feste. Ecco perché anche nelle code autostradali agostane, negli assalti ai traghetti, nei bivacchi aeroportuali c'è l'eco lontana di questa legge che fa del riposo qualcosa di divino. Una interruzione delle attività che celebra il Dio tutelando l'uomo. In realtà anche dietro l'esodo vacanziero più spensierato, resta una sacra scintilla dell'antica fiamma festiva.
Batte inavvertito il ritmo biblico del Settimo giorno, ovvero del Sabato ebraico e della Domenica cristiana. Ma riecheggiano anche le parole di Pericle, mitico leader del partito democratico ateniese, che ben cinque secoli prima di Cristo, proclama quella sacralità laica del riposo che, a suo dire, è fatto per rigenerare lo spirito. O per dirla con parole di ora, per scongiurare il burn out, ovvero la spremitura a caldo dei lavoratori.
Che fino a poco fa sembrava un ricordo del passato. Mentre adesso riaffiora pericolosamente alla superficie del presente, ammantata di ragion pratica e mascherata da realismo economico.
Insomma, gite fuori porta, falò sulla spiaggia, cene pantagrueliche, bagni di mezzanotte non li abbiamo inventati noi. Vengono dalle antiche Feriae Augusti, letteralmente "il riposo di Augusto", cioè le feste che celebravano la fine dei lavori agricoli. Ad istituirle nel 18 avanti Cristo, è per l'appunto l'imperatore Augusto, da cui deriva la nostra parola Ferragosto.
Parola d'ordine, baldoria sì, fatica no. E tutti in gita fuori porta. In seguito, il cristianesimo sovrappone ai rituali pagani le sue solennità, proclamando il 15 agosto giorno dell'Assunta, forse la più popolare delle ricorrenze mariane. Celebrata sin dal settimo secolo dell'era cristiana con processioni e indigestioni, balli e abbuffate, sballi e scampagnate per accompagnare il giro di boa dell'anno che annuncia la fine dell'estate.
Il nostro Ferragosto è erede di questi riti. Ma solo in parte. Perché la nostra vita non dipende più dai ritmi della natura, dalle fasi lunari, dall'alternanza tra tempo della semina e tempo del raccolto. Oggi a fare il bello e il cattivo tempo è la tecnologia che sincronizza la nostra esistenza sui ritmi della produzione e del consumo.
Di fatto la nostra civiltà ha ridotto il calendario a due sole stagioni, quella del lavoro e quella del tempo libero. E di questo tempo destagionalizzato e monetizzato il 15 agosto è il nuovo Capodanno. Perché è ora e non il 31 dicembre che le fabbriche e gli uffici chiudono i battenti. E il popolo delle partite IVA spegne i computer. Così le nostre ferie agostane diventano un pit-stop per poter ripartire più veloci di prima. E nonostante la pandemia, la guerra e il vento della crisi mandino in fibrillazione il cuore dell'economia, rendendo la nostra vita sempre più precaria e le nostre vacanze sempre più low cost e last minute, questa destagionalizzazione dell'esistenza rende ancora più necessaria una tregua. Un cessate il fuoco della sfiga. Per l'eterno ritorno del Ferragosto.
Ottaviano, il primo imperatore di Ferragosto. Fu lui a istituirla come ringraziamento al senato che l'aveva eletto Augusto. La festa più modaiola dell'estate ha origini antiche, sempre all'insegna della leggerezza. ANTONIO CAVALLARO su Il Quotidiano del Sud il 14 agosto 2022
FERRAGOSTO è la festa più modaiola dell’estate eppure ha origini antiche che poco hanno a che fare con la tintarella e le gite fuori porta. È l’etimologia stessa del nome a raccontarne la storia: “Ferragosto” deriva dal latino Feriae Augusti. Pare che a istituirla sia stato proprio l’imperatore Ottaviano il quale, come segno di munificenza verso il popolo, dopo essere stato proclamato dal senato Augusto – venerabile, eccelso, un semi-Dio insomma –, nel 18 a.C., stabilì che il sesto mese dell’anno, il mensis sextilis – l’attuale mese di agosto –, fosse interamente dedicato agli svaghi e ai festeggiamenti. Era infatti un mese in cui ricorrevano numerose festività in onore degli dei, in particolar modo i nemoralia, dedicati alla dea Diana Nemorense, durante i quali si accendevano le torce (sta forse qui l’origine dei falò sulla spiaggia?), o i vinalia rustica in onore del dio Giove. Era inoltre il mese che faceva seguito ai duri lavori dei campi, l’Imperatore dunque stabilì che in quel mese ci si astenesse dal lavoro per poter prendere parte alle celebrazioni. È probabilmente questa la ragione principale per cui gli italiani prediligono ancora questo mese per le vacanze, al contrario, per esempio, dei vicini tedeschi o svizzeri che vanno invece in ferie durante il mese di luglio.
Con l’avvento del cristianesimo, la Chiesa, nella sua mirabile operazione di inculturazione – probabilmente la più grandiosa e meglio riuscita rivoluzione culturale della storia dell’umanità – accolse il senso della festa ma ne mutò significato: niente più Diana né altre dei e dee dell’Olimpo ma la Theotókos, la Vergine Maria, venerata nel momento dell’Assunzione al Cielo. Quella dell’Assunta fu così la prima festa mariana della storia della Chiesa, fatto curioso giacché il suo oggetto, l’assunzione al cielo in corpo e anima di Maria, non è suffragata dal conforto delle Scritture.
Che le prime generazioni di cristiani credessero che la madre di Gesù godesse di una sorta di status ontologico speciale che la rendeva in un certo qual modo diversa dal resto del genere umano, è cosa nota. In particolar modo vi erano due aspetti della sua esistenza che, suggeriti dalla fede e supportati dalla speculazione di alcuni teologi, furono destinati a essere causa di accese controversie: il primo è relativo alla concezione verginale di Maria – l’Immacolata Concezione, appunto – che avrebbe posto la Madonna in una condizione assolutamente unica, essendo lei concepita senza peccato originale e, il secondo, strettamente connesso al primo, è appunto quello dell’Assunzione in anima e corpo al Cielo. Secondo la Bibbia e, in particolare secondo l’insegnamento di Paolo, è a causa del peccato che la morte è entrata nel mondo. Se Maria era stata preservata dal peccato, allo stesso modo doveva essere stata preservata dalla morte. Non solo. Ma come poteva colei che aveva condiviso la stessa carne e lo stesso sangue del primo dei risorti non seguirne la medesima sorte?
I vangeli canonici tacciono sul destino ultraterreno di Maria. Nei tre sinottici la Madre di Gesù scompare all’inizio della vita pubblica di Cristo senza comparire nemmeno ai piedi della croce. È solo Giovanni a raccontarci di lei austera e silenziosa sul Calvario. L’autore degli Atti degli Apostoli – che secondo una consolidata tradizione è l’evangelista Luca – cita quasi incidentalmente la presenza di Maria nel Cenacolo nel momento della Pentecoste. Così come con altri episodi e aspetti della vita di Cristo e dei suoi familiari, ciò che le fonti ufficiali tacciono, viene invece raccontato con dovizia di particolari negli scritti apocrifi i quali, pur essendo messi alla porta dalla Chiesa ufficiale, finiscono inevitabilmente per rientrare dalla finestra arrivando persino a influenzarne pratiche e devozioni.
I primi testi che descrivono l’Assunzione di Maria al cielo cominciano ad apparire già dal IV secolo dando vita a un prolifico filone letterario che annovererà apocrifi in greco, latino, copto, arabo, armento, siriaco e slavo. È difficile individuare con assoluta certezza il testo prototipo sebbene tra quelli più noti e più riprodotti vi sia sicuramente il testo della “Dormizione della Santa Madre di Dio”, attribuito dalla tradizione a San Giovanni evangelista – il discepolo a cui Gesù avrebbe affidato la Madre sul Calvario – e pertanto oggetto di grande considerazione presso i contemporanei. Nel racconto che l’autore fa del trapasso della Vergine, possono essere individuati molti degli elementi che si troveranno poi nelle opere d’arte dedicate al tema, come la presenza intorno al letto della morente di tutti gli apostoli giunti in maniera prodigiosa, secondo lo pseudo-Giovanni, dai vari luoghi del mondo in cui una certa tradizione voleva che si trovassero (Pietro e Paolo da Roma, Tommaso dall’India ecc.), e poi la coorte angelica che accoglie la Madonna assunta in Cielo. Anche Maria, secondo il racconto, dorme il sonno della morte per tre giorni al termine dei quali il suo corpo santo viene traslato nell’empireo.
E proprio intorno a questo momento prodigioso si svilupperà la prima grande differenza tra il modo in cui gli orientali e gli occidentali considerano la nostra ricorrenza: i primi raffigureranno e celebreranno la “dormizione” – l’addormentamento potremmo dire di Maria – i secondi invece porranno maggiormente l’accento sulla diretta traslazione in cielo della Madonna, non chiarendo se questa sia avvenuta dopo la morte o mentre era ancora in vita.
Quel che però è certo è che la credenza nel destino ultraterreno di Maria che continuerebbe a vivere in anima e corpo ebbe subito grande diffusione in tutto l’ecumene cristiano. Non è forse un caso che la quasi totalità delle cattedrali sorte sia in occidente che in oriente sia dedicata all’Assunzione o alla Dormizione di Maria. Nonostante la diffusione di una tale devozione, la Chiesa cattolica riconoscerà solo molto tardi, e al termine di innumerevoli dispute teologiche, il dogma dell’Assunzione che verrà sancito definitivamente da Pio XII nel 1950 con la costituzione apostolica “Munificentissimus Deus” con la quale viene solennemente dichiarato che, seguendo la fede secolare del popolo di Dio, la liturgia e l’insegnamento dei Padri della Chiesa e dei teologi, «l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo» (si osservi che anche qui si tace riguardo alla morte della Madonna). La proclamazione del dogma è il capitolo finale di una storia lunga quasi quanto quella della Chiesa stessa, che arriva a definire la solennità dell’Assunta la “Pasqua dell’Estate” perché anticipa, in un certo qual modo, la risurrezione della carne, speranza che alimenta il credo cristiano.
Rimane però un cerchio da chiudere: cosa lega tutta questa storia che abbiamo raccontato alle Feriae Augusti? Ecco tornare in gioco la nostra Diana Nemorenense. I nemoralia, le festività dedicate alla Dea, avevano una forte componente misterica, le torce accese condotte nel bosco rappresentavano la luce che illumina le tenebre, l’eterno ciclo di notte e giorno, morte e vita. Con il tempo il culto di Diana sembra sovrapporsi a quello di Proserpina e anche Diana diventa una divinità ctonia che muore e risorge. La morte di Diana veniva celebrata nel giorno corrispondente al nostro 13 agosto, la sua risurrezione il 15. Quale la circostanza migliore per celebrare la risurrezione della donna più venerata dai Cristiani?
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.
Nel giorno di Ferragosto del 2022, all'autogrill di Cantagallo, vero ombelico d'Italia, non accadde nulla. Eppure nel giorno di Ferragosto del 2022, all'autogrill di Cantagallo, vero ombelico d'Italia, è successo di tutto. Piccole cose, nessuna delle quali degna di nota, all'apparenza. Ma...
Ma, in una giornata simbolica, un posto simbolico come l'autogrill che scavalca l'Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze può restituirci lo stato d'animo del Paese, che si può così sintetizzare: gli italiani sono incazzatissimi.
Al bar-ristorante
Tutti parlano solo di prezzi. Qualcuno entra al bar, legge - un euro e 30 il caffè, due euro il croissant, 6,50 il trancio di pizza, 7,90 la focaccia con la coppa -, sospira, impreca, esce.
Una coppia ordina un Grantoast a 6,90, se lo fa tagliare in due, lo mangia in un angolo. Chi può sale al ristorante, al piano di sopra.
Al primo tavolo, un bambino biondo maleducatissimo sposta di continuo una sedia con stridore molesto; la cameriera ogni volta la rimette a posto, e lui la sposta di nuovo, nell'indifferenza dei genitori. Al secondo tavolo, una famiglia di colore pranza con macedonia e ananas.
Al terzo tavolo, un padre cinquantenne cerca di consolare il figlio adolescente, deluso da lui e dalla vita per il fatto di consumare il pranzo di Ferragosto all'autogrill. «Guarda che il primo ristorante in cui sono stato in vita mia è questo - dice il signore al figlio, anzi al telefonino che il figlio tiene davanti agli occhi -. Avevo la tua età. Qui sotto sfrecciavano le macchine, proprio come adesso. C'era un gigantesco banco degli arrosti, i cuochi con il cappello bianco che affettavano un enorme tacchino, e mio papà, tuo nonno, che ha sempre amato la pittura, disse che sembrava un quadro barocco, l'immagine dell'abbondanza».
Il cinquantenne socchiude gli occhi, ha un attimo di commozione - suo padre dev' essere morto, forse da poco -, ma quando li riapre si ritrova di fronte il cellulare del figlio, e perde la pazienza: «Tu lo sai che tuo nonno ha provato la fame?! Hai idea di cosa rappresentava per lui quel tacchino dell'autogrill?».
Il ristorante del Cantagallo ha un'antica tradizione. Il 18 giugno 1973 si fermò qui il leader missino, Giorgio Almirante, con quattro militanti. Cuochi e camerieri rifiutarono di servirgli da mangiare. Almirante quel giorno aveva appetito ed era di ottimo umore: alle regionali in Friuli Venezia Giulia il Msi era cresciuto dal 5 al 7,5%.
Così lui aveva preso prosciutto crudo e penne al sugo e stava aspettando cotechino e zampone, quando gli portarono il conto - 8.900 lire - e gli dissero di andarsene. Almirante si alzò, salì in macchina, proseguì verso Firenze, si fermò all'autogrill di Roncobilaccio, ordinò il secondo, lo mangiò senz' altri disturbi; poi telefonò alla polizia per fare denuncia.
Oggi, se tra i tavoli si appalesasse la Meloni, il pranzo probabilmente glielo offrirebbero gli altri commensali. Secondo un sondaggio empirico durato tutto il giorno, la Fiamma tricolore veleggia tra l'85 e il 90%. Un po' tutti i viaggiatori di Ferragosto si dicono indignati e disgustati dai politici, ma di lei dicono in sintesi: «È la sola che è sempre stata all'opposizione.
La sola che non abbiamo ancora provato». Oggi però non c'è il cotechino e neppure lo zampone, bensì il «piatto unico bilanciato»: un quarto cereali - riso nero integrale e basmati -, un quarto pesce, il resto verdure che «saziano e donano colore al piatto».
Tra i camionisti Mi sposto al parcheggio dei camionisti. Su un Tir è dipinto un gigantesco ritratto di Gesù. Un altro ha sulla fiancata un Cristo coronato di spine. Poi c'è il camion di Amazon.
Un crocchio di conducenti sta parlando dei prezzi del diesel. Mi accolgono con viva simpatia e profonda stima: «Giornalisti infami! Servi del sistema! Padron comanda asino trotta!». C'è però un camionista che vuole parlare. Si chiama Guglielmo. Mi prende le mani tra le sue: «Vedi queste cicatrici? Le senti? Sono i mozziconi di sigaretta. Servono a tenermi sveglio: quando sto per addormentarmi, la sigaretta accesa mi brucia le dita, e io continuo a guidare. Il problema sono i romeni.
Con i romeni non ce la posso fare. Io posso guidare anche sedici ore di fila, senza mangiare né dormire, sai? Ma dopo sedici ore mi devo fermare per fare la pipì. Il romeno invece può stare anche un giorno intero senza mangiare né dormire né fare la pipì». Guardi Guglielmo che il romeno è un essere umano come noi «No no, il romeno è un concorrente imbattibile. Noi camionisti italiani non ce l'abbiamo con gli stranieri, neppure con i negri. Ma facciamo una vita terribile, soffriamo tanto per mantenere le nostre famiglie. Scrivilo: chiediamo tariffe agevolate per gasolio, autostrade, assicurazioni».
«Guarda che la tariffa agevolata per il gasolio ce l'abbiamo già». La voce viene dal camion con il Gesù coronato di spine. Porta pesche e meloni da Gela a Verona, quindi può viaggiare anche di Ferragosto. Lo guida Salvatore.
«Io ogni quattro ore e mezza, cascasse il mondo, mi fermo. Però il collega ha ragione, il mestiere è duro ed è sempre peggio».
Ai camerieri che avevano rifiutato di servire Almirante arrivarono centinaia di telegrammi di plauso da tutta Italia, il primo firmato da Enrico Vaime, l'autore di Canzonissima: «La mia ammirazione e solidarietà. Bravi!». Tra i camionisti, la percentuale per la Meloni sale al 90-95%. Il pericolo neofascista non è molto sentito, in particolare da Guglielmo: «Mio padre e mio nonno si sono fatti seppellire in camicia nera, sai?».
Gli chiedo di poter vedere il suo camion, dove dorme. Non ci sono i calendari con le modelle nude come da stereotipo, solo l'immagine di padre Pio e la foto dei figli. I panini li ha portati da casa. «Hai notato che non esistono più le trattorie per i camionisti? Sai perché? Perché i soldi per mangiare in trattoria i camionisti non li hanno più».
Al minimarket Per uscire dal bar si passa obbligatoriamente attraverso il paese della cuccagna. Gigantesche confezioni di pop-corn, di chupa-chups, di biscotti; boccioni da due litri di prosecco, taniche da mezzo chilo di patatine. Piccolo angolo per i libri; ma dalla pandemia non si vendono più i giornali.
Le cuffiette per i telefonini possono costare anche 32 euro e 99; qualcuno ha risolto il problema dei controlli rompendo la scatola e intascando il contenuto. Il bambino biondo maleducatissimo grida a pieni polmoni perché vuole un gigantesco pelouche a forma di ranocchio, ma il padre non intende comprarlo, anche perché costa come la paga giornaliera di un impiegato. I passanti protestano per le strida, il padre molla uno scappellotto al figlio; la madre lo difende. Ci sarebbe anche un cane minuscolo che abbaia ininterrottamente da cinque minuti; ma di lui nessuno osa lamentarsi.
Eppure, a restare lì tutto il giorno, accanto alla rabbia e al malumore viene fuori anche l'umanità degli italiani. Una madre anziana si prende cura con amore del figlio nano, si alza sui tacchi per prendergli il pacchetto di Togo sull'ultimo scaffale. Una mamma allatta la sua bambina sul gradino dell'uscita.
Coppia gay con cagnolino in una cesta. Tante comitive di donne che viaggiano sole. Un papà organizza con il figlio uno scherzo alla mamma, che si è attardata nel paese della cuccagna e deve ancora uscire: si nascondono dietro l'angolo e le faranno bau. Passano un cinese con la maglietta del Jova Beach party, due poliziotti, un addetto bengalese alle pulizie, poi finalmente la mamma: «Bau!». «Echecazzo!». La mamma l'ha presa malissimo: « Siete du' bischeri, e che so' scherzi da fare?! ».
All'uscita c'è anche il vigilante. Il lavoro non gli manca: non si ha idea di quanti trucchi inventino gli italiani per rubare. Le famiglie si affidano agli insospettabili, nonne e bambini; ma è accaduto che una signora uscisse con la tanica di patatine sotto il golfino, a simulare una gravidanza, tipo la signorina Silvani con il televisore - «incinta di nove pollici!» - nel secondo tragico Fantozzi.
Alla chiesetta Cantagallo un tempo era un Mottagrill. Il cavaliere del Lavoro Angelo Motta vi volle una piccola chiesa, «a fianco del luogo di ristoro, così che questi non sia soltanto ristoro fisico».
L'edificio è dedicato coerentemente a sant' Angelo ma anche a sant' Ambrogio e san Gennaro, «protettori delle grandi Città che l'Autostrada unisce» (Milano e Napoli), e pure a san Francesco e santa Caterina, patroni d'Italia, e infine a san Cristoforo, protettore degli automobilisti. È un luogo pieno di poesia, con una madonnina, i lumini, e un'urna in cui «si prega di non mettere denaro ma preghiere».
In tutta la giornata nella chiesetta sono entrati solo un bambino di nome Gianfranco - «papà posso accendere una candelina?» - e una famiglia di filippini, per mangiare un panino al fresco.
Sul prato a fianco corrono felici i cani. Un tempo all'autogrill molti venivano abbandonati. Quest' estate sulla Milano-Venezia è stato abbandonato un ragazzo di sedici anni, di origine albanese. I genitori non si sono fatti vivi, il Comune di Cessalto, Treviso, nel cui territorio ricade l'autogrill, ha stanziato 16 mila euro per il suo mantenimento, sino alla maggiore età.
Non è la prima volta. A Ferragosto del 2000 all'autogrill della Milano-Varese fu trovato un bambino di pochi giorni, con un biglietto: «Mi chiamo Angelo, prendetevi cura di me». Poi ci sono i dimenticati. Pane e tulipani , il caso cinematografico sempre del 2000, è la storia di Rosalba - l'attrice era Licia Maglietta - abbandonata da marito e figli in autogrill. Spiegano a Cantagallo che ogni tanto succede ancora. Però adesso ci si avverte con il telefonino, e i ricongiungimenti sono rapidi.
Non si vedono più i venditori che con aria da cospiratore ti informavano che dal tal camion era caduto un carico di televisori o di telefonini: la gente non ci casca più. Questi però erano anche luoghi di gioia: certe notti, cantava Ligabue, «al primo autogrill c'è chi festeggerà». Guccini sognava di prendere la mano della ragazza che «mescolava birra chiara e seven up».
Più prosaicamente, si diceva che alla Lotteria Italia vincessero sempre biglietti venduti all'Autogrill. Ogni tanto passa ancora un pullman di ultrà a devastare tutto; fu in un altro autogrill che l'agente Spaccarotella sparò e uccise un tifoso laziale, Gabriele Sandri, divenuto martire di tutte le curve compresa quella romanista.
Origlio la conversazione tra due poliziotti - uno con l'accento sardo, l'altro napoletano - e un addetto in tuta gialla di Autostrade. Il tema sono gli automobilisti che si comportano male, sfrecciano dove dovrebbero procedere a passo d'uomo, fanno il pieno e scappano senza pagare, oppure lasciano la macchina alla pompa dopo aver fatto il pieno e vanno a prendere il caffè. Dice il poliziotto sardo: «Delle due l'una: o gli tagli le gomme, e non mi pare il caso; o fai la foto alla targa, e ce la segnali. O li becchiamo, ma è difficile, oppure li becca il tutor, se vanno troppo forte». «Sì, ma tanti sono stranieri, e del tutor che gli importa?».
Al bagno
Le toilette sembrano quelle di una clinica svizzera: pulitissime (i cartelli avvertono che la mascherina è obbligatoria, ma in tutta la giornata non ne ho vista indossata una, tranne che dai lavoratori dell'Autogrill. Che, per inciso, danno del lei a tutti; ma quasi tutti danno loro del tu). Soltanto su un muretto discosto una scritta promette, come ai vecchi tempi, prestazioni sessuali dettagliate. Per pura curiosità giornalistica chiamo il numero di cellulare indicato. Mi risponde una voce più rassegnata che arrabbiata: «Di nuovo? Soltanto oggi è il quarto che telefona. Lo volete capire o no che mi hanno fatto uno scherzo?».
Alla pompa di benzina
Anche gli addetti al distributore rifiutarono di fare il pieno ad Almirante. Tre giorni dopo, sempre all'ora di pranzo, arrivò la spedizione punitiva. Una trentina di fascisti presero a ceffoni benzinai, cuochi, camerieri, e pure due poliziotti che tentarono di fermarli. Poi scapparono, ma come in un film di Alberto Sordi una vecchia 600 si fermò dopo pochi metri: i poliziotti arrestarono il conducente e denunciarono gli altri a piede libero, tra cui un deputato missino di Modena.
Nel 1981 l'autogrill andò a fuoco. «Io sono stato assunto qualche mese dopo. Si diceva che fossero stati i fasci. Ma sono le voci che mettono in giro i comunisti». Il benzinaio che racconta si chiama Fabio. Anche lei vota Meloni secco? «Diciamo che io non sono comunista. Però non si fidi di quel che le dicono. La gente parla; ma poi a Bologna restano rossi, e altrove democristiani».
Qui, in direzione Firenze, il diesel costa 2 euro e 12 al litro, la benzina 2 e 15 (in direzione Nord i prezzi sono un po' più bassi: diesel un euro e 97, benzina 1 e 96). Molti ovviamente preferiscono il self. Fabio ha un teoria: «In Italia i soldi ci sono ancora. Ma la gente ha paura; quindi non spende.
Quando ho cominciato, 41 anni fa, questa era una delle più grandi stazioni di servizio d'Europa: 26 milioni di litri di carburante all'anno.
Il giorno della chiusura della Fiat gli operai partivano verso Sud, e c'erano code di un'ora per fare benzina. Ora siamo a 15 milioni di litri». Davvero c'è chi non paga? «Ci sono sempre stati. Un tempo si riusciva a tirar fuori la benzina dai serbatoi; adesso non si può più». E allora? «Allora il più delle volte li lasci andare.
Quelli te lo gridano dietro: "Fammi causa!". Ma fare una denuncia costa molto più di un pieno di benzina. Sa chi sono i peggiori?». Chi sono?
«Gli stranieri. Non salutano, ci trattano come schiavi, sporcano per terra. Si comportano come a casa loro non farebbero mai. Quelli dell'Est, poi gli slavi, i romeni». Pure lei ce l'ha con i romeni? «Non ce l'ho con nessuno, ma li vedi con macchinoni da centomila euro, e pensi a quando da ragazzi andavamo da loro carichi di jeans e calze di nylon. Intendiamoci: eravamo più poveri di adesso. Ma si andava ancora dal meno al più. E andare dal meno al più è meraviglioso. Andare dal più al meno, invece, fa schifo».
Vacanze, combattere la malinconia e ripartire di slancio. Se le vacanze sono agli sgoccioli e la malinconia imperversa, ecco come contrastarla per affrontare di slancio la nuova stagione. Monica Cresci il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Ferragosto è dietro l'angolo e, per molti, sancisce la fine delle tanto agognate vacanze e la ripresa della routine quotidiana. Dopo giornate dedicate al relax e al divertimento, serate spese a leggere un buon libro oppure a cenare in riva al mare. Inevitabile che la malinconia faccia capolino, specialmente se le ferie si sono rivelate allegre e spensierate, senza tensioni e problemi di sorta.
Anche l'animo più tenace potrebbe incrinarsi al termine di questo idillio, cedendo il passo alla tristezza. Del resto non è facile riprendere in mano le incombenze e i ritmi di sempre, in particolare se per settimane il relax ha imperversato. Alcuni cedono alla malinconia, altri avvertono un forte senso di vuoto e solitudine. Contrastare il tutto è possibile e doveroso, scopriamo come.
La malinconia post vacanze è una condizione molto presente, una vera sindrome condita da stress e blue mood. È un malessere che intacca l'umore e la serenità psicologica, oltre al benessere fisico, appesantito della routine di sempre fatta di incombenze, impegni, scadenze. Il dolce far niente, del tutto appagante, viene soppiantato dall'agenda del quotidiano. Non è certo un problema fisico ma una risposta psicologica e anche psicosomatica, con sintomi passeggeri quali apatia, stanchezza, poca concentrazione, dolori fisici e difficoltà digestive.
Senza dimenticare stress, malinconia e tristezza, come accennato, che possono condurre ad ansia e depressione. In particolare nei soggetti più fragili, a fronte di condizioni esistenziali difficoltose. Una sindrome molto comune, accentuata anche dal limitato effetto positivo regalato dalle vacanze. Troppo brevi per poter contrastare un lungo periodo di fatica, sia mentale che fisica.
Per scivolare fuori da questo mood è importante affrontare un percorso fatto di obiettivi e cure personali, una sorta di rinascita in funzione di una ripartenza piena di energia. Ciò che conta è prendersi tutto il tempo che serve, passo dopo passo vero la meta finale. Ecco come:
riposo e alimentazione: la sensazione positiva data dalle ferie si può prolungare anche a casa, dedicando molto più tempo al relax personale, al sonno notturno e alla nutrizione. La fretta è bandita, è importante concedersi dei momenti di dolce far nulla, leggendo un libro, guardano una serie TV oppure semplicemente ascoltando musica rilassante. Anche l'alimentazione è importante, deve risultare sana, leggera e gustosa così da ricavarne energia e forza;
passeggiate, meditazione e cure, è utile sfruttare le belle giornate per assorbire altra vitamina D. Quale modo migliore se non passeggiando all'aria aperta, approfittandone mentre si porta a spasso il cane. Spazio anche alle cure personali, magari introducendo qualche nuovo hobby, andando in palestra oppure praticando workout casalinghi. Prendendo un appuntamento dall'estetista o dal parrucchiere, oppure semplicemente gratificando mente e corpo con un giorno alla Spa o con della meditazione;
gradualità e pensiero positivo, riprendere serenamente con il lavoro è possibile ma è importante creare una safe zone iniziale. Il famoso periodo di assestamento, magari cambiando il percorso per raggiungere l'ufficio, affrontando prima le incombenze meno pesanti così da riprendere il ritmo. Sfruttando le belle giornate per pranzare all'aperto, magari nel parco di zona. Cambiando le abitudini più radicate e malsane, come quella di procrastinare, interrompendo questa circolarità negativa e introducendo nuovi interessi;
obiettivi e programmi, spostare la mente in avanti verso nuove occasioni di relax, come i ponti o le festività annuali quali Natale e Pasqua. Oppure organizzare il weekend con piccole gite fuoriporta, andare a un concerto o acquistare il biglietto per il museo o per un evento interessante. Affiancando il tutto con una serie di mini impegni a scadenza, ad esempio sistemare un oggetto rotto che langue da tempo in cantina, impegnarsi con una dieta, cambiare il look dell'arredo. Attività in grado di occupare la mente, così da riprendere con nuovi percorsi e un'energia più intensa.
Tobagi: «Ferie d’agosto, milioni di famiglie in viaggio. Treni affollati, lavoratori infelici. Perché?» Walter Tobagi su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.
Nel 1972 il giornalista scriveva sul Corriere: «La nostra industria turistica funziona male: due mesi di superaffollamento e poi il letargo. A Ferragosto partono tutti: “È un rito, una dimostrazione di prestigio”. Ma è proprio così?»
Milano, 2 agosto 1974. I viaggiatori in partenza per le vacanze estive salgono sui vagoni del treno già affollato passando dai finestrini (foto Rcs)
Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo intervento di Walter Tobagi (ucciso dai terroristi il 28 maggio 1980) ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 19 agosto
18 agosto 1972
Un fiume della portata di 150 miliardi al giorno inonda l’industria turistica. Sono i giorni d’oro, del «tutto esaurito», dei prezzi e dei guadagni spropositati. C’è un calcolo approssimativo, ma accettabile: 15 milioni di persone sono partite per le vacanze nelle settimane cruciali di agosto. Ogni persona, in media, spende 10 mila lire al giorno: ecco, a conti fatti, la stupefacente cifra di 150 miliardi al giorno, inghiottiti vorticosamente dall’industria turistica. E l’industria turistica, a sua volta, si morde la coda: ora sta vivendo i giorni assurdi del superaffollamento, ma presto, tra due settimane, rientrerà nel letargo dell’autunno-inverno-primavera. Nove-dieci mesi di letargo, di impianti vuoti e inutilizzati: due mesi di affollamento e super-sfruttamento: è il segno più vistoso di un’industria turistica che funziona male. E che fa scontare a tutti, agli albergatori come ai clienti, le contraddizioni di un sistema sballato.
«CI SI INCOLONNA IN AUTOSTRADA, CI SI AMMUCCHIA NEI VAGONI PER CONTENDERSI, GOMITO A GOMITO, UN METRO QUADRATO DI SPIAGGIA. SE CONTINUERÀ COSÌ IN FUTURO “SARÀ L’APOCALISSE”. A MENO CHE LE GRANDI FABBRICHE NON CHIUDANO PIÙ NELLO STESSO PERIODO E IL CALENDARIO SCOLASTICO CAMBI»
Cominciamo dalle cifre. Attorno all’ industria turistica italiana ruota un «giro d’affari» di tremila miliardi l’anno (un quinto delle entrate del bilancio statale), con una occupazione di 300 mila persone (quasi il doppio dei dipendenti della Fiat). Gli impianti si sono sviluppati, nell’ultimo decennio, in modo consistente: ora sono disponibili un milione e mezzo di posti alberghieri e altrettanti extra-alberghieri. Se utilizzate razionalmente, queste attrezzature potrebbero accogliere, senza preoccupazioni, l’intera popolazione italiana. E invece danno una sistemazione non sempre soddisfacente, nelle settimane del «grande esodo», ad una percentuale limitata: solo 30 italiani su 100 - dicono le statistiche - vanno in vacanza. Gli altri settanta restano a casa, non si allontanano dal comune di residenza per quattro giorni di seguito (è la condizione minima per essere registrati nelle statistiche delle vacanze).
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Un altro esempio. La rete delle autostrade, in Italia, è tra le più estese d’Europa, seconda soltanto a quella tedesca. Eppure, nei giorni della grande fuga estiva, i 4.500 chilometri di autostrada diventano insufficienti. Alcuni suggeriscono, addirittura, di ampliare le autostrade, di farle a sei, a otto corsie. Ma non sarebbe più semplice sfoltire il traffico, ampliando il periodo delle vacanze?
Tutti i problemi, alla fine, si riportano alla concentrazione delle ferie di milioni di persone nello spazio di poche settimane. Gli effetti sono quelli che tutti i turisti, anche i più entusiasti, vedono e lamentano: l’inevitabile insufficienza dell’organizzazione, i prezzi alle stelle, un servizio non sempre adeguato e, come conseguenza finale, un riposo minore, una vacanza che non soddisfa. Non soddisfa nemmeno le esigenze produttive della società industriale: perché i lavoratori tornano, in molti casi, più stanchi di quando sono partiti. Ma allora: perché si parte tutti insieme, in colonna sulle autostrade e ammucchiati sui treni per contendersi, gomito a gomito, il metro quadrato di spiaggia? C’è una risposta, vecchia tradizionale, che dice: «Ferragosto è un rito, le ferie vanno fatte in agosto per una dimostrazione di prestigio». Ma è proprio vero? Che possibilità hanno, in concreto, i cittadini, gli operai, gli impiegati, i dirigenti di scegliere il periodo di ferie, al di fuori delle solite settimane d’agosto? La risposta è semplice: poche o nessuna.
Nella Costituzione, al terzo comma dell’articolo 36, sta scritto: «Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». Il principio è sancito con solennità, ma l’applicazione è, inevitabilmente, parziale. Le statistiche riferiscono, si è già detto, che 70 italiani su cento non fanno vacanze fuori dall’abituale Comune di residenza. È una percentuale alta: diciamo pure, in via d’ipotesi, che un altro 20-30 per cento di persone vive abitualmente in località di mare o di montagna, per cui può «fare vacanze» senza allontanarsi da casa. E il restante 40-50 per cento che non va in ferie? Che cosa succederà quando altri 20-25 milioni d’italiani potranno permettersi di andare in vacanza?
Basta dare un’occhiata alle statistiche sulle vacanze: anche queste cifre confermano la tradizionale divisione tra regioni «opulente» e regioni «depresse». Le solite due Italie. In Lombardia, 42 cittadini su cento vanno in vacanza; in Basilicata la percentuale scende al 12 per cento, in Abruzzo al 13, in Calabria al 14. E ancora: lo stesso discorso vale per lo sfruttamento delle possibilità turistiche, offerte dalle coste del Meridione: 16 turisti su cento vanno negli alberghi della Romagna, mentre 2 vanno in Puglia, in Abruzzo e Calabria.
Ecco: queste contraddizioni rendono da tempo «drammatico» il periodo delle vacanze, sia per quei 15 milioni d’italiani che affollano spiagge e montagne sia per gli operatori turistici che devono rispondere all’imponente domanda. Che cosa succederà se, nei prossimi anni, aumenteranno i turisti e continuerà la tendenza a concentrare le ferie in luglio e agosto? «Sarà l’apocalisse», commenta un albergatore riminese. Ma per evitare l’apocalisse, bisognerà eliminare, alla radice, due motivi che inducono milioni di famiglie a prenotare gli alberghi in questo mese: la chiusura delle grandi fabbriche in agosto e il calendario scolastico.
Giornalista e scrittore, Walter Tobagi nacque a Spoleto nel 1947 e morì a Milano il 28 maggio 1980, assassinato dalla brigata XXVII Marzo, un gruppo terroristico di estrema sinistra. Arrivò a Milano a 8 anni e iniziò la sua carriera a La Zanzara, giornale del Liceo classico Parini. Lavorò all’Avanti! e all’Avvenire, quindi al Corriere d’Informazione. Nel 1972 passò al Corriere della Sera dove si occupò di terrorismo e lavorò come cronista politico e sindacale. Venne ucciso in via Salaino con cinque colpi di pistola.
· 73 anni dalla tragedia di Superga.
Grande Torino, «orgoglio d’Italia»: il ricordo a 73 anni dalla tragedia di Superga. Gianluca Sartori su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.
Live, la commemorazione. Al mattino al Monumentale, al pomeriggio a Superga: i fiori, la messa e le testimonianze. Le parole del presidente granata Urbano Cairo: «È stata una squadra unica», Belotti chiude la giornata leggendo «i nomi dei 31».
SUPERGA, ore 18.05 «I campioni d’Italia. Bacigalupo, Ballarin Aldo, Ballarin Dino…». Il capitano del Torino, Andrea Belotti, ha adempiuto al tradizionale incarico della lettura dei nomi del Grande Torino alle 18 in punto, davanti a centinaia di persone assiepate davanti alla lapide che sorge nel retro della tragedia di Superga. Il rito si è nel silenzio surreale e sotto qualche goccia di pioggia, che raramente manca il 4 maggio, proprio come successe nel 1949. Sono circa 5000 i fedelissimi del Torino che nell’arco del pomeriggio sono saliti sul colle, un pellegrinaggio laico che quest’anno è tornato a compiersi dopo due anni di distanziamento sociale a causa del Covid. La lettura dei nomi si è tenuta dopo la Messa di suffragio celebrata da don Riccardo Robella. Presente il Torino al gran completo, a partire dal presidente Urbano Cairo che già in mattinata aveva presenziato alla cerimonia di commemorazione andata in scena al Cimitero Monumentale. Dopo la funzione religiosa, un fiume di gente ha atteso la squadra. Molto acclamato capitan Belotti, al quale il popolo granata ha espresso il suo desiderio di vederlo continuare col Torino. Grandi ovazioni anche per il tecnico Ivan Juric e per Gleison Bremer, grande protagonista quest’anno sul campo da gioco.
SUPERGA Ora 16.30 Anche il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, si è recato a Superga per rendere omaggio al Grande Torino, insieme alla senatrice Licia Ronzulli. «Grande partecipazione e rispetto - sono state le sue parole dopo aver deposto una corona di fiori alla Lapide del Grande Torino - per questa squadra. Il Grande Torino era un patrimonio della piemontesità ma anche di ogni essere umano. Anzitutto perché erano i più forti di tutti. E poi perché vivevano la loro grandezza con grande rispetto nei confronti di avversari e rivali. Da presidente della Regione sono orgoglioso di dire che oggi siamo tutti granata». Così Cirio, invece, sul primo 4 maggio con libero accesso per i tifosi dopo due anni di Covid: «Molto bello rivedere la gente qui. Ma quello che mi ha sempre colpito è il fatto che chi viene qui trova sempre qualcuno, 365 giorni l’anno, che prega per questo caduti. Questa giornata è anche un segnale di ripartenza nel rispetto delle nuove regole, che ci permettono la convivenza».
Sono passati 73 anni dalla tragedia di Superga, ma ogni 4 maggio la città di Torino si ferma per ricordare il Grande Torino, «orgoglio d’Italia» come lo ha definito la società granata sui canali social. E la Juventus si è accodata alla commemorazione: «73 anni fa, il 4 maggio 1949, nella tragedia di Superga se ne andava il Grande Torino. Juventus si unisce al ricordo di quella squadra straordinaria». Come i bianconeri il Benfica e tanti altri club in Italia e nel mondo ricordano e omaggiano la memoria di Valentino Mazzola e dei suoi straordinari compagni.
In mattinata, con inizio alle 11.30 circa, c’è stata la commemorazione ufficiale al Cimitero Monumentale, dove riposano le spoglie di buona parte dei campioni granata. Un momento di preghiera e raccoglimento celebrato da don Riccardo Robella, padre spirituale del Torino. Presente anche il sindaco Stefano Lo Russo. «Essere qui per la prima volta da sindaco è un’emozione grandissima — sono state le sue parole —. Questa è una data simbolica che ha segnato la storia della nostra città. Quando ho vinto le amministrative, ho dedicato la vittoria ad Aldo Rabino: fu lui a farmi innamorare della storia del Grande Torino , simbolo di grinta determinazione e speranza per il futuro. Le gesta del Grande Torino rappresentano valori importanti dentro e fuori dal campo. Il mito di quella squadra è anche dovuto al fatto che era il simbolo di una Italia che si stava risollevando dalla Guerra. Era il simbolo di un’Italia che dalle difficoltà si voleva rialzare per diventare più forte. Non è un caso se l’aggettivo “grande” è stato attribuito al Torino: erano grandi sul campo, ma grandi anche fuori dal campo. Per la serietà, la correttezza e la grinta che traspariva dalle loro gesta».
A Superga
Non è mancata anche quest’anno la presenza di Urbano Cairo, patron del Torino. «Ogni anno questa ricorrenza è molto sentita da tutti noi e ha un valore speciale — le sue parole —. Quest’anno ancora di più. Ci sono stati due anni di pandemia e ora c’è la guerra, il Grande Torino è stato un motore dopo la seconda guerra mondiale ed è un parallelismo che dobbiamo fare e prendere come esempio per i giorni nostri». Il presidente ha quindi aggiunto. «È stata una squadra unica, dopo 73 anni li ricordiamo ancora, al cimitero e a Superga. È incredibile che tanta gente, che non ha conosciuto nessun calciatore, provi tanto affetto e amore verso questa squadra. È qualcosa di unico, una giornata molto speciale».
Cairo si è quindi soffermato sul campionato di Serie A che sta per concludersi: «Per noi è stato molto positivo. A un certo punto c’era la percezione, condivisa anche dal mister, che si potesse fare qualcosa in più. Poi purtroppo non è stato così ma abbiamo saputo riprenderci molto bene nelle ultime sei partite, ottenendo belle vittorie e buoni pareggi contro squadre forti». Il patron granata ha parlato del momento storico della squadra: «Questo per noi è l’anno della ripartenza. Ricordo quando venimmo qui al Cimitero Monumentale l’ultima volta, nel 2019: stavamo lottando per l’Europa. Fu una stagione molto buona e arrivammo settimi. Poi nei due anni successivi le cose non sono andate altrettanto bene e abbiamo dovuto lottare per altri obiettivi. Ecco perché quella di quest’anno è una svolta. Ho rivisto un Toro aggressivo come non lo avevo mai visto, un Toro che difende nella metà campo avversaria. Ora mancano tre partite, cerchiamo di farle al meglio e poi tireremo le somme pensando al futuro. Obiettivi? Meglio fare le cose piuttosto che annunciarle. Arriviamo da anni difficili: una volta vincevamo lo “scudetto del bilancio”, ora su questo aspetto lottiamo per non retrocedere… Un po’ per il Covid, un po’ perché abbiamo fatto operazioni troppo onerose per le nostre possibilità. Ora stiamo ripartendo seguendo un’altra direzione, quella dei giovani con potenziale da far valorizzare al nostro mister, un po’ come accadeva l’anno scorso. È accaduto già quest’anno: diversi giocatori, giovani e meno giovani, hanno alzato il loro livello grazie al lavoro del mister».
Il presidente ha quindi parlato di colui che è probabilmente il miglior granata di quest’anno. «Bremer? È con noi da quattro anni ormai, è cresciuto tantissimo perché ha grandi valori tecnici, fisici e morali. Quest’anno ha annullato grazie alle sue doti di marcatura praticamente tutti gli attaccanti più importanti della Serie A. È stata una stagione speciale, per lui».
Infine, un commento sul futuro di Andrea Belotti. «Ne abbiamo già parlato tanto e non ci sono state novità. Chissà che, non parlandone, possa accadere qualcosa di diverso da quello che mi aspetto. Se spero possa rimanere? Certo, ha fatto con noi sette anni e 100 gol in A, ci mancherebbe…».
· 65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.
Ollio nasceva 130 anni fa: il fratello morto a 17 anni, il grande successo e i 70 chili persi alla fine, 9 cose che non sapete sul grande attore. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.
Sono passati 130 anni dalla nascita, il 18 gennaio 1892, di Oliver Norvell Hardy, con Stan Laurel una delle metà del più celebre duo comico della storia del cinema.
L’infanzia
Figlio di un veterano della Guerra Civile Americana dell’Esercito degli Stati Confederati e di Emily Norvell, Oliver Hardy era il minore di cinque figli. Suo padre Oliver morì quando Hardy aveva meno di un anno. Non fu l’unica disgrazia che colpì la famiglia. Quando aveva 17 anni, suo fratello maggiore Sam fece visita a casa dei fratelli e insieme decisero di andare a nuotare in un vecchio mulino sul fiume Oconee. Sam si arrampicò su un albero e si tuffò nel fiume da un ramo a strapiombo. Avendo tragicamente valutato male la profondità delle acque si spezzò il collo sulle rocce sotto la superficie. Oliver e i fratelli si tuffarono nel fiume e tirarono fuori Sam. Lo riportarono di corsa a casa, ma era troppo tardi: Sam era morto. Decenni dopo, in una apparizione nel programma televisivo «This Is Your Life», Hardy si commuoverà vistosamente rievocando quella la perdita di Sam, rendendo evidente quale traccia avesse lasciato su di lui. Poco interessato all’istruzione formale, dimostrò precocemente un vivo interesse per musica e teatro. All’età di 8 anni si esibiva in spettacolini musicali e la madre, riconosciutone il talento per il canto, decise di mandarlo ad Atlanta a studiare musica con l’insegnante di canto Adolf Dahm-Petersen.
Gli esordi
Nel 1910, nella città natale di Hardy, Milledgeville, apre il cinema The Palace, di cui il 18enne Oliver diviene proiezionista, bigliettaio, uomo delle pulizie e manager. Ben presto le potenzialità della nascente industria cinematografica diventano per lui un’ossessione: Hardy è convinto di poter fare un lavoro migliore degli attori che vede sullo schermo. Un amico gli suggerisce di trasferirsi a Jacksonville, in Florida, dove si stanno girando alcuni film, cosa che Oliver fa nel 1913: di giorno lavora alla Lubin Manufacturing Company, di notte si esibisce come cantante di cabaret e vaudeville. È in questo periodo che Babe, come lo chiamano familiari e amici, incontra Madelyn Saloshin, una pianista, che sposa il 17 novembre 1913 a Macon, in Georgia — e da cui divorzierà nel 1920. Nel 1914 realizza il suo primo film, «Outwitting Dad». È un uomo imponente, pesa 136 chili distribuiti su un’altezza di un metro e 85 centimetri, dimensioni che pongono dei limiti ai ruoli che può interpretare. Verrà scelto spesso per interpretare la parte del «villain», ma ottiene anche piccoli ruoli in cortometraggi comici.
«Ciccio Hardy»
Il fisico massiccio di Oliver fa parte della sua identità (e del suo successo), ma sarà anche la causa dei suoi problemi di salute più avanti negli anni. Durante tutta la sua infanzia lo accompagnerà il soprannome di «Ciccio Hardy». Quel suo corpaccione lo tormenterà sempre, e di certo non lo aiuterà il fatto che la madre gestisca una piccola rete di alberghi locali, per pubblicizzare i quali lo manda in giro per la città indossando una tavola sandwich che ne reclamizza l’ottima cucina. Quando l’America entra nella Prima guerra mondiale, Oliver prova a fare il suo dovere di patriota: intende arruolarsi nell’esercito. Secondo Raymond Valinoti Jr., autore di una biografia su Stan Laurel e Oliver Hardy, quando gli ufficiali vedono Oliver cominciano a sfotterlo per il suo peso, chiamando altri reclutatori e mostrarlo loro manco fosse un fenomeno da baraccone. Oliver se ne va umiliato.
Il primo set con Stan Laurel
Nel 1921, appare nel film «The Lucky Dog» interpretato da Stan Laurel, con il quale non lavorerà più per qualche anno. Nel 1925 recita la parte dell’Uomo di Latta nel «Mago di Oz» e nel film «Sì, Sì, Nanette!», con Jimmy Finlaysone diretto da Stan Laurel. Hardy interpreterà altri due cortometraggi con Laurel alla regia, «Wandering Papas» e «Madame Mystery», entrambi nel 1926. Nello stesso anno sarebbe dovuto apparire in «Get ‘Em Young». Ma, inaspettatamente, viene ricoverato in ospedale dopo essersi bruciato sul set con un cosciotto d’agnello bollente.
La coppia «Stanlio e Ollio»
Già prima di lavorare in coppia, sia Hardy che Laurel sono entrambi attori affermati: Oliver ha lavorato in 250 produzioni, Stan in 50. Durante la loro carriera, durata dal 1919 (con una pausa di sette anni fino al 1926) al 1951, interpreteranno ben 106 film, di cui 32 cortometraggi muti, 40 cortometraggi sonori e 23 lungometraggi. Al successo dei corti girati in coppia tra il 1927 e il 1930 segue, nel 1931, il loro primo lungometraggio (anche se in realtà i due hanno già recitato in due film lunghi: «Hollywood che canta», musical del 1929, e «Il canto del bandito», del 1930, in cui però fanno solo piccole apparizioni), «Muraglie», che riscuote un ottimo successo al botteghino. Seguono «I due legionari» (1931), «Il compagno B» (1932) e «I figli del deserto» (1933); tra i corti di questo periodo sono da citare «I monelli», «Andiamo a lavorare», «Il circo è fallito» e, tra quelli di maggior successo, «La scala musicale» (1932), vincitore del premio Oscar per la migliore comica e scelto, nel 1997, per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Non c’è due senza tre (ma il terzo matrimonio è quello giusto)
Nel 1937, Hardy e Myrtle Reeves divorziano. Sul set di «I diavoli volanti» (1939), in cui Hardy e Laurel interpretano due onesti pescivendoli americani in vacanza di piacere a Parigi, Oliver si innamora di Virginia Lucille Jones, una sceneggiatrice che sposa l’anno successivo. Rimarranno felicemente insieme per il resto della loro vita: Lucille rimarrà vicino al marito fino all’ultimo giorno, sostenendolo nei molti momenti di difficoltà. Col passare degli anni infatti la salute dell’attore diventerà cagionevole e i problemi al cuore sempre più frequenti.
Sul set affiatamento e intesa con Stan
Attori affiatati sul set, Laurel e Hardy si stimano moltissimo e sono amici e complici anche fuori dal set, pur incontrandosi in poche occasioni — qualche cena con le mogli o qualche battuta di pesca. Secondo le parole di Laurel, «Babe» è un «playboy», inteso come un tipo mondano, amante della buona cucina e del divertimento. Finito di girare, Oliver corre a giocare a golf al Country Club di Los Angeles, oppure punta (e perde) alle corse dei cavalli. I suoi amici nel tempo libero sono Bing Crosby, W. C. Fields, il produttore di molti film della coppia, Hal Roach, ma anche Adolphe Menjou (battuto a golf in una famosa partita fra attori di Hollywood) e James Parrott, uno dei registi più prolifici del duo comico. Oliver è un attento esecutore delle indicazioni di Stan, regista-attore-montatore-scrittore dei loro film. Sa perfettamente come realizzare quanto gli viene chiesto; «Chiedi a Stan» è la frase che ripete spesso quando gli vengono chieste delle opinioni sul copione. Questa grande forma di rispetto reciproco rese salda l’amicizia tra i due, durata per più di trent’anni senza mai un litigio — questo, almeno, riportano le biografie più accreditate.
Il declino negli Usa, l’amore dell’Europa
Dopo due film usciti nel 1940, all’inizio del 1941 la coppia «Stanlio e Ollio» lascia Roach e passa alla 20th Century Fox, con cui, insieme alla Metro-Goldwyn-Mayer, gireranno ancora otto film, ma tutti di scarso successo. Nel 1947 Laurel e Hardy si recano in tournée in Europa, dove la loro fama è invece ancora grandissima. Visitano anche l’Italia, dove vengono accolti con entusiasmo — tanto che, secondo alcune fonti, anche papa Pio XII vuole incontrarli in privato. Nel giugno del 1950, durante uno spettacolo teatrale tenutosi a Villa Aldobrandini a Roma, Hardy conosce finalmente di persona il suo doppiatore italiano, un giovane attore di nome Alberto Sordi. Sempre in Europa il duo comico girerà «Atollo K» (1951), il loro ultimo film, che si rivelerà un flop. Nella produzione avrebbe dovuto recitare anche Totò, che però, poco prima dell’avvio delle riprese, firma un contratto con un’altra compagnia cinematografica. Darà forfait anche un altro comico previsto nel cast, il francese Fernandel. La coppia torna ancora in due occasioni sul palcoscenico in Gran Bretagna, prima nel 1952 e poi nel 1953-1954. Il grande favore del pubblico li sprona ad andare avanti finché le condizioni di salute di Babe prima, e Stan dopo, peggiorano al punto da costringere i due a concludere in anticipo il loro ultimo tour nel maggio del 1954.
The End
Alla fine del 1955, alla vigilia delle riprese di una serie di show a colori, alcuni di questi basati su vecchie favole per bambini, intitolata «Le Fiabe di Laurel & Hardy», Oliver ha un attacco di cuore (qualche mese prima è successa la stessa cosa a Stan). Le puntate non verranno mai girate. Hardy trascorre il 1956 cercando di riprendersi e sottoponendosi a una dieta molto rigida: in pochi mesi perde quasi 70 chili. Per la prima volta nella sua vita si ritrova a essere magro, cosa che non gradisce affatto: sceglie di abbandonare le scene e chiudersi in casa, senza vedere più nessuno, accudito dalle amorevoli cure della sua Lucille. Il 14 settembre del 1956, un ictus lo porta alla semiparalisi; non può quasi più muoversi e, come racconta lo stesso Stan, ha difficoltà anche a parlare, per cui i due ricorrono alla loro arte mimica per comunicare a gesti. Alcune lettere scritte da Laurel fanno riferimento a un cancro terminale che fa perdere ulteriore peso all’amico Babe, rendendolo irriconoscibile. Entrambi i comici sono due fumatori accaniti: Hal Roach in passato li ha definiti una coppia di «ciminiere di treni merci». Oliver muore la mattina del 7 agosto del 1957 all’età di 65 anni, presso la casa della suocera, al 5421 di Auckland Avenue, Hollywood, California. Laurel, pur consapevole delle gravissime condizioni di salute dell’amico, rimane comunque sconvolto alla notizia della sua scomparsa. Dichiarerà alla stampa: «Che cosa c’è da dire? È scioccante, naturalmente. Ollie era come un fratello. Questa è la fine della storia di Laurel e Hardy».
· 60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.
Blonde è un fumettone barocco impossibile da ignorare. Blonde, il trailer del biopic Netflix su Marilyn Monroe. TERESA MARCHESI su Il Domani l'08 settembre 2022
Il film di Andrew Dominik su Marilyn Monroe è bignami del romanzo di Joyce Carol Oates: un fumettone barocco e sovraccarico, ma chi potrà ignorarlo?
L’attrice cubana Ana de Armas, chiamata a incarnare il mito, non ha né la luce né la carnalità del modello, ma l’illusione – certi sorrisi , certe espressioni smarrite – a tratti è inquietante
Ha tante tappe, tante stazioni, la vita breve del più totemico dei sex symbol, crocevia di magnetismo e fragilità, icona assoluta del XX secolo e oggetto di fantasie macabre e postume.
«E quindi il pubblico folto e osannante l’avrebbe guardata, avrebbe guardato lei, la splendida bambola meccanica del presidente, o piuttosto la bambola gonfiabile per lo spasso sessuale del presidente, l’avrebbero guardata e avrebbero immaginato quello che in realtà non potevano vedere, e immaginandolo l’avrebbero visto: l’ombra della fica, l’ombra di una ferita, l’ombra di un nulla tra le cosce burrose di quella voluttuosa femmina, come se già in sé quell’ombra fosse l’eucaristia, irta di mistero»: pagina 748 della mia vecchia edizione Garzanti di Blonde, del 2000.
È uno stralcio della cronaca immaginaria e appassionata di Joyce Carol Oates, la ricostruzione del famoso “Happy Birthday Mister President”. Smaschera, la scrittrice, il cinismo brutale di quella festa. Marilyn è un trofeo da sbandierare. Biografia dell’anima, quella di Oates: i fatti nudi, l’ufficialità, penetrano nel racconto con circospezione. È una lettura ipnotica, se non ti lasci intimidire dallo spessore di un volumetto che sfiora le 800 pagine.
Sono trentasei anni di vita visti in soggettiva da Norma Jeane Baker, l’Attrice Bionda. Oates la chiama di rado Marilyn Monroe, è il nome dell’immagine pubblica, appartiene allo sfruttamento e all’abuso. Per i deuteragonisti, i mariti, usa definizioni generiche: l’Ex-Atleta, il Drammaturgo. Il Billy Wilder di A qualcuno piace caldo è W. Tony Curtis. che «sarebbe stato nemico della Monroe tutta la vita e dopo la morte quante sordide storie avrebbe raccontato su di lei», è C. Non servono i sottotitoli.
FUMETTONE BAROCCO
Nel fumettone che Andrew Dominik ha tratto dal libro – e che sarà su Netflix dal 28 settembre- il baccanale presidenziale non c’è. C’è invece una sovrabbondanza di feti parlanti che basterebbe ad alimentare un’intera campagna antiabortista. Vero è che la scrittrice mette i due aborti – uno volontario, il secondo subito, entrambi indelebili – in cima alla lista dei tormenti privati di Norma Jeane. E a onor del vero Oates ha ufficialmente dato semaforo verde al film, che con i suoi 165 minuti è un bignami del romanzo, parlando di una lettura «assolutamente femminista»: «Non credo che un altro regista maschio abbia mai realizzato nulla di simile».
È un fumettone barocco, sovraccarico, ma chi potrà permettersi il lusso di ignorarlo? Lo voleva Cannes, ma la barriera dell’uscita solo su piattaforma, demonizzata dal festival francese, ha bloccato il business. A Venezia è in concorso: tolleranza lungimirante che premia. Perché fa notizia, e comunque non è un biopic all’acqua di rose.
È il primo film Netflix Original marchiato dal divieto di visione ai minori di 17 anni. E ha tante tappe, tante stazioni, la vita breve del più totemico dei sex symbol, crocevia di magnetismo e fragilità, icona assoluta del XX secolo e oggetto di fantasie macabre e postume. Hugh Hefner sborsò 75mila dollari per il privilegio di farsi seppellire vicino a Marilyn.
TRAUMI
Le grandi battaglie non si combattono sui palcoscenici, scriveva un signore che non usava le parole a sproposito, Jean Giono. Le battaglie che Oates attribuisce a Norma Jeane sono contro un fardello di traumi e dèmoni paralizzante, contro l’aggressione di «maschi d’uomo smaniosi ed eccitati che guardano». «Mi guardano ma non mi vedono», diceva lei.
È il 1954, alle due di notte si sta girando la scena più celebre di Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch ) e lei è, in tutte maiuscole per la scrittrice, La Ragazza sulla Grata della Metropolitana, «venere bionda, insonnia bionda, bionde gambe depilate di fresco divaricate». L’Ex-Atleta, il marito Joe Di Maggio ( Bobby Cannavale, nel film) la punirà per l’esibizione a forza di pugni: «Sono mani grosse, mani da atleta, mani esperte, mani col dorso ricoperto di esili peli neri».
Chiamata a incarnare il Mito dopo blockbuster di lusso come No Time to Die e il recente The Gray Man con Ryan Gosling, la cubana Ana De Armas non ha né la luce né la carnalità del modello, ma l’illusione – certi sorrisi , certe espressioni smarrite – a tratti è inquietante. Brad Pitt, tra i produttori, grida al miracolo. Madre schizofrenica, orfanatrofio, Clark Gable contrabbandato in effigie come padre segreto e agognato: è già un miracolo, per un’orfana con madre viva, approdare ai fasti di Hollywood dopo tanta via crucis, passando per gli stupri autorizzati dei produttori.
Molto si tace e molto si dice. Non capisco l’alone di moralismo con cui il regista descrive il ménage à trois con due figli d’arte, Cass Chaplin ed Eddy G. Robinson, “ragazzacci” di liberi costumi figli di celebrità con nomi illustri «che gli pesavano addosso come menomazioni fisiche», scrive Oates. Con loro, in barba alla promiscuità, secondo la scrittrice, MM ha vissuto in realtà gli anni più teneri e meno inquietanti.
Sono “gemelli”: come lei, figli indesiderati. Dal romanzo, cito Eddy G. Robinson: «Cass ed io abbiamo una doppia maledizione: siamo figli e per giunta ci chiamiamo come loro, come quegli uomini che non volevano che noi nascessimo». E Cass Chaplin: «Tuo padre tu non l’hai mai conosciuto, quindi sei libera. Ti puoi inventare». È solo dal 1956 che per l’anagrafe, ufficialmente, Norma Jeane Baker diventa Marilyn Monroe.
GENIALE MARILYN
Poi arrivano le cascate di Niagara. La Rose Loomis del film è sotto contratto per mille dollari la settimana, e quella miseria, firmata quando era in bolletta, «le era sembrata un patrimonio». Seducente e perfida, Rose, ma hot: «era impossibile levarle gli occhi di dosso». «Per tutta la carriera, avrebbe fatto guadagnare milioni allo Studio e sì o no un decimo a Norma, i pezzi grossi dello Studio avrebbero fatto finta di non capire». «La gente era convinta che Marilyn Monroe si limitasse a interpretare sé stessa. Qualunque film facesse, e per quanto quel film fosse diverso dagli altri, la gente trovava sempre un modo per sminuirla. “Quella non sa recitare. Sta solo interpretando sé stessa”. E invece era un’attrice nata. Era un genio, sempre che uno creda nel genio». I dialoghi del film sono interamente farina di Oates.
Per Gli uomini preferiscono le bionde prende 500 dollari la settimana, contro i 100mila di Jane Russell, anche se la “bionda” è lei, è lei la regina del botteghino. È singolare che le madri delle massime icone pop americane di sempre, Elvis e Marilyn (Mickey Mouse fa caso a parte) si chiamassero entrambe Gladys. Meglio coprirsi gli occhi quando Ana De Armas “rifà” il numero di Diamonds Are a Girl’s Best Friends, perché è il meno riuscito del film, mentre le riproduzioni in fiction delle centinaia di foto consegnate alla Storia è davvero encomiabile.
POLVERE DI STELLE
Dopo l’eroe italo-americano del baseball Marilyn sposa A. Miller (Adrien Brody nel film), e corona il suo sogno intellettuale: sentirsi un’attrice vera, con la tecnica giusta, che può aspirare a interpretare in teatro la Natasha delle Tre Sorelle di Cechov senza che si rida delle utopie di un’oca svampita. La «puttana svergognata» – secondo l’italo-americano Joe Di Maggio – che esibiva le bianche mutande da educanda sulle grate della metropolitana sembra alle spalle.
Ma il secondo aborto, naturale questa volta, non come il primo, sofferto ma esiziale per la carriera, di paternità incerta, avvelena il set di A Qualcuno Piace Caldo. Norma Jean è più consapevole, battute del copione come quel «sembra fatta di gelatina» le suonano insulti.
Lo sarebbero per questa stagione del #MeToo. Quando compare nei panni di Sugar Kane Kovalchich e canta I wanna be loved by you/ nobody else but you il remake è da brividi. Dominik ha ‘insertato’ Ana De Armas tra i veri attori del film, e la Marilyn finta è una replica impressionante.
All’appello mancano Come Sposare un Milionario, Il Principe e la Ballerina, Gli Spostati. C’è l’umiliante sveltina con «l’attraente leader del mondo libero», JFK. E il film non sposa l’omicidio di stato, operato dall’Fbi e accreditato da Oates nel suo libro. È polvere di stelle di Marilyn. Chissà se le chiamano star perché la loro luce ci arriva quando sono già estinte.
TERESA MARCHESI. Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
Una Marilyn postfemminista ma soprattutto tanto kitsch per l'ultimo film Netflix in gara. Fabio Ferzetti su L'Espresso l'8 Settembre 2022.
Tutto quello che sapevamo su Marilyn Monroe, con qualcosa di più e qualcosa di meno, in un melodrammone che alterna bianco e nero e colore citando ogni possibile immagine già esistente della diva con cura filologica pari solo alla libertà delle licenze storiche. L'ultimo film Netflix in Concorso a Venezia, "Blonde" di Andrew Dominik, è ancora una volta una scelta discutibile.
Fuori gara ci avrebbe incuriosito, appassionato, forse commosso, come probabilmente accadrà a chi lo vedrà sulla piattaforma per cui è concepito nel taglio, nel ritmo e perfino nel tono delle immagini. Ma in Concorso alla Mostra è semplicemente fuori posto. A meno di non considerare il Festival solo in termini di promozione, e ogni film come un contenitore di premi virtuali. In questo senso "Blonde", tratto dal romanzo omonimo di Joyce Carol Oates (La Nave di Teseo), già oggetto di una miniserie tv vent'anni fa, è più interessante. quanto meno per la smagliante performance della cubana Ana de Armas, bruna, intensa, molto latina, dunque fisicamente lontana dalla vera Marilyn, ma capace di comunicare un'adesione emotiva perfino inquietante.
L'andamento è canonico, anzi agiografico (le vite infelici dei divi del cinema sono da un secolo ormai le nuove vite dei santi). Si comincia dall'infanzia terribile con la madre destinata a finire in manicomio e a trasmetterle il culto per un padre mai conosciuto ma ricco e famoso, almeno secondo la mamma, che nell'unica foto esistente sembra la brutta copia di Clark Gable. Si prosegue con i primi passi della starlet sul divano del produttore, come anticipato da una celebre scena di "Eva contro Eva" puntualmente e correttamente citata. E avanti così battendo su pochi tasti, sempre quelli, così il racconto procede spedito.
Quindi ecco Marilyn che ai provini cita Dostoevskij mentre tutti non fanno che guardarle il culo (diciamo meglio: Norma Jeane cita Dostoevskij mentre tutti guardano la futura Marilyn, il contrasto fra identità reale e fittizia è uno dei pilastri del film). Scena che si ripeterà più tardi, conquistando Arthur Miller, quando Marilyn, ormai celeberrima e disperata, coglie i riferimenti a Cechov nell'opera del grande drammaturgo lasciandolo sbalordito e innamorato.
La chiave dominante è infatti pesantemente postfemminista, Dunque giù con uomini e mariti maneschi (Joe Di Maggio, che credevamo esser stato uno dei pochi perbene). Vai con abusi, nostalgie del padre mai visto e fantasie di rinascita, dunque di procreazione. Che sfociano in aborti a catena, con feti volteggianti come nel "2001" di Kubrick, ma senza prospettive cosmiche. Quindi una veloce "soggettiva" intrauterina che farà far salti di gioia agli antiabortisti del mondo intero. E addirittura un feto che si rivolge a Marilyn ("Stavolta non mi farai del male, vero?)", tanto la diva è sempre impasticcata e non c'è limite al kitsch.
La parte più interessante, anche perché meno nota e largamente congetturale se non di fantasia, è il ménage à trois tra la futura diva e altri due figli problematici perché non voluti dai loro padri, Charlie Chaplin Jr e Eddy G. Robinson Jr. Figli di stelle del cinema, già amanti, ma capaci di dischiudere le porte del piacere e forse anche dell'amore a quella creatura smarrita (molto bello il passaggio dall'orgasmo alle cascate di "Niagara"). Sia pure a uso futuro ricatto grazie a una serie di foto esplicite.
Il resto naviga più basso. In una sfilata di maschi inadeguati o violenti il peggiore è John F. Kennedy, una sola scena che è un concentrato di nequizie: sesso orale steso sul letto, inguainato nel busto per la spina dorsale mentre telefona a raffica cercando di contenere gli scandali. Tanto l'Oscar per la finezza non esiste ma un premio a Venezia magari lo vinciamo.
“Blonde”, viaggio alla ricerca della vera Norma Jeane. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 9 Settembre 2022
L’edizione numero 79 della Mostra del Cinema di Venezia rievoca la Hollywood degli Studios, dei divi irraggiungibili e le loro vite apparentemente da sogno con Blonde di Andrew Dominik, film biografico sull’esistenza tormentata di Marilyn Monroe. Dall’infanzia fino alla morte per quel che la maggioranza dell’opinione pubblica crede sia suicidio, Blonde, in concorso e su Netflix dal 28 settembre, si basa sull’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates e in America uscirà con un divieto ai minori di 17 anni. Scene forti dunque di un percorso, quello dentro la vita di una diva indiscussa e amatissima da donne e uomini, che si concentra sulla Norma Jeane Baker che si celava dietro l’impeccabile Marilyn.
A rappresentarla sul grande schermo, l’attrice cubana Ana De Armas, ex Bond girl, co-protagonista di Blade Runner 2049 accanto a Ryan Gosling ed ora, con questa interpretazione, in collegamento diretto con una possibile Coppa Volpi e, come Venezia spesso rende possibile, una nomination agli Oscar. «Dovevo comprendere, empatizzare e connettermi con il suo dolore e il suo trauma – confessa in conferenza De Armas. Sapevo che dovevo aprirmi e andare in posti che sapevo sarebbero stati scomodi, oscuri e vulnerabili. È lì che ho trovato il legame con Marilyn». Ma qual era il personaggio da rappresentare sullo schermo, Marilyn o Norma Jeane? Risponde emozionata l’attrice di Cena con Delitto: «Credo che la maggior parte del film si concentri sulla figura di Norma Jeane, penso che sia la sua storia. E poi ovviamente Marilyn ha il sopravvento un paio di volte, è presente perché sono la stessa persona. Ma trovare un equilibrio tra i due personaggi, non so, credo che entrambi avessero bisogno l’uno dell’altra e si alimentassero a vicenda. È stato tutto difficile».
Dura due ore e 46 minuti Blonde ed Andrew Dominik relega allo schermo nello schermo il glamour e la presunta gioia scintillante di Hollywood per dare spazio ad una donna, dalla grande forza e grande fragilità che, pur adorando profondamente ciò che faceva, è stata poco amata, usata e abbandonata. Prima di tutti dalla madre che l’ha sempre vista come un ostacolo. Blonde ci mostra una Norma Jeane vittima di violenze, abusi e un mondo del cinema che fa impallidire quello combattuto a spada tratta oggi: «Il MeToo l’avrebbe aiutata, ma non c’era», ricorda Andrew Dominik che decide di prendere posizione anche sulla teoria del suicidio: «Un’overdose è una forma di suicidio, io non credo all’omicidio. Essere un oggetto del desiderio può rivelarsi pericoloso, tanti ne sono stati distrutti. Perché la tua fama sta nella fantasia, nell’inconscio delle persone». Prima di vedere l’attesissimo Blonde, l’ultima parola ad Ana De Armas: «Ho partecipato a questo film come fosse un dono a me stessa, non per far cambiare le idee degli altri su di me. Qualunque cosa succeda, questo film ha cambiato la mia vita. E poi sarà quel che sarà». Chiara Nicoletti
Vita segreta di Marilyn Monroe: gli ultimi misteri di una diva. Nel suo Dea: Le vite segrete di Marilyn Monroe, Anthony Summers ha cercato di restituire dignità alla diva e alla donna. Con lo stile da grande romanzo, affronta la vita dell'attrice come una grande inchiesta giornalistica, distinguendo le prove dai pettegolezzi. Francesca Salvatore il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.
Bella, desiderata, sfortunata. Di Marilyn Monroe la storia mediata da Hollywood ha sempre restituito un ritratto da femme fatale condito da citazioni banali su diamanti, capelli biondi e gocce di profumo. Come se l’esistenza terrena di Norma Jeane Mortenson Baker, questo il suo vero nome, fosse stata solo esteriorità e capriccio, dimenticando la bambina cresciuta troppo in fretta che finì i suoi giorni in solitudine.
Nel suo Dea: Le vite segrete di Marilyn Monroe, Anthony Summers ha cercato di restituire dignità a Norma Jeane e alla sua storia. In questo libro, diventato un cult (appena ripubblicato da La Nave di Teseo, 633 pg.), l’autore rifugge dalla ipocrita pruderie ma allo stesso tempo non cade mai nell’ossessione per il pruriginoso. Con il tono da grande romanzo, affronta la vita della diva come una grande inchiesta giornalistica, distinguendo con precisione prove e pettegolezzi.
La sposa bambina
Una vita grama che inizia nel 1926 all’insegna di una figura paterna velata di mistero, una madre assente. A gettare Norma in pasto al mondo degli adulti fu Grace McKee, la sua tutrice che aveva deciso di trasferirsi a Est con il suo nuovo marito. Poiché i due non volevano portare con loro la ragazza, la soluzione era trovarle un marito: la scelta cadde su Jim Dougherty, figlio di un vicino che conosceva bene. A soli sedici anni, imparava ad essere una buona donna di casa e reprimere l’adolescente desiderosa di svaghi: fuori, impazzava la Seconda guerra mondiale. Per Jim fu presto l’ora di partire per il Pacifico. La giovane moglie, nel frattempo, lavorava alla Radio Plane, una fabbrica di aerei bersaglio usati per le esercitazioni di tiro, circondata da uomini.
Alla fine del 1944, negli ultimi mesi di guerra, il soldato David Conover arrivò alla Radio Plane per fare un servizio fotografico sulle donne che lavoravano negli impianti bellici. Conover era un fotografo dell’esercito e il suo comandante era un certo capitano Ronald Reagan. Quelle foto fruttarono cinque volte il suo stipendio e qualcuna finì sulla scrivania della Blue Book Model Agency: Norma divento rapidamente una ragazza-copertina e Dougherty, di stanza in Cina, venne raggiunto dalla richiesta di divorzio. Nel frattempo Norma aveva iniziato una storia con André de Dienes, il primo fotografo a volerla immortalare nuda: una storia autentica, una delle poche in un mare di millantatori, pronti a giurare di aver fatto questo e quello con il corpo della futura divina.
Finì anche quella storia, all’improvviso, mentre Norma si trasformava in una vedova bambina, come ella stessa si definì, in un mare di squali come Hollywood. Da quel momento i piani del racconto si sovrappongono continuamente, in un continuo mescolarsi tra fondi di verità, le fantasie dell’attrice, le testimonianze di chi le fu vicino e le menzogne di chi volle arricchirsi con i dettagli sulle sue ossessioni. Il sesso e la maternità erano fra questi: nessuno è mai riuscito a saper con certezza se i racconti sulle molestie subite da ragazzina, sugli aborti e su un figlio dato addirittura in adozione corrispondessero a verità.
Norma diventa Marilyn
Avere un bambino fu allo stesso tempo desiderio famelico e incubo: avere una gravidanza sarebbe stato d’intralcio per la Norma che nell’estate del 1946 aveva ottenuto un ruolo di comparsa dalla Twentieth Century-Fox. Le avevano trovato anche un nome d’arte: Marilyn Monroe.
Le smanie di successo, tuttavia, si sono sempre accompagnate alla convinzione di non avere la preparazione adatta. L’attrice diceva di se: “Sapevo di essere scadente. Avvertivo materialmente la mia mancanza di talento come un abito da quattro soldi che uno si sente addosso. Ma, Dio, che voglia di imparare avevo!”. Rastrellava ancora ruoli minori e instabili, tanto che la Fox la licenziò, e colei che era già Marilyn fu costretta a vivere in camere ammobiliate condivise con altre compagne di avventura, lasciandosi tentare dai guadagni come call girl.
Una parte sempre poco raccontata della sua vita, offuscata da ritratti effimeri e voluttuosi, riguardò la cultura. Marilyn non era una sgallettata ignorante come spesso è stata dipinta. Quello per la cultura fu un interesse che perseguì per tutta la vita e che molti avrebbero visto come una posa: divorava Thomas Wolfe, James Joyce, libri di poesia, biografie e libri di storia. Agli inizi del 1949 era di nuovo al verde e senza lavoro. Non aveva che ventitré anni, ma il suo animo era già molto segnato. A venticinque, solo due anni più tardi, viveva, a distanza di pochi mesi, il suo vero debutto cinematografico e il terzo tentativo di suicidio, mentre Hollywood la maneggiava “come la cosa più esplosiva che si fosse mai vista”.
Ben presto fu il tempo della disastrosa relazione con Joe DiMaggio, un circo pubblico nutrito dai flash che regalò pubblicità ai protagonisti e un romanzetto d’amore precotto agli americani del Dopoguerra. La verità è che, come afferma Summers, “Nella fantasia, Marilyn era ora la sposa dell’America intera. Nella realtà, era un relitto tra le braccia di tanti, con un campione di baseball come ancora di salvezza”. Dopo vari annunci andati a vuoto, il matrimonio venne celebrato alla svelta il 14 gennaio del 1954. Iniziato nella discordia, sarebbe durato meno di nove mesi e, stando alle testimonianze e ai racconti della stessa Marilyn, fu scandito da violenze ripetute.
L'"esilio" e il matrimonio con Arthur Miller
Mentre a Hollywood tutti ormai accettavano la ventottenne attrice come star a tutti gli effetti, lei aveva già deciso di rifiutare loro, di voltare completamente le spalle allo star system – al marito, agli amanti, ai baroni del cinema, a tutto. Nel 1954, subito prima di Natale, indossò la sua parrucca nera e gli occhiali scuri e andò all’aeroporto di Los Angeles con in tasca un biglietto a nome di Zelda Zonk. La fuga, che le ragalò qualche mese di vita normale e castigata, si compì con la fondazione di una casa di produzione indipendente, la Marilyn Monroe Productions, di cui lei stessa era presidente, con il cinquantun per cento delle azioni. L’esilio in quel di New York non durò molto: all’orizzonte si stagliava un’altro matrimonio da record, quello con il più eminente drammaturgo d’America.
Arthur Miller: un “progetto” che pare Marilyn avesse già dai tempi dell’unione infelice con DiMaggio. A questo colpo si aggiunse il dietro-front della Fox, costretta a scendere a patti con l’attrice. La primavera del 1956 sembrò segnare una rinascita della diva tormentata, in amore come nel lavoro. Quello stesso anno, il 2 giugno, scoppiò la bomba. A Miller fu presentata l’ingiunzione di comparire davanti alla Commissione del Congresso che intendeva interrogarlo sulle sue presunte simpatie comuniste. Come Miller ben sapeva, si trattava di un’odissea che aveva rovinato dozzine di suoi colleghi. Resistette strenuamente per due anni agli assalti dei residui del maccartismo, supportato coraggiosamente dalla nuova compagna che mai lo abbandonò e che lo spronò a non cedere ai ricatti di quegli anni bui. Il matrimonio, celebrato nel giugno del 1956, apparve come un premio alla resistenza dei due e di Marilyn in particolare, nonchè una porta chiusa in faccia alla Guerra Fredda. Ma ben presto anche quello si trasformò in matrimonio infelice, caratterizzato dalla delusione di lui e dall’infelicità di lei annegata nei barbiturici, costellata da aborti e depressione.
Il difficile 1961 e l'incontro con i Kennedy
Nel frattempo, Marilyn soleva sedere al tavolo con personaggi del calibro di Kruscev e Sukarno, a dispetto della vulgata sulla sua frivolezza e poca intelligenza, mentre alla fine del 1960 il matrimonio con Miller si chiudeva a suon di carte bollate. Nel gennaio del 1961, forse troppo tardi, le si aprirono le porte della Payne Whitney Psychiatric Clinic di New York. La realtà, nel 1961, fu davvero dura. La sua segretaria di New York, Marjorie Stengel, avrebbe ricordato Marilyn, a trentacinque anni, come “l’essere umano più svuotato che avesse mai conosciuto”.
All’inizio del gennaio del 1961, dopo il rehab, Marilyn confidò ad amici che era recentemente andata a “un appuntamento con il prossimo presidente degli Stati Uniti”. La vicenda con il presidente e le ramificazioni che la collegano a John e Robert Kennedy, a Frank Sinatra e ai suoi amici sono diventate una sorta di leggenda. Nel giro di meno di due anni, nell’aura di quei rapporti, Marilyn sarebbe morta. Quale che fosse la natura precisa dei contatti incrociati con i fratelli Kennedy, si può dire che i due stavano giocando con il fuoco.
Quando Marilyn morì, il pericolo si era fatto estremo. Solo anni dopo ci si poté rendere conto della misura in cui i segreti personali dei Kennedy erano esposti, a quel tempo, ai loro peggiori nemici. A questa sarabanda si aggiunse un quarto elemento a complicare le cose: Frank Sinatra. Il grosso punto interrogativo sulla relazione tra Marilyn e Sinatra riguarda non tanto la persona di quest’ultimo, quanto l’opportunità che essa fornì ad altri di danneggiare i Kennedy. La vicinanza con il cantante portò Marilyn in un ambiente frequentato da alcuni dei peggiori nemici di Bob e John. Quanto ne sapesse la mafia e Sam Giancana non è mai stato chiaro.
Verso la fine
All’inizio del 1962, messa a bada la dipendenza da farmaci per qualche tempo, la diva comprò una casa tutta per sè. Da ormai un anno Marilyn non girava film e la percentuale sui profitti di quelli girati in precedenza non sarebbe arrivata ancora per molto tempo: quando comprò la casa aveva pochi liquidi a disposizione. Nessuno, sembra, fece caso a uno strano piccolo stemma inserito tra le mattonelle davanti alla porta della sua nuova abitazione. Il motto diceva, in latino, “cursum perficio”, ovvero “Sto finendo il mio viaggio.”
Da quel momento in poi, rimpallata continuamente da un fratello Kennedy all’altro, tra overdose e nuovi tentativi di suicidio, si trasformò via via in un fantasma, perennemente in vestaglia, svuotata e in preda a crisi maniaco-depressive. Una mina vagante anche per i Kennedy, che iniziarono a prenderne le distanze. “Lo sai da chi sono sempre dipesa?” aveva detto Marilyn al giornalista W.J. Weatherby. “Non dagli estranei, non dagli amici. Dal telefono!”. L’attrice fece lavorare sodo il suo “migliore amico” negli ultimi giorni della sua vita: chiusa in casa, bersagliò gli amici di telefonate.
Ed è così che venne ritrovata, nella notte del 5 agosto 1962, nella sua casa di Los Angeles: devastata dal Nembutal, un potente barbuturico, con il ricevitore del telefono in mano, come addormentata, in un mare di misteri. Non era più Marilyn Monroe: era tornata Norma Jeane.
Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.
Bello o brutto che sia, è come se tutti avessimo già visto questo Blonde che nessuno ha ancora visto. Il film-evento della Mostra di Venezia, che si aprirà il 31 agosto, è infatti solo un pretesto, l'ennesimo, per ritrovare la Marilyn che c'è nella mente di tutti e di ciascuno. Da sessant' anni, in un ingorgo di piacere e dispiacere, Marilyn è l'erotismo, il combattimento tra sofferenza e gioia della donna inventata dal maschio in stato di mobilitazione sessuale permanente, la femminilità surreale dell'onanismo che, diceva Kraus, «surroga la realtà, ma viene meglio».
Diciamo la verità: di film su Marilyn ne sono già usciti tanti, troppi ma, com' è insaziabile il bisogno di miracoli, così il mito è sempre affamato di "nuove verità": poliziesche, politiche, artistiche. E puntualmente saltano fuori foto e dettagli "inediti" che somigliano agli ovuli non fecondati, e ciclicamente finisce al rogo un nuovo colpevole, anche se i roghi non illuminano le tenebre già affollate di colpevoli: la mafia, i sovietici e poi Casa Bianca, Cia, Fbi, Kgb.
E la sociologia rimette sotto accusa i soliti luoghi (comuni) d'America e i vizi sociali, che sono (ancora) quelli di Hollywood Babilonia (Adelphi 1959), l'assassino collettivo che una volta si chiamava "star system", qui con l'aggiunta di orfanatrofi-prigioni, padri adottivi stupratori, l'alcol come vulcano di improperi, gli ospedali per matti con le camere imbottite, le camicie di forza, gli psicofarmaci e i medici che la curarono (si fa per dire), l'ultimo dei quali, Ralph Greenson, è da sessant' anni il più sospettato dei colpevoli.
C'è una sola certezza che resiste al mito: Marilyn è stata uccisa dagli psicofarmaci che ancora oggi aggrediscono ma non guariscono i tormenti della mente. (…) Ma non dimentichiamo mai che Marilyn fu la cavia degli psicanalisti più ricchi e famosi, come ha autorevolmente raccontato Luciano Mecacci in un titolo che, ripubblicato quest' anno da Laterza, andrebbe imparato a memoria: Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicanalisi.
Barbara Costa per Dagospia il 6 Agosto 2022.
“Ho passato un sacco di tempo in ginocchio!”. E ancora: “Ci sono andata, a letto con i produttori, sarei una bugiarda se lo negassi. Faceva parte del lavoro. Tutte lo facevano! I produttori volevano un campione della merce e se non ci stavi tu, ce n’erano altre 25 pronte a dire sì”. Signori, ecco come si diventa Marilyn Monroe. Qualcuno ancora crede alla favoletta della povera orfanella che si riscatta a Hollywood? Scaltra, furba, furbissima era Marilyn! Che fosse dalla vita sopraffatta e indifesa è ideale costruzione. Postuma.
A 60 anni dalla morte, è ora di riequilibrarne il mito. E il virgolettato che ho riportato, lo trovi bello scritto in "Goddess", non nuova biografia della diva di Anthony Summers, uno che a indagare su fatti e fattacci di star e di politici, non aveva rivali. E lo scrive, Summers: Marilyn non aveva problemi, non si faceva problemi, a offrirsi a chi il potere a Hollywood ce l’aveva e una parte previo p*mpino – e se bene lo sapevi succhiare, tanto da farti ricordare – te la assegnava, anche se “non basta andare a letto coi pezzi grossi per diventare una star”, precisava Marilyn, “comunque aiuta. Un sacco di attrici hanno avuto la loro prima occasione in quel modo!”.
E Marilyn i primi potenti di Hollywood li conosce quando fa la escort, e se li ritrova come clienti. Altro che lavoro da operaia, altro che le foto su Playboy! Quelle sono venute dopo. All’inizio Marilyn, ancora Norma Jean, fa la taxi-girl, cioè fa la escort. Come si può immaginare che una, bella ma come cento altre prima che a lei pensino gli stylist, senza titolo di studio, senza nulla di nulla, sia potuta assurgere a mito??? Bè, pure crepare giovane conta, ci sto, ma questo mica era nei piani.
Esibire il proprio corpo, concederne le grazie, e così fare fortuna. E esibirlo anche alla cinepresa, anche sul set, non avere pudori a recitare davvero nuda (come in "Niagara", lei sotto le lenzuola, come ne "Gli Spostati", a letto con Clark Gable). Senza vergogne inutili. A Marilyn va riconosciuto: non era una ipocrita!!! Mica come oggi, che le attrici… preciso, certe attrici, più si professano impegnate, più ne fanno dramma, insulto, se non tentato stupro, se un regista in una scena gli chiede un lembo di pelle scoperto in più. Se ne sentono oltraggiate. E si credono serie.
Ma torniamo a Marilyn e al suo mito, dacché sono 60 anni che ci scassano con lei e i Kennedy, lei ammazzata, in uno scenario di disgrazie. Ma disgrazie di che? Sono tutti quelli che sono venuti dopo, ad aver riscritto di loro pugno vita e destino di una donna morta giovane (schiava di medicinali potenti) trasformandola in una eroina dolorosa! E vittima. Ma vittima di che??? Di essersi sc*pata chi voleva, fratelli Kennedy compresi?
Vorrei vedere chi, di fronte all’inquilino capo della Casa Bianca, e qui pure più che piacente… avrebbe risposto no grazie! E basta, con la spy story che l’avrebbero uccisa i Kennedy! Con la complicità di Sinatra! E della mafia! Non si contano i libri e i film su 'sta roba. Secondo Donald H. Wolfe, uno tra i (troppi) biografi di Marilyn, Sinatra avrebbe drogato Marilyn per nuda metterla in un’orgia e in tal posa fotografarla, e così ricattarne il silenzio sui Kennedy. Seee, come no… E se invece fosse andata così? Marilyn e JFK hanno sc*pato, qualche volta, al Carlyle Hotel di New York, dove si sa i Kennedy avevano un appartamento riservato, e va bene, sc*pato lei sopra lui sotto, come ha romanzato Joyce Carol Oates nel suo libro "Blonde" ora pure film, e Marilyn e Bobby hanno sc*pato sì, un paio di volte, in California, nell’auto di lei, e a casa di lei…
Da qui, da pochi incontri pur incantevoli, non dico di no, a farne una telenovela struggente che va avanti da 60 anni, ce ne vuole!!! Ma se Marilyn era così pazza dei Kennedy, perché – parallelamente a loro – flirtava con José Bolanõs, il suo toy-boy, e le foto vere di loro due sono in rete, e però sono assenti in ogni racconto di lei abbandonata e infelice? Occhio!!!
Le foto in rete di John Kennedy e Marilyn, son tutte false, tutti fotomontaggi, tranne una: quella con Bobby, Marilyn, JFK e Isidore Miller, ex suocero di Marilyn. È l’unica salvatasi dal party di compleanno di JFK. Le altre – che c’erano! – sono state distrutte per ordine di Bobby. E Marilyn disperata perché Joe DiMaggio non se la voleva risposare??? Ma per favoreee! Lei seduceva chiunque a lei garbava: “Mai piangere per un uomo, ti si sbava il trucco! E il mio mascara vale di più”.
Ma solo io vedo Marilyn come una donna moderna, che viveva da sola e si pagava i conti da sola (pagava pure quelli del marito Arthur Miller, dei due, era lui, l’uomo, il mantenuto), una donna piena di problemi e però una in gamba, morta dipendente dai farmaci? L’eroina tragica se la sono inventata e tramandata gli uomini a cui un’icona fragile e fatale faceva – e fa – comodo. Fa il loro buon gioco. E fa il gioco pure di tante donnette che con un abusato mito sfortunato ci si possono confrontare da vincenti. Da migliori. Porelle. Loro.
Mica Marilyn! Ma se una son 60 anni che la pensano derelitta, perché sono 60 anni che la imitano, invano, la rincorrono, invano, vogliono essere lei, e non ci riescono? Non sarà che quello che Marilyn Monroe si era costruito, nonostante tutto, lottando, cadendo, rialzandosi, ricadendo, è un personaggio indistruttibile, e inimitabile?
Sono 60 anni che si tenta e non si è buoni a rimarcarne un mignolo. Da ultima, Kim Kardashian, che si è platinata inserendo quel suo c*lone in uno tra gli iconici abiti di Marilyn. Dio, quant’era goffa!?? Perché inadatta. Lo charme è istinto. Innato. Non te lo puoi inventare. Né instagrammare. ("Goddess" di Anthony Summers è stato appena ripubblicato in italiano, col titolo "Dea", per La Nave di Teseo, ed era ora!).
Marilyn, la Dea bionda: una favola crudele. Marilyn Monroe, il Mito a sessant'anni dalla misteriosa scomparsa. Il mito del cinema a sessant'anni (oggi) dalla misteriosa scomparsa. I fotogrammi eterni, gli amanti, la morte. Resta l'icona per definizione del nostro tempo. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Agosto 2022
Marilyn Monroe se ne andò nella notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto 1962. Sessant’anni fa oggi. La notizia era sulle prime pagine il lunedì mattina. La «Gazzetta» la pubblicò con rilievo (riproduciamo l’originale in miniatura) e articoli del nostro Pietro Marino e di Ruggero Orlando. La dea bionda aveva 36 anni e quella morte giovane e misteriosa la consegnò presto al mito. Il caso Marilyn continua a sollevare un interesse spasmodico, come conferma Blonde di Andrew Dominik, attesissimo alla prossima Mostra di Venezia. Il film targato Netflix è tratto dall’omonimo libro di Joyce Carol Oates, tradotto da Sergio Claudio Perroni per Bompiani nel 2000: una rivisitazione dei drammi dell’attrice nella Hollywood Babilonia di allora e di sempre. Protagonista è la Bond Girl cubana Ana de Armas, già attaccata dai fan di Marilyn - sulla base del solo trailer - per il tono della voce che non corrisponderebbe a quello «vellutato» della Monroe.
Ritroviamo la sua favola crudele nelle pagine di Dea - Le vite segrete di Marilyn Monroe di Anthony Summers, appena pubblicato dalla Nave di Teseo, che ripropone anche Blonde. Mentre impazza il mercato dei cimeli: gli abiti di scena di Marilyn, le sue pose audaci o disilluse, un ritratto firmato da Andy Warhol - che la immortalò nei celebri multipli - battuto all’asta giorni fa per 195 milioni di dollari... Insomma, vola la leggenda di Norma Jeane Baker (poi Mortenson), il nome anagrafico della diva, nata a Los Angeles il 1° giugno 1926. La madre Gladys, instabile nella psicologia e nei rapporti affettivi, le sopravviverà fino al 1984. Il lascito simbolico di Marilyn si trasmette di generazione in generazione e contagia i social che pure tendono a dissacrare chicchessia. La sua traiettoria continua oltre il cursum perficio, citazione di una lettera di San Paolo che significa «sto concludendo la mia corsa», iscritta su una mattonella della villa in stile ispanico di Brentwood, Los Angeles, in cui la Monroe morì. Un dettaglio scovato da due tossicologi e una criminologa forense dell’Università di Firenze (Mari, Bertol e Gualco, L’enigma della morte di Marilyn Monroe, Le Lettere ed., 2012). Un segno premonitore dell’«intossicazione da barbiturici» di cui parlava il referto dell’autopsia? Macché, i tre studiosi non concordano: «La modalità di somministrazione del tossico non è avvenuta per via orale. Non si è trattato di atto suicidario. L’omicidio è stato perpetrato a opera di ignoti, legati vuoi alla polizia, vuoi alla criminalità organizzata, vuoi ai servizi segreti... ».
Forse tenendo all’oscuro lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, indicato come uno dei suoi amanti (si vociferò anche del fratello Bob Kennedy). Per JFK una svampitissima Marilyn due mesi prima, il 29 maggio 1962, s’era prestata a canticchiare il proverbiale Happy Birthday, Mr President al Madison Square Garden di New York. Marilyn resta l’icona per definizione del nostro tempo ossessionato dal divismo. Era stato il filosofo tedesco Gunther Anders a cogliere nel secondo dopoguerra il sentimento di «antiquatezza dell’uomo», cioè la vergogna di non essere una merce immortale come le altre. L’esito è l’ammirazione per le stelle del cinema che «irrompono nella sfera dei prodotti in serie, da noi riconosciuta superiore». Osservazioni perfette per descrivere la parabola della bambola gonfiabile e puntualmente sgonfiata, andata in sposa la prima volta – appena sedicenne – all’operaio Jimmy Dougherty, quindi moglie del campione di baseball Joe Di Maggio, e, ancora, convolata a ingiuste nozze con l’intellettuale Arthur Miller. Tre dei tanti naufragi.
Scrisse il poeta beat Ed Sanders nei versi di For Marilyn Monroe, August 5, 1962: «Chi è l’uomo che non hai mai avuto/ no mai avuto mai avuto/ in nessun giocatore di baseball sorridente/ o commediografo senza uccello/ e i tuoi seni! i tuoi seni! i tuoi seni guardano dall’Occhio della Pace/ bianchi nella loro essenza e i capezzoli sono stelle!». Il mito Marilyn va a conferma, ma anche a dispetto del suo talento e dell’aura di attrice «congelata» in alcuni fotogrammi. Fra tutti, lei con la gonna sollevata dall’aria di una grata in Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955), lo stesso regista che ne fece una sensualissima interprete comica in A qualcuno piace caldo al fianco della irresistibile coppia en travesti Lemmon-Curtis (1959).
«Mi è capitato spesso di finire su un calendario. Ma mai per una data precisa» recita una delle freddure di Marilyn, che ci aveva visto giusto: il suo tempo non finisce mai. È condannata al destino dei fantasmi o degli zombie: il perenne presente in un mondo che non sa più cosa siano il peccato e il candore, binomio indissolubile. Lei, un po’ puttana per allegria quando la madre lo era stata per tristezza. Lei, lo sguardo più malinconico del mondo. Lei, un mondo.
Tra luci e ombre. L’incomprensibile stella di Hollywood e il romanzo che racconta la sua anima. Anthony Summers su L'Inkiesta il 4 Agosto 2022.
Oltre l’immagine della diva, Marilyn è una foto traballante di dolore, sempre pronta a compiacere gli spettatori ma mai sé stessa. Anthony Summers la racconta nella biografia pubblicata da La Nave di Teseo, da cui è nato anche un documentario su Netflix
«Il mio ingresso a scuola, con le labbra dipinte e le sopracciglia ritoccate, suscitò i mormorii di tutti. Perché mi considerassero tanto attraente non ne ho la minima idea. Non desideravo essere baciata e non sognavo di essere sedotta da un duca né da un divo del cinema. La verità è che, nonostante il mio rossetto, il mio rimmel e le mie curve precoci, ero insensibile come un fossile. Ma pareva che alla gente facessi tutt’altra impressione». Così diceva Marilyn Monroe nel 1954, ripensando alla sua adolescenza; quanto meno, questi sono i ricordi riportati dallo scrittore Ben Hecht, al quale quell’anno la nuova star di successo, allora ventottenne, raccontò la storia della sua vita.
Hecht contava di redarre, come autore anonimo, l’autobiografia della giovane Marilyn, commissionata da un noto editore di New York. Questo è un documento importante, poiché in nessun’altra intervista Marilyn rese mai una confessione tanto ampia. Ma è anche un documento controverso.
Dopo una lunga serie di conversazioni con Hecht, Marilyn gli chiese di leggerle ad alta voce tutto il manoscritto: centosessanta pagine. Poi, secondo quanto raccontato dalla vedova di Hecht, si mise a ridere e a piangere e si disse elettrizzata. Non avrei mai immaginato che si potesse scrivere su di lei una storia così bella e Benny aveva colto precisamente ogni fase della sua vita.
Marilyn diede anche una mano a correggere il manoscritto, ma poi i rapporti si raffreddarono. Joe DiMaggio, allora suo marito, si oppose alla pubblicazione e Marilyn mandò a monte il progetto. Quando il testo comparve ugualmente sul British Empire News, Marilyn minacciò di intentare una causa per travisamento delle sue dichiarazioni.
Se lo scrittore non fu preciso, anche Marilyn selezionò accuratamente le proprie verità. Mentre erano in corso le interviste, Hecht disse al suo editore che a volte aveva la netta sensazione che Marilyn stesse inventando. “Quando dico che mente,” spiegò, “intendo che non dice la verità. Non credo che cerchi di ingannarmi, ma piuttosto che si abbandoni alle fantasie.” Egli dovette imparare a interpretare “il curioso linguaggio corporeo di Marilyn, per capire quando stava inoltrandosi in un racconto inventato e quando invece era sincera”.
Molte di queste dichiarazioni di Marilyn riguardanti la sua infanzia sono qui riportate così come si trovano nel manoscritto di Hecht. Dove possibile, esse sono state confermate o smentite da testimoni imparziali. Dobbiamo considerare le cose che ci racconta con accorto scetticismo, e questo non è uno svantaggio.
Marilyn, figura su cui si è fantasticato in tutto il mondo, ha costruito la propria immagine, pubblica e privata, in base a una miscela di fatti e di fantasie autogratificanti, esercitando all’eccesso una comune facoltà umana. La fantasia era un tratto specifico di questa creatura, e la difficoltà della sfida sta nello scoprire la donna che vi si nascondeva dietro.
Le cose che Marilyn raccontò a Ben Hecht erano tristi e difficili da digerire negli anni cinquanta. Quelle che non raccontò avrebbero potuto mettere fine alla sua carriera d’attrice. Ma a quel tempo erano fatti che riguardavano lei soltanto.
A quindici anni Marilyn era ancora “Norma Jeane” (o Norma Jean, quando le andava di scriverlo così), il nome che le aveva dato sua madre alla nascita. Fu all’inizio di quell’anno, il 1942, che la sua tutrice, una donna di mezza età di nome Grace McKee, decise d’un tratto di assolvere il proprio incarico sospingendola nel mondo degli adulti.
I futuri trionfi e le future disgrazie di Norma Jeane sarebbero tutti dipesi da Marilyn. Il primo matrimonio, però, le fu combinato da Grace McKee, che aveva deciso di trasferirsi a Est con il suo nuovo marito. Poiché i due non volevano portare con loro la ragazza, la soluzione era trovarle un marito.
da “Dea: le vite segrete di Marilyn Monroe”, Anthony Summers, La nave di Teseo, 640 pagine, 21 euro
Luca Mastrantonio per corriere.it il 3 agosto 2022.
C’è una foto a colori del 1955 che ritrae Marilyn Monroe che legge l’ Ulisse di Joyce. Sono le ultime pagine, quelle del monologo di Molly Bloom, la moglie del protagonista Leopold, donna che si converte al sì, al potere di saper dire sì al mondo con tutta sé stessa, anima e corpo. La maggior parte delle persone, per pregiudizio o coda di paglia, perché non tutti hanno letto tutto l’Ulisse, pensano che sia una posa. In realtà il fotografo Eve Arnold, che scattò quel servizio a Long Island, racconta che l’attrice si portava dietro il librone e confessava di faticare a leggerlo ma era affascinata dal suono delle parole, dalla voce, la voce interiore dei personaggi, che è il vero dono di Joyce a chi lo legge e leggendolo si conosce.
Cosa pensava Marilyn mentre leggeva? E come ripensava alla propria vita, senza filtri, in sincerità, con il cuore a nudo come fa Molly Bloom? La risposta, arricchita da una parziale omonimia con l’autore irlandese, è arrivata nel 1999 con Blonde, mille pagine in cui l’americana Joyce Carol Oates ha distillato la vita reale in un romanzo che intreccia tre fasi o livelli di Marilyn: il primo, è la tribolata ragazza di provincia, Norma Jeane Baker; poi, l’attrice, col nome d’arte pieno di emme per suscitare mormorii di apprezzamento (mmh...), voce infantile e make up artificiale, corpo a disposizione di sguardi e fantasie maschili;
infine, la Bionda, chioma di platino, vestiti costosi e pelle di burro, che mette assieme stile di vita altolocata e categoria porno, con una rivisitazione della vergine delle favole: fragile e fatua, facile e felice. Le tre donne hanno uno stesso cuore, cui Oates dà vita inventando un timbro che suona autentico, mescolando biografia e finzione: come la balbuzie di cui da giovane soffriva realmente e Oates sublima poi in chiave sentimentale («La balbuzie era ancora dentro Norma Jeane. Ma era scesa dalla lingua al suo cuoricino da colibrì, lì dove nessuno poteva scoprirla»); o come le poesie del diario, che Marilyn scriveva e Oates reinventa.
Dalle tante famiglie cui fu data in adozione, Oates ne ricava una sola, di fantasia; e di tanti veri amanti, problemi di salute, aborti e tentativi di suicidio, compaiono i più simbolici. Gli uomini della sua vita ci sono tutti, da Joe DiMaggio ad Arthur Miller, fino a J.F. Kennedy; più alcuni inventati, come Cass, figlio gay di Charlie Chaplin. Dal libro è stata tratta una serie nel 2001 e recentemente un film che Netflix lancerà il prossimo settembre, firmato da Andrew Dominik, protagonista Ana De Armas. Per Oates è una sorprendente lettura femminista di Marilyn. Per noi, oltre che un mito, dovrebbe essere anche un monito su cosa può celarsi oltre il successo e dentro chi non ha più una vera vita privata, come ci ha ricordato la scrittrice in occasione dei 60 anni dalla morte di Marilyn, il 5 agosto 1962.
Cosa ricorda della notizia della precoce morte di Marilyn a 36 anni?
«In quanto morte dell’icona “Marilyn Monroe”, il fatto era avvolto da molti misteri. Ma a colpirmi fu la scoperta, successiva, che lei aveva pochi dollari nel suo conto in banca, che non bastavano per un funerale dignitoso, così il suo corpo fu portato all’obitorio della contea di Los Angeles. Alla fine sarà l’ex marito Joe DiMaggio a pagare per il funerale e la lapide. Questo è rivelatore: l’immagine glamour di una donna è solo qualcosa che viene venduta al pubblico da cinici produttori e imprenditori, mentre la donna in sé viene sfruttata. Una vittima, nonostante la sua bellezza e talento. Perché “Marilyn Monroe” è morta così giovane? La donna che era dietro l’artista, Norma Jeane Baker, era disperata per la sua vita già all’età di 36 anni».
L’ispirazione del libro è venuta da una foto in cui Norma Jeane Baker è bruna e sconosciuta, come tante ragazze della grande provincia USA.
«Aveva solo 16 anni al tempo di quella foto. Era una ragazza che aveva abbandonato le scuole superiori e si era sposata da giovane, con un amico del vicinato, per evitare di essere rimandata in orfanotrofio fino all’età di 18 anni.
In questa fotografia, Norma Jeane è carina ma non affascinante; ha i capelli castani, non biondo platino. È istruttivo vedere come “Marilyn Monroe” sia stata modellata su questa giovane ragazza americana volenterosa ma ingenua, per essere trasformata in un prodotto di consumo per gli studios di Hollywood».
Qual è l’aspetto meno indagato di Marilyn Monroe?
«Mentre riguardavo i film in ordine cronologico, da Giungla d’asfalto e La tua bocca brucia fino a Gli spostati, mi sono resa conto di un’attrice brillante ma sottovalutata. Le prove sono lì, sullo schermo, basta vedere i film».
La vita di Marilyn e il suo romanzo sono pieni di punti di svolta: dalla ragazza alla star, dalla star al sex symbol. Punti spesso oscuri: penso alla scena del provino in cui viene violentata dal produttore che però quasi giustifica; o al celebre servizio fotografico di nudo su un panno rosso fatto per bisogni economici... Delle tante metamorfosi di Marilyn, ce ne è una che ricorda più di altre?
«Direi che il primo “punto di non ritorno” nella vita di Norma Jeane è una foto vestita da operaia durante la Seconda guerra mondiale, apparsa sul quotidiano militare Stars & Stripes. Penso sia stato l’inizio di quella trasformazione che ha portato la sua vita privata ad essere anche vita pubblica».
Marilyn aveva la sindrome dell’impostore e cercava continue conferme negli uomini. Chi l’ha amata o aiutata ad amarsi di più?
«I suoi mariti l’amavano molto, questo è fuori dubbio. Ma il suo bisogno di attenzione e le sue continue ansie mettevano a dura prova ogni relazione».
Estratto da “Dea. Le vite segrete di Marilyn Monroe”, di Anthony Summers, pubblicato da “La Stampa” il 3 agosto 2022.
«Lo sai da chi sono sempre dipesa?» aveva detto Marilyn al giornalista W.J. Weatherby. «Non dagli estranei, non dagli amici. Dal telefono! È lui il mio migliore amico. Adoro telefonare agli amici, soprattutto di notte quando non riesco a dormire» .
Marilyn fece lavorare sodo il suo «migliore amico» negli ultimi giorni della sua vita. (....) Sola con il suo telefono e le sue pillole, Marilyn fece una serie di chiamate in cerca di aiuto. Gli amici o non erano a casa o non capirono che questa disperazione era diversa dalla solita».
Le ripetute chiamate a Robert Kennedy o i frenetici messaggi tramite Peter Lawford non riuscirono a farlo accorrere. Come tanti uomini o donne che intendono lasciare un amante, Kennedy può avere pensato che il sistema migliore fosse quello di tenersi a distanza con durezza e determinazione. Era anche più sicuro non arrischiare un'altra visita a casa di Marilyn, con il pericolo di esporsi ai nemici.
Oggi è impossibile dire se i nemici di Kennedy - gli emissari di Sam Giancana e Jimmy Hoffa - svolsero un ruolo attivo nelle ultime ore di Marilyn. Le prove mediche, come abbiamo visto, lasciano aperta la possibilità che la dose mortale di barbiturici le sia stata somministrata da qualcuno. Scenario più probabile, fu semplicemente lei a sottovalutare gli effetti di un'improvvisa dose massiccia, presa in aggiunta a un consumo ininterrotto di sedativi durante il giorno.
In alternativa, potrebbe aver deciso lei di togliersi la vita. Più tardi, quel sabato sera, probabilmente poco dopo le 22, Marilyn fece la sua ultima telefonata a casa Lawford. Parlava in modo sconnesso e confuso, e a un tratto fu chiaro che stava scivolando nell'incoscienza. È giusto ipotizzare - e si vorrebbe credere - che la notizia provocò in Robert Kennedy una reazione decente, umana.
Potrebbe essere stato lui, forse accompagnato o seguito da Peter Lawford, a precipitarsi a questo punto a casa di Marilyn. La trovarono in coma, ma non ancora morta. Qui la testimonianza secondo la quale fu chiamata un'ambulanza diventa cruciale. Se è esatto quello che dice il direttore del servizio ambulanze, Marilyn fu portata via dalla casa in coma, ma ancora viva. Potrebbe essere spirata all'arrivo all'ospedale di Santa Monica dove, senza trucco e avvolta nelle lenzuola, poteva non essere riconosciuta.
La mia opinione è che probabilmente morì prima di arrivare all'ospedale, e che la persona che l'accompagnò - lo stesso Kennedy, forse? - si trovò di fronte a un terribile dilemma.
Marilyn era morta in circostanze che per il ministro della giustizia potevano significare la completa rovina. Anche nel caso che non avesse mai avuto una relazione con Marilyn - e tutte le prove suggeriscono il contrario - per un Kennedy essere trovato insieme a una Marilyn Monroe morta, anche in una legittima azione di pietoso soccorso, avrebbe significato sicuramente un disastro politico.
La soluzione era riportare il corpo nella casa di Brentwood, sul letto da cui aveva fatto la sua ultima, disperata telefonata. Occorreva tempo, soprattutto per permettere a Robert Kennedy di lasciare la città, e poi per ripulire la casa di Marilyn.
Soltanto a questo punto arrivò la telefonata al dottor Greenson, che si precipitò sul posto e «scoprì» il corpo fra le 3.30 e le 4. Come indica la pista seguita dai reporter Hyams e Woodfield, il ministro della giustizia lasciò la California in aereo.
Suo cognato Peter Lawford incaricò il detective privato Fred Otash di coprire qualsiasi traccia compromettente che potesse essere rimasta. In ogni caso, Otash e i suoi collaboratori furono in grado di fare poco.
Quando entrarono in azione, nelle prime ore della domenica mattina, ingranaggi più potenti si erano messi in moto. Richiamato bruscamente dal concerto all'Hollywood Bowl, il consulente di pubbliche relazioni di Marilyn, Arthur Jacobs, che era un uomo di notevole potere a Los Angeles, si precipitò alla casa di Brentwood.
Forse non seppe mai di tutti gli avvenimenti di quella notte, del viaggio a vuoto dell'ambulanza e degli spostamenti notturni di Robert Kennedy, ma era senza dubbio l'uomo giusto, come dice oggi sua moglie, per «sistemare» le cose.
Nel frattempo qualcuno dotato di un potere effettivo - probabilmente lo stesso Robert Kennedy - svegliava il direttore dell'Fbi, J. Edgar Hoover. Da Washington partì l'ordine di far sparire i dati sulle telefonate fatte da Marilyn nelle ultime ore di vita, che erano ancora recuperabili presso la compagnia telefonica. Questa ricostruzione può non essere esatta in qualche particolare, ma è plausibile in base alle informazioni di cui oggi disponiamo.
Per Robert Kennedy, quelle ore notturne e i giorni che seguirono dovettero essere i momenti più tormentati della sua vita. Se la nostra ricostruzione è esatta, la morte di Marilyn Monroe fu la sua Chappaquiddick. Se, contrariamente al meno fortunato fratello Ted, Robert sfuggì allo scandalo pubblico, fu per miracolo.
Per sempre Marilyn: la diva morta 60 anni fa interpretò i sogni di un’intera epoca. Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 31 Luglio 2022.
Affascinante attrice di talento, giudicata con sarcasmo Prigioniera dell’immagine di «oca giuliva» del cinema.
Forse ha ragione chi sostiene che davanti a Marilyn si può solo tacere, che ogni parola rischia di essere stonata, di sembrare di troppo, perché certi innamoramenti e certe passioni non possono che uscire sminuite se le si affida alle parole.
Come descrivere quello che si prova vedendola sullo schermo mentre suona l’ukulele in «A qualcuno piace caldo», mentre cerca un po’ di fresco dalle grate della metropolitana di «Quando la moglie è in vacanza» oppure in maglione e calzamaglia nera mentre canta «My Heart Belongs to Daddy» in «Facciamo l’amore»? E sono solo le prime delle tante immagini che tornano alla mentre ripensando alla diva morta sessant’anni fa, il 4 agosto 1962, portandosi dietro il segreto di un fascino che non si poteva spiegare solo con la sua bellezza o con i film che aveva interpretato o con una vita sentimentale che in troppi si sono presi la briga di sporcare.
Se a tanti anni di distanza siamo ancora qui a rimpiangerla (alla Mostra di Venezia toccherà a Ana de Armas farla rivivere, in «Blonde»), vuol dire che davvero ha saputo dare forma ai sogni non solo della sua generazione ma a quelli di un’epoca tutta, gli anni Cinquanta di Kennedy e di Kruscev, di papa Giovanni e di Castro, di chi cercava il nuovo e di chi voleva dimenticare il passato. Anche a costo di pagare un prezzo troppo alto.
Forse nessuna attrice è stata vivisezionata ed esaminata come lei. E su nessuna si è esercitato il sarcasmo urticante di chi si sentiva in diritto di giudicare e condannare (dimentichiamo chi si è permesso di dire che «dirigere Marilyn è come dirigere Lassie. Ci vogliono quattordici ciak prima che abbai nel modo giusto» e rubrichiamolo nel cassetto di chi deve per forza fare sfoggio di cinismo). Certo, come tutte e come tutti i primi passi non sono stati subito spediti: è facile ironizzare su «Orchidea bionda» (1948), il suo primo ruolo da protagonista, dove è la ragazza di un burlesque soffocata dalla madre e insidiata dal proprietario del locale. Ma già due anni dopo, in «Eva contro Eva», al braccio di George Sanders, sa lasciare il segno. La sua gavetta fu lunga, costretta a passare attraverso i personaggi (spesso stereotipati) che Hollywood creava per chi pensava più bella che brava. Eppure quando finisce nelle mani di un regista che conosce il mestiere, capisci subito di essere di fronte a una rosa che deve solo sbocciare. Come accade altri due anni dopo in «Il magnifico scherzo», dove Howard Hawks (e gli sceneggiatori Ben Hetch, Charles Lederer e I. A. L. Diamond: tre geni assoluti) la trasformano in uno «spaccio di baci a orario continuo», indimenticabile quando mostra i suoi «acetati» (cioè le sue calze di nylon) all’impacciato Cary Grant. Un attore, va ricordato, che non era certo l’ultimo arrivato e a cui Marilyn offriva le batture come una grande professionista.
Fu facile ai tempi ironizzare sulle sue ambizioni artistiche, sulla sua voglia di personaggi diversi dalle «oche giulive» che le imponeva Hollywood. Ma basterebbe scorrere il quaderno di appunti usato durante «A qualcuno piace caldo» (l’ha pubblicato Taschen) per capire l’impegno che l’attrice metteva nel suo mestiere e la sua voglia di migliorare, di superarsi. Che forse non sempre veniva raccolto dai chi le stava accanto, ma che sapeva arrivare a chi la guardava sullo schermo.
Il suo unico vero sbaglio fu quello di non essersi costruita un personaggio capace di zittire la volgarità che imperava (e non solo allora) nel mondo del cinema, come seppero fare molte sue colleghe più furbe e «corazzate» di lei. Marilyn non nascondeva le sue fragilità in un modo di pescecani, le sue insicurezze di fronte a chi sembrava non averne. Confessava i suoi desideri e i suoi sogni con la semplicità e l’immediatezza di una bambina, andando ben al di là dei ruoli che il cinema le attribuiva. Per questo commuove ne «Gli spostati», perché quella neo-divorziata, che sembra continuamente dover fare i conti con il senso di abbandono (e di morte) che la circonda, ha finito per trasformarsi in un testamento a voce alta, nella disperata dichiarazione d’amore di chi non riesce a trovare un amico a cui confidarsi. Proprio come successe quella notte del 4 agosto, quando tutte le telefonate che fece finirono nel vuoto, lasciandola drammaticamente sola.
Marilyn Monroe nell’ultima intervista: «La prego, non mi faccia apparire ridicola». Jonathan Bazzi su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.
Sessant’anni fa moriva la diva. Da bambina non vista e non amata seppe trasformarsi nell’oggetto inesauribile del desiderio e assunse su di sé, fino a condurla al punto di rottura, la questione del rapporto fra noi stessi e gli altri. Avremmo potuto salvarla?
Marilyn ovvero Norma Jeane Baker: la bambina non vista, non amata, sessualmente abusata a nove anni, figlia di una donna affetta da schizofrenia incapace di badare a lei, rimbalzata da una casa-famiglia all’altra, da una coppia affidataria all’altra, si trasforma nell’oggetto inesauribile del desiderio. Diva delle dive, ossessione collettiva, sogno che non smettiamo di sognare. Ha qualcosa di inspiegabile, fuori misura, la trasformazione di Norma Jeane in Marilyn Monroe, ma parlare di miti e icone significa chiamare in causa proprio questo surplus, salto tra i regni e le categorie dell’esistente. Già in vita e ancor di più con la morte Marilyn diventa un ultracorpo, presenza che vibra al di là di sé stessa ed esonda, prende dimora nell’immaginario collettivo. Questo superamento ha forse a che fare con le contraddizioni interne del personaggio/persona. Rifiutata da tutti e poi da tutti voluta, innocua e onnipotente, a disposizione eppure inafferrabile, leggerissima e disperata: le leggende sono ipnotici fermagli che tengono fermo giusto qualcosa in mezzo a una nebulosa di sensazioni e reazioni esterne, per accrescerne il fulgore, il ricordo, rinnovarne il prodigio.
IL 5 AGOSTO 1962 MORIVA A BRENTWOOD (LOS ANGELES) NORMA JEANE BAKER, IN ARTE MARILYN MONROE. IL SUO BISOGNO DI ESSERE GUARDATA L’HA RESA LA PIÙ BRAVA A FARSI SOGNARE. «DA PICCOLA NESSUNO MI DICEVA CHE ERO CARINA, BISOGNEREBBE DIRLO A TUTTE»
I commenti delle persone che l’hanno conosciuta - attori, attrici, amanti, fotografi, registi - risultano del tutto privi di mezze misure: genio della recitazione o incapace assoluta, improvvisata o stacanovista, mente prismatica o debilitata, donna fragilissima o calcolatrice implacabile, forza della natura. C’è chi pensa fosse del tutto consapevole - della cinepresa, dello sguardo altrui, della carriera - e chi la dipinge in balia delle situazioni, personali e mediatiche, una predestinata al dolore (il suo psicanalista la definì, di fatto, una causa persa), che smetteva di essere terrorizzata solo con bambini e animali («gli animali non la umiliavano», disse Arthur Miller). La sua capacità di reggere versioni disparate ed essere interpretabile a piacere, massimo grado della vulnerabilità/massimo grado della forza, è uno dei segreti della sua figura. Così, il fotografo Milton H. Greene: « Non avevo mai incontrato una che avesse quel tono di voce, quella gentilezza, quell’autentica dolcezza. Se per strada vedeva un cane morto, si metteva a piangere. Era così sensibile che bisognava stare sempre attenti al modo in cui le si parlava. In seguito avrei scoperto che era una schizoide, che poteva essere assolutamente brillante o assolutamente gentile, e poi tutto il contrario».
O ancora, Cecil Beaton, autore dei ritratti forse più belli di Marilyn, a proposito delle loro sedute: «Giocherella, squittisce compiaciuta, si adagia sul sofà. Si mette in bocca il gambo di un fiore, aspira una margherita come fosse una sigaretta. È una performance spontanea, improvvisata, vivace. Probabilmente finirà in lacrime». «Nuvola di panna e fragole», «matta come un cavallo», «baciarla era come baciare Hitler», «non era solo difficile, era impossibile», «bimba smarrita»: di qui e di là, e poi da nessuna parte: dov’è Marilyn Monroe? «Spesso ho una strana sensazione», confesserà lei, «come se stessi prendendo in giro qualcuno, ma non so chi. Forse me stessa, forse gli altri. Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo, non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro», dice Marilyn altrove.
Da niente a tutto
Vita microscopica e poi gigantesca, negli occhi di tutti: partita dalla più asfittica deprivazione, Norma Jeane è riuscita non solo a farsi vedere dal mondo ma in qualche modo a superarlo, contenerlo in sé. Ragazza venuta dal niente e affamata di tutto, riesce a espandere i suoi confini - della pelle diafana, dei suoi abiti sgargianti ed eccessivi, delle pose immortali: nuda a letto, velluto rosso, gonna che s’alza, happy birthday Mister President - sino farsi presenza simbolica, che assembla e offre tante donne possibili. Adolescente bloccata nel tempo, dea del sesso, imprenditrice, moglie esaltata e poi umiliata, amante dei fratelli più potenti d’America, paziente psichiatrica.
Monna Lisa
Anche così si spiegano gli infiniti tentativi di imitazione, citazione, possessione - da Madonna alla recente polemica per l’abito del 1962 indossato da Kim Kardashian sul red carpet dell’ultimo Met Gala, passando per Cindy Crawford, Gwen Stefani, Naomi Watts, Christina Aguilera, Angelina Jolie, Scarlett Johansson, Michelle Williams, Paris Hilton e G W tantissime altre. Come Monna Lisa, l’immagine di Marilyn penetra nel bagaglio iconografico universale e contamina tutto, continuando a produrre ovunque copie, tracce, marchi, segni di sé, senza mai davvero consumarsi, creare inflazione. L’orfana indesiderata diventa un clamoroso dispositivo mediatico. Dai ritratti seriali di Andy Warhol in poi - lo street artist Banksy nel 2005 ne ha prodotto una specie di sua versione aggiornata, con Kate Moss per protagonista, battuta all’asta quest’anno per un valore più alto degli originali warholiani -, la bambina non amata, incantesimo degli incantesimi, ha ottenuto non solo lo sguardo di massa ma la riproduzione intensiva e globale. È sotto gli occhi di tutti.
Il desiderio e la sua fine
Marilyn, una sopravvissuta che desiderava molto, e perciò veniva molto desiderata. Il suo bisogno di sguardo l’ha resa la più brava a farsi sognare. Disse: «Quando ero piccola, nessuno mi diceva mai che ero carina. Bisognerebbe dirlo a tutte le ragazzine, anche se non lo sono». Marilyn è anche un grande mito sul lato oscuro del desiderio. Lei riempie i nostri occhi, giganteggia fulgida sugli schermi e sui miliardi di stampe e riproduzioni ma, allo stesso tempo, ci parla delle derive di tutta questa forza d’attrazione, insinua quali possono essere i sentieri fatali su cui i desideri conducono. Marilyn muore il 5 agosto 1962, a 36 anni, nel letto, con la cornetta del telefono in mano, e c’è chi ha visto in quel telefono abbandonato a terra un simbolo della sua vita, e della vita umana in generale. La sua storia è finita presto, e tutte le storie interrotte ci invitano a essere continuate nella mente, prolungate nello spazio/tempo di cui non hanno potuto disporre: avremmo potuto salvare Marilyn Monroe?
Le sue mancanze e le nostre
La maschera che occulta l’abisso: Marilyn tiene insieme una dimensione fissa, la bidimensionalità tipica di tutte le icone, e lampi di sconvolgente profondità. Piena di gioia e insieme facile allo strazio, in pubblico macchietta bionda dalla voce tutta sussurri e poi fuori incline, come racconta il costumista Travilla, a smottamenti segreti: «A uno sguardo superficiale sembrava una ragazza leggera. Ma quelli che la criticavano non l’hanno mai vista, come me, piangere come una bambina. Spesso si sentiva così inadeguata. Ogni tanto soffriva di tremende depressioni e si metteva a parlare di morte ». Continuiamo a tornare a lei, le sue mancanze primigenie sono le nostre: consciamente o no, Marilyn Monroe è un eccezionale campo di rispecchiamenti e proiezioni. Ancora oggi ha la capacità di creare narrazione, al di là delle cose che hanno cercato di farle raccontare sullo schermo, che erano poi sempre le stesse - accalappiatrice di mariti ricchi, preda svampita, corpo che riempie bei vestiti. Marilyn ha assecondato tutto questo - comprendere Marilyn è dunque anche comprendere l’addestramento alla femminilità - ma all’interno e fuori dal set ha raccontato altro.
Burattina e Burattinaia
Plasmata dalle figure che aveva attorno - che ne hanno modificato il nome, decolorato i capelli, che le hanno imposto come parlare, camminare, ammiccare -, è riuscita a impadronirsi di questi codici uniformi. Incoraggiata ad aderire a modelli già predisposti, sembrerebbe non essersi inventata nulla - dumb blonde, blonde bombshell, oca bionda, bomba sexy, pin up, in Italia le avremo chiamate “maggiorate”, - salvo poi scuotere lo stereotipo con la sua inquietudine, rendendolo tridimensionale e quindi umbratile, a tratti sinistro. Avendo così tanto bisogno di quello sguardo lei ha fatto sconfinare la caricatura nel mito, rivelandone insieme il potenziale tragico. Burattina e burattinaia, è stata pupazzo e ventriloquo della bambola che lei stessa ha accettato (finto) di essere, creandosi un sé artificiale. Da qui la frattura o dislocazione d’anima: tutto ciò che l’ha resa eccezionale stava forse anche alla base della sua sofferenza.
Le sagome di cartone
Marilyn non fu una donna emancipata nel senso canonico previsto dal femminismo, né di ieri né di oggi, non rifiutò le convenzioni sessiste e oppressive del suo mondo. La sua rivoluzione è di altro tipo. Ebbe bisogno del sistema, del male gaze , del desiderio dei maschi, per mettersi in salvo dalla voragine del passato e provare a sentirsi amata. Il sistema probabilmente ha logorato la sua mente e lacerato il suo cuore ma non ha annientato la sua personalità: mischiando il codice imposto con molte altre cose, sue, originali e struggenti, se n’è impadronita una volta e per sempre. Marilyn Monroe ha reso le sagome di cartone in cui hanno cercato di costringerla a forza molto più vere e vive di quel che volevano essere, e questo l’ha resa più grande del tempo. Ha assunto su di sé, fino a condurla al punto di rottura, alla nefasta, eclatante detonazione, la questione del rapporto tra l’io e gli altri, il nostro essere carne esposta sempre in attesa di una risposta dal mondo. Al giornalista di Life a cui rilascia l’ultima intervista prima di morire, la diva, l’icona, il sogno di tutti, chiede: «La prego, non mi faccia apparire ridicola».
Joyce Carol Oates: «Marylin era volenterosa ma ingenua, fu trasformata in prodotto di consumo». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.
A 60 anni dalla morte parla la grande scrittrice americana che all’attrice ha dedicato un libro monumentale: « In banca non aveva i soldi neppure per un funerale decente»
C’è una foto a colori del 1955 che ritrae Marilyn Monroe che legge l’ Ulisse di Joyce. Sono le ultime pagine, quelle del monologo di Molly Bloom, la moglie del protagonista Leopold, donna che si converte al sì, al potere di saper dire sì al mondo con tutta sé stessa, anima e corpo. La maggior parte delle persone, per pregiudizio o coda di paglia, perché non tutti hanno letto tutto l’Ulisse, pensano che sia una posa. In realtà il fotografo Eve Arnold, che scattò quel servizio a Long Island, racconta che l’attrice si portava dietro il librone e confessava di faticare a leggerlo ma era affascinata dal suono delle parole, dalla voce, la voce interiore dei personaggi, che è il vero dono di Joyce a chi lo legge e leggendolo si conosce.
Cosa pensava Marilyn mentre leggeva? E come ripensava alla propria vita, senza filtri, in sincerità, con il cuore a nudo come fa Molly Bloom? La risposta, arricchita da una parziale omonimia con l’autore irlandese, è arrivata nel 1999 con Blonde, mille pagine in cui l’americana Joyce Carol Oates ha distillato la vita reale in un romanzo che intreccia tre fasi o livelli di Marilyn: il primo, è la tribolata ragazza di provincia, Norma Jeane Baker; poi, l’attrice, col nome d’arte pieno di emme per suscitare mormorii di apprezzamento (mmh...), voce infantile e make up artificiale, corpo a disposizione di sguardi e fantasie maschili; infine, la Bionda, chioma di platino, vestiti costosi e pelle di burro, che mette assieme stile di vita altolocata e categoria porno, con una rivisitazione della vergine delle favole: fragile e fatua, facile e felice. Le tre donne hanno uno stesso cuore, cui Oates dà vita inventando un timbro che suona autentico, mescolando biografia e finzione: come la balbuzie di cui da giovane soffriva realmente e Oates sublima poi in chiave sentimentale («La balbuzie era ancora dentro Norma Jeane. Ma era scesa dalla lingua al suo cuoricino da colibrì, lì dove nessuno poteva scoprirla»); o come le poesie del diario, che Marilyn scriveva e Oates reinventa.
Dalle tante famiglie cui fu data in adozione, Oates ne ricava una sola, di fantasia; e di tanti veri amanti, problemi di salute, aborti e tentativi di suicidio, compaiono i più simbolici. Gli uomini della sua vita ci sono tutti, da Joe DiMaggio ad Arthur Miller, fino a J.F. Kennedy; più alcuni inventati, come Cass, figlio gay di Charlie Chaplin. Dal libro è stata tratta una serie nel 2001 e recentemente un film che Netflix lancerà il prossimo settembre, firmato da Andrew Dominik, protagonista Ana De Armas. Per Oates è una sorprendente lettura femminista di Marilyn. Per noi, oltre che un mito, dovrebbe essere anche un monito su cosa può celarsi oltre il successo e dentro chi non ha più una vera vita privata, come ci ha ricordato la scrittrice in occasione dei 60 anni dalla morte di Marilyn, il 5 agosto 1962.
Cosa ricorda della notizia della precoce morte di Marilyn a 36 anni?
«In quanto morte dell’icona “Marilyn Monroe”, il fatto era avvolto da molti misteri. Ma a colpirmi fu la scoperta, successiva, che lei aveva pochi dollari nel suo conto in banca, che non bastavano per un funerale dignitoso, così il suo corpo fu portato all’obitorio della contea di Los Angeles. Alla fine sarà l’ex marito Joe DiMaggio a pagare per il funerale e la lapide. Questo è rivelatore: l’immagine glamour di una donna è solo qualcosa che viene venduta al pubblico da cinici produttori e imprenditori, mentre la donna in sé viene sfruttata. Una vittima, nonostante la sua bellezza e talento. Perché “Marilyn Monroe” è morta così giovane? La donna che era dietro l’artista, Norma Jeane Baker, era disperata per la sua vita già all’età di 36 anni».
L’ispirazione del libro è venuta da una foto in cui Norma Jeane Baker è bruna e sconosciuta, come tante ragazze della grande provincia USA.
«Aveva solo 16 anni al tempo di quella foto. Era una ragazza che aveva abbandonato le scuole superiori e si era sposata da giovane, con un amico del vicinato, per evitare di essere rimandata in orfanotrofio fino all’età di 18 anni. In questa fotografia, Norma Jeane è carina ma non affascinante; ha i capelli castani, non biondo platino. È istruttivo vedere come “Marilyn Monroe” sia stata modellata su questa giovane ragazza americana volenterosa ma ingenua, per essere trasformata in un prodotto di consumo per gli studios di Hollywood».
Qual è l’aspetto meno indagato di Marilyn Monroe?
«Mentre riguardavo i film in ordine cronologico, da Giungla d’asfalto e La tua bocca brucia fino a Gli spostati, mi sono resa conto di un’attrice brillante ma sottovalutata. Le prove sono lì, sullo schermo, basta vedere i film».
La vita di Marilyn e il suo romanzo sono pieni di punti di svolta: dalla ragazza alla star, dalla star al sex symbol. Punti spesso oscuri: penso alla scena del provino in cui viene violentata dal produttore che però quasi giustifica; o al celebre servizio fotografico di nudo su un panno rosso fatto per bisogni economici... Delle tante metamorfosi di Marilyn, ce ne è una che ricorda più di altre?
«Direi che il primo “punto di non ritorno” nella vita di Norma Jeane è una foto vestita da operaia durante la Seconda guerra mondiale, apparsa sul quotidiano militare Stars & Stripes. Penso sia stato l’inizio di quella trasformazione che ha portato la sua vita privata ad essere anche vita pubblica». Marilyn aveva la sindrome dell’impostore e cercava continue conferme negli uomini. Chi l’ha amata o aiutata ad amarsi di più? «I suoi mariti l’amavano molto, questo è fuori dubbio. Ma il suo bisogno di attenzione e le sue continue ansie mettevano a dura prova ogni relazione».
Dal corriere.it l'1 maggio 2022.
Lanciatissimo dalla stampa arriva su Netflix (in USA e Gran Bretagna, vedremo quando in Italia) The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes di Emma Cooper. È un nuovo attesissimo e «chiacchieratissimo» documentario dedicato alle ultime ore di vita di Marilyn Monroe. Per la prima volta vengono resi pubblici delle registrazioni finora segrete. Vedremo se aiuteranno a risolvere il «mistero» della bionda più atomica di Hollywood.
Erano le 3.30 della notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. La sua governante Eunice Murray bussò alla sua porta, al 12305 di Fifth Helena Drive, a Brentwood, Los Angeles. Nessuna risposta. La donna chiamò allora il medico e lo psichiatra della diva. Fu quest’ultimo, alle 4.25 ad annunciarne la morte. E a chiamare la polizia.
The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes parte da qui. Da quando ufficialmente inizia il «mistero della morte di Marilyn Monroe». Su Netflix dal 27 aprile, gli anglosassoni potranno saperne di più. Magari sapere finalmente la verità. Fu davvero suicidio, come da versione ufficiale? Oppure qualcuno mise a tacere per sempre colei che era l’amante di Robert Kennedy e del fratello, il presidente JFK a cui aveva cantato Happy Birthday? Le voci e i dubbi circolarono da subito. Il documentario sembrerebbe confermarli…
Perché, come dice il titolo del docu, per la prima volta vengono resi pubblici audio finora mai ascoltati. Aggiungete le interviste esclusive a chi M.M. l’aveva incontrata nel suo ultimo giorno di vita. E in quelli subito precedenti.
«La tragica morte dell’icona hollywoodiana Marilyn Monroe ha generato voci di complotti e cospirazioni per decenni. Spesso mettendo in ombra il suo talento e personalità. Ricostruendo le sue ultime ore attraverso registrazioni inedite e le testimonianze di chi la conosceva bene, il film illumina la sua storia. Quella di una vita affascinante e complessa. Offrendo una nuova visione di quella notte fatidica»…
Tra le voci riportate nel documentario, quella che fosse incinta di uno dei due fratelli Kennedy. Viene riportata la frase dell’attrice: «Ho perso il mio bambino». Altra voce, quella che negli ultimi giorni avesse tentato di mettersi in contatto con Robert, il fratello minore allora Ministro della Giustizia. Come ha scritto Vanity Fair USA, l’attrice aveva confidato che avrebbe sposato l’uomo, già coniugato e con figli. Ne parlò in diverse telefonate ad amici.
Robert Kennedy ha sempre negato di aver incontrato l’attrice nei giorni precedenti la sua morte. E questo anche se alcuni testimoni dissero di averlo visto nei dintorni della villa di Brentwood.
Jeanne Carmen, attrice e amica di Marilyn, raccontò che l’aveva sentita per telefono. Aveva la voce stanca. Le confidò che durante la notte una voce femminile l’aveva tempestata di telefonate. «Lascia stare Bobby, vagabonda. Lascialo stare», le aveva ripetuto. Alla sua richiesta di portarle pillole e vino, l’amica le rispose di no.
L’ultimo giorno della sua vita, Monroe telefonò anche al suo parrucchiere Sydney Guilaroff e al suo psichiatra. Il primo disse che era disperata e si sentiva minacciata «da uomini potenti con cui aveva avuto relazioni sessuali». Lei gli raccontò che Bobby Kennedy era stato da lei e l’aveva «minacciata». Il secondo, che la raggiunse alle 7 di sera, la trovò «rabbiosa». Tra le 21.30/22, allo sceneggiatore Jose Bolanos, disse che lei gli rivelò qualcosa «che avrebbe scioccato il mondo». Ma non svelò mai cosa…
A tutt’oggi, le teorie complottistiche non si sono spente. Tra queste, quella che la diva sarebbe stata uccisa dall’FBI su richiesta dei Kennedy. Secondo altre fonti, sarebbe rimasta vittima della mafia.
Marilyn Monroe, la morte 60 anni fa. Le immagini che costruirono il mito. Alberto Crespi su La Repubblica il 4 agosto 2022.
Dai primi scatti in chiave pin-up alle diverse trasformazioni volute da Hollywood: le foto che raccontano una carriera luminosa e un destino fatale
Lo scorso 1 giugno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Oggi siamo qui a celebrare i sessant’anni trascorsi dalla sua scomparsa, il 5 agosto 1962: ma la cosa più sorprendente, osservando la sua biografia, è che potrebbe essere ancora viva. Un’adorabile vecchietta, da tempo in pensione, sicuramente nascosta in qualche superattico newyorkese (non sarebbe rimasta a Hollywood nemmeno sotto tortura) e inaccessibile ai media e al pubblico come Greta Garbo.
Le due Marilyn
Forse è questo il motivo per cui Marilyn continua a essere “due” Marilyn, decisamente diverse l’una dall’altra. Come diva e come attrice è irrimediabilmente incasellata nel “suo” decennio, gli anni 50, l’ultima decade dorata della vecchia Hollywood che con lei tentò un disperato colpo di coda: creare una diva super-glamour proprio mentre il cinema classico si avviava a una fine gloriosa, tenendola rinchiusa in un’immagine che poteva rimandare a stelle del passato come Mae West o Jean Harlow – la stessa operazione che non riuscì invece con i divi maschi del decennio, i vari Marlon Brando, Monty Clift e Paul Newman, segnati invece dalla modernità. Come icona, invece, Marilyn è attualissima e non conosce né ha mai conosciuto declino. Viene quasi da pensare a che razza di influencer potrebbe essere, oggi, una come lei. A come cavalcherebbe i nuovi media, così come cavalcava quelli di allora.
Marilyn Monroe, un pugno di titoli per una leggenda
Pensare che lei avrebbe voluto “essere Marlon Brando”: un’attrice seria, intellettuale, capace di alternare il cinema al teatro. Come Brando, in fondo, ha fatto pochi film. Le filmografie gliene assegnano 31, ma quelli nei quali è protagonista sono di fatto una decina da Niagara (1953) in poi. Prima ci sono tante particine, spesso neanche accreditate, o valorizzate a posteriori (come la famosa scritta “postuma” nei titoli di testa di Una notte sui tetti, dei fratelli Marx: “E per 41 secondi sullo schermo, Marilyn Monroe!”). La sua leggenda è legata a un pugno di titoli, assai diversi fra loro (musical, commedie ma anche drammi e persino un western, La magnifica preda accanto a Robert Mitchum, bellissimo: da recuperare), e a molte altre cose che in ultima analisi sono più importanti e durature dei film. Nell’ordine: la morte prematura sulla quale ancora si discute, il controverso rapporto con la famiglia Kennedy, alcune campagne pubblicitarie divenute immortali, i servizi con alcuni grandi fotografi e, in generale, le mille metamorfosi che questa donna ha vissuto nella sua breve vita. Proviamo a raccontarne alcune.
La pin-up che piace agli americani
Norma Jeane Mortenson, o Norma Jeane Baker (sono i cognomi dei mariti di sua madre, non si è mai capito chi fosse davvero il padre), diventa Marilyn Monroe a 21 anni, nel 1947. Circolano parecchie sue foto di quell’epoca. Qui ne potete vedere una del 1949, in cui si mette il rossetto davanti a uno specchio, e due del 1950, scattate da Ed Clark.
Marilyn non è ancora famosa. Ed è molto diversa rispetto alle foto della maturità. In altre immagini ancora più antiche, ha i capelli scuri e un viso assai diverso. Hollywood interveniva in maniera pesante sulle fattezze delle attrici, basterebbe vedere certe foto di Rita Hayworth prima che le schiarissero la chioma e le “alzassero” la fronte cambiando l’attaccatura dei capelli, o di Marlene Dietrich in Germania, prima che in America le cavassero i molari per rendere il volto più emaciato e meno “paffuto”. Marilyn viene subito “veicolata” come una pin-up alla Betty Grable o alla Lana Turner, un modello femminile allora di moda. Nelle foto di questo periodo la fanno apparire sempre allegra e vestita da “ragazzina”. Nessun tormento, nessuna ombra. Una All American Girl come ce ne sono tante.
'Niagara', così Marilyn diventa adulta
Subito dopo vediamo una foto da Niagara: sono passati due-tre anni e tutto è cambiato. Niagara è un ruolo drammatico e nella foto Marilyn non sorride. Sembra molto più adulta e la pettinatura è già quella, un po’ cotonata, che Andy Warhol immortalerà nelle sue serigrafie.
'Niagara', 1953 Un anno dopo Niagara, nel 1954, il grande fotografo britannico Baron (nome d’arte di Sterling Henry Nahum) la fotografa sempre in posa seria, con dei pantaloni a righe e una camicia da uomo: la pin-up è sparita e probabilmente a Marilyn piace questo look quasi androgino (incredibile, eh?) che la fa apparire più matura dei suoi 28 anni. Curiosamente, qui “somiglia” ad alcune foto del periodo in cui era sposata con Arthur Miller, dal 1956 al 1961.
A qualcuno piace spiritosa
Dopo Niagara, Hollywood decide che Marilyn è più adatta a ruoli “leggeri” che valorizzino la sua sensualità e la sua immagine glamour. Ecco dunque l’enorme successo di Quando la moglie è in vacanza (1955), Come sposare un milionario (sempre 1953) e A qualcuno piace caldo (1959).La famosa foto della gonna sollevata dall’aria che esce dalla grata della metropolitana non ha bisogno di commenti: è una delle cinque-sei foto più famose della storia del cinema, forse del 900 tutto. Il regista racconta a Cameron Crowe in Conversazioni con Billy Wilder (Adelphi, 2002) che i ragazzi della troupe litigarono per decidere chi dovesse stare sotto la grata per accendere il ventilatore.
Anche la foto tratta da Come sposare un milionario rende bene l’idea dell’immagine di femme fatale che il cinema vuole cucire addosso all’attrice. Per fortuna, produttori e registi sono abbastanza intelligenti da capire che rispetto alla Garbo o alla Dietrich Marilyn ha un’arma in più: è una femme fatale buffa, ironica, il che da un lato sottolinea la sua fragilità, dall’altro la rende una straordinaria comica potenziale. C’è bisogno di ricordare quanto è tenero e spiritoso il suo personaggio in A qualcuno piace caldo?
Marilyn, i Kennedy e l'inizio della fine
Ma se la femme fatale sullo schermo se la cava sempre, nella vita è un altro paio di maniche. Due foto celeberrime ci permettono di ricordare la sua frequentazione dei Kennedy. Nella prima è al leggìo, fotografata da dietro, mentre intona il leggendario “happy birthday” in onore di JFK. È una foto quasi impudica, il vestito non lascia nulla all’immaginazione.
Nell’altra è insieme ai due fratelli, John e Robert, ed è affascinante – e lievemente inquietante – che non si veda il viso di nessuno dei tre. Il rapporto con il presidente, e il modo in cui fu liquidata dal fratello, sono un momento dolorosissimo della sua vita e forse la premessa alla sua tragica fine.
Profumo di donna
Ma quel vestito così attillato non è un unicum: nell’ultima fase della sua vita l’America sta entrando negli anni 60 e dal glamour si passa decisamente al sexy. Marilyn viene “venduta” come una bomba del sesso, e fra tutte le campagne pubblicitarie e le sedute fotografiche che sfruttano la sua fisicità in questo senso rimane primeggia ovviamente quella per Chanel. Ne vediamo due scatti, del fotografo Ed Feingersh. Le fecero dire anche la famosa frase (“a letto indosso soltanto due gocce di Chanel n.5”) che è diventata uno slogan immortale.
'Gli spostati' sul viale del tramonto
È però giusto chiudere questo viaggio fotografico con due immagini prese dal set di un film bellissimo e maledetto, Gli spostati di John Huston (1961). È l’ultimo film nelle carriere di Marilyn e di Clark Gable, che morì d’infarto pochi giorni dopo la fine delle riprese, e uno degli ultimi per Montgomery Clift, già malato e morto cinque anni dopo, nel 1966.
Come è noto, è un film drammatico scritto da Arthur Miller, che fu l’ultimo marito di Marilyn e non certo il più tenero né il più empatico (crediamo sia giusto ricordare che l’unica, vera, grande storia d’amore di questa donna sfortunata fu quella con il fuoriclasse del baseball Joe Di Maggio, l’unico che fino alla sua morte nel 1999 portò una rosa sulla tomba di Marilyn ogni 1 giugno, giorno del suo compleanno).
Wilder, nel libro citato, non è generoso con Miller: «Era un imbecille. Durante le ultime riprese di A qualcuno piace caldo viene da me, mi prende da parte e mi fa: “Marilyn è incinta. La pregherei di non farla lavorare prima delle undici”. “Le undici?! Guardi che sua moglie non si presenta mai sul set prima delle undici! Sua moglie qua non c’è mai!”». Imbecille o meno, forse per merito di Huston Gli spostati è un bel film, e l’immagine di Marilyn in jeans e camicia bianca, con poco trucco e il viso sempre imbronciato, è tra le più belle, forse tra le più vere, di sempre.
Cloralio idrato, solitudine, i Kennedy: quel giallo dietro la morte di Marilyn Monroe. 60 anni di misteri attorno alla morte di una delle dive più note di tutti i tempi. Angela Leucci il 4 Agosto 2022 su Il Giornale
“È così fragile e sottile che può essere colta solo dalla cinepresa, come il volo di un colibrì”. Così Truman Capote descrisse Marilyn Monroe, forse l’attrice hollywoodiana più famosa di tutti i tempi, un’icona con i suoi capelli biondi, l’aria svampita e una dolcezza sconfinata. In molti hanno cercato di afferrarne l’essenza, altri hanno cercato di risolverne il mistero.
Perché quel 4 agosto 1962, con lei, è morto il sogno degli americani. Quello erotico certamente, ma non solo. L’agiografia su Marilyn restituisce un’immagine di caduta e redenzione, di sorriso dietro la sofferenza. In parte questa immagine era reale, in parte no. Ma, 60 anni dopo, a chi importa svelare la magia?
Chi è stata Marilyn Monroe
Classe 1926, ha vissuto la sua giovinezza a sprazzi con la madre, prendendo il cognome anagrafico, Mortenson, da uno dei suoi mariti, che però non era il padre. Come scrive Keith Badman ne “Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe”, esistono parti della sua infanzia e della sua adolescenza che sono stati consegnati al mito per diversi motivi, come per giustificare il passato una volta che la diva divenne famosa, o anche perché lei stessa citava determinati eventi traumatici in modo diverso, a volte con la stessa persona. Lo fece perfino con l’amica e collega Shelley Winters, cui parlò per tre volte di un episodio di molestie sessuali avvenuto in tenera età.
Marilyn e la sua morte vanno integrati in un periodo storico molto particolare. Gli anni ’60, nel mondo in generale e negli Stati Uniti in particolare, portarono a grandi sconvolgimenti, che spesso riguardarono attentati a diverse personalità politiche, più o meno importanti. Marilyn, nella sua fragilità e col suo fascino, ne fu involontaria testimonial: prima della morte dei Kennedy, prima dell’attentato a Martin Luther King, il suo presunto suicidio ha rappresentato per molte persone un grande interrogativo. Fu solo l’inizio di un periodo tanto complesso e sanguinoso?
Nella sua carriera, Marilyn non fu una diva, ma la diva, la più famosa di un esercito di maggiorate pronte a portare il sogno erotico di una dolcezza sconfinata nel mondo. Fu accreditata come attrice in 33 pellicole, compreso “Something’s Got to Give”, rimasto incompleto, del quale resta al pubblico una scena della diva senza veli in piscina. Tra i suoi titoli più celebri “Gli uomini preferiscono le bionde”, “Come sposare un milionario”, “Quando la moglie è in vacanza” e “A qualcuno piace caldo”.
A fronte di una carriera a tratti luminosa, c’era però una profonda oscurità nella vita di Marilyn. Non solo per aver trascorso un’infanzia seppur non tragica molto infelice, ma anche per vari problemi di salute, tra cui la sua arcinota endometriosi. Per alleviare il dolore, l’attrice cercò qualunque rimedio, sviluppando una dipendenza da alcol e barbiturici che però ne alterarono la personalità, facendola apparire talvolta semplicemente bizzarra, talaltra violenta e rabbiosa.
I rapporti con i Kennedy
Una delle voci che si diffusero a macchia d’olio a partire dagli anni successivi alla morte di Marilyn è relativa a una presunta relazione tra la diva e i fratelli più famosi d’America, il non ancora senatore e all’epoca procuratore generale Robert Kennedy e il presidente John Fitzgerald Kennedy. Questa relazione è riportata in diversi libri e nelle voci di Wikipedia. Ma Badman riporta un'altra verità.
Infatti, incrociando date e appuntamenti riscontrabili, fonti e fatti, secondo il giornalista la prima relazione non solo non può essere presunta, ma è assolutamente falsa. Con Robert l’attrice ebbe per certo un piccolo flirt nel corso di un paio di feste molto pubbliche. E inoltre si ritiene che l’uomo, fortemente religioso, non avrebbe mai tradito la moglie. Tra J.F.K. e Marylin invece, sempre secondo Badman, ci fu in effetti un rapporto sessuale, a quanto pare poco soddisfacente da ambo le parti per via dei problemi di salute ossea del presidente, mentre i due erano ospiti in una villa di Bing Crosby.
Per cui è difficile immaginare quello che per anni è stato favoleggiato come un suicidio o un omicidio per mano della mafia possa aver a che fare con i Kennedy. Anche se più tardi spuntarono dei carteggi appartenuti a un celebre avvocato, in cui emergevano dei presunti rapporti tra i due politici e la mafia e il fatto che Marilyn ne fosse al corrente, tanto da stipulare un contratto per permettere alla madre di ottenere un vitalizio. Ma su questi documenti, dice Badman nel volume, sono stati sempre sollevati forti dubbi d’autenticità.
In altre parole quello che è sempre apparso come una cospirazione o un affare pruriginoso è solo poco più di una leggenda metropolitana. Anche in relazione a quel 19 maggio 1962, quando l’attrice, durante un gala in onore di J.F.K., cantò “Happy Birthday Mr. President”. Tra l’altro Marilyn aveva un accompagnatore d’eccezione, che non avrebbe abbandonato, a quella festa: Isadore Miller, padre del suo ex marito, lo scrittore Arthur Miller.
La morte
Marilyn non si è suicidata, non è stata uccisa, scrive Badman nel suo libro. È semplicemente morta in completa solitudine - rifiutata da un mondo di cui forse non aveva mai fatto parte - a causa di un mix errato di farmaci.
L’attrice faceva infatti uso di tranquillanti, il Nembutal nello specifico, e da qualche giorno anche del cloralio idrato: benché conoscesse molte sostanze a causa dell’abuso che ne faceva da anni, ignorava che questi farmaci possano essere usati insieme e questo le causò prima un malessere che poi diventò coma e quindi morte.
Marilyn Monroe è morta la sera del 4 agosto 1962, indicativamente tra le 20 e le 21, dopo aver assunto durante la giornata prima il Nembutal e poi il cloralio idrato perché non riusciva a prendere sonno. Cercò aiuto: alcuni non risposero alle sue telefonate perché erano fuori casa, altri sottovalutarono il pericolo, come Peter Lawford, anche lui attore oltre che cognato dei Kennedy. Lawford credette infatti che si trattasse solo di una disperata richiesta di attenzioni.
Neppure la “governante” di Marilyn, Eunice Murray - in realtà era più un’amica, cui i medici avevano chiesto di controllare l’attrice - si accorse di nulla, avendo un problema d’udito e a causa del fatto che stava guardando la tv a tutto volume. Fu però lei a trovare il corpo, supino con il busto appoggiato contro la porta della camera da letto. Il corpo fu spostato e la scena del crimine più volte inquinata, tanto che nelle foto passate alla storia la diva è a letto.
Le teorie
Nei giorni che precedettero il ritrovamento del suo corpo, Marilyn Monroe parlò, al telefono e dal vivo con diverse persone, che ne tracciarono un ritratto altalenante, a partire da Marlon Brando, cui promise una cena la settimana successiva e che la descrisse molto diversamente da una persona depressa. Resta però il fatto che l’attrice ebbe, nel pomeriggio precedente la sua morte, un’accesa discussione con Bobby Kennedy, e in precedenza una telefonata con una giornalista cui parlò dei fratelli Kennedy in tono deluso, accennando i piani del presidente nei confronti di Cuba e raccontando del progetto segreto che riguardava gli ufo.
Tutto questo alimentò una ridda di teorie, accresciute anche dalla scomparsa del “red book” della diva, un quadernetto rosso, un diario su cui l’attrice, che affermava di avere scarsa memoria, appuntava di tutto. Il diario, nonostante la sua esistenza sia stata spesso smentita, esisteva eccome: Marilyn lo portava con sé anche durante la seconda festa in cui incontrò Bobby Kennedy, e lo utilizzò per appuntare le risposte alle domande che gli poneva.
Tra le teorie più bizzarre sulla morte di Marilyn c’è la celeberrima ma falsa iniezione che le fu somministrata dal suo psichiatra Ralph Greenson nel tentativo di rianimarla: in realtà l’attrice non ricevette nessuna forma di soccorso, fu una sua amica mossa a pietà a chiamare per la prima volta un’ambulanza privata per il trasporto della salma alle prime luci del mattino.
Un podcast rivela perché Frank Sinatra e Marilyn Monroe non si sposarono
La più nota è sicuramente la teoria del suicidio, che però non venne in realtà supportata dai riscontri del coroner e dagli esami sul cadavere. Il fatto poi che il medico abbia trovato lo stomaco dell’attrice vuoto - poiché il tempo di assorbimento delle sostanze è minimo in una persona che è già in assuefazione a essi - ha dato voce ai cospirazionisti che hanno iniziato a parlare di omicidio.
Chi sostiene l’omicidio indica nei fantasiosi mandanti i Kennedy, la mafia o la Cia: l’attrice sarebbe stata uccisa perché sapeva troppo. Nonostante siano teorie piene di fascino, non hanno alcun fondamento.
Su Marilyn restano tanti pettegolezzi spesso immotivati, di Marilyn tanti film. Ma è anche giusto non dimenticare quell’agosto 1962. Quando di lei rimasero un corpo non reclamato da nessuno per quasi 21 ore, per poi essere riconosciuto dall’ex marito Joe DiMaggio, l’uomo che l’amò per tutta la propria vita, un cartellino all’alluce con il numero 81128, una vita triste e una morte in solitudine. E un mazzo di rose, inviato al funerale della diva da un uomo misterioso, corredato da una poesia di Elizabeth Barrett Browning. Quella che inizia con: “Quali sono i modi in cui ti amo? Fammeli contare”.
La notte in cui morì Marilyn Monroe. Il Post il 5 agosto 2022.
Sessant'anni fa fu ritrovata nella camera da letto della sua anonima casa di Los Angeles, in circostanze di cui si discute ancora oggi
Marilyn Monroe morì 60 anni fa, nella notte tra sabato 4 e domenica 5 agosto 1962, quando era una delle attrici più famose al mondo e un simbolo universale di erotismo e bellezza femminile, destinato a rimanere tale nei decenni successivi, tutt’oggi quasi senza rivali. Il 6 la notizia arrivò sui giornali di tutto il mondo, in molti casi in gran risalto sulle loro prime pagine. Aveva 36 anni, e fu ritrovata nella stanza da letto di una casa di sua proprietà a Los Angeles, nel distretto di Brentwood, al 12305 di Fifth Helena Drive. Da fuori oggi è una villa con piscina uguale alle centinaia di altre che la circondano.
Monroe era nata il primo giugno 1926 e il suo vero nome era Norma Jeane Mortenson (il cognome venne cambiato da Mortenson a Baker poco dopo la nascita). Nei suoi primi film aveva interpretato la parte della dumb blond, la bionda ingenua, ma col tempo mostrò di saper fare anche molte altre cose. Negli anni Cinquanta e Sessanta, anni di profondi cambiamenti sociali e globali, riuscì ad affermarsi – tra l’altro dopo aver studiato method acting all’Actors Studio di Lee Strasberg – come apprezzata attrice, sia comica che drammatica, non solo come sex symbol.
Fu per anni l’attrice più pagata al mondo, e in vita o dopo diventò un’icona americana con ruoli e funzioni diversi: dalla contrapposizione all’Unione Sovietica all’antirazzismo al femminismo. Il racconto di lei descrisse spesso una donna combattuta tra la volontà di prendere in mano la sua vita e la sua immagine e le difficoltà nel farlo, in mezzo alle aspre critiche e spropositate attenzioni mediatiche che la accompagnarono per tutta la sua breve carriera.
Fu ovviamente una delle celebrità più commentate sui rotocalchi, che raccontarono per filo e per segno i suoi matrimoni: il primo, negli anni della Seconda guerra mondiale, con James Dougherty, il figlio dei vicini di casa; il secondo, con Joe DiMaggio, leggendario giocatore di baseball dei New York Yankees; e il terzo e ultimo con il drammaturgo Arthur Miller. Si parlò molto anche di altre relazioni vere o presunte di Monroe: su tutte quella con il presidente statunitense John F. Kennedy.
Negli anni Sessanta diversi giornali presero a scrivere con sempre più insistenza dei problemi di dipendenza di Monroe, legati all’alcol ma soprattutto al consumo di anfetamine e barbiturici, ad alcuni suoi insuccessi cinematografici e ai problemi che ebbe durante le riprese dei suoi ultimi film, per ansia e depressione.
I suoi ultimi due film completati – Facciamo l’amore e Gli spostati, scritto da Miller – uscirono nel 1960 e nel 1961 e, sebbene poi entrambi rivalutati, non piacquero né alla critica né al pubblico. Nel 1961 Monroe divorziò da Miller (si dice lui le avesse regalato la sceneggiatura del film per San Valentino e che però a lei non piacesse il suo personaggio) e nel maggio 1962 cantò per il compleanno di Kennedy festeggiato al Madison Square Garden di New York la famosa “Happy Birthday, Mr. President”.
In quegli anni, probabilmente per ristabilire la sua immagine dopo gli insuccessi cinematografici, Monroe fece lunghe interviste con riviste come Life, Cosmopolitan e Vogue e iniziò le riprese di Something’s Got to Give, rimasto però incompiuto (ne esistono solo alcuni minuti, compresa la scena nota come “Il bagno di Marilyn”).
È stato scritto, poi, che per mesi prima della sua morte Monroe passò gran parte del tempo nella sua casa in stile spagnolo al 12305 di Fifth Helena Drive: «praticamente nessun vicino l’ha vista più di una o due volte durante i sei mesi in cui ha vissuto in questo bungalow da due stanze da letto, che è modesto per gli standard di Hollywood», scrisse il New York Times nell’articolo che dettagliava la sua morte.
Su quel che successe il 4 agosto, l’ultimo giorno di vita di Monroe, è stato scritto e detto tantissimo, e tantissime volte le persone hanno ritrattato quanto scritto o detto. Si sa che era un periodo in cui Monroe non stava bene ed era seguita dal suo psichiatra, che quel giorno andarono a visitarla la sua addetta stampa e il fotografo Lawrence Schiller, e pare che Monroe fece, ricevette e tentò di fare anche molte telefonate.
Nella casa con lei c’era la governante Eunice Murray. Fu lei a trovarla incosciente nella notte tra il 4 e il 5, e ad avvisare Ralph Greenson, lo psichiatra. A dichiarare la sua morte e a parlarne come di un possibile suicidio conseguente all’assunzione di barbiturici fu, alcune ore dopo, la polizia di Los Angeles.
Murray, scrisse il 6 agosto 1962 il New York Times, fu «l’ultima persona a vederla viva» e ha raccontato che Monroe era andata a dormire verso le otto di sera. Disse di averla vista incosciente verso le 4 di notte, con la cornetta del telefono in una mano. Sempre il New York Times scrisse che «accanto al letto c’erano un flacone per pillole vuoto» e, sul comodino, diversi altri flaconi, pillole e medicinali.
Il Los Angeles Times scrisse, sempre il 6 agosto, che nel flacone vuoto avrebbero dovuto esserci 50 pillole e che la relativa prescrizione, che parlava di una pillola al giorno, era di due o tre giorni prima.
Quello stesso giorno Variety iniziò così il suo articolo: «Marilyn Monroe, che spesso aveva cercato senza successo di allontanarsi dal mondo [shut herself off from the world], ieri lo ha fatto».
Agli articoli di cronaca e alle celebrazioni di Monroe si accompagnarono ben presto le varie teorie sulla sua morte, alimentate dal fatto che, prima o dopo, chiunque ci ebbe a che fare, dall’autista dell’ambulanza al medico legale che ne fece l’autopsia, disse la sua. Ci fu chi parlò, tra le altre cose, di un fantomatico coinvolgimento della CIA o della mafia, in genere per via dei rapporti di Monroe con John Fitzgerald Kennedy e con suo fratello Robert.
Nel 1982, vent’anni dopo la morte, si fecero nuovi accertamenti sugli eventi di quella notte e sulle successive analisi e dichiarazioni, e anche in quel caso si parlò di probabile suicidio.
Il funerale, organizzato e pagato da DiMaggio, si tenne l’8 agosto: il discorso funebre lo fece Lee Strasberg, che le aveva insegnato recitazione, e tra le altre cose furono suonate la Sinfonia n. 6 di Tchaikovsky e “Over the Rainbow”.
Il funerale di Marilyn Monroe, 1962 (Central Press/Getty Images)
Per i vent’anni successivi, secondo certi resoconti per tre volte a settimana ogni settimana, DiMaggio fece arrivare rose rosse sulla sua tomba. Pare che prima di morire, a 84 anni nel 1999, lui disse: «finalmente riuscirò a vedere Marilyn».
Nell’articolo in cui ne annunciava la morte, il New York Times definì Monroe una «Venere contemporanea». Commentando la sua morte, il regista Joshua Logan, per il quale aveva recitato nel 1956 in Fermata d’autobus, disse invece che Monroe era stata «una delle persone più sottovalutate al mondo».
COME È MORTA MARILYN MONROE? IL MISTERO A 60 ANNI DA QUELLA NOTTE. La notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962 ci lasciava una delle più celebri dive del cinema hollywoodiano: ma quali sono le cause della morte di Marilyn Monroe? Di Giorgio Mirandolina il 3 agosto 2022 su style.corriere.it.
Sono trascorsi sessant'anni dalla morte di Marilyn Monroe, avvenuta esattamente nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962. Il giorno del decesso l'attrice venne trovata, a soli 36 anni, nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, nella quale viveva da sola con la sua governante Eunice Murray. Le cause della sua morte sono avvolte nel mistero che perdura tuttora.
UN MISTERO NON ANCORA RISOLTO
La morte di Marilyn Monroe è sicuramente uno dei più grandi misteri di cronaca nera della storia hollywoodiana. Molti fan e estimatori continuano infatti a chiedersi: com'è morta Marilyn Monroe? Nonostante la folta produzione di film, documentari e libri prodotti per dare risposta al mistero, nessuno è di fatto mai riuscito a dipanarlo in maniera definitiva, rendendolo tuttora ancora irrisolto.
LE CAUSE DELLA MORTE DI MARILYN MONROE
Marilyn venne trovata nuda, con in mano la cornetta del telefono. Era notte fonda. Dai controlli dell'autopsia si stabili che la causa della morte era un'overdose di barbiturici: la versione ufficiale fu sempre quella del suicidio.
Ma l’idea che fosse rimasta vittima di un complotto partì subito. Di Bob Kennedy, magari, ma le teoria sulla morte furono davvero svariate e le testimonianze delle persone legate ad essa confermarono tutte una serie di stranezze e elementi poco chiari.
IL FUNERALE DI MARILYN MONROE
Marilyn Monroe morì a soli 36 anni e il funerale fu organizzato dal suo ex marito, il campione di baseball Joe DiMaggio che ne pagò tutte le spese. La cerimonia si tenne al Westwood Memorial Park l’8 agosto 1962 a cui presenziarono solo trentuno persone. DiMaggio decise di invitare solo gli amici ristretti, lasciando da parte tutte le figure di spicco di Hollywood. Il rito funebre fu celebrato da A.J. Soldancon, accompagnato dalle note di Over the Rainbow di Judy Garland.
Dopo il funerale Marilyn Monroe venne sepolta nel Westwood Village Memorial Park Cemetery, a Westwood, un quartiere di Los Angeles. Il suo amico Truman Capote sostenne però all'epoca che l'attirce avrebbe voluto che le sue ceneri venissero disperse in mare.
La morte di Marilyn Monroe e tutto quello che accadde nei tre giorni successivi. Come cambiò il mondo la mattina del 6 agosto 1962, quando i notiziari annunciarono "Marilyn è morta". Debora Attanasio il 04/08/2022 su marieclaire.it.
Marilyn Monroe, che cercava senza successo di tagliarsi fuori dal mondo, ieri l'ha fatto davvero. L'attrice 36enne è stata trovata morta a letto nella sua casa di Brentwood, apparentemente vittima di un'overdose di sonniferi. Un ricevitore del telefono penzolava dalla sua mano senza vita e la polizia ha riferito di aver raccolto vicino al letto un flacone vuoto che da circa 50 capsule di Nembutal. (Variety, 6 agosto 1962)
Marilyn Monroe, la tormentata bellezza che non è riuscita a trovare la felicità nemmeno come star più brillante di Hollywood, è stata trovata morta domenica scorsa nella sua casa di Brentwood, apparentemente per un’overdose di sonniferi. La bionda attrice 36enne era nuda, sdraiata a faccia in giù sul letto e con in mano un ricevitore del telefono (Los Angeles Times, 6 agosto 1962).
Fu riportata così da due delle testate più diffuse negli Stati Uniti, con dovizia di particolari oggi impensabile, la notizia della morte di Marilyn Monroe, l'annuncio che la sua stella si era spenta nella solitudine con l'unica compagnia della sua barboncina. Si accendeva invece la macchina del mito che procede ancora spedita a distanza di 60 anni esatti e la cui genesi, che per chi non era ancora nato, è difficile da immaginare. Come è possibile che una donna così bella e sexy avesse messo fine alla sua vita tragicamente? Nessuno se ne faceva una ragione, e la domanda ha dato vita a inevitabili complottismi, all’ipotesi che fosse stata fatta fuori dai Kennedy perché depositaria di segreti di Stato, addirittura che sia ancora viva e nascosta. Sarebbe bello pensarlo, ma nessun complotto o insabbiamento sopravvive facilmente dopo tutto questo tempo, mentre sono affiorate negli anni sempre più testimonianze di chi c’era, e ha dovuto avere a che fare con le sue esequie.
Il mondo dopo Marilyn è iniziato la mattina del 5 agosto 1962, quando Eunice Murray, la domestica di Marilyn, si allarmò perché l’attrice non le apriva la porta. La signora Murray telefonò allo psichiatra Ralph Greenson che aveva in cura Marilyn e che arrivò di corsa. Greenson ruppe una finestra, riuscì a entrare è trovò la sua paziente morta, aggrovigliata nelle lenzuola di seta color champagne e con la cornetta del telefono in mano. Questa versione, oggi, viene smentita dal documentario Netflix I Segreti di Marilyn Monroe, secondo il quale la diva era ancora viva ed è morta in ambulanza, ma non ha importanza. Quello che conta è raccontare l’onda d’urto che fece seguito alla notizia della sua morte e che investì tutto il pianeta. Nel 1962 non esistevano i social, nemmeno ancora internet che verrà inventata l’anno dopo. A fare da cassa di risonanza erano i giornali perché persino la tv c'era solo nei paesi e nelle case economicamente più agiati. I commenti a una notizia si "scrivevano" con la voce, parlandone con amici e parenti, o anche estranei durante il breve incontro in un negozio, in un bar o nella sala d’attesa di un medico, ovunque. Nelle ore successive alla diffusione della notizia, le redazioni dei giornali americani ricevettero migliaia di telefonate di lettori sotto shock che volevano sapere maggiori dettagli e per tutto il mese di agosto del 1962 la vendita dei giornali, che continuavano a pubblicare articoli su di lei, raddoppiarono sia negli Stati Uniti che in Europa.
Ma raddoppiò anche la quota di suicidi a Los Angeles, come se il fantasma dell’attrice sussurrasse nell’orecchio di tutti quelli che come lei dovevano fare i conti con la depressione, incoraggiandoli a seguirla. Jean Cocteau, dalla Francia, rilasciò delle inaspettate dichiarazioni su Marilyn. Biasimava per quella scomparsa la stampa stessa, come accadrà molto tempo dopo per lady Diana: "la sua morte”, disse Cocteau, “dovrebbe servire come una terribile lezione per tutti coloro la cui occupazione principale consiste nello spiare e tormentare le star del cinema". Dopo lo shock iniziale, arrivò il momento delle dichiarazioni di attori e registi che avevano lavorato con lei, come oggi avrebbero fatto su Twitter. Laurence Olivier, che nel 1957 aveva recitato con lei nel film Il principe e la ballerina, disse che Marilyn era la vittima del “ballyhoo", il termine dispregiativo con cui si definiva l’eccesso di esposizione a cui i divi di Hollywood venivano costretti dalle cinque major cinematografiche. Joshua Logan, che l’aveva diretta in Fermata d’autobus, disse che era stata "una delle persone meno apprezzate al mondo". Col senno di poi, tutti i colleghi parlavano della sua solitudine e della sua fragilità, ma questo accade sempre quando ormai è troppo tardi.
Nel frattempo c’era da risolvere le questioni pratiche. Marilyn non aveva parenti consanguinei, non era più sposata, non aveva avuto figli. Non le sopravviva nessuno. In assenza di un genitore, di un marito, di un fratello, il coroner non aveva idea di chi avvisare prima che lo scoprisse la stampa. Alla fine rintracciò il suo ex marito Joe DiMaggio, il primo nome che gli venne in mente. Fu la scelta giusta. Il celebre giocatore di baseball e la diva avevano divorziato otto anni prima, i motivi esatti non sono mai stati chiari ma vanno dalla gelosia morbosa con le accuse di tradimenti che lui le rivolgeva, all'ingiusto biasimo perché non riusciva a portare avanti le gravidanze, come se fosse colpa sua. Marilyn aveva scritto sulla motivazione del divorzio “crudeltà mentale”. Ma in quel periodo gli ex coniugi si erano riavvicinati, lui era pentito di come l'aveva trattata e aveva anche detto al compagno di squadra Jerry Coleman che l’avrebbe risposata. Joe DiMaggio era devastato, corse all’obitorio e pianse disperatamente. Poi, mentre i medici legali requisivano il corpo per l'autopsia, il giocatore di baseball assunse la regia del funerale dell’ex moglie insieme alle uniche due persone di cui decise di fidarsi: Berniece Baker Miracle, la figlia dei genitori adottivi di Marilyn, e il suo manager Inez Melson. La prima cosa che fecero di comune accordo fu di escludere dalla funzione tutta la fauna glitterata di Hollywood, niente passerelle. I dirigenti degli studios, che volevano sfruttare l’evento come una vetrina promozionale per i loro artisti, protestarono vivamente ma DiMaggio fu irremovibile: "se non fosse stato per tutta questa gente lei sarebbe ancora qui", rispose durissimo. Venne aperto il testamento: Marilyn aveva lasciato in eredità la sua casa, i suoi abiti, i suoi oggetti personali al suo mentore, Lee Strasberg, più anziano di lei di 25 anni, e aveva aggiunto che se non le fosse sopravvissuto, l’esecutore testamentario designato avrebbe dovuto distribuire tutto “a sua esclusiva discrezione, tra i miei amici, colleghi e coloro ai quali sono devota”. Per fortuna dell’esecutore Strasberg era ancora vivo, sarebbe morto 20 anni dopo, perché delle indicazioni così vaghe sarebbero state problematiche.
Il funerale di Marilyn Monroe si tenne l'8 agosto al Westwood Village Memorial Park Cemetery, dove erano sepolti i suoi genitori adottivi Ana Lower e Grace McKee Goddard. Era chiuso al pubblico e un servizio di sicurezza controllava che non si avvicinassero fans, paparazzi e colleghi indesiderati. C’era solo una trentina di persone tra familiari e amici più stretti. Il commediografo Arthur Miller, l'ultimo marito di Marilyn, non si presentò. La sorellastra Berniece le aveva messo un abito verde di Emilio Pucci e un mazzo di roselline rosa tra le mani. L'elogio funebre fu pronunciato da Lee Strasberg, i musicisti hanno suonato la Sesta Sinfonia di Tchaikovsky e la canzone di Judy Garland Over the Rainbow. Prima di chiudere la bara, DiMaggio baciò le fredde labbra dell'ex moglie e le disse due volte "ti amo". Poi Marilyn fu sistemata nella cripta 24 di una sezione del cimitero dal nome suggestivo: Corridor of Memories, il corridoio dei ricordi. E tutto finì. Norma Jane Baker non c'era più. Rimase solo Marilyn, l’eco della sua voce registrata, i suoi film, e migliaia di foto. O forse tutto iniziò. Chissà cosa avrebbe pensato nel sapere che sarebbe stata amata così tanto, che il suo ex marito avrebbe fatto deporre sulla sua tomba rose fresche tre volte a settimana fino alla propria morte, nel 1999, e se avesse mai immaginato che il patron di Playboy Hugh Hefner, lui che di donne bellissime ne ha viste a centinaia, avrebbe pagato 75mila dollari per avere un posto nella sua stessa cripta a fianco a lei perché, disse ai giornali, “Trascorrere l'eternità accanto a Marilyn è un'opportunità troppo dolce per lasciarsela sfuggire”.
NELLA NOTTE FRA IL 4 E IL 5 AGOSTO. Suicidio o omicidio? Sessant’anni fa moriva Marilyn Monroe. Sessant'anni fa la morte di Marilyn Monroe
Marilyn Monroe moriva 60 anni fa, il 4 agosto 1962. Aveva 36 anni. Nata Norma Jeane Mortenson, è ricordata come un sex symbol degli anni Cinquanta e Sessanta e ha lasciato un segno indelebile nella cultura pop (video via Ap). JONATHAN BAZZI, scrittore, su Il Domani il 27 aprile 2022 Aggiornato, 04 agosto 2022
Quest’anno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Li avrebbe compiuti, e invece non lo farà, perché è stata trovata morta nel letto, dalla sua governante, esattamente 60 anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, a 36 anni, nuda, con la cornetta del telefono in mano, portata via da un’overdose di barbiturici. Suicidio, omicidio, o qualcosa in mezzo tra i due. Mentre un documentario di Netflix varia la versione ufficiale della morte
Quest’anno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Li avrebbe compiuti, e invece non lo farà, perché è stata trovata morta nel letto, dalla sua governante, esattamente 60 anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, a 36 anni, nuda, con la cornetta del telefono in mano, portata via da un’overdose di barbiturici. Suicidio, omicidio, o qualcosa in mezzo tra i due.
Il documentario disponibile su Netflix I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti si concentra sull’ultima notte dell’attrice, ma anche sulla genesi del mito di Marilyn, sulla costruzione mitopoietica della più grande diva di tutti i tempi, utilizzando interviste inedite rilasciate da persone vicine all’attrice ad Anthony Summers durante la stesura del libro Goddess.
Il rapporto sentimentale coi due fratelli Kennedy, uno presidente degli Stati Uniti e l’altro procuratore generale, le amicizie scomode con gli esuli comunisti all’epoca della crisi di Cuba, i fascicoli dell’Fbi a suo carico, le cimici e le intercettazioni, gli scenari complottistici che a lungo hanno oscurato il talento e l’intelligenza dell’icona di Hollywood: la storia di Marilyn tiene dentro tutto, troppo, la luce e l’abisso, il sogno e il baratro senza rimedio.
MESSA IN SCENA
Il documentario varia la versione ufficiale della morte: Marilyn non sarebbe stata ritrovata riversa nel letto già morta, alle tre del mattino, come si è sempre pensato. Testimonianze dirette raccontano di un viaggio in autoambulanza ancora viva, diverse ore prima, e di una visita di quello che lei chiamava “il generale”, ovvero Bobby Kennedy, proprio quella sera, probabilmente insabbiata per proteggere il buon nome della famiglia più importante d’America. Una messa in scena, la vita di Marilyn, fino alla fine?
Una vita di cui tutto s’è detto, tutto si può dire. Marilyn la pin up giocattolo dei potenti, la diva scaltrissima, Marilyn la gonna che s’alza al passaggio della metro in Quando la moglie è in vacanza, a cui seguono le botte di Joe Di Maggio, geloso della scena che l’ha resa eterna. Le truccatrici riferiscono: «Abbiamo dovuto rimediare ai lividi sulle spalle». Marilyn la bionda, la scema, le tette di fuori.
Le grandi di Hollywood non la sopportano: arrivista, oca, non sa recitare. Lei fa di tutto per piacerti, dicono: ride, si spoglia, come la vuoi? Il documentario restituisce anche ciò che è stato sottratto al suo talento: Marilyn era un’attrice capace e appassionata, molto più capace e consapevole di quel che si è sempre pensato.
Jane Russell di lei racconta: «Voleva imparare sempre di più. La sera io ero distrutta, lei andava dal coach. Voleva essere brava. E quando la telecamera si accendeva era come se una luce elettrica si attivasse in lei. Tutto prendeva vita». Altri aggiungono: «Un corpo autoilluminante, la stella». E ancora: «Attingeva a fondo dalla sua vita personale. Si immergeva a lungo e ne traeva qualcosa di unico e inesplorato».
VOCAZIONE AL MASSACRO
Nata da una donna mentalmente compromessa e incapace di badare a lei, Norma Jean Baker – il suo vero nome – passa l’infanzia tra affidi temporanei e case famiglia. Dieci famiglie affidatarie diverse, due anni di orfanotrofio. Cresce e ama troppo, come un’ingorda, dicono, scrivono: da un uomo all’altro, Joe Di Maggio, Arthur Miller, il rapporto promiscuo coi Kennedy, un po’ padri, un po’ diversivi. La psicologia dell’orfana, della trovatella. Da piccola, a ogni donna che vedeva: “Ecco una mamma”, e a ogni uomo: “Ecco un papà”. Marilyn donna Gemelli ascendente Leone, anche le stelle a sancire la subordinazione radicale allo sguardo degli altri: se in origine nessuno ti ha visto è obbligatorio essere un mito.
Donna-bambina, incatenata al palcoscenico da una fame di attenzioni che si fa vocazione al massacro: Marilyn s’è ammazzata, s’è drogata a morte, Marilyn è stata ammazzata, era fuori controllo. Voci, ancora oggi infinite voci. Il presidente e il fratello di Kennedy, la mafia, sapeva degli ufo? Marilyn la congiura, i segreti, vietato parlare. All’inizio del documentario sono le sue stesse parole in presa diretta a metterci in guardia, ripetendo un monito che risuona come un mantra retrospettivo, indicazione di metodo e sguardo. A un intervistatore Marilyn domanda: «Come si racconta la storia di una vita? Perché le cose vere alla fine circolano raramente. Di solito lo fanno quelle false».
La storia di Marilyn non smette di interrogarci, dato che in lei si sommano questioni fondamentali e perturbanti, come la genealogia del trauma, l’ambivalenza della fama, la natura onnipotente e contraddittoria del desiderio. La sua vita intera è un grande testo di epica contemporanea: se n’è accorta anni fa una fuoriclasse assoluta della narrazione come Joyce Carol Oates, che ne ha fatto un romanzo monumentale, Blonde (da poco ripubblicato in Italia da La Nave di Teseo), le cui pagine moltissimo raccontano anche delle dinamiche di potere di Hollywood, e del trattamento a lungo riservato al femminile in quel mondo.
Lady Gaga una volta su questo ha dichiarato: «È quando i produttori cominciano a comportarsi tipo: «Senza di me non esisteresti”, soprattutto nei confronti delle donne. Questi uomini hanno così tanto potere che riescono a dominare come nessun altro uomo può fare. In ogni momento, qualunque cosa vogliano: cocaina, soldi, champagne, ragazze, le ragazze più sexy che abbiate mai visto. Poi nella stanza entro io e otto volte su dieci mi considerano così, si aspettano da me quello che queste ragazze hanno da offrire, anche se io non ho assolutamente in mente quello. Non sono qui per questo. Non sono un recipiente per il tuo dolore, non sono solo un posto in cui puoi infilarlo. Quando volevano che fossi sexy o pop, io ci infilavo sempre qualche elemento assurdo per mantenere il controllo della situazione: se dovrò essere sexy ai Vmae cantare un brano sui paparazzi, lo farò morendo dissanguata, per ricordare a tutti cos’ha fatto la fama a Marilyn Monroe».
NIENTE ANDRÀ BENE
Una fama ricercata con tutte le forze, quella di Marilyn, per poi scoprire, una volta raggiunta, di essere più sola di prima. Nonostante l’euforia collettiva, le copertine, i successi a oltranza, Norma Jean riferiva allo psichiatra che la seguiva a domicilio, troppi giornalisti per riceverla in studio: «Niente andrà bene, niente andrà come voglio io. Non piaccio a nessuno, rovino tutto». E da lì i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, le dipendenze da sonniferi e antidepressivi con cui cercava forse solo di sentire un po’ meno.
La storia di Marilyn, indipendentemente dalle circostanze della sua morte, non smette di parlarci perché proietta le dinamiche di deprivazione affettiva su scala epocale, rendendole maestose e commoventi. Il massimo di bene e il massimo di male si possono toccare, in lei si sono toccati, creando scintille memorabili per l’immaginario sovragenerazionale ma non prive di conseguenze per l’ultracorpo abbacinante di questa donna minuscola e gigantesca.
Tutto è memorabile in Marilyn, dettagli dell’atto finale compresi: il testamento stranamente già steso, per precauzione, le indicazioni minuziose su come recitare anche il giorno del funerale, su come voleva andare alla tomba. La parrucca bionda de Gli Spostati, l’ultimo film, il vestito verde di Emilio Pucci, la bara tutta di bronzo massiccio, foderata di seta champagne.
La madre non ce l’hanno portata, con la schizofrenia non sapeva neanche chi fosse. È finita ma non è finita, Marilyn istrionica e lieve, incantesimo evanescente, sotto gli occhi di tutti, ma anche Marilyn che non regge, stordita, obnubilata, che parla parole non sue. Marilyn disarmata, che ripete per tutta la vita: giochiamo?, vuoi giocare con me? È finita ma non è finita, Marilyn personaggio eterno ma persona impossibile: come si riesce a vivere, davvero, giorno per giorno?
Marilyn enorme, fulgida, tutta per sempre simbolica. Morta in un letto ma viva, ieri, oggi e domani, domani, nella mente del mondo, che ancora e sempre ripeti: «Cercare di essere felice è difficile quasi quanto cercare di essere una brava attrice».
JONATHAN BAZZI, scrittore. Ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), Libro dell’Anno di Fahrenheit, Premio Bagutta Opera Prima e finalista al Premio Strega.
Morte di Marilyn Monroe. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La morte di Marilyn Monroe è stato un caso di cronaca nera avvenuto la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. Il fatto suscitò clamore e interesse nell'opinione pubblica statunitense e mondiale.
Il giorno del decesso l'attrice venne trovata nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, dove viveva da sola con la sua governante Eunice Murray.
Le circostanze antecedenti il decesso.
Il giorno prima del decesso, Marilyn aveva più volte tentato di chiamare senza successo il suo ultimo amante Robert Kennedy, (tale affermazione trovò successivamente conferma grazie a un operatore telefonico che riferì di diverse chiamate effettuate dall'attrice all'hotel dove Kennedy risiedeva e dove lasciò numerosi messaggi). L'attrice, per consolarsi, chiamò dunque il critico letterario e amico Robert Slatzer, a cui confidò la tristezza di non riuscire a mettersi in contatto con il suo amato.
Il 4 agosto le aveva telefonato il suo ex marito Arthur Miller, poi verso le 18:30 l'amico massaggiatore Ralph Roberts, al quale aveva risposto lo psichiatra Ralph Greenson dicendo che Marilyn non si trovava in casa incuriosendo l'amico. L'ultima persona che le fece visita fu la sua addetta stampa, Patricia Newcomb, che la vide molto nervosa.
Altra telefonata, questa volta ricevuta, fu quella di Joe di Maggio junior, il figlio di un altro dei suoi mariti, Joe di Maggio; Isadore Miller, padre di Arthur, non riuscì invece a parlare con lei. Più tardi, verso le 19:30, Marilyn aveva chiamato anche Peter Lawford, cognato del presidente degli Stati Uniti d'America John Fitzgerald Kennedy. Tale telefonata fu confermata dallo stesso Lawford al giornalista Earl Wilson del New York Post solo anni dopo: le aveva telefonato per invitarla a cena, ma lei rifiutò, e nel salutarlo gli disse «goodbye». Tale saluto insospettì Lawford, che chiamò l'agente di Marilyn Milton Rudin che a sua volta cercò di chiamare l'attrice, la quale aveva telefonato poco prima al poeta Norman Rosten, altro suo amico, col quale prese un appuntamento per vedersi.
La versione ufficiale.
La versione ufficiale riporta che la governante, camminando nel corso della notte per il corridoio, vide la luce della stanza da letto della Monroe accesa, bussò alla porta, ma non ebbe alcuna risposta. Erano le 3.30 circa. Poco dopo, preoccupata, chiamò lo psichiatra che aveva in cura Marilyn, Ralph Greenson. Quest'ultimo, entrato nella camera da letto dell'attrice quando nell'appartamento era intanto giunto anche il medico Hyman Engelberg, ne uscì poco dopo, alle 4.25, annunciando la morte della Monroe. I presenti chiamarono quindi il dipartimento di polizia di Los Angeles.
Le indagini furono affidate al tenente Robert E. Byron. L'attrice si suicidò ingerendo una dose letale di pentobarbital, 47 pasticche prese insieme a una dose sconosciuta di idrato di cloralio.
Altre versioni.
Secondo quanto scritto nel libro-rivelazione Double Cross da Chuck Giancana, fratello minore di Sam Giancana capo di tutti i capi della Cosa Nostra di Chicago negli anni sessanta, 4 sicari agli ordini del boss sarebbero penetrati nella villa di Marilyn Monroe, a Hollywood, nella notte del 4 agosto del 1962 poco dopo che Robert (Bob) Kennedy, ministro della giustizia e fratello del presidente JFK, aveva lasciato la casa dell'attrice e amante. I quattro malavitosi sarebbero riusciti a immobilizzare Marilyn, a spogliarla e a ucciderla con una supposta velenosa. Il movente sarebbe stato quello di vendicarsi di Bob Kennedy, il quale da ministro della giustizia della Nuova Frontiera aveva promosso un'inchiesta senza precedenti sulla mafia. L'uccisione di Marilyn sarebbe servita, secondo le dichiarazioni di Chuck Giancana, a gettare l'ombra della responsabilità della sua morte su Bob Kennedy e rovinare così per sempre la sua carriera politica. L'obiettivo sarebbe stato raggiunto solo per metà, costando la vita all'attrice. Quella notte di agosto, Bob Kennedy fece visita a Marilyn: uscito Kennedy, sarebbero entrati i quattro sicari del boss di Chicago con i guanti in plastica per non lasciare impronte digitali, il viso coperto da passamontagna e la scatola con la supposta letale. Le avrebbero tappato la bocca con un tampone e le avrebbero infilato una supposta avvelenata. La supposta avrebbe agito con la stessa rapidità di un'iniezione letale, senza però lasciare tracce sul braccio o sulla gamba che avrebbero insospettito i medici legali durante l'autopsia, che in realtà, confermò questa ipotesi. Nella parte terminale del colon della Monroe si poteva vedere una sfumatura viola, segno, probabilmente, dell'azione della supposta.
Jack Clemmons.
A rispondere alla chiamata quella notte fu il sergente Jack Clemmons. Aveva telefonato Engelberg asserendo subito che si trattava di suicidio. Il poliziotto corse, preoccupato che fosse uno scherzo, all'abitazione della diva e nel frattempo chiamò un'altra pattuglia. Le fonti concordano nel dire che sia stato lui il primo ufficiale di polizia a giungere a casa della Monroe.
Eunice Murray gli disse che intorno alle 22.00 si era accorta della luce accesa nella camera della donna, ma non fece nulla trovando il fatto normale, ma verso le 24.00 nuovamente si alzò si avvicinò alla porta, bussò ma nessuno le rispose. Non riuscendo a mettersi in contatto con la donna, preoccupata chiamò Greenson, vi era un buco di ore che venne giustificato affermando che stavano aspettando l'autorizzazione della Fox per avvertire le autorità della morte dell'attrice.
La scena che si presentava al sergente era totalmente confusa, descrisse nel suo rapporto la posizione in cui trovò il cadavere: stesa con la pancia in giù in diagonale, coperta dal lenzuolo, Greenson aggiunse che stava stringendo il telefono quando l'aveva trovata. Clemmons raccontò a Robert Slatzer che si trattava di un evidente omicidio, venne informato dei fatti il capo della polizia William Parker. Tempo dopo, in vista dell'imminente intervista che Clemmons voleva rilasciare al giornalista Walter Winchell sull'accaduto, venne allontanato per sempre.
Thomas Noguchi.
Thomas Noguchi alla morte della Monroe era uno dei vicecoroner della Contea di Los Angeles. L'autopsia gli fu affidata dal suo mentore, il coroner Curphey. La iniziò alle 10.30 del 5 agosto 1962, l'operazione durò 5 ore rivelò circa 8 mg di idrato di cloralio e circa la metà di nembutal nel suo sangue. Terminò dicendo che si trattava di un «avvelenamento acuto di barbiturici» ma lasciando scritto nel rapporto anche «in sospeso». Venne intervistato molte volte sull'accaduto ma non trovando pace chiamò per un consulto il tossicologo R.J. Abernethy e gli spedì le carte che non gli arrivarono mai, che invece furono fotocopiate e archiviate.
Nel 1983 pubblicò un libro, Coroner che descriveva in dettaglio le varie autopsie che aveva eseguito sulle celebrità Nel mese di ottobre del 1985 dirà all'ABC Eyewitness News che durante l'autopsia non riuscì a spiegare le contusioni della donna ritrovate vicino all'anca e sulla schiena, inoltre affermò che lo stomaco era quasi vuoto mentre non aveva trovato tracce di pillole ingerite.
James Hall.
Fra le varie testimonianze oculari vi era quella di James Hall, autista di ambulanze. La sua dichiarazione si colloca in linea temporale prima dell'arrivo della polizia, intorno alle 3.00. Come raccontò a Anthony Summers, accorrendo a una chiamata lui e un medico trovarono Marilyn in semicoma; prima di trasportarla come richiesto, le fornirono ossigeno con cui la diva si riprese. La volevano portare in un ospedale per semplici controlli ma un medico non meglio identificato prese il corpo della donna e le fece un'iniezione intercardiaca che le spezzò una costola. L'attrice quindi morì davanti ai suoi occhi, e non trovando altre parole definì l'accaduto omicidio. L'iniezione viene riferita anche da un'altra testimonianza, quella di Norman Jeffries, parente di Eunice, tuttofare, avvertito dalla parente.
Lionel Grandison.
Lionel Grandison era un altro dei vicecoroner, il funzionario che firmò il certificato di morte[25] con l'indicazione di suicidio. Affermò in seguito che aveva protestato vivacemente al momento, egli era convinto che non si trattasse di suicidio ma di omicidio e che venne costretto a firmare quel certificato, così come gli era stato sottoposto. Era convinto che quei segni sul corpo dell'attrice che non trovavano spiegazione potessero essere stati provocati da un'iniezione e che i report dell'autopsia fossero stati alterati. Attaccò quindi pesantemente il suo capo, il coroner Theodore Curfey accusandolo di aver orchestrato il tutto.
John Miner.
John Miner era un procuratore che aveva assistito Noguchi durante l'autopsia, fu il primo a dissentire al riguardo dell'ipotesi del suicidio, notava la violenza con il quale quel corpo sembrava essere stato trattato, giungendo a scrivere nel suo rapporto «I can say definitely that it was not suicide»; in seguito corresse le sue affermazioni, volendo dire che non si trattava di un suicidio intenzionale.
In seguito nel programma televisivo Hard Copy dichiarò che durante le indagini vennero trascurati alcuni elementi che non coincidevano con la tesi del suicidio.
Eunice R. Murray.
Eunice R. Murray (1902 - 1994) era la governante e arredatrice d'interni di Marilyn Monroe. Fu secondo la versione ufficiale la prima persona che si allarmò per il destino dell'attrice. Conosceva Ralph Greenson da molto tempo in quanto anni prima fu una sua paziente, e fu lui a chiederle di stare accanto all'attrice in quel periodo.
Durante le varie testimonianze rese cambiò più volte versione fino a quella raccontata nel libro da lei scritto, The last months redatto insieme a Rose Shade, nome da sposata di Rose Murray imparentata con Eunice, pubblicato nel 1975, anche se in realtà si trattava in buona parte di un'intervista rilasciata dalla testimone nell'estate del 1973. Qui raccontò di aver spostato il cadavere, pulito la camera da letto e di aver lavato le lenzuola e i vestiti che indossava la donna. Aveva chiamato, prima della polizia, l'autista della limousine Rudy Kautzsky, che come testimoniò non vide mai il corpo dell'attrice quella sera, e il suo genero Norman Jeffries. Cambiò versione anche per quanto riguarda la posizione in cui trovò il corpo: inizialmente disse di aver trovato il corpo a terra, e poi sul letto nell'intento di effettuare una telefonata e ancora dopo nudo sempre sul letto.
Si trattava degli ultimi giorni di lavoro della donna, in quanto era stata licenziata.
Ralph Greenson.
Romeo Samuel Greenschpoon (1911 – 1979), è stato un celebre psichiatra che ebbe fra i suoi pazienti oltre a Marilyn anche Tony Curtis, Frank Sinatra, Vivien Leigh e altri. Lui fu il primo a trovare il cadavere; durante le indagini emersero, per le sue dichiarazioni, alcuni lati oscuri della vicenda:
Testimoniò che la donna ingerì un flacone intero di barbiturici: inizialmente non fu trovata traccia di alcun contenitore di acqua o altro liquido vicino al corpo. In seguito venne ritrovato un bicchiere mezzo vuoto vicino al letto dell'attrice, anche se si registrò un guasto nell'impianto idraulico segnalato poco prima dalla governante.
Testimoniò che infranse il vetro della finestra della camera da letto per entrare nella stanza della donna, chiusa a chiave, ma le tracce, i residui dei frammenti di vetro infranto vennero trovate all'esterno della villa e non nella camera come avrebbe dovuto essere, suggerendo che la finestra fosse stata invece rotta dall'interno.
Intorno alla mezzanotte del 5 agosto, il sergente Lynn Franklin fermò una Mercedes nera vicino a Roxbury Drive, che viaggiava a 120 km all'ora superando di molto il limite massimo di velocità. Alla guida dell'auto vi era Peter Lawford e dietro, riconosciuto dal poliziotto, Bob Kennedy. Vi era una terza persona e quando vide delle foto la riconobbe in Greenson. In seguito rilasciò un'intervista per un documentario francese dove non fece menzione del nome dello psichiatra.
Bernie Spindel.
Bernard Spindel (chiamato Bernie) era un esperto di intercettazioni telefoniche, che aveva collaborato più volte con l'FBI. All'epoca disse di lavorare per Jimmy Hoffa e che da lui ebbe l'incarico di sorvegliare le telefonate che provenivano dalla casa dell'attrice. A suo dire aveva registrato conversazioni di entrambi i fratelli Kennedy ma tali conversazioni vennero sequestrate.
L'esistenza di tali nastri fu confermata da Bill Holt, esperto di esplosivi e dall'avvocato Micheal Morrissey. Secondo la testimonianza di Spindel, si registrò una telefonata nelle prime ore del 5 agosto dove si sentiva chiaramente una voce che chiedeva se una persona fosse morta, come da dichiarazione resa da lui stesso davanti a Frank Hogan.
William Graf poi smentì quanto dichiarato da Spindel. Anni dopo, nel 1983, quando la villa fu comprata dall'attrice Veronica Hamel, durante i piccoli restauri e le nuove installazioni furono trovati dei cavi telefonici aggiuntivi a quelli normalmente usati.
Bob Kennedy.
Dopo anni di indagini private, il giornalista Jay Margolis e lo scrittore Richard Buskin hanno scritto nel 2014 il libro L'omicidio di Marilyn Monroe: Caso chiuso nel quale si menziona Robert Kennedy come il mandante della morte della Monroe. Altri partecipanti al delitto sarebbero stati una delle guardie del corpo di Kennedy, il cognato Peter Lawford e lo psichiatra di Marilyn, il Dr. Ralph Greenson, il quale avrebbe di fatto commesso l'omicidio, somministrando alla donna un'iniezione fatale.
A sostegno di quanto scritto nel libro, i due scrittori riportano dichiarazioni di alcuni testimoni e interviste ad alcuni personaggi coinvolti nella vicenda.
A possibile conferma di tali affermazioni c'è il fatto che intorno alla mezzanotte del 5 agosto, Lawford, Bob Kennedy e Greenson erano a bordo di una Mercedes nera che era stata fermata vicino alla casa della Monroe.
Atlantide, questa sera in tv con “Chi ha ucciso Marilyn?”: anticipazioni. Diego Capuano il 23 novembre 2022 today.it.
Andrea Purgatori si interroga sulla tragica morte di un mito della storia dello spettacolo. L’attrice ebbe una carriera folgorante, ma una vita sofferta. Il suo fu davvero un suicidio?
La nuova puntata di “Atlantide”, in onda oggi 23 novembre in prima serata su La7, ha come titolo “Chi ha ucciso Marilyn?”. A 60 anni dalla scomparsa di Marilyn Monroe ancora tanti sono i misteri nella quale è avvolta la sua fine. Andrea Purgatori presenta due documentari e ospita Achille Bonito Oliva e Marianna Aprile.
Atlantide - Chi ha ucciso Marilyn?: le anticipazioni
Lo scorso 4 agosto è caduto un significativo anniversario: il 60° della scomparsa di Marilyn Monroe. Nata a Los Angeles il 1º giugno 1926 con il nome di Norma Jeane Mortenson Baker, debuttò sul grande schermo nel 1947 e pochi anni dopo arrivò la consacrazione: il 1953 rappresentò l’anno della svolta, con lungometraggi come “Niagara”, “Come sposare un miliardario” e, soprattutto, “Gli uomini preferiscono le bionde” di Howard Hawks. Nei successivi anni recitò in film di culto e fu diretta da grandi registi: valga per tutti Billy Wilder, con il quale girò “Quando la moglie è in vacanza” e il capolavoro “A qualcuno piace caldo”.
Cinema e spettacolo a parte, Marilyn visse però una vita infelice, fatta di relazioni fallimentari (come quelle con Joe Di Maggio e Arthur Miller), conoscenze rimaste in parte segrete (John Fitzgerald Kennedy), tre aborti. Il tutto è stato recentemente raccontato - in forma romanzata e provocatoria - dal discutibile film “Blonde”, diretto da Andrew Domikik per Netflix e con Ana De Armas come protagonista.
Marilyn Monroe fu trovata senza vita nella sua casa di Brentwood (Los Angeles) il 5 agosto 1962, all'età di trentasei anni, stroncata da un'overdose di barbiturici. Troppe, però, sono le cose rimaste irrisolte e poco chiare.
Nel corso della nuova puntata di "Atlantide", in onda oggi 23 novembre dalle 21.15 su La7, Andrea Purgatori introduce i documentari “Death of Marilyn Monroe” e “JFK revisited” e ospita Achille Bonito Oliva, Marianna Aprile. Spazio inoltre per la vignetta di Mauro Biani.
Resta il quesito di fondo: è possibile fare maggiore chiarezza sulla tragica fine di un'icona come Marilyn?
Marilyn Monroe, la fine misteriosa di un’attrice dal fascino immortale. Maurizio F. Corte, direttore de ilbiondino.org.
A 60 anni dalla scomparsa della diva americana, restano i dubbi sulla sua morte e sui legami con i Kennedy.
Com’è morta l’attrice Marilyn Monroe? Dove è morta: nella sua casa o all’ospedale? Quali legami vi sono tra il decesso dell’attrice e i fratelli Kennedy, John (allora presidente degli Stati Uniti) e Robert (ministro della Giustizia)?
Dalla notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto del 1962, quando la bionda più famosa di Hollywood perde la vita, sono passati sessant’anni. Dopo tanto tempo restano intatti i dubbi sulla versione ufficiale della morte della più amata diva di Hollywood.
Del resto, in quegli anni non era difficile fornire una versione di comodo di fatti scomodi.
Pensiamo, negli Stati, all’omicidio di John Kennedy, a Dallas, nell’ottobre del 1963. E a quello del senatore Bob Kennedy, suo fratello, a Los Angeles, nel 1968, quando era pronto a vincere le primarie democratiche.
Esempi di depistaggi e versioni ufficiali infondate li abbiamo, in Italia, fra Anni Sessanta e Settanta, con i casi criminali della morte di Luigi Tenco (gennaio 1967), raccontato come un suicidio; e di Milena Sutter (maggio 1971), vicenda fatta passare per un sequestro e omicidio.
Marilyn Monroe, le versioni su quella notte d’agosto del 1962
Nel ricostruire in modo critico la vicenda della scomparsa della diva americana mi rifaccio a due articoli: uno del magazine Esquire e l’altro del magazine Town&Country.
I due giornali statunitensi riportano i punti importanti che emergono dal documentario di Netflix, l’ultimo di una serie di ricostruzioni della vicenda di Maryling. Il film inchiesta è intitolato I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti.
Il lavoro della regista Emma Cooper rivisita i reportage di Summers. Offre poi agli spettatori l’opportunità di ascoltare le registrazioni delle sue interviste.
Abbiamo quindi la governante della Monroe, la famiglia del suo psichiatra, un investigatore privato, amici e colleghi come John Huston e Billy Wilder.
L’obiettivo del film documentario è di scoprire com’era veramente la vita di Monroe prima della sua morte. E come sono state trascorse le sue ultime ore.
I FATTI SECONDO LA NARRAZIONE TRADIZIONALE
Vediamo i fatti. Alle ore 3.30 del 5 agosto 1962, lo psichiatra di Marilyn Monroe, il dottor Ralph Greenson, riesce a entrare nella sua camera da letto.
Irrompe nella stanza dopo aver rotto una finestra: trova l’attrice nel suo letto, senza vita. Marilyn ha accanto a sé una bottiglia vuota di sonniferi, sistemata sul vicino comodino.
Per il resto, stando al racconto fatto a suo tempo, la stanza da letto di Marilyn è in ordine. Non vi sono segni di colluttazione; o qualcosa che faccia pensare a un intervento esterno per cagionarne la morte.
Tutto era cominciato con la governante di Monroe, Eunice Murray, che si era svegliata nel cuore della notte. La governante aveva visto la luce accesa nella stanza di Marilyn.
La Murray aveva provato a entrare nella camera, per capire se andasse tutto bene. Ma aveva trovato la porta chiusa a chiave.
Di qui la preoccupazione della governante, che aveva chiamato lo psichiatra, il dottor Greenson, con il timore che Marilyn stesse male. Vi era poi stata l’irruzione del medico; e la constatazione del decesso della diva americana.
Tutto si sarebbe svolto, quindi, nelle prime ore di domenica 5 agosto 1962.
LA VERSIONE UFFICIALE E LA RICOSTRUZIONE DELLA MORTE
Fin qui siamo alla versione ufficiale dei fatti, resa nel 1962. Tutto fila: una donna famosa in preda alla depressione, l’abuso di barbiturici e la morte.
Suicidio o decesso involontario per un consumo eccessivo di pastiglie, questa la narrazione. Oppure c’è dell’altro?
In un nuovo documentario Netflix, The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes (I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti), il biografo della Monroe, Anthony Summers, presenta una nuova cronologia degli eventi della notte in cui l’attrice è morta.
La nuova ricostruzione è il frutto di interviste condotte per una versione aggiornata della biografia di Marilyn, pubblicata nel 1985. Una biografia intitolata Goddess.
Grazie alle nuove interviste audio con i membri della famiglia del dottor Greenson, lo psichiatra, il nuovo documentario di Netflix mette in campo le voci e le incongruenze che circondano la morte di Marilyn Monroe.
Il documentario su Netflix, della durata di 101 minuti in un unico film, smentisce insomma la verità ufficiale raccontata per anni.
Emerge, così, che non tutto quello che fu detto è vero. Restano, in compenso, ancora in ombra i rapporti di Marilyn con John Fitzgerald Kennedy e con Robert Kennedy, sui quali ho scritto alcuni articoli in questo blog.
Il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy
Le relazioni con John e Bob Kennedy
Il documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti approfondisce anche le presunte relazioni sentimentali dell’attrice. Quelle che più interessano sono con il presidente John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e suo fratello, il ministro della Giustizia Robert Francis Kennedy (1925-1968).
Un’intervista con la vedova del press agent della Monroe, Arthur P. Jacobs, ha prodotto la svolta più significativa per il biografo Summers. Una svolta utile nel contestare la nota sequenza temporale della morte della Monroe.
Secondo il documentario di Netflix, le cose per la diva di Hollywood sarebbero andate in modo diverso. Intorno alle 22.30 di sabato 4 agosto, una persona avrebbe avvertito l’addetto stampa Jacobs che qualcosa non andava con Marilyn Monroe.
Questo avveniva mentre il press agent si trovava all’Hollywood Bowl, un anfiteatro per la musica sulle colline hollywoodiane. E accadeva, quindi, ben prima della scoperta ufficiale del cadavere, alle 3.30 del 5 agosto 1962, dell’attrice.
“Non è vera (la versione ufficiale, ndr.), perché mio marito era lì. Mio marito ha falsificato tutto“, dice la moglie di Arthur P. Jacobs nel nastro riprodotto nel documentario di Netflix.
Il biografo Summers conferma – con i membri dell’ambulanza che ha prestato i soccorsi all’attrice – che Marilyn è stata in realtà portata in ospedale la sera del 4 agosto, mentre era ancora viva. E che è morta durante il tragitto verso l’ospedale.
Nel documentario, la governante Eunice Murray afferma poi, su nastro audio, che Robert Kennedy era a casa di Marilyn Monroe nel pomeriggio di quel 4 agosto.
La notizia di un ministro della Giustizia nella casa di una diva famosa, il giorno in cui questa muore, avrebbe di certo fatto scalpore, se fosse stata resa nota.
L’AMORE PER BOBBY KENNEDY
Nei giorni precedenti la sua morte, secondo il resoconto del biografo Summers, Marilyn Monroe disse a un’amica che era “molto innamorata e avrebbe sposato Bobby Kennedy“.
La governante della diva di Hollywood, Eunice Murray, afferma – in un nastro audio inedito – anche un altro dettaglio importante: Bob Kennedy e la Monroe hanno avuto una terribile lite il giorno della sua morte, il 4 agosto 1962.
Il documentario conferma, poi, che Bob Kennedy è volato all’aeroporto in elicottero per prendere un volo intorno alle 2 o 3 del mattino, nella notte della morte di Marilyn Monroe. Ovvero domenica 5 agosto 1962.
La morte prematura di Marilyn Monroe all’età di 36 anni – l’attrice era nata il primo giugno del 1926 – è così sempre stata avvolta nel mistero. Ora possiamo capirne il motivo.
Adesso abbiamo il biografo Summers che, grazie ai nastri con le testimonianze, mette in luce le incongruenze nella sequenza temporale degli eventi della morte della Monroe. In questo modo, smentisce la verità ufficiale.
Restano, peraltro, intatti i più inquietanti dubbi e misteri presentati nel documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti.
IL RUOLO DEI FRATELLI KENNEDY
Questi i dubbi sul caso della Monroe, che toccano i vertici più alti degli Stati Uniti nel 1962:
il ruolo che i Kennedy hanno svolto nella vita di Marilyn,
i timori del governo sui legami della Monroe con il comunismo,
la presenza di Bob Kennedy il giorno della morte a casa dell’attrice
I segreti di Marylin Monroe: il lavoro per il documentario
Come osserva la regista, Emma Cooper, nel parlare con il magazine Town&Country, tutte le interviste audio raccolte nel film documentario di Netflix sono state fatte negli Anni Ottanta.
“Non ci sono interviste recenti, a parte le nostre con il biografo Tony Summers”, spiega la Cooper. “Ora, tutte quelle persone se ne sono andate. Non c’è più modo di fare un film come questo: questo le rende una risorsa storica“.
La realizzazione del film ha richiesto anni di lavoro. La lavorazione ha seguito il metodo del libro di Summers, il quale ha costruito relazioni con le persone nel tempo; tanto che quei testimoni si sono sentiti in grado di dire la loro verità sulla morte di Marilyn.
La riproduzione in cera, al museo di Istanbul, dell’attrice Marilyn Monroe
La voce di Marilyn finalmente si fa sentire
La regista Emma Cooper fa una serie di affermazioni assai importanti sul film documentario sulla Monroe.
“È molto strano che questo film esca finalmente nel mondo. Prima di iniziare a realizzarlo, sono andata a Hollywood e ho visitato la tomba di Marilyn“, dice la regista al magazine Town&Country.
“Ho provato a dirle che sono qui come una donna che è più grande di lei quando è morta, che sono gli Anni Venti del XXI secolo. E che spero di darle la voce giusta“, racconta la regista.
“L’unica cosa che è importante, per me, è che abbiamo la verità, e credo che l’abbiamo. Voglio che le altre persone, alla fine del film, provino la sensazione di averla conosciuta; e di conoscere le cose che sono successe alla fine della vita dell’attrice; e perché sono accadute”, sottolinea l’autrice del documentario di Netflix.
“Mi interessa solo Marilyn, che è stata curiosamente senza voce per anni. Parte del motivo per cui non ho mai intervistato nessuno tranne Tony è che il mio personaggio principale è Marilyn Monroe”, fa notare la regista del film.
“Ci sono tre elementi nel film: il biografo Tony Summers, le voci che ha registrato e Marilyn. Quindi, spero solo che la gente la senta nel film”, dice Emma Cooper.
UNA DONNA DIVENTATA UN MERAVIGLIOSO ENIGMA
“Marilyn è un meraviglioso enigma e la sua verità è molto più riconoscibile di quanto pensassi. Ha smesso di essere una vittima per me, è diventata una donna molto moderna“, sottolinea l’autrice del documentario di Netflix.
Il documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti presenta così la vicenda dell’agosto del 1962 sotto una luce assai diversa, rispetto a quanto sapevamo.
Lo fa grazie a un’operazione che un diligente ricercatore e un bravo giornalista compiono in casi del genere: l’andare a controllare, minuto per minuto, i fatti e la loro narrazione.
Accendendo le luci da vicino, utilizzando le testimonianze, prestando attenzione ai dettagli – come ho fatto sul caso di Milena Sutter e Lorenzo Bozano – è possibile smentire le versioni ufficiali di comodo.
I misteri sulla vicenda di Marilyn Monroe – che a 60 anni dalla morte fa ancora parlare – rimangono così intatti alla conclusione del film documentario di Netflix. Mentre un dato è certo: la storia, raccontata dal 1962, della scomparsa della diva americana non ha fondamento.
Maurizio F. Corte. Giornalista professionista, scrittore e media analyst. Insegna Giornalismo Interculturale e Multimedialità all’Università degli Studi di Verona. Dirige l’agenzia d’informazioni e consulenza Corte&Media.
· 52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
Jimi Hendrix tra mito e leggenda il ricordo a 80 anni dalla nascita. Redazione L'Identità il 14 Dicembre 2022 di Benedetta Basile
Ottanta anni fa nacque una figura leggendaria del mondo della musica, Jimi Hendrix.
Nel corso di quella che fu la sua brevissima carriera, fuse blues, funky, soul, hard rock e psichedelica creando dei suoni unici ed entrando nell’empireo dei più grandi chitarristi della storia. Nessuno dopo di lui fu in grado di creare un mix così perfetto. James Allen Hendrix nacque a Seattle il 27 novembre del 1942, in seguito il padre cambiò il nome in James Marshall Hendrix.
La passione per la chitarra nacque presto, già a metà degli anni ’50 girava per la Horace Mann Elementary School che frequentava a quei tempi senza mai separarsi da una scopa con cui faceva finta di suonare. Attirò così tanto l’attenzione che un’assistente sociale cercò inutilmente di convincere la scuola a fornirgli una chitarra vera. Non riuscì a procurarsi strumento migliore di un ukulele, trovato mentre aiutava il padre a sgomberare una cantina. Iniziò così nel 1957 ad imparare ad orecchio le sue prime canzoni. Alla morte della madre Lucille il 2 febbraio 1958 fu il padre stesso a regalargli una chitarra, ma fu per destrorsi e Jimi era mancino. Dovette così imparare in fretta a suonare rovesciandola, un’abitudine che caratterizzò tutta la sua carriera.
Nel 1961, durante il servizio militare, il musicista incontrò Billy Cox, che sentendolo suonare descrisse il suo stile come una combinazione tra “John Lee Hooker e Beethoven”. Quest’ultimo prese in prestito un basso e i due formarono i King Casuals. Era il 1963.
Due anni più tardi Hendrix fece la sua prima apparizione nello show “Night Train”, che divenne il primo filmato di una sua esibizione dal vivo.
Nel 1966 Chas Chandler, noto produttore discografico britannico rimase colpito dalla sua versione di “Hey Joe”, che lo portò con sé a Londra e costruì intorno a lui la band destinata ad esaltarne il talento “The Jimi Hendrix Experience”. In breve tempo arrivò il successo con pezzi come “Hey Joe”, “The Wind cries Mary” e “Purple Haze”.
Il 18 giugno 1967 al Monterey Pop Festival fu presentato come “l’artista più entusiasmante che abbia mai sentito” da Brian Jones e, in quell’occasione, Jimi diede vita a una delle sue performance live più memorabili, che concluse dando fuoco a una chitarra.
Dopo l’uscita del terzo album, che si rivelò anche l’ultimo, “Electric Ladyland”, ritenuto un capolavoro, i rapporti con gli altri membri della band iniziarono a deteriorarsi a causa delle sue dipendenze dalle droghe. La rottura con i colleghi fu annunciata anche sul palco di Woodstock e con il nome di “Band of Gypsy”, con l’amico Billy Cox e Buddy Mules alla batteria registrò un album straordinario di un rock molto potente. Il 6 settembre in Germania Jimi Hendrix si esibì per l’ultima volta in un concerto dove venne fischiato dal pubblico per aver cancellato la performance della sera prima. Scese dal palco e partì per Londra, dove dopo dieci giorni suonò per l’ultima volta. Meno di 48 ore dopo, infatti, venne ritrovato morto nell’appartamento che condivideva con la sua ultima compagna, Monica Dannemann, al Samarkand Hotel.
· 51 anni dalla morte di Louis Armstrong.
Marco Giusti per Dagospia il 18 ottobre 2022.
“A quei tempi la polizia prima ti pestava, poi ti chiedeva chi sei”, racconta Louis Armstrong a Orson Welles che lo sta intervistando in tv. “E oggi pensi che sia tanto diverso?”, gli risponde ironico Welles. E’ solo una della tante gemme racchiuse in questo stupendo documentario di Sacha Jenkins dedicato alla vita del trombettista più famoso del mondo, “Louis Armstrong’s Black & Blue”, passato alla Festa del Cinema di Roma ma in arriva su Apple tv dal 28 ottobre.
Del resto è questo un Festival che ha la caratteristica che ritroviamo tutto o quasi dopo pochi giorni in streaming o in sala. Meglio così. Perché il documentario sulla vita di Satchmo è da vedere e rivedere più volte. Sia per ascoltare la musica sia per ascoltare quello che Armstrong dice. Fissato per la raccolta di articoli e testi che lo riguardavano, Armstrong aveva ritagliato chilometri di giornali riempiendo album su album. Per non parlare di lettere, sue e di fan. Ma nel suo studio, con una serie di registratori, aveva inciso su nastro osservazioni sulla sua vita e i suoi lavori. Meticolosamente.
Senza contare le sue quattro autobiografie che in momenti diversi della sua vita aveva scritto lui stesso alla macchina da scrivere. Al punto che con tutto questo ben di Dio, Sacha Jenkins è riuscito a ricostruire un paio d’ore ricchissime su tutto quello che Armstrong aveva attraversato nel secolo scorso, partendo dal quartiere più povero di New Orleans. Genio musicale indiscusso, pioniere della primissima ora nel farsi largo in un mondo popolato da bianchi, è stato il primo afro-americano a avere il suo nome scritto prima del titolo di testa di un film, Armstrong è stato anche un personaggio controverso per la cultura rivoluzionaria nera a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.
Col suo faccione sorridente, gli occhi strabuzzanti, i denti a tastiera di pianoforte, è stato spesso visto come uno “zio Tom”, un nero ammaestrato dai bianchi, per certi intellettuali neri del tempo. In un momento in cui c’era bisogno di esporsi in prima persona e non potevano essere accettati comportamenti ambigui. Eppure, e questo il documentario di Sacha Jenkins lo spiega bene, è proprio la figura così complessa, popolare, succube di Armstrong, a rappresentare tutta la sofferenza del popolo nero.
Perfino il suo modo di suonare alla tromba l’inno americano, “The Star-Spangled Banner”, che anticipa la versione suonata con la chitarra elettrica da Jimi Hendrix, racchiude dentro di sé tutta la sofferenza e l’orgoglio di quello che avevano vissuto e patito milioni di cittadini afro-americani. E se il suo comportamento ufficiale in tv o negli show è quello del personaggio popolare che deve piacere a tutti, a cominciare dai bianchi del sud, i suoi discorsi “seri” sull’America sono estremamente pesanti e duri contro il governo e, ad esempio, il presidente Eisnhower.
Armstrong è incapace di fare sconti, di non dire quello che pensa. E lo dice in giro per il mondo, dall’Egitto alla Russia, dalla Germania all’Italia, dove verrà almeno tre volte, l’ultima per cantare a Sanremo (ma nel film non si vede), mentre si vede lui con Papa Paolo VI (“Avete figli?, chiede il papa a lui a sua moglie Lucille. “No, ma ci diamo dentro”, risponde) e le foto di quando venne nel 1959 per uno show della Rai e cantò addirittura con Claudio Villa. Promosso a ambasciatore del jazz, Armstrong prese seriamente il suo ruolo, mostrandosi fantasista e showman prima che grande musicista, ma come viene ben spiegato nel film da una serie di star del jazz, era quasi impossibile suonare la tromba come lui (chiudere in Do…).
Devo dire che Sacha Jenkins si muove benissimo tra la ricostruzione della sua carriera di musicista, quella di viaggiatore e l’Armstrong al centro della polemica sul personaggio da Zio Tom. Cosa che gli dava moltissima noia e che proprio non capiva. Ossie Davis, grande attore nero degli anni ’60 e ’70, ricorda che capì quanto Armstrong rappresentasse per tutti i neri la tristezza di secoli di torture e di sofferenze. Strepitosa anche la parte sulla marijuana, che Armstrong usava come medicina e calmante e che si portava sempre con sé in tour. Ne riparliamo. Dal 28 ottobre su Apple tv.
· 50 anni dalla morte di Dino Buzzati.
Dino Buzzati, la giovinezza e il mistero d’amore. GIOVANNA STANZIONE su Il Quotidiano del Sud il 30 Gennaio 2022.
Quest’anno cadono i cinquant’anni dalla morte di Dino Buzzati. Cinquanta sono anche gli anni di Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore, l’opera più nota e più controversa, più autentica e più simbolica di Buzzati. Un magma di contraddizioni sfuggenti come ne è la materia di cui tratta. Un amore è un amore qualsiasi ne sia l’oggetto anche se non ne sembra degno.
Un amore è un amore pur se inappagato, anzi soprattutto in quest’ultimo caso perché, a proprio avviso, ne rappresenta la manifestazione più pura e disinteressata, più mistica perché consacrata al dolore e alla mortificazione dell’animo più che alla gioia del corpo, più duratura perché destinata ad autoalimentarsi per sempre. Un amore può essere amore per un corpo di carne e pelle morbida, tenere cartilagini, denti lisci, lucidi occhi vetrosi.
E allo stesso modo può essere amore per un organismo fatto di cemento e mattoni, di piazzuole e vicoli, di strade asfaltate e bollenti, muri crepati, slarghi monumentali, tetti affastellati scottati dal sole. La cifra dell’amore, in tutti i casi, è il mistero del desiderio che l’oggetto d’amore scatena nel corpo e nell’anima. Il mistero è fatto di fame, la alimenta e ne è alimentato. La fame d’amore non può mai esserne sazia. In Un amore di Buzzati essere umano e città, Laide e Milano, si confondono nella brama d’amore del protagonista Dorigo e nel respingere costantemente questo suo amore.
Il motivo del rifiuto non sta, come lo si è voluto interpretare, nella natura necessariamente crudele dell’oggetto d’amore, sia essa la natura della donna, dei giovani o della grande città. Ma il motivo sta, ed è sempre stato, nella brama di controllo e di possesso di questo amore che, nel momento in cui si nutre del mistero, cerca costantemente di distruggerlo. Non cerca davvero l’equivalente nell’oggetto d’amore, ma mette in atto tutte le strategie di fallimento, consce, inconsce e dolorose, volte a perpetuare se stesso. E quando l’amore si fa idolatria, si disinteressa della realtà del proprio oggetto, diventa passione, culto narcisistico di se stesso.
Più la si coltiva e più essa cresce di intensità, più cresce di intensità meno salda si fa la sua presa sulla realtà, fino a che non la perde del tutto, coprendola agli occhi, diventando essa stessa unica realtà. Sia ne Il deserto dei Tartari che in Un amore, i suoi due romanzi più importanti, Dino Buzzati scrive di passione, per la morte l’una, per la vita nella sua misura più cruda l’altra. Oggetti per nulla dissimili l’uno dall’altro, anzi incredibilmente vicini nell’essere al di là di uno squarcio.
Buzzati comprende che, oltre la morte, c’è una sola altra cosa, nella vita umana, sfuggente e autodissolutoria come il mistero d’amore, ed è la giovinezza. La giovinezza non può essere posseduta dall’esterno. Non può essere posseduta con la forza, con un’imposizione di violenza, con il convincimento. La si può avere solo finché non la si è perduta, dopo è irrecuperabile in alcuna forma. Laide oltre a essere mistero d’amore, oltre a essere città, oltre a essere donna è, sopra ogni cosa, giovinezza. Un ennesimo oggetto refrattario al controllo di Dorigo. Laide è, con le parole di Dorigo, “sfrontata, maliziosa, civetta, popolaresca, sicura di sé”.
È una ragazza giovanissima, che prostituisce il suo corpo in cambio di vantaggi materiali di cui non è mai sazia, “Per farsi prendere in considerazione da lei, una bella Maserati ultimo modello contava molto di più che aver costruito il Partenone”. In questa frase del cinquantenne Dorigo c’è tutta l’infinita incolmabile distanza destinata ad alimentare tragicamente la sua fame. Vista dall’esterno la giovinezza appare materialistica, approfittatrice, volgare, ignorante, insensibile, indifferente, incomprensibile, peggiore di quando ci apparteneva.
È il travisamento sentimentale che della giovinezza fa chi ne è rimasto escluso o chi ne vuole ancora, per conti in sospeso con la propria. Chi si sente tradito dalla giovinezza, rifiutato, incompreso, e allora cerca di renderla peggiore di come è e di come era stata, di spingerla alla spietatezza. Ma in realtà, la giovinezza, come Laide, respinge quando sente puzza dell’inautenticità e della brama con cui la si avvicina. L’amore di Dorigo già nasce stortamente dal risentimento per l’impossibilità di conciliazione della propria essenza con quella di Laide. Nasce già bagnato di rimpianto.
Più ancora che il mistero d’amore è il mistero della vita trascorsa e perduta che Dorigo cerca di possedere, votandosi all’insuccesso. Non potrà possedere la giovinezza perché non la comprende più e non è compreso. Non la comprende perché si avvicina ad essa con sentimenti inautentici e predatori, non vuole veramente conoscerla, vuole solo fagocitarla. Laide questo lo comprende, tutti i giovani lo fiutano, e reagisce con il rigetto, un rigetto sadico e crudele, almeno quanto lo è l’atteggiamento inconscio dell’uomo che la vuole e la disprezza, l’ama e la ingiuria. La gioventù è sempre deludente quando la si vede dall’esterno, è sempre indolente, inerte, ignava, priva di valori, priva di aspirazioni, di bellezza, votata alla promiscuità sessuale, alla confusione, alla dispersione. In ognuno di questi giudizi c’è la fitta dolorosa di chi per sempre è lasciato indietro da questo turbinio vitale che necessariamente parla un linguaggio che può parlare esso soltanto. Si può comprendere la tanto esecrata crudeltà di Laide solo se si comprende la speculare crudeltà di Dorigo nei suoi confronti.
Non esiste “Ninfetta” senza un uomo, afflitto dall’assenza di giovinezza e votato all’insuccesso del suo proposito, che la definisca tale. Se si fermasse ad ascoltare la giovinezza di Laide, Dorigo sentirebbe che è spaventata, incerta, affamata, impavida, portatrice di una visione nuova, di bisogni nuovi, delle stesse paure, di nuove paure, di considerazioni diverse, di necessità struggente di una spiegazione delle cose, di felicità innate e di infelicità abissali. “Lui la amava per se stessa” dice Dorigo a un certo punto, ma poi in realtà Laide diventa tutt’altro che se stessa, diventa simbolo di qualunque cosa meno che lei, di cento altre cose possedute e perdute, oppure mai avute, di cento altri misteri: “Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuino popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, le ombre e i segreti di Milano.”
Dino Buzzati, il cronista magico: in un libro i suoi articoli per il «Corriere». LORENZO VIGANÒ su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
In occasione dei cinquant’anni della morte del giornalista, dal 28 gennaio per un mese in edicola una nuova edizione di «Cronache terrestri» (edite da «Corriere della Sera» con Mondadori). Qui pubblichiamo la prefazione di Lorenzo Viganò.
La moglie Almerina raccontava di averlo visto piangere una volta sola. Era il 1971, il «Corriere della Sera» voleva mandare a riposo i giornalisti di 65 anni d’età e lui, gli aveva ricordato il direttore, stava per compierli. «Tornò cupo dal giornale, si sedette al tavolo, la testa tra le mani. Era angosciato al pensiero di essere buttato fuori dall’organico degli effettivi. Poi, come folgorato, disse: “Non faranno in tempo a cacciarmi, morirò prima”. E si illuminò in volto».
Basterebbe questo episodio a spiegare il legame di Dino Buzzati (che si sarebbe spento alla fine di gennaio dell’anno successivo, proprio a 65 anni) con il «Corriere». Un legame stretto e profondo, lungo una vita intera; un rapporto intimo e simbiotico, quasi di dipendenza, che, dal suo ingresso appena ventunenne in via Solferino, con la certezza di esserne presto «cacciato come un cane», al suo ultimo elzeviro prima della partenza finale con il Reggimento assegnato, interruppe (ma mai spezzò) una volta soltanto, per poco più di un anno, quando, sospesa l’uscita del giornale dopo la Liberazione, migrò con Gaetano Afeltra, Bruno Fallaci e Benso Fini al «Corriere Lombardo». Tornò al «Corriere» nel novembre 1946, per non lasciarlo più.
Del resto, quelle stanze, dove nelle lunghe, ripetitive e immobili notti in redazione era nata l’idea del Deserto dei Tartari, il suo romanzo più famoso incentrato sul tema dell’attesa, Buzzati non le aveva lasciate nemmeno quando, dopo l’8 settembre 1943, con la caduta del fascismo, la maggioranza dei colleghi se n’era andata. Era rimasto al suo posto per senso del dovere — il giornale gli aveva chiesto di restare e lui aveva ubbidito. Una scelta pericolosa — di cui Indro Montanelli in seguito cercò più volte, invano, di spiegargli la gravità — che gli costò sospetti di collaborazionismo mettendo seriamente a rischio la sua permanenza in via Solferino. Fu solo grazie a Gaetano Afeltra, che conosceva bene lui e quello che definiva il suo «candore politico», se poté restare e persino raccontare la Liberazione di Milano in un articolo (non firmato) apparso sulla prima pagina del «Nuovo Corriere della Sera» il 26 aprile 1945, con il titolo Cronaca di ore memorabili.
«La sua vita era il giornale e il “Corriere” era la sua casa», raccontava ancora la moglie Almerina. Dino Buzzati vi era entrato, quasi laureato (in Giurisprudenza), come praticante addetto alla cronaca, insicuro delle proprie capacità («Al “Corriere” non mi terranno e la vita sarà per me un inferno»). Si era fatto le ossa in redazione, poi aveva via via ricoperto diversi ruoli dello scacchiere giornalistico: corrispondente dall’Africa — per raccontare le nuove colonie dell’impero —, corrispondente di guerra — a bordo degli incrociatori nel Mediterraneo –— e, dopo la fine del conflitto e il suo ritorno in via Solferino, inviato — per raccontare fatti, fattacci e imprese, soprattutto italiane —; e poi titolista, elzevirista, responsabile della Pagina dell’Arte. Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940 all’età di 34 anni, romanzo nel quale aveva trasposto letterariamente il «Corriere» nella Fortezza Bastiani e sé stesso nell’ufficiale Giovanni Drogo, gli aveva dato la fama, consolidata dai lavori successivi — raccolte di racconti (I sette messaggeri, Sessanta racconti, premio Strega ), romanzi (Un amore), graphic novel (Poema a fumetti). Avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo indipendente dalla routine quotidiana del giornale, un ruolo da osservatore e commentatore, da opinionista. Da «firma». Invece non lasciò mai il tavolo di redazione, la macchina del giornale, la sua ideazione; non rinunciò mai all’inchiostro delle bozze, al rapporto con i collaboratori, al contatto con la tipografia, dove mandava i menabò con i titoli disegnati al contrario che venivano poi contesi e custoditi dai linotipisti.
La sua penna — grazie a una sensibilità non comune e a quella straordinaria capacità, diceva Guido Vergani, di cogliere particolari che gli altri non vedevano e di «mettere l’evento dentro alla vita», con un atteggiamento che Oreste Del Buono definiva «stupore perpetuo» — ha raccontato oltre quarant’anni di avvenimenti, al punto che oggi, attraverso i suoi pezzi, si può leggere la storia (non solo) d’Italia e degli italiani. Quando usciva sul «Corriere» un suo articolo, raccontava Giulia Borgese, la prima donna a entrare in via Solferino, in casa sua il giornale veniva lasciato aperto su quella pagina, invito esplicito e imprescindibile a leggerlo. Ma mai, Buzzati vivente, venne stampato un libro che li raccogliesse, in parte o tematicamente. Ci pensarono Domenico Porzio e la stessa Almerina Buzzati pochi mesi dopo la sua morte, dedicando alla lunga attività giornalistica il primo libro postumo dal titolo — bellissimo — Cronache terrestri: una raccolta di scritti esemplari che oggi il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa dell’autore bellunese. Una sorta di best of che attraversa la sua carriera dal 1932 al 1971, con articoli che toccano i temi più diversi, dalla guerra alle montagne, da Milano al mistero, dai viaggi nei Paesi stranieri ai fenomeni sociali, dall’arte ai personaggi. 99 pezzi (più uno introduttivo sul Meraviglioso mestiere di scrivere) che mostrano la versatilità di Dino Buzzati e il suo modo, unico e inconfondibile, di fare giornalismo, quel giornalismo che, rispetto alla letteratura, era, secondo Eugenio Montale, lo stesso guanto, rovesciato. I grandi servizi giornalistici di un grande scrittore, recitava il sottotitolo sulla copertina della prima edizione: cronache, elzeviri e reportage che il curatore Domenico Porzio ordina in capitoli tematici dai titoli suggestivi (uno per tutti: Dalla babelica città dove abita la paura l’amore la maledizione la solitudine la morte).
«Il giornalismo per me», aveva confessato Buzzati in un’intervista, «non è stato un secondo mestiere ma un aspetto del mio mestiere. L’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura». Lo dimostrano chiaramente gli articoli di questa antologia, nei quali, che si parli di un delitto o di una battaglia navale, di un artista o di un’impresa sportiva, di una sciagura o di una conquista, il giornalista si scambia continuamente il ruolo con lo scrittore (e viceversa).
È Indro Montanelli a parlare di Cronache terrestri sulle colonne del «Corriere», con un attacco tanto spiazzante quanto significativo del lungo e profondo rapporto che lo legava a Dino Buzzati (con cui aveva diviso una stanza in via Solferino) e alla moglie Almerina, alla quale rimarrà vicino per tutta la vita. «Ho sempre pensato che gli scrittori, una volta morti, è bene che lo siano definitivamente, lasciando ai posteri il compito di decidere fino a che punto si possano resuscitare. Ecco perché li vorrei tutti scapoli: per metterli al riparo dalle vedove che tentano di farli anzitempo rivivere raccattando e pubblicando le loro briciole. Ma Buzzati è uno dei pochissimi che si sottraggono alla regola: il suo pane di briciole non ne perdeva, e qualunque cosa toccasse, anche la più umile e consueta, la sua mano vi lasciava il segno, autenticandola. Faceva parte non del suo modo di fare, ma del suo modo di essere».
Ecco allora che in questi articoli, corrispondenze, racconti, Dino Buzzati non si ferma ai doveri del cronista, e alle informazioni che ogni notizia esige e che egli raccoglie e riporta con scrupolo, precisione e dovizia, aggiunge qualcosa di sé, il proprio segno, appunto. Si emoziona, si indigna, si commuove, si immedesima; ammonisce e riflette. E arriva dritto al cuore del lettore. «La camera ardente di Albenga resterà fra le cose più grandi e spaventose di tutti questi anni e della mia personale vita», è l’incipit dell’articolo sulla sciagura del 1947 nella quale morirono annegati 43 bambini (Il trionfo della morte). «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive all’indomani della strage di via San Gregorio a Milano, nella quale Rina Fort, «la belva», uccise la moglie dell’amante e i suoi tre figli (Un’ombra gira tra noi). E ancora: «Senza osare ancora crederlo, Milano si è risvegliata ieri mattina all’ultima giornata della sua interminabile attesa» sono le prime parole che leggono i milanesi liberati il 26 aprile 1945, nelle quali quel «senza osare ancora crederlo» racchiude ed esprime l’incertezza, la speranza, ma anche la forte determinazione a tornare finalmente a una vita normale (Cronaca di ore memorabili).
Può raccontare dettagliatamente uno scontro navale (La battaglia del golfo di Sirte) e poi entrare nella mente e nella pelle del cane che vive con i marinai su un incrociatore per riferirne pensieri e paure (Ansie del cane di bordo); può confessare i rimorsi di figlio dopo la morte della madre (I due autisti) e condurre i lettori nell’aldilà attraverso una porta segreta scoperta durante gli scavi per la Metropolitana Milanese (I segreti della MM); può, ancora, rivolgersi direttamente alle Pale di San Martino, sue amate montagne — «patria!» —, guardandole con gli occhi di un sessantenne ex scalatore che le osserva dal basso con tristezza e rassegnazione, e dice loro «addio, addio» (O Pale di San Martino) e rivelare il suo amore profondo per la Milano d’estate, «quando è immersa nell’afa e lentamente fuma» (A qualcuno piace calda). A volte gli basta una pennellata per dare profondità al quadro: la «faccia da garagista » di Albert Camus (Camus: un uomo semplice), Bartali che «si divincola sul sellino come fanno le salamandre sorprese dal viandante in mezzo al sentiero» (Coppi sconfigge il grande avversario), la «calligrafia diabolica» di Orio Vergani (Quattro Vergani), i «tric tric» sulle pietre della piccozza del grande alpinista Ettore Zapparoli mentre si allontana, solo, da questo mondo (Zapparoli).
«Il vero mestiere dello scrivere», dirà Dino Buzzati nella sua ultima, lunga intervista rilasciata a Yves Panafieu pochi mesi prima di morire, «coincide proprio con il mestiere del giornalismo, e consiste nel raccontare le cose nel modo più semplice possibile, più evidente possibile, più drammatico o addirittura poetico che sia possibile». Mettendo a disposizione del lettore, come lui faceva, non solo gli occhi del giornalista, ma anche i pensieri, le paure, le debolezze, i segreti che agitano l’uomo.
«Buzzati non vedeva: immaginava. O per meglio dire, immaginava anche quello che vedeva. E non ha mai vissuto, ha solo sognato di vivere», ha scritto ancora Indro Montanelli nella recensione di Cronache terrestri. «A Buzzati il giornalismo era necessario perché era lì che trovava il suo unico aggancio alla vita. […] Nei fatti vissuti dagli altri egli si procurava il materiale per dare corpo ai suoi fantasmi».
Amato anche all’estero. Romanzi, fiabe... un catalogo in evoluzione
Se le ultime richieste provenienti dall’estero riguardano la pubblicazione del romanzo Un amore in arabo e del Bestiario in giapponese, il catalogo dei libri di Dino Buzzati nella sua lingua madre è ricco e si arricchisce continuamente. Oltre ai titoli usciti quando lo scrittore era ancora in vita — da Bàrnabo delle montagne al Segreto del Bosco Vecchio, da Sessanta racconti a Un amore, dal Colombre a Poema a fumetti a I miracoli di Val Morel — la Mondadori, sua casa editrice dal 1942 (primo libro: I sette messaggeri) ha recentemente pubblicato l’«edizione cult» de Il deserto dei Tartari con importanti inediti (la prima scaletta manoscritta del romanzo e l’unico trattamento cinematografico della storia firmato dallo stesso Buzzati), cui si affiancano il volume in grande formato della fiaba La famosa invasione degli Orsi in Sicilia con disegni inediti, le pagine del «Corrierino» dove la storia apparve la prima volta nel 1945 e i disegni del film d’animazione che ne ha tratto nel 2019 Lorenzo Mattotti, e la riedizione della Nera, raccolta dei suoi articoli di cronaca, con nuovi pezzi e un ricco apparato iconografico. Di imminente pubblicazione anche la nuova edizione dell’Album Buzzati, uscito nel 2006 per il centenario della nascita e riproposto con manoscritti, pagine di diario e foto inedite in occasione del cinquantesimo della morte. Da ricordare anche il libro postumo Il reggimento parte all’alba per l’editore Henry Beyle «lavorato» direttamente sull’agenda personale di Buzzati, con immagini applicate a mano, e i 25 titoli in audiolibro realizzati da Audible, di cui quattro (Il deserto dei Tartari, Un amore, Sessanta racconti e Il Colombre) letti da Gioele Dix.
· 49 anni dalla morte di Bruce Lee.
Valeria Aiello per fanpage.it il 18 Dicembre 2022.
Il celebre attore ed esperto di arti marziali Bruce Lee non sarebbe morto a causa di un edema cerebrale dovuto a una reazione allergica all’Equagesic, un farmaco composto da aspirina e meprobamato, che gli era stato somministrato come antidolorifico dall’amica e attrice Betty Ting Pei a casa di lei a Hong Kong. Secondo un team di ricerca spagnolo, l’edema cerebrale che il 20 luglio 1973 ha stroncato la vita di Lee all’età di soli 32 anni sarebbe invece dovuto all’iponatriemia, una condizione che rifletterebbe un consumo insolitamente elevato di liquidi, che supera l’escrezione renale di acqua . “In altre parole – hanno scritto gli studiosi in un articolo appena pubblicato sul Clinical Kidney Journal – , riteniamo che l’incapacità dei reni di espellere l’acqua in eccesso abbia ucciso Bruce Lee”.
Bruce Lee potrebbe essere morto per aver bevuto troppa acqua
Diversi fattori suggerirebbero che Lee possa aver ingerito un eccesso di liquidi nelle ore che hanno preceduto il suo decesso, in relazione alla sua dieta, che consisteva nel consumo di molti succhi e bevande proteiche, e al consumo di cannabis, che provoca un aumento della sete. “In sintesi, Lee aveva molteplici fattori di rischio che predisponevano all’iponatriemia derivanti dall’interferenza con i meccanismi di omeostasi dell’acqua che regolano sia l’assunzione di acqua sia la sua escrezione” hanno aggiunto i ricercatori.
Per il team, coordinato da Priscila Villalvazo del Dipartimento di Nefrologia e Ipertensione, IIS-Fundacion Jimenez Diaz UAM di Madrid, Bruce Lee sarebbe morto “per una specifica forma di disfunzione renale: l’incapacità di espellere abbastanza acqua per mantenere l’omeostasi dell’acqua”.
“Ironia della sorte – hanno concluso gli studiosi – , Lee ha reso famosa la citazione ‘Be water my friend’ (Sii acqua amico mio), ma sembra che l’acqua in eccesso alla fine lo abbia ucciso”.
L’edema cerebrale e le cause della morte di Bruce Lee
Sulle cause della morte di Bruce Lee, ancora oggi oggetto di discussione, sono state avanzate numerose ipotesi. Oltre all’ipersensibilità all’Equagesic, sono state emerse diverse tesi (dall’assassinio da parte della mafia alla più recente ipotesi del 2018, collegata a un colpo di calore) che non hanno trovato riscontro nei risultati dell’autopsia.
L’esame autoptico indicò la presenza di un grave edema cerebrale, che aveva causato un aumento del 13% del peso del cervello (mediamente il cervello pesa attorno ai 1.400 grammi, mentre nel caso di Lee pesava 1.575 grammi), escludendo segni di lesioni esterne. Le uniche due sostanze rinvenute nell’analisi del sangue furono i componenti dell’Equagesic e 4 grammi di cannabis, che Lee aveva masticato alcune ore prima del decesso. Quanto invece al colpo di calore, l’autopsia non evidenziò alcun segno di disfunzione multiorgano, né il 20 luglio 1973 fu un giorno più caldo della media per l’estate a Hong Kong.
Sulla base delle informazioni pubblicamente disponibili, gli studiosi ritengono invece che l’iponatriemia possa spiegare l’edema cerebrale, in quanto le manifestazioni cliniche di questa condizione, specie in caso di iponatriema iperacuta, sono soprattutto di tipo neurologico.
L’iponatriemia si verifica quando l’organismo contiene una quantità insufficiente di sodio rispetto alla quantità di liquidi, e può essere dovuta al fatto che l’organismo stesso trattiene una maggiore quantità d’acqua. Tuttavia, determinate condizioni possono portare un soggetto a bere quantità eccessive di acqua (polidipsia), il che può contribuire all’insorgenza dell’iponatriemia. Queste comprendono un’anormale assunzione di liquidi e, come detto, fattori che aumentano la sete e l’assunzione di acqua, come l’uso di marijuana, che nel caso di Lee è stato provato dall’autopsia, oltre a prove del consumo ripetuto di liquidi nel giorno della sua morte.
Secondo gli studiosi, Bruce Lee avrebbe dunque avuto molteplici fattori di rischio che predisponevano all’iponatriema, oltre a “una presentazione clinica coerente con l’iponatremia e un riscontro necroscopico di edema cerebrale che è causa di morte nell’iponatriemia grave”.
“Il fatto che siamo fatti per il 60% di acqua – hanno precisato gli studiosi – non ci protegge dalle conseguenze potenzialmente letali di un suo consumo a una velocità superiori a quelle che i nostri reni impiegano per espellere l’acqua in eccesso”.
· 49 anni dalla morte di Anna Magnani.
"Come una cavalla". La corsa di Anna Magnani a essere la più grande. La popolana che ha conquistato il mondo del cinema, ricercata dai più grandi registi italiani e americani, ma che ha regnato come una regina grazie al suo carattere: questa è Anna Magnani. Simona Losito il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.
Anna Magnani si raccontava da sola, dicendo: “Assomiglio alla mia cavalla, un animale nobile, coraggioso, nervoso. Più che dalla ragione, la mia vita è guidata dall’istinto”. Nulla di più vero: una descrizione pronunciata dalle sue stesse labbra, ma di una verità straordinaria.
Le origini e il mito di Anna Magnani
La Magnani, lei non è solo nata a Roma. Lei è stata Roma. L’ha vissuta durante la Guerra, l’ha interpretata innumerevoli volte e ne ha portato un pezzetto anche negli Stati Uniti, nonostante i suoi personaggi nei film americani fossero spesso stereotipati. E poi non perdeva occasione di gridare a gran voce la sua origine.
Suo padre era calabrese, ma non lo conobbe mai. Sua madre, Marina Magnani, fu assente: si era trasferita ad Alessandra d’Egitto, motivo per cui molti e per molto tempo avevano creduto che fosse la terra natia di Anna. Una leggenda smentita dopo la sua ascesa nel mondo del cinema. Cresciuta dalla nonna, abitava in una casa insieme a cinque zie: un’infanzia, la sua, tutta al femminile.
“Ma quante volte ve lo devo spiega' che non sono stata raccattata per la strada, che ho fatto fino alla seconda liceo, che ho studiato pianoforte a otto anni, che ho frequentato l’Accademia di Santa Cecilia? […] Ma io so’ nata a Roma da madre romagnola e padre calabrese, come dice il certificato di nascita. In Egitto mia madre ci andò dopo che mi ebbe avuta. Aveva vent’anni, non era sposata e a quell’epoca era uno scandalo, così andò in Egitto e io restai con la nonna qui a Roma”. Questo ha dovuto sempre ribadirlo, per scindere i ruoli che interpretava da ciò che realmente era, perché nell’immaginario collettivo era Nannarella o Mamma Roma.
La recitazione, il cinema, i riconoscimenti
Dopo pochi mesi in un collegio di suore francesi, le sue doti artistiche si rivelarono e intraprese lo studio del pianoforte, che però abbandonò per iniziare a frequentare, nel 1927, la scuola di arte drammatica Eleonora Duse. Persino il direttore dell’istituto, Silvio D’Amico, ne captò sin da subito il potenziale, il carisma e la forza espressiva.
Dopo il teatro e una serie di personaggi marginali in film dove ha interpretato il ruolo di cameriera o cantante (non si pensi, infatti, che la gavetta le sia stata estranea) le sue doti drammatiche colpirono Vittorio De Sica, il primo a proporle di interpretare un personaggio non secondario nel film Teresa Venerdì del 1941. Da quel momento in poi i film non scarseggiarono, i registi la bramavano e sino negli Stati Uniti conoscevano il suo nome, per quanto non pronunciato nel modo corretto.
Nel 1945 vinse il suo primo Nastro d'argento grazie all'interpretazione nel film, manifesto del Neorealismo, Roma città aperta di Roberto Rossellini. Lei stessa ha raccontato di non aver mai fatto le prove della scena della morte e questo perché con il grande Rossellini, di cui fu anche l’amante, “non si provava. Lui sapeva che, preparandomi l’ambiente, io poi funzionavo”. Fu quella, forse, la prima volta in cui la grande Magnani era diventata il personaggio che interpretava e non sarà certamente l’ultima.
Difatti la sua magnificenza la portò a essere la prima donna italiana nella storia degli Academy Awards a vincere l’Oscar come migliore attrice protagonista e la prima in assoluto non anglofona. Il premio le fu conferito per l'interpretazione di Serafina Delle Rose nel film La rosa tatuata, per la regia di Daniel Mann. È stato il trampolino di lancio che ha cambiato per sempre la sua carriera e la sua vita.
I premi non smisero di lusingarla, dai Golden Globe al David di Donatello e il riconoscimento come migliore attrice al Festival di Berlino. I più grandi registi la bramano: da Monicelli a Fellini, fino a Pier Paolo Pasolini con la maestosa Mamma Roma. È iconica la storia di quando George Cukor, uno dei più grandi registi di Hollywood che aveva già condotto la Magnani al premio come miglior attrice al Festival di Berlino nel 1958 per l'interpretazione del film Selvaggio è il vento, le propons alla fine degli anni ’50 di interpretare il ruolo della mamma di Sofia Loren nel film La ciociara.
“Io sua madre? Ma mi vedete così vecchia? Ma andate tutti a mori' ammazzati”, fu questa la sua risposta incontrovertibile. Cukor allora decise di abbandonare l’incarico “se Anna non è la Ciociara, io non sarò il regista” affermò. Toccò quindi a Vittorio De Sica, ma neanche l’amico che l’aveva condotta per la prima volta sugli schermi riuscì a farle cambiare idea. Anagraficamente, Anna Magnani avrebbe potuto essere davvero la mamma della giovane venticinquenne Sofia Loren all’inizio della sua carriera. L’orgoglio vinse, però. E vinse anche quel film un gran numero di premi, tra cui l’Oscar per Sofia, nonostante i quali il rimorso per quel “no” tanto sonoro non toccò l’animo della Magnani.
La sua ultima apparizione cinematografica avvenne nel 1972, nel film di Federico Fellini Roma. Morì l’anno successivo in seguito a un tumore al pancreas e ancora viene ricordata da molti come l’attrice italiana più grande di tutti i tempi.
La debolezza sotto quell’imponente carattere
Una risata che riecheggiava in tutta la stanza, occhi così espressivi da mettere in soggezione e capelli arruffati, ecco cosa la contraddistingueva. Il suo non era un fascino comune: saranno state forse le borse sotto i suoi occhi, l’imperfezione del suo naso o le rughe di cui andava tanto fiera. Magnani era la popolana e la regina allo stesso tempo. Nella sua carriera è sempre stata accusata di avere un brutto carattere, proprio per la sua istintività. È stata descritta in tutti i modi, anche “virile”, ma la realtà è che non era nient’altro che personalità, una personalità forte, certo, ma è lo stessa che le ha permesso di non farsi mai mettere i piedi in testa.
Oriana Fallaci la inserì infatti nella serie di incontri Gli antipatici, nonostante non la considerasse tale, ma lo fece proprio per smascherare quel lato che tutti temevano. “Non comprendo perché la definiscano maleducata o superba o perché la definiscano una popolana che si nutre di parolacce e fagioli. Per me è una signora con la quale mi sono sempre trovata benissimo. Una popolana o una donna maleducata e superba abiterebbe in una villa con la piscina”, sosteneva la Fallaci.
Roma, scoprirla con le donne del cinema
Qui, però, in questa intervista, la Fallaci aveva intuito quale fosse il suo tallone d’Achille: suo figlio Luca. Il suo pensiero, le sue parole e anche le sue azioni conversero tutte quante verso il suo unico figlio. “Egli è il metro di misura della sua vita - scrisse - la condizione della sua vita, lo scopo della sua vita. La Magnani fa un film? Vuol dire che le servono soldi pel figlio. Non lo fa? Vuol dire che resta vicino a suo figlio. Ed io credo che sia per suo figlio che teme tanto i malanni, odia tanto la morte”.
I legami di sangue furono per Magnani i legami più importanti, gli amori sono solo di passaggio. La mancanza di una figura paterna ha avuto un’influenza amplificatrice per il suo ruolo di madre. Luca Magnani ha affermato che la figura paterna non era mancata, né a lei né a lui. “Si è creata da sola. Non aveva un regista o un produttore accanto. Non aveva via di scampo”, disse, raccontando di una madre che non si è arresa nemmeno quando suo figlio si era ammalato di poliomielite.
Il suo destino si era ripetuto uguale, perché il padre di suo figlio li abbandonò entrambi come fece suo padre con lei. Ma la Magnani ha sempre reagito alle difficoltà con la forza delle donne che ha sempre interpretato nei suoi film: diede a suo figlio il suo cognome e permise allo stesso di perpetuarsi per ben tre generazioni. Quella sua debolezza, quella mancanza che nella vita ha sempre sentito e cercato di colmare, l’ha trasformata in forza e in quel carattere che le ha permesso di diventare la grande Anna Magnani.
· 45 anni dalla morte di Elvis Presley.
Elvis Presley moriva 45 anni fa: storia di un addio tra barbiturici, anfetamine e tanto, tantissimo cibo spazzatura. Giulia Cavaliere su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.
Il 16 agosto 1977 se ne andava per un infarto tra mille misteri il re del rock'n'roll, dopo un periodo di eccessi e abusi.
Il decesso
Il 16 agosto 1977 Elvis Presley venne trovato morto nel suo bagno, a Graceland, dalla fidanzata di allora, Ginger Alden; con ogni probabilità era deceduto a causa di un infarto che lo aveva colpito pochi istanti prima, mentre era sul water dove aveva appena vomitato. Tuttavia il suo medico personale - su cui le polemiche e i dubbi si sprecano - il dottor George Nichopoulos, disse che Elvis morì a causa delle conseguenze della costipazione cronica, una malattia che causa la presenza di un colon di dimensioni sproporzionate, una mobilità intestinale scarsissima e anche gravissima obesità. Il cantante sarebbe cioè stato affetto da quella che viene definita «la malattia di Hirschsprung» (che nelle sue memorie Nichopoulos chiama Hershberger).
I funerali
Vestito con un completo bianco e una camicia blu spediti dal suo negozio di abbigliamento preferito di Memphis, il "Lansky Bros", il 18 Agosto 1977, due giorni dopo il decesso, ebbe luogo il funerale, organizzato e gestito in ogni dettaglio dalla "Memphis Funeral Home" di Robert Kendall. La bara scelta per Elvis era identica a quella usata per la sepoltura di sua madre, Gladys Love Smith Presley, morta nell'estate del '58. La figlia Lisa Marie posò un braccialetto nella bara, accanto al padre, per il resto venne sconsigliato l'inserimento nel feretro di tutti gli oggetti di valore - che avrebbero potuto portare a un furto. La cerimonia funebre ebbe forma privata, naturalmente a Graceland e fu condotta e presieduta dal pastore della "Wooddale Church of Crist", il Reverendo Bradley. La durata fu di circa due ore e all'esterno, fuori dai mitici cancelli - pentagramma dell'abitazione, attendevano migliaia di persone.
La musica
Per quanto riguarda le musiche, al funerale vennero perlopiù eseguiti canti gospel molto amati dal cantante, con J.D. Sumner, "Stamps Quartet", Jake Hess, James Blackwood, Kathy Westmoreland e gli "Statemen". La bara fu poi portata su un carro funebre, naturalmente bianco, al Forest Hill Cemetery, situato sull'Elvis Presley Boulevard. La bara arrivò al cimitero intorno alle 16 e dopo un servizio funebre venne posta all'interno di una cripta vicino al luogo dove riposa la madre di Elvis.
I presenti
Foto e testimonianze della giornata accertarono la presenza alle funzioni di Caroline Kennedy (figlia del Presidente John Fitzgerald Kennedy ma lì in veste di giornalista di "Rolling Stone"), Ann-Margret con suo marito Roger Smith, Charlie Hodge, George Hamilton, il colonnello Tom Parker, Chet Atkins, Ginger Alden, James Brown, Linda Thompson, Sammy Davis Jr. E poi dei famigliari: la ex moglie Priscilla, la figlia Lisa Marie, il padre Vernon Presley che distrutto continuava a implorare il cielo di raggiungere il figlio e morì solo due anni dopo e poi l'adorata nonna Minnie Mae e i cugini Gene e Billy Smith.
In tutto il mondo
La voce di Elvis cantava intanto in una sorta di ideale mondovisione, usciva dalle radio di tutto il mondo, nei locali, nelle televisioni, per le strade. Intanto a Memphis, a seguire il regale carro funebre bianco c'erano sedici limousine, ovviamente anche loro bianche. La quantità di persone assiepate ovunque - come abbiamo detto già oltre i cancelli di Graceland ma anche agli angoli della strada e lungo tutto il percorso dal cancello al cimitero - fu incalcolabile.
Elvis è vivo
Paul is Dead e Elvis Lives, due teorie diverse ma analoghe. A partire dalla sua morte cominciarono ad arrivare segnalazioni di avvistamenti di Elvis in ogni parte del mondo e prese dunque piede la teoria che riteneva il cantante ancora vivo e nascosto da qualche parte per sottrarsi ai riflettori. Teorie complottiste che lo vedevano protagonista o ancora teorie aliene che si sprecano ancora oggi e sono entrate nell'immaginario - fantastico - collettivo.
In realtà
In realtà, purtroppo, Elvis vivo non è e pare anzi che a condurlo alla morte fu un provato abuso di psicofarmaci, anfetamine, barbiturici e stimolanti, sembra che il cantante pesasse poco meno di 160 kg quando morì, peso raggiunto abbuffandosi, per cercare di superare uno stato di paranoia perenne, di cibo spazzatura in quantità. Mangiava quantità eccessive di burro di arachidi e banane, dolci, fritti, hamburger, gelati, pizze, panini fritti con bacon, tutti alimenti che aveva adorato per tutta la vita. Inoltre, è provato che negli ultimi anni Elvis mangiasse solo panini che lui stesso ideava, panini a strati con carne, salse, marmellate, e, appunto l'adoratissimo burro d'arachidi. Nessun medico era riuscito a farlo smettere.
Da “il Giornale” il 14 luglio 2022.
Per gentile concessione dell’editore Newton Compton, pubblichiamo uno stralcio di Elvis (pagg. 352, euro 9,90) della giornalista Sally A. Hoedel. Il libro-inchiesta indaga sulla morte di Elvis Presley, deceduto nel 1977 a soli 42 anni, attraverso centinaia di interviste con gli ultimi testimoni.
La sera del secondo concerto del quarto tour, Elvis aveva la testa in un secchio di ghiaccio e il Colonnello urlava: «L'unica cosa che conta è che stasera salga sul palco!». A Baltimora lasciò il palco per mezz' ora, a quanto pare per problemi intestinali. Tornò per terminare l'esibizione, tra lo sconcerto dei fan. Quella sera, ebbe una conversazione molto spirituale con Kathy Westmoreland e Larry Geller.
«Era molto malato e lo sapevamo tutti, ma non parlammo della sua salute», ha ricordato Kathy. Mentre si fissavano, lei ebbe la sensazione che finalmente si stessero dicendo delle cose di cui non avevano mai osato parlare. «Il modo in cui mi fissò negli occhi e in cui io gli restituii lo sguardo... mi fece pensare che fosse consapevole che sapevo che stava morendo». Elvis le stava dicendo che non gli rimaneva molto tempo.
Ancora una volta, c'erano due settimane di pausa prima del tour successivo, il quinto dell'anno: dal 17 al 26 giugno, dieci città e dieci concerti in dieci giorni. A questo punto, era già un successo se Elvis riusciva a salire sul palco. Negli ultimi due tour a volte era dovuto correre dietro le quinte perché aveva dimenticato le parole delle canzoni. Nonostante stesse ricevendo pessime recensioni, il Colonnello prese accordi per farlo comparire nuovamente in televisione.
Non sarebbe stata più solo la stampa locale a dire che non aveva più voce, che il suo giro vita era aumentato ancora e che sembrava confuso. Sarebbe apparso sulla CBS e quindi nelle case di tutti gli americani. Elvis lo ribattezzò «un altro dei grandi affari del Colonnello», perché avrebbe fruttato 750.000 dollari da dividere al cinquanta per cento.
Il cantante era preoccupato del proprio aspetto e aveva paura di non farcela. La trasmissione avrebbe dovuto includere le riprese girate in occasione di due concerti, ma dal primo ci fu ben poco da salvare. Elvis ammise di essere stato tremendo, ma promise che il secondo sarebbe andato meglio. «Era come se stesse dicendo: Ok, eccomi qui. Sto morendo, chi se ne frega»39, ha ricordato il promoter Tom Hulett.
Il secondo show andò un po' meglio, ma il declino fisico e la debolezza della voce imparagonabile a quella che aveva sfoggiato nell'ultimo documentario erano evidenti. Elvis aveva ben altro di cui preoccuparsi che l'uscita del libro di Red e Sonny West. Quando vide il programma in televisione, Jerry Schilling pianse, ammettendo che erano stati tutti ciechi.
Elvis tenne il suo ultimo concerto a Indianapolis, in Indiana, il 26 giugno 1977, alla Market Square Arena. Mentre Larry gli sistemava i capelli, disse: «Lo spirito c'è, Lawrence, ma il corpo è debole Sto davvero male, ma non importa. Stasera salirò comunque sul palco e darò tutto quello che ho, costi quel che costi».
Era il sessantottesimo compleanno del Colonnello. Ironicamente Elvis si esibì per l'ultima volta nella data in cui era nato l'uomo che l'aveva aiutato a raggiungere la fama. Si parlò del concerto come della sua «migliore performance degli ultimi mesi». Come aveva detto a Larry, diede tutto quello che gli era rimasto. Nonostante questo, Kathy Westmoreland finì il tour con la convinzione che Elvis non sarebbe mai più salito su un palco. Sembrava troppo malato per continuare a esibirsi.
Tornò a casa a Memphis. Alla fine di luglio, Lisa Marie lo raggiunse per passare due settimane con lui.
In quei giorni prima che partisse il tour che doveva iniziare il 17 agosto a Portland, nel Maine, Elvis fece le solite cose di sempre. Affittò il luna park per Lisa Marie e il cinema per vedere vari film. Ginger andava e veniva a suo piacimento e lui passò la maggior parte del tempo con il cugino Billy Smith e sua moglie Jo.
Billy sapeva che Elvis era malridotto e lo implorò di smettere di lavorare per un po'. Il cugino aveva visto il padre e la zia compiere la stessa parabola discendente. «Jo dice che cominciò ad avere lo stesso aspetto che aveva mio padre prima di morire. E ha ragione. Se ne stava sempre stravaccato sul letto con i piedi incrociati. Il suo stomaco era gonfio», ha ricordato Billy. «Mio padre aveva lo stesso problema al fegato e all'improvviso il suo stomaco si era gonfiato. Lo stesso accadde alla madre di Elvis. A volte ci chiedevamo come potesse andare avanti».
Il cantante parlò al telefono con Kathy Westmoreland e Lamar Fike ed entrambi gli consigliarono di cancellare il tour successivo. «Perché un altro tour? Perché non ti riposi? Sei malato e per un po' non dovresti neanche pensare a lavorare. I tour e i concerti ti stancano troppo», gli disse Kathy.
«Non posso, tesoro», rispose. «Non posso fermarmi ora. Il Colonnello ha un sacco di debiti di gioco e alcuni ragazzi si ritroverebbero in cattive acque se smettessi di lavorare. Hanno delle famiglie da mantenere».
Parlò con Lamar Fike un paio di giorni prima dell'inizio del tour. Lamar era stato con lui sin dal principio. Gli disse: «Sono stanco. Non mi sento bene. Ho di nuovo dei problemi all'occhio».
Lamar gli rispose: «Annulla il tour, cazzo. Cancellalo!». «Ma devo pagare gli stipendi», concluse Elvis. Il 15 agosto del 1977 si svegliò verso le 4 del pomeriggio, come al solito. Doveva occuparsi di alcune faccende perché il giorno dopo sarebbe partito per il sesto tour dell'anno. Le sue caviglie erano così gonfie che non riuscì a tirare su la chiusura lampo degli stivali.
Con la sua Stutz nera, alle dieci e mezza si recò all'appuntamento dal dentista, per fare la pulizia dei denti e sistemare un paio di otturazioni. Anche Ginger fece la pulizia dei denti. Il dottor Hoffman, il dentista, gli diede alcune pillole di codeina, nel caso in cui le otturazioni gli avessero fatto male, anche se sarebbe bastato dell'ibuprofene. Elvis si mise al volante per tornare verso casa, lucido e nel pieno possesso delle sue capacità.
Alle quattro di notte passate svegliò il cugino Billy Smith e gli chiese di giocare a racquetball. Si unirono a loro anche Ginger e Jo Smith. Prima di lasciare il campo, Elvis si sedette al piano e cantò Blue Eyes Crying in the Rain. Fu l'ultimo pezzo della sua vita. Billy lo accompagnò in camera e lo aiutò a lavarsi e asciugarsi i capelli. Poi si diedero la buona notte ed Elvis disse: «Billy, questo sarà il mio miglior tour di sempre».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Il canale Nove, in occasione dell'uscita del film Elvis di Baz Luhrmann, celebra il re del rock con un fastoso documentario Elvis Presley: un mito senza tempo, diretto da Thom Zimny. Le due puntate rappresentano un viaggio nella sua vita, dall'infanzia povera fino alle ultime sessioni di registrazione del 1976, nella leggendaria «Jungle Room», e includono alcune riprese inedite fatte a Graceland, residenza di Elvis a Memphis, con oltre 20 interviste inedite a produttori, musicisti, registi e altri artisti che lo conobbero, o furono profondamente influenzati da lui. Per chi ama Elvis, ogni frammento d'immagine è reliquia.
Come ha detto Keith Richards, «Prima di Elvis il mondo era in bianco e nero. Poi è arrivato ed ecco un grandioso technicolor». La sua voce era così sexy da suscitare fenomeni d'isteria collettiva, le sue movenze erano viste dal mondo puritano come espressioni del diavolo. Dalla sua, Elvis ha un successo talmente sbalorditivo da diventare un modello per una industria discografica intenta sin dal dopoguerra nell'individuare nei giovani un filone d'oro da sfruttare.
Elvis costruisce il suo stile guidato esclusivamente da un istinto che lo aveva portato sin da adolescente a frequentare musicisti di colore e assimilare da loro quella lezione blues che abilmente fuse con il country western. In oltre vent' anni di carriera è riuscito a produrre tantissimo a livello discografico, spaziando dal classico rock and roll a generi come il rhythm and blues, la musica country, il gospel, la melodica e il pop.
In Italia è stato una fonte di ispirazione per Celentano, Little Tony e Bobby Solo, in Francia per Johnny Hallyday e in Inghilterra per Billy Fury. Nell'immaginario collettivo, la sua figura è assurta a icona. Dopo la morte, il fenomeno si è ulteriormente intensificato, rendendo Presley un vero e proprio oggetto di culto. La sua canzone che amo di più è Love me tender .
Relazioni extraconiugali, abuso di farmaci e la notte d’amore con Cher. Tutte le "verità" su Elvis. Carlo Lanna il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.
Dal regista del Grande Gatsby e Moulin Rouge, al cinema rivive il mito di Elvis in un biopic di grande fascino. Ma chi era l'uomo dietro l'artista? Ecco le curiosità e i gossip sul rocker.
Patinato, frenetico, profondo, brillante, fuori dagli schemi. Così si potrebbe descrivere il nuovo film di Buz Luhrmann che, dopo i fasti Moulin Rouge e Il Grande Gasby, porta sullo schermo un biopic – rivisitato – sulla vita di Elvis Presley, interpretato da convincente Austin Butler conosciuto per le serie su Shannara e The Carrie Diaries. Il divo della musica rock che ha fatto impazzire le donne di tutto il mondo rivive in una rappresentazione di rara bellezza dove, alle imprese artistiche e musicali, il regista fotografa l’immagine di Elvis con un tratto fermo e deciso, facendo emergere l’uomo che c’è dietro il mito. Un film lunghissimo ma per nulla pesante, che apre una finestra sulle imprese di Elvis e sull’America degli anni ’50, ’60 e ’70. È come se fosse un ibrido. È un omaggio alla figura del celebre rocker ma, allo stesso tempo, ricostruisce un determinato periodo storico fatto di cambiamenti e gravi tumulti sociali.
Certo, in due ore e quaranta minuti non è facile condensare tutta la carriera di Elvis. Eppure il film riesce a soffermarsi sulle tappe salienti senza lesinare nei dettagli. Si comincia fin dalla tenera età, quando il giovane musicista è cresciuto in un quartiere popolato da neri, fino ad arrivare al primo contratto discografico, per passare poi alle minacce di arresto per il pubblico pudore, ai film di successo, parlando anche dei suoi vizi e delle tante virtù. Elvis è un film vero, sincero. Convince proprio perché esce fuori un’immagine schiettissima di uno tra i cantati più celebri nella storia. Ma è tutto vero quello che Buz Luhrmann racconta nel suo film? Ecco tutto quello che c’è da sapere.
Elvis, così Baz Luhrmann fa rivivere la leggenda del rock
Elvis the "Pelvis" e i tanti appellativi al divo del rock
Oggi è un vero idolo, amato e imitato per il suo stile inconfondibile e per il suo carattere fuori dagli schemi. È il più grande cantante di tutti i tempi, eppure, all’inizio della sua carriera, Elvis non è stato accolto positivamente dal pubblico più conservatore. Se da una parte le donne si struggevano per l’uomo bianco dalla voce graffiante e profonda, c’era chi non vedeva di buon occhio questo giovane che vestiva di rosa e con colori sgargianti, che aveva un’acconciatura tipicamente femminile e che aveva il trucco sotto gli occhi. Un look che, nel corso degli anni ’80, è stato preso d’ispirazione da band come i Duran Duran e i The Cure. Elvis sapeva anche ballare, tanto da ancheggiare a suon di musica, che è stata la sua croce e la sua delizia. Pur di remare contro, alcuni giornali avevano soprannominato Elvis come "Elvis the Pelvis", per un particolare movimento delle anche, appellativo che non l’artista ha mai apprezzato.
"Depravato", "osceno", "delinquente"
Proprio perché è stato un precursore dei tempi e perché è sempre stato un tipo di larghe vedute, alcuni giornalisti hanno cercato di sporcare la sua immagine con ogni mezzo possibile. Dopo un’intervista rilasciata da Elvis nel 1959 al The Memphis World, tipico giornale afroamericano, in cui si schierava dalla parte della comunità di colore, la gente comune ha cominciato a capire che quel ragazzino che sapeva cantare e ballare non sarebbe stato solo una meteora. Aveva del talento e idee ben chiare su cosa volesse fare della sua voce. Per questo motivo, altri giornali e spalleggiati dai politici, cercarono di remare contro l’astro nascente di Elvis. Su Jet, ad esempio, fu pubblicato un articolo in cui un giornalista bianco ha descritto Elvis come un "giovane depravato, un delinquente e un ragazzo adito alle oscenità", ma non solo. Si è arrivato anche ad accusare l’artista di plagio e di "rubare la musica ai neri". Parole pungenti che, secondo Jackie Wilson, celebre musicista di colore, non avrebbero fatto breccia nell’indole del cantante, tanto da affermare che: "Un mucchio di persone hanno accusato Elvis di rubare la musica dei neri, quando in realtà, quasi ogni artista solista nero ha copiato i suoi modi di fare".
Il torbido sodalizio artistico con il Colonello Tom Parker
Tutto il film di Buz Luhrmann viene raccontato dal punto di vista di Tom Parker (con il volto di Tom Hanks) che è il manager ufficiale dell’artista fino alla fine della sua carriera musicale. Personaggio scaltro, eclettico e assai venale, ha "rubato" Elvis a Bob Neal dopo che ha sentito una sua canzone alla radio. Il colonnello è stato l’artefice del successo planetario del cantante che è andato avanti per oltre venti anni. Ha giocato bene le sue carte, lanciando Elvis nelle radio e in tv, anche in programmi nazionali. Tra i due è nato un rapporto quasi paterno, ma Tom Parker non ha mai nascosto le sue attività illecite e le sue trame d’affari per assicurare gli ingaggi al suo assistito e, ovviamente, un lauto ritorno economico che ha poi sperperato in sigari e gioco d’azzardo. Su di lui c’è un alone di mistero che ha dato agio alla stampa di speculare sulle sue origini. Il Colonello non ha mai avuto un passaporto americano – ragion per cui non ha mai lasciato il paese –, e in seguito si è ipotizzato che non avesse mai prestato servizio nei militari e che non fosse originario degli Stati Uniti ma bensì dei Paesi Bassi. Alla morte di Elvis è cominciato il suo declino dato che, i fedelissimi dell’artista, pare che abbiamo accusato il Colonello di aver abusato della sua fama e della sua immagine.
Un corteggiamento lungo 7 anni. Come Priscilla Beaulieu divenne la moglie del rocker
La vita di Elvis è stata costellata da un unico grande amore. Quello con Priscilla è stato unico nel suo genere. Nonostante la coppia non sia riuscita a sopravvivere ai segni del tempo, della fama e dell’abuso di alcol da parte del rocker, i due si sono amanti moltissimo. Nel film viene regalato poco spazio alla conoscenza tra Elvis e Priscilla, ma prima di convolare a nozze, l’artista ha dovuto aspettare ben sette anni. Si sono conosciuti in Germania, durante il servizio militare. Lui aveva 24 anni, lei 10 in meno. Indecisa se cedere o meno, a causa di tutte le malelingue che la stampa vomitava su Elvis, la giovane è arriva a sposare l’uomo che amava solo sette anni dopo il primo incontro. Ovviamente, nonostante il sentimento, il quel lungo periodo di tempo, il cantante non è stato di certo a guardare, passando da una donna all’altra con facilità.
Le amanti e le stranezze di Elvis
Priscilla era a conoscenza dei tradimenti del marito. Il rapporto si è incrinato dopo la nascita della figlia. Elvis non riusciva a fare sesso con la moglie perché non la vedeva più come una donna ma solo come la madre dei suoi figli. Andava con molte donne, "non più di tre alla volta", e prese una sbandata per Ann Margaret. Accecato dai farmaci, era arrivato a pensare di uccidere Priscilla a colpi di karate. Pensò di pagare profumatamente il suo istruttore ma l’ipotesi non si è mai avverata. Alcuni giornali riportavano i rumor che l’artista stesse avvelenando sua moglie, ma tutto fu bollato come becero gossip.
Quella notte di sesso con Cher
Tra i tanti pettegolezzi sulla vita di Elvis c’è anche uno che lo lega a Cher. Secondo dei gossip mai confermati, il cantante e l’immortale performance diventava oggi un’icona della musica pop avrebbero avuto una bollente notte di sesso. Erano gli anni ’60 e Cher da poco aveva fatto i primi passi nel mondo della musica. Di recente, è stata proprio la cantante a smentire le illazioni. Come Cher ha rivelato, tra i due non sarebbe scoccata la scintilla a causa delle "troppe incompatibilità caratteriali".
"Con Elvis racconto il dramma umano della segregazione negli Usa Anni '50"
Elvis che non ha mai viaggiato al di fuori dell’America
Famoso in tutto il mondo, questo è vero. Ma l’artista non è mai uscito dal territorio americano. Tranne una volta per un concerto in Canada. Secondo fondi attendibili, sarebbe stato il Colonello Parker a impedire che si potesse realizzare un tour all’estero. Si è sempre parlato di "motivi di sicurezza", dato che in quel periodo l’America era scossa da rivolte e attentati ma le ragioni sono ben altre. Come si è visto nel film, pare che ci lo zampino del Colonnello che, per paura di perdere la sua influenza su Elvis, avrebbe inventato un mucchio di bugie. Per accontentare l’artista, però, da Las Vegas è stato organizzato il primo live concert via satellite.
Gonfio e balbettante. A 42 anni era già l’ombra di se stesso
Muore a Memphis nell’agosto del 1977 all’apice del successo dopo un ultimo grande concerto all’Internatioinal di Las Vegas (sua casa per 5 anni). Fuori forma tanto da perdere quasi tutti il suo fascino a causa dell’alcol e dei farmaci, il pubblico ricorda ancora il suo ultimo live, in cui Elvis ha lasciato un ricordo indelebile. Quel concerto è stato rimasterizzato e inserito poco prima dei titoli di coda del film di Luhrmann.
Sara Frisco per “il Giornale” il 25 giugno 2022.
Esiste una versione da quattro ore del film Elvis. A rivelarlo è Baz Luhrmann, il regista di progetti sfavillanti come Moulin Rouge e Il Grande Gatzby, che ha appena consegnato al mondo il suo film più sfavillante di tutti, Elvis, ora nelle sale in Italia dopo il successo incontrato al festival di Cannes. «Esiste quella versione lunga, ma poi ho dovuto ridurre il tutto a 2 ore e mezzo», spiega il regista del film del momento, che vede protagonista il giovane emergente Austin Butler nei panni del re del rock e Tom Hanks in quelli del suo manager Tom Parker, conosciuto come il colonnello.
Elvis è un viaggio nell'America degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta ancora prima di essere il racconto della vita del musicista. È un'esplorazione sociale raccontata nel tipico stile spumeggiante di Baz Luhrmann. «Elvis non è un musical e non è nemmeno un biopic. Prendete Amadeus, per esempio. È la biografia di Mozart o un musical su Mozart? Secondo me né uno né l'altra: è una storia drammatica su un'idea più grande, la gelosia. Raccontata però attraverso la musica.
Per me la musica ha lo stesso valore dei dialoghi o del linguaggio visivo ed è fra i personaggi principali dei miei film. In Elvis è uno strumento per raccontare la sua vita epica che ha attraversato tre decenni molto importanti nella storia recente del mondo e per raccontare gli aspetti meno conosciuti della sua personalità».
Il personaggio di Elvis Presley è stato raccontato molte volte al cinema, è forse la figura pubblica più imitata al mondo. Cosa l'ha spinta a fare un film su di lui?
«Nella città dove sono cresciuto in Australia c'era una piccola sala cinematografica che spesso faceva rassegne con i film di Elvis Presley. L'ho conosciuto così e sono diventato presto un suo grande fan. Lui per me ha sempre rappresentato la quintessenza dell'America, con la sua capacità di assorbire le culture degli altri e farne qualcosa di nuovo».
La musica ha sempre un ruolo importante in tutti i suoi film ma questo ha dichiarato più volte di non considerarlo un musical. E nemmeno un biopic.
«È un dramma. Racconta il dramma della vita di un uomo che si esprimeva comunque sempre attraverso la musica. Elvis era un’uomo di poche parole, quello che voleva dire lo diceva con le sue canzoni e con i gesti che le accompagnavano. Cosa mi ha sorpreso di più della sua breve vita non è stato il successo, il rock and roll, gli eccessi.
Ma che Elvis era un uomo profondamente spirituale che ha trovato la sua via grazie al gospel (i vangeli cantati tipicamente dalla comunità afroamericana ndr). La sua vita è stata breve ma ha lasciato un segno indelebile sulla gente. E non solo per la musica, ma anche per quel buco senza fine che aveva dentro e che cercava di colmare in ogni modo. Il pubblico lo percepiva. Così come percepiva le sue insicurezze, la sua timidezza e la sua sensibilità».
Lei racconta Elvis in un viaggio attraverso tre decenni, dal ragazzo filiforme e snodato degli anni Cinquanta alla gonfia celebrità nei guai con la droga degli anni Settanta.
«Una perfetta storia in tre atti. Il ribelle rockettaro dei primi tempi, l'uomo popolare dei film per la famiglia il decennio dopo, e poi c'è quell'ultimo atto, il più drammatico. Sul set quella parte del racconto la chiamavamo l'Apocalypse Now dei musical».
Come ha trovato Austin Butler?
«È abbastanza risaputo che io non faccia molti film, anzi forse questo sarà l'ultimo e che abbia un modo particolare di lavorare. Non faccio nemmeno le audizioni. È lui che ha trovato me.
Una notte mi ha mandato un'interpretazione di Unchained Melody, con lui che suonava al piano. L'ho trovata notevole e poi ho ricevuto una chiamata da Denzel Washington, che non ho mai conosciuto e che aveva appena lavorato con lui in teatro a Broadway e che mi diceva che dovevo assolutamente ingaggiarlo perché non aveva mai conosciuto una persona più talentuosa e con un’etica del lavoro così sviluppata.
Aveva ragione. Non sarebbe bastato sapere cantare le canzoni di Elvis o assomigliarli, serviva un attore che potesse umanizzare la leggenda. Austin è riuscito, con straordinaria naturalezza a essere lui, a riportarlo in vita, affrontando anche le parti difficili del viaggio. Non poteva che essere Austin ad interpretarlo, mi spiace essere così 'cosmico'', ma sembrava proprio fosse nato per recitare in questo ruolo».
Quando due anni fa il virus ha colpito, il primo caso sul set è stato quello di Tom Hanks sul set di Elvis, in Australia...
«Ma me lo lasci dire, Tom Hanks è come una Ferrari, è un attore straordinario, mai lavorato con una persona come lui e che si sia prestato a recitare nella parte di un uomo così complicato e negativo come il Colonnello Parker, il manager di Elvis è stato un regalo inaspettato e indimenticabile. Per quanto riguarda il suo contagio al Covid devo dire che è stato un fatto non del tutto sfortunato».
Ci spiega?
«Quando il mondo è entrato in lockdown e le riprese sono state sospese io, devo confessarlo, ho tirato un sospiro di sollievo. Mi ero imbarcato in questa avventura, fare un film sulla più grande leggenda pop. Solo dopo aver iniziato sono stato colto da tutte le ansie possibili. Poi c'è stato il lockdown, non sapevamo quando avremo e se avremo mai ripreso il progetto. La pressione che mi si era creata intorno è scemata e ho tirato un sospiro di sollievo. Poi ci sono tornato su, ho ristrutturato completamente il primo atto e ho riacquistato fiducia.
Cosa vorrebbe che la gente imparasse di Elvis dal suo film?
«Non puoi parlare di lui e degli Stati Uniti in quegli anni senza parlare della questione razziale in America. Quando era un bambino e suo padre finì in prigione la madre dovette trasferirsi in un quartiere nero di Menphis. Era una delle poche case abitate da bianchi in una comunità nera. Era il tempo della segregazione razziale. Durante le ricerche per questo film ho conosciuto un uomo, Sam Bell.
Sam da ragazzino prese Elvis sotto la sua ala. I bambini del posto lo adottarono, gli fecero conoscere la musica gospel, la musica nera. Elvis visse nella comunità nera e la sua musica nasce da quella esperienza. Eppure lo accusarono di essere razzista, a favore della segregazione. Un'accusa con cui dovette fare i conti fino alla fine e di cui non si è mai capacitato».
Il "Colonnello" di Elvis racconta un mito rock. Stefano Giani il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.
Come si "costruisce" un mito musicale è la sottotrama che attraversa Elvis, ennesimo film su un grande della musica, con l'attenzione, tutt'altro che disinteressata al loro prestigioso repertorio.
Come si «costruisce» un mito musicale è la sottotrama che attraversa Elvis, ennesimo film su un grande della musica - in passato monografie avevano inquadrato i Queen, Elton John, Dalida, Blaze Foley, Edith Piaf, Johnny Cash, Nico, Ray Charles e l'elenco potrebbe tranquillamente continuare - con l'attenzione, tutt'altro che disinteressata al loro prestigioso repertorio. Il biopic su Presley strizza l'occhio al rock che aveva sedotto generazioni di giovanissimi negli anni Cinquanta e Sessanta ma racconta il divo della musica da una prospettiva diversa, quella del «Colonnello» Tom Parker, interpretato da un convincente (e ingrassato) Tom Hanks.
Questi è infatti lo scopritore del talento di Memphis fin da quando non era che uno sconosciuto ragazzotto che suonava nei locali alla sera. L'amicizia, condita da più di qualche ricattino fra i due, ha portato fior di verdoni nelle tasche di Parker e fama indistruttibile - anche qui accompagnata da sonori dobloni - per Elvis che i pochi detrattori avevano soprannominato «the Pelvis». In realtà, il film sottolinea come i destini di entrambi si siano, per così dire, compensati.
Parker si è mangiato una fortuna alle macchinette succhiasoldi di Las Vegas, Presley ha lasciato una casa museo a Graceland, a tutt'oggi meta di appassionati, curiosi, turisti e fan. Il Colonnello è morto in povertà in un'inoltrata senilità mentre Elvis se n'è andato che non aveva nemmeno la metà degli anni del suo manager, 42 contro 88. Insomma ce n'è per tutti i gusti, compresi - anzi, privilegiati - quelli degli amanti del rock. Vera ma inconfessata ragione che ha spinto Baz Luhrmann, furbo quanto bravo, a confezionare un film che tutto sommato piacerà. Come sputare sul piatto di un nostalgico rock d'antan anche se Austin Butler che interpreta Elvis è un imitatore più che un fuoriclasse della recitazione e il reparto trucco e parrucco è sempre più perfezionato nel rendere gli attori - di Hollywood - quello che spesso non sono...
Dagotraduzione dal Guardian il 22 giugno 2022.
Secondo il film biografico di Baz Luhrmann, il sogno di Elvis Presley era quello di diventare un grande attore. Ma le sue ambizioni hollywoodiane sono state spesso soffocate dal suo manager, il colonnello Tom Parker (interpretato da Tom Hanks). Una scena chiave del film vede un triste Elvis (Austin Butler) che spiega che non sarà in grado di recitare al fianco di Barbara Streisand nel remake del 1976 di A Star Is Born (una parte che voleva davvero), perché le trattative tra Streisand e Parker è finita molto male. Anche se questo è l'unico esempio che entra nel film, ci sono un certo numero di altri film che Elvis avrebbe potuto realizzare, e la sua carriera sul grande schermo sarebbe stata molto diversa se Parker avesse esercitato meno influenza.
Il mago della pioggia (The Rainmaker, 1956)
L’anno in cui Elvis ha ottenuto il suo primo ruolo cinematografico in Love Me Tender, gli è stato chiesto di fare un provino per The Rainmaker, un dramma dell'era della Depressione con Burt Lancaster nei panni di un truffatore che inganna una piccola città e si innamora di una donna zitella di mezza età (Katharine Hepburn). Elvis ha fatto il provino per il ruolo del fratello di Hepburn ma, secondo lo sceneggiatore del film Richard Nash, sembrava il «protagonista in una recita scolastica», e la parte è andata a Earl Holliman.
Thunder Road (1958)
Robert Mitchum aveva visto Elvis sul palco prima che diventasse famoso, e i due rimasero amici una volta che Elvis arrivò a Hollywood. A una festa di Natale , mentre suonavano insieme delle canzoni, Mitchum ha cercato di convincere Elvis a prendere la parte di suo fratello minore in Thunder Road, un thriller d’azione. Ma Parker aveva posto il veto all'idea perché non era un musical e non voleva che Elvis «facesse un film da cui non poteva tirare fuori un album». La parte di Robin Doolan alla fine è andata al figlio di Mitchum, James Mitchum.
La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof, 1958)
Nel 1958, a Elvis fu offerto il ruolo di Brick Pollitt nell'adattamento dell'opera teatrale di Tennessee Williams su un ex atleta alcolizzato che cerca di riconquistare i suoi giorni di gloria e di resistere all'affetto di sua moglie, Maggie "the Cat" (Elizabeth Taylor). Apparentemente Parker ha rifiutato il ruolo per conto di Elvis e la parte è stata assegnata a Paul Newman.
La parete di fango (The Defiant Ones, 1958)
Nel 1958, Elvis aveva realizzato i suoi primi tre film: Love Me Tender, Loving You e Jailhouse Rock. Avviata la sua carriera cinematografica, desiderava interpretare il ruolo di John "Joker" Jackson, al fianco di Sidney Poitier, ne “La parete di fango”: la storia di due evasi, uno bianco e uno nero, incatenati insieme. Ancora una volta, Parker ha messo il veto al ruolo, che alla fine è andato a Tony Curtis: l'attore e il film sono stati entrambi nominati all'Oscar.
West Side Story (1961)
Si dice da tempo che Elvis fosse stato preso in considerazione per la parte di Tony, ma Parker ha rifiutato il ruolo perché non pensava che un film sulle bande di strada sarebbe stato buono per l'immagine del Re del Rock'n'Roll.
La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth, 1962)
Chiaramente, Elvis non ha avuto molta fortuna quando si è trattato di parti in adattamenti di Tennessee Williams che alla fine sono andate a Paul Newman. Gli è stato chiesto di interpretare Chance Wayne, un vagabondo (una versione sterilizzata del gigolò della commedia) che ha una relazione con una star del cinema sbiadita. Ancora una volta, si dice che Parker abbia posto il veto al ruolo perché non voleva che Elvis interpretasse un personaggio squallido.
Your Cheatin’ Heart (1964)
Nel 1964, la MGM considerò Elvis come protagonista nel loro film biografico su Hank Williams. Questa volta, tuttavia, è stata la vedova di Williams, Audrey Williams, a intervenire, dicendo che non voleva che il re portasse via l'eredità di Hank. La parte alla fine è andata a George Hamilton.
La valle delle bambole (Valley of the Dolls, 1967)
Secondo un articolo di Vanity Fair, l'autrice Jacqueline Susann voleva che Elvis interpretasse il cantante Tony Polar nell'adattamento cinematografico del suo romanzo hollywoodiano, ma lo studio ha ignorato la sua richiesta. Elvis probabilmente è stato fortunato in questo caso, perché il film è stato aspramente criticato ed è considerato uno dei peggiori film di tutti i tempi.
Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969)
La United Artists voleva Elvis per il ruolo di Joe Buck, un ingenuo imbroglione del Texas che cercava di farcela a New York. Fedele alla forma, Parker rifiutò la parte sulla base delle sue connotazioni squallide, senza nemmeno preoccuparsi di consultare Elvis. Di tutti i quasi incidenti di Elvis, questo è quello che probabilmente lo ha ferito di più: il film ha vinto tre Oscar e il protagonista Jon Voight così come il suo co-protagonista Dustin Hoffman, sono stati entrambi nominati.
Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka & the Chocolate Factory, 1971)
Elvis è stato brevemente considerato per il ruolo principale nell'adattamento musicale del 1971 di Charlie e la fabbrica di cioccolato di Roald Dahl. La parte alla fine è andata a Gene Wilder (due anni più vecchio di Elvis).
Il padrino (The Godfather, 1972)
Elvis era un grande fan del romanzo di Mario Puzo e voleva interpretare il ruolo del consigliere Tom Hagen, la parte che alla fine è andata a Robert Duvall. Varie fonti suggeriscono che sia arrivato al punto di essere invitato a fare un provino e anche che abbia fatto pressioni per il ruolo del protagonista.
Fulvia Caprara per La Stampa il 22 giugno 2022.
Amarlo teneramente, come dice il titolo di uno dei brani più famosi di Elvis Presley, non sarà difficile. Per diventare il protagonista del film che Buz Luhrmann ha dedicato all'icona rock, Austin Butler, nato nel '91 a Anaheim, in California, ha imposto al suo cuore un modo diverso di battere, in sintonia con il leggendario «Elvis the pelvis», con i suoi dolori profondi e le sue luminose vittorie artistiche.
Adesso che è arrivata l'ora della verità, adesso che, dopo i clamori del Festival di Cannes, il film incontra il pubblico delle sale (in Italia da oggi, con Warner, in Usa il 24 ), Butler si ritrova solo con l'interrogativo cruciale delle prove che cambiano la vita: piacerò oppure no? Un po' come stare sul trampolino dove ormai hai preso la rincorsa e non ti puoi più fermare: «Dal momento in cui ho avuto il ruolo - dice con la voce roca e le sillabe trascinate in pieno stile Elvis -, ho sentito il peso del compito. Ogni giorno, da allora, ho pensato che la cosa più importante fosse onorarlo, rendere giustizia a lui e alla sua famiglia. Non è stato semplice, continuavo a sentirmi come un bambino che si mette il vestito del padre e fatica a camminare con scarpe molto più grandi del suo piede».
Qual è stata la maggiore difficoltà ?
«La gente ha sempre visto Elvis come una specie di divinità, è come se, intorno alla sua immagine, ci fosse un'enorme impalcatura, la cosa più complicata era superarla. Volevo a tutti i costi umanizzarlo, tirare fuori la sua vera natura. L'altro aspetto spinoso riguardava i suoi cambiamenti, volevo essere molto specifico e meticoloso nel ritrarre la sua evoluzione. Ho guardato e riguardato una mole immensa di documentari, studiando ogni minuto delle sue performance, finché ho sentito che Elvis era diventato come un pezzo di me stesso. Tutto, in lui, veniva dalla sua interiorità, dalla fase di vita che stava attraversando».
Lei è nato nel '91, che cosa rappresenta Presley per la sua generazione?
«Molto prima che ricevessi l'offerta di questo ruolo Elvis faceva parte della mia vita. Mia madre è nata negli Anni 50, a casa mia ho sempre sentito suonare quel tipo di musica, lei amava quelle canzoni e quei film. Non sapevo niente della vita di Elvis, ma, grazie al legame con mia madre, ho cercato di capirlo e ho scoperto quanto fosse sensibile, spirituale, profondo e anche divertente. Mi sono innamorato di certi lati del suo carattere, ho provato empatia nei suoi confronti».
Quali sono i lati di Elvis che ama di più e quali meno?
«Amo la sua generosità con tutti, amici, familiari, sconosciuti, e poi il suo incredibile senso dell'umorismo. Aveva una mente profonda, sempre alla ricerca del significato delle cose, e questa caratteristica, in una persona diventata estremamente famosa in modo breve e inatteso, ha creato contraccolpi. Convivere con l'urlo della folla, con l'ammirazione sconfinata, è stato complicato, Elvis si è sentito solo e anche la sua famiglia ne ha risentito».
Le sono pesate le lunghe ore di make-up e preparazione?
«Ho lavorato con una coach, Polly Bennett, che mi ha aiutato moltissimo. Non mi ha solo insegnato il modo con cui Elvis si muoveva, ma mi ha anche fatto comprendere le ragioni per cui una persona decide di muovers così. Poi, certo, anche il look è stato fondamentale, nella performance finale di Elvis, quando era ingrassato e si esibiva costretto nel suo costume, ho avuto l'impressione di capire come si sentisse, con una grande tristezza addosso, quasi privo della possibilità di respirare, eppure ancora con una voce potente, capace di vincere tutto».
Ha recitato accanto a Tom Hanks, come si è trovato e che cosa ha imparato da lui?
«Sul set Tom era gentilissimo, disponibile e divertente con tutti. Lavora duro ed è sempre puntuale. Nelle pause aveva sempre qualcosa da leggere, spesso libri di storia, che con il film non avevano niente a che vedere. Mi ha spiegato che fa bene riempirsi di interessi diversi, è un insegnamento che porterò sempre con me».
Qual è il segno più profondo che ha lasciato in lei la figura di Elvis?
«Ho ridefinito il mio rapporto con la paura, non l'avevo mai avvertita così forte. Mi svegliavo alle 3 e alle 4 del mattino con il cuore che mi batteva a mille e il giorno dopo dovevo lavorare, ho dovuto imparare a convivere con tutto questo, alla fine del giorno certe sensazioni ti restano addosso, compresa una grande energia. Sul palcoscenico Elvis era magnetico, poi, nella vita, era molto timido, mi ci sono ritrovato, ho capito perché, da questa scissione, venisse la sua forza»
· 43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.
Alighiero Noschese nasceva 90 anni fa: il permesso per le imitazioni dei politici, i due figli, 9 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
Nato a Napoli il 25 novembre 1932 (e morto suicida nel 1979) è considerato il re e pioniere degli imitatori italiani
L’uomo dalle 1000 voci
Ha imitato politici (Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Francesco Cossiga) ma anche conduttori (Mike Bongiorno, Nunzio Filogamo), cantautori (Lucio Battisti, Domenico Modugno, Gino Paoli), registi e attori (Federico Fellini, Nilla Pizzi), cantanti (Patty Pravo) e giornalisti (Ruggero Orlando, Tito Stagno). Tra gli anni Sessanta e Settanta avere un’imitazione di Alighiero Noschese (che nasceva a Napoli 90 anni fa, il 25 novembre 1932) era un grande motivo di vanto. Il re e pioniere degli imitatori italiani ha personalmente censito nel suo repertorio oltre 1.000 voci, tra personaggi di fantasia e persone realmente esistenti. Chi non amò la sua parodia? Un caso è passato alla storia, quello di Sergio Endrigo, raffigurato tra carri funebri, ballerine vestite da vedove piangenti e corone mortuarie.
Fu allievo di Giovanni Leone
Figlio di un funzionario e di una professoressa Alighiero Noschese frequentò la facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli e fu allievo, tra gli altri, di Giovanni Leone (futuro presidente della Repubblica e futuro oggetto di varie sue imitazioni). Successivamente iniziò a collaborare con la redazione locale di Paese Sera e debuttò alla radio nel 1945, con una piccola parte in una trasmissione diretta da Riccardo Mantoni. Negli anni Cinquanta entrò come praticante nel giornale radio Rai diretto da Vittorio Veltroni.
Il permesso per le imitazioni dei politici
La consacrazione di Alighiero Noschese arrivò nel 1969 grazie al varietà televisivo del sabato sera «Doppia coppia»: in quell’occasione il comico riuscì ad ottenere l'autorizzazione per imitare gli esponenti politici, cosa fino a quel momento vietata. In seguito molti personaggi del mondo dello spettacolo e non solo iniziarono a chiedere espressamente di essere imitati, per ottenere maggiore visibilità e popolarità. La carriera di Noschese proseguì con una fortunata edizione di «Canzonissima» (1971), ospite fisso di Corrado e Raffaella Carrà, e con «Formula due» (1973), accanto a Loretta Goggi.
Ha doppiato il ronzino di Carosello
È di Alighiero Noschese la voce del ronzino parlante di Carosello. Negli anni Sessanta e Settanta l’attore ha partecipato a numerosi sketch poi mandati in onda nella storica rubrica pubblicitaria televisiva (come quelli per i gelati Eldorado e per l’amaro Ramazzotti).
Il matrimonio e i due figli
Sposato dal 1963 al 1974 con Edda De Bellis, un'impiegata del teatro Parioli conosciuta durante una tournée, Noschese ha avuto da lei due figli: Antonello (oggi doppiatore) e Chiara (poi diventata attrice e regista teatrale). «Li lascio completamente liberi. Chiara vuole studiare lingue e Antonello laurearsi in legge e sono d’accordo con le loro scelte - raccontava l’imitatore nel 1978 a Tv Sorrisi e Canzoni -. È che io so quanto questo ambiente sia falso e quanto il mio lavoro sia duro. Ho fatto anni di sacrifici enormi, che non vorrei vedere fare a voi».
L’addio alla Rai
Nel 1974, anno in cui si separò dalla moglie, Noschese lasciò la Rai e iniziò a lavorare in alcune emittenti locali come TeleLazio e Quinta Rete. Quell’anno l’attore abbandonò anche la Massoneria di piazza del Gesù, a cui era iscritto dal 1967, e chiese di entrare nel Grande Oriente d’Italia (Noschese sarebbe poi entrato nella P2 di Licio Gelli).
«Ma che sera» e il caso Moro
Il grande ritorno di Noschese in Rai dopo quattro anni sarebbe dovuto coincidere con il varietà «Ma che sera» (1978). Lo spettacolo condotto da Raffaella Carrà avrebbe dovuto contenere, tra le varie imitazioni, anche quella di Aldo Moro. Il 16 marzo però lo statista fu rapito dalle Brigate Rosse: l’imitazione (registrata in precedenza) fu tagliata e mai più mandata in onda.
L’addio
«Di fronte al mistero di un uomo che si toglie la vita, bisognerebbe tacere. Ma questo mestiere ha le sue pretese, e non consente il silenzio». Così Enzo Biagi nel 1979 apriva il suo articolo di fondo sul Corriere della Sera all’indomani della scomparsa di Alighiero Noschese. Una morte tragica e improvvisa: Noschese si sparò un colpo alla tempia la mattina del 3 dicembre nella cappella del giardino della clinica romana Villa Stuart, dove qualche settimana prima si era fatto ricoverare per curare la depressione. Aveva soltanto 47 anni.
Le strade a lui intitolate
A Noschese sono state intitolate strade in varie località italiane: ce n’è una anche a Roma e non poteva mancare a San Giorgio a Cremano, comune a cui l’attore in vita è sempre stato profondamente legato (ed è proprio qui che sorge la sua tomba).
· 42 anni dalla morte di Steve McQueen.
Marco Tullio Giordana per “la Repubblica” l'11 aprile 2022.
Voglio una vita esagerata/Voglio una vita come Steve McQueen Quando Vasco Rossi intona questi versi sul palcoscenico di Sanremo 1983 nessuno immagina che entreranno nella leggenda.
Il Blasco finirà penultimo nel giudizio della (poco) chiaroveggente giuria, ma il suo canto libero che elogia la solitudine e l'orgoglio del disadattato citandone come emblema l'attore americano morto da appena tre anni, diventerà la più celebre del rocker di Zocca e l'inno di generazioni contropelo che continueranno nel tempo ad amarla come fosse scritta ieri.
D'altra parte Steve McQueen (Beach Grove, 1930- Ciudad Juarez 1980) ha vissuto nella stessa scia del coetaneo James Dean senza mai perdere lo stesso fascino ribelle e bruciato nemmeno col passare degli anni, cedendo alla malattia anziché al mortale car crash che pure ha rischiato.
Amante anche lui delle corse - come l'altro seducente Paul Newman - aveva più volte meditato di ritirarsi e dedicarsi soltanto a quelle, tanto dotato da giungere secondo a Sebring nella 12 Ore del 1970 col copilota Peter Revson dietro la coppia Mario Andretti/Arturo Merzario, pur avendo guidato col piede sinistro ingessato per via di una frattura in sei punti procuratasi due settimane prima in una gara di motocross a Lake Elsinore.
Se James Dean fosse sopravvissuto al maledetto incrocio di Cholame (California) dove la Ford Custon guidata dal ventitreenne Donald Gene Turnupseed centrò in pieno la sua Porsche 550 Little, forse non ci sarebbe stato posto per altri. La sua morte liberò il podio dove s' installerà McQueen, facendo crescere e rendendo adulta la sua ribellione "senza causa".
Figlio di uno stuntman McQueen non aveva mai voluto essere da meno del padre, sempre guidando di persona macchine e moto di scena, dalla Triumph de "La grande fuga" alla Ford Mustang di "Bullit", dalla Gulf-Porsche 917 de "Le 24 ore di Le Mans" alla Dune Buggy de "Il caso Thomas Crown", dove scorrazza sulla spiaggia con la stupenda Faye Dunaway, sempre rischiando l'infarto dei produttori perché le compagnie di assicurazioni si rifiutavano di coprirlo.
Tanto da costringerlo a mettere in piedi una propria casa, la Solar Productions, con la quale realizzare i futuri suoi film e finanziare soprattutto le sue gare. Corse e film a parte, anche nella vita privata Steve McQueen ha sempre manifestato la stessa passione per le automobili, non disdegnando di accompagnare le esclusive Ferrari 250 Lusso o 330 GTS, Porsche 356, Lotus 11, Mercedes 300 SL con le più comuni Austin Cooper S o casalinghe Hudson e Chevrolet americane.
Forse la preferita, a giudicare dalla quantità di fotografie che lo ritraggono con orgoglio al volante, fu la Jaguar XKSS, derivata dalle corse di Le Mans e antesignana delle Jaguar E pronte per uscire e conquistare il mondo con la loro linea filante e avveniristica. Come tutti quelli cari agli dei, Steve McQueen muore (relativamente) giovane. Ha compiuto da sei mesi i cinquanta quando il Grande Sonno lo raggiunge il 7 novembre 1980 illudendosi di averlo spazzato via.
In realtà la sua morte, che addolora in ugual misura ragazze e ragazzi piacendo in modo irresistibile alle une come agli altri, lo fa entrare nella leggenda e lo sottrae all'oblio. Milioni di adolescenti adottano il suo modo di vestire, che siano jeans sdruciti o giubbotti degli eroi irritabili (Bullit, Nevada Smith, Cincinnati Kid etc) oppure i sofisticati completi in tre pezzi da ladro-gentiluomo (Il caso Thomas Crown) realizzati su misura dal sarto londinese Douglas "Dougie" Hayward, l'epitome dell'eleganza swinging London, perché sotto qualsiasi travestimento palpita il loro stesso cuore di non riconciliati, di irriducibili uomini-contro.
· 40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
Chi era Gilles Villeneuve, l'uomo che sfidava la Velocità. Il più iconico, il più amato. Un mito della Ferrari. L'ultima corsa l'8 maggio di quarant'anni fa. Ecco perché il ricordo è ancora vivo. FURIO ZARA su Vanity Fair l'8 maggio 2022.
Aveva solo 32 anni, una moglie, due figli piccoli, 68 gran premi alle spalle, 6 vittorie - solo 6 vittorie, nel ricordo sembrano molte di più - uno sguardo malinconico, una rettitudine che lo distingueva, un dolore dentro per un’amicizia tradita - dal collega Didier Pironi - una fiamma che gli bruciava dentro fin da piccolo, fin da quando in Canada, nel Québec dov’era nato, guidava le motoslitte sfrecciando sulla neve e abituandosi così a quella temerarietà che sempre l’avrebbe accompagnato. Si chiamava Gilles Villeneuve e da quarant’anni a questa parte - quaranta perché morì l’8 maggio 1982 - occupa un posto speciale nei ricordi dei tanti che amano la Formula 1.
Morì in pista, in Belgio, a Zolder, nelle qualifiche, affrontando una chicane, ultimo sospiro prima di una discesa che porta un nome da fiaba - Terlamenbocht, la «Curva del Bosco» - ma che si rivelò fatale. La sua monoposto - dopo la collisione con la March di Mass - fece un volo di 25 metri e ricadde infine in mezzo alla curva. Villeneuve guidava una Ferrari. L’uomo che l’aveva scelto era il boss, Enzo Ferrari, il Drake. Ferrari amava Villeneuve dell’amore che si riserva ai figli. Ne amava il coraggio, l’ambizione.
Gilles Villeneuve era la velocità. Negli Anni 80 la Formula 1 contemplavano ancora il valore del pilota. L’uomo dominava la macchina. Tra tutti gli uomini di quell’epoca, era Villeneuve il migliore di tutti. Sfidava gli avversari, sfidava se stesso. Sfidava - soprattutto - il Tempo. Questo era il motivo per cui Villeneuve era amato. Perché andava oltre, si faceva carico dei nostri sogni e provava a dargli una forma concreta. A guidarlo era il demone della velocità. Qualche anno prima di morire si era comprato un elicottero, che usava per gli spostamenti da Montecarlo, dove viveva. Prima dell’ultimo giro - quel giorno a Zolder - era stato richiamato ai box della Ferrari e gli era stato detto di non forzare, perché non aveva le gomme per farlo. Quel Mondiale del 1982 era cominciato male: un ritiro in Sudafrica, un incidente in Brasile e una squalifica negli USA Ovest.
Le scarpe di Villeneuve - dopo quella fatale carambola a Terlamenbocht - vennero trovate a duecento metri dalla Ferrari, poco distante c’era il volante. L’incidente era avvenuto alle 13.52. La morte venne annunciata alle 21.12. La moglie Joann era rimasta a casa, per la comunione della figlia più grande, Melanie. L’altro figlio di Villeneuve, il maschio, Jacques, aveva un anno: è diventato pilota anche lui. E nel 1997 gli è riuscita l’impresa che al padre era mancata: vincere un titolo Mondiale. Gilles Villeneuve da quarant’anni riposa nel cimitero di Montréal. Nei ricordi di chi l’ha amato sta guidando una macchina rossa, ad attenderlo una curva. La macchina fila via, veloce come il vento. Da qualche parte, c’è un traguardo che lo aspetta.
GIORGIO TERRUZZI per il Corriere della Sera l'8 maggio 2022.
«Arrivò e disse: ho venduto la casa per comprare una macchina».
«So bene che un giorno o l'altro finirò per avere un tremendo incidente».
La prima frase è di Joann Villeneuve. La seconda è di suo marito, Gilles. Poche parole per comporre un quadro esauriente: inizio e fine di un'esistenza romantica, intensa e tragica. Vita e morte di un uomo mosso da una scelleratezza infantile, talmente manifesta da generare una forma particolare di affezione.
Un bambino, un figlio scapestrato che raddrizzare non puoi. Rimproveri inutili, preoccupazioni permanenti e, alla fine, una resa da impotenza al cospetto di una natura incorreggibile. Per questo siamo qui a ricordare Gilles Villeneuve, morto a Zolder, in Belgio, quarant' anni fa, 8 maggio 1982, in un incidente pirotecnico al pari di molti altri. Sradicato dall'abitacolo della sua Ferrari mentre tentava vanamente un ennesimo exploit velocistico. Non poteva, non avrebbe dovuto. Sì, ma non c'era verso: Gilles correva intrappolato nel proprio destino deliberatamente eroico.
I capitoli di questa storia sono parte di una memoria collettiva costellata di immagini toccanti, sempre replicabili. Gilles appariva fragile nel fisico. Un ragazzo sconosciuto ed esuberante, perfetto per essere adottato dal Grande Padre del motorismo, Enzo Ferrari. Tradito da un figlio di tutt' altra pasta, cresciuto al punto da tenergli testa, Niki Lauda; indispettito al punto da mettere in pista un capriccio dei suoi, camuffato da favola candida.
Quel piccolo canadese campione da motoslitta, toccato dalla bacchetta magica del Cavallino, trasformato in un principe in abito rosso. C'è del romanticismo anche qui. C'è proprio tutto per tenerci stretta questa avventura che appartiene a un mondo estinto, niente a che vedere con questa F1, con questi piloti automatizzati sin dall'infanzia da computer e simulatori, guidati da una rete di interessi raffinatissima. Villeneuve, un pezzo unico. Che a fare Gilles iniziò all'istante: una collisione con Ronnie Peterson, il suo mito; un volo sulla folla, due morti, lui che torna a piedi verso i box «come se niente fosse».
Seconda corsa con la Ferrari.
Voleva essere il più veloce.
Sul chilometro, sul giro, in autostrada. Per riuscirci, forzava, esagerava, distruggeva.
Roba che oggi produrrebbe ritiro della licenza. Ruote trascinate, alettoni divelti, reti e muri. Più osava, più piaceva.
Sei vittorie, rocambolesche come ogni sconfitta, la lealtà tipica del bimbo per accompagnare Jody Scheckter verso il titolo 1979. Un uomo, a differenza sua, da rispettare. E poi motoscafi ed elicotteri pilotati senza giudizio, i record da casello a casello, gomme fumanti. Peripezie di un discolo incapace di risparmiare, trattate come atti strabilianti di generosità. Amato dunque come Ettore, destinato a cadere. Enzo Ferrari andava in bestia osservando i cocci. Tenne il punto, la sua scommessa, ingoiando rabbia e critiche. «È stato un campione di combattività... gli volevo bene». Lo disse dopo la morte di Villeneuve.
È un epitaffio che cela più di un'amarezza e toglie di mezzo il sospetto che il tempo di Gilles a Maranello, in quel 1982, fosse scaduto. Didier Pironi promosso a beniamino, misteriosamente autorizzato a disobbedire tenendo dietro Villeneuve a Imola, dove Gilles cominciò a morire in una foga furibonda, esternata in quel giro fatale a Zolder, 13 giorni dopo. Votato com' era a una fine precoce, come da pronostico e presentimento e per questo immortale. Dolore e amore per una favola compiuta da rileggere all'infinito. Mondata da ogni ombra, per il gusto agrodolce del rimpianto.
Stefano Mancini per “la Stampa” il 7 maggio 2022.
«Il mio ricordo di Gilles? Quello di un grande amico con cui mi sono divertito». Jody Scheckter è stato tante cose: compagno di squadra di Villeneuve in Ferrari nel 1979 e 1980, campione del mondo di Formula 1 ('79), costruttore di sistemi difensivi militari e oggi, a 72 anni, produttore di mozzarelle nella campagna inglese. «Le migliori del mondo - garantisce -. Ma la mia più grande impresa è stata sopravvivere alle corse».
Scheckter risponde da Città del Capo, il suo Sud Africa.
Ruota lo smartphone e inquadra un mare al tramonto «tanto per farle provare invidia».
Otto maggio del 1982, l'ultimo, tragico volo di Gilles Villeneuve. Quando vi incontraste per l'ultima volta?
«Due settimane prima, quando litigò con Pironi a Imola. Non riusciva ad accettare che un compagno di squadra tradisse la sua fiducia. Venne a parlarmi: sapeva che ero sempre stato sincero con lui. Cercava il mio sostegno».
C'era un patto tra i due?
«No, era una regola della Ferrari: se i piloti fossero stati primo e secondo, avrebbero dovuto mantenere la posizione. Pironi invece lo sorpassò e vinse».
Lei che cosa fece?
«Lo accompagnai a Maranello, dove non ricevette l'appoggio che pensava di meritare.
Dalla gara successiva a Zolder si sarebbe ribellato».
E invece ci fu l'incidente fatale con Jochen Mass: dov' era quando lo venne a sapere?
«Ero a Monaco, ero stato operato di ernia. Mia moglie raggiunse la sua in Belgio. Le restò accanto quando decisero di staccare le macchine».
Nel '79 a Monza Gilles rispettò le consegne e le consegnò di fatto il titolo. Davvero non temette un attacco?
«Eh sì, negli ultimi due giri pigiai sull'acceleratore. Mi fidavo, però non si sa mai. Non volevo correre rischi, ma Gilles era una persona leale, per questo fu così amareggiato tre anni dopo dal comportamento diPironi».
Mai una litigata con lui?
«Mai. Solo qualche discussione».
Tipo?
«Dopo il duello di Digione gli parlai a muso duro».
Ma è il simbolo della F 1
«Tutti pensavano che fosse stato fantastico, agli sponsor era piaciuto, il pubblico si era divertito, ma a quei tempi bastava un attimo. Gli dissi "sei uno stupido, pensi che sia divertente e grandioso, ma qui si muore in fretta". Fare a ruotate era pericolosissimo, su questo concordava, ma la volta dopo l'avrebbe rifatto uguale».
Si narra di un vostro viaggio Montecarlo-Maranello in 2 ore e 45 minuti. Verità o leggenda?
«Non ricordo di aver preso il tempo, però sì, guidava come un pazzo. Gli avevo raccomandato di non esagerare, ma a pochi chilometri dall'arrivo cominciò a gommare. Gli piaceva questa immagine di spericolato. Era la sua debolezza».
Lei per 21 anni è stato l'ultimo campione del mondo della Ferrari. Le è dispiaciuto quando Schumacher ha interrotto questo primato?
«No. Dopo il ritiro, sono stato 12 anni in America per sviluppare l'azienda che avevo fondato. Al ritorno in Europa, ero diventato più famoso per il solo fatto di essere stato l'ultimo campione in Ferrari. Eppure non avevo più fatto nulla».
Perché si ritirò un anno dopo il titolo?
«Nel '79 ero competitivo, io e Gilles eravamo più o meno sullo stesso livello. Nella stagione successiva non ero più così veloce, non so perché. Mi svegliavo nel cuore della notte e non capivo che cosa mi succedesse. Era finita. Dopo poche gare annunciai che avrei smesso. Villeneuve era più veloce».
Aveva paura di un incidente?
«Sì. La mia epoca è stata tra le più pericolose. Un anno facevi una curva in terza marcia, quello dopo in quinta. La stessa curva, capisce?».
Saltiamo a oggi: le piace la F1 ipertecnologica e sicura?
«Vedere la Mercedes vincere sempre è stato molto noioso.
Quest' anno è molto più eccitante: la Ferrari sta andando bene e le gare sono più belle. Anche il duello dell'anno scorso tra Hamilton e Verstappen è stato divertente: finalmente c'è stato un nuovo vincitore».
Raikkonen nel 2007 è stato l'ultimo campione in rosso. Non sono i suoi 21 anni, ma ci stiamo avvicinando
«Leclerc è molto bravo, capisce la tattica ed è un duro. Può competere con Verstappen». È stato giusto secondo lei escludere i piloti russi? «Devono cacciarli da tutti gli sport. Quello che sta succedendo in Ucraina è orribile».
Ha qualche rimpianto?
«Nessuno».
Che lavoro fa oggi Jody Scheckter?
«Ho fondato un'azienda in America, ho preso una fattoria in Inghilterra che produce la migliore mozzarella del mondo e intanto sto ristrutturando una casa in Italia. Dopo la F1 ho avuto parecchi impegni».
· 40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.
Amori, scandali e i copioni su cui non era disposta a negoziare: la vita da film di Ingrid Bergman. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
La diva svedese: «Non sono né una cattiva moglie né una cattiva madre, eppure non sopporterei l’idea di lasciare il lavoro»
Nel 1941 Hollywood offrì a una giovane e folgorante Ingrid Bergman la parte della moglie del dottor Jekyll accanto a Spencer Tracy, ma lei si battè per avere quella più controversa e meno glamour della cameriera sensuale, Eva. Vinse e scambiò il ruolo con Lana Turner, ben felice di fare la moglie rassicurante. La giovane svedese dimostrava così un temperamento di attrice di nuovo conio per gli standard hollywoodiani. Che rifiutava modifiche alla sua immagine e alla sua bellezza naturale e che non era disposta a negoziare su copioni e scelte di carriera. E difatti dopo una cavalcata nel cinema Usa da Intermezzo a Casablanca a Per chi suona la campana a Not orius , fino al primo Oscar vinto con Angoscia, si stufò e decise di inviare a Roberto Rossellini, alfiere di un cinema meno ingessato, la lettera che cambierà la direzione delle sue ambizioni e della sua vita («Se ha bisogno di un’attrice svedese che in italiano sa dire solo ti amo, sono pronta a venire a lavorare con lei»). Come ha scritto Oriana Fallaci in una delle sue famose interviste, Ingrid aveva lo spirito dell’Uccello migratore, «fuggì giovanissima dalla Svezia, conobbe molti amori e molti paesi, fu americana in America, italiana in Italia, poi è francese in Francia».
Piombò nell’Italia del dopoguerra come un’aliena e fu subito scandalo, per quell’amore scoppiato sull’isola di Stromboli fra il regista italiano che per lei aveva lasciato l’attrice più amata del Paese, Anna Magnani; ma il tradimento non andò giù nemmeno in America, scandalo anche lì, dove Ingrid aveva lasciato un marito e una figlia, Pia: da santa era diventata l’apostolo della degradazione. In Italia intanto erano nati Robertino, in una clinica romana piantonata dalle forze dell’ordine, e le gemelle Isotta e Isabella. E quella nuova famigliola innamorata ha fatto sognare gli italiani che palpitavano per la scoliosi di Isabella e per quella mamma attrice che aveva lasciato il cinema per stare vicino alla figlia costretta in un busto faticoso. «Tutta la sua vita è stata scandita dalla passione per l’arte» ha ricordato Isabella con Giulia Echites. «Tra un film e l’altro, per impegnare il tempo, puliva e riordinava casa, ma non vedeva l’ora di ricominciare a recitare. Papà era sempre a letto, in pigiama, con il ghiaccio in testa, diceva che serviva per far confluire tutte le energie al cervello, mamma era sempre attiva, praticava tanti sport, lo sci, lo sci d’acqua e le sue foto in costume in piscina erano uno scenario insolito per l’Italia degli Anni 40».
Poi Ingrid si stufa anche dell’Italia e si prende la rivincita, richiamata a Hollywood per Anastasia , secondo Oscar che però viene ritirato dall’amico Cary Grant, l’America aveva perdonato ma non del tutto. Intanto volta pagina ancora una volta con il terzo marito, l’impresario svedese Lars Schmidt che la fa riavvicinare al suo Paese. Dopo il terzo Oscar per Assassinio sull’Orient Express, Sinfonia d’autunno per Ingmar Bergman e, poco prima di morire (a Londra il 29 agosto 1982, giorno del suo compleanno), la biografia di Golda Meir. Per lei essere attrice era un modo di esistere: «Perchè, dico, una donna deve scegliere una cosa sola e rinunciare all’altra? Perché?» ha raccontato a Fallaci. «Io non sono né una cattiva moglie né una cattiva madre: eppure non sopporterei l’idea di lasciare il mio lavoro per sempre. Posso interromperlo per una settimana, un mese, un anno: per sempre, mai».
· 40 anni dalla morte di Marty Feldman.
Marty Feldman: 40 anni fa moriva il leggendario attore comico di "Frankenstein Junior". Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022
Dall’indimenticabile strabismo alla morte prematura, tutto quello che c’è da sapere sulla leggenda della comicità britannica
Origini
Martin Alan Feldman nacque l’8 luglio 1934 a Londra, figlio di Cecilia e Myer Feldman, entrambi ebrei ucraini nativi di Kiev.
Adolescenza
Feldman lasciò la scuola all’età di 15 anni e iniziò a lavorare al parco giochi Dreamland nel piccolo paese di mare di Margate, nel sud-est dell’Inghilterra. Il suo sogno di ragazzo era quello di diventare un trombettista jazz professionista, ma raggiunti i 20 anni individuò nella comicità la sua vera vocazione.
Incidenti
L’aspetto del giovane Marty era decisamente peculiare e sul suo volto persistevano i segni di diversi traumi facciali frutto di incidenti durante l’infanzia e adolescenza. La futura leggenda della comicità inglese fu infatti coinvolta in una brutta scazzottata, uno schianto in auto e una disavventura in barca.
Due occhi indimenticabili
I tratti più riconoscibili di Feldman furono lo strabismo e i bulbi oculari sporgenti, determinati a partire dagli anni ’60 dall’insorgere dell’Oftalmopatia di Graves, patologia attribuita all’ipertiroidismo. Tali caratteristiche diventarono un marchio di fabbrica, sfruttato anche artisticamente come nel caso del personaggio di Igor in "Frankenstein Junior".
Stile di vita
Attraverso diverse dichiarazioni rilasciate nel corso della sua carriera, Feldman rese noto di essere vegetariano dell’età di sei anni circa, ateo e socialista.
Matrimonio
Nel gennaio del 1959 Feldman sposò Lauretta Sullivan, che rimase sua moglie per tutta la vita. Dopo la morte della consorte, avvenuta nel 2010, fu rinvenuta un’autobiografia scritta dall’attore, pubblicata nel 2012 con il titolo di "Eye Marty: the newly discovered autobiography of a comic genius".
Morte
Feldman morì a 48 anni il 2 dicembre 1982 nella sua stanza d’albergo a Città del Messico, dove stava girando il film "Barbagialla, il terrore dei sette mari e mezzo". La causa del decesso fu un attacco cardiaco, fatale nonostante la chiamata ai soccorsi fatta dal collega e amico Graham Chapman, presente al momento della tragedia.
Dilemma
Feldman non aveva precedenti di problemi cardiaci, ma pare fosse un smodato fumatore, bevitore di caffè, consumatore di uova e latticini, oltre che restio all’utilizzo di controfigure nelle scene pericolose. L’attore fu sepolto al Cimitero Forest Lawn – Hollywood Hills per riposare accanto al suo più grande idolo, Buster Keaton.
· 40 anni dalla morte di John Belushi.
John Belushi moriva 40 anni fa a soli 33 anni: la ricostruzione dell’ultima notte. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.
Cosa è accaduto all’attore di «The Blues Brothers» e «Animal House» nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1982.
Aveva rifiutato il rehab
Quarant’anni fa un’overdose di cocaina ed eroina metteva fine alla vita di uno dei comici più promettenti di Hollywood, John Belushi, trovato morto il 5 marzo 1982. «Scervellato, sferico attore comico, noto per le sue imitazioni al Saturday Night Live, trovato senza vita in un bungalow a Hollywood»: così sintetizzò in un trafiletto il giorno successivo il New York Times nel dare la notizia della scomparsa improvvisa — a soli 33 anni — dell’attore di «The Blues Brothers» e «Animal House», che gettò nello sconforto i tanti amici e colleghi. Che, a dire il vero, da tempo erano preoccupati per la sua salute e per il suo smodato consumo di sostanza stupefacenti (che consumasse droga fin dai tempi del SNL non era un mistero per nessuno). Più volte gli avevano consigliato di andare in rehab, ma lui si era sempre rifiutato.
L’ultima notte
Il 4 marzo 1982 John era riuscito ad ottenere dal suo manager Bernie Brillstein 1500 dollari, ufficialmente per acquistare una chitarra. Temendo che potesse spenderli in droga inizialmente quest’ultimo glieli rifiutò. Poi, quando Belushi si ripresentò nel suo ufficio, Brillstein — che era nel bel mezzo di un incontro di lavoro — glieli concesse. L’attore decise di investire parte della cifra in un pedale per la sua batteria e il resto in cocaina ed eroina. Decise di passare la serata insieme all’ex autore del Saturday Night Live Nelson Lyon e alla groupie e cantante Cathy Evelyn Smith (morta nel 2020 a 73 anni). I tre, tra feste e locali, bevvero molto e assunsero una grande quantità di droga.
La visita di Robin Williams e Robert De Niro
Nel bel mezzo dei festeggiamenti Belushi accusò un po’ di nausea, e chiese a Smith di riaccompagnarlo al suo bungalow allo Chateau Marmont. Come avrebbe poi raccontato lei a distanza di qualche mese, l’attore — che aveva il terrore degli aghi — le chiese di iniettagli più volte dosi di speedball (così è chiamato in gergo il mix di eroina e cocaina). Durante la notte fecero un salto al bungalow anche due amici, il comico Robin Williams — che prima di andarsene sniffò alcune righe di cocaina — e Robert De Niro che, sconcertato dallo stato in cui versava la stanza, decise di non trattenersi. Più tardi John andò a dormire.
Trovato morto dal personal trainer
John Belushi fu ritrovato privo di vita nella tarda mattinata del 5 marzo dal suo personal trainer di allora, Bill Wallace, che tentò di rianimarlo praticandogli il massaggio cardiaco, prima di chiamare l’ambulanza e il manager. Fu tutto inutile: dopo mezz’ora il medico legale Thomas T. Noguchi, intervenuto sulla scena, ufficializzò il decesso.
Il patto (funebre) con Dan Aykroyd
Ai funerali di Belushi, che si tennero con rito ortodosso, parteciparono i familiari e molte persone che avevano lavorato con lui a partire dal suo grande amico Dan Aykroyd che suonò la canzone «The 2000 Pound Bee» per rispettare un patto scherzoso fatto anni prima. L’attore fu poi sepolto all’Abel’s Hill Cemetery a Martha’s Vineyard, nel Massachusetts.
I progetti interrotti
In seguito alla morte di Belushi Dan Aykroyd affrontò una pesante crisi depressiva, che fece ritardare tutti i progetti cinematografici che i due avevano in cantiere. Tra questi «Una poltrona per due» (John avrebbe dovuto interpretare Valentine, parte poi andata ad Eddie Murphy) e «Ghostbusters», che fu realizzato soltanto nel 1984 con Bill Murray nei panni di Peter Venkman al posto dell’attore scomparso.
John Belushi, i Blues Brothers in tv: gli esordi, i successi, la coca, la tragica fine, cinque cose che non sapete di lui. Alessandro Beretta su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022. Il 5 marzo saranno quarant’anni dalla morte, mentre oggi va in onda The Blues Brothers.
John Belushi, 40 anni fa la morte
Il 5 marzo prossimo saranno 40 anni dalla morte di John Belushi, nato il 24 gennaio 1949 a Chicago, di origini albanesi. E a quasi quattro decenni dalla morte, rimasto lì, nel cuore degli spettatori, fermo a una festa alla «Animal House» o in mezzo a una missione musicale come in «The Blues Brothers» (stamattina di nuovo in onda su Iris, alle 10.50) , in situazioni divertenti e folli, dove l’amicizia è la base è di tutto. Come quando si è giovani, viene da pensare, ma nessuno può chiederglielo, perché Belushi è morto di overdose il 5 marzo 1982, a 33 anni, all’inizio di una carriera che assomigliava alle montagne russe, tra grandi incassi e improvvise delusioni, in un giro dello spettacolo - quello degli anni Ottanta in America - dove se lui abusava di stupefacenti, gli altri li gestivano come medicine, comunque a portata di mano. Al pubblico, rimane fortunatamente altro, dal coro «Tooga! Tooga!» al secco «Io li odio i nazisti dell’Illinois», accompagnati dalla fisicità unica della sua comicità.
Saturday Night Live, una palestra di comici.
Belushi era una star comica in America, ma quando mancò, in breve divenne un’icona pop globale. La sua fama nacque inizialmente in televisione, al Saturday Night Live, programma satirico della NBC nato da una celebre rivista satirica e palestra, ancora oggi, di tanti talenti comici come Chevy Chase, Steve Martin, Bill Murray. Belushi, dopo il college passato a giocare a football e alcuni show itineranti, mosse i primi passi lì, fin dal primo episodio l’11 ottobre 1975, tra maschere indimenticabili: da Futaba, samurai sempre pronto all’harakiri che parla un giapponese inventato, alla sfrenata e ironica imitazione di ribelli del rock come Joe Cocker con cui, per altro, si esibì sul palco del programma.
Jake e Elwood: comici, epici e blues.
Se il personaggio di John «Bluto» Blutarsky, capace di schiacciarsi serenamente lattine di birre in testa, ha lanciato Belushi sul grande schermo in «Animal House» (1978) di John Landis, è con «The Blues Brothers» (1980), dello stesso regista, che arriva la consacrazione. La band, con alla voce Belushi e all’armonica e voce Dan Aykroyd, debuttò al Saturday Night Live il 22 aprile 1978 e produsse un album di successo. Nacque allora l’idea del film, scritto da Aykroyd e Landis, che nonostante costi esosi e imprevisti - 30 milioni di dollari - ne incassò 115. Jake-Belushi e Elwood-Aykroyd erano comici, epici e blues: tre aggettivi che era una scommessa, vincente, pensare insieme. I due attori erano amici da tempo, condividevano la stanza in cui scrivevano per il Saturday Night Live e spesso Aykroyd era autore degli sketch di Belushi. Insieme, inoltre, avevano recitato in «1941 - Allarme a Hollywood »(1979) di Steven Spielberg. A unirli, oltre il lavoro, l’uso sfrenato di cocaina e altro, spesso in compagnia della fidanzata di Aykroyd: Carrie Fisher, che appare in «The Blues Brothers» ed era già per tutti, dal 1977, la principessa Leila di «Guerre Stellari».
Gli ultimi film, le troppe droghe.
Belushi cercò nell’ultimo anno di vita di trovare sul grande schermo ruoli da commedia meno irruenti e comici, ma i risultati - anche se in parte rivalutati dal cult per l’attore - furono modesti, in film come Chiamami aquila (1981) di Michael Apted e I vicini di casa (1981) di John G. Avildsen. Cercava una svolta nell’immagine pubblica, ma nel privato le droghe avevano ormai occupato tutto. Dal 1973 Belushi usava cocaina e, sui set, se all’inizio era la stessa produzione a sapere che Belushi doveva drogarsi ogni tanto per, paradossalmente, calmarsi, negli ultimi anni dovevano sorvegliarlo con tanto di body guard per intercettare i pusher. Eppure, Belushi trovava il modo di recuperare la droga e spesso di provarne di nuove. Il passaggio all’eroina, sul finale, fu devastante. A raccontarlo, e a renderlo in maniera quasi spietata, ci ha pensato nel 1984 Bob Woodward, celebre giornalista che svelò con Carl Berstein lo scandalo Watergate, nella biografia «Chi tocca muore».
La morte e un funerale blues.
La notte del 4 marzo 1982 John Belushi andò a un party, incontrando anche Robert De Niro e Robin Williams, allo Chateau Marmont di Hollywood, celebre hotel in stile vecchia Europa rifugio di tante star. Per altro, alloggiava lì, nel bungalow numero 3, e dopo aver fatto baldoria con la cantante Cathy Evelyn Smith, quest’ultima sbagliò le proporzioni in una dose di speedball - mix di eroina e cocaina - e lo mandò in overdose. Il 5 marzo Belushi non si è svegliato più: era morto. Al funerale, in cui sfilarono tanti amici e la moglie, è stato Dan Aykroyd a rendergli l’ultimo omaggio. Si presentò vestito da motociclista e fece suonare per lui un pezzo: la canzone surf «The 2000 Pound Bee» dei Ventures. C’era un patto tra i due amici: alla morte di uno dei due, l’altro l’avrebbe fatta ascoltare quella canzone alla cerimonia. Così, mentre di lì a breve avrebbe dovuto iniziare le riprese di «Ghostbusters», John Belushi, «l’ape da 2000 libbre», era ormai diventato un fantasma.
Antonio Monda per “la Stampa” il 6 marzo 2022.
Aveva compiuto trentatre anni da poco più di un mese, John Belushi, e il compleanno era stato celebrato come sempre con quantitativi enormi di alcool e droga. Era il comico più popolare del mondo, e la sua energia anarchica e rivoluzionaria sembrava potesse irridere e dominare qualunque ostacolo, qualunque istituzione, ma in realtà era lui e esser dominato da demoni che aveva coltivato sin da bambino.
In quei giorni diceva a tutti di essere «stravolto e disilluso», e che «il successo confonde»: Dan Aykroyd, che intuiva il rischio letale di quella deriva psicologica e fisica, cercava in ogni modo di coinvolgerlo in nuovi progetti, a cominciare da Ghostbusters, ripetendogli quotidianamente «È perfetto per te». Nessuno come Aykroyd ne conosceva l'intima fragilità che si nascondeva dietro quella maschera sfacciata e irridente.
Cercò di convincerlo a partecipare a Ghostbusters anche poche ore prima che lui decidesse di anestetizzare il dolore di vivere con un'ennesima miscela micidiale di cocaina ed eroina, che ne stroncò l'esistenza. Fu Cathy Evelyn Smith, compagna occasionale, a sbagliare le dosi, ma quanto avvenne nel bungalow numero tre dello Chateau Marmont è avvolto nel mistero: l'unica cosa certa è che parteciparono a quella festicciola tossica anche Robert De Niro e Robin Williams, e che Belushi aveva acquistato la droga dopo aver chiesto del denaro al suo manager con la scusa di acquistare una chitarra.
La comunità hollywoodiana fu sconvolta da quella morte annunciata, e sorpresa dal fatto che i funerali furono religiosi: al termine del rito ortodosso, lungo e solenne, Aykroyd suonò The 2000 Pound Bee/L'ape da mille chili, per tener fede a una promessa fatta ai tempi del Saturday Night Live, dove l'amico aveva creato quel personaggio, esilarante e completamente nonsense.
Belushi non parlava pubblicamente di religione, ma era affascinato dall'elemento liturgico, cosa alquanto sorprendente per una persona che in ogni occasione manifestava la propria ribellione nei confronti di ogni rito e istituzione. Ed era molto legato alle proprie radici albanesi: il padre, ristoratore, sperava che continuasse l'attività di famiglia, mentre la madre, farmacista, lo incoraggiava a seguire il proprio talento ribelle.
Cominciò a recitare a scuola e poi al college, dove divenne un attivista politico, schierandosi pubblicamente contro la guerra in Vietnam. I suoi primi sketches, a cominciare dalla parodia del sindaco di Chicago Richard Daley, erano politici, ma poi visse come un limite anche la difesa dei propri ideali, e diede vita all'imitazione di Joe Cocker, grazie alla quale divenne una star del National Lampoon e poi del Saturday Night Live, dove entrò a far parte di una squadra di comici formata da Chevy Chase, Bill Murray, Gilda Radner, Eddie Murphy, Steve Martin e ovviamente Aykroyd, del quale divenne intimo amico.
Per la disperazione degli autori e l'assoluto divertimento degli spettatori, improvvisava continuamente, stravolgendo le sceneggiature, e alternando parodie di personaggi diversissimi quali Gandhi e Mussolini a invenzioni irresistibili come l'Ape e il Samurai. Ed è proprio al Saturday Night Live che crea, insieme ad Aykroyd, il personaggio dei Blues Brothers, anticipando nel programma televisivo il film di culto di John Landis. Amava suonare e cantare, ma soprattutto stupire e spiazzare, sovvertendo ogni possibile regola.
Ammirato dal suo talento magnetico e istintivo, Steven Spielberg gli offrì un ruolo nello sfortunato 1941, Allarme a Hollywood, dove risulta evidente che lo strabordante carisma gli consentiva di appropriarsi di tutte le scene che interpretava, come successe anche nei Blues Brothers quando si è trovato a fianco di mostri sacri come Ray Charles, James Brown e Aretha Franklin. Non c'è film che abbia interpretato che non risulti inconcepibile senza la sua presenza, anche quando non era il protagonista assoluto, come in Animal House.
Riuscì a stupire e spiazzare il pubblico anche con un cambio di tono negli ultimi ruoli, dove rivelò una sensibilità dolente e una ricchezza di sfumature interpretative che tuttavia non riscossero il successo del pubblico, voglioso di vederlo all'opera solo nel ruolo di ribelle. Il giorno del funerale c'è chi ricordò che aveva lasciato un ricordo indelebile con soli sette film, due dei quali di successo. C'è chi parlò di un talento vulcanico e autodistruttivo, ma fu proprio Aykroyd a dire, tra le lacrime, che dietro la potenza devastatrice dei suoi sberleffi c'era un disperato bisogno di calore e normalità.
· 40 anni dalla morte di Beppe Viola.
Giorgio Terruzzi per corriere.it il 17 ottobre 2022.
Diceva: «Il golf? Per me è un maglione». Diceva: «Bisogna leggere per scrivere come parli». Diceva: «Non si capisce perché un giornalista chiede lo sconto per comprare il paltò». Mandava indietro i regali di Natale. Era integro e libero. Era malinconico e autolesionista. Era Beppe Viola.
Adesso che sono passati 40 anni dalla morte, 17 ottobre 1982, età 42, ictus dopo un Inter-Napoli a San Siro, la memoria si è addolcita, confina il dolore. Emicranie a furia di tirar tardi, insalata di pollo «bella unta», sigaretta tra indice e pollice, la musica dell’Olivetti, tac, tac, tac, mischiata ai suoni del biliardo. Milano, quella là. Un’energia potentissima per tenere assieme Lucio Fontana e «il Bistecca», portinaio di giorno, battutista formidabile la sera; Enzo Jannacci e i clanda, allibratori specializzati nel darti una storta spacciata per dritta, Derby Club, Bar Gattullo, Ippodromo Trotto, dove capivi subito che i danée erano belli andati.
Per imparare a stare al mondo bastava andargli dietro, dopo le ore 22 possibilmente. Per imparare el mestè bastava osservare il rigore applicato al capoverso, un’etica senza concessioni. Multa di lire 5 mila per ogni scheggia di retorica. Le prime tre righe per agganciare il lettore, le ultime come note di un gran finale. Era un eversore, in mezzo ad altri.
Linguaggio e design, arte, canzoni, comicità. Con dentro, sempre, la percezione del marciapiede, della fabbrica, le straordinarie stimolazioni lessicali offerte dall’immigrazione, la voglia di trovare un modo nuovo perché erano nuovi tic e desideri, case e aspirazioni. Le radici infilate in atmosfere da lungo dopoguerra; gli ultimi presi su, por sacrament, portatori, come erano, di un bisogno ma anche di saggezza, di un cinismo comico e autoironico. Surrealisti tutti visto che « …la realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va». Giorgio Gaber, 1976.
Lavorava alla Rai con orgoglio e disincanto. Eppure, proprio in quella Rai ebbe la libertà di esprimersi, di mostrare il derby dell’anno precedente nel giorno in cui il derby era stato una noia, di intervistare Gianni Rivera sul tram. Aveva fondato una agenzia per condividere un senso compiuto lavorando sul racconto, sulla scrittura, sui contenuti preziosi dello sport. È questo soprattutto che resta, dentro una città, un Paese che ha perso ogni rapporto con quel passato, fatto di concretezze, di anticonformismo. Umorismo e riflessione per andar dentro una storia, evitando di metterla giù dura. Prendere in giro se stessi per prendere in giro l’altro, uno che sgobba, si fa un mazzo così.
Testi per la tv, per i giornali, per il cinema, le canzoni. Con Enzo Jannacci complice, un mix ispiratore composto da balordi, intellettuali, saltimbanchi, jazzisti, pugliesi-milanisti. Sì ma prima, dalla mattina alle 22, come detto, provare a fare meglio, please.
Un’idea da scovare, un progetto da mettere giù, una visione laterale da applicare. La spesa in rosticceria, vino per far ridere il gozzo. «Ma com’è che le cose più buone fanno tutte male?». Forse spese troppo, di se stesso di sicuro. Lo pensava Franca, sua moglie, una santa. Detta «Cianci» da Cianciulli, quella che scioglieva le vittime nella soda caustica, per dire, appunto, del cinismo e dell’ironia in circolazione familiare.
Lo pensano le sue figlie, Renata, Marina, Anna, Serena rovistando in un baule di ricordi grande così, riempito da chi c’era e c’è ancora. Tipi come il Giuliano. Il giorno dopo la morte di Beppe radunò moglie e figlie, le fece sedere sul divano.
Disse, in dialetto: «Se qualcuno vi disturba o infanga la memoria del Viola voi alzate le mani e dite: alt, non è più di mia competenza. Mi avvisate e mi el mazi». Mai stato avvisato. Dai, Beppe, solo roba buona. Cià, mettiamo su la moka, chiacchieriamo un altro po’.
Dagospia il 17 ottobre 2022. Dal profilo Instagram di Marino Bartoletti
Sono stato l’ultimo a vederlo sorridere. E questo lo ritengo un grande privilegio. Oddio, sorridere: sghignazzare, come sapeva fare lui...
Avevamo assistito assieme a Inter-Napoli: il resto, l'intervista a Giacomini, la battuta su San Gennaro "migliore in campo del Napoli", le ho già raccontate. Lasciammo San Siro ormai vuoto. Lui salì sulla sua Mini parcheggiata fuori dallo stadio per andare in Corso Sempione. Fu l'ultima volta che ci salutammo. Quando arrivai, c’era già l’ambulanza. E la faccia sgomenta di Carlo Sassi. Che mi disse soltanto: "Beppe"! Non un nome, ma un’invocazione di dolore. E di incredulità.
Impossibile spiegare Beppe Viola, “andato” - ripeto “andato” (cit. Jannacci), non morto - esattamente 40 anni fa a chi non l'ha conosciuto (e che a volte pretenderebbe di raccontarlo o addirittura di scimmiottarlo): è apprezzabile che i colleghi-amici che hanno avuto il raro privilegio di ascoltarlo, di leggerlo e soprattutto di frequentarlo cerchino di diffondere e di proteggere quel senso di leggerezza, di intelligenza, di sdrammatizzazione, di benedetto sarcasmo - in una parola di libertà - che oggi dà l'idea di essere pericolosamente naufragato. Sua figlia Marina trovò - fra foglietti, manoscritti, scarabocchi e articoli abbozzati - un appunto intitolato “Trenta domande mai fatte al Presidente della Rai”. Quella Rai che ancora oggi, giustamente, lo piange (e lo rimpiange).
Ma che "all'epoca dei fatti" (come direbbe lui), nella persona del responsabile della Domenica Sportiva, non lo voleva in studio perché sudava troppo
Personalmente ho un piccolo motivo d’orgoglio: "Quelli che il calcio" si intitolò così pensando a lui
· 37 anni dalla morte di Francesca Bertini.
Francesca Bertini, pseudonimo di Elena Seracini Vitiello (Prato 5 gennaio 1892 – Roma 13 ottobre 1985), è stata un’attrice italiana.
L’ultima diva. La stella del cinema muto che conquistò Roma con la sua fragilità. Flaminia Marinaro su L'Inkiesta l'8 Settembre 2022.
Come racconta Flaminia Marinaro nel suo ultimo libro, Francesca Bertini consolidò nella capitale una fama da star internazionale, nonostante la giovane età. A colpire gli ammiratori, fra cui Gabriele D’Annunzio, fu il suo modo così naturale di recitare di fronte alla telecamera
La saletta del Caffè si era riempita, ma lei si faceva attendere. Perfino il poeta D’Annunzio, così ombroso e sgarbato, era arrivato puntuale. Accennando qualche sorriso a denti stretti, sprofondò in poltrona. Dal taschino del doppiopetto di velluto spuntava vezzosa una gardenia. Nell’aria c’era odore di buon tabacco, misto a un lieve sentore di profumo muschiato. Francesco Paolo Michetti e Pietro Mascagni conversavano con Roberto Bracco e Francesco Paolo Tosti.Tacquero all’ingresso di Isadora Duncan, al braccio dello scultore Romano Romanelli. Il mondo non parlava che di lei, della sua bellezza e della sua sensualità, sul palco come nella vita. Era una donna emancipata, libera, capace di eccessi e stranezze, una creatura misteriosa e irresistibile perfino per D’Annunzio. Romanelli stava lavorando al busto del Vate, e spesso provavano nel suo studio di Borgo San Frediano a Firenze.
Isadora era sempre lì, con gli occhi di D’Annunzio puntati sul suo seno. Avanzò nel corridoio del Caffè a passo di danza, leggera come una libellula. Gli uomini sedettero a cerchio intorno al poeta, come i cavalieri della Tavola Rotonda. Romanelli era Lancillotto, e Michetti mago Merlino. Si diceva che D’Annunzio andasse a chiedere rimedio a lui, quando entrava in una crisi d’amore. Il che accadeva di frequente.Francesca fece il suo ingresso di lì a poco. Avanzò altera verso Peroni, ma nessuno le rivolse lo sguardo. Furono attimi di tortura. L’indifferenza di quelle signore aristocratiche, che sfoggiavano gioielli, abiti sontuosi e predicati altisonanti, le corrodeva le viscere. Marchesa di… Baronessa del… Erano pietre in pancia, una dopo l’altra. Dure come la sua rabbia. Che umiliazione dover mendicare un sorriso, uno sguardo, un brandello di conversazione! Si sentiva invisibile, esclusa, come agli inizi.
La Signorina Nessuno tornava a perseguitarla. «Che sono venuta a fare?», mormorò. «Francesca Bertini?». Una donna le si avvicinò per salutarla; la scrutava da femmina, con occhi beffardi, sventolando teatralmente un ventaglio. Era bellissima e lo sapeva. «Sono Maria Jacobini». Francesca la conosceva di nome. Era un’attrice come lei, ma nata assai più in alto. Cercò di accattivarsela citando il capocomico della sua compagnia teatrale, Cesare Dondini Jr. L’altra quasi le voltò le spalle, per vezzeggiarsi con Bracco. Non c’era da meravigliarsi, visto che bastava una sua parola per decretare il destino di un artista. Pochi anni prima le sue picconate alla carriera di Scarpetta, colpevole di aver messo in scena un’esilarante parodia di La figlia di Iorio, avevano fatto il giro d’Italia. «Come osa trascinarmi in tribunale, quel pazzo esaltato? I fratelli Goncourt hanno ragione! È un bieco utilisateur!». Francesca sentiva ancora le urla di Scarpetta, mentre vagava inquieto tra le stanze del palazzo. Aveva chiesto aiuto alla Serao, ma lei, integerrima, si rifiutava di censurare la penna di Bracco o di chiunque altro.
Nella querelle, quell’esaltato di D’Annunzio si era enormemente divertito. Se ne faceva addirittura un vanto, quando lo intervistavano, alzando il sopracciglio in segno di profonda soddisfazione. Nessuno diede peso all’epilogo, tranne il povero Scarpetta – che vinse da sconfitto. Francesca si sentì vacillare, sola in mezzo alla sala, senza appigli, al centro di niente. L’abito di seta grigioperla le scivolava addosso rendendola eterea, ma le gambe non reggevano: scappò in bagno e, china sopra il gabinetto, vomitò ansia e bava. Gli schizzi acidi le inzaccherarono il vestito. Non poteva perdere il controllo! Rapidamente lo sfilò, arrotolando la bretella, e le macchie sparirono tra le pieghe di seta. Rientrata in sala, si ritrovò al cospetto di un plotone d’esecuzione. Le parve di sentire il comandante che gridava: «A morte!». E si vide esangue a terra, tra volti noncuranti e spietati. Uno spasmo le piegò il ventre, mentre Giacomo Peroni le prendeva le mani spingendola verso D’Annunzio. «Maestro, vi presento Francesca Bertini. Di lei sentirete parlare, e molto. È un’attrice del cinematografo, bravissima!».
Il Vate stava scrivendo (non da solo) la sceneggiatura di Cabiria, che si annunciava come il film più costoso della storia. Tecniche di ripresa innovative e allestimenti faraonici, al servizio di una storia popolare. «Cabiria traghetterà il cinema in una dimensione moderna», sentenziò D’Annunzio, muovendo gli occhi in cerca di sguardi adoranti. «Non a caso porterà la mia firma!». Francesca confessò di aver letto Il piacere due volte e di conoscerlo quasi tutto a memoria.E realizzò d’essersi cacciata in un guaio. Il Vate le chiese subito di interpretarne un brano: «Al centro della sala, signorina», tuonò. Come un piccione già spacciato prima di una gara di tiro, lei chiuse gli occhi e iniziò a recitare: «Che strano amore!», diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. «Mi sarei data a te la sera stessa ch’io ti vidi». Il silenzio riempì la sala, finché un applauso non ruppe la magia. Aveva toccato le corde giuste, solleticando la vanità del poeta. «Cosa ne direste se vi offrissi un ruolo da protagonista nel Folchetto di Narbonne, sceneggiato da mio figlio Gabriellino?». Dal fondo del tavolo, la bella Jacobini lanciò un grido di esortazione: «Il sommo D’Annunzio ti ha riservato un grande onore!». E poi, guardandolo di sottecchi, aggiunse: «Come si può dire di no a un uomo come lui?».
“L’ultima diva”, Flaminia Marinaro, Fazi Editore, 192 pagine, 18 euro
· 34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.
Arianna Finos per “la Repubblica” il 6 ottobre 2022.
La Festa-Festival di Roma sotto il segno di Steno. La rassegna consegna ampio spazio e un premio dedicato (la giuria guidata da Carlo Verdone) alle commedie e un documentario delicato su Stefano Vanzina, 100 film, 48 anni di carriera e un'eredità cinematografica vitalissima: è fresco l'annuncio che Titanus farà una serie tv su Piedone, Salvatore Esposito al posto di Bud Spencer nel ruolo dello sbirro tra Napoli e il mondo.
Steno, firmato da Raffaele Rago (soggetto di Nicola Manuppelli), ripercorre la carriera dell'artista, da umorista del Marc'Aurelio - nave scuola di satira da cui nasce una schiera di talenti del cinema italiano del dopoguerra - alla saga di Totò nel sodalizio con Mario Monicelli, il primo film a colori del cinema italiano ( Totò a colori), il Totò ladro nella guerra (tra poveri) con la guardia Aldo Fabrizi.
«Totò ha capito subito che papà era buffo e lo ha amato», ricorda Enrico Vanzina. Film culto come Un americano a Roma - la locandina italiana più affissa nei ristoranti al mondo - con Alberto Sordi Nando Moriconi, lo spaghetto "m' hai provocato e io me te magno" e Mio figlio Nerone, con Vittorio De Sica e una giovanissima Brigitte Bardot, la prima cotta del giovanissimo Carlo Vanzina.
E la commedia dolce Susanna tutta panna, l'invenzione del poliziottesco con La polizia ringrazia che apre la strada a un filone nuovo, e Febbre da cavallo "col fischio", la soddisfazione di dirigere Orson Welles in L'uomo, la bestia e la virtù, «ne conquistò la stima. Sul set il primo giorno gli tremavano le gambe: vuole dare lei il primo ciak mister Welles? "No, it' s up to you"», racconta Enrico. Ancora, Amori miei, con Monica Vitti, insieme a Franca Valeri l'attrice che amava di più, ricorda ancora Enrico, «perché sapevano far ridere».
Oltre a ripercorrere la carriera sconfinata del cineasta scomparso nel 1988, il documentario si sofferma sulla personalità e sul privato del regista schivo, che si stupiva quando gli chiedevano l'autografo.
A raccontarlo, oltre a un commosso e commovente Enrico Vanzina, che ha consegnato preziosi materiali, foto e video di famiglia, attori e registi, da Giuseppe Tornatore che lo intervistò e ricevette preziosi consigli, a Claudio Amendola, Eleonora Giorgi, Lino Banfi, Diego Abatantuono, Neri Parenti, Giovanna Ralli, Teo Teocoli, Massimo Ranieri e altri.
«Guardando il film una parte del pubblico scoprirà che tanti film diversi che hanno amato appartengono a Steno. E scoprirà la cultura larga - grande conoscitore di musica e letteratura -, un modo di vivere e pensare che caratterizzava la famiglia Vanzina e che Carlo e Enrico hanno ereditato».
Quella di Stefano Vanzina è una storia personale inedita per il grande pubblico, dall'infanzia povera, orfano di padre a 15 anni, agli esordi duri, determinazione e serietà accompagnate a «una gentilezza ed educazione d'altri tempi che poi è stata disintegrata nella contemporaneità» racconta Caterina D'Amico. Un'eleganza fatta di giacche di tweed con cravatte assortite, baffetti curati, capelli lisciati dalla brillantina, la corporatura «esile ma con un'autorevolezza che lo rendeva un gigante, quando s' arrabbiava era incredibile, e anche un po' comico», ride Claudio Amendola.
«I suoi amori erano il cinema e la famiglia, gli amici - racconta Rago - Era un uomo gentile e riservato, sempre un passo indietro malgrado fosse uno dei più grandi registi italiani ». Si ripercorre il grande amore con la bella e volitiva moglie, Maria Teresa Nati, ma anche i dolori e la malattia di lei, il cui racconto porta le lacrime agli occhi di Enrico.
«Quando ha rivisto il film si è commosso - rivela l'autore del documentario - l'unica cosa che mi ha chiesto è stata di aggiungere un video in cui ci fosse Carlo. Il film è anche un omaggio a lui, così simile al padre per cultura e carattere». Emoziona il ricordo, di Marco Risi ed Enrico Vanzina, della morte di Steno: Risi racconta che papà Dino andò dai ragazzi a dire loro che ci sarebbe sempre stato. Il documentario racconta di una schiera di ragazzini figli di registi cresciuti insieme, perché allora il cinema italiano era fatto di una comunità solidale e creativa. Giuseppe Tornatore sottolinea come il cinema di Steno, «divertente e popolare, nascondeva elementi beffardi, un'ironia acuta, un sarcasmo non vago ma riferito al nostro contesto storico, capace di innescare elementi di riflessione critica sul costume nazionale ».
Per Rago, dietro a un'apparente leggerezza c'era «la capacità di lettura della società e la voglia di raccontare il proprio Paese in tutti gli aspetti. Il pubblico si identificava nei suoi film, in quelli di quella generazione di cineasti, perché sentiva che amavano profondamente il Paese, si sentivano partecipi nella costruzione del racconto dell'Italia. Anche quando Totò mette alla berlina l'esercito sconfitto si percepisce un amore verso una nazione che usciva dal fascismo e da una guerra sbagliata e persa».
Enrico Vanzina: «Quella generazione di registi è stata temprata dalle grandi difficoltà, erano giovani pieni di grandi slanci politici, c'erano discussioni, litigate: cercavano di immaginare un futuro, e questo li ha resi migliori».
· 33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.
Estratto dell’articolo di Paolo Travisi per “il Messaggero” il 21 agosto 2022.
Tzè tzè. Bastano due semplici versi per identificare uno dei comici più popolari degli Anni 80. Per tutti, Bombolo, morto 35 anni fa: il 21 agosto 1987. Romano di via Monte Giordano, all'anagrafe Franco Lechner, cognome asburgico, di cui non voleva conoscere le origini. «Forse è un cognome nobile e mio padre ogni tanto ci diceva di voler andare in Austria a vedere l'albero ginecologico, noi lo correggevamo, poi ci ripensava e diceva meglio di no, altrimenti mi trovo pieno di buffi», racconta Stefania Lechner, seconda figlia di Bombolo, nata - con Daniela e Alessandro - dal matrimonio con l'unico amore della sua vita, Reggina Abbatiello.
[…] chissà in quanti sanno che il suo Tzè, tzè, suo cavallo di battaglia, nasceva da un difetto di pronuncia. «Papà aveva la zeppola, e parlava naturalmente così», spiega Stefania. Bombolo cresce nella Roma poverissima del Dopoguerra, dove lavorava come ambulante nel centro storico. «Mio nonno faceva il peracottaro, vendeva le pere cotte. Mio padre piatti, bicchieri e gli ombrelli d'inverno e le sdraio d'estate. Così ha mantenuto tutti noi», aggiunge Stefania Lechner.
«La svolta c'è stata da Picchiottino, l'osteria vicino a casa che diventava il suo palcoscenico. È proprio lì che nacque il personaggio di Bombolo, che non è un nome d'arte. Da ragazzino era cicciottello e tutti lo chiamavano così, mai Franco». A scoprirlo negli Anni Settanta, lì, Castellacci e Pingitore: lo videro e gli proposero il Bagaglino, dove iniziò a lavorare nove mesi l'anno con tre spettacoli al giorno. «Papà aveva 40 anni, non voleva fare l'attore. Fu mia madre a dirgli, mica lasci un lavoro fisso, se va male riprendi il carrettino». […] Bruno Corbucci, lo vide a teatro ed iniziò il sodalizio con Tomas Milian […]
· 33 anni dalla morte di Olga Villi.
Le magie di Olga Villi: guardiana di oche, poi sartina, indossatrice e famosa attrice. Ottavia Casagrande su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.
Sposò il principe Raimondo Lanza di Trabia che morì pochi mesi dopo il matrimonio.
Sul finire degli anni Trenta, nella portineria del Corriere della Sera, una ragazza timida aspetta. Alta, bella e giovanissima attende Bruno Fallaci, caporedattore dell’edizione pomeridiana. Nella Milano bigotta di allora, quella relazione con una ragazzina non ancora diciottenne dà scandalo e rischia di compromettergli la carriera. Del resto, Bruno sa bene di non poter legare a sé — ormai prossimo alla cinquantina — una donna così giovane. Decide quindi di sperimentare con lei il ruolo di Pigmalione, mettendosi in testa di incoraggiarne una segreta vocazione teatrale. Le impartisce qualche rudimento di recitazione. All’amico e storica firma del Corriere, Orio Vergani, che già le aveva insegnato a nuotare, affida l’educazione musicale. Dopo averle trovato la prima scrittura, la lascia libera, i due amanti si separano. Bisogna riconoscere a Bruno Fallaci un certo qual talento da Pigmalione: fu il primo maestro di scrittura della nipote Oriana e nemmeno le lezioni impartite a quella ragazza sono andate sprecate.
La carriera
Quella ragazza era Olga Villi, mia nonna. Olga nacque Villani il 20 Luglio 1922 a Suzzara. Sua madre, Roma, era sfollata in quel di Mantova a seguito dell’ennesima esondazione del Po. Il padre era ignoto. Da bambina, scalza, portava le oche a becchettare lungo gli argini delle rogge. Appena adolescente, inizia a lavorare come sartina — piscinina si diceva allora a Milano — dalla Biki, la couturière più in voga dell’epoca, madre di tutti i moderni stilisti meneghini. Cuciva i vestiti delle signore della buona società, delle cantanti della Scala. A quindici anni si trasforma, si allunga, si sfina. Da sarta viene promossa a indossatrice. «Il mio levriero» la chiama affettuosamente la Biki, il cui soprannome era stato coniato a sua volta da D’Annunzio. Tuttavia, alla prima scrittura Olga, oltre a Bruno, lascia anche la moda. Vuole dedicarsi al teatro. Debutta nel varietà a fianco di Erminio Macario, Nino Taranto e Anna Magnani. Rapidamente passa alla prosa. La prima scrittura è ne La quinta colonna di Hemingway, per la regia di Luchino Visconti. Poi entra in compagnia con Renata Morelli e Paolo Stoppa, in seguito con Gino Cervi. Recita Anouilh, Shakespeare, Williams, Pirandello. Olga guarda tutto, assorbe tutto. Osserva e, come aveva già dimostrato con Bruno, impara velocemente. Le lezioni impartitele da Orio Vergani le tornano utili quando nel 1966 si trova a duettare con Marcello Mastroianni, Raffaella Carrà e Ilaria Occhini in Ciao Rudy, il musical di Garinei e Giovannini, con musiche di Armando Trovajoli, ispirato alla vita di Rodolfo Valentino.
Sebbene di temperamento brillante, resta memorabile la sua Clitemnestra al Teatro Greco di Siracusa nell’Agamennone diretto da Vittorio Gassman e tradotto da Pasolini. Prolifica la collaborazione con lo Stabile di Genova di Ivo Chiesa. Lunghissimo l’elenco delle commedie brillanti accanto ad Aroldo Tieri ed Ernesto Calindri, quando il teatro in Italia scoppiava di salute e di spettatori, le compagnie erano di venti, trenta attori e giravano la penisola da settembre a giugno. Olga affronta anche la televisione — sceneggiati, caroselli — e il cinema. Vince un Nastro d’argento per l’interpretazione di Ippolita Gasparini in Signore e signori di Pietro Germi, con Virna Lisi e Gastone Moschin. Con Ugo Tognazzi interpreta Il fischio al naso, tratto da Buzzati. Con Totò recita in Totò e le donne e Yvonne La Nuit, una commedia struggente che vede il comico in uno dei rari ruoli drammatici della sua carriera. Il teatro tuttavia rimane il suo destino. A quanto pare, il viso spigoloso e il naso affilato non prendono bene la luce e non sono adatti al cinema. Il suo marchio di fabbrica restano la falcata elegante, il passo lungo ed elastico, che combinati con «le gambe più belle d’Italia», la rendono unica e inimitabile.
Il matrimonio
Nel 1954 sposa Raimondo Lanza di Trabia, eccentrico aristocratico siciliano, creatore del calciomercato, immortalato da Modugno nella canzone Vecchio frac. Spettatori, critici e rivali si aspettano che Olga smetta di lavorare e si rassegni a una vita da principessa. Quando mai! Raimondo è costretto a partire in viaggio di nozze da solo, perché Olga non ha nessuna intenzione di rinunciare alle sue tournée. Lungi dal disperarsi, era piuttosto orgoglioso di essere il primo uomo ad aver trascorso la luna di miele in solitaria. Quando neanche dieci mesi dopo il matrimonio morì in circostanze misteriose, cadendo da una finestra dell’Hotel Eden di Roma, Olga si trovava a Milano. Aveva appena terminato di registrare uno sceneggiato e iniziava le prove di un nuovo spettacolo. Naturalmente corse nella Capitale, ma era troppo tardi. Era incinta e non lo sapeva. Qualche mese più tardi nacque mia madre, Raimonda, che non avrebbe mai conosciuto suo padre. Quando con mia madre iniziammo le ricerche per Mi toccherà ballare (Feltrinelli 2014), la biografia su Raimondo, la prima persona che intervistammo fu Gerlando Micciché. La scelta era ovvia, anzi obbligata. Gerlando, vicedirettore del Banco di Sicilia, oltre a essere un’incontestabile autorità circa fatti e intrecci siciliani, aveva conosciuto di persona tutti i protagonisti del libro che ci accingevamo a scrivere. Sul finire del colloquio, scosse il capo: «Voi non dovreste scrivere la vita di Raimondo. Voi dovreste scrivere la vita di Olga». Gerlando era sentimentale e amava l’Italia del futuro, delle possibilità, delle occasioni. Il Paese nel quale era stato giovane: un Paese in grado di riscattarsi attraverso il lavoro e attraverso le rivincite del progresso. Parlo dell’Italia del dopoguerra, naturalmente. Lo stesso Paese in cui una guardiana di oche poverissima poteva diventare una sofisticata mannequin prima e attrice famosa poi; dove una giovane donna, figlia di N/N, poteva sposare un principe affascinante e scapestrato e, vedova dopo appena nove mesi, riusciva a ricostruirsi una vita con due figlie a carico, senza smettere di perseguire la propria passione, il teatro.
· 32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
Prefazione di Ricky Tognazzi alla riedizione del libro di suo padre Ugo, “Il rigettario” (ed. Rizzoli), pubblicato dal “Fatto quotidiano” il 22 novembre 2022.
Nel corso di tutta la sua straordinaria esistenza, papà ha sempre utilizzato la cucina per nutrire chi aveva accanto, la famiglia, gli amici di sempre, i colleghi vecchi e nuovi, per sedurre i produttori, le mogli, le amanti, in un unico gesto d'amore, un rituale autentico che diventava espressione della sua accoglienza e del suo desiderio di convivialità, il suo teatro. Il cinema gli aveva dato tanto: successo, soldi, popolarità, ma gli mancava l'applauso a scena aperta, l'emozione di esibirsi dal vivo.
Sopportava le critiche più feroci all'ultimo film, ma era del tutto intollerante ai giudizi negativi sulla sua ribollita, anche perché era finalmente riuscito a coltivare il cavolo nero nel suo orto. Ugo, infatti, era un papà a chilometro zero, che coltivava le sue meraviglie nell'orto di Velletri. Vino, olio, uova, galline, oche, papere, Gigetto il maiale, frutta e verdura, tutto mantenuto con l'acqua di un pozzo. (...) Lo chiamavamo "il matriarca": "Non potendo allattare i miei figli, io cucino per loro" diceva, fiero.
Così la cucina era un modo per diventare proprio quel cibo che gli altri avrebbero dovuto mangiare: Ugo insieme al cibo donava se stesso, in un rito quasi religioso. Quando a Velletri, durante i fine settimana, noi figli scendevamo assonnati e affamati in tarda mattinata, lui era già sveglio dall'alba e alle undici aveva già divorato i quotidiani, messo a bollire i sughi e a marinare le aringhe per Thomas, il fratello norvegese.
E mentre ci faceva la rassegna stampa, distribuiva le cipolle da affettare, i pomodori da passare, il brodo da filtrare. Era un autodidatta con grandi competenze professionali, la sua estrosità era infinita e non poteva che provare a raccoglierla in diversi libri di ricette. Tentando di mantenere quasi un'agenda della sua arte culinaria, ecco che faceva pubblicare i libri, ma non bastavano mai. Il rigettario è il secondo dei suoi quattro volumi di cucina. Il quinto, quello che non è riuscito a finire, era un ambizioso dizionario gastronomico, che includeva un inventario degli utensili e degli attrezzi di cui disponeva a casa e di quelli che disgraziatamente gli manca vano.
Tra i primissimi compariva "l'ago in osso di cavallo", che serviva a testare la stagiona tura del maiale: lo "spillatore" annusava il prosciutto con l'osso della tibia del cavallo. Una procedura da esperti, antichissima, che Ugo non poteva certo disconoscere. Insomma, un uomo che non si è mai accontentato solo di mangiare, ma che ha voluto esplorare l'intero universo della cucina, portando con sé tutto ciò che aveva visto e sperimentato nel mondo: è così che è riuscito a cucinare persino una ventresca di balena o una coscia di ippopotamo, certo in tempi diversi da questi, quando non saresti incorso nelle ire della legge e di chi, con il buonsenso di oggi, ha imposto delle regole per proteggere flora e fauna.
Un'estate a Torvajanica papà portò in tavola il famoso pesce finto, una scultura a forma di pesce, appunto, composta da un impasto di patate, maionese, capperi e - naturalmente - il tonno. Un piatto semplice, delizioso ed economico che papà preparava come antipasto quando gli ospiti erano in esubero. Il piatto era squisito, solo ogni tanto ci si ritrovava tra i denti qualche anomalo ossicino. Incrociai lo sguardo di Ugo, che mi fece cenno di seguirlo in cucina mentre gli ospiti si cibavano beatamente del pesce finto. Si aggirava per la dispensa piena di scatolame dannandosi e dicendo tra sé: "Come ho potuto? Potremmo morire tutti!
Avvelenati!". "Come è possibile?" "Ho usato il cibo per i gatti. " Strabuzzai gli occhi nella speranza di vomitare ciò che avevo appena ingerito. A quel punto minimizzò: "Ricky, i nostri gatti sono sanissimi e grassi. Quindi questo cibo è commestibile anche per noi". Ma dopo pochi secondi Carmina, la sua straordinaria assistente ciociara, che ci aveva cresciuto, ritirò il pesce finto dalla tavola mentre gli ospiti protestavano: "No, ancora, ancora!". Ma Ugo disse: "Lo diamo ai gatti!".
Quindi geniale, sperimentale, poliedrico, innovatore. Le sue ricette, dai titoli quasi cinematografici: Il risotto al blu di metilene, Le farfalle fucsia, Le tagliatelle alle nocciole, Il risotto prosciutto e melone, Le costolette alla Mao, La Checca sul rogo, La spigola al cartoccio con funghi porcini e chi più ne ha più ne metta, vengono ancora cucinate dalla famiglia, dai suoi amici ristoratori tra i quali eccelle Benito Morelli, di Benito al Bosco a Velletri e, in occasione dei suoi anniversari, a Cremona gran parte dei ristoranti offre ricette di Tognazzi.
Il titolo Il rigettario nasce dalla filosofia del rigetto, come spiega Ugo nella sua prefazione: il rifiuto cioè di tutto ciò che è convenzionale, il suo anticonformismo non solo applicato alle scelte coraggiose nel suo lavoro, ma anche alla sua cucina. (...) Ha scritto que sto libro a Quiberon, in una lussuosissima clinica per dimagrire, che non sacrificava al dimagrimento l'esigenza gastronomica: medaglioni di aragosta, gamberi crudi, caviale, ostriche vive. Era partito insieme all'amico di sempre, il regista della Grande abbuffata (1973), Marco Ferreri, perché anche per perdere peso, pur salvando il palato, Ugo aveva bisogno di un complice. E proprio lì è nato il libro più colorato, più gustoso, più succoso e più invitante che si potesse scrivere durante una dieta.
Tognazzi l’irregolare: da repubblichino di Salò, a “capo delle Br” fino al Partito Radicale. Censurato in tv con Vianello, in un’intervista con Pippo Baudo appoggiò le battaglie di Marco Pannella. Valter Vecellio su Il Dubbio il 15 novembre 2022.
Ugo Tognazzi: il suo primo vagito cent’anni fa, in quella Cremona famosa per il suo “Torrazzo”, i torroni, le mostarde, Stradivari; e per essere stata la città di Roberto Farinacci, uno dei “duri” del fascismo. Un giovanissimo Ugo, come molti (Giorgio Albertazzi, Walter Chiari, Dario Fo, Marcello Mastroianni, Enrico Maria Salerno, Raimondo Vianello, per dire dei primi che vengono in mente), aderisce alla Repubblica di Salò. Capita da giovani di fare sciocchezze (spesso anche “dopo”). Certo provarlo a immaginare l’Ugo in orbace fa lo stesso effetto, comico e patetico, di Primo Arcovazzi, il protagonista de Il Federale di Luciano Salce; chissà cosa a pensa mentre gira quel film… Non solo attore. Tognazzi è stato anche non disprezzabile regista, sceneggiatore teatrale, cinematografico, televisivo. Con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, un pokerissimo del cinema italiano. Ci lascia presto: 68 anni appena…, il 27 ottobre 1990.
Giustamente lo si ricorda con Vianello, coppia di grande successo che dal 1954 al 1960 lavora per la neonata Rai Tv; e per tanti film: con Alberto Bevilacqua (La Califfa, 1971; Questa specie d’amore, 1972); con Bernardo Bertolucci ( La tragedia di un uomo ridicolo, 1981, gli vale la Palma d’Oro al Festival di Cannes). Ancora: La marcia su Roma ( 1962) di Dino Risi; il citato Il federale ( 1961) di Salce; la trilogia Amici miei ( 1975, 1982, 1985), e Il Vizietto ( 1978, 1980, 1985); Molti i film da regista: Il mantenuto, 1961; Il fischio al naso, 1966; Sissignore, 1968; Cattivi pensieri, 1976; I viaggiatori della sera, 1979). Il tanto teatro: da I Sei personaggi in cerca d’autore, a L’avaro, e M. Butterfly.
La dice lunga, sui tempi che sono appena “ieri”, la censura televisiva subita quando, il 25 giugno del 1959, con Vianello mette in burla l’incidente capitato la sera prima alla Scala di Milano, taciuto dai giornali: il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi vuol essere galante con una signora, e cade rovinosamente a terra per la sottrazione della sedia, sotto lo sguardo di un divertito Charles De Gaulle. Tognazzi e Vianello ripetono la scena in tv: Vianello toglie la sedia a Tognazzi, che cade; Vianello gli grida: ‘ Chi ti credi di essere?’. La sera stessa la trasmissione è cancellata, cacciato il direttore della sede di Milano.
Vent’anni dopo, nel 1979, Tognazzi prende parte a uno dei più clamorosi ‘ scherzi’ mediatici: si fa fotografare ammanettato da finti poliziotti. Lo sberleffo è organizzato dal settimanale satirico Il Male: tre finte edizioni de Il Giorno, La Stampa, Paese Sera, titoli cubitali annunciano l’arresto dell’attore in quanto ‘ grande vecchio’ delle Brigate Rosse. Della ‘ Direzione strategica’ fa parte anche Vianello. L’ispettore di polizia è ‘ interpretato’ da un serissimo Sergio Saviane; Vincino, geniale disegnatore morto troppo presto, è uno dei poliziotti che ‘ arrestano’ Tognazzi.
C’è poi l’intervista- sberleffo in diretta tv a un Pippo Baudo che quasi sviene: Tognazzi auspica la liberalizzazione della marijuana; denuncia lo scandalo dell’interminabile detenzione di Toni Negri; infine si pronuncia per la legalizzazione della prostituzione.
Una cosa non viene ricordata: la sua iscrizione al Partito Radicale. È il 1986. Il partito è allo stremo; chiede a chi crede nelle battaglie che conduce, di iscriversi. Accorrono dalla Francia Eugène Ionesco e Marek Halter; poi Lindsay Kemp, Michele Pantaleone, che apre una sezione radicale nella sua Villalba, cuore di una Sicilia ancora appestata di Cosa nostra; si iscrive Sandra Mondaini, che d’ufficio ‘ arruola’ il marito Vianello. Tra i tantissimi anche Tognazzi. Al riguardo, un aneddoto divertente: si iscrivono anche Vincenzo Andraous, Cesare Chiti e Giuseppe Piromalli: ergastolani che hanno praticamente infranto tutti i reati possibili contemplati nel codice penale.
Iscrizioni ‘ imbarazzanti‘ per tutti, non per Pannella che anzi le strombazza ai quattro venti. Qualche giornale pubblica la loro fotografia assieme a quella di Tognazzi; lui si adonta per l’accostamento, minaccia sfracelli, gli fai il nome di Pannella e partono raffiche di invettive e anatemi. Come finisce la storia? L’arrabbiatura dura una settimana; poi Tognazzi si ri-iscrive, con tutta la famiglia… Ecco: Tognazzi è stato anche questo.
Luciano Di Bacco per Dagospia il 30 Agosto 2022.
Lucilla Quaglia per “Il Messaggero – Edizione Roma” il 30 Agosto 2022.
La kermesse dedicata al centenario di Ugo Tognazzi volge al termine, con un grande successo di pubblico e vip. Ieri sera, sulla piazza Ungheria di Torvaianica, di fronte ad un'incantata e coinvolta platea di amici, artisti e attori, si è conclusa la parte cinematografica. Una chiusura in grande stile.
Sul palco sale la bellissima Violante Placido: presenta il suo videoclip Tu stai bene con me, che riprende il film di Marco Ferreri La donna scimmia ed è girato con il compagno e regista Massimiliano D'Epiro. «La storia del riscatto di una donna dice la Placido che non rispecchia i canoni estetici tradizionali ma si accetta come è e trova anche l'amore». Ed è un successo.
Come il film I cassamortari di Claudio Amendola, presentato poco dopo. Il regista si collega in diretta con il festival ringraziando la piazza e gli organizzatori, che gli assegnano il premio alla carriera cinematografica: ovvero una bella scultura in legno di Ferdinando Codognotto, grande artista e amico di Ugo. Da segnalare, sempre nel cast del film di Amendola, Massimo Ghini: a lui va invece il premio I mostri, proprio come il celebre titolo.
Nel corso di un video messaggio l'attore romano spiega, dopo aver citato la storica supercazzola del mattatore in celebrazione, che è assente perché impegnato con un nuovo lavoro in cui interpreta un vampiro. Poi racconta la sua esperienza sul set con Ugo nella pellicola La battaglia dei tre tamburi di fuoco. La platea gradisce e applaude.
Si riconoscono Ricky, Gianmarco e Maria Sole Tognazzi. Tutti molto colpiti dai ricordi degli attori. Arrivano a sorpresa, gli attori Iaia Forte e Tommaso Ragno. Il Premio Città di Torvaianica, infine, va all'attrice Simona Patitucci.
Ma le celebrazioni di 100% Ugo non si fermano qui. Oggi parte il torneo di padel La padella d'oro che si concluderà domani. Trenta giocatori vip si contenderanno la padella d'oro: rievocazione dello storico scolapasta, ambitissimo premio dei tornei di tennis organizzati dall'interprete de La voglia matta.
Questa sera inoltre Michele Placido ritirerà il premio scultura Dallo scolapasta al padel, firmato Codognotto, mentre sosterranno i giocatori dalla tribuna anche Michela Andreozzi e Patrizia Pellegrino. Scenderanno in campo, tra i tanti, Massimiliano Vado, Dino Abbrescia, Roberto Ciufoli, Antonio Giuliani, Giorgio Borghetti, Max Giusti e Marco Bonini. E che vinca il migliore.
Lu.Qua. per “Il Messaggero – Edizione Roma” il 30 Agosto 2022.
Ricordi e gare. Le celebrazioni di 100% Ugo si chiudono con allori eccellenti e una notevole manifestazione agonistica. Il grande regista e attore Michele Placido ritira il premio scultura Dallo scolapasta al padel, firmato dal celebre scultore del legno Ferdinando Codognotto, tra il plauso in primis della famiglia Tognazzi. Per l'occasione quasi al completo.
Si prosegue a suon di sport con la due giorni del torneo di padel che si è conclusa ieri sera sui campi di Torvaianica. Trenta giocatori vip si sono contesi la padella d'oro: mitica rievocazione dello storico scolapasta, ambitissimo premio dei tornei di tennis organizzati dall'interprete de La voglia matta. E come si conviene, non mancano le presenze femminili glam lungo gli spalti.
Ed ecco fare il tifo per gli atletici e famosi giocatori anche Patrizia Pellegrino e Emanuela Tittocchia, in corto abito fucsia. Sono scesi in campo, tra i tanti, Jimmy Ghione, Massimiliano Vado, Marco Risi, Leonardo Metalli, Dino Abbrescia, Roberto Ciufoli ma anche Dario Bandiera, Antonio Giuliani, Simone Colombari, Stefano Natale, Andrea Rivera, Giampaolo Gherarducci, Max Giusti e ancora Manuele Labate, Marco Bonini, Gianmarco Tognazzi, Giulio Base, Padraig O'Broin, parente della famiglia Tognazzi, Edoardo Siravo, Edoardo Bettoja, Marco Aceti, Andrea Delli Colli, Marco Minetti e il giornalista Pierluigi Pardo.
La lotta è stata davvero serrata. La prima giornata è vinta dal duo Jimmy Ghione e Padraig O'Broin. Tra i favoriti del secondo round Max Giusti e l'attore Simone Colombari. Conduzione a cura di Fabrizio Sabatucci. A sorpresa appare il regista Riccardo Milani: arriva tra gli spalti e riceve il premio Romanzo popolare, che non aveva ritirato giorni fa. Ecco Massimo Ghini. Dinner buffet nel corso del torneo a base di cous cous, lasagne, formaggi, melanzane, bollicine.
Cento anni fa la nascita. Chi era Ugo Tognazzi, grande attore che abbiamo dimenticato. Fulvio Abbate su Il Riformista il 23 Marzo 2022.
Ugo Tognazzi, cento anni adesso, esatto coetaneo di Pier Paolo Pasolini, che lo volle in Porcile, film allegorico sul potere. Per lungo tempo il suo talento non mi ha sfiorato. Invisibile, ai miei occhi inizialmente distratti, la straordinaria, immensa, sempre sua, capacità di restituire una recitazione priva di retorica, asciutta, pura misura, ora dolente ora rassegnata, sarcasmo nel fondo dello sguardo; se stesso. Colpa o merito, forse, di un dato, come dire, geografico, antropologico.
Tognazzi, tra i “colonnelli” della cinematografica commedia all’italiana – Sordi, Gassman, Manfredi, Mastroianni, e la Vitti insieme a loro – Tognazzi restituiva infatti altri campanili, lontani da Roma, da Cinecittà e i suoi “cestini” destinati alla caciara dei set, da certa koinè che suscita complicità retorica capitolina, in grado di restituire empatia meridionale immediata. Per lui occorreva figurarsi Cremona, lo stesso luogo di Mina; il Nord, la Pianura Padana, la nebbia, i portici, le biciclette.
Così finché non mi è venuto incontro insieme a un film di Marco Ferreri, un regista cui Tognazzi molto ha dato e dal quale altrettanto ha ricevuto. Esattamente era L’udienza (1972), dove Tognazzi interpreta un commissario di pubblica sicurezza presso la Città del Vaticano. Ne ho compreso la grandezza espressiva, essenziale, immediata per un gesto minimo, asciutto e insieme significante: spezzare le noci sul tavolo della cucina con un manganello, proprio lo sfollagente in dotazione alla Celere.
Ugo Tognazzi, storia nota, giunge alle scene dalla scuola del varietà, autodidatta, nessuna accademia, solo il suo talento, l’indole, la voglia matta, così come un film a venire, di chiudere con il ricordo della guerra, consegnarsi a una professione ludica, poi, come bagaglio somatico, mimico, un volto, una faccia all’apparenza anonima, da assicuratore, come già suo padre. Dapprima in coppia con Raimondo Vianello nella finestrella televisiva in bianco e nero dei primissimi anni Sessanta. Che piccino scandalo lo sketch dove ironizzavano sul presidente della Repubblica, Gronchi, caduto dalla sedia durante un ricevimento ufficiale con De Gaulle, oppure quell’altro, comicamente irrefrenabile, del tronco d’albero dal quale si ricava un solo stuzzicadenti, il “troncio” dell’immaginaria Val Clavicola. E commediole da visione pomeridiana tra porta carraia, garitta e pontile di Capitaneria, come Marinai, donne e guai, così nel 1958, o sempre lui in divisa fante o da pompiere insieme a Walter Chiari, altro immenso autodidatta. La pellicola che lo ha reso però popolare, prossimo al pubblico, è Il federale di Luciano Salce, commedia dolce-amara, anno 1961, dove si racconta il passato ancora prossimo del fascismo, Tognazzi sul sidecar: “… buca, buca, sasso, buca con acqua, buca con fango”. Tognazzi antieroe, i tratti del volto declinanti, l’aria tra bastonato e scafato, o magari più semplicemente scettico.
Troneggia ancora nel personaggio di Gigi Baggini – “… facce er treno!” – in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, del 1965, semplice cameo che in verità diventa una struggente Iliade degli sconfitti, del cinismo crudele altrui. O la straordinaria prestazione ne I mostri, dove è Enea Guarnacci, derelitto impresario di pugili altrettanto anime morte, tra rimpianto dei ring di quartiere e la spiaggia di Ladispoli. Struggente e immenso nel finale accanto a Vittorio Gassman-Artemio Altidori ormai in sedia rotelle, Enea gli gira intorno con un aquilone, pochi passi appena; stenografia gestuale del dolore e del disincanto. Poi le vette di un cinema paradossale, grottesco, forse anche metafisico, così torna al Marco Ferreri di La donna scimmia insieme a una barbuta Annie Girardot: eccoli nei vicoli di Napoli mentre intonano “La novia”, un brano di quei giorni, nella crudeltà del paradosso. Impossibile da dimenticare ancora ne La marcia su Roma, nuovamente accanto a Vittorio Gassman. Tognazzi, in parte si è già detto, è forse stato l’unico grande interprete del nostro cinema a concedere se stesso a una filmografia “concettuale”, proprio con l’esperienza che lo mostra complice, maschera, feticcio, volto di Marco Ferreri; così come Marcello M. lo è stato di Federico F.
Neppure bisognerà dimenticare il suo contributo alla commedia “civile”, è il caso di In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi, film ultimativo di un genere già a colori, o l’inenarrabile parodia del golpe Borghese, Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli, e Romanzo popolare dell’anno successivo, un piccolo capolavoro. Oppure tornando indietro La vita agra dal romanzo di Luciano Bianciardi. Bisogna però pensare a La grande abbuffata per registrare il suo unicum espressivo, ancora Marco Ferreri. Peccato, che per molti Tognazzi sia soprattutto il conte Mascetti a Amici miei, il tormentone della “supercazzola”, entrato perfino nel lessico giornalistico e da baretto, film che lo stesso Monicelli, dopo averlo ereditato da Germi, riteneva non meritevole di del successo popolare ottenuto. Tognazzi si racconta da regista nel cupo I viaggiatori della sera (1979), di cui l’amico Raimondo Vianello disse: “L’abbiamo visto soltanto io e lui”. E ancora, tra i successi al botteghino, la commedia Il vizietto (1978), pessima traduzione del titolo originale francese, La cage aux folles. E stavo dimenticando, restando nella metafisica kafkiana, un piccolo gioiello come Il fischio al naso tratto da Dino Buzzati. Oppure La terrazza di Ettore Scola, Casotto di Sergio Citti… Infine I nuovi mostri (1977), dove Tognazzi nell’episodio “Hostaria!” è un cuoco gay, irresistibile la sequenza della lite in cucina con il fidanzato “bujaccaro” interpretato Vittorio Gassman, tra improperi – “ma vada via il cul…” – e colpi di mattarello, apologo d’amor omosessuale avanti lettera in un contesto di popolo inenarrabile davanti al menu che innalza la “pasta alla porcara”. Lo rammentiamo poi in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi, nel ruolo del sarto muto Umberto Ciceri, una grande prova di mimica.
Nell’ideale cinemondo che altrettanto accompagna la sua avventura pubblica e insieme privata vive invece nell’età dell’oro mondano del “Villaggio Tognazzi”, laggiù a Torvaianica: i tornei di tennis, il trofeo dello Scolapasta d’oro, le gare ciclistiche; i suoi ragazzi, Ricky, Gianmarco, Thomas, Maria Sole quando raccontano papà sempre lo chiamano “Ugo”, i colleghi amici, Luciano Salce, Paolo Villaggio, Monicelli… Perfino la volta in cui si rese complice dei “compagni” del giornale satirico “Il Male” che titolò “Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate rosse!” con tanto di foto del suo presunto arresto con Sergio Saviane nella parte del commissario e Vincino in divisa di carabiniere a trattenerlo, Tognazzi portato via dalla sua cucina, ancora addosso la parannanza. Qualcuno credette davvero che quelle false prime pagine esposte nelle edicole corrispondessero al vero. La sua passione per cucina coltivata nella casa di Velletri di cui prosaicamente si narra altrettanto sempre, che trova la sua summa editoriale in una raccolta di pietanze, “Il Rigettario”, ogni menù disegnato da lui stesso con i pennarelli colorati. Ricky, nello straordinario documentario che gli ha appena dedicato, ne racconta i giorni dolenti, gli ultimi, la depressione, la sensazione che il mondo del lavoro cinematografico si fosse dimenticato di lui, rimosso. Poco prima di lasciarci a soli 68 anni nell’ottobre del 1990. Lo ricordiamo seduto, immobile, silenzioso all’“Hemingway”, giorni romani, l’ultimo soffio di vita mondana conosciuta a Roma, nell’oro della pace serale dei tardi anni Ottanta, lui dolente nel brillio tutt’intorno. 100 anni oggi; Ugo, la storia del nostro cinema.
Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
Enrico Sisti per “la Repubblica - Roma” il 23 marzo 2022.
Un uomo particolare con una vita fatta di giornate particolari, un'altra gemma composita, viso, intonazioni, smorfie, degli anni in cui il cinema italiano era veramente l'isola dei giganti, comici nati comici, comici pescati nel drammatico, comici perché funzionava così, comici per il grande schermo, la televisione, la rivista, comici con una vena drammatica che li rendeva ancora più speciali.
Tognazzi era, in quello scenario, una specie di inviato dal nord sempre pronto a vivere in diretta e ad arricchire le battute e le ambientazioni in cui, fatalmente, prevaleva il romanesco dei suoi compagni di viaggio, da Vittorio Gassman, che poi era nato a Genova, a Nino Manfredi e Alberto Sordi. Quel Tognazzi così stilisticamente ancorato alla sua terra, scelse però di riposizionarsi qui da noi, a Velletri e a Torvajanica.
Sui colli crebbe la sua vita privata e sentimentale, lì divenne padre a ripetizione, lì aprì la villa alle feste. Sulla riva del mare esplorò la cucina con una vena di velleitarismo e di lucida consapevolezza: una gastronomia amata, la sua, discussa, a volte sbeffeggiata, sicuramente "usata", che ha portato alla deificazione controversa di un personaggio reale totalmente alternativo all'attore.
Sino alla creazione, quasi inevitabile, del celebre "Villaggio Tognazzi". Cremonese, tifoso del Milan, incapace di rispettare le regole e, nel contempo, incline a inventarne di nuove, Tognazzi fu l'unico a non prestarsi (come fece per esempio il Celentano attore) alla dominante lingua del cinema: il romanesco. Non per opposizione, ma per convenienza. I suoi personaggi, parlando quel " nordico" generico, tra lumbard e veneto, proponevano qualcosa di esotico che si incastrava a meraviglia nel contesto delle sceneggiature di Cinecittà e nel gramelot televisivo (pensate alla coppia Tognazzi- Vianello).
Tre esempi: in Io la conoscevo bene, l'attore fanfarone Biaggini si contrappone con la sua burbera calata settentrionale alla verace sostanza romanaccia del produttore Cianfanna (Manfredi). I personaggi erano Tognazzi, non il contrario. Il Mascetti di Amici miei chi era se non lui stesso, sfrontato, cinico, fatalista e spiritoso? Tognazzi avvicinava tra di loro le piccole produzioni e i film di maggior spessore, favorendo l'impressione che tra Totò nella luna e Romanzo popolare, tra Psycosissimo e L'udienza, tra I tromboni di Fra' Diavolo e La tragedia di un uomo ridicolo, tra Il federale ("buca buca con acqua!") e Il petomane non vi fosse alcuna differenza.
E sempre sul contrasto fra alto e basso, sull'armonia di dialetti diversi, puntava lo spettacolare Nell'anno del Signore di Magni, dove il Cardinal Rivarola/ Tognazzi è all'opposto di tutto, incluso il Papa che egli stesso serve. Epica la scena nella seconda metà del film. Scoperto che il ciabattino Cornacchia (Manfredi) non è analfabeta ma sa leggere e scrivere (è lui Pasquino!), a Roma comincia a circolare la voce e tutti mormorano: "Bono a sapesse!".
Ma il Cardinal Rivarola, ripreso in quel momento soltanto dal collo in su, scandendo la corretta pronuncia proprio con l'intenzione di sollevarsi dal misero e corrotto mondo della ribellione, non si adegua e dice: "Buono a sapersi!". Ecco: Tognazzi è questa ostinata, poetica diversità. Che tutti difesero. Perché era chiaramente una marcia in più. E non su Roma. Ma con Roma.
Ricky Tognazzi per “Specchio – La Stampa” l'1 agosto 2022.
Lo diceva Pasolini, «noi siamo quelli che hanno visto il mare», e quelli come me, poco più giovani di lui, nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta con il boom economico, ci siamo cresciuti al mare, noi che avevamo i piedi pizzicati dalle tracine di Torvajanica, di Ostia, di Fregene, noi che avevamo il mare vicino a Roma, quel mare trasparente che abbiamo visto solo noi, perché oggi i nostri figli, i nostri nipoti per vedere il mare, quello bello, che noi avevamo ad un passo da casa, devono andare in giro per il mondo, fare venti ore di volo, fino alle Maldive e trovare quei pesci meravigliosi che noi non abbiamo mai visto, perché avevamo le tracine, gli scorfani, le sardine, il pesce azzurro, le telline, le meduse grandi come torte nuziali che si spiaggiavano sulla battigia bianche e trasparenti e le infilzavamo come spiedini con i remi dei canotti, anche se erano innocue; questi pesci, anche se non c'era la barriera corallina, erano stupendi perché erano i nostri.
Biglie e vulcani Ho ancora nella mente il profumo di salsedine dei tre mesi di vacanza al mare, i nostri genitori, ci mollavano sulla battigia, che trasformavamo in cittadelle di piste per le biglie, con curve paraboliche solcate dal sedere dell'amichetto di turno trascinato per i piedi, i castelli diroccati dal passaggio distratto dei bagnanti e al tramonto, i vulcani di sabbia che non si accendevano mai; avevamo sempre un gran da fare sotto al sol leone e poi, di notte, le mani di mia madre che mi spalma sulla schiena paonazza quel miracoloso e soprattutto gelido unguento di bianco d'uovo e olio d'oliva.
Il bagnino abbronzatissimo, con la catena d'oro al collo, orgoglioso, mani sui fianchi, accanto al suo pattino rosso fiammante e le Kodak instamatic, con il rullino che non sviluppavi mai, ti rimaneva nel cassetto per tutta l'estate e, a volte, anche tutto l'inverno, finché un giorno non lo ritrovavi per caso, lo facevi sviluppare dal fotografo e riaffioravano i ricordi di una vita e mezza fa.
Poi i panini che si riempivano di sabbia, il cocco fresco, il ghiacciolo arcobaleno, lo jo jo, le battaglie di bombe d'acqua, i primi baci dietro alle cabine e quel senso di libertà che i nostri figli, e ancor di più i nostri nipoti, non hanno mai vissuto perché, i ragazzi, oggi, di libertà ne hanno fin troppa e bisogna tenerli al guinzaglio perché c'è il bullismo, c'è la droga e ci sono "gli uomini cattivi che ti portano via".
L'estate sembrava non finire mai, eppure gli amichetti più cari e le fidanzatine li conoscevi sempre troppo tardi, l'ultimo giorno, che avevi già le valige pronte per tornare a casa.
Meglio di Venezia Per me l'estate era papà, l'inverno era mamma, la scuola a Milano, poi in Inghilterra. Ma a giugno, mi dirigevo a Torvajanica, in quel posto magico, di fianco alla pineta della tenuta presidenziale dove è nato il Villaggio Tognazzi. Non perché quel luogo fosse di papà ma perché Ugo che, a quel posto, aveva letteralmente dato i natali. Lì, la famiglia si è allargata, è nato prima Gian Marco, poi Maria Sole, poi è arrivato il biondo Thomas dalla Norvegia, che aveva già otto anni, non sapevamo che fosse nostro fratello ma lo è diventato presto, nel modo più naturale possibile.
Durante l'estate sbocciava una vita diversa, prendeva forma un'altra quotidianità basata sull'amore di una famiglia aperta, priva di pregiudizi.
La mia estate, era anche il torneo di tennis, il mitico "Scolapasta d'oro" che era la risposta ironica e godereccia di Ugo alla banale e frugale "Insalatiera d'argento" della coppa Davis; perché il torneo, il tennis, erano il pretesto per aggregare gli amici, i colleghi, gli attori, i registi quasi tutti delle gran pippe a tennis ma era lo stesso, perché era sempre festa e la gente veniva soprattutto per mangiare i mitici spaghetti di papà, conoscere gente e ridere insieme; Michele Placido disse che era più facile trovare lavoro allo "Scolapasta d'oro" che al festival di Venezia, perché lì, a casa di papà, c'erano proprio tutti: Monicelli, Gassman, Salce, Pontecorvo, Pavarotti, Diletta D'Andrea, le gemelle Kessler; una volta vennero anche i Rolling Stones, che non giocarono a tennis e non mangiarono nemmeno gli spaghetti ma si fecero una canna in giardino.
Il colpo di scena Franca, organizzava tutto insieme a papà, Nazarena e Carmen, le sue due assistenti ciociare che lo aiutavano a fare queste enormi padellate di sughi, di cozze, di pesci innaffiati dal vino Velletrano che faceva lui, nel suo adorato vigneto. Sì, perché papà era bucolico, ma amava soprattutto le sorprese, i colpi di scena; alle premiazioni del torneo, arrivavano elefanti, ballerine, giocolieri, Philippe Leroy faceva il mangia fuoco, Anthony Quinn si esibiva con la sua frusta messicana, che una volta, per poco, non acceca Ugo, per spegnergli la sigaretta che aveva in bocca, e poi quella volta che chiamò quelli degli effetti speciali e fece nevicare ad Agosto.
Era veramente un'estate che più di così non potrei immaginare. Venticinque anni è durato quel delirio, poi papà se n'è andato ed è calato il sipario. Quest' anno che ricorre il suo centenario, celebriamo lui e la nostra estate con uno schermo sulla spiaggia dove proietteremo i film di Ugo, uno schermo in piazza con le commedie italiane più divertenti dell'anno e poi un torneo di padel. Una volta si giocava a tennis ed ora si gioca a padel, cambia il nome, è vero, ma il gioco più o meno è lo stesso: ci sono le racchette, che assomigliano a delle padelle e il mitico trofeo "Scolapasta d'oro" si è trasformato ne "La padella d'oro", l'occasione per giocare di nuovo tutti insieme.
Goffredo Fofi per “Avvenire” il 23 marzo 2022.
Tognazzi era cremonese, e ci teneva. Alle tre T che tradizionalmente caratterizzavano, nella Padania, quella città - Torre, Torrone e Tette - aggiungeva volentieri la sua, di Tognazzi.
Aveva esordito in tempo di guerra nel teatro di varietà, e si fece strada molto lentamente, più lentamente di altri comici, perché era di una verve diversa, meno esplicita ed esteriore, con qualcosa perfino di introverso. I suoi inizi cinematografici furono nel gruppo di comici minori, dialettali o semi- dialettali, cui ricorreva Mario Mattoli, maestro nei "telefoni bianchi" e nei "film che parlano al vostro cuore", capo-comico e regista tra i più acuti nello scoprire a teatro e portare nel cinema minore nuovi talenti (da De Sica a Totò, da Billi e Riva a Franchi e Ingrassia.
Fa, una lunga storia dimenticata). Oltre alla rivista, in teatro, fece coppia in cime dapprima con Raimondo Vianello, finché Luciano Salce non riuscì a imporlo con Il federale e La voglia matta, a fianco nel primo con un grande del teatro francese, Georges Wilson. Dopo di allora, tutto gli fu più facile, e diventò uno dei "colonnelli" della commedia all'italiana, pari a Mastroianni e Sordi e a Monica Vitti, e al meno simpatico, tuttavia assai bravo sia come attore che colme regista Nino Manfredi.
L'interpretazione che forse preferisco, delle tante, fu quella per Venga a prendere il caffè da noi, feroce commedia di vita provinciale scritta di Chiara e diretta da Lattuada: conteso tra tre sorelle, abile a costruirsi una sorta di grottesco harem.
Ma sono tanti i film che andrebbero ricordati, insieme ad alcune sue prerogative: sentirsi grande chef maestro di gastronomia; e accettare di buon grado di prender parte a strambe beffe politiche, come quando la rivista "Il Male", di estremismo comico di sinistra, lo indicò nel pieno del terrorismo come il «grande vecchio» a capo delle Brigate Rosse.
Ma voglio ricordare Tognazzi, grande attore e ottima persona, per un episodio che mi riguarda. Con Franca Faldini lo intervistammo per la nostra Avventurosa storia del cinema italiano, che lui volle presentare insieme a noi e a Mario Monicelli in una libreria romana, e in quel libro era raccolta la testimonianza di un attore che diceva di un certo produttore-regista che era il produttore più avaro e il regista più antipatico con cui avesse lavorato. Quel tale ci querelò e voleva un mucchio di soldi, una cifra assurda, ma Tognazzi lo seppe e, siccome avrebbe dovuto fare un film con quel tale, gli disse che se non calava la cresta quel film non lo avrebbe fatto. E quel tale ridusse le sue pretese a quasi niente (che gli dette la Faldini, ché io non ero proprio in grado). Caro, generoso, e bravissimo Tognazzi!
La voglia matta. Tognazzi, la commedia popolare e l’arte di sapere le cose anche se non sai di saperle. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
A cento anni dalla nascita dell’attore, arriva un documentario e torna la nostalgia fortissima di un cinema e di una cultura di cui ora non c’è più traccia
Il mio Tognazzi preferito è del 1981. Prima ancora di arrivare a Cannes, vincere come migliore attore per “La tragedia di un uomo ridicolo”, salire sul palco e chiedere se fosse uno scherzo, «se è uno scherzo mi suicido sulla Croisette con una forchetta, e ovviamente degli spaghetti». Tre mesi prima, Ugo Tognazzi era a Sanremo, nella prima giuria di qualità della storia del festival. Il presidente era Sergio Leone; ma, se avete un ricordo della sera in cui Cecchetto presenta la giuria, non può che essere un ricordo di Ugo Tognazzi.
Bisogna pensare a una tv che non era, tecnicamente, quella di oggi: niente telecamere a spalla, niente microfoni senza filo. Quindi, quando Cecchetto scende in platea a intervistare i giurati, il tutto è un po’ goffo: parlare col conduttore guardandolo in faccia e dando le spalle alla platea, o viceversa? A domanda, Cecchetto risponde: fai un po’ e un po’. Tognazzi, però, è Tognazzi: fa come gli pare.
E il suo come-gli-pare di quella sera è mollare lì Cecchetto e decidere di salire sul palco, dove si terrà la sua intervista. Se solo ci fosse una telecamera che lo segue, un filo abbastanza lungo, una tecnologia in grado di stargli dietro. È il Tognazzi che nella cucina dei “Nuovi mostri” lancia un pesce sulla collottola di Gassman sbottando «ma va’ a dar via il cü», però beneducato e benvestito.
Cecchetto esita un po’, poi lo raggiunge. La star della serata è sul palco, capotavola è dove si siede lui.
La commedia è un carattere ereditario? Ci penso ogni volta che Maria Sole Tognazzi – tra le figlie di uomini famosi che m’è capitato d’incontrare, l’unica con una parvenza di sanità mentale – mi manda qualche foto da qualche posto stupendo, firmando il messaggio «Mascetti». Non credo ci sia bisogno di spiegarlo – “Amici miei” è lessico famigliare per non so più quante generazioni d’italiani – ma la firma serve a dire (mentendo, sennò che commedia sarebbe) che è lì a scrocco: è pur sempre la figlia del conte Mascetti.
La commedia dev’essere un carattere ereditario, lo si capisce al primo minuto di “La voglia matta di vivere”, il documentario che Ricky Tognazzi ha girato per i cent’anni dalla nascita di suo padre (nel 1922 erano nati Gassman e Tognazzi, ma non sarò io a piangere il cinema italiano vivente: secoli fa Francesca Archibugi mi rimproverò dicendo che non ha senso paragonare le epoche d’oro a quelle ordinarie, e forse aveva ragione lei).
Ugo Tognazzi era nato il 23 marzo, ma “La voglia matta di vivere” è andato in onda ieri sera (potete recuperarlo su RaiPlay), perché ormai siamo tutti così terrorizzati che qualcuno arrivi prima a celebrare il decennale d’una morte, il centenario d’una nascita, il cinquantennale d’un film, che arriviamo in anticipo come gli insicuri agli appuntamenti. Ma sto divagando (che stranezza). La commedia, dicevo.
La voglia matta di vivere inizia in un cimitero, come “Per Lucio”, il documentario per i dieci anni dalla morte di Dalla che, pur avendo stupendi materiali d’archivio, non trova mai il tono giusto. “La voglia matta di vivere” lo trova subito, giacché la commedia non è un carattere recessivo: nel cimitero Ricky e Gianmarco e Thomas bisticciano sulla data da far incidere o no sulla lapide di papà.
Il mio Tognazzi preferito è del 1965. Non farò quella che vi promuove il suo nuovo libro dicendovi che lì ha scritto già tutto quel che aveva da dire su come Tognazzi che balla sul tavolo in “Io la conoscevo bene” sia la scena più straziante della storia del cinema italiano, e quella che più dice cosa siamo noialtri oggi: pronti a coprirci di ridicolo per una promessa di gloria, per elemosinare un riflettore, perché qualcuno o qualcosa faccia di noi una star.
Pronti a coprirci di ridicolo ma dal ridicolo terrorizzati: tutto il discorso pubblico sull’hate speech e la legge Zan e tutte quelle cose che andavano di moda l’anno scorso (ora ce le siamo dimenticate perché abbiamo nuovi giocattoli dialettici: siamo tutti opinionisti geopolitici, ma poi il ciclo delle stagioni farà tornare quei temi), quel tema lì si fonda sulla convinzione che nessun delitto sia grave quanto prenderci in giro. Che ridano di noi è la prospettiva più terribile.
E quindi la commedia è un carattere recessivo, è impossibile non pensarlo quando il documentario arriva a «Se molta gente ci è cascata, forse un po’ la faccia da brigatista ce l’ho», il commento di Ugo alla copertina del Male col titolo «Arrestato Ugo Tognazzi, è il capo delle BR». Non riesco a immaginare un attore di oggi che si presti a una cosa del genere; non riesco a immaginare un’opinione pubblica che non lo aggredisca al grido di «Non ti vergogniiii, le brigate rosse ammazzano la gente e tu fai lo spiritosoooo»; non riesco a immaginare quello spericolato attore che, intervistato sulla questione, non si scusi per aver ferito assortite sensibilità ma anzi dica d’avere la faccia da brigatista.
È uno strazio guardare le immagini del funerale di Tognazzi, è uno strazio catalogare quella stagione di cui non è rimasto quasi nessuno. Villaggio, Gassman, Scola, Monicelli, la Vitti, Ferreri, Risi, Vianello, la Mondaini. Sono tutti morti, e non dirò con quali scarsi ci abbiano lasciato perché poi Archibugi mi sgrida e mi dice che rivaluterò da morti quelli che ora mi sembrano cani e mi pentirò di non averli apprezzati in tempo.
Il mio Tognazzi preferito è del 1980. È il produttore che, ne “La terrazza”, tormenta facendolo finire in un ospedale psichiatrico lo sceneggiatore interpretato da Trintignant. Quello di «Fa ridere? Fa ridere?». Quello cornificato e trattato con perpetuo sprezzo dalla moglie, Ombretta Colli. Anni fa ho scritto un film che non si è mai fatto. C’era un protagonista ridicolo e narciso, che si ritoccava continuamente la tinta dei capelli con uno di quegli affari che si comprano facilmente oggigiorno, quei mascara per capelli, ti ritocchi l’occasionale filo bianco senza stare ad andare dal parrucchiere.
Tempo dopo aver finito quel soggetto, ho rivisto “La terrazza”. Il mio conscio aveva dimenticato che Tognazzi in quel film lì si ritocca i capelli grigi sulle tempie con un mascara, con decenni d’anticipo sulla diffusione sul mercato di quel prodotto a quello scopo. Non lo sapevo, ma lo sapevo. Come Mascetti e come il capo delle BR, il mascara per capelli stava nel mio subconscio, e forse in quello della nazione. La cultura popolare è quella cosa lì: le cose che sai anche senza sapere di saperle. Ed è solo per non farmi sgridare che non dico che Tognazzi era quella roba lì, cultura popolare, perché all’epoca il cinema era cultura popolare, e adesso non so bene cosa sia, e sono passati pochi anni, ma sembrano cento.
Ritratto di famiglia dei fratelli Tognazzi. «Ugo, un bravo padre, forse un po’ troppo uguista». Enrico Caiano su Il Corriere della Sera il 16 marzo 2022.
Avrebbe compiuto 100 anni quest’anno il grande attore della commedia all’italiana, noto per due celebri film come ‘Il Vizietto’ e ‘La grande abbuffata’. Nel ricordo dei figli (avuti da tre madri diverse) un uomo giocherellone, e tombeur de femmes.
I quattro fratelli Tognazzi oggi. Da sinistra Thomas (57 anni) il “norvegese”, figlio di Margrete Robsham; Maria Sole (50); Ricky (66), figlio di Pat O’Hara; Gianmarco (54): lui e la sorella sono figli di Franca Bettoia, 85 anni, compagna di Ugo per oltre 30, sposata soltanto nel 1972
Una chiacchierata con i fratelli Tognazzi a parlare di papà Ugo potrebbe durare anche un giorno intero. Se ne è «andato via» come dice Gianmarco, ormai quasi 32 anni fa. Eppure sembra che lo abbiano lasciato poco prima dopo aver riso all’ultima battuta di qualche pranzo domenicale cucinato da lui. Chissà se senza quella maledetta emorragia cerebrale del 1990, a 68 anni, il 23 marzo prossimo avrebbe celebrato il proprio centenario. Impossibile dirlo, anche se certo nella vita si è fatto mancare poco sul fronte dei piatti, diciamo così «nutrienti». E anche su altri fronti. Nel girare con Marco Ferreri un capolavoro come La grande abbuffata (1973), ovvero l’arte dell’eccesso tra cibo e sesso, Ugo Tognazzi da Cremona deve essersi sentito a suo agio. L’affetto con cui questi 4 figli di tre madri diverse parlano del loro padre imperfetto è però così genuino e trascinante da farti quasi credere che meglio di così non poteva andare: papà con il suo «uguismo», come definiscono per abitudine ormai consolidata il suo modo di essere un filino egocentrico, è stato il migliore dei padri possibili.
L’empatia di Ugo
Non può essere un caso se tutti, come si dice, hanno seguito le sue orme. Attori (Ricky, Gianmarco, qualcosa anche Thomas), registi (ancora Ricky e Maria Sole) o produttori (Thomas). Lui faceva cinema vivendo, anche con loro. E loro hanno fatto cinema su di lui. Con due documentari. Prima la più piccola, Maria Sole, che papà Ugo l’ha perduto quand’era 19enne: nel 2000, a 10 anni dalla morte, ha girato Ritratto di mio padre. Poi, ora, il maggiore, Ricky: giovedì prossimo in prima serata su Rai2 ecco La voglia matta di vivere per il centenario della nascita, scritto e diretto da Ricky e coprodotto da Rai Documentari, Ruvido Produzioni, Dean Film, Surf Film e Mact. «Non l’ho mai visto non tenere banco», confessa su Zoom Ricky, collegato con gli altri due fratelli (Thomas, dalla Norvegia, non poteva, ma interverrà a parte nel “dibattito”). E sull’empatia come vera qualità di Ugo sono d’accordo tutti i fratelli. «Era magnetico, aperto e trasparente», ricorda Gianmarco, «e anche quando faceva gaffe ed errori li faceva in buona fede. Il suo essere accentratore in realtà era un modo per favorire l’apertura degli altri». Ricky ricorda gli “spettacolini” a cena, davanti agli amici, che puntualmente si chiudevano con il racconto di una sua figuraccia: «Lui sapeva che dandosi addosso faceva più ridere...». «E alla fine usciva di scena», chiosa Maria Sole. «Figura di m... e sipario!». Ricky si fa serio ma è una finta: «Volevo dire che ho le prove: è stato visto anche ascoltare. Esistono persone, poche ma esistono, che ha ascoltato». Per Gianmarco «la sua estroversione alla fine era un modo per coprire la timidezza». Ma sua sorella non è proprio d’accordo: «Non lo definirei affatto un uomo timido. Uno che provocava andando controcorrente come lui non poteva essere un timido». Il fratello maggiore mette un punto fermo: «Nei suoi sentimenti era timido. Nell’esprimere la sua affettività raramente abbracciava noi e Franca. Non era un toccone».
Un amore grande grande, a dispetto dei tradimenti
Già Franca, oggi 85enne, la donna che è stata con lui per oltre 30 anni, accogliendo e crescendo un figlio non suo (Ricky, nato dalla relazione con l’attrice Pat O’Hara; ndr) e ospitando Thomas nei mesi di vacanza, dopo avere – lei, non lui – spiegato agli altri due figli maschi che era loro fratello, nato dall’amore di Ugo per l’attrice norvegese Margrete Robsham. La sposò solo nel 1972, Franca Bettoia, attrice del cinema italiano Anni 60. Ma stavano insieme da prima: Gianmarco nacque nel 1967. Ricky la adora: «Aveva una pazienza e una sensibilità estreme. Con lei Ugo ha fatto cose non da gentleman ma lo ha sempre perdonato e accolto facendo in modo che le scivolate “ugoistiche” non compromettessero gli equilibri di una famiglia difficile come la nostra». Il fratello gli ricorda quando lei chiese a Ricky se poteva «fare Gianmarco», se lui l’avrebbe accettato. «Vero, avemmo un dialogo profondo su questo. L’eterno farfallone solo grazie a lei imparò che la famiglia era importante», ricorda emozionato Ricky. E Maria Sole regala un’immagine definitiva: «Avevano un rapporto speciale e personalissimo. Magari si sono tirati i quadri addosso, ma papà è morto tra le braccia di Franca».
Maria Sole, la cocca di papà
Basta tristezza, qualche aneddoto per tirarsi su. Parte Ricky: «Ugo raccontò di un’attrice americana che diceva di ricordarlo in un film come soldier, soldato. Lui era spiazzato ma poi capì: era un film con Manfredi. Fece finta di nulla «per non imbarazzarla», mi disse. «E se avevo qualche possibilità di portarmela a letto poi, dovevo per forza tacere». Tocca a Gianmarco. Che racconta di un’altra attrice: «Lui parlava poco l’inglese ma ci provava. Lei dopo un po’ cominciò a dire Iugo, Iugo. Ma non era il suo nome come pensava lui: gli stava dicendo You, go! Tipo: E vatteneeee!». E le prime storie d’amore di loro ragazzi come le prendeva Ugo? Ancora Gianmarco: «Il mio primo amore fu una bella ragazza alta 1,75. Non un capriccio, stavamo insieme da due anni. Lui non si capacitava che stesse con me, grassoccio: mangiavo tantissimo. A un certo punto arrivò a dirglielo. E quasi a proporsi: «Ma perché stai con uno come lui? Avresti bisogno di un uomo più maturo». È Maria Sole ora a piazzare il colpo: «Riuscii a presentargli il mio primo ragazzo, Giorgio, un argentino bellissimo, un modello che si mise con me ma forse capii dopo che era stato pagato da Gianmarco per farlo. Eravamo in Sardegna e lo portai a cena come un trofeo. Lo guardò con una strana curiosità... forse a pagarlo era stato lui».
A scuola tutti 10
Maria Sole al tempo era la preferita perché a scuola «aveva tutti 10». Thomas era l’orgoglio invece alle cene perché «sapeva alla perfezione tutte le formazioni delle squadre europee», ricorda Ricky. «E tutte quelle dei mondiali del 1974», conferma Thomas dalla Norvegia, preso dal successo di La persona peggiore del mondo, il film norvegese da lui prodotto in corsa per l’Oscar: «Sarebbe bello regalare il primo Oscar alla famiglia Tognazzi. Lui ebbe la nomination per Il vizietto, ricordo». I fratelli tifano tutti per lui. Anche contro Sorrentino. Tognazzi senior fu infine campione di grandi litigi: «Per una battuta rompeva un’amicizia», ricorda Ricky. «Capitò con Elio Petri, romanissimo regista sempre a casa nostra. Gli dissero che lui sì era di sinistra. Anche papà in realtà votava così. E però gli venne da dire che lui abitava di fronte alla sede del Pci, dunque era facile. Se avesse abitato di fronte a un bar forse era campione di biliardo... Se la prese da matti: avvocati. mogli a mediare, si riconciliarono solo dopo tantissimo tempo».
L'attore arci-italiano più anti-italiano che ci sia mai stato (supercazzola inclusa). Alessandro Gnocchi il 15 Marzo 2022.
Il 23 marzo si celebrerà il centenario della nascita di un mattatore atipico.
Forse noi italiani ci siamo meritati Alberto Sordi, come diceva Nanni Moretti. Senz'altro non ci siamo meritati Ugo Tognazzi. Certo, l'attore ha avuto uno straordinario successo, impreziosito da una Palma d'oro a Cannes; eppure si ha l'impressione che la portata della sua cinematografia (e del suo repertorio teatrale) non sia stata colta fino in fondo. In occasione del centenario della nascita, Ignazio Senatore pubblica per l'editore Gremese un utile strumento: Ugo Tognazzi. La vita, i film, il teatro, la televisione e altro ancora. Una rassegna puntuale dell'opera di Tognazzi, titolo per titolo, ruolo per ruolo, regista per regista, battuta per battuta, recensione per recensione. L'introduzione è affidata a Pupi Avati che diresse Tognazzi, tra le altre cose, in uno dei migliori film sul calcio mai girati: Ultimo minuto.
Ottavio Ugo Tognazzi nasce il 23 marzo 1922, a Cremona in via Antica Porta Tintoria, un tempo via Cantarane, al numero 6. Nell'Abbuffone (1974, ora edito da Avagliano), una esilarante autobiografia per ricette d'autore, Tognazzi racconta i suoi giorni da attore scapigliato. Nel 1940, parte per la guerra. Finisce al comando superiore della marina a La Spezia. Per fortuna i superiori non lo mandano per mare, aveva già rischiato di morire annegato nel Po. Lo mettono invece a fare di conto, ma grazie all'incontro con Lucio Ardenzi, cantante e futuro impresario, si esibisce per i soldati. Tognazzi inizia a sognare di fare l'attore di varietà. Dopo l'8 settembre rientra a Cremona e torna a fare l'impiegato presso il salumificio Negroni ma continua ad assentarsi per recitare nelle caserme della Rsi. Alla fine viene ripreso dal capoufficio. Lui lo fissa sorridendo, e canticchia: «La sua bocca è tanto bella / salamino e mortadella / il suo sguardo par divino / mortadella e salamino». Grandi risate, seguite dal licenziamento seduta stante. Nel 1943, Tognazzi ha l'opportunità di organizzare uno spettacolo al Teatro Ponchielli a patto che l'incasso sia «pro armi alla patria», Tognazzi mette subito assieme la compagnia. I finanziatori sono un impresario di pompe funebri, un rampollo di famiglia benestante, un funzionario del consorzio agricolo. Il 4 maggio 1944 debutta Una nuvola in vacanza. Il varietà si direbbe innocuo ma in un palco c'è il gerarca Roberto Farinacci. Racconta Tognazzi: «Rischiai di essere impacchettato per la Germania perché mentre cantavo la canzoncina satirica Lassa pur lè, che in cremonese vuol dire piantala, pare indicassi con il braccio il palco in cui era seduto Farinacci». In quanto all'incasso: «Terminammo con un deficit di lire sessantaquattromila. Calcolando il valore della moneta di allora, ritengo di aver contribuito a sottrarre quattro mitra alla Repubblica sociale italiana».
Alla fine della guerra, Tognazzi decide di far rotta verso Milano. Non lo accompagneremo nella sua scalata nel varietà e in televisione. Però ricordiamo che il ruolo decisivo per il decollo nel mondo del cinema fu lo zelante graduato delle Brigate nere protagonista de Il federale di Luciano Salce (1961). Personaggio indimenticabile fin dal nome: Primo Arcovazzi da Azzanello, minuscolo paese a un tiro di schioppo da Cremona. In questa occasione, Tognazzi decide di cambiare passo, come leggiamo in una testimonianza dell'attore raccolta da Senatore: «Col Federale è cominciata una specie di analisi, un asciugare, un abbandonare certi eccessi di comicità pura da rivista o da varietà».
Scorrendo il libro di Senatore ci si rende conto della incredibile rassegna di arci-italiani e di anti-italiani (spesso le due categorie coincidono) messi in scena da Tognazzi. Gli anni Sessanta sono un trionfo. Bastano i titoli per accendere la memoria collettiva: La marcia su Roma, L'ape regina, I mostri, La vita agra, Io la conoscevo bene. E siamo solo al 1965...
Tognazzi lavorerà con tutti i grandi registi e vincerà la Palma d'oro a Cannes (nel 1981 con La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci). Nel suo pantheon ci sono maschere entrate nel costume come il Conte Mascetti di Amici miei (di Mario Monicelli, 1975) con la sua «supercazzola», metafora perfetta di un Paese, il nostro, innamorato della vuota retorica al punto da diventare ridicolo in ogni occasione ufficiale. Per non dire delle «supercazzole» dei politici, dei virologi, dei giornalisti, degli esperti (si fa per dire) di geopolitica.
Soprattutto con Marco Ferreri, ma anche con Mario Monicelli, Tognazzi ha dissacrato tutto il dissacrabile: la famiglia tradizionale, la società dello spettacolo, il consumismo; e si è permesso di rivolgere perfino un malinconico sberleffo alla morte. Tuttavia, nella sua sterminata carriera, ci sono anche i ruoli di funzionario dello Stato (magistrato o commissario) in un periodo in cui andavano di moda i rivoluzionari.
Nel Commisario Pepe (1969) di Ettore Scola, Tognazzi ritrae l'ipocrisia della provincia e la rassegnazione di un ispettore al quale viene chiesto di fermare un'indagine pruriginosa. Tognazzi è straordinario, con pochissimi tocchi (spalle incassate e petto in fuori, provate davanti allo specchio se pensate sia facile) costruisce un universo morale e sentimentale. Ecco il risultato di quell'«asciugare» di cui Tognazzi parlava a proposito del Federale. Del resto, l'indagine della mediocrità, condotta con misurata ironia, è una delle specialità della casa. Un esempio per tutti, il trentanovenne protagonista della Voglia matta (1962) di Luciano Salce, che si lascia irretire da una ragazzina, una splendida Catherine Spaak, per la quale, naturalmente, il flirt è tutto un gioco. Invece, per l'ingegner Antonio Berlingheri, è forse l'ultima possibilità di sentirsi vivo, a costo di rendersi ridicolo, facendo la ruota fuori tempo massimo.
Che dire di un film come il Vizietto (1978) di Edouard Molinaro? Dietro alla caricatura della omosessualità, si sente la profonda tenerezza: oggi però nessuno avrebbe il coraggio di girare un film del genere. Poi c'è il personaggio pubblico, che si fa ritrarre in manette sulla finta prima pagina di Paese sera sotto il titolo: «Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR». È un falso della rivista Il male e scatena i polemisti di mezza Italia. Siamo nel 1979, nel pieno degli anni di piombo. Lui, invece di intavolare pensosi dibattiti sulla satira, taglia corto: «Rivendico il diritto alla cazzata». Gol, palla al centro.
Nell'attore c'è molto della terra padana in cui è nato e in cui capitava di incontrarlo (dal salumiere Saronni, come Mina, o allo stadio Zini, che lo accoglieva sempre con un grande applauso). La concretezza che può scadere nella grettezza o rivelarsi un formidabile antidoto contro la retorica. L'aria sorniona, il mezzo sorriso che può nascondere la depressione ma anche la sorprendente zampata ironica. La tranquillità che sembra apatia ma è il pudore di un uomo in realtà goloso della vita in tutti i suoi aspetti. Tognazzi rende universale questo modo di essere grazie al talento inimitabile. Anche ridere è una cosa seria.
· 31 anni dalla morte di Miles Davis.
Stralci della lettera inedita di Charles Mingus a Miles Davis (1955), contenuta in “Peggio di un bastardo” (ed. Sur) e pubblicata da “il Fatto quotidiano” il 15 aprile 2022.
Mi siedo e provo a trascrivere in modo sincero i miei pensieri in una lettera aperta a Miles Davis. Ho scartato parecchie lettere "mentali" prima di quest'ultima che ho scritto ieri sera mentre guardavo alcune foto di Bird (Charlie Parker, ndr) scattate da Bob Parent durante una registrazione al Village. Se serve una foto per illustrare il mio racconto, dovrebbe essere questa di Bird che, in piedi, guarda dall'alto Monk (Thelonious, ndr) con un amore che più grande non troveremo mai in questo business del jazz!...
COSA FARÀ Miles adesso che riprende a suonare? Farà come in quel concerto non molto tempo fa a Brooklyn, con Max (Roach, ndr), Monk e il sottoscritto, quando continuava a dire a Monk di "farsi da parte" perché sbagliava tutti gli accordi? O come durante una registrazione più recente, quando si è messo a inveire, si è interrotto, ha dato i numeri, e poi ha minacciato Monk e ha chiesto a Bob Weinstock perché mai avesse preso un non-musicista come quello e di non farlo suonare durante i suoi assolo di tromba? Che cosa sta succedendo a noi discepoli di Bird?
O forse per Miles sono un presuntuoso se mi considero tale? Sembra così difficile per alcuni di noi maturare quanto basta per capire che esistono altre persone in carne e ossa, proprio come noi, su questa grande grande terra. E se queste persone non stanno mai ferme, o non si muovono mai, o non "swingano", hanno ragione quanto noi, anche se secondo i nostri standard hanno torto marcio...
Miles, non ti ricordi che Mingus Fingers lo scrissi nel 1945 quando avevo solo ventidue anni, studiavo e mi dannavo per scrivere secondo la tradizione di Ellington (Duke, ndr)? Miles, questo era dieci anni fa, quando pesavo ottantatré chili.
I vestiti che portavo allora sono ormai lisi e non mi vanno più bene. Sono un uomo adesso, peso quasi cento chili e la penso a modo mio. Non la penso come te, e la mia musica non vuole solo farti battere il piede e scenderti lungo la schiena. Se e quando mi sento allegro e spensierato, compongo o suono di conseguenza - e anche quando sono depresso. Solo perché suono il jazz non mi dimentico di me stesso.
Suono o scrivo le mie sensazioni attraverso il jazz, o chiamalo come vuoi. La musica è, o era, un linguaggio delle emozioni. Chi continua a fuggire dalla realtà, non mi aspetto che apprezzi la mia musica, e mi preoccuperei del mio modo di comporre se cominciasse a piacergli veramente. La mia musica è viva e parla dei vivi e dei morti, del bene e del male. È piena di rabbia ma è genuina perché sa di essere piena di rabbia.
So che stai tornando sulla scena, Miles, e sono felice per te più di quanto tu possa immaginare. Stai suonando il più grande Miles che abbia mai sentito, e sicuramente lo sai di essere uno dei più grandi jazzisti d'America. Tu sei spesso molto innovativo e, semmai, ti sottovaluti - in apparenza - e fai lo stesso anche con altri artisti. Ti voglio bene, Miles, veramente, e voglio che tu sappia che qui c'è bisogno di te.
Ma sei una persona troppo importante nel jazz e devi stare molto attento a quello che dici di altri musicisti che stanno anche loro cercando di creare qualcosa di nuovo... Ti ricordi di me, Miles? Sono Charles. Sì, Mingus! Eri la terza tromba nelle mie sessioni di registrazione in California undici anni fa su raccomandazione di Lucky Thompson.
Perciò vacci piano, amico, con chi ti ha fatto da trampolino di lancio... Se dovessi rispondere a questa mia lettera aperta, Miles, vorrei sapere una cosa riguardo quanto hai detto a Nat Hentoff a proposito dei brani che hai registrato negli ultimi due anni. Perché hai continuato a registrarli, sessione dopo sessione, se adesso dici che non ti piacevano, a parte due lp? Mi chiedo se hai dimenticato i nomi di quei brani; e mi chiedo anche come un vero artista possa permettere che si venda al pubblico del jazz tutta questa musica che nemmeno gli piace. O anche accettare di farsi pagare per un lavoro che lui stesso non considera ben fatto. Buona fortuna per il tuo ritorno sulle scene, Miles.
· 30 anni dalla morte di Marisa Mell.
Marisa Mell, storia e curiosità sull’attrice dalla vita turbolenta. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.
Morta prematuramente per tumore nel 1992, è protagonista del film “La liceale al mare con l'amica di papà“. Il suo sguardo seducente e le sue forme hanno conquistato il cinema degli anni Sessanta
Il cinema italiano
Un uomo, sottomesso a una consorte ricca ed autoritaria, porta l'amante al mare con la famiglia, travestendola da suora: è in sintesi la trama del film “La liceale al mare con l'amica di papà“ in onda su sabato 13 agosto su Sky. Insieme ad Alvaro Vitali, protagonista è Marisa Mell nata nel 1939 e morta il 16 maggio 1992, a soli 52 anni.
Nata in Austria (a Graz), arrivò nel cinema italiano grazie a Mario Monicelli, che la scelse per Casanova 70 (nel 1964). Dopo essersi stabilita in modo fisso in Italia, si legò sentimentalmente al produttore cinematografico Pierluigi Torri ma le relazioni che le vennero attribuite quella con il grande attore francese Alain Delon.
Il tragico incidente
Nel 1963 Marisa rimase coinvolta in un grave incidente automobilistico in Francia. Per sei ore rimase totalmente incosciente, inconsapevole di aver quasi perso l’occhio destro. La deturpazione si estese anche al suo labbro. Dopo due anni di chirurgia plastica, non rimase alcun danno evidente sul suo viso, a eccezione di una piccola cicatrice sul labbro superiore destro.
I problemi con l’alcool
Negli anni Ottanta si allontanò piano piano dal mondo dello spettacolo e del cinema. Tornata in Austria, visse gli ultimi anni di vita in condizioni economiche precarie legate, si dice, anche a un abuso di alcol e droghe.
La malattia
La morte prematura dell’attrice è legata a una malattia prematura, un tumore che non le ha lasciato scampo. Era ricoverata da tempo in un ospedale austriaco, sua patria natale. Al suo funerale hanno partecipato poche persone.
Bellezza prorompente
La bellezza di Marisa aveva conquistato un’ampia fetta di cinema: merito di uno sguardo intenso e di un corpo seducente. Capelli neri lisci e occhi verdi per l’attrice austriaca ancora oggi considerata una bellezza degli anni Sessanta.
· 29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.
Audrey Hepburn: le prime nozze saltate, il matrimonio con uno psichiatra italiano, storia degli amori della star di «Colazione da Tiffany». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2022.
L’attrice, icona mondiale del cinema, se ne andava il 20 gennaio 1993 a 63 anni: le tappe della sua vita sentimentale.
«L’amore è tutto»
Il 20 gennaio 1993, a 63 anni, se ne andava una delle icone più amate del cinema, regina di stile con la sua eleganza, capace di attraversare le generazioni con il suo fascino immortale e la sua semplicità: Audrey Hepburn. Più che diva (suo malgrado) l’anti-diva per eccellenza dato che, nonostante il successo ottenuto con pellicole diventate cult («Colazione da Tiffany», «Vacanze Romane», «Sabrina»), ha sempre preferito alla mondanità e alle luci dei riflettori la tranquillità della vita familiare. «Alcuni pensano che rinunciare alla mia carriera sia stato un grande sacrificio fatto per la mia famiglia, ma non è per niente così - raccontò una volta l’attrice -. È la cosa che più desideravo fare». Del resto «l’amore è tutto», come amava ripetere.
Nozze mancate
Nel 1952 Audrey Hepburn, all’epoca 23enne, annunciò il suo fidanzamento con l'imprenditore James Hanson. Nonostante fosse molto impegnata sul set del film che l’avrebbe lanciata nel firmamento di Hollywood («Vacanze Romane») nelle pause delle riprese continuava a portare avanti i preparativi per le nozze. L’attrice decise di far confezionare il suo abito da sposa proprio a Roma, nel prestigioso atelier delle sorelle Fontana. Ma non avrebbe mai indossato quel bellissimo vestito: il matrimonio saltò nel 1953 per via dei crescenti impegni lavorativi della coppia. «Per un anno ho pensato che fosse possibile far funzionare le nostre vite e combinare le nostre carriere - scrisse Audrey, affranta, in una lettera -. È tutto molto triste, ma sono sicuro che sia stata l'unica decisione sensata».
Il matrimonio segreto in Svizzera
Un anno dopo, ad una festa organizzata da Gregory Peck, Audrey Hepburn incontrò di nuovo l’amore: l’attore, suo partner di scena in «Vacanze Romane», le presentò Mel Ferrer, star della pellicola «Lili». Il 25 settembre 1954 la coppia convolò a nozze in Svizzera, in una chiesetta lontana da occhi indiscreti. Dall’unione, che durò in tutto 14 anni (e qualche film insieme, da «Guerra e pace» a «Mayerling»), il 17 luglio 1960 nacque un figlio: Sean Hepburn Ferrer. Per Hepburn fu una grande gioia: prima di riuscire a diventare mamma infatti aveva subito due aborti spontanei, di cui uno in seguito a una caduta da cavallo durante la lavorazione del film «Gli inesorabili» (1960).
Lo psichiatra italiano
Dopo il divorzio da Mel Ferrer, durante una crociera in Grecia, Audrey Hepburn conobbe colui che sarebbe diventato il suo secondo marito: lo psichiatra italiano Andrea Dotti, sposato nel gennaio del 1969. Da Dotti l’attrice nel 1970 avrà un altro figlio: Luca. Che descrisse così, nel 2015 a Vanity Fair, il rapporto tra i suoi genitori: «Mamma aveva perso la testa per papà, non era mai stata così innamorata. Sposarlo fu una scommessa. Sperava che lui crescesse più in fretta, ma non accadde: era un farfallone. Avevano dieci anni di differenza, ed era come se ne avessero ancora di più. I 30 anni di mio padre erano simili a quelli di oggi, i 40 di mia madre erano pesanti, soprattutto a causa della guerra. Erano troppo diversi: lui mondano e urbano, lei riservata e quasi contadina». Inoltre «per molti uomini è difficile avere una moglie famosa. Da italiano, il ruolo di principe consorte a mio padre non piaceva». Così, nel 1982, arrivò il divorzio.
Con Robert Wolders
Delusa dalla fine del suo secondo matrimonio Audrey Hepburn incominciò a frequentare l’attore olandese Robert Wolders, da qualche anno vedovo dell'attrice Merle Oberon: i due andarono a vivere insieme in Svizzera, sul lago di Ginevra. Non si sposarono mai e rimasero legati fino alla morte di lei. «Eravamo pronti l'uno per l'altra - ha raccontato lui nel 2017 a People -. Nel momento in cui ci siamo incontrati, entrambi avevamo commesso i nostri errori». Wolders ha condiviso con l’attrice anche l’attivismo: è sempre stato al suo fianco durante le campagne umanitarie per l’Unicef che hanno tenuto impegnata la star di «Colazione da Tiffany» negli ultimi anni della sua vita.
· 28 anni dalla morte di Moana Pozzi.
Moana Pozzi moriva 28 anni fa: lo scandalo del porno, la liaison con Craxi, la morte misteriosa. Silvia Maria Dubois su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022.
Ritratto della più grande attrice a luci rosse italiana, nata a Genova il 27 aprile 1961. Gli scandali e le relazioni «pericolose», la politica fino al decesso, con le ipotesi più diverse
La matematica, il clavicembalo e la fuga a Roma
Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato il 15 settembre 1994, esattamente 28 anni fa. Ma ecco alcune curiosità su di lei. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto.
Gli esordi (già un “po’ porno”)
Estate 1980, camera da letto della Reggia di Caserta: è lì, in mezzo alla storia borbonica, che Moana scopre il seno davanti alla telecamera, per la prima volta. Senza troppi problemi, sicura del proprio corpo, nutrita di una certa dose di libertà post sessantottina che le cresce dentro. Si tratta di un cortometraggio, “Smorza ‘e llights ovvero Caserta by night”, di Arnaldo Delehaye, con Renzo Arbore. Ma l’ingresso “ufficiale” nella pornografia di “Serie A” avverrà solo sette anni più tardi. In mezzo, Moana, sembra quasi divertirsi a tirare la corda, calibrando uscite osè a lavori più istituzionali. A Roma si mantiene facendo la modella, con piccole parti nelle commedie italiane, che vivono la loro stagione più florida. Ma Moana osa troppo: nel 1982 le viene affidata una grande occasione, quella di condurre un programma per bambini su Rai 2 (“Tip Tap Club”), ma contemporaneamente si intensificano le sue presenze nei film proibiti, con scene sempre più hot. A nulla le servirà la sfilza di pseudonimi usati in quegli anni (Margaux Jobert si alternava a Linda Heveret): beccata dai dirigenti Rai, fu allontanata dal programma. Lì, il pubblico, inizio ad interessarsi a lei.
Fantastica Moana
È il 1987, l’esordio nei cinema è frontale: una pellicola con il suo nome, la regia di Riccardo Schicchi, un contratto con l’agenzia Diva Futura. Con “Fantastica Moana” si celebra il battesimo di fuoco di quella che sarà ricordata come la più grande pornostar italiana. Da lì, l’agenda della bionda genovese, non avrà più un giorno libero. “Moana la bella di giorno”, “Cicciolina e Moana Mondiali” sono solo due delle pellicole diventate cult, e cucite addosso alla fortissima personalità dell’attrice. Il mito in quegli anni sale di giorno in giorno: le tv se la contendono, i giornali la seguono, al pubblico piace pensare alla rivalità con Ilona Staller (i protagonisti del porno in quel periodo strategico diventano sempre più pop, hanno finalmente un volto e una vita extra, come dimostra anche il caso di Rocco Siffredi). Moana accontenta tutti: non risparmia ospitate nei salotti tv e nei primi, scandalosissimi “Erotik Festival” in terra italiana, incisioni musicali (“Mi sono rotta lo sai”; “Supermacho”), un libro sulle sue conquiste di letto che inguaia non poco personaggi istituzionali, come l’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Il gioco delle ambiguità è un crescendo: nell’Araba Fenice, nel 1988, parla vestita solo di cellophane, scoppia il famoso caso della “rivolta delle casalinghe”, una sua lunga intervista a Baudo resta negli annali. Blob la manda in onda a più non posso. Censura permettendo. Lei stessa dirà più volte: “Il mio è un erotismo consapevole. Faccio all’amore e mi diverto. Ho fatto quello che volevo”.
La politica
Un cuore rosa, dentro una foto stilizzata di Moana. È il simbolo del Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi: nato all’inizio degli anni Novanta, vide un passaggio di testimone proprio fra le due antagoniste dell’hardcore, Cicciolina-Moana. La prima aveva già avuto la fortuna di entrare in parlamento con i Radicali, la seconda, meno fortunata, scese in campo per le elezioni politiche del 1992 e poi per le amministrative nella capitale. Nonostante i punti “seri” del suo programma (lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata) rispetto a quelli precedentemente sostenuti dalla collega (creazione di parchi dell’amore, legalizzazione delle case chiuse), non riuscì ad arrivare all’elezione. Ma Moana prese più voti (12.393 nominali) di Umberto Bossi e Francesco Rutelli. La sconfitta fece virare ancora di più il programma verso temi più seri e sempre meno scandalistici. Moana organizzava direttivi nella sua casa romana, metteva soldi di tasca propria (il partito aveva perso il diritto al rimborso elettorale), ci credeva. Il partito, sebbene trafitto dalle sconfitte elettorali, morì con la scomparsa di Moana. Anche se per un certo periodo lo ressero Biuzzi e la mamma dell’attrice, sostanzialmente per difenderne l’immagine, anche in tribunale.
La morte, tutto un altro film
“Moana è viva!” Moana è viva!”. Sembrano visioni. Con regolare periodicità una voce che non si arrende, si leva da qualche giornale, pronta a giurare che Moana esiste, si nasconde da qualche parte del mondo, come uno di quegli ex leader pronti a tornare al momento giusto. Voci pronte ad alimentare il mito, e a far male alla famiglia. Moana è morta all’Hotel-Dieu di Lione il 15 settembre 1994, dove era ricoverata da mesi. La sua morte è ufficialmente dovuta ad un tumore al fegato, ma si parla anche di epatite cronicizzata. E qui inizia un altro film, l’ultimo di Moana: la sua morte, a soli 33 anni, è ancora fonte di misteri. Dai più neri, come l’ipotesi di essersi spenta a causa dell’Aids a quelle più colorate (viva, felice, al caldo). A posteriori, tutti hanno qualcosa da dire: chi se la ricorda emaciata nelle ultime ospitate, chi la vedeva sempre più triste, chi ha letto spiegazioni nuove in sue vecchie dichiarazioni. La verità è che il pubblico ha bisogno di ricordare un personaggio che ha segnato un’epoca: una ribelle, sensuale libera, elegante e intelligente. Quasi ossimori se cuciti addosso ad una donna, fino a pochi decenni fa.
· 28 anni dalla morte di Kurt Cobain.
Dagotraduzione dal New York Post il 5 marzo 2022.
Quando "Nevermind" dei Nirvana ha detronizzato "Dangerous" di Michael Jackson dalla vetta delle classifiche nel gennaio 1992, Kurt Cobain è stato effettivamente incoronato il nuovo re del rock. E il mese successivo aveva ufficialmente una regina dopo aver sposato Courtney Love - ormai 30 anni fa, il 24 febbraio 1992, a Waikiki Beach a Honolulu, Hawaii.
Ma, in vero stile punk-rock, non era esattamente un matrimonio reale: la sposa - rimasta incinta della figlia Frances Bean quattro mesi dopo aver iniziato a frequentarlo - indossava un abito bianco di raso e pizzo che in precedenza era di proprietà della tragica attrice (e musa di Cobain) Frances Farmer. Lo sposo ha indossato un pigiama di flanella verde e bianco per un gruppo di otto ospiti, incluso il suo compagno di band dei Nirvana Dave Grohl.
«Beh, erano entrambi persone piuttosto non convenzionali», ha detto a The Post Charles R. Cross, autore del libro del 2001 "Heavier Than Heaven: A Biography of Kurt Cobain. «Penso che l'idea del matrimonio in una chiesa... non potrei immaginare che sarebbe accaduta in un miliardo di anni».
Benedetta dagli dei del grunge, era un'unione che sarebbe passata alla storia della musica. Purtroppo, la loro storia d'amore sarebbe finita in tragedia quando Cobain si suicidò poco più di due anni dopo, il 5 aprile 1994. Ma nonostante tutti i loro problemi - dalla tossicodipendenza alle accuse di violenza domestica - c'era molto amore lungo la strada.
«Kurt Cobain ha scelto Courtney Love e Courtney Love ha scelto Kurt Cobain», ha detto Cross. «Non importa quanto fossero imperfetti a volte come individui, erano due persone che si amavano».
E quando hanno preso quei voti, si riferivano a loro - e non si sono scusati con i dubbiosi che hanno predetto un futuro difficile per la coppia.
«Stavo dicendo, 'Sì, so cosa accadrà'", ha detto Love a Rolling Stone della loro tumultuosa vita insieme in un'intervista del 1994 dopo la morte di Cobain. “Non me ne frega – – k. Amo questo ragazzo. Il mio principe su un dannato cavallo bianco”».
Alleanza di estranei
Cobain e Love hanno avuto il loro primo fatidico incontro il 12 gennaio 1990, al nightclub Satyricon di Portland, Oregon, dove i Nirvana stavano suonando uno dei primi concerti. Ma hanno finito per passare più tempo insieme quando i Nirvana andarono a Los Angeles per registrare "Nevermind" nella primavera del 1991, poiché Love viveva vicino allo studio Van Nuys dove la band stava realizzando il loro album di successo. Love, che era amica di Grohl, andò persino con lui e Cobain a vedere il documentario di Madonna "Truth or Dare" in un'uscita platonica.
Ma la notte successiva, nel 1991, portarono la loro amicizia civettuola al livello successivo, in uno spettacolo dei Nirvana al Metro di Chicago. Love, che all'epoca usciva con Billy Corgan, era volata lì per stare con il frontman degli Smashing Pumpkins. «Ha scoperto che Billy era con un'altra donna, quindi se n'è andata e sapeva che i Nirvana erano in città», ha detto Lyndsey Parker, conduttrice di SiriusXM Volume West.
Sparks è volato tra Love e Cobain dopo lo spettacolo dei Nirvana, quando finalmente si sono incontrati e hanno iniziato la loro storia d'amore. «Cinque minuti dopo essere entrata nello spogliatoio, era seduta sulle ginocchia di Kurt», ha detto Parker.
Cobain era attratto da Love come una donna che era sua pari e pari con il suo stesso gruppo - la band di Love Hole aveva debuttato con l'album "Pretty on the Inside" una settimana prima che "Nevermind" uscisse nel settembre 1991.
«Kurt era molto femminista... e penso che fosse molto attratto da una donna forte», ha detto Parker. «Aveva una personalità molto forte. Era già una specie di figura polarizzante. Penso che fosse attratto da una donna tosta... Avrebbe potuto uscire con chiunque fosse la top model sexy, e ha scelto questa trasandata ragazza punk-rock».
Ma Cobain e Love si sono uniti per qualcosa di più della semplice musica. «Courtney una volta mi ha detto qualcosa che penso sia davvero uno dei motivi per cui si sono legati: ha detto che Kurt sapeva qual era il sapore del formaggio del governo», ha detto Cross. «In un certo senso, penso che quello che stava dicendo... è che c'era un legame traumatico. Entrambi avevano avuto un'educazione piuttosto difficile. Entrambi erano stati degli estranei. E anche se entrambi avevano ambizioni creative ed erano entrambi sulla strada per la fama... vivendo in povertà e crescendo con abbandono, cosa che entrambi avevano [fatto], penso che non si possa sopravvalutare il modo in cui si sono legati».
Comportamento pericoloso
Ma le droghe, in particolare l'eroina, erano una forza distruttiva nella loro relazione.
«Certamente Kurt era molto drogato prima di incontrare Courtney», ha detto Cross. «Aveva già rotto essenzialmente con due fidanzate che non volevano uscire con lui a causa del suo uso di droghe. E per Courtney, la decisione di stare con Kurt è stata in qualche modo una decisione difficile per lei perché stava cercando di evitare quella vita... Sai, Kurt soffriva di una dipendenza piuttosto seria. Oltre a questo, c'erano altre due cose che non possono essere sottovalutate. C'erano i problemi di dolore cronico che aveva sia allo stomaco che alla schiena. E poi il terzo problema era che aveva chiaramente la depressione».
Nel 1992, uscì un controverso articolo di Vanity Fair che affermava che la Love aveva fatto uso di eroina durante la gravidanza con Frances Bean. Anche se inizialmente lei ha negato, sostenendo di aver smesso di usare l'eroina non appena ha scoperto di essere incinta, la coppia ha temporaneamente perso la custodia della figlia di conseguenza. Ma nel documentario del 2015 "Kurt Cobain: Montage of Heck", Love ha ammesso: «L'ho usata una volta, poi ho smesso. Sapevo che sarebbe andata bene».
Poi, nel 1993, c'è stata una disputa interna che ha fatto notizia quando Cobain è stato arrestato dalla polizia di Seattle con l'accusa di aver aggredito Love durante una rissa per avere pistole in casa. Tuttavia, nessuna accusa è stata presentata e il caso è stato archiviato.
Ma mentre Cobain e Love a volte erano in guerra - tra loro e con se stessi - c'era anche una tremenda tenerezza tra di loro. Si lasciavano anche tutti i tipi di note d'amore in tutti i tipi di forme.
«Erano scritte sul retro di una busta o di un fax inviato a un hotel o un post-it», ha detto Cross. «E molte di queste cose sono state salvate. Questi ragazzi non erano governanti pazzi, e le note che Kurt ha scritto sul retro di una busta potevano essere ancora lì un anno e mezzo dopo. E sai, una parte è stata salvata per i posteri: entrambi erano molto consapevoli del fatto che stavano scrivendo la storia».
Doppie muse
I Nirvana hanno pubblicato il seguito di "Nevermind", "In Utero", nel settembre 1993, e Cross sostiene che puoi sentire l'influenza di Love su quell'album. «Penso che Courtney abbia reso Kurt un paroliere migliore», ha detto. «E penso che Kurt abbia reso Courtney uno scrittore di riff migliore. E in un certo senso, è stata una competizione».
Mentre si spingevano a vicenda musicalmente, Love e Cobain non erano sempre in grado di fornirsi lo stesso tipo di influenza positiva quando si trattava di diventare - e rimanere - sobri.
«Hai due tossicodipendenti, ma la loro dipendenza e i loro desideri non sempre combaciavano», ha detto Cross. «Non è proprio giusto dire chi fosse il peggior tossicodipendente. Ma le dipendenze di Kurt, purtroppo, erano più profonde di chiunque altro intorno a lui».
Nel marzo 1994, Cobain andò in overdose di antidolorifici nella sua stanza d'albergo di Roma e cadde in coma. Dopo essersi ripreso, Love lo ha aiutato a mettere in scena un intervento ed è andato in riabilitazione. Ma Cobain lasciò presto la riabilitazione, tornò a Seattle e si suicidò con sparandosi in testa con un il 5 aprile 1994. Le sue ultime parole a Love? «Qualunque cosa accada, hai fatto un grande album», ha detto di "Live Through This" di Hole, uscito il 12 aprile, esattamente una settimana dopo la sua morte.
C'erano quelli che incolpavano Love per la caduta di Cobain dopo la sua morte. C'erano persino teorie del complotto che suggerivano che lei in qualche modo lo avesse fatto assassinare.
«Mi arrabbio estremamente quando qualcuno la incolpa in qualsiasi modo per la sua morte... sia se pensano che lei lo abbia spinto al suicidio perché lo ha reso infelice sia se credono alle strane teorie del complotto», ha detto Parker.
Più tardi, nel 1994, Love rifletté sulla perdita del suo «principe su un dannato cavallo bianco» a causa di Rolling Stone: «Mi sentivo come se piangerlo fosse davvero egoistico perché lo avrebbe fatto sentire in colpa. E la cosa migliore da fare era pregare per lui e mostrargli gioia, in modo che potesse sentire la vibrazione della gioia. Ma ora so che si è dissipato e se n'è andato. Non è rimasto niente».
· 28 anni dalla morte di Massimo Troisi.
Ida Di Grazia per leggo.it il 18 gennaio 2022.
Tra le sorprese di questa edizione del Grande Fratello Vip c'è senza ombra di dubbio Nathaly Caldonazzo. L'attrice ha raccontato la sua storia e il suo rapporto con gli uomini, che spesso sono stati cattivi con lei. Tra loro però c'è un'eccezione ed è stato Massimo Troisi.
«Sono passati 28 anni - racconta emozionata la Caldonazzo - ero al ristorante con una mia amica e lui mi guardava continuamente, uscendo l'ho salutato e non se l'aspettava. Ha chiesto al proprietario come mi chiamavo, ma io all'epoca avevo un cognome diverso e quindi non mi trovava, poi il suo miglior amico si mise con la parrucchiera di mia sorella e mi invitò a prendere un caffè a casa sua. Mi aprì quest'uomo affascinante, e subito ho pensato potesse essere il mio uomo».
Nathaly e Massimo Troisi hanno vissuto insieme gli ultimi due anni di vita dell'attore napoletano: «Abbiamo fatto viaggi meravigliosi, poi durante l'ultimo viaggio in Costa Rica dimenticò un po' le medicine ed era molto affaticato. Io sapevo della sua malattia - spiega Nathaly - sentivo il ticchettio del suo cuore, mi raccontò che a 18 anni gli si fermò il cuore dopo una partita e il suo quartiere fece una colletta per farlo operare a Houston».
Le fatiche del viaggio costrinsero la coppia a volare proprio a Houston e il responso del medico non fu dei migliori: «Gli dissero che aveva un cuore di un settantenne, pieno di cicatrici e si doveva rioperare, ma l'operazione non andò bene. Rimanemmo un mese e mezzo in quell'ospedale. Io avevo 25 anni, ha avuto un infarto sotto i ferri, ma io non gliel'ho mai detto, e doveva fare un trapianto.
Non riuscivamo mai a tornare. Dopo un mese e mezzo siamo tornati e lui ha voluto per forza fare il suo film (Il Postino ndr). Morì il 4 giugno e aveva la morte in faccia, facevo di tutto ma lui era caduto in una depressione molto forte, era difficile tirarlo fuori. Mi disse una frase di Neruda: "Il depresso è come un prigioniero con la porta aperta, io mi sento così". Mi manca come essere umano, come persona, ha sempre preso di mira se stesso e mai gli altri, non credo manchi solo a me».
Natascia Festa per corriere.it il 17 dicembre 2022.
«Avrebbe compiuto 70 anni il 19 febbraio 2023. Massimo era un Aquario cuspide Pesci. Non che se ne importasse molto dei segni zodiacali, ma le stelle - alle quali è tornato - lo avevano disegnato così: sognatore e appassionato come un Aquario, protettivo e artista come un Pesci. E come un pesce non lo acchiappavi mai». Ricordando, sorride Nathaly Caldonazzo che aveva 24 anni quando conobbe il trentanovenne Massimo Troisi, all’apice della carriera e consapevole del suo charme.
Non era più il ragazzo timido di San Giorgio a Cremano quando si mise in testa che quella bionda, figlia di una ballerina olandese delle Bluebell da cui aveva ereditato bellezza e seduzione, doveva dirgli di sì. Così Nathaly diventa l’ultima fidanzata di Troisi. Vivevano insieme a Roma, quando lui finì di girare “Il postino”: tra l’ultimo ciak e l’ultimo respiro passarono appena 24 ore.
Ma partiamo dall’inizio, Nathaly. Come vi siete conosciuti?
«Era primavera inoltrata, lo ricordo come fosse ora. Dopo le sette di sera c’era ancora luce. Io venivo da un set fotografico: ero tutta truccata, carina. E affamata. Entro in un ristorante e lui era seduto a un tavolo con altre due persone. Da qual momento non mi ha tolto gli occhi da dosso. Vista l’insistenza, quando sono uscita dal locale gli faccio: “Ciao”. E lui: “Ciao”, risponde imbarazzato».
Lei ovviamente sapeva chi fosse.
«Sì, e non mi piaceva affatto. In quel periodo ero fidanzata con un ragazzo che avevo rubato alla mia migliore amica. Sì, avevo fatto un macello, un errore madornale che non ho mai più ripetuto. Dopo averlo sfilato all’amica, mi accorsi però che non me ne fregava nulla. In questa mia confusione emotiva, Massimo si è intrufolato benissimo».
Come l’ha trovata dopo quel furtivo “ciao”?
«Ha chiesto il mio nome al proprietario del ristorante che però gli diede solo il cognome: Caldonazzo. Così mi cercò sull’annuario degli attori, ma non mi trovò; io ero registrata Snell (come sua madre; ndr). Il destino ha fatto il resto: il suo migliore amico dell’epoca, Massimo Bonetti, si fidanzò con la parrucchiera di mia sorella. Lo chiamò e gli disse: “Massimo, per la Caldonazzo abbiamo risolto. Va a farsi i capelli da Elena”».
Quindi?
«Mi fa chiamare dalla parrucchiera che mi fa: c’è questo Massimo Troisi che ti vorrebbe telefonare… Posso dargli il numero? A quel punto cedo. Anche perché, la certezza che non mi piacesse mi faceva sentire al sicuro. Il giorno dopo mi arriva questa telefonata durante la quale, inutile dirlo, mi fa ridere molto. Stiamo un’oretta al telefono. E alla fine l’invito. “Un caffè da me?”. Rifiutai.
Lui insistette molto e io mi lasciai convincere sempre per lo stesso motivo: tanto non mi piace! Arrivai davanti alla porta di casa sua. Mi aprì ed era bello come il sole: jeans, t-shirt e spalle enormi da maschio mediterraneo. Dico la verità, pensai: che gran figo! E non fu più vero che non mi piaceva affatto. Parlando sul divano pieno di sole, sentii questo tic tic… “Cos’è?”, gli chiesi. E lui: ‘O core mio. E mi raccontò della valvola ma senza particolare preoccupazione».
“’O core mio” era anche una metafora d’amore, no?
«Non pensai a una cosa romantica, mi dispiace deluderla. Lui mi incalzava con gli inviti. Che fai quest’estate? Vieni a cena da me domani… Andai. C’era il nostro amico comune e produttore americano Gianni Nunnari con la nuova fidanzata. Dopo cena decisero di andare a Porto Rafael in Sardegna. All’inizio rifiutai: “Non ci penso minimamente” e tra me e me pensavo che ero fidanzata e non avrei dovuto nemmeno starci in quella casa. In un niente però, mi ritrovai con loro in aeroporto, in partenza per Olbia. Una follia.
Arrivati lì, gli diedi la buonanotte e mi chiusi nella stanza di questa grande villa che ci ospitava: se non te ne frega molto di chi ti corteggia, sei più decisa e risulti pure più attraente. Ma Massimo se la prese e il giorno dopo, in barca, non mi rivolse la parola. Ero nel panico: mia madre aveva saputo che ero partita con un attore molto più grande di me e il mio fidanzato non si era bevuto la bugia pessimamente inventata che gli avevo propinato. Il tutto per uno che non mi parlava nemmeno: è la fine, pensai. Invece era l’inizio».
Racconti: ora vogliamo sapere tutto. Troisi, per chi lo ama, è come un parente. E dobbiamo sapere.
«Tutto successe quando dalla barca passammo al tender: era al tramonto, io ero triste e stavo per i cavoli miei quando lui mi abbraccia da dietro con il suo maglione, in silenzio. E stiamo così fino a quando mi chiede: restiamo qui un altro giorno io e te? Così ci conosciamo meglio”. Da allora non ci siamo più lasciati».
Al rientro?
«Novella 2000 ci aveva paparazzati: presi una sberla dal mio fidanzato e urla da mia madre. Intanto ci eravamo innamorati e siamo stati insieme negli ultimi due anni della sua vita».
Coppia bellissima: quanto l’abbiamo invidiata…
«Sì, eravamo molto uniti. Ci siamo presi totalmente, nel bello e nel brutto».
Qual è stato il bello?
«L’amore e i viaggi: è noto che Massimo fosse sedentario e proverbialmente pigro. Certe sere mi faceva preparare a puntino, io mi mettevo in tiro per uscire e poi: “Amo’ veramente mi è passata la voglia. Rimaniamo a casa?”. Era così tenero. Con i viaggi svoltammo.
Massimo non aveva viaggiato tanto, era stato solo a Santo Domingo, ma con me iniziò a farlo: Los Angeles, Belize, Miami e tanta Europa. Per il viaggio a Parigi mi fece uno scherzo: disse che non poteva portarmi perché si trattava di lavoro. Il giorno dopo eravamo a casa e mi telefonò. Lo facevamo spesso perché l’appartamento era a due piani. Scesi e trovai sul pavimento i biglietti con il mio nome».
Sorprese d’amore. E litigate?
«Tante, soprattutto per gelosia: sia sua che mia. Era molto vendicativo nella relazione. Te la faceva pagare sempre. Ricordo una sera in Sardegna c’era una tavolata con una trentina di persone. Il figlio del proprietario della villa si era rotto un braccio e non riusciva a mangiare, così lo imboccai. Non l’avessi mai fatto. Per tutta la sera, Massimo non mi guardò più e parlò solo con le altre donne di quella tavolata: solo che si chiamavano Monica Bellucci, Isabella Ferrari e Alba Parietti… non so se mi spiego. Litigammo tutta la notte».
Com’era la convivenza con Troisi?
«Ci divertivamo. A me piace cucinare e passavo molto tempo a imparare i piatti che gli piacevano di più: gateau, salsiccie e friarielli, pasta con le polpettine e la ricotta. E che gioia quando arrivavano le mozzarelle da Napoli. Ricordo la festa intorno a quei contenitori di polistirolo dai quali uscivano delle trecce pazzesche, grandi come bambini».
E il brutto qual era?
«Iniziò durante un viaggio in Costa Rica: eravamo a San José, la capitale. Avevamo fatto un casting perché Massimo cercava volti femminili per “Il Postino”. Non li trovammo. Così lanciammo una moneta in aria per decidere se andare a Nord o Sud. Scegliemmo Limon, Puerto Viejo: capanna sulla spiaggia e nulla intorno a noi. Lui aveva finito le medicine, gli venne l’asma, iniziò a non stare bene. Tornammo finalmente, eravamo un po’ provati da questo viaggio, ma dopo una settimana lui volle ripartire: “Dobbiamo andare a Los Angeles da Redford e passiamo per Huston: devo fare un controllo al cuore”. Era lì che si era operato la prima volta a 18 anni. La buttò giù così, in maniera light. A Los Angeles stette benissimo: faceva addirittura allenamento sul tapis roulant. Avevamo un albergo su una spiaggia magnifica. A Huston presi alloggio di fronte alla clinica perché non mi facevano dormire con lui. Dovevamo stare una settimana, restammo un mese e mezzo. Lo ricordo come in un film: eravamo in sala d’attesa, entra il dottore, prende carta e penna e disegna il suo cuore. “E’ di un settantenne. Bisogna operare, ma decidi tu”. Ci guardammo, pensammo che fosse l’unica cosa da fare, invece fu una tragedia».
Lei ha detto che “Il postino” l’ha ucciso.
«E’ vero. Era ostinato a finire il film anche senza forze. Non a caso ha cambiato il finale: nel libro Mario non muore. Nella sua versione sì. Se non è premonizione questa… Quando è morto io ero stata fuori per due giorni. Lui aveva finito di girare ed era a casa della sorella, nei pressi di Cinecittà. Aveva lasciato detto che se avessi telefonato io avrebbero dovuto svegliarlo. Io chiamo, la sorella va, ma lui non si sveglia. Io suggerisco di lasciarlo riposare.
Rientro a Roma, arrivo a casa per raggiungerlo di corsa e sento la segreteria telefonica che impazzisce, un messaggio dopo l’altro. Ettore Scola, che era uno dei suoi migliori amici, l’architetto che ci stava rifacendo il bagno, tanti altri… ma non ci faccio caso. Sono di corsa, devo andare da lui. Invece era già morto: la tv l’aveva annunciato. Stavo per uscire quando chiamò mia madre: ora devi essere forte. Solo allora capii. Corsi da lui, gli misi una lettera tra le mani. Del resto non voglio parlare».
Cosa ha conservato di Massimo?
«Ho portato con me alcuni suoi pigiami e il maglione blu di Armani che aveva addosso durante quell’estate così felice. Ogni tanto lo rimetto, mi fa sentire bene, è la mia coperta di Linus».
Clarissa Burt e l’amore con Massimo Troisi: «Ci lasciammo perché insieme si sta in due, non in 200. Prendeva i farmaci e poi giocava a calcio». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 10 Dicembre 2022.
L'attrice ed ex modella, che oggi ha 63 anni, ricorda l’attore scomparso nel 1994 nel documentario di Alessandro Bencivenga (dal 15 dicembre nelle sale): «Per il problema al cuore prendeva medicine in maniera disciplinata, sembrava che tutto si potesse gestire»
Clarissa Burt, un amore lungo tre anni nella vita di Massimo Troisi. Ne parla col suo fare gentile e un filo distante. È una delle voci del documentario «Il mio amico Massimo» di Alessandro Bencivenga, dal 15 al 21 dicembre nelle sale per Lucky Red, uno dei quattro che si stanno ultimando (compreso quello in uscita di Mario Martone). Nel 2023 saranno 70 anni dalla nascita di Troisi, scomparso nel 1994, tradito dal suo cuore malandato.
Come vi conosceste?
«Nel 1988, a cena da amici, era inverno, io mi lamentavo per il riscaldamento ma avevo in casa un camino. Massimo il giorno dopo mi mandò un furgoncino pieno di legna con un bigliettino: per tenerti al caldo».
E cominciò la storia.
«Era dolce, carino, affettuoso. Mi colpivano la sua gentilezza e la sua calma».
Dicono che amasse le carte e il biliardo.
«Nei tre anni in cui siamo stati insieme non l’ho mai visto giocare né a carte né a biliardo. Massimo si svegliava tardi, poi andava nello studio a scrivere progetti. Erano usciti i computer e i primi rudimentali cellulari. Era affascinato dalla tecnologia. Se rivedeva mai i suoi film? No, mai».
Quando recitava in napoletano stretto lo capiva?
«Ci ho messo un po’, ho dovuto imparare. Massimo mi “tradiva” anche le canzoni, per esempio "Malafemmena". Scusi, volevo dire mi traduceva».
Lapsus freudiano.
«Sì, ci lasciammo perché quando si sta insieme si sta in due e non in duecento. Ci lasciammo per questo».
La stessa situazione la visse con Francesco Nuti. Una donna così desiderata, come lo spiega?
«Non me lo spiego, dovete farvi qualche domanda voi uomini. Parlo di tutti gli uomini sulla faccia della Terra, non solo di quelli italiani».
Quelle di Troisi erano interpretazioni nevrotiche e piene di grazia.
«Era una napoletanità originale, mai scontata».
Carlo Verdone dice che era pigro.
«Sì, un tocco di pigrizia c’era in lui. Facevamo vita di casa, gli habitué erano l’attore Massimo Bonetti e l’autore televisivo Giovanni Benincasa».
Il ritratto di una coppia casa e pantofole.
«Io preparavo le torte, poi era il periodo che facevo tv nel programma di Raffaella Carrà. Ma uscivamo anche. Ricordo quando vinse lo scudetto il Napoli: andammo a festeggiare in barca con tutta la squadra, Maradona conosceva i film di Massimo».
Lei lo accompagnò al Festival di Venezia?
«Sì, quando vinse la Coppa Volpi per "Che ora è" di Ettore Scola. Ci chiamarono dal festival chiedendoci di non partire. Risposi io, cominciai a saltellare sul letto, allora hai vinto! E Massimo, non dire così, per carità, mi hanno solo chiesto di restare... Era superstizioso».
Vinse ex aequo con Marcello Mastroianni.
«Adoravo la sua semplicità, se penso agli attori di oggi».
Del problema al cuore le parlava?
«Sapevo che c’era quel problema, prendeva medicinali in maniera disciplinata, poi giocava a calcio, era una cosa che sembrava si potesse gestire, nessuno pensava che se ne sarebbe andato così presto, nemmeno lui. Quando morì ero appena tornata in America. Ripresi l’aereo e andai al funerale. Ci ho messo dieci anni per vedere il suo ultimo film, "Il postino"».
Quando arrivò in Italia?
«Nel 1983, facevo la modella, sapevo dire solo ciao e arrivederci. Vi restai per 22 anni, fino al ritorno a Phoenix, Arizona, dove vivevano i miei genitori».
Perché si presentò alle elezioni per Alleanza Nazionale?
«Solo per raggiungere il quorum, una cosa veloce, per le donne. Mi presentarono nei collegi rossi, ricordo qualche comizio, non feci quell’esperienza per essere eletta. Ma sono qui per parlare di Massimo. Eravamo come due bambini, felici di vivere una vita tranquilla».
Vi dovevate sposare, scrissero le riviste patinate.
Fa una lunga pausa. «Non lo so, non ricordo, è passato tanto tempo».
Di cosa si occupa ora?
«Ho un gruppo multimediale, si chiama Sotto i riflettori, ho una tv su una piattaforma, ci occupiamo di libri, di benessere, si insegna management. Ho una rivista digitale. Sono una imprenditrice. La mancata maternità? Ho otto nipoti che adoro».
· 27 anni dalla morte di Mia Martini.
Talento, infamia e successo: la vita "dolorosissima" di Mia Martini. Mia Martini, Mimì, Domenica Rita Adriana Bertè sono tre nomi e tre personalità di un corpo solo, quello di una delle più grandi interpreti italiane di tutti i tempi. Laura Lipari il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Cos’è la sfortuna? Molti credono che sia solo un'invenzione dell'uomo, altri invece sono convinti che esista e per questo stringono, portano al collo oppure spargono per casa amuleti per cacciarla via. Ma quando si sparge la voce che a portare scalogna è una persona, quasi istintivamente la prima cosa che si fa è quella di allontanarla, stigmatizzarla, isolarla anche dall'applauso per il suo successo. Si dice che di solito la fama preceda il nome ma nel caso di Mia Martini è accaduto esattamente il contrario e a volte un nome e cognome, nonostante siano solo uno pseudonimo, pesano come un macigno legato al piede.
I primi esordi
Domenica Bertè, detta Mimì, nasce il 20 settembre 1947 a Bagnara Calabra, in provincia di Reggio Calabria. È la seconda di quattro sorelle: Loredana che nasce lo stesso giorno di tre anni prima, Leda e Olivia. I genitori, entrambi insegnanti, si accorgono presto dell’amore di Domenica verso la musica italiana che la bambina ascolta estasiata in radio. Inizia quindi, nonostante la contrarietà del padre, a partecipare a feste, serate ed eventi in balere durante i quali sprigiona la sua voce con una potenza che fuoriesce nel momento in cui tiene in mano un microfono. Ha capito cosa vuole fare nella vita: cantare, solo cantare.
Nel 1962, all'età di soli 15 anni, convince la madre ad accompagnarla a Milano in cerca di un’audizione che possa darle una mano per farsi conoscere. Qui viene provinata dal compositore Carlo Alberto Rossi che la lancia come ragazza “yeye”, cioè quel genere che mescola il rock leggero e il genere pop in voga in quegli anni. Partecipa quindi ad alcuni festival musicali e incide i suoi primi dischi, ma senza riscuotere grande successo. La sua voce e il suo temperamento non convincono.
Il trasferimento e il secondo periodo musicale
Domenica è consapevole: la strada che ha scelto di intraprendere è difficile, tortuosa e deve sgomitare. Quindi con la madre, che nel frattempo si era separata dal padre, e le sorelle, si trasferisce a Roma e tenta nuovamente di emergere creando un trio assieme alla sorella Loredana e all’amico Renato Fiacchini, che più tardi sarà conosciuto con il nome di Renato Zero.
Il 1969 è l’anno che per primo inciderà negativamente sulla sua vita. Domenica si trova a una serata in una nota discoteca della Sardegna e la sta trascorrendo come qualsiasi ragazza della sua età fino a quando, all’improvviso, la situazione cambia e degli uomini che avanzano verso di lei l’ammanettano e la portano in caserma. Scopre di essere stata arrestata perché in possesso di una sigaretta di marijuana, reato che all’epoca veniva punito come per altre forme di sostanze stupefacenti. Dall’accusa però la cantante viene presto prosciolta ma l’evento la sconvolge profondamente e i produttori non sanno che farsene di un'artista che ha avuto guai con la giustizia.
L’anno dopo, spinta anche dai familiari e dagli amici, cerca nuovamente di farsi strada. Il suo incontro fortunato è quello con Alberigo Crocetta, colui che scopre anche Patty Pravo e Mal e da questa collaborazione viene partorito “Mia Martini”, un nome studiato a tavolino che deriva dall’unione del nome dell’attrice preferita della cantante, Mia Forrow, e la nota marca di bevande alcoliche famosa in tutto il mondo. Cambia il nome e lo stile: trucca gli occhi di nero, indossa numerosi anelli e spesso anche un cappellino a bombetta che la caratterizza. Infatti i primi due brani sotto il nuovo pseudonimo, “Padre davvero” e “Amore…amore…un corno”, quest’ultimo scritto da un giovanissimo Claudio Baglioni, hanno un successo travolgente sia per il ritmo ma soprattutto per il testo e difatti vincerà il Festival di Musica d’Avanguardia e Nuove tendenze di Viareggio.
Segue un lp “Oltre la collina” considerato uno dei migliori lavori mai realizzati da una donna e notati anche da artisti ormai noti come Lucio Battisti. Al suo interno Mimì mette tutta se stessa parlando nel testo di disperazione solitudine giovanile. Infatti, se dal punto di vista lavorativo quelli sono anni d’oro per Mia, sul piano emotivo trasuda un malessere che pian piano si insidia come un parassita per Domenica.
Gli anni d’oro
Dopo l’uscita di “Piccolo uomo” Mimì viene invitata nelle trasmissioni televisive più importanti e il 45 giri raggiunge le vette della hit-parade facendole vincere il Disco d’oro per le vendite. A questo successo ne segue un altro, “Donna sola” che le conferirà la Gondola D’Oro. Entrambi i brani verranno pubblicati anche all’estero. Ma il vero successo senza tempo sarà “Minuetto”, un’opera travolgente creata grazie all’aiuto di Franco Califano che viene pensata e scritta seguendo le vicende intime della cantante. È un brano così ricco di sensazioni che il pubblico ne rimane estasiato e infatti diventa in assoluto la canzone più venduta; le permetterà di vincere il disco d’oro, di platino e il Festivalbar nonché il maggior successo de 1973.
Ma al tempo stesso Mia è controversa, amata e odiata anche per i temi affrontati nelle sue canzoni che all’epoca erano una novità da censurare come quello sulla droga e la tossicodipendenza che verrà affrontato con la canzone “La malattia”.
Nel 1973 Mia Martini è la cantante femminile che ha venduto più dischi nell’arco dell’intero anno insieme a Ornella Vanoni e Patty Pravo. Fino al ’75 il suo successo è europeo. È invitata come ospite nelle varie trasmissioni musicali e il 6 febbraio va in onda il suo primo special televisivo dal titolo "Mia".
Il successo è una medaglia che ha due facce e questo Domenica lo sa bene. Se da un lato viene ripagata per tutti i sacrifici, i periodi neri e quelli di sconforto, dall’altro le pressioni arrivano da chiunque: dal pubblico che si aspetta sempre qualcosa in più, dalla casa discografica, dai produttori e anche dai colleghi. Seguono altri brani e altri successi anche se non mancheranno alti e bassi con la sua casa discografica Ricordi, che si trasformeranno in una rottura decisiva e una citazione in tribunale da cui ne scaturirà un sequestro dei beni e dei guadagni della cantante e il pagamento di una penale di 90 milioni di lire. Passa da tutto a niente, ancora una volta.
È un periodo negativo che viene però risollevato con l’invito a rappresentare l'Italia all’Eurovision Song Contest del 1977 dove parteciperà con il brano “Libera” che le conferirà il tredicesimo posto in classifica. Nello stesso anno conosce l’uomo che le farà perdere la testa. Si chiama Ivano Fossati ed è un cantautore con cui collaborerà per l’album “Per amarti” e più tardi quello che verrà intitolato “Danza”.
Il rapporto tra i due è fatto di amore e contrasti. "Mia" è un nome, non un aggettivo possessivo, eppure Fossati è convinto del contrario, tanto che durante un’intervista la cantante ricorderà la relazione fatta di basi “sanguinolente e catastrofiche, - e continuerà – Avevo un contratto con un’altra casa discografica e ho dovuto romperlo a causa sua. Perché era geloso, dei dirigenti, degli amici, di tutti. Ma soprattutto era geloso di me come cantante”.
L'infamia e il declino
In seguito a due difficili interventi alle corde vocali Mia torna sul palco con un look più sobrio e discreto e realizza un album dal nome “Mimì” che contiene dieci brani interamente scritti da lei. Seguono altri successi fino al 1982 l’anno in cui decide di partecipare al Festival di Sanremo. Dopo che si era tirata indietro per ben due volte, quell'anno invece sente di farcela e porta un brano scritto da Fossati: “E non finisce mica il cielo”, con cui vince il Premio della Critica riconosciuto dai giornalisti; lo stesso premio dopo la sua morte prenderà proprio il nome Premio Mia Martini. Successivamente ritrova il successo con “Quante volte…ho incontrato le stelle” e collabora con grandi nomi come Cocciante, Giani bella, Mogol.
La carriera da artista pesa sulle spalle di chi è emotivamente più sensibile e Mimì è una persona estremamente empatica. Questo per lei è un dono perché scrive e interpreta testi che smuovono l'anima, ma è anche una condanna perché la costringe a sentire in modo amplificato tutto ciò che la circonda. Ancora peggio se si deve sorreggere il peso di un'infamia nata solo per il pretesto di alienarla e gettarle ombra. Comincia infatti a spargersi la diceria che Mia Martini porti sfortuna a chi le sta a fianco a causa di un episodio avvenuto qualche anno prima. Un rientro da un concerto in Sicilia era finito in tragedia: durante un incidente stradale erano morti Gianni Caia e Steve Stogel, che poche ore prima si erano esibiti con Mia e la colpa era ricaduta proprio su di lei. Da lì in poi molti le applicano l’etichetta di “portatrice di jella”.
Dieci anni dopo, nel 1983 Mimì è ancora bersaglio di parole sbagliate nei suoi confronti che non riesce a cancellare dalla sua mente. Qualcuno fa il gesto delle corna, qualcun altro si gira dall'altra parte quando la incrocia. Decide quindi di ritirarsi dalle scene per vivere lontana dai riflettori: “La mia vita era diventata impossibile. Qualsiasi cosa facessi era destinata a non avere alcun riscontro e tutte le porte mi si chiudevano in faccia. C’era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch’io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare a un festival…”.
Anche gli amici, come Patty Pravo che in seguito negherà, le girano le spalle, e infatti durante un’altra intervista racconta un episodio in cui doveva essere ospite per un programma di cui il regista era l’amico Gianni Boncompagni: “Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla sua troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out”, per schernire la cantante già vittima di infamia. Addirittura per un periodo la Rai non trasmette le sue canzoni.
Stanca e avvilita si rifugia quindi nelle campagne umbre isolata da tutto e tutti. Il periodo di depressione dura anni e per arginare il problema economico si esibisce solo in serate nelle località di provincia con un pubblico ristretto.
Il terzo periodo musicale
Nel 1889 il musicista e discografico Gianni Sanjust la convince a ritornare a cantare con il brano per anni rimasto inedito: “Almeno tu nell’universo”, che viene selezionato per gareggiare al Festival di Sanremo. Gli incubi, in quei giorni, li fa di notte e di giorno: l'intervento le ha cambiato il timbro, molti se ne accorgono ma nessuno glielo dice e poi ci sono ancora colleghi che non la guardano dritto negli occhi perché fa ancora paura. Sul palco trema, inizia il sottofondo musicale e cala il silenzio. Tutti aspettano trepidanti e l'attacco è lento. All'improvviso arriva il ritornello e ruggisce"...tu, tu che sei diverso, almeno tu nell'universo".
Ce l'ha fatta, ha lasciato tutti sbalorditi con la sua potenza. Arriva solo al nono posto, ma vince il premio alla critica con l’entusiasmo dei giornalisti e del pubblico, premio che per chi ci vede lungo e solo di consolazione. Ne segue un breve periodo durante il quale la cantante viene nuovamente acclamata e invitata nei programmi televisivi e nell’estate dell’anno successivo partecipa al Festivalbar dove le viene conferito il disco d’oro per l’ultimo album “Martini Mia”. In autunno riceve la Targa Tenco come migliore interprete femminile dell’anno e un mese dopo viene premiata dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti come “Interprete per eccellenza”.
Da questo momento escono vari singoli e una raccolta, nel ’92 partecipa nuovamente a Sanremo con “Gli uomini non cambiano” con cui arriva seconda ma non le impedisce di partecipare all’Eurovision e con l’album “Lacrime” riceve un ulteriore Disco d’oro. L’anno successivo si presenta nuovamente al Festival insieme alla sorella Loredana Bertè con la quale recupera il rapporto dopo dieci anni di silenzio. La canzone si chiama “Stiamo come stiamo” e le aspettative da parte del pubblico e della critica appaiono sin da subito altissime, ma a penalizzarla saranno i rapporti ancora tesi tra le due Bertè. Dal 1993 inizia una serie di collaborazioni, tra queste vi doveva essere anche quella con Mina con il fine di intraprendere vari progetti musicali.
Negli ultimi mesi del ’95 la cantante scopre di avere un fibroma all’utero ma decide di non sottoporsi all’operazione perché teme che possa incidere sul suo timbro vocale. Per alleviare le sofferenze quindi, inizia a prendere vari antidolorifici che le causano la spossatezza di cui si lamenta con amici e parenti.
Il 14 maggio 1995, a seguito di alcuni giorni di irreperibilità, i vigili del fuoco entrano nella sua casa in provincia di Varese trovando il corpo esanime sul letto: sulle orecchie ancora le cuffie con cui ascoltava la musica e il braccio teso verso l’apparecchio telefonico. L'autopsia dichiarerà che a stroncare la cantante è stato, due giorni prima del ritrovamento, un arresto cardiaco determinato dall’abuso di cocaina, ma le sorelle non crederanno mai all'ipotesi di suicidio. Negli anni successivi infatti innumerevoli congetture e sospetti hanno reso la morte dell'artista un mistero ancora non risolto.
Il suo ricordo eterno, però, è stato reso possibile grazie ai colleghi artisti che continuano ancora oggi a dedicarle le loro interpretazioni dei suoi più grandi successi. Anche nel campo televisivo moltissimi sono stati gli omaggi alla cantante come il film “Io sono Mia” con Serena Rossi e il docu-film “Fammi sentire bella”.
Qualcuno si chiede cosa o chi l'ha davvero uccisa e se sia morta quel giorno del 12 maggio o mese dopo mese dai colpi subiti quotidianamente da chi aveva paura di lei e di pronunciare il suo nome. Una vita “dolorosissima”, come l’aveva descritta lei durante un’intervista, con picchi e crisi costanti, senza neanche un attimo di tregua da quel successo che tanto dà, ma tanto toglie a personalità immense e allo stesso tempo delicate come quella di Mimì.
Mia Martini avrebbe 75 anni: le origini del nome d’arte, l’amore con Ivano Fossati, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2022.
«Almeno tu nell'universo», «Minuetto», «Gli uomini non cambiano»: il 20 settembre 1947 nasceva a Bagnara Calabra una delle voci simbolo della musica italiana
Seconda di quattro figlie
Domenica Rita Adriana Bertè in arte Mia Martini («Mimì»), una delle voci simbolo della musica italiana, compirebbe oggi 75 anni. La cantante, prematuramente scomparsa nel 1995, era nata a Bagnara Calabra in provincia di Reggio Calabria il 20 settembre 1947, figlia di un insegnante di latino e greco e di una maestra elementare. Era la secondogenita di quattro figlie: le sue sorelle sono Leda (1946), Loredana (nata nel 1950, anche lei il 20 settembre) e Olivia (1958). La sua carriera prenderà il via nei primi anni Sessanta, quando convincerà la madre ad accompagnarla a Milano, in cerca di un'audizione per un contratto discografico. L’anno successivo inciderà i suoi primi 45 giri, ma ci sono molte altre curiosità e aneddoti poco noti sul suo conto.
Le origini del nome d’arte
Fu l'avvocato Alberigo Crocetta, produttore discografico (scopritore di talenti come Patty Pravo e Mal) e fondatore del Piper, a suggerirle il nome d’arte Mia Martini: Mia - dall’attrice Mia Farrow - e Martini dall’omonimo marchio (all'epoca una delle tre parole italiane più famose all'estero).
Il provino Rai
«Video - Giovanile ma banale. Voce un po’ nasale ma incisiva. Stile moderno, tipo urlatori alla Celentano. In quel genere ha una certa aggressività e può essere utilizzata». Così si legge sulla scheda del provino fatto in Rai da «Minù Berté» il 6 maggio 1964.
Due vittorie consecutive al Festivalbar
Forse non tutti sanno che Mia Martini è l'unica interprete femminile ad aver vinto due Festivalbar consecutivamente, nel 1972 (con «Piccolo Uomo») e nel 1973 (con «Minuetto»).
L’amore con Ivano Fossati
Nella seconda metà degli anni Settanta Mia Martini incontra Ivano Fossati, con cui vivrà una storia d’amore molto travagliata (lei la descriverà come un «campo minato»). «Avevo un contratto con un'altra casa discografica e ho dovuto romperlo a causa sua. Perché era geloso, dei dirigenti, dei musicisti, di tutti - raccontava nel 1990 la cantante alla giornalista Ivana Zomparelli di Noi Donne -. Ma soprattutto era geloso di me come cantante. Diceva che mi voleva come donna, ma non era vero perché infatti non ha voluto nemmeno un figlio da me, e la prova d'amore era abbandonare del tutto anche la sola idea di cantare e distruggere completamente Mia Martini». Il cantautore scriverà per lei diverse canzoni, molte delle quali incluse nell'album «Danza» (1978).
Il Premio della Critica a Sanremo
Nel 1982 Mia Martini canta al Festival di Sanremo «E non finisce mica il cielo», scritta sempre da Ivano Fossati. Vincerà il Premio della Critica, istituito proprio per la sua interpretazione. Tale riconoscimento a partire dal 1996 prenderà il suo nome (Premio della Critica Mia Martini).
Il ritiro
«C'era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch'io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare a un festival, perché con me nessuna casa discografica avrebbe mandato i propri artisti. Eravamo ormai arrivati all'assurdo, per cui decisi di ritirarmi». Nel 1983 Mia Martini decide di ritirarsi dalle scene a causa della maldicenza che la perseguitava dal decennio precedente. Tutto era iniziato nel 1970 (lo raccontò la stessa Mimì al giornalista Paolo Butturini di Epoca): un impresario, Fausto Paddeu soprannominato «Ciccio Piper», che aveva incassato un suo rifiuto per un’esclusiva a vita, le «appiccicò l’etichetta di porta jella» in seguito ad un incidente di ritorno da un concerto in Sicilia («Il pulmino su cui viaggiavo con il mio gruppo fu coinvolto in un incidente. Due ragazzi persero la vita»). L’esilio volontario di Mia Martini durerà fino al 1989, quando presenterà a Sanremo «Almeno tu nell'universo», che la riporterà al successo.
Due volte ad Eurovision Song Contest
Mia Martini ha rappresentato l'Italia all'Eurovision Song Contest per due volte, nel 1977 a Londra con «Libera» (otterrà il 13mo posto) e nel 1992, in Svezia, con «Rapsodia» (anno in cui ottenne una grande attenzione mediatica in quanto cognata dell’ex tennista svedese Björn Borg, che aveva sposato sua sorella Loredana. Arriverà quarta).
Il duetto con Loredana
«C’è una piramide di cielo ancora da scalare». Con sua sorella Loredana, con cui ha mosso i suoi primi passi artistici (insieme allo storico amico Renato Zero), Mia Martini ha partecipato a Sanremo: è accaduto nel 1993, il brano era «Stiamo come stiamo».
Tifava Napoli
Mia Martini era molto legata alla città di Napoli (memorabile la collaborazione con Roberto Murolo ed Enzo Gragnaniello su «Cu'mme»). Era anche una grande tifosa della squadra partenopea: cinque giorni prima di morire era andata allo stadio, in curva, per vedere il match Napoli-Inter.
Mia Martini, 27 anni fa l’addio: il racconto delle sue ultime ore. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.
La cantante, straordinaria interprete della musica italiana, se ne andava il 12 maggio 1995 nella sua casa di Cardano al Campo.
Addio Mimì
«Sono Mimì, sono di Bagnara Calabra, abbiamo un sole noi che ci fa le radiografie appena nati. Gli odori, i colori della natura nella mia terra sono forti e violenti anche nell’animo umano. Odio essere un idolo, che male ho fatto per essere un idolo? Perché non posso essere una persona normale?». Sono le parole che Domenica Rita Adriana Berté, in arte Mia Martini, affidò al giornalista Gabriele Bojano qualche mese prima di morire. La cantante desiderava soltanto un po’ di normalità, dopo aver passato anni a combattere quelle vergognose maldicenze che hanno gettato per troppo tempo ombre sulla sua carriera condannandola alla solitudine. Era sola anche quando ha chiuso gli occhi per sempre a soli 47 anni, il 12 maggio di 27 anni fa nella sua casa di Cardano al Campo. La voce straordinaria di Mimì, capace di attraversare le corde dell’anima, si è spenta troppo presto nel silenzio ma ancora oggi risuona grazie all’amore del pubblico che non l’ha mai dimenticata e continua a ricordarla.
L’ultima apparizione in tv
«Lei mi disse una cosa bellissima prima di cantare, e con gli anni ho capito cosa volesse dire: “Mi fai venire voglia di cantare”. È bello quando c’è uno scambio tra musicisti, è tutto». L’8 aprile 1995 Mia Martini viene invitata a «Papaveri e papere», programma che celebrava il Festival di Sanremo ideato da Michele Guardì e condotto da Pippo Baudo e Giancarlo Magalli. Era l’anno della vittoria di Giorgia, e proprio con l’artista romana e Michele Zarrillo Mimì ha duettato su «Come saprei» e su altri brani che hanno fatto la storia della kermesse. Sarebbe stata la sua ultima esibizione televisiva.
Il brano per Viva Napoli
Un disco di canzoni napoletane (che si sarebbe dovuto intitolare «Napoli Mia»), un album dedicato alla luna («Canto alla luna», dal brano del 1978 scritto per lei da Ivano Fossati e pubblicato in «Danza»), tributi a Tom Waits e Billie Holiday: aveva diversi progetti in cantiere Mia Martini in quei primi mesi del 1995, e presto avrebbe preso parte al programma di Canale 5 Viva Napoli, condotto da Mike Bongiorno. Con la musica napoletana Mimì da tempo ha stretto un legame molto forte: ha ottenuto ottimi riscontri dopo aver interpretato «Cu'mme», in coppia con Roberto Murolo ed Enzo Gragnaniello, e grande successo aveva avuto anche la sua apparizione a Viva Napoli (nel 1994, aveva cantato «Luna rossa»). Negli ultimi giorni della sua vita Mia stava preparando il brano che avrebbe dovuto cantare durante la seconda edizione della trasmissione, e - nel corso della sua ultima telefonata alla sorella Olivia - l’aveva avvisata: se non avesse risposto al telefono nei giorni successivi non si sarebbe dovuta preoccupare («Ho sempre le cuffie sulla testa», le disse).
14 maggio 1995
Il manager di Mia Nando Sepe, che doveva accompagnarla ad un concerto in programma a Salerno, da giorni non riesce a mettersi in contatto con lei. Il 14 maggio 1995 si precipita in via Liguria 2, a Cardano del Campo (era lì, in provincia di Varese, che da qualche settimana la cantante si era trasferita per stare più vicina al padre), e dopo aver provato più volte a citofonare si fa dare le chiavi dalla padrona di casa. Non riuscendo ad aprire la porta, perché l’appartamento è chiuso dall’interno, è costretto a chiamare i pompieri. Saranno loro a trovare l’artista senza vita, distesa sul suo letto, in pigiama, con le cuffie del walkman poggiate sulle orecchie e con il braccio proteso verso il telefono. La notizia della morte di Mimì si diffonde immediatamente (la prima a darla è Mara Venier a Domenica In). Nei giorni successivi vengono celebrati i funerali, nella chiesa di San Giuseppe a Busto Arsizio, il corpo viene cremato e le ceneri deposte nel cimitero di Cavaria con Premezzo.
Le ipotesi sulla morte
All’indomani della scoperta della morte di Mia Martini la Procura apre un’inchiesta: il decesso viene attribuito ad un arresto cardiocircolatorio ma le circostanze non sono mai state chiarite del tutto e negli anni si sono rincorse le ipotesi più disparate (si è parlato ad esempio di un’overdose di cocaina e anche di un possibile suicidio, ma la famiglia ha sempre smentito con forza queste ricostruzioni). Della morte di Mimì hanno spesso parlato i suoi familiari (Loredana Bertè, le altre sorelle Leda e Olivia e il padre Giuseppe, scomparso nel 2017 a 96 anni), e c’è un dettaglio in particolare - nel racconto delle ultime ore dell’artista - che ritorna spesso e che rende la scomparsa di Mia ancora più dolorosa: quella mano protesa verso il telefono. «La mia occasione mancata? Una telefonata», ha raccontato Loredana al settimanale Chi qualche anno fa. Una telefonata mancata che ancora oggi la tormenta: «Molti anni fa mia sorella Mimì mi regalò uno dei primi telefoni cellulari. Il motivo del regalo era strettamente legato alla voglia di sentirmi più spesso ma io, senza un perché, lo buttai. Tempo dopo, il telefono di casa iniziò a squillare ma non risposi. Quella sera morì Mimì e io rimarrò sempre con il dubbio di aver perso la telefonata della vita».
· 25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.
Giorgio Strehler, meglio anche delle stelle. EDVIGE VITALIANO su Il Quotidiano del Sud il 18 Dicembre 2022.
GIORGIO Strehler: vita e morte di un visionario geniale capace anche di intervistarsi meglio di chiunque altro. “Sovente lo spettacolo è già fatto in pochi giorni e sono dei giorni di felicità creativa. Non può sempre essere così. Ecco la dannazione, la grandezza, la disciplina, il martirio del teatro: il gioco, l’invenzione creatrice debbono sempre essere fissate, riprodotte… e colui che le ha inventate spesso non si ricorda più come vi è giunto o non riesce più a riprodurle è qui che interviene più che mai il regista che deve saper registrare e rendere cosciente il processo che ha scatenato questo momento. È il periodo più duro del lavoro che io faccio al Piccolo e altrove: ridare corpo, suono e splendore all’invenzione perduta di tutti gli attori. Poco a poco, con umiltà questi piccoli segmenti di spettacolo ritrovano un colore iridescente ma per giungerci bisogna spesso passare attraverso un lavoro opaco…”
Questa lunga intervista “a sé stesso” pubblicata da De Piante di cui è possibile ascoltarne anche un estratto audio sul sito della casa editrice, fu stampata su un programma di sala del Piccolo Teatro nel 1984 e non fu mai pubblicata. Dimenticata e poi ritrovata negli archivi del teatro milanese svela l’essenza di Giorgio Strehler. Alla soglia dei 65 anni, Strehler qui raccontava “la sua straordinaria carriera, come regista e come intellettuale, ma anche i dubbi e le mancanze di un lavoro sui testi e sugli autori più grandi che fu maniacale, ma non sufficiente a colmare la vastità della possibilità che la storia millenaria del teatro apre”.
«Il teatro è una metafora della vita e della morte, ma è anche storia e cronaca che, a loro volta, sono politica», osservava il regista. Rovesciando la clessidra delle parole, nel suo caso si potrebbe dire che la sua vita è stata una metafora del teatro. Sono trascorsi venticinque anni dalla sua scomparsa avvenuta il 25 dicembre 1997. Un vuoto che però continua ad essere un pieno per chi il teatro lo ha fatto e lo fa, lo ama e lo vive e per chi a teatro ci va. Perché Strehler è tra i nomi che ne hanno fatto la Storia, ne hanno scritto regole e ne hanno scardinate altre. Un innovatore, geniale al punto che Le Monde lo definirà “il più grande regista del ‘900”. Affascinante e colto. Iconico. Lo sguardo inquieto, la voce inconfondibile, i gesti, il maglione a collo alto… Anche la sua fisicità era teatrale. Come la sua morte a sorpresa. Alle quattro del mattino di quel 25 dicembre nella sua abitazione di Lugano dove aveva trascorso la vigilia della festa “cenando con alcuni amici, dopo aver fatto l’albero di Natale nel giardinetto di casa”, riportarono le cronache del tempo. L’albero, le luci, la festa e in testa quel “Così fan tutte” di Mozart a cui stava lavorando: l’ultimo allestimento resta per lui un sogno spezzato. Il debutto negato. L’applauso di scena mancato. Centinaia e centinaia le persone che affollarono la camera ardente aperta per 24 ore nella platea del Piccolo a Milano. Come fu per Paolo Grassi con cui Strehler, insieme a Nina Vinchi, aveva creato quel teatro: il primo teatro pubblico e stabile italiano.
Lacrime e dolore sulle note di Mozart nel giorno dell’ultimo saluto. «Si è spenta la grande luce», disse Valentina Cortese che ne seguirà il feretro stringendo tra le mani tre rose bianche. Milano poi Trieste dove le sue ceneri riposano nel cimitero di sant’Anna nella semplicissima tomba di famiglia e dove Strehler era nato il 14 agosto 1921 a Barcola il quartiere affacciato sul mare in una famiglia crocevia di lingue e culture diverse: slavo il nonno musicista, francese la nonna di cui per un certo tempo userà il nome come pseudonimo, di origini viennesi il padre.
A sette anni, Giorgio orfano del padre si trasferisce con la madre Alberta Lovric, violinista di fama, a Milano. È qui che inizia la partita a scacchi con il teatro che lo accompagnerà per tutta la vita. La scintilla si accende durante la rappresentazione di “Una delle ultime sere di Carnovale” di Carlo Goldoni a cui assiste da giovane spettatore. Giorgio rimane folgorato. Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici, dove si diploma nel 1940. Il debutto alla regia è datato 1943: a Novara con tre atti unici di Pirandello. La guerra spariglia le carte ma non spegne la passione per il palcoscenico, anzi. “Ostile al regime fascista, nel gennaio 1944 lascia l’Italia e si rifugia in Svizzera, dove continua a fare teatro: con una compagnia di soli uomini, nel Campo di Mürren, poi a Ginevra, dove fonda la Compagnie des Masques e firma gli spettacoli con lo pseudonimo Georges Firmy, dal cognome della nonna materna”, si ricorda sul sito del Piccolo teatro. La guerra finisce e Strehler torna a Milano. È il 14 maggio 1947 quando il sipario si alza su “L’albergo dei poveri” di Maksim Gorkij, titolo che Grassi, Strehler e Vinchi scelgono per inaugurare il Piccolo: la sala di via Rovello restituita all’arte dopo la guerra. Strehler stesso è in scena nel ruolo del ciabattino Alioša. Appena due mesi prima, aveva debuttato al Teatro alla Scala con “La traviata” di Giuseppe Verdi.
Il successo dei suoi spettacoli supera i confini. E c’è come un alone di magia e incanto tra le parole, gli scritti, le interviste, i film documentari, i racconti di e su Strehler. Come quando Gabriele Lavia in un’intervista racconta della capacità del regista di dilatare lo spazio attraverso le sue messe in scena così che anche il Piccolo – un palcoscenico di soli sei metri profondità per cinque e mezzo di lunghezza e cinquecento posti a sedere – diventava immenso…
Magie che riescono ai geni che scalfiscono e graffiano anche la cronaca. C’è ad esempio nella vita di Strehler anche un celeberrimo “mi dimetto da italiano”. Era il 1993, il regista viene processato dal Tribunale di Milano per truffa e malversazione relativa all’utilizzo di contributi del Fondo sociale europeo. Nel 1995 verrà completamente scagionato ed assolto: “il fatto non sussiste” ma il dolore per quell’accusa lo porterà a pronunciare quelle parole che hanno il rumore di un tuono prima di lasciare l’Italia per Lugano, città che torna spesso nella biografia del regista votato alla religione del teatro.
Il Teatro – inclusa la “scoperta” per il pubblico italiano di un autore come Bertold Brecht – ma anche l’opera lirica, la politica e le donne che puntellano la vita privata e quella sul palcoscenico di Giorgio: la prima moglie, la ballerina e coreografa Rosita Lupi, Ornella Vanoni a cui ritagliò il ruolo dell’interprete delle canzoni della mala e di “Ma mi…” musicata da Fiorenzo Carpi, l’ultima moglie l’attrice tedesca Andrea Jonasson. E poi le primedonne che hanno lavorato con lui da Giulia Lazzarini a Ottavia Piccolo, da Valentina Cortese a Monica Guerritore, da Pamela Villoresi a Milva. Ma, qual è il debito che abbiamo con Strehler? La risposta migliore probabilmente l’ha data qualche tempo fa Andrea Jonasson a Maurizio Porro tra i più noti critici cinematografici e teatrali italiani in un’intervista per «la Lettura» del Corriere della sera: «Faceva un teatro comprensibile a tutti: una sera il fisico Carlo Rubbia, il Premio Nobel, ci disse che vedere le prove di Strehler era meglio che guardare le stelle».
Meglio che guardare le stelle? Forse perché il lavoro del regista si nutriva di quel “teatro umano” da lui teorizzato? «Non ci può essere teatro senza il valore dell’umano. Senza quella luce non c’è niente», asseriva Strehler. E sembra di vederlo l’uomo, l’essere umano al centro del palco sotto la sua regia magari con indosso una maschera da commedia dell’arte come quella dell’ Arlecchino servo di due padroni di Goldoni. Intramontabile l’allestimento che ne fece Strehler . «Ha il segno della vita che passa e si rinnova. È sangue che pulsa e scorre nelle vene di un teatro reale e immaginario, come in un corpo umano», diceva di quello spettacolo che gli è sopravvissuto così come il suo teatro umano. Una magia che riesce a pochi.
Da corriere.it il 24 giugno 2022.
Gaffe di Fedez che durante una diretta del podcast “Muschio Selvaggio” ha ammesso di non conoscere il nome di Giorgio Strehler. Tutto è successo nella puntata con ospite Gerry Scotti. Ad un certo punto, il conduttore ha citato Strehler, regista teatrale e direttore artistico prima in Italia poi all’estero.
Fedez ha dapprima annuito, poi ammesso di non conoscerlo: «E chi è Streller?» ha chiesto rivolto alla telecamera, storpiando il nome. Gerry Scotti, calmo ma serio, ha spiegato: «Uno dei più grandi registi ed attori di teatro italiani». «Ah scusatemi» la risposta del cantante che ha poi cambiato argomento.
Sui social una pioggia di commenti per lui e Luis Sal divisi tra chi considera assurdo che i due non conoscano il regista considerando che vivono a Milano e chi li difende perché giovani (Strehler è scomparso quando Fedez non aveva nemmeno 10 anni).
Guglo, quindi sono. L’ignoranza di Fedez su Strehler e la velleitaria sapienza degli editorialisti su Twitter. Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.
Perché uno nato nel 1989, in una famiglia non ricca e non colta, dovrebbe sapere chi è uno dei più importanti registi teatrali italiani? Avete mai visto un intellettuale vantarsi di conoscere la data di nascita di Manzoni?
Me la vedo, l’editorialista ignorante come un carabiniere, che va sulla voce Wikipedia di Giorgio Strehler. Cinque minuti prima, di lui sapeva che era un tizio coi capelli bianchi e il golf a dolcevita, ah sì quello del teatro vicino alla fermata del metrò in Brera; cinque minuti dopo, si sente istruita e in grado di fare il suo bravo post Instagram in cui esprimere sussiego nei confronti dell’arricchito semianalfabeta che osa non conoscere a memoria gli allestimenti strehleriani di Brecht, e mica sarà una giustificazione che siano andati in scena trent’anni prima che l’arricchito nascesse.
Esistono ancora ricchi colti? È la domanda che mi sono fatta più spesso negli ultimi anni, da quando i ricchi stanno per la maggior parte su Instagram, e svelano ogni giorno il loro non essere in grado di scrivere una didascalia senza errori d’ortografia. La prima volta che mi parlarono di Gianluca Vacchi mi dissero che un intellettuale che conosco gli faceva da precettore, e non mi sono mai presa il disturbo di verificare se fosse vero, ma non ho mai smesso di pensarci: perché quelli che non hanno studiato, quando si arricchiscono, non si prendono tutti un precettore che li renda conversatori passabili, gente che sa i nomi delle correnti filosofiche e quelli degli scrittori quel tanto che basta ad avere, a cena, argomenti che non siano la manicure semipermanente e i bitcoin?
Non lo fa nessuno: sono impegnati a fatturare. Ogni ora che passi con un precettore che t’insegni la storia della letteratura – ammesso tu riesca ad ascoltarlo, con l’attenzione fragile e frammentata che ormai abbiamo tutti – è un’ora in cui potresti fare qualche filmino che ti aumenta il mercato di Instagram. E per il mercato di Instagram devi filmare i cani, i figli, gli addominali, mica il tuo tentativo di leggere la Recherche (oddio, su TikTok la Recherche con le pecette colorate funziona, ma se devi preoccuparti dei colori delle pecette per renderla fotogenica mica ti resta il tempo di leggerla).
Per chi fosse stato su Marte (o a fatturare) e si fosse perso il desolante spettacolo di aspiranti intellettuali ignoranti come carabinieri che fanno la moralina al marito della Ferragni che, santo cielo, ha detto «chi cazzo è Strehler», riassumiamo i fatti.
Il marito della Ferragni fa un podcast. Registrato e montato, come tutti i podcast. L’ospite è Gerry Scotti che a un certo punto, parlando delle candidature politiche dei personaggi noti a Milano, dice «l’ultimo nome che hanno proposto era Strehler». Il marito della Ferragni, trovandolo immagino un nome buffo, si volta ridendo verso qualche collaboratore e chiede «chi cazzo è Strehler».
I commentatori ignoranti come carabinieri titolano «gaffe», ignari che una gaffe è un inciampo che ti sputtana tuo malgrado, che non puoi far nulla per nascondere: gliene fosse fregato qualcosa, l’avesse ritenuto rilevante, quella battuta l’avrebbe agevolmente tagliata prima di mettere on line il video. «Non so niente, come tutti voi» è la formula vincente di questi anni di comunicazione, e questo chiunque non sia ignorante come un carabiniere lo sa, ma la domanda è un’altra: perché uno nato nel 1989, in una famiglia non ricca e non colta e azzarderei non frequentatrice del teatro di prosa, dovrebbe sapere chi è Giorgio Strehler?
Con l’impeto con cui potrebbe indignarsene la Vanoni (l’unica che sarebbe autorizzata a ritenere imperdonabile la lacuna: va bene non esser mai stato a teatro, ma dove hai vissuto per non aver mai letto un’intervista a Ornella Vanoni in cui racconta sempre con le stesse parole sempre gli stessi aneddoti sulla sua grande storia d’amore con Strehler?), una scrittrice su Twitter dice che Strehler le ha cambiato la vita.
È una donna adulta, e io resto attonita ogni volta che un adulto sostiene che un libro, un film, un personaggio pubblico gli hanno cambiato la vita. Resterei attonita anche se dicessero che gliel’ha cambiata una loro zia (che vuol dire «cambiare la vita»? Forse una zia che ti lascia erede universale, toh, quella effettivamente ti cambia la vita), ma no, la loro vita l’ha sempre cambiata un romanziere, uno che sono andati a vedere a teatro, un concerto. Mai la scoperta che sulle tagliatelle ai porcini stia benissimo il parmigiano, o un sonnifero che finalmente funzionasse.
Notevoli anche quelli secondo cui i registi teatrali si studiano a scuola. I programmi sono sicuramente cambiati dai miei tempi, quando sì, portai alla maturità Beckett come argomento a piacere perché facevo il linguistico, ma se avessi frequentato una scuola in cui la letteratura inglese non era la prima materia probabilmente tutto quel che avrei saputo di Shakespeare sarebbe stato che c’era un film di Zeffirelli da Romeo e Giulietta.
Magari ora si studia di più il teatro (non secondo gli insegnanti con cui ho parlato in questi giorni), ma sospetto nel caso se ne studino sì e no i testi. O forse, come successe a noi al posto d’una lezione di letteratura francese, gli si fa vedere qualcosa, ai liceali che al buio limoneranno senza guardare lo schermo: a noi fecero guardare il film da Notre-Dame de Paris, il che non mi rese una che quindici anni dopo quella lezione sapeva qualcosa del regista. E se, trent’anni dopo, so qualcosina di Victor Hugo o di Gina Lollobrigida, è perché mi sono occupata di queste cose da grande. Della scuola ti resta sì e no la capacità di far le addizioni, se da grande studi: avete mai visto un intellettuale vantarsi di sapere i confini dell’Umbria o la data di nascita di Manzoni?
Se poi da grande sei uno che dice che aveva buoni voti a scuola perché non ha vanti culturali adulti, beh, quello è in effetti un problema drammatico. Aggravato dal tuo (eventuale ma probabile, a guardare le statistiche che accomunano i discorsi pubblici d’intellettuali e miliardari) non sapere distinguere tra i casi grammaticali in cui utilizzare «gli» e quelli in cui utilizzare «le»: quello dovevi imparare, a scuola, no le regie teatrali.
La terza specie di adulti del presente, quella di chi da piccolo non aveva buoni voti e da grande se ne fotte giacché impegnato a fatturare, è tutto sommato la più lieta, mentre noi ci agitiamo perché santo-cielo-come-si-può-ignorare-l’allestimento-di-Arlecchino.
C’è poi tutta una suscettibilità geografica: Strehler è Milano, come può uno che vive a Milano non sapere. Se pensate il campanilismo dei romani sia scemo, sappiate che i milanesi si stanno attrezzando per competere. Ho avuto la tentazione di rispondere a qualcuno di questi che ho sempre trovato noiosissimo Jannacci, ma ho temuto mi avrebbero risposto di andare su Google. Google è la grande risposta di questi polemisti dilettanti a tutto: sono davvero convinti che se googlo la scissione dell’atomo diventerò una persona in grado di parlare di Fisica, che tutto quel che mi separa dall’essere colta in settori dei quali non so nulla sia una rapida ricerca e la lettura d’una voce Wikipedia. Sono davvero convinti che se contesto l’importanza di qualcosa è perché non la conosco, e che se fossi informata sarei d’accordo con loro, che sono istruiti e ancora sognano l’esame di maturità, tra una ricerca su Google e l’altra.
Ieri Andrea Pennacchi, che conosce il teatro come pochissimi, ha twittato una parafrasi di Chiedi chi erano i Beatles, canzone manifesto di questo tempo in cui nessuno sa niente ma la cosa che non sanno gli altri è sempre più grave di quella che non sai te, in cui esortava a chiedere chi cazzo fosse Strehler. Gli hanno spiegato che aveva messo in scena il Faust. Su Google il senso del tono mica lo trovi, se sei ignorante come un carabiniere ma l’accesso a tantissime informazioni ti fa sentire mica istruito: addirittura colto.
La drammatica verità è che Google è utile in casi molto marginali. Per esempio lo si può aprire per cercare «ignorante come un carabiniere», facendosi venire il dubbio che sia una citazione e che sia bene saperlo prima di correre sui social a scrivere che quella stronza manca di rispetto all’Arma. A scoprire autore e contesto e a chiedersi chi sia lecito ignorare e chi no, degli autori naturalizzati milanesi, e a chi somigliamo, tra l’ignorante con velleità e quello troppo impegnato a fottersene e fatturare.
Strehler non si studia a scuola ma bisognerebbe farlo. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022
La risposta di Fedez a Gerry Scotti durante la diretta di “Muschio Selvaggio” si appella alla nostra ignoranza.
Il punto non è che Fedez ignori chi sia stato Giorgio Strehler . Il punto è che Fedez si appella alla nostra ignoranza, ci chiama a correi o complici, se ne compiace e ci compiace, o pensa di farlo. Fedez non chiede a Gerry Scotti (che al confronto pare Bobbio): chi era Strehler?. Chiede a noi: «Chi cazzo era Strehler, raga?». Come a dire: non c’è nessun motivo per saperlo, sono certo che non lo sappiate neanche voi, avanti così che andiamo bene.
Davvero; il punto non è la cultura generale degli artisti. Tranne rare eccezioni (un Riccardo Muti, un Francesco De Gregori), quasi mai gli artisti hanno fatto studi regolari, hanno letto molti libri, hanno una cultura accademica. Ma gli artisti hanno il radar. Hanno antenne che consentono loro di capire, e mettersi in sintonia con le persone. Lucio Dalla ad esempio non aveva studiato, ma era una persona coltissima, sapeva moltissime cose, e ancor di più ne aveva comprese o intuite. Al Bano non è Lucio Dalla; ma su Putin ha dimostrato di avere chiare cose che all’evidenza sfuggono a professori narcisi che hanno passato la vita a studiarle.
Se Fedez ha risposto come ha fatto, è perché pensa, o forse sa, che l’ignoranza è ormai considerata una virtù. Forse è sempre stato così: l’italiano è l’unica lingua in cui la parola “ignorante” sia usata in un’accezione positiva; il pane genuino è “cafone”, gli osti romagnoli chiamano “ignoranti” le tagliatelle più saporite (e in un negozio di vestiti ho sentito definire “ignoranti” pure giacche che calzavano bene). Però l’era dei social ha definitivamente sdoganato l’ignoranza come valore; e a invertire la rotta non sarà la resipiscenza di un Di Maio, idolo del web quando diceva “uno vale uno” e bersaglio della Rete quando si rende conto che ovviamente non è così.
Dice: Strehler non si studia a scuola. E’ vero; anche se bisognerebbe farlo. Ma basta aver letto una delle tante interviste dolenti e innamorate in cui le sue donne, da Ornella Vanoni ad Andrea Jonasson, ancora oggi parlano di lui, per capire quale personaggio straordinario fosse, con i suoi vizi e le sue virtù. Tra le quali ci fu quella di pulire dagli schizzi di sangue la casa dove i nazisti avevano torturato i resistenti milanesi per farne la prima sede del Piccolo Teatro. Pazienza se non ci si vergogna di non sapere chi è Strehler (al presente, perché i grandi artisti non muoiono mai). Sarebbe già tanto non vergognarsi di saperlo.
Un maestro fragile, aggressivo, inquieto. Ecco Strehler, il gigante del "Piccolo". Andrea Bisicchia il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.
Nel volume di Sara Chiappori 22 interviste ad attori, amici e amori del regista.
Sara Chiappori non è solo una giornalista, ma anche una ricercatrice, nel senso che non si limita alla notizia, perché cerca di approfondirne le origini e le finalità, inoltre è una passionaria del teatro, incontentabile e, a volte, anche profetica. Nel volume da lei curato, Strehler. Il gigante del Piccolo (Mimesis), riunisce 22 interviste ad attori, registi e collaboratori di Giorgo Strehler (1921-1997) con prefazione di Maurizio Porro, conoscitore profondo del Maestro, e introduzione di Piero Colaprico.
Il libro offre non solo il ritratto artistico, ma anche umano del grande regista, il suo fascino, i suoi scandali, il suo modo di interpretare i testi, di utilizzare la luce, di costruire i personaggi, oltre che la maniera con cui collaborava con gli scenografi, ai quali chiedeva l'impossibile, specie durante la realizzazione degli spettacoli sul palcoscenico angusto di via Rovello che, misteriosamente, diventava immenso con le sue regie, quando, goldonianamente, faceva entrare il mondo nel teatro, quando la rappresentazione diventava più importante della scrittura, benché il Maestro dicesse di essere sempre fedele al testo.
Di una cosa era certo, che tutto dovesse nascere sul palcoscenico e che le prove, pur faticose, lente, ossessive, per la ricerca dei dettagli, potessero essere anche divertenti, perché spronavano la fantasia e l'immaginazione. Ezio Frigerio diceva che «aveva l'occhio assoluto e un senso musicale della luce». La storia dei suoi spettacoli si intrecciava con quella degli amori, quello inquieto con Ornella Vanoni, quello appassionato per la sua «regina», Andrea Jonasson che ne racconta le fragilità, le attese tormentate in casa, durante le sue «Prime», con le tapparelle abbassate, la profondità nel «leggere» i testi e gli errori che solo un genio poteva permettersi. Non mancano gli amori professionali, quelli per i suoi attori: Giulia Lazzarini, la sua pupilla, o il fedelissimo Giancarlo Dettori che, con Fanca Nuti, lo ascoltavano fino alle sei del mattino, o Ferruccio Soleri che Strehler aveva fatto conoscere in tutto il mondo, senza che gli spettatori avessero visto il suo volto. Poi ci sono i giovani come Ottavia Piccolo che ne ricorda l'aggressività e la potente seduzione, come Monica Guerritore che racconta la nascita del personaggio di Ania, come Gabriele Lavia che lo considerava Dio, mentre lui si sentiva Adamo. Non mancano le testimonianze di registi, come Andrée Ruth Shammah che ricorda di averlo diretto nell'Agamennone, primo testo della «Orestea», tradotta da Emanuele Severino, in quanto Franco Parenti, essendo caduto, durante le prove, dovette attendere un po' per recitarlo.
Poi ci sono le testimonianze dei collaboratori più vicini, come Carlo Fontana che lo considerava un mito, perché, per lui, il Maestro, era Paolo Grassi, come Giovanni Soresi, testimone diretto di tutti gli spettacoli. O Sergio Escobar che, artisticamente, lo considerava una macchina perfetta e, quindi, infernale.
Infine, come postfazione, si può leggere l'intervento di Claudio Longhi che, non avendolo conosciuto professionalmente, ne scrive un breve saggio, non tanto per celebrarne la grandezza, quanto per interrogarsi su «quali altri geniali intuizioni sarebbe stata arricchita la sua carriera», se non fosse stata interrotta dalla morte.
Giovanni Audifreddi per “D - la Repubblica” il 31 gennaio 2022.
Gli Spettri tengono sveglia Andrea Jonasson, vedova di Giorgio Strehler. Non sono i due anni lontana dal palcoscenico, gli undici senza recitare in italiano o l'ottantesimo compleanno in arrivo che preoccupano la pluridecorata attrice, con in bacheca l'ordine al merito della Repubblica Italiana, che ha fatto venir giù i teatri di Vienna, Amburgo, Salisburgo, Monaco di Baviera oltre al Piccolo di Milano, naturalmente.
È colpa del testo del dramma ottocentesco del norvegese Henrik Ibsen, intreccio di fattacci e ipocrisie scritte 140 anni fa, rivisitato da Fausto Paravidino per essere portato in scena dal 3 febbraio al Teatro Carlo Goldoni di Venezia, con la regia del lituano Rimas Tumias.
«Lui è bravissimo e piacevole, ma non parla la nostra lingua e il teatro con un interprete è complicato. È una storia cupa e intricata, abbiamo solo quattro settimane di prove e l'idea è stata rimaneggiata più volte. Insomma, devo studiare, anche perché il ruolo della vedova Helena Alving mi somiglia poco: una vita di merda, sempre umiliata e a far finta di nulla davanti alle malefatte del marito, che le ha messo in casa anche la figlia illegittima».
Si può dire che il perbenismo borghese non faccia per lei?
«Detestabile. Il momento più bello è quando la vedova sbotta con il pastore luterano Mandres, e sbugiarda il moralismo puritano raccontando i vizi, l'alcolismo e i tradimenti dell'uomo che tutti incensano. La classica beatificazione di convenzione del defunto sarebbe stato troppo. Non mi stupisce che l'asilo che gli vorrebbero dedicare vada a fuoco».
Già, perché gli spettri del passato tornano sempre a fare giustizia?
«Qui c'è anche l'aggravante delle colpe del padre che poi ricadono sul figlio Osvald, scappato a Parigi, vita dissoluta anche lui e morbo della sifilide, che lo porta verso la pazzia e poi la morte».
Non proprio una vicenda allegra.
«Effettivamente, di questi tempi una scelta coraggiosa da sottoporre al pubblico. Ma il teatro è come lo fai. La gioia può nascere nello spettatore indipendentemente dalla storia. La felicità sboccia se senti di aver ricevuto un'emozione, un insegnamento. Far bene l'attore è trasmettere».
Una delle lezioni imparate dal Maestro Strehler?
«Giorgio aveva il dono dell'autentica passione per le arti. Questo genera la pazienza necessaria per insegnare, che significa condividere senza imporre. Lui ti sorreggeva a teatro e la sua foga, il suo piacere per il lavoro, diventava una protezione capace di dissolvere ogni paura».
Adesso è lei che beatifica.
«Strehler era un genio, non un dio. Infatti, aveva i difetti dell'umanità. Ma del tutto tollerabili per chi, come me, lo ha amato incondizionatamente. Tutto è imparagonabile davanti alla grandezza delle sue doti e alla generosità artistica».
Il suo lascito più importante?
«L'idea di dar vita a un teatro umano e comprensibile per tutti. Dalla popolana al professore universitario. Non amava gli intellettuali che vogliono creare una barriera con la cultura. Ricordo quando venne alle prove Carlo Rubbia, premio Nobel. Alla fine, ci disse che si era eccitato come durante un suo esperimento di astrofisica. A Giorgio piacque la sua semplicità».
Però, come moglie, ha dovuto sopportare molto anche lei?
«Guardi, una volta Giorgio iniziò a parlarmi di quanto aveva sempre invidiato gli uomini che possedevano un harem. E mi chiese se io fossi disposta a condividere con lui una donna, magari una mia bella amica. Gli risposi subito di sì, e anche con un certo entusiasmo: "Sarebbe divertente occuparci di te insieme". Io non avevo la gelosia di altre, che avrebbero sguainato gli artigli per strapparmi via gli occhi».
Beato spirito libertario degli anni Settanta.
«Giorgio era un uomo cresciuto in una casa popolata da femmine, adorava la voce delle donne, il frusciare delle loro sottane, erano stimoli irresistibili per lui. Essere banalmente gelosa sarebbe stata una condanna per qualsiasi sua compagna. Io lo ammiravo, ero così orgogliosa di vivere al suo fianco, di osservare la sua bellezza. Non la volevo assolutamente tenere tutta per me, anzi la condividevo con gioia».
Signora, non si arrabbi, ma suo marito l'ha tradita.
«Ma io non mi sono mai sentita così. Certo, mi sono fatta delle domande. Ho pensato di non essere alla sua altezza. Ma c'era poco da perdonare. Nemmeno io sono un angelo. Giorgio mi parlava delle sue donne. Verso i 70 anni ha avuto un momento di crisi, la vecchiaia non piace a nessuno. Io l'ho capito.
Quando l'ho visto disperato, perché diceva di essersi ficcato in una trappola dalla quale non sapeva come uscire, e mi chiedeva perdono, sentivo solo amore per lui. Sa in cosa mi sento tradita? Mi ha detto che dopo Natale sarebbe tornato, per ricominciare e alimentare il sogno che abbiamo creato insieme, quello della nostra famiglia al Piccolo Teatro. Però non lo ha fatto: è morto. Senza lui, la mia vita di avventure è terminata».
Ricorda l'inizio, cinquant' anni fa arrivava a Milano, quasi fuggita dall'Austria, sola con una valigia, per seguire Strehler?
«Quella valigia rossa di plastica ce l'ho ancora in cantina a Milano. Sarà malandata ma è un simbolo, la mia bandiera. Mi disse di conservarla e l'ho fatto. Mi piace pendolare tra Milano, Vienna e la Germania. Gli italiani mi sembrano così maturi, rispettosi delle regole, tutti con la mascherina, guidati da uomini straordinari come Mario Draghi e Sergio Mattarella. Si sono invertite le parti, la mia Mitteleuropa è invece un gran casino».
E la fine? Quel corteo funebre per le vie di Milano, lei al fianco di Valentina Cortese.
«Che donna! Mi chiamava "la valchiria rossa". Effettivamente facevo un po' paura, tra il tedesco, gli occhi azzurri e quei capelli. Conservo con affetto la sua letterina di quando uscì la storia della mia relazione con Strehler. Mi scrisse di getto che era felice per me, per noi. Aveva capito che mi sarei presa cura anche del suo amore».
Anche Ornella Vanoni evoca spesso Strehler.
«Non fatemi litigare con Ornella, che è un'amica speciale, con una voce straordinaria. Penso solo che siamo tutte delle signore attempate e un po' matte. È giusto abbracciare i nostri ricordi, solo non li sventolerei troppo spesso».
Lo spettro di non aver avuto un figlio da lui la tormenta?
«Mi tormenta la solitudine e la tristezza che questa assenza mi provoca. Non ho rimorsi perché non mi sento in colpa. Giorgio ha avuto moltissime donne e amanti, nessuna è mai rimasta incinta. Forse la cosa è dipesa anche da lui».
Tra le migliaia di immagini, provi a sceglierne una per rappresentarlo.
«Era un leone ascendente leone, che amava follemente l'acqua. Faceva il bagno caldo perché diceva che gli sembrava di stare a mollo in un ventre materno, dove nascevano idee. Lui stava nella vasca e declamava pensieri e io seduta sul water ad ascoltarlo. Anche tuffarsi in mare lo rendeva ipercreativo. Ci siamo fatti delle nuotate infinite».
· 25 anni dalla morte di Gianni Versace.
Quirino Conti per Dagospia il 16 gennaio 2021.
Tra il 14 e il 18 gennaio, Milano è tornata – con una minestrina particolarmente allungata – a presentare le sue volenterose collezioni Uomo.
Presenze di rilievo? Forse neppure una decina. E come in tutte le feste comandate, il ricordo del passato torna crudelmente a mordere. Soprattutto per le assenze.
Gianni Versace avrebbe oggi settantasei anni, se fosse ancora costretto a calcolare la vita con degli aridi numeri. Per noi terrorizzati terrestri, una quantità neppure eccessiva, a guardarsi attorno: dal momento che il consumo, pur inscenando ormai teatrini appena post-adolescenziali, sposta continuamente un po’ più in là il limite della giovinezza.
Ma per Gianni Versace non possono esserci dubbi. Fu crudelmente strappato dalla vita in un triste giorno del 1997. E da un luogo tanto impietoso da potervi inscenare l’ultima dimora di un Imperatore della Decadenza.
Lo vollero a quel modo, come un Tiberio a Capri, il cinismo degli adulatori e, su tutti, l'avidità della stampa e dei suoi emissari, per poter finalmente dare fondamento alle loro morbose elucubrazioni. Ma Gianni Versace non era così.
A lui toccò il destino di chi deve espiare origine e natura: quasi in un ottocentesco melodramma. E dopo che in tanti provarono senza esito a indossare la sua faticosa divisa, è naturale domandarsi cosa ne sarebbe stato di quella masnada di cortigiani che – assieme alla plebe redenta dal craxismo – sembravano aver cancellato per sempre Dio e il suo Paradiso. Ma Gianni Versace non era così.
Perché dopo di lui, per i suoi interpreti – fotografi e narratori – calò impietosa la mannaia del Tempo. Ma Gianni Versace non era così.
Dovette forzosamente adattarsi a tutti i “neo” inventati da scribi logorroici, a tutte le ebbrezze concertate dai suoi orchestrali, a tutte le finalità imbastite dai suoi sceneggiatori, che rimbalzavano dall’America a Milano.
La Moda era questa, purtroppo, già molto prima che si scoprissero le trame dei suoi più solleciti seduttori: s’introducevano indossatori consenzienti, come tanti “pesciolini” di corte, nei letti di chi si voleva. E da qualche tempo il danaro liquefaceva le opinioni.
Finché non arrivarono la stupefatta innocenza di Gianni Versace e la sua dolorosa fatica da giovane immigrato. Purtroppo non c’è stato chi non abbia voluto mescolare la sua epopea con quella del Rocco di Visconti. Ma lui non era così: piuttosto, semmai, la sua è stata l’epopea di un nuovo Ludwig, costretto al titanismo da un sogno costante di redenzione. Perché Gianni Versace era così: un innocente che gli applausi della più servile Accademia resero l’ideale vittima designata del suo Tempo.
· 25 anni dalla morte di Ivan Graziani.
Ivan Graziani nasceva 77 anni fa: cantautore sui generis, fu seppellito con la chitarra. Redazione Spettacoli Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022.
Personaggio non incasellabile della musica italiana, riuscì a unire per la prima volta il rock alla musica d'autore
Gli inizi da autodidatta
Il 6 ottobre 1945 nasceva Ivan Graziani, «la chitarra rock della musica d’autore italiana», come è stato soprannominato. Cantautore impossibile da incasellare e sempre lontano dalle «mode» musicali del momento, nelle sue canzoni ha raccontato con ironia la provincia italiana, mentre con la sua chitarra ha portato avanti sperimentazioni e virtuosismi, primo in Italia a unire cantautorato e rock. Nato a Teramo, Graziani fin da piccolo si appassiona all’arte e alla musica, cominciando a suonare la chitarra da autodidatta. Vince vari concorsi locali e poi inizia a suonare con dei gruppi: ancora minorenne viene arruolato da Nino Dale a suonare nella sua orchestra e viaggia anche fino in Tunisia per esibirsi nei villaggi vacanze.
La carriera solista
Dopo le esperienze con le band, tra dischi, concerti e partecipazioni al Cantagiro, Ivan Graziani intraprende la carriera solista. Pubblica 15 album (l'ultimo è del 1994), nel 1977 arriva al grande pubblico con il successo di «Lugano addio», collabora con tanti cantautori, ma il suo rapporto con l'industria discografica non è mai semplice. Nel 1985 partecipa al Festival di Sanremo, dove ritorna per una seconda volta nel 1994.
La collaborazione con Lucio Battisti
Tra i tanti colleghi che lo stimano e che si «contendono» la sua chitarra c'è anche Lucio Battisti: Graziani e Battisti instaurano una collaborazione negli studi della Numero Uno, storica etichetta fondata da Mogol. Graziani viene chiamato a suonare nelle registrazioni dell'album battistiano «La batteria, il contrabbasso, eccetera» e poi i musicisti di Battisti vengono impiegati per le registrazioni del disco di Graziani «Ballata per quattro stagioni» del 1976. Un periodo che segnerà una svolta per il cantautore
La moglie Anna Bischi, compagna di una vita
Ivan Graziani conosce la futura moglie Anna Bischi all’Istituto d’arte di Urbino. Si incontrano molto giovani, ma trascorrono l'intera vita insieme, inseparabili fino alla fine. La copertina del primo disco pubblicato con nome e cognome del cantautore, «La città che io vorrei», uscito nel 1973, mostra proprio una foto del loro matrimonio. Ivan e Anna hanno avuto due figli, Filippo e Tommaso.
La malattia e la morte: fu seppellito con la chitarra
Ivan Graziani muore prematuramente il 1° gennaio 1997, a soli 51 anni: da quasi due anni combatte contro un tumore al colon e nonostante la malattia continua a suonare dal vivo fino all’ultimo. Viene a mancare nella sua casa di Novafeltria, in Emilia Romagna, tornato dall’ospedale per passarvi le festività natalizie. Graziani è stato seppellito insieme a una delle sue chitarre, una Gibson che chiamava «mamma chitarra», e al gilet di pelle che aveva ingegnosamente dotato di un gancio per appendervi lo strumento.
Ivan Graziani moriva 25 anni fa: cantautore sui generis, fu seppellito con la chitarra. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera l'1 gennaio 2022.
Gli inizi da autodidatta
L’1 gennaio 1997 Ivan Graziani, «la chitarra rock della musica d’autore italiana», come è stato soprannominato. Cantautore impossibile da incasellare e sempre lontano dalle «mode» musicali del momento, nelle sue canzoni ha raccontato con ironia la provincia italiana, mentre con la sua chitarra ha portato avanti sperimentazioni e virtuosismi, primo in Italia a unire cantautorato e rock. Nato a Teramo, Graziani fin da piccolo si appassiona all’arte e alla musica, cominciando a suonare la chitarra da autodidatta. Vince vari concorsi locali e poi inizia a suonare con dei gruppi: ancora minorenne viene arruolato da Nino Dale a suonare nella sua orchestra e viaggia anche fino in Tunisia per esibirsi nei villaggi vacanze.
La carriera solista
Dopo le esperienze con le band, tra dischi, concerti e partecipazioni al Cantagiro, Ivan Graziani intraprende la carriera solista. Pubblica 15 album (l'ultimo è del 1994), nel 1977 arriva al grande pubblico con il successo di «Lugano addio», collabora con tanti cantautori, ma il suo rapporto con l'industria discografica non è mai semplice. Nel 1985 partecipa al Festival di Sanremo, dove ritorna per una seconda volta nel 1994.
La collaborazione con Lucio Battisti
Tra i tanti colleghi che lo stimano e che si «contendono» la sua chitarra c'è anche Lucio Battisti: Graziani e Battisti instaurano una collaborazione negli studi della Numero Uno, storica etichetta fondata da Mogol. Graziani viene chiamato a suonare nelle registrazioni dell'album battistiano «La batteria, il contrabbasso, eccetera» e poi i musicisti di Battisti vengono impiegati per le registrazioni del disco di Graziani «Ballata per quattro stagioni» del 1976. Un periodo che segnerà una svolta per il cantautore
La moglie Anna Bischi, compagna di una vita
Ivan Graziani conosce la futura moglie Anna Bischi all’Istituto d’arte di Urbino. Si incontrano molto giovani, ma trascorrono l'intera vita insieme, inseparabili fino alla fine. La copertina del primo disco pubblicato con nome e cognome del cantautore, «La città che io vorrei», uscito nel 1973, mostra proprio una foto del loro matrimonio. Ivan e Anna hanno avuto due figli, Filippo e Tommaso.
La malattia e la morte: fu seppellito con la chitarra
Ivan Graziani muore dunque prematuramente il 1° gennaio 1997, a soli 51 anni: da quasi due anni combatte contro un tumore al colon e nonostante la malattia continua a suonare dal vivo fino all’ultimo. Viene a mancare nella sua casa di Novafeltria, in Emilia Romagna, tornato dall’ospedale per passarvi le festività natalizie. Graziani è stato seppellito insieme a una delle sue chitarre, una Gibson che chiamava «mamma chitarra», e al gilet di pelle che aveva ingegnosamente dotato di un gancio per appendervi lo strumento.
· 24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.
Patrick de Gayardon, l’uomo che sapeva volare. La vita senza limiti del base jumper francese venne interrotta da un incidente nel 1998, ma il suo lascito resta intatto: sognare l’impensabile. Paolo Lazzari il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
La brigata Gayardon punteggia il cielo sopra Lione con una spruzzata di paracadute colorati. Il panciuto aereo militare sorvola in circolo la zona, rilasciando una pioggia fitta di corpi che planano docilmente verso terra con un click che attutisce l’attrito con l’aria. Prende il nome da Guy de Gayardon, eroe di guerra che seppe distinguersi per spirito patriottico e gesta temerarie.
A tappezzare il cielo, tra i molti che si lanciano come proiettili, c’è anche Patrick, suo bisnipote. Dicono che si tratti di una questione genetica: anche la mamma era paracadutista, ma l’ha strappata via un incidente stradale quando lui era ancora troppo piccolo per tratteggiarne mentalmente il volto. Comunque una differenza c’é: per lui quella è una palestra, non l’obiettivo di una vita.
Dentro l’atmosfera vuole affondarci con passi differenti. Intende abitarla a modo suo. Come quando inizia a dilettarsi con lo Skysurf: praticamente cavalca le correnti ascensionali con una tavola, anziché quella marine. Da lì al base jumping il salto, in tutti i sensi, è questione rapida. Inizia a cercare le pareti più alte, studia i punti di caduta, calcola meticolosamente ogni aspetto di quelle infide discese.
Cova pero dentro un’urgenza fremente. Quel che c’è non gli basta. Un sussurro interiore si gonfia, fino a suggerirgli di prendere i suoi limiti e accartocciarli. Perché, per Patrick de Gayardon, l’uomo deve poter volare. Magari non subito. Probabilmente serviranno anni di intenso studio, ma qualcuno deve pure iniziare. Così progetta una tuta alare che, con quella membrana vischiosa a congiungere le braccia, le gambe e il corpo, lo aiuta a gestire ogni discesa vertiginosa allungandone la durata. Dice di averla progettata osservando gli scoiattoli al parco: le intuizioni più nitide, del resto, raramente citofonano a casa.
Da quelle cime, sovente innevate, Patrick si getta sfruttando un altro fattore determinante: la vicinanza alle pareti rocciose per aumentare la portanza. Un cocktail di fattori che gli consentono di produrre uno spostamento orizzontale superiore a quello verticale: De Gayardon non precipita, plana. In fondo è la cosa che assomiglia più da vicino al volo.
Se ne avvede presto la Sector, azienda che lo elegge a testimonial prediletto per imprese estreme accompagnate da un claim di penetrante ermetismo: no limits. Patrick intende riscrivere il modo di immaginare il futuro: le velleità umane non devono porsi un tetto. Bisogna smetterla di derubricare i nostri sogni al grado di argillose fesserie: “un giorno si potrà volare senza paracadute - dichiara convinto - sono convinto che i miei nipoti ci riusciranno”.
Nel frattempo appiccica gli occhi del globo alla sua tuta fosforescente. Va in Venezuela e si getta dai 979 metri della cascata Angel, probabilmente la sua traiettoria più pittoresca. Si lancia contro il cielo di Mosca da 12.700 metri: all’epoca è il salto dal punto più alto di sempre. Le condizioni più sabotanti lo gasano, anziché sconfortarlo. Scende anche in Polo Nord, da 4mila metri. “Impossibile” è un termine espunto con piglio incrollabile dal suo vocabolario. Un giorno decide di buttarsi da un aereo e, sfruttando le correnti che lo sospingono, tornare a bordo in volo.
Il francese è un uomo che manovra il suo destino. Lo fabbrica come fosse friabile malta, ma la leggenda di Icaro - lo sa anche lui - alita sempre in sottofondo. La sua non è Hybris, l’umana tracotanza di chi pensa di poter sfidare le leggi celesti, ma un rischio di livello altissimo, soltanto parzialmente calcolabile. Trentotto anni. Cielo terso sopra le incantevoli Hawaii. Non sembra proprio uno di quei giorni in cui potresti morire. Le cose peggiori però sono quelle che ti capitano senza notifica, in un assolato giorno di aprile del 1998.
Una porzione di paracadute cucita male. Le funi che si aggrovigliano. Una discesa, l’ultima, senza salvezza. Sogni di cera che si squagliano contro l’ossimoro di un pomeriggio radioso. La morte spesso lambita che adesso pretende il conto.
Forse i suoi bisnipoti voleranno davvero senza nient’altro che una parente modificata della sua wing suit. Se ci riusciranno, sarà per il coraggio feroce di un avo che ha riscritto il modo di sognare.
· 24 anni dalla morte di Frank Sinatra.
DAGONEWS il 7 settembre 2022.
Frank Sinatra era "quasi sposato con la mafia" nonostante avesse negato di avere legami con la criminalità organizzata per la maggior parte della sua vita. A rivelarlo è il nuovo libro “Frank Sinatra and the Mafia Murders” secondo cui il cantante aveva rapporti regolari con i mafiosi e “voleva emulare” il famigerato mafioso Bugsy Siegel.
Durante la sua carriera Sinatra, ha sempre parlato di "bugie malvagie" a chi gli faceva notare dei suoi rapporti con i boss. Ma per gli autori Douglas Thompson e Mike Rothmiller, il cantante era così affascinato dai gangster che desiderava persino emulare un famigerato mafioso Bugsy che faceva a pezzi le sue vittime con le asce.
Da sempre si vocifera che la mafia lo abbia aiutato ad avviare la sua carriera investendo 50mila dollari sulla sua immagine. Un investimento che negli anni Sinatra ha dovuto ripagare facendo dei favori.
È stato grazie alla mafia che Sinatra ha ottenuto la sua parte nel film del 1953, “Da qui all'eternità”, dopo che un boss della mafia ha detto a un produttore che gli avrebbe messo una "pistola nel culo" se il ruolo fosse andato a qualcun altro.
Secondo il libro, con il supporto e protezione dei boss, la star di Hollywood "credeva di poter farla franca sempre" e imitava il modo in cui parlavano i mafiosi, minacciando persino di uccidere i suoi rivali amorosi.
Si dice anche che Sinatra sia diventato l'intermediario tra i boss e la socialite Judith Exner, che ha affermato di essere l'amante del presidente John F Kennedy e del pericoloso mafioso Sam Giancana allo stesso tempo.
I registri del governo americano mostrano che Sinatra trasportò 2 milioni di dollari in contanti per conto dei famigerati “Fischetti Brothers” all'Avana, gran parte dei quali in una valigia che stringeva al petto. In effetti Sinatra era un "corriere regolare" per la mafia nonostante lui lo negasse: la sua celebrità gli permetteva di agire indisturbato visto che i doganieri preferivano chiedere un suo autografo piuttosto che aprire il suo bagaglio.
· 23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
Il testamento di Faber. Il disco con cui De André passò da artista stimato a cantautore che scrive la Storia. Carlo Massarini su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.
La Buona Novella del 1970 è una opera aperta che gode di una ricchezza musicale non comune grazie alle parti folkeggianti e quelle orchestrate da Gian Piero Reverberi. In ogni canzone tracima la visione del mondo anarchica, laica e terrena di un musicista che al suo quarto album ha già scritto un capolavoro. Read&Listen
Fabrizio De Andrè, “La Buona Novella” – 1970
Questo è l’album che De Andrè ha definito «il mio lavoro migliore», ed essendo affiancato da svariati capolavori in 30 anni di carriera non è considerazione da poco. Ma al di là di tutto è sicuramente un disco molto particolare su un tema difficile e delicatissimo declinato in modo inusuale, originale, perfino sovversivo. È un disco rivoluzionario, proprio come il suo personaggio, Gesù, che Fabrizio definisce il più grande rivoluzionario della storia. Rimane un album coerente con il suo percorso ma assolutamente unico, che dimostra come un artista possa essere così ispirato da ridefinire la Storia, che in questo caso ha a che vedere con la radice della nostra civiltà, il cristianesimo. Non una cosa da poco, se hai solo 30 anni e come mestiere fai il cantautore.
È un album che nel suo complesso – concettuale, testuale e musicale – è davvero una Opera di ispirazione e ingegno profondi, che ingloba riflessioni sulla natura di Gesù Cristo, del mito che ne è originato, del rapporto che abbiamo con le regole di vita, i Comandamenti, e che racconta tutto questo attraverso musiche diverse, che spaziano dai canti liturgici allo spiritual al folk. Una visione rispettosamente iconoclasta che vuol far riflettere e discutere: «un’opera aperta», come la definiva per la ricchezza di riferimenti letterari e musicali Umberto Eco.
Nasce in un periodo tumultuoso per la società italiana, in piena trasformazione sessantottesca, e in questo senso è davvero una delle prime, stentoree affermazioni del concetto caro a Fabrizio, il procedere in direzione ostinata e contraria. Ma perfettamente coerente, come spiegherà approfonditamente in un concerto del 1998: opera aperQuando scrissi “La Buona Novella” era il 1969. Si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente – che sono poi sempre la maggioranza di noi – compagni, amici, coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: ’Ma come? Noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia – che peraltro già conosciamo – della predicazione di Gesù Cristo’. Non avevano capito che in effetti “La Buona Novella” voleva essere un’allegoria – era una allegoria – che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 e le istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali».
«Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. Non ho voluto inoltrarmi in percorsi, in sentieri, per me difficilmente percorribili, come la metafisica o addirittura la teologia, prima di tutto perché non ci capisco niente, in secondo luogo perché ho sempre pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo. Il che è esattamente quello che ha fatto l’uomo da quando ha messo i piedi sulla terra. Ho quindi preso spunto dagli evangelisti cosiddetti apocrifi. Apocrifo vuol dire falso, in effetti era gente vissuta: era viva, in carne ed ossa. Solo che la Chiesa mal sopportava, fino a qualche secolo fa, che fossero altre persone non di confessione cristiana ad occuparsi, appunto, di Gesù. Si tratta di scrittori, di storici, arabi, armeni, bizantini, greci, che nell’accostarsi all’argomento, nel parlare della figura di Gesù di Nazareth, lo hanno fatto direi addirittura con deferenza, con grande rispetto».
Tant’è vero che ancora oggi proprio il mondo dell’Islam continua a considerare, subito dopo Maometto, e prima ancora di Abramo, Gesù di Nazareth il più grande profeta mai esistito.
Alla fine degli anni 60 De Andrè è un artista stimato, ma neanche lontanamente popolare e beatificato come lo sarà nei decenni successivi, e forse ancora di più dopo la sua scomparsa.
Figlio della buona borghesia genovese, mai rinnegata, si allontana spesso da casa in cerca di un’altra realtà, più popolare, frequentando i carruggi della città vecchia, a contatto con gli scartati dal mondo, quelli di Via Del Campo: ispirandosi a un mondo alternativo a quello delle canzoni d’amore all’italiana scrive le prime canzoni, che sembrano cogliere l’altro lato della vita: fatti di cronaca come la morte di una prostituta (’Marinella’), il suicidio in carcere di un omicida per amore (’Ballata del Michè’), l’anti-militarismo convinto (’La Ballate dell’Eroe’, ’La Guerra di Piero’), cronache paesane di comari invidiose (’Bocca di Rosa’). La sua più grande influenza è lo chansonnier francese George Brassens, ma qui e là il suo folk si tinge di leggiadri sapori medievaleggianti.
Dopo questo inizio, raccolto in due album (“Vol.1” e “Vol.3”) che ripubblicano (a volta reincisi) tutti i singoli pubblicati per defunta Kerim, Fabrizio pubblica nel 1968 un album che fin dal titolo è assai cupo, “Tutti Morimmo A Stento.” Un album che «parla della morte. Non della morte cicca, con le ossette, ma della morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita». Nonostante la difficoltà del tema viene bene accolto, ma lo lascia indeciso su come proseguire il percorso.
Gli viene in soccorso il produttore che gli è al fianco in quegli anni di crescita artistica, uno spezzino colto e intelligente, Roberto Danè. Anche se inizialmente (e stranamente) pensa di proporre la sua idea a Duilio Del Prete, autore fino a quel momento soprattutto per il Clan di Celentano, Giancarlo Casetta (il proprietario dell’etichetta Bluebell, poi Produttori Associati, su cui sono usciti i dischi di Fabrizio) gli suggerisce che potrebbe invece essere adatto proprio a De Andrè.
Nelle note di copertina, Danè spiega il senso dei Vangeli apocrifi, che sono la fonte di ispirazione del nuovo lavoro: «L’aggettivo apocrifo in greco significa segreto, nascosto. Fino al 4° secolo sembra stesse a indicare alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a disposizione solo degli iniziati, ritendendo che non fossero di facile comprensione per le masse. La Chiesa escluse quei testi apocrifi dal codice canonico. I Vangeli apocrifi, datati fra il 1° e il 4° secolo dopo Cristo, portano il nome di apostoli o testimoni della vita di Cristo che parlano in prima persona o sono citati come fonte del racconto: Pietro, Nicodemo, Filippo, Tommaso, in particolare per questo disco il protovangelo di Giacomo e il Vangelo Arabo dell’Infanzia. Gli apocrifi sembrano colmare il vuoto dei quattro Vangeli canonici sull’infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l’infanzia di Gesù. Pur essendo fuori della Chiesa gli apocrifi hanno lasciato tracce profonde: la grotta, l’asino e il bue, i re Magi, fino alle basi sulle quali poggia il dogma dell’Assunzione e della Madre di Dio. La Chiesa non li divulga, i fedeli cristiani non li conoscono, eppure Dante, Michelangelo, Raffaello, Bulgakov, Hugo devono averli letti se hanno raccontato o dipinto scene che solo essi contengono. Ma la differenza più affascinante è l’attenzione che gli autori mettono sulla natura comunque umana dei loro protagonisti».
Una fonte ufficiosa, quindi, underground, alla quale de Andrè si ispira, salvo distaccarsene e lavorare di fantasia quando gli serve. I Vangeli apocrifi hanno una grande capacità di attrazione per un autore da sempre interessato alla natura umana di quella che è una grande celebrazione del divino, e che è molto più in sintonia con la sua visione del mondo, anarchica e di conseguenza più laica che religiosa, più terrena che soprannaturale, svincolata dai dogmi che ingabbiano: «Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo, i vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica». Raccontando la vita personale di Gesù, ne riferiscono anche la sua natura più terrena, in modo che il suo esempio non sia irraggiungibile, ma sia più avvicinabile, rappresentabile. Non a caso, in nessuna parte dell’album si riferisce a lui come Cristo, se mai il Nazareno: «Ho bisogno, e credo tutti come me, di considerarlo come uomo e di considerare ’umana’ tutta la sua storia. Perché se lo si considera un Dio non lo si può imitare, se lo si considera un uomo sì».
Non è la prima volta che De Andrè tocca il tema dell’umanesimo del figlio di Dio: nel suo primo album, c’è quello che è a tutti gli effetti un’anticipazione della “Buona Novella”, ’Si Chiamava Gesù’:
«Non intendo cantare la gloria
Né invocare la grazia e il perdono
Di chi penso non fu altri che un uomo
Come Dio passato alla storia.
Ma inumano è pur sempre l’amore
Di chi rantola senza rancore
Perdonando con l’ultima voce
Chi lo uccide fra le braccia di una croce».
Quella del lato umano di Gesù non è però l’unico caposaldo del lavoro di Fabrizio sui testi, minuzioso come sempre, che richiederà più di un anno. Un’altra scelta forte è quella di non avere mai Gesù protagonista: è del suo percorso che si parla, evidentemente, ma lui non parla mai in prima persona, è come se assistesse allo svilupparsi della storia senza intervenire. Chi invece ha un ruolo di primissimo piano è Maria, protagonista assoluta in tutte le fasi della sua vita, da quando viene condotta al tempio a tre anni a quando scambia con le madri dei due ladroni crocefissi col figlio considerazioni addolorate. Danè aggiunge come l’incedere dell’album sia come lo sviluppo delle favole, che cominciano con ’momenti tristi e penosi’, ma poi sfociano in un finale liberatorio: «Invece Fabrizio la porta avanti come se dovesse avverarsi il lieto fine, e poi distrugge ciò che ha costruito con forza e decisione, con l’ineluttabilità della morte».
La morte. Che ricorre tantissimo nei suoi dischi, già a partire dai primi. Amore e morte, Eros e Tanatos, sono i due i temi sui quali De Andrè, e non solo nei primi album, basa la sua poetica: i due pilastri della tragedia greca compaiono di continuo nelle sue canzoni: da una parte la morte, sia quella sul campo di battaglia come quella di coloro che ’morirono a stento’, del ’pescatore’ come di un intero disco imperniato sulle figure di un cimitero, “Non Al Denaro Non All’Amore Né Al Cielo”. Qui ovviamente racconta della morte del Redentore, senza mai toccare il tema della resurrezione se non in un breve accenno, probabilmente perché avvolto dalla leggenda, e quindi al di fuori del vissuto terreno. Dall’altra c’è l’amore, come unica forza che può ribaltare la scena, cambiare a sorpresa il copione: nel senso di compassione, empatia e, nella “Buona Novella” in particolare, del perdono.
L’album si apre con i 22 secondi di ’Laudate Dominum’, l’incipit di gloria al Signore che verrà poi ribaltato dal finale ’Laudate Hominem’, gloria all’uomo, e in questo simbolismo c’è già tutta l’essenza dell’opera, la sua intenzione guida. È anche il segnale di come Fabrizio, per quanto determinato a rileggere ’la favola’ con il suo metro, lo faccia in maniera seria e rigorosa: entrambe le musiche sono in stile liturgico, con cori gregoriani, perfettamente incastonabili in un linguaggio musicale ufficiale.
È una prima indicazione di come questo album viva di ricchezza musicale non comune, come assolutamente non comuni e di tocco nobile sono i tre tasselli dell’affresco melodico: il partner della stesura musicale e degli arrangiamenti è Gian Piero Reverberi, genovese anche lui, che collabora già con Fabrizio, e qui scandaglia tutta la sua ecletticità. A Riccardo Bertoncelli, nel libro-intervista ’Belin, sei sicuro?’ (espressione ligure inimitabile, la cui scansione usciva spesso dalle labbra di Fabrizio come di qualunque nativo ligure), Reverberi chiosa: «Nella Buona Novella, tutti i pezzi ove c’è pianoforte sono chiaramente roba mia, quelli dove c’è una chitarra sono di Fabrizio. I pezzi per coro sono evidentemente miei, perché De André Stravinskij non lo conosceva e lì ci sono dei riferimenti precisi. Se uno conosce un po’ la musica, può capire chi ha messo mano a cosa…».
Ok, siamo nel colto, e la differenze fra le parti folkeggianti di Fabrizio e quelle orchestrate da Reverberi, che insieme al fratello Gian Franco ha vissuto in pieno la fioritura della scuola genovese nel lustro precedente (da Gino Paoli a Luigi Tenco da Bruno Lauzi a De Andrè stesso), sono evidenti. Terzo tassello assolutamente complementare, la convergenza nello studio della Ricordi a Milano di alcuni dei migliori musicisti di studio dei tempi. A parte la presenza di due così giovani da essere ancora sconosciuti, Angelo Branduardi e Maurizio Fabrizio alle chitarre, ci sono i Quelli, ovvero Franco Mussida alle chitarre, Giorgio Piazza e superFranz di Cioccio alla ritmica, Flavio Premoli al piano. L’incontro con Mauro Pagani, chiamato separatamente per flautare e violinare, è la scintilla per la futura Premiata Forneria Marconi, evento nell’evento.
Dalla potenza del coro iniziale esce la chitarra acustica e la voce profonda e scandita di Fabrizio, storyteller di infinita dolcezza ed emotività, che è il sentimento che anima tutto l’album. Comincia a raccontare ’L’Infanzia di Maria’ che ancora bambina viene consegnata ai Sacerdoti del Tempio, e sai che c’è una empatia che li legherà e che avvolge tutta la favola:
«Forse fu all’ora terza forse alla nona
cucito qualche giglio sul vestitino alla buona
forse fu per bisogno o peggio per buon esempio
presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio».
La figura della bambina che diventa donna, poi moglie e madre e infine perderà il suo unico figlio è il fil rouge della narrazione, lei che quando diventa donna viene mandata via dal luogo sacro:
«E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio
avevi dodici anni e nessuna colpa addosso
ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio
la tua verginità che si tingeva di rosso».
Come in una pièce operistica, Fabrizio canta intervallato da un coro di stampo Rossiniano che contrappunta le strofe e rappresenta la folla eccitata dal «corpo d’una vergine (che) si fa lotteria»:
«Guardala guardala scioglie i capelli
sono più lunghi dei nostri mantelli
guarda le mani guardale il viso
sembra venuta dal paradiso!».
Viene assegnata a un anziano falegname, che la sposa e deve subito partire per quattro lunghi anni fuor dalla Giudea. ’Il Ritorno di Giuseppe’ avviene su un tappeto di sapore desertico, un anticipo di world music mediorientale, chitarra pizzicata, percussioni, flauto e un accenno di sitar. Giuseppe torna a Gerusalemme con una bambola intagliata nel legno per la sua bambina, lei che gli si getta al collo, gli archi a sottolineare l’incontro e la sorpresa:
«E lo stupore nei tuoi occhi
sale dalle tue mani
che vuote intorno alle sue spalle,
si colmarono ai fianchi
della forma precisa
d’una vita recente,
di quel segreto che si svela
quando lievita il ventre».
’Il Sogno di Maria’ è l’incontro, che Fabrizio racconta come un’esperienza onirica, fra la vergine «le cui braccia che diventano ali» e una meravigliosa creatura angelica, con cui compiere un volo quasi psichedelico:
«Volammo davvero sopra le case,
oltre i cancelli, gli orti, le strade,
poi scivolammo tra valli fiorite
dove all’ulivo si abbraccia la vite».
Si sta fra realtà e sogno in questa intima, delicata canzone: «sguardi severi nel tempio» alla rivelazione, «le ombre lunghe dei sacerdoti» che diventano di pietra, e poi il risveglio dal «sogno che sonno non era»:
«Lo chiameranno figlio di Dio
Parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno, ma impresse nel ventre».
Fino all’immagine finale, l’anziano Giuseppe, «dita troppo secche per chiudersi su una rosa», che la abbraccia con un gesto di tenerezza infinita:
«E tu, piano, posasti le dita
all’orlo della sua fronte:
i vecchi quando accarezzano
hanno il timore di far troppo forte».
Quell’istante così dolce scivola in una melodia bellissima, a metà fra il classico e il pop, cori celestiali ad accompagnare, al centro dell’Lp come fosse il suo cuore, una ’Ave Maria’ che è un breve (troppo breve) e commovente preghiera che ha al centro il ruolo della donna: inno alla donna che si trasforma in madre, un riconoscimento all’origine della vita:
«Ave Maria, adesso che sei donna,
Ave alle donne come te, Maria,
Femmine un giorno per un nuovo amore
Povero o ricco, umile o Messia.
Femmine un giorno e poi madri per sempre
Nella stagione che stagioni non sente».
La seconda facciata si apre con Maria che visita la bottega di un falegname, i Quelli che in un’atmosfera da musical fra strumenti e cori sottolineano il den den del martello e il fren fren della pialla con cui l’operaio appronta le tre croci:
«Due per chi
disertò per rubare,
la più grande per chi guerra
insegnò a disertare».
E qui c’è un passaggio del De Andrè pacifista. Ma il falegname chiude con la rivelazione del perché, e per chi, sta scolpendo quelle croci:
«Questi ceppi che han portato
Perché il mio sudore
ll trasformi nell’immagine
di tre dolori,
vedran lacrime di Dimaco
e di Tito al ciglio
Il più grande che tu guardi
abbraccerà tuo figlio».
La scena successiva è quella drammatica della ’Via Della Croce’, Gesù e i due ladroni che salgono, croce in spalla, verso la cima del Golgota. Le vedove in testa al corteo, gli apostoli che «han chiuso le gole alla voce» per paura di esser scoperti e la paura, umana, che scende anche nel cuore del redentore:
«La semineranno per mare e per terra
Tra boschi e città la tua buona novella,
Ma questo domani, con fede migliore,
Stasera è più forte il terrore».
Un momento toccante è quello delle tre madri che si ritrovano sotto le croci che portano i loro figli. Le madri di Tito e Dimaco piangono, e rivolte a Maria sconsolate sottintendono che la resurrezione non sarà per i loro figli:
«Tito, non sei figlio di Dio
Ma c’è chi muore nel dirti addio
Dimaco, ignori chi fu tuo padre
Ma più di te muore tua madre.
Con troppe lacrime piangi, Maria
Solo l’immagine d’un’agonia
Sai che alla vita, nel terzo giorno
Il figlio tuo farà ritorno
Lascia noi piangere, un po’ più forte
Chi non risorgerà più dalla morte»
Ma Maria alla resurrezione non pensa, sente quello che una madre sente quando perde un figlio, tantopiù se lo perde per un disegno superiore:
«Per me sei figlio, vita morente,
Ti portò cieco questo mio ventre,
Come nel grembo, e adesso in croce,
Ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
T’avrei ancora per figlio mio».
Prima del finale, quello che è la summa della buona novella per come la intende De Andrè, ’Il Testamento di Tito’: è Tito, uno dei due ladroni, che passa in rassegna i dieci comandamenti, li decostruisce e li confuta con esempi personali, e alla fine li ribalta, li vede come leggi rigide che non considerazione l’umanità e il contesto che plasmano la vita degli uomini comuni:
«Non avrai altro Dio all’infuori di me, spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall’Est dicevan che in fondo era uguale.
Credevano a un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male».
E scorrendo lungo le dieci regole ci sono momenti che si addicono anche ai tempi moderni, perché la natura umana, anche quella familiare, non cambia:
«Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone.
Bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone
Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore».
Ogni comandamento trova una sua ragione di esser messo in discussione, in quello che De Andrè considera, insieme ad ’Amico Fragile’, il suo pezzo migliore: «Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha. È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene».
Fino a quando, nell’ultima strofa, si libera quel sentimento che è il vero senso del disco, e della visione laica eppur cristiana di Fabrizio. La ’buona novella’, il buon messaggio è che aldilà del soprannaturale, si può essere beati anche qui sulla terra, se in te esiste il sentimento di compassione, di pietas, nei confronti dei tuoi simili:
«Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
Canzone nata in maniera curiosa, perché prima di trovargli una musica Fabrizio la canta sulla metrica e melodia di ’Blowin’ In The Wind’. Solo in un secondo momento altri due genovesi, Michele Maisano (voce da Elvis melodico, ’una grande hit negli anni 60 con ’Se Mi Vuoi Lasciare’) e Corrado Castellari trovano questa nuova melodia, che De Andrè e Mussida portano avanti con un fingerpicking intrecciato che a poco a poco si apre anche ad altri strumenti.
Chiude l’affresco un altro canto liturgico, ’Laudate Hominem’, che sigilla il percorso. Lodate l’uomo non in quanto figlio di un dio, ma in quanto figlio di un altro uomo, quindi fratello:
«Qualcuno, qualcuno tentò di imitarlo
Se non ci riuscì fu scusato,
Anche lui perdonato perché non si imita
Non si imita un dio,
Un dio va temuto e lodato, lodato…
No, non devo pensarti figlio di Dio
Ma figlio dell’Uomo, fratello anche mio».
Quest’album, che curiosamente precede di poco un’altra versione del Gesù Cristo umanizzato, e molto spettacolarizzato, quella del musical Jesus Christ Superstar di Rice & Webber, porta di sicuro una buona notizia: è che all’alba degli anni 70 abbiamo in Italia un pensatore capace di toccare, in rima e attraverso le canzoni, temi mai facili né comodi da portare in scena. Siamo solo al quarto album, e già Fabrizio si rivela un cantautore di livello superiore.
· 22 anni dalla morte di Antonio Russo.
In ricordo di un reporter: Antonio Russo ucciso 20 anni fa per le inchieste sulla Cecenia. Roberto Saviano Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.
Nella foto è ritratto Antonio Russo, valoroso corrispondente di Radio Radicale in terribili teatri di guerra degli Anni 90. Prima che in Caucaso era stato in Kosovo ove rimase, ultimo giornalista europeo, a raccontare la “pulizia etnica” da una casa nella Pristina vessata dai rastrellamenti serbi.
Il giornalista di Radio Radicale Antonio Russo con un gruppo di bambini ceceni: fu assassinato tra il 15 e il 16 ottobre del 2000 vicino a Tbilisi, in Georgia. Gli furono trafugate nella casa di Pristina dove viveva la videocamera e il registratore
La guerra si prepara con anni di menzogne, stimolando disaffezione per la politica, frammentazione nell’associazionismo. Se si volesse intraprendere un percorso politico oggi, per passione reale e non per interesse, non si saprebbe a quale porta bussare, a chi parlare. Ormai la politica è affare loro, ma se questo è vero - e chi sa quanto tempo impiegheremo per riappropriarcene, se mai accadrà - non lasciamo andare quei pochi lacerti di verità che ancora restano a malapena visibili, come minuscole pepite d’oro nella roccia volgare, che se non hai allenato l’occhio, non c’è speranza che tu le veda. Qualche giorno fa, primo in tendenza su Twitter, c’era l’hashtag #fakenews. Seguo il trend e noto che si trattava solo di commenti negazionisti su ciò che sta accadendo in Ucraina, quindi fake news al quadrato.
«FU ASSASSINATO MENTRE DOCUMENTAVA LE VIOLENZE DEI RUSSI: NON AVEVA FERITE MA GLI ORGANI INTERNI DISTRUTTI»
Video di finte guerre, di finte fughe, di finte bombe. Foto di finti soldati apparsi anche in altre guerre su fronti distanti migliaia di chilometri. Quanto sia insidioso questo genere di operazioni è chiaro a tutti. Non si nega la guerra, ma si suggerisce che il racconto che ne viene fatto è tutto falso: dalle bombe alle mutilazioni, dalle foto di deceduti alle file di auto e pullman al confine con la Polonia. Nelle stesse ore in cui si sviluppava su Twitter la discussione sulle fake news (al quadrato), lo stesso social network aveva bloccato il profilo di Mariano Giustino, corrispondente per Radio Radicale dalla Turchia, giornalista serio i cui tweet, evidentemente, erano stati segnalati in massa.
«OGGI CI SI INFORMA SUI SOCIAL MEDIA, CHE TRATTANO MALE CHI DICE LA VERITÀ E BENE CHI DIFFONDE MENZOGNE»
Questa è la situazione: i social media, che sono ormai da anni la principale fonte di informazione per tantissimi cittadini, rispondono a quella stupidissima ottusità delle macchine che, non riuscendo a interfacciarsi con la complessità, tratta male chi dice la verità e bene chi diffonde menzogne. È anche così che si prepara una guerra, attraverso quella disinformazione che sembra incolpevole perché ottusa, perché priva di ragionamento. Mille utenti dicono cazzate con l’hashtag #fakenews? Ebbene, saranno visibili perché in tanti. Mille bot segnalano un tweet di Mariano Giustino? Il profilo automaticamente viene bloccato. A chi interessa che la disinformazione salga sul podio e l’informazione seria venga presa a pedate? Peggio: chi se ne accorge?
«OGGI È DI QUESTO CHE VOGLIO PARLARE: DI CHI SI FA TESTIMONE DEGLI ORRORI DELLA GUERRA, CHI RACCONTA CIÒ CHE ACCADE E PAGA CON LA VITA»
Ho letto l’accorato editoriale di Dmitrij Muratov, giornalista russo Nobel per la Pace e direttore della Novaja Gazeta, giornale per cui scriveva Anna Politkovskaja: «Se la propaganda ha creato una guerra, - scrive Muratov - i fatti potranno opporsi ad essa. Noi giornalisti non siamo soldati, siamo disarmati, ma lavoreremo sul campo affinché la società ricordi che la guerra è terribile». Oggi è di questo che voglio parlare: di chi si fa testimone degli orrori della guerra, chi racconta ciò che accade e paga con la vita. Nella foto che ho scelto questa settimana è ritratto Antonio Russo; per descrivere chi è stato, prendo in prestito le parole che su di lui ha scritto proprio Mariano Giustino: «Antonio Russo è stato un valoroso corrispondente di Radio Radicale in terribili teatri di guerra degli anni Novanta (...) Prima che in Caucaso era stato in Kosovo, dove rimase, ultimo giornalista europeo, a raccontare la “pulizia etnica” da una casa nella Pristina vessata dai rastrellamenti dell’armata serba. Sparì da Pristina alla fine del marzo 1999 mescolandosi a tutti gli altri su un treno di profughi diretto in Macedonia. Aveva documentato anche la Guerra dei Grandi Laghi, la mattanza tra gli Hutu e i Tutsi. E aveva documentato anche i sanguinosi scontri avvenuti in Algeria».
Antonio Russo fu assassinato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2000 vicino a Tbilisi, in Georgia, mentre documentava le violenze sul popolo ceceno; l’autopsia non segnalò sul suo corpo ferite, non aveva ricevuto percosse, ma i suoi organi interni erano distrutti. L’appartamento in cui si appoggiava a Tbilisi fu messo sottosopra e furono trafugate la sua videocamera, il registratore e tutte le testimonianze che aveva raccolto: audio, video e scritte. Di lui si parla poco, nulla si sa dei mandanti, ma come Anna Politkovskaja aveva puntato una luce sui crimini russi in Cecenia e, come Anna, il suo è stato un omicidio in stile Kgb. Del resto, anche se solo da un anno, quella di cui Antonio documentava i crimini era già la Russia di Putin.
· 22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.
Vittorio Gassman, il centenario del “mattatore” del cinema italiano. Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.
Una vita dedicata al cinema, ma anche alla famiglia, al teatro e all’Italia.
100 anni
Vittorio Gassman nacque a Genova il 1° settembre 1922, figlio dell’ingegnere tedesco Heinrich Gassmann e della pisana Luisa Ambron. All’età di sei anni, Vittorio si trasferì con la famiglia a Roma, dove studiò e frequento l’Accademia nazionale d'arte drammatica.
Festeggiamenti
Il mondo del cinema italiano ricorda la nascita di uno dei suoi più grandi esponenti con retrospettive, rassegne e speciali, me è nella sua nativa Genova che è allestito il più ricco degli eventi: dal 7 luglio al 18 settembre 2022 è infatti visitabile la mostra personale allestita per il centenario a Palazzo Ducale.
Sport
Oltre alla fulgida carriera recitativa, Gassman portò avanti anche una discreta attività sportiva, giocando a basket nella S.S. Parioli e arrivando a competere nella nazionale universitaria del 1942.
Scrittura
Nel 1965 l’attore fa il suo debutto letterario con il romanzo “Luca dei numeri”, al quale seguono altre opere di finzione (“Ulisse e la balena bianca”, “Mal di parola”) e volumi autobiografici (“Un grande avvenire dietro le spalle”, “Memorie del sottoscala”).
Esordio disperso
Il primo film al quale partecipò Vittorio Gassman è purtroppo andato perduto. La pellicola “Incontro con Laura” di Carlo Alberto Felice del 1945 è quindi un debutto irrecuperabile, seguito per fortuna a breve distanza da “Preludio d’amore” di Giovanni Paolucci.
Matrimoni
L’attore è stato sposato per tre volte con colleghe attrici: Nora Ricci, dalla quale si separò con annullamento dalla Sacra Rota, Shelley Winters e Diletta D’Andrea, ma le sue relazioni non furono sempre confinate nelle nozze.
Critiche
Gassman era considerato un ribelle dalla società tradizionalista italiana. I numerosi matrimoni e le convivenze suscitarono infatti più di una critica, anche per l’approccio estremamente personale e anti-istituzionale con la religione. Ebbe inoltre quattro figli con quattro diverse partner, compreso Alessandro, avuto fuori dal matrimonio da Juliette Mayniel.
Il soprannome
Vittorio Gassman è universalmente noto anche con il soprannome di “Il Mattatore”, definizione presa dall’omonimo e amatissimo programma televisivo che condusse per Rai nel 1959.
Politica
Nel 1987 Gassman ebbe anche una breve parentesi in politica, quando fece parte dell’Assemblea nazionale del Partito Socialista Italiano su invito di Bettino Craxi.
Doppiaggio
Nel 1994 Gassman partecipò come doppiatore a un classico dell’animazione Disney. La sua voce fu infatti prestata al personaggio di Mufasa per “Il Re Leone”.
La morte
Vittorio scomparve improvvisamente il 29 giugno 2000 per un attacco cardiaco. Il suo corpo venne cremato e riposa nella tomba della famiglia D’Andrea al Cimitero Monumentale del Verano a Roma.
La lapide
Sulla sobria lapide di Gassman è inciso un particolare epitaffio: “Non fu mai impallato!”. Fa riferimento a un’espressione specifica del gergo attoriale, “essere impallato”, ovvero non visibile dalla cinepresa.
Gassman e Trintignant, il riflesso dell’Italia del boom. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.
«Il sorpasso», capolavoro di Dino Risi, schizza l’identikit brillante crudele, due velocità, dell’Italia del consumismo, con corredo di juxe box
«Il sorpasso» l’avete visto tutti, ma se c’è un classico dell’estate è proprio questo di Risi, il suo capolavoro non l’unico (veniva da «Una vita difficile», girerà i «Mostri») che riflette l’Italia del boom col cialtrone che vive in ciascuno di noi in spider. Giovedì 1 settembre, Gassman compirebbe 100 anni, allora ne aveva 40, e si rivedono Trintignant e la Spaak , da poco scomparsi: lui scelto all’ultimo (nella prima scena è una controfigura) ed era una promessa francese 22enne e lei, 17enne, era reduce dai «Dolci inganni». Risi disse che l’idea gli era venuta da uno strambo avvocato che doveva portarlo a Lugano per le sigarette invece si trovò nel Liechtenstein. Lo stile della commedia italiana più famosa, 24 ore su una Lancia Aurelia decapottabile con quel clacson molesto status symbol, che sfreccia sull’Aurelia tirrenica, con Bruno, sbruffone di 40 anni (diventerà per l’attore un prototipo) e Roberto, studente impacciato, appartiene tutto al talento geniale di sceneggiatori come Risi, Scola e Maccari, che schizzano l’identikit brillante crudele, due velocità, dell’Italia del consumismo con corredo di juke box, «L’uomo in frack», «Guarda come dondolo», «Watussi» e una battuta contro «L’eclisse» di Antonioni.
Ma Cecchi Gori temeva quel finale tragico e aveva scommesso con Risi che se il giorno delle riprese del sorpasso fosse stato sereno, si girava come voleva lui con l’happy end, altrimenti vinceva l’autore: e così fu. Ma gli ultimi 5 minuti non compromisero la fortuna del film che iniziò in sordina ma poi scoppiò il finimondo col bocca a bocca del pubblico: 1 miliardo e 182 milioni l’incasso, il Nastro di argento per Gassman, Dennis Hopper che disse di essersi ispirato per «Easy Rider». Il cast perfetto con Claudio Gora play boy e Annette Stroyberg, una delle turiste tedesche, che era «fidanzata» del Mattatore in quel periodo in vacanza da Shakespeare e Sofocle.
Stefano Della Casa per “La Stampa” il 31 agosto 2022.
Uno storico cinegiornale realizzato nel 1959 e conservato all'Istituto Luce ci tramanda una scena indimenticabile. La Mostra del Cinema si è appena conclusa e i colori dell'Italia hanno trionfato perché il Leone d'oro è andato ex aequo a Il generale della Rovere (il film che riunisce i due geni del neorealismo, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica) e a La grande guerra (la commedia italiana di Monicelli che unisce comicità e dramma).
Gli attori di quest' ultimo film, Alberto Sordi e Vittorio Gassman, fingono di apprendere in quel momento che hanno vinto, ma poi appaiono delusi e lamentano che il Leone non andrà a Sordi e Gassman bensì a Monicelli e De Laurentiis, produttore del film.
È quasi una metafora di quanto è capitato proprio a Gassmann. L'attore genovese, il cui compleanno coincide con l'apertura della Mostra del Cinema di quest' anno, fu omaggiato da Gillo Pontecorvo con il Leone alla Carriera nel 1996, ma ha però visto i suoi film più importanti (e le sue interpretazioni più intense) sugli schermi della Croisette di Cannes.
In quel festival sono passati tra gli altri La famiglia, Profumo di donna (che gli è valso tra l'altro la Palma d'oro come miglior interprete) e Caro papà. Tutti film che vedono un Gassmann diverso, lontano dal personaggio del Mattatore che aveva caratterizzato la sua carriera negli Anni 60 quando meglio di chiunque altro aveva saputo dare corpo e volto all'italiano nuovo protagonista del boom economico.
Quando ricevette il Leone d'Oro alla carriera, Vittorio era ormai al termine della sua carriera, era malinconico e non nascondeva a nessuno di soffrire di depressione. Vederlo salire sul palco, ringraziare con un largo sorriso e poi voltarsi con sguardo quasi smarrito come a chiedere: «e adesso cosa devo fare» fu commovente.
Il maschio sicuro di sé che costringeva il povero studente Trintignant a scorrazzare sull'Aurelia con una macchina decappottabile dotata di fastidiosissimo clacson adesso attendeva lumi per sapere cosa doveva fare: i tempi erano decisamente cambiati, e Vittorio era lì a dimostrarlo fisicamente.
Gli incontri stampa che hanno accompagnato questo riconoscimento furono ancor di più significativi. Gassman, che aveva significativamente intitolato la sua autobiografia Un grande avvenire dietro le spalle, ricordava con grande affetto i film degli Anni 50, quando quasi sempre interpretava il cattivo, il seduttore bello e spietato che era poi il suo ruolo nel suo primo film importante, Riso amaro (peraltro, anche in questo caso, il film ebbe la prima a Cannes).
«Nessuno ha sedotto e abbandonato tante donne come me in quegli anni, nessuno è stato più spietato, più crudele. Forse non è un caso se il mio primo ruolo da protagonista, con Riccardo Freda, fu il ruolo di Casanova. Ho letto che quando ballo con Silvana Mangano alla stazione in Riso amaro mi comporto e mi muovo come un sex-symbol, un grande seduttore.
Bene, approfitto di questa occasione per dirvi che non sono io a ballare in quella scena. Se guardate con attenzione notate che la mia faccia non si vede mentre sto ballando, e vengono invece montati i miei primi piani. Io ballavo male il boogie-woogie, e ho dovuto avvalermi di una controfigura. E peraltro era una controfigura di lusso, perché si trattava di Carlo Lizzani, che era lo sceneggiatore di Riso amaro».
Insomma, Venezia per mettere in discussione anche quel mito, per scrollarsi di dosso quell'immagine di seduttore che è stata una componente importante della sua vita e del suo personaggio ma che ha rischiato poi di essere una trappola. Venezia 2022 lo ricorda con La marcia su Roma, in cui Dino Risi lo immagina in coppia con Tognazzi. È il film che con più chiarezza racconta come la monarchia sia stata imbelle complice della dittatura e offre a Gassman il ruolo di un disoccupato truffaldino memorabile. Un grande film, con Vittorio in stato di grazia.
Il sublime Mattatore che "recitò" l'Italia del secondo Novecento. Diede corpo, voce e carattere a un intero Paese. Interpretandone la grandezza e la miseria in una commedia infinita. Claudio Siniscalchi il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.
Raccontare l'Italia con l'ausilio della celluloide? Facile! Lasciandosi aiutare dal potere divisorio (e divino) dell'accetta, basta scegliere due attori. Il primo - Amedeo Nazzari - si carica sulle spalle la prima metà del XX secolo; il secondo - Vittorio Gassman - l'altra metà. Nazzari è stato il divo per eccellenza dello spettacolo negli anni Trenta, quando gli italiani hanno iniziato a frequentare massicciamente la sala cinematografica, lasciandosi trasportare dal fascino irresistibile delle immagini. Il perfetto fidanzato delle italiane. Un cagliaritano di taglia gigante. Possente. Spalle quadrate. Voce profonda. Icona della forza e grandezza italiana propagandata dal fascismo.
Gassman, che domani avrebbe compiuto 100 anni, genovese anche lui di stazza notevole (in gioventù ha praticato la pallacanestro), è il ritratto delle paure e delle speranze del dopoguerra. Le aperture di due film mostrano i differenti profili della medaglia. In Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis è un ladro con impermeabile chiaro (in un giorno di sole pieno) e cappello floscio. Sfugge alla polizia miracolosamente, sfruttando il marasma della stazione ferroviaria, piena zeppa di mondine in procinto di partire per l'annuale lavoro (stagionale e massacrante) nelle risaie. Gassman ha il volto scavato, gli occhi quasi sporgenti, la magrezza figlia della fame e della guerra, le cui ombre ancora aleggiano sulla vita quotidiana degli italiani, e sembrano proprio non volerli abbandonare. Lo stesso Gassman lo ritroviamo qualche anno dopo nell'incipit de Il sorpasso (1962) di Dino Risi. L'Italia ferragostana è andata in vacanza. Roma è deserta. Il protagonista vaga senza meta. Viene accolto in casa da un giovane studente universitario (Jean-Louis Trintignant), rimasto in solitudine per studiare. Va in bagno, per lavarsi le mani sporche di grasso. Si toglie la maglietta. Resta a torso nudo, mostrando come quel corpo asciutto di pochi anni prima abbia preso consistenza. Il benessere lo ha irrobustito. Il boom economico gli ha dato il peso giusto. Le paure sono di colpo svanite. Le speranze galoppano, sfrecciano veloci sulle quattro ruote dell'auto sportiva guidata irresponsabilmente. L'Italia corre veloce. Sta divorando tutto.
E Gassman di questa Italia spumeggiante, aggressiva, arrogante e cinica, che non vuole mai dormire, mai rallentare, ma fermarsi, diventa il Mattatore. Gassman spopola e domina sullo schermo (prima grande e poi piccolo), in radio, sui palcoscenici teatrali, nei rotocalchi a larghissima diffusione, nei salotti, nelle occasioni mondane. La presenza di Gassman è straripante. Dove arriva attira su di sé l'attenzione. È un magnete potentissimo. Un Supereroe in bianco e nero capace di reggere una conversazione letteraria con Elsa Morante; giocare un incontro di tennis con Ugo Tognazzi in attesa della mitica pastasciutta; andare in scena con Luchino Visconti in teatro per un testo di Jean Cocteau; divertirsi a fare il seduttore con le sbigottite signore di un mercato romano; rilasciare un'intervista seriosa in smoking alla Mostra di Venezia.
Gassman può fare e sa fare tutto. Recitare, parlare, condurre, intrattenere, scrivere. Ammaliare e stupire. Mentire e dire la verità. Divertire e far piangere. Interpretare l'esistenza senza macchia e senza paura e l'esatto contrario. È credibile nei panni del principe e dello straccione, del padre di famiglia e dello scapestrato, del ricco e del povero. Volete un cieco capace di vedere sin dentro le anime? Gassman in Profumo di donna (1974) di Risi. Dalla sua prima apparizione cinematografica nel 1945 all'ultima nel 1999, il Mattatore è la figura di riferimento dell'Italia del secondo Novecento. Nella grandezza come nella miseria. Forse è arrivato il momento di dirlo: ma la vera autobiografia dell'italiano non è quella di Alberto Sordi, è quella di Vittorio Gassman. Senza mancare di rispetto all'Albertone nazionale, in Gassman, oltre al divertimento tipico della commedia, è ben visibile l'autorevolezza della tragicità. Sordi è soprattutto il principe della risata. In C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola - commedia sociale perfetta - Sordi avrebbe potuto sostituire egregiamente Nino Manfredi, non Gassman. I panni dello spiantato diventato ricco, indossati con sobrietà e serietà da Gassman, in Sordi sarebbero stati flosci, troppo larghi e troppo lunghi. Non parliamo della divisa militare tirata a pennello per il Gassman de Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini. E del professore comunista (con amante clandestina) de La terrazza (1980) e del patriarca di La famiglia (1987, entrambi di Scola).
Altri avrebbero potuto sostituire Gassman? Se c'è un elemento da sottolineare non sono certo le capacità drammatiche di Gassman, ma il fatto che i grandi autori italiani non gli abbiano mai offerto una vera occasione per scatenare il suo talento. Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti non sono mai ricorsi a lui. Brancaleone era davvero troppo per figurare nelle loro opere. È questa probabilmente l'unica nota stonata di una grande carriera. E il Mattatore certo non ne ha la minima responsabilità. Neppure il genio visionario di Bernardo Bertolucci ha trovato il coraggio di affidarsi a Gassman. Non trovò spazio per un semplice cammeo nel suo monumentale Novecento (1976). Avrebbe stonato? Ne dubitiamo. Eppure, Bertolucci scelse Tognazzi come protagonista di La tragedia di un uomo ridicolo (1981). La presenza di Gassman avrebbe ulteriormente arricchito quel bel film, purtroppo caduto nel dimenticatoio. Tognazzi era, per tutt'altre ragioni, grande quanto Gassman. Uno completava l'altro. Insieme racchiudevano l'intera gamma, fisica ed espressiva, della recitazione. Valida per favorire il buonumore come per richiamare la pesantezza della tragedia.
La storia del cinema italiano, come tutte le altre storie, prima o poi andrà riscritta con occhi nuovi. Con sguardi meno legati alle qualità dei registi e delle idee espresse. La cinematografia nel XX secolo è stata marcata fortemente dall'icona. Meno dalla parola, dal paesaggio, dal suono, dal pensiero. Il volto, la corporeità, la fisicità. Detto in altri termini, le opere - quelle destinate a diventare canone - si reggono, nell'essenza, sull'attore. Marcello Mastroianni nella fontana di Trevi. C'è poco da aggiungere. Nell'infinita carrellata per immagini del Mattatore la commedia è dominante. Dato significativo, poiché la commedia - dai «telefoni bianchi» degli anni Trenta al «cinepanettone» di fine secolo - è stata l'elemento di unificazione nazionale. Linguistica, antropologica, comportamentale, sessuale, consumistica, di tendenza, persino vettore dell'irriverenza. E la commedia, in largo e in lungo, in alto e in basso, nel bello e nel brutto, per mezzo secolo si è pietrificata in un monumento dalle molteplici sfaccettature: il Mattatore.
L'opera e la figura di Vittorio Gassman, per concludere, sono già fissate nel tempo e proiettate nel futuro. L'autobiografia del Mattatore pubblicata nel 1981 si intitolava Un grande avvenire dietro le spalle. Una percezione della propria grandezza il suo autore certo l'aveva. Pur se ne ignorava le autentiche dimensioni. Noi lo sappiamo: è immensa.
Estratto dell'autobiografia di Vittorio Gassman, "Un grande avvenire dietro le spalle" il 21 gennaio 2022.
Sfizi. Stavo in un night quando vidi entrare un gruppo elegante e rumoroso in cui faceva spicco Romy Schneider. Sentii d'improvviso l'impulso di manifestarle un'antipatia che, senza conoscerla, mi aveva sempre ispirato. Le feci recapitare un biglietto: "Cara signorina Schneider; approfitto di questa occasione per dirLe con tutto il rispetto che Lei mi sta sui c da anni. La prego di non interpretare il mio biglietto come un tentativo di approccio, perché - pur riconoscendole molto fascino oggettivo - non sono per nulla attratto dall'idea di andare a letto con Lei. Cordialmente".
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2022.
«La litigata più furibonda con mio padre fu quando venni a trovarlo a Roma alla metà degli anni Sessanta. Ero adolescente e indossavo un paio di blue jeans. Lui aveva idee vecchie e non poteva accettare che non indossassi una gonna normale... Ma io ero ribelle».
Vittoria Gassman, secondogenita di Vittorio Gassman, racconta a modo suo un padre molto speciale, che il prossimo 1 settembre avrebbe compiuto 100 anni. Non solo un padre, ma anche una madre speciale, l'attrice americana Shelley Winters, scomparsa nel 2006.
Lei ha come secondo nome Gina, riferito alla Lollobrigida. Come mai?
«Mi è stato dato da mamma. Quando le chiesi il motivo, rispose che, vedendo nell'attrice italiana la donna più bella del mondo, volle aggiungere questo secondo nome».
Subito dopo la sua nascita avvenne il divorzio...
«Un matrimonio-lampo. Avevo circa un anno e mezzo quando si lasciarono e rimasi negli Stati Uniti con mamma che soffrì molto quando poi seppe della nascita del terzo figlio, Alessandro, avuto dall'attrice Juliette Mayniel».
Un padre assente?
«Ovvio e ne ho sofferto, anche se lui veniva a trovarmi a New York una o due volte l'anno. Però mi scriveva spesso e voleva che imparassi l'italiano, le sue lunghe lettere erano in questa lingua: per me noiosissimo leggerle».
Cosa facevate quando veniva a trovarla?
«Una tappa fissa era mangiare al Plaza, negli anni successivi mi portava in un cinema dove proiettavano film stranieri, tra cui i suoi. Siccome poi si esibiva con delle letture al Consolato italiano, mi portava con sé. Quando iniziai a frequentare l'università a Boston, mi fece un grande regalo: si fermò una settimana per seguire i miei studi, assistendo alle lezioni».
E lei veniva regolarmente in Italia?
«Ho iniziato intorno ai 10-11 anni. Ogni estate trascorrevo circa un mese con lui: ci tenevo tanto e ci teneva tanto anche lui, nonostante le litigate... le emozioni superavano i contrasti».
Quando Vittorio faceva il padre, recitava una parte o era vero?
«È sempre stato vero, nei pregi e nei difetti».
Lui affermò che lei aveva sofferto per la sua assenza e ancor di più per la presenza di sua madre. È così?
«Amavo molto mamma, ma era una donna infelice e non era facile vivere con lei».
Un solo uomo con tante famiglie diverse, e quattro figli avuti da quattro donne...
«Stranamente, riusciva a mettere d'accordo le quattro donne. Una volta venne in America con Juliette per farcela conoscere, dopo la nascita di mio fratello. La sua nuova compagna andò d'accordissimo con mia madre. Andavano insieme a fare compere e tornavano felici: papà ed io assistevamo sorpresi all'amicizia tra loro».
Con quale dei fratelli lei si sente più affine?
«Pur non vedendoci spesso, mi sento legata a tutti, compreso Emanuele Salce, che papà ha cresciuto come un figlio. Con Paola condividiamo ricordi d'infanzia e adolescenza; Alessandro è il più divertente; Jacopo è introverso, molto intellettuale come me. Durante la pandemia ci siamo frequentati molto: avevamo creato una chat dove dialogavamo a distanza».
Lei, Vittoria, è l'unica che non ha seguito le orme dei suoi genitori: è medico geriatra. Perché?
«Mamma mi diceva cose negative su una carriera difficile. Papà mi fece partecipare con comparsate ad alcuni suoi film, ma non mi ha mai spinto al suo mestiere. Io sono interessata alla scienza».
Qual è il primo e l'ultimo ricordo?
«Il primo riguarda il mio compleanno. Mamma mi preparava una grande torta-gelato e, se papà non poteva esserci proprio quel giorno, ne mettevo in freezer una fetta che doveva mangiare anche se veniva da noi molti mesi dopo. L'ultimo ricordo è una bella vacanza a Sabaudia con lui, Diletta e con i miei figli. Era sofferente nel respiro: fumava come un demonio, soffriva di enfisema. Eppure, quando era nato Alessandro, aveva promesso: non fumerò fino a quando compirà 16 anni. Appena compiuti, ricominciò a fumare».
Tutto Vittorio Gassman l'uomo chiamato spettacolo (e cultura). Paolo Scotti il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.
Costumi di scena, foto di famiglia, locandine e storici filmati raccontano il grande mattatore.
L'unico. L'inimitabile. L'insuperabile. Perfino i mille metri quadrati della mostra che ne celebra il centenario faticano a contenerne l'onnicomprensivo talento. «Non una rassegna mortuaria su Vittorio Gassman - avverte il figlio Alessandro - ma come l'avrebbe voluta lui: piena di vita». E allora, ecco: da oggi al 29 giugno all'Auditorium Parco della Musica di Roma (quindi al Palazzo Ducale di Genova, infine in tournée per il mondo) la rutilante parata di foto, filmati, oggetti, costumi e cimeli che provano a condensare i cinquant'anni della carriera del Mattatore per definizione. «Vorrei - sorride Alessandro - che a visitarla fossero soprattutto i giovani, per superare il disagio che provo io, quando mi accorgo che conoscono me ma hanno solo una vaga idea di chi sia stato lui».
E l'idea si forma visitando le quattro sezioni espositive, ciascuna dedicata a uno dei campi in cui eccelse quel talento debordante: teatro, cinema, televisione, poesia e scrittura. Si parte dal tipico baule dei costumi di scena («Il teatro resta per me la disciplina essenziale») e si toccano i più intimi ricordi di famiglia: dall'album dei ritagli sui successi del giovane nazionale di pallacanestro (conservati dalla madre Luisa) alle foto delle feste di compleanno o di laurea dei figli («La parte che m'intenerisce di più, e che è anche la più inedita», commenta la terza moglie, Diletta d'Andrea).
È una fenomenale carrellata di titoli che hanno fatto la storia delle nostre scene: il leggendario Amleto del '52, ispirato dal divo hollywoodiano Charles Laughton e coronato da un successo epocale; il mitico Otello della staffetta, con Vittorio e Salvo Randone che ogni sera si alternavano nel ruolo del Moro e di Iago, passando per il clamoroso Sette giorni all'asta (ancora oggi si parla di quella performance: una settimana ininterrotta di one man show!), e il Riccardo III disegnato da Mario Ceroli (con un enorme cavallo ligneo della scenografia originale) fino al kolossal di Ulisse e la Balena bianca, di cui Renzo Piano ha recuperato la preziosa maquette, cioè il plastico scenografico. Va da sé che la sezione più attrattiva per il grosso pubblico sia quella cinematografica: foto, locandine, sceneggiature originali e costumi (da Guerra e pace a L'armata Brancaleone), oltre alla vetrinetta dei premi - nove David di Donatello, cinque Nastri d'Argento e il Leone d'Oro alla carriera, fra gli altri - accompagnano il visitatore attraverso titoli che sono altrettanti pezzi della memoria collettiva del nostro Paese: I soliti ignoti, Il sorpasso, La grande guerra, C'eravamo tanto amati, La famiglia...
E qui l'emozione vera è l'autentica Lancia Aurelia B24 del Sorpasso, fornita da un collezionista, restaurata e fotografatissima. «Mi ha sempre stupito il modo in cui Gassman riusciva a coniugare la cultura alta con quella popolare», dice il curatore Alessandro Nicosia. Esempio illuminante è la sezione dedicata alla tv: storici filmati dell'Archivio Luce e delle Teche Rai ci tuffano negli inimitabili duetti fra Vittorio e Mina, Baudo, Corrado: un vero compendio del gusto, dell'ironia - e dell'autoironia (vedere il pezzo in cui recita slogan pubblicitari come fossero versi danteschi) - di un intellettuale che sapeva anche essere nazionalpopolare. È stato difficile vivere per trentadue anni con un uomo così complesso? «È stato meraviglioso - replica subito Diletta d'Andrea - nel bene e nel male. E di questo lo ringrazio ogni giorno. Perché io Vittorio me lo sento accanto ogni giorno». Che cosa la colpiva di più in lui? «La sua anima tormentata. Quella che molti scambiarono per depressione era, in realtà, ricerca di assoluto. Ricerca di Dio». Aveva paura della morte? «Certo. Come tutti. Ma lui un po' di più, perché lui era pieno di vita».
E se riuscì a tenere unita la sua famiglia allargata, «un po' fu anche merito mio». Non tutte le donne ci riescono, nota qualcuno. «Non tutte le donne hanno avuto Gassman», risponde lei.
Diario di un mattatore, la mostra per il centenario di Vittorio Gassman. La moglie Diletta: «Ci parlo, lo sogno». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2022.
La vita, l’arte, gli amori: ritratto di un attore monumentale tra pubblico e privato. La moglie Diletta D’Andrea: «E’ la prima volta che riesco a trovare le parole su di lui pubblicamente, è ancora qui con me, ci parlo, lo sogno». E il figlio Alessandro: «I giovani hanno una vaga idea di lui e di cosa ha rappresentato».
Diletta D’Andrea non ha mai voluto parlare in pubblico di suo marito, Vittorio Gassman. Lo fa ora per la prima volta, con parole che hanno commosso, alla presentazione della mostra che celebra il centenario di suo marito, Vittorio Gassman: «Lo ringrazio per la meravigliosa vita che mi ha dato, quando se n’è andato...Ma non se n’è andato mai, è ancora qui con me, ci parlo, lo sogno. C’è un’energia che si trasforma. Grazie Vittorio, a presto». E Alessandro Gassmann, uno dei quattro figli di un artista monumentale che è stato attore, regista, scrittore, dice che la mostra, non funerea ma viva come avrebbe voluto lui, toccando tutte le note del repertorio del padre, vuole anzitutto «farlo scoprire ai giovanissimi, quando li incontro mi accorgo che hanno una vaga idea del lavoro di papà e di quegli attori lì, che hanno vissuto la ricostruzione di un paese distrutto dalla guerra con la capacità di rilanciarlo attraverso la cultura».
Diletta ha scritto per il catalogo: «Non sapevo come cominciare, d’altra parte, come posso mettere in un foglietto un uomo così grande? Mi viene da ridere, come quando lui è stato cremato e messo dentro un vasetto». Vittorio Gassman è morto il 29 giugno 2000. La mostra, Vittorio Gassman. Il centenario, a cura di Alessandro Nicosia («poi andrà a Genova, New York, Parigi e Londra»), Alessandro Gassmann e Diletta D’Andrea, è aperta da oggi al 29 giugno all’Auditorium Parco della Musica. In uno spazio di mille metri quadrati, stazionano la Lancia Aurelia B24 che Dino Risi usò nel Sorpasso (l’auto è stata prestata dal proprietario, un collezionista) e il cavallo ligneo di Mario Ceroli per Riccardo III.
Quattro sezioni: gli inizi come prologo, il teatro (che era il regno della felicità, la sua casa) con un focus su 15 spettacoli, il cinema con 15 film, la tv e la poesia. Il taglio è quello della leggerezza, non si vuole intimidire il visitatore, schiacciandolo sotto il peso della cultura di Gassman.
Ci sono foto giovanili, Vittorio giocatore di basket al campionato universitario (parallelamente frequentava l’Accademia Silvio d’Amico), e i genitori (com’è noto fu sua madre a spingerlo a studiare recitazione per vincere la timidezza: ci sono i quaderni in cui sua madre raccoglieva articoli che raccontano le sue imprese sportive, la curiosità dei cinque anni misconosciuti vissuti a Palmi in Calabria, seguendo il padre ingegnere civile tedesco. Si fa luce sulla sua intensa vita sentimentale, quattro figli da quattro donne. Il teatro, ecco filmati da Amleto, Otello, Edipo re, Adelchi che richiamò una gran folla contro ogni previsione, l’esperienza del teatro popolare e il Teatro Tenda di piazza Mancini, Affabulazione (in cui Vittorio reclutò in scena al suo fianco il refrattario Alessandro), Ulisse e la balena bianca…Per il cinema, al di là della parentesi a Hollywood, ci sono gli incontri importanti: Mario Monicelli, Dino Risi e Ettore Scola. La tv: Canzonissima, Studio 1, Il mattatore. Infine le letture di Dante.
I costumi: L’armata Brancaleone, Macbeth, Otello... Vittorio allo specchio. Dal mare di materiale che si è dovuto sfoltire, esce fuori lo sdoppiamento di personalità, la forza e la fragilità che poi pagò nei soprassalti del sistema nervoso. È un bell’omaggio a un grande umanista che una volta si descrisse come il cieco che impersonò in Profumo di donna: «Intelligente, fragile, generoso, sprezzante, arrogante, disperato, mai ipocrita e furbo».
Per sopravvivere, Diletta ha chiuso in un baule tutti i ricordi. Lo riapre ora, e ha ritrovato la domanda di matrimonio religioso ricevuta negli anni 90 (nel’70 si erano sposati in municipio a Velletri). Il testo, lievemente scherzoso e pieno di grazia, dice: «Gentile Signora Gassman, sono il signor Gassman e, in procinto di rincontrarla, oso chiederle se ha iniziato a riflettere alla mia formale domanda di concedermi la sua graziosissima mano. Spero avremo presto l’occasione di riparlarne. Devoti saluti dal suo Vittorio Gassman».
Amanti, amici, complici. Diletta ricorda quando recitarono insieme in O Cesare o nessuno: «Lui voleva farmi capire la bellezza del suo mestiere. Io avevo una piccolissima parte. Ma che panico, 140 repliche senza mai divertirmi. È stato un pessimo tentativo di stare un po’ più vicini. E impietosamente fallì. Solo dopo molto tempo trovammo, attraverso la fotografia, il modo giusto».
In occasione del Moby Dick, e siamo quasi al congedo, Vittorio le chiese di fare le foto di scena. «Il primo scatto, l’immagine di lui con il cappellaccio, diventò il logo dello spettacolo. Da lì partì il nostro sodalizio. La complicità aumentava, la sua anima si univa alla mia attraverso il mirino dell’obiettivo. Le mie foto non sono perfette ma colgono qualcosa oserei dire di esclusivo. Erano sguardi, i suoi, riservati solo a me».
Paola Gassman: «Papà Vittorio? Era inadatto al ruolo. Ci siamo ritrovati litigando. Ai miei fratelli facevo da zia». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.
L’attrice: «Vittorio sbagliò persino a registrarmi all’anagrafe e mamma non voleva che facessi l’attrice. Mi raccomandò all’incontrario»
Figlia di Vittorio Gassman e Nora Ricci, ma anche nipote di Renzo Ricci ed Ermete Zacconi, nonché sorella di Vittoria Gassman, Alessandro Gassmann e Jacopo Gassmann: tutti figli avuti dal padre con mogli diverse. «Sì — ride Paola Gassman — una famiglia piuttosto complessa anche con l’uso delle “enne” nel cognome».
Ecco ci spieghi perché solo i fratelli Alessandro e Jacopo ne hanno due.
«Papà, di origini tedesche, se ne era tolta una dal cognome originale. Quando sono nata io, la primogenita, era giovanissimo e all’anagrafe sbagliò persino il mio giorno di nascita, disse all’impiegato che ero nata il 28 giugno, invece sono nata il 29 giugno, e infatti mi chiamo Paola proprio perché è la festa di San Pietro e Paolo. Ma posso comprendere la sua sbadataggine: aveva poco più di vent’anni e aveva la testa altrove. Forse quella mattina, mentre era in fila per dichiarare la mia nascita, stava leggendo un copione che doveva studiare per andare in scena... E su questo sbaglio, in seguito, ci scherzava spesso, dicendo: “È la farsa del tuo compleanno”. Poi, strana coincidenza, la data della mia nascita è coincisa con quella della sua morte, il 29 giugno 2000».
Che padre è stato?
«Ovviamente assente nella mia infanzia, ma lo scuso per essere stato poco presente, come avrebbe potuto essere altrimenti? Lui stesso si è scusato della sua assenza e del suo non essere all’altezza del compito, non era portato ad assumere questo ruolo. I miei genitori si sono separati quando avevo tre anni ed erano entrambi molto presi dalle loro carriere, io sono il frutto di un incidente di percorso e fino, grosso modo, agli anni dell’adolescenza ho vissuto con mia madre... lui lo vedevo molto poco, era nel pieno della sua affermazione da attore, che per altro non era stata una sua scelta».
Cioè Vittorio Gassman non voleva salire in palcoscenico?
«Assolutamente no. Fu sua madre a spingerlo perché voleva cambiare l’indole del figlio: papà era stato un ragazzino introverso, timido, tutto dedicato allo studio, alla scrittura... voleva diventare scrittore. Ma mia nonna fu drastica e lo costrinse a entrare in Accademia d’Arte drammatica. Una imposizione che risultò assolutamente giusta, tuttavia mio padre, quando era anziano, affermò che quel dover cambiare carattere forse gli causò la depressione, ne aveva pagato in qualche modo lo scotto... In una delle sue ultime apparizioni in teatro, disse: “Voglio andarmene con le mie gambe, tira una brutta aria”. Ma subito dopo affermava, con la sua grande ironia, che faceva credere al pubblico che fosse uno spettacolo di addio, per solleticarne la curiosità di vederlo morire in palcoscenico».
Con tali ascendenze, lei non poteva fare altro che l’attrice...
«Mia madre, essendo altrettanto figlia d’arte, ha fatto del tutto per impedirmelo, desiderava per me una vita più normale e non come la sua sempre in tournée, da scavalcamontagne. Frequentai il liceo classico Tasso, lo stesso di mio padre, e quando dovevo scegliere la facoltà universitaria, le rivelai la mia intenzione di iscrivermi all’Accademia: scoppiò un melodramma... Tanto che, al mio provino di ammissione, arrivò al punto di raccomandarmi all’incontrario».
Ovvero?
«Alla Silvio D’Amico, naturalmente, conosceva tutti gli attori e i registi che facevano parte della commissione esaminatrice. Li supplicò di non farmi passare l’esame solo perché ero figlia di... preferiva che mi bocciassero».
E invece superò la prova: papà Vittorio fu contento?
«Sì e in seguito, più volte, tentò di coinvolgermi nei suoi spettacoli, ma io all’epoca ero una sessantottina, una ribelle, lo contestavo, non mi piaceva l’idea di fare la parte della raccomandata... era troppo facile debuttare vicino a un personaggio tanto famoso. Solo molti anni dopo ho accettato di recitare con lui in O Cesare o nessuno, spettacolo ispirato alla figura e al mito di Edmund Kean, ma perché in verità non interpretavo un ruolo, ero me stessa, nella parte di una spettatrice. E quel lavoro fatto insieme è servito a sciogliere parecchi nodi affettivi e psicologici tra lui e me. Ci facevamo delle sane litigate, che partivano sempre da pretesti magari professionali, discutevamo ad alta voce, fino a urlare... papà sapeva essere anche perfido, ma io gli rispondevo a tono e quei dissidi ci hanno consentito di conoscerci meglio, ci hanno aiutato a essere più vicini e, tutto sommato, a diventare alla fine anche complici».
Prima di diventare complici, però, lei come ha vissuto la nascita dei vari fratelli-sorelle? Ne è stata gelosa?
«Per niente. Della nascita di Vittoria seppi ascoltando la radio, in quanto era figlia non solo di mio padre, ma di un’attrice famosa come Shelley Winters. E l’ho conosciuta quando ero più grandicella».
Ed è l’unica che non ha fatto la carriera artistica...
«No, ha scelto una strada completamente diversa: si è presa due lauree e fa il medico, infatti papà diceva che era l’unica seria in famiglia. Forse Vittoria ha sentito poco l’influenza paterna e mi ha raccontato cosa rispose, una volta, a nostro padre quando lui si scusò per essere stato troppo distratto nei suoi confronti. Gli disse: sì, papà, è vero che mi sei mancato molto, ma forse ho sofferto di più la vicinanza di mamma...».
Quando è nato Alessandro, figlio dell’attrice francese Juliette Maynielle, com’è andata?
«Avevo già vent’anni... più che una sorella maggiore, mi sono sentita una specie di zia, perché mia figlia Simona ha solo due anni più di lui. Per non parlare poi di quando è arrivato Jacopo, figlio di Diletta D’Andrea e un po’ più piccolo di mio figlio Tommaso. Quando venimmo a sapere che mio padre, ormai abbastanza in là con l’età e molto imbarazzato, era in attesa di un nuovo pargolo, mio marito Ugo (Pagliai ndr) mi disse lapidario: “Può andare bene che tu aspetti un fratello, pur essendo abbastanza strano, ma il colmo è che io invece aspetto un cognato!”».
Una famigliona davvero tanto allargata...
«Verissimo, però ci vogliamo bene, ci siamo sempre rispettati, proprio grazie ai pregi di chi ci ha messo al mondo: Vittorio, sia pure con una buona dose di egoismo, non ha mai reclamato obbedienza da noi figli. Non era dotato certo di nessuna caratteristica del buon padre, non era portato a esserlo, eppure è stato, a suo modo, un grande padre. Certo, è stato un grande seduttore, però poi le sposava quasi tutte... Insomma, ci ha trasferito degli insegnamenti, senza dettarceli, ma mostrandoli attraverso la sua onestà, il suo rigore, la sua intelligenza e anche, perché no, la sua intransigenza».
Con chi di voi andava più d’accordo?
«Certamente con i figli maschi: diciamo la verità, è sempre stato un po’ maschilista e con loro probabilmente ha scoperto il significato della vera paternità. Tra i due, ha seguito soprattutto Alessandro, perché con Jacopo è stato quasi un nonno ed era consapevole che non gli restavano tantissimi anni per seguirne la crescita. Per quanto mi riguarda, negli ultimi tempi mi paragonava in un certo senso alla figura di una madre, ero la più grande e, tra i quattro figli, rappresentavo quella che lo riportava alla sua famiglia di origine: negli ultimi tempi, insomma, tra me e lui bastavano pochi sguardi o semplici gesti molto eloquenti, non c’era bisogno di tante parole... però mi ha dedicato una bellissima poesia, dove dice tra l’altro “anche con te, Paola, sono in debito / per la serenità che mi dai sempre”».
Come mai voi tre fratelli artisti non avete mai lavorato insieme?
«Innanzitutto, tra noi, vige una regola: non si devono fare progetti insieme perché sei figlio o fratello o sorella di... Se capita l’occasione, ben venga e lo si fa volentieri, altrimenti diventa una forzatura, una roba gratuita. Aggiungo che tutti noi siamo dotati di un certo pudore nel metterci a fare uno spettacolo o un film o altro insieme. Inoltre abbiamo percorsi diversi: io sono decisamente più legata al teatro, Alessandro è molto cinematografico, Jacopo non fa l’attore, ma ama la regia...».
E lei, in teatro, adesso interpreta con suo marito una curiosa versione di «Romeo e Giulietta».
«In effetti è davvero una curiosa versione. Nonostante Ugo e io non abbiamo più l’età giusta per i due celebri personaggi, ci capita questa strana avventura, che è nata in un modo altrettanto curioso».
Dunque non è stata una vostra decisione?
«Per carità! Un giorno il regista di Babilonia Teatri, Enrico Castellani, ci racconta il progetto cui stava pensando e lavorando, dove i protagonisti dell’opera shakespeariana non sono due ragazzi, bensì due adulti con qualche capello bianco. Noi gli rispondiamo che era una bella idea e gli chiediamo: chi li reciterà? E lui ribatte: voi due! Noi due? Restammo sconcertati...».
Però avete accettato la proposta, e a breve sarete al Teatro Biondo di Palermo, poi al Carcano di Milano...
«Sì, perché è una interpretazione singolare. Lo spettacolo si intitola Romeo e Giulietta: una canzone d’amore e consiste in un percorso parallelo alla storia emblematica dell’amore tra i due giovani. Qui è la storia mia e di Ugo che stiamo insieme da più di cinquant’anni e che ci raccontiamo in una sorta di lunga intervista, senza alcun imbarazzo. Non esiste un copione vero e proprio... certo, ci sono alcune delle parti recitate tratte dal testo originale, che sono talmente belle, ma si arricchiscono di un’esperienza ulteriore di vita vissuta da persone come noi».
Alessandro Gassmann: «Papà mi ha insegnato cos’è la stanchezza. Quando parlava di sé stesso mi vergognavo di lui». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 21 agosto 2021.
Sarà a Venezia con « Il silenzio grande» , di cui è regista, una storia sul non detto che riguarda ogni famiglia, «anche la mia». «Rispetto a Vittorio, con mio figlio sono molto presente: Leo ha potuto avere più sicurezze, io ero un pacco che viaggiava da un padre a una madre».
Vittorio Gassman e il figlio Alessandro al Festival d’Annecy nel 1986. Il “Mattatore”, soprannome dovuto all’omonimo spettacolo televisivo che Vittorio Gassman condusse nel 1959, è morto a Roma nel 2000, a 77 anni
Alessandro Gassmann è un attore molto popolare, figlio di un gigante del teatro e del cinema. Alessandro ha fatto aggiungere una “n” nel cognome, non per distinguersi da suo padre, Vittorio Gassman, a cui era molto legato, ma per recuperare le radici familiari: suo nonno era l’ingegnere tedesco Henrich Gassmann. Padri e figli: come il tema del nuovo film di Alessandro, Il silenzio grande, con Massimiliano Gallo e Margherita Buy, che l’8 settembre porta come regista alle Giornate degli autori, sezione autonoma della Mostra di Venezia.
Di cosa si tratta?
«Di una fortuna dilapidata, di uno scrittore che vive chiuso in casa in una bolla, tra i suoi libri che (come dice Maurizio De Giovanni autore del testo e della piéce teatrale da cui è tratto) sono l’arredamento della mente, i mobili che contengono i sentimenti, i cassetti delle emozioni. La vita dei suoi cari gli scorre accanto senza scalfirlo. I figli si sono alleati con la madre, contro di lui, per vendere la villa sontuosa avuta in eredità che non possono più permettersi».
Il cast de Il silenzio grande, regia di Alessandro Gassmann. Da sinistra, Massimiliano Gallo, Marina Confalone e Margherita Buy con i piccoli Antonia Fotaras e Emanuele Linfatti
Sembra Cechov.
«Me l’ha già detto un amico e la cosa mi inorgoglisce, perché il mio primo lavoro da attore fu La domanda di matrimonio di Cechov. Il film nasce dal successo avuto con l’omonima piéce che ho portato a teatro. I temi sono importanti: i silenzi piccoli e grandi nelle famiglie, il non detto, che poi riguarda sia la storia di Maurizio De Giovanni che la mia».
Cioè?
«Tutte le visioni del protagonista sono mie, il lato onirico, la possibilità di uscire dalla realtà, il velo di distacco. È il film che mi somiglia di più».
Lo scrittore è un padre ingombrante, come forse è stato Vittorio per lei. «Ingombrante in modo piacevole, anche non volendo, ma per la qualità del suo talento. Volevamo una storia di rapporti umani con del mistero familiare dentro, in una famiglia colta, elegante, che vive fuori dalla realtà, dove lo sfondo di Napoli, in quella villa bellissima ma scricchiolante, c’è e non c’è».
Il protagonista ama l’odore della carta vecchia (che dà l’idea di una separatezza dalla realtà), lei invece è molto digital.
«In realtà non è così, ho scoperto Twitter sette anni fa e lo uso per le regole basiche del vivere comune. Per tutto il resto sono un amanuense, scrivo a penna, ho il fax, chiamo al telefono le persone e non lascio messaggi ma richiamo più tardi. Sono molto vecchio per i miei 56 anni!».
Un selfie di Alessandro Gassmann, 56 anni, con il figlio Leo, cantante, 22
Lei, che padre è?
«Sono come dovrebbe essere un politico con i suoi elettori. Non dico quello che un figlio vuol sentirsi dire e che piace per conquistare, ma quello che serve ed è utile. Ma Leo è un figlio fantastico e non perché abbia vinto Sanremo Giovani, farà 23 anni a novembre, studia all’università americana a Roma Affari Internazionali e Psicologia, poi, come avviene in America, si fa una crasi tra le due discipline».
Rispetto a Vittorio…
«Sono molto presente. Intanto con Sabrina sto bene insieme e Leo ha potuto avere molte più sicurezze, mentre io ero un pacco che viaggiava da un padre a una madre. Papà era più spaventoso di me, quando si arrabbiava era terrorizzante, gli bastava lo sguardo silente. Io poi avevo risultati scolastici disastrosi… Con mio figlio sono stato severo in modo metodico nel proibire il cellulare fino ai suoi 15 anni e il motorino fino a 16».
Non basta lavorare, dice nel film Margherita Buy a Massimiliano Gallo, devi fare il padre, seguire i figli. Eppure lui, lo scrittore, avrebbe potuto insegnare il piacere della lettura, il rispetto delle parole…
«Io ho dato a Leo gli strumenti per ampliare il suo vocabolario, per capire quanto sia unica e bella la nostra lingua italiana. Le composizioni che scrive per sé stesso, lontano dal pop che l’ha reso celebre, sono molto belle e di spessore. Lì si apre e tira fuori più coraggio, sono riflessioni sulla sua generazione, parla del cambiamento climatico…Dovrebbe farle conoscere quelle canzoni».
Leo da piccolo l’ha mai vista come un supereroe?
«L’ho pensato io di mio padre, ci sono stati anni in cui ho creduto che fosse lui Brancaleone. Ha fatto ruoli rimasti nella storia del cinema mondiale, la mia carriera è più modesta».
Qual è stato il suo momento più importante come figlio?
«Direi quando papà mi fece fare il macchinista teatrale per due anni, inculcandomi il concetto di stanchezza fisica. Ho smesso di essere figlio il giorno in cui, in tournée, stette male».
Da ragazzo accompagnava Vittorio ai Festival di cinema?
«Sì, la prima volta a 17 anni per Di padre in figlio, il film che cominciò quando ne avevo 8 e lo concluse nove anni più tardi. È un racconto tra me e lui. Amava parlare di sé stesso in pubblico, io lo detestavo, ne avevo vergogna. Mi mise nelle mani di Enrico Lucherini, il press agent, che aveva un esercito di venti sarte e mi riconsegnò a papà che ero un’altra persona. Quel giorno capii che non volevo fare l’attore. Ero timidissimo».
Poi lo è diventato: una nemesi?
«Assolutamente sì, per mio padre fu lo stesso, fu sua madre a insistere perché diventasse attore. Io non volevo al punto che dopo Venezia mi iscrissi ad Agraria a Perugia. Mio padre mi volle a teatro al suo fianco per la seconda edizione di Affabulazione, ed è cominciato tutto».
Alla Mostra di Venezia invece è andato spesso con i suoi film?
«Ho avuto il premio Pasinetti per Non odiare. Poi ho portato un documentario e ora questo film. Se mi piacciono i Festival? Non sono un grande appassionato, spero siano occasioni per ricompattare le persone, ai Festival sento un po’ di falsità e di puzza sotto al naso, che io non ho mai avuto ed è uno dei mali primari del cinema italiano».
Tornano i Festival ma la gente continua a disertare le sale.
«Ormai vince la pigrizia, durante il Covid ci siamo sempre più abituati a vedere i film con i nostri televisori giganteschi. Temo che le sale resteranno parecchio in sofferenza».
Premiare, com’è avvenuto a Cannes, un film su una donna che resta incinta di una Cadillac, non rischia di allontanare ancora di più gli spettatori?
«Potrebbe essere l’ultima spallata. Anche a me piacciono i film strani, ma ad entrare nella Storia sono quelli dove si parla e si capisce qualche cosa, sono universalmente comprensibili e non creano distanza. Il mio film può ricordare un classico della letteratura, a Venezia proporrò il film di una volta».
Lei si porta a casa i personaggi?
«No. Ho appena finito un film, Il pataffio dal romanzo di Luigi Malerba, su una buffa vicenda ambientata in un Medioevo grottesco, dove impersono un frate con la tonsura a forma di disco in testa. Il dramma è stato di mia moglie quando mi ha visto con i capelli rasati a quel modo».
Alessandro Gassmann: «Papà Vittorio mi fece fare il barista per punizione. Mia madre? A 86 anni è in Messico e ci parliamo per mail». Valerio Cappelli Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2022.
Alessandro Gassmann ama zappare e seminare, è appassionato di macchine agricole e ci racconta che, quando va nella sua casa in Maremma, guida i trattori, «quelli non grandi, ma non è così difficile».
Possiamo definirla un attore strappato alla terra?
« Possiamo dire che fare l’attore mi ha sradicato dalla terra. Mi ero iscritto ad Agraria all’università di Perugia e, per dirla con un eufemismo, non sono mai stato uno studente modello. Dopo essere stato rimandato in latino e greco, per punizione mio padre mi mandò a fare il barista. All’università ricordo che mi guardava con l’aria di dire, studia Agraria perché non ha voglia di fare nulla. E mi fece debuttare come attore accanto a lui in Affabulazione. È andata così».
Ora ha scritto un libro, strano e piacevole, a metà tra autobiografia e questioni ambientali e climatiche, in cui racconta che lei, figlio dell’immenso Vittorio Gassman, rischiava...
«Ho rischiato, da ragazzo, di essere tutto lampade abbronzanti e superficialità. Ho avuto in tempi lontani la possibilità di lavorare per Luca Ronconi, spettacoli di oltre sei ore in cui avevo il tempo di lasciare il teatro, andare nei locali a fare il dj (guadagnando parecchi soldi) e di tornare in camerino, pronto per l’ultimo atto».
Alessandro, quando ha scoperto di avere il pollice verde?
«Io non ho il pollice verde. Ho una fascinazione e un innamoramento totale per la natura. Vedo continuamente documentari, studio le forme animali. Da giovane mi arrampicavo sugli alberi, come Cosimo ne Il barone rampante di Italo Calvino. Al primo momento libero scappo in campagna, dove ho imparato i segreti per avvicinare gli animali selvatici. È semplice, devi restare fermo, immobile (come fanno i cacciatori, purtroppo). Devi fingere di non esserci. Un giorno, durante il primo lockdown, quello duro, nel silenzio totale, nell’assenza del rumore di automobili, mi trovai sopra vento, dunque non emettevo odori. E sono stato a pochi metri da volpi, fagiani, lepri, cerbiatti. Una meraviglia».
Il libro (edito da Piemme) si intitola . L’ha dedicato a sua madre, l’attrice Juliette Mayniel. «È lei che mi ha fatto crescere nel rispetto della natura. È figlia di contadini francesi, che non ho fatto in tempo a conoscere. La casa in campagna dei suoi nonni divenne il quartier generale degli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale. Mia madre è nata in un isolato villaggio rurale. Lei sa mungere, cosa che io non riesco a fare, mi fa impressione».
La storia dei suoi genitori durò poco.
«Due anni e qualcosa. Non ho mai occasione di parlare di mia madre, mi chiedono sempre di mio padre. Era di una bellezza fuori dal comune, uno dei volti della Nouvelle Vague, aveva vinto l’Orso d’oro alla Berlinale. Attrice cult ancora oggi, quando metto una sua foto sui social, spopola. Papà, beh lui era Super Gassman, all’apice della sua carriera. Erano gli Anni 60, periodo in cui non era facile stargli vicino, soprattutto con una donna evoluta, moderna, femminista come mia madre. Lui aveva divorziato da Shelley Winters, era un battitore libero. Fu lei a lasciarlo, con una espressione irriferibile che in romanesco verrebbe benissimo. Come ci rimase papà? È un argomento di cui non si è parlato molto. In seguito ebbero un rapporto amichevole».
Perché Juliette smise presto di recitare?
«Perché, un po’ svogliatamente, fece film non meravigliosi in Italia, l’ultimo progetto importante fu l’ Odissea in tv dove lei interpretava la Maga Circe. Vedeva tanti film ma non amava il cinema, l’ambiente intendo, che in Italia era molto maschile, goliardico. Le passò la voglia».
Sua madre dove vive?
«Da una ventina d’anni in un luogo ameno del Messico, col patio al centro, il giardino. Gioca a bridge con le amiche, è pittrice, è stata brava a rimettere a posto ruderi rivendendoli a peso d’oro. È diventata la sua pensione. Ha 86 anni, ci sentiamo quasi quotidianamente via email in un lungo palleggiamento tra l’italiano e il francese. Al telefono meno, non ha abbastanza udito e si innervosisce se non sente bene. Da piccolo mi chiamava il ragazzino selvaggio, un omaggio al film di Truffaut, ma anche perché diceva che somigliavo fisicamente al giovane protagonista».
Ha saputo che le ha dedicato il libro?
«Sì, ma non è una donna che fa molti complimenti. È colta, raffinata. Si è divertita nella vita. Il cinema è il passato, non credo di sia mai rivista in un suo film. Ecco, se devo confessarlo in questo siamo identici».
Davvero? «Non mi rivedo mai, la sola idea mi infastidisce, mi sento in imbarazzo, soprattutto nei film per la tv vedo gli errori, le imprecisioni, non mi sento credibile. E poi ho altro per la testa. Voglio fare solo regie, se ne avrò la forza mi piacerebbe girare documentari e occuparmi di natura».
Ma nell’ultima serie tv, , ha fatto saltare il banco degli ascolti...
«Faccio un mestiere che ha a che fare con l’egocentrismo, se reciti in un film e la gente ti fa i complimenti è piacevole. Mettiamola così, ho intenzione di privilegiare la regia».
Senta, ma chi sono gli eroi verdi del libro?
«In rete i social possono essere anche utili e non solo un luogo di nefandezze. Navigando sul web ho scoperto questi eroi, sto cercando di spendere la mia popolarità per le loro cause. Alla fine del libro c’è un QR code che apre una mappa dell’Italia, regione per regione, si individuano questi eroi nelle vicinanze, per migliorare il nostro impatto sul pianeta. Centinaia di aziende si riconvertono in attività eco sostenibili che creano lavoro e ricchezza. Conosco persone che forniscono seta agli stilisti ricavandola dall’interno bianco della buccia delle arance. Ho conosciuto Annalisa Corrado, ingegnera e socia del Kyoto Club di Roma che studia modi per rallentare il riscaldamento del pianeta. Con il loro aiuto, il ricavato del libro verrà devoluto per piantare alberi da frutta in terreni sequestrati alla mafia».
Esiste anche l’eco fanatismo, i talebani della bio diversità?
«In Italia è completamente sbagliata la comunicazione su queste tematiche. Sono sempre appannaggio della sinistra, e per fortuna se ne è occupata, ma spesso col ditino puntato che ha finito con l’allontanare ancora di più la gente. Io questo libro voglio mandarlo a Giorgia Meloni, con cui non condivido nulla, ma vorrei che la destra sviluppasse una sensibilità in questo campo. Il nostro futuro non può essere tema politico».
Questi temi si dovrebbero comunicare col sorriso e meno cipiglio. «Se penso a Gianmarco Tognazzi... Siamo cresciuti insieme. È terrorizzato dagli animali, da ogni tipo di insetto. Su un set fu inseguito dalle scimmie».
Cosa pensa di Greta Thunberg?
«Attaccarla (anche volgarmente) è facile, la giovane età, la sindrome di cui è affetta... Non sarà lei a risolvere i problemi del pianeta ma è importante che esista, si sta spendendo molto, è una icona. E ha genitori che la proteggono».
Lei come si adopera sul green?
«Ho girato un documentario sugli artisti siriani rifugiati in Giordania e Libano per l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite; ora ho una missione in Uganda per raccontare il muro di alberi che i rifugiati stanno edificando per fermare la desertificazione dell’Africa subsahariana».
È vero che con Sabrina si è sposò in un agriturismo? «Vero. C’era un Quartetto d’archi. In totale eravamo in diciotto».
L’ultima volta che ha mangiato carne?
«Eh... Dai scherzo, la mangio una volta alla settimana».
Tempo fa ci ha detto che , scrive canzoni ambientaliste che... «Che dovrebbe avere il coraggio di pubblicare. Si è appena laureato all’università americana a Roma, Art & Communication. Ma sta per cominciare il Festival di Sanremo? Quando mio figlio non partecipa non lo vedo. Guardo anche poco la tv».
Sa che per la prima volta ci stavamo dimenticando di un uomo monumentale e fragile? «Vittorio! Non sia mai. Nel libro racconto di essere stato il figlio privilegiato, mi ha avuto all’età giusta. Con mia sorella Paola era troppo presto, con mio fratello Jacopo troppo tardi, Vittoria era lontana, in America. Tra noi fratelli e sorelle, nati da madri diverse, ci sono decenni di differenza. Avevo un rapporto fisico con mio padre, facevamo la lotta, giocavamo a tennis, le gare di nuoto».
Diletta, l' ultima moglie di suo padre...
«La più importante, se non altro per la durata. È una donna vissuta sempre all’ombra di quel gigante e ha accettato meno di tutti noi altri il fatto che non ci fosse più. I miei fratelli? C’è affetto e stima per Paola e ancora di più per Vittoria, Jacopo è colto, studioso, bravo regista, persona complessa; Emanuele il figlio di Diletta è quello che conosco meglio, dai 14 ai 18 anni abbiamo condiviso la stanza».
Qual era il difetto di suo padre? «Non sapeva guidare».
Ma se ha fatto !
«Comprava auto sportive e correva come un matto. Inchiodava di colpo, prendeva male le curve. Al volante, credetemi, era un disastro».
E una qualità?
«Eccellente pagatore di tasse. Forse era la sua metà tedesca, da parte di suo padre. Ricordo il cruccio dei David di Donatello che erano rivestiti d’oro e non sapeva come denunciarli al fisco».
Jacopo ci ha detto che con i suoi amichetti delle elementari Vittorio organizzava le Olimpiadi culturali. Sorride. «Erano quiz per bambini di sei anni con domande surreali: che cos’è una scolopendra? Dove abita Cossiga? Quanto pesa il pugile Tyson? Alcuni arrivavano preparatissimi e si divertivano, la maggioranza non tornava più. Si vincevano libri, i bambini tornavano a casa con la Recherche di Proust sotto il braccio».
· 20 anni dalla morte di Layne Staley.
Barbara Costa per Dagospia il 5 aprile 2022.
Esistono eroinomani felici? Qualcuno di voi ne conosce uno? Se sì, me lo presenti. Ecco il braccio.
Sicuro, voglio proprio provare, sentire, sapere com’è, come si sta, se è vero, che la prima botta è magnifica, e che a riprovarla uguale è impossibile. Buco dopo buco.
È una immagine che fa ribrezzo, vero? Sai che c’è, siamo assuefatti, indeboliti, da una narrazione social – e pure tanto mediatica – che fa asettica ogni cosa, ogni storia, e ne falsifica ogni lordura, realtà, dolore. E pensare che c’è stato un tempo in cui il dolore come sul serio è, bastardo, intollerabile, scalava le classifiche mondiali.
Già. C’è stato un tempo… Attenzione: se sei fan dei talentsfornacantantisocialcorrettiepiagnoni, torna a loro, e lascia stare. Qui si parla di star male. Senza tregua. Né vie di uscita. Ciò che in era social è improponibile. Un tempo, invece, il vuoto, il baratro, e il male… erano rock. Metal. Erano grunge.
Se stai ancora qui ti parlo di Layne Staley, morto il 5 aprile di 20 anni fa. Nessuno parla più di lui. Non l’hanno dimenticato. Non tutti, almeno.
È che è tanto difficile parlare di Layne. Perché bisogna dire di un gruppo, gli Alice In Chains, che con tre album ha fatto un gran pezzo di storia, ha venduto a straf*ttere, è salito in cima al mondo, e ne è sceso mandando tutti affanc*lo.
Bisogna parlare di Layne e di Jerry, due fratelli scelti, Jerry ragazzo solo, per strada, e Layne che gli dà un tetto e cibo e vestiti. Di Jerry e Layne che diventano delle star quando per diventare tali dovevi farti una roba che ora non usa più: la gavetta, quella vera, quella dura.
Non la consiglio. Ma se la fai e poi ce la fai e diventi star internazionale e da concerti sold-out… puoi tutto, hai tutto, hai successo, soldi, follie, sesso, con donne bellissime, che ti adorano, innumerevoli offerte di f*ga gratis… da ogni angolo giri e guardi.
E hai le droghe. Tante droghe. Hai l’eroina. È per lei che Layne molla tutto. All’apice, dopo il terzo disco, stravenduto, stralodato, Layne dice no, scende dal carro, niente tour, interviste, niente. Solo ero. E qui, come scrivo sbaglio, ché solo Layne sa della sua autodistruzione. Ogni suo brano squarcia il male, ma non si pone a modello né a intento. È senza giudizio: “Abbiamo preso stati d’animo molto dolorosi e li abbiamo fatti sembrare splendidi”. E non c’è frase migliore per descrivere il suono Alice In Chains.
Dopo non so quanti rehab, ricadute, rialzate, sconfitte, Layne si chiude in casa. Non c’è un reale motivo per cui lascia gli Alice. Non litigano. È che Layne… non c’è. Scompare dal mondo. Non c’è niente che lo interessi che non sia farsi. Layne non apre più la porta a nessuno. Non vuole che ci si intrometta nella storia tra lui e la sua eroina. Fatti suoi e di nessun altro.
Sui e dai media Jerry lo difende, e dice che gli Alice In Chains sono in pausa. È la verità, ma non dice che con Layne nessuno sa che fare. Layne vive come recluso al quinto piano di un palazzo con Sadie, la sua gatta siamese, e passa ogni giorno da solo a farsi, di eroina e di crack, dormendo o a giocare ai videogames. Jerry e gli altri Alice In Chains vanno avanti, ma non lo abbandonano.
È Layne che non risponde alle loro bussate né alle loro telefonate né alle loro citofonate né ai loro clacson urlati sotto le finestre. Quella porta non la apre. Krist Novoselic dei Nirvana a volte gli porta il suo cibo preferito, suona, e se ne va. E Layne di rado esce, e perché gli serve il bancomat e per comprare il necessario a Sadie. Stop. Trascorrono anni, e al suo 30esimo compleanno Layne è quasi decrepito. Uno zombie. La pelle grigia. I denti non ci sono più.
Le mani coperte da guanti sempre, perché Layne ormai si buca lì. Arriva il 4 aprile 2002. Mike, il bassista degli Alice, riesce a farsi aprire da Layne. Lo trova febbricitante e vaneggiante. Mike sta per chiamare il 911 ma Layne grida, Mike non sa come calmarlo, è spaventato, bisticciano. Mike se ne va. Il giorno dopo, Layne si alza, accende la tv, come ogni giorno dà da mangiare a Sadie, come ogni giorno si prepara dosi e siringhe.
Come ogni giorno. Passano due settimane. Il suo contabile si accorge che Layne non preleva più soldi. Si insospettisce. Avverte la manager di Layne, che avverte la madre di Layne, che avverte la polizia. Arrivano e chiamano e sfondano quella porta chiusa e trovano la tv accesa, la gatta Sadie sfiatata a fame, e Layne morto sul divano, ago in vena. La sua segreteria telefonica colma di messaggi vocali, la sua cassetta della posta che scoppia di messaggi vergati.
Non c’è una spiegazione alla storia di Layne. Io non lo condanno. Ho in odio ogni forma di morale. Come ce l’ha Giuseppe Ciotta nel suo "In catene. I giorni di Layne Staley e gli Alice In Chains" (Officina di Hank Edizioni), fiammante libro che a Seattle, patria del grunge e di Layne, fanno bene a invidiarci. E ci sono i dischi di Layne. La sua voce che è la voce di Layne. Jerry ha scritto e suonato su e per Layne "Degradation Trip" (con quella copertina lì) e si è dato un po’ pace in "Brighten", uscito qualche mese fa (e Jerry sarà al "Firenze Rocks", il 19 giugno, headliner Metallica). Jerry ha adottato la gatta Sadie che ha vissuto con lui fino a fine 2010, quando se n’è andata alla gatto-veneranda età di 18 anni.
· 20 anni dalla morte di Alex Baroni.
Alex Baroni, 20 anni fa la morte dell'artista. Il ricordo di Giorgia: "Il tempo non cancella niente". La Repubblica il 13 Aprile 2022.
Venti anni fa moriva a Roma il cantante vittima di un incidente stradale mentre era alla guida della sua moto. A Sanremo l'omaggio di Aka7even e Arisa.
Venti anni fa moriva a Roma Alex Baroni. Il cantante era rimasto vittima di un grave incidente stradale il 19 marzo, mentre era alla guida della sua moto. E Giorgia lo ricorda con un tweet: "20 anni senza Alex, figlio fratello amico compagno, e artista irripetibile, il tempo non cancella niente". All'ultimo Festival di Sanremo Aka7even e Arisa hanno omaggiato l'artista cantando insieme Cambiare.
Il cantante era nato a Milano il 22 dicembre 1966. Aveva iniziato la sua carriera negli anni Novanta cantando nei vari locali della città, poi era diventato corista per altri (Ramazzotti, Ivana Spagna, Rossana Casale) fino a debuttare come solista nel 1997 con un album che portava il suo nome. Dopo quello ne sono seguiti altri sette compreso uno postumo, C'è di più, e diverse raccolte.
L'esordio a Sanremo
Nel 1996 è a Sanremo come corista poi, nel 1997 partecipa a Sanremo Giovani, vincendo il premio assegnato dalla giuria di qualità. Nel 1998 il ritorno a Sanremo, stavolta nel girone Big con Sei tu o lei (quello che voglio).
L'incidente e il coma
Il 19 marzo del 2002 l'artista, mentre percorreva ad alta velocità una strada romana, è rimasto vittima di un incidente con la sua moto, sbalzato dopo l'impatto con una macchina che stava facendo un'inversione di marcia vietata. Subito le sue condizioni erano sembrate gravissime ed era entrato in coma. Dopo lo schianto era stato ricoverato all'ospedale Santo Spirito, dove morì il 13 aprile, senza essersi mai ripreso.
Il ricordo di Giorgia
Giorgia, che è stata la sua compagna tra il 1997 e il 2001, lo ha ricordato tante volte pubblicamente e sui social. "In quell'angolo deserto del cuore risuona l'eco delle tue parole delle note di un tempo fermo immobile che non sente ragione e che niente vuol dimenticare, mai" scriveva la cantante in occasione dei 51 anni di Baroni, a cui ha dedicato molte canzoni tra cui Per sempre, Gocce di memoria, Marzo.
· 20 anni dalla morte di Umberto Bindi.
Massimiliano Castellani per “Avvenire” il 3 maggio 2022.
Dici Umberto Bindi, ed è sinonimo del più bistrattato, il più osteggiato e sottovalutato dei cantautori. Eppure scopri che era anche uno dei più ammirati nell'ambiente del cantar leggero, e uno dei più capaci nell'emozionare le platee, fin dai lontani anni '50.
Umberto Bindi, ligure di Bogliasco, è stato anche uno degli epigoni della famigerata Scuola Genovese, e anche in quel clan di "geni ribelli" (De Andrè, Tenco, Paoli, Lauzi e lo "straniero" Conte) era considerato l'amico fragile. Il prossimo 12 maggio, avrebbe compiuto 90 anni, e se fosse ancora qui, da vecchio ed elegante signore della canzone racconterebbe di un successo piovutogli addosso precocemente, quando nel 1959 si impose con la struggente Arrivederci.
Brano diventato un cult, dedicato a un amore maschile, per cui Bindi si sentì in dovere di fare un drammatico coming out. Un gesto azzardato fatto in un tempo in cui l'Italia non solo non capiva, ma condannava l'omosessualità. L'anno dopo, con il mentore paroliere Giorgio Calabresi pubblicava Il nostro concerto (canzone con l'intro strumentale più lungo della storia del pop italico, "70 interminabili secondi") che rimarrà al comando della hit-parade per dieci settimane.
Nel 1961 all'apice della popolarità, Bindi si presenta a Sanremo con Non mi dire chi sei, scritta per lui da Gino Paoli, ma la stampa e la pubblica ottusità non ascolta quella melodia, tipicamente bindiana, e si concentra solo sull'anello che porta al dito: e quella fu la conferma della sua diversità. Sempre nel '61 Gino Paoli scriverà per lui Il mio mondo. Bindi resiste agli attacchi frontali e rilancia con La musica è finita (1967) - scritta con Franco Califano e Nisa, per Ornella Vanoni - e Per vivere (1968) resa popolare dalla voce di Iva Zanicchi.
Ma allo scoccare dei moti del Sessantotto, nonostante la rivoluzione culturare in corso, per l'Italietta bigotta Bindi era ormai solo il "cantautore diverso". «Umberto era anomalo e diverso sempre da tutto e tutti, perciò ha un ruolo a parte, anche rispetto ai cantautori della Scuola Genovese. Lui era un musicista da conservatorio. De Andrè, Paoli, Lauzi (che per lui scrisse la splendida Io e il mare) erano cantautori folk e pop. Bindi invece aveva l'urgenza vitale di scrivere testi da musicare, era un pittore della composizione che usava lo spartito su cui dipingeva le sue note».
Parola di Ernesto Bassignano: il Bax, cantautore cuneese, classe 1946, rapito ventenne da Roma e assurto a uno dei figli prediletti (con De Gregori e Venditti) del FolkStudio. Lo scorso anno Bassignano aveva pubblicato il disco Ritratti d'autore - Bindi, un doppio album tributo con artisti vari («cooprodotto dall'amico Alberto Zeppieri») che si "ripeterà", live, il prossimo 12 maggio, data del 90° compleanno di Umberto Bindi.
«Sarà una serata- omaggio - promossa dal Comune di Roma, dal Club Tenco e dal Premio Bindi - quella all'Officina Pasolini e vedrà protagonisti gli amici vecchi e nuovi di Umberto», annuncia il Bax. Un segno di riconoscenza collettivo verso un artista che Bassignano incontrò nel '90, nella parabola finale della sua esistenza.
«Era un Bindi ormai defilato e sempre più al margine, ma ancora pieno di creatività, con cui iniziai una collaborazione decennale durata fino alla sua morte, avvenuta vent' anni fa, il 23 maggio 2002 - spiega Bassignano - . Il nostro incontro avvenne al Cinemino di Recanati, in occasione della prima edizione di Musicultura. Umberto cantava su basi rimediate, eppure ascoltarlo fu una grande emozione. Seduto in prima fila con Gino Castaldo e Vincenzo Mollica alla fine avevamo gli occhi lucidi, ci alzammo in piedi e applaudimmo Bindi fino a spellarci le mani.
Poi Umberto scese dal palco, si complimentò per il mio concerto e mi fece: "Bax ci vediamo a Roma? Perché non scrivi qualcosa per me?" Da quel momento sono stati dieci anni di collaborazione vissuti intensamente tra ten- tativi "sanremeschi" falliti, casini inenarrabili, concertini sfigati con quattro spettatori in sala, "buffi", prestiti e crediti con ogni tipo di "cravattaro". Umberto era pervaso da un masochismo infinito, un'incapacità innata di pagare tasse e bollette. Per non parlare degli appuntamenti importanti mancati... In compenso mi ha regalato un'amicizia sincera che si nutriva anche di cene genovesi a base di pesto e fagiolini».
Le notti romane infinite, in compagnia di quell'allegra brigata del Bax nell'attico di Bindi, a Monteverde, e poi nella villa presa in affitto al lago di Bracciano, in borgata Monterosi. «Le case condivise con i suoi amici a quattro zampe, due cani e tre gatti.. Umberto aveva anche un pappagallo - sorride Bassignano - .Ci accoglieva rigorosamente in vestaglia, seduto al pianoforte che non smetteva mai di suonare».
Per gli amici partiva con le sue "perle" che lo avevano reso celebre ovunque. Il mio mondo fatta conoscere da Carl Sigman, con il titolo You' re my world, in America l'hanno cantata tutti, da Tony Bennet a Dionne Warwick fino a Tom Jones. «I Beatles intervistati in Italia, parlano di Volare, Pavarotti e Bindi come le uniche cose conosciute e apprezzate della nostra musica... - sottolinea Bassignano - Tanta gente ignora che Arrivederci ancora oggi viene eseguita in tutto il mondo.
E mi affascina la storia di Marino Barreguigno to, che, con la sua voce nasale, la rese la canzone "regina" dei cabaret e i pianobar internazionali. E poi ci sono delle canzoni straordinarie, come Io e la musica, scritta da Umberto nel '78, quando ormai era in piena crisi, abbandonato dall'ipocrita canea sanremese che l'aveva messo al bando e condannato al più triste e bieco degli oblii». Si emoziona e si infervora, come sempre, il san- Bassignano che torna ai giorni del sodalizio con Bindi. «Con me Umberto cambia registro, abbandona le sue composizioni classiche da tre minuti e scatena quella libertà, incurante di strofe e ritornelli, che trovava solo quando suonava la sua musica, la quale aveva bisogno di testi poetici per essere esaltata ».
Nascono così canzoni come Imperdonabile davvero e Pianoforte che ridisegnano in parte, quella che Bassignano definisce «la nuova carta d'identità di un maestro unico al mondo, civilmente incorreggibile». Inafferrabile Bindi che con la sorella di Bassignano, Ida, accettò l'idea di un musical, basato sulla sua vita: «Doveva intitolarsi Metà angelo e metà diavolo, ma non si realizzò mai. Umberto in quello stesso periodo fu anche tra i sostenitori del progetto "Fonopoli" di Renato Zero, il quale per amicizia e stima dell'artista scrisse insieme a lui Letti che Bindi portò a Sanremo nel '96, dove gli riaprirono ipocritamente le porte». Ultimo posto (in gara assieme ai New Trolls), con effetti collaterali dirompenti, ma non certo alla Vasco Rossi. L'uscita di scena senza gloria dall'Ariston, lasciò comunque il segno. «In ogni teatro dove Bindi si esibiva era tutto un lancio di fiori.
Umberto suscitava una commozione come non ho mai visto per altri cantanti in oltre cinquant' anni di musica. E questa empatia straordinaria con il pubblico è durata fino alla fine della sua vita, che è stata tragica».
Epilogo ingrato di un "poeta maledetto" che non ambiva certo ad essere tale. Un quotidiano che, come tutti i poeti veri, era fatto di miseria, alla quale pensò di porre rimedio Maurizio Costanzo facendogli ottenere la Bacchelli. «Litigai per questo con Costanzo, il quale in cambio del vitalizio pretendeva le comparsate di Bindi al suo Show al Teatro Parioli. L'ultimo tentativo di trascinarlo in tv lo fece con Umberto ormai agonizzante in clinica, e allora mi piazzai davanti alla porta della sua camera e gli impedii di entrare».
Quando Bindi si spense per sempre, vent' anni fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, aveva appena compiuto trent' anni, ed è lui uno dei "nuovi" amici più attesi al concerto omaggio per Umberto. «Morgan, a differenza di qualche star che dice di amare alla follia Bindi, e poi defezionerà al nostro concerto, ha aderito immediatamente e con grande entusiasmo - conclude Bassignano - . Morgan prima di salire sul palco, il 12 maggio, al mattino, parteciperà a una tavola rotonda organizzata al Conservatorio Santa Cecilia. Parleremo di Umberto, ricordandolo come quel grandissimo artista che è stato ingiustamente punito dalla vita e dal suo Paese. E poi suoneremo la sua musica "misteriosa" che, per dirla alla Paolo Conte «ha occhi a mandorla e fisarmonica... e non si sa perché...e non si sa perché...»
· 20 anni dalla morte di Carmelo Bene.
Estratto dell'articolo di Alvaro Moretti per “il Messaggero” il 3 novembre 2022.
Al Processo del Lunedì Carmelo Bene si presentava pretendendo il sottopancia de Il Messaggero, con i capelli sbiancati da Amleto.
E discettava di Falcao e altre celestialità calcistiche con il presidente-costruttore dell'Ascoli di Mazzone, Costantino Rozzi (celebre per polemiche e calzini rossi).
Quell'agone va detto era frequentato nel gioco delle maschere dal fiorentino (anti-juventino) Franco Zeffirelli, da Pasquale Squitieri il napoletano. E nella diretta tu potevi avere Zico e Falcao e Liedholm, Trapattoni e Platini.
Oltre a giornalisti sportivi da Brera in giù (che sfidò in Campidoglio).
Ecco di quel tempo in cui Bene per il calcio rappresentava il meglio sono raccontati da un libro In ginocchio da te che Gog Edizioni (collana Contrasti - 205 pagine, 17 euro) grazie al contributo essenziale della figlia Salomè Bene. Vi troviamo i testi per il giornale e quelli consegnati poi, negli anni Novanta come video-editoriali alla trasmissione Zona di Telepiù (siamo negli anni della nascita delle pay-tv e prima della fusione in Sky).
Gli articoli della rubrica tenuta dal 1982 al 1985 sul Messaggero Ripensandoci Bene, appunto sono accompagnati da piccoli quadretti di contesto: Bene scriveva affastellando calcio e altri sport (la Ferrari-trattore), sommando partite viste e giudizi sommatori (più che sommari). E così la spiegazione a lato aiuta a ricomporre un po' il quadro storico. Ma in definitiva servono meno del previsto: tutto quello che descrive il grande salentino è l'extra-ordinario, tutto quello che eccede lo sport.
Parte da un assunto che riguarda gli atleti, cui sommamente guarda per le sue intemerate o salite altissime. Chi gioca, in realtà, è giocato. Il gesto è de-pensato: sgorga a prescindere dalla volontà. Eppure nella sua valutazione da Empireo assoluto, riemerge il capo-comico, il responsabile di una compagnia che deve ogni sera proporre-produrre uno spettacolo al pubblico: sceglie Paulo Roberto Falcao come eroe di quegli anni, non perché effettivamente è il trascinatore della Roma più bella, esteticamente e agonisticamente di sempre, ma perché la grazia dei suoi tocchi è igienica e organizza. E certifica la grandezza di un primattore del calcio quando da solista tocca il Sublime sapendo giocare Insieme, come un grande compositore di musica da camera che nell'ensemble tocca le cifre più alte
ESTETICA MENTE Nella sua Estetica calcistica ecco che sono valori assoluti, difesi contro il brerismo che voleva un'Italia nel calcio ossuta e sempre di contropiede, il Brasile Grande Perdente del Mundial 82, Falcao appunto, la Zona di Liddas. E Platini esaltato nel suo evidente ed elegantissimo annoiarsi talora nella Juventus di campioni ma sparagnina di Trapattoni. Luca Buoncristiano, che cura una introduzione essenziale, ricorda anche che queste deviazioni calcistiche di Carmelo Bene e quel momento così popolare ed eppure letterario siano stati essenziali anche per creare una letteratura di genere. E che derivate di questo pensiero Alto del calcio e del gesto atletico siano diventate genere ovunque. Platini era per Carmelo Bene degno del Nobel della letteratura ben più che Dario Fo.
LE SANZIONI Bene multava l'elettricista Carlini che dietro le quinte esprimeva «incautamente» un giudizio su Falcao che «in quanto artista è al di sopra di ogni giudizio». Le questioni sull'arte, per Bene, se le doveva vedere domineddio. Si ricorda quella sera in cui gli amori di Carmelo si composero: pochi mesi prima dello scudetto giallorosso, una serata al Quirino con tutta la pattuglia di Liedholm cui viene dedicata la serata per via della zona celeste (lo schema di gioco innovativo). E si dice che al termine di quel Macbeth trattato per Bene, Dodo Chierico, ala destra, chiese a Melidoni: «A dottò, me spiega che vor di'?»
Aveva a cuore Van Basten, fragile cigno di Utrecht (per l'attore un Achille pedatorio), tanto da rimproverare in camerino a Filippo Galli, unico del Milan ad accogliere il suo invito al Nazionale di Milano per Hamlet Suite, i calci alle caviglie in allenamento al compagno, poi ritiratosi anzitempo. Ma quella visione amletica fece guadagnare a Filippo Galli un Ti perdono in camerino. Tra storia, leggende e legende rileggiamo quegli anni Ottanta e Novanta sentendone la mancanza oltre che in scena, certo anche nell'elevazione libera del pensiero anti-tifoso perché estetico e oltre-anzista.
Gol offensivi e sconfitte belle. I monologhi atletici di Carmelo. Il grande attore apprezzava il lato estetico delle sfide In un libro i suoi articoli di tifoso buongustaio. Davide Brullo il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Sedicesimi di Coppa dei Campioni, settembre 1983. La Roma affronta il Göteborg: dopo lieto affanno - 3 a 0 della Roma in casa, che perde 2 a 1 in Svezia - la lupa passa il turno. Per la cronaca, è il principio di una festa avvelenata dal finale. Allo Stadio Olimpico la Roma perderà la coppa ai rigori, contro il Liverpool: errori fatali di Bruno Conti e di Francesco Graziani. Restiamo ai sedicesimi. Carmelo Bene, sul Messaggero, scrive un articolo, «I tabelloni non segnano tutto», che spiega la sua visione del calcio. «Depositare un pallone inerte in una porta sguarnita equivale il più delle volte a defraudare il vero artefice che magari un attimo prima ha spiazzato una difesa intera. A quel punto il tabellone s'illumina d'incompetenza e il tripudio sugli spalti si colora di cattivo gusto». Cos'era accaduto? Che «Paolo Roberto il Grande» - per noi comuni collezionisti di figurine, Paulo Roberto Falcão - aveva arpionato la palla in modo «ineguagliabile» e «dopo fulminea torsione l'aveva stampata, cancellando il portiere, sul palo stregato». Passava di lì «il ragazzo Vincenzi» - alias Francesco Vincenzi, attaccante in potenza dall'alterna carriera - che butta in rete. Beh, Bene s'incazza: il gol è tutto di Falcão, benché il tabellone si ostini ad affibbiarlo a Vincenzi. Eccolo, il cattivo gusto, l'ingeneroso vilipendio del genio, la bieca protervia della scienza e della tecnica, lo sport ridotto a calcolo, a statistica, a norma enciclopedica per chiosatori inerti.
Quattordici anni dopo - settembre 1997 - Bene specifica il pensiero esaminando la distanza, abissale, tra atto e azione. L'azione «è una congiura, una trama ordita», il trionfo del collettivo sul regno dell'individuo; l'atto è il gesto estemporaneo del giocatore giocato dal proprio gioco, in stato d'estasi, bellezza suprema del corpo che richiede, a scandirla, l'endecasillabo, il ditirambo e l'ode, Pindaro e l'ululato iliadico. Per farsi capire, Bene snocciolò due esempi che ora paiono desunti da ere geologiche fa: i gol di Álvaro Recoba - demonietto sorridente dell'Inter - con la maglia dell'Uruguay, e una sortita involontaria - dunque: divina - di Clarence Seedorf, quando difendeva i blasoni del Real Madrid.
Si sa, Carmelo Bene s'inguainava di paradossi, caracollava nel caramello del talento: per lui, per dire, «Edberg... era il tennis in persona, poco importava che vincesse o perdesse, era un piacere, davvero divino, poter assistere a un match di Edberg». Ora: a ragion di statistica, Edberg, svedese di scaltrita eleganza, è letteralmente stritolato dal poderoso Pete Sampras (per intenderci: siamo 7 Wimbledon a 2 per Pete), ma tutto ciò, al cospetto della bellezza, che è sempre altra dal risultato, plebeo, è iniquo. Carmelo Bene amava quelli come lui, i primattori, la purezza cristallina dell'eletto, destinato a finire in croce, a essere frainteso: da qui la glorificazione di Marco van Basten, l'ammirazione per Falcão - «La grandezza è nell'essenzialità» -, il tributo al «bel francese», Michel Platini. L'assalto dei calciatori recordman - Lionel Messi, Cristiano Ronaldo etc. - che replicano l'atto eccezionale fino a ridurlo ad azione corrente, quotidiana, avrebbe annoiato Bene, supporter del gesto irripetibile e fine a se stesso, sferico, appunto, neoplatonico. Preferiva, semmai, «quello straordinario fenomeno che corrisponde al nome di Ryan Giggs».
Di suo, da ragazzo, Carmelo Bene - come Vladimir Nabokov, per altro - giocava in porta. I «piedi difformi» erano, pare, letali, «capaci di tiri dalle traiettorie irrimediabili», scrive Luca Buoncristiano nell'introduzione, partecipe e bella, a In ginocchio da te (Gog Edizioni, pagg. 210, euro 17), libro che raccoglie gli articoli di Bene, estremista della pedata, scritti per Il Messaggero tra il 1983 e il 1985 - la rubrica s'intitolava «Ripensandoci Bene» - e gli interventi alla trasmissione Zona, nel 1997, in onda su Telepiù. Carmelo tifava in modo sguaiato, filosofico, ovviamente teatrale: la prima del Macbeth al Quirino, nel 1983, la dedicò «a Nils Liedholm e alla magnifica squadra della Roma». Il 29 aprile di quell'anno si scagliò, scoglionato, contro Gianni Brera, «teorico dell'attentato a uomo», «fabbro pioniere in neologismi... altresì responsabile dell'ignominia linguistica-orale che ha ormai trasformato le nostre radio-tele-cronache nei più astrusi concili tridentini».
Chi lo ha conosciuto, sa che Bene era un estasiato esteta dello sport: guardava di tutto. Così, per dire, bacchetta Pietro Mennea perché nella sua corsa «si legge sin troppo affanno, sacrificio e spasimo. Tutto il penoso retroscena che la sostiene. E questo non è decente. Chi è grande si veste di leggerezza». Commenta le gare di automobilismo - preferiva Niki Lauda -, stende una Fenomenologia di Sergej Bubka, s'inchina agli augustei cazzotti di Evander Holyfield, «indiscutibile campione mondiale dei pesi massimi». Aveva capito, Bene, che lo stadio, immane vulva, è sublimazione del sesso, teatro dell'eros assoluto, l'ultimo, effimero istante, in un'esistenza altrimenti normata, normale e per lo più inutile, in cui il divino, spermatico, insorge, guerreggia, spira. Al cronista, l'obbligo di intuirlo, di intenderlo: Apollo cinge con il lauro un unico eroe, gli altri siano, almeno, degni gregari.
Già nel 1997, ad ogni modo, Carmelo Bene non ne poteva più. Il calcio «demenziale nelle cifre, ma omologato», supino allo «strapotere dei procuratori», smise di piacergli. «Sono un cultore della qualità, dell'eccezione de-genere, dell'eccesso. Sono e rimango un anti-nazionalista. E la stessa tanto invocata Europa è ancora meno di una espressione geografica». L'idea del calcio come fenomeno popolare, concetto-confetto di cui si beano gli intellettuali per intingere la lingua nella latrina del volgo, gli faceva schifo. Parlava e scriveva di sport, Carmelo, perché «c'è bisogno di eccessi, di eccedere proprio nell'etimo». Ormai, è l'eccesso opposto, la noia ad ogni match: la «spettacolarizzazione» dello sport, disciplinato come uno show qualunque, segnala che lo spettacolo è finito, da tempo. Il recordman è l'opposto dell'aristocratico olimpico, lo sport non è più arte ma mestiere, meglio se redditizio. Tutto si può calcolare e misurare, e poiché lo smisurato tramonta Dio non si scalda più, correndo, a bordo campo.
Estratto del libro “In ginocchio da te” di Carmelo Bene pubblicato dal “Fatto quotidiano” il 20 ottobre 2022.
A Dio Borg - Devo aver letto da qualche parte di Borg, non più "tennista". E mi dico, come può Borg non essere più ciò che non è mai stato? Come può il tennis in persona essere scambiato per un volgare tennista? È forse il caso di una ubriacatura collettiva sdrucciolata sull'asse metonimico? Si renda dunque il giusto omaggio all'atleta in cui, grazie a Dio, la racchetta, non fu mai vil oggetto separato, ma protesi di quello splendido pensiero chiamato appunto Björn Borg, a suo modo costituente una lezione vivente di teologia.
Trasuda in chi è avvezzo al tristo quotidiano desinare, certa malcelata consolazione, certa indecente allegrezza. Per un Borg finalmente ridimensionato all'"umano". Borg pari a noi?
Non si illudano. Si resta comunque dispari. Borg al suo ritiro è finalmente restituito al "celeste". A Dio Borg! A tutti gli altri: non resta che vincere e perdere da quei giocatori di briscola che sono.
"Tutto è dentro. Ciò separa".
(Hölderlin) - Di lui nulla hanno mai capito i culi infranti, spettatori e addetti del tennis cicisbeo, in solluchero al cospetto del "fantasista" che ammicca colpi da platea, estri accattoni. Borg sa e insegna che la fantasia è menomazione. I suoi colpi sono pura necessità. Non conoscono altra possibilità.
Dettano legge. Obbediscono a una legge. Sono sovrani. In Borg c'è tutto lo smontaggio del teatrino fantasista, del frollo soubrettismo alla McEnroe.
Più di McEnroe allora sarebbe stato grande Adriano Panatta, rovinato appunto da troppo italico estro, Borg è già tutto abissale concentrazione del senno di prima. Quel che segue in campo, match, mutande, avversario è solo una formalità.
Borg è il gigante, che vince e perde le sue battaglie ancor prima di entrare in campo. A presentarsi in campo è ciò che è già stato. E che dentro sorride della fregola competitiva dell'altro e di tutto il chiassoso immaginario che alberga in campo e in tribuna. La creatività è la dote dei sommi cretini.
McEnroe è un moccioso egotico. Borg al di là.
"In fiamme di dentro. Trapassa". (Hölderlin) - Sbuca poi fuor dell'osso petroso di alcuni addetti o sportivi ineducati un infame concetto, a sproposito di Borg: "Grande preparazione atletica, ma nullo spettacolo". Come se potesse bastare eccitare il muscolo! Come se Borg non fosse il grandioso spettacolo della sua concentrazione! Ricordo la semifinale Borg-Connors di due anni fa a Wimbledon, in cui Connors esibì il suo più grande Connors. Ma non bastò.
Lo spettacolo forse più grande in assoluto che mi sia mai toccato di vedere. Quasi quattr' ore di colpi incrociati a velocità paurosa, smash sotto rete, a fondo campo, a toccare l'intersezione delle righe. Servizi da sfondamento seguiti da risposte vincenti a doppia velocità. Già malandato al ginocchio, Borg in quell'occasione distrusse Connors e si distrusse.
Altri di più corposa immaginazione scadono nella mala interpretazione dell'"uomo di ghiaccio". Dice Céline: "È restare insieme che è difficile". Borg è un maestoso esempio di fortezza edificata sul nulla. Un caso di schizofrenia, hölderliniana. Quando si è già tutto da qualche altra parte, basta apparire per vincere. Borg vince al suo primo apparire. Gòngora è con me. Così, se non ricordo male: "Dove l'amor versando su Galatea petali di rose rosse da coppe di gigli bianchi quale sarà il suo colore o porpora di neve o neve rossa". È facile per chi poeta non è trasformare questa "neve" in "ghiaccio". Per chi non ha "intelletto d'amore". E non c'è critica senza amore.
Borg e il Brasile - A chi si meraviglia: onesto che si possa nello stesso tempo amare Borg e il Brasile rispondo che c'è nulla da meravigliarsi, purché non si voglia ridurre il gioco brasiliano al fantasismo da circo, d'avanspettacolo. Come Borg è il tennis; come Lauda è l'automobilismo e Leonard il pugilato, così il Brasile è il calcio. "The rest is silence".
28 gennaio 1983.
Giancarlo Dotto - "In ginocchio da te", Gog Editore, raccolta inedita degli scritti pubblicati sul Messaggero e altrove di Carmelo Bene e dei suoi miti sportivi pubblicato da Dagospia il 19 ottobre 2022.
In ginocchio da te, a cura di Luca Buoncristiano (Ed. Gog, collana Contrasti) è l’imperdibile, inedita testimonianza del Carmelo forse meno appreso dalle masse. Lui, un autentico mito vivente, assediato come una rockstar dalla devozione della gente, che si confessa in pubblico e più che mai in privato come un morboso, inguaribile mitomane. Soprattutto sportivi gli idoli della sua eterna infanzia per cui avvampava d’amore. Delle vere e proprie cotte estetiche, benedette dalla sua ben nota propensione al delirio.
Ero lì con lui quel giorno, a casa sua, in via Aventina. L’ho visto con i miei occhi cadere in ginocchio ai piedi di Michel Platinì, davanti a una sua punizione irreale (una qualunque amichevole Italia Francia di secoli fa). Ed io, genuflesso accanto a lui. Entrambi folgorati. Come due pellegrini beati e storpi ai piedi della Vergine Nera. Una traiettoria impossibile. La sua, di Platinì, sul campo e la nostra sul pavimento di casa. Il genio che chiama la devozione. Il genio (replica anni dopo da Diego Armando Maradona) che, solo lui, poteva tradurre quella cosa morta in un fatto così eclatante.
La palla, ferma, che s’impenna e scende a foglia più morta che mai in fondo al sacco, al cospetto di compagni, avversari e tifosi attoniti. Non esultò più di tanto Michel Platini. Io mi ritrovai genuflesso a due metri dal Sony 50 pollici. Mi volto. Alla mia destra, riconoscibile, Carmelo Bene, il mio mito, dentro una tuta fucsia, genuflesso anche lui. Genuflessi all’unisono, come marionette spezzate e certamente agite. Un’orgia transitiva di miti e di mitomani. Il mio mito che s’inginocchiava al suo mito che, a sua volta, il francese, se ne fregava di essere un mito.
Sempre stato un mitomane Carmelo, da quando bambino alzava le sottane della Maria Vergine, trovando e toccando con mano, scioccato, solo tralicci di legno. I suoi miti erano soprattutto sportivi. Ne sfornava a bizzeffe. Incontinente, come in tutte le sue cose. Maestà del calcio, della boxe, del tennis, ma anche del basket, non disdegnando qua e là di delirare per il salto con l’asta e lo sci di fondo, se transitava nella sua mente febbrile il soggetto che si prestava alle sue potenti trasfigurazioni, il Bubka di turno, lo zar volante che saltava sei metri, “gigante in un mondo di storpi”, o Bjorn Daehlie, il norvegese furioso dello sci di fondo che sveniva all’arrivo e vinceva lo stesso per una manciata di secondi.
Stenmark era il Batman delle nevi. Edberg era un gigante alto due metri. Carmelo aveva un debole per i superuomini del decathlon, Daley Thompson il suo eroe perfetto, storie perfette per il suo pantheon. Detestava il pattinaggio artistico e non fece in tempo a detestare il nuoto sincronizzato. L’appuntamento mancato? Roger Federer. Sarebbe andato fuori di testa, Carmelo, per il suo tennis mai imbrattato dal sudore in assenza di gravità. Solo Roger Federer lo avrebbe distolto dal lutto per la perdita precoce di Marco Van Basten, il suo Achille dalle caviglie simili a petali.
Mi aspettava, il pomeriggio o la sera, Carmelo, con la sua tuta azzurro turchino e gli zoccoli neri, nella casa di via Aventina a Roma, il suo bunker inaccessibile, oscurato anche di giorno, impregnato dell’odore aspro e allo stesso tempo dolce delle sue Gitanes senza filtro. Il suo odore. Mi aspettava con i suoi occhi da saraceno e le sue enormi scodelle di caffè nero dove bagnava tozzi di pane duro. Non vedeva l’ora di spartire con qualcuno i suoi stupori, la sua felicità bambina. Quel qualcuno ero io. Un altro strafatto mitomane. C’era, probabilmente tra noi, un patto segreto. Mai formulato e per questo più prezioso. Approfittare l’uno dell’altro, le comuni passioni e perversioni, per concedersi fantastiche ricreazioni dove liberare l’intelletto nel lusso sfrenato del gioco. Era questo patto non detto di complicità che ci legava, questo mi manca, insieme alle gioiose digressioni sulle attitudini del Barone Von Masoch, le patologie da manuale e il vertiginoso depensamento della donna.
Mi aspettava ansioso di mimarmi le gesta dei suoi eroi, i miti sportivi che la notte prima erano sfilati nel suo Mitsubishi 42 pollici e poi nel suo Sony 50, ingigantiti e declamati nella sua testa di mitomane. Dentro la sua tuta turchina, il colore della fata, le movenze di un Pinocchio rimasto legno come le Madonne della sua infanzia, mi replicava l’ultima rovesciata di Marco Van Basten, la volée di Stefan Edberg, le schivate di Ray Sugar Leonard, il montante destro di Thomas Hearns. Non potendo essere il mito di se stesso, puntava la sua golosissima torcia sulle dismisure delle imprese altrui.
In ginocchio da te è tra l’altro la raccolta fedele e preziosa di uno scandalo mai raccontato prima. Curato con dedizione certosina e maniacale da Luca Buoncristiano, beniano della prima ora e detentore del più grande archivio cartaceo e non solo di Carmelo, con la collaborazione di Salomè, la figlia di Bene e dei giovani editori di Gog, appassionati e quanto mai inattuali rabdomanti del lusso più segreto o dimenticato che transita nella scrittura. Lo scandalo.
“Ripensandoci Bene”, la rubrica settimana che uscì per qualche tempo nelle pagine sportive del “Messaggero” allora dirette dall’illuminato Gianni Melidoni, cantore della “zona celeste” applicata al pallone. Una rubrica che più aristocratica non si può nel quotidiano che più popolare non si poteva. Impensabile oggi, a ripensarci bene. Proposi l’assurda idea a Melidoni convinto che Carmelo sarebbe stato felice di dare sfogo alla sua turbolenza mitopoietica. Così fu.
Iniziammo il 26 ottobre 1982. Carmelo mi telefonava a notte fonda e mi rovesciava i suoi deliri sempre sostenuti da una logica ferrea sul mondo del pallone. Io davo forma al caos e la mattina dopo consegnavo il tutto al giornale. Già questo surreale abbastanza di suo. L’incredibile è che quei testi venivano passati e pubblicati. Senza mai correggere una virgola. A rischio di essere linciati, editore, direttore e scriventi, nella pubblica piazza.
Come quando Carmelo a pochi mesi dal mondiale vinto in Spagna, sentì il dovere estetico di riconoscere “che l’alloro è finto, la corona di carta, un re di stracci e toppe. Ci si disfi della coppa con una dignitosa visita al Monte di Pietà…”. La fortuna di Carmelo era quella d’essere accolto e liquidato ovunque per il genio che era, dunque libero di straparlare.
Non fu linciato nemmeno quando al Processo di Aldo Biscardi, a una settimana dall’Heysel, spiegò che quella mattanza era la conseguenza naturale delle accozzaglie di barbari che si radunano negli stadi, strano non accadesse ogni domenica, e che i tifosi erano roba da psicopatologia di massa.
Fu, invece, sfidato a duello da Giancarlo Antognoni, mezz’ala della Fiorentina, per aver definito “ovvio” il suo talento, concetto in realtà sfuggito alla mia tastiera. Licenze che ogni tanto mi autorizzavo nel mio sentirmi all’unisono con il Maestro, per cui Carmelo rischiò di doversi prendere a pistolettate con uno sconosciuto, per una provocazione non uscita dal suo sacco. A distanza di anni, il dubbio mi resta. Quasi una certezza. La storia del duello fu un’invenzione, l’ennesima, della sua fertilissima testa?
Il linciaggio vero lo rischiammo l’estate prima a Forte dei Marmi. Quando, nei novanta minuti di Italia-Brasile, fu chiaro che nella villa di Carmelo Bene si stava consumando un reato di vilipendio alla patria. Uno schiamazzo blasfemo. Un covo di mascalzoni che tifavano apertamente per Zico e compagni. Il fatto è che, a prescindere da Falcao e della sua testa “vertiginosamente alta”, “il visionario senza palla che indovina gli spazi dove il pallone onesto cagnolino va a parare…”. “Il Brasile gioca in cielo dove ci si disfa della palla per dominarla, tutto il resto è calcio”, scriveva Carmelo che a tal punto amava la “zona celeste” da diffondere una lettera di sfida a Gianni Brera, “teorico dell’attentato a uomo”, definendo la marcatura a uomo come “retaggio delle tribù antropofaghe”.
“Ripensandoci Bene”. I suoi ritagli cartacei sforbiciati alla buona, perle autentiche, finiti da anni e abbastanza dimenticati in un polveroso cassetto del mio armadio. Aspettavano che qualcuno si accorgesse di loro. È accaduto. Buon per noi, buon per tutti.
Lydia Mancinelli: «Quando Carmelo Bene mi disse: tu dormi con me, io pensavo fosse gay. Era un traditore». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.
La musa dell’attore-regista racconta: «Mi pregò di tornare e lo trovai a letto con un’altra». «Quando me ne andai dovette assumere sette persone per sostituirmi».
«La prima volta che lo incontrai, non mi fece una bella impressione. Eravamo ospiti in una villa al Circeo. Vidi questo tizio ossigenato, con le unghie laccate di rosso, sbracato su un'amaca, con vicino una bottiglia di whisky. Non sapevo chi fosse, ma poi è diventato l’uomo più importante della mia vita, insieme al mio primo marito, padre dei miei figli». Lydia Mancinelli così racconta il suo primo incontro con Carmelo Bene, con cui ha condiviso quasi vent’anni di vita e di teatro, diventando ben presto la musa del grande attore e regista scomparso vent’anni fa.
Come proseguì quella giornata al mare?
«In realtà, all’inizio, volevo andarmene via, ma poi venni convinta a scendere con tutti gli altri in spiaggia. Forse attirato dai miei capelli lunghi e biondi, naturali, Carmelo mi prese per mano, per entrare in acqua insieme: è stata l’ultima volta che lo vidi entrare in acqua, non ricordo che abbia più fatto una nuotata in mare. Nel pomeriggio, poi, mi si sedette a fianco e parlò fino a tarda sera. Non capivo molto il senso di quello che diceva, anche se non era ubriaco... Ma io avevo 27 anni, lui qualche mese di meno, e appartenevo a un ambiente diverso dal suo, per questo non capivo di cosa mi parlava: lui faceva già l’attore, pur non essendo ovviamente ancora conosciuto. Ci rincontrammo per caso un mese dopo vicino al Teatro Sistina: accanto alla mia auto parcheggiata, c’era una decappottabile... era la sua. All’epoca facevo pubblicità per i caroselli e, siccome avevo il pallino del teatro, gli chiesi se aveva qualcosa da farmi recitare: mi fece fare un provino per il ruolo della Regina Gertrude nell’“Amleto” e mi scritturò».
Prende così il via del vostro sodalizio artistico e sentimentale?
«Sentimentale? Francamente, a me non piaceva affatto e oltretutto pensavo che fosse gay. Però quando andammo a Spoleto, dove avremmo poi debuttato, lui distribuisce le camere a tutti gli attori e mi dice: tu dormi con me. Lì per lì non mi preoccupai, pensando appunto che non fosse interessato al sesso con le donne e, siccome ho lo spirito da crocerossina, pensai fra me: forse quest’uomo vuole redimersi dalla sua omosessualità... Invece in quella nostra prima notte non si dimostrò affatto gay. Anzi, qualche tempo dopo, un nostro amico mi chiese: stai ancora con Carmelo? Attenta perché è un puttaniere!».
E lo era davvero?
«Accidenti! E io ero molto gelosa di lui... Una volta, una delle tante che mi ha tradito, eravamo ospiti nella villa di una signora aristocratica a Forte dei Marmi, e arrivò al punto di fare sesso con una tizia, mentre io dormivo al piano di sopra. Però quella volta gliela feci pagare cara: gli rifilai un morso all’orecchio e gliene staccai un pezzetto... prima lo sputai a terra, poi lo andammo a cercare per riattaccarlo».
E l’avete trovato il brandello di carne?
«Sì. Andammo in ospedale e al medico Carmelo disse che era stato il gatto a morderlo. Raccontò poi l’episodio in un suo libro intitolato proprio “L’orecchio mancante”».
Perché finì la vostra storia?
«La nostra storia, pur essendo esaltante artisticamente, mi aveva affaticato per vari motivi, compreso un aborto spontaneo quando rimasi incinta di un figlio suo. Non ero solo la sua attrice protagonista, ma la sua amministratrice di compagnia, la sua autista perché non amava guidare, lo accudivo in tutti i modi, gli tagliavo persino i capelli, gli compravo le scarpe... Tanto che, quando ci siamo definitivamente lasciati, ha dovuto assumere 7 persone per sostituirmi in tutti i diversi ruoli».
Come reagì Carmelo alla sua decisione di interrompere la relazione, sia privata sia pubblica?
«Quando gli dissi che lo lasciavo, mi rispose: sposiamoci, ma io ero molto perplessa perché un conto era essere la sua compagna, un conto la moglie. A volte era anche violento e non volevo fare la fine di Desdemona con Otello...».
Addirittura?
«Certo, le femministe dell’epoca lo accusavano di maltrattare le donne. Quando andammo a recitare a Parigi, al Festival d’Automne, organizzarono una manifestazione contro di lui, lanciando le uova sul palcoscenico».
Insomma, alla fine Carmelo si arrese?
«Un giorno mi attaccò una filippica al telefono per convincermi a ritornare da lui e, quando decisi di ritentare la convivenza, non lo trovo a letto con un’altra? Proprio così... e lo mandai definitivamente a quel paese. Non sopportavo di essere cornificata, anche se capivo che era un lato del suo carattere e che per lui quei tradimenti non avevano significato, erano solo rapporti superficiali, senza coinvolgimento affettivo. In seguito ci siamo ripresi ma rilasciati di nuovo, anche perché aveva preso un vizio con certe sostanze che non condividevo».
Com’era Carmelo Bene in scena: un mattatore che dominava la situazione oppure un compagno di scena leale? Era il primattore che non dava spazio agli altri oppure no?
«Assolutamente non prevaricava sugli altri, non si metteva in competizione, anzi...Mentre seguiva le ore di prove, lui stava seduto in platea a dirigere noi altri e spesso badava poco al suo ruolo. Era molto generoso con i suoi attori. Il suo lavoro di regista superava quello dell’attore, e con lui era un continuo work in progress che migliorava dalla prima all’ultima replica».
Tra i numerosi progetti creati insieme, quale l’episodio più divertente?
«Durante le riprese filmiche di “Nostra Signora dei turchi”, in cui interpretavo Santa Margherita, ci trovavamo in un paese dove, nella chiesa, dovevo fare una scena vestita come una Madonna e salire sull’altare. Ma i paesani, che mi videro, mi presero davvero per una Madonna e volevano baciarmi le mani, chiedermi delle grazie! Carmelo ovviamente cercò di impedire questa assurdità, ma arrivarono i carabinieri che ci dissero: se non li accontentate non se ne andranno!».
Lo spettacolo che lei ha amato di più?
«Il “Pinocchio”, dove impersonavo la fata e la volpe cattiva. E quando Carmelo lo ha ripreso, molti anni dopo, nel mio ruolo c’era la bravissima Sonia Bergamasco, alla quale però fece usare la mia voce che era registrata!».
Se lei tornasse indietro, cosa rifarebbe e cosa invece non rifarebbe?
«Rifarei tutto, l’avrei anche sposato, per poi lasciarlo. E se potessi, gli direi che sogno spesso di fare l’amore con lui».
Nella libreria Armani e nel bookshop della Triennale a Milano è in vendita il vinile cui lei ha dato la sua voce, intitolato «Lydia Mancinelli legge Marcello Maloberti. Martellate. Scritti fighi».
«È stata una bella esperienza, una lettura poetica e minimalista, legata all’artista performer Maloberti. Frasi filosofiche e politiche, frasi spiate, frammenti... Marcello ha voluto la mia voce, mi ha fatto piacere.».
Ha compiuto da poco 86 anni: ha espresso un desiderio?
«Sì, che la salute mi assista in questi ultimi anni di vita»
Quanto ci manca il cielo stellato di Carmelo Bene. Memoria cantata del «sud del sud». Fulvio Colucci su la Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Settembre 2022.
Tra i tanti «testamenti» di Carmelo Bene ne scelgo uno (non) a caso. E mi perdonerete se lo faccio ricordando il giorno della sua nascita, 85 anni fa, il 1° settembre 1937. Un paradosso sì, ma gli estremi coesistevano in lui come le tenebre e la luce nella Creazione.
Non sfoglierò le centinaia di pagine dedicategli da filosofi come Gilles Deleuze a proposito del suo teatro, pardon, della sua scrittura di scena; a proposito della sua recitazione (ripardon, macchina attoriale).
Non ricaverò la citazione più appropriata e ruffiana; né consulterò le pagine delle sue «Opere» edite da Bompiani nel 1995 o la «Vita di Carmelo Bene» scritta con Giancarlo Dotto (1998), dove splende l’impareggiabile definizione del suo Salento: «Sud del Sud dei Santi».
Rifiuto di appuntar parole sulla blusa del giornalista, per tener viva la memoria con quel po’ di bastevole retorica consolatoria. Preferisco la sottrazione (e l’estinzione) di ricordi stretti e ripidi, di scorciatoie quasi nascoste, quasi dimenticate, di vuoti come quelli cercati e trovati con sapienza dagli scalpellini, lavorando il tufo.
Del resto, Bene era così: sottraeva miracolosamente se stesso dentro Shakespeare e Stevenson, Majakovskij ed Esenin, Collodi, Marlowe, Leopardi, Wilde, Laforgue. La sera in cui lesse la “Divina Commedia” di Dante dalla Torre degli Asinelli di Bologna, nel 1981, a un anno dall’attentato alla stazione, lo fece «da ferito a morte», dedicando l'esibizione «non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage». Perché la sua voce si mescolasse alla loro, concependo e generando la memoria dei sommersi e dei salvati, senza retorica alcuna. A 97 metri di altezza, 97 metri di vuoto.
Voce e memoria. Perché Bene bisognerebbe ricordarlo non parlando, non scrivendo, ma cantando. Come facevano le tabacchine di Campi Salentina. Le loro antiche melodie stregarono il bambino che si aggirava nello stanzone dove lavoravano le foglie. Lì scoprì lo splendore della phoné tra secchi fruscii e storie intonate d’amore tradito e sfruttamento. Voce e memoria. Voce, suono, rumore: «Tutta la storia è storia della phoné» dirà in seguito. Del resto, in principio era il Verbo. Certamente non scritto.
Ho divagato e torno al (quasi) «testamento». Sulfureo, meridiano - Bene scompare nel 2002, pochi anni dopo quell’apparizione -; a futura memoria. È l’estate del 1994, l’estate dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti - «Il calcio è stupendamente rappresentato dalla nostra nazionale, si vedono 11 ragionieri in mutande allo sbaraglio senza nessuna remora, senza nessun decoro. È il nostro governo, il nostro sottogoverno in mutande» dichiara Carmelo Bene all’”Unità”. Maurizio Costanzo organizza una puntata del suo Show televisivo sotto forma di sfida, «Uno contro tutti». Lo chiama sul palco a misurarsi con giornalisti, critici, attori, personaggi dello spettacolo. Risultato: una trasmissione irripetibile, nella quale medianicamente, prima ancora che mediaticamente, Carmelo Bene «profetizza» di tutto. Dall’orrido della politica: «Gli italiani continuano ancora ad andare sempre a votare, votano, votano; non si capisce perché votino. Per dare un senso a che cosa?» a quello del politicamente corretto: «Non me ne fotte nulla del Rwanda e lo dico. Voi no. Non ve ne fotte; ma non lo dite». Passando per la libertà di stampa che dovrebbe essere «libertà dalla stampa», quella che «informa non sui fatti, ma informa i fatti». E talvolta li deforma.
Il vuoto per il quale Bene lottò in vita, soffrendo i pugnali affilati della critica, come il suo amico e mentore teatrale Albert Camus, quel vuoto geniale di cui il Paese rimase orfano prematuramente (e gli effetti si son visti tutti), lo rese sempre più simile al Franz Kafka raccontato nella celebre biografia da Pietro Citati: disposto a svuotarsi, a ignorarsi e ignorare, a vedere nel male «il cielo stellato del bene» secondo un oscuro e celebre aforisma dello scrittore ceco. Il male lucente, il male del conformismo sulla scena; la corruzione operata sul suono dalla parola scritta. Il bene, anzi il Bene, era da tutt’altra parte: nel vuoto silenzioso (presagio della Creazione).
Sotto quel cielo stellato kafkiano, solo lui, nell'ora amara delle offese, poteva riconoscere l'angelo accorato di Blok, da una lontananza irrevocabile. Solo lui, sotto quel cielo, poteva «delirare in Otranto l’infinito del mar ionico» come la colomba sulle acque del diluvio. Solo lui. E senza di lui, quel diluvio ci ha travolto.
Valeria Palumbo per “Oggi” il 10 aprile 2022.
«Dovevo chiamarmi Carla. Altro che Salomè. Mio padre voleva un nome che iniziasse per “C”. Avevo già il corredino con la cifra. Poi, nel percorso che lo portava all’anagrafe di Roma, cambiò idea. E divenni Salomè. Anzi: Salome senza accento, più Isa Isa, come Zsa Zsa Gabor».
Salomè Bene aveva 10 anni quando suo padre, l’amato-odiato-venerato-sbeffeggiato Carmelo Bene, drammaturgo, attore, regista, poeta, rivoluzionario e sovversivo, morì, il 16 marzo 2002. Parlando del suo nome depone la sua compostezza («Sa, è la prima volta che parlo a un giornale») per farsi una grande risata.
«Perché Salomè? Perché era lui. Imprevedibile. Mandò pure in confusione l’ufficiale dell’anagrafe che non capì più nulla con “Isa Isa”. A 18 anni ho parzialmente rimediato: Isa Isa è scomparso e Salomè adesso ha il suo accento».
Si capisce che, per carattere, avrebbe preferito Carla. Ma ci sono forse tante cose che questa bella e solida trentenne che fa l’avvocato («non scriva “avvocata”: non ci sono più discriminazioni») e vive tra tre città, Torino, Roma e Lecce, avrebbe voluto diverse.
Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene, come si chiamava il più indefinibile protagonista del “nuovo teatro italiano”, l’ha messa subito sull’otto volante e l’ha lanciata nel vuoto. «Ho dovuto costruirmi una corazza. Mi vede così precisa ma ho dovuto difendermi, farmi scudo. Crearmi due anime e due vite».
Quella per cui ora esce allo scoperto gliel’ha ispirata-imposta proprio il padre: l’ha resa unica erede, assieme a una Fondazione che nel frattempo si è estinta, di tutto il suo patrimonio.
Che è sparpagliato e vario: abiti di scena, libri, documenti, foto, incisioni sonore, arredi dalle case di Roma e Otranto, gli angeli di Gino Marotta creati per la scenografia dello spettacolo Hommelette for Hamlet. Le maschere, no: non sono più tornate a casa dopo una mostra. Ma Salomè evita polemiche.
Anche perché, a 20 anni dalla morte di Carmelo, questo patrimonio ha una casa, a Lecce, e apre al pubblico. L’archivio è ancora in restauro, ma la biblioteca è già catalogata e digitalizzata e presto entrerà nel Sistema bibliotecario nazionale. A disposizione di tutti.
Anche gli arredi e i 30 costumi di scena sono già esposti. L’impresa è stata grande, non solo perché Salomè ci si è trovata dentro giovanissima («Quante volte, nei momenti di sconforto, mi sono trovata a chiedergli: perché, papa?»). È successo nel 2005, quando, estinta la Fondazione, è confluito tutto su di lei. Certo, la madre, la zia, la famiglia, gli amici le hanno dato una mano. Ma è pure un’impresa costosa e ha bisogno di un’organizzazione complessa («Voglio che sia tutto trasparente e pubblico; quindi i tempi si allungano e le decisioni sono più difficili»). Andrà tenuta in vita con una serie di iniziative originali: «Perché Carmelo Bene era un innovatore. Non ne possiamo fare un’istituzione o un monumento».
Il Fondo è ora al sicuro al Convitto Palmieri, la natura giuridica è ben definita, la biblioteca sistemata dalle monache benedettine di Lecce (curioso destino per quel “diavolo” di Bene) e l’archivio è in buone mani. Così sono partite le altre iniziative: aprile le vedrà fiorire. La prima è stata una installazione sonora in piazza Sant’Oronzo.
L’intenzione è avvicinare i giovani. «Ma con compostezza». È la parola che ripete più spesso. “Composto” come si sposa con l’esuberanza di suo padre? «Va bene, era contraddittorio. Ma voglio che emerga la sua contraddittorietà in ambito culturale. È sbagliato ricordare la sua storia personale».
Abbiamo toccato il tasto dolente. Carmelo Bene è morto il 16 marzo. Lei è nata il 17 marzo. «Morì di sera. Me lo dissero al mattino del mio compleanno. Eravamo a Torino con mamma, Raffaella Baracchi (ex Miss Italia 1983 e attrice, ndr) per assistere il nonno. I miei erano separati, io non l’ho quasi mai visto negli ultimi anni. Era malato, si era molto chiuso, c’era chi poneva ostacoli. Però quel giorno ho capito subito che non avrei più potuto parlargli. Dentro mi è rimasto questo: tutto quello che avrei voluto dirgli e oggi, credo, saprei dirgli meglio».
Si è data una risposta sul perché suo padre abbia affidato la sua eredità a lei, una bambina di neanche 10 anni?
«Perché era un grande? Non mi fraintenda: non era un grande perché ha scelto me, ma perché vedeva oltre. Perché aveva intuizione. Ha voluto mettermi alla prova? Voleva provocare? No, in realtà non ho una risposta».
Ma ha dedicato la sua vita a questa impresa, a questa sfida.
«No, ho dato la preferenza alla mia vita. Sono orgogliosissima di me stessa. I miei amici hanno scoperto tardi che ero la figlia di Carmelo Bene. E ancora adesso sono due vite separate».
Sarà stato difficile…
«Se non avessi avuto una mia spiritualità non avrei saputo gestire tante difficoltà. Sono cattolica. Ho studiato in Vaticano. Formazione classica. Ma fu una scelta condivisa dei miei genitori. Lo stile di vita di mio padre non era adatto a una bambina.
Lui aveva comunque studiato dai salesiani e io frequento ancora gli anziani sacerdoti i cui studi furono sostenuti dalla sua mamma, una vera benefattrice».
Il rapporto con lui? Ha dovuto inventarlo.
«L’ho ricostruito. Negli anni ho ritrovato cose che aveva scritto per me. Mi ha aiutato tanto anche mia zia, Maria Luisa Bene ( scomparsa nel 2013, ndr). Mi ha difeso. Mi ha raccontato».
Giancarlo Dotto per Dagospia il 21 marzo 2022.
(A vent’anni dalla scomparsa di Carmelo Bene, il Teatro Argentina ospita “Il congedo impossibile” e Dagospia ospita “Il congedo necessario”)
Bravi (e zelanti) cristiani sparsi nel pianeta mi avvisano che sono vent’anni e dunque, lavativo che non sei altro, diamoci da fare, che aspetti a scodellare, schiocche a schiocche, le cerase rosse del “Era l’omaggio” anche se è marzo, su coraggio sotto con l’oltraggio, che l’aria è fresca e tutto odora di rose marce. O erano mimose? Le ceneri del mio amico Carmelo, beate loro, non hanno bisogno di ricorrenze per ballare il cha-cha nell’urna che da Otranto lo ha restituito, il bambinaccio, alla stratosfera, dove sono ammessi solo gli addetti ai capolavori.
Da dove un giorno non come un altro il tempo se ne va e domani è un altro giorno finalmente non uguale a ieri, era apparso a se stesso travestito da Madonna, la madre turchina di Pinocchio, in attesa di travestirsi da Pinocchio e di mille altre cose, pur di non confondersi con amici, compari, comari e parenti. E lei, la Madonna, indecisa fino all’ultimo se rispedirlo (si) all’inferno o lasciarlo (si) che frugasse sotto le sue vesti per scoprire cosa ci stava sotto, che siamo fatti di legno nel migliore dei casi. E, invece, era carne. Carne con la data di scadenza. Madonna mia.
Sono giorni di manifestazioni e congedi non autorizzati oltre che impossibili. Una volta ogni dieci anni, Carmelo spacca. Con la scusa di celebrare Carmelo celebriamo noi stessi, le nostre piccole, ma così piccole, patetiche spoglie e voglie mortali. Chi ha dato il permesso? Buscaglione, può darsi. Non certo Carmelo. Lui non l’avrebbe mai dato. Lui non autorizza che, eventualmente, se stesso. Abusiamo della sua benevola assenza, avendola equivocata (l’assenza). Siamo come la banda di scolaretti che se ne approfitta quando il Maestro fuori (della) classe s’è assentato dieci minuti o una vita a fumarsi una sigaretta o a diventare lui stesso cenere.
Il Maestro non c’è, assente giustificato oltre che impossibile, e noi facciamo del mondo il nostro posto delle fregole. Approfittando che non ci vede, organizziamo quatti quatti la nostra piccola baldoria. Il nostro pic-nic all’aperto, da consumare in fretta, ingaggiando un paio di trombe, confezionando il fiocco e un elegante elzeviro, benedetti da qualche istituzione, meglio se televisione, rapidi, dovesse mai riapparire, l’Orco celeste, lesti a raccogliere le briciole (Carmelo odiava le briciole e, che mi risulti, le odia tutt’ora), a far sparire le tracce della marachella e a tornare alle nostre mediocri faccende di tutti i giorni. Aspettando, i più ottimisti di noi, il trentennale.
Fosse stato ancora dentro l’equivoco d’essere vivo, Carmelo, avrebbe certo, questa volta sì davvero pisciato dal suo balcone in rovina su tanta maleducata celebrazione, fatta senza il suo permesso, nel nome dei giovani e per bocca di attori. Lui che detestava l’anagrafe, i giovani e gli attori. O l’avrebbe a modo suo liricamente oscurata, come fece con la sua morte immanente, quando oscurò per l’appunto lo specchio della camera da letto con le pagine della Gazzetta, ma solo perché erano rosa. Il rosa e il nero, i colori della sua equivoca vita.
Quando la ricreazione sarà finita, quando sarà finita la scampagnata delle cimici, il turismo delle anime belle, di donne, compagne, vedove, orfani, amici, veri, per lo più immaginari, intellettuali e adoranti (i due concetti spesso coincidono), tornati ai trastulli di un tempo, ai vecchi cari e ai nuovi acari (avete notato, a proposito di incubi, quanto Putin somiglia alla gigantografia di un acaro?), i più lucidi di noi torneranno alla conclusione di sempre: Carmelo Bene non ci riguarda. Tanto meno ci appartiene. Riguardava forse, senza mai appartenersi l’uno con le altre, le donne che negli anni ne hanno medicato ferite e ustioni da guerra (Carmelo era in guerra dal giorno in cui era venuto al mondo), utilizzando quello che avevano, l’oscenità prima ancora dei farmaci, flebo di amore e di barbiturici, per indurlo ai suoi casti pensieri ed, eventualmente, al tribolato sonno.
Nemmeno il Carmelo ventenne ci apparteneva. Quello, posseduto dalla nascita, che piombò a Roma, carro partorito e armato da un delirio, e si presentò alle porte dell’Accademia nazionale d’Arte Drammatica per sperimentare la prima necessaria, drammatica incomprensione. Una bocca da fuoco che parlava come Antonio Cassano.
Certo, pur capitando per caso e confondendosi a volte nella mischia e nelle cantine del tempo, senza mai appartenere alla fessa moltitudine del tempo che, barbe alla mano ed eskimo in spalla, giocava in quegli anni a fare la rivoluzione, giustificata solo, come aveva capito bene Lenin, da quella insanabile malattia che è l’essere giovani e contemporanei.
Non è mai salito Carmelo sul vascello fantasma del ’68, francese o italiano che fosse. Canne in ogni senso fumanti di respiri altrui. Mai stato contemporaneo Carmelo. Aveva altro da fare. Altre urgenze. Essere Carmelo, ad esempio. Spedirsi in missione per conto di Carmelo Bene, non sapendo per niente bene dove si andava a parare. Sì, che c’era forse da pisciare su qualche ambasciatore e attraversare mille gogne prima di meritarsi di giocare da classico vivente.
Non che ci fosse scelta. Una volta che sei nato Carmelo, non puoi essere altro. Farla diventare la tua guerra privata e pubblica. Cambiava l’elmetto, cambiava la divisa, cambiavano le armi, ma non cambiava l’intento e nemmeno l’evento. Che fosse Tamerlano, Pinocchio, Amleto, ma non quello amletico, quello che il teschio lo palleggiava al circo insieme alle foche. Mentre gli altri praticavano la lotta di classe e la lotta continua, lui giocava fuori della classe, sul ring del farsi fuori, preferiva il Joyce-stick al megafono, il luna-park dei suoni alle assemblee degli slogan, in attesa d’avere il giocattolo della vita, la sua strafica consolle dentro i più lussuosi teatri.
Solo ciò che è indicibile accade veramente. Non lo sappiamo mai abbastanza. Carmelo lo sapeva. Stregato ragazzo da Joyce, ammaliato adulto da Lacan, e poi da Bacon oltre che da Marco Van Basten e Ray Sugar Leonard, aveva finalmente (e forse tardivamente) incontrato Beckett al culmine della sua e della loro storia.
Dopo aver lasciato che intellettuali, critici e cimici banchettassero con il suo spumeggiante cadavere da vivo, lui ha deciso un giorno di fare da sé, di autorizzarsi, l’unico a poter scrivere tatuaggi indelebili sulla sua carne putrescente e non più sperante, bruciato vivo, assediato dalle voci di dentro che erano le stesse di quelle di fuori, e poi assediato da sé, l’unica voce possibile.
Fu così che, nella sua ultima recita, più che mai in-vulnerabile da Achille tolse di scena le sue residue spoglie mortali, lasciando in quinta un rosario beckettiano di suoni disarticolati e farfugliamenti. Gli ultimi spasimi, per capirci, in attesa dell’impareggiabile fair-play del cadavere.
Anche lì, agli spettatori, lo stesso monito: fate silenzio in platea, anche la disfatta del genio non vi riguarda. Così fu scritto nel programma di sala, e poco importa se toccò a me farlo. Curioso che ad ospitare la maldestra scampagnata beniana di questi giorni, una caciara assortita, profittando dell’assenza di Bene, sia proprio lo stesso Teatro Argentina di allora. Temerari tutti, gli uni che ospitano e gli altri che celebrano. Congedi inevitabili, altro che impossibili. Necessari.
Quando, a dirla tutta, e Carmelo ci perdoni se lo diciamo a nome suo, alla fine del suo strepitoso viaggio, tra madonne turchine, pinocchi, tamerlani e amleti, angeli di gesso e demoni di carne, voci dalle torri, e poi solo sospiri e rantoli, in fondo al riso e poi la smorfia, ubriacandosi di tutto, di donne, di vino, di amici, di versi e di polvere, per essere proprio sicuro di non aver lasciato nulla d’intentato, che fosse proprio tutto vero, che tutto era un inganno, prima di darsi definitiva la zappa sui piedi e raccontarlo, quel tutto, sotto le mentite spoglie una biografia nella quale era il primo a non credere.
Perché lui voleva scrivere solo il male dei fiori e, infatti, lo scrisse, prima di ospitare il cancro che avrebbe finalmente reciso l’ultimo petalo di questa manfrina che è l’essere al mondo. Quanto infine restava dietro quel diaframma reciso dal bisturi, solo la vergogna d’essere vivo, tutti gli specchi da oscurare. E poi solo cenere.
Carmelo ha portato a spasso per il mondo l’indispensabilità di essere Carmelo, poi la virtù, la disgrazia, il disturbo e, in fondo, la vergogna di essere stato, Carmelo e qualunque cosa. Quando, alla fine dei giochi, fu solo un farfugliante monaco eremita che andava a pane e orzo e cantava le arie di Rossini per i corridoi della sua casa di Otranto affacciata sul canale e sui turchi. Cucinare il pescespada alla brace per i pochi amici, il suo unico svago mondano.
Fosse nato mezzo secolo dopo, l’eventuale Carmelo Bene non sarebbe stato riconosciuto. Mancava il contesto. Invece che un dannatissimo mito vivente, costola del famigerato Acmet Pascià, avresti incrociato il suo sosia in qualche polverosa strada della campagna salentina, un anonimo squilibrato in preda alle sue farneticazioni. Sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, un brillante avvocato di provincia. I suoi occhi obliqui e il suo eloquio sfrenato, invece che nei grandi palcoscenici del mondo, avrebbero fatto strage di cuori tra le signore nelle aule di tribunale del Foro di Lecce.
Sarà per questo che gli unici veramente autorizzati a spiarlo da qualunque buco della serratura sono e saranno i giovani mai stati giovani, ragazzi d’oggi ma attratti dallo strapiombo del ieri, che non hanno mai frequentato e visto Carmelo Bene nell’equivoco del “vivo”. E che passano le ore in rete a curiosare nelle rovine della sua necropoli, a frugare e trafugare tesori di questo inconcepibile barbaro, ammaliati dall’inaudita bellezza della sirena che ci ha raccontato come si può essere leggiadri in fila in un mattatoio, nella decina di metri che ci separano dal crederci qualcuno e la scure o la pallottola che ci precipita nell’oscurità del ritrovarci nessuno.
Carmelo Bene insiste come mito più che mai incomprensibile ma carico di seduzione per ragazzi probabilmente autistici che, al riparo dei rumori contemporanei, covano il presentimento di qualcosa di enorme che è stato. Ascoltano e guardano Carmelo come si ascoltano le voci degli astronauti dispersi nel cosmo. Il congedo da questa grandezza, proprio perché necessario, li rende e ci rende inconsolabili. Non ci sarà mai più un altro Carmelo Bene. Se anche ci fosse, non ci sarebbero più occhi e orecchie per riconoscerlo.
Carmelo Bene, una rockstar come Elvis Presley e Jim Morrison . Ma senza il loro battage e il loro forsennato merchandising. Era la voce di una rockstar che precipitò quella notte di quarant’anni fa dalla Torre degli Asinelli sui duecentomila in piazza, mai stata così divina la commedia.
Tornare da dove si è venuti, senza essere mai stati, Carmelo Bene è stato questo: un’equazione perfetta. L’ultimo umanista, l’ultimo asino e l’ultimo assassino. Un’immensa perlustrazione di come si può andare con decenza da un capo all’altro del viaggio assurdo.
Katia Ippaso per il Messaggero il 18 marzo 2022.
Un uomo umile e antico. L'officiante di un rito intimo, capace di lasciare gli spettatori storditi e disarmati. Una delle menti più accese del Novecento. Un attore che piaceva moltissimo ai bambini. Sono solo alcune immagini che definiscono Carmelo Bene, a 20 anni dalla morte.
Limpide pennellate di una contro-narrazione scolpita nei ricordi di chi l'ha conosciuto e amato. E l'indomito Don Giovanni, il sadico frequentatore del Maurizio Costanzo Show, il nemico giurato del Ministero dello Spettacolo?
CONTROFIGURE «Quelle per lui erano solo controfigure», spiega Piergiorgio Giacché, uno dei suoi più rigorosi studiosi. «Sosteneva che gli erano utili a sopravvivere, ma non gli servivano a vivere. La maggior parte del suo pubblico ricorda Bene come personaggio televisivo e non come artista, ed è un peccato».
Era il 16 marzo del 2002 quando Carmelo Bene, attore, regista, poeta, filosofo d'origine pugliese (nasce a Campi Salentina il 1 settembre del 1937), il rivoluzionario autore di Nostra signora dei Turchi (film del 1968), il creatore di un teatro orfico nemico dello spettacolo e di ogni forma tombale di rappresentazione, si spegneva nella sua casa di via Aventina, a Roma.
TUTTO STABILITO «Era una serata quasi estiva. Ogni respiro era seguito da una pausa. Alle 21.10 se ne andò. Aveva stabilito quello che si doveva fare dopo la sua morte. Non voleva essere visto da nessuno né avere un funerale pubblico né benedizioni. Dal suo letto direttamente al forno crematorio. Disse anche: Dopo, se volete, con le mie ceneri, fateci una torta, ricorda Luisa Viglietti, costumista di scena, la sua ultima compagna di vita, la donna di cui Carmelo Bene disse pubblicamente: «La sua lealtà doc, tutta napoletana, non tollera accostamenti a nessuna persona donnesca di mia vita».
Si spense a 64 anni a causa di un tumore al colon. Ma con la morte ci aveva sempre trafficato, fin da quando era ragazzo. Le sue malattie, ordinarie e straordinarie, aveva l'abitudine di nominarle tutte insieme, come fossero i versi di una filastrocca inventata per scongiurare il malocchio: scarlattina, orecchioni, morbillo, linfatismo, emicranie, infezioni, ernie, metastasi, guasti al cuore. «Quella volta però era diverso. Sapeva di morire. Per questo aveva predisposto tutto», continua Luisa Viglietti, autrice del libro autobiografico Cominciò che era finita (Edizioni dell'Asino), tra le promotrici de Il congedo impossibile, l'omaggio a Bene previsto il 21 marzo (ore 19) al Teatro Argentina di Roma (parteciperanno, tra gli altri, Tommaso Ragno, Filippo Timi, Iaia Forte).
Jean Paul Manganaro, autorevole biografo e traduttore francese, ha appena pubblicato Oratorio Carmelo Bene (Il Saggiatore), in cui analizza il teatro, il cinema, le opere letterarie. «Carmelo non ha ricopiato un'epoca, ne ha inventato una tutta sua. È stato il più grande attore universale del secolo scorso e ha usato la lingua italiana come pochi», dichiara. «Ci conoscemmo negli Anni Settanta, in Francia. È stato un amico fedele, gentile e affettuoso».
Per l'officiante Carmelo Bene non esisteva conflitto tra le esperienze dionisiache dei suoi concerti vocali (memorabili quelli su Majakovskij e Leopardi) e le manifestazioni più accese, ludiche, di questo mondo. Compreso il calcio, che seguiva come commentatore per Il Messaggero.
«Una volta invitò tutta la squadra della Roma, quella di Falcao, a vedere un suo spettacolo al Quirino. Era il 1983 e la Roma aveva appena vinto lo scudetto», ricorda Fulvio Baglivi, curatore delle Notti di Fuori orario (Rai3), che dal 18 marzo dedica il ciclo A viva voce a Carmelo Bene, cominciando dal Manfred, passando dalla visione del film di Mario Schifano Umano non umano, per finire con una intera notte dedicata al calcio.
UN PRECURSORE «Bene è stato un precursore in tutto. Pensiamo solo al modo con cui girava e montava per la tv i suoi spettacoli. Cinquant' anni prima di Netflix, ci ha mostrato come si può essere potenti anche sui piccoli schermi». Ma esiste una eredità beniana?
Qualcuno ha raccolto la sua testimonianza oppure il suo esempio si è consumato con la sua febbrile e irregolare esistenza? «Tutti quegli artisti che dagli Anni Ottanta in poi hanno lavorato sul versante della vocalità e in autonomia, sono accostabili a Bene. Penso a Danio Manfredini, a Claudio Morganti, ad Ermanna Montanari», riflette Giacchè.
GRATITUDINE Tra i più giovani, c'è Roberto Latini, con la sua personale declinazione del teatro dell'indicibile. «Pinocchio di Carmelo Bene è stato il primo spettacolo che ho visto nella mia vita. Facevo le elementari e andavo a scuola dalle suore», ricorda l'artista romano. «Ho rivisto lo stesso spettacolo anni dopo. Non dimenticherò mai il modo dolcissimo con cui Bene prendeva gli applausi. Non c'era più l'attore. C'era solo l'essere umano in un gesto di pura gratitudine».
· 19 anni dalla morte di Alberto Sordi.
Fabrizio Roncone per corriere.it il 7 novembre 2022.
Questa non è la storia di Alberto Sordi. Questa è una storia su Alberto Sordi.
Piccola, molto personale. Conservata, con cura, nel cassetto segreto che ciascuno di noi possiede. Qui al Corriere mi hanno chiesto di aprirlo.
Così devo tornare indietro alla mattina del 25 febbraio 2003. In una camera d’albergo a Pisa, dentro la luce sporca che filtra dalle persiane. Con il portiere che, alle 7.30, bussa, consegna il pacco dei giornali e chiede: «Ha saputo?». No, cosa? «È morto Sordi». Non mi ha nemmeno detto buongiorno. Ma aveva questa urgenza: avvertirmi del lutto nazionale.
Sento una mano afferrarmi le budella. No, Alberto no. A Roma, lo chiamiamo tutti per nome: più che un amico o un mito, un parente stretto. Ripenso a Beniamino Placido che, in occasione del suo settantesimo compleanno, scrisse di come i suoi personaggi cinematografici avessero inciso così tanto sui romani, sulla loro psiche e sul loro linguaggio, che erano ormai i romani a parlare e comportarsi come Sordi, e non il contrario.
È morto a 82 anni, poche ore fa. Malato da tempo. Poi una bronchite diventata polmonite. Me lo immagino nella penombra della sua villa di via Druso, le finestre con le serrande sempre abbassate sul panorama delle Terme di Caracalla. Apprendo dalla tivù che già molte persone sostano davanti al portone, in cima alla collinetta. Sarei stato tra loro, abito a poche centinaia di metri, e invece sono qui: il giornale mi ha chiesto di raccontare i no global che bloccano i convogli ferroviari carichi di armi, dalla base americana di Camp Darby le portano a Vicenza, gli Stati Uniti si preparano ad invadere l’Iraq.
Poi squilla il cellulare. La riunione del mattino, in via Solferino, sta per cominciare: bisogna programmare pagine su pagine, chiedono un contributo di idee. Butto giù qualche banalità, saluto mortificato. Per vanità, ogni giornalista vorrebbe sempre seguire il fatto del giorno: stavolta, invece, io vorrei solo essere un romano tra i romani.
La giornata scorre grigia. Un po’ il cielo basso, di piombo, un po’ la retorica di quei finti rivoluzionari (uno dei capi era Nicola Fratojanni, adesso onorevole Fratojanni, che è riuscito a portare in Parlamento persino la moglie, Elisabetta Piccolotti): lavoro in coppia con il mio fraterno amico Enrico Fierro, inviato speciale dell’Unità. Che, sebbene sia di origini irpine, come me adora Alberto. Insieme andiamo a sentire i portuali di Livorno: annunciano che rallenteranno, in tutti i modi, i lavori di carico sulle navi yankee. Da Roma, intanto, arriva la notizia che il sindaco Walter Veltroni ha dato ordine di allestire la camera ardente in Campidoglio, nella sala Giulio Cesare. Tra i primi ad arrivare, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accompagnato da sua moglie Franca; dietro, in coda, la processione di un’intera città.
La lettura dei quotidiani, il mattino seguente, fornisce la sensazione battente di una crudele diserzione sentimentale. Non essere lì. Non salutare Alberto. Inaccettabile. Eppure è a Pisa che dobbiamo restare: alle 17, in piazza Sant’Antonio, è prevista una manifestazione. Agenti in tenuta anti-sommossa. Blindati con gli idranti. Però non succede niente. Da Milano chiedono un racconto di 90 righe. Fierro prenota un tavolo alle 22.
Mangiamo ascoltando le notizie dalla tivù: il funerale si svolgerà nella basilica di San Giovanni, Gigi Proietti e Carlo Verdone terranno un discorso. La città è a lutto. Drappi neri alle finestre. Strazianti scritte sui muri. Enrico mi ripete a memoria alcuni brani del film Il Vedovo , in cui Sordi è il commendatore Alberto Nardi, un giovane industriale romano, megalomane, ma con uno scarso senso degli affari; sposato con la ricca Elvira Almiraghi/Franca Valeri, imprenditrice milanese spregiudicata e di successo che, tra ironia e rassegnazione, lo chiama «Cretinetti».
Nel lungo elenco dei necrologi usciti sul Corriere, struggente, e confuso tra i tanti, c’era anche quello della Valeri. «Ciao, Cretinetti. Milano, 26 febbraio». Ricordiamo altri tre film girati insieme dalla coppia: Il segno di Venere , dove Sordi si esibisce in uno strepitoso duetto con Peppino De Filippo; Piccola Posta, con Sordi che bacchetta le anziane di un ospizio; e Un eroe dei nostri tempi, film erroneamente considerato minore.
La tagliata era squisita, abbiamo già quasi vuotato una bottiglia di rosso, squilla il cellulare: un amico comune ci spiega che il centro di Roma è bloccato; migliaia di romani, in silenzio nella notte, aspettano il loro turno, passo dopo passo, per andare a salutare Alberto.
Enrico mi guarda.
Io guardo Enrico.
Stiamo pensando la stessa cosa.
Enrico, accendendosi una Camel: «Quanto ci vuole?». «Non meno di 3 ore e mezza».«Quindi potremmo essere a Roma intorno alle 4. Giusto?». «Enrì, la macchina che ho affittato è una Ford Focus…». «E noi la mettiamo alla prova, questa Focus».
Partire, un blitz tra passione e riconoscenza, contro il destino con dolcezza: che però comporta l’abbandono del servizio, sia pure per un tempo limitato. Se succede qualcosa, i rispettivi giornali sarebbero scoperti. Si va dalla lettera di richiamo, al licenziamento per giusta causa.
Ma ormai abbiamo deciso. Enrico ordina il conto e due caffè doppi.
Un’ora dopo siamo in autostrada e ragioniamo sui migliori film di Alberto. Dobbiamo aiutarci con le categorie. Il Conte Max e Il Vedovo : leggendari. Una vita difficile , forse il migliore. Ma un centimetro dopo ci sono La Grande Guerra e Tutti a casa, con la commovente scena finale (Sordi che, durante la rivolta di Napoli, il 28 settembre 1943, mitraglia i tedeschi). A Firenze ci fermiamo a fare rifornimento, la Rai sta mandando in onda I magliari, film superbo, sottovalutato. Molti film di Alberto vengono spesso dimenticati: Ladro lui, ladra lei, Lo scapolo, Il seduttore, Fortunella , che fu diretto da Eduardo De Filippo. Alberto ha recitato con tutti i più grandi registi: da Fellini a De Sica, da Monicelli a Risi, da Comencini a Scola, a Rosi, Pietrangeli, Steno, Loy, Magni, Zampa. Riusciva a girare anche 12 film in un anno.
A lungo è stato l’attore più ricco di Cinecittà. Una volta lo intervista Oriana Fallaci e lui la invita alla Casina Valadier, al Pincio. Un caffè per lei, una granita per lui: «Chiariamo subito, madame. Io tirchio non sono. La conosco questa voce che circola. Se volessi, potrei comprarmi il locale. Ma non lo compro perché non mi va. Adesso mi va la granita».
Arriviamo in piazza Venezia alle 3,48 del mattino. Parcheggiamo l’auto sotto l’Ara Coeli e saliamo la scalinata del Campidoglio insieme ad un autista dell’Atac («Ho finito il turno e so’ venuto: Alberto è come un fratello maggiore») e un’infermiera in divisa («Sono sfinita, ma pareva brutto non esserci»). In cima, troviamo Luigi Coldagelli, all’epoca giovane addetto stampa del sindaco. Ci chiede da quale festa stiamo tornando. Gli spieghiamo tutto. Dice che siamo fortunati, hanno dovuto tenere aperta la camera ardente perché il flusso dei visitatori è stato inarrestabile.
Alberto giace al centro della sala. La bara è nascosta, sommersa da fiori e orsacchiotti, sciarpe della Roma, bigliettini. Per un istante, mi torna in mente l’unica volta che l’ho conosciuto. Sul set di uno dei suoi pochi film dimenticabili, Sono un fenomeno paranormale: la produzione reclutò a Paese Sera, dov’ero un cronista ventenne, alcune comparse che avrebbero dovuto interpretare il ruolo dei giornalisti durante una conferenza stampa.
Gli mando un bacio, faccio il segno della Croce — quella volta che Gassman gli chiese se fosse credente, e lui: «Vittò, e che te dico? Nell’incertezza, hai visto mai…» — risaliamo in macchina e, per tornare in Toscana, imbocchiamo l’Aurelia.
Albeggia. Viaggiamo in silenzio. Esausti e soddisfatti. A Cecina accendiamo la radio.
Un’emittente locale ha messo su «Ma ‘ndo Hawaii»: è la celebre colonna sonora del film Polvere di stelle, e anche del nostro viaggio d’amore. Che finisce qui.
Sono certo che Enrico, da qualche parte, l’avrà già raccontato anche ad Alberto.
La mia fuga notturna per Alberto Sordi: Roma, i film e un bacio. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.
Fabrizio Roncone racconta Sordi, storia di una «diserzione sentimentale»: «Quel 25 febbraio 2003 ero a Pisa per il giornale, ma io volevo essere solo un romano tra i romani»
Questa non è la storia di Alberto Sordi. Questa è una storia su Alberto Sordi.
Piccola, molto personale. Conservata, con cura, nel cassetto segreto che ciascuno di noi possiede. Qui al Corriere mi hanno chiesto di aprirlo.
Così devo tornare indietro alla mattina del 25 febbraio 2003. In una camera d’albergo a Pisa, dentro la luce sporca che filtra dalle persiane. Con il portiere che, alle 7.30, bussa, consegna il pacco dei giornali e chiede: «Ha saputo?». No, cosa? «È morto Sordi». Non mi ha nemmeno detto buongiorno. Ma aveva questa urgenza: avvertirmi del lutto nazionale.
Sento una mano afferrarmi le budella. No, Alberto no. A Roma, lo chiamiamo tutti per nome: più che un amico o un mito, un parente stretto. Ripenso a Beniamino Placido che, in occasione del suo settantesimo compleanno, scrisse di come i suoi personaggi cinematografici avessero inciso così tanto sui romani, sulla loro psiche e sul loro linguaggio, che erano ormai i romani a parlare e comportarsi come Sordi, e non il contrario. È morto a 82 anni, poche ore fa. Malato da tempo. Poi una bronchite diventata polmonite. Me lo immagino nella penombra della sua villa di via Druso, le finestre con le serrande sempre abbassate sul panorama delle Terme di Caracalla. Apprendo dalla tivù che già molte persone sostano davanti al portone, in cima alla collinetta. Sarei stato tra loro, abito a poche centinaia di metri, e invece sono qui: il giornale mi ha chiesto di raccontare i no global che bloccano i convogli ferroviari carichi di armi, dalla base americana di Camp Darby le portano a Vicenza, gli Stati Uniti si preparano ad invadere l’Iraq.
Poi squilla il cellulare. La riunione del mattino, in via Solferino, sta per cominciare: bisogna programmare pagine su pagine, chiedono un contributo di idee. Butto giù qualche banalità, saluto mortificato. Per vanità, ogni giornalista vorrebbe sempre seguire il fatto del giorno: stavolta, invece, io vorrei solo essere un romano tra i romani.
La giornata scorre grigia. Un po’ il cielo basso, di piombo, un po’ la retorica di quei finti rivoluzionari (uno dei capi era Nicola Fratojanni, adesso onorevole Fratojanni, che è riuscito a portare in Parlamento persino la moglie, Elisabetta Piccolotti): lavoro in coppia con il mio fraterno amico Enrico Fierro, inviato speciale dell’Unità. Che, sebbene sia di origini irpine, come me adora Alberto. Insieme andiamo a sentire i portuali di Livorno: annunciano che rallenteranno, in tutti i modi, i lavori di carico sulle navi yankee. Da Roma, intanto, arriva la notizia che il sindaco Walter Veltroni ha dato ordine di allestire la camera ardente in Campidoglio, nella sala Giulio Cesare. Tra i primi ad arrivare, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accompagnato da sua moglie Franca; dietro, in coda, la processione di un’intera città.
La lettura dei quotidiani, il mattino seguente, fornisce la sensazione battente di una crudele diserzione sentimentale. Non essere lì. Non salutare Alberto. Inaccettabile. Eppure è a Pisa che dobbiamo restare: alle 17, in piazza Sant’Antonio, è prevista una manifestazione. Agenti in tenuta anti-sommossa. Blindati con gli idranti. Però non succede niente. Da Milano chiedono un racconto di 90 righe. Fierro prenota un tavolo alle 22.
Mangiamo ascoltando le notizie dalla tivù: il funerale si svolgerà nella basilica di San Giovanni, Gigi Proietti e Carlo Verdone terranno un discorso. La città è a lutto. Drappi neri alle finestre. Strazianti scritte sui muri. Enrico mi ripete a memoria alcuni brani del film Il Vedovo , in cui Sordi è il commendatore Alberto Nardi, un giovane industriale romano, megalomane, ma con uno scarso senso degli affari; sposato con la ricca Elvira Almiraghi/Franca Valeri, imprenditrice milanese spregiudicata e di successo che, tra ironia e rassegnazione, lo chiama «Cretinetti». Nel lungo elenco dei necrologi usciti sul Corriere, struggente, e confuso tra i tanti, c’era anche quello della Valeri. «Ciao, Cretinetti. Milano, 26 febbraio». Ricordiamo altri tre film girati insieme dalla coppia: Il segno di Venere , dove Sordi si esibisce in uno strepitoso duetto con Peppino De Filippo; Piccola Posta, con Sordi che bacchetta le anziane di un ospizio; e Un eroe dei nostri tempi, film erroneamente considerato minore.
La tagliata era squisita, abbiamo già quasi vuotato una bottiglia di rosso, squilla il cellulare: un amico comune ci spiega che il centro di Roma è bloccato; migliaia di romani, in silenzio nella notte, aspettano il loro turno, passo dopo passo, per andare a salutare Alberto.
Enrico mi guarda.
Io guardo Enrico.
Stiamo pensando la stessa cosa.
Enrico, accendendosi una Camel: «Quanto ci vuole?». «Non meno di 3 ore e mezza».«Quindi potremmo essere a Roma intorno alle 4. Giusto?». «Enrì, la macchina che ho affittato è una Ford Focus…». «E noi la mettiamo alla prova, questa Focus».
Partire, un blitz tra passione e riconoscenza, contro il destino con dolcezza: che però comporta l’abbandono del servizio, sia pure per un tempo limitato. Se succede qualcosa, i rispettivi giornali sarebbero scoperti. Si va dalla lettera di richiamo, al licenziamento per giusta causa.
Ma ormai abbiamo deciso. Enrico ordina il conto e due caffè doppi.
Un’ora dopo siamo in autostrada e ragioniamo sui migliori film di Alberto. Dobbiamo aiutarci con le categorie. Il Conte Max e Il Vedovo : leggendari. Una vita difficile , forse il migliore. Ma un centimetro dopo ci sono La Grande Guerra e Tutti a casa, con la commovente scena finale (Sordi che, durante la rivolta di Napoli, il 28 settembre 1943, mitraglia i tedeschi). A Firenze ci fermiamo a fare rifornimento, la Rai sta mandando in onda I magliari, film superbo, sottovalutato. Molti film di Alberto vengono spesso dimenticati: Ladro lui, ladra lei, Lo scapolo, Il seduttore, Fortunella , che fu diretto da Eduardo De Filippo. Alberto ha recitato con tutti i più grandi registi: da Fellini a De Sica, da Monicelli a Risi, da Comencini a Scola, a Rosi, Pietrangeli, Steno, Loy, Magni, Zampa. Riusciva a girare anche 12 film in un anno. A lungo è stato l’attore più ricco di Cinecittà. Una volta lo intervista Oriana Fallaci e lui la invita alla Casina Valadier, al Pincio. Un caffè per lei, una granita per lui: «Chiariamo subito, madame. Io tirchio non sono. La conosco questa voce che circola. Se volessi, potrei comprarmi il locale. Ma non lo compro perché non mi va. Adesso mi va la granita».
Arriviamo in piazza Venezia alle 3,48 del mattino. Parcheggiamo l’auto sotto l’Ara Coeli e saliamo la scalinata del Campidoglio insieme ad un autista dell’Atac («Ho finito il turno e so’ venuto: Alberto è come un fratello maggiore») e un’infermiera in divisa («Sono sfinita, ma pareva brutto non esserci»). In cima, troviamo Luigi Coldagelli, all’epoca giovane addetto stampa del sindaco. Ci chiede da quale festa stiamo tornando. Gli spieghiamo tutto. Dice che siamo fortunati, hanno dovuto tenere aperta la camera ardente perché il flusso dei visitatori è stato inarrestabile.
Alberto giace al centro della sala. La bara è nascosta, sommersa da fiori e orsacchiotti, sciarpe della Roma, bigliettini. Per un istante, mi torna in mente l’unica volta che l’ho conosciuto. Sul set di uno dei suoi pochi film dimenticabili, Sono un fenomeno paranormale: la produzione reclutò a Paese Sera, dov’ero un cronista ventenne, alcune comparse che avrebbero dovuto interpretare il ruolo dei giornalisti durante una conferenza stampa.
Gli mando un bacio, faccio il segno della Croce — quella volta che Gassman gli chiese se fosse credente, e lui: «Vittò, e che te dico? Nell’incertezza, hai visto mai…» — risaliamo in macchina e, per tornare in Toscana, imbocchiamo l’Aurelia.
Albeggia. Viaggiamo in silenzio. Esausti e soddisfatti. A Cecina accendiamo la radio. Un’emittente locale ha messo su «Ma ‘ndo Hawaii»: è la celebre colonna sonora del film Polvere di stelle, e anche del nostro viaggio d’amore. Che finisce qui.
Sono certo che Enrico, da qualche parte, l’avrà già raccontato anche ad Alberto.
“Sor Marchese, è l’ora”: un secolo di Alberto Sordi. Manuel Fondato su Culturaidentita.it il 15 Giugno 2022
Oggi avrebbe compito 102 anni: il 15 giugno 1900 nasce a Roma Alberto Sordi, fra i protagonisti della commedia all’italiana. Fra i suoi film più riusciti “La grande guerra”, di Mario Monicelli, ”Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?“ di Ettore Scola, “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy e “Lo scopone scientifico” di Luigi Comencini. Fra le sue migliori interpretazioni quella in “Un borghese piccolo piccolo” e “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli. Nel 1995 ottiene al Festival di Venezia il Leone d’oro alla carriera. Muore nella sua villa di Caracalla nella notte tra il 24 e il 25 febbraio 2003: Roma, la sua adorata città e l’Italia intera diranno addio all’attore e regista con un abbraccio di massa, 500mila persone alla camera ardente in Campidoglio, 250mila al funerale a San Giovanni in Laterano. Per tributare il grande attore vi proponiamo il pezzo che il nostro Manuel Fondato ha scritto in occasione del centesimo anniversario della nascita (Redazione).
Sono passati 100 anni dalla nascita di Alberto Sordi (nacque a Roma il 15 giugno 1920) e un po’ si sentono: l’Italia in cui visse e che i suoi film hanno descritto meglio di un manuale di sociologia non esiste più.
Fu sublime in ruoli drammatici come il tenente Innocenzi in Tutti a casa di Luigi Comencini, Giuseppe Di Noi in Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy o Pietro Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo di Monicelli. Nemmeno il coraggio e la perseveranza gli mancavano.
Il suo cammino verso il successo fu lastricato di delusioni e incomprensioni, fino a che non pescò il jolly nel 1937, ancora minorenne, in un provino alla Metro Goldwin Mayer che aveva bandito un concorso per trovare la voce italiana dell’attore Oliver Hardy, in arte Ollio. Il resto fu finalmente in discesa, negli anni’50 e ’60, dove risiede la crème della sua filmografia. Capolavori come Un americano a Roma di Steno, La Grande Guerra di Monicelli, insieme a Vittorio Gassman e Silvana Mangano, I Vitelloni del suo fraterno amico Federico Fellini, Il vedovo di Dino Risi, resteranno pietre miliari del nostro cinema, assieme ad altri ruoli cult del decennio successivo come l’Otello Celletti de Il Vigile, il dottor Guido Tersilli del feroce Il medico della mutua o lo stracciarolo Peppino che ne Lo scopone scientifico, sempre di Comencini, ogni anno sogna di arricchirsi battendo a carte la ricca e avida Bette Davis, in coppia con la moglie Antonia, interpretata da Silvana Mangano.
A partire dal 1966 diventò lui stesso regista dei suoi film, con esiti in chiaroscuro: a pellicole riuscite come Polvere di stelle in coppia con Monica Vitti o Finchè c’è guerra c’è speranza, dove è Pietro Chiocca, un cinico venditore di armi nei paesi africani, alternò altre meno belle come il cripto-misogino Io e Caterina.
Negli anni’80 la sua interpretazione migliore fu senza dubbio quella ne Il marchese Del Grillo. Divertenti i due film in coppia con il designato erede Carlo Verdone In viaggio con papà e Troppo forte, anche se a posteriori Verdone dichiarò di non aver apprezzato il taglio che Albertone diede all’avvocato Giangiacomo Pignacorelli In Selci.
Snobbato da pubblico e critica è stato invece quello che l’attore considerava il proprio testamento spirituale: il malinconico Nestore l’ultima corsa del 1994. L’attore si è identificò nel protagonista, il vetturino Gaetano Bernardini, costretto a separarsi dal cavallo Nestore destinato al mattatoio, metafora di un cinema che stava cambiando e andando incontro a un’involuzione negli interpreti e nelle trame.
Albertone morì la sera del 24 febbraio 2003 all’età di 82 anni, nella sua casa. Quanto fosse una parte fondamentale di Roma lo dimostrarono i suoi 250 mila concittadini che, dopo averlo omaggiato in Campidoglio, parteciparono il 27 febbraio ai funerali solenni nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Sordi riposa nella tomba di famiglia, presso il cimitero monumentale del Verano. Sulla lapide c’è scritto: “Sor Marchese, è l’ora”.
· 19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.
Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” il 28 luglio 2022.
È una tarda mattinata quella in cui Sandro Luporini mi riceve avvolto nella sua vestaglia color amaranto. Artista e memorabile scrittore dei testi di Giorgio Gaber, vive i suoi 92 anni alla periferia di Viareggio, in un complesso di palazzine immerse nella quiete. Dalla finestra si intravede un lembo di pineta. La stanza è ampia e disordinata. Sembra di essere piombati nello spazio di un fantasioso rigattiere.
Ammonticchiati da un lato si vedono una chitarra, una vecchia macchina da scrivere, un imponente ventilatore, armadi a vetro pieni di carte e di libri, delle scarpe appese, qualche lampada e naturalmente quadri, che fanno parte della sua storia. Sediamo su due sedie di solido legno scuro ,che un tempo arredavano immagino stravaganti tinelli, in mezzo un tavolino su cui poggia il gioco di una dama con una partita ancora in corso. Gli chiedo se lo preferisce agli scacchi.
Mi risponde che nella dama tutto è più semplice, meno arzigogolato. Ma agli scacchi ha giocato a lungo: «Passavamo interi pomeriggi con Gianfranco Ferroni a muovere pedoni e i pezzi importanti.
Avevamo accanto alla scacchiera l'orologio da premere dopo ogni mossa. Sembravamo due autorevoli giocatori. Ma la verità è che preferivamo le bocce e il bridge».
Dove eravate?
«A Milano, è lì che ci siamo conosciuti. Ci siamo annusati come artisti e frequentati per poi diventare amici. Gianfranco non era un tipo facile. Ma se entravi nelle sue grazie non c'era cosa che non avrebbe fatto per te».
In che anni vi siete frequentati?
«La seconda metà degli anni cinquanta. Facevamo parte della Galleria Bergamini. Ferroni era la punta di un movimento che si chiamava "realismo esistenziale". Niente a che vedere con le teorie di Sartre e le Cave dove Boris Vian suonava la tromba e la Greco di nero fasciata illanguidiva sulle note di Les feulles morte, quella roba rifatta da noi rischiava di essere caricatura».
E voi che cosa volevate progettare?
«Abbiamo rimosso tutta la roba intimista e dolente e ci siamo chiesti che cos' è che conta per un artista? Abbiamo capito che la cosa importante è come vedi quello che c'è fuori. Il mondo è molto più ricco di quello che ti porti dentro. Questo abbiamo pensato cercando di realizzarlo con i nostri quadri.
Ricordo che un discorso analogo feci a Giorgio Gaber e lui che allora leggeva poco e poco sapeva di arte mi ascoltò con curiosità. Non era la prima volta che ci vedevamo. C'eravamo già incrociati al Bar Sempione di via Procaccini, dove abitavo e la casa di Giorgio non era distante. Poi arrivò quel pomeriggio, mi vide in Galleria ed entrò. Fu in quel momento che ebbe inizio il nostro rapporto. Sto parlando dei primi anni Sessanta».
Tu sapevi che era un cantante?
«Sapevo che suonava. Un giorno si presentò in galleria con la chitarra e strimpellò un po' di note accompagnandole con la voce. Gli dissi mica male, Giorgio. E lui, molto timidamente, mi ringraziò e poi disse che gli sarebbe piaciuto dar vita a un progetto comune».
Quale?
«Voleva che lo aiutassi a scrivere i testi per la sua musica. E lì compresi la prima cosa che Gaber possedeva: una grande modestia. Credeva fermamente nel suo lavoro di musicista, ma conosceva perfettamente i suoi limiti letterari. Ha impiegato anni prima di sentirsi su quel piano meno insicuro».
Ma tu non avevi mai scritto testi per canzoni?
«La mia prima reazione fu appunto di dirgli no. Poi ha prevalso la curiosità. Con Ferroni provammo a buttare giù qualcosa, decisamente troppo cupa, un po' come i quadri "esistenzialisti" che dipingevamo.
Alla fine riuscii a dargli un testo compiuto con un titolo bizzarro: Suono di una corda spezzata. Giorgio lo musicò e divenne il retro del 45 giri che conteneva La ballata del Cerutti. Era il 1961. Quella canzone piacque solo a noi due, ma fu l'inizio di una collaborazione durata mezzo secolo».
Ti sei sempre sentito in sintonia con Gaber?
«Di screzi ce ne sono stati pochi. Discutevamo tantissimo. A casa, in osteria, in albergo. Lui adorava vivere in albergo. Potevamo passare ore attorno a un tavolo cercando di mettere a fuoco che cosa volevamo dire con una canzone. Eravamo il cantante e il pittore, due dilettanti - diceva Giorgio - un po' speciali».
Quando hai capito che anche il rapporto con lui era speciale?
«Beh, quando all'inizio degli anni Settanta abbiamo pensato che scrivere canzoni fosse un'occasione per fare teatro».
La conferma vi arrivò con "Il signor G"?
«Un po' prima. Negli anni in cui cominciò a fare televisione, Gaber scoprì la sua vocazione recitante. Fu in virtù del bellissimo rapporto professionale con Mina che riuscì a tirare fuori le doti di intrattenitore a volte ironico e altre caustico. "Il signor G" che doveva essere all'inizio una canzone divenne un vero e proprio spettacolo. E fu grazie a Paolo Grassi, allora direttore del Piccolo di Milano, che lo spettacolo un po' alla volta decollò».
Ma chi era questo "Signor G"?
«L'iniziale farebbe pensare proprio a Gaber. In realtà era il piccolo borghese che cercava di scrollarsi di dosso la patina di conformismo. La storia di un uomo insignificante che, in un periodo di cambiamento sociale, cerca di rispondere ai primi dubbi che gli vengono su di sé».
Volevate farne un rivoluzionario?
«Ma no, la sua presa di coscienza non aveva niente di ideologico. Vedevamo anche i limiti di quei tentativi di cambiamento. Infatti, subito dopo realizzammo Dialogo tra un impegnato e non so e l'anno successivo, 1973-74, Far finta di essere sani. Fino alla stagione 1974-75 quando realizzammo Anche per oggi non si vola, dove era abbastanza chiaro che il desiderio di cambiamento era naufragato nel velleitarismo».
Prendeste la politica dalle corna per abbatterla?
«Non ci credevamo più, la stagione si stava concludendo nella violenza e nel fumo del settarismo. Io non avevo rinunciato alla mia piccola dose di utopia, ma non si adattava a quel clima. Per me e Giorgio la politica era parlare di vita, provare a raccontare quello che ci portavamo dentro. In polemica con una certa cultura dominante».
Ma era una cultura di sinistra quella che allora dominava.
«Sai, ho sempre avuto un atteggiamento un po' anarcoide, diciamo pure da irregolare. Al Capitale di Marx che pure ho leggiucchiato preferivo Viaggio al termine della notte. Dicono: Céline era un fascistone, antisemita. D'accordo, e non sarò io a giustificarlo.
Ma quel libro a me ha cambiato la vita».
Cosa vuol dire?
«È quando cominci a respirare insieme allo stile del romanzo, che arrivi a comprendere come certe parole diventano qualcosa di vitale. Mi fai venire in mente che, a proposito dello spettacolo Polli di allevamento, scrissi una canzone La festa che prende spunto proprio da Céline, quando dice che gli uomini riescono a dare il peggio di sé durante i giorni di festa.
Non sanno che farsene del tempo libero, lo usano in maniera convenzionale, meccanica. Il tempo libero è il modo con cui la società del consumo mette noi in catene».
A proposito di tempo libero, trovavi il modo di continuare a dipingere?
«Non ho mai smesso. L'ho fatto durante i vent' anni in cui ero a Milano e ho continuato quando sono tornato a Viareggio».
Perché andasti via?
«Me ne andai perché era finito un periodo. Milano era ormai l'esaltazione del superfluo, una città modaiola e di faccendieri divisi tra politica e finanza. Feci la mia scelta. Quanto alla pittura passai insieme ad altri artisti - Bartolini, Biagi, Ferroni, Mannocci, per fare dei nomi - dal realismo esistenziale alla Metacosa. Aggiornai così il mio linguaggio in un tentativo di confronto con le esperienze artistiche americane».
Dipingi ancora?
«Ho continuato a farlo fino a sette, otto anni fa. A un certo punto mi sono accorto che quello che volevo dire con la pittura l'avevo detto. Gli ultimi miei quadri sono delle mareggiate, ne ho realizzate diverse. Mi sembrava di dipingere a memoria. E allora ho messo un punto. Il bello della pittura è di non sapere dove vai a parare. E non mi divertivo più sapendo perfettamente in anticipo cosa avrei realizzato».
Hai anche continuato a scrivere di teatro dopo la scomparsa di Gaber?
«Sì l'ho fatto, mi pareva che avessi ancora qualcosa da dire».
Come sono stati gli ultimi anni della collaborazione con Gaber?
«Immagino che ti riferisca al periodo della malattia. Sono stati anni intensi, anche se mi pare nel 2002 Giorgio aveva smesso di sperare di tornare sul palcoscenico».
Te lo disse?
«No, ma lo capii dalla sua stanchezza, dal riserbo. Quasi una forma di rassegnazione. Almeno così io ho vissuto quei momenti. Sai, durante quel periodo non nominammo mai la sua malattia. La parola "cancro".
E non c'entra niente se eravamo più o meno intimi in quel momento. Era una forma di pudore. Se le parole non spiegano il mistero della vita e della morte, allora meglio tacere. Continuammo a vederci con regolarità. Ma ogni nostro incontro apparentemente pieno di progetti, in realtà era una recita. Facevamo finta di lavorare».
Lui ne era consapevole?
«Lo eravamo entrambi. Anche se qualcosa provammo ad allestire. Immaginammo uno spettacolo dal titolo emblematico Io non mi sento italiano. Fu quello l'ultimo disco. Ricordo che allestimmo un camion con tutte le attrezzature davanti alla sua casa di Montemagno. Giorgio cantò Se ci fosse un uomo. Non ce la faceva a stare in piedi per lungo tempo. Cantò dalla poltrona. Era seduto e la voce nel microfono mascherava la sofferenza.
Quella fu l'ultima canzone di Gaber che ascoltai».
Cosa immaginavate con "Se ci fosse un uomo"?
«Non lo so, sono passati tanti anni e certe volte le risposte si rivestono degli interrogativi del momento. Eravamo entrati baldanzosi nel nuovo millennio. Ma l'Occidente era ancora traumatizzato dal crollo delle "Due torri".
Avemmo la sensazione che gli uomini fossero stati sostituiti dagli eserciti, dal fanatismo, da entità strane come la mega-finanza o da quelle nuove strutture, allora nascenti, che tengono interconnesso il mondo. Non ci piaceva quello che sfilava sotto il nostro naso. E, con qualche ingenuità, cominciammo a pensare a un nuovo umanesimo, un nuovo modo di stare insieme. Un abbaglio? Forse. Ma ci piaceva pensare che da una nuova terra sconosciuta ci fosse di nuovo l'uomo al centro della vita».
Hai smesso di pensarlo?
«Ho smesso di pensare a un sacco di cose. Alla fine tutto quello che è sguardo sull'orizzonte si chiude o si concentra su un punto.
La vecchiaia è anche un modo di riportare lo splendore dell'aperto, quando tutte le possibilità esistono, al lumicino di ciò che resta. Non mi lamento. Ero bello e ho perfino fatto l'attore. Ero forte e sportivo e ho giocato per anni ai massimi livelli del basket. Mio padre pittore mi ha trasmesso il dono del dipingere. Giorgio mi ha dato l'opportunità di aprire un lungo e splendido capitolo delle nostre vite».
Splendido quanto?
«Nella misura straordinaria di qualcosa che si è tradotta in un'amicizia vera. Grazie alla quale nessuno dei due ha fatto ombra all'altro. Nessuna gelosia o invidia ha oscurato il nostro territorio comune. Non accade spesso. Ma quando succede anche un non credente come me può gridare al miracolo»
"Col Teatro canzone Gaber è stato la bandiera (unica) di un altro "68". Eleonora Barbieri il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.
Lo studioso analizza testi, spettacoli e pubblico degli anni '70: "Una boccata d'aria per molti"
L'approccio di Fabio Barbero, insegnante di italiano a Parigi, è quello dello studioso, interessato a «leggere i testi»: al tema che è poi diventato il suo approfonditissimo libro, Giorgio Gaber, Sandro Luporini e la generazione del '68 (Arcana, pagg. 432, euro 22) ha dedicato infatti la sua tesi di dottorato in Letteratura italiana alla Sorbona. «In Francia c'è più attenzione che in Italia a certe figure come Fo, Gaber e i cantautori... Questo primo volume è sugli anni '70, poi vorrei farne altri due, sugli anni '80 e '90».
Partiamo dal Teatro canzone di Gaber che, dice, non solo fa pensare, ma è esso stesso «pensiero in note, gesti, ritmo, luci e parole».
«Innanzitutto, in Italia lo hanno inventato Gaber e Luporini: lo stesso Gaber, quando gli chiedevano se ci fossero altri che facessero il suo mestiere, rispondeva di no. Era un po' unico, quello che faceva».
Perché?
«Ci voleva un'epoca, gli anni '70, in cui potesse nascere, con un pubblico che andasse a vedere e ad ascoltare spettacoli non solo per divertirsi ma, anche, per pensare; e ci voleva qualcuno che accomunasse, in un unico artista, una capacità di cantare molto bene e una verve attoriale notevole».
Che tipo di teatro era?
«Una forma che Gaber non chiamò mai politica, bensì di comunicazione: qualcuno va sul palco per due ore, da solo, con la chitarra o le basi musicali e riesce a intrattenere e allo stesso tempo far pensare su temi dei quali la gente si sente partecipe. In questo contesto, l'apparato teatrale aiuta ad amplificare l'emozione, ma la dimensione della parola è quella principale».
Gaber dice di scrivere «per i ragazzi del '68».
«All'inizio no ma, piano piano, con lo spettacolo Far finta di essere sani, del '73-'74, c'è un incontro con questi ragazzi, che sono la maggior parte del suo pubblico».
Che cosa trovavano?
«Chi aveva idee dure e pure, per cui solo la dimensione ideologica era importante, aveva difficoltà ad andare a vedere Gaber; ma nel Movimento c'era di tutto, e in lui i ragazzi trovavano uno che non parlava solo di questioni ideologiche ma anche personali, che i ragazzi stessi vivevano. E c'era anche un'ironia forte sul Movimento stesso, i suoi miti, il ruolo del leader, l'idea di essere i migliori... Lo sentivano uno di loro, però anomalo, perché molto critico; del resto lui stesso si prendeva in giro. Faccio spesso il paragone con Fo».
Ecco, com'era il rapporto con Fo?
«Negli anni '80, Gaber dice scherzosamente: ricordo i pomeriggi interi a parlare, in cui Fo mi faceva una testa così e cercava di convincermi a fare diversamente... Però si conoscevano dagli anni '60, Gaber doveva la sua formazione attoriale a Fo. C'erano amicizia e stima».
Però c'era una contrapposizione nell'idea di teatro?
«È Gaber che lo dice: l'idea di poter dare un messaggio dall'alto di un palco, che è una forma di potere, non corrisponde al suo essere, al suo temperamento e alla sua mente. Lui dice: non ho certezze, ho dubbi. Quelli di Fo erano spettacoli, ma anche comizi. Il suo era un teatro di intervento, quello di Gaber ha un altro taglio».
Più individualista?
«No, perché lui stesso rifiutava questa definizione. Direi dubbioso, e allergico a tutto ciò che era un maître à penser, un maestro che pensa per gli altri. Diceva: se mi dicono che sono un rompicoglioni, mi fa piacere. Però non esisterebbe il Gaber personaggio pubblico fra gli anni '70 e il 2002, senza Sandro Luporini».
Che scriveva i testi, dopo lunghe chiacchierate.
«In estate, quando Gaber finiva la tournée, si incontravano, parlavano e individuavano i temi per lo spettacolo successivo, a partire da quel brusio che Gaber aveva ascoltato. Luporini era schivo, si isolava, leggeva Céline, Stirner, Sartre, Pasolini, mentre Gaber preferiva i saggi, anche il Pasolini saggista».
Luporini scriveva e poi?
«Poi Gaber aveva l'occhio del teatrante, tagliava, sforbiciava, rielaborava musicalmente. Leggendo i testi si vede questo incontro unico».
Gaber è stato «la bandiera di un altro '68»?
«È Nanni Ricordi, vicino alla sinistra, a dirlo, paragonandolo a Fo. È la bandiera di chi non ha bandiere da sventolare, di chi è alle strette in certi discorsi troppo ideologici che, poi, diventeranno violenti. Gaber è attento alle persone, non solo alla lotta di classe, e porta sul palco dinamiche delle quali, nei gruppi militanti, non si può parlare. E lo fa in modo ironico e divertente: una boccata d'aria per tanti».
Racconta anche la fine dell'avventura?
«Sì, in Libertà obbligatoria e Polli d'allevamento, gli ultimi due spettacoli del decennio. Polli d'allevamento è uno spettacolo duro in un periodo difficile e, per me, è l'icona di come Gaber fosse impossibile da intrappolare».
La relazione lunga 40 anni. Giorgio Gaber e l’amore con la moglie Ombretta Colli: “Al primo appuntamento il Signor G dimenticò il portafoglio”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Gennaio 2022.
Giorgio Gaber e Ombretta Colli si sono conosciuti in un pomeriggio di lavoro. L’inizio di un amore durato quarant’anni tra canzoni, teatro, televisione e politica. Gaber avrebbe compiuto oggi 83 anni. Google lo ha celebrato con un doodle personalizzato. Gaberscik, nato in via Londononio 28 a Milano, diploma da ragioniere, chitarrista nonostante la mano sinistra indebolita dalla poliomelite, è stato uno dei cantautori più influenti e celebrati della musica italiana.
“Tutta la mia carriera nasce da questa malattia”, raccontò in seguito. I primi successi degli anni ’60, con la ballata Non arrossire. Quindi quattro partecipazioni al Festival di Sanremo, la televisione, l’impegno sociale con Com’è bella la città, il teatro. Si è distinto da tutti gli altri grandi della canzone proprio per il teatro canzone: una forma che fondeva la musica, la poesia e il teatro. È morto il primo gennaio 2003, poco prima di compiere 64 anni a causa di un tumore ai polmoni. Solo la morte lo ha diviso dal suo grande amore, Ombretta Colli. Cantante, attrice e politica: eletta Presidente della provincia di Milano, assessore regionale, senatrice ed europarlamentare. Lei di Genova, lui di Milano. Una relazione raccontata appena, sempre con parsimonia, molto intima almeno fino alla pubblicazione di Chiedimi chi era Gaber, un memoir che ha raccontato il sodalizio amoroso e artistico della coppia.
Si era incontrati per la foto di copertina di Benzina e cerini, nel 1961. Lei aveva 18 anni ed era arrivata seconda a Miss Italia dietro Stefania Sandrelli. Lui aveva 22 anni ed era uno degli astri nascenti della musica italiana. “Studiavo. E per guadagnare qualcosa facevo la modella. Fui chiamata precipitosamente per delle pose che riguardavano la copertina di un disco in sostituzione di una collega indisposta. Dovevo posare con Giorgio, già allora piuttosto famoso, ma molto nervoso e molto poco disponibile. Già allora certe incombenze professionali lo disturbavano. Fu un approccio tutt’altro che facile e non riuscivamo a trovare feeling. Suggerii un bacio per l’immagine di copertina. La tensione si allentò, ma ci congedammo molto professionalmente convinti che mai più ci saremmo rincontrati”, ha raccontato Colli a Il Corriere della Sera.
Nessun colpo di fulmine allora. Qualche tempo dopo i due si incrociarono di nuovo a una festa mondana a Roma. “Quando mi accorsi della presenza di Giorgio tra gli ospiti, non potei fare a meno di chiedermi cosa ci facesse un uomo come lui in un ambiente simile”, ha raccontato lei. Chiacchierarono un po’ ma non si scambiarono i numeri di telefono. Alle 3 del mattino il telefono nella stanza di Ombretta squillò: era Giorgio Gaber che aveva telefonato a tutti gli alberghi di Roma per trovarla. Lei era allo steso tempo disturbata, ammirata, intrigata.
Al primo appuntamento a cena lui dimenticò il portafoglio. Il matrimonio nel 1965, dopo un solo anno di fidanzamento, nell’abbazia di Chiaravalle. La figlia Dalia nel 1969. Lei passa al cinema e alle canzoni – la sua Facciamo finta che … è diventata colonna sonora della pandemia in Spagna. Lui si consolida come cantautore e protagonista della televisione fino al rifiuto del piccolo schermo e all’esplosione del “teatro canzone”. I momenti difficili: proprio il passaggio al teatro canzone per lui, la discesa in politica per lei. “Molti amici di sinistra non mi perdonavano la scelta di Forza Italia e non la perdonavano neppure a Giorgio! Secondo loro avrebbe dovuto lasciarmi per questo”. La minaccia, nel 1973, del rapimento della figlia: con una trappola della polizia i malviventi vennero catturati. Colli la femminista, seguiva un decalogo di regole per “non farsi mai fotografare con i figli”, “indossare abiti appariscenti e provocatori”, “essere a favore del divorzio”, “contraria alla maternità”, “affermare di essere disposta a sacrificare la famiglia per la carriera”.
Così Colli ha raccontato nel suo libro la relazione con il marito: “Credo che alla fine la nostra sia stata per il pubblico una coppia, se non eternamente felice, quantomeno solida. E in effetti è stato così. Abbiamo attraversato le gioie e i dolori di una coppia normale. (..) Certo quando ci sono l’innamoramento, l’attrazione e il desiderio tutto è più facile, ma non è tutto. È inutile tentare di scappare dalla sofferenza con i colpi di testa, le sbandate e i piccoli o grandi tradimenti. È soprattutto lì che si cresce, che si diventa adulti. Sì, con Giorgio abbiamo costruito qualcosa di solido, di cui essere orgogliosi. L’abbiamo capito e davvero realizzato il giorno in cui Dalia ci ha comunicato che aspettava un bambino”. Gaber è morto nella loro casa di Camaiore, La Padula, tra la campagna e il mare.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· 18 anni dalla morte di Ray Charles.
Braille, solitudine e dipendenza: il soul di Ray Charles che illumina le tenebre. Vittorio Vaccaro il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La storia di Ray Charles, rimasto cieco da bambino, con una vita costellata di abbandoni, lutti e dipendenze. La forza interiore l'ha fatto diventare un mito della soul music.
Il 23 settembre del 1930 in Georgia nasce il mitico Ray Charles.
È un bambino vivace e molto intelligente ma con la "sfortuna" di essere nato nero, come dice lui stesso, e in una famiglia povera, in un periodo storico in cui il colore della pelle determina la libertà.
Il padre abbandona la famiglia subito dopo la sua nascita e la madre è costretta a sgobbare in una piantagione di tabacco per assicurare un futuro decente ai figli.
A soli tre anni il signor Pitman, proprietario di un jazz cafè, il Red Wing Cafè, dove Ray trascorre lunghe giornate ascoltando boogie e jazz, lo fa sedere sullo sgabello di un pianoforte ed è l’inizio di una straordinaria carriera.
La vita però non è molto clemente con lui: a soli cinque anni muore il fratellino, annegato in una vasca del bucato proprio davanti ai suoi occhi, e a sette anni perde totalmente l’uso della vista. Resta solo con la madre, una donna forte e determinata che non si arrende, anzi, lotta con tutte le forze per dare un futuro a Ray.
Riesce a iscriverlo a una scuola per sordi e ciechi aperta agli studenti di colore. Ray impara a leggere e scrivere in braille, a suonare la tromba e il sassofono e nasce un amore assoluto per il jazz e il blues.
Nel 1945 un altro colpo pesante mina la sua serenità: muore la madre e resta completamente solo. Ray ha soli quindici anni. Decide di iniziare a viaggiare, da Jacksonville a Tampa, da Seattle a Los Angeles. Vive di povertà e di musica, ma giorno dopo giorno il suo talento cresce fino al successo.
Nel 1952 firma contratti con le più importanti etichette musicali e nel 1960 vince quattro Grammy Award scalando la vetta di tutte le classifiche, con la canzone "Georgia on My Mind".
Il successo però è accompagnato dalla dipendenza dalla droga, cominciata dopo la morte della madre e accompagnata da svariati arresti. Ray è un uomo forte e così decide di disintossicarsi presso una clinica di Los Angeles e nel 1980 è uno degli attori della fortunata pellicola "The Blues Brothers".
Il mito Charles è più vivo che mai. Con il suo soul e la sua musica, ha sconfitto le tenebre della sua vita. Il ragazzino solo, cieco e nero resta per sempre nella storia musicale di tutti i tempi. Una frase celebre di Ray è:
Cos’è il soul? È come l’elettricità. Non sappiamo cosa sia, ma ha tanta energia da illuminare una stanza.
Anche questa volta abbiamo conosciuto la vita di chi, considerato da ragazzo lo "scemo del villaggio", da grande è diventato "genio del mondo". Vittorio Vaccaro
· 16 anni dalla morte di Alida Valli.
La lunga vita di Alida Valli, "diva" istriana che volle morire italiana. Elena Barlozzari l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.
Alida Maria Altenburger, in arte Alida Valli, ha attraversato la grande storia. Nata a Pola nel 1921 non ha mai rinnegato la sua italianità.
Alida Maria Altenburger, Alida Valli o semplicemente "la Valli". Sempre lei. La "guerriera" – come suggerisce l’etimologia del suo nome – con lo sguardo più magnetico che il cinema internazionale ricordi. Tanto cristallino da poterci scorgere un fondale di sabbia e malinconia. Indecifrabile e segreto. È la parte di sé che ha sempre protetto dalla curiosità del mondo con inflessibile ostinazione. Sì perché Alida era anche questo. "Occhioni grandi che sembravano protetti da un’armatura e un sorriso che voleva come tenersi a distanza", dirà di lei Roberto Benigni nel bel documentario di Mimmo Verdesca andato in onda su Rai1 qualche anno fa. La sua vita è stata così piena e sofferta che in quegli occhi puoi leggerci ciò che vuoi.
Alida ha attraversato la storia, non solo quella del cinema. La grande storia. Nelle sue origini c’è una sorta di predestinazione all’irrequietezza, alla fuga, alla perenne ricerca di un luogo da chiamare casa. È nata istriana e italiana a Pola. Era il 1921. Non ha vissuto l’orrore delle foibe e dell’esodo in prima persona. La sua famiglia lasciò l’Istria prima dell’inizio delle persecuzioni anti-italiane, ma l’eco di quelle barbarie lasciò su di lei un segno indelebile. "Non mi sento una privilegiata per essermi risparmiata ciò che è capitato agli istriani alla fine della guerra con l’allontanamento forzato, la confisca dei beni e spesso la morte. Se pur lontana io soffrivo con loro". Tanto che molti anni più tardi rifiuterà con parole di fuoco la cittadinanza onoraria offertale dalla Croazia. "Ho risposto che troppe volte, come la mia città, avevo cambiato pelle ma sono nata e morirò italiana".
Alida non accettava compromessi. Quando il Duce la volle a Salò lei si nascose. Non era più disposta a pagare alcun prezzo nel nome di una ideologia che non aveva mai sentito sua. "Il Duce – dirà anni dopo – non l’ho mai visto neppure dal balcone". La guerra le aveva già portato via il primo grande amore: Carlo Cugnasca. Pilota. Abbattuto in combattimento a Tobruk il 14 aprile 1941. Lei in quei giorni stava girando "uno dei film più dolorosi e belli" della sua carriera, "Piccolo mondo antico" di Mario Soldati. È la sua prima pellicola "impegnata". Veste i panni di Luisa, giovane madre che impazzisce di dolore per l’annegamento della figlia. La finzione si intreccia con la realtà e Alida porta in scena una sofferenza vera: "Piangevo come una vite tagliata durante le riprese, e me la prendevo con me stessa, mi torturavo".
Di quella storia di amore sopravvive una fitta corrispondenza. "Lei scriveva tantissimo e conservava tutto. Gli scambi che mi hanno colpito di più sono quelli con Carlo. Arrivavano a scriversi anche due o tre lettere al giorno. Sono lettere piene di speranza, che parlano di futuro nonostante la guerra", ci racconta Pierpaolo De Mejo, regista e nipote della Valli. Alida ritrova la serenità affettiva accanto al compositore Oscar De Mejo, da cui avrà due figli. È con lui che alla fine della guerra si trasferisce ad Hollywood. È il 1947 e si ritrova a dividere il set con Gregory Peck ne "Il caso Paradine" di Alfred Hitchcock. Entra così nella élite hollywoodiana. Ma i ritmi dell’industria cinematografica con le sue regole ferree dopo qualche anno iniziano ad andarle stretti.
Si sente dentro a una specie di tritacarne e vuole riprendere in mano la sua vita. Decide di rompere il contratto con la sua casa di produzione. Emblematico il finale de "Il terzo uomo" di Carol Reed, con lei che esce di scena dopo aver attraversato un lungo viale alberato. "Volevo riprendermi la mia liberà". Il prezzo da pagare è una penale da 150mila dollari. Il ritorno in Italia non è definitivo. Alida continua a inseguire qualcosa. Lo fa spostandoci di città in città. Vestendo panni sempre diversi e spaziando di genere in genere. Affronta grandi ruoli e piccoli camei. Non si ferma mai. "Nonostante fosse ormai un’attrice consumata le piaceva lavorare con registi emergenti come Dario Argento, Marco Tullio Giordana ed i fratelli Bertolucci. Si tirava su le maniche ed era una di loro. Senza spocchia né vezzi", ricorda il nipote.
L’ultima apparizione nel 2002 in "Semana santa" di Pepe Danquart. La Valli ha ormai 82 anni. Ha debuttato ne "Il cappello a tre punte" di Mario Camerini che ne aveva appena 15. "Il tempo non è scivolato su di me, io gli sono andata dietro senza paura. Non importa essere giovani e belli, ma avere qualcosa da dire e i mezzi espressivi per farlo al passo con il presente". Sperimenterà anche il teatro. Riceverà il premio Duse nel 1989, il David alla carriera nel 1991 e il Leone d’oro al Festival di Venezia nel 1997. Ci saranno altri uomini nella sua vita. Mancherà un per sempre. "Ho vissuto troppe storie d’amore nella finzione – dirà – per viverne una mia per sempre".
· 15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.
Tormenti nordici (e 9 figli): vita da Ingmar Bergman, il signore dei cineforum. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.
Il padre severo pastore luterano punitivo nei suoi confronti, le depressioni, i guai fiscali e il ricovero in psichiatria. Michelangelo Antonioni, “introspettivo” come lui, morì il suo stesso giorno.
Difficile spiegare oggi la fascinazione che negli Anni 60 sprigionavano i film del regista svedese Ingmar Bergman, con quei titoli intensamente evocativi, Il posto delle fragole o Il settimo sigillo, che inchiodavano in sala le platee giovanili post belliche. Quello svedese serio e introspettivo era il dominatore di ogni cineforum, la gioia di ogni cinefilo, e la croce e delizia di ogni spettatore aspirante intellettuale che non voleva essere tagliato fuori dal mainstream culturale. Finché un giorno arrivò un outsider strampalato a dire che la decantata Corazzata Potemkin di un altro regista idolatrato, Sergei Eisenstein, era una cavolata pazzesca; e la musica cambiò. Ma Ingmar Bergman continuò la sua cavalcata, spesso anche non lineare, sulla via del successo con titoli come L’immagine allo specchio, Persona, Sussurri e grida, Scene da un matrimonio, arrivando a 9 candidature all’Oscar. E incrociando con le sue complesse e a volte fosche introspezioni lo stesso Michelangelo Antonioni, con un mood che rappresentava non solo i tormenti nordici della sua terra ma anche l’anima del tempo: curioso che i due profeti della difficile comunicabilità siano morti nello stesso giorno, 30 luglio 2007.
Padre padrone
E d’altra parte la strada della flagellazione interiore era quasi obbligata per Ingmar, severamente educato secondo i concetti di «peccato, confessione, punizione, perdono e grazia», dal padre Erik, pastore luterano prima a Uppsala e poi a Stoccolma, e infine cappellano della Corte reale. Grande oratore, Erik, che Ingmar ha però descritto nella sua biografia come persona altamente irritabile: «Noi figli non potevamo fischiare, non potevamo camminare con le mani in tasca. Improvvisamente decideva di provarci una lezione e chi s’impappinava veniva punito. Soffriva molto per il suo udito eccessivamente sensibile, i rumori forti lo esasperavano». Figura paterna controversa (visto che dopo la morte di Ingmar una nipote via esame del Dna ha dimostrato che il regista non era figlio della madre ufficiale, ma di una amante del padre e che era stato scambiato in culla), e che torna più volte, con strana identificazione, nella sua cinematografia: nel Posto delle fragole, molto amato anche da Woody Allen e in Fanny ed Alexander, opera del 1982 per la tv ambientata a Uppsala, con una sessantina di personaggi e al centro un pastore protestante elegante e perfido: capolavoro con elementi fortemente autobiografici, come ha scritto il critico del Corriere Giovanni Grazzini nel 1983. «Un riassunto di 40 anni di cinema».
La sua macerazione interiore ha portato Ingmar a lunghi periodi di depressione e, in un momento di crisi più forte, conseguente a una indagine per frode fiscale, anche a un ricovero nel reparto psichiatrico dell’ Istituto Karolinska a Stoccolma. Offeso con il suo Paese per i problemi fiscali, è stato per un periodo girovago in Europa, per poi tornare nell’amata isola di Fårö. Tutto ciò non gli impedì di avere 5 mogli (innamorandosi nel frattempo di tutte le sue attrici feticcio, da Liv Ullmann ad Harriet Andersson da Bibi Andersson a Ingrid Thulin), e 9 figli, e di essere così prolifico al cinema in teatro e in tv, per mantenerli.
«Searching for Ingmar Bergman», un documentario per riscoprire il regista a 360 gradi. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.
Su Sky Arte e on demand vale la pena di recuperare anche altri due titoli: uno dedicato a Frank Capra e l’altro ad Alfred Hitchcock.
Cercate, su Sky Arte e On demand, dove arriva la prima volta, un prezioso documentario su Ingmar Bergman diretto dalla collega e amica Margarethe Von Trotta, «Searching for Ingmar Bergman» che potremmo chiamare alla ricerca del Bergman perduto. Il famoso regista svedese, nato il 14 luglio a Uppsala e morto il 30 luglio 2007, poche ore prima di Antonioni, nella “sua” isola di Faro, nell’arcipelago svedese dove si era rifugiato sia per la natura misantropa sia perché aveva avuto un ingiusto trattamento dal Ministero delle Finanze svedese a proposito di tasse.
Cinefili o non, gustate questo documento, ricco di scene inedite, di osservazioni personali, di momenti magici dell’autore di capolavori come “Fanny e Alexander”, “Il posto delle fragole” e “Il settimo sigillo”, ed è proprio sulla partita a scacchi di Von Sidow con la morte che il film del 2007 ha inizio. Si parla di Bergman a 360 gradi, dell’arte come terapia di vita, delle sue molte mogli e fidanzate (la situazione vista da una donna), di quella famiglia così allargata che ai suoi funerali riempì la piccola cappella dell’isola. La Von Trotta era molto lusingata che il regista svedese avesse inserito il suo “Anni di piombo” tra i film della sua vita, così come per lei “Il settimo sigillo”, visto a Parigi, era stato il contatto con un modo diverso di far cinema.
Presentato a Cannes, il documentario, girato per il centenario della nascita del grande e visionario autore, è davvero molto interessante per le riprese dei film in cui si vede Bergman all’opera sul set, specie coi bambini (“Fanny e Alexander”). “In me ci sono molte donne” disse Ingmar e ora un’altra donna ed anche regista cerca di interpretarlo, da amica, dando largo spazio a interviste con persone vicine al regista, dalla sua amatissima prim’attrice Liv Ulmann, che dirigerà a sua volta un film molto “bergmaniano”, allo sceneggiatore di Bunuel Jean Claude Carrière, parlando del suo genio ma anche del trascorrere del Tempo e dell’avvicinarsi della morte. Tra gli intervistati anche uno dei figli e il regista Olivier Assayas che afferma come il cinema di questo autore unico nasca proprio dal suo generoso e geniale inconscio.
Molto ambientato nella sua isola (dove l’anno scorso è stato girato anche un altro film intitolato “L’isola di Bergman”), il film della von Trotta svela incredibili fonti di ispirazione (“Dallas”), racconta della rivalità del vecchio Ingmar col giovane Bo Widerberg, il che portò addirittura allo scontro tra due scuole di cinema e di pensiero cinematografico. E poi naturalmente il potere e l’amore per la scena: Bergman sarebbe stato, se vissuto un secolo prima, un drammaturgo come il suo amato Strindberg e molte delle sceneggiature dei suoi film, tra cui “Scene da un matrimonio”, si sono trasferite con successo in scena: “Il teatro è come fosse mia moglie, mentre il cinema è stata la mia amante” dice l’autore che ammette anche i suoi momenti di dubbio e sconforto, quando le pause sul set erano più lunghe del previsto e l’autore se ne stava da solo in silenzio al buio finché non riappariva il folletto dell’ispirazione. Dove si ritrova oggi un’eredità artistica come quella di Bergman?
Lo stesso ragionamento, su altre latitudini, si potrebbe fare per altri due bei documentari, sempre su Sky arte, sempre su due personaggi fantastici del cinema vero e non di quello di oggi in ostaggio di effetti speciali: uno è dedicato al grande italo american Frank Capra, che seppe scavalcare i gradini sociali americani da immigrato fino a vincere 3 Oscar e raggiungere successi planetari con attori famosi come “Accadde una notte” con Clark Gable e Claudette Colbert, convinti che sarebbe stato un fiasco. Regista di 36 film, autore di commedie sociali meravigliose del new deal, ammiratore anche acritico di quello spirito della frontiera americano oggi scomparso, Capra, che apparve sulla copertina di “Time” nel ’38 secondo solo a Walt Disney, è soprattutto noto per il film di Natale per antonomasia “La vita è meravigliosa” con James Stewart, che al suo apparire non ebbe un gran clamore ma poi divenne un classico indiscusso, con un happy end tra i più travolgenti della storia del cinema.
Il terzo documentario è dedicato al grande Alfred Hitchcock, scoperto come autore dalla nouvelle vague francese di Truffaut e Chabrol, autore di memorabili successi come “La donna che visse due volte” (il suo capolavoro assoluto), “Psycho” (il suo titolo più famoso e freudiano), “L’uomo che sapeva troppo”, rifatto due volte nel corso di una brillantissima carriera con cui è venuto a contatto con le star di Hollywood, da Grace Kelly a Stewart e Grant, i buoni americani . E poi la famiglia, l’adorata moglie Alma che l’assisteva nella scrittura e sul set, la figlia che fu per lui anche attrice (“Delitto per delitto”) e le tante bionde corteggiate, desiderate, mitizzate a volte con qualche esagerazione da Me too come racconta Tippi Hedren, star ovviamente bionda di “Gli ucccelli” e poi di “Marnie”.
· 15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.
Pavarotti, tenore del secolo che si fece cavaliere pop e seppe (ri)unire Carlo & Diana. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022.
Nel 1988 riuscì a tenere in piedi per un’ora e sette minuti il pubblico della Deutsche opera di Berlino che lo applaudiva
Alla prima della Scala del 1992, davanti al presidente neo eletto Oscar Luigi Scalfaro, sul palco dirige Riccardo Muti e Luciano Pavarotti è un Don Carlo più attempato che infante che dall’alto della sua gloria affronta l’agone scaligero. Inciampa su una nota alla fine del secondo atto e, mentre il pubblico mondano applaude, il severissimo loggione fa calare una pioggia inclemente di booh. Con la saggezza dettata dall’esperienza Pavarotti esce dal sipario sorridente ad accogliere consensi e fischi e poi, alla cena post spettacolo passa fra i tavoli con il suo sorriso dando impressione di contenuta serenità. «Chi sono i loggionisti? Persone che vivono di opera e riversano in lei le loro passioni. Pensano di essere i giudici ultimi di quello che avviene sul palco, e di avere il diritto di applaudire o fischiare. E se vuol sapere la mia opinione, penso che abbiano ragione» dichiarava Pavarotti poco dopo a una tv americana. Ma dopo quei booh Pavarotti, artista consapevole e pragmatico, decide di allargare i suoi orizzonti. Non solo loggioni ma platee mondiali più pop e meno selettive. Anche se era all’apice del successo, aveva capito che doveva voltare pagina.
Il figlio del fornaio dell’Arma dei Carabinieri e corista dilettante aveva ereditato da papà Fernando la passione per il bel canto e con sue capacità di interpretazione e di padronanza scenica aveva conquistato le migliori platee operistiche. «Lo vidi per la prima volta al Covent Garden, negli Anni 60, quando venne chiamato per rimpiazzare nella Bohème il grande Di Stefano, indisposto. Un trionfo. Stavo a pranzo in un ristorante vicino al teatro con Fiorenza Cossotto quando lui entrò gagliardo e si sedette a un tavolo. Guardalo, mi disse la Fiorenza, con Gigli è la più bella voce di tenore del secolo» così ha ricordato l’incontro il giornalista e scrittore Ettore Mo. Poi il debutto alla Scala nel 1965, Nemorino nell’ Elisir d’amore: «È attore disinvolto e dispone di una voce assai gradevole ed estesa anche nel registro acuto: il solo, peraltro, che dà qualche incertezza a un tenore come lui, capace di pizzicare il re bemolle» è stato il verdetto sul Corriere del critico Eugenio Montale. In un crescendo di successi era arrivato nel 1988 a tenere in piedi per un’ora e sette minuti ad applaudire - sempre il suo Nemorino con 165 richiami sul palco - il pubblico infervorato della Deutsche Opera di Berlino: doppio record. E Diana e Carlo d’Inghilterra, ormai amici, trovavano un momento di rara condivisione accorrendo, ai suoi spettacoli.
Luciano Pavarotti in un’illustrazione di Max Ramezzana.
Ma da quella sera del ‘92, sminuendo tutto e sempre sorridendo, Pavarotti cambia registro. E inizia quella cavalcata nel pop che era partita proprio nella primavera del ‘92 con Zucchero e il loro Miserere: nuovi trionfi con i Tre tenori (insieme a Carreras e Domingo) e i concerti benefici “Pavarotti & Friends”. Da allora oltre alla carriera cambia anche la vita privata. E la moglie Adua, sua agente, che aveva ferocemente gestito amori e storie parallele, osteggiandole sul nascere, si arrende a Nicoletta Mantovani, 34 anni meno di lui. Con lei fa una figlia, Alice e, saldati tutti i conti (anche con il fisco) muore a Modena, dove era nato, il 6 settembre 2007, grato alla vita con intatta consapevolezza: «Nella vita ho avuto tutto, davvero tutto. Se mi venisse tolto tutto con Dio siamo pari e patta».
Alberto Mattioli per “La Stampa” il 25 agosto 2022.
Bene, bene, bene: così da ieri Luciano Pavarotti è sul marcia piede più famoso del mondo, fra le stelle della Walk of Fame che non sono poi milioni di milioni ma per l'esattezza, con la sua, 2.730. Fra loro, quindici italiani. E qui, primo dato interessante: quelli legati al mondo dell'opera lirica sono sette: oltre a Big Luciano, Arturo Toscanini, Errico Caruso, Beniamino Gigli, Renata Tebaldi, Ezio Pinza, Licia Albanese e, volendolo considerare un tenore, Andrea Bocelli.
Otto su quindici, più della metà: segno che nel mondo il nostro Paese è ancora sinonimo di melodramma, equazione del resto pacifica ovunque tranne che in Italia. Secondo aspetto da sottolineare: la scelta degli stellati.
Tebaldi e Albanese ebbero delle lunghissime carriere americane, Toscanini dei meriti anche extramusicali, come simbolo dell'antifascismo. Pinza era un basso, voce che di solito non eccita l'entusiasmo delle masse: ma è lì non tanto per le sue 879 recite in 22 stagioni di fila al Met, fra cui un leggendario Don Giovanni con Bruno Walter, quanto perché nel 1949 passò a Broadway e l'anno seguente vinse un Tony Award per la sua interpretazione nel musical South Pacific.
Restano i tre tenori. E qui la scelta hollywoodiana è molto coerente. Fra Caruso, Gigli e Pavarotti c'è una filiazione diretta: non tecnica, perché erano tre cantanti diversissimi benché tutti con le corde vocali baciate da Dio ma, diciamo così, sociologica.
Caruso fu la prima star del disco, l'uomo che portò il canto lirico in quella che Adorno chiamò l'epoca della riproducibilità tecnica. Gigli proseguì su questa strada nazionalpop, con i film e le canzoni, da Mamma in giù (dentro un'ideologia tutta Dio, Patria, Famiglia e Duce, ma incidendo però anche un capolavoro surreale e forse satirico come Papaveri e papere).
Quanto a Pavarotti, lo sanno tutti: nella seconda parte della carriera si reinventò come cantante semipop, un frullato di Vincerò!, canzoni napoletane (un napoletano molto emiliano) e duetti con star di cui ignorava l'esistenza fino a dieci minuti prima di cantarci, che lo trasformò nell'icona di sé stesso, l'uomo grasso dalla voce grossa e dal sorriso contagioso.
Qui nasce probabilmente la stella, la ragione sbagliata di una scelta giusta. Già lo si era visto con il biopic di Ron Howard, dove sembrava che Pavarotti fosse Pavarotti perché cantava con Elton John o le Spice Girls, invece che con Kleiber e Karajan. A Hollywood non leggono Gramsci e non sanno quindi che popolare, in Italia, l'opera lo è stata ben prima del pop, anzi una delle grandezze della nostra civiltà è stata quella di aver fatto di un'arte così intellettualistica e raffinata una passione di tutti e per tutti.
Da quel mondo ancora piccolo e antico che non conosceva la Walk of Fame, ma molto bene Verdi e Puccini, uscì Pavarotti, forse l'ultimo grande cantante per cui il melodramma non era un'operazione culturale o una musica, ma «la» musica. Per questo gli andava dedicata una stella. Ma gliel'hanno comunque data, e ne siamo fieri per lui e per noi, che le ragioni della sua grandezza le conosciamo. Quelle vere, però.
A Pavarotti la Stella sulla Walk of Fame. Tributo al tenore morto nel 2007. La figlia: "Ha aperto delle strade". Matteo Ghidoni il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.
«È un bel riconoscimento, popolare ma anche prestigioso, un riconoscimento adatto a lui». Cristina Pavarotti, seconda figlia di Big Luciano, commenta così la stella che è stata assegnata all'immortale tenore suo padre, sulla Walk of Fame di Hollywood, l'iconica strada californiana su cui sono ricordati i migliori artisti di sempre. Ad accogliere il prestigioso riconoscimento postumo conferito dalla Camera di commercio di Hollywood c'erano lei e la figlia Caterina, l'unica nipote che Luciano Pavarotti ha conosciuto prima di mancare, nel 2007. «Grazie a tutti voi che siete qui presenti oggi ha detto Cristina Pavarotti, commossa nel vedere il nome del padre inciso per sempre all'altezza del civico 7065 di Hollywood Boulevard, a due passi dal Dolby Theater, il teatro che ospita la notte degli Oscar - Se penso a mio padre, al valore e alla quantità delle cose realizzate, alle strade che ha aperto e alle tante emozioni date e ricevute, provo ancora oggi un senso di vertigine».
La stella invece è arrivata quindici anni dopo sua morte, a 71 anni. Nessuna polemica però, anzi: «In questo caso è stata una cosa molto spontanea, ormai fuori dagli interessi delle major e delle etichette. Infatti mi sono sentita di collaborare proprio per questo, perché si è trattato di un gesto sincero di affetto per mio papà». Cristina accanto alla stella ricorda i trionfi del padre: «Una delle ultime immagini che ho di mio padre è di lui prima di un recital, in camerino circondato da pastiglie per la gola e una distesa di umidificatori, completamente afono. Lo vedo fare no con la testa al direttore del teatro che voleva annunciare la sua indisposizione. Perché, come gli avevo già sentito dire, si canta o non si canta, e non ci sono scuse. Cantò poi come un funambolo sul filo, meravigliosamente».
Ad accompagnare la Pavarotti durante la cerimonia c'era James Conlon, direttore musicale dell'Opera di Los Angeles, che negli anni ha avuto un lungo rapporto di collaborazione professionale e amicizia con l'artista modenese, che in carriera ha venduto oltre cento milioni di copie. «Questa stella riconosce i meriti di Luciano Pavarotti, non solo uno dei più grandi cantanti della sua epoca, se non dell'intero '900, ma uno dei maggiori personaggi pubblici della storia recente».
· 14 anni dalla morte di Paul Newman.
Paul Newman, la maledizione della bellezza: segreti, debolezze e riscatto di un’icona del cinema. Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2022.
L’autobiografia dell’attore pubblicata in Italia da Garzanti. Dalla madre interessata solo all’aspetto fisico del figlio ai complessi di inferiorità. La fatica di essere padre (e i rimorsi per il suicidio del primogenito Scott), la filantropia come esercizio del potere
L’uomo più bello di Hollywood aveva la sindrome dell’impostore. Si giudicava ignorante, lo preoccupava conversare con l’amico Gore Vidal che, al contrario, considerava un’enciclopedia vivente, non si riconosceva nessun particolare talento. Non sapeva nemmeno di essere sexy. Finché non incontrò Joanne Woodward, era sposato con Jackie Witte, ma fu subito passione, un desiderio sconosciuto esplorato nei motel, nei parchi pubblici, nei bagni o nelle auto a noleggio. La sua sensualità era il prodotto dell’inventiva di lei. L’uomo più bello di Hollywood si sentiva un ornamento e un orfano. Da quando ragazzino tirava craniate alla parete che facevano sgretolare l’intonaco, ma almeno scaricavano la rabbia che non riusciva a esprimere, il padre che gli parlava appena, la madre che lo amava perché decorativo, splendeva a meraviglia con quegli occhi azzurri micidiali sulla moquette nera dove poltrivano spitz bianchi, scelti apposta per il contrasto cromatico.
L’assillo dei fan
L’uomo più bello di Hollywood detestava l’invadenza dei fan, la donna che in un ristorante a Westport prese una sedia e si accomodò fra lui e Joanne (la cacciò dicendole che era una maleducata), l’infermiera che dopo aver decretato la morte della madre gli chiese l’autografo mentre era ancora al suo capezzale, o il fotografo che a una delle prime gare da pilota professionista in Minnesota continuava a fargli foto e a distrarlo sulla griglia di partenza con l’unico obiettivo, gli avrebbe spiegato dopo, di riuscire a scattargli l’ultima istantanea da vivo. È lo stesso Paul Newman a raccontarlo in Vita straordinaria di un uomo ordinario, l’autobiografia postuma in libreria il 18 ottobre in contemporanea mondiale (in Italia per Garzanti), che il Corriere è riuscito a leggere in anteprima. Una confessione basata sulle conversazioni registrate tra il 1986 e il 1991 con Stewart Stern, l’amico sceneggiatore di Gioventù bruciata.
L’emarginazione
È la versione di Paul, nato nel 1925 in una casa a tre piani a Brighton Road, un sobborgo di Cleveland, da una famiglia benestante, padre ebreo e madre cristiano scientista originaria della Slovacchia. Colpisce quanto si sentisse emarginato, durante l’adolescenza, un po’ per la statura (dovrà aspettare la fine della guerra per trovarsi, all’improvviso, alto 177 centimetri), un po’ per la religione paterna, che tuttavia non volle mai rinnegare. Quando perfino il cattivissimo produttore Sam Spiegel, noto con lo pseudonimo di S.P. Eagle, nel 1953 gli chiese di cambiarsi il nome, lui ribatté proponendo S.P. Ewman. Fine della storia. Affermarsi come attore fu il frutto della disciplina con cui si applicò a ogni compito. Se l’aspetto fisico era la sua rendita fissa, lui la moltiplicò studiando ogni parte con umiltà, pur arrivando a teorizzare la fortuna di Newman: la parte di Rocky Graziano, in Lassù qualcuno mi ama, gli era stata data solo perché James Dean era morto.
Paul Newman con il primogenito Scott
La fatica di essere padre
Ma è come padre che si dà i giudizi più severi: non si riconosceva capace. E del primogenito Scott, nato dal matrimonio con Jackie Witte (sposata nella totale inconsapevolezza di cosa fosse la vita coniugale, salvo una sequenza di eventi ovvi come i fiori che crescono dopo la semina), avrà sempre il rimorso di avergli trasmesso l’impulso all’autodistruzione. Quando morì di overdose nel 1978, lui era al Kenyon College di cui era stato studente, per dirigere una pièce al campus: continuò le prove come se nulla fosse, e andò in camera mortuaria soltanto tre giorni dopo. Sapeva quanto fosse difficile essere figlio di Paul Newman (ebbe altre due femmine da Jackie e tre da Joanne), non c’erano mai state gite allo zoo, con il rischio di essere importunati. Ma il problema vero era la fatica di esprimere come si sentiva, per sempre orfano, mai davvero figlio, non aveva avuto nemmeno un mentore artistico.
La filantropia
Si spese moltissimo per gli altri. La notorietà gli aveva dato un potere e scelse di sfruttarlo. Nel 1963, in Alabama con Marlon Brando, volle provare su di sé l’effetto del pungolo elettrico per bestiame che i poliziotti bianchi usavano contro i neri: fece un balzo di tre metri. Come filantropo e attivista donò quasi un miliardo di dollari. Per i bambini malati, a metà degli anni 80 fondò i campi estivi per farli divertire (in Italia c’è il Dynamo Camp di Limestre, Pistoia). Ringraziando August Busch, il proprietario della Budweiser che gli aveva dato un contributo di 866 mila dollari, scrisse un biglietto spiritoso in cui ammetteva di aver consumato 200 mila lattine della sua birra a partire dai 18 anni. L’alcol era il suo modo di anestetizzarsi. Non diventava mai molesto. Semplicemente spegneva l’interruttore. E l’inadeguatezza spariva.
· 14 anni dalla morte di Dino Risi.
Marco Risi per “la Repubblica” il 29 novembre 2022.
Il sorpasso lo conoscono tutti, anche il Papa. Quando l'ho incontrato nel febbraio dello scorso anno a casa di mia zia Edith (Bruck), a un certo punto gliel'ho chiesto. Non a freddo, il discorso stava vagamente scivolando verso il cinema: «Santità, da argentino forse conosce un film di mio padre che ha avuto un grande successo nella sua terra Il sorpasso?».
Papa Francesco non ha avuto un attimo di esitazione: «Eh, come no, tutte quelle curve!» e ha sorriso, con quel suo bel sorriso simpatico e allegro.
"Tutte quelle curve" aveva un senso che mi ha svelato qualche tempo dopo Tatti Sanguineti: «In Argentina non ci sono curve».
Non ci avevo pensato, io che in Argentina ho girato due film. Effettivamente è vero, in Argentina non ci sono curve.
Poi ho chiesto, sempre al Papa, se avesse visto un altro film di mio padre, girato proprio lì in Argentina, Il gaucho. Ma no, non lo aveva visto. Il gaucho è un film molto bello che non ha avuto il successo del Sorpasso ma che a me piace tanto e a tratti quasi più di quello (esagero!).
Fu rifiutato anche in Argentina.
Papà sosteneva per colpa della scena in cui Gassman sputava il mate (bevanda sacra in Argentina), aggiungendo anche "Ammazza che schifo, oh" Il Clarín, giornale della capitale, uscì con un titolo a nove colonne "Gassman escupió el mate".
Ma torniamo al Sorpasso che cambiò la nostra vita e anche quella del produttore Mario Cecchi Gori. Noi ci trasferimmo sulla Cassia, loro ai Parioli. Cecchi Gori, che se avesse piovuto un altro giorno non avrebbe permesso di girare il finale del film, l'incidente e la morte, per intenderci, non sopportava di vedere la troupe in albergo con le mani in mano in quel penultimo giorno di pioggia: "Finisce così, con loro due che se ne vanno via allegri". Per fortuna non piovve e in quel momento, con la morte di Trintignant, ci si accorse che finiva un'epoca, quella dell'innocenza, e ne cominciava un'altra, quella della furbizia.
Il sorpasso era molto amato anche negli Stati Uniti. Easy rider nasce, per ammissione dei suoi autori, come ha ricordato Marco Tullio Giordana su Repubblica, da Easy life (titolo americano del Sorpasso) e fra i suoi estimatori aveva il grande Martin Scorsese che mi ha raccontato di quanto il suo insegnante di cinema ne fosse innamorato, al punto da studiarlo con una meticolosità tale da accorgersi che il percorso che percorreva l'automobile formava alla fine un punto interrogativo. Quando il giorno dopo lo raccontai a papà, scusate, non riesco a trattenermi, rido lui disse, con un ghigno allegro: "Oh, finalmente qualcuno che se n'è accorto". Non era vero, naturalmente. Lo devo sempre specificare perché magari qualcuno ci crede, al punto interrogativo.
Chiuderei, anche per non tediarvi troppo, con la genesi del Sorpasso, è d'uopo. Il film nasce da due viaggi in macchina che Dino aveva avuto l'avventura di compiere con due personaggi a modo loro folli.
Uno era l'amico e produttore lombardo Gigi Martello, che una mattina, a Milano, gli disse: "Dài, accompagnami in Svizzera a comprare le sigarette", e finirono nel Liechtenstein a pranzo alla corte del principe. Per farsi ricevere Martello aveva tirato fuori la tessera del tram spacciandosi per giornalista.
L'altro viaggio era con Pio Angeletti, allora direttore di produzione e in seguito grande produttore nonché tifoso malato della Roma. Famosa una sua frase quando la Lazio vinse lo scudetto: "Odio il cielo perché azzurro".
Stavano viaggiando verso Maratea per sopralluoghi. Era domenica e la radio trasmetteva una partita della Roma. Stava perdendo. Vi lascio immaginare il resto. Papà, a ogni curva, temette seriamente per la sua vita (Dino si divertiva molto a dire che avrebbe dovuto morire in un incidente, così i giornali avrebbero potuto titolare: "Muore in un sorpasso il regista del Sorpasso"). Questo per dire che, se qualcuno avesse mai pensato che Dino fosse Gassman, si sbaglia.
Dino era Trintignant, con una forte simpatia per Gassman. Ed è stata proprio quella simpatia a far deragliare il Paese all'ultima curva. Qualcuno l'ha pensato e lo ha anche detto e lo pensa ancora e forse è anche vero ma in fondo chissenefrega perché, come dice Bruno Cortona a Roberto, il cognome non lo sa, l'ha conosciuto il giorno prima: "A Robe', che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l'età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno ci ha giorno per giorno".
Estratti da “Versetti Sardonici”, di Dino Risi (ed. Gog), pubblicati da “il Fatto quotidiano” il 5 luglio 2022.
Vederlo inciampare la fece innamorare.
Non ho amato Stalin non ho fatto sit-in partecipato a cortei contro gli ebrei fatto digiuni firme per la pace gridato viva Mao né letto un tazebao fatto crociere di piacere frequentato discoteche cineteche né scritto mai sui muri con lo spray rossi troioni laziali cagoni
non mi è mai occorso di portare avanti un discorso
non ho detto valido puntuale e nemmeno virtuale mai barattato l’impegno con l’ingegno nella misura in cui non ho partecipato a tavole rotonde condotte da brutte donne bionde
non sono stato in depressione non ho contestato le donne in visone i nudi in copertina i seni al silicone non ho marciato incolonnato con il braccio alzato purtroppo non ho avuto dazioni di milioni nemmeno una tangente piccola da niente
non credo in Dio nel Demonio nel matrimonio degli omosessuali in quanto tali non ho sniffato stuprato neppure molestato ho evitato analisti semiologi progressisti dietisti ecologisti rockettari paninari sfilate di modelle antipatiche ma belle ho sfuggito metafore punti di riferimento donne col doppio mento buddhisti meditazionisti integralisti teorici del pallone pallonari della televisione (complimenti per la trasmissione)
non ho protestato per il celibato dei preti per i polacchi lavavetri per i viados in periferia e sotto casa mia né per le cacche dei cani sui marciapiedi romani non ho vinto lotterie e nemmeno mountain bike pubblicizzate da Mike non ho usato detersivi lassativi contraccettivi promossi dai divi non ho mai detto “cioè” non dico “un attimino” neppure ad un bambino non ci son cose in cui credo insomma mi chiedo (parole amare)
Volle che nel cimitero sulla tomba fosse scritto NON È VERO.
Che bella invenzione la televisione ha abolito la conversazione tra moglie e marito che bella invenzione il telecomando puoi far tacere chi ti sta annoiando che bella invenzione il televisore che ti risparmia di fare l'amore.
Se quando le ho detto ti amo non mi avesse detto passami l'insalata l'avrei sposata.
La pallottola gli e rimasta da vent'anni dentro il cuore ieri in strada lei lo vede lo saluta lui non l'ha riconosciuta.
Il canaro all'amico che l'ha tradito ha strappato gli occhi la lingua la pelle della faccia gli ha rotto gambe e braccia ma a un tratto ha smesso la carneficina doveva andare a scuola a prendere la bambina.
Uàoo ha detto lei Uàoo ha risposto lui solo questo hanno detto prima di finire a letto. Le aperse il cuore e scoprì che dentro c'era l'amore ma per un altro.
Fu un errore del Direttore proiettare in prigione film d'evasione.
Era una piccola attrice fu definita grande quando apparve in un film senza mutande.
Aveva la villa lo yacht l'aeroplano era iscritto al Partito Comunista Italiano.
Il guaio di essere abbastanza intelligente da capire che non vali niente.
Volle che sulla sua lapide al cimitero fosse scritto mi sono tolto un pensiero.
Sono nato sfigato cercavo l'amore e l'ho trovato.
Mancandogli qualcosa per essere un artista pensò bene di iscriversi al partito comunista.
Fu Dott fu Cav fu Ex fu Comm fu Vip fu GrUff adesso non è più è diventato Fu.
Non piangere Liù non è colpa mia se non mi tira più.
Un comico da strapazzo ebbe un'alta audizione ripetendo la parola cazzo in Televisione.
Volevi l'amore grande l'amore puro e adesso ti lamenti perché non ce l'ho duro?
· 13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.
Mike Bongiorno, la rivelazione del figlio: "Nel giorno del funerale di papà..." Libero Quotidiano il 04 ottobre 2022
«Che bella, sembri tu quando prendi il sole». Queste furono le ultime parole dette dall'indimenticabile Mike Bongiorno alla moglie Daniela la mattina dell'8 settembre del 2009 pochi istanti prima di morire in un albergo di Montecarlo. Mike aveva appena visto un'immagine della neonata nipotina Luce inviata al telefonino di Daniela da Nicolò, il secondogenito del grande presentatore italiano.
Mike Bongiorno quell'otto settembre di tredici anni fa lasciò improvvisamente, oltre la moglie Daniela Zuccoli, i figli Nicolò, Leonardo ed il primogenito Michele Pietro Filippo e uno stuolo incredibile di sostenitori, ammiratori e fan che per più di mezzo secolo lo avevano accolto nella intimità delle loro case.
Incontro per la prima volta, per questa intervista, Nicolò ed immediatamente colgo, nelle sue modalità espressive, una gentilezza ed un garbo che hanno radici profonde tipiche di chi ha vissuto in una famiglia sana e rispettosa.
L'educazione, quando viene vissuta quotidianamente all'interno di una famiglia, diventa una eredità morale straordinaria.
Nicolò Bongiorno di professione è un regista, sceneggiatore e produttore che si muove, come scrive nell'introduzione della pagina della sua società "Allegria", «seguendo un impulso artistico esplorando territori di frontiera e di confine».
Nicolò la tua società di produzione si chiama "Allegria", un chiaro riferimento alla frase iconica che tuo papà diceva in televisione. Perché?
«Dopo che è mancato ho sempre più preso consapevolezza di come pormi di fronte alla sua eredità morale e professionale. La forte identità di mio padre mi ha obbligato a rintracciare il suo percorso ed a reinterpretarlo a modo mio. "Allegria" è come un totem nella mia vita».
Ma come è nata?
«Nello studio di Rischiatutto in un momento particolarmente difficile con la redazione mio padre se ne uscì con questo motto, nato per sdrammatizzare, e che si è trasformato nel suo cavallo di battaglia per salutare gli italiani. Papà ha avuto una vita complessa ed a tratti anche difficoltosa e così che quella parola divenne anche un modo per esorcizzare alcuni momenti e trasformare il tempo che passava».
Cosa pensi di tuo padre professionalmente?
«È stato un grande, una personalità irripetibile ha innovato la televisione in modo magistrale ed ha segnato in modo indelebile il tempo in cui ha vissuto. La morte di mio papà, nel 2009, ha coinciso con la fine di in epoca dove l'intrattenimento era alla base della programmazione televisiva: oggi, invece, c'è grande frammentazione e si è alla ricerca di una nuova identità».
Insieme a tuo papà hai scritto la sua biografia La versione di Mike cosa ha significato lavorare ad un libro con lui ?
«È stato un percorso straordinario di grande intimità filiale ed ha segnato una fase molto speciale della mia e, credo, della nostra vita. Papà non era solito aprirsi completamente era un uomo dal grande pudore umano e detestava fare scandalo. Al libro abbiamo lavorato qualche anno ed io ho capito molte cose soprattutto incontrando alcune sue bellissime fragilità».
Come hai reagito, tu figlio, di fronte alla scoperta delle fragilità di tuo papà ?
«Non ho reagito ho lentamente assimilato questo. Conoscere così papà ha trasformato, e continua a trasformare, la mia vita, il mio quotidiano».
Possiamo dire, visto che fai il regista, che sei figlio d'arte: ti fa piacere essere considerato tale?
«Sì. Non puoi non pensarci perché ogni cosa porta alle tue origini, alla tua famiglia. Significa, da una parte, cercare di tracciare un percorso per vedere dove arriva quel sentiero e, dall'altra, guardare a nuovi orizzonti. La partenza è su un terreno solido ed alla fine, man mano che il tempo passa, ti accorgi che stai camminando su nuovo percorso verso orizzonti ancora non esplorati».
Come è nato il tuo desiderio di affrontare il lavoro di regista?
«Penso sia una vocazione infatti ho sempre sognato, sin da piccolo, di fare cinema. Esiste una propensione di ogni uomo alla esplorazione ed a ciò che rimane celato al nostro sguardo. Il lavoro documentaristico che sto facendo è cercare di cogliere quello spazio infinito e senza confini dove l'uomo incontra la natura nelle sue forme più ostili ed inospitali, ma dal cui legame si origina un moto in grado di spingerlo verso le zone inesplorate del mondo e del sé».
Un viaggio introspettivo importante...
«Il viaggio è sempre stato il filo conduttore della mia vita. Iniziai con un racconto Viaggio verso casa su Giulietta Masina, che fu la mia madrina di battesimo. L'intero documentario si rivela essere un diario di viaggio, un percorso alla ricerca dei luoghi della memoria che vede nelle vesti di moderno Virgilio l'amico Tonino Guerra (sceneggiatore fra i più importanti della storia del cinema dell'ultimo mezzo secolo, ndr) che mi ha accompagnato in un lungo viaggio da Torino, all'Umbria, dalla campagna senese, ai monti Sibillini, ma anche a Roma, a Bivongi, in Calabria per giungere infine a Mezzojuso».
Che rapporto hai avuto con Giulietta Masina?
«Ho il ricordo di una donna accogliente, dolce e molto materna».
Hai lavorato con importanti registi internazionali da Wim Wenders a Dario Argento. Che esperienza è stata essere il loro assistente alla regia?
«Due personalità diverse ma ugualmente uniche. Con Dario Argento è nata una bella amicizia sia con lui che con Asia, la figlia.
Wim Wenders era un genio eclettico di rara simpatia. Ricordo una volta che venne ad Arona a Villa Zuccoli, la casa di famiglia di mia mamma, ed iniziò a scatenarsi a ballare».
Con la tua famiglia avete aperto la "Fondazione Mike Bongiorno" come è nata questa idea e quale è la vostra missione?
«Tutto è partito il giorno del funerale di mio papà. Mi piacerebbe che questa cosa te la raccontasse la mia mamma (Daniela Zuccoli, ndr) che ne è stata l'artefice ed il motore».
Daniela, raccontami perché è nata la "Fondazione Mike Bongiorno" «Pochi sanno che Mike è sempre stato un uomo meravigliosamente generoso. In tutti i suoi quiz c'era una parte che veniva devoluta ad associazioni od enti benefici. Come su tante altre cose Mike teneva una riservatezza assoluta. Il giorno del suo funerale, che Silvio Berlusconi volle fosse u funerale di Stato siamo tutti noi rimasti allibiti dalla profusione di amore della gente. Tre televisioni collegate, milioni di persone che assistevano alle esequie e partendo da qui ci siamo fatti la domanda di come restituire tutto questo amore. Così l'idea di una fondazione che porti il suo nome e che continui a sostenere progetti sociali importanti oltre a borse di Studio. Mike ha avuto dedicato aule universitarie, come quella allo Iulm di Milano, e per questo abbiamo trovato giusto sostenere i giovani con borse di studio»
Oggi c'è un progetto che state seguendo ?
«Quello con l'associazione Rondine "città dell pace" di Arezzo assieme a Liliana Segre. L'associazione Rondine è un'organizzazione che si impegna per la riduzione dei conflitti armati nel mondo e la diffusione della propria metodologia per la trasformazione creativa del conflitto in ogni contesto. Oggi più che mai abbiamo bisogno pace».
Daniela, come era Mike?
«Era una persona pura e rigorosa. Un uomo giusto ed infatti è stato tanto amato. L'anno prossimo è il centenario della sua nascita ed uscirà un film, con la Rai, dedicato alla sua vita».
Nicolò ti manca tuo papà?
«Si. Forse adesso più di prima quando c'era ancora troppo rumore».
A pranzo da Mike Bongiorno tra aneddoti, grappa e prosciutti. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.
Nell’ottobre del 2004 mi trovavo a Stresa per un convegno sulla televisione. Tra i relatori c’era anche Mike Bongiorno. È una di quelle occasioni in cui le parole cadono nel vuoto, anche se dici cose non scontate, perché l’uditorio è lì solo per sentire Mike. Lui sa come si intrattiene il pubblico, come strappare l’applauso, come non annoiare. E così fu. Al termine dell’incontro Mike si avvicina a me e a Carlo Freccero (non ancora turbato da astratti furori) e ci invita gentilmente a pranzo: «Ho casa qui vicino ad Arona, in un posto che si chiama Dagnente».
Salgo in macchina convinto che Mike voglia fare il modesto, ospitandoci in una casa da niente, con tutti i soldi che ha guadagnato! Avevo capito male, esiste una frazione di Arona che si chiama Dagnente dove sorge Villa Zuccoli, una villona di proprietà della moglie Daniela: «È la casa di famiglia», dice lei, tutta orgogliosa. Mike mi prende per una spalla, rallenta il passo sull’erta che porta verso casa e mi sussurra all’orecchio: «Ma l’ho messa a posto io».
Come molte persone che hanno patito la fame (era stato in carcere a San Vittore, catturato mentre faceva la staffetta partigiana) Mike si portava dietro una paura notturna, indecifrabile, quella di cadere nella povertà, di dover rinunciare a una vita più che agiata. E dire che Michael Nicholas Salvatore Bongiorno (senza la «u», come ci teneva a precisare) era nato a New York nel 1924. I primi passi li aveva mossi nell’appartamento di un lussuoso palazzo sulla Fifth Avenue. Suo padre Philip era all’epoca un famoso avvocato, «numero uno» tra gli italiani laureati alla prestigiosa università di Princeton. Dopo il divorzio dei suoi (sua madre, Enrica Carello, apparteneva alla buona borghesia torinese, il padre produceva fanali per auto), Mike si era trasferito a Torino, prima in via Marenco e poi in corso Marconi che allora si chiamava corso Valentino. Iscritto all’Istituto Rosmini, aveva frequentato il liceo classico (non era proprio quell’eroe della mediocrità che una certa saggistica si è divertita a dipingere).
Torniamo a Dagnente, è l’ora di pranzo, sono quasi le due. Alla custode della villa, Mike ordina di portare prosciutti, salami, formaggi, vino e non ricordo quale altro bendidio. Si mangiucchia, si discorre, si assaggiano i vini: Mike è un perfetto anfitrione. A un certo punto, l’occhio mi cade su alcune etichette Rovagnati che erano rimaste sul tavolo. Un rapido scambio di sguardi con Freccero e oso: «Ma Mike, questi sono i prodotti che sponsorizzi!». A Mike si illumina il viso: «E certo, vuoi mica che reclamizzi un prodotto senza prima provarlo? Non ho mai sponsorizzato un prodotto senza prima averlo provato, è la condizione che pongo». Ormai il ghiaccio è rotto: «E allora hai anche provato la grappa, i materassi, gli yogurt, i caffè, la carne in scatola». «Tutto», risponde Mike, con il tono giusto del vero testimonial. Mi fermo lì, perché la domanda successiva si strozza in gola dal fou rire. Era questa: «Ci fai visitare la dispensa di Villa Zuccoli?».
Mike non aveva certo bisogno degli sponsor per bandire la sua tavola, ma questo suo lato fanciullesco resta uno degli aspetti più curiosi e sinceri del suo carattere e forse dei meno conosciuti. Quando conduceva la «Ruota della fortuna» su Canale 5, c’erano pullman provenienti da tutt’Italia che riversano negli studi frotte di adoranti spettatori, soprattutto spettatrici. E c’era un rituale che divertiva molto il conduttore. Durante il programma Mike segnalava la provenienza di vari gruppi e poi aggiungeva una frase del tipo «Che specialità mi avete portato dalle vostre terre?». Ogni volta una signora si alzava e gli offriva ora una torta, ora una specialità del luogo, ora un piatto preparato apposta, ora offerte votive. Dove finiva tutta quella roba? Leggenda vuole che ci fosse una sorta di distribuzione: una parte allo studio, una parte nel baule della macchina di Mike. Al cui compito provvedeva il fido autista.
Mike era un candido, non aveva mai secondi fini, riusciva ancora a stupirsi per poco. Dei colleghi più giovani diceva: «Arrivano al successo senza aver fatto la gavetta: già conducono una vita da nababbi, il rischio è di consumarsi in fretta». Nonostante ai lui si debba la prima trasmissione della tv italiana («Arrivi e partenze», 1954), nonostante sia stato il primo testimonial di Carosello per l’Oreal (1957), in quanto al lavoro, nessuno gli ha mai regalato niente (Dagnente?). In ogni programma ha sempre messo impegno e dedizione, uno zelo al limite della maniacalità. Sono stato a casa sua un paio di volte, non di più. E tutte le volte mi ha raccontato due episodi: il primo riguarda Silvio Berlusconi, il secondo la Rai. A distanza di anni, stesse parole, stesse pause, stesse espressioni.
Capitolo Berlusconi. «Un giorno mi telefona un signore che si presenta come Silvio Berlusconi. Era il 1977. Disse che voleva incontrarmi, ma io non avevo la più pallida idea di chi fosse. Chiesi in giro e mi dissero che era un costruttore, che aveva fatto Milano 2. All’inizio pensai addirittura che volesse vendermi un appartamento. Comunque accettai di vederlo e ci incontrammo in un ristorante. Dopo un quarto d’ora mi resi conto che quell’uomo era di una brillantezza incredibile e avrebbe fatto una grande carriera». Alcuni accenni ai primi lavori a Milano 2 quasi clandestini poi il giorno fatidico: «Quando Berlusconi mi disse che dovevo lavorare solo per lui io gli chiesi quale compenso mi avrebbe dato. Calcola che allora in Rai guadagnavo pochino: due milioni a puntata per un massimo di 26 puntate all’anno, non una di più perché sennò dicevano che erano obbligati ad assumermi. Il che voleva dire che ero costretto a non fare più le serate, le comparsate nei film, i fotoromanzi… Insomma, chiesi a Berlusconi quanto mi offrisse e quello fece un paio di conti e poi disse: “Seicento milioni”. E io: “Per quanti anni?”. E lui: “Ma per un anno, benedetto uomo! Per un anno! Con quello che pagano gli sponsor, seicento milioni è una cifra normale!”. Non credevo alle mie orecchie».
Capitolo Rai. «Dopo vent’anni che lavoravo in Rai, dopo aver condotto programmi importanti come “Lascia o raddoppia?”, “Campanile sera”, “La fiera dei sogni”, “Rischiatutto”, “Sanremo” mi regalano una medaglietta di riconoscenza, come quelle che si danno agli anziani del lavoro quando vanno in pensione…una medaglietta! Poi, quando mi ha chiamato Berlusconi hanno cominciato a tempestarmi offrendomi prima cento, poi centocinquanta, poi duecento milioni… e così via. Ero furibondo e indignato. “Ma allora fino a oggi mi avete preso in giro. Allora fino a oggi ve ne siete approfittati!”, urlai al funzionario di turno che non smetteva di rilanciare».
A differenza di alcuni suoi colleghi, Mike ha interpretato il mestiere con scrupolo e pignoleria, attento ai dettagli; nel fare e nel raccontare la tv, ha sempre scelto il punto di vista del «semplice». Per questo, fin dagli inizi della sua carriera, ha continuato a produrre — un po’ per carattere, un po’ per mestiere — gaffe, bizze, goffaggini, battute che hanno garantito un richiamo popolare non meno forte di quello esercitato dai giochi proposti. Anche se la celeberrima battuta rivolta a una concorrente («Ahi, ahi signora Longari, lei mi è caduta sull’uccello!»), non è mai stata pronunciata. Attribuita a lui, però, è diventata più vera del vero, una leggenda metropolitana.
Mike è stato un uomo felice con qualche ferita (l’ultima, il disamore da parte di Mediaset): basta ricordare l’entusiasmo con cui ogni giorno partecipava alle ospitate tv, ai programmi di Fiorello, che gli ha regalato non una seconda ma un’eterna giovinezza. Un ultimo episodio: quando a Mediaset per entrare misero i tornelli, visse il tesserino magnetico come un’onta. Se quell’impresa era così grande il merito era anche un po’ suo. Da vecchio bambino pensava che le porte dovessero spalancarsi al suo passaggio.
· 12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.
Raimondo Vianello, le battute da espulsione con Tognazzi e solo due scivoloni (su Gronchi e Berlusconi. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.
Dal padre ammiraglio all’addio in crociera: 100 anni fa nasceva l’attore-conduttore. Quando disse: «Vivendo a lungo, vedi andar via tanti amici... Però non mi chieda se preferirei il contrario».
Raimondo Vianello nato a Roma il 7 maggio 1922, quest’anno ricorre il centenario. Morì a Milano nel 2010. Suo padre era ammiraglio della Marina Militare
Ci fu un periodo in cui Sandra Mondaini ebbe una forte crisi depressiva, Raimondo Vianello stava chiuso in casa ad assisterla. Un giorno uscì per prendere un caffè con Pippo Baudo e si raccomandò con il portinaio: «Se cade qualcosa da sopra, è roba mia...». In questa battuta, fulminante come tante, disincantata come il suo aplomb, dinoccolata come il suo portamento, cinica come spesso è la vita, c’è molto di uno dei più grandi protagonisti della storia della tv. L’ironia era la cifra del suo modo di intendere la vita; la sua si era accesa 100 anni fa. Intervistarlo era come assistere a uno dei suoi spettacoli. Metteva in chiaro le cose all’inizio: «Ogni tanto sentirà dei vuoti. Non pensi che mi sia offeso. È che la memoria è quella che è». Al momento dei saluti si scusava: «Spero di essermi ricordato tutto. Se avessi fatto altre interviste di recente mi sarebbero venute in mente anche altre cose». Geniale, sempre. La sua filosofia dell’ironia la spiegava così: «Le battute non si devono mai preparare. Non è la battuta in sé a far ridere, ma la situazione, la scelta dei tempi. Se perdi l’attimo buono sono figuracce». E a lei capita mai di non cogliere una battuta? «Sì, sì... Ma vedo gli altri che ridono e mi adeguo».
Biondo e allampanato, con un’aria molto inglese
Raimondo Vianello era nato a Roma il 7 maggio 1922 e il padre, ammiraglio nella Marina Militare, pensava per lui tutt’altra carriera, il diplomatico. E lui, il physique du rôle, biondo e allampanato, con quella sua aria molto inglese, ce l’aveva. Ma non andò così. Prima del mondo dello spettacolo, c’è quello della guerra: per la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana nel 1945 finì nel campo di concentramento degli alleati a Coltano. La svolta arriva da un incontro, quello con Garinei e Giovannini, il teatro di rivista è il suo primo palcoscenico con Cantachiaro N°2, dove arriva per caso: un amico di famiglia, l’attore Guglielmo Barnabò, cercava un ragazzo che impersonasse un ufficiale americano. Chi se non lui? Poi lavora accanto a Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Gino Bramieri e, soprattutto, Ugo Tognazzi con cui fa coppia fissa dal 1951. Il teatro è un trampolino che lo spinge ad arrivare al cinema (oltre 50 film) come caratterista, ma la tv è il suo palcoscenico prediletto. Vianello accende risate con il suo umorismo distaccato, sottile, sempre elegante, mai volgare.
La popolarità all’inizio degli Anni ‘50
È la tv a regalargli popolarità nel programma Un due tre (con Tognazzi) che segna gli anni dal 1954 al 1959. Una coppia strepitosa, opposti e complementari, uno sanguigno l’altro compassato. Ricordava Vianello: «Noi dovevamo fare i presentatori di cantanti e prestigiatori, anche internazionali, che si esibivano nei loro numeri. Solo che pian piano le presentazioni diventavano più lunghe, finché i numeri non li guardava più nessuno e i telespettatori aspettavano i nostri sketch... La trasmissione ebbe successo perché ci ispiravamo a personaggi della televisione di allora. La gente guardava avidamente la tv a quei tempi. Ancora non si era stufata... Cercavamo difetti di altre trasmissioni, imitazioni, parodie, facevamo di tutto». Quella strepitosa stagione durerà cinque anni. Sketch che hanno fatto storia.
Raimondo Vianello con Tognazzi in «Un due tre», trasmissione Rai diretta da Mario Landi, che regalò loro popolarità tra il 1954 e il 1959 (foto Arch. Tv Sorrisi e canzoni)
Il primo caso di censura in tv
L’episodio più famoso è l’ultimo, primo caso di censura in tv. L’allusione allo scivolone del presidente Gronchi a un incontro con De Gaulle costò alla coppia il posto: «Andavamo in diretta, non facevamo mai niente di quello che preparavamo nelle prove. Tognazzi era in piedi, doveva sedersi ma la sedia non c’era. Cadde. E io: ma chi ti credi di essere??? Finita la trasmissione andammo in camerino e c’era già la raccomandata di licenziamento». Furono richiamati dopo due anni: «Quando i dirigenti ci convocarono ci chiesero se avevamo qualche scenetta pronta. Io dissi che ne avevamo una sul Papa, solo per vedere le loro facce. Si creò un gelo, un silenzio imbarazzato, e Ugo si mise a imitare papa Giovanni. Ci hanno rimandato subito a casa. In qualche caso ci siamo rovinati per amore di una battuta. Ma ne valeva la pena».
«DOVEVO RECITARE CON UGO NEL SUO PRIMO FILM. LUI MI SCONSIGLIÒ: SE CI VEDONO INSIEME, DISSE, PENSANO CHE FACCIAMO LE SCENETTE»
Sandra Mondaini, Iva Zanicchi, Pippo Baudo, Vianello e Minnie Minoprio nel 1972
«Io travestito da mondina, lui da mondana»
Raimondo e Ugo, ricordi che sanno di meraviglia: «Tra noi c’era un grande affiatamento, mai uno screzio, spesso ci veniva da ridere. Litigavamo quando bisognava fare dei personaggi femminili: non piaceva a nessuno dei due. A volte però dovevamo travestirci entrambi: io da mondina, lui da quella che faceva la vita di notte: la mondana, diceva Tognazzi. E giù richiami dai dirigenti Rai... Ci capivamo con uno sguardo, abbiamo scherzato tanto insieme, ma Ugo era una persona malinconica, intelligente, rara. Parlava di sé stesso raccontandosi solo la verità, fino in fondo - le sue sconfitte sul lavoro, in amore - non cambiava mai la storia perché finisse a suo favore». Dodici anni insieme, coppia dal 1950 al 1962. Perché dopo, al cinema, non lo seguì? «Il cinema è troppo meccanico. Nel 1968 dissi basta e finì lì. Dovevo recitare con Ugo nel suo primo film, Il federale. Fu lui a sconsigliarmi: “Se ci vedono insieme penseranno che facciamo le solite scenette”». Nanni Moretti diceva di lui che «è un attore di serie A che si accontentava di giocare in serie B», ma lui replicava con il solito ironico distacco: «Ho meritato quel che ho avuto, perché non ho mai cercato niente, non mi sono impegnato. Mi ha aiutato il caso». Un concetto che gli piaceva ripetere: «Non ho cominciato per vocazione, quando mi parlavano del “sacro fuoco” mi veniva da ridere. Non ce l’avevo proprio, recitavo la prima a teatro e già pensavo: “Domani sera è la stessa cosa, è meglio che smetto”».
«LA SCENA DEI CALCI SOTTO LE COPERTE L’HA INVENTATA SANDRA. NACQUE DA UN VERO SENTIMENTO DI FASTIDIO NEI MIEI CONFRONTI»
Sandra e Raimondo nel 1974 ai tempi di «Tante scuse»: si erano sposati nel 1962; lui è morto il 15 aprile del 2010, lei il 21 settembre dello stesso anno
In coppia nella vita e sul lavoro, per 50 anni
Se con Tognazzi è stata una coppia di fatto, il matrimonio arriva per davvero nel 1962 con Sandra Mondaini, conosciuta quattro anni prima. Non riuscirono ad avere figli, in compenso adottarono una famiglia di filippini. Con Sandra lavorerà in coppia per 50 anni: da Studio Uno (1961) a Il tappabuchi (1967), da Sai che ti dico? (1972) a Tante scuse (1974). E poi Noi... no (1977), Io e la befana (1978-79), Stasera niente di nuovo, ultima trasmissione in Rai nel 1981. L’anno dopo Vianello (con la moglie) approda alle allora reti Fininvest di Silvio Berlusconi. Lavora sempre in coppia con Sandra nei varietà Attenti a noi due, Sandra e Raimondo Show (1987) e nella sitcom Casa Vianello (1988-2007), uno dei programmi che più rimangono impressi nella memoria televisiva, con i loro continui battibecchi di marito e moglie, con l’ineluttabile conclusione che, pur non sopportandosi, non possono fare a meno di stare insieme. La scena finale, sempre la stessa, è diventata un cult: lui che legge la Gazzetta dello Sport, lei che scalcia sotto le coperte. «Mi dà fastidio perché l’ha inventata Sandra. Nacque da un vero sentimento di fastidio nei miei confronti, Sandra sentì il bisogno di dare una prova fisica della sua presenza».
Che cosa piace a moglie e mariti in tivù
Quando doveva presentare una nuova stagione, ogni volta Vianello trovava la battuta perfetta: «Lo scriva che sono puntate nuove perché non si distinguono una dall’altra: quelle in onda da oggi non sono repliche». Oppure: «Questa è la decima edizione. Ma a me sembra la centesima». Il successo lo spiegava così: «È una sit-com un po’ particolare: sono piccole commedie in cui le persone si riconoscono. Il segreto sta nell’esasperare certe situazioni. Credo che piaccia alle mogli e ai mariti perché in una coppia se c’è disaccordo, mancanza di identità di vedute, anche battibecchi, alla fine ci si riconcilia sempre. Probabilmente sono quelli che si separano che non ci guardano...». Di Sandra, Raimondo parlava con il suo cinismo, ironico e tenero: sua moglie la fa ridere? «Ma va, infatti esco di casa spesso...». Oppure: «Sandra dice che sono pigro. Dice che, quand’ero giovane, sui set del film potevo darmi da fare, per fare nuove conquiste. Ma che ero troppo indolente. E io glielo lascio credere...». E ancora: «Se mi guardo indietro non ho pentimenti. Dovessi ricominciare, farei esattamente tutto quello che ho fatto. Tutto. Mi risposerei anche. Con un’altra, naturalmente».
Raimondo, primo da sinistra, con i fratelli Franco, Giorgio e Roberto vestiti da Balilla nel 1929
L’invito ai telespettatori: votate Silvio
Raimondo lavora in coppia ma anche da solo: su Canale 5 presenta i quiz Zig zag (1983-1986) e Il gioco dei 9 (1988-1990), mentre su Italia 1, lui appassionato di calcio, conosce una seconda popolarità con Pressing , la domenica sportiva di Italia 1 che conduce tra il 1991 e il 1999, scelto per la sua capacità - lui così ironico e signore - di sdrammatizzare gli inutili drammi che si fanno intorno al calcio. Al suo fianco ebbe anche Antonella Elia: «Non capisce nulla di calcio, farà delle domande a sproposito. È perfetta. Mi avevano raccontato che aveva avuto una discussione con Alberto Bevilacqua al Maurizio Costanzo Show. Così, quando è venuta a Milano per gli spot, la prima cosa che le ho detto è che c’era come ospite fisso Bevilacqua... Voleva ripartire subito». A Pressing commette l’unico scivolone (alla Gronchi) della sua strepitosa carriera, quando invita i telespettatori a votare per il suo datore di lavoro, era il 1994, l’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Vianello conduttore di Sanremo 1998 con Madonna
La conduzione di Sanremo
Nel 1998 viene chiamato a condurre Sanremo. I ricordi del Festival erano ancora una volta colpi da maestro: «Quando è tramontata l’ipotesi Fazio mi hanno chiesto di condurre il Festival. E mi sono visto su tutti i giornali. Mia cugina aveva la tv accesa, ma senza l’audio. Ha visto la mia foto grande e ha pensato: “Ecco, è morto”». Finito tutto, spente le luci, chiuso il sipario, a distanza di anni raccontava: « Sanremo? Ne ho vista bene solo un’edizione, quella che ho presentato...». Nel 2008 con Crociera Vianello , Raimondo (con Sandra), uno di famiglia per chi guarda la tv, diede l’addio alle scene. Rimpianti diceva di non averne avuti, solo un dispiacere: «Vivendo a lungo vedi andar via tanti amici. Però non mi chieda se preferirei il contrario...».
· 11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.
Estratto dell’articolo di Andrea Palazzo per “il Messaggero” il 18 Dicembre 2022.
Un padre violento, una madre manipolatrice e un'infanzia bruciata dalle pillole. Vedova a 26 anni e con due divorzi alle spalle, Elizabeth Taylor ha sempre rifiutato il ruolo di vittima. Ha anticipato la rivoluzione sessuale degli anni '60 ed è stata la prima nel cinema a interpretare la moglie di un omosessuale.
La prima a negoziare un contratto da un milione di dollari con Cleopatra. E ancora, la prima star a entrare in una clinica per tossicodipendenti e la prima a mettersi al servizio di una causa civile nella lotta all'Hiv. Dopo aver avuto accesso al suo archivio privato (settemila lettere), Kate Andersen Brower, rivela i contenuti della prima biografia autorizzata dell'attrice, Elizabeth Taylor: The Grit and Glamour of an Icon, appena uscita in America con Harper (non ha ancora un editore in Italia).
Una gabbia scintillante e lussuosa, ma pur sempre una prigione. Era questo il destino dei miti a Hollywood. Liz non è mai stata al gioco e non barattava con nessuno il controllo della sua vita. Dive come la Garland non potevano vivere senza l'abbraccio dei fan racconta la Brower - Liz cercava affetti reali, uomini veri da amare. Sui pericoli della fama, così scriveva di Cary Grant: È una caricatura patetica.
La Taylor arrivò al successo a Hollywood ancora bambina, spinta dalla mamma Sara, ossessionata dalla carriera della figlia.
Suo padre non tollerava che a 9 anni guadagnasse più di lui e una volta la colpì con tale violenza da causarle una lesione alla mandibola. Alla Mgm era prassi l'uso di barbiturici e anfetamine per migliorare la performance degli attori. Ne sarebbe diventata dipendente per sempre. Nonostante quella palestra terribile, la Taylor imparò a farsi rispettare - dichiara l'autrice - e tenne testa anche al produttore, Louis B. Mayer.
Dopo un primo matrimonio finito per abusi, la storia d'amore con Sinatra: ma quando restò incinta, lui la fece portare in Messico per abortire e sbarazzarsi del problema. Lei non glielo perdonò mai.
Con i film successivi si allontanò dagli stereotipi melensi degli esordi. Ne Il Gigante l'incontro con i primi amici gay della sua vita, Rock Hudson e James Dean.
Liz trovava repellente la morale del tempo - continua l'autrice - che considerava gli omosessuali malati di mente.
Dean arrivò a confidarle di essere stato abusato da un prete.
Sotto la sua ala protettiva anche un altro gay velato a Hollywood, Montgomery Clift. Quando la Taylor fu testimone del suo incidente in macchina, si gettò sul corpo insanguinato per impedire ai paparazzi di immortalare il volto sfigurato. L'America puritana la condannò dopo che si innamorò, appena vedova, di un uomo sposato, Eddie Fisher.
È più indegna di una concubina, scrisse la giornalista Edda Hopper. E quando Hollywood la perdonò dopo una polmonite quasi letale, Liz mise di nuovo i sentimenti davanti alla carriera e sul set di Cleopatra si invaghì di un altro uomo sposato, Richard Burton. Ancora una volta la sua femminilità prorompente era sotto processo ma lei sembrava non curarsene.
Una rivista vaticana parlò di vagabondaggio erotico - racconta la Brower - e un membro del Congresso Usa chiese che ai due fedifraghi venisse impedito il rientro in patria. Taylor e Burton si sposarono nel '64. Se in una lettera lui scriveva in estasi Liz è un segreto custodito in un enigma dentro a un mistero, in quella successiva la ridicolizzava: Sei una stupida con un bel paio di tette.
(…) A Washington sono diventata una drogata. La testimonianza del figlio, Chris, è drammatica: «Voleva che le iniettassi un oppioide. Mi rifiutai e lei si piantò l'ago nel braccio da sola». Quando entrò in clinica per disintossicarsi, scrisse: «Qui è la prima volta da quando avevo 9 anni che nessuno cerca di sfruttarmi».
(…) Anche sul letto di morte, flirtava con gli uomini. Quando le chiesero cosa voleva fosse scritto sulla sua lapide, rispose: Qui ha vissuto Elizabeth, odiava essere chiamata Liz ma ha vissuto senza limiti.
· 10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.
Paolo Baldini per “Sette – Corriere della Sera” il 25 giugno 2022.
Che ne dici, Daniela? Il test cominciò con questa domanda. «Mi trovai davanti 35 centimetri d’alieno, con il fondoschiena di Paperino, la testa quadrata e gli occhioni di un cerbiatto». Daniela è una bambina di 11 anni piuttosto sorpresa: «L’esserino mi incuriosiva. Tirai fuori un commento diplomatico: hummm, bruttino ma simpatico. Calcai sull’aggettivo simpatico e papà capì che aveva centrato il bersaglio».
Il padre-creativo è Carlo Rambaldi, artigiano, artista, inventore di effetti speciali, due Oscar (Alien, E.T. - L’extraterrestre). Un pioniere della meccatronica applicata all’audiovisivo. Il piccolo extraterrestre invece è proprio lui, E.T., protagonista del celebre film di Steven Spielberg, una delle creature di fantasia più amate della storia del cinema, l’amico immaginario che ogni bambino vorrebbe. La ragazzina stupita è la figlia del maestro, Daniela Rambaldi, che vide il prototipo prima di Spielberg e, da quel momento, diventò «la sorellina di E.T.».
Il film fu prodotto dalla Universal. Le riprese si svolsero in gran segreto da settembre a dicembre 1981 con un budget di poco più di 10 milioni di dollari. E.T. - L’extraterrestre uscì nei cinema americani l’11 giugno 1982 e divenne il maggior incasso di sempre. Spodestò Guerre stellari e fu a sua volta superato da Jurassic Park, un altro film di Spielberg. Quarant’anni dopo è stato l’evento di apertura della Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2022, che in questo weekend si prepara al gran finale con Mario Martone e la sua intera filmografia.
«La sua forza dopo tanto tempo resta intatta», spiega Daniela. Carlo Rambaldi si è spento dieci anni fa, il 10 agosto 2012. E.T., quarant’anni dopo la prima, è un punto fermo del cinema mondiale. Daniela racconta le origini: «Il telefono squillò poco prima di mezzanotte nella nostra casa di Encino, in California. Dall’altra parte del filo, la voce implorante di Spielberg, con cui papà aveva già lavorato per Incontri ravvicinati del Terzo Tipo. Diceva: Carlo, dobbiamo vederci, I have a big problem. Steven non era contento del team americano: il personaggio non era empatico, non suscitava tenerezza.
Aggiunse: so che ti sto chiedendo la Luna, amico mio, ma devi aiutarmi. Papà buttò giù due schizzi e in un amen creò il prototipo che poi mi sottopose. Non c’era tempo da perdere. La produzione cominciava a storcere la bocca. Papà non dormì più per sei mesi. Lavorava 18 ore al giorno, weekend compresi. Quando, un anno dopo, ci fu l’anteprima e gli spettatori uscivano con le lacrime agli occhi un giornalista chiese: Carlo, hai pianto anche tu? La risposta fu: no, io avrei pianto solo se il film non fosse riuscito a emozionare il pubblico».
Rambaldi era affascinato dal movimento, racconta Daniela: «Spesso ci chiedeva cose come: pensa se quel candelabro improvvisamente si mettesse a ballare. Quando ero bambina, prendeva le mie bambole e le smontava. Il suo atelier di Roma, a Monteverde, sulla Gianicolense, era un open space in un seminterrato con una porticina e una saracinesca. Aspettavo mamma in auto, impaurita. Quella, per me, era la fabbrica dei mostri.
Papà portava sempre con sé un grosso bloc notes. Disegnava, prendeva appunti, fissava idee. Era l’epoca di Profondo rosso. Poco prima c’era stata la grande delusione del Pinocchio di Luigi Comencini: la produzione aveva chiesto un burattino meccanizzato che poi fu utilizzato all’insaputa dell’autore. Seguì una lunga causa. Ho sempre pensato che E.T. sia stata la sua rivincita».
Carlo, il geometra di Ferrara laureato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, aveva già lavorato con Monicelli, Ferreri, Pasolini e Pupi Avati quando fu chiamato a Los Angeles da Dino De Laurentiis per creare King Kong. «Praticamente, non lo vedemmo più per un anno. De Laurentiis gli consegnò un intero padiglione degli studios. I tecnici americani lo guardavano con sospetto. Papà aveva un modus operandi rinascimentale, senza orari e ruoli definiti. E non parlava inglese. Per farsi capire usava il dialetto ferrarese».
Un anno dopo la famiglia si riunì in California. Aggiunge Daniela: «Mio padre colse al volo le possibilità che un Paese come gli Stati Uniti poteva dargli. La sua energia creativa compensava le molte assenze. Quando era a casa, dopo una giornata in laboratorio, si sedeva al grande tavolo da pranzo, metteva la musica classica, Beethoven soprattutto, e disegnava. Spesso ci coinvolgeva, chiedeva pareri ai miei fratelli e a me, ci mostrava schizzi e bozze. Non era severo. Il compito di metterci in riga spettava a mamma Bruna. La nostra vita americana era molto riservata. Eravamo vicini di casa di Michael Jackson, un ammiratore di papà che volle farsi fotografare con E.T.».
Mamma Bruna si occupava delle pubbliche relazioni e organizzava party per la comunità del cinema a prevalenza italiana. «Penso a Sylvester Stallone, Ursula Andress, Raf Vallone ed Elena Varzi, Tony Renis, Ornella Muti. Ricordo nel 1981 la festa di compleanno di Oliver Stone alla fine delle riprese de La mano. L’Happy Birthday in sottofondo, la mano meccanica che avanza nel lungo corridoio con una candela accesa. Oliver aveva le lacrime agli occhi. Allora ero molto timida. A scuola, quando si spargeva la voce che ero la figlia di chi aveva inventato E.T. mi sentivo in imbarazzo. Ancora di più se c’era da fare un tema sul mestiere di papà. Non mi piaceva dire che fabbricava mostri. Scrivevo: costruisce giocattoli per adulti».
E.T. è oggi conservato a Milano, perno di un progetto di restauro e digitalizzazione di reperti e creature di Rambaldi avviato dalla Fondazione che porta il suo nome con la Cineteca di Milano. Cento casse di materiale con gli originali dei calchi e della meccatronica, i vermi di Dune, l’alieno di Incontri ravvicinati, costumi e mano di King Kong, dipinti, lettere, foto, diapositive. Il progetto, avviato nel 2019 al Palazzo delle Esposizioni di Roma e poi bloccato dal Covid, prevede un tour internazionale e una mostra tutta dedicata a E.T. «Stiamo preparando anche una linea di giocattoli e un’altra di gioielli».
· 10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.
Paolo Di Paolo per la Repubblica il 17 marzo 2022.
«Dammi la due, dammi la tre!». Bisogna inventarsi una confidenza speciale con la telecamera, supporre che sia fatta per te; o altrimenti, pretenderlo. La naturalezza davanti al suo occhio, alla fatale lucina rossa, la si conquista con il tempo e con lo sforzo; oppure, la si ha da sempre. Come un sapere ereditato altrove, ma buono da spendere in quello strano acquario che chiamiamo televisione. Uno come Gianfranco Funari, che nel primo giorno di questa primavera compirebbe novant' anni, non ha imparato in tv a fare la tv.
E questo forse è il tratto più sorprendente nella ricostruzione della sua parabola artistica che Marco Falorni e Andrea Frassoni hanno realizzato per Sky Documentaries, Funari Funari Funari (dal 21 marzo su Sky e su Now). Gianfranco nato a Trastevere nel 1932 diventa Funari inventando sé stesso. Provando cioè a travasare nel piccolo schermo il distillato di (sghembe) vite precedenti: il croupier, il cabarettista, il giramondo giocatore d'azzardo. Parlare spiccio, saper sorridere mostrando una dentatura che quasi scintilla, passeggiare con le mani in tasca, o fumare come si fosse nel proprio salotto.
Funari, andando eternamente a braccio, va a braccetto con lo spettatore: da lui si fa ispirare come dagli avventori occasionali con cui si attacca bottone sul treno o al bar, da lui, in qualche modo, si fa guidare. Anche se poi l'impressione è che guidi lui. Ma in verità Funari capta gli umori della platea e li inala, li asseconda, li alimenta. Sfonda la quarta parete accostando il suo faccione alla telecamera e producendo un primissimo piano iperbolico, quasi grottesco.
Qualche volta - come da lui imparò a fare anche Bonolis, tra gli interpellati nel documentario - si girava e mostrava il profilo, e più che il profilo il padiglione auricolare, così da dimostrare, senza renderlo esplicito, di essere in fondo un gigantesco orecchio pronto a raccogliere il parlottare, il bofonchiare, o l'inveire della gente seduta in poltrona.
Ecco: la gente. L'espressione suona sempre un po' approssimativa se non sciatta, e tuttavia il vero grande invadente protagonista di Funari Funari Funari, accanto al suddetto, è proprio la gente. Gli intervistati - da Vittorio Sgarbi, che evidenzia di non avere mai (mai!) litigato con Gianfranco, a Piero Chiambretti, a Massimo Bernardini, alle donne della sua vita, Rossana Seghezzi e Morena Zapparoli, o lo stesso Bonolis - tradiscono di tanto in tanto uno stupore ancora vivo ragionando sull'intuizione centrale della carriera di Funari.
Quella, detto brutalmente, di far parlare la gente; di aprire il microfono a tutti - come Radio Parolaccia, però perfino prima di Radio Parolaccia. E non solo perché il pubblico diventasse protagonista - così nella logica, più tarda, del reality - ma soprattutto perché interferisse, dialogasse con i soliti "protagonisti" (tanto più se onorevoli), incalzandoli, e se necessario schiaffeggiandoli.
Oggi diresti populista, ma la ruvida iper-romana chiacchiera di Funari è il pionieristico, e perciò geniale, collante della chiacchiera altrui, il talk show già destrutturato, proprio mentre nasceva quello archetipico di Maurizio Costanzo. La scaletta è una stampella di cui può fare a meno chi modella la tv sul proprio corpo e sul proprio fiuto, su una capacità di improvvisazione che è quella del jazzista del senso comune, dello sfottò e dello sbotto, della domanda ingenua e comunque radicale.
Una recensione piuttosto infastidita del Funari iper pop e pre-populista fu firmata su questo giornale da Beniamino Placido, che chiedeva allo showman "un tasso un tantino inferiore (solo un tantino) di rozzezza".
L'interessato si arrabbiò, e esibì lo sdegno in tv, svelando difficoltà intestinali prodigiosamente sbloccate dalla lettura dell'articolo uscito su Repubblica. Ma forse la verità è che il grande Beniamino aveva ragione e che Funari non aveva torto.
Quel tratto distintivo di rozzezza, da pazzo eretico, per pescare dal documentario qualche opportuna definizione, era l'arma di Funari, lo strumento con cui scompaginava una televisione fatta di finzione e di galateo, di distanza e di retorica spesso precotta o stracotta. Il tribuno sfascia-tribune strappa i politici alle granitiche rubriche in bianco e nero alla Jacobelli e li costringe non tanto a stare in televisione, quanto a «fare la televisione ».
Così Occhetto riceve (un po' stordito, a dire il vero) una mega- torta di compleanno e Berlusconi si lascia fissare negli occhi, in silenzio, per tre interminabili minuti. Funari fa il complice irridente, fa il grillo parlante, fa l'arruffapopolo nella stagione di Mani Pulite, l'araldo della politica "vicina alla gente" che per fortuna non è, o non è ancora, anti-politica.
E dà forma al villaggio, anzi "villaggetto" globale, che è la tv fatta anche e soprattutto da chi la guarda. I suoi eredi sono meno intemperanti, o lo sono per posa; i conduttori della fascia serale politica di Retequattro gli devono tutti qualcosa, purtroppo, ma non è detto che lo sappiano. Da padre involontario (anche del peggio), di tutti i Funari o "funaristi" d'Italia, Gianfranco, il trasteverino libero, era (e resta) il migliore.
Da ilnapolista.it il 17 marzo 2022.
Il Fatto quotidiano intervista Morena Zapparoli la vedova di Gianfranco Funari che a marzo avrebbe compiuto novant’anni.
Si sentiva esiliato dalla politica, tutta, sia di destra che di sinistra, “perché li ho massacrati”, ripeteva. Al suo funerale si è presentata tanta gente comune, pochi dello spettacolo o del giornalismo, giusto Piero Chiambretti; poi ricordo Marco Ferrando (ex parlamentare del Prc), il giudice Gian Carlo Caselli e Antonio Di Pietro.
Racconta che gli accaddero cose strane quando si candidò a sindaco di Milano. Era prima della loro relazione.
Un giorno trovò sulla scrivania di casa un mazzetto di lettere private tra lui e la sua amante; (pausa) insomma, missive amorose, quasi tutte scritte da lei, accompagnate da un biglietto inequivocabile: “Ti troviamo ovunque”. (Sorride) Il problema è che la signora in questione era la moglie di un ministro. Come minaccia gli inviarono anche una mazza da baseball e altri messaggi non rassicuranti.
Che ne pensava dell’imitazione dedicatagli da Corrado Guzzanti?
Gli piaceva, ne era orgoglioso, anche se aveva evidenziato quasi solo i lati più grotteschi; (sorride) alcuni erano reali, come la mortadella tagliata fina fina: far assaggiare la mortadella al politico ospite della trasmissione si era tramutato in un rito osannato dal pubblico ed esaltato dallo sponsor.
A casa la mangiava?
(Sorride) A Roma, a Trastevere, c’era un locale che serviva la pizza-Funari: bianca con la mortadella.
Parlava spesso dei suoi anni da croupier.
Gli anni da croupier in giro per il mondo, in particolare nel Sud-est asiatico: lì divenne uno degli uomini di fiducia di tal Mister Blanche, un gestore di casinò, un gangster, secondo lui intelligentissimo, che gli ha insegnato tutte le tecniche del mestiere; (cambia tono) una sera, come forma di ritorsione contro Gianfranco, i sicari gli hanno spezzato quattro dita della mano e Mister Blanche lo ha successivamente vendicato dando fuoco al grattacielo dei mandanti.
Funari, un docufilm per la leggenda del giornalaio d'Italia. Croupier, cabarettista, soprattutto rivoluzionario della tv: Gianfranco viene omaggiato con una pellicola e un Premio, vinto da David Parenzo, Gessica Massaro e Lercio.
Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
L’ultima immagine di Gianfranco Funari, il tribuno invincibile, risale al suo funerale il 12 luglio del 2008, nella Chiesa di San Marco a Milano: una bara immersa nei fiori, sul coperchio il suo cappello Stetson e il bastone, come il mantello e la spada di Zorro; un pubblico immenso fatta di gente comune; nemmeno un politico o uno straccio di vip sugli inginocchiatoi. Meglio. Gianfranco, compiaciuto, si sarebbe acceso una Marlboro in quei lunghi primi piani che sapeva reggere con astuzia, e avrebbe sorriso.
Ed è proprio dalla scena di un finto Gianfranco, sfocato in una cripta di fumo, assiso su un tavolo da gioco eppoi sdraiato sul divano dinnanzi al suo Telegatto citando l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà d’espressione applicata alla tv, che si apre Funari Funari Funari. Ovverosia, il docufilm di Marco Falorni e Andrea Frassoni diretto da Dario Ghezzi che Sky Documentary ha prodotto e manderà in onda il 23 marzo. Il film è presentato in anteprima nazionale a Viareggio a chiusura della prima edizione del Premio Gianfranco Funari- il giornalaio dell’anno voluta dalla Fondazione Carnevale presiedutada maialina Marcucci; e il suddetto premio consegnato dalla figlia Carlotta a “colui o colei che, attraverso la parola, lo scritto e qualsiasi mezzo di diffusione, ha manifestato liberamente il suo pensiero e si è contraddistinto per il suo spirito indipendente e per la sua voglia di fare informazione aperta a tutti”. Nella fattispecie i vincitori sono David Parenzo per la radio e la tv (che di Funari, per stile ed efficacia, in effetti era stato discepolo sulle t locali), Gessica Costanzo per le sue inchieste sul giornale Valseriana News e le testimonianze raccolte nel suo libro legate ai lati nascosti della pandemia, e il Lercio, testata satirica che tratta la politica in modo squisitamente funariano. Fin qui la nuda cronaca. Poi la cronaca cede il posto alla nostalgia per il più grande Masaniello che abbia calcato la tv. Funari oggi avrebbe compiuto 90 anni e, conoscendolo, non gli sarebbe piaciuto. Per uno che, dai tempi dell’avventura da croupier nelle navi agli impegni da cabarettista, attore, cantante (“Io non canto, faccio finta” era il titolo di un suo album) fino alle continue dirette tv, aveva l’argento vivo addosso; be’, la vecchiaia rappresentava un Moloch feroce. Di Funari si è detto tutto.
Nel film gli amici o i leali avversari intervistati ne descrivono il carattere. Aldo Grasso dice: “Ha sdoganato la gente comune in tv, quando la porta si è aperta ci si sono infilati tutti”. Paolo Bonolis nota che “quando guardi Gianfranco Funari ti aspetti sempre l’inaspettabile”. Piero Chiambretti, unico presente al suo funerale, afferma: “La televisione ricercava i pazzi come lui, per fermali e arrestarli”. Massimo Bernardini analizza: “Credeva di avere dietro tutto il popolo, ed è un errore madornale, ma a differenza dei funaridi, dei suoi emuli, lui ci ha sempre messo la faccia”. Vittorio Sgarbi ricorda: Funari è l’unico con cui non è mai riuscito a litigare e che “ha anticipato i reality; c’era una telecamera, ma era come se non ci fosse”. Dopodichè, ecco i ricordi, a zaffate, delle due mogli Rossana Seghezzi e Morena Zapparoli; la vita sulle navi; i primi passi da cabarettista nei programmi di Raffaele Pisu; il suo cult Abboccaperta inizialmente bocciato dalla Rai col dirigentone Bruno Voglino che tentennava: “Lei si sbaglia, la gente in tv non parlerà mai”, ma Gianfranco la fece parlare mettendole le telecamere non davanti ma dietro, e fu un cataclisma di ascolti e di stipendio (600 milioni di lire). Eppoi, ancora, il passaggio ai mezzogiorni Fininvest; l’apprezzamento del Berlusca per quel registro da giornalaio affabulatore che aveva cambiato il lessico della tv; e l’introduzione dei politici in tv intervistati dal popolo (memorabile l’interrogatorio all’allora ministro della Sanità de Lorenzo).
La vita di Funari, si alterna con spezzoni di documentari, titoli di giornale, testimonianze, che raccontano gli zenith e i nadir di Gianfranco e dell’Italia: dal terrorismo alle elezioni, da Tangentopoli all’avvento della Lega. Funari aveva il cuore della gggente come bussola. Gli è sempre andata bene, salvo gli ultimi anni, nei programmi della barba bianca -tipo la Commedia Divina poi diventato Vietato Funari- dove s’immaginava morto come in un romanzo di Mark Twain. Manca, nel film, parte della cronaca degli ultimi anni: l’esperienza come direttore dell’Indipendente dove faceva le riunioni di redazione in accappatoio; le impennate d’orgoglio sulle tv locali; la sua trasformazione (che non gli garbava) in ospite portascolti; e il progetto di un paio di biografie -una dovevo scriverla io- dove non avrebbe risparmiato nessuno.
Invece il fumo, il tempo e gli sforzi fisici non hanno risparmiato lui. Quando se ne andò scrissi che per lui era valida, sulla lapide, l’epigrafe di Califano, “Non escluderei il ritorno”. In qualche modo l’ha rispettata…
· 10 anni dalla morte di Whitney Houston.
Estratto dell'articolo di Arianna Finos per “la Repubblica” il 15 Dicembre 2022.
(…) arriva al cinema un'altra icona della musica, una vita al ritmo della pop dance, un vissuto non meno drammatico.
Whitney Houston voleva ballare con qualcuno che l'amava ed è morta sola nella vasca da bagno del Beverly Hilton Hotel dieci anni fa, a 48 anni. Il titolo italiano di I wanna dance with somebody, film di Kasi Lemmons in sala il 22 dicembre (targato Sony, distribuito da Warner) è Whitney una voce diventata leggenda. Ad incarnare la cantante è la britannica Naomi Ackie, attrice e cantante anche se - a differenza di Andra Day e Jennifer Hudson - nel film ci sono le esibizioni originali della Houston.
(…)
L'ascesa e le tappe più importanti della carriera sono scandite dai successi, da The greatest love of all, a I wanna dance with somebody, dall'inno americano cantato a Super Bowl del 1991 a I will always love you, colonna sonora di Guardia del corpo, il film con Kevin Costner. L'amicizia con Rubyn, che diverrà sua assistente, l'incontro con il marito Bobby Brown, la nascita dell'amata figlia Bobbi Kristina (che sarebbe morta nel 2015 in circostanze simili a quelle della madre), il declino, l'abuso di droga, i danni alla voce.
(…) Impossibile non ripensare al doc di Kevin Macdonald del 2018, che affrontava il passato oscuro di Whitney, le molestie subite dalla zia Dee Dee Warwick: «Penso di averlo interiorizzato, quel lato - spiega Naomi - Whitney, consapevole o meno, adattava la sua immagine, era al servizio di chi le era intorno e del pubblico globale. Cercava di affrontare le proprie difficoltà, stando attenta alle reazioni dei suoi cari».
Per la regista, questo «è un film celebrativo del talento di Whitney. Volevamo, senza essere irrispettosi, raccontare la storia dell'essere umano dietro l'icona. Una donna con difficoltà profonde in cui ci si può identificare».
Una donna padrona delle proprie scelte: dalle canzoni che esprimessero il sentimento del momento, alla svolta R&B per disinnescare il pregiudizio "troppo bianca", dal rapporto distruttivo con Bobby Brown all'uso di droga (in una scena dice a Davis che alcune delle performance che lui ama di più sono state aiutati della droga, «per cantare con gli dei hai bisogno di una scala»).
«Ho parlato con molti che la conoscevano e nessuno la ricordava vittima. Era una donna forte, ha saputo controllare la sua carriera e il tipo di musica che faceva è diventata negli anni sempre più autentica: c'è bellezza e trionfo in questo». Il film dedica spazio al rapporto con l'amica e innamorata Rubyn: «Chissà cosa sarebbe successo se Whitney non fosse stata messa sotto pressione dall'esterno, dall'immagine da fidanzata d'America che sentiva di dover mantenere. Robyn era dalla sua parte, teneva a lei. Ma volevamo anche ritrarre la forza e la bellezza della loro amicizia, lunga una vita».
Whitney Houston, dieci anni fa l’addio alla diva: il racconto dei suoi ultimi giorni. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022.
I retroscena sulla morte della cantante, tra le voci più influenti del panorama musicale, scomparsa tragicamente l’11 febbraio del 2012 a 48 anni
Whitney e il suo inferno personale
«Il mio più grande demone sono io. O sono il mio miglior amico o il mio peggior nemico». L'11 febbraio del 2012 Whitney Houston veniva trovata morta in un hotel di Beverly Hills a 48 anni, ultimo atto di un inferno personale durato tutta una vita. L’artista, tra le voci più influenti nella discografia («How will I know», «I wanna dance with somebody» e «I will always love you» sono solo alcune delle sue hit più amate), ha venduto 190 milioni di copie in tutto il mondo, è entrata nel Guinness dei primati ed è stata una delle donne più premiate della storia della musica. Quando scendeva dal palco però trovava sempre i suoi problemi privati ad attenderla: la dipendenza da droga e alcol, il matrimonio turbolento con Bobby Brown (da cui ha divorziato nel 2007), senza contare gli strascichi psicologici del suo passato (gli abusi sessuali subiti quando era ancora una bambina). E non ha trovato pace nemmeno nei suoi ultimi giorni.
Il gala di Clive Davis
Whitney era arrivata al Beverly Hilton Hotel, che sorge sulle colline di Hollywood, il 9 febbraio. Insieme a lei le amiche (e colleghe cantanti) Brandy e Monica, la figlia Bobbi Kristina, i suoi collaboratori e Ray J, il suo fidanzato: erano tutti in città per partecipare al gala (che precede la serata di assegnazione dei Grammy) organizzato ogni anno dal discografico Clive Davis, proprio colui che tanti anni prima aveva scoperto l’incredibile talento della diva. Houston trascorre la giornata tra qualche tuffo nella piscina dell’albergo (lo racconta lei stessa quando interrompe per un saluto l'intervista video che Brandy e Monica stavano rilasciando a E! insieme a Clive) e gli incontri con la stampa.
Una serata movimentata
La sera del 9 febbraio Whitney partecipa ad una serata pre-Grammy organizzata da un’altra collega, Kelly Price (il «Kelly Price & Friends Unplugged: For the Love of R&B»), al nightclub Tru Hollywood: è annunciata come special guest, e sale sul palco con Kelly per duettare su alcuni inni gospel. Tutti però notano come, durante quella che sarebbe stata la sua ultima performance pubblica, l’artista non sia al massimo della forma, fisicamente e a livello vocale (la sua voce è incerta). Alla festa Whitney si imbatte anche nell'ex star di X-Factor, Stacy Francis, e tutto in un primo momento sembra filare liscio, fino a quando le due donne iniziano a discutere. In seguito Houston, mentre lascia il club, viene fotografata con aria stravolta (le immagini dei graffi che si notano sul suo braccio e delle tracce di sangue visibili lungo la sua gamba fanno il giro del mondo). «Sono profondamente dispiaciuta per gli eventi che hanno portato all'incomprensione di giovedì, ma rispetto e amo Whitney più di quanto posso dire. Questo per me è un momento triste. Amavo Whitney Houston con tutto il cuore. È stata un'incredibile influenza musicale», scriverà su Twitter Francis il 12 febbraio.
Le ultime ore
Sabato 11 febbraio, dopo aver trascorso la notte precedente al bar dell’hotel a bere con un gruppo di amici (come hanno riferito alcuni testimoni), l’artista si sveglia molto tardi. Nel primo pomeriggio Whitney e sua cugina, Dionne Warwick, si sentono telefonicamente per assicurarsi di essere sedute allo stesso tavolo alla festa di Davis e intorno alle 15.15 Houston chiama sua madre Cissy (le dice che le vuole bene e che sarebbe andata a trovarla al suo ritorno da Los Angeles). Sono i suoi ultimi istanti: gli eventi precipiteranno nel giro di pochi minuti. L’assistente personale Mary Jones è l’ultima persona a vedere Whitney in vita: la lascia sola giusto il tempo di andare a comprarle - su sua richiesta - dei cupcake. Al suo ritorno, alle 15.43, trova la cantante nella vasca da bagno della suite, stesa a testa in giù nell’acqua, e chiama subito la sicurezza. Anche la polizia, che già si trovava in hotel per via dell’evento di Davis, arriva nella stanza, ma tutti i tentativi di rianimazione sono vani: Whitney Houston viene dichiarata morta alle 15.55. Il medico legale rivelerà in seguito che il decesso è stato causato dall’annegamento accidentale e «dagli effetti di una cardiopatia aterosclerotica e dall'uso di cocaina (ne aveva assunta anche poco prima di morire, ndr.)». Nel suo sangue - come rivelato dagli esami tossicologici - un mix di farmaci: difenidramina, alprazolam, cannabis e ciclobenzaprina.
Un tragico destino
Nei giorni successivi alla scomparsa della madre Bobbi Kristina Brown viene ricoverata al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, sopraffatta dal dolore. Tre anni dopo seguirà il suo tragico destino: il 31 gennaio 2015, a soli 22 anni, quello che nel frattempo è diventato il suo fidanzato - il «fratellastro» Nick Gordon, che era andato a vivere nella famiglia Houston quando aveva 12 anni - la ritrova priva di conoscenza, a testa in giù - proprio come Whitney - nella vasca da bagno della loro villa ad Atlanta. Ha in corpo un cocktail di alcol, droga e farmaci, ma è ancora viva e viene subito portata in ospedale. Rimane in coma per sei mesi: il 6 luglio - senza essersi mai ripresa - muore. Gordon, che fa uso di stupefacenti, viene accusato dalla famiglia di aver fornito le sostanze alla sua compagna, e di aver così inconsapevolmente causato l’incidente che ha portato Bobbi Kristina alla morte. Gli Houston e Bobby Brown gli fanno causa, la vincono, ma Nick - che non si è presentato in tribunale - non pagherà mai il risarcimento di 36 milioni di dollari: il 1°gennaio del 2020 viene stroncato da un’overdose di eroina.
· 10 anni dalla morte di Lucio Dalla.
Lucio Dalla, "L’uomo di Piazza Grande” raccontato da chi lo conosceva bene. Gabriele Antonucci su Panorama il 20 Dicembre 2022.
Il nuovo libro del giornalista e discografico Paolo Maiorino ripercorre la sterminata produzione musicale del cantautore bolognese attraverso le testimonianze e i ricordi dei suoi numerosi compagni di viaggio
Il primo marzo del 2012, oltre dieci anni fa, è una data tristemente nota agli appassionati di musica perché ha segnato la morte improvvisa di Lucio Dalla, avvenuta a causa di un attacco cardiaco in un albergo di Montreux, la città del jazz, dove si era esibito la sera prima. Le sue canzoni profonde e intense, la sua voce straordinaria, la sua musica così ricercata che attingeva alle sue esperienze giovanili nel jazz (soprattutto nell'uso dello scat), il suo personaggio buffo e al tempo stesso delicato, con il cappello e la barba, lo rendevano un artista fuori dal tempo, che ha lasciato un vuoto incolmabile nel panorama della musica italiana. Un genio del quale pensiamo di sapere tutto e che, invece, riserva ancora molte sorprese, come conferma il libro L'uomo di Piazza Grande. I dischi di Lucio Dalla raccontati dagli amici (pubblicato da Aereostella), curato dal giornalista e discografico Paolo Maiorino, frutto di anni di ricerca e approfondimento.
Non una biografia classica, ma il racconto della sterminata produzione musicale di Lucio Dalla attraverso le testimonianze e i ricordi dei suoi tanti compagni di viaggio. Tantissime le testimonianze di artisti, musicisti, produttori, discografici, manager, fotografi, video maker. Ron (che firma anche la prefazione), Renzo Arbore, Pupi Avati, Gianni Morandi, Fiorella Mannoia, Samuele Bersani, Luca Carboni, gli Stadio al gran completo (Gaetano Curreri, Ricky Portera, Giovanni Pezzoli, Fabio Liberatori e Marco Nanni), Paola Pallottino, Gli Idoli, Mario Lavezzi, Iskra Menarini, Angela Baraldi, Tony Esposito, Jimmy Villotti, Gianfranco Reverberi, Guido e Maurizio De Angelis; i produttori Alessandro Colombini, Mauro Malavasi, Roberto Costa e tantissimi altri. «Ho avuto il piacere, e la fortuna, di conoscere Lucio Dalla e di lavorare con lui durante la mia carriera. Per anni, prima e dopo la sua morte, ho frequentato casa sua a Bologna, in via Massimo D’Azeglio, mi sono appassionato al suo estro, alla sua genialità, al suo amore per l’arte. Ma, come spesso accade, solo dopo la sua scomparsa mi sono interessato ed entusiasmato nel ricercare testimonianze che potessero delineare un quadro più definito dell’uomo quanto dell’artista» racconta l’autore, Paolo Maiorino- «Per come lo avevo conosciuto, Lucio era un visionario, costantemente proiettato al futuro e animato da un’insaziabile curiosità. Un carattere estroverso, ma anche solitario e poetico, comunque spesso sopra le righe. La sua irriverenza, quello sguardo da perenne bambino si è per sempre stampato nei miei ricordi». Per gentile concessione pubblichiamo due estratti de L'uomo di Piazza Grande. I dischi di Lucio raccontati dagli amici, con i ricordi di Gianni Morandi e Samuele Bersani, grandi amici del geniale cantautore bolognese. Il ricordo di Gianni Morandi «Aveva una mente funambolica, mescolava sempre il divertimento col lavoro, almeno un'ora al giorno la passava ai videogames o a giocare a biliardino. A un certo punto si doveva lavorare e di colpo diventava serio e professionale. Quando registrammo Vita, volli cantarla almeno una decina di volte perché mi sembrava che ogni volta mancasse qualcosa. Lucio la cantò una volta sola. Gli feci notare che non era perfetta, che aveva stonato una nota o non pronunciato bene una parola. Mi rispose che andava bene, che la gente si abitua alle piccole imperfezioni perché è il feeling quello che conta. Se vai a sentire le nostre due interpretazioni, io sembro perfettino e lui quasi sguaiato, all'apparenza distratto. Poi dal vivo non reggevi il confronto perché Lucio era una bestia, un animale da palcoscenico, io mi davo da fare come un pazzo ma lui mi faceva a pezzi comunque. lo davo fondo a tutte le mie risorse e mi impegnavo, lui serafico da dietro la tastiera mi guardava e mi diceva: ‘Dai, stasera al massimo puoi pareggiare!». La testimonianza di Samuele Bersani «Ecco, quando doveva inventare, dava veramente il meglio di sé avendo una fantasia infinita. Il rapporto che ho avuto con lui non l'ho avuto più con nessuno, era persino possibile sentirlo in piena notte per leggergli quello che avevo scritto…Eravamo in grande sintonia, ascoltavamo tanta musica insieme, guardavamo decine di film. Ed era quasi sempre lui a proporre chi ascoltare, Keith Jarrett, Prince, i Pearl Jam...C'è un aneddoto che non credo di aver mai raccontato. Era un momento di grande positività, Canzoni stava andando alla grande e io avevo appena scritto Giudizi Universali. Lucio mi aveva prestato il suo maggiolone cabriolet perché non avevo un'auto a Bologna. Capitò che ci trovammo a discutere al telefono mentre ero in treno e stavo tornando in città. Si era fissato sul fatto che avrei dovuto partecipare al Festival di Sanremo, mentre io non ne avevo assolutamente intenzione.
Avemmo un diverbio piuttosto acceso e alla fine dovetti impormi contro la sua ostinazione. Terminata bruscamente la telefonata tornai a casa per scoprire che mi aveva fatto portar via il Maggiolone con il carro attrezzi… Lucio sapeva essere l'uomo più generoso del mondo, ma a volte era granitico nelle sue decisioni. Avevamo molto in comune, come il fatto di essere entrambi figli unici e una certa conseguente necessità di solitudine».
L'Italia si unì nel nome di «Attenti al lupo». Fine Anni '90, c'era il sogno infranto delle «notti magiche», ma arrivò la canzone di Lucio Dalla a risollevare l’umore nazionale. In quella stagione, se per il cantautore la Capitale era la città dei miracoli, le Tremiti e il Gargano rappresentavano la vastità del mare. Liborio Conca su La Gazzetta del Mezzogiorno il 9 Marzo 2022.
Verso la fine del 1990, reduci dal sogno infranto delle notti magiche, arrivò una canzone a risollevare l’umore nazionale. Tutti, adulti e bambini, cantavamo «Attenti al lupo», la canzone di Lucio Dalla che dilagava dalla televisione – fu scelta da Pippo Baudo come sigla di Fantastico – fino alle radio e alle musicassette incise da ascoltare in macchina. Scritta da Ron, «Attenti al lupo» fu il singolo trainante di Cambio, uno degli album più venduti da Lucio in carriera.
Nella foto di copertina, un ragazzo è seduto a un tavolo tra due donne: lui, l’unico a guardare l’obiettivo, è un giovanissimo Lucio Dalla, mentre le donne sono la madre, Jole Melotti, e la cugina Silvana Scaglioni. Chissà quante tra le persone che hanno passato Cambio di mano in mano sanno che lo scatto di copertina è stato preso a Manfredonia, dove Dalla trascorreva le estati in gioventù: Jole, la madre, era lì di casa per lavoro, e portava con lei il suo bambino-ragazzo, già enfant prodige appassionato di jazz.
«Dice che era un bell’uomo e veniva, e veniva dal mare», cantò di lì a poco. Non ha torto chi sostiene che Dalla sia stato più di tutti il cantante che ha unito l’Italia, o perlomeno che ha saputo metterla d’accordo, passando dalla musica più alta a quella popolare, dal cantautorato raffinato ai ritornelli buoni per spaccare le frequenze radio, proprio come «Attenti al lupo». All’unità musicale, poi, Dalla ha affiancato una specie di singolare unità geografica: gli scenari delle canzoni passano dalla sua Bologna fino alla Sorrento di Caruso, e ancora a Milano.
In questo viaggio italiano, un discorso a parte meritano la Puglia – il Gargano, in particolare – e Roma, la città dove ha vissuto per diverso tempo. «È la notte dei miracoli fai attenzione / Qualcuno nei vicoli di Roma / Ha scritto una canzone», canta Lucio in «La sera dei miracoli»; vagando per Trastevere, nella parte più protetta dal trambusto quotidiano della movida e dei turisti che affollano le stradine del quartiere, le stesse parole compaiono su una targa affissa alla parete di una palazzina ritinteggiata da poco. Siamo in vicolo del Buco, un angolo riparato che si allunga da via della Luce: qui ha vissuto Lucio Dalla nel suo periodo romano, e proprio in queste strade trasse l’ispirazione per La sera dei miracoli.
La canzone è una fotografia in versi delle festose notti vissute dalla città ai tempi delle prime edizioni dell’Estate romana, il cartellone estivo inventato dal geniale assessore alla Cultura di quegli anni, Renato Nicolini. «Avevo visto Roma incendiata da feste, da canti, da gente ubriaca bene. Davvero un momento di gioia collettiva», raccontava Lucio. Si intravedeva ormai l’inizio degli Ottanta, e la voglia di mettersi alle spalle l’aspra stagione degli anni di piombo si riversava nelle strade con frenesia e gioia di vivere; Dalla, in questi vicoli, ne catturava l’energia. A Roma, Lucio ebbe modo di rafforzare l’amicizia con Francesco De Gregori – i due lavorarono insieme a Banana Republic, che fu album e memorabile tour – e di lavorare e incidere negli studi RCA della Capitale.
Negli stessi anni, se per Dalla Roma era la città dei miracoli, le Tremiti e il Gargano rappresentavano la vastità del mare e un’ispirazione più riflessiva, quasi metafisica. Fu nella casa nell’isola di San Domino, buen retiro alle Tremiti, che Lucio pensò e scrisse un altro capolavoro, «Com’è profondo il mare». «Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte / per paura degli automobilisti, dei linotipisti», è l’attacco di una canzone che in una lunga allegoria evoca il ‘77 da una versione intima, mentre la musica ondeggia evocando il moto del mare. Fu la prima canzone di cui Lucio Dalla fu interamente autore, l’alba di una nuova storia per il cantautore più italiano di tutti, il ragazzino che ancora ci sorride da quel tavolo al bar di Manfredonia.
Lucio Dalla, 10 anni fa l’addio: il clarinetto imparato da autodidatta, lo scat, il posto fisso allo stadio, 15 (+1) segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2022.
La scomparsa dieci anni fa a Montreux
«Com’è profondo il mare», «Piazza Grande», «Anna e Marco», «Caruso», «Attenti al lupo», «Nuvolari», «L'anno che verrà», «Canzone». Martedì primo marzo 2022, dieci anni dalla morte di uno dei cantautori simbolo della musica italiana: in questo stesso giorno del 2012 Lucio Dalla, reduce dal suo concerto al festival jazz di Montreux (tra i più importanti al mondo), chiudeva gli occhi per sempre nella sua stanza dell'Hotel Plaza. Era nato a Bologna il 4 marzo 1943, e già in tenera età aveva mostrato il suo immenso talento: adorava cantare, ballare e recitare. E questa non è l’unica curiosità su di lui.
Ha cambiato scuola più volte
Nel 1950, quando suo padre Giuseppe morì stroncato da un tumore, il piccolo Lucio fu mandato dalla madre Jole al Collegio Vescovile Pio X di Treviso, e terminate le scuole dell'obbligo si iscrisse a ragioneria. Poi passò al liceo classico e infine approdò al liceo linguistico. Ma nella sua mente c’era spazio solo per la sua più grande passione: «A scuola andavo male, preferivo andare in giro a suonare. A diciassette anni ero già a Roma a fare musica»
La laurea honoris causa
Lucio Dalla non ha terminato gli studi, ma nel 1999 l'università di Bologna gli ha conferito la Laurea Honoris Causa in Lettere e filosofia.
Il clarinetto studiato da autodidatta
Per il suo decimo completanno Lucio Dalla ricevette in regalo da Walter Fantuzzi, marito della socia nella sartoria di mamma Jole, un clarinetto. Il cantautore imparò così a suonare lo strumento da autodidatta, e dopo qualche tempo iniziò ad esibirsi con alcune formazioni jazz bolognesi. Diventò anche membro della Rheno Dixieland Band, di cui faceva parte anche il futuro regista Pupi Avati che - in seguito all’attivo di Dalla - abbandonò il gruppo per dedicarsi al cinema: «Il mio sogno era diventare un grande clarinettista jazz - ha poi raccontato Avati -. Ma un giorno nella nostra orchestra arrivò Lucio Dalla. All'inizio non mi preoccupai più di tanto, perché mi pareva un musicista modestissimo. E invece poi ha manifestato una duttilità, una predisposizione, una genialità del tutto impreviste: mi ha tacitato, zittito, messo all'angolo».
L’amicizia con Gianni Morandi
L’amicizia che ha unito Gianni Morandi e Lucio Dalla (culminata in una celebre collaborazione artistica, l’album «Dalla/Morandi» del 1989) iniziò nel 1963: quell’anno i due artisti si conobbero al Teatro Antico di Taormina, nell’ambito di una manifestazione canora. «Era con i Flippers a Taormina e facevano una canzone strana, mentre io avevo già fatto Andavo a cento all’ora, Fatti mandare dalla mamma - raccontava Morandi al Corriere -. Fu buffa questa cosa di due bolognesi che si conoscono a Taormina. Ci demmo subito appuntamento allo stadio. Era un Bologna-Spal. In curva, eh?».
Fu scoperto da Gino Paoli
Nel corso della sua carriera Lucio Dalla ha collaborato con moltissimi artisti, molti dei quali scoperti da lui (Ron in primis). Lui invece fu notato da Gino Paoli al Cantagiro 1963: l’autore de «Il cielo in una stanza» lo convinse a lasciare i Flippers - di cui Dalla era voce solista, clarinetto e sax - per intraprendere la carriera solista.
La censura a Sanremo 1971
Quando nel 1971 Lucio Dalla si presentò a Sanremo il suo brano, che si intitolava «Gesù Bambino», finì nel mirino della censura. Il cantautore e la paroliera Paola Pallottino dovettero così apportare alcune modifiche: il titolo diventò «4/3/1943» e alcuni passaggi del testo furono cambiati (da «mi riconobbe subito proprio l'ultimo mese» a «mi aspettò come un dono d'amore fino dal primo mese», da «giocava alla Madonna con il bimbo da fasciare» a «giocava a far la donna con il bimbo da fasciare», da «e ancora adesso mentre bestemmio e bevo vino...per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino» a «e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino, per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino»).
Gli Stadio erano la sua band
Sul finire degli anni Settanta Giovanni Pezzoli, Marco Nanni, Fabio Liberatori, Ricky Portera e Gaetano Curreri ovvero gli artisti che accompagnavano Lucio Dalla in tour - era l’epoca di «Banana Republic» - decisero di dare vita ad una carriera parallela. Nacquero così gli Stadio.
Spinse a cantare Luca Carboni
È stato Lucio Dalla a spingere Luca Carboni verso la carriera di cantautore: fu lui infatti a suggerirgli di cantare le canzoni che scriveva (ai tempi era autore per gli Stadio).
Gran maestro dello scat
Lucio Dalla è stato un gran maestro dello scat, lo stile di canto improvvisato tipico del jazz (in cui gli strumenti musicali vengono imitati con la voce). Memorabile la sua improvvisazione a DOC con Gegè Telesforo nel 1989.
La sigla di Lunedifilm
Il lunedì sera di Rai1 - dagli anni Ottanta al 2002 - era dedicato al cinema. Ogni pellicola veniva introdotta dalla sigla dell’appuntamento, ribattezzato Lunedifilm, interpretata da Lucio Dalla su musica degli Stadio. È contenuta nel disco della band «Canzoni alla radio» (1986).
La passione per gli scherzi
Il cantautore bolognese amava molto fare gli scherzi: «Quando dormii nella stanza degli ospiti a casa sua, la mattina gli chiesi se avesse suonato tutta la notte - ha raccontato ad esempio Tosca ospite di Francesca Fialdini -. Mi rispose di no e guardando i suoi collaboratori disse: “Ma allora è tornato il fantasma! Anche Morandi l'ha visto nello specchio mentre si faceva la barba”».
La casa del «commendator Domenico Sputo»
A proposito della celebre casa di via D'Azeglio 15 a Bologna, oggi sede della Fondazione Dalla: per depistare i fan il cantautore sul citofono fece scrivere «Comm. Domenico Sputo».
La (segretissima) vita privata
Della vita privata di Lucio Dalla non è mai trapelato nulla: l’artista è sempre riuscito a mantenere il più stretto riserbo sulle sue relazioni. «Non ho nessuna confessione da fare», ha detto una volta intervistato da Aldo Cazzullo. Accanto a lui nei suoi ultimi anni di vita c’è stato il cantante e attore Marco Alemanno (non inserito nell’eredità del cantautore, che è andata a cinque suoi parenti): «Lucio e io potevamo essere maestro e allievo, padre e figlio, fratelli, amici, amanti: Lucio diceva che ci completavamo». Nel 2014 a Verissimo Ron ha smentito che tra i due ci fosse una storia: «Marco non era il compagno di Lucio. Era una figura molto importante per lui perchè gli risolveva dei problemi enormi. Era il suo segretario ed era il suo produttore. Non so perchè alla morte di Lucio abbiano tirato fuori questa cosa. Non si può alla morte di una persona così importante per l'Italia andare a toccare una sfera così privata e intoccabile, perchè, prima di tutto non era vero e, secondo, perchè così hanno tolto a Lucio un pezzo di dignità».
Fila 8, posto 19
Super tifoso del Bologna quando andava allo Stadio Dall'Ara Lucio Dalla occupava sempre lo stesso posto. Nel 2016, prima del fischio d’inizio di Bologna-Carpi, la società rossoblù gli ha dedicato quel seggiolino in fila 8 posto 19 apponendovi una decorazione (l’ombra dell’artista mentre suona il sax). Inoltre dal 2012, per via di una vecchia scommessa, lo storico manager Tobia Righi rinnova simbolicamente l’abbonamento del cantautore.
Il «pucc-cappucc»
A Bologna Lucio Dalla aveva i suoi locali di riferimento, dal ristorante gestito da Paolo «Paolino» Cesari alla trattoria Da Vito. E al Gran Bar sotto casa ordinava il «pucc-cappucc», un «cappuccino con pochissimo latte e senza schiuma».
Testo di Lucio Dalla pubblicato da “Sette - Corriere della Sera” l'1 ottobre 2022.
Tutto comincio con una risata. Del pubblico. Avevo sette anni e interpretavo il piccolo Gheraldino nel Gianni Schicchi di Puccini. Ricordo il Teatro Comunale di Bologna, gli spalti gremiti, l’attesa, l’emozione che ti prende alla gola e, infine, l’urlo (più che una romanza) che mi usci, impetuoso, tonante. Il pubblico rideva, intenerito. Ma io avevo scoperto un mondo. Il mondo dell’opera: quella volta entro in me e in me rimase. Come un fiume sotterraneo che contamina passioni, vocazioni, idee.
L’amore per la musica sinfonica e per il jazz verrà in seguito. All’epoca ero un bambino e quell’universo fatto di luci, costumi, gesti marcati, agi come un’emozione primordiale. Non coglievo le sfumature, ma intuivo una strana inquietudine rumorosa, «un’ansia da adulti», sottolineata da una musica travolgente. Volli subito il disco e non fu che l’inizio: oggi possiedo tutto di Puccini, dalla A alla Z, compreso uno straordinario Agnus Dei, composto per essere eseguito ai funerali di Giuseppe Verdi. Una rarità che mi procuro, diciotto anni fa, il mio amico Bongiovanni, titolare di un negozio di dischi che a Bologna e quasi un’istituzione. Per non parlare delle innumerevoli Tosche.
Se qualche anno fa io ho riscritto la Tosca pucciniana in chiave moderna e stato anche per un omaggio al compositore che, più di tutti, sento dentro. Poi ascolto Maria Callas che si strugge in «Vissi d’arte...» e penso che poche interpreti siano state al suo livello. Come Mozart nelle sin- fonie e Charlie Parker nel jazz. A sedici anni suonai con Chet Baker. Del jazz mi piaceva la complessità nascosta dietro l’apparente leggerezza. Ed e stato un disco jazz a cambiarmi la vita: Out There, di Eric Dolphy, il celebre sax alto.
Lo ascoltai dal vivo nel 1961, ad Antibes-Juan les Pins dove, con la Rheno Dixieland Band (l’orchestra dove, tra gli altri, ci esibivamo io e Pupi Avati), vincemmo il Festival Europeo del Jazz. Io sono un contaminatore: mescolo la passione per la sinfonica al jazz e all’opera. E sono sempre stato un ingordo. Le prime a capirlo sono state le commesse dello storico negozio di dischi “Borsari” di Bologna: fingevano indifferenza quando, ogni tanto, “trafugavo” un disco di Bach (va bene, ogni tanto li riportavo indietro). Ma e stato grazie ad una di queste “razzie” che ho scoperto il Concerto in La Minore di Vivaldi.
L’emozione di eseguirlo dopo tanti anni, insieme ai Solisti Veneti, al Teatro Olimpico di Vicenza, e stata pari a quella provata nell’ascoltarlo di nascosto, da ragazzo. Non sono un collezionista, piuttosto un fruitore. Dormo con lo stereo acceso, dedico almeno otto ore al giorno all’ascolto della musica. E sono un curioso: poco tempo fa ho letto con attenzione una preziosa lezione che Schonberg tenne a Leningrado su Mahler, pubblicata da Miniature.
Ho una predilezione per la Seconda di Mahler, di cui possiedo più versioni. I miei dischi sono consunti, usati. Di Bach e Mozart possiedo tutto, ho raccolto le opere con metodo, cominciando dai fondamentali. Il Requiem mozartiano riaffiora nelle mie composizioni come fosse un tratto genetico. In Tu non mi basti mai ci sono echi di Mascagni. Una volta la eseguimmo in Piazza del Campo, a Siena, insieme all’orchestra Toscanini che faceva Cavalleria rusticana.
Il successo e questo, non e vendere milioni di dischi, credetemi. Quando Mario Monicelli mi chiese di scrivere le musiche per il suo film I Picari, scoprii il Cinquecento, i madrigali, le ballate. Marenzio, Monteverdi. Vent’anni dopo, quando ho musicato il Don Chisciotte di Mimmo Paladino, ho riascoltato quelle musiche con lo stesso turbamento. La passione per Benvenuto Cellini venne dopo, quando lessi la sua Vita e decisi che l’avrei messa in musica.
Con una formazione cameristica, a Firenze, un evento suggestivo sul ponte Vecchio. Il mio amico Luciano Pavarotti condivideva questa bulimia musicale: ascoltavamo di tutto, ci scambiavamo titoli. Lui era Caruso, era straordinario. Si porta- va dietro la duplicità del melodramma: popolare e colto. Ricordo le lunghe discussioni sulla Tosca, per me il capolavoro assoluto del melodramma.
Puccini e involontario ispiratore di tanti lavori moderni: avete mai ascoltato con attenzione la colonna sonora de Il Gladiatore di Ridley Scott? Ebbene si, possiedo anche quella. Io sono di Bologna e a Bologna, a un certo punto della storia della musica, ti dovevi schierare: con Wagner o con Verdi. Una guerra stile Guelfi e Ghibellini, che si combatteva alle prime teatrali, a colpi di boicottaggi e fischi.
Non mi schiero, io godo. Dell’uno e dell’altro, poichè possiedo le opere complete. E non credetemi un feticista del vinile o dei più sofisticati Cd: non disdegno il download digitale. Quello legale, ovvio. Sapete che su Internet ho scoperto Florence Foster Jenkins? Una bizzarra soprano che divenne famosa nei primi del Novecento con un’improbabile opera dal titolo «La regina della notte». Improponibile, si, ma possiedo anche quella.
Contrasti e incongruenze per raccontare il vero Lucio Dalla. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
Il documentario «Per Lucio» ha il merito di affrontare una narrazione autoriale.
Io ti fruisco, Dalla. Seguendo «Per Lucio», il documentario di Pietro Marcello dedicato a Lucio Dalla (Rai3) mi è tornata in mente un’intervista che Giorgio Bocca fece tanti anni fa al cantautore bolognese sull’Espresso, «l’intervista più difficile che abbia fatto in vita mia». Affascinato dai racconti del fidato manager Tobia (Umberto Righi) e dall’amico d’infanzia Stefano Bonaga, capisco quanto fosse complessa la figura di Lucio, nella sua apparente semplicità, dal faticoso esordio (ospite dello Zecchino d’oro con la mamma) agli entusiasmi per i primi successi, dalla fortunata collaborazione con il poeta Roberto Roversi fino alla consacrazione come autore colto e popolare.
«Per Lucio» ha il merito di affrontare una narrazione autoriale, senza preoccuparsi troppo della corrispondenza fra le immagini (attinte anche al repertorio cineamatoriale) e il testo, come se — testo e immagine — fossero due strade che arrivano allo stesso punto ma percorrendo itinerari diversi. E l’arricchimento nasce proprio dal contrasto, persino da certe incongruenze. Ha ragione Bonaga quando afferma che Lucio Dalla è più amato ora in morte di quanto lo fosse in vita, come se le canzoni, liberate dalla presenza funambolica del suo interprete, sprigionassero talento puro. Mi è tornata in mente l’intervista di Bocca (un ritaglio di giornale dentro un libro, come si usava anni addietro) perché era una formidabile schermaglia tra grandi attori, una punzecchiatura continua, un discorso sui massimi sistemi tra due pianeti differenti. E Bocca concludeva: «E so che quando la leggerai dirai che sì, sei tu, ma non sei tu, che ho l’aria di averti capito, ma che non ho capito niente. Comunque sei perdonato. Tu canti a Cesena e a Forlimpopoli e io ti ascolto alla radio e dico ai miei figli: mica male questo Dalla. Io ti fruisco».
I russi, i russi, i bolognesi. La disperata, erotica, mitomania di Lucio Dalla (ma mai quanto quella dei suoi concittadini). Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 marzo 2022.
A Bologna tutti hanno una storia, un’intimità da esibire col cantautore. E ora, a dieci anni dalla sua morte, c’è una mostra che è una specie di gioiosa veglia funebre dove si celebrano le sue canzoni e le sue fantasiose bugie.
«Mi aveva dato la cassetta per sentirle in anteprima, avevo tutto il viaggio fino a Cortina, quando sono arrivata ho fatto salire una persona in macchina, “senti che capolavoro”, e da lì la gente mi fermava per strada, “sei tu quella con Ti hanno visto bere a una fontana che non ero io”, ma se volevano sentirla dovevano salire in macchina con me, figurati se facevo girare la cassetta di Lucio, un giorno ho fatto salire in macchina uno a sentirla e poi è stato il mio grande amore».
Se pensate che il guaio dell’Italia sia che ci conosciamo tutti, non avete mai visto quale sia l’entità del guaio a Bologna, non avete mai trascorso il settantanovesimo anniversario della nascita di Dalla nella città in cui tutti hanno un aneddoto, tutti hanno una storia, tutti hanno col defunto un’intimità da esibire, tutti ti raccontano che era bugiardissimo, e nel raccontartelo ne onorano la memoria nell’unico modo in cui si possa onorare la memoria del personaggio più mitomane della storia del pop: esagerando.
Alla Fonoprint, lo studio d’incisione che se devo specificare cos’è non siete di Bologna, non c’è più il divano rosso su cui Dalla si appisolava (chissà se c’è mai stato o se è mitomania pure il colore del divano). Al Museo Archeologico, la più bizzarra sede per una mostra su uno che tutti (me compresa) dicono scrivesse robe che sembran scritte domani, c’è una lettera che Dalla aveva scritto a Roberto Roversi (che se devo specificare chi è, davvero, smettetela di perder tempo coi miei articoli e andate a studiare, cribbio) dopo aver finito d’incidere il primo dei dischi che avrebbe scritto con lui.
La lettera dice: «Il disco è tuo. Mi hai insegnato tutto». E dice: «Ho terminato da quattro ore e mi manca già. Mi sento un vuoto incredibile e una grande sensazione di insoddisfazione futura (Vorrei ricominciare domani stesso)». E dice: «Mi sento di cantarlo e suonarlo davanti ai re (se ce ne sono ancora)».
E c’è un testo in cui Dalla spiega al pubblico, in concerto, che le canzoni scritte con Roversi sono diverse, «non sono forse canzoni da fischiare con le labbra ma certo sono da cantare dentro». Era il 1973, quattro anni dopo Dalla avrebbe mollato Roversi (non per sempre: nel disco che fece con Gianni Morandi c’era Chiedi chi erano i Beatles, il più bel testo di Roversi), e si sarebbe messo a scriversi i dischi da solo. E il primo disco che si scrisse da solo era Come è profondo il mare, in cui c’è la canzone con cui la tizia in macchina a Cortina rimorchiò, Disperato erotico stomp, la canzone di quelli cui piace Dalla. (A quelli ai quali non piace Dalla, a loro piace Caruso; come quelli cui non piace Scola amano Una giornata particolare).
Come è profondo il mare è impossibile credere sia il disco di uno che non ha mai scritto versi. Come è profondo il mare, la canzone, ha, per citarne solo una, questa strofa qua: «Intanto un mistico, forse un aviatore, inventò la commozione, che rimise d’accordo tutti, i belli coi brutti, con qualche danno per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare». Che esci dalla mostra dove ci sono un sacco di foto meravigliose, Lucio bambino in spiaggia, Lucio che fa la prima comunione, Lucio sulle pagine di Novella 2000 che giura si stia per sposare con una francese, e pensi ai cantautori viventi, li pensi e li piangi, d’altra parte sei pur sempre nella città che ha inventato la commozione e ha dimenticato come si scrivono le canzoni, d’altra parte certe eredità ingombranti mica son facili da raccogliere.
Alla Fonoprint nel pomeriggio i vecchi amici di Dalla – quei pochi ancora vivi – raccontano di quando mentiva senza costrutto, dicendo che era figlio di Rabagliati, quello di Baciami piccina, e che la madre aveva sposato uno qualunque per coprire il peccato d’essersi fatta mettere incinta da quel seduttore canterino. O di quando mentiva con uno scopo, per entrare alla partita di basket per la quale non aveva il biglietto: «Sono il padre di Nino Calebotta», giocatore della Virtus sessanta centimetri più alto e tredici anni più vecchio del suo sedicente padre.
Al Museo Archeologico c’è un notevole catalogo di mitomania nei libri che gli autori gli mandavano con dedica. Oriana Fallaci: «Per Lucio Dalla, amico mai incontrato ma sempre ascoltato». Silvio Berlusconi: «Al mio idolo con stima ed amicizia». È impossibile non pensare a quella scena di Borotalco in cui Carlo Verdone fa credere a Eleonora Giorgi di conoscerlo, ed esce dalla sua roulotte dicendo a voce altissima «Stai, Lucio, stai».
Alla Fonoprint, a quella specie di veglia funebre di dieci anni dopo, gli amici dicono quanto fossero avanti le canzoni, se ascolti Henna sembra parli di adesso, e ci pensi che fece un disco sulla guerra l’anno dopo Attenti al lupo (gli anni erano tre, ma non voglio fare la parte dell’imbucata che ne sa più degli amici).
Alla mostra, su una parete c’è una citazione. Fa così: «Il futuro è elettrizzante. A me ha sempre più interessato quello che deve ancora arrivare. Credo che sia immorale avere paura del domani».
Chissà, domani, su che cosa metteremo le mani. Ma anche: i russi, i russi, gli americani. Qualcuno dovrà studiare quest’effetto per cui le canzoni molto specifiche sono attuali anche quattro decenni dopo, e quelle che non parlano di niente non riesci a riadattarle mai.
Intramontabile istrione, dieci volte Lucio Dalla. Carlo Antini, Testi e musica le mie ascisse e ordinate, su Il Tempo l'1 marzo 2022.
Bologna era inondata di sole. Arrivare alla stazione poche ore dopo la morte di Dalla è stato come immergersi nell’amore di un Paese intero. Nei giorni che precedettero i funerali, la città fu invasa da fan che arrivavano da ogni parte d’Italia. I treni si fermavano in Centrale e dai vagoni scendevano comitive, coppie e singoli con magliette e foto di Dalla. Venuti da chissà dove per portare l’ultimo saluto al loro poeta. In breve Piazza Maggiore si riempì di un pubblico eterogeneo e rumoroso, raccolto in decine di micro sit-in che sarebbero proseguiti a lungo. Chitarre e cori si rincorrevano in una sorta di festival improvvisato. Neanche le ore piccole facevano desistere i più impavidi che sfidavano la notte trasformandosi nei barboni di «Piazza Grande». Finché il Comune di Bologna iniziò a diffondere le canzoni dagli altoparlanti. La Dotta era tutta per lui e la sua voce risuonava ovunque. I fan in pellegrinaggio si infilavano nei vicoli vicino alla casa di via D’Azeglio. Sul citofono c’era scritto «Comm. Domenico Sputo», pseudonimo dai tempi delle sue collaborazioni con Luca Carboni. Da quel 1° marzo 2012 sono passati 10 anni e tante cose sono cambiate. Ma non l’amore per Dalla.
Oggi l’Italia lo ricorda con mostre itineranti, show digitali e special in tv. Dal 4 marzo è in programma la prima tappa della mostra-evento al Museo Civico di Bologna. A seguire Roma, dal 22 settembre all’Ara Pacis e, nel 2023, Napoli e Milano. ITsART e Ron hanno ideato un viaggio poetico di vita e di canzoni con il videoconcerto «Lucio! Il tour», visibile gratuitamente fino al 6 marzo sulla piattaforma streaming del Mic. Fino ai film e agli special trasmessi a rotazione in decine di canali tv.
Il rapporto di Dalla col pubblico si è rafforzato giorno dopo giorno. Dalle origini jazz che gli hanno fatto amare sax e clarinetto alle partecipazioni a Sanremo. Era al Festival nell’anno in cui morì Luigi Tenco. Al Savoy la sua camera era accanto a quella del cantautore e Dalla fu uno dei primi a rendersi conto della tragedia.
Gli anni di Bardotti e Baldazzi terminarono nel ’73 e si aprì la stagione di Roberto Roversi col quale compose la trilogia «Il giorno aveva cinque teste», «Anidride solforosa» e «Automobili». Fu proprio quest’ultimo lavoro a provocare la scissione, tanto che Roversi decise addirittura di firmare l’album con uno pseudonimo. «Fu un trauma - confessò Dalla - Dopo Roversi non avrei mai immaginato di poter scrivere testi con altri. Allora capii che dovevo cominciare a scrivere i testi delle mie canzoni».
E così fece scoprendo gli anni della maturità. Tra la fine dei ’70 e i primi ’80 visse il periodo più fortunato e ispirato con una trilogia di album che resta nella storia della musica leggera: le canzoni di «Come è profondo il mare», «Lucio Dalla» e «Dalla» conquistarono il grande pubblico, trasformando il musicista dall’eccentrico giullare degli esordi a raffinato e idolatrato cantautore da hit parade. Armato di zucchetto e scat, veniva celebrato anche dal cinema che l’ha fatto recitare nella parte di se stesso in «Borotalco» di Verdone in cui viene inseguito da una fan sfegatata come Eleonora Giorgi. Tra i record di Dalla c’è il duetto con Francesco De Gregori in «Banana Republic», progetto che fece epoca e inaugurò la grande stagione dei concerti negli stadi. Altro duo fu quello con Gianni Morandi. Sono gli anni in cui compose «Caruso» che poi divenne una delle canzoni italiane più famose nel mondo.
Fino alla fase pop, in cui l’onnipresente ispirazione del mare delle isole Tremiti si alterna a incursioni nella musica colta e accademica. Si inoltrò nella lirica con «Tosca - Amore disperato» tratta da Puccini. Mise in scena «L’opera del mendicante» di John Gay. Ma resta negli occhi di tutti la sua ultima apparizione a Sanremo dove, pochi giorni prima di morire, diresse l’orchestra per Pierdavide Carone.
Dalla morì improvvisamente, stroncato da un infarto, il 1° marzo 2012 nell’Hotel Plaza di Montreux, in Svizzera, dove si era esibito la sera precedente. Pochi minuti dopo fu il suo collaboratore Marco Alemanno a scoprire il decesso. Con l’ultima strofa di «Cara»: «Buonanotte, anima mia / adesso spengo la luce e così sia». A piazza Maggiore l’eco risuona ancora.
Gianni Morandi smaschera le bugie di Lucio Dalla. Francesco Fredella su Il Tempo l'01 marzo 2022.
Dieci anni senza Lucio Dalla, omaggiato da tutti nel giorno dell'anniversario della sua morte. Pierdavide Carone, Gianni Morandi, Samuele Bersani e Ron intervengono in radiovisione su RTL 102.5 per ripercorrere un'amicizia indelebile con il grande Lucio - che partecipò con Carone nel 2012 a Sanremo nelle insolite vesti di direttore d'orchestra che cantava.
Fu proprio Morandi, all'epoca conduttore e direttore artistico, a volerlo sul palco dell'Ariston. "Non voleva andare a Sanremo, non ne aveva voglia. Io gli chiesi di venire, anche con Carone. Lui si inventò il fatto di diventare un direttore d’orchestra che cantava, infatti fu una partecipazione piuttosto speciale”, racconta in radiovisione “Quella fu l’ultima volta in cui comparve in televisione e fece questo gesto molto generoso nei confronti di Carone ma anche nei miei”.
Tra le tante dicerie che esistono su ogni personaggio, su Lucio ce ne sono molte tra cui quella che dice che lui raccontava molte bugie. “Lui si inventava una fantasia tutta sua. In una giornata banale si inventa una cosa, oppure dava un appuntamento, non veniva e poi diceva che era arrivata sua zia dall’America, ma non aveva la zia in America”, svela Morandi. “A lui piaceva giocare, voleva essere amico di tutti e voleva essere gentile con tutti. Io gli chiesi perché mi raccontava le palle, lui mi diceva che si divertiva e che era fatto così”. “Lucio aveva scritto anche canzoni contro la guerra”, dice il cantante. “Lui ha fatto anche una versione di "C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones’" molto bella e intensa. A lui piaceva la pace”.
Luca Beatrice per "Libero quotidiano" il 28 febbraio 2022.
A Sorrento, pochi passi dalla stazione ferroviaria, da alcuni giorni campeggia un gigantesco murale con il suo infondibile volto, occhiali tondi, barba curata, papalina sul capo. Dallo sfondo spuntano alcune parole di Se io fossi un angelo che a leggerle sembrano scritte oggi, mentre in cielo passano venti di guerra. L'autore è Jorit, lo street artista napoletano celebre per aver riempito i muri delle metropoli con i ritratti di Angela Davis, Julian Assange, Diego Armando Maradona.
La sua Bologna si prepara il 4 marzo, una data di compleanno scritta nella storia, a inaugurare una grande mostra al Museo Civico Archeologico, titolo Anche se il tempo passa e suddivisa in dieci sezioni dove si raccontano la famiglia, gli amici, il jazz, il cinema, la tv, il rapporto con Roberto Roversi e tanta musica. In Inghilterra si sono specializzati nella curatela di esposizioni del mondo sonoro, da David Bowie ai Pink Floyd, in Italia siamo ancora agli inizi, ci provarono anni fa con Renato Zero, perlopiù su costumi e abiti di scena. Qui, immaginiamo, la sua voce verrà utilizzata per raccontare la storia di un Paese.
SEMBRA IERI... In effetti, anche se il tempo passa sembra davvero ieri, quella maledetta mattina del 1 marzo 2012, non più tardi delle 8 quando arrivò sui telefoni, nelle redazioni dei giornali e poi in tutte le radio, la notizia della morte improvvisa di Lucio Dalla appena poche ore dopo l'ultimo concerto a Montreux. Dieci anni in cui il mondo della musica italiana è parecchio cambiato, ora dominano i rappers, che non gli piacevano, li trovava troppo derivativi, senza un autentico retroterra culturale che c'è in America e non Italia, e lui stigmatizzava le imitazioni e infatti non aveva copiato il suo mito Prince.
Resta, a eredità, il pop engagé, mai banale, lirico, ben suonato e ben scritto, che Dalla condusse a uno strepitoso successo, mescolando la melodia sanremese con l'esperienza del cantautore. Da questo punto di vista un itinerario unico, condiviso in parte con Antonello Venditi. Lucio amava i giovani talenti: è cresciuto il suo ultimo pupillo Marco Mengoni, l'aveva definito la miglior voce dei 2000; Tommaso Paradiso, Colapesce e Di Martino, Diodato possono certamente essere inseriti nella lunga famiglia di discepoli pur se non diretti, di figli illegittimi.
Per un uomo che vantava di non portare mai con sé il portafoglio, lo stesso fu generosissimo nell'aiutare i musicisti a inizio carriera - e la storia parla di Carboni, Bersani, il più recente Carone- perché un vero genio non ha mai paura del confronto con gli altri. Lucio Dalla sta alla musica italiana come Paolo Rossi al calcio. Nazionali e non divisivi, patrimonio di tutti e da tutti amati, uno dei pochi a non aver formato clan di adepti. Dalla è la Mille Miglia della nostra musica, a cui aveva partecipato, alla guida della Porsche (ne possedeva diverse) in coppia con Oliviero Toscani.
Tante città italiane hanno una loro canzone di Dalla: Disperato erotico stomp - nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino - e Caruso davanti al golfo di Surriento; Milano vicino all'Europa e Torino sul cristallo verde del Valentino. La Manfredonia dell'infanzia con il sapore di Itaca, le isole Tremiti, la casa a Milo, pochi passi da quella di Franco Battiato. Più di tutte via d'Azeglio dove conservava una collezione d'arte incredibile e senza senso, dai fondi oro ai pittori contemporanei, dall'Amico Aspertini ai suoi più cari amici, come Aldo Mondino, Luigi Ontani e Valerio Berruti, l'artista piemontese che illustrò la copertina del suo ultimo album di inediti, Angoli nel cielo. La domenica allo stadio Dallara seduto accanto a Gianni Morandi. Altri autori, dicevamo, vantano un pubblico di forti affezionati: De André l'anarchico genovese che vira verso la musica word; Battiato il colto snob con punte esoteriche da catalogo Adelphi.
Forse per la morte improvvisa, o per il non aver avuto eredi diretti, nessuno ha protetto Dalla, consegnandone la memoria al popolo. Lucio è di tutti, a differenza dell'altro Lucio, Battisti, che la famiglia vuole solo per sé al punto da averlo quasi consegnato all'oblio, soprattutto per i più giovani. Le canzoni di Dalla hanno attraversato generi, generazioni, gusti, fasce sociali e nel suo repertorio trovi di sicuro il pezzo che pensi sia stato scritto per te. In questi dieci anni mi è capitato persino di scrivere la sua biografia, raccogliendo la sfida di Michele Dalai.
Si intitola Per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino, il verso censurato a Sanremo da 4 marzo 1943. Sono andato a cercare le voci, le testimonianze dei tanti amici, e ognuno mi ha raccontato una storia diversa: Stefano Bonaga e gli scherzi goliardici di gioventù, Mimmo Paladino l'artista della Transavanguardia che lo utilizzò nel ruolo di Sancho Pansa nel film Qujiote, Vito Mancuso che lo avvicinò alla fede cattolica e che gli fu vicino negli ultimi tempi.
Manca Marco Alemanno, che di Dalla fu il compagno, eclissatosi dopo la morte del cantante. Tante storie, tante versioni, con un'avvertenza, Lucio era un bugiardo, anzi Federico Fellini lo definì il più bugiardo al mondo dopo di lui. Inutile quindi cercare la verità assoluta perché non c'è.
IL CLARINETTO SUL DIVANO Unica cosa certa è che Lucio manca da dieci anni, volato in alto come Le rondini, «Vorrei entrare dentro i fili di una radio, e volare sopra i tetti delle città». Era la sua canzone preferita, nemmeno tra le più famose, che risuonò al funerale in una piazza Maggiore mai così gremita e commossa. Era accaduto forse solo con Alberto Sordi, e più avanti con Paolo Villaggio, che l'addio di un artista riscuotesse un così ampio consenso popolare. Avranno anche dei difetti gli italiani, ogni tanto si invaghiscono di qualche personaggio strano che dimenticano in fretta, però sanno riconoscere i loro eroi buoni. E Lucio era uno così. «Buonanotte, anima mia, adesso spengo la luce e così sia», già stanco ha cantato in quell'ultimo concerto in Svizzera il finale di Futura e poi se ne è andato via lasciando il clarinetto sul divano per essere certo che non lo avremmo mai dimenticato.
Lucio Dalla: fidanzate, uomini, bugie. Vi racconto il mio amico. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 26 febbraio 2022.
L’incontro insieme a De Gregori con Berlinguer. Le parole (segrete) che gli sussurrò Wojtyla. La telefonata di Vasco: «Ma io sono intelligente?». Mai visto trattare male un passante o rifiutare un autografo. Ma detestava sentirsi usato, ed era allora capace di cattiverie sottili.
Un’intervista funziona se l’intervistato dice una cosa che non aveva mai detto. Così, conversando con Lucio Dalla qualche giorno prima del suo sessantesimo compleanno, cominciai a girare attorno all’argomento: lei declina i suoi brani d’amore al femminile, «Cara», «Canzone cercala se puoi», però... Lui sorrise: «Non ho nessuna confessione da fare». Eppure diventammo amici.
Ritornò sull’argomento anni dopo, un’estate sull’isola di San Domino, alle Tremiti. Aveva una casa bellissima che guardava l’abbazia sull’isola di fronte, San Nicola; sul terrazzo aveva messo uno specchio molto lungo, in modo che pure i commensali che davano le spalle al mare potessero vedere la facciata romanica della chiesa. Il suo posto prediletto però erano «gli igloo», le casette bianche che gli regalarono quando avevano dismesso il vecchio Touring Club, e che Lucio teneva in giardino. Amava raccontare che in uno di quegli igloo era nata la musica di 4 marzo ‘43. Quella volta, senza che gli ripetessi la domanda, Lucio confidò che in gioventù aveva amato donne e uomini. Che con gli uomini poteva essere padre, fratello, amante. E in ogni caso non intendeva dichiararsi, attribuirsi un’etichetta, sposare una causa. Chi dopo la sua morte gli ha rimproverato di non essere mai uscito allo scoperto non conosceva Lucio Dalla. Mentre di sicuro, se gli fosse stato concesso più tempo, avrebbe provveduto al giovane uomo che poteva essere suo figlio, fratello, amante, Marco. Del resto Lucio poteva avere atteggiamenti virili e vezzi femminili: fumare con il bocchino, indossare i pellicciotti, nuotare con certi slip fiorati da donna.
Un’altra cosa che si dice di lui è che fosse un gran bugiardo. In realtà, Lucio non mentiva. Costruiva mondi, inventava situazioni e personaggi. Ingentiliva la vita. Ad esempio 4 marzo ‘43 (testo di Paola Pallottino) non era nata nell’igloo alle Tremiti ma più prosaicamente a casa a Bologna. Tra l’altro quella musica, che compose fischiettando, Lucio sosteneva di non amarla; a chi gli diceva che era stupenda e struggente rispondeva che era solo la rielaborazione di uno stornello romano, «una variante del Sor Capanna»; se è per questo, diceva di non amare neppure Caruso, una canzone incisa in tutto il mondo.
Lucio raccontava pure di avere un sosia, che ogni tanto lo sostituiva ai concerti, cantando in playback, mentre lui andava a vedere la Virtus, la squadra di basket di cui era tifoso. Ero sicuro che fosse una frottola, fino a quando sotto casa in via Massimo D’Azeglio mi presentò un omino identico a lui, persino nel pelo: era il sosia. Nella vita faceva l’imbianchino, e Lucio raccontava — ma quella era quasi certamente una frottola — che in cambio un giorno era andato a lavorare in cantiere al posto suo. Da bambino, a chi gli chiedeva cosa volesse fare da grande, rispondeva: il cane. Ne ha avuti molti, tra cui uno di nome Piero che in quindici anni non l’aveva mai riconosciuto come padrone.
Altri testi glieli scrisse Roberto Roversi, il poeta, che aveva fatto lo stesso liceo di Pasolini, e Lucio raccontava che l’insegnante d’italiano per poter dare i voti ai temi aveva inventato l’11 e il 12; anche questa era quasi sicuramente una frottola, ma gentile. Come quando presentò a David Zard, che esitava a operarsi al fegato, un amico che lo tranquillizzò: «Io mi sono operato un mese fa, e ora guardami, sto benissimo». Al funerale di Dalla, Zard ritrovò il tizio e gli chiese: come stai? «Bene, perché?». Il fegato... «Quale fegato? Non sono mai stato operato. Era un trucco di Lucio, perché ti operassi tu».
Era vero però che a Roma da ragazzo dormiva accoccolato sulle poltrone di vimini dei caffè di via Veneto: «Sono piccolo, ci stavo tutto. Mi bastavano due ore di sonno, perché avevo fretta di ricominciare a vivere. All’alba mi svegliavano i camerieri, ordinavo cappuccino e giornale. Faceva 60 lire». Quando parlava gli usciva l’accento emiliano, più di quando cantava. Sotto casa aveva sempre qualche musicista di strada: una volta ne aveva scritturato uno, e si era sparsa la voce. Offrirgli qualcosa, anche solo un caffè, era quasi impossibile; voleva sempre pagare lui. Non l’ho mai visto trattare male un passante, non salutare per primo un curioso che lo fissava, rifiutare un autografo; se la ressa si faceva troppo pressante — Lucio Dalla era una delle persone più famose d’Italia, e la più inconfondibile — faceva ciao ciao con le mani e spariva, come un folletto.
Suonava a casa di Craxi, e votava comunista (ma a Bologna Guazzaloca). Era stato a cena a casa di Agnelli e di Berlusconi, ma il suo ristorante preferito era da Carolina, una prosperosa matrona pugliese che definiva «la donna più bella del Mediterraneo». Sulla sua barca trovavi i grandi artisti italiani e marinai che parlavano solo dialetto, Mimmo Paladino e un timoniere chiamato Furetto, Peppe Servillo e Cesare Ragazzi da cui si era fatto fare il parrucchino biondo, Fiorella Mannoia e «Giacome», che sbagliava tutte le desinenze: «Lucio, cosa bevo?». Non so Giacome, bevi quello che vuoi. «Non io, tu: cosa bevo?». La conversazione lo divertiva tantissimo, lui e Giacome si volevano molto bene. Poteva essere affettuoso e crudele. Detestava sentirsi usato; era allora capace di cattiverie sottili. Una volta un amico anziano e facoltoso gli chiese di far finire una splendida ragazza maghrebina nella sua stanza — «dille che l’hotel è pieno...» —; Lucio le presentò invece un ragazzo suo coetaneo, e fu soddisfatto di apprendere che era successo quel che doveva succedere. Al suo festival alle Tremiti invitava jazzisti raffinati, ma c’era sempre un cantante napoletano (gli isolani discendono dai secondini dei Borbone); e Lucio era felice di esibirsi con Gigi D’Alessio, lui che aveva suonato con Chet Baker.
Dopo il successo della trasmissione su RaiUno con la Ferilli, «La bella e la besthia» (non si è mai capito perché besthia con l’acca), lo chiamò Sky, per uno show chiamato «L’angolo nel Cielo». Lui accettò ma volle molti set per installare Sky, per poter dire alle persone care: «Ti regalo Sky». Ma Lucio cos’è questa scatola? «È Sky». Al collo portava un piccolo rosario, aveva la casa piena di crocefissi e porte che davano sui tetti, dove usciva a sentire «le parole della gente e l’odore dei mangiari»: era profondamente cattolico, sicuro che la vita terrena fosse soltanto il primo tempo della partita. Cantò per Giovanni Paolo II e alla fine si sussurrarono qualche parola all’orecchio; «ma quello che mi ha detto il Papa lo racconterò solo a mia mamma», morta da anni.
Non beveva, non si drogava, mangiava poco, quasi solo melanzane. Non aveva studiato ma era un uomo coltissimo, poteva parlare per ore della Vienna della Secessione e del portale di San Petronio scolpito da Jacopo della Quercia, collezionava Amico Aspertini e i manieristi. Uno dei suoi racconti preferiti era quando Veltroni aveva invitato a cena lui, De Gregori e Berlinguer: «Eravamo uno più imbarazzato dell’altro. Berlinguer chiese a De Gregori che differenza ci fosse tra una chitarra elettrica e una acustica.
De Gregori rispose: una è elettrica, l’altra è acustica». Oppure raccontava della notte in cui gli aveva telefonato Vasco Rossi: «Ma secondo te Lucio io sono intelligente?». E tu Lucio cosa gli hai risposto? «Intelligentissimo!».
Siccome «una famiglia vera e propria non ce l’ho», se n’era fatta una sua. Ognuno aveva un ruolo — il fratello maggiore era Tobia, il factotum, le sorelle erano la Tina, cui era affidata la casa, e Vittoria, cui toccavano i cani — e un soprannome: Marco era detto Trìcchete, per la rapidità dei movimenti; il comandante della barca era il Cumpé, «compare» in dialetto di Manfredonia (Lucio parlava il bolognese, il napoletano e il pugliese); Stefano, artista da lui lanciato, era Brillo, e la sua fidanzata ovviamente Brilla (non venni risparmiato neppure io, e fui Poldo, per lo dannoso vizio della gola). Ma il vero capofamiglia occulto era la madre sarta, di cui teneva la foto sul comodino. Il padre però non era «un bell’uomo che veniva dal mare e parlava un’altra lingua», era il direttore del tiro a volo di Bologna. Lucio raccontava che da bambino era cresciuto con tanti «figli ’e bottana smarocchinata», figli della guerra, «di nascita e colore incerti», e voleva immedesimarsi in uno di loro: «Mi sentivo uno zingaro, un apolide dal patrimonio genetico disordinato. La messa in scena della tragedia è la tragedia vera».
Lucio non amava Sanremo. Era vicino di stanza di Tenco nel 1967, fu lui a dare l’allarme, a dire che Luigi stava male, ma di quella notte non ricordava nulla. Tornò nel 2002 perché gliel’aveva chiesto Gianni Morandi, cui voleva bene, fin da quando avevano ascoltato insieme la radiocronaca dello spareggio per lo scudetto 1964 tra Bologna e Inter, immaginandosi la partita riflessa nel muro.
Nei giorni di quel Sanremo Lucio era nervosissimo, anche perché non c’era Marco (e c’era Celentano, che non amava). Così telefonava di continuo agli amici. Scelse di non cantare ma di dirigere l’orchestra, e si disse che gli orchestrali se ne fossero adontati perché Dalla ovviamente non sapeva dirigere; spero per loro che non sia vero, perché Lucio non avrebbe mai mancato di rispetto a un musicista; una sera a Stromboli gli chiesero di suonare il clarinetto, lui disse ai colleghi «mi raccomando fate tutto voi che io so a malapena leggere la musica», poi ovviamente li massacrò. Chiuso Sanremo raggiunse Marco a Montreux, per un festival, quello del jazz, cui invece era affezionato. Lì, dieci anni fa, il suo cuore generoso si è fermato. Ma, come nel frammento di un lirico greco che amava, «vivono per sempre i suoi Usignoli. Su loro Ade, che tutto rapina, non metterà le mani».
Marco Molendini per Dagospia il 27 Febbraio 2022.
Caro Roberto, non sono d’accordo con il mio antico amico (antico perché ci conosciamo da un’eternità) Dario Salvatori: per me Lucio Dalla è stato il più originale dei cantautori, il più originale e il più bizzarro con la sua galleria di racconti capaci di tenere insieme fantasia musicale e letteraria.
Bozzetti dalla struttura instabile e dalla prosa fantasiosa, sorprendenti e colorati, dotati di una scaltrezza veloce, sofisticati e popolari. A volte ultrapopolari come Attenti al lupo e come la stessa Caruso, non la migliore ma la sua canzone più conosciuta al mondo, proprio per quel suo richiamarsi direttamente alla classicità della melodia larga, evocativa, operistica.
Canzoni dal profilo netto, incisivo e suggestivo: difficile trovare un affresco di una città più intimo e maestoso di La sera dei miracoli, o l’imprevedibilità di Come è profondo il mare («Siamo noi, siamo in tanti/Ci nascondiamo di notte/Per paura degli automobilisti, dei linotipisti/Siamo i gatti neri, siamo pessimisti/Siamo i cattivi pensieri/E non abbiamo da mangiare»), o un'accorata preghiera sul domani più laica, efficace, erotica e sempre attuale di Futura (“I russi, i russi, gli americani/ No lacrime, non fermarti fino a domani”), o un ritratto umano più azzeccato di Anna e Marco, o ascoltare versi folgoranti come quelli di un capolavoro come Piazza Grande («E se non ci sarà più gente come me/voglio morire in Piazza Grande/tra i gatti che non han padrone come me attorno a me»).
È vero, tante sue canzoni sono frutto di collaborazioni, contributi, associazioni, ma sono anche il risultato della sua capacità di assemblare e mettere insieme tutto quello che gli capitava a tiro.
Lucio era una spugna, una spugna che diceva di venire dal mare, ma anche questa era un’ invenzione perché era uomo di città diventato cittadino del mare per adozione. Inarrestabile e irrequieto, alle prese coi suoi telefonini e i suoi cento progetti, oggi qui domani là in un turbinio incessante, prendeva e faceva suo quello che ascoltava e avvertiva, come un artista di una volta. E, nella sua bottega, coltivava e allevava i discepoli, le amicizie e le collaborazioni.
È un giudizio il mio lontano dall’anniversarismo incensatorio, questi dieci anni, per quanto mi riguarda, hanno contribuito a rendere più lucido il giudizio, indipendentemente e nonostante le lodi d’occasione, da cui preferisco non essere condizionato.
E, a renderlo concreto, il mio giudizio, ha contribuito sicuramente la freschezza che quelle canzoni hanno conservato, perché sono canzoni personali, oltrechè difficili, solidamente legate al suo modo di interpretarle.
Chi ha provato ad avvicinarle quasi sempre è rimasto scottato, con un’unica eccezione quella di Fiorella Mannoia che ha saputo maneggiarle con cura secondo la prescrizione dettata da questi versi: “Canzone trovala se puoi/dille che l'amo e se lo vuoi/va per le strade tra la gente/diglielo veramente/non può restare indifferente/e se rimani indifferente/non è lei”.
So benissimo l’influenza che su Dalla hanno esercitato la black music e il jazz in particolare, lo so bene perché Lucio l’ho conosciuto, io ragazzino, in quei mitici festival del jazz di Bologna, dove era sempre presente, meravigliato e solitario con una lunga barba e l’aria sdrucita. Lo so bene anche se non mi piaceva quando faceva il buffone smontando il clarinetto su Misterioso, un tema magico di un genio del jazz come Thelonious Monk.
Ma è indubbio che, nel suo mestiere di autore e interprete, quelle influenze più che scimmiottarle le abbia utilizzate, mettendole a frutto per costruire l’originalità della sua opera e una musicalità spesso assente dal cantautorato parolaio.
Alla fine, persino definire Dalla solo cantautore è insufficiente, perché di quel mestiere e di quel ruolo ha dilatato i confini, li ha resi incerti. Perché quel vestito (per lui di taglia extrasmall) gli stava stretto, tanto da costringerlo a muoversi freneticamente, a lambire i territori del caos (era il primo a dirlo), a inventarsi discografico, talent scout, uomo di tv, autore di opere musicali (La Tosca), gallerista, artista vivace, autonomo, indipendente, capace di sfuggire alle regole e agli schemi, ma di tenersi anche lontano dall'usura della professione, anche quando l'estro magari non ha più le risorse dei tempi d'oro.
E forse sta proprio in questo suo essere diverso (una diversità che comprendeva intimamente anche l'omosessualità, seppure non dichiarata e mai accennata neppure artisticamente) e sta in questo essere speciale, un curioso della vita senza freni, il segreto della durevolezza del suo successo, spalmato su cinque decenni molto lontani fra loro.
Ce l'ha messa tutta Lucio anche per non farsi imbalsamare nel ruolo della pop star. Con determinazione e con ironia. La stessa che usava quando ricordava che l'altezza non era certamente un suo complesso e che, per questo, si era scelto come hobby uno sport agli antipodi rispetto alla sua prestanza fisica, il basket.
Anche l'uso che faceva del parrucchino era spudorato: una maschera di scena che era diventata parte di una maschera di vita scelta per accompagnare e respingere i pregiudizi fisici, lui uomo piccolino, peloso, precocemente pelato, decisamente bruttino. Un'immagine che specie agli inizi, negli anni Sessanta, lo ha penalizzato, costringendolo al riscatto cercando il ridicolo, il grottesco, accentuando le sue capacità clownesche («da buffone trovarobe» si definiva), sfruttando ancora l'eclettismo che veniva dalla lunga frequentazione del jazz come clarinettista in una città vivace e proficua come Bologna (nella famosa Rheno jazz band con Pupi Avati, poi nella Second roman New Orleans jazz band).
Un sentimento dell’essere altro che vive nelle sue canzoni, come canta Disperato erotico stomp: “L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. E lo sapeva al punto di vedersi in un futuro “Vestito da torero/Una torta in mano/L'orecchio puntato verso il cielo” (Telefonami tra vent’anni).
Dario Salvatori per Dagospia il 27 Febbraio 2022.
Lucio Dalla ha rappresentato una sintesi naturale della canzone italiana, pur subendo influenze americane di notevole intensità. Autentiche sbandate, come quella per Prince.
Artista avido in quanto campione della diversificazione, prova ne sia che un giorno è stato musicista, il giorno dopo regista, firma balletti, opere liriche, colonne sonore, libri, programmi tv. Bulimia sempre accettata ma mai richiesta.
Tutto questo attraversando artisticamente sette decadi all’interno delle quali ha lasciato il segno. Non capita a tutti. Sul privato, sull’esistenziale, sulle scelte di vita, Dalla è stato meno cristallino, rispetto all’atteggiamento sorgivo che ha caratterizzato la sua vita artistica. E’ stato generoso ma prepotente, amichevole ma dannatamente assertivo. E poi bugiardo. Bugiardissimo.
Mi capitò di assistere alla riunione, dopo quarant’anni (40!) dei Flippers, popolare gruppo specializzato in cha-cha-cha (Massimo Catalano alla tromba, Romolo Forlai al vibrafono, Franco Bracardi al piano, Maurizio Catalano al basso e Fabrizio Zampa alla batteria), formazione di cui aveva fatto parte in qualità di clarinettista fra il 1961 e il 1962.
Furono i Flippers a coniare il nomignolo Lucio Palla, in quel periodo decisamente aderente. La riunione avvenne grazie all’appassionato Paolo Marinozzi a Montecosaro, in provincia di Macerata.
Lucio era impegnato in sala di registrazione a Milano, ma per salutare e festeggiare insieme ai suoi amici, diede una pausa allo studio e accompagnato da un autista raggiunse Montecosaro, con l’inseparabile clarinetto.
Foto, abbracci, riprese video, due brani dixieland e poi di corsa di nuovo a Milano. Dove si accorse di aver lasciato il clarinetto a Montecosaro. Certamente un gesto di stima e di amicizia. Ma il suo carattere aveva altri risvolti.
Per qualche anno Lucio Dalla abitò a Roma, a Trastevere, in vicolo del Buco, ad un centinaio di metri da dove abitavo io, via S.Francesco a Ripa, lato S.Cecilia. Talvolta ci si vedeva, soprattutto nei jazz club.
Quelli sono stati gli unici anni in cui ebbi l’opportunità di avere il suo telefono. Il fisso, ovviamente. I cellulari non esistevano. In tanti anni, sia nei giornali, alla radio, in tv, in qualche libro, mi è capitato di parlare di lui.
La cosa funzionava così. Se io parlavo di lui come il più grande clarinettista bianco dopo Benny Goodman o come il nuovo Cab Calloway, Lucio non metteva bocca. Avevo detto la cosa giusta. Se qualche volta lo criticavo, cioè “sgarravo”, mi telefonava per spiegarmi cosa non avevo capito. Lo fece due, tre volte e allora risposi: “Lucio, o ci sentiamo sempre perché siamo amici e comunichiamo ma se mi tiri le orecchie ogni volta che dico qualcosa che non ti garba, non mi sta bene. Non sono sul tuo libro paga”.
Mi resi conto che tutti i cantanti, soprattutto i più noti, intendono l’amicizia e la stima dall’adorazione in su. La diatriba continuo: “L’adorazione non mi viene bene, ma se proprio dovessi adorare qualcuno adorerei Miles Davis, Michael Jackson, Mick Jagger, John Lennon, Chuck Berry, Duke Ellington e forse qualche altra dozzina di artisti.” Questo lo dissi alla radio e dunque peggiorai la mia posizione.
Il Dalla dispotico venne fuori in tante altre occasioni. Nel 1993 aveva pubblicato l’album “Henna”, da molti considerato il suo capolavoro, che però si rivelò infelice, soprattutto perché si proveniva da “Cambio”(1990), oltre 1 milione e 500 mila copie vendute.
A tutto il suo staff, Dalla comunicò che il singolo da traino sarebbe stato “Merdman”, ovvero la storia surreale di un marziano coperto di merda che diventa un’icona di massa. Tutti suggerirono “Henna”, brano lirico e di grande suggestione. Non ci fu nulla da fare. Vinse lui. Anzi, perse, visto che l’album si fermò a 300 mila copie.
Ma non bastò. Per promuovere il disco, Dalla organizzò un piccolo showcase dentro un treno e una volta arrivato a Roma, si presentò senza preavviso a casa dei giornalisti non presenti sul treno per farglielo ascoltare.
Lui lo definì un gesto dada, ma che alla fine somigliò più ad un dada-umpa. Ammettiamolo, era il suo lato più insopportabile. Per questo appaiono eccessive e lontane dalla realtà certe beatificazioni che appaiono nei media in questi giorni. Un distico elegiaco che non consente contraddittorio.
Veniamo al 2009. Premio Lunezia. La direzione artistica decide di premiare il libro “Gli occhi di Lucio”, scritto da Marco Alemanno e Dalla stesso, contento del riconoscimento per il giovane artista che lui definisce “attore, cantante, compositore, musicista, fotografo, sceneggiatore, regista e scrittore”. Dalla rimane sul palco pochi minuti preferendo cedere il palco ad Alemanno.
I due sono arrivati in Porsche, Lucio alla guida, Alemanno nel sedile anteriore e sull’ improbabile sedile posteriore si accovaccia come può Michele Mondella. In quel periodo Dalla amava vestirsi come i grandi poeti napoletani di fine Ottocento e primo Novecento: pantaloni rigati, panciotto, con l’orologio da taschino ben in vista e la fondamentale “canna” (il bastoncino) da passeggio.
Un look derivativo e stilisticamente inarrivabile quello di Salvatore Di Giacomo (1860-1934) – “Era de maggio”, “A Marechiare”, “Catarì”; Ernesto Murolo (1876-1939) – “Pusilleco addiruso”, “Suspiranno”, “Napule ca se ne va”; Libero Bovio (1883-1942) - “Chiove”, “Zappatore”, “’O paese d’ ‘o sole”.
Al paziente Mondella il compito di ritrovare la canna che quasi ogni sera Lucio smarriva. Il giorno dopo vedevi lo smoccolante Mondella parlare da solo nel percorrere a ritroso, fra camerini, palco e ristorante, il percorso fatto da Lucio per riportare a casa la preziosa canna.
Festival di Sanremo 2012. Gianni Morandi è nuovamente il direttore artistico della rassegna. Invita il suo vecchio amico che lo informa che ha appena scritto una canzone insieme a Pierdavide Carone, “Nanì”. Ma non vuole cantare e nell’impeto della “indisciplina creativa” preferisce dirigere l’orchestra.
Gesto irrituale per un cantante ma a Dalla è permesso tutto. In realtà è microfonato (infatti canta nel ritornello) e ha una camera fissa piazzata su di lui. La canzone non convince nessuno, nemmeno come epitaffio, visto che Dalla ci lascerà due settimane dopo, il giorno successivo ad un suo concerto a Montreux, Svizzera.
L’anno prima, a diatriba dimenticata, fuori da un concerto, Lucio mi dice che ha scritto una nuova canzone, per ora con il solo testo. Dedicata a Nino Calebotta, il non dimenticato pivot della Minganti, poi Virtus, bandiera del basket petroniano. La sua passione per le figure iconiche appare sovente nelle sue canzoni, quasi dei bio-pic apocrifi (“Cos’è Bonetti?”, “Nuvolari”, “Caruso”).
Calebotta fu il primo giocatore di basket a superare i due metri (2,04), era nato a Spalato, venne ingaggiato per una Lambretta e dal 1953 al 1968 fu l’idolo della Sala Borsa, la Scala del basket.
Aggiunse soltanto che nel testo faceva riferimento alla sua vita da “freak” (creature disadattate, spesso deformi, circensi, predisposte al suicidio), insomma una ricostruzione tutta di fantasia. Alla fine finimmo per punzecchiarci di nuovo. Io sostenevo che la volta in cui Calebotta mise a segno 59 punti (non esisteva il tiro da tre punti) accadde nel 1955. Lui era disposto a giurare che accadde nel 1956. La sentiremo mai?
Ma che ci trovano in Lucio Dalla? La storica intervista di Giorgio Bocca al cantautore. Nel 1979 l’Espresso dedicava la sua copertina al dialogo, non proprio pacifico, tra il cantante e il giornalista. Giorgio Bocca su La Repubblica l'1 marzo 2022.
Era la fine degli anni Settanta, l’epoca dei grandi concerti negli stadi. Lucio era un idolo di tutte le generazioni, ma soprattutto dei ragazzi. I suoi dischi, all'epoca ancora in vinile, erano in testa a tutte le classifiche. L'Espresso si chiese le ragioni di questo straordinario fenomeno culturale, sociale, e anche politico. E chiese al grande Giorgio Bocca di andare a intervistarlo. Ne uscì un "dialogo ai ferri corti e a viso aperto". che vi riproponiamo qui di seguito.
Lucio Dalla, il cantautore, piace ai bambini; già è personaggio da 'Corriere dei Piccoli', somiglia a Bibò o al capitan Cocoricò, piccolo misterioso bonario. Lucio Dalla piace anche agli anziani che hanno fatto il liceo: è il dio Efesto, peloso, fuliginoso, gradevolmente deforme, si muove rapido fra le grandi macchine che ha creato, gli scatoloni magici da cui escono le voci: «e dentro il grande fabbro vi infuse la sua musica».
Lucio Dalla piace anche a coloro che da sempre hanno avuto paura e desiderio del diverso e ora vedono in lui lo scandalo premiato dal successo, quello che fa una canzone su come si masturba e gliela fanno cantare anche al festival dell'Unità.
Lucio Dalla piacerebbe anche a me che lo intervisto all'una di notte, in un ristorante adriatico di Pescara, maccheroncini al pesce, automobili stipate su tre file, l'orrenda festosa città Luna Park che ti fa ritornare nell'Italia caotica e speranzosa del boom; dico piacerebbe anche a me se non fosse elettrico e retrattile come un gatto durante il temporale, impaziente di farmi sapere subito, in due minuti, come è e il contrario di come è, semplice? no, sofisticato; sofisticato? no, semplice; amico? sì, ma con il sottinteso che per lui puoi anche essere uno stronzo. Gradito? Sì molto, ma non dimentico, lui di antiche ferite narcisistiche.
«Te ne ricordi, Bocca, quando ti ho telefonato da Bologna? No? Ma sì, ti ricordi benissimo. Ti ho detto: vorrei incontrarti, parlarti. E tu mi hai risposto freddo: passi al giornale».
Forse ti ho scambiato per un rompiballe della contestazione. E invece ho saputo poi che hai rifiutato di farti coinvolgere in quella rivoluzione che dava l'assalto al Cantunzein - petti di pollo alla petroniana - invece che al Palazzo d'inverno. Come è andata esattamente?
«A quel tempo lavoravo ancora con il poeta Roversi. Avevamo fatto assieme cose per me straordinarie, ma la gente non le gradiva. Vincevamo i premi della critica e non vendevamo dischi. Roversi è bravo ma per lui fare le canzoni con me era il secondo o il terzo lavoro, non ha mai messo piede in sala di registrazione».
Sì, ma cosa c'entrano questi fatti professionali con i moti di Bologna?
«Voglio dire che per Roversi fare canzoni non era il lavoro, il tuo lavoro, quello per cui vivi; era una delle molte cose in cui voleva entrare. Lui è di quelli che partecipano a tutto. Quando ci furono i fatti di Bologna voleva che facessimo subito due canzoni e che andassi a cantarle assieme a Guattari e ai nouveaux philosophes. Io invece mi chiusi in casa».
Ma come? Tu che canti con la folla, che ami la folla, succede un gran casino e ti chiudi in casa?
«Il mio rapporto con la folla attraverso la canzone è un rapporto di comunicazione e di partecipazione. E invece quella folla bolognese mi risultava incomprensibile. Incontravo gli amici del biliardo e dei tortellini ed erano improvvisamente diventati rivoluzionari, mentre quelli che avevano parlato per anni di rivoluzione si defilavano. C'erano troppe cose che non capivo».
Ma non è la prima volta che tu prendi le distanze dalle mobilitazioni e dalle fiammate conformistiche della sinistra. Nelle tue canzoni c'è una continua ironia verso le "canzoni andine" sempre eguali o per la "puttana ottimista e di sinistra". La paura del ridicolo coincide con la paura del falso. Non ti mette un po' a disagio fare questa tournée per l'Italia sotto la tutela affaristica, propagandistica, cultural-egemonica dell'Arci?
«Non è l'Arci ma il Cps. Per me il rapporto non è politico ma organizzativo. Guerra e Casadei e la loro organizzazione mi permettono di fare dei grandi concerti, magari con cinquantamila persone, come a Torino o a Napoli».
I Lucio Dalla nascono e muoiono negli amori delle folle, ma l'Italia delle grandi istituzioni popolari e dei grandi affari non cambia: il capitalcomunismo tecnocratico del Cps paga sei milioni al giorno di affitto per le attrezzature giganti, altoparlanti a quarantamila watt che se ci piove sopra possono incenerirsi in lampi e scomparire nella notte, come scomparve Empedocle nell'Etna. Lucio Dalla, Francesco De Gregori e i loro musicanti e macchinisti e facchini e impiantisti e guidatori dei Tir alla fine del concerto smontano, caricano, ripartono in questa vita da baracconi elettronici. Il fenomeno è impressionante: 350mila spettatori in dodici concerti, il Sud che partecipa come il Nord; ma l'intera industria napoletana del furto legalizzato stampa migliaia di biglietti, mette in crisi anche l'oliato perfetto servizio d'ordine del Cps.
Senti Dalla, questa sera il tuo amico Francesco De Gregori, il lungo, non c'è. Ma che facciamo? Lo teniamo come il morto nell'armadio o ne parliamo? Chi è, cosa rappresenta per te questo raffinato educato compagno di avventura?
«De Gregori è un principe. Lui guarda a me come a un uomo antico, ma lui è più antico di me. Lui ha il dono meraviglioso di fare canzoni perfettamente equilibrate. Oggi come cinquant'anni fa. Ma sotto è molto confuso e io preferisco l'uomo confuso a quello concluso».
Ogni tanto sarei tentato, alla milanese, di consigliare al Lucio dalle cento vite e dalle cento code: parlet cume te manget. Ma lui è bolognese e i bolognesi sono dei bonari figli di puttana.
Nel tuo rapporto con la folla c'è un carattere tipicamente bolognese: il bisogno della gente come bisogno di una platea, però camuffato da socialità. Il bisogno della Piazza Maggiore, del caffè, del circolo dei compagni ed il muoversi in mezzo a loro sapendo che sono degli infidi tagliagambe. Il bisogno del cardinal legato o del federal comunista e la voglia di spernacchiarli.
Per la prima volta Dalla mi osserva con cautela e cerca di svicolare. «Il miglior amico è sempre quello che conoscerai domani», mormora. E torna gatto selvatico, retrattile, che vuol darti l'unghiata ma si ferma, che vuol farsi accarezzare ma scappa.
Dalla, che cosa rappresentano le mutande nelle tue canzoni? Tenerezza? Autocommiserazione dello scapolo?
«Le mutande, l'uomo in mutande, l'ho copiato tutto da Vasco Pratolini».
E la donna bassina e bruttina che torna sempre nei tuoi viaggi sentimentali?
«Non l'ho inventata io, è un personaggio delle canzoni popolari brasiliane, un personaggio magico in cui bruttezza e bellezza fanno parte dello stesso rapporto sognato».
Ma le contraddizioni continue delle tue canzoni? Il patetico subito corretto dall'ironia, la paura divertita del mostro di corso Buenos Aires, la gente che cerca un bar per telefonare alla polizia e intanto si dice "così ci beviamo anche un grappino"...
«La mia è una canzone organizzata che può essere compresa solo da chi ne fruisce, non da uno come te, non da uno che scrive sull'"Espresso" e che concepisce la comunicazione come plagio. Ma non li leggi i titoli dell'"Espresso"? Ognuno è un plagio già confezionato, un richiamo letterario o snobistico già bello e impacchettato, prendere o lasciare. Il tuo direttore Zanetti mi ha chiesto di fare un'antologia di Lucio Dalla, di scegliere le parole, le canzoni che più assomigliano a Dalla. Ma se la faccia lui l'antologia, tanto lui ha già in testa che cosa deve essere Lucio Dalla per i lettori».
Lascia stare Zanetti e i plagi dell'"Espresso". basta non lasciarsi plagiare, basta dire ciò che si vuol dire.
«C'è qualcosa che non mi convince in voi giornalisti: siete capaci di essere uomini pubblici solo nella pedagogia e nel plagio; nel migliore dei casi date un'informazione corretta. Ma il rapporto vero con il pubblico è fatto anche di scandalo, di provocazione, di estroversione e solo Pasolini è stato capace di tanto. Tu sei bravo, ma cristo che deve dire uno come me? Che hai ragione? Che hai buon senso? Che barba».
Ognuno gioca il suo gioco. A uno come me che scrive sui giornali va bene un rapporto con la folla che non si vede; o che si vede ma come dietro una lastra di cristallo. E meglio ancora è la televisione che riduce tutto a immagine, a comunicazione da un pianeta all'altro. Tu invece hai scritto che fare il cantautore è come girare dentro il fuoco, bruciare e consumarsi, passare fra le fiamme e ferirsi.
«Una sera a Bari mi prese come un raptus. Scesi dal palco e mossi verso la folla e De Gregori che è un principe leale e coraggioso mi seguiva. Ma quando fummo a venti passi dalla rete capii che stavano per scavalcarla, per venire all'arrembaggio e allora fuggimmo verso il sottopassaggio. Magari non sarebbe successo niente, magari ci avrebbero linciato per amore».
Il desiderio del linciaggio è molto letterario, molto da san Sebastiano. Dare scandalo con la paura di morire di scandalo. Sì, tutto ciò è molto pasoliniano, molto giocato sul rischio estremo. Ma io sono di Cuneo e se gioco, gioco ai tarocchi o alle bocce. Sai cosa dicono i giocatori di bocce al momento di contare i punti dalle mie parti: «bocce ferme». Nessun trucco, nessuno spostamento dell'ultimo secondo, le cose stanno come sono. Proviamo anche noi, lascia perdere il gioco e dimmi come stanno realmente le cose con il tuo pubblico. Quando dici che tu fai la canzone organizzata cosa vuol dire? Che sei un buon professionista? Un buon creatore di spettacolo?
«Sì, sono uno che sa stare in sala di registrazione come un ingegnere, alle prese con 24 terminali. Sono uno che sa quanti watt ci vogliono per fare arrivare le voci a quelli che stanno a settanta metri, ma sono anche uno che poi si trova una bomba molotov fra i piedi, lanciata da un ragazzino che si era annoiato».
Però la contestazione violenta tutto sommato a voi è servita: i grandi della canzone internazionale non osano più mettere piede in Italia e voi girate tranquilli. Il vostro pubblico ha capito che siete l'ultima spiaggia: o vi lascia cantare o non ascolta più canzoni.
«Io dico che questo pubblico è cambiato, è molto più preparato alla partecipazione di quanto voi giornalisti plagiatori immaginiate. I tuoi lettori di te sanno niente, ma i miei ascoltatori sanno a memoria quanti peli ho nel culo. Così aspettano il passaggio difficile, la pausa premeditata, la virgola e partecipano con l'applauso o con il silenzio. La mia battuta sulle canzoni andine ossia canzoni "impegnate" della sinistra sudamericana è invecchiata: una volta suscitava applausi, adesso è ovvia. Credo che questa acculturazione poetica e musicale sia merito in gran parte delle radio private. Noi viviamo con le radio private in un rapporto di reciproco parassitismo: loro usano le nostre canzoni senza pagare ma noi usiamo loro come diffusione e comunicazione. Facciamo il caso che uno spettacolo sia stato rinviato al giorno dopo: il tam tam delle radio private avverte anche i più lontani selvaggi della foresta».
Però, Dalla, quel Roversi. Sì, capisco, due narcisi, assieme vivono male, ma le canzoni che hai fatto con Roversi, "Nuvolari", le "Mille miglia"! «Nuvolari è basso di statura, Nuvolari è sotto del normale», ma è piccolo e brutto italiano a cui non importa niente di morire: «gli uccelli dell'aria perdono le ali, quando passa Nuvolari».
«Hai ragione, ho cerato disperatamente di riannodare con Roversi ma certe cose sono irripetibili».
Ti saluto Dalla; sei l'intervista più difficile che abbia fatto in vita mia. E so che quando la leggerai dirai che sì, sei tu, ma non sei tu, che ho l'aria di averti capito, ma che non ho capito niente. Comunque sei perdonato. Tu canti a Cesena e a Forlimpopoli e io ti ascolto alla radio e dico ai miei figli: mica male questo Dalla. Io ti fruisco.
· 10 anni dalla morte di Piermario Morosini.
Piermario Morosini, dieci anni fa la morte in campo. Cosa ci ha insegnato la sua vita da mediano finita troppo presto. Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2022.
Era il 14 aprile del 2012, al 31’ di Pescara-Livorno di serie B cadde a terra per un arresto cardiaco. Aveva avuto un’infanzia durissima, era rimasto orfano, ma non aveva mai smesso di lottare per i propri sogni. Che aveva realizzato.
Già dieci anni. Eppure sembra ieri. Quelle immagini, di lui che cade a terra, una, due, tre volte, che prova rialzarsi, una volta, un’altra ancora, per poi cadere di nuovo, per l’ultima volta, sono un ricordo che non si cancella. «Un reality della morte» lo definì Beppe Severgnini sul Corriere: «Immagini strazianti ma, purtroppo, ipnotiche». La prima morte in campo ai tempi di Youtube. Aveva 26 anni, Piermario Morosini. Cardiomiopatia aritmogena: questo disse l’autopsia. Fu una rara malattia ereditaria a portarselo via troppo, troppo presto. Era il minuto 31 di Pescara-Livorno, 25ª giornata del campionato di serie B. «Moro» si accasciò per sempre. La disperazione dei compagni, le lacrime della fidanzata Anna, l’ambulanza, i soccorsi, il silenzio, il calcio che si ferma, l’inchiesta: furono giorni intensi, duri, per tutti. La sua morte ha cambiato, in meglio, il calcio: da allora le procedure di rianimazione col defibrillatore si sono snellite, affinate. E oggi le possibilità di salvarsi in caso arresto cardiaco in campo sono aumentate.
Non era un campione. Ma aveva una forza d’animo fuori dal comune, racconta chi l’ha conosciuto. La vita non era stata facile, per lui. Era rimasto orfano già da adolescente, di entrambi i genitori. A 15 anni aveva perso la madre Camilla e due anni dopo, nel 2003, il padre Aldo. L’anno successivo si era suicidato il fratello disabile, quando Piermario era già passato a Udine, dove aveva fatto il suo esordio in serie A. Era rimasto solo con una sorella, anche lei disabile. «Aveva avuto una vita o sfortunatissima - raccontò Mino Favini, responsabile delle giovanili dell’Atalanta nelle quali il bergamasco Morosini iniziò a giocare - e nonostante questo aveva una disponibilità totale nei confronti dei compagni». Una vita dura, da mediano, come quello della canzone di Luciano Ligabue, che infatti era il suo cantante preferito. E che dopo quel 14 aprile scrisse una lettera pubblica: «Piermario era a Campovolo insieme a molti di voi. Era iscritto al barMario. La foto del suo profilo lo mostra con uno splendido sorriso. Un sorriso che non può non aumentare questa commozione. Questa incredulità. Sono sicuro che tutti gli altri iscritti al Bar Mario vorranno unirsi a me nel mandargli tutto l’affetto che merita. Ad accompagnarlo in un viaggio che, è l’augurio più sentito, possa almeno ricongiungerlo con la famiglia che aveva perso quaggiù».
Una vita da mediano che Moro affrontava col sorriso. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita – raccontò in un’intervista al Guerin Sportivo nel 2005 — ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici». Aveva un sogno, Piermario. E l’aveva realizzato.
«Era un ragazzo d’oro, quando si parla di lui mi viene subito la pelle d’oca. Sono stato testimone dei suoi successi, anche con la `mia´ nazionale Under 21, ma purtroppo ho dovuto vivere anche quella giornata nera per il calcio italiano», ha ricordato il presidente della Figc Gabriele Gravina a margine del premio Bearzot. Oggi il Museo del Calcio di Coverciano ricorda il calciatore attraverso la maglia numero 5 indossata in occasione dell’Europeo Under 21 del 2009 disputato in Svezia. Morosini aveva esordito con l’Under 21 nel settembre del 2006 e con la maglia degli azzurrini ha collezionato 18 presenze. La sua maglia è conservata al Museo del Calcio accanto a quella di un altro indimenticato giocatore come Davide Astori.
· 10 anni dalla morte di Renato Nicolini.
Paolo Boccacci per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2022.
Sembra proprio di rivederlo, lui, Renato Nicolini, l'assessore alla Cultura dell'Estate Romana, l'inventore visionario dell'Effimero diventato famoso in mezzo mondo, lui con quel suo ciuffo ribelle, alto, magro un sorriso scanzonato, una voce leggera, che apparve la prima volta nel 1976 su uno degli scranni più alti dell'aula di Giulio Cesare, accanto al profilo severo di Giulio Carlo Argan, il primo sindaco comunista di Roma.
Sembra proprio di rivederlo sfogliando questo libro, "La gioiosa anomalia", scritto a dieci anni dalla morte, nel 2002 a 70 anni, da Marco Testoni, compositore e saggista, con dentro i ricordi di chi lo conosce bene, come l'amico Walter Tocci, o lo scrittore Christian Raimo, Davide Tozzo, l'attrice Marilù Prati, la sua compagna di una vita, o come i registi Egidio Eronico e Davide Marengo e la pittrice Antonia Carmi.
«Ho vissuto e mi sono formato in una città - scrive Testoni - dove grazie a un assessore geniale poteva capitare di ascoltare la musica uscire dai tombini e sentire l'odore di profumi spruzzati dalle autocisterne della nettezza urbana. Ma poi alla fine fu dimenticato dagli stessi che lo avevano sostenuto».
E allora via, pagina dopo pagina, con la Grande Avventura del ritorno nelle piazze per cantare, ballare, suonare, gustare la magia del cinema e del teatro in una Roma magnifica, che usciva dagli anni di piombo.
In una Roma cantata da Dalla, la Roma della "Sera dei miracoli, fate attenzione", la Roma che si ribellava ai " sacchi di sabbia davanti alle finestre" nei giorni bui del terrorismo, quella ammirata dai " francesi che si incazzano" ma questa volta no, a cominciare dal ministro della Cultura Jack Lang. Ecco l'affresco dipinto dal politico del Pci, dall'architetto del meraviglioso urbano, ma anche dall'amico delle avanguardie teatrali, l'urbanista, il drammaturgo, l'attore.
È una carrellata di emozioni. Ci sono le migliaia di occhi sognanti che, sotto le volte della Basilica di Massenzio, assistevano al miracolo di Sua Maestà il Cinema. Poi la sabbia selvaggia del Festival della Poesia, di notte, sulla spiaggia di Castel Porziano, con Allen Ginsberg e Gregory Corso, i poeti della Beat Generation. E chi dimenticherà mai il " Napoleon" di Abel Gance, proiettato sotto il Colosseo, in una splendida serata, con l'orchestra che suonava le note della colonna sonora? «Ma dobbiamo ribellarci alla definizione di effimero - spiega Tocci - Più appropriata è invece l'espressione, cara a Renato, di Meraviglioso urbano, inteso come esercizio popolare dello stupore. Il circo a piazza Farnese, le installazioni della Transavanguardia accanto alle Mura Aureliane e tanto altro sono tutte esperienze ludiche che suscitano nuovi immaginari urbani". «Mi ricordo un'intervista stupenda - racconta Christian Raimo - in cui Nicolini parla con il poster di Flash Gordon alle spalle e rivendica la pluralità di interessi dell'intellettuale. Di chi vive nelle torri d'avorio' dice ' abbiamo scarso interesse a servirci'». Era l'86 quando questa sorta di folletto geniale, che fu deputato del Pci e poi, dopo un doloroso strappo con il Pds, candidato a sindaco di Roma con Rifondazione Comunista, lasciò il suo ufficio di piazza Campitelli allo storico Ludovico Gatto, nuovo assessore alla Cultura della giunta del dc Signorello. E a Roma tutta quella meraviglia, così visionaria, non si vide più.
· 10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.
Barbara Costa per Dagospia l’8 dicembre 2022.
Il 9 dicembre di 10 anni fa moriva Riccardo Schicchi, fotografo hard, regista hard, colui che ha sdoganato il porno in Italia, già, il creatore di Ilona Staller, Moana Pozzi, Eva Henger, OK, basta così!!!!! Basta con questi titoli triti e ritriti. Dopo 10 anni, e dopo averlo fatto morire infangato nella falsità d’essere un magnaccia, uno sfruttatore, che altro c’è da dire?
La morte di Moana. Eh, sì, signori: per chi come me è venuto dopo Moana, ma pure dopo che l’impero porno di Schicchi è crollato, bruciato, la sede di Roma, via Cassia 1818, da un piromane (mafioso? stalker di Ilona? tutti e due?) ma di più sconfitto dal web nuovo padrone del porno, è complicato scovare il filo il più esatto che dipani le infinite ciarle vessanti il ricordo di Moana Pozzi. Com’è morta Moana?
Di Aids, no, di cancro, sì, al fegato, no, macché morta, è viva, vivissima e nascosta, ha inscenato la sua morte per liberarsi del porno, nooo, ma che dici, Moana è morta, divorata da un virus sconosciuto.
Riccardo Schicchi ha lasciato un memoir, "Oltraggio al Pudore", edito nel 1995, da pochi recensito meno ancora letto per intero, e avete fatto male, perché, oltre alla sua verità su Moana, questo memoir è pieno di chicche gossip sulle pornostar. Vi devo svelare una cosa: da quando scrivo di porno, sono palpeggiata da "verità" sulla fine di Moana. Di chi la sa e la sa ma solo lui (e alcuni sono firme note…), e di gente che “io c’ero” (sì, e dove??? alla clinica di Lione con lei??? ma va, va), e di gente che la sa e perché “me l’ha detto Ilona”, “me l’ha detto Eva”, “me l’ha detto Schicchi”.
Uhm. Ma vediamolo, cosa ha detto Schicchi, anzi, scritto, a prova, nero su bianco: “Moana è morta cieca, a Lione, di cancro, al fegato, col corpo inghiottito da metastasi”. Schicchi su una unica cosa credo non l’abbia detta tutta su Moana, e cioè sul fatto che non abbiano avuto una storia. “Lei era innamorata di me”, scrive Riccardo, e lui no, sicché il loro “fu solo un rapporto professionale”. Sarà, ma com’era Moana, per davvero? “Non era bella, nel senso che non aveva un viso che spaccava il video” – e sarà Schicchi a farglielo "aggiustare" in simmetria – “e Moana non aveva limiti. Era una donna estrema.
Esibizionista. Spregiudicata. Lei non chiedeva niente a nessuno, agiva da sola e con un solo obiettivo: arrivare in vetta”. Ci arriva, grazie a Schicchi, sebbene precedentemente fosse “entrata in troppi letti, scottanti, in quelli di politici, attori, miliardari”. Moana è stata sì “l’amante di Craxi”, ma “Craxi non la sc*pava mai, le recitava poesie. Craxi non le costruì un futuro dorato, come fece con altre…”
Eh, Scricchi dixit, miei cari! E poi Cicciolina, con cui Riccardo Schicchi ha una storia d’amore non pubblicizzata e poliamorosa e che dura ben 18 anni: Schicchi lo chiarisce, che Ilona non ha mai girato porno con animali, né col pitone Pito Pito, né con i cavalli. Schicchi non ha mai girato porno zoorastico, quella famosa “con un cavallo come partner è stata Marina Lotar, vi raggiunse l’apice al botteghino”. Schicchi ha avuto tre grandi amori, e tutti porno e tutti ungheresi: Ilona, Mercedes Ambrus, e Eva Henger. Se Eva Henger “era scatenata nel fare l’amore”, e se Eva sposa e ottiene Schicchi tutto per sé, per più di un periodo queste tre donne Schicchi se lo son conteso.
Schicchi era ossessionato dalla vergine Mercedes Ambrus, mai chiarito se davvero vergine e quanto, e comunque, a Schicchi non l’ha data: loro hanno avuto un "coito" solo, e tramite “una lattina di Coca-Cola”, su cui un Riccardo Schicchi scoppiato di voglia vi poggia “il pene sopra e venne fuori da me un fiume di sperma”, e pochissimo dopo una ignara Mercedes Ambrus “prese la lattina dalle mie mani e iniziò a bere. Sorso dopo sorso, Mercedes non si accorse che aveva fatto l’amore con me”.
È Jeff Koons che porta via Ilona a Schicchi. Se Ilona dice che “tra me e Schicchi è finita perché io volevo un figlio e lui no”, Schicchi ce l’ha avuta anni a morte con Koons perché Koons ha distrutto l’immagine di Ilona plasmata da Schicchi: “È il mio lavoro. Non Ilona ma Cicciolina era mia, come mia era l’onda nei capelli di Moana, e le sue scarpe rosse coi tacchi. Jeff aveva il culto delle icone, ma io le icone le ho costruite. Ed erano icone vive”.
Koons porta via Ilona a Schicchi e Schicchi Koons lo demolisce, nel suo memoir, così: “Quest’uomo, Jeff Koons, che si vantava di avere 8 rapporti sessuali al giorno, ma che però al dunque con Ilona, sul set, dovevamo "sostenere" in mille modi…”. E non basta. In una intervista del 2010 a "L’Espresso", Riccardo Schicchi si è spinto a rivelare: “Il giorno del matrimonio tra Jeff e Ilona, mentre Jeff si vestiva da sposo, nascosti io e Ilona abbiamo fatto l’amore nella stanza della sposa. Fu una bella festa”. E sarà vero che “i Pooh, abbandonati da Riccardo Fogli, volevano Ilona Staller nel gruppo – come cantante, eh! – ma lei non accettò”…?
· 10 anni dalla morte di Gore Vidal.
Barbara Costa per Dagospia il 31 luglio 2022.
Ho fatto il pieno delle cavolate che girano su Gore Vidal: adesso so pure quella che era cugino di Jackie Kennedy. Ma Gore Vidal era il primo a dirlo, che tanti giornalisti sono sciatti, non sanno e se ne fregano, e su Gore Vidal – scrittore monumentale, morto il 31 luglio di 10 anni fa – i giornalisti italiani a lungo hanno riportato la fandonia che lui era famoso perché sceneggiatore del film Senso, quando Vidal lo sanno pure i sassi che ha sceneggiato Ben-Hur! Vidal bene faceva, a mandarli al diavolo, anche perché dirgli solo sceneggiatore è insultante.
Ha scritto film celeberrimi, sì, ma su tutti decine di libri, e drammaturgie e romanzi e saggi pignolissimi sulla storia americana. Tornando alla parentela tra Vidal e Jackie Kennedy, tale parentela non esiste: Jackie e Vidal sono cresciuti insieme, stessa casa, stesse scuole, senza esser tra loro niente. Il futuro patrigno di Jackie sposa la madre di Gore, da cui divorzia per sposare la madre di Jackie, e cresce figli non suoi pure se ne aveva lasciato le madri, e pure se non erano figli da lui generati.
Capito? Va bè, è un po’ eccentrico, e comunque, se volete storie sugose sui potenti americani, è a Gore Vidal che dovete rivolgervi. Lui per tutta la vita superbamente ha narrato di storia americana e di sé intrecciato ad essa, e mica di sfuggita. Gore Vidal è nipote di Thomas P. Gore, senatore democratico, e cieco. Il Congresso lui lo ha calcato fin da bimbetto, appresso al nonno. Vidal era omosessuale e apertamente te lo diceva e se lo viveva, anche perché lui ha avuto due grandi amori resi pubblici: Jimmie Trimble, morto 20enne nella Seconda guerra mondiale e modello e perno de "La Statua di Sale", libro di Vidal del 1948 che gli dà gloria e lo porta al coming out nel 1949.
Dopo Jimmie, Vidal si innamora di Howard Austen, un amore durato 53 anni, e fino alla morte di Howard, e… amore non monogamo! Se i due hanno abitato a Roma dal '58 al '78 (lasciandola dopo l’omicidio di Moro, orripilati) e passando le estati a villa La Rondinaia, a Ravello, è qui in Italia che Gore si è dato al sesso m*gnottaro più sfrenato. Perbenisti 2022 non ci provate a starnazzare la vostra moralità su questo gigante: non è l’infinita rinomanza letteraria a mondarlo, bensì che vi sia nulla da biasimare. Trattasi di scambio, sessuale, tra chi paga e chi offre. Come oggi. Come sarà sempre.
Lo stesso opportunismo che faceva accorrere i ragazzi di Ravello, e non solo… alle orge che a La Rondinaia Howard, il compagno di Gore, a pagamento organizzava, e che ora saturano biografie sulla vita segreta di Gore Vidal. Ma segreta de che? Lo sapevano tutti, cosa lì si faceva e come e tra chi, e beati loro, che lo potevano fare senza la pena dell’Aids o altri virus pericolosi. Vidal che sc*pava lo metteva nei suoi libri, lui di sesso parlava, il sesso era la sua chiave smontante ipocrisie.
Verità scomode, ma verità, leggete qua: “Io credo solo al sesso, e al sesso quale arma formidabile di potere. Dire al popolo ‘sposatevi e moltiplicatevi’ significa renderlo schiavo, perché se si ha una famiglia la si deve mantenere, e allora ecco che si obbedisce, si subisce”. Qualcosa in contrario? Gore Vidal ha stemmato transessualità e sadomaso in "Myra Breckinridge", libro che è una voragine, cinica, di tutto ciò che della vita devi sapere e che l’educazione ti rabbonisce. Vidal "Myra" lo scrive in un mese (a mano!) e in un mese ne vende un milione di copie, ed era il 1968, e in Italia uscì già nel 1969, e lo capì sul serio solo qualche anima isolata che nessuno si filò.
Gore Vidal era malato di politica, per lui la politica era respiro e tema inesausto. Ma non come facciamo noi, che ci lamentiamo e poi votiamo – votano – chi dà un biscottino in cambio. Per Vidal la politica era vero dovere culturale. Da fare in prima persona. E Vidal ripetutamente negli USA s’è candidato, deputato, senatore, nazionale e statale, mai una volta è stato eletto. Forse negli anni '60 e '70 era troppo da emancipati candidarsi da omosessuale e convivente? E avere come programma l’abolizione della CIA?
Gore Vidal frequentava i Kennedy in pubblico e in privato ed è per la sua lingua lunga che sappiamo che JFK a 40 anni aveva il petto villoso ma imbiancato, e che Merletto era il nome in codice dei servizi segreti per Jackie, Lanciere per JFK. E che JFK nella bara lo hanno composto con trucco esagerato e con un turbante a celare che mezza testa a Dallas gliel’avevano fatta fuori. E che Jackie nel 1994 morì all’ospedale poche stanze oltre quella in cui agonizzava Nixon.
Che Mamie Eisenhower non sapeva usare un telefono. Che Hillary Clinton “è bassa, tarchiata” e con un marito che va a “p*ttane a cui è concessa la prima serata tv”. Gore Vidal aveva una buona parola per tutti. Norman Mailer era “un bullo con manie di grandezza”, Saul Bellow “un poveraccio puritano”, Truman Capote “un bugiardo da salotto”. E, per Gore Vidal, cos’è la virtù? “Ciò che giova alla società”. E chi comanda in America? “Le banche. L’America è un paradiso per, forse, un decimo della popolazione e un inferno a diversi gradi per il resto. Ma non c’è alcuna ragione per cui dovremmo essere tutti uguali”.
A un certo punto Gore Vidal e Bobby Kennedy litigarono a morte e Vidal uscì dal cerchio dei Kennedy e mai più rivolse la parola a Jackie. Sul motivo si è discusso a lungo, molti dicono che Bobby si infuriò per un’oscenità di Gore su Ethel, moglie di Bobby, ma date retta a me, la litigata vera fu per i soldi. Vivendo per lo più in Italia, per anni Vidal "dimenticò" di pagare le tasse in patria, finché il governo gli presentò un conto da paura. Vidal chiese a Bobby, ministro della Giustizia, se si poteva chiudere se non un occhio, almeno mezzo. Ehi, mai chiedere favoritismi ai Kennedy!
· 9 anni dalla morte di Pietro Mennea.
Pietro Mennea, 70 anni per un eroe senza tempo. «Ragazzo del Sud, senza pista» capace di realizzare il record del mondo nei 200 metri. «Freccia del Sud», dal 21 Marzo del 2013 intento ad allenarsi tra le nuvole con la morte che in affanno e con la lingua penzolante è sempre alle sue spalle, oggi avrebbe festeggiato il 70esimo compleanno. Giuseppe Dimiccoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2022.
Blocchi di partenza. Se è vero come è vero che i miti dello sport non muoiono mai è doveroso porgere tanti grati e affettuosi auguri a Pietro Paolo Mennea da Barletta. «Ragazzo del Sud, senza pista» capace di realizzare il record del mondo nei 200 metri. «Freccia del Sud», dal 21 Marzo del 2013 intento ad allenarsi tra le nuvole con la morte che in affanno e con la lingua penzolante è sempre alle sue spalle, oggi avrebbe compiuto 70 anni. Tondi. Del resto quel 28 Giugno del 1952 a Barletta nasceva una stella, lucente e veloce, da mamma Vincenza e papà Salvatore (terzo di cinque figli).
Uomo instancabile, in tutto e per tutto, fu sempre in prima linea nella sua meravigliosa carriera sportiva e nella diffusione della cultura dei valori dello sport e della, spesso dimenticata, lotta al doping. Il suo mantra «soffri ma sogni, la fatica non è mai sprecata» continua ad emozionare e a tracciare percorsi di vita e di sport per tantissimi sportivi e non. Nella rete innumerevoli le citazioni e le attestazioni dedicate «all'uomo bianco, con la rabbia nera dentro», come egli stesso disse all'immortale Cassius Clay. Fulminea la definizione della Treccani nella pagina Enciclopedia dello Sport presente nel Web: «di un fisco non straordinario (1,78 m per 68 kg) riuscì, durante una carriera durata tra un ritiro e l'altro poco meno di un ventennio, a raggiungere risultati di altissimo livello grazie a una grande determinazione e ad allenamenti durissimi sotto la guida di Carlo Vittori».
Il suo «manifesto»? Eccolo: «Ogni tanto c’è qualcuno nel parco che mi chiede: e tu che fai? Vorrei avere abbastanza fiato per rispondere: ho già fatto. 5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni». Chapeau. «Pierino», a soli 16 anni, nel 1968 a Barletta, faceva impazzire tutti all’Istituto «Cassandro» allenato dal prof. Alberto Autorino. Poi all'Avis dove, guidato dal prof. Franco Mascolo, vinceva e stravinceva. Addirittura, ricorda il suo amico e staffettista Giuseppe Acquafredda - tra gli artefici di un murale sul palazzetto dello sport di Trinitapoli - «non riuscirono a batterci nemmeno dopo aver buttato un gatto nero nella nostra stanza a Roma nel villaggio Olimpico. Alla staffetta 4 x100 con Pietro, Pallamolla e Gambatesa vincemmo la gara stabilendo il nuovo record pugliese categoria allievi».
Pietro batteva anche le velocissime Porsche a quattro ruote sul viale della stazione nella sua città natale. Viene ancora la pelle d'oca a pensare che a 19 anni - nel 1971 – fu campione italiano nei 100 e nei 200; nel 1972 primatista italiano nei 200 (20”11). Vi è molto altro. In sintesi: nel ‘74, primo nei 200 agli europei di Roma; nel ‘75, oro nei 100 e nei 200 ai Giochi del Mediterraneo di Algeri, idem nei 200 ai Giochi Universitari di Roma; nel ‘76 quarto nei 200 ai giochi olimpici di Montreal; nel ‘77, secondo nei 200 alla prima Coppa del Mondo, a Dusseldorf; nel ‘78, suoi i 100 e 200 agli europei; nel ‘79 primo nei 100 e 200 alla Coppa Europa (Torino). Tutti in piedi: il 12 Settembre del 1979 record mondiale a Città del Messico nei 200 (19”72); nell’80 medaglia d’oro a Mosca nei 200 metri. Lo incoronarono «Pietro lo Zar».
E la sua partecipazione a ben cinque Olimpiadi? Impresa straordinaria che fu salutata il 10 giugno del 1997 a Barletta con la consegna da parte di Juan Antonio Samaranch, allora presidente del Cio (Comitato olimpico internazionale) del Collare Olimpico. I suoi allenamenti sono tutti trascritti, di suo pugno, nelle mitiche agende. Diventate, anche, l'oggetto di studio della tesi di laurea del barlettano Pietro Corcella. Cambiamo corsia. Profumata la scia della sua «vita non sportiva». Pietro conseguì cinque lauree, fu illuminato eurodeputato dal 1999 al 2004 dove pose le basi per il riconoscimento giuridico dello sport in ambito europeo con la «Relazione Mennea (A5-0208/2000) - Relazione di Helsinki sullo sport» votata a settembre del 2000 a Strasburgo (chi scrive gli era accanto come assistente accreditato). Avvocato, dottore commercialista, revisore contabile, docente di Istituzioni di Diritto pubblico all’Isef dell’Aquila, e poi, ancora, docente all’Università di Salerno alla Facoltà di Scienze politiche e giornalista. Ma non è tutto. Scriveva libri. Sgambettando sul sito pietromennea.it oltre a vedere tutti i suoi titoli ammirerete le sue imprese sportive con filmati e video epici.
Tanti gli scritti a lui dedicati. Consigliamo «Quella maledetta voglia di vincere Il romanzo del giovane Pietro Mennea» di Renato Russo edito dalla Rotas. Commoventi le parole della vedova Emanuela Olivieri – in un indirizzo di saluto al Rotary Club di Barletta in occasione della consegna del premio «Pietro Mennea»: «Quest'anno è davvero speciale per me perché Pietro avrebbe compiuto 70 anni e nello stesso giorno, il 28 giugno, avremmo festeggiato i nostri 25 anni di matrimonio». Gli fa eco, Ruggiero Mennea delegato per la Puglia della fondazione Pietro Mennea, «Oggi avremmo fatto una festa sobria come era nel suo stile. Ci manca tanto. Pietro vive nel cuore di noi tutti». Sul filo di lana: a Pietro è già stato dedicato un francobollo. Ma manca una statua nella nostra Barletta. Perché non regalargliela come presente di compleanno? Ne riparliamo il 12 Settembre ovvero il «Mennea day»? La statua, la meriterebbe tutta. Tanti auguri. Di vero cuore.
IL RICORDO DELLA REGIONE PUGLIA
La Regione Puglia, attraverso i propri canali social, ricorda Pietro Mennea nel giorno in cui avrebbe compiuto 70 anni. «La freccia del Sud faceva numeri incredibili. Oggi Pietro Mennea da Barletta avrebbe compiuto 70 anni. Per 17 anni, i 200 metri più veloci del mondo sono stati nelle sue gambe, nel suo talento e nel suo encomiabile spirito di sacrificio. Un mostro sacro dell’atletica italiana. Un orgoglio pugliese».
· 9 anni dalla morte di Virna Lisi.
Virna Lisi avrebbe 86 anni: i “no” a Hollywood e la bellezza “fastidiosa”. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022
L’attrice, morta nel 2013, era nata ad Ancona l’8 novembre 1936. Considerata un’icona di eleganza, ha rifiutato parti importanti per produzioni italiane e internazionali
Gli inizi
E’ stata una delle attrici italiane più amate del grande e piccolo schermo. Oggi Virna Lisi avrebbe compiuto 86 anni: la sua vita è stata stroncata a 78 anni nel dicembre 2014 dopo aver scoperto, solo un mese prima, di avere una malattia incurabile. Virna Pieralisi (questo era il suo vero nome) aveva mosso i primi passi nel cinema all’età di 14 anni, all’inizio degli anni ‘50, nelle cosiddette pellicole «strappalacrime». A metà degli anni ‘50 poi i primi ruoli in film di un certo rilievo come «Lo scapolo» di Antonio Pietrangeli
I no a Hollywood (e non solo)
Elegante, sempre perfetta, aveva però detto tanti no nella sua carriera. Tra gli altri a Ferzan Ozpetek. ''Aveva scritto per me il ruolo che poi e' andato a Lisa Gastoni in 'Cuore sacro', ma io ero già impegnata'' aveva detto l'attrice in una intervista di qualche anno prima di morire. Molti i no detti anche a registi e pellicole hollywoodiane (tra cui una produzione su Barbarella)
I premi vinti
Nella lunghissima carriera ha vinto molti premi tra cui un premio a Cannes e poi un Cesar per la sua interpretazione di Caterina de' Medici in La Regina Margot. Ma anche due David di Donatello, sei Nastri d'argento, un Globo d'oro
La vita privata
Nel settembre del 2013 aveva perso il marito Franco Pesci, da poco aveva terminato le riprese del nuovo film di Cristina Comencini «Latin lover». Erano sposati dal 1960 e dal loro amore è nato il figlio Corrado.
Il rapporto con la bellezza
«Sì, a volte la bellezza mi ha dato fastidio, mi ha precluso dei ruoli e questo mi ha addolorata. Essere belle non è sempre facile, soprattutto se si vuol fare cinema serio». aveva detto la Lisi in un’intervista. Era considerata infatti un’icona di bellezza.
Avrebbe compiuto 86 anni. Virna Lisi, la storia dell’attrice che rinunciò a Hollywood: il cinema, i suoi amori (marito e figlio) e com’è morta. Elena Del Mastro su Il Riformista l’8 Novembre 2022
L’8 novembre 1936 Virna Lisi nacque ad Ancona. Avrebbe compiuto oggi 86 anni. È stata una delle attrici italiane più amate del cinema ma anche della tv e del teatro. Per ricordarla nel giorno del suo compleanno andrà in onda su Sky Arte il documentario di Fabrizio Corallo dal titolo “Virna Lisi. La donna che rinunciò a Hollywood”. L’attrice è morta nel 2013, a 78 anni. Solo un mese prima aveva scoperto di avere una malattia incurabile che se la portò via velocemente. È considerata un’icona di grande eleganza.
Il suo vero nome era Virna Pieralisi. Il suo esordio nel mondo del cinema avvenne all’inizio degli anni ’50 a soli 14 anni nelle cosiddette pellicole “strappalacrime”. A metà degli anni ‘50 poi i primi ruoli in film di un certo rilievo come “Lo scapolo” di Antonio Pietrangeli. Poi iniziò la sua scalata verso il successo con grandi autori come Maselli, Steno, Germi, Monicelli, Liliana Cavani, Dino Risi, Luigi Comencini.
Approdò anche a Hollywood dopo aver girato il film Il tulipano nero con Alain Delon. Si trasferì a Los Angeles con la famiglia e partecipò a film tra cui Come uccidere vostra moglie insieme a Jack Lemmon. Lavorò con Tony Curtis e Frank Sinatra. “Quella vita non era fatta per me”, confessò l’attrice come riportato da IoDonna. Hollywood non le piaceva e non voleva rinunciare alla famiglia. Suo figlio Corrado era tutto per lei. Rinunciò anche al ruolo di Barbarella che portò fortuna a Jane Fonda. Ma Virna fece molti altri film che le diedero notorietà come La regina Margot per cui vinse la Palma d’Oro per la miglior interpretazione femminile: in molti ricorderanno il suo pianto dirompente sul palco di Cannes.
Nel settembre del 2013 aveva perso il marito Franco Pesci, da poco aveva terminato le riprese del nuovo film di Cristina Comencini «Latin lover». Erano sposati dal 1960 e dal loro amore è nato il figlio Corrado. Virna Lisi si spense il 18 dicembre 2014 a 78 anni, un mese dopo aver scoperto di avere il tumore ai polmoni.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
· 9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.
Enzo Jannacci, il cantautore-medico: sette curiosità su di lui. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.
Tra i maggiori esponenti della scena musicale e cabarettistica milanese, si è spento nel 2013.
Tra musica e cabaret
Tra i capiscuola della cultura musicale e cabarettistica milanese, Enzo Jannacci ha avuto un ruolo di primo piano nel cantautorato italiano, lasciando un’eredità indelebile. Questa sera su Rai5 si può riscoprire la sua figura fra rarità e contenuti inediti con «Jannacci - l’importante è esagerare», documentario a puntate che la rete sta ritrasmettendo. Da «El portava i scarp del tennis» a «Mexico e nuvole», ha scritto una miriade di canzoni evergreen, capace di un’ironia unica. Amico fraterno oltre che compagno di scena di Giorgio Gaber, con Cochi e Renato, Celentano, Boldi e tanti altri artisti ha fatto parte di una generazione di protagonisti assoluti della musica e dello spettacolo italiano, oltre che essere stato uno dei pionieri del rock
Le origini
Enzo Jannacci, all’anagrafe Vincenzo, è nato a Milano il 3 giugno 1935. Madre comasca, è invece di origini pugliesi da parte di padre e prende il nome proprio dal nonno paterno Vincenzo, a sua volta di origini macedoni. Il padre di Enzo, Giuseppe, lavorava per l’Aeronautica Militare e partecipò alla Resistenza milanese: dai suoi racconti nacquero varie canzoni. Enzo si diploma al conservatorio e, negli anni 50, inizia la carriera musicale
Il lavoro come medico
Enzo Jannacci si è laureato in medicina a Milano ed è poi diventato cardiochirurgo, trascorrendo anche dei periodi di formazione in Sudafrica e a New York. Grande sostenitore della sanità pubblica, ha affiancato il lavoro di medico alla musica per tutta la vita, andando in ospedale di giorno e poi nei locali a suonare la sera. All’inizio della sua carriera, ha avuto pazienti «illustri» fra cui gli amici Renato Pozzetto, Teo Teocoli e Massimo Boldi
Il figlio Paolo
Enzo Jannacci si è sposato nel 1967 con Giuliana Orefice. Cinque anni dopo la coppia ha avuto il figlio Paolo, ben noto a tutti visto che ha seguito le orme paterne ed è diventato lui stesso musicista e cantautore. Paolo Jannacci ha parlato più volte del rapporto con il padre, spiegando che durante l’adolescenza ci sono stati dei contrasti, ma che nel tempo il loro legame è diventato un forte sodalizio anche artistico
Le arti marziali
Non solo musica: Enzo Jannacci era appassionato anche di arti marziali, soprattutto di judo e karate. Si specializzo nel kumite, diventando anche cintura nera (e potendo insegnare lui stesso)
La disputa con De André
Jannacci e De André si «scontrarono» per un caso di plagio: Faber usò per «Via del Campo» una melodia del ‘500, consapevole però che si trattava di una musica riadattata da Jannacci per la sua canzone «La mia morosa la va alla fonte». La questione rischiò di trasformarsi in una disputa legale, ma i due cantautori risolsero tutto in maniera amichevole e la «paternità» della parte musicale di «Via del Campo» fu restituita a Jannacci
La malattia
Enzo Jannacci si è spento il 29 marzo 2013 a 77 anni. Negli ultimi anni aveva diradato le apparizioni pubbliche a causa dei problemi di salute: la sua morte è dovuta a un cancro per cui, negli ultimi giorni, era stato ricoverato alla clinica Columbus di Milano. È stato tumulato nel famedio del Cimitero Monumentale.
· 8 anni dalla morte di Robin Williams.
Robin Williams avrebbe 71 anni: fu l’ultimo a vedere vivo John Belushi, fu bocciato per «Shining» e gli altri 9 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.
Una raccolta di curiosità e aneddoti poco noti sul compianto attore - nato a Chicago il 21 luglio 1951 - tra i volti comici più amati del cinema
Compagno di scuola di Christopher Reeve
Era considerato un talento della comicità, un «genio ribelle» irriverente e fuori dai canoni, amato dal pubblico proprio per la sua capacità di far ridere, ma anche di commuovere ed emozionare, grazie ai personaggi che ha interpretato sul grande schermo (dall’alieno Mork al professor John Keating de «L’attimo fuggente», dalla governante Mrs. Doubtfire a Sean Maguire in «Will Hunting», ruolo che gli valse l’Oscar nel 1998 come miglior attore non protagonista): parliamo di Robin Williams, compianto attore scomparso a 63 anni nel 2014, che nasceva proprio in questo giorno del 1951 a Chicago (oggi avrebbe compiuto 71 anni). Figlio di un dirigente della Ford e di una modella negli anni Settanta si trasferì a New York per studiare recitazione alla prestigiosa Juilliard School. Tra i suoi compagni di scuola c’era anche il futuro Superman Christopher Reeve (lui e Williams diventarono grandi amici). Ma questa non è l’unica curiosità sul suo conto.
Il provino per Mork
Il personaggio che ha lanciato Robin Williams, l’alieno Mork, è apparso per la prima volta nel 1977 in un episodio del telefilm «Happy Days». Al provino l’attore ottenne immediatamente la parte: l’ideatore della serie, Garry Marshall, gli chiese di sedersi e lui lo fece ma a testa in giù (come avrebbe fatto un vero extraterrestre).
L’ultimo a vedere vivo John Belushi
Robin Williams è stato tra le ultime persone a vedere vivo John Belushi prima della sua tragica scomparsa, avvenuta il 5 marzo 1982 a soli 33 anni. Dopo essersi incontrati all’On the Rox - un’esclusiva discoteca sul Sunset Strip, ritrovo di molti vip - l’attore e Robert De Niro decisero di fare un salto al bungalow di Belushi allo Chateau Marmont per continuare la notte brava (ai tempi Williams faceva uso di alcol e droga), ma, dopo aver assunto cocaina, i due si trattennero per poco tempo a causa dello stato in cui versava la stanza.
Le telefonate dal set di «Schindler’s List»
Forse non tutti sanno che Robin Williams ha risollevato il morale al cast e alla troupe durante le difficili e intense riprese di «Schindler’s List» (1993): l’amico regista Steven Spielberg infatti gli telefonava in vivavoce e, per alleggerire l’atmosfera sul set, l’attore improvvisava dei veri e propri spettacolini comici.
Appassionato di ciclismo
Robin Williams era un grande appassionato di ciclismo: aveva una collezione di 87 biciclette (molte delle quali italiane), battute all’asta per beneficenza nel 2016, e l’ex ciclista Lance Armstrong era un suo grande amico.
Fu considerato per «Shining»
Fu preso in considerazione da Stanley Kubrick per la parte di Jack Torrance in «Shining»: il regista però, dopo averlo visto in «Mork & Mindy», lo scartò (pensava fosse «troppo psicotico» per il ruolo poi andato a Jack Nicholson).
Inventore di una parolaccia
Ha coniato una nuova parolaccia, «shazbot», utilizzata per la prima volta in «Mork & Mindy» (1978) e ripresa dall’ex cantante degli AC/DC Bon Scott alla fine del brano «Night Prowler » (ultima traccia dell’album «Highway to Hell»). È stata anche pronunciata in un episodio dei Simpson.
Diverse versioni di «Mrs. Doubtfire»
Chris Columbus, regista dell’amatissimo «Mrs. Doubtfire» (1993), ha in più occasioni confermato l’esistenza di diverse versioni del film, rimaste chiuse in un cassetto, e di un’enorme mole di girato, frutto delle innumerevoli improvvisazioni fatte da Williams sul set (il più delle volte gli attori in scena con lui non sapevano cosa avrebbe detto o fatto): «La verità è che tra me e Robin c’era un accordo: lui avrebbe girato una, due o tre scene come dal copione di Randi Mayem Singer e Leslie Dixon - ha spiegato Columbus in un’intervista ad Entertainment Weekly -. Poi però lo avremmo lasciato giocare. Lui andava avanti improvvisando un’altra ventina di scene».
Amante dei videogiochi
Robin Williams amava moltissimo i videogiochi: in particolare era un fan accanito della saga The Legend of Zelda (lanciata nel 1986). Non è un caso quindi se la sua secondogenita, nata dall’unione con Marsha Garces (la sua seconda moglie), si chiama proprio come la protagonista del videogame.
Quando aiutò la giovane attrice Lisa Jakub espulsa da scuola
Durante la lavorazione di «Mrs Doubtfire» la giovane attrice Lisa Jakub, interprete della primogenita del protagonista Lydia Hillard, fu espulsa da scuola: «I miei impegni comportavano un aumento del carico di lavoro per gli insegnanti - ha spiegato Jakub qualche anno fa sul suo blog - che non erano attrezzati per gestire uno studente “non tradizionale”. Quindi, durante le riprese, mi hanno cacciata». Venuto a conoscenza della cosa Williams scrisse una lettera all’istituto, spiegando che l’attrice cercava soltanto di portare avanti la sua formazione insieme alla sua carriera. Purtroppo la missiva non sortì l’effetto sperato («La scuola ha incorniciato la lettera. L’hanno appesa nell’ufficio del preside ma non mi hanno invitata a tornare a scuola») ma Lisa rimase colpita dal fatto che l’attore si fosse schierato dalla sua parte: «La sua lettera ha cambiato la mia vita».
Tre matrimoni
Robin Williams si è sposato tre volte. La prima - nel 1978 - con la ballerina Valerie Velardi, da cui nel 1983 ha avuto il figlio Zachary. L’unione è terminata nel 1988 e l’anno successivo l’attore è convolato a nozze con Marsha Garces (con cui ha avuto Zelda nel 1989 e Cody Alan nel 1991). Anche questa unione però non è durata (è andata in frantumi nel 2010), e nel 2011 Williams è andato all’altare per la terza volta con la graphic designer Susan Schneider, che è rimasta con lui fino alla sua scomparsa.
· 7 anni dalla morte di Pino Daniele.
Il figlio di Pino Daniele: «Papà viveva la sua popolarità in modo conflittuale, amava e temeva i suoi fan». Storia di Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 21 novembre 2022.
Qual è il ricordo più vivo che ha di suo padre? «Quello che vorrei tenere solo per me».
In realtà, nel corso di questa lunga intervista, Alessandro Daniele, 43 anni, di ricordi ne condividerà molti. Ma sempre con un riserbo gentile e colto, una ritrosia che sembra un tratto ereditario.
Suo padre, Pino Daniele, era così? «Esattamente così. Il suo più grande problema è stato essere Pino Daniele. Viveva la popolarità in maniera conflittuale. Era legato ai suoi fan, ma qualche volta l’aggressività di quelli che contestavano la sua evoluzione artistica lo feriva».
Non apprezzavano le ultime sperimentazioni musicali? «C’erano quelli che avrebbero voluto “congelarlo” ai tempi di Nero a metà. E glielo dicevano con durezza, a volte quasi minacciandolo. Ma la grandezza di papà è stata soprattutto quella di essersi evoluto, di non aver mai rinunciato a sperimentare».
Lei ha appena scritto per RaiLibri una biografia di suo padre che ha intitolato, semplicemente, con il suo nome e cognome. Pino Daniele è mancato nel 2015, lei è diventato il custode della sua memoria? «Detta così suona come una cosa esagerata. Però con la Fondazione Pino Daniele, oltre a coltivare un grande archivio, promuoviamo numerosi progetti sociali. A cominciare da quelli che hanno al centro l’inclusione».
Suo padre si è mai sentito escluso? «Certo. Papà è nato nei quartieri popolari di Napoli, ha avuto una famiglia con numerosi problemi, è stato allevato da due vicine di casa benestanti, ha rischiato di restare per sempre sulla strada. Parlava napoletano, da ragazzo faceva fatica ad esprimersi in un italiano corretto. E dunque, sì, si è sentito escluso nel momento in cui ha deciso di fare musica».
Che famiglia ha avuto? «Nonno Gennaro era malato di azzardo. Sperperava soldi, trattava male sua moglie e anche i suoi figli. Eppure papà non lo ha mai abbandonato e anche quando si è ammalato ha voluto fargli sentire il calore di una famiglia intorno. Diceva che lui l’odio lo aveva conosciuto davvero e non voleva averlo intorno a sé, in nessuna forma».
Di certo non era facile per lui coltivare dei sogni. «Una volta ha raccontato: “Da ragazzino volevano che diventassi ragioniere per avere il posto fisso. Con la chitarra, mi dicevano, riuscirai solo a morire di fame. Io però non l’ho mai mollata”».
Nel libro lei accenna anche alla semi-cecità di suo padre. «Una cosa che lo ha profondamente segnato, ma che è stata anche una linfa vitale per la sua musica. Ci vedeva pochissimo, aveva delle cicatrici sul fondo oculare che gli tagliavano la visuale. Nel 1974, proprio per questo problema alla vista, venne esonerato dal servizio di leva che all’epoca era obbligatorio. Si spiega così il suo caratteristico sguardo leggermente di traverso. Vedeva male, ma non si è arreso, anzi, questo disturbo ha affinato il suo senso musicale, perché ha imparato a esprimersi attraverso le note e le parole».
E ci sono stati anche i problemi al cuore. «Mio padre era un miracolo in movimento. Pensi che ad un certo punto della sua vita aveva una vena sola che portava il sangue al cuore. I medici gli dissero che non avrebbe più fatto concerti, ma lui riuscì a ribaltare questa perizia. Le sue canzoni erano troppo importanti».
È vero che «Quanno chiove», uno dei suoi successi maggiori, nemmeno voleva inciderla? «Verissimo. Aveva accennato la musica al telefono ma non era convinto, i produttori hanno dovuto insistere. E non tutti sanno che Anna verrà, un altro grande successo, era stata scritta per Marco Armani. E sa perché? Perché voleva che fosse un giovane a cantarla sul palco di Sanremo! Poi però non se ne fece nulla».
Pino Daniele ha trasformato il napoletano in un linguaggio universale. Però ha cantato anche in inglese. «Questo passaggio lui lo spiegava così: “Nella mia musica c’è il grande patrimonio della musica tradizionale e popolare, ma anche molte cose nuove, è un modo per portare la melodia tradizionale al di fuori di Napoli e se canto in inglese ogni tanto è proprio per far capire Napoli anche fuori dall’Italia”».
E poi ci sono le grandi amicizie, per esempio quella con Massimo Troisi. «Amicizia e complicità. Ma tra di loro c’erano anche grandi silenzi, che sono l’emblema della complicità».
Ad un certo punto lui e sua madre, Dorina Giangrande, si sono separati. Lei, Alessandro, come l’ha presa? «Ricordo il giorno in cui lui me lo disse. Risposi che se non andavano più d’accordo quella era la scelta migliore. Oggi sto cercando di ricomporre anche un legame con i figli che lui ha avuto dalla sua seconda unione. Penso che a lui farebbe piacere».
· 7 anni dalla morte di Francesco Rosi.
Francesco Rosi, il commosso ricordo di John Turturro. «Mi manchi tantissimo…» Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.
In occasione della mostra «Le Mani sulla Verità. 100 anni di Francesco Rosi», che s’inaugura al Museo Nazionale del Cinema di Torino il 15 novembre, giorno in cui il regista avrebbe compiuto 100 anni, il famoso attore ha voluto rendergli omaggio
Proprio martedì 15 novembre 2022 - giorno in cui Francesco Rosi avrebbe compiuto 100 anni - viene inaugurata al Museo Nazionale del Cinema di Torino la mostra «Le Mani sulla Verità. 100 anni di Francesco Rosi», curata da Domenico De Gaetano e Carolina Rosi, con Mauro Genovese e Maria Procino. Ospitata al piano di accoglienza della Mole Antonelliana, l’esposizione ripercorre la lunga carriera di Rosi - morto a Roma il 10 gennaio del 2015 - e resterà aperta fino al 17 aprile 2023, con ingresso libero. Nato a Napoli e considerato il maestro del cinema verità, il regista ha collezionato premi e riconoscimenti in tutto il mondo, lasciando un ricordo indelebile in chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo. Prova ne è il commosso ricordo di Rosi fatto da John Turturro per il catalogo pubblicato a latere dell’omonima mostra e curato sempre dal direttore del Museo Nazionale del Cinema e dalla figlia dell’indimenticata regista, con Genovese e Fabio Pezzetti Tonion.
Conoscere Francesco Rosi e lavorare con lui è stato uno degli eventi più rilevanti della mia vita. Francesco ed io ci siamo conosciuti lungo un periodo durato cinque anni, dopo l’invito a partecipare al film tratto da La tregua di Primo Levi, che stava adattando.
E siamo rimasti amici intimi.
Scrisse a Martin Scorsese dopo avermi visto in Barton Fink. Scorsese mi scrisse una lettera mentre a Chicago stavo lavorando alla messa in scena del dramma La resistibile ascesa di Arturo Ui, in cui interpretavo una versione di Hitler ambientata a Chicago: una strana coincidenza!
Mi ricordo di avere parlato al telefono per la prima volta con Francesco e di essere andato in libreria per cercare La tregua (The Truce). Era stato intitolato The Reawakening e non l’ho preso. Ho invece comprato La chiave a stella (The Monkey’s Wrench), un libro in cui Levi celebra la gioia del lavoro, la nostra infinita capacità di risolvere i problemi, l’arte del narrare e ciò che rende la vita soddisfacente. Esuberante e selvaggiamente divertente, è il libro che mi ha fatto innamorare di Levi. E sì, ho poi trovato La tregua! Ho iniziato a conoscere Francesco, incontrandolo a Roma, e guardando tutti i suoi film. Scorsese aveva una copia di Salvatore Giuliano che mi ha generosamente proiettato e poi ci fu un’intera retrospettiva al Lincoln Center, dove andai a vedere molti dei suoi film: Il momento della verità, Le mani sulla città, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli, Carmen, Il caso Mattei e Lucky Luciano in cui lavorò per la quarta volta con il grande Gian Maria Volontè. I film di Rosi trattano della condizione umana, della politica, della corruzione e del posto che l’uomo occupa nel mondo. Non ha mai smesso di esplorare quel tema.
Mi sovvengono alla mente molte cose quando penso a lui: prima di tutto che non avrei mai letto l’intera opera di Primo Levi se non fosse stato per Francesco. Lavorare con lui è stato come avere una porta aperta su di me, la sua fiducia nel fatto che io potessi interpretare una versione di Primo Levi mi prese davvero alla sprovvista ed egli vide in me qualcosa che nessun altro aveva notato in precedenza. Ho provato a ricambiare quella fiducia, facendo un grandissimo lavoro di ricerca e di preparazione, leggendo tutto ciò che Levi ha scritto, recandomi a Torino, incontrando la famiglia di Levi, intervistando molti sopravvissuti all’Olocausto, guardando documentari, studiando l’italiano, leggendo tutto ciò che potevo sull’argomento e perdendo molto peso nel periodo precedente alle riprese. Tutto ciò è accaduto in un periodo di cinque anni durante i quali abbiamo avuto modo di conoscerci sempre meglio l’un l’altro.
La delicatezza con la quale mi ha diretto e il suo occhio per la composizione – unito a quelli di Pasqualino De Santis e Marco Pontecorvo – è qualcosa che non avevo mai provato a quel livello. Ricordo la sua bocca sensuale in gran dettaglio. E il suo lato birichino.
Ne La tregua voleva che l’attrice polacca Agnieszka Wagner, che intrepreta un’infermiera, mangiasse di fronte a me una fragola in modo stuzzicante; non soddisfatto, le mostrò come fare e ricordo quanto sensuale ed efficace fosse il suo modo di masticare quella fragola, tanto generare un sorriso vergognoso sul mio viso.
Ricordo un altro episodio in cui un attore aveva un problema durante una scena e Franco fu abbastanza duro con lui. Io suggerii a Francesco che quell’attore più si sforzava e più diventava nervoso e che aveva bisogno di rilassarsi, anche perché era difficile per lui recitare in un’altra lingua. Francesco mi disse: “Va bene, dirigilo tu e poi ti dirò la mia teoria”. Provai a far rilassare l’attore e credo che egli fece un po’ meglio. Allora Francesco mi prese da parte e disse: “John, nella vita sono tutti bravi attori?” Io gli risposi: “No, certo che no”. Mi rispose: “Ogni film ha bisogno di un pessimo attore e lui lo è!”. Scoppiammo a ridere. “Sei tremendo!”, gli dissi, e lui rise ancora di più.
Per realizzare il film ha dovuto lottare contro molti e grandi ostacoli.
Per motivi assicurativi era necessario che avesse un regista che lo sostituisse in caso di malattia e ovviamente non approvava nessun nome che gli veniva suggerito; decise di affidarmi quel compito, che fino ad allora avevo diretto un solo film, Mac. “Tu conosci il materiali meglio di chiunque altro, lo farai tu!”. Accettai con riluttanza, scuotendo la testa. Continuavamo ad avvicinarci alla produzione e poi il film veniva posticipato. E alla fine ci siamo arrivati: il primo giorno mi tremavano le gambe, non volevo deludere né lui né Primo Levi.
Ricordo come se fosse ieri che ero su un camion con tutte le comparse, mentre venivamo trasportati in un nuovo campo di transito. Faceva freddo e nevicava. Durante la notte il clima si fece primaverile e la neve si sciolse; dovemmo dunque fare “alla Ėjzenštejn”, realizzare della neve artificiale e spararla verso il cielo dalle trincee che avevamo scavato. È stato un film moto difficile da realizzare. Anche se non sempre, andavamo d’accordo. E mi piaceva. Durante la lavorazione del film, perse due dei suoi più fidati collaboratori: Pasqualino De Santis e Ruggero Mastroianni.
È stata una delle più grandi esperienze della mia vita e penso che mi abbia cambiato come persona. Che abbia cambiato il modo in cui lavoro e quello con cui guardo il mondo. Penso ancora che si tratti di una delle cose migliori che io abbia mai fatto.
Mi ha fatto scoprire molte cose, tra cui Eduardo De Filippo. Se non fosse stato per Franco non avrei mai portato sui palcoscenici di New York e di Napoli Questi fantasmi e non avrei mai realizzato il documentario Passione.
Quando Francesco venne da me per visionare Passione nella sala di montaggio, mi diede numerose grandi idee e quindi tornai indietro e girai scene ulteriori e, su suo suggerimento, inserii me stesso come narratore/guida. Ricordo che venne a trovarmi mentre stavamo facendo il missaggio, di quanto fu entusiasta e quanto significasse, per me e per la mia montatrice Simona Paggi, avere la sua approvazione. Ha significato tantissimo per me vederlo raggiante di gioia ed orgoglio per quello che avevamo realizzato. È qualcosa che non dimenticherò mai. Quando lesse una fantastica recensione del film scritta in un quotidiano dal suo amico e straordinario scrittore Raffaele La Capria me la inviò con orgoglio perché la leggessi.
C’erano tante cose che amo nei suoi film. Di recente ho visto Cristo si è fermato a Eboli e sono stato impressionato dalla sua profondità, dalla semplicità e contemporanea complessità, dal senso dei luoghi e delle persone che esistono in quei luoghi: è davvero straordinario nel suo colpirti profondamente. I suoi film sono visivamente evocativi e impegnativi ma puoi guardarli e riguardarli venendo arricchito dall’esperienza della visione.
Prima di incontralo avevo perduto mio papà e lui è stato quasi un secondo padre o uno zio, se così si può dire. Tra noi c’era un’intesa e mi sarebbe piaciuto molto poter fare qualcos’altro con lui ma purtroppo questa possibilità non si è mai concretizzata.
Sapevo che voleva realizzare Julius Caesar, ne avevamo parlato ed era qualcosa al quale stava pensando. Per lui era difficile pensare in piccolo e io continuavo ad incoraggiarlo: “Pensa in piccolo, ancora più in piccolo. Magari possiamo fare un piccolo film insieme, come Fame di Knut Hamsun o qualcosa di simile”. Ma non l’abbiamo mai fatto.
È stata una persona che ha profondamente arricchito la mia vita ed aiutato la mia educazione, introducendomi - dopo Levi - a molti scrittori italiani, partendo da Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, De Filippo e Eco per arrivare a Elena Ferrante e a molti altri.
Ho una grandissima ammirazione per Francesco. Appesa alla parete ho una sua fotografia autografata, in cui tiene in mano un ventaglio della Carmen e indossa una fascia per capelli. È una grande fotografia dei suoi gloriosi giorni di lavoro. Ho cenato numerose volte con lui, la moglie Giancarla e la figlia Carolina e mi sono sempre sentito parte della famiglia: ora è difficile andare a Roma e non vederlo.
È stato unico nel suo genere.
Gli ho voluto bene e ho amato lavorare con lui.
Mi manchi tantissimo Francesco…* *in italiano nel testo
Maria Laura Giovagnini per “IO DONNA” il 7 novembre 2022.
I film di Francesco Rosi?
«Un Bignami di 60 anni di Storia italiana. Un cinema come oggi non si vede più ma non e affatto datato: le tematiche, purtroppo, sono attualissime. E il “linguaggio” e stato d’ispirazione per chi e venuto dopo» spiega la figlia Carolina, annunciando le iniziative che celebreranno il centesimo anniversario della nascita del regista, il 15 novembre.
A Torino, il Museo del Cinema organizzerà una mostra e un convegno incentrati sulle pellicole del “filone sociale” (Salvatore Giuliano, Le mani sulla citta, Uomini contro, Il caso Mattei, Cristo si e fermato a Eboli), più una retrospettiva.
La Rai ha in programma una maratona, La nave di Teseo pubblicherà i suoi taccuini e la natia Napoli lo ricorderà all’Accademia delle Belle Arti con le foto dal set di C’era una volta, tratto dalle novelle di Basile, con Sophia Loren e Omar Sharif.
«Papa era poliedrico, non solo autore di denuncia. Sapeva raccontare una storia d’amore o trasporre un’opera lirica: la sua Carmen fu un tale successo al botteghino da risollevare le sorti della casa di produzione, la Gaumont» ricorda Carolina - in tournee fino a febbraio con Ditegli sempre di si - che al padre, nel 2019, ha dedicato un imprescindibile documentario: Citizen Rosi.
«Per lui il lavoro doveva svolgere una funzione sociale, migliorare il nostro Paese, e non si e mai arreso: la sua ultima uscita - a 90 anni, col bastone - e stata di solidarietà ai giovani che avevano occupato il Cinema America, a Trastevere, per evitare che venisse trasformato in un supermercato.
Il suo insegnamento più prezioso come figlia?
“Andare avanti”. Non c’è colpo duro che m’abbia sotterrato. Vedo sempre il positivo e capisco che non può esistere il bene senza il male. Come faremmo a gioire se non abbiamo conosciuto un baratro? Nel 2010 ho perso mia madre (Giancarla Mandelli, ndr) dopo anni difficilissimi (era affetta da demenza), nel 2015 mio padre; qualche mese dopo e mancato mio marito (Luca De Filippo, ndr) e, una settimana più tardi, mia zia (la stilista Krizia, ndr). Tutti giganti, mi sentivo schiacciata non dalla loro figura, ma dalla responsabilità di portarne avanti la memoria. C’erano da prendere decisioni sulla compagnia teatrale di Luca e anche sulla casa e gli oliveti in Maremma, avrebbero dovuto essere il nostro buen retiro... Che fare?
Ho rilanciato l’azienda agricola (oggi il nostro olio e iper-premiato) e, consapevole di quanto fosse azzardato (eravamo smarriti, fragili, frastornati), ho dato subito un input di continuità alla compagnia: ho allestito Questi fantasmi, con la regia di Marco Tullio Giordana. Non ci credeva nessuno, invece non abbiamo perso uno spettatore!
E oggi e l’unica capocomica italiana. Come ha trovato la sua strada?
Piu che una strada, sono stati “segmenti” che convivono e, anzi, si nutrono uno dell’altro. All’inizio non c’è stata la recitazione, per quanto fossi stata tirata su a film: con mio padre entravamo al cinema alle tre e uscivamo alle dieci...Finite le superiori a Oxford, sono andata a Milano da mia zia come praticante stilista, scappando due anni dopo: lavorava dalle otto a mezzanotte ogni giorno, weekend compreso, e - se lo faceva lei - non lo facevi tu che hai 18 anni? No, lo fai.
Il fugone è comprensibile.
Rientrata a Roma, mi sono iscritta all’Accademia d’arte drammatica. Mi hanno offerto qualche ruolo, ma non ero contenta: da giovane idealista, volevo dedicarmi a film d’impegno. Che non arrivavano. Rigida nelle mie posizioni, ho rifiutato un blockbuster con Stallone.
Altri no clamorosi?
Tantissimi. La mia vita picchiatella, per esempio, con Pee-wee Herman, che si rivelo una fortuna per Valeria Golino. All’epoca eravamo in tre che parlavamo inglese: io, Valeria e Francesca Neri. Iniziai allora le esperienze come aiutoregista, prima con Franco (chiama spesso il padre cosi, ndr), poi con altri.
E il “taglio del cordone ombelicale” mai?
Si, lo so, i genitori vanno “uccisi”, e un fidanzato assai intellettuale s’incarico simpaticamente di dimostrarmi che papa non era Dio sceso in terra. Pero questo non ha creato un allontanamento. Devo dire la verità: i miei erano talmente intelligenti, il dialogo era talmente aperto che non e stata necessaria una fase di conflitti seri.
Non sono stata un’adolescente semplice (c’è stato il periodo delle stracanne, delle assenze a scuola) ma loro non reagivano con punizioni. Piuttosto: “Carolina, noi non ti impediamo niente perchè ci fidiamo della tua capacita di capire fin dove ci si può spingere”, instillandomi quel senso di responsabilità che mi ha fregato nella vita (ride).
Perchè “fregato”?
Ho sempre messo le esigenze degli altri davanti alle mie. Sono un po’ stanca di non concedere più di tempo a me stessa, di non impormi: “Stacco il telefono per due ore”. Ma con gli esempi che ho avuto, non ci riesco. L’unica volta che credevo di aver “beccato” un’incoerenza di papa, mi sono dovuta ricredere.
Che cosa era successo?
Una sera mi fece una predica sulla sincerità, e io: “Ah, bel discorsetto... E allora cosa mi dici di Francesca?”. Francesca era la bambina che aveva avuto dalla prima compagna, Nora Ricci, e che - in macchina con lui - era morta in un incidente: non me ne aveva parlato, l’ho scoperto da sola a 18 anni. Per Franco la mia provocazione fu, in realtà, una liberazione! Aveva taciuto per “proteggermi” e, da quel momento, non c’era giorno che non facesse un riferimento a lei. Penso che il dolore non l’abbia mai abbandonato.
Gli incontri più importanti della sua giovinezza?
Per citare solo gli amicissimi di famiglia: Antonello Trombadori, Ugo Stille, Furio Colombo, Tullio Kezich, Ettore Scola, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Vittorio Caprioli... Una volta, negli anni ’80, venne Miguel Bose e si sedette sul divano con ’sto cuscino vicino alla testa: su quel cuscino ci ho dormito una settimana!
Un ragazzo così bello non l’avevo mai visto. Franco era un riferimento per gli stranieri di passaggio a Roma: Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Robert De Niro, Al Pacino, Jack Nicholson. Capitava spesso. Richard Gere, avrebbe dovuto essere il protagonista di Dimenticare Palermo: le riprese slittarono per due anni e alla fine dovette rinunciare. Da parte di mamma, c’era la giostra, che cambiava di ora in ora.
La giostra?
Giocava a poker fino a notte fonda (mio padre, col suo sigaro, si appisolava in poltrona) e arrivavano personaggi ridanciani, colorati, di tutt’altro genere.
Non la mandavano a dormire?
Ci andavo (sono stata educata severamente da una tata di Trento, non me ne lasciava passare una), pero origliavo dalla scala a chiocciola. Ho passato parecchio tempo
con gli adulti, comprese le vacanze.
La più memorabile?
Un giro della Corsica su un rimorchiatore, era di Marco Ferreri. C’erano Trombadori, Antonello Falqui, Lina Wertmuller e il marito Enrico Job, Sergio Corbucci e la moglie Nori: si rideva da mattina a sera. Mia madre restava a bordo, mio padre mi portava a vedere il cimiterino, la chiesetta: non si rinunciava mai a quel cote. Lina si è ispirata proprio ai miei per Travolti da un insolito destino: Mariangela Melato e una donna snob del Nord, Giancarlo Giannini un uomo passionale, carnale del Sud.
Una giovinezza cosi scoppiettante, che pare invidiabile, avrà avuto lati negativi...
Ma no! Vedevo i miei amici e pensavo: “Madonna quanto siete noiosi!”. Sono stata privilegiata: l’estate in cui papa girava la Carmen sono rimasta tre mesi in Andalusia con la mia amica del cuore, coccolata dalla troupe.
Ad avvicinarla a De Filippo e stato pure l’aver avuto un padre “ingombrante”?
Non sono situazioni paragonabili. Luca portava sulle spalle il confronto con Eduardo, che aveva interpretato gli stessi ruoli. Amore a prima a vista? No: e stata antipatia a prima vista! Ci siamo conosciuti nel 1990: io ero aiutoregista e lui protagonista di Sabato, domenica e lunedì della Wertmuller. Siamo stati insieme 27 anni malgrado le difficolta degli inizi: più grande di me, aveva già una vita alle spalle, due mogli, tre figli piccoli... Ma ci trovavamo in tutto, inclusa la passione per i tatuaggi (sorride).
Ne ha davvero parecchi. Ci traccia la mappa?
In gran parte sono opera di Gianmaurizio Fercioni, un mito, uno scenografo bravissimo. Ci sono un serpentone, varie farfalle, una rosa e una gardenia. Una tigre, una rondine e una libellula. Sul polso un ramoscello d’olivo con il nome di Luca e lo shou, il simbolo cinese per “tranquillità”. Due bassotti come i miei. Ho iniziato a 18 anni a Los Angeles con una rosellina nera. Mia madre commento: “Sembra una crosta di Aids!”.
Per par condicio, adesso deve dedicare un documentario a lei.
Non e una cattiva idea (sorride), ci sarebbe da raccontare: era partita a Milano come segretaria alla casa discografica Sugar e, in breve, era diventata direttrice generale. Era stata la compagna di Lelio Luttazzi per dieci anni. Arrivata a Roma, aveva aperto una serie di boutique (le vetrine gliele faceva anche Luchino Visconti).
Ah, ci sarebbe l’episodio di quando venne arrestata con Mina in una bisca clandestina... Era anaffettiva e ipercritica (“Troppo facile farsi voler bene - teorizzava - se ti dico: amore quanto sei bella, quanto sei intelligente”), pero lavorava 12 ore al giorno per darmi sicurezza economica. Ci ho fatto pace solo cinque anni dopo la morte.
· 6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.
Francesco Specchia per Libero Quotidiano il 3 marzo 2022.
«Un nobile operaio della scrittura», così Paolo Bianchi definisce Tommaso Labranca in virtù dell'abilità tutta labranchiana di mettersi alla catena di montaggio di decine di giornali alla volta, per produrre a ritmo forsennato articoli con ali di farfalla. Non è una cattiva definizione, la sua. Ma io ho sempre creduto che Tommaso, intellettuale dal multiforme ingegno prematuramente scomparso nell'agosto 2016 che in questi giorni avrebbe compiuto 60 anni, fosse di più di un operaio.
Per me- lo ripeto- Labranca era un mix fra Luciano Bianciardi e Truman Capote; e il fatto che sia uscita la sua opera postuma in due volumi, Neve in agosto - Articoli alimentari (euro 15+ 15, per la sua microcasaeditrice fondata con Luca Rossi, la ventizeronovanta) attesta il dovere morale di consegnarlo alla posterità. Per quanto, semi avesse sentito dirlo, a Tommaso sarebbe venuta l'itterizia. Neve in agosto è la nuova raccolta di pezzi di costume, "alimentari" appunto li chiamava lui, che gli consentivano di campare e di dedicarsi alle attività di pura cultura.
Da Cronaca vera ad Oggi, a Max a Linus fino ad arrivare al nostro Libero - sulle colonne del quale era tornato all'antico amore, la critica d'arte -, la penna di Labranca si librava verso vette immaginifiche e percorreva tutte le strade della cultura pop. Soprattutto quelle strade le cospargeva di cianuro. Qualche esempio.
MIUCCIA PRADA Scriveva della regina della moda: «Se ho chiamato la mia gatta MiucciaPrada un motivo ci sarà. Non è solo il manto striato e anonimo che ricorda i momenti più dimessi della nota stilista. Ci sono anche comunanze caratteriali. A Miuccia Prada, quella umana, i croccantini non credo piacciano».
Discettava sugli spot tv delle regioni: «Nel 2012 i turisti italiani hanno premiato la Calabria e trascurato le Marche. Il motivo di questa differenza sta tutto nella comunicazione pubblicitaria, la Calabria si era affidata Rino Gattuso che arringava i corregionali in uno spot, a Parigi, con un tocco di epica e un forte bisogno di sottotitoli. Le Marche invece si erano autoflagellate con Dustin Hoffman solo in teatro che martoriava L'Infinito di Leopardi».
Azzardava paragoni su uno dei più grandi gruppi pop del mondo e chiamava i Coldplay «i Pooh inglesi ma non lo puoi dire se sei a un assemblea studentesca del '74 dove stanno suonando gli Area o nel 2003 in un bar con pretese che vorrebbe essere l'Hotel Costes di Stephane Poumpugnac...». Osservava, Tommaso, che la lettrice ideale di Fabio Volo è «una single sovrappeso dai 18 ai 35 anni. Sillaba, muovendo le labbra come fanno i preti con il breviario», mentre quella di Paolo Coelho è «una zitella tra i 35 e i 60 anni, tendente alle allucinazioni». Illuminava in una sua profetica intervista ad Orietta Berti nel 2014: «Hai mai pensato di darti alla politica?»; e Orietta: «Guarda se avessi bisogno di soldi magari lo farei.
Non dirmi che chi dice sì alla politica all'improvviso lo fa per voglia di aiutare il prossimo, sono cose che si fanno per la propria tasca. Per integrare la pensione».
Una pennellata che descriveva la classe politica italiana. Però, oltre alla battuta tagliente e surrerale, il talento di Labranca si esprimeva anche nella critica pura. Per esempio nel commentare il silenzio di Edward Hopper scriveva su queste pagine: «Come tutti i precisionisti, anche Hopper è pittore di architetture celebrate nella loro banalità geometrica. A Parigi dipinge la cattedrale di Notre Dame, ma lo fa purificando l'immagine da svolazzi impressionisti».
E su Bansky era ancora più crudele nel suo andare controcorrente: «È l'essere più noioso del mondo. Intendiamoci, tutti i divi dell'arte concettuale odierna sono noiosi, prevedibili, più moralisti di una zia artritica iscritta ai Focolarini».
Anche qui una pennellata, ma più dalle parti della maestosa dialettica di Federico Zeri. Tommaso sapeva trattare Mina come Proust e Proust come Mina; credeva negli orsacchi giganti, nelle papere al Central Park di Salinger e nell'arte concettuale (fino a un certo punto) amava le mortadelle al pepe vendute negli autogrill e Andy Warhol - di cui era uno dei massimi esperti - secondo i cliché della cultura di massa espressi da Umberto Eco.
FRAMMENTI D'ANIMA Era una persona buona e un intelletto finisssimo. E dotato di un'onestà intellettuale che l'aveva tenuto fuori dai salotti di quella stessa sinistra (e di quegli amici editori, registi, scrittori curatori di collane) che, subito dopo la dipartita, lo pianse come genio incompreso. Incompreso da loro. Fu in un indimenticato Questionario di Proust nel 2010 su Io Donna che si descrisse come un timido feroce.
Alla domanda "Il tratto principale del suo carattere?" rispose: "La marginalità"; e rivelò insane passioni per il riso basmati al vapore, L'autobiografia di Alce Toklas della Stein come livre de chevet e Piero Chiara, Buzzati, Fallaci, Lucio Fontana, George Michael e Paperinik come modelli da seguire.
Un polimorfismo che nei suoi articoli emerge tutto. Scrive Luca Rossi: «C'è una fotografia che conservo gelosamente in un archivio protetto del mio cervello: Tommaso sta scrivendo un articolo commissionato un'ora fa. Lo guardo ridere per la frase che appena scritto. C'è un frammento di anima in ogni parola che Labranca ha scritto, per questo poi non ce n'era più per lui». Sottoscriviamo tutto...
· 6 anni dalla morte di Lou Reed.
Barbara Costa per Dagospia il 2 marzo 2022.
Se il tuo uomo sparisse per giorni, e si ripresentasse da te una sera, a casa, in compagnia di un travestito indio-messicano, alto, moro, e ti proponesse un rapporto a tre, e non solo di sesso, ma di convivenza, tu, che faresti? Barbara Hodes, giornalista di moda, se l’è data a gambe, ma non prima di avere preso a schiaffi e mandato al diavolo il moro travestito, ma di più il suo uomo che era una rockstar ed era Lou Reed che, se nel 2013 non ci avesse lasciato, questo 2 marzo avrebbe compiuto 80 anni.
Ogni compita biografia lo riporta, che Lou Reed era bisex, e da adolescente fu sottoposto a elettroshock per volere dei suoi genitori che in tal modo pensavano di ricondurlo etero. Impossibile risanare il sano in un Lou Reed che per lunghi periodi etero lo è pure stato, e completamente, e si è pure etero-sposato (più volte) smettendo di “conferire dignità e poesia a eroina e speed, a sadomasochismo e omosessualità, e suicidio e misoginia”, per mettersi in pantofole, sul divano, a ingrassare.
Sì, ma questo dopo, negli anni '80, non nel 1974 quando si è innamorato e ha convissuto pubblicamente e mediaticamente con Rachel, ex detenuto e ex prostituto e ex parrucchiere che si vestiva da donna e sotto e in tutto rimaneva un uomo, all’anagrafe registrato Richard Thomas Humphreys.
Una vera storia d’amore, iniziata con Lou che abborda Rachel all’ "82Club", locale notturno del Greenwich Village, e se la porta a casa per del sesso a tre mancato finito a rissa con la fidanzata ufficiale soppiantata da Rachel. Una storia d’amore pubblica, con Rachel che dorme nuda, gira per casa nuda, e apre la porta a chiunque – giornalisti compresi – nuda. Rachel che non sa chi è Lou Reed prima di mettersi con Lou Reed, e che appare con Lou Reed in interviste e in posati sui giornali (iconici gli scatti di Mick Rock, con le mani di Rachel chiuse a possesso sul pube di Lou), ritratta avanti e retro sul disco-zombie di Reed "Sally Can’t Dance", e nei ringraziamenti di "Rock and Roll Heart".
Rachel è musa di Reed nell’intero "Coney Island Baby". Rachel è la donna di Reed sebbene portasse la barba, avesse un pene, si vestisse da donna ma non fosse femminile nella voce e nei gesti. Rachel è la sua donna col corpo di un uomo, compagna silenziosa, che non chiede niente se non la sua presenza. E Rachel è anche la sua compagna di droghe. Prima di far sesso si calano speed che “è un afrodisiaco potentissimo, che ti fa andare avanti per ore. Esalta il tatto. Puoi resistere a far sesso a lungo senza venire”.
Rachel sopporta e ricambia crisi di nervi e allucinazioni: ogni giorno, Rachel e Lou si fanno di metamfetamine, bollendo le pillole in acqua da aspirare e iniettarsi appena diventa gialla: “Ti esplode la testa a ogni buco. Non mangi mai, né dormi mai. Sei iperteso. Perdi peso. Vai in totale paranoia”. Le metamfetamine scivolano nei testi di Coney Island, insieme a ogni eccesso chimico, e Lou da tempo sul palco, prima di cantare "Heroin" estrae una siringa, stringe il filo del microfono intorno al braccio, e lì mima di farsi.
Da manager, Rachel segue Lou in tournée: Lou, alla fine di ogni concerto, piange a dirotto, a scarico di stress e tensioni. Angoscia che in Italia tocca l’apice col pubblico che lo insulta “sporco ebreo decadente”, e gli tira viti e cacciaviti. In Francia uno spettatore quasi lo accoltella. A Londra uno arriva a morderlo. In un’altra aggressione, è la stessa Rachel a intervenire, armata di pugnale.
Per un periodo, a New York, Lou e Rachel vivono in una suite al Gramercy Park Hotel, pagata dalla casa discografica. A gennaio 1976 si trasferiscono in un grattacielo nell’Upper East Side, con il loro universo di speed, Malboro, e gelato al caffè. Rachel non batte ciglio davanti all’attrazione di Lou per la morte, né davanti alla sua collezione di foto di assassinii atroci, teste scoppiate da colpi di pistola in bocca, né davanti alla passione di Lou per le riviste porno-gay.
A fine 1976, Rachel è pestata in strada, e Lou chiama Andy Warhol perché non sa cosa fare. La cura un dottore mandatogli da Keith Richards. Dopo di questo, Lou ritorna “a far l’insetto”, cioè riparte a "setacciare" i bassifondi. Ad aprile 1977, Rachel va via di casa dopo un litigio. Torna dopo 48 ore. A inizio 1978 non stanno più insieme, Lou ha già conosciuto Sylvia, una messicana somigliante a Rachel, che sposa il 14 febbraio 1980.
La fine dell’amore con Rachel riempie "Street Hassle" di veleno e autodistruzione: “L’amore se n’è andato/ portandomi via gli anelli dalle dita/ e non c’è più niente da dire”. E infatti Lou non parlerà mai più di Rachel, rompendo i rapporti con chiunque gli chieda di lei. Ma critici musicali scorgono Rachel nei successivi "Dirty Boulevard", "Halloween Parade", e dicono sia lei la Rita di "Magic And Loss".
Contro il parere di Reed, la RCA pubblica il best "Walk On The Wild Side", con in copertina delle polaroid di Lou e Rachel. Ha scritto Lester Bangs: “Se il disco "Berlin" fosse fuso e rimodellato in forma umana, sarebbe quella creatura”.
Rachel muore di Aids il 30 gennaio 1990 al St. Clare’s Hospital di New York. Ha 37 anni. Mai ha parlato o si è fatta la minima pubblicità sulla sua storia con Lou Reed. Non si saprà più niente di lei fino al 2018, quando il "New York Times" la ritrova sepolta – col suo nome al maschile – in una fossa comune a Hart Island.
· 6 anni dalla morte di George Michael.
A.P. per “il Messaggero” il 17 giugno 2022.
Ha cantato la parola freedom per tutta la carriera, lottando disperatamente per difendere la sua libertà, ma alla fine si è ritrovato in gabbia, da solo. Dopo l'annuncio di un documentario sulla vita di George Michael, il 28 giugno è in arrivo negli Usa la monumentale biografia della popstar realizzata dallo scrittore americano James Gavin, A Life (Abrams Press), frutto delle rivelazioni di 200 amici e colleghi.
Gavin ci racconta un uomo emotivamente fragile, autodistruttivo e paralizzato da insicurezze.
Il libro focalizza gli ultimi anni, passati da recluso nella sua villa fuori Londra. «Trascorreva le giornate guardando la Tv, devastato dalla tossicodipendenza e ricattato da escort gay», scrive l'autore, «com' è stato possibile un declino così squallido?».
DIVENTARE FAMOSO Ballare, divertirsi e diventare famoso, era questo l'obiettivo di Georgios Kyriacos Panayiotou, nato il 25 giugno 1963 a East Finchley, Londra, da una famiglia di immigrati greci ortodossi. Sullo sfondo, l'Inghilterra pragmatica e volitiva dell'era Thatcher, che combatteva la recessione stimolando la fiducia dei giovani anche grazie a Mtv. La giovinezza di George è segnata dal rapporto con un padre autoritario e omofobo, che lo avrebbe segnato per sempre. «Il fatto che mio padre mi disprezzasse e non credesse nel mio talento è stata una grande motivazione. Malgrado lui, sapevo che sarei diventato un musicista di successo. Da ragazzo associavo la mia omosessualità a un terribile senso di colpa», dichiarò al Guardian.
COMUNITÀ GAY Se Elton John e Freddie Mercury hanno rappresentato una visione esuberante e trionfalistica della nascente comunità gay (We are the champions), George è stato il testimone della vulnerabilità dei ragazzi che si scoprivano gay. «È la stoffa di cui tutti i grandi artisti sono fatti - commenta nel libro il produttore David Geffen - l'ansia di riscatto di un outsider frustrato che ha visto il suo narcisismo schiacciato troppo a lungo».
Gavin dedica molto spazio all'incontro con Andrew Ridgeley, fondamentale nella vita artistica di George Michael, nonostante i fan del loro storico duo degli Wham! lo abbiano spesso ridicolizzato per lo scarso talento. Si sbagliavano. «Quando si conobbero, erano la coppia più strampalata della scuola: Andrew aveva successo con le ragazze - ricorda Gavin - l'altro era un nerd grassoccio, ma la musica era il collante e senza di lui George non avrebbe mai creduto di potercela fare, né si sarebbe liberato dal peso dei pregiudizi paterni».
TOP OF THE POPS Dopo i primi successi, la consacrazione a Top of the Pops, con una formula che trasudava un gioioso erotismo rivolto alle ragazze. Non poteva rivelarsi. Così gli trovarono molto fidanzate (anche Brooke Shields si prestò): funzionò. C'era l'aids e l'omofobia che ne seguì avrebbe potuto stroncargli la carriera. George difendeva la sua privacy con i denti, fino a essere ridicolizzato da Sinatra: «La tragedia è quando nessuno ti riconosce più per strada». Allo stesso tempo colleghi famosi lo spingevano a fare coming out: Madonna lo presentò agli Mtv Awards chiamandolo La Diva, per Boy George lui era la sorellina.
L'amicizia con Lady Diana, incontrata a un concerto benefico a Wembley, segnò l'inizio di un rapporto durato 12 anni. Erano quasi coetanei, soffocati dall'attenzione morbosa dei media e bisognosi di un confidente, ma fu lo stesso George ad allontanarsi quando si rese conto che lei si era addirittura invaghita. L'ambizione, intanto, galoppava e con Ridgeley l'addio fu amaro. Ricorda Simon Napier-Bell, manager degli Wham: «Se in un primo tempo George gli aveva donato parte delle royalty di Careless Whisper per garantirgli una sicurezza economica, poi rinegoziò l'accordo in suo favore, malgrado non avesse bisogno di quei soldi».
Arrivò il primo album da solista, Faith, un successo planetario. Lo scandalo di I want your sex (bannato da molte radio Usa), fu il primo di tanti brani esplicitamente erotici (Father Figure, FastLove, Outside), tutti basati sul sesso spontaneo e naturale. «Ha messo in discussione lo stereotipo tranquillizzante del gay che vuole essere accettato dalla società - confessa il suo amico Ricky Gervais - ma per George il sesso aveva a che fare anche con trasgressione, rabbia e vergogna».
IL CONTRALTARE Il cantante rappresenta, secondo Gavin, il contraltare di Elton John e la rivalità fra i due viene testimoniata dalla richiesta di George - non accettata dal collega - di ritardare l'uscita di Candle in the wind rivisitata dopo il funerale di Diana: in quella settimana era previsto il lancio di You Have Been Loved, che avrebbe, così, perso la chance di raggiungere la vetta della classifica. Gavin ricorda un altro momento imbarazzante durante un concerto: «George si accorse che Elton si era appisolato. Quando poi lui andò a complimentarsi nel backstage fece finta di nulla, ma poi esplose rabbioso davanti al suo staff».
Un altro episodio riguarda la Royal Family. Nel 1990 il piccolo William gli chiese se avrebbe partecipato a un concerto natalizio a Buckingham Palace, cantando con Elton al piano. Michael declinò per poi commentare: «Ho detto di no al mio futuro re, che idiota». Non avrebbe neppure partecipato al matrimonio con Kate. «La coppia reale - spiegò agli amici - dovrebbe essere circondata da gente che ama, non da popstar imbolsite».
«A differenza di Elton John», scrive Gavin, «George non era l'artista gay che voleva mettersi al servizio della causa arcobaleno, con tutti i benefici che ne conseguivano». Forse anche per questo il pubblico lo abbandonò, né si stupì dello scandalo nei bagni pubblici a Los Angeles nel 1998: era un gay che si nascondeva, l'umiliazione se l'era meritata. George si isolò sempre di più, rifugiandosi nel crack e nel sesso compulsivo. Lo arrestarono sette volte, sempre con la droga dello stupro, e una volta nella macchina gli trovarono sex toys e maschere di lattice con la zip. Cercava continuamente incontri notturni con sconosciuti nei parchi londinesi e non ne faceva mistero: «Così non riveleranno mai il tuo segreto perché è anche il loro». Elton John, ancora una volta, non l'aiutò: «George si è perso, ormai è isolato e improduttivo», disse alla stampa.
PARANOICO Il cantante era sempre più paranoico e fantasticava cospirazioni dell'industria musicale, che tentò un suo ultimo salvataggio nel 2009, organizzando un duetto con l'emergente Beyoncé. «Se lo avessero convinto, sarebbe stato il suo poker con le dive soul, dopo Aretha (episodio che fece ingelosire Freddie Mercury), Whitney Houston e Mary J.Blige», conclude Gavin. «Nei suoi party c'erano solo droga e alcol, lui finiva sempre collassato a terra e si risvegliava vomitando - rivela un'amica nel libro - per lui non c'era scampo».
Sei mesi in un rehab in Svizzera non servirono e in quell'occasione, secondo l'ultimo compagno, Fadi Fawaz: «Michael si ferì almeno 25 volte con un coltello, ormai desiderava solo morire». Poi l'arresto cardiaco fatale, la notte di Natale, nel giorno del compleanno della madre. Suicidio per overdose? I familiari confermarono la morte per cause naturali. Gli esami tossicologici non sono mai stati resi pubblici.
· 6 anni dalla morte di Prince.
RS per “il Giornale” il 18 gennaio 2022.
Alla fine di una battaglia legale di anni è stato raggiunto un accordo sull'eredità di Prince, catalogo di canzoni e proprietà immobiliari comprese. Il lascito del cantante è stato valutato 156,4 milioni di dollari, quasi il doppio della stima precedente.
La cifra è stata concordata dagli amministratori della Comerica Bank and Trust con gli eredi del «folletto di Minneapolis» e l'agenzia federale delle imposte (Irs). Prince è morto nell'aprile 2017 a 57 anni senza lasciare testamento per una overdose accidentale da Fentanyl, un antidolorifico a base di oppiacei.
Beneficiari del lascito sono i suoi tre fratelli maggiori e la casa editrice musicale Primary Wave che nell'agosto del 2021 aveva comprato le quote del catalogo musicale dell'artista da altri tre eredi, uno dei quali è nel frattempo passato a miglior vita.
La distribuzione dei fondi dovrebbe cominciare in febbraio: «Sono stati cinque lunghi anni», ha commentato L. Londell McMillan, il legale dei fratelli coinvolti nella disputa che adesso sperano di voltare pagina dopo aver accumulato enormi spese legali per arrivare a questo momento.
I tre eredi e Primary Waves auspicano anche di monetizzare ulteriormente sulla soluzione del caso: il mercato dei cataloghi musicali è più bollente che mai, con case editrici come la stessa Primary Waves, la britannica Hipgnosis, Sony Music e Universal che hanno messo le mani sui diritti di icone della musica contemporanea come Bob Dylan, Neil Young, Fleetwood Max, Paul Simon e David Bowie.
· 6 anni dalla morte di David Bowie.
Alessandro Gnocchi per "il Giornale" il 2 dicembre 2022.
Nel 1971, David Bowie diventa se stesso. All'inizio c'è un regalo in un periodo di crisi sotto ogni punto di vista: un pianoforte. Tempo sei mesi e Bowie compone Oh! You Pretty Things, Changes e Life On Mars?. Una sterzata rispetto al passato, che oscillava tra il folk degli esordi e le chitarre distorte di The Man Who Sold the World. Nel frattempo, infatti, Bowie ha conosciuto Lou Reed e Iggy Pop, restandone profondamente influenzato.
Per un concerto trasmesso dalla Bbc, il cantante recluta Trevor Bolder, Mick Ronson e Woody Woodmansey: in pratica sono gli Spiders From Mars, ancora in attesa del loro Ziggy. È un'esplosione pirotecnica di creatività alla quale possiamo assistere attraverso i quattro dischi di Divine Symmetry: un insieme di demo e incisioni dal vivo che occupano proprio l'intero 1971.
Le sorprese sono numerose. In questo anno, ci sono le radici del successo di Bowie. Vediamo nascere assieme due album come Hunky Dory e The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars ma tra i brani esclusi, con il titolo di Tired Of My Life, c'è addirittura It' s No Game, un classico che finirà in apertura e chiusura di Scary Monsters, capolavoro del 1980. Dal punto di vista strettamente musicale, la svolta sembra dovuta all'ascolto dei Velvet Underground di Lou Reed. La cover di I' m Waiting for the Man, registrata in un hotel di San Francisco, la dice lunga: le chitarre hippie sono archiviate per sempre con questa lunga e strepitosa jam.
Bowie diventa Bowie anche in un senso più strettamente culturale e personale. Risalgono al 1971 le famose fotografie di Bowie addobbato come un antico egiziano. Non si tratta di una ingenua passione per Cleopatra. In realtà Bowie è carico di simboli esoterici che rimandano (anche) al satanista Aleister Crowley. La vicinanza all'esoterismo non è episodica, anzi: diventerà il tratto costante, forse l'unico, della camaleontica carriera di Bowie.
Nel corso degli anni, l'adesione alle dottrine gnostiche sarà mascherata (mai eliminata) per evitare guai ma tornerà con prepotenza nel testamento Blackstar, uscito due giorni prima della morte nel gennaio 2016.
In Divine Symmetry assistiamo alla nascita di Quicksand, un brano chiave di Bowie, che non a caso lo inciderà nuovamente negli ultimi anni. Qui Bowie ci dice apertamente di essere un esoterista: «Sono più vicino all'Alba Dorata / Immerso nell'uniforme figurativa di Crowley / Sto vivendo un film muto / Che rappresenta il sacro reame di Himmler / fatto di realtà onirica».
Nell'ordine: l'Alba Dorata è la setta gnostica nota come Golden Dawn a cui appartenne anche il poeta William Butler Yeats; Aleister Crowley, prima di diventare famoso come satanista, fu alla guida della Golden Dawn; il gerarca Himmler era il fautore del nazismo magico.
Ci sono anche accenti buddisti, che non stupiscono affatto: per alcuni occultisti, il buddismo è all'origine di tutte le dottrine esoteriche. Canta Bowie in Quicksand: «Mi potrete dire tutto quanto / Nel prossimo Bardo / Sto affondando nelle sabbie mobili del mio pensiero / E non ho più il potere».
Il Bardo è lo stato intermedio dell'anima sospesa tra morte e reincarnazione. Non è finita, manca ancora un tocco di superomismo più magico che ereditato da Nietzsche. Il mago, nella visione esoterica, piega la natura alla sua volontà attivando, grazie al rito, tutte le potenzialità dell'essere umano.
Ancora Quicksand: «Non sono un profeta o un uomo dell'età della pietra / Solo un mortale con potenziale da superuomo / Continuo a vivere / Sono incatenato alla logica dell'Homo Sapiens». A questo punto, anche il continuo ruotare di maschere (Ziggy, il Duca Bianco, Lazarus) altro non è che una conseguenza di queste credenze e ha più di un legame, ancora una volta, col buddismo.
Bowie aveva frequentato fin da giovane la Società Buddista di Londra e aveva provato anche la vita del monaco, per un breve periodo. Le sue ceneri sono state disperse nel mare di Bali con rito buddista. Insomma, su certe cose Bowie non ha mai cambiato idea, semplicemente, da buon iniziato, ha cominciato a rendere meno espliciti certi messaggi, comunque sempre presenti. Tra le sue letture, troviamo trattati di magia di Eliphas Lévi e i Vangeli gnostici (più volte Bowie ha dichiarato l'importanza di quest' ultimi nella sua evoluzione spirituale).
Divine Symmetry non è solo un documento eccezionale ma offre anche almeno due dischi (su quattro) meritevoli di essere annoverati tra i migliori di Bowie: i demo e il concerto del 25 settembre 1971, quello con i futuri membri degli Spiders From Mars. Completano il cofanetto un blu-ray, il fac simile di un quaderno di Bowie e un libro di 100 pagine.
Barbara Costa per Dagospia il 3 settembre 2022.
Maureen è Elton John. Così David Bowie e Mick Jagger tra loro chiamavano il loro amico Elton, e che David e Mick hanno fatto sesso è vero, lo rivela Angie Bowie, e in dettaglio: David e Mick almeno una volta l’hanno fatto a tre, e il terzo non è Elton, amico sì ma fino a un certo punto, e poi questo threesome è stato con una donna, e questa donna non è Angie, ma una che Angie sa e di cui non dice il nome…
Se non è Coco, la 43ennale confidente e assistente di Bowie perché Bowie ne conferma lo stretto legame, ma vi nega il sesso, ogni fatto e strafatto bowiano e segreti e chiavi musicali ed esistenziali della sua sterminata produzione stanno in "David Bowie. Blackstar. Le Storie Dietro Le Canzoni. 1977-2016", di Paolo Madeddu (Giunti).
Ed è il volume 2, quello finale, nodale, che parte dalla trilogia berlinese fino a Lazarus. Inutile che Madeddu metta le mani avanti: ha scritto tutto, ma tutto!!!, quel che di David Bowie acutamente si poteva scrivere, analizzando con minuzia e sapienza disco per disco, canzone per canzone, live compresi, raccolte autorizzate e no, e gli introvabili, e David Bowie che canta in linguaggio fonetico inesistente, e in giapponese, italiano, mandarino e va primo in classifica a Hong Kong, e più encomi, e stroncature annesse (ci son stati critici che l’hanno spregiato a “Bowioso”, “vecchio impiegato rock”, “s*gaiolo pretenzioso”, “tronco marcio”).
Come se non bastasse la curiosità da musicologi, si sazia pure quella personale che nei testi criptici di Bowie è finita: chi sono le persone dal 1977 fino alla morte passate nel letto del Duca Bianco? Se di sicuro Boy George ci si sarebbe buttato, ricevendo solo gli insulti di Angie Bowie per gli schiamazzi che, da fan esagitato, sotto casa Bowie andava a fare, Madonna da Bowie è stata a ogni avances rimbalzata quale pop star convenzionale nonché (ma che str*nzo) “una signora carina”. Prima di mettere la testa a posto e sposarsi con la top model Iman, dopo il divorzio da Angie anche per noia di condivisione di piselli in nome di una bisessualità accantonata per una potente eterosessualità, il signor Bowie non s’è fatto mancare nulla.
Ecco nomi e cognomi: Susan Sarandon. Ronnie Spector. Sydne Rome. La drag queen Romy Haag. Un via vai di groupie minorenni tra cui Sable Starr e Lori Mattix (la quale rinnega di aver perso la verginità a 13 anni con Jimmy Page – l’ingrata! – per spostarla a 14 con Bowie), e una matta che voleva essere da Bowie risarcita per stupro e morsi e contagio di AIDS, ma il giudice rigettò il caso dopo sole due ore di dibattimento.
Da parte sua Tina Turner sui tabloid smentisce i gossip dei tabloid (sicché il flirt c’è stato) e a quanto pare non c’è corista e collega e partner cinematografica immune dal fascino di Nobildonna (tale il soprannome di Bowie in patria). La 16enne Patsy Kensit sospira per i bowiani colpi di spazzola (nei capelli…). Bowie ha duettato ma pure gareggiato “in tensione camp” con Mick Jagger, e da “cleptomane di Jagger” ha avuto una storia con Bianca sposata Jagger.
A John Lennon Bowie non ha preso Yoko, ma l’amante May Pang. Capitolo Guns N' Roses: Axl Rose ha rincorso il Duca Bianco per menargli la volta che l’ha scoperto a filtrare con la sua Erin. Bowie ha amato e ha vissuto insieme a Ola, la madre di Slash, quando Slash era ragazzo. Perfino Geeling Ng, la "China Girl" dell’iconico video, se durante le scene di sesso nudo per le basse temperature col pene raggrinzito di Bowie non ha concluso granché, non ha resistito a una settimana di pazzie groupie con lui, e Rod Stewart, a Parigi.
David Bowie ascoltava Battisti. È incredibile ma di moda Bowie non capiva “davvero nulla. Scelgo i vestiti tra quelli sottopostimi da gente che sa il fatto suo. Ma quando li compro io, prendo cose terribili!”). Per gran parte di questo libro Bowie è fuori da alcool, nazismo, allucinazioni, droghe, satanisti, e Madeddu non poteva trovare targa migliore di “Bowie si mette a correre” per "Let’s Dance" e il tonante successo degli anni '80. Un altro David Bowie non vi sarà.
Ogni misurazione, comparazione, ispirazione, grado di copia dell’originale è grottesca. Ridicola. F-i-n-i-t-e-l-a. Bowie è stato a sé e agli altri e nei suoi dischi… “troppo”, e oltremisura concettuale, e “mille volte più coraggioso e ambizioso e inventivo dei suoi colleghi, e di ogni età”. David Bowie era “il pastore del gregge di sé stesso”. Era uno che ha letto centinaia di libri, e si sente, e pure nei pezzi composti senza parole “ti ritrovi a sentire di averci capito qualcosa”. I suoi album sono cultura di un’era in cui “un album era un’opera d’arte”. E durava 39 minuti.
Curiosità necrofila: più di una star è morta dopo aver cantato Bowie. Nell’ordine, Marc Bolan (invita Bowie nel suo show TV, cantano "Heroes", dopo pochi giorni Bolan perde la vita in un incidente d’auto, guidava la compagna ubriaca, Bowie mantiene lei e il figlio per anni), Bing Crosby (invita Bowie nel suo show TV, cantano "Heroes", Crosby muore pochi giorni dopo), e Prince (da solo canta "Heroes" in concerto sette giorni prima di morire). Gli Hollywood Vampires di Alice Cooper e Joe Perry e Johnny Depp hanno già diramato le date della tournée 2023. "Heroes" la canta Johnny Depp. Qualcuno lo avverta.
Guy Trebay per repubblica.it il 9 gennaio 2022.
Per anni la gente ha cercato di dedurre in quale punto esatto dei monti Catskill, nell’Est degli Stati Uniti, si fossero rintanati la supermodella Iman e suo marito David Bowie, il luogo dove sono state sparse, a quel che si dice, le ceneri del cantante. Nessuno è mai riuscito a trovarlo. Perfino adesso sono pochi, a Woodstock, a sapere dove si trovi esattamente la proprietà, anche se non è lontana dal leggendario paesino che Bowie, da sofisticato uomo di città quale era, derise in occasione della sua prima visita nel 2002, definendola «graziosa oltre ogni dire».
Ma quando, alcuni anni dopo, mentre registrava un album in uno studio da quelle parti, si imbatté nell’annuncio immobiliare di una casa in montagna con panorami quasi immutati dai tempi in cui li descrisse James Fenimore Cooper, la leggenda del rock vide nel paesaggio qualcosa di più: una via di fuga dalla fama. «Io e David eravamo tutti e due molto gelosi della nostra privacy», mi dice Iman in un pomeriggio di metà ottobre.
«C’erano certe cose che nessun altro doveva vedere», spiega una donna che come suo marito ha passato la parte migliore della propria vita sotto un microscopio. «La nostra casa, la nostra stanza da letto, nostra figlia sono sempre state off limits». Una volta che lo fai per qualcuno, «ti tocca farlo per tutti», dice alludendo a quelle pubblicazioni che hanno sparato sulle loro pagine le foto degli interni di varie residenze di David Bowie, anche se solo dopo che quest’ultimo, che era un abile uomo d’affari, le aveva messe in vendita e si era trasferito altrove.
Siamo seduti su una panchetta in pelle al Polo Bar, il locale ultraesclusivo di Ralph Lauren nel centro di New York, in occasione del lancio del primo progetto di Iman dopo la morte di David Bowie. Si chiama Love Memoir, ed è il profumo ispirato alla loro relazione, durata quasi venticinque anni.
«Quando ho conosciuto David, avevamo tutti e due carriere di successo e relazioni alle spalle», dice Iman, all’anagrafe Iman Abdulmajid, oggi 66enne. Lei aveva 35 anni e David Bowie 43. «Sapevamo che cosa volevamo uno dall’altra», continua in quel modo schietto che è il suo marchio di fabbrica. Quello che volevano, racconta, era prima di tutto un rifugio dal pubblico, perennemente a caccia dei detriti emotivi delle celebrità.
Volevano anche allontanarsi dallo scompiglio psichico delle loro mitologie. In contrasto con il suo personaggio camaleontico e accuratamente costruito, il suo status di superstar e la sua ipertrofica presenza pubblica, David Bowie in privato era introspettivo e, come dice Iman, un marito vecchio stile, così viziato dalle abilità domestiche di lei («faccio un pollo allo spiedo super-super-super delizioso») che dopo il matrimonio le capitava di rado di riuscire a mangiare in un ristorante.
Dal loro primo incontro, riconobbero l’uno nell’altra qualcosa di speciale e fidato. «Io conosco la mia identità e David conosceva la sua», spiega Iman. «Concordavamo tutti e due sul fatto che la vita dev’essere vissuta con uno scopo». Entrambi avevano un carattere risoluto e le idee molto chiare, dice.
«Eravamo concentrati l’una sull’altro, su quello che ci apparteneva e su nostra figlia», continua riferendosi ad Alexandria Zahra Jones (Jones è il vero cognome di Bowie), conosciuta come Lexi. «Ci proteggevamo a vicenda». Ed è sorprendente quanto siano riusciti ad avere una vita più o meno normale. Passavano la maggior parte del tempo nascosti in bella vista nel centro di Manhattan. «Abbiamo scoperto che i paparazzi sono un po’ pigri da queste parti», dice, a differenza di Londra, dove una breve incursione per cercare casa si era trasformata in una fuga continua.
Casa era un appartamento vicino al Puck Building a SoHo, che Iman ha venduto di recente. «Ero io e basta in quel posto enorme, ed era così triste starmene lì con i ricordi a ciabattare per casa», dice. Sempre più spesso nell’ultimo decennio, e per buona parte della malattia di Bowie, Iman e David si ritiravano nella loro tenuta in montagna.
È lì che Iman si è rintanata dopo che lui è morto di cancro al fegato il 10 gennaio 2016. Ed è stato lì, in solitudine, che ha scoperto di essere in grado di elaborare il lutto. «Non vedevo nessuno», ricorda, con l’eccezione di sua figlia e dell’agente di moda e attivista Bethann Hardison. Iman cucinava. E passeggiava nei boschi. Inaspettatamente ha cominciato a costruire tumuli di pietre.
In molte culture, nel corso della storia, la gente ha accumulato pietre una sopra l’altra per segnare i sentieri, per consacrare luoghi o come atto meditativo. «Rinchiudermi è stato un bene, a Manhattan non avevo spazio per lasciarmi andare al dolore. Ho cominciato a fare un tumulo ogni giorno, a vivere i ricordi con più gioia. E pian piano è diventato meno doloroso per me vedere questi meravigliosi tramonti senza pensare: “Devo farlo vedere a David”».
L’idea di creare un profumo si è evoluta in modo graduale durante l’isolamento, dice. «Lavoro nel settore della bellezza dal 1994 e non ho mai creato un profumo». Ogni cultura ha i suoi rituali di commemorazione: accendere candele, costruire altari, bruciare incenso, intrecciare capelli. Iman si è ritrovata a indossare il profumo del marito, una fragranza asciutta, schietta e vagamente legnosa di un’erba da campo originaria dell’Asia meridionale, nota come vetiver.
Così la fragranza che ha ideato «intreccia i ricordi della vita condivisi con David», dice. La scia inebriante di Love Memoir mischia rosa, bergamotto e vetiver, ed è racchiusa in due pietre sovrapposte di vetro ambrato e oro battuto. «Il mio modo per elaborare il lutto e scendere a patti con la nostalgia».
Affascinanti, sorridenti, abbracciati: così si presentavano sui red carpet e agli eventi mondani il geniale artista britannico e la supermodella somala (ora imprenditrice beauty). "Non mi sposerò mai più, David rimarrà per sempre mio marito", ha dichiarato Iman dopo la scomparsa del suo compagno di vita nel 2016. Ripercorriamo la storia del loro amore, iniziata nel 1990, attraverso le immagini più belle della coppia.
E dunque il duca bianco, David Bowie, aveva l’odore aspro del vetiver. E a sei anni dalla sua morte sua moglie Iman – la top model somala amata al primo sguardo, figlia d’ambasciatore e laureata in scienze politiche – lo evoca con un profumo che rappresenta “la sua essenza”. Cedendo anche lei, d’altronde già alla guida dell’azienda di cosmetici Iman Cosmetics – specializzata in prodotti per afroamericane – alla moda di creare fragranze così tipica di quello star system da cui pure si è sempre tenuta lontana.
Un evento unico, assicura: dopo Love Memoir, memoria d’amore, non ci sarà un altro profumo in catalogo. E pazienza se non tutti i fan di Bowie l’hanno presa bene. Scandalizzati dalla commercializzazione di un “segreto” così impalpabile e privato. Eppure l’odore, si sa – e lo ha dimostrato un celebre esperimento compiuto nel 1994, dal biologo Claus Wedekind – è alla base della nostra attrazione sessuale. E perdere l’essenza di qualcuno fa parte del trauma del lutto.
Non è raro che le vedove – e chi vi scrive ne sa qualcosa – proprio come Iman inizino a indossare la fragranza del marito perduto. Nutrendo l’illusione che sia possibile ritrovare la presenza di chi non c’è più. In una coppia celebre e schiva come quella dei coniugi Jones (il vero cognome di Bowie) amore e business si sono d’altronde sempre intrecciati. E allora che Iman risvegli (o inventi per necessità commerciali) il profumo dell’amato, che importa? Il Duca Bianco è morto. Evviva l’essenza del Duca.
· 6 anni dalla morte di Bud Spencer.
Carlo Pedersoli. Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.
Nel primo ricordo che ha di lui, ha tre anni e mezzo. «Era arrivato a casa nostra con una valigia che a me sembrava gigantesca, ma in realtà era normale.
Era piena di giochi. Ho questa immagine di un gigante dal sorriso buono, una sorta di Babbo Natale fuori stagione con la giacca blu e la valigia bianca». I regali non ha mai smesso di farglieli. Come quei pattini con le luci nelle rotelle che le portò dall'America e che in Italia ancora non erano in commercio. «Li indossai immediatamente.
Andai su e giù per il corridoio con lui che mi aspettava da una parte e mia madre dall'altra», scrive nel suo A metà , il memoir disponibile da oggi su «Apple Books» che firma come Carlotta Rossi Spencer, in cui racconta la storia d'amore tra sua madre Giò (Giovanna Michelina Rossi) e l'uomo che non ha mai potuto chiamare papà, ma sempre e solo «Lallo», lei per lui era «Lallina». Un personaggio pubblico, amatissimo a ogni latitudine soprattutto dai bambini: Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli.
La settimana scorsa Carlotta Patricia Francesca Giuseppina Rossi, assistita dagli avvocati Marco Feroci e Francesca Agnisetta, ha intrapreso il percorso giudiziario per il riconoscimento di paternità al Tribunale di Roma. Nell'atto di citazione chiede il risarcimento «del danno subito per la sostanziale mancanza della figura paterna nell'intero arco della vita» alla vedova e ai figli dell'attore scomparso il 27 giugno del 2016, in qualità di suoi eredi. E, naturalmente, l'esame del Dna attraverso quelli che considera i suoi consanguinei.
Il tempismo perfetto, nel sesto anniversario della morte del Piedone cinematografico, Carlotta Rossi, 46 anni, producer, lo spiega così per telefono da Londra, dove vive con le due figlie (il marito lavora in Italia e fa il pendolare): «Non c'è un motivo per cui ho deciso adesso di avanzare le mie richieste in Tribunale e di raccontare in un libro il grande amore che ha legato mia madre a mio padre. Oggi sono pronta, prima no. E mi sento affrancata dalla promessa fatta a mia madre, mancata il 9 novembre 2015, che non avrei mai detto a nessuno chi era mio padre».
Bud Spencer non è mai stato uno estraneo, per lei. Ha provveduto al suo mantenimento fino alla laurea. Le ha pagato la scuola americana, l'università negli Stati Uniti, le vacanze estive e invernali, un lungo soggiorno in Florida. E ha continuato ad aiutare la madre con un bonifico mensile di mille euro fino alla morte: i legali sono in grado di riprodurre tutti i movimenti dal 2005 al 2015.
Lei racconta: «Di mio padre non avevo il numero privato, era sempre lui a chiamarci. Avevo solo il fisso dell'ufficio, dove rispondeva la segretaria. Quando mamma è morta ho telefonato a Giuseppe Pedersoli, il suo primogenito, di cui mi ero procurata il cellulare perché lavoriamo nello stesso ambiente. La telefonata è durata 30 secondi, il minimo indispensabile. Gli ho detto chi fossi e che avevo bisogno di avvisare Carlo. Non l'ho mai più sentito».
Assicura che non è stato difficile non poter dire ai compagni di classe che il loro beniamino al cinema era suo padre. «Per me è sempre stato così, era normale». Crescendo, però, la «normalità» cui era stata abituata si è scontrata con l'esistenza di un'altra «normalità». Carlotta aveva 13 anni quando lui le disse di avere un'altra famiglia e tre figli legittimi. Chiarisce: «Penso siano persone carine, non mi dispiacerebbe costruire una relazione con loro».
Il lutto della madre è stato forte e privato. Quello dell'uomo che ha sempre considerato suo padre è stato a tratti alienante. «Mi sarebbe piaciuto andare al funerale, ma poi non avrei potuto salutarlo come avrei voluto. Così sono andata soltanto in Campidoglio, ho fatto la fila come tutti, accanto a ragazzi che avevano tatuato il suo nome e quello di Terence Hill sul braccio. Sono passata davanti alla salma, un cordone bordeaux separava "noi" dalla famiglia legittima. Io ero una spettatrice». Sul polso Carlotta si è tatuata una C. Ma non vuole dire se è per il suo nome, per il nome del padre o di suo marito, Carlo pure lui. Il tempo del riconoscimento, però, per lei è arrivato.
Da ilnapolista.it il 10 aprile 2022.
Dopo quasi 50 anni dal film cult con Bud Spencer e Terence Hill il 23 marzo arriva in sala con Lucky Red “Altrimenti ci arrabbiamo!” degli YouNuts, con i figli dei personaggi di allora, Alessandro Roja e Edoardo Pesce. Repubblica ne ha parlato col il figlio di Bud, Giuseppe Perdersoli
«I loro film erano semplici ma rispettavano tutti, divertivano ma non offendevano. Ancora oggi li vedono nonni e nipoti insieme»
Un lungo sodalizio durato tanti anni che li ha visti protagonisti di numerosi set. I migliori momenti sul set?
«Per papa, le colossali mangiate. Hill era sempre a dieta con una mela in mano. Ma la spaghettata a casa nostra era una piacevole ricorrenza, Terence chiamava mamma: “Mi prepari gli spaghetti al pomodoro alla Maria?”. Nelle pause di lavoro, nella roulotte di papa si radunavano stuntman e amici per il rito della mangiata».
Pedersoli ricorda quando da ragazzo seguiva il padre sui set, ma il più bel ricordo per lui è in uno stadio.
«A ottant’anni papa fu chiamato dal Comitato olimpico internazionale, doveva consegnare un mazzolino di fiori ma in 15 mila scattarono in piedi ad applaudirlo. Per lui i ricordi sportivi erano la parte più importante, il cinema lo ha vissuto come un regalo del destino reiterato per più di 40 anni.
L’affetto del pubblico per i suoi film facili era una sorpresa, mentre era orgoglioso delle conquiste sportive. Per lui i grandi erano Gassman, Sordi. Non aveva studiato recitazione, a 37 anni era finito per caso sul set di Dio perdona… io no».
Un papa super, buono con i piccoli che faceva paura ai cattivi
«Era sovradimensionato anche fuori dal set, grande stazza e grandi mani davano senso di protezione. Per i miei amici di scuola era un mito, a casa solo nostro padre. Aveva costruito un personaggio di burbero buono che incute timore solo ai cattivi ma non ai bimbi, che lo hanno sempre sentito come una figura protettiva. Ha incarnato le caratteristiche del supereroe.
Non voleva mai tradire quel che si aspettava il pubblico, per questo rifiuto film con Fellini e Ferreri. Diceva: nelle scene agisco con qualche secondo di ritardo, perchè il pubblico deve pensare prima di me: “ecco, adesso gli mena”. Hill era il furbo, lui l’uomo semplice che fa quello che tutti vorrebbero davanti a un sopruso».
· 6 anni dalla morte di Marta Marzotto.
Anticipazione da Oggi il 23 marzo 2022.
«In casa si parlava di tutto. Ma non di quell’argomento lì. Un giorno dissi a mamma: “Mmm...vorrei andare da un ginecologo”. “Perché? Stai male?”. “No mi serve la pillola”. Scappò dalla cucina a gambe levate. Non ne parlammo mai più. Dal medico mi portò mia sorella Paola». Lo rivela Maria Diamante Marzotto, figlia di Marta e interprete del cortometraggio «La Musa inquieta», in un’intervista a OGGI, in edicola da domani.
«Mamma era una persona affettuosa. Generosissima… Tanti se ne approfittavano: artisti, intellettuali, aspiranti stilisti. Era una mecenate vera... Lei li lasciava fare, lo sapeva. Il solo che non l’ha mai amata è stato Lucio Magri, l’unico dei suoi uomini che non piaceva a noi figli. A nessuno… Era spudorato. Si piaceva talmente tanto, che lei non poteva piacerle più di se stesso. Non puntava tanto al denaro quanto alla sua disponibilità, ai salotti».
Diverso il rapporto con Guttuso: «La presenza di Guttuso in casa non ci ha mai infastidito. Non ho mai visto effusioni tra loro… Mai visto niente di scandaloso nella vita di mia madre, salvo qualche nudo paparazzato».
Come figlia era gelosa di quegli uomini? «No, io e i miei fratelli Matteo e Vittorio non vedevamo mamma così. Ma doveva sembrare a tutti una donna leggera. In fondo, Renato era sposato, Magri stava con un’altra (Luciana Castellina, ndr), anche mio padre Umberto aveva avuto le sue donne... Adoravo papà, era il mio idolo. Finché non se n’è andato bruscamente. Con mamma era più dura, lei era molto severa».
Conclude Maria Diamante Marzotto: «Ci ha voluto tutti vicini fino all’ultimo. È morta a Milano, città per cui ha fatto molto. Ci sono stilisti, pittori, artisti, che senza di lei oggi non sarebbero nessuno. Volevamo seppellirla al Famedio del Monumentale ma qualcuno si è messo in mezzo e ha detto no. Ora le sue ceneri le ha mio fratello Matteo. È tempo che Milano ci ripensi».
· 5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.
Teresa Ciabatti per il “Corriere della Sera” il 30 luglio 2022.
«Ha illuminato la giovinezza» dice Renzo Arbore, il giorno dell'ultimo saluto, la bara a Via Asiago 10, sede di Radio Rai dove per loro è iniziato tutto. «Gianni ha inventato l'allegria in televisione», sempre Arbore.
Conduttore radiofonico, paroliere, autore televisivo, compositore e regista televisivo, Gianni Boncompagni muore a Roma il 16 aprile 2017. Ha 85 anni.
A via Asiago sfilano gli amici: Raffaella Carrà, Marisa Laurito, Irene Ghergo, Nino Frassica, Tito Stagno, Renzo Arbore. Gli amici e le ragazze, quelle ragazze che lui ha fatto lavorare, le quali rivendicano di essere sue creazioni: è vero, Gianni ha illuminato la giovinezza, la loro.
Ed è proprio questo il punto, l'aspetto dibattuto, a volte frainteso, di quello che è senza dubbio l'inventore della televisione contemporanea.
Che Gianni Boncompagni detto Bonco sia un genio lo si capisce da subito, dai programmi radiofonici come Bandiera Gialla , Altro Gradimento , in coppia con Arbore.
Siamo a fine anni Sessanta, inizio Settanta. Poi il passaggio alla televisione, 1977: Discoring , primo programma musicale che si rivolge a un pubblico di ragazzi, attraverso linguaggio ed estetica.
A ben vedere Boncompagni è già tutto qui: nell'attenzione all'adolescenza, nella capacità di raccontarla. Nel '77 lui è un ultraquarantenne, eppure sembra ancora dall'altra parte, dalla parte dei ragazzi di età e di spirito come Arbore.
Soffermiamoci su Arbore: Barbara, figlia di Gianni, ricorda: «da bambina Renzo mi diceva di avere un gemello che si chiamava Giuseppe.
Ogni volta che veniva a casa io dicevo: sei Renzo, e lui: no, Giuseppe. Per tutta l'infanzia ho creduto che fossero due».
Ecco, non c'è sintesi migliore per descrivere lo spirito, la grazia giocosa che ha caratterizzato un gruppo di lavoro che era anche un gruppo di amici.
«Ho vissuto un'infanzia stupenda» afferma Barbara (ricordiamo che Boncompagni ha cresciuto da solo le figlie di cui ha chiesto e ottenuto la patria potestà).
Negli anni '80 la carriera di Bonco prosegue: Pronto Raffaella? , Domenica in . Dunque il passaggio a Mediaset. «Sinceramente non lo so - dice lui stesso intervistato su Il Fatto Quotidiano in merito a Non è la Rai - Forse l'idea non mi venne. Fu una visione. Berlusconi voleva farmi rifare Pronto Raffaella? Io gli dicevo impossibile, è un programma basato sulle telefonate e Mediaset non ha la diretta, lui però insisteva: che c'entra, noi lo facciamo con le telefonate finte».
Da indicazioni vaghe e da una libertà assoluta concessa all'autore nasce Non è la Rai .
Programma rivoluzionario, con un'estetica mai vista prima, e un apparente, meraviglioso, a tratti struggente, girare a vuoto - non è forse questa l'essenza della giovinezza?
Girare a vuoto senza centro (geniale l'intuizione di eliminare il conduttore assegnato dalla rete, rompere lo schema).
Insieme al successo incredibile di ascolti però, arrivano le critiche: la sessualizzazione di minorenni, molte delle quali sotto i quattordici anni, inquadrate in atteggiamenti seduttivi. A Famiglia Cristiana Boncompagni risponde: «Faccio un programma privo di contenuti, non voglio lasciare nessun messaggio». Pecca di modestia, o meglio: non ha intenzione di spiegare la sua opera che magari un giorno sarà studiata - cosa che avviene, molto prima di quel che lui immagina. Studiata, imitata e ancora discussa. Irriverente, spericolato Boncompagni rischia l'equivoco senza timore, fronteggia la morale comune, quasi la sfida. Sapendo bene che la discussione che ne deriva costituirà un passo avanti culturale e sociale.
Sembravano averlo capito tutti ormai.
Invece no. Dopo la sua morte qualcuno torna sulla questione delle ragazzine, prende elementi della vita privata del regista per dimostrare una certa morbosità verso la gioventù (scandalose - secondo loro - le storie d'amore, a cominciare da quella con la Carrà durata dieci anni, lei ventisei anni, lui trentacinque!).
Qualcuno ricorda Isabella Ferrari, allora diciassettenne, con la quale Boncompagni fu fidanzato, e polemizza sul fatto che ci siano trattamenti diversi da parte dell'opinione pubblica, se lo fa Boncompagni bene, se lo fa Berlusconi no (la giornalista Barbara Carfagna a cui replica Marco Travaglio spiegando la differenza).
Ecco farsi avanti Laura Colucci, ex ragazza di Non è la Rai , ai più sconosciuta, che a Today e a Le Iene racconta: «A un certo punto, Boncompagni chiese di vederci a casa sua. E quindi andammo là. Lui si divertì tanto e quindi da quella sera poi ci ha preso gusto. Domani a casa di Gianni, sabato a casa di Gianni e poi la prossima settimana a casa di Gianni.
Ad un certo punto, mi sono rotta il caz**. Cioè a me non me ne fot** un caz** di andare a casa di Boncompagni. Mi hanno detto: "Ah guarda, a tuo rischio e pericolo". Non ci sono andata e sono finita. Non c'è mai stato sesso era tutto un po' sottinteso, capito? Dopo cena tirava fuori il barattolo della Nutella. Se lo passavano con questo cucchiaino».
Immediata la reazione delle altre che smentiscono qualsiasi clima di ambiguità, ribadendo che con loro Gianni è stato sempre protettivo. Lucidamente: Gianni Boncompagni è il primo che in televisione squaderna l'innocenza. L'innocenza non è un valore assoluto, non esistono valori di per sé. E niente è più pericoloso della semplificazione - a proposito di ambiguità. Boncompagni è stato narratore che ha guardato la purezza come un prisma.
E no - qui l'arte - non ha messo in scena il desiderio, ha generato desiderio. Che poi questo desiderio abbia preso anche strade morbose non riguarda l'opera, non riguarda lui (le ragazze raccontano di lettere e regali inquietanti ricevuti da sconosciuti).
Contro i benpensanti, contro chi confonde i piani, e scova messaggi dove non ci sono.
Contro chi ha la presunzione, spacciata per illuminazione, di individuare una traiettoria precisa dalla rappresentazione alla realtà, stabilendo un forzato nesso di causa effetto.
Contro chi crede che epurando l'opera, nascondendo armi, droga, gambe delle donne, si educhi al bene (fino alla Cancel Culture).
Contro questo plotone ottuso hanno vissuto, inventato, lavorato loro, il gruppo di amici geniali (Boncompagni, Arbore, Carrà), contro l'idea stessa di educare il pubblico.
Hanno combattuto il plotone ottuso con qualcosa di molto più potente: l'invenzione dell'allegria - citando Arbore.
Questi amici che hanno fatto in tempo a invecchiare insieme - commovente al funerale di Boncompagni Arbore. Renzo Arbore anziano e profondamente ferito che piange, piange e, in un gesto di pudore, cerca di nascondersi, di mostrarsi sereno, ma fallisce - l'unico fallimento di Renzo Arbore, magnifico fallimento: perché lì a via Asiago è l'inizio di tutto, l'inizio della loro giovinezza, e questa, esattamente questa - la morte di Bonco - la fine.
Così Eleonora Cecere, ex Non è la Rai , che ricorda Gianni: «Non dimentico l'ultima uscita: io, lui, e Raffaella (ndr Carrà) all'Ikea. Lui passava intere giornate là dentro. Con Raffaella camminavano sottobraccio, lui era già stanco. Quel giorno sembravamo una famiglia normale: mamma, papà e figlia». E ancora: «Gianni mi regalò una tazza per la colazione».
Gianni Boncompagni moriva 5 anni fa: i programmi cult, gli amori chiacchierati, 8 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2022.
Il regista e conduttore era nato ad Arezzo il 13 maggio 1932, da padre militare e madre casalinga. Con le sue trasmissioni radiofoniche e televisive ha rivoluzionato lo spettacolo italiano.
5 anni senza Gianni Boncompagni
«Non ho fatto cose memorabili - disse a Marco Molendini in una delle sue ultime interviste -, ma mi sono divertito molto». Moriva 5 anni fa, il 16 aprile 2017 a 85 anni, Gianni Boncompagni, uno dei più grandi innovatori della radio e della televisione italiana. Era nato ad Arezzo il 13 maggio 1932, da padre militare e madre casalinga, e a soli 18 anni si trasferì in Svezia, dove visse dieci anni svolgendo vari lavori. Fu in quel periodo che iniziò a muovere i suoi primi passi in radio. Tornato in Italia nel 1964 entrò in Rai ed ebbe un grandissimo successo insieme a Renzo Arbore, con cui diede vita a programmi cult come Bandiera Gialla e Alto Gradimento.
L’esordio come cantante
Nel 1965 Gianni Boncompagni esordì come cantante, con il nome d'arte di Paolo Paolo. A proposito di musica nel corso della sua carriera firmerà molte canzoni, le hit immortali di Raffaella Carrà (come «Fiesta», «Tanti auguri», «Tuca tuca» e «Ballo, ballo») oltre a brani per altri artisti da Mina («No», «La scala buia») a Renato Zero («Non basta sai», «In mezzo ai guai»). Una ulteriore curiosità: ha scritto insieme a Franco Migliacci (con lo pseudonimo Assolo) anche il testo di «T’Appartengo», portata al successo da Ambra Angiolini.
Da Discoring a Domenica In
«Dei miei programmi salvo soprattutto Macao, molto moderno per l’epoca. E poi Pronto Raffaella?, che aprì le trasmissioni del mezzogiorno e dopo una settimana raggiunse i 14 milioni di spettatori. Un boom oggi incredibile. Fu merito anche del gioco del barattolo con i fagioli: lo copiai da una di queste terribili tv private. Capii subito che avrebbe funzionato e Raffaella si fidò». Tra gli anni Settanta e Ottanta Gianni Boncompagni rivoluzionò la televisione italiana: nel 1977 approdò sugli schermi della Rai come conduttore di Discoring, una delle prime trasmissioni musicali destinate ad un pubblico esclusivamente giovanile (di Boncompagni era anche la voce nella sigla «Baila Guapa» ballata da Gloria Piedimonte, scomparsa pochi mesi fa a 66 anni). Successivamente arrivarono Pronto, Raffaella? (1983-1985, programma che consacrò Raffaella Carrà) e Pronto, chi gioca? (1985-1987, lanciò la carriera televisiva di Enrica Bonaccorti) mentre dal 1987 al 1990 Boncompagni curò l'ideazione e la realizzazione di Domenica In (sua anche l’idea del celebre cruciverbone).
Non è la Rai
Nel 1991 Boncompagni passò sulle reti Fininvest (oggi Mediaset), e lanciò Non è la Rai: andato in onda fino al 1995 otterrà un successo senza precedenti e sarà un trampolino di lancio per numerosi volti - oggi noti - del mondo dello spettacolo, da Claudia Gerini a Laura Freddi, da Sabrina Impacciatore a Nicole Grimaudo, da Antonella Elia a Miriana Trevisan. Oltre, ovviamente, ad Ambra Angiolini, che - appena 16enne - guidò da sola la trasmissione dal 1993 («Tutti credevano che io suggerissi le battute - raccontò il regista a proposito del famoso auricolare usato durante il programma dalla conduttrice -, invece le dicevo delle cose tremende, irriferibili, e lei doveva fare finta di nulla»).
Il ritorno in Rai e Bombay su La7
Nella stagione 1995/1996 Boncompagni collaborò ad un ultimo programma Mediaset (dopo Non è la Rai e i vari spin-off come Bulli & pupe del 1992): il pomeridiano Casa Castagna, presentato da Alberto Castagna. Tornato in Rai realizzò nuove trasmissioni come Macao (1997-1998), condotto nella prima edizione da Alba Parietti, e nel 1998 fece parte della Commissione Artistica del Festival di Sanremo. Nel 2007 arrivò su LA7 il programma Bombay, e dall’anno successivo tornò a lavorare come autore per Raffaella Carrà nella nuova edizione di Carràmba che fortuna (2008-2009). I suoi ultimi impegni in tv risalgono al 2011: ha partecipato come giurato a Lasciami cantare!, talent show canoro di Rai1.
Il primo matrimonio (e le tre figlie)
Gianni Boncompagni incontrò i suoi primi grandi amori negli anni Cinquanta in terra scandinava. Sposò un’intellettuale svedese, da cui ebbe le figlie Claudia, Paola e Barbara, ma dopo sette anni la moglie lo lasciò. Il divorzio arrivò nel 1964 e il regista scelse di seguire personalmente la crescita delle sue bambine, che all’epoca avevano 6, 3 e un anno.
L’amore con Raffaella Carrà
Alla fine degli anni Sessanta, in occasione di un’intervista organizzata all’alba in Piazza di Spagna («Prima di andare Gianni era scocciato», disse Arbore nel 2019 ricordando l’episodio), l’istrionico autore incontrò per la prima volta Raffaella Carrà. Per la conduttrice, che fece quasi da seconda mamma alle tre figlie di Gianni, Boncompagni incarnava quella figura paterna che non aveva mai avuto. Dopo dieci anni gli impegni lavorativi di entrambi fecero finire l’amore, ma nonostante la rottura i due conserveranno un ottimo rapporto e continueranno ancora a lavorare insieme in tv.
Relazioni chiacchierate
Oltre alla storia d’amore con Raffaella Carrà nel corso della sua vita Gianni Boncompagni ha avuto altre relazioni, molto chiacchierate, come quella con Isabella Ferrari («Non ho mai nascosto di aver avuto un amore con Gianni. Nonostante la differenza d’età, lui mi rispettava come donna») e quella con Claudia Gerini («Noi ci siamo conosciuti professionalmente però poi nel tempo è rimasto un grande rapporto d’affetto e non di lavoro. Nel tempo io ho seguito la mia strada e siamo rimasti sempre molto amici, Gianni mi ha insegnato tantissime cose. I commenti che sono stati fatti sul nostro rapporto non mi interessano»).
Maria Luisa Agnese per “Sette - Corriere della Sera” il 22 aprile 2022.
«Era una trasmissione molto carina, ingenua, innocua. Quando la mattina vedevamo entrare quelle duecento ragazzine al centro di produzione del Palatino, fra colonne romane, pini, colli, sole, ci dicevamo: “Il paradiso deve essere cosi”».
Gianni Boncompagni aveva smitizzato, proprio su 7, parlando con Claudio Sabelli Fioretti in occasione dei suoi 70 anni, tutte le polemiche sorte intorno a quella sua invenzione tv, Non e la Rai, un programma che creava scandalo: trasmissione innocua e fresca per alcuni, la madre di tutte le “innocenti” per- versioni dello spettacolo per altri.
Sconcertavano tutte quelle minorenni date in pasto all’obiettivo, anche se lui con la gioia del vecchio che si abbevera all’energia giovane difendeva la loro gioventù senza malizia e continuava a inventare personaggi di talento come Ambra Angiolini, Lucia Ocone, Laura Freddi, Claudia Gerini; con fiuto feroce per quelle ragazzine che presto scopriva e altrettanto presto e misteriosamente spesso faceva innamorare con la forza della sua conversazione: «Tendo a farmi corteggiare, a volte ci riesco. Non sono un corteggiatore. L’unica mia arma e la chiacchiera, le stordisco parlando».
Eppure, quel gran cinico che era Boncompagni ha intuito e rappresentato l’essenza della tv per molti anni. «La tv e come il chewing-gum. La mastichi un po’, senti il sapore, poi la butti». Aveva cominciato in radio con una trasmissione di culto per la generazione dei baby boomer: Bandiera gialla, condotta a due con Renzo Arbore, e rigorosamente vietata ai maggiori di 18 anni. Loro li avevano superati abbondantemente i 18 (Boncompagni ne aveva 33 e Arbore 28) ma erano due furbacchioni simpatici che coi giovani ci sapevano fare e avevano inventato la prevalenza dei giovani in tv.
Lui, Gianni, era appena tornato dalla Svezia dove era andato proprio a 18 anni con un amico, fuggendo dalla sua Arezzo troppo cattocomunista. La ha fatto molti mestieri, compreso l’interprete a un’asta di pellicce.
«Spesso facevo lo chaperon agli italiani importanti che arrivavano in Svezia. Quando Quasimodo venne per il Nobel lo accompagnai dovunque: musei, gallerie... Alla fine, distrutto, mi disse: “Ma qua non si fotte?”».
Tornato in Italia, con le tre figlie avute la dà un’aristocratica e delle quali aveva ottenuto la patria potestà dopo il divorzio, primo ragazzo padre di qualche fama, ha ricominciato scrivendo canzoni: Il mondo, Ragazzo triste e poi Tuca tuca, A far l’amore comincia tu.
Dopo Bandiera Gialla e arrivato Alto gradimento, sempre con Arbore più Bracardi e Marenco, palestra di tormentoni e nonsense, e i successi con Raffaella Carra, a lungo sua compagna e punto di riferimento per le figlie di lui. Una cavalcata in quella tv leggera, a suo avviso molto più difficile da azzeccare di quella pesante.
Prima della morte, il 16 aprile 2017, fece da Pronto, Raffaella? a Domenica in con relativo Cruciverbone, a Macao fino a Chiambretti c’è, sempre con l’alter ego dell’autrice Irene Ghergo. Alla fine dell’intervista per i 70 anni, Sabelli gli propose il Gioco della Torre. Una sola scelta secca, prendere o lasciare: «Renzo Arbore o Raffaella Carra? ». E lo sventurato rispose: «Salvo Renzo. Tra uomini ci capiamo di più».
Gianni Boncompagni, l’inventore dell’allegria in tv. Ritratto d’autore. Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.
Con «Non è la Rai» fu il primo a mostrare l’innocenza. Senza dubbio l’inventore della televisione contemporanea.
«Ha illuminato la giovinezza» dice Renzo Arbore, il giorno dell’ultimo saluto, la bara a Via Asiago 10, sede di Radio Rai dove per loro è iniziato tutto. «Gianni ha inventato l’allegria in televisione», sempre Arbore.
Conduttore radiofonico, paroliere, autore televisivo, compositore e regista televisivo, Gianni Boncompagni muore a Roma il 16 aprile 2017. Ha 85 anni. A via Asiago sfilano gli amici: Raffaella Carrà, Marisa Laurito, Irene Ghergo, Nino Frassica, Tito Stagno, Renzo Arbore. Gli amici e le ragazze, quelle ragazze che lui ha fatto lavorare, le quali rivendicano di essere sue creazioni: è vero, Gianni ha illuminato la giovinezza, la loro.
Ed è proprio questo il punto, l’aspetto dibattuto, a volte frainteso, di quello che è senza dubbio l’inventore della televisione contemporanea.
Che Gianni Boncompagni detto Bonco sia un genio lo si capisce da subito, dai programmi radiofonici come Bandiera Gialla, Altro Gradimento, in coppia con Arbore. Siamo a fine anni Sessanta, inizio Settanta. Poi il passaggio alla televisione, 1977: Discoring, primo programma musicale che si rivolge a un pubblico di ragazzi, attraverso linguaggio ed estetica. A ben vedere Boncompagni è già tutto qui: nell’attenzione all’adolescenza, nella capacità di raccontarla. Nel ’77 lui è un ultraquarantenne, eppure sembra ancora dall’altra parte, dalla parte dei ragazzi di età e di spirito come Arbore. Soffermiamoci su Arbore: Barbara, figlia di Gianni, ricorda: «da bambina Renzo mi diceva di avere un gemello che si chiamava Giuseppe. Ogni volta che veniva a casa io dicevo: sei Renzo, e lui: no, Giuseppe. Per tutta l’infanzia ho creduto che fossero due».
Ecco, non c’è sintesi migliore per descrivere lo spirito, la grazia giocosa che ha caratterizzato un gruppo di lavoro che era anche un gruppo di amici.
«Ho vissuto un’infanzia stupenda» afferma Barbara (ricordiamo che Boncompagni ha cresciuto da solo le figlie di cui ha chiesto e ottenuto la patria potestà). Negli anni ‘80 la carriera di Bonco prosegue: Pronto Raffaella?, Domenica in. Dunque il passaggio a Mediaset. «Sinceramente non lo so — dice lui stesso intervistato su Il Fatto Quotidiano in merito a Non è la Rai — Forse l’idea non mi venne. Fu una visione. Berlusconi voleva farmi rifare Pronto Raffaella? Io gli dicevo impossibile, è un programma basato sulle telefonate e Mediaset non ha la diretta, lui però insisteva: che c’entra, noi lo facciamo con le telefonate finte».
Da indicazioni vaghe e da una libertà assoluta concessa all’autore nasce Non è la Rai. Programma rivoluzionario, con un’estetica mai vista prima, e un apparente, meraviglioso, a tratti struggente, girare a vuoto — non è forse questa l’essenza della giovinezza? Girare a vuoto senza centro (geniale l’intuizione di eliminare il conduttore assegnato dalla rete, rompere lo schema).
Insieme al successo incredibile di ascolti però, arrivano le critiche: la sessualizzazione di minorenni, molte delle quali sotto i quattordici anni, inquadrate in atteggiamenti seduttivi. A Famiglia Cristiana Boncompagni risponde: «Faccio un programma privo di contenuti, non voglio lasciare nessun messaggio». Pecca di modestia, o meglio: non ha intenzione di spiegare la sua opera che magari un giorno sarà studiata — cosa che avviene, molto prima di quel che lui immagina. Studiata, imitata e ancora discussa. Irriverente, spericolato Boncompagni rischia l’equivoco senza timore, fronteggia la morale comune, quasi la sfida. Sapendo bene che la discussione che ne deriva costituirà un passo avanti culturale e sociale.
Sembravano averlo capito tutti ormai.
Invece no. Dopo la sua morte qualcuno torna sulla questione delle ragazzine, prende elementi della vita privata del regista per dimostrare una certa morbosità verso la gioventù (scandalose — secondo loro — le storie d’amore, a cominciare da quella con la Carrà durata dieci anni, lei ventisei anni, lui trentacinque!). Qualcuno ricorda Isabella Ferrari, allora diciassettenne, con la quale Boncompagni fu fidanzato, e polemizza sul fatto che ci siano trattamenti diversi da parte dell’opinione pubblica, se lo fa Boncompagni bene, se lo fa Berlusconi no (la giornalista Barbara Carfagna a cui replica Marco Travaglio spiegando la differenza).
Ecco farsi avanti Laura Colucci, ex ragazza di Non è la Rai, ai più sconosciuta, che a Today e a Le Iene racconta: «A un certo punto, Boncompagni chiese di vederci a casa sua. E quindi andammo là. Lui si divertì tanto e quindi da quella sera poi ci ha preso gusto. Domani a casa di Gianni, sabato a casa di Gianni e poi la prossima settimana a casa di Gianni. Ad un certo punto, mi sono rotta il caz**. Cioè a me non me ne fot** un caz** di andare a casa di Boncompagni. Mi hanno detto: “Ah guarda, a tuo rischio e pericolo”. Non ci sono andata e sono finita. Non c’è mai stato sesso… era tutto un po’ sottinteso, capito? Dopo cena tirava fuori il barattolo della Nutella. Se lo passavano con questo cucchiaino». Immediata la reazione delle altre che smentiscono qualsiasi clima di ambiguità, ribadendo che con loro Gianni è stato sempre protettivo. Lucidamente: Gianni Boncompagni è il primo che in televisione squaderna l’innocenza. L’innocenza non è un valore assoluto, non esistono valori di per sé. E niente è più pericoloso della semplificazione — a proposito di ambiguità. Boncompagni è stato narratore che ha guardato la purezza come un prisma. E no — qui l’arte — non ha messo in scena il desiderio, ha generato desiderio. Che poi questo desiderio abbia preso anche strade morbose non riguarda l’opera, non riguarda lui (le ragazze raccontano di lettere e regali inquietanti ricevuti da sconosciuti).
Contro i benpensanti, contro chi confonde i piani, e scova messaggi dove non ci sono. Contro chi ha la presunzione, spacciata per illuminazione, di individuare una traiettoria precisa dalla rappresentazione alla realtà, stabilendo un forzato nesso di causa effetto. Contro chi crede che epurando l’opera, nascondendo armi, droga, gambe delle donne, si educhi al bene (fino alla Cancel Culture). Contro questo plotone ottuso hanno vissuto, inventato, lavorato loro, il gruppo di amici geniali (Boncompagni, Arbore, Carrà), contro l’idea stessa di educare il pubblico. Hanno combattuto il plotone ottuso con qualcosa di molto più potente: l’invenzione dell’allegria — citando Arbore.
Questi amici che hanno fatto in tempo a invecchiare insieme — commovente al funerale di Boncompagni Arbore. Renzo Arbore anziano e profondamente ferito che piange, piange e, in un gesto di pudore, cerca di nascondersi, di mostrarsi sereno, ma fallisce — l’unico fallimento di Renzo Arbore, magnifico fallimento: perché lì a via Asiago è l’inizio di tutto, l’inizio della loro giovinezza, e questa, esattamente questa — la morte di Bonco — la fine.
Così Eleonora Cecere, ex Non è la Rai, che ricorda Gianni: «Non dimentico l’ultima uscita: io, lui, e Raffaella (ndr Carrà) all’Ikea. Lui passava intere giornate là dentro. Con Raffaella camminavano sottobraccio, lui era già stanco. Quel giorno sembravamo una famiglia normale: mamma, papà e figlia». E ancora: «Gianni mi regalò una tazza per la colazione».
· 5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
Paolo Villaggio, genio comico, marito (infedele), amico (fedele), padre (difficile). Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022.
L’attore il 30 dicembre avrebbe compiuto 89 anni. La sera del 31 va in onda «Le comiche» il film con Renato Pozzetto. I figli Elisabetta e Piero lo ricordano con tenerezza dimenticando vecchi dissapori
Comico e tragico
Paolo Villaggio - nato a Genova il 30 dicembre 1932 e scomparso a Roma il 3 luglio 2017 - è stato un attore, scrittore, comico, sceneggiatore e doppiatore italiano molto amato. E’ riuscito a far ridere e a far piangere, a creare una vera maschera come Fracchia ma soprattutto come Fantozzi. Nel settembre del 1992 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia per la sua carriera dedita alla comicità. Stasera alle 21.25 su Rete4 va in onda «Io speriamo che me la cavo» in cui interpretava un maestro elementare.
La moglie amata (con qualche infedeltà)
Paolo Villaggio ha avuto un unico amore nella vita: Maura Albites che ha sposato nel 1958. I due si sono conosciuti al Lido Di Genova nel 1954, lei aveva 15 anni, lui 22. Non si sono mai lasciati fino alla morte dell’attore. Nel 1959 è nata la primogenita Elisabetta; poi è arrivato Pierfrancesco nel 1962. Durante un’intervista l’attore ha raccontato del suo matrimonio con Maura, tra cui anche qualche tradimento: «Io sono felice solo con mia moglie, dormo con lei, ho i figli, i nipoti, i cani con lei. È la sola donna che ho amato. Dopo il matrimonio sono stato fedele una quindicina d’anni, sempre però corteggiando le mogli degli amici, e cercando anche di farlo capire, per vanità, perché ero uno con la patente di sfigato. Anche lei ha fatto quello che ha voluto». Ha sempre dichiarato: «Non esistono uomini fedeli, ma neanche donne. Se potessi dare un consiglio a tutti gli adulteri: non cambiate mai moglie, fate una stronzata. Io ho avuto molti amici che lo hanno fatto: Tognazzi sei mogli, Gassman cinque. Non migliora la vita»
La figlia Elisabetta e le orme del padre
E’ stata Elisabetta Villaggio, nata a Genova il 5 giugno 1959, primogenita di Paolo ad annunciare la scomparsa del padre sui social: «Ciao papà, ora sei di nuovo libero di volare». Elisabetta ha seguito le orme del padre, entrando nel mondo del cinema e diventando una regista. Fra le sue opere più importanti un’intervista-documentario su Franca Valeri uscita nel 2005. Negli anni si è avvicinata anche al mondo della scrittura. In qualche intervista Elisabetta ha spiegato che il rapporto con il padre è stato spesso complicato. «Mi ha insegnato a guardare il mondo con quel senso di libertà e quella apertura mentale, senza schemi, che ha sempre avuto lui. Ma era una persona difficile».
Il figlio Piero e la lotta contro la droga
Pierfrancesco Villaggio detto Piero, il secondogenito dell’attore, ha avuto una vita complicata. Un rapporto difficilissimo con il padre e la tossicodipendenza. «Il confronto con un artista ingombrante come mio padre mi ha inevitabilmente condizionato - ha dichiarato Pierfrancesco nel 2016 in un’intervista a Vanity Fair - Relazionarsi con lui è molto difficile. È una persona molto invadente ed egocentrica, come quasi tutti quelli che fanno il suo mestiere». Certo Piero ha sofferto le lunghe assenze del padre e a 17 anni ha cominciato con l’eroina. «Soffrivo una situazione di disagio. Un mio amico mi ha detto se volevo provare quella polvere, lui era già tossico e io l’ho provata senza pensarci. Era il 1979». Ma «il paradiso nascondeva l’inferno» - ha aggiunto - «È durato fino al 1984 e sono stato anche arrestato con del metadone». Un vero dramma. Così la famiglia decise di tentare la carta della Comunità di recupero di San Patrignano . Racconta Piero: «Era l’84, io un tossico. Mi hanno messo davanti a quel gigante col vocione (Vincenzo Muccioli, ndr) e per stanchezza gli ho detto: facciamo come dici tu. In realtà pensavo che sarei scappato, per andare a drogarmi. E’ finita che sono rimasto fino all’87». Il figlio di Paolo Villaggio non nasconde di aver odiato Muccioli, ma anche di avergli voluto bene. Ora a distanza di anni Piero Villaggio - che vive a Perugia con la moglie - ricordando quegli anni terribili non ha alcun dubbio: «Se avessi un figlio disperato come lo ero io in quegli anni l’avrei mandato a San Patrignano senza alcun dubbio». Una volta uscito dal mondo della droga, Piero ha anche recuperato un rapporto con il padre che nel frattempo si era ammalato a causa del diabete. «E la rabbia è diventata tenerezza».
Il gemello Piero
Paolo Villaggio aveva un fratello, un gemello dizigote per la precisione. Si chiamava Piero ed era un matematico e ingegnere. Laureatosi in Ingegneria civile nel 1957 all’Università di Genova, Piero Villaggio è stato uno dei maggiori esperti a livello internazionale di teoria classica dell’elasticità. Piero Villaggio è morto il 4 gennaio 2014 ad 81 anni all’ospedale di Rapallo per una grave patologia polmonare. Paolo Villaggio di lui ha detto:«Da bambini non abbiamo mai litigato. Abbiamo dormito assieme per vent’anni. Ci completiamo».
L’amico fraterno Fabrizio De André
Nel ‘62, due giovanissimi, Paolo villaggio e Fabrizio De André insieme compongono un brano famosissimo: «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers». Amici, quasi fratelli. Paolo e Fabrizio si erano conosciuti molti anni prima in montagna, a Cortina, nel 1948. Villaggio era «un ragazzino incazzato che parlava sporco», diceva De Andrè. Erano due ribelli nati in famiglie borghesi. Mollarono l’università e facevano serate nei locali dei vicoli di Genova e anche sulle navi da crociere. Fu Villaggio a dargli il soprannome di Faber, un omaggio a quei pastelli che il cantautore amava. I due vissero un’amicizia davvero totalizzante. Purtroppo nel 1999 Fabrizio si ammalò: negli ultimi due mesi, i due non ebbero mai più il coraggio di incontrarsi, né di vedersi, «perché questa volta non era un gioco, non era letteratura, era la terribile realtà», disse Villaggio. L’attore teneva molto all’amicizia ed ebbe modo di dire: «Solo con gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza ci sono dei veri rapporti di affetto, solo per loro so che proverò dolore se dovessero morire. Per il resto ho avuto tanti amici, tutti falsi, nel momento del grande successo. Tutti scomparsi alla prima difficoltà»
· 4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.
Asia Argento ha raccontato di Anthony Bourdain, e dei loro ultimi messaggi, a Domenica In. Il Corriere della Sera il 02 ottobre 2022.
Asia Argento ha parlato degli ultimi sms scambiati con l’ex compagno, morto suicida, nella trasmissione di Mara Venier: i problemi con l’alcol, la depressione, il senso di colpa. Ma anche «gli avvoltoi» che lo hanno circondato, e che «mi hanno fatta fuori»
Asia Argento è tornata a parlare — «per l’ultima volta», ha detto, interpretando la sua volontà, Mara Venier — dei drammatici ultimi momenti di vita dell’ex compagno, Anthony Bourdain.
E lo ha fatto in tv, a Domenica In, cercando di replicare a quanto emerso in una nuova biografia non autorizzata dell’eclettico chef, «Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain», scritta da Charles Leerhsen, in uscita negli Usa da Simon & Schuster l’11 ottobre.
Con Bourdain, Argento ebbe una «bellissima» — ma anche dolorosa — storia d’amore, durata due anni. E di quella storia Argento decide di parlare, per ribadirne la profondità e gli abissi, la bellezza e il drammatico epilogo. Un epilogo su cui la biografia si sofferma, pubblicando gli sms che Argento e Bourdain si inviarono nelle ore precedenti il suicidio. Compreso l’ultimo scambio:
«Posso fare qualcosa?», chiese Bourdain.
«Non rompermi le palle», rispose Argento.
«Ok», fu l’ultima parola che Bourdain le scrisse.
«Chi ha dato all’autore della biografia quei messaggi?», si chiede anzitutto Argento. Rispondendosi: «Gli avvoltoi intorno a lui. Perché tanta gente si approfittava di lui».
Argento poi racconta la loro storia, di cui — spiega — «ho detto già tutto. Avevamo un rapporto libero, eravamo una coppia aperta». Non c’erano ragioni dunque per la gelosia di Bourdain, dovuta alla pubblicazione di alcune foto che ritraevano Argento con un altro uomo, a Roma. «Bene», scriveva d’altronde lo stesso Bourdain ad Argento, «non sono geloso, non sei una mia proprietà. Sei libera, come ho detto, come ho promesso. Ma sei stata sconsiderata con il mio cuore».
E quell’ultimo scambio? «Io», spiega Argento, «gli ho detto “non mi rompere le palle”. Aveva bevuto, aveva problemi con l’alcol come li avevo io. Era strano, quella sera, aveva una voce impastata, era petulante. Io invece ero allegra, il giorno dopo avrei dovuto iniziare X Factor: un passaggio finalmente felice, importante, dopo aver passato anni difficili per il #metoo, e il caso Weinstein. Quella sera era ubriaco, ma era capitato anche altre volte. E sapevo anche che era con il suo migliore amico: per cui mi sono detta: starà con lui, si sfogherà con lui. Purtroppo non ci ha visto più».
Quello che era successo dopo l’ultimo messaggio «io l’ho saputo la mattina dopo», dice Argento. «Mi ha chiamato la sua agente, è stata molto fredda, crudele. Stavo finendo la valigia per andare a X Factor, e mi ha detto semplicemente: “Anthony non c’è più, è morto. Si è tolto la vita”».
Secondo Argento, «C’è stato un disegno da parte di chi era intorno a Anthony di addossare la colpa a me. Attenzione: io per prima mi sono data questa colpa, è impossibile non farlo. Me la prendo, quella colpa. Ma credo sia riduttivo dire che una persona arriva a togliersi la vita per un litigio. Non è mai così. Anthony era un uomo intelligentissimo, anche se molto fragile. Avevamo litigato tante altre volte. Ma quando uno è depresso — e lui lo era, come si evince anche da altri messaggi che aveva mandato alla moglie — quando uno sta male, quando uno ha problemi con l’alcol, come aveva Anthony e come avevo anche io, in quel periodo... C’è una lezione che dobbiamo imparare tutti. Il suicidio è un gesto estremo: ma chi lo compie non vuole morire davvero. Vuole solo trovare sollievo dalla depressione. Quando uno è in quella situazione spesso si vergogna, non chiede aiuto: e infatti anche lui non ha chiesto aiuto».
Come scritto qui, la biografia «presenta il ritratto di un uomo afflitto dalla “disperazione oltre la disperazione”, come diceva William Styron nel suo libro Oscurità trasparente, un Bourdain isolato dagli amici e da ex moglie e figlia, ossessionato dalla forma fisica, sotto l’effetto degli steroidi anabolizzanti, dell’alcol, cliente di prostitute, lontano dalla vita quotidiana della figlia allora undicenne».
«Io ho fatto fatica a rinascere, a rialzarmi, a tornare a camminare», dice ora Asia Argento, che spiega anche di essere ormai sobria da un anno e mezzo. «Avrei voluto dire ad Anthony, se solo avessi potuto, che domani è davvero un altro giorno, che la vita è meravigliosa, va vissuta fino alla fine».
Nessun ulteriore commento sulla biografia, che il fratello di Bourdain, Chris, ha definito «fiction diffamatoria», chiedendo all’editore di non pubblicarla. Uno solo, finale, sul messaggio che Morgan — con cui Argento ha avuto una lunga storia d’amore, e una figlia — le ha dedicato sui social, dopo la pubblicazione degli sms con Bourdain. «L’amore tra me e lei c’è stato veramente, ci siamo amati, e quando si dice “ti amo” anche una volta finito il desiderio e conclusa la storia, quello rimane per sempre. Non potrei mai dire né fare nulla contro la madre di mia figlia, e anche se non sono più innamorato di lei avrà sempre il mio rispetto e la mia complicità», ha scritto Morgan. «Non mi aspettavo quel messaggio di Marco» (Castoldi, il vero nome di Morgan, ndr), ha detto Asia Argento. «Mi è arrivato come una carezza».
In difesa d’Asia. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2022.
Dice Asia Argento che nessuno si uccide per una battuta cattiva. Sicuramente il rapporto causa-effetto è più complesso di come lo liquidano i suoi odiatori superficiali. Riassunto delle malignità precedenti: un biografo dell’ex compagno morto suicida, il cuoco Anthony Bourdain, rivela l’ultimo scambio di messaggi tra i due. Lui: «Posso fare qualcosa?» Lei: «Non rompermi le palle». Lui: «Ok».
Da qui a imputare il suicidio all’attrice il passo è breve, ma fraudolento. In teoria uno dovrebbe sempre rivolgersi agli altri come se fosse l’ultima volta che parla con loro, ma alzi la mano chi nell’ultimo anno non ha mandato al diavolo un parente, un amico, un collega in qualche messaggio vocale o scritto (la comunicazione «live» è ormai un vezzo per nostalgici). Se il bersaglio del nostro malumore si fosse tolto la vita il giorno dopo, qualcuno in coscienza potrebbe attribuircene la colpa?
Come dice la Argento, che deve averci lavorato sopra parecchio, il suicidio è il gesto estremo di chi è in cerca di sollievo. Non esiste una causa scatenante improvvisa, ma una lenta deriva che può subire un’accelerazione in condizioni particolari: l’alcol, per Bourdain. L’unica educazione sentimentale che possiamo trarre da storie malate come questa è che l’amore salva solo chi si è già salvato da solo, perché funziona da specchio: non ti fa innamorare di chi vuoi, ma di chi sei. Se sei caos, incontrerai persone che producono caos. Per incontrarne una che ti faccia bene, devi prima stare bene tu.
Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata. La si può leggere qui. Chi non è ancora abbonato può trovare qui le modalità per farlo, e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale
DAGONEWS il 28 settembre 2022.
Una nuova biografia non autorizzata su Anthony Bourdain racconta cosa è successo negli ultimi giorni prima del suicidio dello chef ma, soprattutto, rivela quali sono stati gli ultimi messaggi tra lui e l’allora fidanzata Asia Argento.
“Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain”, scritto dal giornalista Charles Leerhsen, ripercorre l’angoscia vissuta dallo chef per la sua carriera, il suo matrimonio fallito e la sua travagliata relazione con Asia Argento. Il libro, edito da Simon & Schuster, uscirà l'11 ottobre, ma “The New York Times” ne ha pubblicato un estratto.
«Odio anche i miei fan. Odio essere famoso. Odio il mio lavoro - ha scritto Bourdain all'ex moglie Ottavia Busia-Bourdain, con la quale è rimasto in confidenza dopo la loro separazione nel 2016 - Sono solo e vivo in una costante incertezza».
Ma la parte che più descrive lo stato d’animo di Bourdain, poco prima di togliersi la vita in un hotel francese, sono i messaggi con Argento. Il libro di Leerhsen racconta la turbolenta relazione tra i due e come entrambi fossero dispiaciuti per le foto scodellate sui giornali: lui insieme all’ex moglie e la figlia e la Argento mentre ballava avvinghiata a un giornalista francese nell'atrio dell'Hotel de Russie di Roma.
«Sto bene – ha scritto Bourdain ad Argento dopo aver visto la foto - Non sono geloso che tu sia stata con un altro uomo. Non ti possiedo. Sei libera. Come ho detto. Come ho promesso. Come intendevo veramente. Ma sei stata noncurante. Sei stata sconsiderata con il mio cuore. La mia vita».
Secondo la descrizione del Times del contenuto del libro, Bourdain ha poi scritto di essere rimasto ferito dal fatto che "l'appuntamento" avesse avuto luogo in un hotel in cui si erano precedentemente divertiti insieme. Argento ha risposto: «Non posso sopportarlo» e ha detto che non poteva più stare con lui a causa della sua possessività.
Nell’ultimo scambio di messaggi, Bourdain ha scritto: «C'è qualcosa che posso fare?». E Asia Argento ha risposto: «Smettila di rompermi le palle». A quel punto lo chef ha scritto solo «Ok». Poche ore dopo si è impiccato.
Come scrive il Times, il libro ha "già attirato l’ostilità della famiglia di Bourdain, degli ex colleghi e degli amici più cari". Il fratello Christopher Bourdain ha inviato due email a Simon & Schuster ad agosto definendo il libro "narrativa dannosa e diffamatoria". Ma l'editore ha risposto: «Con tutto il rispetto, non siamo d'accordo sul fatto che il materiale nel libro contenga informazioni diffamatorie e sosteniamo la nostra prossima pubblicazione». In un'email al Times, Argento ha scritto di non aver letto il libro, aggiungendo: «Ho scritto chiaramente a Leerhsen che non poteva pubblicare nulla di ciò che gli dicevo».
Il libro riporta anche che Bourdain ha pagato 380.000 dollari all’attore Jimmy Bennett, che aveva raccontato di aver avuto una relazione sessuale con Asia Argento quando lei aveva 37 anni e lui appena 17. Bennett, secondo il libro, aveva chiesto 3,5 milioni di dollari.
Anthony Bourdain, gli ultimi messaggi con Asia Argento prima del suicidio: «Che posso fare?» «Smettila di rompermi». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022
Una biografia non autorizzata in uscita a ottobre, e anticipata dal «New York Times», racconta le ultime disperate ore dello chef, tra abusi di sostanze e una rottura insanabile con l’attrice italiana
I milioni di spettatori dei suoi show televisivi, felici di viaggiare con lui per il mondo, e le centinaia di migliaia di lettori dei suoi libri — di cucina, ma anche noir ben scritti e spiritosi — lo ricordano attraverso le loro pagine preferite, e i momenti di tv memorabili: Anthony Bourdain che mangia cibi strani e/o meravigliosi in posti a volte strani e/o meravigliosi, con i Masai nel Serengeti e con il presidente degli Stati Uniti in una tavola calda, a Capri e al Polo Sud, quasi ovunque sul mappamondo attraverso 16 anni di carriera straordinaria.
Oppure — il menù da oggi è più ricco, anche se meno delizioso — possono ricordarlo con i messaggini scambiati negli ultimi cinque giorni della sua vita, luglio 2018, con l’ex moglie Ottavia Busia Bourdain e Asia Argento (ebbe con l’attrice italiana una storia dolorosa negli ultimi due anni della sua vita).
Il New York Times ha ieri anticipato alcuni tristissimi passaggi di una nuova biografia «non autorizzata», Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain , scritta dal giornalista Charles Leerhsen, in uscita negli Usa da Simon & Schuster l’11 ottobre.
Il fratello di Bourdain, Chris, definisce il libro «fiction diffamatoria» e ha chiesto all’editore di non pubblicarlo: «Ogni singola cosa che scrive su rapporti e relazioni all’interno della nostra famiglia quand’eravamo bambini e poi adulti l’ha inventata. O è comunque totalmente sbagliata». L’agente di Bourdain ha chiesto alla maggior parte dei suoi amici e collaboratori di non parlare con Leerhsen, che però una fonte valida — la cui identità non è stata divulgata — l’ha trovata. Ha avuto accesso al computer di Bourdain e al suo telefono, e cita nel libro lunghi scambi di messaggi, mail, e perfino la cronologia del browser (nelle ultime ore di vita, quando Asia Argento non voleva comunicare con lui, cercò su Internet il nome di lei «centinaia di volte»). È doverosa una premessa, come sempre quando si parla di suicidio: le neuroscienze, la psicologia, la medicina in generale insegnano che è impossibile sotto il profilo scientifico determinare con certezza le cause di un suicidio, tantomeno si può immaginare di attribuire responsabilità, specie sulla base di aneddoti e impressioni. Quel che si sa con certezza è che l’ideazione suicidaria non è uno stato permanente, e l’aiuto della medicina — o di una semplice voce di un Telefono Amico — è in grado di indicare una via d’uscita alternativa alla morte.
Detto questo, ecco i messaggi citati dalla biografia.
Cinque giorni prima della morte di Bourdain, Argento viene fotografata mentre ballava con un altro uomo a Roma. «Bene. Non sono geloso. Non sei una mia proprietà. Sei libera. Come ho detto. Come ho promesso… Ma sei stata sconsiderata con il mio cuore. Con la mia vita».
Down and Out in Paradise pubblica anche l’ultima comunicazione finale tra Argento e Bourdain, avvenuta il giorno in cui lui si è impiccato in una camera d’albergo in Francia. Bourdain: «C’è qualcosa che posso fare?» Argento: «Smetterla di rompermi le palle». Bourdain: «Ok».
Il libro presenta il ritratto di un uomo afflitto dalla «disperazione oltre la disperazione», come diceva William Styron nel suo libro Oscurità trasparente, un Bourdain isolato dagli amici e da ex moglie e figlia, ossessionato dalla forma fisica, sotto l’effetto degli steroidi anabolizzanti, dell’alcol, cliente di prostitute, lontano dalla vita quotidiana della figlia allora undicenne.
Barack Obama, che sa sempre trovare le parole giuste, quando il mondo seppe della morte di Bourdain ricordò il suo amico «Tony» twittando una foto della volta che andarono a mangiare insieme — lo chef scrittore e il presidente degli Stati Uniti allora in carica — non in un ristorante stellato ma in una tavola calda vietnamita frequentata dalle persone normali: «Uno sgabello basso di plastica, una ciotola di noodles economici ma deliziosi, birra fredda di Hanoi. È così che ricorderò Tony. Ci ha insegnato tante cose sul cibo ma, soprattutto, sulla capacità che il cibo ha di unirci, di renderci un po’ meno timorosi delle cose che non conosciamo. Ci mancherà».
Anthony Bourdain e gli ultimi messaggi con Asia Argento prima di morire: bufera su una biografia non autorizzata. CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022
Una biografia non autorizzata, scritta dal giornalista Charles Leerhsen e in uscita l’11 ottobre prossimo, rivela dettagli intimi della vita di Anthony Bourdain, chef star-tv americano morto suicida l’8 giugno 2018. Nel libro, anticipato dal «New York Times», anche scambi di messaggi telefonici con Asia Argento. Fino all'ultimo, in cui lei gli disse: «Non rompere»
Era stata fotografata al ristorante romano «Camponeschi», Asia Argento: allora ballava con il giovane giornalista francese Hugo Clément.
«Tutti li hanno guardati… Era una scena di pazza sensualità», dichiarerà poi a La Verità Rino Barillari, il paparazzo autore degli scatti. E lui, lo chef americano Anthony Bourdain, che dell’attrice romana è stato il compagno di vita fino al giorno del suicidio, non aveva gradito.
Il suo disappunto lo aveva esplicitato in una serie di messaggi alla diretta interessata. Uno su tutti: «Non sono astioso. Né geloso del fatto che tu sia stata con un altro uomo. Non sei di mia proprietà. Sei libera. (…). Sei stata però superficiale. Non hai considerato il mio cuore. La mia vita».
A quelle frasi, Argento avrebbe risposto «I can’t take this. Non posso sopportarlo».
Il giorno successivo, un nuovo messaggio di Bourdain: «C’è qualche cosa che possa fare?». Lei: «Smettila di rompermi le palle».
«Va bene».
Era l’8 giugno del 2018: quel giorno Bourdain — talento visionario famoso in tutto il mondo per i suoi libri sugli eccessi dell’alta ristorazione (Kitchen Confidential in primis) e per la serie tv in onda sulla Cnn Parts Unknown - Cucine segrete si — si tolse la vita, impiccandosi nella sua camera d’albergo, a Kaysersberg, in Francia.
La biografia non autorizzata e le polemiche
Messaggi, tanti messaggi: questo, e altro ancora, si leggerà, dall’11 ottobre, in quella che Simon & Schuster, tra le maggiori case editrici statunitensi, ritiene essere la prima biografia non autorizzata dello scrittore e documentarista di viaggi newyorkese, anticipata dal New York Times.
Down and out in Paradise: The life of Anthony Bourdain, il titolo, promette dettagli freschi e intimi, ma anche crudi e angoscianti, delle ultime ore di vita dello chef, e non solo.
Tra le pagine del volume, infatti, non mancano scambi avuti con Ottavia Busia-Bourdain, l’ex moglie che, dopo essersi separata nel 2016, diventerà via via la principale confidente. Situazione, si apprende, affatto gradita alla Argento.
Chi è Charles Leerhsen, l'autore del libro
Nel redigere la biografia, il giornalista Charles Leerhsen, ex direttore esecutivo di Sports Illustrated e People, prende in esame oltre 80 interviste, file di testo e email dal telefono e dal portatile di Bourdain. «Materiale, questo, ottenuto da una fonte riservata», tiene a precisare l’autore.
Ne è uscito un ritratto che ha del kafkiano: da adolescente scontroso in un sobborgo del New Jersey a talento gastronomico e televisivo capace di raccontare le cucine dei luoghi che visitava, dando conto del contesto socio-culturale in cui si trovavano, senza con ciò ricorrere a stereotipi o fascinazioni.
Voleva una biografia che documentasse anche, e soprattutto, la solitudine dell’uomo Bourdain, che ne scandagliasse l’animo più tormentato. Ecco questo, come riporta il New York Times, voleva Leerhsen, incurante delle reazioni contrastanti che avrebbe suscitato. Come di fatto è successo.
«Ogni singola cosa scritta circa le relazioni e le interazioni all’interno della nostra famiglia da bambini e da adulti è frutto di fantasia o di errore», replica in una intervista il fratello dello chef, Christopher.
Una resistenza la sua, insieme a quella di molte altre persone vicine a Bourdain, che avrebbe motivato Leerhsen ad andare avanti, convinto una volta di più di essere sulla strada giusta.
I contenuti della biografia
La bio comincia con l’infanzia di Bourdain, prosegue con il matrimonio dei suoi genitori, l’andamento a scuola, i voti terribili — «era più felice quando, in estate, andava a lavorare nei ristoranti di Provincetown, Massachusetts», si legge — il diploma e il rapporto con la prima moglie, Nancy Putkoski.
Poi l’esperienza, da giovanissimo, al Culinary Institute of America , cinque miglia a Nord di Vassar ad Hyde Park, New York.
E ancora: l’ascesa come chef in alcuni tra i più affermati ristoranti della Grande Mela dove, negli anni, si è trovato a fare i conti con colleghi intimidatori.
Bourdain e la relazione con Asia Argento
Leerhsen approfondisce quindi la relazione con Asia Argento, definendola tumultuosa — e, allo stesso tempo, molto profonda.
«Mi ritrovo a essere perdutamente innamorato di questa donna», avrebbe ammesso Bourdain alla ex moglie e confidente Ottavia, come si apprende dalla biografia. Per lei non avrebbe badato a spese.
Di più. Ne avrebbe sposato anche le battaglie, tanto da diventare un convinto sostenitore del movimento #MeToo dopo aver saputo che Harvey Weinstein, nel 2017, aveva aggredito sessualmente la Argento.
Ma Leerhsen, nella ricostruzione dell’uomo Bourdain, si spinge ancora oltre. Scrive alla diretta interessata, vuole sapere i particolari.
Lei, Asia, risponde citando Oscar Wilde: «È sempre Giuda che scrive la biografia». In un’intervista sempre al New York Times dichiara, poi, di non aver letto il libro e specifica apertamente che «quest’uomo non poteva pubblicare nulla di ciò che gli avevo detto». Non vuole speculazioni sulla persona che ha amato fino all’ultimo giorno. E della quale, dopo il suicidio, aveva scritto: «Era il mio amore, la mia roccia, il mio protettore. Sono devastata. Vi prego di rispettare la privacy della sua famiglia e la mia».
Di questo messaggio, affidato a Twitter nei giorni del dolore, Leerhsen pare non abbia tenuto conto.
Estratto dall'articolo di Valeria Robecco per repubblica.it il 5 ottobre 2022.
La sua uscita è prevista soltanto l’11 ottobre, ma la nuova biografia non autorizzata che racconta gli ultimi giorni di vita di Anthony Bourdain ha già creato un putiferio, con molteplici diffide e minacce di cause per diffamazione. A partire da quelle di Asia Argento, fidanzata dello star-chef di ‘Parts Unknown’.
Nel libro del giornalista americano Charles Leerhsen pubblicato da Simon & Schuster, infatti, oltre a dettagli intimi e dolorosi della vita di Bourdain sono contenuti gli ultimi messaggi scambiati dalla coppia prima che lui si suicidasse, in una stanza d’albergo in Francia, quattro anni fa. Secondo le anticipazioni diffuse dal New York Times, in "Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain", lo chef non apprezzò le fotografie che ritraevano la Argento mentre ballava con il giovane giornalista francese Hugo Clement nella hall dell’Hotel de Russie a Roma, dove erano stati insieme.
“Non sono geloso che tu sia stata con un altro uomo. Non ti possiedo. Sei libera. Come ho detto. Come ho promesso. Come intendevo veramente. Ma sei stata senza riguardi per me. Con il mio cuore. Con la mia vita”, le avrebbe scritto.
Asia avrebbe quindi minacciato di lasciarlo, dicendo che non poteva più di sopportare la sua possessività, e quando il giorno successivo lo chef le scrisse nuovamente chiedendo se c'era qualcosa che poteva fare, avrebbe risposto: “Smettila di rompermi le palle”. “Va bene”, disse lui. Era l’8 giugno 2018, e poche ore dopo Bourdain si tolse la vita impiccandosi nella stanza del suo albergo a Kaysersberg. “Ho scritto chiaramente a quell'uomo che non poteva pubblicare nulla di quello che gli ho detto”, ha fatto sapere Argento al Nyt.
A contestare i contenuti della biografia, basata su oltre 80 interviste e documenti tra cui email e messaggi dal telefono e dal laptop dello chef, sono stati anche i suoi parenti e amici. “Ogni singola cosa che scrive sulle relazioni e le interazioni all'interno della nostra famiglia, da bambini e da adulti, è inventata o completamente sbagliata”, ha detto Christopher Bourdain al quotidiano newyorkese.
L’autore del libro, tuttavia, ha risposto alle critiche affermando di aver “deciso di scrivere una biografia completa, dalla nascita alla morte, di Tony Bourdain, e lungo la strada ho ottenuto sms ed email. Li ho usati come i biografi di un'era precedente usavano lettere personali - ha aggiunto -. Non li ho rubati, mi sono stati dati da una o più fonti, come le lettere sono state date ai biografi. Non ho dovuto mostrare il mio manoscritto a nessuno in cambio, quindi non è autorizzato anche se ho ricevuto collaborazione”. [...]
Lo scrittore, peraltro, avrebbe avuto una collaboratrice eccellente, Ottavia Busia-Bourdain, per 11 anni moglie dello chef, a cui “confidava ancora i suoi pensieri più intimi” nonostante si fossero separati nel 2016. E in uno degli ultimi messaggi prima del suicidio, Bourdain le avrebbe scritto: “Odio i miei fan. Odio essere famoso. Odio il mio lavoro. Mi sento solo e vivo in uno stato di perenne incertezza”.
Leerhsen, come altri prima di lui, ha cercato di trovare una ragione per il gesto estremo di Bourdain, che alla fine della sua vita si iniettava steroidi, beveva all’eccesso, visitava prostitute ed era quasi scomparso dalla vita della figlia. Sopraffatto dalla solitudine, in crisi sul lavoro e nella relazione con Asia, grande accusatrice di Harvey Weinstein e poi a sua volta accusata, a cui lo chef era stato vicino nei mesi caldi dello scandalo MeToo. E per cui, secondo il libro, ha speso centinaia di migliaia di dollari sostenendo finanziariamente lei, i suoi due figli e a volte persino i suoi amici. [...]
Bourdain e l'ultimo sms di Asia. "Adesso smettila di rompere". Bufera per la biografia non autorizzata dello chef suicida. Messaggi con la Argento poche ore prima di morire. Valeria Robecco il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.
Una nuova biografia non autorizzata racconta gli ultimi giorni di vita di Anthony Bourdain, con dettagli intimi e dolorosi, il suo desiderio di continuare la relazione con Asia Argento, e la reazione irritata di lei. E cerca di far luce sui motivi che potrebbero aver spinto al suicidio lo star-chef di «Parts Unknown». Prima ancora di arrivare sugli scaffali, il libro del giornalista americano Charles Leerhsen che uscirà l'11 ottobre con Simon & Schuster ha già scatenato una bufera, con molteplici diffide e minacce di cause per diffamazione. Anche e soprattutto da parte di Argento, la quale ha detto al New York Times di aver «scritto chiaramente a quell'uomo che non poteva pubblicare nulla di quello che gli ho detto».
Secondo le anticipazioni, infatti, in Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain sono contenuti gli ultimi messaggi scambiati tra lei e il fidanzato, prima che lo chef si togliesse la vita in una stanza d'albergo in Francia nel 2018. L'attrice - grande accusatrice di Harvey Weinstein e poi a sua volta accusata, a cui Bourdain era stato vicino nei mesi caldi dello scandalo MeToo - stando alla ricostruzione di Leerhsen avrebbe minacciato la rottura dopo che il fidanzato si era arrabbiato via sms per una foto in cui flirtava con il giovane giornalista francese Hugo Clement nella hall dell'Hotel de Russie a Roma. «Non sono geloso che tu sia stata con un altro uomo. Non ti possiedo. Sei libera, come ho detto, come ho promesso, come intendevo veramente. Ma sei stata senza riguardi per me. Con il mio cuore. Con la mia vita», avrebbe scritto lui. La cosa che lo feriva sarebbe stata che l'incontro era avvenuto proprio nell'albergo che entrambi amavano e dove erano stati insieme: «Non posso sopportarlo». Asia avrebbe quindi minacciato la rottura dicendo che non ne poteva più della sua possessività, e quando il giorno successivo Bourdain le scrisse nuovamente chiedendo se c'era qualcosa che poteva fare, avrebbe risposto: «Smettila di rompermi le palle». «Va bene», disse lui. Poche ore più tardi, si impiccò.
I contenuti della biografia, basata su oltre 80 interviste e documenti tra cui email e messaggi dal telefono e dal laptop dello chef, sono stati contestati, oltre che da Argento, anche da parenti e amici. «Ogni volta che parla della nostra famiglia, o sono cose inventate o totalmente sbagliate», ha detto Christopher Bourdain al Nyt. Leerhsen, però, avrebbe avuto una collaboratrice eccellente, Ottavia Busia-Bourdain, moglie dello chef per 11 anni, e sua confidente nonostante la separazione nel 2016. «Odio i miei fan. Odio essere famoso. Odio il mio lavoro. Mi sento solo e vivo in uno stato di perenne incertezza», le aveva scritto Anthony in uno degli ultimi messaggi carichi di angoscia prima del suicidio. Come altri prima di lui, Leerhsen ha cercato di trovare una ragione per il gesto estremo di Bourdain, che alla fine della sua vita si iniettava steroidi, beveva all'eccesso, visitava prostitute ed era quasi scomparso dalla vita della figlia. Sopraffatto dalla solitudine, in crisi sul lavoro e, sul fronte personale, nella relazione con Asia (per cui, secondo il libro, ha speso centinaia di migliaia di dollari fornendo sostegno finanziario a lei, ai suoi due figli e talvolta persino ai suoi amici).
Le rivelazioni (smentite) del libro in uscita. “Anthony Bourdain scrisse ad Asia Argento prima di morire: ecco gli ultimi messaggi”: è bufera sulla biografia dello chef star. Vito Califano su Il Riformista il 28 Settembre 2022
Asia Argento si era detta devastata dalla morte del compagno Anthony Bourdain. “Era il mio amore, la mia roccia, il mio protettore. Sono devastata. Vi prego di rispettare la privacy della sua famiglia e la mia”. E invece la biografia non autorizzata scritta dal giornalista Charles Leerhsen rimette al centro quella storia, un amore tumultuoso e i tormenti di un uomo, lo chef-star che l’8 giugno del 2018 si uccise impiccandosi in un albergo.
Del libro di Leerhsen si è cominciato a parlare perché alcuni stralci della biografia – non autorizzata, ribadiamo – sono stati pubblicati dal New York Times. Il libro è in uscita l’11 ottobre per la Simon&Schuster. Il titolo è Down and out in Paradise: The life of Anthony Bourdain. E altro che privacy: l’ex direttore esecutivo di Sports Illustrated e People è andato a fondo anche tramite file di testo, interviste ed email dal telefono e dal portatile dello chef. Tutto materiale che ha dichiarato di aver recuperato da una “fonte riservata”.
Bourdain viene fuori secondo le anticipazioni in tutta la sua verve vitalistica e in tutto il suo tormento esistenziale. Adolescente in un sobborgo del New Jersey, studente non troppo brillante, l’esperienza al Culinary Institute of America a cinque miglia a nord di Hyde Park, la prima moglie Nancy Putkoski, la relazione con l’altra ex moglie Ottavia Busia-Bourdain, l’ascesa a talento gastronomico mondiale, televisivo e viaggiatore capace di raccontare come nessuno prima, con uno stile tutto suo e personale, imitatissimo.
Il fratello Christopher Bourdain ha preso immediatamente le distanze da tutto questo: “Ogni singola cosa scritta circa le relazioni e le interazioni all’interno della nostra famiglia da bambini e da adulti è frutto di fantasia o di errore”. A fare scalpore però nelle ultime ore sono stati alcuni messaggi, definiti gli ultimi dalla biografia non autorizzata, che risalirebbero alle ultime ore di vita dello chef. E c’entra Asia Argento, compagna di Bourdain.
La ricostruzione dello chef racconta di un uomo solo che si sarebbe impiccato in seguito a una serata passata da solo mangiando e bevendo in eccesso. In quei giorni lo chef avrebbe scoperto il flirt della compagna con un altro uomo. Asia Argento era stata fotografata dai paparazzi al ristorante romano Camponeschi mentre ballava con il giornalista francese Hugo Clément. “Non sono astioso. Né geloso del fatto che tu sia stata con un altro uomo. Non sei di mia proprietà. Sei libera. (…). Sei stata però superficiale. Non hai considerato il mio cuore. La mia vita“.
L’8 giugno Bourdain si impiccò nella sua camera d’albergo a Kaysrsberg, in Francia. Le rivelazioni della biografia non autorizzata hanno fatto il giro del mondo, appena sono state anticipate, in pochissimo tempo. Argento non ha voluto collaborare con Leehrsen: “È sempre Giuda che scrive la biografia”, avrebbe risposto al giornalista quando questi le aveva chiesto delucidazioni.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
· 4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 19 settembre 2022.
«Mi volete spiegare perché Landini ha un consenso pazzesco, mentre io sto sulle palle a tutti?». Di fronte alla domanda del Grande Capo in maglione, il dirigente incravattato della Fiat abbassò lo sguardo e biascicò: «Veramente Landini non è poi così...». «Ma la smetta!», lo interruppe Marchionne. «Landini è uno vero. Ed è anche molto simpatico, persino a me...».
C’è un Marchionne che ci siamo persi. Quello che lui aveva in mente di diventare, dopo essere andato in pensione e aver lasciato tutti gli incarichi operativi «eccetto uno, la Ferrari». Una volta esauriti i suoi ultimi trimestri da ceo della Fiat-Chrysler (i dirigenti d’azienda ragionano per trimestri), si sarebbe rifugiato in una casa tra le montagne svizzere, dove non c’era campo per i telefonini, e lì avrebbe dettato le sue memorie a un giornalista.
Avrebbe raccontato di suo padre maresciallo dei carabinieri, del nonno materno infoibato e dello zio ucciso dai tedeschi. Dell’adolescenza da nerd in Canada, quando le ragazze lo prendevano in giro per la cadenza anglo-abruzzese. E poi delle tre lauree, la prima delle quali, in filosofia, era quella di cui andava più fiero, «perché la scuola serve a darti gli strumenti non per trovare un lavoro, ma per aprire la testa: è così che troverai anche un lavoro».
La chiamata in Fiat
Nella seconda parte del libro avrebbe ripercorso la sua chiamata in Fiat nel 2004, quando l’azienda era in mano alle banche e perdeva due milioni al giorno, e la mossa del cavallo con cui aveva fregato — non mi viene in mente un verbo più diplomatico — il manager della General Motors, Richard Wagoner, venuto a Torino per esercitare il diritto di acquisto delle azioni Fiat: «Gli dissi che avevo controllato il bilancio e che faceva schifo. Lui rispose: “So bene che il vostro bilancio fa schifo.” E io: “Non hai capito, io sto parlando del vostro... Siete nella merda, Dick. Anziché comprarmi, ti conviene pagarmi perché io mi riprenda indietro tutto». Era un bluff da pokerista, vero? «Diciamo che Dick aveva sottovalutato il mio Dna italiano...».
Un altro capitolo lo avrebbe dedicato alla sua luna di miele con i sindacati («ma anche adesso che Landini mi odia, io continuo a pensare che le tute blu paghino per gli errori dei colletti bianchi»), quando con il lancio della nuova 500 e l’acquisto della Chrysler la sua popolarità raggiunse l’apogeo e i torinesi lo applaudivano per la strada.
Le pagine successive del libro sarebbero state occupate dalla crisi finanziaria del 2008, con l’uscita dalla Confindustria, la fine della concertazione e la conseguente perdita di immagine presso le classi popolari, da cui ambiva a essere amato. «Ma ho in mente un capitolo finale che sorprenderà tutti. Già immagino il titolo che ne faranno i giornali: Marchionne è diventato comunista...».
Il messaggino su Conte
Ovviamente Marchionne non era comunista e tantomeno populista: l’ultimo WhatsApp che mi mandò poco prima di morire conteneva un apprezzamento non particolarmente lusinghiero sulla carriera universitaria dell’avvocato d’affari e neopresidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Marchionne si sentiva più italiano che americano, ma più americano che europeo. Inoltre, sosteneva che in economia esisteva «un prima e un dopo Cristo» e il Cristo in questione era la globalizzazione, che lui assumeva come un dato di fatto incontestabile.
Ogni volta che scrivevo un articolo elogiativo e nostalgico dello Stato Sociale alla scandinava o almeno alla democristiana, mi mandava delle mail in cui i passaggi incriminati erano evidenziati in giallo con il suo commento tra parentesi («questa è una totale stronzata»). Eppure, verso quel capitalismo finanziario che lo aveva reso ricco nutriva un atteggiamento ambiguo di fascinazione e di fastidio.
Ne coglieva l’utilità, ma anche le storture, ed è proprio di questo che avrebbe voluto parlare nell’ultimo capitolo della sua biografia: «Qualche tempo fa sono stato invitato a un convegno in America. C’erano tutti gli uomini più influenti della Terra, quelli che siedono nei consigli di amministrazione che contano. Mentre parlavo dal palco, guardavo le loro facce in prima fila. Facce tronfie, piene di... com’è già che si dice “greed” in italiano?».
Avidità, credo. «Ecco, sì, facce avide, di gente che ha completamente perso il senso della realtà e che per sgraffignare un punto in più di dividendi sarebbe disposta a far morire di fame l’umanità intera. Pensano di essere soli al mondo, questi imbecilli... Non capiscono che uno sceicco che mi compra una Ferrari si troverà sempre, ma se mandiamo in miseria il ceto medio, chi comprerà ancora le Panda?».
Monti e la poltrona
Appena azzardai che dopo un libro del genere gli sarebbe toccato entrare in politica, reagì con un gestaccio. «Quando andai a trovare quel gran signore di Monti a Palazzo Chigi, mi disse che stava tenendo in caldo la poltrona per me... Scherzava, spero. La politica in Italia è troppo complicata e al tempo spesso troppo poco seria. Ricordo la volta in cui Berlusconi, allora premier, convocò noi imprenditori e cominciò l’incontro con un paio di barzellette. Ho resistito alla prima, sulla moglie di un vecchio che non mi ricordo più che cosa facesse. Ma alla seconda sul bunga-bunga mi sono alzato di scatto e sono andato alla porta: “Chiedo scusa, ma i programmi comici li guardo in tv la sera. Adesso è ancora giorno e avrei da lavorare...”. Erano i tempi in cui giravo con l’altro mio passaporto, quello canadese, perché mi vergognavo di essere italiano...».
Niente politica, quindi, almeno di giorno. «C’è un solo caso in cui potrei fare eccezione, ma non è in Italia. Riguarda uno dei miei più cari amici, Joe Biden. Non so se prima o poi si candiderà alla presidenza degli Stati Uniti, anche se suo figlio, in punto di morte, gli ha fatto promettere che lo farà... Una volta mi ha chiesto se sarei stato disposto a fargli da ministro o da consulente per le attività industriali. Ecco, a Joe non sarei proprio capace di dire di no. A una condizione, naturalmente, quella che ho preteso dagli altri e da me stesso ovunque sono stato: poter migliorare il posto in cui vivo. Altrimenti, non servirei a niente».
A giugno Sergio Marchionne, il più famoso manager italiano del ventunesimo secolo, avrebbe compiuto 70 anni. Comunque la si pensi su di lui, ci siamo persi qualcosa.
Landini: «Marchionne? Mi sorprende che parlasse così bene di me, non sono mai riuscito a incontrarlo». Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.
Il segretario della Cgil: «Non è affatto vero che io lo odiassi, ho rispettato le sue scelte pur non condividendole. Ha tutelato gli interessi degli azionisti, ma non quelli del nostro Paese. E trascurò l’auto elettrica»
Maurizio Landini, segretario generale della Cgil
«Che Marchionne dicesse tutte queste cose di me, mi ha sorpreso, perché, nonostante ci avessi provato, un colloquio a quattrocchi con lui non sono mai riuscito a farlo».
Maurizio Landini, segretario della Cgil, all’epoca leader della Fiom (2010-17), sarebbe voluto restare al tavolo con l’amministratore delegato della Fiat, nonostante la drammatica rottura consumatasi coi referendum di Pomigliano e Mirafiori sugli accordi separati (con Fim e Uilm). Landini era stato eletto da pochi mesi alla guida dei metalmeccanici e l’allora segretario piemontese della Fiom, Giorgio Airaudo, cercò di organizzare un incontro riservato tra i due.
«Marchionne prese tempo e dopo una quindicina di giorni rispose che le cose erano già andate molto in là e loro avevano deciso di proseguire sulla strada che portò a uscire il gruppo dal contratto nazionale e a farsi un suo contratto con l’adesione degli altri sindacati».
Il tema del consenso e le scelte del supermanager
Se Marchionne non si capacitava del perché Landini avesse «un consenso pazzesco, mentre io sto sulle palle a tutti», come ha raccontato Massimo Gramellini sul Corriere, Landini se lo spiega così: «Lui sapeva che, in realtà, quei due referendum non li aveva vinti, né nelle fabbriche né nel Paese. Aveva avuto un consenso nettamente inferiore a quello che sperava, nonostante quelle consultazioni fossero condizionate dal ricatto: o dici di sì o perdi il lavoro. Non a caso, non fece più referendum, per esempio quando firmò i contratti Fiat. E la Fiom, alla fine, ottenne dalla Corte costituzionale la sentenza che stabilì che non si può escludere un sindacato dalla fabbrica solo perché non è d’accordo. Voglio però dire una cosa: che fu una battaglia esclusivamente di contenuti e di relazioni industriali. Non ci fu mai nulla di personale. Per questo quando ho letto che io a un certo punto avrei odiato Marchionne dico che non è vero. Ho difeso gli interessi dei lavoratori che rappresentiamo, così come ho sempre rispettato le scelte di Marchionne, pur non condividendole. Penso che abbia tutelato gli interessi degli azionisti ma meno quelli del nostro Paese, pur allargando il perimetro di azione del gruppo negli Stati Uniti».
«Mi disse: si faccia un giro negli stabilimenti americani»
Anche se l’incontro a due non si fece, ce ne fu uno che quasi lo fu, benché ufficiale. «Accadde nell’unico vertice ristretto che ci fu tra Marchionne e i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, accompagnati dai tre segretari di Fiom, Fim e Uil, nella sede storica del Lingotto. Durò un’ora e mezza, ma per un’ora fu un confronto tra me e lui. E alla fine mi congedò dicendomi che avrei fatto bene a fare un giro negli stabilimenti americani. “Se me ne dà l’occasione”, risposi. E finì lì». Altro appuntamento mancato.
Il nodo delle alleanze strategiche della Fiat
Le strade di Marchionne e Landini restarono divise e non si incontrarono mai. L’attuale segretario della Cgil riconosce il manager «che aveva colto il fatto che la Fiat, in un mercato dell’auto che si concentrava, aveva bisogno di grandi alleanze. Tentò con la Opel in Germania ma fu la Merkel a opporsi. Gli andò meglio negli Stati Uniti. Ma lo stesso Marchionne, lo dico col senno di poi, commise l’errore di trascurare gli investimenti sull’auto elettrica, di sottoutilizzare la capacità produttiva in Italia e di non sfondare con l’Alfa Romeo».
La mancanza di un confronto col governo sull’automotive
E arriviamo così a oggi. «Il problema è ancora questo, nonostante la Fiat sia diventata parte di Stellantis: potremmo produrre in Italia più di un milione di auto all’anno ma ne facciamo meno di 500mila. E tutto questo senza che il governo faccia nulla. Abbiamo chiesto a Palazzo Chigi l’apertura di un confronto sul futuro dell’automotive, come c’è stato in Germania, in Francia, negli Stati Uniti, in Giappone. Ma niente. L’ultimo presidente del Consiglio a chiamare a Palazzo Chigi l’amministratore delegato della Fiat è stato Mario Monti e l’ad era proprio Marchionne».
Le distorsioni del capitalismo
Un manager che si preoccupava anche delle distorsioni del capitalismo, perché «se mandiamo in miseria il ceto medio chi comprerà ancora le Panda?», diceva, ricalcando la filosofia di Henry Ford, che voleva che i propri operai potessero comprare la Ford T. «Sì, le distorsioni del capitalismo fondato sulle stock option, quello che aveva anche moltiplicato le differenze salariali tra lo stesso Marchionne e gli operai Fiat rispetto ai tempi di Valletta».
L’importanza di votare
Infine, se Marchionne voleva stare alla larga dalla politica, Landini ne è pienamente coinvolto. E forse preoccupato, in vista del voto di domenica. «Tutto dipenderà da quanta gente andrà a votare. Per questo vorrei cogliere anche questa occasione per invitare tutti a utilizzare il loro diritto di voto. Siamo in un momento molto delicato e la democrazia va sostenuta. La partita non è chiusa». Ma se la sinistra perderà, perché avrà perso? «Con questo sistema elettorale, che non mi piace, viene premiato lo schieramento che fa accordi». Il centrodestra lo ha fatto, gli altri no.
· 4 anni dalla morte di Luigi Necco.
Luigi Necco, dal calcio-show di «90° minuto» al giornalismo anti-camorra. Il compianto giornalista napoletano Luigi Necco. La storia del mitico inviato della Rai (scomparso nel 2018) al centro della puntata di stasera «Cose Nostre». Redazione spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Agosto 2022
La storia di Luigi Necco, storico giornalista e inviato della Rai, mancato nel 2018, sarà al centro della puntata di Cose Nostre, «Da Napoli è tutto», in onda stasera alle 23.20 su Rai1. Per anni volto dell’allegra brigata di 90° minuto, Necco ha raccontato gli anni d’oro del Napoli di Maradona, aggiungendo alle sue cronache sportive, un tocco di sapiente ironia e sagacia tutta napoletana, alimentando così una competizione leggera e leale con le squadre del nord, rappresentate da colleghi come Gianni Vasino e Cesare Castellotti.
Ma se la domenica Luigi Necco descriveva le partite dal San Paolo, durante la settimana era un giornalista di cronaca, impegnato sul fronte della guerra di camorra. Gli anni 80 in cui il cartello di clan «Nuova Famiglia» si oppose alla «Nuova Camorra Organizzata» di Raffaele Cutolo lasciarono sulle strade di Napoli e della provincia migliaia di morti. Necco raccontò quella stagione di sangue, con servizi per i tg locali che il più delle volte venivano ripresi anche dalle cronache nazionali. Reportage documentati, notizie di prima mano, interviste alla gente comune, ai familiari delle vittime, a chi ha subito una disgrazia. Il contrabbando di sigarette, il traffico di droga, la storia di Enzo Tortora, la tragedia del terremoto dell’Irpinia.
Luigi Necco è stato un testimone attento e sensibile del suo tempo, un cronista capace e coraggioso. Al punto da venire ferito alle gambe da uno sparo, fuori lo stadio di Avellino, perché c’era chi non aveva digerito un suo servizio e voleva intimidirlo. E le immagini del giornalista che sulla barella racconta l’agguato di cui egli stesso è rimasto vittima, la dice lunga sull’avere nel sangue il suo mestiere di giornalista.
· 3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.
"Nel bene e nel male lui era Franco, un uomo fuori dagli schemi che ha vissuto per l'arte". Intervista a Pippo Zeffirelli, figlio adottivo del grande regista. Mentre alla Scala si aprono le celebrazioni per il centenario dalla nascita, emergono i lati inediti dell'artista. Dalle cene con Anna Magnani ai litigi con Nureyev. Paolo Scotti su Il Giornale il 7 Novembre 2022.
Cento anni di bellezza, di film memorabili, di spettacoli che sono leggenda, di amare incomprensioni, di fiero anticonformismo. Domani s'inaugura alla Scala di Milano la mostra che avvia le celebrazioni per il centenario della nascita di Franco Zeffirelli (12 febbraio 1923). Con Pippo Zeffirelli, assistente del maestro, poi figlio adottivo e infine presidente della Fondazione che a Firenze ne custodisce l'eredità, ripercorriamo la rutilante esperienza, umana e artistica, di un'esistenza irripetibile.
Franco Zeffirelli la incontrò nel 1968 e l'adottò nel 1999. Come vi eravate conosciuti?
«Mentre facevo il militare a La Spezia vidi al cinema Romeo e Giulietta. Poi, sceso a Roma per trovare mio cugino, che era assistente di Bolognini, me lo presentarono. Solo dopo, però, quando alla tv dissero che aveva avuto un terribile incidente stradale, capii che si trattava del regista di Romeo e Giulietta. Andai a trovarlo in ospedale: questa cosa lo colpì moltissimo. Iniziò un rapporto meraviglioso, che aprì la mia mente, mi donò esperienze incancellabili, e col tempo è divenuto quello tra un padre e un figlio».
La lunga vita di Zeffirelli, tumultuosa e abbagliante, somiglia ai suoi adorati melodrammi.
«Sì, fin dagli inizi. Frutto di una relazione extramatrimoniale, Franco rischia per ben tre volte di morire. Quando la madre rifiuta di abortirlo (il che spiega perché fosse così contrario all'aborto); quando da partigiano sta per essere fucilato dai fascisti, e il padre rivela all'ultimo momento al loro capo che il condannato è, in realtà, suo fratello (anche quel fascista era suo figlio illegittimo); quando con la Rolls Royce di Gina Lollobrigida si schianta contro una roccia, e fa voto a San Francesco di dedicargli un film, se si salverà».
Centrale l'incontro con Visconti. Lo definì «Un Giove, avvicinarsi a lui era come entrare nell'Olimpo».
«Una scuola impagabile. Ma Visconti era anche un uomo complesso: Una serpe, lo definiva la Magnani; un comunista da boutique, per Tennessee Williams. Dopo un furto in casa di Luchino, la polizia mette Franco in gattabuia, senza che Visconti lo difenda. Il vero ladro viene poi scoperto; ma per Franco la ferita sarà profonda. E poi era geloso, possessivo: quando dall'Old Vic telefonano a Franco per offrirgli - primo italiano nella storia del tempio di Shakespeare - addirittura tre regie, Visconti lo smonta. Sei pazzo? Ti rompi la testa!. Proprio questo fa accettare Franco. E sarà lo storico Romeo e Giulietta col debutto di Judi Dench. Ci voleva un italiano, per insegnarci come si fa Shakespeare!, scrive il re dei critici Kenneth Tynam».
Zeffirelli diventa Zeffirelli in Inghilterra. Da noi invece viene deriso, insultato, ostracizzato. Perché?
«Intanto perché viscerale anticomunista. Cattolico, per di più. Quanto bastava, nel rosso mondo dello spettacolo italiano. Da ragazzo chiese al suo maestro Giorgio La Pira se unirsi ai partigiani; il futuro sindaco santo di Firenze gli rispose: Vai, ma ricorda: nazisti, fascisti e comunisti sono tutti la stessa cosa. Si scandalizzava che il 25 aprile si celebrassero solo i partigiani e mai gli Alleati. Sono stati loro, che ci hanno liberati!. Era un anticonformista sano, vigoroso. Ed era fiorentino. Fiorentino, prima che italiano, diceva».
Anticonformista anche nei confronti dei colleghi celebri?
«Ammirava molto Fellini. Di Pasolini ebbe il coraggio di dire quello che pensano in tanti: grande poeta ma pessimo regista. Antonioni e Bergman? Trovava le loro opere belle, ma deprimenti: Perfino nel dramma io vorrei un barlume di speranza. A teatro ammirava molto Strehler, mentre detestava Ronconi e quel suo modo di deformare la recitazione. Anche a Riccardo Muti non le mandò a dire: Grande direttore, ma con tali smanie di protagonismo da scegliersi collaboratori mediocri, pur di brillare solo lui».
Anche l'omosessualità Zeffirelli la visse in modo opposto alla mentalità corrente.
«L'aveva accettata in modo, direi, virile. Senza piagnistei, senza rivendicazioni assurde. Trovava i Gay Pride orrendi, volgari, un carnevale sguaiato che discredita gli omosessuali tutti, anche quelli che, come lui, rifiutano l'esibizionismo, le forzature. Non parliamo poi dell'ideologia gender. Franco era contrarissimo al matrimonio omosessuale, e soprattutto all'adozione dei bambini da parte di due persone dello stesso sesso. Diceva: Ogni bambino ha il diritto sacrosanto, dettato dalla natura di avere una madre e un padre».
Neppure la critica italiana lo amò molto.
«Un episodio la dice lunga, in proposito. Per presentare a Roma il Romeo e Giulietta con Giannini e la Guarnieri riservò l'anteprima esclusivamente ai giovani, escludendo i critici. Loro se la legarono al dito e disertarono lo spettacolo. Che fu un trionfo. Allora Franco pubblicò su un quotidiano un'inserzione. Il successo è stato tale che ringraziamo i critici per il loro disinteresse. Aveva coraggio, Franco».
A volte, però, la sua incontinenza verbale passava il segno, trascinandolo in scandali e polemiche...
«Ahimè. In un'intervista in cui criticò un brutto film di Scorsese, passò per antisemita. Fu un equivoco ma Hollywood non l'ha mai veramente perdonato. Poi ci furono i litigi infiniti con la Juventus, contro la strage dei cavalli al Palio di Siena. Il sindaco della città rivendicò: Col Palio abbiamo salvato tanti ragazzi dalla droga!. Certo - ribattè lui - perché poi la droga la date ai cavalli!. Pensi che quando Franco girò uno special sulla Toscana, il sindaco non gli dette il permesso di entrare a Siena. Allora Franco la riprese dall'elicottero!».
Ostracizzato da intellettuali e critici, ma il pubblico fu sempre tutto dalla sua.
«Ah, non c'è dubbio. Da Romeo e Giulietta, che vinse due Oscar divenendo l'inno dei ragazzi di tutto il mondo, al Gesù di Nazareth, visto da un miliardo di telespettatori e che Paolo VI lodò dalla finestra di piazza San Pietro. I suoi film-opera, Traviata, Otello hanno fatto scuola. Nel teatro ci sono titoli mitici. La Lupa che riportò in scena la Magnani; la Maria Stuarda in cui Valentina Cortese finse di svenire per rubare la scena a Rossella Falk (le due si odiavano); il Sabato, domenica e lunedì in cui Joan Plowright cucinava in scena un vero ragù. E il pubblico inglese, impazzito, a fine spettacolo affollava i vicini ristoranti italiani».
Colossali anche i progetti irrealizzati, e i «grandi rifiuti».
«Pensi cosa sarebbe stata L'incoronazione di Poppea che avrebbe voluto fare con la Callas in Piazza del Campidoglio, a Roma! E poi i Beatles: dovevano scrivere le canzoni e interpretare i fraticelli di Fratello sole, sorella luna! Preparò anche un secondo film su San Francesco, I tre fratelli: l'incontro del Poverello col Sultano. Nel '69 Albert R. Broccoli gli propose 007 Una cascata di diamanti. Ma Franco girava solo quel che amava. Rifiutò anche Il Padrino: il libro di Puzo gli piaceva, ma aveva della mafia, disse, una visione troppo americana. Ma suggerì alla Paramount un attore provinato per Fratello sole, sorella luna e a malincuore bocciato: Al Pacino».
Lei ha conosciuto anche due icone assolute del suo irripetibile percorso creativo: Callas e Magnani.
«Di Maria diceva È ignorante come una cornacchia. Non è una donna di cultura: è una donna che fa cultura. La Magnani veniva tutti i sabato a cena da noi perché la tata di Franco le faceva i malfatti di ricotta e spinaci. Ma con un diktat: che ci fosse solo lei. Capito, brutto stronzo?. Perché Anna gli parlava così, a Franco. Una sera ci telefona la Callas: Maria - le fa Franco - vieni a cena: ci sono i malfatti!. Troppo tardi si accorge dell'errore. Suonano alla porta, Franco va ad aprire. Maria... di là c'è anche la Magnani.... Anna? Il mio idolo!. La Magnani si scioglie. Chi far sedere alla destra di Franco? Maria, ti spiace se ci metto Anna? Sai: lei è molto, molto più anziana di te. Ma certo Franco: è ovvio!».
Com'è stato vivere accanto a una persona così singolare, e in un simile mondo dorato?
«Non sempre facile, ma meraviglioso. Rimpiango che Franco non avesse con sé la macchina fotografica mentre girava i night con Coco Chanel , o quando pranzò in Central Park con Marilyn Monroe, o portò Robert Kennedy a ballare al Piper, a Roma. Franco amava essere una star. Aveva sempre attorno tanta gente, conseguenza della solitudine patita da orfano, e bella gente: magari la stessa sera c'erano la Fracci, la Streisand, Sordi, la Masina, le Kessler... Una volta piombò a mezzanotte in casa di Marina Cicogna con Ava Gardner, Maggie Smith e Mia Farrow! Memorabile la follia di Rudolf Nureyev che, suo ospite a Positano, va a fare il bagno di notte e per errore viene chiuso fuori casa. Per vendetta spacca furioso le maioliche di Franco, e i due si pigliano a sberle. Risultato: la mattina dopo lo scandalo finisce sul New York Times».
Un attivismo fervido, una creatività inesauribile. Ma arriva per tutti il momento di fermarsi...
«Franco era credente. Pregava tanto, ogni sera. Ciononostante, come tutti, aveva paura della morte. Un giorno, quando non riusciva nemmeno più a scrivere (dava la colpa alle penne: Non funzionano!) seduto in giardino mi prese la mano. Pippo caro, tra poco non potrò più godere di tanta bellezza. Però pensava anche che ognuno di noi è sempre esistito. E sempre esisterà. E non è già questa, in fondo, un'intuizione dell'eternità?.
Franco Zeffirelli, all’anagrafe Gian Franco Corsi
Arianna Finos per “la Repubblica” il 28 agosto 2022.
Ricordare Franco Zeffirelli. Il centenario dalla nascita sarà il 12 febbraio 2023, ma già un documentario in gara nella sezione Venezia classici, scritto e diretto da Anselma Dell'Olio, ne ripercorre biografia e carattere, la carriera larga da artista rinascimentale benedetta da riconoscimenti internazionali e dalla fama popolare malgrado la tiepidità della critica.
Franco Zeffirelli, conformista ribelle (prodotto da La Casa Rossa e Rs Productions, con Rai Cinema) si vedrà alla Mostra il 7 settembre, arricchito da materiali di repertorio, a partire da quelli preziosi della Bbc, da testimonianze di amici e collaboratori che lo hanno accompagnato fino alla fine.
«Zeffirelli, che conoscevo, era la persona più accogliente e generosa che abbia mai conosciuto - spiega la regista - Jeremy Irons ricorda come ogni sera, dopo una giornata sul set, Franco cucinava per il cast. Nelle sue case, sull'Appia Antica e a Positano, accoglieva e manteneva anziane attrici, la vecchia tata, morta a 105 anni in casa sua. Alle feste leggendarie trovavi Michael Jackson, Liza Minnelli, Gregory Peck, ma anche l'uomo che gli aveva montato le persiane».
Nelle foto della Fondazione, Zeffirelli affianca, spesso in abito da sera, la sciarpa bianca, le celebrità dei suoi tempi, dalla regina Elisabetta a Lady Diana, Richard Gere e Eduardo De Filippo, Judy Dench.
Preziose le amicizie con Elizabeth Taylor e Anna Magnani, con cui aveva fatto l'attore (L'onorevole Angelina) «e che aveva riportato al successo con La lupa a teatro, malgrado le stroncature fece il giro del mondo». Zeffirelli era spiritoso «mondano, ma non superficiale».
Una lunga parte del doc ne racconta la difficile infanzia. Poiché i genitori sono entrambi sposati con altri, Franco nasce senza nome.
«Quel giorno a Firenze toccava alla zeta, nell'Orfanotrofio degli innocenti. La madre, che amava Mozart, voleva chiamarlo Zeffiretti ma all'anagrafe l'impiegato non tracciò la barra delle t». Lo alleva la zia, che a sua volta convive con un uomo sposato «cresce irregolare in tutto, in una Firenze che allora era molto chiusa. Era un bimbo spesso insultato perché bastardo. Questo gli ha fatto chiudere dentro se stesso la parte più vulnerabile».
Sviluppando un'immagine diversa, «era bello, affascinante e con una vitalità leggendaria. Gli si sono aperte da giovane, dopo aver fatto il partigiano, le occasioni migliori». Non sono mancati gli ostacoli.
«Luchino Visconti ha fatto di tutto per chiudergli tutte le possibilità, quando si sono lasciati. Lui e Franco Rosi sono stati i due aiuti di Visconti, poi uno ha preso la strada del neorealismo, più celebrato e acclamato, ma il vero continuatore del senso estetico del cinema di Visconti è certamente Zeffirelli, che il bello lo ha proposto in tutto il mondo, a teatro, al cinema e nella lirica.
In questo senso la lezioni viscontiana l'ha esplicata meglio di tutti». Come in La lucida follia di Marco Ferreri e Fellini degli spiriti , «ho lavorato per arrivare all'interiorità dell'artista. Ma Ferreri e Fellini erano autori, Zeffirelli no. Nei film di un autore si trova tutto, perché parla di sé anche quando sembra che parli d'altro. Nel caso di Zeffirelli questo non è stato possibile. Non faceva film d'autore, era un artista rinascimentale che faceva cinema, teatro, opere liriche, documentari. Come un maestro di bottega, se ti commissionano nel mondo un lavoro, tu raccogli intorno a te i migliori artigiani, e cerchi di essere all'altezza. di solito di un grande classico. Perché lui ha fatto spesso Shakespeare, Flaiano gli affibbiò il soprannome Scespirelli».
Con La bisbetica domata con Burton e Taylor e Romeo e Giulietta , un successo mondiale, «reinventa un modo di raccontare il bardo, lo svecchia. Oggi sembra una banalità, ma lui è riuscito, in Inghilterra, a rendere il testo mobile, cinematografico». Zeffirelli non solo non è - per Dell'Olio - abbastanza ricordato, ma «fu piuttosto ostacolato in vita.
C'erano pregiudizi violenti nei suoi confronti in Italia, mentre all'estero era adorato e venerato. Roberto Bolle racconta che dietro le quinte del Metropolitan c'è una targa che ricorda il contributo di Zeffirelli, che ha insegnato a generazioni di americani ad apprezzare l'opera».
Il titolo, "conformista ribelle" «l'ho scelto perché era un cattolico, prima democristiano e poi berlusconiano: nell'ambiente del cinema era quanto di più anticonformista».
Nel capitolo finale «cerco di arrivare alla radice dei suoi tormenti, le questioni irrisolte e nascoste.
Il suo essere omosessuale in un'epoca in cui non era di moda. Se eri Pasolini e Visconti ed eri di sinistra era un conto, ma essere omosessuale e anticomunista, sia pure antifascista, non ti rendeva popolare nell'ambiente. Alla fine però ha vinto lui: ha avuto tante traversie, ma è morto a 96 anni, lavorando fino alla fine».
· 3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.
Dagospia il 13 marzo 2022. Estratti di "Ci siamo voluti tanto bene", libro-omaggio di Renzo Arbore e Marisa Laurito all'amico Luciano De Crescenzo, in libreria con Mondadori
"Ho un'idea, Renzo".
"Dimmi".
"Una genovese io e te, che ne pensi?".
"Penso che non potremmo ricordarlo meglio. Un sapore, un sapore della memoria e un filo che ci porta a Napoli".
"Metto l'acqua sul fuoco, allora. E per favore, diamoci un tono, facciamo finta di non piangere".
"Ci proveremo, non so se ci riusciremo. E dopo, mi raccomando il caffè, Marì. Come diceva Luciano, senza un buon caffè non si può scoprire niente della vita".
"Quanto ci ha insegnato! Grazie a lui ora sappiamo che anche il caffè conduce alla conoscenza".
Capri è stato un periodo fantastico della nostra vita. Io all'epoca ci andavo con Alberigo Crocetta, l'inventore del leggendario Piper.
Con lui si prendeva una barca, si frequentavano deliziosi ristorantini, confesso che ci si divertiva davvero tanto. Siamo nei primissimi anni 70. E proprio l'isola è stato il luogo nel quale io e te ci siamo conosciuti.
Conosciuti davvero, cioè di persona, poiché in qualche maniera questo ingegnere De Crescenzo nella mia vita era già entrato. Qualche anno prima, io andavo spesso a Sorrento: avevo una compagna, una fanciulla molto carina, che veniva con me lì e ogni tanto mi diceva: "Vabbè, Renzo, io adesso vado a Napoli, devo andare dall'ingegnere De Crescenzo".
Sinceramente non capivo bene cosa andasse a fare, credevo si trattasse di un impegno di lavoro, o qualcosa del genere. Ho saputo solo più tardi cosa accadeva quando era a Napoli. Intanto, so che mentre era in tua compagnia, la fanciulla a un tratto ti diceva: "Vabbè, io adesso vado a Sorrento, devo andare da Renzo Arbore".
Era semplicemente fidanzata con tutti e due, ma né io né te lo sospettavamo, ciascuno credeva di essere il suo solo e unico uomo. Poi quella sera a cena chiacchierammo, e improvvisamente scoprimmo il misfatto, facemmo per puro caso i conti con la verità. A partire da quel giorno ci siamo poi incontrati quasi quotidianamente, ci davamo appuntamenti e noi che eravamo i "capresi" ti raggiungevamo. Devo ammettere che arrivavamo da te quasi sempre con ritardo, diciamo che una mezz' oretta almeno ce la prendevamo ogni volta.
Un giorno, al nostro ennesimo ritardo, ci accogliesti con una battuta che non ho mai dimenticato. "Ho calcolato" dicesti "la somma di tutti i ritardi che avete fatto. Praticamente ci siamo persi un giorno di Capri". Era il tuo stile di pensiero, ragionavi da ingegnere, ti piaceva usare i calcoli, le somme dei tempi, per inventare i tuoi paradossi. Avevi una specie di matematica, di precisione inattaccabile, anche nel tuo profondissimo umorismo.
Raramente ho conosciuto un conquistatore più conquistatore di te, avevi un talento naturale straordinario. Non dimenticherò mai la tua posa da astronomo, fermo sul terrazzino della tua casa a scrutare il cielo e le stelle con il telescopio. Delle stelle in verità non te ne importava un fico secco, tu osservavi le varie zone di Capri per scoprire ognuno dei posti in cui si raccoglievano più ragazze straniere.
A quel punto si partiva con la barca per raggiungere la parte dell'isola strategicamente individuata come più ricca. A bordo avevi delle bandierine, quasi una per ogni nazione del mondo. E a seconda della ragazza che conquistavi, issavi la bandierina della nazionalità corrispondente. Un'abitudine che solo il grande spirito di Mariangela poteva accettare. Lei, allora, era popolarissima, era il volto protagonista di film importanti, dunque tantissimi la riconoscevano.
Spesso queste ragazze, appena venivano a bordo, la vedevano ed esclamavano nella loro lingua: "Lei è la Melato! Che onore!". Allora tu, Luciano, intervenivi, e con un inglese un po' arrangiato, un francese un po' improvvisato, chiarivi, mentendo: "È qui perché sta girando un film: Amore a Capri".
Ti pareva il titolo più adatto per suggestionare le turiste da conquistare, ma Mariangela si ribellava: "Luciano, fa' quello che ti pare, racconta tutte le storie che vuoi, puoi inventarti che sono qui per girare con Sean Connery o con Volonté, ma per favore non darmi un titolo di film così brutto. Ci faccio una figura pessima". Mi guardo indietro, amico mio, e voglio dirlo ancora una volta: quello è stato davvero il periodo più bello della nostra vita.
Emilia Costantini per il "Corriere della Sera" il 23 febbraio 2022.
«Ci siamo voluti tanto bene», come a dire «C'eravamo tanto amati». Un libro di ricordi, curiosità, aneddoti, che ripercorre una profonda amicizia tra Marisa Laurito, Luciano De Crescenzo e Renzo Arbore, appena pubblicato da Mondadori. Purtroppo, nella scrittura del libro, manca all'appello proprio De Crescenzo, scomparso a 91 anni il 18 luglio 2019, pur essendone il protagonista assoluto.
Nel memoir si inserisce invece la testimonianza di Domenico De Masi, che con il celebre trio ha una lunga storia di condivisione e affettuosa amicizia. «Da quando Luciano non c'è più, a Renzo e a me è venuta la voglia di dedicargli una nostra testimonianza d'affetto - esordisce Marisa - Mimmo De Masi apre il libro con un'analisi dal punto di vista sociologico del poliedrico personaggio De Crescenzo».
Interviene Renzo: «Abbiamo voluto fare un piccolo omaggio ad una amicizia straordinaria, che mi manca moltissimo. Un rapporto, tra Luciano e me, nato tanti anni fa in un'estate particolarmente gradevole trascorsa a Capri, poi consolidata, diventata fraterna e di intensa collaborazione quando scrivevamo in tandem le sceneggiature di film come "Il pap' occhio" e poi "FF.SS, cioè... che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?".
In quegli anni, praticamente convivevamo: io andavo a casa sua la mattina e, tra scrittura, battute, scherzi, pranzi, cene, frequentazione di ragazze e molto altro, consolidammo la nostra complicità umana e creativa».
Anche Marisa iniziò il suo legame con Luciano sul set: «Avevo superato il provino per entrare nel cast de "La mazzetta" con la regia di Sergio Corbucci, dove Luciano era sceneggiatore. La prima volta che lo incontrai fu a casa di Nino Manfredi, protagonista del film insieme a Ugo Tognazzi: era voltato di spalle davanti a un'ampia vetrata, ma quando si girò il suo sguardo si incrociò col mio, non lo dimenticherò mai. E non so come ho fatto a non innamorarmi di lui».
Un ingegnere, con una carriera molto avviata, che decide di cambiare mestiere. «Non era più un ragazzo - conferma Renzo -, eppure cambiò radicalmente rotta: diventò scrittore di successo, sceneggiatore, poi attore, regista... Luciano, nella sua serietà professionale, rimaneva un ingegnere, poi era un intellettuale finissimo, con il vezzo di voler essere leggibile, popolare, voleva far capire la sua filosofia al "colto e all'inclita".
Un successo straordinario i suoi libri, che non è andato giù a certi colleghi letterati, rendendolo inviso anche a certi critici». Aggiunge Marisa: «Lui stesso ammetteva di esser stato molto fortunato, la sua autobiografia si intitolava proprio "Sono stato fortunato". Intorno ai cinquant' anni, un vero salto nel buio il suo. Di sicuro il suo Dna era diventato Dan, ovvero, doni avuti nascendo».
Un napoletano doc, De Crescenzo, sodale di un foggiano, Arbore: «Ma Luciano ed io eravamo fuori ordinanza in tutti i sensi, a cominciare dal vivere e descrivere Napoli senza stereotipi». E fuori dagli stereotipi era pure «Il pap' occhio», dove De Crescenzo impersonava Dio, tanto che venne sequestrato per vilipendio alla religione. «Ma il sequestro noi l'abbiamo preso in maniera divertente - ribatte Renzo -.
Andammo a dire al giudice quello che avremmo potuto inserire nel film, se avessimo voluto essere realmente pesanti, offensivi con la religione. Lo convincemmo e, dopo un po', venne dissequestrato». Non solo vilipendio: il trio Laurito-De Crescenzo-Arbore, fu accusato pure di blasfemia. «Era Natale - racconta Marisa - volevamo fare gli auguri al nostro pubblico in una maniera non scontata e su un quotidiano pubblicammo una nostra foto dove Renzo era truccato da Gesù, Luciano da San Giuseppe, io da Madonna».
Un difetto dell'amico scomparso? Renzo: «Diciamo che era parsimonioso. E poi era un tombeur de femmes , ma questo non è un difetto». Marisa: «Non aveva molta pazienza, da noi si dice: s' appicciava subito. Ma era un difetto comico, quando si arrabbiava, ci faceva morire dalle risate. Quanto alle donne, a volte ho discusso con lui, ero seccata, perché le cambiava troppo spesso». E se poteste dirgli ancora qualcosa? Conclude Marisa: «Vorrei ripetergli ti voglio bene, e lui mi rispondeva: io a te di più». E Renzo: «Lucia', c'avevi ragione tu... e chi vuole intendere intenda».
· 3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.
DAGONEWS il 10 luglio 2022.
In che modo Jeffrey Epstein, il famigerato predatore e trafficante sessuale, ha accumulato la sua vasta ricchezza? Il finanziere ha avuto legami con Bill Gates, Bill Clinton, il principe Andrew e Donald Trump, ma come sostiene la nuova docuserie di Hulu “Victoria's Secret: Angels and Demons” (uscirà il 14 luglio), una delle maggiori fonti di denaro è stato il miliardario Les Wexner.
Nonostante sia l'uomo dietro il colosso della vendita al dettaglio L Brands, il cui portafoglio a un certo punto includeva The Limited, Abercrombie & Fitch, Express, Lane Bryant, Henri Bendel, Bath & Body Works e Victoria's Secret, Wexner ha mantenuto un profilo relativamente basso nella sua nativa Ohio, lontano dalle lenti indiscrete dei paparazzi. Ma tutto è cambiato nel periodo in cui Epstein è entrato nella sua vita a metà degli anni '80. Il quarantenne Wexner si è tinto i capelli e ha migliorato il suo guardaroba. Le sue serate erano con conoscenti famosi di Epstein.
Poche settimane prima che Epstein morisse nella sua cella, il “New York Times” ha pubblicato i dettagli dei legami di Wexner con Epstein. L’articolo ha rivelato, tra le altre cose, che Wexner era l'unico cliente miliardario pubblicamente noto di Epstein; che Epstein aveva acquisito la sua casa a schiera a Manhattan, un jet privato (in seguito soprannominato "Lolita Express") e altre proprietà da Wexner con uno sconto pesante; che Wexner avrebbe aspettato 18 mesi per tagliare i legami con Epstein dopo essere stato arrestato per prostituzione minorile nel 2006; e che un procuratore generale dell'Oregon affermava che Victoria's Secret aveva aiutato la difesa legale di Epstein nel 2006, fornendo volontariamente informazioni contro uno degli accusatori di Epstein, che aveva lavorato per Victoria's Secret.
Con una mossa molto insolita, Wexner, che ora ha 84 anni, ha concesso a Epstein una procura nel 1991 che, secondo il “Times” "consentiva a Epstein di assumere persone, firmare assegni, acquistare e vendere proprietà e prendere in prestito denaro". A Epstein è stato concesso "pieno potere e autorità per eseguire ogni atto necessario" per lui.
Come rivela il documentario, Epstein era profondamente invischiato nella vita di Wexner ed era anche amministratore fiduciario della sua fondazione di beneficenza (arrivando al punto di respingere sua madre) e aveva persino il compito di procurargli una domestica dopo il suo matrimonio con Abigail Koppel. A un certo punto, Epstein visse in una villa per gli ospiti adiacente a Wexner a New Albany, Ohio. È in quella casa che Maria Farmer, una giovane artista di New York, sostiene di essere stata aggredita sia da Epstein che dalla sua complice Ghislaine Maxwell. Si presume anche che Epstein abbia sfruttato i suoi legami con Wexner per fingere di essere un reclutatore di modelle di Victoria's Secret.
Quando Epstein è morto nel 2019, ha lasciato una fortuna stimata di 600 milioni di dollari, di cui solo 125 milioni sono stati distribuiti alle sue vittime. Solo dopo il suo decesso Wexner si è fatto avanti e, in una lettera alla Fondazione Wexner, ha rotto il silenzio sui legami con Epstein dicendo che il defunto criminale sessuale si era "appropriato indebitamente di ingenti somme di denaro" per un totale di circa $ 46 milioni.
Sarah Ellison, una giornalista del “Washington Post” intervistata nel documentario, stima che Wexner abbia pagato a Epstein circa $ 400 milioni nel corso del loro rapporto d'affari: «Wexner è noto per essere litigioso, eppure non ha mai portato in tribunale Epstein per aver rubato milioni e milioni di dollari? Permettergli di restare impunito rimane del tutto inspiegabile».
(ANSA il 25 agosto 2022) - Uno studio legale che ha partecipato alla difesa di Ghislaine Maxwell, condannata a giugno per aver aiutato il finanziere ed ex fidanzato, il defunto Jeffrey Epstein, ad abusare sessualmente di ragazze minorenni, ha fatto causa alla donna, al fratello e al suo marito, affermando di non aver mai intascato la parcella, che ammonta a oltre 878.000 dollari, per il suo lavoro.
Lo scrive il Guardian online. In una causa depositata lunedì, Haddon, Morgan e Foreman, con sede a Denver, sostengono che la Maxwell ha incaricato il fratello Kevin Maxwell di pagare le sue spese legali dopo il suo arresto nel 2020, ma che ha pagato solo una parte di quanto le è stato addebitato prima e durante il processo.
Kevin Maxwell ha esortato lo studio a continuare a lavorare su questioni relative all'appello dopo la condanna a 20 anni di reclusione, nonostante le fatture non pagate, e ha incolpato il marito di Maxwell, Scott Borgerson, di aver ostacolato i pagamenti, secondo la causa depositata nel tribunale di Denver. Maxwell sta scontando la pena a Tallahassee, una prigione federale nella capitale della Florida.
Ghislaine Maxwell condannata a 20 anni: "Epstein, il mio più grande rimorso". Enrico Franceschini su La Repubblica il 28 Giugno 2022.
La sessantenne ereditiera inglese si era difesa sostenendo di essere stata anche lei una vittima di Epstein, prima abusata, poi manipolata.
Vent’anni di prigione per la “dama nera”. Ghislaine Maxwell ha ricevuto una severa sentenza per il suo ruolo di procacciatrice di minorenni e complice di abusi sessuali a fianco di Jeffrey Epstein, il miliardario pedofilo morto suicida in carcere a New York nel 2019, un mese dopo il suo arresto. La sessantenne ereditiera inglese si era difesa sostenendo di essere stata anche lei una vittima di Epstein, prima abusata, poi manipolata.
Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 29 giugno 2022.
Vent' anni di carcere. Durante la lettura del verdetto, Ghislaine Maxwell è rimasta in piedi, inespressiva, tra le sue avvocate. L'ex fidanzata e assistente del finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, che ha compiuto 60 anni a Natale, potrebbe passare dietro le sbarre gran parte della vita che le rimane, anche se potrebbe essere rilasciata tra una dozzina d'anni, visti i due già trascorsi in prigione e possibili sconti di pena per buona condotta.
Ma Bobbi Sternheim, la famosa avvocata della difesa, ha già detto che andrà in appello, proclamando alla stampa che la sua cliente è stata «diffamata» e «messa alla gogna» dall'opinione pubblica, che è un capro espiatorio, mentre il vero responsabile, Jeffrey Epstein, è sfuggito alla giustizia suicidandosi nel 2019.
A dicembre una giuria di New York ha ritenuto Maxwell colpevole di aver adescato e manipolato minorenni tra il 1994 e il 2004, perché fossero sessualmente abusate da Epstein. Toccava alla giudice Alison J. Nathan a decidere, ieri, la durata della pena. La difesa chiedeva non più di 5 anni, invocando l'infanzia di una donna traumatizzata dal padre, l'ex magnate dell'editoria e ex deputato britannico Robert Maxwell, che aveva notoriamente dato il nome della figlia prediletta al suo yacht ma che - secondo la sorella Anne e il fratello Philip - la vessava con «cambi di umore e rabbia improvvisa» e l'avrebbe così resa «vulnerabile a uomini abusivi e potenti».
La Procura invece chiedeva tra i 30 e i 55 anni, notando che Maxwell è «una donna adulta che ha fatto le sue scelte». Le quattro accusatrici - Jane, Kate, Carolyn (pseudonimi) e Annie Farmer - hanno descritto una «predatrice sofisticata» che adescava ragazzine, alcune di 14 anni, partecipando ai massaggi e giochi sessuali del compagno; e volevano una pena più severa anche in nome della mancanza di rimorso di Ghislaine. Virginia Giuffre, la più nota delle accusatrici, pur non coinvolta nel processo, ha fatto leggere un messaggio al suo legale: «Non avrei mai conosciuto Epstein se non fosse stato per te. Meriti di passare la vita in gabbia».
Maxwell, che nel processo non aveva testimoniato, ha deciso a sorpresa di parlare poco prima del verdetto: «È il più grande rammarico della mia vita aver conosciuto Jeffrey Epstein», ha detto, senza però riconoscere il proprio ruolo. «Vostro onore, è difficile per me rivolgermi alla Corte dopo aver ascoltato il dolore e l'angoscia nelle dichiarazioni di oggi... Credo che Jeffrey Epstein fosse un uomo manipolatore, astuto... ha imbrogliato tutti coloro che vivevano nella sua orbita. Lui avrebbe dovuto essere qui di fronte a voi».
Il verdetto (240 mesi di carcere e una multa di 750 mila dollari) è basato su linee guida che indicano una pena «tra i 188 e i 235 mesi di carcere».
La giudice ha accolto la richiesta della difesa di raccomandare che Maxwell sia spostata dalla cella di Brooklyn in cui lamenta di essere trattata «come Hannibal Lecter nel "Silenzio degli innocenti"» - ad una prigione in Connecticut, e inserita in un programma per chi ha subito traumi familiari. Alcuni lamentano che uno dei casi di più alto profilo nell'era #MeToo non veda coinvolti i potenti amici di Epstein accusati di partecipare ai suoi festini. La difesa in Appello farà perno su un punto debole del processo: il «giurato 50» subì abusi sessuali da bambino, ma non l'aveva rivelato.
Dagotraduzione da vickyward.substack.com il 29 giugno 2022.
Ghislaine Maxwell è destinata a conoscere il suo destino questa mattina. Se tutto andrà secondo i piani, sarà condannata per tre dei capi di imputazione per cui è stata dichiarata colpevole: traffico sessuale, cospirazione e trasporto di minore con l'intento di impegnarlo in attività sessuale illegale. Il governo ha chiesto una condanna non inferiore a 30 anni. Se il giudice Nathan sceglie di concederlo, significherà che Maxwell probabilmente trascorrerà il resto della sua vita naturale in prigione (Maxwell è stata condannata a 20 anni, ndr).
Una volta condannata, Maxwell sarà l'unica persona formalmente tenuta a rendere conto dei crimini perpetuati, sì da lei, ma anche da Jeffrey Epstein.
Maxwell è stata dichiarata colpevole di aver commesso questi crimini e dovrebbe senza dubbio pagarne il prezzo. Ma - ed è un "ma" che hanno sottolineato anche gli avvocati di alcune delle sue vittime - non ha agito da sola. Anche le accuse stesse implicano il coinvolgimento di altre persone: i minori sono oggetto di traffico sessuale per qualcuno. La tratta richiede il coinvolgimento di un'altra persona: la persona verso la quale il minore è trafficato.
Durante il processo lo scorso inverno, i nomi di molti uomini ricchi e potenti hanno fatto cameo nell'aula del tribunale - gli uomini che hanno volato sugli aerei di Epstein, gli uomini che hanno pagato profumatamente Epstein per la sua misteriosa magia finanziaria - ma quegli uomini sono in gran parte sfocati sullo sfondo. Cosa stavano facendo gli uomini sull'aereo di Epstein e sull'isola di Epstein? Cosa sa Darren Indyke, l'avvocato di lunga data di Epstein, delle attività del suo cliente? Lo scopriremo mai? E se no, perché no? Quali sono le falle nel nostro sistema legale che consentono un tale silenzio? Dovremmo spingere per quelle risposte, quella responsabilità.
Il ricco branco di uomini che giravano intorno a Epstein, alcuni anche dopo che era un noto molestatore sessuale, sono tornati alle loro vite, senza domande (per quanto ne sappiamo) da parte dei pubblici ministeri.
Certo, abbiamo visto increspature di ripercussioni. Joi Ito ha perso il lavoro al MIT Media Lab per aver preso soldi da Epstein, un sedicente "errore di giudizio". Bill Gates alla fine si è fatto avanti e ha ammesso che la sua associazione con Epstein è stata "un enorme errore"; secondo quanto riferito, ha giocato un ruolo importante nel suo divorzio. Il principe Andrew ha pagato un accordo alla sua accusatrice Virginia Roberts Guiffre ed è stato privato del suo titolo reale.
Ma nel contesto dei crimini più grandi, tutti questi sembrano prezzi irrisori da pagare.
C'era un'intera cerchia di potere maschile che circondava Jeffrey Epstein. Proprio questo fine settimana, ho appreso da qualcuno a cui ho promesso l'anonimato che lo stesso gioco continua a ritmo sostenuto. Mi è stato detto che, durante il Festival di Cannes di quest'anno, sono stati scambiati 10.000 dollari in contanti per trasportare 20 modelle (di età sconosciute) da Milano alla Costa Azzurra.
Il traffico di femmine umane è ancora un affare redditizio. Ed è gestito da uomini. È stata questa rete a permettere l'intera impresa di traffico sessuale di Epstein. Senza questi uomini, Jeffrey Epstein non sarebbe stato sostenuto per gestire la sua impresa sessuale criminale.
Jeffrey Epstein potrebbe essere morto, ma la struttura di potere che gli ha permesso di resistere, anche tre anni dopo la sua morte, non lo è.
Il punto del potere patriarcale basato sulla ricchezza è che è complicato. Alcune volte è visibile e altre no, e qui sta la difficoltà di affrontarlo. Ma questo è il punto di forza: se ce l'hai, sai come nasconderti da problemi. Gli anelli più deboli sono i capri espiatori.
Durante il mio resoconto su questo caso, ho sentito più e più volte che Epstein ha filmato le persone potenti che sono entrate nella sua orbita.
«Ci sono molte storie di persone che conosco e di cui mi fido che hanno detto di aver visto le fotografie che Jeffrey aveva di persone potenti con giovani donne», mi ha detto il giornalista investigativo Ed Epstein (nessuna relazione).
Gli accusatori di Epstein hanno anche detto che le ha riprese in video. Una ha affermato che Epstein teneva dei dossier su di loro per tenerli in riga e che c'era una stanza nella sua villa nell'Upper East Side che era "piena di schermi". Cosa è successo a quei filmati rimane una delle più grandi domande di questo caso: dove sono?
Questa è, in fondo, una storia di uomini molto, molto ricchi che si coprono l'un l'altro. E chissà cosa stanno coprendo esattamente? La loro reputazione e la loro stessa vita dipendono dalla verità che non viene mai svelata.
Quindi, ricordalo mentre Ghislaine Maxwell va giù. Sta andando giù per se stessa, sì. Ma sta anche andando giù per loro. E, beh, questo è un problema.
L'ex ereditiera britannica. Caso Epstein, Ghislaine Maxwell condannata a 20 anni: “Reclutava e plasmava minori affinché fossero abusate”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Giugno 2022
È stata condannata a 20 anni di carcere Ghislaine Maxwell. L’ex compagna del finanziere Jeffrey Epstein, morto suicida in un carcere di Manhattan nel 2019 mentre attendeva il processo per la sua vicenda, era stata ritenuta colpevole sei mesi fa da una giuria di New York di aver “reclutato, plasmato e addestrato” minorenni, tra il 1994 e il 2004, affinché fossero abusate dal finanziere e da altri ospiti della coppia. “È il più grande rammarico della mia vita aver conosciuto Epstein”, ha detto la donna in aula, in uniforme carceraria blu e caviglie incatenate, prima della lettura della sentenza.
L’accusa aveva chiesto una condanna tra i 30 e i 55 anni. Per la condotta “scandalosamente predatoria” e lo “spietato disprezzo per gli altri esseri umani”. I pubblici ministeri avevano descritto Maxwell nella requisitoria come “una criminale calcolatrice, sofisticata e pericolosa che predava ragazzine vulnerabili e le istruiva per gli abusi sessuali”. Le vittime degli adescamenti erano infatti in genere minorenni povere e con storie difficili alle spalle. La donna è stata condannata infine dalla giudice di New York Alison Nathan a vent’anni, il massimo previsto dalle linee guida della Giustizia americana.
Maxwell, 60 anni, ha descritto il suo ex fidanzato come un “uomo manipolativo, furbo e padrone di sé” che ha ingannato tutti nella sua orbita, e si è detta “dispiaciuta” per il dolore che le sue vittime hanno subito. Presenti in aula anche Annie Farmer e un’altra donna nota come “Kate”, due delle quattro accusatrici di Maxwell. I loro racconti hanno inchiodato la donna. La difesa aveva chiesto una pena massima di cinque anni per l’assistita sostenendo che la donna è il capro espiatorio dei crimini di Epstein e invocando la sua infanzia “difficile, traumatica, con un padre prepotente, narcisista ed esigente”.
I reati sessuali contestati erano in tutto sei, tra cui traffico sessuale di minorenni e abusi. Maxwell è figlia del magnate dell’editoria Robert Maxwell. È da due anni in carcere. Da domenica scorsa è sorvegliata speciale in quanto si teme il suicidio anche se una perizia psichiatrica ha escluso la tendenza al gesto estremo. Anche Virginia Giuffre ha accusato Maxwell di averla abusata sistematicamente, “mi aveva ingaggiata, spiegato cosa fare, addestrata a diventare una schiava sessuale”. La 38enne è la stessa donna che ha costretto il principe Andrea a pattuire un accordo dopo aver raccontato di esser stata vittima di una violenza sessuale quando aveva 17 anni. Un caso che ha imbarazzato non poco la Casa Reale britannica.
Il caso Epstein è stato tra i più scandalosi esplosi negli ultimi anni. È esploso in faccia alle alte società di Stati Uniti e Regno Unito. Ghislaine era figlia della storica francese Elisabeth Meynard e dell’editore britannico Robert Maxwell, ultima di nove figli, amica di Bill Clinton e Donald Trump tra gli altri. Dopo aver lavorato da giornalista ed esser diventata regina delle socialite londinesi si era trasferita a New York, in seguito alla misteriosa morte del padre al largo delle Canarie, dove aveva incontrato Epstein. La coppia vantava contatti e amicizie nel jet set americano. Anche dopo la fine della storia d’amore tra i due Maxwell ed Epstein avevano continuato nelle loro attività criminali.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Dagotraduzione dal Daily Mail l'8 giugno 2022.
Cosa si nasconde dietro al suicidio di Mark Middleton? L’uomo è stato uno degli assistenti e consiglieri di Bill Clinton durante la sua presidenza, ed è stato lui a far entrare più volte Jeffrey Epstein alla Casa Bianca. Middleton è morto a 59 anni, il 7 maggio, ma sul suicidio, oltre alla comunicazione della famiglia, ci sono poche altre informazioni. Si sa che l’uomo si è ammazzato con un colpo di pistola in un ranch di proprietà di un’organizzazione no-profit vicino alla sua casa a Perryville, in Arkansas. Non si conoscono le ragioni per cui si trovasse lì.
I familiari infatti hanno chiesto a un giudice di impedire che le immagini della morte di Middleton fossero rese pubbliche, lo sceriffo della contea di Perry, Scott Montgomery, ha deciso di conseguenza di non rilasciare alcun dettaglio sul suicidio dell’uomo. «L'inchiesta è ancora aperta. Non posso dire altro», ha detto al Daily Mail.
Prima di ricevere l’ordine restrittivo, lo sceriffo aveva però raccontanto che Middleton era stato trovato appeso a un albero con un colpo di fucile al petto. Secondo quanto riferito, ha usato una prolunga come cappio, si è appeso all’albero aiutandosi con un tavolo, e si è sparato. Gli investigatori credono che volesse essere sicuro di portare a termine il suicidio anche nel caso il fucile non avesse funzionato.
Sposato, padre di due figli, Middleton gestiva una rivendita di condizionatori. Non ha lasciato nessun biglietto, anche se alla famiglia aveva detto di sentirti «depresso». Middleton non è il primo ex collaboratore di Clinton o della first lady a morire precocemente, tanto che il fenomeno ha portato a una teoria del complotto chiamata “Clinton Body Count” con tanto di pagina su Wikipedia.
Alla fine dello scorso anno il Daily Mail aveva rivelato in esclusiva che Middleton era stato uno dei consiglieri di Clinton che aveva permesso ad Epstein di entrare alla Casa Bianca durante i primi anni in carica del presidente.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 9 giugno 2022.
Virginia Roberts Giuffre, la donna che ha accusato il principe Andrea di aver abusato di lei patteggiando poi un risarcimento da 12 milioni di dollari, è stata accusata a sua volta di abusi sessuali. A puntare il dito contro di lei è Rina Oh, un’altra delle presunte vittime del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein.
Oh, 43 anni, ha citato in giudizio Giuffre negli Stati Uniti sostenendo di essere rimasta «agghiacciata» quando nel 2001 la donna l’ha «toccata senza consenso». Il presunto incidente avrebbe avuto luogo della sala massaggi della casa di Manhattan di Jeffrey Epstein ed è stato reso pubblico durante una causa per diffamazione tra le due donne.
Negli atti giudiziari depositati, i legali di Oh hanno scritto che «è rimasta sorpresa quando è stata chiamata nella sala massaggi per incontrare Epstein e ha trovato sia lui che Giuffre ad aspettarla. Giuffre ha quindi provveduto a toccarla senza il suo consenso e con suo grande orrore. Oh non ha ricambiato né toccato sessualmente Giuffre».
Oh ha poi raccontato al New York Post: «Sono andata nella sala massaggi e Giuffre mi ha toccata senza il mio consenso. Mi ha abusata sessualmente. Ero lì, agghiacciata. Non mi sono mossa. Ero scioccata. Mi sentivo mortificata e a disagio». L'avvocato di Giuffre, Kat Thomas, ha risposto al New York Post che «le accuse di aggressione sessuale contro la signora Giuffre non sono vere».
La disputa legale tra le due donne è iniziata quando Oh ha intentato una causa per diffamazione contro Giuffre perché quest'ultima aveva twittato che Oh «si è procurata e ha preso parte agli abusi sui minori» con Epstein. Oh ha chiesto 10 milioni di dollari di danni.
Giuffre ha ribattuto affermando di essere stata «vittima del gioco sessuale sadomaso e dell'abuso fisico perpetrato contro di lei da Oh durante le sessioni sadomaso, tra cui tagli e altre lesioni fisiche».
Oh ha negato le accuse: «Non le ho mai fatto tagli sulla gamba. Non l'ho mai toccata. Non ho mai sentito di nessuno che facesse qualcosa del genere durante il mio coinvolgimento con Jeffrey Epstein. Non sono quel tipo di persona. Ho paura degli aghi e svengo quando mi viene prelevato il sangue».
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2022.
Il 7 maggio scorso Mark Middleton, 59 anni, ex consigliere di Bill Clinton, è stato trovato appeso a un albero, con il petto trapassato da un proiettile. «Suicidio», è il responso delle prime indagini condotte dallo Sceriffo della Contea di Perry, in Arkansas. Anche se sono in corso «ulteriori accertamenti» per chiarire ogni dettaglio.
Middleton era stato l'assistente del capo dello staff di Bill Clinton dal 1993 al 1995 e in quegli anni avrebbe tenuto i collegamenti con Jeffrey Epstein. Il finanziere-pedofilo sarebbe entrato 17 volte nella Casa Bianca; sette grazie all'intervento di Middleton. Ma il tabloid britannico Daily Mail collega anche la morte di Middleton con altri 23 casi di «gente morta giovane», dopo aver in qualche modo incrociato i Clinton.
Nel gruppo c'è di tutto: Judy Gibbs, 32 anni, un'ex modella che avrebbe avuto una relazione con Bill; Victor Raiser, 53 anni, tesoriere della campagna elettorale di Clinton, morto in un incidente aereo; Paul Tully, 48 anni, stratega democratico, deceduto in seguito a «un apparente infarto». L'ultimo della fila è proprio Epstein, suicidatosi il 10 agosto 2019 nel carcere di Manhattan. La catena non sarebbe casuale, secondo una delle tante teorie cospirative che affliggono l'America.
Questa si chiama «Clinton Body Count» e viene rilanciata, tra gli altri, dalla deputata repubblicana Marjorie Taylor Green, dall'editore del sito dell'ultradestra Newsmax, Christopher Ruddy e, fino al 2016 anche da Donald Trump. Bill era un frequentatore abbastanza assiduo del giro di Epstein e della sua complice-fidanzata Ghislaine Maxwell che organizzavano festini e «massaggi» speciali per gli ospiti.
L'ex presidente era salito diverse volte a bordo del «Lolita Express», il jet privato dell'uomo d'affari. Talvolta anche con Middleton. Ma il punto ora è: esiste un collegamento tra il suicidio di Middleton e le turbolenze clintoniane di trent'anni fa? Il Daily Mail e i «cospiratori» seminano dubbi, sospetti. Ma senza esibire alcuna prova.
Il 23 maggio la famiglia di Middleton, che era sposato e aveva due figlie, ha chiesto alla Corte di Perry County di non consegnare al quotidiano «video o immagini sulla scena del suicido». Richiesta accolta. Ma le speculazioni continuano. Mark si è tolto la vita nell'Heifer Ranch a Perryville, 45 chilometri da casa sua. Sarebbe salito su un tavolo, legandosi una corda intorno al collo e poi si sarebbe sparato nel petto.
Non ha lasciato neanche un biglietto per la moglie e le figlie. L'uomo era da tempo depresso e nell'annuncio funebre la sua famiglia invita a fare una donazione alla «Navigate Counseling e Wellness», un'organizzazione cristiana dell'Arkansas che assiste anche le persone con disturbi mentali.
I sospetti sul suicidio dell’ex consigliere di Clinton: «Fu lui ad aprire ad Epstein le porte della Casa Bianca». Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.
Mark Middleton, ex consigliere di Bill Clinton, si è tolto la vita lo scorso 7 maggio a 59 anni: durante il periodo del suo incarico alla Casa Bianca fu lui a tenere i collegamenti con il finanziere pedofilo. E sulla sua morte ora fioriscono le teorie del complotto.
Il 7 maggio scorso Mark Middleton, 59 anni, ex consigliere di Bill Clinton, è stato trovato appeso a un albero, con il petto trapassato da un proiettile.
«Suicidio», è il risultato delle prime indagini condotte dallo Sceriffo della Contea di Perry, in Arkansas. Anche se sono in corso «ulteriori accertamenti» per chiarire ogni dettaglio.
Middleton era stato l’assistente del capo dello staff di Bill Clinton dal 1993 al 1995 e in quegli anni avrebbe tenuto i collegamenti con Jeffrey Epstein.
Il finanziere-pedofilo sarebbe entrato 17 volte nella Casa Bianca; sette grazie all’intervento di Middleton.
Ma il «Daily Mail» collega anche la morte di Middleton con altri 23 casi di «gente morta giovane», dopo aver in qualche modo incrociato Bill e Hillary. Nel gruppo c’è di tutto: Judy Gibbs, 32 anni, un’ex modella che avrebbe avuto una relazione con Bill; Victor Raiser, 53 anni, tesoriere della campagna elettorale di Clinton, morto in un incidente aereo; Paul Tully, 48 anni, stratega democratico, deceduto in seguito a «un apparente infarto». E altri ancora. L’ultimo della fila è proprio Epstein, suicidatosi il 10 agosto 2019 nel carcere di Manhattan.
Tutte queste morti non sarebbero casuali, secondo una delle tante teorie cospirative che affliggono l’America. Questa si chiama «Clinton Body Count» ed è diffusa, tra gli altri, dalla deputata repubblicana Marjorie Taylor Green, dall’editore del sito dell’ultradestra «Newsmax», Christopher Ruddy e, fino al 2016 anche da Donald Trump.
In ogni caso la vicenda chiama in causa, ancora una volta, la stagione clintoniana, spesso offuscata da rapporti ambigui e da scandali di piccolo cabotaggio.
Bill era un frequentatore abbastanza assiduo del giro di Epstein e della sua socia-complice-fidanzata Ghislaine Maxwell. L’ex presidente era salito diverse volte a bordo del «Lolita Express», il jet privato dell’uomo d’affari. Era stato suo ospite anche nella sua isola privata, Little St. James, nelle Virgin Islands ai Caraibi.
I magistrati hanno spiegato come Jeffrey e Ghislaine organizzassero festini e sedute di «massaggi» speciali anche per i loro illustri ospiti (qui la foto di Clinton con l’accusatrice di Epstein, emersa nel 2020 sempre sul Daily Mail).
A quanto risulta anche Middleton avrebbe fatto parte della compagnia del «Lolita Express». Lo stesso Donald Trump aveva conosciuto Epstein nei locali notturni di New York tra gli Ottanta e i Novanta. Ma il punto ora è: esiste un collegamento tra il suicidio di Middleton e le turbolenze clintoniane di trent’anni fa?
Il «Daily Mail» e la frangia dei cospiratori repubblicani seminano dubbi, sempre attenti, però, a non superare il confine della pura insinuazione. È un copione che abbiamo già visto nel 2016, quando alcuni siti fabbricarono la teoria del «Pizzagate»: Hillary gestiva addirittura un network di pedofili in un ristorante di Washington. Una stupidaggine, che però spinse un uomo a presentarsi armato di fucile nella pizzeria, «per fare giustizia». Qui c’è dell’altro.
Il 23 maggio la famiglia di Middleton, sposato, due figlie, ha depositato un esposto alla Corte di Perry County, chiedendo ai magistrati di non diffondere «video, immagini e altri documenti relativi al suicidio di Mark». Il «Daily Mail» aveva, a sua volta, chiesto allo sceriffo quelle immagini in esclusiva, appellandosi al «Freedom of Information Act». In ogni caso la Corte ha accolto la richiesta dei Middleton. Una decisione in linea con le regole deontologiche che impongono il rispetto per i famigliari di un suicida. Tuttavia le indiscrezioni, le speculazioni continuano a fluire.
Mark si è tolto la vita nel boschetto dell’Heifer Ranch a Perryville, 45 chilometri da casa sua. Sarebbe salito su un tavolo, legandosi una corda intorno al collo e poi si sarebbe sparato nel petto. Non ha lasciato neanche un biglietto per la moglie e le figlie. L’uomo era da tempo depresso e nell’annuncio funebre la sua famiglia invita a non comprare fiori, ma a fare una donazione alla «Navigate Counseling e Wellness», un’organizzazione non profit cristiana dell’Arkansas che assiste anche le persone con disturbi mentali.
DAGONEWS l'11 aprile 2022.
Jeffrey Epstein parlava alle spalle del principe Andrea definendolo "un idiota", ma voleva sfruttare lo status del duca per il proprio guadagno.
A rivelarlo è la biografa reale Tina Brown, che è stata direttrice di “Vanity Fair” negli anni '90 ed è passata alla redazione del “Daily Beast” fino al 2013, e che ora è pronta a scodellare il prossimo libro “The Palace Papers”.
In un estratto del suo libro condiviso con “The Telegraph”, Brown ha ricordato come Epstein ritenesse che un «senior royal, anche se non con un’immagine specchiata, è sempre una potente calamita all'estero» ritenendo Andrew «utile». Ha affermato che in cambio, Esptein ha fatto sentire Andrea "attraente sessualmente".
L’obiettivo di Epstein era portare Andrea a incontrare loschi personaggi della finanza che a quel punto si sarebbero potuti vantare di essere "consiglieri per gli investimenti" di Sua Altezza Reale. Avrebbe quindi negoziato accordi per il suo guadagno personale.
Brown ha detto che Epstein sapeva quali tasti premere per irretire il principe Andrea che si sentiva sempre in secondo piano rispetto a Carlo e poteva fare affidamento su sua madre per finanziare il suo stile di vita.
L'autore e giornalista ha anche affermato che Andrea è stato fatto sentire importante da Epstein grazie a “gli affari, le ragazze, l'aereo, lo scintillante mondo di New York, dove non era visto come un uomo adulto ancora dipendente da sua madre”.
Brown ha descritto Andrea come un adolescente ossessionato dal sesso e ha affermato che una fonte le ha detto che il duca di York ha fatto disgustare la moglie dell'ambasciatore degli Stati Uniti nel Regno Unito Walter Annenberg quando ha trascorso due giorni a guardare porno via cavo mentre visitava la loro tenuta californiana nel 1993.
DAGONEWS il 12 aprile 2022.
A 10 anni Ghislaine Maxwell avrebbe raccontato ad alcuni ospiti della sua casa che il padre la picchiava con gli oggetti, ma che le lasciava la possibilità di scegliere con che cosa voleva essere colpita.
Le accuse di abusi sulla bimba da parte del padre Robert Maxwell sono contenute nel libro "The Palace Papers" di Tina Brown di cui il “Daily Telegraph” ha pubblicato alcuni estratti.
Il libro esplora anche come l'educazione di Maxwell come figlia del magnate dei media e truffatore Robert Maxwell abbia contribuito a plasmare la relazione contorta con il predatore sessuale Jeffrey Epstein. Il racconto degli abusi è attribuito a un’ereditiera che frequentava casa Maxwell e conosceva Ghislaine da bambina.
«(Eleanor) Berry ha notato una spazzola per capelli dalla forma strana, una cinghia, una pantofola e altri attrezzi disposti sul tavolo della camera della bambina. A quel punto Ghislaine ha detto, piuttosto orgogliosa, "Questo è ciò con cui papà mi picchia, ma mi permette sempre di scegliere con quale oggetto voglio essere colpita”». A quel punto Brown commenta: «Nella sadica offerta del padre di procurarsi in sostanza del dolore, si può capire meglio come Ghislaine sia caduta sotto l'incantesimo di un uomo come Epstein».
Il libro di Brown descrive come Maxwell, che iniziò a frequentare il multimilionario Epstein quando aveva 30 anni dopo essersi trasferita a New York City, fosse "follemente innamorata" del pedofilo. «La loro relazione è diventata rapidamente transazionale: Epstein ha fatto i soldi e Ghislaine ha fatto le presentazioni. Incapace di catalizzare la sua attenzione sessuale, ha trovato un modo per tenerlo al suo fianco reclutando “nubili” (come le chiamava lei) per soddisfare i suoi insaziabili bisogni».
Ora Ghislaine Maxwell è in attesa della sentenza: il 29 dicembre scorso è stata condannata per aver favorito il traffico sessuale di Epstein dal 1994 al 2002. Nell’udienza di giugno rischia fino a 65 anni di prigione.
Dagotraduzione dal Daily Mail l'1 aprile 2022.
Una delle vittime di Jeffrey Epstein ha parlato per la prima volta in un documentario della Bbc, descrivendo come è stata attirata nella sua isola privata e poi violentata per almeno tre volte al giorno.
Juliette Bryant, di Cape Town, in Sudafrica, era un’aspirante modella di 20 anni quando è stata presentata per la prima volta al miliardario. «Sei la donna più bella che ho mai visto» gli ha detto Epstein, promettendole di portarla a New York per lanciare la sua carriera.
Invece il miliardario l’ha fatta salire sul suo jet privato dove è stata portata in un’isola caraibica e lì è rimasta intrappolata nell’operazione di traffico sessuale “gestita” da Epstein e Ghislaine Maxwell.
Parlando nella serie della BBC2 “House of Maxwell”, in anteprima lunedì sera, Juliette ha raccontato di come ha visto altre vittime compiere atti sessuali su Epstein ed è stata aggredita sessualmente dal predatore in diverse occasioni in quasi due anni. Stima di aver visto 60 ragazze e donne nel periodo in cui è rimasta lì.
«Lì sono successe cose che mi hanno spaventato così profondamente che non riesco nemmeno a parlarne», dice. «Si nutriva del terrore, c'era qualcosa nell'energia di una ragazza spaventata che gli piaceva». Ha condiviso anche foto inedite che ha scattato sull'isola di Epstein, tra cui una di Maxwell e una di un'opera d'arte raffigurante una donna violentata da un mostro marino.
Juliette, che nel 2019 ha intentato una causa contro l'eredità di Epstein sostenendo che l'ex finanziere l'aveva violentata ripetutamente numerose volte, ha spiegato che lei e altre vittime avevano avuto troppa paura per parlare perché Epstein aveva minacciato lei e la sua famiglia.
«Era proprio come una fabbrica», dice. «Stava facendo funzionare una macchina e Ghislaine Maxwell era quella che la faceva funzionare. La gente mi chiede perché sono tornata. Nessuno ha disobbedito a Epstein».
Ora, tuttavia, vuole far luce sugli abusi a cui ha assistito, e per perpetrare i quali Epstein e Maxwell hanno dovuto coordinare per anni i visti e i piani di viaggio per dozzine di ragazze e donne di tutto il mondo.
«Volevo semplicemente stare tranquilla e vivere la mia vita e dimenticarmi di tutto. Ma poi non sono riuscita a dimenticarlo», dice.
«Sono stanca di vergognarmi quando in realtà non ho fatto niente di male e so di essere uno delle fortunate, so che altre persone hanno avuto molto peggio ed è per questo che voglio parlare, per le persone che non posso più parlare».
House of Maxwell della BBC Two mostra come Ghislaine Maxwell sia passata dall’essere la figlia di un multimilionario a una donna condannata per adescamento e traffico di ragazze minorenni.
Il calvario di Juliette è iniziato nel 2002 quando Juliette è stata avvicinata da una "bella" ragazza americana che le chiedeva se fosse una modella e se volesse incontrare la sua "amica", che secondo lei aveva legami con Victoria's Secret.
«Ero solo una giovane ragazza con speranze e sogni e pensavo di poter davvero fare qualcosa della mia vita, una sorta di carriera da modella», ha detto.
Subito dopo ha presentato il suo portfolio da modella a Epstein in una stanza d'albergo, e lui le ha detto che aveva «la figura più straordinaria che abbia mai visto in vita mia».
Epstein le ha detto di volerla portare a New York per lanciare la sua carriera di modella, offrendole di pagare il visto e il biglietto. «Pensavo che sarebbe stata l'opportunità più incredibile della mia vita», ricorda Juliette.
Ma invece di volare negli Stati Uniti, l'ufficio di Epstein ha telefonato a Juliette e le ha detto che sarebbe volata sull'isola di Epstein nelle Isole Vergini americane. Ha pensato che lo scopo del viaggio fosse un servizio fotografico e «ho detto subito di sì».
Juliette ricorda di essere rimasta sbalordita dalla bellezza della famigerata isola di Epstein. Ha scoperto una pila di macchine fotografiche usa e getta scartate che ha usato per scattare fotografie mentre era sull'isola caraibica.
Le fotografie, mostrate per la prima volta nel documentario, includono quelle di lei in posa vicino al molo, le foto del piccolo chalet in cui alloggiava vicino al porto e un'opera d'arte inquietante che mostra una creatura marina deforme che si arrampica sopra una giovane donna nuda.
«Era una ragazza nuda e c'era come un grande tricheco, sembrava che il tricheco stesse cercando di violentarla, era un'immagine molto inquietante. Non ho mai visto una foto del genere», dice.
Altre immagini mostrano Juliette con una telecamera all'interno della casa sull'isola di Epstein, Maxwell che mangia un pasto su un tavolo e la camera da letto di Epstein che includeva un letto a baldacchino con lenzuola bianche e zanzariere. «Aveva un sacco di cose strane in casa sua. C'erano solo foto di ragazze nude ovunque e c'erano anche molte foto di Ghislaine nuda».
Ma poco dopo l'arrivo sull'isola, è diventato chiaro che il servizio fotografico era un miraggio. A Juliette è stato chiesto di guardare un film con Epstein e un'altra ragazza. Con suo orrore, l’altra ragazza ha iniziato a compiere un atto sessuale sul miliardario.
«Ero assolutamente pietrificata», ricorda Juliette. «Ero così giovane, non avevo mai visto niente del genere. Stavo piangendo, sono corsa fuori dalla stanza. Non sapevo cosa fare. Non c'era speranza di scappare. Mi trovavo in un paese straniero senza soldi né cellulare né mezzi di comunicazione».
«Ho capito che ero completamente intrappolata e non c'era niente che potessi fare. Ghislaine guidava le ragazze e ci diceva che quando dovevamo andare nella sua camera da letto, non si poteva dire di no, non c'era alcuna opzione».
Ricorda la sua camera da letto come "nera e ghiacciata" e dice di essersi dissociata dal suo corpo mentre lui l'aggrediva sessualmente.
«Ho controllato il mio corpo e gli ho lasciato fare quello che voleva perché non sapevo cos'altro fare», ricorda Juliette. «Ho cercato di scappare nella mia mente, ho cercato di fingere che non stesse succedendo. Lì sono successe cose che mi hanno spaventato così profondamente che non riesco nemmeno a parlarne».
«Si nutriva del terrore, c'era qualcosa nell'energia di una ragazza spaventata che gli piaceva». Quando Juliette è stata presentata per la prima volta a Ghislaine, le è stato detto che erano una coppia, ma non è convinta che la loro relazione sia mai stata romantica.
«Il fatto è che non li ho nemmeno visti tenersi per mano o baciarsi una volta», dice. «Non li ho mai visti abbracciarsi. Ad essere onesti, non li ho mai visti avvicinarsi così tanto, quindi sicuramente non è stata una relazione romantica».
Prima di essere rimandata a casa Juliette è stata minacciata da Epstein che le ha raccontato di un'altra ragazza che l'aveva accusato di stupro ed è finita in prigione perché aveva piantato droga nella sua casa. Juliette è stata anche avvertita che la sua famiglia era «su una lista».
«Ho fatto come mi è stato detto», dice. «Ero terrorizzata da lui, da chi era. Sapevo che contrastarlo sarebbe stata una pessima idea». Juliette è stata costretta a tornare sull'isola per vari periodi a intermittenza per quasi due anni.
«Ero così distrutta a quel punto, sono semplicemente andata», dice. «Non mi sono mai più sentita bene dopo, tutto è andato in pezzi, è molto, molto difficile capire che sto ancora cercando di rimettere tutto insieme».
Epstein si è ucciso in prigione nel 2019 in attesa del processo per traffico sessuale.
Maxwell è stata condannata per traffico di ragazze nel dicembre dello scorso anno, ma i suoi avvocati hanno chiesto un nuovo processo dopo che sono emerse informazioni su uno dei giurati.
La produttrice della serie Ceri Isfryn ha detto che Juliette si sentiva pronta a farsi avanti e raccontare la sua storia davanti alla telecamera dopo la morte di Epstein. «Juliette è una donna straordinaria. È una donna indipendente molto forte», ha detto Isfryn prima della premiere del programma.
«Penso che l'arresto di Ghislaine Maxwell l'abbia spronata a sentirsi meno spaventata a parlare senza vergognarsi. Sentiva fortemente di voler parlare per quelle donne, che all'epoca erano alcune ragazze, che oggi non possono».
«Penso che l'altra cosa che sentiva di voler trasmettere fosse la complessità di questa operazione di traffico sessuale», viaggiare.
GIALLO EPSTEIN. “SUICIDA” A PARIGI IL SUPERTESTE BRUNEL. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 20 Febbraio 2022
Giallo Epstein sempre più bollente.
Il 19 febbraio si è “suicidato” nella sua cella de ‘La Santè’, a Parigi, Jean-Luc Brunel, uno dei più stretti collaboratori del finanziere e procacciatore di minorenni per super vip Geffrey Epstein, che a sua volta si era “suicidato” ad agosto 2019 nel ‘Metropolitan Correctional Center’ di New York.
Arrestato per stupro a dicembre 2020, Brunel era stato scarcerato nel 2021, per poi essere ri-arrestato e ri-sbattuto in galera pochi mesi fa.
Avrebbe dovuto testimoniare tra pochi giorni al maxi processo che fa tremare persino la Casa Bianca e la Buckingam Palace.
In particolare, Brunel avrebbe potuto fornire ulteriori dettagli sulle vicende dell’ormai mitico ‘Lolita Express’, il lussuoso Boeing a bordo del quale il miliardario accoglieva i suoi ospiti chic per condurli, in compagnia di graziose minorenni, nei paradisi tropicali, a godersi un meritato long week end.
Tra i più assidui, il neofilantropo Bill Gates, il principe Andrea d’Inghilterra e Bill Clinton, il vero recordman, avendo totalizzato la bellezza di 27 voli.
Brunel ha guidato per anni l’agenzia ‘Karim Models’ ed ha fondato la ‘MC2 Model Management’, una corazzata del settore con uffici a New York, Miami e Tel Aviv.
E secondo non pochi ‘esperti’, proprio a Tel Aviv portano parecchi misteri & segreti del giallo. In un suo recente reportage, ‘la Voce di New York’ parla di una ‘pista israeliana’ che corre lungo il copione del thriller.
Ed è soprattutto un ex 007 del Mossad, autore di “Epstein – Dead Man Tell No Tales”, a fornire una serie di tessere non da poco per ricostruire l’intero mosaico.
Si tratta di Ari Ben-Menashe, tra i ranghi dell’intelligence israeliana nel decennio 1977-1987, poi finito nell’ombra. Nel suo libro descrive per filo e per segno la “Honey Trap”, ossia la “Trappola al Miele” accuratamente organizzata da Epstein e dalla sua socia-amante Ghislaine Maxwell: coinvolgere nei loro copioni a base di sesso con minorenni pezzi da novanta dell’establishment, per poi poterli ‘avere in pugno’. E tutto sotto il vigile occhio del Mossad.
Del resto, sia Epstein che Maxwell sono di origine ebraica. E Menashe tratteggia a lungo la figura del padre di Ghislaine, Robert Maxwell, che è stato sia un potente agente dei servizi inglesi che di quelli israeliani.
Racconta che addirittura sarebbe stato Robert Maxwell ad “arruolare” il miliardario americano tra gli agenti coperti del Mossad.
Vero? Falso?
Sta di fatto, comunque, che Robert Maxwell era un pezzo da novanta nella nomenklatura dello Stato d’Israele. Morì nel 1991 in circostanze mai chiarite, fu sepolto a Gerusalemme, sul celebre Monte degli Ulivi. L’elogio funebre venne pronunciato dall’allora presidente della repubblica, Chaim Herzog. Mentre il primo ministro Yitzak Shamir si lasciò sfuggire un più che eloquente: “Ha fatto più cose per Israele di quante se ne possano dire”.
Da rammentare una biografia firmata dal giornalista e scrittore britannico John Preston: “Fall – The Mistery of Robert Maxwell”.
E anche da rammentare l’indirizzo paginino di lady Ghislaine: un lussuosissimo appartamento in Avenue Matignon, angolo Rue Rabelais, dove si trova l’ambasciata israeliana a Parigi.
Dagotraduzione dall’Associated Press l'8 marzo 2022.
Un giudice statunitense è stato incaricato martedì di interrogare uno dei giurati che ha condannato la socialite britannica Ghislaine Maxwell per aver aiutato il milionario Jeffrey Epstein ad abusare sessualmente di ragazze adolescenti.
Gli avvocati di Maxwell affermano che il verdetto dovrebbe essere respinto per l'apparente incapacità del giurato di rivelare prima dell'inizio del processo di essere stato vittima di abusi sessuali durante l'infanzia.
Il giudice statunitense Alison J. Nathan intende chiedere al giurato perché non ha annotato la sua storia personale sul questionario durante il processo di selezione della giuria.
Gli avvocati di Maxwell avrebbero potenzialmente potuto opporsi alla presenza dell'uomo nella giuria sulla base del fatto che lui avrebbe potuto non essere giusto nei confronti di una persona accusata di un crimine simile.
La condanna di Maxwell è prevista per giugno.
Il giurato, identificato nei documenti del tribunale solo come giurato n. 50, ha rilasciato diverse interviste ai media dopo il processo in cui ha rivelato di essere stato abusato. Ha descritto di aver convinto alcuni colleghi giurati durante le deliberazioni che il fatto che una vittima non ricordi perfettamente gli abusi non significa che non siano avvenuti.
A tutti i potenziali giurati nel caso era stato chiesto di compilare un modulo di screening all'inizio di novembre in cui si chiedeva: «Tu o un amico o un familiare siete mai stati vittime di molestie sessuali, abusi sessuali o aggressioni sessuali? (Questo include aggressione sessuale effettiva o tentata o altre avances sessuali indesiderate, anche da parte di un estraneo, conoscente, supervisore, insegnante o familiare)».
Il giurato ha risposto "No".
Il giurato ha detto nelle interviste di aver sfogliato il questionario e di non ricordare che gli era stata posta quella domanda, che era la n. 48 sul modulo.
I pubblici ministeri hanno detto che si aspettano di offrire l'immunità al giurato in cambio della sua testimonianza. Il suo avvocato ha detto che il giurato avrebbe invocato il suo privilegio del Quinto Emendamento senza questa garanzia.
Gli avvocati difensori di Maxwell hanno chiesto al giudice di ordinare immediatamente un nuovo processo, ma il giudice ha spiegato che non poteva farlo senza interrogare il giurato.
Nathan ha anche spuntato "No" su sulla domanda: «Tu, o qualcuno dei tuoi parenti o amici intimi, siete mai stati vittime di un crimine?».
Maxwell, 60 anni, è stata condannata per traffico sessuale e altre accuse dopo un processo durato un mese che ha visto la testimonianza di quattro donne. Epstein si è ucciso nell'agosto 2019 mentre attendeva il processo in una prigione federale di New York con l'accusa di traffico sessuale correlato. Maxwell sostiene di essere innocente.
DAGONEWS il 3 marzo 2022.
Melinda Gates ha rivelato che i rapporti dell’ex marito Bill Gates con Jeffrey Epstein hanno avuto un ruolo nel loro divorzio. La 57enne, in una lunga intervista alla Cbs, ha raccontato che ci sono stati “diversi fattori” che l’hanno indotta a staccare la spina al matrimonio dopo 27 anni. E tra questi c’erano gli incontri di Bill con Epstein.
«Non mi piaceva avesse incontri con Jeffrey Epstein» ha detto Melinda sottolineando che il marito avesse comunque continuato ad averci rapporti nonostante le sue proteste: «All’epoca gli dissi cosa pensavo di lui». Poi rivela di aver incontrato Epstein in un’occasione: «Volevo vedere chi fosse quell’uomo. Me ne sono pentita nel momento in cui ha varcato la soglia. Era ripugnante. Era il male fatto persona. Dopo l’incontro ho avuto gli incubi. Ho il cuore a pezzi per quelle donne».
In passato Gates aveva fatto sapere di aver fatto un “errore enorme” ad aver incontrato più volte Epstein. A destare scandalo era stata la foto dei due insieme a casa di Epstein nel 2011, dopo che il finanziere era stato condannato per crimini sessuali.
Da corriere.it il 19 febbraio 2022.
L’ex agente di modelle francese Jean-Luc Brunel, vicino al defunto miliardario americano Jeffrey Epstein e sospettato di avergli procurato giovanissime vittime, è stato trovato morto impiccato nella notte tra venerdì e sabato nella sua cella nel carcere de La Sante’. Lo ha reso noto l’Afp, citando fonti informate.
La procura di Parigi ha confermato che l’uomo, incriminato per diversi stupri di minorenni, è stato trovato morto e ha indicato che è stata avviata un’indagine sulle cause della morte. Era stato arrestato nel dicembre 2020 dopo che diverse modelle lo avevano accusato di violenze sessuali ed era stato incriminato a fine giugno 2021 per «stupro di minore di 15 anni», accuse che lui respingeva.
La sua agenzia MC2 (finanziata dall’amico Epstein almeno fin dal 2003) reclutava modelle da tutto il mondo, procurando loro appuntamenti, permessi di soggiorno e lavori. Tra le sue clienti, qualcuna veniva spesso «distaccata» per servizi a casa di Epstein, vicina alla sede dell’agenzia, stando a quanto contenuto negli atti del processo. Epstein e Brunel facevano ottenere visti e permessi alle ragazze, poi chiedevano loro soldi per l’affitto.
In una comunicazione con Epstein del 2005, Brunel gli lascia un messaggio che recita: «ti ho mandato una maestra di russo che ha 2x8 anni e non è bionda, molto brava. Le lezioni sono gratuite e puoi iniziarle anche subito». Si riferiva, secondo i giudici, a una ragazza russa di 16 anni che intrattenne con entrambi una relazione sessuale.
Si impicca in carcere l'agente delle top model amico di Epstein. Francesco De Remigis su Il Giornale il 20 febbraio 2022.
Da scopritore di talenti della passerella come Christy Turlington, Sharon Stone e Milla Jovovich a orco: fino al suicidio in cella. Su cui indaga ora la procura di Parigi. Perché in quell'incrocio di rapporti altolocati che vedevano ragazze giovanissime ingannate, e ridotte a merce di scambio dal magnate americano Jeffrey Epstein, il francese Jean-Luc Brunel era ben più di un agente di moda. Alti e bassi. Successi e cadute. Poi l'arresto in Francia, nel dicembre 2020. Ultimo indirizzo: prigione parigina de la Santé, dov'era stato riportato dopo una breve scarcerazione.
Era sospettato d'essere un «selezionatore» di minorenni per l'amico americano e per vari partner dell'ex finanziere, trovato a sua volta senza vita in carcere un mese dopo l'arresto. Epilogo simile, ieri, per Brunel: 76enne presunto perno del sistema Epstein. E mina vagante di informazioni. Le guardie del penitenziario hanno prelevato il suo cadavere all'alba: si è impiccato in cella, apparentemente sfruttando il cambio tra due ronde. Come l'uomo che alla sua agenzia di modelle s'era rivolto per anni impunemente; prima che la giustizia americana cominciasse seriamente a occuparsi dei suoi traffici sessuali.
Il procacciatore numero uno sarebbe stato proprio Brunel. Numero due, se si considera il ruolo che nell'intricata vicenda intercontinentale ha avuto Ghislaine Maxwell, l'ex fidanzata di Epstein già condannata da una giuria negli Usa. Ma le autorità francesi ci hanno messo tempo a incastrare Brunel. Era in attesa di processo dopo l'incriminazione per «violenza sessuale su minore di più di 15 anni» e «abusi sessuali». Era anche (e soprattutto) nella posizione giuridica di «testimone assistito» proprio per i reati di «tratta di essere umani aggravata dal danno a vittime minori allo scopo di sfruttamento sessuale».
L'inchiesta lumaca, poi l'accelerazione improvvisa. Da quando Brunel fu fermato all'aeroporto Charles De Gaulle in un blitz rocambolesco mentre stava per imbarcarsi per il Senegal a fine 2020, tentando forse la fuga, il cerchio si è allargato molto: fino alla casa reale inglese, per poi tornare bruscamente a Parigi.
Modelle di varie nazionalità muovevano da anni accuse contro Epstein & Co., ma il puzzle era (ed è ancora) un difficile intreccio tra manager, politici e quel sottobosco di agenzie di moda che gestivano una sottile forma di prostituzione per clientele selezionate. La tratta di esseri umani mascherata da recruiting di modelle Made in France sembra uno yo-yo. Dopo l'arresto di Epstein a New York nel 2019, cade la tegola sulla famiglia reale inglese, con il secondogenito di Elisabetta II d'Inghilterra, il principe Andrea, che ha appena raggiunto un accordo extragiudiziale nella causa civile intentata negli Stati Uniti da Virginia Giuffre: la donna accusa il principe di averla abusata quando lei era minorenne, e infine afferma d'essere stata costretta a far sesso anche con Brunel. Non è la sola.
L'indagine di Parigi, dove Epstein era proprietario di un lussuoso appartamento considerato l'epicentro degli scambi, parte da tre donne: abusi, stupri, droghe nei drink. Via via, la catena dei j'accuse tocca quindi Brunel, con almeno tre citazioni, tra cui quella dell'ex modella olandese Thysia Huisman che sostiene d'essere stata pure drogata nel '91: «Mi ha strappato i vestiti. Poi il buio. Mi sono risvegliata nel suo letto completamente disorientata».
Il caso Epstein deflagra. Prosegue sull'onda del movimento #MeToo e giunge a Brunel. Che per gli avvocati è stato invece «schiacciato da un sistema mediatico-giudiziario sul quale sarebbe ora di interrogarsi». Non ha mai smesso di dirsi innocente. «Ha moltiplicato gli sforzi per dimostrarlo», insistono i legali del francese, che ora seguono l'indagine aperta da Parigi per la morte-fotocopia. Ma chi era, questo ricco manager che ha iniziato la carriera come addetto stampa negli Anni '70? Scopritore di modelle per la Karin Models a Parigi, di cui assunse la direzione nel '78, la sua celebrità dura pochissimo in Francia, offuscata già allora dal coinvolgimento in un giro di stupefacenti e abusi dentro la sua stessa agenzia. Ripara negli States per lanciare MC2 Model Management. Ottiene finanziamenti da Epstein. Da agente di moda a presunto «bagarino» di giovanissime donne? Possibile, secondo le voci che a Parigi lo dipingono da anni come un pericoloso deviato. Ma il giallo resta in piedi. Epstein fu lasciato in cella senza controlli per ore. Ora le ombre sulla morte di Brunel.
(ANSA il 2 aprile 2022) - Respingendo la richiesta di un nuovo processo, un giudice federale ha confermato la condanna di Ghislaine Maxwell per traffico sessuale di minorenni - insieme al suo defunto ex fidanzato Jeffrey Epsetein - stabilendo che la mancata dichiarazione da parte di un giurato di essere stato vittima di abusi e' stato un errore involontario che non pregiudica la decisione finale.
La 'socialite' britannica aveva chiesto l'annullamento del processo ritenendolo inficiato dal fatto che uno dei giurati non aveva indicato nel questionario preliminare che aveva subito violenze sessuali e ne avrebbe parlato in camera di consiglio condizionando gli altri membri della giuria. Interrogato dopo il processo, il giurato in questione ha ammesso di essere stato abusato da bambino e di non averlo segnalato nel questionario per distrazione, aggiungendo che comunque il suo passato non ha plasmato la sua visione o influenzato il suo approccio al caso. Nelle 40 pagine di sentenza, la giudice Alison Nathan scrive che "la carenza di attenzione e cura nel rispondere accuratamente ad ogni domanda del questionario e' spiacevole ma la corte confida che l'omissione non sia deliberata".
Parla la donna che può inchiodare Clinton: "Il presidente e Epstein divisero una suite". Mariangela Garofano su Il Giornale.
Le donne che si stanno facendo avanti come vittime del pedofilo Jeffrey Epstein aumentano sempre di più. L’ultima a raccontare delle violenze subite dal magnate deceduto nel 2019 è Juliette Bryant, 39enne sudafricana, che ha rivelato al Daily Mail dei suoi incontri “horror” con Epstein. La Bryant, che ha deciso di parlare nel 2019, accusando il finanziere di averla violentata, ha affermato di aver conosciuto il ricco americano a settembre 2002 a Cape Town, mentre era impegnato in un viaggio in Sudafrica con l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. La donna ha rivelato che Epstein e Clinton avrebbero diviso una suite nell’elegante Cape Grace Hotel di Cape Town. Il particolare rivelato dalla Bryant, getta nuove ombre sul rapporto che legava Epstein e l’ex presidente, il quale ha sempre negato di essere stato a conoscenza degli abusi che Epstein commetteva sulle ragazze e che il suo legame con il finanziere era strettamente professionale.
“La sera in cui conobbi Clinton gli diedi la mano e lui la tenne stretta a lungo. Fu come un sogno, fu bizzarro”, ha raccontato la donna, che ha inoltre rimarcato di aver accettato l’invito di Epstein di andare a trovarlo a New York per un lavoro come modella, solo per la sua conoscenza con Clinton. Angela Ureña, portavoce di Bill Clinton, ha negato che il presidente abbia mai condiviso una suite con il pedofilo, ma che da Cape Town si diresse a Johannesburg in giornata. “Il presidente Clinton non era conoscenza dei crimini commessi da Jeffrey Epstein e per i quali fu condannato in Florida e a New York”, ha affermato la Ureña. E ancora: “Nel 2002 e nel 2003 Bill Clinton ha viaggiato quattro volte sull’aereo di Epstein. Una volta in Europa, una in Asia e una in Africa, per la Clinton Foundation”. La portavoce ha inoltre affermato che l’ex presidente “non ha più incontrato Epstein da decenni, non è mai stato sull’isola di Little Saint James, nel ranch in New Mexico o nella sua casa in Florida”.
Il racconto della Bryant ricorda per filo e per segno quelli delle altre vittime del magnate: la proposta di un lavoro come modella, poi l’invito nella lussuosa villa ai Caraibi, l’incontro con Ghislaine Maxwell, infine le violenze inaspettate. “Le cose che accadevamo sull’isola erano così spaventose che non riesco a parlarne”, ha dichiarato la donna. “Si nutriva del terrore di noi ragazze, c’era qualcosa nella paura che gli piaceva”.
La Bryant nelle sue rivelazioni ha infine accusato la “dama nera”, Ghislaine Maxwell, di condurre una specie di “fabbrica dell’orrore”, nella quale una sessantina di ragazze, anche minorenni, venivano spinte dalla donna a prostituirsi con Epstein. “Era come una fabbrica”, prosegue la Bryant, “Epstein mandava avanti una macchina del sesso e la Maxwell era colei che dava gli ordini”. Ghislaine Maxwell si trova nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn con cinque capi d’accusa, tra cui cospirazione nel traffico di minori e adescamento di minori, e rischia fino a 65 anni di prigione.
Il processo Maxwell e la scomparsa di Epstein. Piccole Note il 20 gennaio 2022 su Il Giornale.
Com’era evidente, il processo a Ghislaine Maxwell, la compagna di Jaffrey Epstein, il miliardario pedofilo dai mille rapporti, è stato una farsa. Nonostante alla fine la figlia del magnate Robert sia stata condannata, non ha fatto alcuna luce sul “sistema Epstein”.
Quando Epstein fu arrestato il mondo venne a conoscenza della vasta rete di rapporti del miliardario, il quale, già condannato per pedofilia nel 2005, aveva continuato a frequentare gli uomini più potenti del mondo, da Bill Gates a Bill Clinton ad altri ancora più potenti.
Insomma, tanti della lista dei potenti che si sono arricchiti durante la pandemia, insieme a figure influenti di Hollywood e dei media mainstream. A frotte si radunavano nelle sue lussuose ville, a Manhattan o nel New Mexico, dove usava far feste galanti. Ma convenivano con lui anche per incontri più riservati nella sua isola privata, Saint James, chiamata dai locali l’isola dei pedofili.
Il processo alla Maxwell avrebbe potuto, in teoria, cercare di comprendere le dinamiche di queste feste, i motivi per cui tanti frequentavano Saint James, impreziosita da un tempio di qualche occulta religione che certo non era stato eretto per il solo uso personale… Ma ovviamente non è andata così.
Il processo ha riguardato la sola Maxwell e le sue malefatte al seguito del compagno, nulla importando se ai suoi amici altolocati offrisse altro. Non si poteva, dal momento che poteva crollare il mondo.
Per evitare questo, anche i magistrati hanno evitato di allargare il caso, concentrandosi semplicemente sulla colpevolezza o meno della Maxwell.
Questa, peraltro, ha avuto sin dall’inizio un trattamento di favore. Nonostante fosse conclamato il suo ruolo nelle vicende del compagno, ha potuto lasciare indisturbata l’America.
Giunta in Gran Bretagna, ha fatto sapere che aveva tanta documentazione, chiamando così il mondo che aveva frequentato Epstein a difenderla, per poi consegnarsi alla giustizia americana solo mesi dopo l’arresto e la scomparsa del compagno.
A vigilare che il processo procedesse senza disturbare i potenti, tra i procuratori è stata scelta Maurene Comey, figlia di James, potente direttore dell’Fbi che grazie al suo ruolo era entrato in rapporti con gli stessi ambiti che frequentavano Epstein.
Non solo, per evitare incidenti di percorso, il processo si è tenuto in forma più che riservata: sebbene i giornalisti potessero assistervi di lontano, era vietato fare fotografie e registrare quanto vi avveniva, sia in forma audio che video.
Così leggendo gli articoli sul procedimento (pochi in verità, che dei crimini di certi potenti si scrive con cautela), sembrava di scorrere qualcosa avvenuto decenni fa, con i giornali costretti a ricorrere ai vignettisti per illustrare quanto avveniva nel segreto dell’aula.
E tutta l’informazione, fedelmente a quanto stabilito, si concentrava sui crimini della Maxwell e del principe Andrea, non certo un capro espiatorio, ma neanche l’unico a godere dei benefici concessi a tanti dal giocattolaio Epstein.
Insomma, tutto è andato secondo copione, come anche la condanna, che non poteva non arrivare e che, peraltro, potrebbe esser ribaltata per vizi di forma.
Ma anche se ciò non avvenisse, la Maxwell ha tante frecce al suo arco, potendo ricattare, a torto o ragione (distinzione importante), tanti, come ha dimostrato dopo la condanna, quando ha dichiarato di esser disposta a fare otto-nomi-otto degli illustri compagni di merende del marito.
Al di là dei misteri del presente, restano misteriosi anche gli ultimi giorni del compagno. Arrestato il 7 luglio 2019, Epstein viene trasferito nel carcere di Manhattan, dove si mostra ottimista e di “ottimo umore”.
Suo compagno di cella è Nicholas Tartaglione, ex poliziotto con a carico quattro omicidi, che è un prigioniero intraprendente, tanto che alcuni giorni prima di essere trasferito nella cella del pedofilo lo scoprono con un cellulare, col quale evidentemente comunicava con l’esterno.
Poi un giorno Epstein viene trovato privo di sensi. Tentativo di suicidio, secondo i medici del carcere, che lo trasferiscono nella sezione ad hoc, dove è monitorato ogni mezz’ora. Un regime che cambia inspiegabilmente a pochi giorni dalla sua scomparsa, anche se resta sotto stretta vigilanza.
I secondini che dovrebbero vegliare sul pedofilo in realtà sono un po’ distratti, anzi non vegliano affatto, tanto che dopo la sua scomparsa si scopre che hanno falsificato i registri che avrebbero dovuto documentare la loro vigilanza.
Un peccato veniale, nonostante la loro distrazione fosse risultata fatale, tanto che patteggiano una pena irrisoria.
Non sappiamo nulla della notte fatale, quella tra il nove e dieci agosto, quando Epstein scompare, perché il video della telecamera della cella scompare né è possibile reperire le registrazioni delle videocamere piazzate nei corridoi a causa di un malfunzionamento.
La perizia medica stabilirà che Epstein si è suicidato in carcere. Ma i detenuti non sono affatto convinti della versione ufficiale. Anzi, il suo primo compagno di cella, Tartaglione, sembra dica cose che non soddisfano le guardie carcerarie e denuncia anche di essere stato minacciato da queste per i dubbi espressi.
Poco male, trova subito l’ausilio di un avvocato d’eccezione per difendere la sua causa criminale: Bobbi Sherman, che la Maxwell inserirà successivamente nel suo team legale.
La vicenda è chiusa, come anche il carcere dove si è consumata, che chiuderà nell’agosto 2021, a un anno esatto dalla scomparsa di Epstein, rendendo così impossibili ulteriori possibili perizie.
Ps. Nota di colore, scritta tenendo presente la “Scomparsa di Patò” di Camilleri.
“Mia sorella Ghislaine è solo un capro espiatorio. Fu usata da Epstein”. Antonello Guerrera su La Repubblica il 24 gennaio 2022. "Eccola, 10 giugno 2019. È la nostra ultima foto insieme, qui a Londra: la reunion di tutti i fratelli Maxwell. Anne, Kevin, le gemelle Isabel e Christine, Philip, il sottoscritto. E poi Ghislaine. Che dopo quel giorno scomparve". Fino all'arresto, nel luglio 2020. L'ex casa londinese di Ghislaine Maxwell a Kinnerton Street, dove il 10 marzo 2001 il principe Andrea venne fotografato insieme alla 17enne Virginia Roberts Giuffre che lo accusa di stupro, è a poche centinaia di metri dall'hotel dove incontriamo Ian Maxwell, il fratello di Ghislaine, la 60enne ex socialite inglese in carcere a New York e giudicata colpevole di traffico sessuale di minorenni a favore del pedofilo miliardario e suo ex compagno Jeffrey Epstein. Sessantacinque anni, ex erede del fallito impero editoriale di famiglia, oggi a capo del think-tank Combating Jihadist Terrorism, Ian è il settimo dei nove figli del controverso tycoon Robert Maxwell. È convinto che Ghislaine sia "innocente perché capro espiatorio di Epstein e della giustizia Usa", nonostante la recente sentenza e numerose testimonianze contro di lei di vittime dell'americano suicida nel 2019. Ma, soprattutto, Ian è un testimone straordinario delle fortune e delle maledizioni della drammatica dinastia dei Maxwell, capeggiata dal "Murdoch" di metà secolo scorso: il potentissimo Robert Maxwell, allora a capo di un impero mediatico incluso il Daily Mirror, nato in Cecoslovacchia nel 1923 in una famiglia ebrea ortodossa, sopravvissuto all'Olocausto e protagonista di un'ascesa strabiliante fino al crollo: finanziario, per truffa, e fisico, al largo delle Canarie. Dove morì annegato nel 1991, inabissatosi dal suo yacht "Lady Ghislaine", in circostanze tuttora misteriose. Secondo alcuni, Ghislaine, figlia più piccola e "preferita" dell'imprenditore, sarebbe passata dall'amare un "mostro" come Robert Maxwell a un altro come Epstein. "Una teoria fallace", ribatte subito Ian. "E mio padre non era un mostro come dite".
Ma sua madre Elizabeth, nelle memorie "Anche il sole è amaro", lo descriveva "crudele, autoritario, dittatoriale, egoista, despota".
"È vero. Ma non dimentichi che quel libro fu pubblicato tre anni dopo il crack di mio padre. Eravamo rimasti senza niente. Niente. E poi mamma era il "soft power" in famiglia. Fu lei a decidere che i figli sarebbero stati tutti protestanti e non ebrei".
Nonostante la famiglia di Robert Maxwell fosse stata sterminata dai nazisti.
"Già. Lui e mamma ebbero nove figli: nove come i componenti della famiglia di papà. Robert Maxwell volle ricrearla così, con noi. Ma anche mia madre, ugonotta, ebbe generazioni uccise dai cattolici. Le vite dei miei genitori erano segnate da stragi".
Ma è vero che Robert Maxwell umiliava lei, Ghislaine e il resto della famiglia?
"Qualche volta capitava. Ma non sempre. Ha avuto una vita difficile. Si è fatto da solo".
E allora com'era suo padre?
"Come lottare contro un toro. Anzi, come il sole: se ti avvicinavi ti bruciavi, se ti allontanavi ti gelavi. Serviva un compromesso, sempre. Una mattina, avevo 18 anni, entra in camera mia e mi ordina: "Tu vai in Giappone!".
Perché?
"Smistava i figli nei continenti, per "coprire" ogni area del mondo. Oppure quando "mi vendette" a una fondazione del principe Carlo, per lavorare gratis. Una volta mi licenziò pure".
Come mai?
"Non riuscii ad andare a prenderlo in aeroporto. Per lui era finita. Dopo tre mesi di silenzio mi richiama. Mi riassunse, al 50% della paga".
Crede che suo padre venne ucciso?
"Alla notizia, provai dolore e liberazione insieme. Credo fu un incidente. Ghislaine, invece, è convinta che sia stato ucciso. E lo stesso pensa di Epstein".
Ghislaine era la favorita di papà Robert. Lei ne era geloso?
"Non era la favorita, ma la più viziata. Dopo la morte per leucemia di nostra sorella Karine a tre anni nel 1957 e quella di nostro fratello Michael nel 1967 dopo sette anni di coma, i miei genitori trascurarono Ghislaine. Allora lei, a 3 anni, urlò: "Mamma, io esisto!". Da quel giorno venne trattata con un occhio di riguardo. Ma non credo fosse la preferita di mio padre, che pure era gelosissimo di Ghislaine: faceva scappare tutti i fidanzati".
E lo yacht chiamato Lady Ghislaine?
"Papà voleva dedicarlo a mamma, ma c'era già una barca di nome "Lady Elizabeth"".
Ghislaine è stata giudicata colpevole di gravissimi crimini. Ne ha mai parlato con lei?
"Ghislaine è innocente. È stata usata da Epstein. Dopo la prima condanna di quest'ultimo nel 2009 non sono più stati insieme".
Ma ci sono numerose testimonianze di ragazze contro di lei.
"I ricordi sono imprecisi dopo tanto tempo. I testimoni sono stati interrogati in maniera impropria. Inoltre, diversi membri della giuria hanno dichiarato il falso nella selezione per questo processo. Chiederemo ricorso".
Si sente con Ghislaine?
"Tramite gli avvocati. Al telefono non parliamo per non aggravare la sua posizione. Teme di "essere uccisa come Epstein", dice. Ci siamo incrociati in tribunale ora che noi fratelli siamo andati a New York a sostenerla: l'ho vista per la prima volta dopo oltre due anni. Era sciupata, la trattano male in cella".
E che cosa vi siete detti?
"Lei mi fa: "Che strano vedersi qui, Ian!". Poi qualche chiacchiera su mio figlio, la nostra famiglia. Abbiamo parlato in francese, per non far capire niente alle guardie. Ma ricordatevelo: noi Maxwell siamo dei combattenti. E farò di tutto per tirare fuori Ghislaine da quella cella".
Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 gennaio 2022.
Jeffrey Epstein ha fatto più di una dozzina di visite alla Casa Bianca durante i primi anni di presidenza di Bill Clinton, portando con sé diverse donne, tra cui quattro sue amiche.
I registri dei visitatori scoperti il mese scorso hanno confermato che il defunto pedofilo ha visitato l’Executive Mansion almeno 17 volte durante il primo mandato di Bill Clinton. Ulteriori documenti ottenuti dal Daily Mail rivelano che Epstein non era sempre solo alla Casa Bianca, ma fu raggiunto da otto donne diverse tra il 1993 e il 1995.
La natura delle visite accompagnate di Epstein non è rivelata nei registri dei visitatori, tuttavia mostrano che una di esse ha coinciso con una cena nella Blue Room alla presenza di dozzine di ospiti benestanti.
Nei registri non è rivelata la natura delle visite di Epstein, tuttavia mostrano che una di queste ha coinciso con una cena nella Blue Room alla presenza di dozzine di ospiti benestanti.
Molte delle donne che Epstein portò durante i suoi viaggi a Washington hanno avuto relazioni sentimentali con lui. Tra queste ci sono Celina Midelfart, allora 21enne, Eva Andersson-Dubin, allora 33enne, Francis Jardine, che si credeva avesse 20 anni, e Ghislaine Maxwell, che aveva 32 anni. Le altre quattro donne che compaiono nei registri sono Jennifer Garrison, Shelley Gafni, Jennifer Driver e Lyoubov Orlova.
Dagotraduzione dal Sun l'11 febbraio 2022.
Una massaggiatrice a cui è stato chiesto di prendersi cura del principe Andrea nella sua camera da letto dice che era il suo cliente più inquietante e un «parassita sessuale costante». Emma Gruenbaum, 50 anni, dice che Andrea l'ha interrogata sulla sua vita amorosa e ha cercato di abbracciarla dopo le sessioni alla Royal Lodge, a Windsor.
Emma, 50 anni, parla oggi dopo che il team legale di Andrea ha affermato che la donna che lo accusa di abusi sessuali, Virginia Giuffre, «potrebbe soffrire di falsi ricordi». Emma ha detto a The Sun: «Non voglio stare a guardare e non parlare del modo in cui era nei miei confronti mentre chiama Virginia delirante».
Ha anche detto che Andrea:
• Andrea era un costante parassita sessuale e ha cercato di abbracciarla dopo i massaggi.
• Ha sempre insistito per essere nudo, a parte uno dei suoi stessi asciugamani.
• I massaggi richiesti per tutto il corpo venivano sempre eseguiti nella sua camera da letto nonostante le sue obiezioni.
• Dopo pochi minuti dalla loro prima sessione le fece una domanda molto personale sulla sua vita sessuale.
Emma era una massaggiatrice sportiva di 34 anni al Wentworth Club nel Surrey quando ha iniziato a massaggiare l'ex moglie di Andrea, Sarah Ferguson, all'inizio del 2005.
Fergie ha consigliato i suoi servizi e lo staff di Andrea si è messo in contatto con lei. Emma lo ha incontrato per la prima volta quell'estate, pochi mesi dopo che le prime affermazioni sessuali contro l'amico del duca Jeffrey Epstein erano emerse negli Stati Uniti.
Emma ha visitato Andrea sei volte quell'anno. Ha detto: «Avevo molti clienti di alto profilo e visitavo spesso le loro case. Ma Andrea era molto diverso. Era un costante parassita sessuale fin dall'inizio».
Emma dice di aver ricevuto per la prima volta una chiamata dalla segretaria personale del Duca che la invitava alla Royal Lodge a Windsor Great Park. Ha aggiunto: «Era insolito chiedermi di venire una domenica pomeriggio. Ma ho detto di sì e sono andata verso le 18 come concordato».
«Conoscevo il parco perché il mio cavallo era tenuto lì. Ho preso il mio lettino che uso sempre perché è regolato all'altezza giusta per farmi fare il massaggio correttamente. Ma quando sono arrivata lì mi è stato detto: No, userà solo il suo tavolo».
«Sono stato guidata attraverso la casa da un membro dello staff. L'ho seguito su un paio di rampe di scale e sono finita nella camera da letto, una master suite davvero impressionante. Ho detto, “Oh, non mi sento davvero a mio agio nel farlo nella sua camera da letto”. Ho guardato il lettino da massaggio e ho detto: "E questo è troppo alto". Dipendeva dai miei fianchi, quindi sarei stata lì a massaggiare a livello di seno, cosa che ovviamente non volevo. Così ho detto: “Possiamo spostarlo fuori dalla camera da letto? Non sono a mio agio”.
«Ma mi è stato detto che non era un'opzione, questo era il modo in cui piaceva al Duca. Riceveva sempre massaggi nella sua camera da letto e gli piaceva stare vicino al suo letto per rotolarsi nel letto dopo».
«Mi è stato detto di non fare storie. Non sapevo cos'altro dire e il membro dello staff se ne è andato».
Emma dice di aver poi tentato di abbassare il lettino a un livello per un massaggio dei tessuti profondi.
Ha aggiunto: «Mi sono chinata e ho iniziato a sistemare il letto. Ho sentito una voce, “Hey bel cazzo. Lo prendi per il culo?”». «Mi sono alzata velocemente e mi sono girata. Ero contro il lettino da massaggio e lui era contro di me, bulbo oculare contro bulbo oculare. Quasi mi toccava, era davvero vicino. E io ho detto, “Non sono affari tuoi”. E lui mi ha semplicemente guardato con uno sguardo spento e ha detto: “Non puoi parlarmi in quel modo”. Ho detto: “Beh, non puoi parlarmi in questo modo”».
«C'è stato poi un momentaneo silenzio in cui lo stavo fissando e ho cercato di fare un passo di lato e di evitare di stare contro il tavolo. Era così teso, era davvero strano. Ma ho avuto commenti stupidi nel corso degli anni e ho semplicemente detto: “Senti, ti comporterai bene? Togliti la vestaglia e sdraiati e lasciami fare il mio lavoro. O me ne vado?”. E lui ha detto: “No, penso che andremo d'accordo”. E si è tolto la vestaglia e sdraiato sul tavolo».
«Ho sempre distolto lo sguardo mentre si metteva sul tavolo e mi assicuravo che ci fosse un asciugamano a coprire le sue parti intime, ma era sempre nudo sotto l'asciugamano. Abbiamo iniziato il massaggio. Ma per tutto il tempo parlava di sesso anale e faceva battute sul sesso anale. Mi ha chiesto quando avevo fatto l'ultima volta l'amore. È andato avanti e avanti».
«Continuavo a dirgli di stare zitto, ma mi sono subito resa conto che gli andava bene che gli si parlasse come se fosse uno scolaretto cattivo».
«Quindi ho continuato in quel modo dicendogli di stare zitto. E quello era lo schema. L'ho visto sei volte. Mi ha detto che mi avrebbe fatto pagare da qualcuno perché lui non aveva a che fare con i contanti».
L'ufficio di Andrea ha inviato assegni all'indirizzo di casa di Emma, incluso un biglietto di complimenti del Duca.
Ha pagato 80 sterline per una sessione di 70 minuti e ha richiesto i servizi di Emma quasi ogni domenica per un po'. Ha aggiunto: «Ogni volta che lo vedevo cercava di oltrepassare il limite. Cercava di abbracciarmi senza tregua. Avrei dovuto mettergli una mano sul petto e spingerlo via e dire: "Senti, non faccio abbracci"».
VIRGINIA GIUFFRE DAVID BOIES
«Mi ha chiesto di guardare un film un paio di volte. Una volta ha detto che voleva prepararmi una tazza di tè e mi ha portato da qualche parte. Siamo finiti in cucina e ha detto che non sapeva nemmeno dove fosse il bollitore. Volevo solo andarmene. Gli ho detto fermamente: “Guarda dov'è la via d'uscita?” E me ne sono andata».
Dopo aver visitato il Duca quasi settimanalmente per circa due mesi, Emma ha smesso di ricevere chiamate dal suo staff per fissare appuntamenti.
Ha detto: «Penso che sia perché voleva di più e chiaramente non sarebbe andato da nessuna parte. I suoi progressi non stavano funzionando e penso che la sua pazienza si sia esaurita. Cercava sempre di trasformare la conversazione in sesso o battute sul sesso. Gli dicevo che non era appropriato o semplicemente non era divertente».
«Era una peste. Ma era sempre in un modo da ”matrona e scolaro”».
«Sembrava volesse che gli dicessi di stare zitto. Era solo un cretino. Dicevo sempre alle mie amiche che schifo totale fosse. Poi ho semplicemente smesso di ricevere telefonate. Stavo giocando duro, troppo duro. Non mi ha dato fastidio. Ho avuto molti ottimi clienti. Ma non ho più visto Sarah dopo aver iniziato a vedere il Duca, il che era strano. Non mi sono lamentata con nessuno in quel momento perché pensavo che tutti sapessero com'era».
«Ero una donna di 34 anni, so gestirmi da sola e sentivo di poterlo gestire. Ma ora vedo il modo in cui ha trattato le donne più giovani. È spaventoso pensare a come mi sarei sentita se fossi stato dieci anni più giovane e meno esperta».
L'esperienza di Emma riecheggia quella della massaggiatrice Monique Giannelloni che due anni fa raccontò come, nel 2000, un cameriere le mostrò la camera da letto di Andrea a Buckingham Palace prima che uscisse da un bagno nudo.
La visita "non controllata" di Monique ha innescato una violazione della sicurezza dopo che è stato rivelato che gli era stata presentata dall'amante di Epstein e amica di Andrea, Ghislaine Maxwell.
Il mese scorso The Sun ha riportato le affermazioni dell'ex cameriera di Andrea, Charlotte Briggs, che raccontato come il principe l’abbia fatta correre su quattro rampe di scale per chiudere le tende vicino a cui era seduto.
Emma, ora una geometra di successo che vive a Windsor, ha detto che stava parlando perché ci sono «sempre più prove e rumori su come si è comportato». Ha aggiunto: «Voglio solo aggiungere la mia voce e la mia esperienza per aiutare, se può aiutare, per aggiungere un contesto su che tipo di personaggio è e come mi ha trattato. E se questo aiuta Virginia, allora fantastico».
La signora Giuffre afferma di essere stata trafficata da Epstein per fare sesso con Andrea quando aveva 17 anni. Andrea nega con veemenza tutte le sue affermazioni e dovrà affrontare un processo civile a New York entro la fine dell'anno.
Un portavoce di Andrea non ha voluto commentare la storia di Emma.
DAGONEWS il 17 gennaio 2022.
Il principe Andrea e Ghislaine Maxwell avevano un rapporto caloroso e potrebbero essersi frequentati in passato. A rivelarlo è Euan Rellie, un banchiere britannico che abita a New York, che ha frequentato l'Università di Oxford con Maxwell ed è stato ospite a cene che lei e il suo ex Jeffrey Epstein ospitavano negli Stati Uniti.
La stessa tesi viene portata avanti da un'ex guardia del corpo che ha detto che lui e i suoi colleghi si chiedevano se Andrea e Maxwell fossero "intimi" a causa della frequenza delle sue visite al palazzo. Rellie ha dichiarato: «Ghislaine ha descritto Andrea come suo amico, non di Jeffrey. Ho avuto la sensazione che i due fossero fidanzati in passato. Avevano un rapporto caloroso».
Nel frattempo, un ex poliziotto che si occupava della protezione dei reali ha raccontato che il duca di York aveva una collezione di orsacchiotti intoccabile nella sua casa: «C'erano circa 50 o 60 peluche posizionati sul letto e le signore delle pulizie avevano una foto che utilizzavano per rimetterli tutti al loro posto. Se gli orsi non erano stati messi nell’ordine giusto, Andrea poteva arrivare a urlare».
(ANSA il 17 gennaio 2022) - Ghislaine Maxwell non si batterà più per mantenere segreti i nomi di altre otto persone coinvolte potenzialmente nelle attività illecite di Jeffrey Epstein. Lo hanno comunicato i legali dell'ex socialite britannica. La richiesta di renderli noti era stata avanzata da Virginia Giuffre, l'accusatrice di Epstein e del principe Andrea, in un'azione legale per diffamazione contro Maxwell nel 2016. L'ex socialite britannica si è battuta per anni per tenere il segreto sui nomi degli otto 'John Does'.
Ora invece fa un passo indietro e lascia mano libera alla corte di decidere. Gli avvocati di Giuffre chiedono la pubblicazione dei nomi. "Come questa corte ha riconosciuto, la generale avversione all'imbarazzo per essere associati con Epstein e Maxwell non è abbastanza per continuare a mantenere segrete le informazione. E questo è specialmente vero su un caso di grande interesse pubblico e con accuse pesanti, quali il traffico di minori", scrivono al giudice i legali di Giuffre.
Maxwell cede: via il segreto su otto «amici di Epstein». Irene Soave su Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.
Ghislaine Maxwell «smetterà di difendere» l’anonimato di otto personaggi coinvolti nella causa intentata contro di lei da Virginia Giuffre, la grande accusatrice del caso Epstein: Maxwell, 60 anni, ora giudicata colpevole di diversi reati sessuali tra cui il traffico di minori, finirà probabilmente la sua vita in carcere. Di lì smetterà — così in una lettera consegnata alla giudice federale Loretta Preska dai suoi avvocati — di tutelare l’anonimato di otto «John Doe» coinvolti nei fatti che le sono imputati. A chiedere di rivelarne le generalità sono gli avvocati di Virginia Giuffre.
«John Doe», per le donne «Jane Doe», è il nome che in gergo giuridico è attribuito, in lingua inglese, a cadaveri non identificati o personaggi anonimi. «Gli otto John Doe hanno assistenza legale che può tutelare la loro riservatezza», scrivono gli avvocati, «e Maxwell lascia alla corte la possibilità di richiederle di identificarli».
Sei degli otto «John Doe» si sono opposti alla pubblicità dei loro nomi, rivelano fonti di stampa: nelle carte del tribunale risulta che uno teme «imbarazzo e problemi» e un secondo immagina che sarebbe «mangiato vivo dai media, mentre voglio vivere tranquillo». Solo due hanno spiegato i legali, acconsentono a essere citati per nome, nonostante «il comprensibile imbarazzo che può provocare, anche in chi non è parte in causa, l’associazione alle condotte di Epstein e Maxwell». Un imbarazzo e un danno all’onore «che comunque non giustifica», continua la lettera, «la copertura di informazioni di questo interesse, soprattutto a processo penale concluso».
Politici, stelle del cinema, presidenti, nobili: le «connections» di Jeffrey Epstein e di Ghislaine Maxwell, invitati alle loro feste e ospiti sugli aerei privati del finanziere morto suicida in carcere nel 2019, sono sempre state molte, e della massima celebrità e importanza. E dal 2008, dopo la prima condanna a Epstein, trovato allora colpevole di adescamento di una prostituta minorenne, la maggior parte di loro ha lottato per cancellare ogni traccia di quella frequentazione ormai compromettente.
Dagli Usa alla Gran Bretagna. Una donna, anche lei per il momento sconosciuta e che potrebbe aver visto il principe Andrea con Virginia Giuffre in una discoteca londinese 20 anni fa si è detta «disponibile» a testimoniare nella causa di Giuffre contro il reale.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 gennaio 2022.
Ghislaine Maxwell ha rinunciato alla sua battaglia per mantenere segrete «vaste quantità di informazioni» sulla sua «operazione di traffico sessuale» con Jeffrey Epstein. A chiedere che vengano rilasciate è Virginia Roberts Giuffre, la donna che ha portato il principe Andrea in tribunale con l’accusa di aver abusato di lei quando era ancora minorenne.
Gli avvocati di Giuffre hanno chiesto infatti al giudice Loretta Preska di rendere noto il materiale utilizzato nella causa civile del 2015 contro Maxwell, che comprende riferimenti a otto anonimi personaggi identificati come Jon Doe 17, 53, 54, 55, 56, 73, 93 e 151. Uno di questi potrebbe essere proprio il principe Andrea.
Sei di questi John Doe si sono opposti alla richiesta. Anche Maxwell, da poco condannata per traffico sessuale e altri quattro capi d’imputazione, si era inizialmente opposta ma, in una lettera al giudice Preska, il suo avvocato ha fatto sapere che «lascerà alla corte» il compito di determinare se queste informazioni debbano essere rese pubbliche.
«Dopo un'attenta revisione delle obiezioni dettagliate presentate da [le otto non-Party Does], l'avvocato di Ghislaine Maxwell scrive per informare la Corte che non desidera affrontare ulteriormente tali obiezioni», dice nella lettera.
«Ciascuno dei Does elencati ha un consulente che ha abilmente affermato i propri rispettivi diritti alla privacy. La sig.ra Maxwell lascia quindi a questa Corte il compito di condurre l'appropriato riesame coerente con l'Ordine e il Protocollo per l'annullamento delle istanze decise».
Secondo i documenti, tra coloro che desiderano mantenere nascosta la propria identità c’è John Doe 17, il quale sostiene che essere nominato nel caso gli causerebbe «fastidio e imbarazzo».
Un altro John Doe, il numero 151, ha detto che stava «cercando di vivere una vita privata» e che la divulgazione avrebbe comportato che sarebbero stati «perseguitati» dai media.
La richiesta di rendere pubblici i documenti è arrivata il giorno in cui il giudice Lewis Kaplan ha stabilito che la causa di Giuffre contro il principe Andrea, un caso separato depositato anche presso la corte federale di New York, può andare avanti.
Se il giudice Preska decidesse di svelare i documenti nel caso Giuffre, questi potrebbero gettare nuova luce sui rapporti del duca con Ghislaine Maxwell e Jeffrey Epstein. I documenti fanno parte di una causa per diffamazione intentata da Giuffre contro Ghislaine Maxwell nel 2015, dopo che la socialite l’aveva definita una bugiarda.
I documenti richiesti dall’avvocato di Giuffre comprendono una deposizione Johanna Sjoberg che afferma di essere stata nella stanza quando Andrea ha palpato il seno di Giuffre nella villa di Epstein a New York nel 2001.
I documenti includono anche le e-mail che Andrea ha inviato a Maxwell nel gennaio 2015 dopo che Giuffre ha affermato per la prima volta di aver fatto sesso con lui. Il Duca ha inviato un messaggio a Maxwell: «Fammi sapere quando possiamo parlare. Ho delle domande specifiche da farti su Virginia Roberts», riferendosi al nome da nubile di Giuffre. Maxwell ha risposto: «Avere alcune informazioni. Chiamami quando hai un momento».
Estratto dell'articolo di Paolo Mastrolilli per "la Repubblica" il 28 gennaio 2022.
«Quando il principe Andrea dovrà venire a New York per testimoniare al processo, potrebbe essere arrestato come Epstein e Maxwell. Abbiamo prove solide per un procedimento penale».
David Boies è il principe indiscusso del foro americano. Ora è l'avvocato di Virginia Giuffre, che con l'accusa di violenze sessuali contro il principe Andrea fa tremare la monarchia britannica. Mi riceve al ventesimo piano del grattacielo dove lavora, con l'abituale sorriso affabile: ha appena aperto il suo studio a Milano, ama Roma, non nasconde la passione per l'Italia. Andrea ha risposto alla sua causa, negando tutte le accuse.
«È lo stesso schema che usa sempre: negare. Credi a me, o ai tuoi occhi? Abbiamo persone che dicono di averlo visto nella casa di Epstein a New York, con Virginia, nell'isola ai Caraibi. Testimoni oculari. Il suo approccio è negare e scaricare la colpa sulla vittima. Non ha funzionato molto bene per Maxwell».
Perché ha scelto questa strategia?
«Davvero non lo so, è sconcertante. Prima di presentare la causa gli avevamo scritto: vorremmo evitare il processo, parliamone. La risposta è stata un muro di pietra. Poi ha fatto di tutto per non ricevere l'atto giudiziario. Ciò lo fa apparire orribile. Scappare da un castello all'altro, nascondersi sul sedile posteriore delle auto, è un'indicazione della colpevolezza». (…)
Andrea testimonierà?
«Deve farlo, non ha scelta. Dovrà testimoniare alla deposition. Se lo farà, potremmo usarla al processo, invece di averlo di persona. Ma sarebbe un'altra cattiva decisione dei suoi avvocati». (…)
Quando Ghislaine aveva presentato Virginia ad Andrea l'aveva sfidato ad indovinarne l'età, e lui aveva risposto 17 anni. Conferma?
«Sì, è confermato»
Quindi sapeva che era minorenne?
«Sì, lo sapeva».
Virginia è disposta ad accettare un risarcimento?
«Penso voglia una rivincita, per lei e le altre vittime. Può venire in vari modi, non voglio togliere nulla dal tavolo. Potrebbe essere finanziaria, l'accettazione della responsabilità, una combinazione delle due cose».
Dagotraduzione da Bloomberg il 2 febbraio 2022.
Il principe Andrea si sta avvicinando alla più dura battaglia legale della sua vita e una cosa è certa: non sarà a buon mercato, qualunque sia il risultato.
Secondo due avvocati intervistati da Bloomberg, il reale dovrà affrontare spese legali almeno a sette cifre se la causa per abusi sessuali di Virginia Giuffre andrà in giudizio, mentre il costo della transazione dovrebbe essere ben superiore a 5 milioni di dollari. Con una fortuna personale stimata dalla sua banca privata a 5 milioni di sterline (6,8 milioni di dollari) nel 2017, finanziare la lotta sarà una sfida.
«Non ha buone opzioni davanti», ha detto Mitchell Epner, un ex procuratore federale degli Stati Uniti che ora è un avvocato di Rottenberg Lipman Rich e non è coinvolto nel caso. «Ha solo cattive opzioni e deve decidere quale sia la migliore cattiva opzione».
Dopo un tentativo fallito di fermare la causa, la scorsa settimana Andrea ha chiesto che il caso venga deciso da una giuria invece che da un giudice. C'è anche la possibilità che la sua squadra sollevi difese legali che lo portino fuori dal caso prima del processo.
Hanno tempo fino alla fine di luglio per presentare mozioni di giudizio sommario che potrebbero indurre un giudice ad archiviare il caso, risparmiando ad Andrea milioni di spese processuali, anche se le sue spese legali fino a quel momento potrebbero essere comprese tra 200.000 e 300.000 dollari al mese, stima Epner.
Se andrà fino al processo, combattere le affermazioni di aver aggredito sessualmente Giuffre due decenni fa nella casa londinese della fidanzata di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, costerà ad Andrea tra i 4 ei 6 milioni di dollari, ha stimato Epner. E potrebbe essere di più.
Questo tipo di contenzioso può richiedere un lungo periodo di tempo e Andrew sta valutando «un importo significativo di commissioni, almeno sette cifre se non otto a seconda della durata del contenzioso», ha affermato Jerome "Joe" Studer, fondatore e direttore di Legal Fee Analytics LLC con sede a Chicago ed esperto di spese legali.
Lavely & Singer PC, che rappresenta Andrea, è un'azienda costosa che «non è estranea a questo tipo di contenzioso sulle notizie», ha detto Studer. L'azienda «ha la reputazione di essere un bulldog e penso che, dati i problemi di reputazione in gioco, combatteranno davvero duramente».
Se Andrea perde, potrebbe dover coprire i danni per il dolore e la sofferenza di Giuffre, comprese le spese mediche, nonché i danni punitivi per i suoi presunti atti illeciti se la giuria scopre che ha abusato di lei. Anche se vince, dovrà comunque coprire le spese legali.
Qualunque sia il risultato, non è chiaro come riuscirà a pagare. Nel 2017 i suoi banchieri della Banque Havilland con sede in Lussemburgo hanno stimato la sua ricchezza in 5 milioni di sterline. Ma il reale stava già utilizzando prestiti a breve termine da Banque Havilland, di proprietà della famiglia del suo amico e principale donatore del Partito conservatore David Rowland, per coprire alcune delle sue spese di soggiorno.
Anche se la stima del patrimonio netto di Banque Havilland è bassa, ci sono segnali che le finanze di Andrea sono sotto pressione per via della lotta legale. Il Daily Mail ha riferito questo mese che il principe sta progettando di vendere il suo lussuoso chalet svizzero da 18 milioni di sterline dopo aver saldato un debito di 6,6 milioni di sterline che aveva ancora nei confronti del suo ex proprietario. Secondo il giornale c’è ancora una grossa ipoteca sulla proprietà, e non è chiaro quanto denaro incasserà Andrea da un’eventuale vendita.
L’unico reddito noto di Andrea è una pensione della Royal Navy di 20.000 sterline e uno stipendio annuale da sua madre, la regina Elisabetta, di 250.000 sterline. Non si sa se la regina sarebbe disposta a usare la propria fortuna per pagare le sue spese legali.
Eppure, Andrea è stato raffigurato in una nuovissima Range Rover ibrida-elettrica con targhe personalizzate che è stata registrata a dicembre. Un'altra auto di lusso, una Bentley, è stata immatricolata alla fine del 2020. Insieme, le due auto hanno un prezzo di listino combinato di oltre 200.000 sterline.
Nel 2017 Andrea ha stipulato un prestito personale non garantito da 1,5 milioni di sterline con Banque Havilland, di cui 1,25 milioni di sterline sono stati utilizzati per rimborsare una linea di debito esistente con l'azienda che era stata aumentata o estesa 10 volte in due anni, ha riferito Bloomberg a Novembre. Le 250.000 sterline aggiuntive prese in prestito da Andrea sono state stanziate per «capitale circolante generale e spese di soggiorno».
Il prestito era scaduto a marzo 2018 ma è stato rimborsato anticipatamente utilizzando 1,5 milioni di sterline trasferiti al principe da una società registrata a Guernsey controllata dalla famiglia Rowland, secondo le interviste a persone che hanno familiarità con le transazioni e i documenti bancari visti da Bloomberg.
La sentenza di New York che ha decretato di procedere con il caso ha reso necessario per Andrea fornire le prove richieste dal team legale di Giuffre, in un processo che probabilmente richiederà circa sei mesi, secondo Epner. Inoltre, ci saranno probabilmente fino a 500.000 dollari in costi preliminari, più una stima di 2 milioni a 4 milioni di dollari se raggiungerà il tribunale, ha detto.
Dagotraduzione da Metro il 2 febbraio 2022.
Il giudice Kaplan, che preside la causa di abuso sessuale intentata da Virginia Giuffre contro il principe Andrea, ha chiesto all'Alta Corte del Regno un aiuto per raccogliere la testimonianza di Robert Olney, ex assistente del principe che vive in Inghilterra. Probabilmente verrà interrogato sulla relazione del Duca di York con Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e sui viaggi del suo ex capo nelle loro case in giro per il mondo.
Il giudice Lewis A Kaplan ha scritto lettere sia al Senior Master della Queen's Bench Division che al procuratore generale australiano per richiedere la loro assistenza nell'acquisizione delle prove per la causa civile presentata da Virginia Giuffre.
Il giudice, infatti, vuole ascoltare le testimonianze di altre persone: il fidanzato di Virginia Giuffre, la sua psicologa, e Shukri Walker, la donna che afferma di aver visto Andrea e Virginia Giuffre nel nightclub Tramp ven’anni fa.
Tutte le quattro testimonianze dovranno essere rese entro il 29 aprile.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 Gennaio 2022.
La scorsa notte, nel rispondere alle accuse di stupro e aggressione sessuale mosse da Virginia Roberts Giuffre, il principe Andrea ha chiesto un «processo con giuria».
Nella sua risposta ufficiale alle affermazioni rese contro di lui dalla vittima di Jeffrey Epstein cinque mesi fa, il figlio della regina ne ha smentite 41, respingendo tutte le accuse di illecito, ma ha dichiarato altre 40 volte che «manca di informazioni sufficienti per ammettere o negare» altre affermazioni.
Ha anche presentato 11 difese chiedendo l'archiviazione del caso: secondo i suoi legali, le affermazioni della signorina Roberts dovrebbero essere bloccate dalla «propria condotta illecita» e dalle «mani impure».
La decisione di Andrea di portare avanti il caso lo mette in contrasto con la famiglia reale che, dicono le fonti, è "disperata" e vorrebbe che evitasse lo spettacolo di un processo a New York durante le celebrazioni del giubileo della regina, il Queen's Platinum Jubilee. Una fonte ha detto: «Andrea è in rotta di collisione con il Palazzo per questo». All'inizio di questo mese la regina, «rapidamente e spietatamente», ha costretto Andrea a dimettersi dai suoi patrocini reali e gli ha chiesto di combattere il caso come «cittadino privato».
Andrea non aveva ufficialmente risposto all'azione civile di 73 punti perché i suoi avvocati avevano quasi immediatamente chiesto a un giudice di New York che la causa fosse respinta. Ma all’inizio di questo mese il giudice ha deciso che la causa poteva essere ammessa, e quindi il duca di York ha dovuto rispondere alle accuse.
Virginia Roberts, che oggi utilizza il suo cognome da sposata, Giuffre, lo ha citato in giudizio in una causa civile accusandolo di aver abusato di lei in tre occasioni quando era ancora minorenne e di essere stata trafficata al principe dal miliardario morto suicida Jeffrey Epstein. La Roberts lo accusa dunque di stupro, aggressione sessuale e percosse e chiede danni non specificati, che si pensa siano nell'ordine di milioni di sterline.
Nella sua risposta alle affermazioni di Giuffre, Andrea ha rilasciato solo otto ammissioni, tutte limitate a informazioni già pubbliche, come ad esempio che è cittadino britannico e che risiede nella Royal Lodge a Windsor. Ammette anche la sua passeggiata con Epstein a Central Park nel 2010 e il soggiorno nella villa del pedofilo a Manhattan durante lo stesso viaggio, entrambi gli eventi essendo stati ripresi dalla telecamera. Ma nega di aver mai abusata sessualmente di Giuffre e si rifiuta di "ammettere o negare" le sue affermazioni secondo cui la ragazza era una vittima di Epstein.
Nonostante le numerose prove fotografiche della loro relazione nel corso degli anni, nega di essere un "amico intimo" di Ghislaine Maxwell, la sodale di Epstein da poco condannata per traffico sessuale e altri reati.
Il team legale di Andrea respinge anche l'accusa di Miss Roberts di essersi rifiutato di collaborare con le autorità statunitensi nelle loro indagini su Epstein e sui suoi co-cospiratori, nonostante i funzionari affermino che ha fatto proprio questo.
Andrea chiarisce che continua a contestare che la signorina Roberts sia residente nello stato del Colorado, il che le consente di portare il caso negli Stati Uniti. Ora, a 38 anni e con tre figli, vive a Perth, in Australia, ed è chiaro che il team legale di Andrea intende perseguire questo fatto nel tentativo di far chiudere il caso.
Per quanto riguarda le associazioni con Epstein, il reale ammette di averlo incontrato «nel 1999 o intorno al 1999», ma rifiuta l’affermazione secondo cui Maxwell era un’«amica intima» e afferma di non avere informazioni sufficienti per negare o confermare che sono stati fotografati «in numerosi eventi sociali insieme».
Dice che non può ammettere o negare che i registri di volo lo abbiano messo sul jet privato di Epstein o che abbia visitato la sua isola privata. Conferma che Epstein e Maxwell hanno partecipato alla festa per il suo 40° compleanno nel 2000, ma nega di aver organizzato una festa di compleanno di Maxwell nella tenuta di Sandringham quell'anno.
Andrea dice che «mancano prove sufficienti per confermare o negare» se le prove fotografiche del suo presunto incontro con Giuffre «esistano». I suoi amici avevano suggerito che la famigerata foto avrebbe potuto essere falsificata. Afferma inoltre di non avere informazioni sufficienti per sapere se ha inviato e-mail a Maxwell dicendo che aveva «alcune domande specifiche da farti su Virginia Roberts» nel 2015.
La sua argomentazione si conclude con ulteriori affermazioni difensive che affermano che il caso dovrebbe essere archiviato per motivi tra cui: la signorina Roberts ha perso il diritto di citarlo in giudizio per via dell’accordo legale che ha firmato con Epstein e l’accusa di aver contribuito a procurare vittime ad Epstein il che comporta «condotta illecita e dottrina di mani impure». Aggiunge: «Il principe Andrea chiede un processo con giuria su tutte le cause addotte nel reclamo».
Ma David Boies, l'avvocato di Miss Robert, la scorsa notte ha detto: «Il principe Andrea continua il suo approccio: negare qualsiasi conoscenza o informazione riguardante le affermazioni contro di lui e pretendere di incolpare la vittima dell'abuso per aver in qualche modo causato danno a se stessa».
Per i legali del principe Andrea la sua accusatrice è affetta dalla sindrome dei «falsi ricordi». Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.
Virginia Giuffre accusa il principe Andrea di aver fatto sesso con lei in tre occasioni quand'era ancora minorenne e vittima della rete di pedofili di Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell: i legali del figlio di Elisabetta II vogliono chiamare a testimoniare il marito e la sua psicologa. Tra le strategie di Andrea nel processo mosso contro di lui da Virginia Giuffre emerge la tesi delle false memorie già utilizzata dagli avvocati di Ghislaine Maxwell, senza successo, nel procedimento che si è concluso negli Stati Uniti a dicembre. Il giudice Lewis Kaplan, a New York, ha posto il 14 luglio come scadenza per la fase preparatoria e investigativa: cominciano a trapelare, così, i nomi dei testimoni che le due parti hanno intenzione di interpellare. I legali del principe, si apprende, hanno chiesto di interrogare il marito di Virginia, Robert Giuffre, sull’aspetto finanziario della loro vita famigliare a Perth, in Australia, nonché sulle circostanze del loro incontro, in Thailandia. Gli avvocati del duca vorrebbero inoltre sentire la psicologa dalla quale è in cura la donna, Judith Lightfoot. Sostengono che sia possibile che Giuffre soffra di memorie false e vogliono interrogare l’esperta su questa eventualità.
La squadra di Giuffre, invece, ha chiesto di interrogare Robert Olney, ex assistente di Andrea il cui nome figura alla voce «Duca di York» sull’ormai celebre «libretto nero» di Jeffrey Epstein, l’agenda sulla quale l’imprenditore segnava tutti i suoi conoscenti. Olney, sostengono gli avvocati, potrebbe avere informazioni importanti sui rapporti tra il principe ed Epstein, nonché date e luoghi dei vari incontri. I legali hanno chiesto inoltre di sentire Shukri Walker, donna londinese che ricorda di aver visto Andrea assieme a una giovane ragazza nel night Tramp la sera in cui Giuffre sostiene di essere stata obbligata ad avere rapporti sessuali con il figlio di Elisabetta. Il principe nega di essersi recato da Tramp: sostiene di aver passato il pomeriggio a Woking, nel Surrey, presso il ristorante di Pizza Express, dove la figlia Beatrice era stata invitata per una festa di compleanno, e di aver trascorso il resto della serata a casa con la famiglia.
Andrea nega inoltre di aver mai incontrato Giuffre (che all’epoca utilizzava il cognome da nubile, Roberts) così come di averla molestata. Walker ha detto di essere pronta a testimoniare e di aver già parlato con l’Fbi nell’ambito dell’inchiesta su Epstein prima che quest’ultimo si suicidasse in carcere nel 2019. La ricostruzione di Giuffre è stata inoltre almeno parzialmente confermata da un’altra vittima di Epstein e Maxwell, Carolyn Andriano, secondo la quale Virginia le mandò un messaggio da Londra nel 2001 rivelandole di essere in procinto di uscire con il duca di York e successivamente, tornata in Florida, le disse che era andata a letto con lui.
In aggiunta, il ragazzo con il quale Virginia usciva all’epoca, Anthony Figueroa, che oggi lavora in un ristorante ad Atlanta, in Georgia, ricorda che all’epoca «Virginia aveva paura di quello che Epstein e Maxwell volevano che facesse con il principe Andrea» e non ha dubbi sul fatto che Virginia sia stata molestata dal duca nel 2001, quando aveva 17 anni. Il duca di York, che è stato privato delle cariche militari così come della possibilità di utilizzare il titolo di Sua altezza reale per volere della regina Elisabetta e del principe Carlo, erede al trono, affronterà il processo da normale cittadino. Dovrà farsi carico delle spese legali così come, probabilmente, dei costi della sicurezza (la stessa formula adottata per il principe Harry quando assieme alla moglie Meghan decise di allontanarsi dai reali).
Caso Epstein, il principe Andrea verso il processo negli Usa per le accuse di molestie. Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.
Il giudice respinge la richiesta di archiviare la causa civile intentata da Virginia Giuffre, accusatrice del principe Andrea, duca di York. Luce verde per la causa contro il principe Andrea: il giudice Lewis Kaplan di New York non ha accolto le argomentazioni dei legali del terzogenito di Elisabetta secondo i quali l’accordo per risarcimento danni raggiunto nel 2009 da Virginia Giuffre e il pedofilo statunitense Jeffrey Epstein impediva il procedimento contro il duca per violenza sessuale.
Giuffre, vittima del traffico di giovani donne orchestrato da Epstein e la complice Ghislaine Maxwell, recentemente condannata per traffico sessuale, sostiene di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con Andrea in tre occasioni nell’arco del 2001, a Londra, a New York e sull’isola privata di Epstein, Little St James’s. All’epoca aveva 17 anni, più dell’età del consenso ma comunque una minorenne. In un pronunciamento di quasi 50 pagine, Kaplan ha sottolineato che non spetta a lui decidere esattamente il significato di una clausola dell’accordo sottoscritto del 2009 con il quale Giuffre si impegnava, in cambio di 500.000 dollari, a non denunciare altri ‘’possibili imputati’’. ‘’Il dovere di questo tribunale – ha aggiunto – è di determinare se possono esserci due o più interpretazioni ragionevoli di quel documento’’. La legge, ha sottolineato, ‘’proibisce al tribunale a questo punto di considerare i dubbi della difesa sulla veridicità delle accuse della signora Giuffre, anche se questi potrebbero essere ammissibili in un processo’’.
Si complica così ulteriormente la situazione del principe Andrea in un momento particolare per i Windsor: il 6 febbraio Elisabetta festeggia i 70 anni sul trono, un record nel Regno Unito per la sovrana più longeva della storia. Per l’occasione è prevista quest’estate una lunga serie di eventi. Il 2 giugno il Trooping the Colour, che ogni anno segna il compleanno di Elisabetta, darà il via ai festeggiamenti: nel Regno Unito, sulle isole della Manica e nei territori d’oltremare verranno accesi fari e falò in onore della sovrana. Il giorno successivo si terrà una cerimonia presso la cattedrale di St Paul’s. Sabato 4 un grande concerto a Buckingham Palace (Platinum Party at the Palace) e il 5 le tavolate di quartiere. A Londra sul Mall è stata organizzata una sfilata di ballerini, musicisti, militari, volontari e personale dei settori-chiave che durante la pandemia è stato essenziale: ‘fiume di speranza’ il nome della manifestazione. I trascorsi del duca di York e i suoi guai con la giustizia rappresentano un’ombra enorme sull’immagine della famiglia reale.
A dicembre 2019 il principe Andrea ha rinunciato al suo ruolo pubblico. E’ stato allontanato non solo dalle manifestazioni ufficiali dei Windsor ma anche dagli eventi di famiglia. In occasione del matrimonio della figlia Beatrice non è stato fotografato al fianco della sposa. Vive nell’anonimato al Royal Lodge, l’abitazione nel parco di Windsor che una volta era della regina madre. Nonostante ciò, mantiene il suo posto nella linea di successione (nono) e riceve dalla regina una stipendio annuo di circa 350.000 euro. A Maxwell, trovata colpevole alla fine di dicembre di adescamento e traffico di minori, era legato da un’amicizia di vecchia data. Per via di questo legame, il duca ha portato i reali a contatto con pedofili e violentatori (oltre a Maxwell ed Epstein anche Harvey Weinstein, invitato alla festa per i 18 anni di Beatrice) spalancando per loro le porte di Balmoral, del palco reale delle corse di Ascot, di Sandringham, del castello di Windsor.
Frana la difesa di Andrea. Andrà alla sbarra in Usa. Erica Orsini su Il Giornale il 13 gennaio 2022.
Pessime notizie per il Principe Andrea. Ieri, il giudice del tribunale di New York Lewis Kaplan ha respinto la richiesta di archiviazione nei confronti dell'azione civile presentata contro di lui da Virginia Roberts Giuffre. La donna, che è stata la prima giovanissima vittima del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein e della sua ex compagna Ghislaine Maxwell, accusa il secondogenito della Regina di averla molestata sessualmente in tre occasioni, nelle dimore di Epstein - di cui il duca di York era amico - quando lei era ancora minorenne. La richiesta di risarcimento viene giustificata proprio dallo stress emotivo conseguente alle aggressioni. Il figlio preferito della Sovrana ha sempre fermamente respinto tutte le accuse, sostenendo persino di non ricordarsi della ragazza. Tuttavia, la richiesta presentata dagli avvocati del principe non si basava su questo, ma su un cavillo legale. Si sosteneva infatti che Giuffre, ora trentottenne, nel 2009 aveva già siglato un accordo liberatorio con Epstein che avrebbe dovuto proteggere anche il Principe da eventuali azioni legali.
Secondo l'interpretazione dei suoi difensori infatti, in cambio dei 500mila dollari versati alla donna da Epstein, la signora rinunciava ad agire nei confronti di altre persone che avrebbero potuto essere destinatari delle medesime accuse. In nessuna parte dell'accordo era stato menzionato il Principe Andrea. Il giudice lo ha sottolineato spiegando che è troppo presto, in questa fase del procedimento, per prendere una decisione sul tentativo di indebolire le accuse di Giuffre, anche se questo sarà consentito durante il processo. «Il ruolo della Corte in questo momento è quello di capire se esistono due ragionevoli interpretazioni dell'accordo...» ha spiegato ancora nelle sue motivazioni Kaplan che così ha conferito un altro gravissimo colpo alla reputazione del Principe, già fortemente compromessa dalla controversa amicizia che per anni l'ha legato alla coppia Epstein-Maxwell.
Elisabetta non ha intenzione di pagare i salatissimi conti degli avvocati di Andrea. Per questo il duca avrebbe messo in vendita il meraviglioso chalet svizzero acquistato insieme alla moglie nel 2014 per la bellezza di 18milioni di sterline, un terzo dei quali è stato pagato soltanto lo scorso novembre dopo un'altra battaglia legale con l'ex proprietaria. Non è escluso che con il ricavato della vendita dell'immobile Andrea intenda ancora tentare di raggiungere un accordo extra giudiziale con la Giuffre, mettendo così fine al caso prima di arrivare al processo.
Sembrerebbe, un'implicita ammissione di colpa, ma le alternative non sono confortanti, né per lui, né per la Famiglia Reale. «Al di là dei possibili ricorsi in appello - spiega Carolin Davies sul Guardian - il Principe si trova di fronte alla possibilità di dover presentare delle prove in una causa per molestie sessuali e di dover affrontare un contraddittorio su aspetti della sua vita privata per difendere la propria reputazione. Che vinca o perda, si tratta di un capitolo nella storia moderna della Famiglia Reale che non ha precedenti».
Dagotraduzione dal Guardian l'11 gennaio 2022.
In una lettera data 10 gennaio, i pubblici ministeri del processo a Ghislaine Maxwell hanno scritto alla donna che sono pronti a ritirare le accuse per falsa testimonianza se la sodale di Epstein rinuncerà a chiedere un nuovo processo sul verdetto già emesso. La donna è stata condannata per traffico sessuale e altri quattro reati il 29 dicembre.
I pubblici ministeri avevano chiesto che la sentenza venisse emessa entro tre o quattro mesi, ma gli avvocati di Maxwell si sono opposti a fissare una data, perché esiste una base convincente per ribaltare la sua condanna. La scorsa settimana hanno chiesto un nuovo processo dopo aver scoperto che almeno un giurato non ha rivelato di aver subito abusi sessuali durante la selezione della giuria.
Il governo degli Stati Uniti, allora, ha offerto a Maxwell di ritirare le due accuse per falsa testimonianza, per le quali deve essere ancora processata, a patto che la donna rinunci a rimettere mano al processo che si è già chiuso e che l’ha condannata per cinque capi d’imputazione.
«Nel caso in cui le mozioni post-processo dell’imputato fossero respinte, il governo è pronto a respingere, al momento della condanna, i conteggi per falsa testimonianza alla luce degli interessi significativi delle vittime nel chiudere la questione ed evitare il trauma di testimoniare di nuovo».
Dagotraduzione dal Sun il 5 gennaio 2022. Spunta una nuova testimone del modus operandi del miliardario Jeffrey Epstein e della sua sodale, Ghislaine Maxwell. Si chiama Rina Oh, ha 42 anni, fa l’artista, ed è una delle donne accusate da Virginia Roberts Giuffre di aver procacciato ragazze per i due, ma lei insiste che ad essere abusata è stata lei.
La donna ha raccontato che Maxwell ed Epstein hanno cercato di sfruttarla per farle fare sesso con uomini anziani benestanti al club Mar-a-Lago di Donald Trump, in Florida. Parlando del resort, Rina ha raccontato: «C’erano Ghislaine e Jeffrey insieme. Era come se mi stessero preparando per essere l’amante di qualcun altro».
«Sembrava che mi stessero sollecitando. È stato allora che ho iniziato a rendermi conto che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato. Fino ad allora era molto ingenua». «Jeffrey e Ghislaine si comportavano come un re e una regina… e vivevano anche così».
Oh ha incontrato Epstein nell’estate del 2000, aveva solo 21 anni e aveva da poco rotto con il fidanzato di vecchia data. A presentarla è stato un amico. «Epstein aveva la sua isola, una bella casa ed era un grande collezionista d’arte. Ho preso il m io portfolio artistico e gliel’ho mostrato».
«Il giorno seguente la sua segretaria mi ha detto che Jeff amava le mie opere d’arte e che voleva offrirmi una borsa di studio. È stato così che mi ha manipolato. Da allora si è intensificato. Ero così giovane e non mi rendevo conto che si trattasse di abuso sessuale».
Oh, che oggi ha due figli, ha fatto causa per diffamazione a Virginia Roberts Giuffre in ottobre dopo che lei aveva affermato che Oh avrebbe dovuto essere in prigione come Maxwell. In una serie di tweet nel 2020, Giuffre ha affermato che Oh faceva parte della cerchia ristretta di Epstein e una volta l'aveva portata a comprare un vestito da scolaretta quando aveva solo 17 anni.
Giuffre, che sta facendo causa al principe Andrea in un'azione legale separata, ha twittato nell'ottobre 2020: «Rina, se leggi questo spero che vivrai nella vergogna per il resto della tua vita».
E ha continuato: «Non mi intimidisci più e le paure fisiche e mentali che mi hai lasciato dovrebbero essere sufficienti per mettere il tuoculo in prigione».
Un altro tweet citato nella causa affermava che Giuffre aveva accusato Oh di averle lasciato una cicatrice di sei pollici sulla gamba dopo uno dei loro incontri due decenni fa.
«Ho una cicatrice di quindici pollici sulla gamba sinistra perché mi ha tagliato. Posso lasciar perdere un sacco di merda, ma questo non lo dimenticherò mai» ha twittato prima di aggiungere: "#PureEvil #LockHerUp" e taggare l'FBI.
Ma Rina Oh sostiene che nulla di tutto ciò è vero e che Giuffre «ha reiterato e ripubblicato maliziosamente queste diffamazioni e calunnie in tweet e interviste precedenti e successivi su podcast, TV e riviste, nonché nelle sue memorie intitolate Billionaire's Playboy Club».
Ha aggiunto che le "diffamazioni e calunnie" stanno causando "un grande danno", tra cui "umiliazione, vergogna, disonore, angoscia mentale, perdita del piacere della vita e ansia ed angoscia emotiva", secondo la causa.
La causa chiede 20 milioni di dollari di danni e mira a fermare la "bile falsa e diffamatoria".
"Mi hanno sfruttata per sesso": le accuse choc della nuova testimone nel caso Epstein-Maxwell. Francesca Rossi il 5 Gennaio 2022 su Il Giornale. L’artista Rina Oh, accusata da Virginia Giuffre di essere una procacciatrice di ragazze, sostiene di essere una vittima del duo Epstein-Maxwell.
Emerge un nuovo retroscena nel caso Epstein-Maxwell: Rina Oh, artista 42enne indicata da Virginia Giuffre come complice dell’imprenditore suicida nel 2019 e della sua compagna sostiene, invece, di aver subito abusi al club Mar-a-Lago, in Florida. Si apre un nuovo capitolo di questa terribile storia di violenza che ha fatto naufragare la vita e la carriera royal del principe Andrea.
Vittima o carnefice?
Il Sun riporta le dichiarazioni di Rina Oh, pittrice, scultrice e fotografa coinvolta nello scandalo Epstein. La donna ha confessato di essere stata costretta dall’uomo d’affari e dall’ereditiera Maxwell ad avere rapporti con uomini molto più anziani. La sua posizione, però, è tutt’altro che limpida. Virginia Roberts Giuffre, la protagonista dello scandalo Epstein, ha accusato Rina Oh di essere stata una procacciatrice di ragazze al pari di Ghislaine Maxwell. Capire dove sia la verità non sarà facile. L’artista, però, ha raccontato la sua storia facendo un riferimento preciso al luogo in cui sarebbero avvenuti i presunti abusi, ovvero il club Mar-a-Lago (Florida).
Rina Oh ha ricordato: “C’erano Ghislaine e Jeffrey insieme. Era come se mi stessero preparando per essere l’amante di qualcun altro”. Poi ha aggiunto: “Sembrava che mi stessero sollecitando. È stato allora che ho iniziato a rendermi conto che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato. Fino ad allora ero molto ingenua”. L’inconsapevolezza nelle parole della scultrice è evidente, ma non sappiamo fino a che punto sia vera. Forse davvero non si è resa conto di ciò che le stava accadendo. C’è anche un’ipotesi agghiacciante, cioè che dal presunto ruolo di sfruttatrice l’artista sia inconsapevolmente passata a quello di vittima. Spetterà ai giudici valutare le prove e ristabilire la verità. Rina Oh dà anche dei particolari sullo stile di vita di Epstein e della Maxwell: “Jeffrey e Ghislaine si comportavano come un re e una regina…e vivevano anche in questo modo”.
Il principe Andrea vuole smontare le accuse: la mossa decisiva
Il primo incontro
La domanda principale è: come ha fatto Rina Oh a finire tra le grinfie di Epstein e socia? L’artista ha raccontato di aver incontrato per la prima volta l’imprenditore nell’estate del 2001, tramite un amico comune. All’epoca aveva solo 21 anni, era appena finita la sua relazione con il fidanzato storico e tutte le sue speranze erano riposte nell’arte: “Il mio amico mi disse che [Epstein] era ricco, aveva la sua isola, una bella casa ed era un grande collezionista d’arte. Ho preso il mio portfolio e gliel’ho mostrato. Il giorno seguente la sua segretaria mi ha detto che Jeff amava le mie opere d’arte e che voleva offrirmi una borsa di studio. È stato così che mi ha manipolato. Da allora [la cosa] si è intensificata. Ero così giovane e non mi rendevo conto che si trattasse di un abuso sessuale”.
Virginia Roberts Giuffre ha una diversa opinione sulla vicenda di Rina Oh. Nell’ottobre del 2020 ha scritto in un tweet: “Rina, se leggi questo spero che vivrai nella vergogna per il resto della tua vita” e ancora: “Non mi intimidisci più e le paure fisiche e mentali che mi hai lasciato dovrebbero essere sufficienti per mettere il tuo c…o in prigione”. La Giuffre non si è limitata alle invettive, ma ha rivelato di avere una cicatrice che le avrebbe procurato proprio Rina Oh: “Ho una cicatrice di quindici pollici sulla gamba sinistra perché mi hai tagliato. Posso lasciar perdere un sacco di m…a, ma questo non lo dimenticherò mai” e ha taggato l’FBI.
Pubblicato l’accordo Epstein-Giuffre. Guai per il principe Andrea?
L’artista si è difesa intentando una causa per diffamazione contro la Giuffre e chiedendo 20 milioni di dollari di risarcimento per tutta la “bile falsa e diffamatoria” riversata su di lei, oggi madre di due bambini. Inoltre ha dichiarato: “[Virginia Giuffre] ha reiterato e ripubblicato maliziosamente queste diffamazioni in calunnie in tweet e interviste precedenti e successivi su podcast, Tv, riviste, nonché nelle sue memorie intitolate Billionaire’s Playboy Club”. Queste “diffamazioni e calunnie”, riportano i documenti della causa, avrebbero provocato “un grave danno…umiliazione, vergogna, disonore, angoscia mentale, perdita del piacere della vita e ansia e angoscia emotiva”.
Francesca Rossi. Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. Sono laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma (curriculum di lingua e letteratura araba). Ho vissuto in Egitto per approfondire lo studio della lingua araba. Per la casa editrice Genesis Publishing ho pubblicato due romanzi, "Livia e
Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 4 gennaio 2022. Un accordo da 500mila dollari tra Virginia Roberts e Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere nel 2019, potrebbe rappresentare per il principe Andrea la via d'uscita dal processo di New York. Qui infatti è stato denunciato dalla donna per una violenza sessuale subita quando la Roberts aveva 17 anni e quindi era ancora minorenne. Il giudice Lewis Kaplan, oggi, deciderà se ci siano gli estremi per proseguire con il procedimento penale oppure per archiviare il caso. Il figlio della regina ha sempre negato ogni accusa e tramite i suoi legali ha tentato più volte di evitare il processo: prima, come scritto dalla stampa britannica, ha lasciato Londra nella speranza di non farsi trovare per non ricevere la citazione in giudizio; poi, ha cercato, senza riuscirci, di invalidare il processo a suo carico sulla base della nuova residenza della sua accusatrice, che vive da anni in Australia e non più negli Stati Uniti. Tentativi andati male, almeno fino a ieri, quando un documento, che potrebbe rappresentare una svolta, è stato reso pubblico.
IL DOCUMENTO Si tratta di un accordo confidenziale - e per questo rimasto segreto da quando era stato stipulato nel lontano 2009 - che Virginia Giuffre (ai tempi Roberts perché nubile) aveva preso con Jeffrey Epstein. Nel 2009 la donna aveva accusato il ricco finanziere di averla circuita e coinvolta in un mondo di abusi sessuali nella sua casa in Florida quando era ancora un'adolescente. «Oltre a essere sfruttata sessualmente da Epstein le era richiesto di soddisfare anche i suoi amici, inclusi reali, politici, professori, uomini d'affari e altre sue conoscenze», si legge nell'accusa. Un caso che non finì mai in tribunale perché Epstein riuscì a concludere un accordo economico con la giovane donna: il 17 novembre del 2009, l'uomo accettò di pagare a Virginia Giuffre 500mila dollari. In cambio lei si impegnava a rinunciare a qualsiasi altra denuncia contro Epstein e contro «qualsiasi altra persona o entità» a esso correlata. E il principe Andrea rientrerebbe in questo elenco. Un cavillo che, secondo i legali del duca, significa una cosa ben precisa: la Roberts non può denunciare il loro assistito.
LE CONSEGUENZE Per gli avvocati della controparte, invece, l'accordo sarebbe irrilevante nel caso contro il Principe, reo, secondo loro, di aver abusato della loro assistita a New York, Londra e nelle Isole Vergini Americane. Se sul piano legale - alla luce di questo documento - la strada per il figlio della regina Elisabetta sembra spianata, la sua immagine pubblica rischia di essere ormai danneggiata per sempre. Soprattutto in seguito alla recente condanna dell'amica Ghislaine Maxwell, ritenuta colpevole di aver circuito decine di ragazze minorenni a scopo sessuale con il defunto Jeffrey Epstein. In questi giorni, inoltre, mentre la ex moglie Sarah Ferguson e le figlie con le rispettive famiglie trascorrono le vacanze invernali sugli sci in Svizzera, il duca continua a rimanere lontano dai riflettori. Un basso profilo voluto dalla sovrana, che gli ha tolto tutti gli incarichi reali all'indomani dell'intervista boomerang rilasciata alla BBC nel 2019. E ora sembra che la sua figura sia diventata scomoda anche per i veterani delle Grenadier Guards, di cui il principe è comandante d'onore. Sul Times Julian Perreira, sergente a riposo del corpo e reduce dell'Afghanistan, ha chiesto le sue dimissioni formali e immediate poiché la sua presenza rappresenta «una macchia» nella storia del corpo. Solo la regina, tuttavia, può rimuovere i titoli militari del figlio, che in totale sono sette. Richard Kemp, ex comandante delle truppe britanniche in Afghanistan, ha fatto appello proprio alla sovrana, affinché metta il suo dovere davanti alla famiglia, la corona davanti ai figli. Un appello che, visto il rinomato senso di responsabilità di Elisabetta II, potrebbe non rimanere inascoltato.
Dagotraduzione dal New York Post il 5 gennaio 2022. Ghislaine Maxwell potrebbe presentare un’istanza per annullare il processo che l’ha condannata per cinque dei sei reati. Uno dei giurati che l’ha trovata colpevole, infatti, ha rivelato di essere stato a sua volta vittima di abusi infantili e di aver utilizzato la sua esperienza personale per spiegare agli altri giurati i sentimenti di una vittima. L’uomo però non ricorda se ha rivelato il suo passato durante la selezione della giuria. Il giurato si chiama Scotty David, e alla Reuters ha raccontato di essersi aperto con i colleghi sulle violenze subite durante le deliberazioni quando gli altri hanno messo in dubbio la credibilità di due delle donne che hanno testimoniato contro Maxwell.
All’Indipendent ha spiegato che la stanza è diventata silenziosa quando ha raccontato il suo passato, dicendo agli altri che, come testimone, poteva ricordare solo alcuni dettagli. E nel tentativo di giustificare il motivo per cui Jane e Carolyn, due delle testimoni, non si siano fatte avanti prima, ha detto agli altri giurati di aver aspettato fino al liceo prima di raccontare a qualcuno dei suoi abusi.
In entrambe le interviste, David ha ammesso che la sua confessione ha influenzato le deliberazioni della giuria che ha trovato Ghislaine Maxwell, 60 anni, colpevole.
Durante la selezione della giuria, ai 230 potenziali giurati sono stati forniti alcuni questionari in cui veniva chiesto, tra le altre cose, se loro o qualcuno nelle loro famiglie avesse subito abusi sessuali. Chi rispondeva in maniera affermativa, dove dire se questo avrebbe influito sulla loro «capacità di servire in modo equo e imparziale». David ha detto alla Reuters di non ricordare di essere stato interrogato su esperienze personali come abusi.
Questo potrebbe essere un valido motivo per gli avvocati di Maxwell per chiedere l’annullamento del processo. «Potrebbe sicuramente essere un problema» ha detto al Telegraph l’ex procuratore federale di New York Moira Penza. «Spero che il giurato lo abbia rivelato nel suo questionario. Ma è strano che la difesa non lo abbia eliminato».
Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” l'1 gennaio 2022. Alta, bella ricca, erede di una grande fortuna dalle dubbie origini, brillante studentessa di Oxford, poliglotta con tre passaporti, ora pluricondannata per una serie impressionante di reati a sfondo sessuale (e potrebbero esserci altri procedimenti simili in arrivo). Ghislaine Maxwell, sessant' anni compiuti in cella il giorno di Natale, in carcere è destinata a restare a lungo. È l'ultimo, strano capitolo della sua vita molto strana.
Papà ebreo (Robert Maxwell, carismatico self-made man dell'editoria e della finanza dai legami molto discussi con l'intelligence), mamma ugonotta, entrata di diritto per nascita e censo negli ambienti più ristretti e influenti del Regno Unito, reginetta delle discoteche londinesi anni '80, amica delle «Sloane Ranger» di Chelsea in cerca di mariti ricchi (lei restò single), Ghislaine lavora per papà Robert fino alla di lui morte, in circostanze misteriose, nel 1991 (annegato poco lontano dal suo yacht battezzato «Lady Ghislaine» in onore della figlia prediletta).
Un presunto suicidio che lei considerò sempre, almeno in pubblico nelle rare interviste, un omicidio - e anche qui, per chi crede a queste cose, si tratta d'un presagio. Così nel 1991, a trent' anni, finisce la prima vita di Ghislaine Maxwell, con la morte del padre e il volo - sul Concorde, noblesse oblige - che la porta a New York, sua nuova casa.
A New York conosce il secondo uomo della sua vita, dopo suo padre. Chi si interessa di psicologia o semplicemente ha letto i classici greci non può non notare che Ghislaine Maxwell sceglie un carismatico self-made man della finanza dai legami molto discussi con l'intelligence, Jeffrey Epstein, che in qualche anno da supplente di matematica in un liceo di lusso di Manhattan (pur senza essere laureato, uno dei tanti misteri) diventa finanziere di lusso e superconsulente di una lista ottima e abbondante di miliardari.
La coppia Epstein-Maxwell diventa subito famosa: frequentano i ricchi (Bill Gates, Trump), i nobili (il principe Andrea), i potenti (Bill Clinton), gli intellettuali, i grandi giuristi. Molto paparazzati, poco inclini alle interviste. Lei nelle immagini ha sempre un mezzo sorriso un po' leonardesco, enigmatica per abitudine visto che lavorare con papà richiedeva discrezione assoluta anche per fare slalom tra gli scandali.
La storia d'amore Epstein-Maxwell a un certo punto finisce, ma lei continua a lavorare per lui anche come procacciatrice di ragazzine per le numerose residenze di Epstein - la grande casa nell'Upper East Side di New York con il mitico marciapiede riscaldato anche d'inverno, la villa di Palm Beach dove secondo le testimonianze dello «staff» succedeva di tutto, quella del sesto arrondissement a Parigi, la maxi-residenza nelle Isole Vergini a Little St. James.
Ghislaine è inestimabile perché sa muoversi in mondi molto diversi, la finanza e quello che una volta si chiamava il «jet-set», sicura nei modi, l'accento inglese da scuola di lusso (agli americani fa molto effetto) così diverso da quello di Jeff nato e cresciuto a Brooklyn. È l'ambasciatrice del miliardario (altro che assistente), e lo rimane anche nel 2005 quando per abusi su 36 ragazzine Epstein riceve in Florida una condanna grottesca a 13 mesi.
Dal 2006 Maxwell continua a lavorare per lui, ma è difficile vederli in pubblico insieme: sono gli anni della paziente ricostruzione dei contatti con gli amici di «prima». Ma dal 2015 Ghislaine scompare dagli eventi pubblici, impegnata a combattere le cause che presentano il conto, inizialmente soltanto in sede civile, dei massaggi e delle feste degli anni '90. Decenni di impunità finiscono di schianto: forse il mondo è (un po') cambiato, forse qualcuno che li proteggeva dall'alto ha smesso di farlo. Difficile dirlo.
Prima cade lui, arrestato nell'estate 2019 appena sceso dall'aereo che lo riporta a New York da Parigi e trovato morto nella sua cella il 10 agosto, ufficialmente è suicidio tramite impiccagione del detenuto più famoso d'America, ma la scandalosa negligenza dei carcerieri e la mancanza provvidenziale di immagini video non finirà mai di alimentare teorie alternative. Pochi giorni dopo, un altro momento surreale: Maxwell viene fotografata in una tavola calda di Los Angeles mentre legge The Book of Honor: The Secret Lives and Deaths of CIA Operatives , saggio sugli agenti segreti che alimenta ulteriormente tutto quello che di brutto molti pensavano da decenni su suo padre e sul suo ex compagno. Nel 2021 tocca a lei. Il processo, le manette al posto dei braccialetti di Asprey, la condanna. Scrisse Hemingway: «Come sei andato in bancarotta? In due modi. A poco a poco, poi all'improvviso».
Figlia prediletta, ereditiera innamorata, procacciatrice di ragazzine: le tre vite di Ghislaine (prima della caduta). Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2021. Nel 1991, a 30 anni, dopo la morte del padre, si era trasferita a New York per una svolta. Qui l’incontro con Epstein apre un nuovo capitolo nella sua esistenza. Fino a ritrovarsi pluricondannata per reati a sfondo sessuale.
Alta, bella ricca, erede di una grande fortuna dalle dubbie origini, brillante studentessa di Oxford, poliglotta con tre passaporti, ora pluricondannata per una serie impressionante di reati a sfondo sessuale (potrebbero esserci altri procedimenti simili in arrivo). Ghislaine Maxwell, sessant’anni appena compiuti in carcere il giorno di Natale, in carcere è destinata a restare a lungo, ultimo strano capitolo della sua vita molto strana.
Papà ebreo (Robert Maxwell, carismatico self-made man dell’editoria e della finanza dai legami molto discussi con l’intelligence), mamma ugonotta, entrata di diritto per nascita e censo negli ambienti più ristretti e influenti del Regno Unito, reginetta delle discoteche londinesi anni ’80, amica single delle «Sloane Ranger» di Chelsea in cerca di mariti ricchi, Ghislaine lavora per papà Robert fino alla di lui morte, in circostanze misteriose, nel 1991 (annegato poco lontano dal suo yacht battezzato «Lady Ghislaine» in onore della figlia prediletta), presunto suicidio che lei considerò sempre, almeno in pubblico nelle rare interviste, un omicidio.
Così nel 1991, a trent’anni, finisce la prima vita di Ghislaine Maxwell, con la morte del padre e il volo – sul Concorde, noblesse oblige – che la porta a New York, sua nuova casa.
A New York conosce il secondo uomo della sua vita, dopo suo padre. Chi si interessa di psicologia o semplicemente ha letto i classici greci non può non notare che Ghislaine Maxwell sceglie, tra mille uomini, un carismatico self-made man della finanza dai legami molto discussi con l’intelligence, Jeffrey Epstein che in qualche anno da supplente di matematica in un liceo di lusso di Manhattan (pur senza essere laureato, uno dei tanti misteri) diventa finanziere di lusso e superconsulente di una lista ottima e abbondante di miliardari.
La coppia Epstein-Maxwell diventa subito famosa: frequentano i ricchi (Bill Gates, Trump), i nobili (il principe Andrea), i potenti (Bill Clinton), gli intellettuali, i grandi giuristi. Molto paparazzati, poco inclini alle interviste.
Lei nelle immagini ha sempre un mezzo sorriso un po’ leonardesco, enigmatica per abitudine visto che lavorare per papà Maxwell richiedeva discrezione assoluta anche per fare slalom tra gli scandali (i fondi pensioni dei dipendenti svaniti nel nulla per esempio).
La storia d’amore Epstein-Maxwell a un certo punto finisce, ma lei continua a lavorare per lui con mansioni non chiare (come non chiari sono i rapporti di Epstein con molti ambienti) ma di sicuro, ci dice la verità processuale, lei funge anche da procacciatrice di ragazzine per le numerose case di Epstein – la grande palazzina nell’Upper East Side di New York con il mitico marciapiede riscaldato anche d’inverno, la villa di Palm Beach dove secondo le testimonianze dello staff succedeva di tutto, quella del sesto arrondissement a Parigi, la maxiresidenza nelle Isole Vergini a Little St. James.
Ghislaine è inestimabile collaboratrice professionale, al di là del rapporto personale, perché sa muoversi in mondi molto diversi, la finanza e quello una volta si chiamava il jet-set, sicura nei modi, l’accento inglese da scuola di lusso (agli americani fa molto effetto) così diverso da quello di Jeff nato e cresciuto a Brooklyn (che rispetto a Oxford e allo yacht dei Maxwell sta proprio in un’altra galassia).
E’ l’ambasciatrice del miliardario, e lo rimane anche nel 2005 quando per abusi su 36 ragazzine Epstein riceve in Florida una condanna grottesca a 13 mesi (avvalendosi di condizioni detentive talmente lasche, grazie ai permessi di lavoro e alla benevolenza dei secondini, che nessuno riesce tuttora a documentare effettivamente quante notti Epstein passò in carcere).
Dal 2006 Maxwell continua a lavorare per lui, ma è difficile vederli in pubblico insieme: sono gli anni della paziente ricostruzione – o meglio, del tentativo di ricostruzione – dei contatti con gli amici di «prima».
Ma dal 2015 Ghislaine scompare dagli eventi pubblici, impegnata a gestire con i suoi legali le cause (Virginia Giuffre v. Maxwell del 2015, Sarah Ransome v. Epstein and Maxwell del 2017, e altre ne seguiranno) che presentano il conto, inizialmente soltanto in sede civile perché negli Usa non c’è l’obbligatorietà dell’azione penale come da noi, dei massaggi e delle feste private degli anni ‘90.
Decenni di impunità finiscono di schianto: forse il mondo è (un po’) cambiato, forse qualcuno che li proteggeva dall’alto ha smesso di farlo. Difficile dirlo. Prima cade lui, arrestato nell’estate 2019 appena sceso dall’aereo che lo riporta a New York da Parigi (gigantesco errore dei suoi legali) e trovato morto nella sua cella il 10 agosto, ufficialmente è suicidio tramite impiccagione del detenuto più famoso d’America ma la scandalosa negligenza dei carcerieri e la mancanza provvidenziale di immagini video non finirà mai di alimentare teorie alternative.
Pochi giorni dopo l’ennesimo momento surreale: Maxwell viene fotografata in una tavola calda di Los Angeles, mentre legge «The Book of Honor: The Secret Lives and Deaths of CIA Operatives», saggio sugli agenti segreti che alimenta ulteriormente tutto quello che di brutto molti pensavano da decenni su suo padre e sul suo ex compagno (magari si trattò soltanto di una scelta infelice, però insomma). Nel 2021 tocca a lei. Il processo, la condanna, e altri guai appaiono all’orizzonte. Scrisse Hemingway: «Come sei andato in bancarotta?” In due modi. A poco a poco, poi all’improvviso».
· 3 anni dalla morte di Nadia Toffa.
Paolo Aruffo per ilfattoquotidiano.it il 7 novembre 2022.
“Tre anni fa ci ha lasciati, troppo presto, una donna forte, combattiva e solare, sto parlando di Nadia Toffa. Oggi vogliamo ricordarla con la sua dolcissima mamma Margherita”. Inizia così Silvia Toffanin, durante la puntata di Verissimo andata in onda ieri 6 novembre su Canale 5. Ed è subito commozione, quando la conduttrice accoglie nello studio la signora, che esordisce dicendo:
“Sei bellissima, che emozione grande che mi avete invitata”. “Si tira avanti, ma il dolore è straziante – ha confidato Margherita -. Però per fortuna ho molta fede e questo mi aiuta tanto. Quando eravamo giù di morale, perché c’erano dei momenti molto delicati, Nadia mi ha insegnato a pregare. Bastava raccogliersi un momento, una preghiera e passava.
Tante volte lo abbiamo fatto. Anche adesso, quando mi succede, mi prendo la foto più bella che ho e me la coccolo come se abbracciassi lei. Le racconto quello che ho da dirle, le parlo. Le chiedo di proteggerci, altro non possiamo fare”. Silenzio in studio. Quindi la signora Margherita ha proseguito: “Silvietta, come ti chiamava la mia Nadia, io ho tre nipoti, due figli, un marito e siamo una famiglia che si vuole bene. Ci si aiuta. È dura, ma ci si aiuta”. “Io volevo tanto bene a sua figlia, che era una ragazza speciale – è intervenuta Toffanin visibilmente commossa -. Qui l’ho avuta ospite nei suoi momenti più difficili, quindi è difficile anche per me. Però le ho preparato un tributo perché Nadia merita di essere ricordata, noi le vogliamo bene”.
Dopo il filmato, un lungo applauso del pubblico, tutti in piedi per l’ex inviata de Le Iene, stroncata a 40 anni da un tumore particolarmente aggressivo.
In seguito Margherita ha raccontato degli ultimi anni: “Non c’era stata alcuna avvisaglia, neanche un briciolo di mal di testa. È svenuta a Trieste e da lì è partito tutto e lei lo ha capito immediatamente. Lei sapeva tutto. L’hanno operata 5 volte, è stato veramente devastante. Però lei lo superava in un giorno, infatti il professore che la operava le diceva: ‘Ti opero di nuovo perché so che domani, se ti dico ‘alzati’, tu ti alzi e ti siedi sulla sedia’. E lei lo faceva, aveva un coraggio, una voglia di vivere… Il giorno prima urlava dal dolore ma il giorno dopo lei era già serena. Lo faceva per se stessa e anche per me, aveva delle energie che non so dove le prendesse. Era uno scricciolo [..] “.
“Solo alla fine si era rinchiusa, stavamo noi due, non voleva vedere nessuno. Lei la sera scriveva, scriveva. Magari il giorno dormiva, io stavo con lei nel lettone. Mi diceva: ‘Metto questi pensieri sul computer, li troverai. O lo faremo insieme, ma lo sapeva che non ci saremmo riuscite, oppure mamma lo farai tu. Ti lascerò talmente tante cose da fare che non avrai tempo per piangere. Continuerai quello che sto facendo io, aiuterai gli ultimi, i più deboli.
Userai tutto per la beneficenza, per questo infatti abbiamo creato la Fondazione'”, ha continuato a raccontare la signora Margherita. Un grande silenzio avvolge le sue parole. Silvia Toffanin ha le lacrime agli occhi, riesce solo a porre qualche domanda di tanto in tanto. Le parole di mamma Margherita e quelle foto di Nadia sorridente, che scorrono sul led, sono un pugno allo stomaco. Alla fine dell’intervista, la padrona di casa legge una lettera di Nadia Toffa per la mamma, poi si alza per abbracciarla: “Volevo dirle grazie perché lei ha messo al mondo una donna che sarà indimenticabile, a cui tutti noi vogliamo bene e che ha fatto tante cose belle e importanti. Grazie per questo racconto”.
· 3 anni dalla morte di Antonello Falqui.
Antonello Falqui, il regista che inventò il varietà in tv (con Mina e le Kessler). Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 21 luglio 2022.
Le gemelle Kessler? «Nel 1961, appena le vide, Ennio Flaiano disse: “Quattro gambe e una sola testa”. Ma anche Indro Montanelli, Enzo Biagi e Achille Campanile scrissero di loro. Chissà perché le loro gambe lunghissime interessavano tanto gli intellettuali... I rotocalchi riempivano pagine e pagine con le loro fotografie». E Mina? «L’ho scoperta io. Lo rivendico. Mina era timida e insicura quando la conobbi, anni prima. Doveva essere solo un poco incoraggiata, ma superate le prime difficoltà, rompeva ogni argine. Le ho insegnato ad avere fiducia in sé stessa. Liza Minnelli ha rivelato che una volta ha messo su un disco di Mina ed è rimasta senza fiato nell’ascoltarlo; poi ha concluso: “Se facesse un concerto andrei nel backstage a chiederle l’autografo”». E la Biblioteca di Studio uno con il Quartetto Cetra? «La Biblioteca è stata anche un’occasione per riunire, per cosi dire, gli “interessi familiari”, quelli di mio padre e quelli miei, ossia la letteratura e il varietà, un esempio di parodia culturale. Il vero motore di tutto il racconto erano i “centoni”, ossia le famose canzoni celebri sceneggiate, parodiate, mantenendo però la stessa metrica degli originali».
A rispondere alle domande di Enzo Lavagnini è Antonello Falqui, il più grande regista della tv italiana ( Io, proprio io: Antonello Falqui, Palombi editore, 2022, volume realizzato con la collaborazione dell’Associazione Antonello Falqui). Figlio del critico letterario Enrico Falqui, Antonello (Roma 1925-2019) è stato il primo regista della Rai. È lui che ha inaugurato i programmi con «Arrivi e partenze», incontri all’aeroporto (in realtà uno studio che sembrava un’agenzia di viaggi) condotto da Mike Bongiorno: «Sandro Pugliese, il direttore dei programmi della Rai di allora, era molto amico di mio padre. Si lamentava: “Ho solo verbosa gente di teatro qui. Teorici e parolai. Non c’è nessuno che curi l’immagine”. Non me lo feci ripetere e corsi a Milano per sperimentare. Firmai da regista la prima trasmissione in assoluto della tv di Stato. Era il 1952, si intitolava “Arrivi e partenze”».
Il primo e, ripeto, il più bravo perché, pur avendo frequentato il corso di regia al Centro Sperimentale, non ha mai creduto che il linguaggio televisivo fosse un surrogato di quello teatrale o cinematografico. Ha avuto la fortuna di attraversare quel momento aurorale in cui si inventano le cose, o in cui le cose accadono per la prima volta, ma ha avuto la bravura di inventarsi un linguaggio nuovo, una grammatica costruita sulla leggerezza, sull’ironia e sull’eleganza. «Odio tutto ciò che è casuale, fortuitamente lasciato agli eventi, fuori dell’orbita del pensiero. Accanto all’esigenza di accontentare il pubblico nei suoi desideri, ci deve essere anche una volontà di stimolo al buon gusto, a un minimo di senso critico». In queste parole si racchiude il senso della tv di Falqui, iniziata con «Arrivi e partenze» e finita con «Un altro varietà» (1986). In mezzo, alcune pietre miliari della tv: «Canzonissima» (1958-59, 1969-70), in particolare l’edizione con il trio Scala-Manfredi-Panelli che resta il paradigma perfetto del varietà televisivo, «Giardino d’inverno» (1961), con le gemelle Kessler e il Quartetto Cetra, «Studio Uno», «Biblioteca di Studio Uno» e «Teatro 10» (1964), «Mille luci» (1974).
Per «Canzonissima 1969» un funzionario della Prima rete (allora si chiamava così) gli scrive una lettera di ringraziamento per la collaborazione e per l’impegno mostrato nel superare numerose difficoltà. Il funzionario gli confessa anche di doversi ricredere: aveva sempre pensato che i successi di Falqui fossero dovuti «a un insieme di circostanze fortunate». Non era così. Angelo Guglielmi, la firma in calce. Il suo capolavoro è stato «Studio uno». Mentre Torino celebrava con «Italia 61» il centenario dell’unità d’Italia, gli italiani scoprivano le gemelle Kessler e il Dadaumpa. Falqui e Guido Sacerdote erano stati negli Usa, avevano visto spettacoli nuovi, volevano proporli in Italia. Piccola parentesi: fondamentale è stato il sodalizio con Sacerdote, suo produttore e complice di tante scoperte. Guido era figlio di un ricco farmacista di Alba: per un po’ proseguì l’attività paterna, ma poi abbandonò tutto, prima per seguire Remigio Paone e poi per entrare nella Rai di Milano come capo ufficio scritture. Insieme, Antonello e Guido, girarono il mondo alla scoperta di «attrazioni» e inventarono il sabato sera della Rai.
Alice ed Ellen Kessler, le note gemelle, icone della tv italiana anni ‘60 (foto di Oliviero Bruno)
Non c’era più bisogno di scenografie sfarzose, gli artisti si muovevano su fondali fatti di grandi spazi bianchi. La telecamera poteva così far risaltare meglio i corpi delle ballerine, degli ospiti, dei conduttori; si cominciava in questo modo a ragionare in termini di linguaggio televisivo. E poi la cosa più moderna, sconvolgente: si vedevano in campo gli strumenti con cui si riprende lo spettacolo: telecamere, microfoni, giraffe, luci... Sull’Espresso, persino Sergio Saviane ebbe parole di elogio: «Il merito di Sacerdote e Falqui non è solo d’aver allestito un varietà televisivo divertente, vivo, con molte idee e che promette di migliorare nelle prossime settimane, ma d’aver sconvolto le acque del rattrappito mondo della canzone, mettendo al bando i cantanti e le loro pietose interpretazioni».
«Studio Uno» elimina i grigi, conosce solo il bianco e il nero. Ma non basta: di fronte a tanta accuratezza e tanta misura scenografica è possibile giocare sulla ridondanza. Nell’apparente asetticità dello studio c’è bisogno dell’enfasi delle gambe (le gemelle Kessler), dell’enfasi della voce (Mina), dell’enfasi della parola (Walter Chiari): «Mina e Walter Chiari sono state le persone con le quali ho lavorato meglio . Anche se ho lavorato bene anche con Rita Pavone, con Paolo Panelli e Franca Valeri . Franca Valeri quando non era prevista nel cast dei miei programmi minacciava, scherzosamente: “Vedrai che non andrà bene, perché io non ci sono...”». Ma lavorare con Chiari era una scommessa, non sempre si presentava alle prove, anche le più impegnative: «Una buona stella ci aiutò... Incredibilmente Walter fece tutta la trasmissione senza nemmeno un errore, e questo senza aver provato nulla. Parliamo della puntata finale di una “Canzonissima”, una cosa complicatissima, con le giurie in tutto il mondo, Era assolutamente speciale. Un artista come pochi; ci ho lavorato un sacco di volte insieme. Era nato per il palcoscenico».
Grazie a Falqui, l’allora direttore generale, il cattolicissimo Ettore Bernabei, poteva vantarsi di aver tolto la gonna alle gemelle Kessler: «Le proponemmo con il tutù e la calzamaglia nera, senza gonna. Avevano bellissime gambe, ed erano statuarie come la Venere di Milo... E non si muovevano in maniera ammiccante e invitante: facevano vedere come si presenta, con eleganza e signorilità, una bella donna; sicché anche gli uomini presi da desideri umani le guardavano come ideali di bellezza e si contentavano delle loro mogli magari con un po’ di cellulite». In un’intervista rilasciata a Malcom Pagani, Falqui aveva confessato: «Non volevo alfabetizzare il Paese come il maestro Manzi, ma solo intrattenerlo con grazia ed eleganza. Così provai a trasformare la tv e spostai in quel contenitore il teatro di rivista, già declinante all’inizio degli anni ‘50. L’avanspettacolo lo conoscevo bene. Facevo sega a scuola per andare a vedere Rascel al Bernini». A differenza di Enzo Trapani (Roma 1922-89), l’altro grande regista di varietà che amava le telecamere in continuo movimento, i montaggi audaci e nervosi, l’assenza della classica figura del conduttore, Falqui ha rappresentato l’espressione più alta del varietà televisivo classico. Così la pulizia formale, gli ampi e maestosi movimenti di macchina, le scenografie moderne costituiscono ancora oggi il timbro inconfondibile delle sue regie.
· 2 anni dalla morte di Ennio Morricone.
Dario Salvatori per Dagospia il 2 maggio 2022.
Soltanto alla fine dello scorso anno, Mimma Gaspari, discografica di lungo corso, ha trovato il tempo e il coraggio di “vuotare il sacco”, di tutto ciò che ha vissuto, favorito, trasformato nel cosiddetto rutilante mondo della musica. Oggi che non rutila più è forse tempo di bilanci, e lei li ha fatti nel suo libro “La musica è cambiata?”, prendendo una posizione che non ti aspetti.
Dall’alto delle sue cinque decadi trascorse nel mondo del vinile, avrebbe potuto, con qualche titolo, assumere un tono moralistico, sussiegoso , della serie “oggi io questa musica non la capisco”, invece è andata a prendere di petto Achille Lauro, Marracash, Salmo, Gemitaiz, principalmente rappers con tante derive. Le sorprese sono arrivate. Sorprese che continuano a stupire. Per esempio il suo rapporto con Ennio Morricone. Il mondo del Maestro è stato invalicabile e friabile.
Nella sua logica esiste il “rumore” e i “rumors”. Venivano considerati rumori quelli prodotti dal gruppo Nuova Consonanza, ovvero una formazione d’avanguardia, ad alto tasso solistico e musicologico, messa in piedi da Franco Evangelisti e lo stesso Morricone, a cui nel tempo si sono aggiunti Egisto Macchi, Domenico Guaccero, Giancarlo Schiaffini e tanti altri.
Il loro genere? Quello che passa per musica “contemporanea”, ovvero la musica classica del Novecento. Si andava ad ascoltare Nuova Consonanza al Beat 72, teatro d’avanguardia romano frutto della tenacia di Ulisse Benedetti e Simone Carella, e laggiù, nell’antro già di Carmelo Bene e Memè Perlini, si officiava un rito per pochi, al buio, con Morricone alla tromba, nelle ultime file. Il Maestro e i suoi amici ci istruivano su dove andava la musica: sonorità mutuate dai rumori, da quel minimalismo che ha lasciato profonde tracce nella musica rock, pop e dance.
Si entrava in un labirinto per pochi beneficiari appassionati lontani come atteggiamento da tutti coloro che si sforzavano di porsi come giudici in fatto di stile. In quella cantina si dettavano altre leggi: si proponeva avanguardia, flussi migratori e profonde trasformazioni sociali che rimodellarono il contesto in cui si svolgeva l’attività musicale. Il manifesto della musica contemporanea. Poi arrivò Fabio Fazio.
Nell’ultimo Festival di Sanremo del secolo scorso, quello del 1999, il conduttore pronunciò a sproposito e sciaguratamente la frase: “Questo sarà un Sanremo di musica contemporanea”. E’ ovvio che non voleva dire nulla, però i suoi successori, ancora oggi, dopo più di vent’anni, continuano a dire “questo sarà un Sanremo di musica contemporanea”.
Cambia il conduttore ma l’equivoco resiste. Così è andata. Per fortuna Alex Ross, critico musicale del “New Yorker”, pubblicò nel 2007 “The rest is noise” (in Italia il letterale “Il resto è rumore”). Questi i rumori. Poi ci sono i “rumors”, ovvero i pettegolezzi, che il Maestro non ha mai favorito.
Ma la notorietà internazionale può essere ingorda. Per esempio titolando con enfasi che la sua penultima casa, attico su due piani di mille metri quadrati, è nelle mani di Christie, con un prezzo di partenza di dodici milioni di euro.
Ma torniamo a Mimma Gaspari: “Io sono arrivata alla Rca, la famosa casa discografica di via Tiburtina, nel 1966, in qualità di promoter, radio, tv , ufficio stampa, autrice di testi…e un po’ anche psicologa…”.
Lei è bolognese ma la prima assunzione importante arrivò da Milano, le mitiche Messaggerie Musicali Italiane… “Fu grazie a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e a Teddy Reno e alle loro affettuose insistenze che si accorse di me la direzione della Rca, Ennio Melis, Giuseppe Ornato.” Quando incontrò per la prima volta Ennio Morricone?
“Al mitico bar della Rca, baristi deliziosi Gino e Mario. Lo incontrai lì. Una delle persone che non dimenticherò mai. Nonostante la sua smisurata intelligenza musicale, la capacità di entrare nel mood di ogni film, di essere poi garanzia di successo di ogni pellicola, era un gigante adorabile e modesto.”
Uno che non se la tirava, insomma. “Per niente. Mi lodò per il mio testo di –Exodus-, che mi era stato commissionato da Ladislao Sugar in persona. L’interpretazione di Nico Fidenco vendette 600.000 mila copie e Morricone mi chiese carinamente di scrivere una canzone per il suo ultimo film.” Qual era il film?
“Siamo ancora in piena trilogia del dollaro: -Per qualche dollaro in più- . Scrissi un testo basandomi sulla trama e sulla voce di Maurizio Graf, all’epoca, 1966, era il cantante specializzato in western. Il brano era "Occhio per occhio". La canzone aveva una metrica difficile. Per me, giovanissima, fu un onore. E’ ancora su You Tube!.
E il Morricone privato? “Sua moglie Maria è stata molto importante per lui e l’ha seguito con intelligenza per tutta la vita. A lei Ennio dedicò l’Oscar alla carriera.” Per lui era una fatica viaggiare?
“Un pò si, perché interrompeva la sua giornata. La sveglia all’alba, qualche chiacchiera telefonica con gli amici tifosi della Roma. Un giorno lo incontrai e mi disse: "Devo andare a Los Angeles". "Tutti noi sapevamo cosa doveva succedere. Quando si dice la modestia”
Alla Rca c’erano due grandissimi arrangiatori e futuri Oscar, Morricone e Luis Bacalov, che a quell’epoca firmava anche come Bacalov. Rivalità?
“Non troppe. Ricordo la mitica discussione con Franco Migliacci, il paroliere di Gianni Morandi, che voleva un attacco più forte per "In ginocchio da te". Lui non era d’accordo, ma lo corresse e poi disse. "Tenetevi questa cagata". Fu un successo da oltre un milione di copie.” Aveva sempre gli stessi musicisti, soprattutto la sezione ritmica e i solisti a cui affidare l’assolo…
“Vero. Ricordo l’arrangiamento per “Il barattolo”, costruito con vari pezzi di legno e vari chiodi. Ogni tanto, sempre al bar della Rca mi faceva vedere dei ferretti che gli servivano per certi suoni.” Perché amava la cosiddetta musica concreta, pura avanguardia….“Certo. Pure troppo. Una volta per avere “effetto d’acqua” allagò uno studio…”
Le manca? “Tanto. Ovviamente a tanti. A tutta la famiglia e ai milioni di appassionati. Diceva che ero intelligente! Mi sembrava impossibile. Io lo stimavo tantissimo e gli volevo bene.”
All'asta la casa romana di Ennio Morricone con affaccio su piazza Venezia. Prezzo di partenza: 12 milioni di euro. Francesco Fredella su Il Tempo il 13 aprile 2022.
Una dimora da sogno, che pochi (forse possiamo contarli su una mano) possono permettersi. Si tratta della casa di Ennio Morricone, l'indimenticabile compositore morto nel 2020. La sua abitazione è stata messa all'asta, prezzo base: 12 milioni di euro. Si tratta dell'attico a due passi dal Campidoglio, con affaccio su piazza Venezia, dove il compositore ha vissuto fino a poco prima di trasferirsi all'Eur. L'annuncio della vendita è stato pubblicato on line della casa d'aste Christie's.
"Christie's International Real Estate Roma Exclusive - si legge nell'annuncio della casa d'aste londinese - propone in vendita in uno dei punti più panoramici del centro storico di Roma, a pochi passi da piazza Venezia e dal Campidoglio, attico su due livelli, unico nel suo genere, di 1.000 mq". Quella casa, piena di opere d'arte, ha un valore unico. "L'immobile - si legge nell'annuncio - ornato da numerose sculture e manufatti dell'antica Roma, è servito da portineria h24, con moderno ascensore fino al piano e dispone di un cortile dove sono presenti due comodi posti auto relativi all'immobile oggetto di vendita".
Due livelli, tre ingressi. Al piano inferiore c'è il salone con soffitti alti 5 metri e vista mozzafiato sull'Altare della Patria mentre al secondo piano, oltre alla sala da pranzo, ci sono cucina, 4 camere e 4 bagni. All'ultimo piano, invece, altri 4 saloni e un terrazzo con una panoramica sull'Altare della Patria.
Lorenzo D' Albergo per “la Repubblica” il 22 marzo 2022.
«Quando noi, quattro figli, siamo stati convocati in Campidoglio dopo la scomparsa di nostro padre e l'ex sindaca Virginia Raggi ci ha chiesto di dare il suo nome all'Auditorium, non siamo stati felici. Di più». Nella memoria del figlio di Ennio Morricone, Giovanni, è scolpito ogni ricordo legato al padre. I successi e le delusioni. I premi, gli Oscar e i riconoscimenti postumi. Il racconto della vita del genitore, del suo mito, è appassionato.
Ma la narrazione di Giovanni, regista e sceneggiatore, ora al lavoro a New York, si blocca quando all'orizzonte si staglia il Parco della Musica di Roma: «Papà non avrebbe nemmeno mai potuto sognarne l'intitolazione.
Ma quando abbiamo visto la targa che gli hanno dedicato, il modo in cui è stata realizzata, e l'assenza del suo nome sul sito dell'Auditorium... in famiglia si è risvegliato un sentimento di dispiacere». Come raccontato ieri da Repubblica, sulla vetrina virtuale dell'Auditorium non c'è traccia dell'intitolazione a Morricone.
E la targa non tiene fede a quanto specificato nella delibera con cui il Comune ne ha deciso l'apposizione. Cosa avete pensato quando avete visto l'incisione della targa? «Ha un titolo ("Auditorium - Parco della Musica", ndr ) mentre il nome di mio padre è ridotto a un sottotitolo. Lo stesso non è mai indicato online. È come se la sala Sinopoli si chiamasse "sala grande", con il nome del maestro ridotto a sottotitolo. Non è così».
Il docufilm di Giuseppe Tornatore racconta la sofferenza di suo padre per il mancato riconoscimento da parte dell'accademia del suo lavoro per il cinema.
«Ciò che si vede in Ennio è la verità. C'è stata una resistenza storica nei confronti di papà. Oltre alle colonne sonore per il cinema, che non credo siano un prodotto di secondo livello, ha composto più di 100 brani di musica assoluta».
Che rapporto aveva con l'Accademia di Santa Cecilia?
«Mio padre negli anni ha lavorato gratis per Santa Cecilia e ha riempito sempre il teatro con i suoi concerti. Sono fatti».
Resta il nodo della cura della memoria.
«Indro Montanelli diceva che questo è un Paese senza memoria. Dovrebbe esserci un interesse da parte delle istituzioni a ricordare chi ha regalato alla comunità un motivo di orgoglio. Non si tratta di nome o di status. Ma, nel caso di mio padre, della dignità della sua musica. La sua è una storia di umiltà, ha lavorato da quando aveva 14 anni. È stato un esempio, può esserlo ancora per i giovani».
Come?
«Stiamo parlando con il Comune per organizzare un evento in suo ricordo. A patto che il Covid ce lo permetta».
E l'Auditorium? In che rapporti siete dopo la vicenda della targa?
«Subito dopo la morte di papà c'è stato un concerto fuori programma. Si era anche parlato di un'esibizione discussa con nostro padre prima che morisse. Non si è più fatta. Poi c'era stata una richiesta da parte del ministero degli Esteri a cui Santa Cecilia ha dato seguito. In ogni caso, a prescindere da Morricone, ai grandi compositori va dato spazio per ricordare quanto ci hanno dato».
Raccontava la sofferenza di suo padre. Ha più senso distinguere la musica alta da quella più popolare?
«No. Credo che anche la musica più alta debba comunicare delle emozioni. È la missione dell'arte. Se si guarda un Picasso o un Pollock, i quadri devono comunicare qualcosa. Altrimenti non c'è condivisione.
C'è un passaggio in Ennio , quando papà racconta "la vittoria sulla propria sconfitta" e il peso del senso di colpa che gli era stato fatto sentire da una certa generazione di musicisti... il riscatto è arrivato facendo della musica per il cinema un elemento necessario per i film, ma con una vita indipendente rispetto alle pellicole. Ne parlavo con lui e mi spiegava che la musica del cinema fa parte del linguaggio contemporaneo. Mi pare che stia resistendo al tempo».
Fin qui i ricordi e le valutazioni di un figlio. Sua madre come vive questo passaggio?
«È una donna riservata. Ma ha notato tutto questo anche lei, la storia della targa e del sito. Dopo 70 anni insieme, va considerata come coautrice. Ora è l'ultima rappresentante dell'opera di nostro padre. È coscientissima tanto del suo amore per la musica assoluta che per quella per il cinema».
Massimo Iondini per “Avvenire” il 19 marzo 2022.
È arrivato anche L'ultimo treno della notte, con quasi mezzo secolo di ritardo. Un film del 1975 ad alto tasso di violenza impreziosito però dalle musiche di Ennio Morricone che escono ora per la prima volta in vinile con tutte le tracce finalmente presenti.
Un'autentica chicca, per morriconiani e non, questo long playing che riemerge dalle polveri del passato proprio mentre il ricordo del Maestro sta rivivendo più che mai sul grande schermo grazie al meraviglioso film documentario Ennio di Giuseppe Tornatore. Il vecchio thriller di Aldo Lado, tra i film più cruenti mai prodotti in Italia, vantava comunque un notevole cast con attori del calibro di Flavio Bucci, Enrico Maria Salerno e Franco Fabrizi, oltre alla debuttante statunitense Irene Miracle poi protagonista di Inferno di Dario Argento e vincitrice di un Gloden Globe per Fuga di mezzanotte di Alan Parker.
Se in La corta notte delle bambole di vetro, il primo film diretto da Aldo Lado nel 1971, Morricone aveva usato il suono di un battito cardiaco per sottolineare lo stato catatonico del protagonista creduto morto in obitorio, ne L'ultimo treno della notte si ode incalzante lo sferragliare del treno a simboleggiare le violenza commesse sul treno da giovani delinquenti. In sintonia con gli intenti del regista, che vorrebbe attaccare la società borghese e la violenza del potere, Morricone utilizza anche la canzone pop pacifista A flower' s all you need, interpretata da Demis Roussos, all'epoca stampata soltanto su un raro 45 giri giapponese e ora presente nell'inedito vinile.
Ma il Morricone "segreto" nasconde molti altri tesori rari o sconosciuti, come per esempio alcuni film da lui musicati sotto pseudonimo, escamotage utilizzato però soltanto per alcuni western. A partire dal primo, Duello nel Texas (1963) che è anche in assoluto il primo western italiano, con la regia dello spagnolo Ricardo Blasco. Qui Morricone firma le musiche con lo pseudonimo di Dan Savio.
Alle riprese aveva partecipato anche l'italiano Mario Caiano, regista l'anno dopo del secondo western italiano, Le pistole non discutono. E stavolta Morricone firma le musiche con il proprio nome, cosa che invece non farà subito dopo per il successivo Per un pugno di dollari, celeberrimo film che segna il debutto del sodalizio con l'amico regista Sergio Leone.
Mistero, bizzarria o semplice intreccio di singolari circostanze? «Le pistole non discutono e Per un pugno di dollari sono stati entrambi prodotti dalla Jolly Film, così per consentire a Leone di debuttare nel genere western limitando i costi di produzione furono utilizzati il set spagnolo e gli stessi costumi di Le pistole non discutono » spiega il musicista e compositore milanese Claudio Balletti, profondo conoscitore dell'opera di Morricone e autore tra l'altro della colonna sonora del docufilm sulla pandemia Milano 2020 trasmesso lo scorso maggio in prima serata da Rete 4.
Tra i due, il film di punta è ovviamente quello di Caiano, così sia Leone sia Morricone (Dan Savio) si firmano con pseudonimi, anche per spacciarlo per un film americano. Ma solo all'inizio. «La Rca stava aspettando di pubblicare la colonna sonora di Per un pugno di dollari, il cui titolo provvisorio era Il magnifico straniero- racconta Balletti -. Qualcuno della produzione aveva frattanto cambiato il titolo e nelle sale il film era uscito appunto come Per un pugno di dollari. La Rca però non lo sapeva, così il disco uscì molto dopo ma a quel punto, visto il successo al botteghino, con i crediti giusti sul disco e nei titoli di testa e di coda della pellicola, musica di Morricone e regia di Leone». Ma Dan Savio non è stato l'unico pseudonimo utilizzato da Morricone.
Anche a Leo Nichols ha fatto ricorso un paio di volte il compositore romano. Successe per Un fiume di dollari del '66, primo western del regista Carlo Lizzani che si firmò con lo pseudonimo Lee W.Beaver. In quel caso Morricone non aveva nessun particolare motivo per nasconedere il proprio nome nei crediti del film, ma lo fece solo per allinearsi alla scelta di Lizzani che preferiva non rendere riconducibile a lui quell'intromissione in un genere in cui debuttava subito dopo aver girato due film impegnativi e di tutt' altro valore come Il processo di Verona e La vita agra.
Stesso anno e ancora musiche a firma Leo Nichols per il film western Navajo Joe di Sergio Corbucci. Certo, alla base della scelta di usare pseudonimi c'era anche il fatto di prendere in qualche modo, idealmente, le distanze da un genere e da un'attività, quella di autore di colonne sonore per il cinema (e prima di arrangiatore di musica leggera alla Rca), invisa all'ambiente accademico dal quale proveniva. In fondo, Morricone era stato l'allievo prediletto di Goffredo Petrassi che si era in parte sentito tradito da quel talento che alla musica d'avanguardia e alla composizione colta stava preferendo il genere popolare. Questo fu per Morricone motivo di grande sofferenza interiore, come viene ben sottolineato anche nel docufilm Ennio.
Così ci sono anche alcuni film di cui il Maestro non ha mai voluto parlare volentieri, ritenendo forse di essersi prestato con la sua musica alla realizzazione di un prodotto d'arte non all'altezza. Tra questi c'è Vergogna schifosi (1969) di Mauro Severino, con Lino Capolicchio. Ambientato a Milano, racconta di un omicidio e di un gioco ricattatorio di tre giovani.
A elevarsi è la musica di Morricone che tocca vertici di bellezza accompagnando con un ammaliante "girotondo", una ossessionante nenia basata su una scala nel modo frigio (molto usata nel jazz), le scene di una sorta di gioco dell'oca. I rapporti con i registi non sono sempre stati idiliaci nemmeno per uno come Morricone, che comunque ha normalmente trovato il giusto connubio tra le sue idee e quelle dei cineasti.
Oggi come oggi al compositore di colonne sonore viene dato il tempo della sequenza da musicare, così può comporre una frase ad hoc sia nella durata che nel suono da legare all'immagine. In passato però poteva succedere, anche in film importanti, che partisse la musica in una determinata sequenza e che venisse di colpo silenziata. Il montaggio veniva talvolta fatto a prescindere dalla colonna sonora e c'erano registi a cui andava bene qualsiasi cosa.
Un esempio? Uno dei più bei brani scritti da Morricone per la sua musa canora Edda Dell'Orso, In un sogno il sogno, presente nel film La donna invisibile (1969) del regista Paolo Spinola. Il brano parte in sordina, sotto a un dialogo, poi si sviluppa e cresce ma all'improvviso viene troncato brutalmente. Dell'Orso lo considerava uno dei migliori mai cantati, al livello di Scion Scion di Giù la testa.
«Contro certi maltrattamenti dell'arte musicale nel cinema non si poteva fare nulla - dice Balletti -. Si scoprivano certi misfatti quando ormai il montaggio era già stato concluso. Quando capitava, Morricone ovviamente evitava di collaborare ancora con questi registi».
Tra questi, i fratelli Taviani, con cui chiuse dopo aver composto le musiche di Allonsanfàn( 1974) e Il prato (1978): i due registi infatti si intromettevano troppo intervenendo persino sull'opportunità o meno di certi passaggi musicali e influenzandone la creatività. Ma c'è un film in particolare di cui il Maestro non amava parlare, Diabolik, uscito nel 1968, per la regia di Mario Bava.
«Di quel Diabolik non esiste una colonna sonora ufficiale su disco, forse sono andati persi i nastri - racconta Balletti -. Per sentirne la musica bisogna andare a rivedersi il film, da cui era stato tratto un pessimo bootleg, con un monofonico suono scadente e ovattato. Ennio non stravedeva per quel lavoro, eppure il tema principale è molto bello. Era cantato da Christy, una delle voci dei Cantori Moderni di Alessandroni». Il tema di quel lontano Diabolik stava per tornare nel remake dell'anno scorso dei Manetti Bros. I compositori Pivio e De Scalzi volevano infatti ripescarlo per la loro colonna sonora, ma alla fine non se n'è fatto nulla perché non funzionava abbastanza.
Ennio, il documentario su Morricone coinvolgente e musicalissimo. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 14 Febbraio 2022.
Nel trascinante film di Tornatore la storia del grande compositore e delle sue invenzioni.
Il più grande coregista del Novecento è stato Ennio Morricone. Lo abbiamo sempre sospettato, ora ne siamo certi. Anche se forse non è mai stato su un set, il musicista più prolifico e popolare della storia del cinema (oltre 500 titoli) non si limitava a comporre ma trasformava i film a cui collaborava. E prima dei film le canzoni che arrangiava negli anni Sessanta, una lunga serie di evergreen, da Gianni Morandi a Edoardo Vianello, da Paul Anka a Miranda Martino, dal ”Barattolo” a “Sapore di mare”. Successi strepitosi baciati ogni volta da un timbro, un’invenzione, un effetto che rendeva il tutto unico. Magari “suonando” una macchina da scrivere o scrivendo e riscrivendo l’attacco folgorante di “In ginocchio da te” perché Migliacci della Rca non era mai soddisfatto.
Lo racconta con contagioso entusiasmo l’affettuoso, minuzioso, trascinante, musicalissimo documentario di Tornatore, un ritratto d’artista che non dimentica mai l’uomo e con Morricone resuscita tutta un’epoca, un’Italia, uno stile di vita e di lavoro in cui vertiginosamente si mescolano l’alto e il basso, il contrappunto e la melodia, Stravinskij e il Quartetto Cetra, la musica atonale e la capacità di trasferire la sua lezione in quello che ancora non si chiamava pop, senza mai perdere rigore o inventiva. Anche se il cuore del film è nella prima parte, la più intima e commossa, che ripercorre la severa formazione del musicista romano al Conservatorio sotto Goffredo Petrassi. Anni duri, col giovane Ennio che «nel periodo dei tedeschi e poi degli americani» suona nei ristoranti per mangiare (soldi neanche l’ombra) o per i grandi della rivista, Totò, Macario, Dapporto, Rascel, Wanda Osiris. Iniziando poi a scrivere per il cinema sotto pseudonimo, timorosissimo. Fino a quando non gli telefona un ex-compagno di scuola, tal Sergio Leone, e nasce la leggenda. Fitta di trame e sottotrame memorabili come le sue musiche.
Perché da Petri a Pontecorvo, da Argento a Verdone, da Tarantino a Malick (che batte a scacchi al telefono, senza neanche vedere la scacchiera), Morricone non smette di ricordare, di stupire e stupirsi, di mettersi pudicamente a nudo con afflato quasi mistico. Sintetizza Faenza: «Anche Petrassi ha fatto colonne sonore, ma non ha mai pensato che quella da film fosse musica. Morricone invece sì». In sala dal 17 febbraio
Morricone, il Maestro che ha scritto con le note la storia del cinema. Esce in sala il 17 febbraio “Ennio”, il documentario-capolavoro di Tornatore. MARIO SESTI su Il Quotidiano del Sud il 14 Febbraio 2022.
Ennio inizia controvoglia. La tromba, l’arnese con il quale il padre sfama la famiglia, è uno strumento esigente, vuole persino che il corpo, con l’ispessimento del labbro, si adegui a lui. Vorrebbe fare qualcos’altro, forse il medico. Il padre decide diversamente e Ennio obbedisce. Dopo un inizio da studente svogliato, attacca a suonare tarantelle, bourrè, gighe. Non la smetterà mai più.
«Volevo lasciare la musica alla fine degli anni 70. Poi ho rimandato di un decennio. Alla fine del successivo ho detto che avrei smesso in quello dopo. Poi non l’ho detto più». Studia il contrappunto come un ingegnere edile le tecniche di costruzione, da Monteverdi a Frescobaldi a Bach, ma allo stesso tempo suona nelle bande militari. Maria, la moglie, lo segue per strada. Il suo maestro, Goffredo Petrassi, tra i più grandi compositori italiani del secolo, passa dal neoclassicismo di Stravinskij alla musica dodecafonica, dalla musica sacra dei Salmi del maestro russo all’oceano misterioso e sconosciuto dell’atonalità.
Ennio rimarrà per sempre marchiato a fuoco da questa dialettica impossibile: l’ostinato dei fiati, che ritroveremo in molte delle sue composizioni, o l’emozione sorprendente del rumore che diventa pura forma del suono. Intanto, però, bisogna portare il pane a casa, entra in Rai per raccomandazione e ne fugge a gambe levate, ma il destino ha in serbo per lui un incontro che cambierà non solo la sua vita, ma anche la musica leggera in Italia. Viene chiamato a curare gli arrangiamenti alla RCA che è sull’orlo della bancarotta, come Wolf in Pulp Fiction. Ennio aveva già fatto il suo servizio militare nella musica popolare accompagnando Macario, Wanda Osiris, Totò nel ritorno di fiamma della rivista nel dopoguerra, ma ora si tratta di qualcosa di completamente diverso.
L’ Italia passa con un balzo senza precedenti da paese distrutto e arretrato a potenza industriale. La musica della Storia cambia, Ennio scoverà partiture, strumenti e suoni giusti per lei. Lo sa bene Gianni Morandi («Prima di Morricone i brani venivano accompagnati da un’orchestra: lui ha inventato l’arrangiamento moderno»). Pizzicate di contrabbasso, balzi di ottava superiore, fusione di tromboni e voci maschili. Gli archi incidono nell’aria frasi di apertura vertiginose: è come se raffiche di note, agili e febbrili, facessero da battistrada alle canzonette. Come usare Klee e Kandinskij per disegnare la cartellonistica di una fiera.
L’aspetto meno conosciuto della sua biografia artistica ed esistenziale è uno dei momenti più galvanizzanti di questo documentario appassionante come il fumetto di un supereroe. Morricone si vergogna di rivelare a Petrassi quello che combina nella canzone di consumo ma allo stesso tempo assorbe dal cuore della rivoluzione della musica contemporanea (l’avanguardia di Darmstadt che vive dall’interno) l’importanza della dialettica di timbro e melodia.
Ennio sarà davvero l’unico capace di mettere insieme John Cage e Mina, il Quartetto Cetra e i fratelli Taviani, John Zorn e Springsteen, Pat Metheny e Chet Baker. Riesce a somministrare alle masse affamate di motivetti da masticare come chewingum, gli spigoli sonori di un barattolo che precipita dalle scale, suoni e rumori che diventano colonna sonora di stagioni indimenticabili, anche se la madre gli chiede con apprensione una sinfonia che abbia dentro innanzitutto la gemma di una melodia, qualcosa che chiunque possa canticchiare. Mentre apre un frigorifero, esce per prendere un autobus, incontra un collega di ufficio in un corridoio. Ennio Morricone, grazie anche alla musica da film, non ci ha mai lasciato sprovvisti di qualcosa del genere da fischiettare o accennare in falsetto.
Con la musica leggera aveva scoperto come spostare il “basso” verso l’ “alto” («Mettere nell’arrangiamento qualcosa di superiore al brano»), con il cinema imparerà a fare anche il contrario, con un ansia ed un appetito sempre più virtuoso, al punto che diverrà impossibile distinguere l’uno dall’altro: lo scricchiolare del legno, il fischio, la frusta, la campana, l’incudine, l’armonica al posto della voce, la voce del coyote, ma anche la voce umana, soprattutto quella femminile, che esce dalla cassa armonica del corpo umano («uno strumento unico») innervano la ricerca di soundtrack poliformi, orchestrazioni ellittiche, ritmiche folli. Lo sgocciolare del pianoforte e il plettro sul basso, l’incrociare dei temi nella colonna sonora che lui racconta come la più difficile (quella del Clan dei siciliani).
In fondo, il sodalizio con Leone, quello più noto, è anche meno sorprendente dell’arte vertiginosa, e nascosta, delle tre note uniche di “Se telefonando” di Mina o del tema di Metti una sera a cena. Io, personalmente, non amo la polifonia nella giungla di Mission (che ho sempre trovato di un imbarazzante quanto involontario colonialismo: la scena e il film, non la musica), ma l’operazione è Morricone puro, prendere una cosa in un universo e scagliarlo in un altro: prendere Monteverdi o Gesualdo e delocalizzarlo in Amazzonia. E lo stesso vale per il flauto di pan, usato da Gheorghe Zamfir in Picnic ad Hanging Rock, di cui Morricone diventerà il Paganini, adottandolo per il tema, amatissimo, anche da tutti gli ascensori e i grandi magazzini del mondo, di C’era una volta in America. Ennio Morricone ha fatto musica per riviste, arrangiato da “Sapore di sale” a “Pinne fucili ed occhiali”, diretto a Sanremo e composto da autore di puro novecento nella cattedrale impervia dell’atonalità, ma nel cinema è una divinità maggiore, il “creatore di inni” e melodie che non ama la melodia.
L’eccezionale compilation di testimonianze del film (da Quincey Jones a Bruce Springsteen), sta lì a testimoniarlo. Quanti autori in qualsiasi campo, oggi, in lingua italiana, potrebbero vantare un coro di estimatori così prestigioso? Una volta Sergio Leone mentì con Kubrick che lo voleva per Arancia meccanica («purtroppo è impegnato: sta lavorando con me») per evitare che ci lavorasse. Ad un certo punto, all’apogeo del proprio potere artistico e commerciale, al culmine della sperimentazione, negli anni 70, adattò la registrazione della colonna sonora a performance dal vivo (se fosse accaduto oggi, qualcuno le avrebbe sicuramente riprese) con partiture multiple generate da schemi di improvvisazione che dirige e improvvisa dal vivo in proiezione.
Ennio di Giuseppe Tornatore, ha anche il passo vorace e la frenesia espressiva del suo soggetto (nel ‘69 fece la musica di 21 film, «scriveva musica su uno spartito come se fosse una lettera»), punteggiato da accenti memorabili: il coro grottesco e quasi blues del Giudizio universale di De Sica, la sinfonia del fuoco de I giorni del cielo di Terrence Malick, la marcetta sinistra e minacciosa, come il passo di una marionetta omicida, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ma – è la grandezza di tutti i creatori le cui opere diventano patrimonio di tutti – ognuno potrebbe aggiungere qualcosa dalla propria playlist (io avrei inserito anche il soundtrack minimalista di La cosa di Carpenter, il tema rinascimentale del flauto de Il prato dei Taviani, la sinfonia barbarica di quello di Baària).
Ma alla fine, dopo la persuasiva dimostrazione di cosa davvero sia un un autore pop (e soprattutto di quanto Morricone stesso e la sua musica abbiano contribuito a teorizzare e definire cosa lo sia), capace di fondere il gusto di massa con l’avanguardia, l’arte con il godimento, il rumore con la sinfonia, dobbiamo a Giuseppe Tornatore questo ritratto imperdibile di un uomo mite e rinchiuso in una espressione di perenne timore, incline alla commozione, che da giovane aveva le sopracciglia di Montgomery Clift ed era capace, durante le pause da solista, in orchestra, di piccole sieste di venti secondi, la cui “mission” fu quella di diffondere, presso chiunque, la scoperta dello strumento annidato nella percussione di ogni oggetto, la contaminazione di ogni forma sonora e, soprattutto, l’idea della musica come qualcosa che, prima di una idea, di un’ambizione, di una convinzione, possiamo accogliere con felicità e abbandono.
Il successo di un film dipende anche dalla colonna sonora. FEDERICO DE FEO su Il Domani il 14 febbraio 2022.
Negli ultimi anni la composizione di una colonna sonora ha assunto sempre di più il ruolo di spartiacque in grado di determinare la riuscita o meno di un film sia a livello di critica che commerciale. Questo perché costruire un reparto sonoro coerente con la narrazione è diventato un fattore determinante per rendere il cinema sempre più interattivo.
Il risultato di questa evoluzione ha portato sempre più musicisti, non sempre appartenenti alla sfera cinematografica, a cimentarsi con il mondo delle colonne sonore creando nuovi linguaggi sempre più idonei al cinema contemporaneo.
Anche i registi hanno creato una loro visione musicale affidandosi non solo al compositore ma anche ai sound designer e alla nuova figura del music supervisor, professione coerente con i nuovi trend e fruizioni musicali.
FEDERICO DE FEO. Laureato in sound design allo Ied di Roma, con una tesi sperimentale incentrata sull'evoluzione dell'industria musicale nei nuovi metodi di promozione. Da diversi anni scrive articoli di approfondimento che indagano sulle nuove forme e tecniche della musica, in particolar modo di musica per il cinema/serie tv.
· 2 anni dalla morte di Diego Maradona.
Giulia Zonca per “la Stampa” il 9 dicembre 2022.
Negli ultimi due mondiali, a ogni uscita dell'Argentina, il boato partiva molto prima del fischio di inizio, quando Maradona entrava nello stadio e monopolizzava l'attenzione. Gigante, strabordante, ingombrante, presente. Specchio di una nazione e di una nazionale che in Qatar va in campo senza la sua ombra che si allunga dalla tribuna. Maradona è morto due anni fa, a Doha però c'è l'uomo che ha ricalcato il suo profilo pur di stargli a fianco, l'ultimo manager che lo evoca ancora. In questi giorni consegna a Ronaldo, brasiliano, il piede sinistro del numero 10, lo stesso che porta al collo in miniatura sulla spiaggia B12, vista West Bay.
Stefano Ceci, napoletano, trapiantato a Catanzaro Lido da dove, da ragazzo, fa il pendolare per vedere il suo idolo ogni domenica, «Prendevo "il romano" il treno dell'alba per poi arrivare a Campi Flegrei». Da tifoso incrocia il Dieci plurime volte, ma diventa il suo tuttofare solo nel 2000, mentre Diego è a Cuba «drogato, abbandonato, biondo ossigenato, senza soldi, andava al campo da golf alle 10 del mattino e ritornava alle tre del pomeriggio del giorno dopo».
Conquista una fiducia sempre lunatica e oggi gestisce i diritti dell'immagine di un mito, con plurime cause sostenute dagli eredi. Ceci ha portato la statua di Maradona a Napoli, svelata dal presidente della Fifa Infantino e ora lavora per mettere un calco del piede immortale, un altro, a Scampia. Ma qui porta in giro soprattutto un voluminoso e ingestibile ricordo.
Si è fatto gli stessi tatuaggi, porta i medesimi orecchini, la maglietta dedicata, due orologi ai polsi. Abbastanza maradoniano per essere fermato da ogni argentino che in lui ritrova una eco di quel che gli manca.
Se tutti ancora lo cercano perché è morto da solo?
«Come è morto Pantani? Come è morta Marilyn Monroe? Come è morta Amy Winehouse? Maradona era già oltre quando se ne è andato, prendeva 20 pasticche al giorno, un mix per ogni cosa. Aveva consumato il bonus di 15 anni extra vissuti in più perché era lui: straordinario e impossibile».
Però si era rintanato in una casa squallida.
«Squallida? Era spoglia, banale, ma non gliene fregava più nulla. E il contratto lo ha firmato una delle figlie. Quando è morto tutti a inorridirsi, eppure lo avevano visto tutti dove e come stava».
Perché i figli contestano il suo ruolo e la gestione dei diritti di immagine?
«Perché sono cinque da quattro madri diverse e non si mettono d'accordo tra loro sulla percentuale. Non si fidano gli uni degli altri e litigano con me. Vedano loro, il tribunale mi sta dando ragione».
I giocatori che hanno attraversato la sua carriera lo andavano a trovare, tenevano i contatti?
«No. Da tempo, però nemmeno era facile averci a che fare. Non si faceva trovare, cambiava umore. Le persone si stancavano di inseguirlo e di farsi magari pure maltrattare. Era così, pacchetto completo. Tanto da dare, a prezzi altissimi. E non parlo di soldi, ovvio».
Gli è rimasto vicino per soldi?
«Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, Coppola, il precedente agente, stava scappando perché non ne poteva più. Io pur di stargli a fianco ho condiviso ogni esperienza, anche le peggiori. Sono stato pure arrestato, questioni di droga. Ho evitato il carcere perché nella sentenza si dice "dipendente da Maradona". È depositata, con la perizia del medico di Catanzaro Rivalta».
È ancora dipendente?
«Sì, ma ora si può fare qualcosa di buono in suo nome. Senza polemiche. Si dice sempre che i clan lo hanno rovinato, ma Maradona decideva tutto lui: chi lasciare entrare e chi buttare fuori. Forse nel calcio di oggi, globalizzato, ipercontrattualizzato sarebbe cresciuto diversamente. O forse non sarebbe proprio emerso».
Lo ha accompagnato al Mondiale del 2010, quando era ct dell'Argentina?
«No. Era così scaramantico che ha voluto intorno solo le persone presenti quando ha vinto le partite di avvicinamento. Però lo ho scortato nel 2014 e nel 2018».
Come ha vissuto la finale persa in Brasile?
«Ha tifato, tantissimo per la sua Argentina, poi, nella notte, ha quasi festeggiato la mancata Coppa. In un angolo restava contento che la sua vittoria fosse rimasta l'ultima, ma se ne fosse arrivata un'altra l'avrebbe celebrata e basta».
Vedeva Messi come erede?
«No. Ne rispettava l'immenso talento, riconosceva le immense doti però era convinto che senza palla si spegnesse. Non vedeva similitudini».
Sempre rapporti difficili con i campioni: i battibecchi con Platini, il gelo con Pelé.
«Una volta Pelé lo doveva premiare: gli dà il trofeo e dice: "Dopo di me nessuno è meglio di lui". Diego glielo restituisce: "Si parla di storia e uno solo può essere il più grande". Da lì i dispetti, pure nelle partitelle celebrative, quando Pelé girava già con il bastone, dovevano farli segnare entrambi per evitare liti».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2022.
Necrologi, fiaccolate e tornei di calcetto: Napoli ha ricordato Maradona a due anni dalla morte, avvenuta il 25 novembre 2020. Da allora, i tributi a Diego si sono moltiplicati, a partire da quello più istituzionale: l'intitolazione dello stadio San Paolo, teatro delle gesta della squadra, di cui Maradona era capitano, capace di vincere in pochi anni due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana.
Sky ha voluto ricordare il Pibe de Oro con Diego Maradona di Asif Kapadia, regista premio Oscar per Amy : il documentario segue la sua parabola, sportiva e umana, con il contributo di filmati selezionati tra più di 500 ore di video, in parte inediti, e scruta da vicino il corpo e l'anima di un campione amato dal mondo intero, celebrando sia il mito duraturo che l'uomo controverso. I due gol segnati all'Inghilterra nei Mondiali del 1986 - uno di mano e l'altro, straordinario, seminando mezza difesa inglese - rappresentano le due facce del campione: la furbizia e la genialità, la perfidia e la classe, il basso e l'alto.
Maradona, Sogno Benedetto è una serie argentina in dieci episodi su Amazon Prime Video di Alejandro Aimetta. Tutto il racconto biografico si gioca mescolando piani temporali in un'oscillazione continua tra il Diego bambino e l'infanzia difficile tra i sobborghi poveri di Buenos Aires, il Maradona campione osannato e l'uomo sul viale del declino della dipendenza.
In un libro uscito nel 1991, Te Diegum. Genio, sregolatezza & bacchettoni , pregevole contributo di intellettuali napoletani alla beatificazione del Pibe de Oro, l'antropologo Marino Niola scriveva: «Con l'esemplarità della sua vicenda, egli ha contribuito a farmi ripensare l'importanza di fenomeni sociali spesso sottostimati o guardati con sufficienza. E, per finire, Diego ha riconciliato la mia mente di studioso con il mio cuore di tifoso». Ecco il vero «miracolo» di Maradona.
Marco Tardelli per “la Stampa” il 25 novembre 2022.
Un Mondiale giocato nel posto e nel periodo sbagliato. Tutto quello che è uscito sui giornali in questa settimana si sapeva già da tempo. Le dichiarazioni di Blatter, colui che ha assegnato il Campionato Mondiale di calcio al Qatar ai tempi della sua presidenza della Fifa, sono assolutamente inaccettabili. Il discorso di Gianni Infantino, attuale presidente Fifa, è apparso indifendibile ed ipocrita «oggi mi sento qatariota, mi sento africano, mi sento arabo, mi sento disabile, mi sento lavoratore migrante». Caro Infantino io mi sento un uomo che rispetta i diritti fondamentali delle persone, che non ha bisogno di dire cosa mi sento.
Perché per definire ognuno di noi c'è un metodo infallibile: giudicare i nostri comportamenti. Tutti noi nella nostra infanzia abbiamo subito atti di bullismo, ma è impensabile paragonarlo alla schiavitù moderna di quei lavoratori, che tu definisci legali e che in realtà sono morti per questo Mondiale. O far finta di credere che omosessuali e donne siano ben accetti o ben trattati in quella terra «così democratica». Forse ti sei dimenticato delle dichiarazioni dell'ex ambasciatore della nazionale e della Coppa del mondo del Qatar Khalid Salman che sosteneva che l'omosessualità era un «danno nella mente».
Non serve a niente l'inutile coming out del responsabile media della Fifa Swanson fatto ad hoc per giustificare un paese in cui per il solo essere gay si viene puniti con il carcere e la pena di morte. Facile dichiararsi gay dall'alto della Fifa senza correre nessun rischio. Caro Swanson, ho un piccolo consiglio non richiesto anche per te: non farti usare ed abbi rispetto per coloro che rischiano ogni giorno. Ma quello che più mi colpisce è che non ci sia stata una vera e propria ribellione da parte dei calciatori. Sono loro i veri protagonisti, sono loro che possono cambiare tutto, sono loro che ci mettono la faccia, il corpo, la capacità. Cosa accadrebbe se i grandi decidessero di non giocare, se decidessero di alzare la voce?
Rispettare i diritti umani è più importante che vincere un campionato del mondo o di aggiungere record alla propria carriera. Quello che ha fatto la Germania è stato un gesto molto importante, con la mano davanti alla bocca dei giocatori, ha infatti lanciato un segnale rumoroso.
Il capitano Manuel Neuer ha mostrato al mondo che si può lottare. Attendo che Messi, Ronaldo, Neymar e tanti altri calciatori puntino il dito contro l'ipocrisia di quel mondo che vuole soffocare i più deboli. Sono loro il pallone, sono loro che devono prendere a calci un mondo che calpesta i diritti umani e che usa il loro talento sportivo per fini ingiustificabili, strapagandoli ma di fatto silenziandoli.
Tanti anni fa il grande Diego Armando Maradona provò a ribellarsi. Aveva capito come si muoveva la Fifa e cercò di combatterla, ma fu subito soffocato con un imbroglio facendogli così pagare questo suo tentativo di rivolta. Noi non gli credemmo, dicemmo tutti che esagerava e che lo faceva per interessi personali. Caro Diego, ti chiedo umilmente scusa, per non averti appoggiato in questa tua battaglia, avevi visto quello che noi non riuscivamo ancora a vedere, bloccati da un deficit di coraggio che a te invece non è mai mancato. Forse la nostra esclusione da questo Mondiale è un segno del destino che ci fa essere più poveri, ma meno colpevoli. Mi auguro che tutti quelli che amano il calcio possano insieme pensare a qualcosa di diverso da questo scempio, che rischia di infangare per sempre quello che io continuo a considerare lo sport più bello del mondo.
Due anni fa scompariva il campione. Il Mito di Diego tra altari, murales e leggende: così Napoli ha ‘santificato’ il Pibe de Oro. Sergio Brancato su Il Riformista il 25 Novembre 2022
Per anni, e ancor oggi, una domanda ha appassionato milioni di calciofili: Maradona è davvero meglio di Pelè, come sostiene la canzone che accolse el pibe de oro al suo arrivo a Napoli il 5 luglio 1984? Oppure la leggenda della perla nera è destinata a prevalere? La domanda può apparire futile, una chiacchiera da bar. Tuttavia, piaccia o meno, il gioco del pallone ha caratterizzato il Novecento almeno quanto il cinema, sviluppando intorno ai propri miti un’economia di scala planetaria. Il quesito su Pelè e Maradona (altre figure come Messi sono ormai in offside da tempo) è dunque più che un ozioso passatempo e mette in gioco la dimensione epica del football: una grande narrazione collettiva i cui eroi rappresentano sempre qualcosa che trascende l’immediatezza di se stessi e del gioco in sé. Per questo motivo la nota vicenda del referendum dell’anno 2000 sul migliore calciatore di ogni tempo, indetto dalla FIFA per sancire la mitologia “positiva” di Pelé e che vide invece dilagare l’adesione popolare intorno a Maradona, rappresenta un segnale sociologicamente ben più rilevante del quesito su due atleti.
L’aspetto centrale nel dualismo tra il fuoriclasse brasiliano e quello argentino – dualismo che non può essere spiegato, come pure in molti fanno, dalle rozze semplificazioni della statistica – si lega infatti allo scarto tra il potere politico-economico delle istituzioni sportive e l’immaginario del pubblico calcistico: perché il football non è soltanto un business e nemmeno uno spettacolo in senso tradizionale, quanto piuttosto una pratica che attraversa tutti i linguaggi della comunicazione, toccando nel profondo la vita quotidiana di uno sterminato numero di persone. Il motivo della popolarità del calcio è che in esso si concentrano alcune essenziali funzioni simboliche che non sono visibili alla stessa maniera nelle altre pratiche sociali: il conflitto diretto con l’altro da sé, il sentimento dell’identità collettiva, l’appartenenza a una comunità di senso, la possibilità di esprimere un sentimento collettivo.
Nel football, a differenza di quanto ormai accade in politica o negli altri “mondi” che compongono la società, è ancora possibile dire “noi” e credere che quella parola indichi davvero una condivisione di intenti e finalità, dunque una visione del mondo. Nelle narrazioni ancestrali della specie, su cui tuttavia ancora si modella strutturalmente lo storytelling del nostro tempo, un eroe è tale poiché incarna – nel proprio corpo così come nell’estetica delle proprie azioni – l’ideologia profonda di una comunità. Simile a un santo, sebbene in un’accezione laica del termine, assurto a tale condizione come lo stesso San Gennaro per decisione popolare, Diego Armando Maradona è ancora “invocato” sugli spalti degli stadi e delle arene virtuali dei media, dai tifosi argentini e soprattutto da quelli napoletani – supporters della squadra in cui si è davvero realizzata la sua esistenza sportiva e in cui ha preso corpo la sostanza del suo mito – non solo per ragioni di nostalgia, ma perché ciò che ha realizzato sui campi di gioco continua a rappresentare un senti-mento di affermazione collettiva che nessun altro – dai divi dello spettacolo a quelli della politica – ha mai nemmeno lontanamente saputo cogliere come lui, donandogli voce e immagine. Portandolo alla vittoria, seppure effimera, degli eventi sportivi. Più che un calciatore, quindi, Diego è letteralmente un’icona della rivalsa sociale e del mutamento dell’ordine dato. Incarna istanze che non trovano espressione altrove: è mito di “rinascita” che si fa carne in un’accezione disincantata – ma non poi troppo – delle figure messianiche.
Sergio Brancato. Docente di sociologia dei processi culturali all'Università degli Studi di Napoli Federico II
Da corriere.it il 2 ottobre 2022.
Da bambino era affetto da una grave malattia, per la quale era necessaria una costosa operazione chirurgica al palato in Svizzera. Quei soldi furono racimolati grazie alla generosità di Diego Armando Maradona. Che, il 18 marzo del 1985, in un campetto di periferia ad Acerra - reso fangoso dalla pioggia incessante di quel giorno - portò il Napoli a giocare una partita di beneficenza.
In quel campo, a ricordare quella gara poi diventata iconica, proprio perché Maradona gioco nel fango come se fosse una finale mondiale, ora c’è un parco urbano e una statua al Pibe del Oro a ricordare l’evento. Quel bambino è diventato un uomo. Ma a Luca Quarto, 38 anni, quella lezione di generosità non sembra essere servita. Perché è stato arrestato a Bellaria Igea Marina, in provincia di Rimini, dove di professione faceva il pusher.
L’incontro in tv
I carabinieri gli hanno fatto scattare le manette ai polsi con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti. Eppure, nel 2002, Quarto - all’epoca ancora ragazzo - incontrò il campione argentino nella trasmissione televisiva «C’è posta per te» di Maria De Filippi, immaginando per se stesso un futuro importante. Evidentemente la previsione non è stata proprio azzeccata.
Il 38enne, venerdì sera, è stato sorpreso dai carabinieri mentre cedeva in strada una dose di cocaina ad un imprenditore della zona. In casa gli sono stati sequestrati 50 grammi di cocaina, un bilancino di precisione, il materiale per il confezionamento e cinquemila euro in contanti.. In attesa del processo, fissato il prossimo 24 ottobre, il giudice ha disposto gli arresti domiciliari, revocandogli il reddito di cittadinanza.
Salvato da Maradona con la partita nel fango, è in carcere per spaccio. Redazione il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Quella partita nel fango fece sognare i ragazzini di tutta Italia. Diego Armando Maradona, inzaccherato fino al collo, giocava sotto la pioggia nel campetto della periferia di Acerra (Napoli) come se fosse alla finale dei Mondiali
Quella partita nel fango fece sognare i ragazzini di tutta Italia. Diego Armando Maradona, inzaccherato fino al collo, giocava sotto la pioggia nel campetto della periferia di Acerra (Napoli) come se fosse alla finale dei Mondiali. Con la stessa grinta. Era il 18 marzo 1985 e quella partita leggendaria servì per raccogliere i soldi necessari a far operare al palato un bimbo del quartiere. L'intervento, in Svizzera, era troppo costoso e la sua famiglia non poteva proprio permetterselo.
Ora nel campetto campeggia una statua dedicata al campione per ricordare sia quella giornata speciale sia la sua generosità. Purtroppo però, come forse in tutta la storia di Maradona, il lieto fine è stato solo apparente. Perchè Luca Quarto, il ragazzino che fu salvato grazie all'intervento chirurgico, è stato arrestato ieri a Bellaria Igea Marina (in provincia di Rimini) per spaccio di droga.
Il 38enne, venerdì sera, è stato sorpreso dai carabinieri mentre cedeva in strada una dose di cocaina ad un imprenditore della zona. In casa gli sono stati sequestrati 50 grammi di cocaina, un bilancino di precisione, il materiale per il confezionamento e cinquemila euro in contanti. In attesa del processo, fissato il prossimo 24 ottobre, il giudice ha disposto gli arresti domiciliari, revocandogli il reddito di cittadinanza che, ufficialmente, risultava l'unica entrata dell'uomo.
Nel 2002, quando era ancora un ragazzino, Luca Quarto incontrò Diego Armando Maradona nella trasmissione «C'è posta per te» di Maria De Filippi, immaginando per se stesso un futuro importante. Anche in quell'occasione aveva fatto commuovere sia il campione sia il pubblico, che era ben più esteso di quello che nell'85 applaudiva i calciatori attorno al campetto infangato.
E tutti si immaginavano un riscatto, un percorso di risalita dai bassi fondi della periferia. Non droga e reddito di cittadinanza.
Da ilnapolista.it il 7 agosto 2022.
In un’intervista rilasciata a febbraio al talk show El Hormiguero, condotto da Pablo Motos, Diego Simeone racconta com’era giocare con Diego Armando Maradona.
«Come persona con me si è sempre comportato in maniera fantastica, prendendosi cura di me, invitandomi a casa sua quando eravamo insieme a Siviglia. Mi ha fatto capire cosa fosse la nazionale argentina, cosa significava giocare per quella maglia. E’ molto difficile trovare calciatori che hanno condiviso con lui lo spogliatoio e che ne parlano male».
Simeone ha raccontato un aneddoto sul Pibe de Oro.
«Com’era giocare in squadra con lui? Mi ricordo che mi criticava anche perché mi piaceva andare avanti, superare la seconda linea, cercare il gol, inserirmi. E lui mi diceva che il centrocampista si chiama così perché gioca a centrocampo. Una volta non gli passai il pallone e calciai da trenta metri. Lui si avvicinò e mi chiese: “Cholo, hai mai segnato da quella posizione?”. “No, Diego”. “E allora che cazzo calci da lì?”».
E ancora:
«Era come avere un altro allenatore in squadra, la carta vincente della partita. Quando entrava in una stanza lo notavi anche se non sapevi chi era. con noi era molto affettuoso, un compagno vero, ci difendeva. Per noi argentini è un idolo, non crederemo mai che sia scomparso. Per noi è impossibile credere che sia morto».
Da corrieredellosport.it il 2 agosto 2022.
A quasi due anni dalla morte di Diego Armando Maradona si continua a discutere della sua eredità. Di recente c'è stato uno scontro in tv, nel programma argentino Argenzuela, tra Claudia Villafane, ex moglie del Pibe de Oro, e Veronica Ojeda, l'ex compagna dell'ex calciatore. Tutto è iniziato con un'intervista a Mario Baudry, attuale compagno della Ojeda, che dall'ex attaccante del Napoli ha avuto il figlio Diego Fernando che oggi ha nove anni. L'uomo ha assicurato che gli eredi del grande giocatore non sarebbero così uniti come si vuol far credere. Anzi, tensione e astio starebbero minando ogni tipo di rapporto.
Tensione tra gli eredi di Maradona
Baudry ha rivelato che Dalma, la figlia che Maradona ha avuto dall'ex moglie Claudia, non avrebbe di recente risposto al messaggio del fratello più piccolo che si è congratulato con la ragazza per la nascita della seconda figlia Azul. Veronica Ojeda ha precisato che all'apertura del testamento ci sarebbe stata complicità e unione tra tutti gli eredi ma la situazione sarebbe poi degenerata e c'è chi starebbe tentando di utilizzare l'immagine di Diego a proprio vantaggio. "Abbiamo saputo di contratti di Dalma e Gianinna all'estero: loro non ci hanno detto nulla", ha spiegato Veronica, tirando in ballo un presunto accordo con un marchio di vino - pronto a realizzare dei drink in memoria del Diez - che sarebbe stato firmato in Europa un anno fa. A detta della Ojeda si sarebbero formati col tempo due blocchi: da un lato le figlie di Maradona nate con la Villafane, dall'altro Diego Armando Junior, Jana e Diego Fernando.
L'ex moglie ha smentito tutto
La Ojeda ha dunque parlato dei numerosi scontri avuti di recente con Dalma e Gianinna, con le quali non riuscirebbe proprio ad andare d'accordo. La donna non ha esitato a definire le due ragazze delle egoiste. Tra una rivelazione e l'altra è arrivata in tv la telefonata di Claudia Villafane che, più furiosa che mai, ha invitato Veronica a smetterla di "inventare bugie". Le due hanno battibeccato a lungo dimostrando che c'è parecchio nervosismo tra gli eredi di Maradona, alle prese con un'eredità tutt'altro che semplice.
Il mio divino Maradona finito ostaggio dei vizi e dei boss. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.
Era furbo, ma non di quella furbizia che modellava lo sport sugli accordi. Non perché fosse giusto, ma perché per lui contava solo il pallone. Maradona è stato il riscatto di Napoli, è stato la vendetta ed è diventato un Dio
Come spiegare ai non napoletani cos’è stato Diego Armando Maradona?
È stato un giocatore venuto dal Barcellona nel luglio del 1984, dopo che il difensore dell’Athletic Bilbao Goikoetxea gli aveva fatto un’entrata sulle gambe, spezzandogliele. Aveva 24 anni e un’aura di giocatore finito. Rotto, affamato e inquieto: così appariva, così è iniziata la sua alleanza naturale con il Napoli. E per Napoli, Maradona è stato il riscatto. Nessuna squadra del Sud aveva mai vinto uno scudetto, una coppa Uefa o mai ricevuto attenzione da parte del resto del mondo. È stato la vendetta, Maradona: la punizione dell’1 a 0 al San Paolo contro la Juve nel 1985, il 3 a 1 della vittoria a Torino nel 1986. È così che è diventato un dio, facendo sognare tutti e rendendo i sogni più folli qualcosa di raggiungibile.
Vizi troppo umani
Però, come tutte le divinità, incarnava virtù sovrumane e vizi troppo umani. La luce abbagliante degli stadi aveva un contraltare di buio paralizzante. Eppure nessuno dei suoi vizi è mai riuscito a scalfire la sua ragione di vita, ciò che in vita l’ha tenuto per sessant’anni, la sua ossessione più grande. Quella che, da bambino sporco di fango, gli ha sempre fatto rispondere, a chi gli chiedeva cosa avrebbe voluto fare da grande: giocare un mondiale e vincerlo. Era indisciplinato ovunque, Maradona, ma in campo ha sempre rispettato il gioco e gli avversari. Non ha mai cercato la scorciatoia, la via più semplice. Un esempio? Il suo gol più bello, il «gol del secolo». Città del Messico, 22 giugno 1986 . L’Argentina gioca contro l’Inghilterra. Di questa partita, molti ricorderanno la mano di Dio e sorrideranno al mio scrivere di correttezza e disciplina. Sì, la mano di Dio, e chi la dimentica? La grande provocazione di Diego alla guerra inglese delle Falkland, ma soprattutto il dileggio: non potevo certo perdermi quel gol per qualche centimetro che Dio non mi ha dato...
Il genio
Nella stessa partita, la furberia della mano e il genio assoluto del secondo gol. Magnifico, unico. Parte da metà campo, scarta due centrocampisti, uno ad uno salta gli avversari in un’azione così rapida da impedire al cronista Victor Hugo Morales di pronunciare i nomi dei difensori. Avrebbe potuto farsi toccare da un avversario, prendere una punizione o, al contrario, buttarsi a terra, ma lui gioca sempre. Il calcio ha una sua bellezza, è un’arte che va rispettata, non sporcata da un fallo facile. Le difese lo massacrano, ma a lui non interessa mettersi in salvo, lui vuole portare la palla fino alla rete. Ecco, Diego Armando Maradona è stato questo: imperdonabile nella sua frequentazione di boss, trafficanti, agenti ambigui come Guillermo Coppola, ma in campo era il più corretto di tutti. E non ha mai tradito il Napoli che l’ha accolto quando il suo talento era finito sotto un cumulo di macerie. Ha deciso lui di non giocare nella Juventus, e di non accettare nemmeno il doppio del compenso quando Berlusconi cercò di comprarlo. Il suo legame con i napoletani non è mai stato in vendita. Ha detto di no alle squadre più ricche, e non si è tirato indietro quando si è trattato di giocare in un campo di patate ad Acerra. Nell’inverno del 1985, il padre di un ragazzino che per salvarsi la vita aveva bisogno di un’operazione, gli chiede di partecipare a una partita per raccogliere fondi. Ferlaino, il presidente, non acconsente, ma Maradona paga una clausola di 12 milioni di lire e nel fango del campo di patate ci gioca lo stesso, si riscalda in mezzo alle macchine e si dedica alla partita con la passione e il sudore che ha sempre dedicato al San Paolo.
Il simbolo
Maradona è stato un simbolo, e come tale, l’uomo ne è rimasto schiacciato, schiacciato da una vita sotto assedio dove fama, popolarità e soldi hanno fatto di lui un bersaglio di continue richieste. Lui che non voleva che a vincere fosse la negoziazione dello sport, ma lo sport stesso, non la strategia ma l’abilità, voleva che il calcio rimanesse calcio. Certo, come tutti voleva guadagnare e stare bene, ma in vita ha dovuto subire un’infinità di ingiustizie per non essersi piegato alle strategie degli scambi. Era furbo, ma non di quella furbizia che modellava lo sport sugli accordi. E non perché fosse un giusto, ma perché voleva giocare a pallone, solo il pallone contava. La camorra ha individuato subito le sue debolezze, quelle di un giovane cresciuto in una favela argentina, con pochi strumenti culturali, catapultato in un mondo in cui l’umore di migliaia di persone dipende dalle sue prestazioni. Le ha imbrigliate con coca, prostitute, qualsiasi cosa per tenerlo sotto estorsione. È stato profondamente solo, Maradona, solo con quel talento che gli ha sempre impedito di fidarsi delle persone, nella perenne paura che dietro ogni gesto ci fosse un tornaconto, una richiesta di soldi, appoggi, raccomandazioni. Lo stesso talento che è stato anche la sua salvezza, ciò che l’ha ogni volta riconciliato con la sua gente e con lo stare al mondo. A vincere su tutto è sempre stata la voglia di giocare a calcio, nel suo corpo incomprensibilmente unico, da studiare. Un corpo gonfiato dalla coca. Poi scavato. Pompato di nuovo, eppure invincibile. Un capolavoro della genetica che, nonostante gli abusi e il poco allenamento, in campo era miracoloso. Non cadeva, non si fermava.
Il talento
Un talento, il suo, che nell’incontro con il Napoli è diventato senso di appartenenza. Italia-Argentina 1990, stadio San Paolo. I tifosi italiani — bandiere, facce dipinte — tifano per l’Italia. Maradona gioca per l’Argentina. L’Italia è in testa. Ma quando, al sessantottesimo minuto, al pareggio dell’Argentina, il tifo per diventa tifo contro, quando iniziano i fischi e gli insulti a Maradona ogni volta che prende possesso della palla, succede una cosa incredibile. I napoletani smettono di tifare. I tricolori si abbassano. Silenzio, come se la curva stesse prendendo respiro. Poi si sente solo: «Diego! Diego!». In quel momento la patria, la terra in cui ti senti accolto e al sicuro, dove sei a casa, non ha più a che fare con la lingua, i confini geografici, i colori della bandiera. Ha radici più profonde, che trovano nutrimento nel gioco di Diego. È un’identificazione con chi ti ha fatto gioire, abbracciare chi è accanto a te allo stadio o davanti al televisore, e che l’ha fatto con correttezza e rispetto per il calcio, per il piacere e la lealtà del gioco. È questo che ha reso i suoi tifosi la sua gente, e che ha lasciato sul racconto delle sue partite un velo di poesia che gli ha donato l’immortalità. La data del 25 novembre 2020 è rimasta indelebile, come il giorno in cui tanti di noi sono invecchiati di colpo realizzando che Dio, che Diego, era mortale. Con lui, mortali lo siamo diventati tutti. Ma il racconto di chi è stato Maradona, quello rimane.
Morte Maradona, in otto saranno giudicati per omicidio colposo. La Repubblica il 22 Giugno 2022.
Accolte le richieste di rinvio a giudizio del pm. Tra gli imputati anche il medico di famiglia Leopoldo Luque e la psichiatra Agustiina Cosachov.
Otto tra medici e infermieri che avevano in cura Diego Armando Maradona nel periodo che ne ha preceduto la morte, saranno giudicati per omicidio colposo. E' stata quindi accolta la richiesta del pm, che aveva chiesto il rinvio a giudizio degli otto per "omissioni" e "maltrattamenti" che avevavo posto Maradona in una "situazione di impotenza", abbandonato "al suo destino" nel quadro di un "oltraggioso" ricovero domiciliare.
Il provvedimento arriva a quasi un anno e mezzo dalla morte del Pibe de Oro a causa di un edema polmonare e di un'insufficienza cardiaca. Tra coloro che abdranno a giudizio ci sono anche il neurochirurgo e medico di famiglia Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov.
Accusati di omicidio colposo. Maradona, per la morte del Pibe 8 sanitari a processo: “Lo hanno abbandonato al suo destino”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Giugno 2022.
Otto persone, personale sanitario che ha ‘assistito’ Diego Armando Maradona negli ultimi giorni di vita, saranno processati per presunta negligenza. È la decisione presa oggi da un giudice di San Isidro, che ha disposto il rinvio a giudizio per i professionisti che avevano in cura il Pibe de Oro, come richiesto ad aprile dalla Procura.
Maradona è morto il 25 novembre 2020 all’età di 60 anni, mentre si trovava in casa, per un arresto cardiaco. La notizia della svolta processuale arriva, paradossalmente, nel giorno in cui si celebrano i 36 anni dagli storici gol segnati nel Mondiale 1986 in Messico contro l’Inghilterra: era il 22 giugno quando Diego segnò prima la rete della ‘mano de dies’, quindi il ‘gol del secolo’ con la serpentina da centrocampo finita con la palle in rete dopo aver scartato anche il portiere inglese.
Secondo i pubblici ministeri, la morte di Maradona è stata causata da “omissioni” delle persone che lo stavano assistendo, che lo hanno abbandonato “al suo destino” durante il ricovero domiciliare. Il personale preposto ad accudire Maradona era stato “protagonista di un ricovero domiciliare senza precedenti, totalmente carente e sconsiderato”, e aveva commesso una “serie di improvvisazioni, cattiva gestione e inadempienze”, è l’atto di accusa della Procura.
Maradona in quel periodo si stava riprendendo da un intervento chirurgico al cervello per un coagulo di sangue e dopo decenni di battaglie con la dipendenza da cocaina e alcol.
A processo per “omicidio semplice con dolo eventuale”finiscono dunque il neurochirurgo Leopoldo Luque, la psichiatra Agustina Cosachov, lo psicologo Carlos Díaz, la coordinatrice delle cure domiciliari Nancy Forlini, il coordinatore degli infermieri Mariano Perroni, gli infermieri Ricardo Omar Almirón e Dahiana Gisela Madrid e il medico Pedro Di Spagna.
Gli otto rinviati a giudizio rischiano una pena dagli 8 ai 25 anni di carcere. Ad oggi nessuna data è stata avanzata in questa fase per lo svolgimento del processo: gli otto indagati restano in stato di libertà perché la procura di San Isidro non ha chiesto la custodia cautelare per nessuno di loro.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 15 giugno 2022.
Non si smentisce l’ingordigia divina del Pibe. Non pago di esserci apparso da vivo una quantità di volte, Diego si è ingegnato ad apparirci anche da morto. Magnifica allucinazione la prima nel contesto di folle e palloni deliranti, decisamente più inquietante la seconda. Siamo in ogni caso nella sconfinata fantasmagoria senza tempo e senza cancelli di Pibelandia.
Il fantasma di Diego si è palesato l’ultima volta venerdì scorso nello stadio de La Plata, per una volta adibito nella riedizione della grotta di Lourdes. L’occasione, il match tra il Gimnasia, l’ultimo club da lui allenato dal 2019 fino alla sua morte, e il Patronato. Lui, Diego, abilmente mescolato in tribuna tra la folla. Ma beccato dal cecchino che non crede ai suoi occhi e per questo lo fotografa. Lo spettro intercettato e postato su Twitter dall’account privato della Bernadette di turno, e tutti a gridare al miracolo.
Social in fiamme, ustioni di prima grado. “Incredibile somiglianza!”. Atti di fede a buon mercato. “Io ho scelto di crederci, è lui, Diego, in realtà non se n’è mai andato”. Qualche giorno prima sui gradoni di Wembley, stessa solfa, stesso abbaglio o miraggio, nella Finalissima tra Argentina e Italia.
Diego tra la folla. Si sprecano le apparizioni celesti segnalate qua e là, quella recente sul cielo di Paranà, notte di luna piena, Diego di spalle con la maglia numero 10 che volteggiava ubriacante o forse ubriaco tra le nuvole. Che sia davvero lo zombi redivivo di Maradona o un banale caso di coincidenza somatica aiutato da una sbornia di Fernandito, il cocktail argentino a base di Fernet, sta di fatto che la voglia di Diego, chiamatela nostalgia, chiamatela mancanza, ancora di più privazione, non demorde.
Alla faccia di tutti i senza Dio davvero convinti che Diego Armando Maradona si sia rapidamente decomposto nel cimitero di Jardin Bella Vista, sulla collina di casa sua, non lontano dai suoi amati genitori. Finalmente fuori da quella macabra lotteria che era diventata la sua esistenza.
Da quel giorno, 25 novembre 2020, in cui lo stupore è stato più forte del dolore, più forte del lutto e di tutto. Ci si abitua a tutto, ma non all’estinzione corporale dei miti. Che i miti abbiano, cioè, un deperibile corpo. L’altra ipotesi, più suggestiva, è che queste apparizioni siano come i camei di quell’altro genio di Alfred Hitchcock, spiritose incursioni nel mucchio degli umani, per farsi beffe di loro. In questo caso, varrebbe il concetto inverso, saremmo noi quelli apparsi a Maradona, parafrasando un celebre visionario di Campi Salentina, la cui mania era quella di essere apparso alla Madonna.
Non si esclude nemmeno che tutto questo rosario di visioni, tutta questa ridondanza di preghiere fino a un certo punto laiche al cospetto di Diego, della sua mano ma anche del suo piede de dios, peraltro scansionato in 3D e reso immortale, da vivo, ma che importa, non siano che passaggi progressivi della sua beatificazione. Che avrà il suo culmine il giorno in cui apparirà là dove è nato e non è mai morto, in un campo di calcio. Magari fuoriuscendo da qualche buca dello stadio a lui titolato con una cetra in mano, e cantando come un usignolo “Donde estara mi primavera”.
Nello Trocchia per editorialedomani.it il 27 maggio 2022.
A Domani racconta il suo percorso criminale prima dell’inizio della collaborazione con la giustizia. Da tempo ha cambiato vita e ha scritto un libro in pubblicazione dal titolo Generali dall’inferno. I generali sono i boss che decidono le guerre e l’inferno è di chi quelle guerre le combatte. Mazza, ogni tanto, continua a testimoniare nei processi in corso contro ex alleati e rivali.
Anno 1989. Diego Armando Maradona era nel cuore dei napoletani. Aveva appena vinto una coppa Uefa e uno scudetto, si accingeva a portare in città anche il secondo titolo, quattro anni prima aveva trionfato nel Mondiale in Messico con il gol più bello della storia del calcio e con quello, più celebre, segnato con “la mano di Dio”.
A piazza Mercato, nel caveau della banca della provincia di Napoli c’erano le cassette di sicurezza della Napoli bene, due intestate a Claudia Villafane, all’epoca compagna e poi moglie del fuoriclasse argentino.
Nell’ottobre del 1989, una quindicina di rapinatori, la cosiddetta banda del buco, apre il caveau, scassina le cassette di sicurezza e, tra queste, le due contenenti i preziosi della famiglia Maradona. Un bottino da un miliardo di lire, ma tra orecchini e orologi c’è un oggetto importante, molto importante: il pallone d’oro che la rivista France Football gli aveva consegnato come miglior giocatore dei Mondiali in Messico.
Maradona ne chiederà la restituzione per anni, non tanto per il valore economico, ma soprattutto per quello simbolico. Un mese prima della morte, accetterà un’intervista chiedendo agli inviati di France Football una copia del pallone che la camorra gli aveva rubato. Per quel colpo alcuni rapinatori sono stati arrestati, altri no. Tra gli autori del furto che ha sconvolto la città c’era anche Michelangelo Mazza. Sono passati oltre trent’anni, ma il collaboratore di giustizia ricorda quei momenti e quanto è accaduto dopo.
«Era intorno al 1990 (1989, ndr), in due cassette trovammo orologi, diamanti, orecchini e anche questo pallone. Noi non avevamo intenzione di rubarlo, ma quando lo abbiamo trovato lo abbiamo trafugato con tutto il resto. Si componeva di due parti, c’era una base, il piedistallo e la sfera anche se non era tutto d’oro. Fu la mia prima rapina», dice Mazza.
Appena realizzato il colpo, la banda porta orologi, orecchini, gioielli e anche il pallone dall’orafo, loro complice. In questo momento si apre una crepa nel cuore dei rapinatori, alcuni sono ovviamente tifosi del Napoli. «Lo abbiamo sciolto subito perché c’era qualcuno di noi che iniziò a tentennare, ma l’orafo disse “questa è la prima cosa che dobbiamo fondere altrimenti lo vogliono tutti”».
Avere tra le mani il pallone d’oro di Maradona significava diventare l’obiettivo dei clan napoletani, alcuni capi avrebbero fatto di tutto per riconsegnare il prezioso al Pibe de oro. Mazza e la banda del buco non avevano aderenze con i clan, lui entrerà nel gruppo camorristico solo successivamente.
«Per quella rapina vennero tutti, vennero i Licciardi, i Contini, i Lo Russo e ognuno voleva qualcosa: orecchini, orologi, il pallone, non ebbe niente nessuno. Restituimmo solo due orologi, ma forse non erano neanche di Maradona», aggiunge Mazza.
Un dato che, qualche anno fa, è stato confermato proprio da un esponente di vertice del clan Lo Russo. Nel 2011, il collaboratore di giustizia Salvatore Lo Russo ha svelato alcuni retroscena di quella incessante richiesta del pallone e dei gioielli di Maradona.
Ha raccontato di aver aiutato il campione argentino a recuperare alcuni orologi di valore che gli erano stati rubati e di aver provato a fare lo stesso anche con il pallone d'oro, ma che era arrivato tardi perché era già stato fuso. In realtà uno degli orologi non era neanche di Maradona che lo aveva restituito.
Esattamente come oggi racconta Michelangelo Mazza che spiega il fallimento del tentativo della criminalità organizzata di recuperare il pallone, non solo perché è stato subito fuso, ma anche perché la banda del buco si sentiva autonoma dalla camorra.
«Noi non avevamo rapporti con la criminalità organizzata, noi facevamo un altro mestiere, io sono diventato un killer del clan successivamente e per questioni di famiglia. Mio zio è stato uno dei più carismatici capi della camorra napoletana e ha trascinato me e i miei parenti in questa faida. Nel 1992 mia zia, Assunta Sarno, fu uccisa dall’Alleanza di Secondigliano, gruppo camorristico rivale, mentre andava in carcere a trovare mio zio. Dovevo esserci anche io quel giorno, ma non volli accompagnarla perché mi ero appena fidanzato», ricorda Mazza. Nel 1999 Giuseppe Misso esce dal carcere e, in quell’anno, guadagnano la libertà anche Michelangelo Mazza e i suoi cugini.
Per la famiglia Misso è la grande occasione per vendicare la morte di Assunta Sarno. «Quando andiamo a prendere mio zio al carcere di Firenze, nel 1999, evitiamo un agguato. Da un punto di vista criminale, in quel momento, mio zio era solo. Tutta la malavita campana lo voleva morto perché usciva perdente da una guerra di camorra. I vincenti erano i criminali dell’alleanza di Secondigliano, ma mio zio volle tornare ai fasti di un tempo e iniziò un’altra guerra di camorra».
L’ex camorrista, tra il 1999 e il 2006, ha ammazzato 12 persone (per nove delitti è stato condannato in via definitiva, per altri tre è in corso il processo) prima di collaborare con la giustizia. E gli omicidi li ricorda tutti, ricorda un innocente ucciso, ma anche il ferimento di una bambina e tutto il sangue versato nella città che non riesce a liberarsi del suo male antico.
«Eravamo dei folli, giovani e folli, mi sono pentito di tutto. All’epoca ero un infame, oggi no perché sto con lo stato», dice Mazza. Quei folli per pochi anni allontanarono da Napoli il più potente gruppo criminale campano, l’alleanza di Secondigliano, e si ripresero la città a colpi di arma da fuoco e omicidi.
Da corrieredellosport.it il 14 aprile 2022.
Svolta nell'inchiesta sulla morte di Diego Armando Maradona: i pubblici ministeri che indagano sulla scomparsa del Pibe de Oro, avvenuta nel 2020, hanno chiesto il processo per otto operatori sanitari con l'accusa di "omicidio colposo".
Morte Maradona: "Rinvio a giudizio per otto medici"
Secondo l'agenzia stampa Telam, i pm hanno avanzato la richiesta affermando che i "maltrattamenti" e le "omissioni" avrebbero posto la vittima di una "situazione di impotenza", abbandonandola al proprio destino durante un "oltraggioso ricovero domiciliare". La richiesta dei pm arriva a un anno e mezzo dalla morte della leggenda del Napoli, scomparsa a causa di un edema polmonare e di un'insufficienza cardiaca mentre si stava riprendendo da un intervento di neurochirurgia.
Morte Maradona: i medici sotto accusa
Tra i medici indagati figurano il neurochirurgo e medico di famiglia Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. Accusati anche Carlos Diaz (psicologo), Nancy Forlini (coordinatore medico), Mariano Perroni (coordinatore infermieristico), i due infermieri Ricardo Almiron e Dahiana Madrid e il medico clinico Pedro Pablo Di Spagna. Gli imputati rischiano una pena dagli 8 ai 25 anni di carcere.
Sebastiano Vernazza per La gazzetta dello Sport il 15 aprile 2022.
Uno scenario desolante. La giustizia argentina ha chiesto otto rinvii a giudizio per "omicidio semplice con dolo eventuale" nell'inchiesta sulla fine di Diego Maradona, il 25 novembre del 2020, a sessant' anni compiuti da poco. Secondo l'accusa il Pibe sarebbe stato abbandonato a se stesso, nell'incuria delle terapie e dell'assistenza.
Ecco l'elenco delle persone che saranno processate, se le richieste dei pm verranno accolte: il neurochirurgo e medico personale di Maradona, Leopoldo Luque; la psichiatra Agustina Cosachov; lo psicologo Carlos Diaz; la coordinatrice medica Nancy Forlini; il coordinatore infermieristico Mariano Perroni; gli infermieri Ricardo Almiron e Dahiana Madrid; il medico clinico Pedro Pablo Di Spagna.
I pubblici ministeri scrivono che Maradona, nei suoi ultimi giorni, venne mantenuto in uno "stato di impotenza" nel quadro di uno "scandaloso e carente ricovero domiciliare", costellato da "improvvisazioni e mancanze". Le posizioni degli otto imputati non sono ovviamente tutte uguali, nel caso ciascuno risponderà delle proprie responsabilità. Le pene, se si arriverà a condanna, non saranno lievi, si va dagli otto ai 25 anni di reclusione.
Maradona morì in un appartamento al piano terra di un complesso residenziale di Tigres, a nord di Buenos Aires. Arresto cardio-circolatorio per edema polmonare acuto, la causa del decesso. Il 4 novembre era stato operato al cervello per la rimozione di un ematoma da trauma. «Quando i controlli avrebbero dovuto essere intensificati - scrivono i procuratori nelle 378 pagine della loro ricostruzione -, quando la vittima quasi gridava per il suo stato, tutti hanno messo in atto l'assistenza più grossolana mai vista al mondo».
Per la Procura di San Isidro, competente per territorio, l'equipe medica di Maradona è stata «mancante, temeraria e indifferente». Parole durissime, a rimarcare quella che, secondo l'accusa, è stata una mancanza di umanità, ancor prima che di professionalità: «Le omissioni di certe azioni dovute e le azioni per contro nocive alla salute hanno posto la vittima in uno stato d'incuria e hanno lasciato che Maradona andasse incontro al suo destino». Non è tutto: «Gli accusati hanno cercato di rinfacciarsi le responsabilità l'uno contro l'altro».
Diciassette dei 22 periti incaricati di analizzare il caso sono arrivati a questa conclusione: «Il ricovero domiciliare è stato indegno. Maradona era un paziente con pluri-patologie, non più in possesso delle sue piene facoltà mentali». L'elenco dei problemi del Pibe è impressionante: «Insufficienza renale cronica, insufficienza epatica, insufficienza cardiaca, deterioramento neurologico, dipendenza da alcol e psicofarmaci, probabile instabilità psichiatrica legata all'astinenza da alcol».
Un uomo distrutto nel fisico e lasciato solo nel momento più difficile: «Maradona ha cominciato a morire dodici ore prima della fine vera e propria. C'erano segni inequivocabili di un'agonia prolungata, così concludiamo che il paziente non era assistito in maniera adeguata. Se fosse stato ricoverato in una clinica, avrebbe goduto di possibilità di sopravvivenza». Diego avrebbe potuto salvarsi, almeno nell'immediato, è la conclusione della perizia. Per il pm, il chirurgo e medico personale di Maradona, Leopoldo Luque, e la psichiatra Agustina Cosachov sembrano avere le maggiori colpe, ma saranno i probabili processi a fissare una verità giudiziaria sulla morte di Diego.
Da corriere.it il 5 maggio 2022.
La maglia indossata da Diego Maradona durante la partita tra Argentina e Inghilterra nel corso della Coppa del Mondo del 1986 è stata venduta per quasi 9,3 milioni di dollari (pari a circa 8 milioni e 800mila euro), battendo tutti i record per una maglia sportiva da collezione.
Lo ha annunciato la casa d’aste Sotheby’s. Il record precedente era detenuto da una maglia indossata dalla leggenda del baseball americano Babe Ruth alla fine degli anni ‘20, venduta nel 2019 per 5,6 milioni di dollari (5,31 milioni di euro). L’asta per vendita della maglia di Maradona era in corso online dal 20 aprile e si è conclusa stamattina.
La vendita arriva dopo diverse polemiche sul fatto che si trattasse o meno della maglia con cui Maradona aveva segnato il celebre gol di mano. La figlia di Maradona, Dalma, sosteneva infatti che non si trattasse della maglia usata dal Pibe de Oro nel secondo tempo, ma l’analisi scientifica effettuata dalla casa d’aste ha fatto sciogliere ogni dubbio. Almeno secondo l’ancora ignoto compratore.
Maradona da record: la maglia della «Mano di Dio» è il cimelio sportivo più pagato della storia
«Questa maglia storica è un ricordo tangibile di un momento importante non solo nella storia dello sport, ma nella storia del ventesimo secolo» ha sottolineato a fine asta Brahm Wachter, responsabile per le aste dell’abbigliamento e degli oggetti moderni di Sotheby’s. «Questa è probabilmente la maglia da calcio più ambita che sia mai arrivata all’asta, e quindi è giusto che ora detenga il record d’asta per qualsiasi oggetto del suo genere», ha concluso Watcher.
La maglia era stata posseduta dalla fine del celebre incontro di calcio da uno dei giocatori della squadra inglese che partecipò a quella partiva, vale a dire il centrocampista Steve Hodge, che scambiò la sua maglia con Maradona alla fine della gara che l’Inghilterra perse per 2-1. La gara è rimasta nella storia del calcio proprio per i due gol segnati da Maradona al 51’ e al 55’. Il primo ricordato per il gol di mano segnato dal fuoriclasse argentino e non visto dall’arbitro che convalidò. Un gol che scherzosamente Maradona attribuirà alla «Mano de Dios» e che da quel momento fu ricordato per sempre con questo soprannome.
La seconda rete è poi il «gol del secolo» ovvero il gol giudicato dalla Fifa come il più bello del ventesimo secolo (e fino ad oggi ancora giudicato il più bello di tutti i tempi) in cui Maradona partendo dalla sua metà campo scarta di fila sei giocatori, poi il portiere e segna, suscitando un’emozione senza pari in chi seguiva la diretta tv in mondovisione. Proprio il ricordo dell’emozione di quel giorno ha fatto aumentare a dismisura il valore di questo cimelio che non trova finora eguali nella storia dello sport.
Maglia di Maradona della Mano de Dios all’asta, ma è scontro tra la figlia Dalma e Sotheby’s. Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.
Qualunque sia la verità, quella mitica maglietta di Maradona, Steve Hodge se l’era meritata: fu lui ad alzare goffamente verso la propria porta il pallone che El Pibe toccò di mano per l’1-0 all’Inghilterra e fu anche uno dei birilli con la maglia bianca che il numero 10 argentino dribblò, per segnare il 2-0, il gol più bello, contraltare tecnico ed estetico alla beffa solenne della «mano di Dio».
Al termine di quella partita carica anche di significati politici per la guerra nelle Falkland/Malvinas, Hodge ha sempre sostenuto di aver chiesto e ricevuto la maglietta da Maradona. Dopo anni di esposizione al Museo del calcio di Manchester e dopo le secche smentite di voler vendere il cimelio in seguito alla morte di Diego, Hodge ci ha ripensato. La maglia, visibile in questi giorni nel cuore di Londra a Bond Street, è finita alla casa d’aste Sotheby’s, che la batterà dal 20 aprile al 4 maggio, partendo da un’offerta base di 5 milioni di euro.
Il problema adesso non è il ripensamento dell’ex giocatore inglese, nonostante «l’incredibile valore sentimentale della maglietta». Ma il fatto che secondo Dalma Maradona «quella non è la maglia che mio padre usò nel secondo tempo. La indossò in quella partita, ma nei primi 45’. Hodge non può dirlo e nemmeno può provare che la sua sia quella del secondo tempo: non ci sono filmati che lo dimostrano».
La versione tramandata ai posteri recita di uno scambio finale di maglie, al quale Maradona ne aggiunse un altro: rifilò la camiseta di Hodge a un compagno argentino, dal quale si fece dare la numero 10 di Lineker, uno scalpo molto più importante. «Conoscendo papà — ha continuato Dalma nella sua trasmissione su Radio Mitre di Buenos Aires — so che lui non ha regalato quella maglia a nessuno. Quest’uomo non ce l’ha. Lo so per certo. Non voglio dire chi ce l’ha, perché è pazzesco — dice Dalma alimentando il mistero — . Non ce l’ha mia mamma, ma so chi ce l’ha, però non voglio dirlo per non creare problemi a questa persona. L’unica cosa che posso affermare è che all’asta non sta andando la maglietta con la quale mio padre segnò i due gol. L’ha detto lui stesso. Una volta mi rivelò: ‘Come posso dargli la maglia della mia vita?’ È la verità. Hodge possiede una maglia importante, però è quella del primo tempo e non ha quel valore. Non mi importa fargli perdere milioni di dollari, sono solo obiettiva e voglio che la gente sappia».
La particolarità di quella muta di maglie blu dell’Argentina è che fu acquistata in tutta fretta a Città del Messico, perché quella fornita dallo sponsor contro l’Uruguay tratteneva troppo il sudore. Gli stemmi della Federcalcio e dello sponsor furono cuciti all’ultimo e i numeri sono diversi, rendendo quelle maglie ancora più speciali. Ma ne furono acquistate 38: le reliquie col numero 10 erano due.
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Quindi? «Ci sono differenze tra quella del primo e del secondo tempo — conferma al Corriere un portavoce di Sotheby’s — e di conseguenza abbiamo condotto verifiche tecniche approfondite, per essere certi che quella che sta per andare all’asta sia la maglia con cui Maradona ha segnato i due gol. Diego stesso ha scritto nel suo libro di aver consegnato quella maglietta a Hodge e questo fatto non è mai stato smentito. In più abbiamo affidato a un’azienda esterna, la più importante nelle memorabilie sportive (Resolution Photomatching), le verifiche fotografiche sulle due magliette. Maradona cambiò casacca nell’intervallo. E quella della ‘Mano di Dio’ è quella all’asta».
Mario Piccirillo per ilnapolista.it il 7 aprile 2022.
Terry Butcher, il macellaio, disse che l’avrebbe buttata via. Magari sbranata, prima. Ridotta a brandelli, come reliquia d’un oltraggio. Peter Reid pure la prese malissimo. Era sdraiato sul letto, con i fumi dell’Inghilterra umiliata da Maradona che ancora gli annebbiavano la ragione, quando vide Steve – il suo amico Steve, il suo compagno Steve – ravanare nel borsone e tirare fuori quella… cosa.
La maglia. La maglia di Diego. «Non ci potevo credere», racconterà poi. «Non riuscivo a immaginare che qualcuno potesse entrare nello spogliatoio argentino dopo quella partita, figuriamoci per chiedere quella maglia… Maradona era un grande giocatore, ma ha barato».
L’amico, il compagno Steve, divenne il traditore Steve Hodge. L’uomo accusato dal popolo di essersi arreso a quella divinità su un prato messicano. Fu lui, alzando quel pallone, a servire l’involontario assist alla mano de Dios. L’uomo che poco prima aveva osato scambiare la maglia con Maradona, portandosi a casa un assegno postumo, in bianco.
Ora che Sotheby’s la metterà all’asta per un valore stimato intorno ai 5 milioni di euro, quel 22 giugno del 1986 prenderà un’altra tinta: il colore dei soldi, quelli che Hodge per 36 anni ha rifiutato. L’abc del libero mercato: passa il tempo, l’indisponibilità del bene ne aumenta il prezzo. Ora è il momento di vendere, di incassare. Di ribaltare le dichiarazioni d’amore, ricalcolare il “valore affettivo”. E, magari, chiarire che quella maglia è un “pezzotto”.
Altro che The Hand of God shirt. La maglietta blu dell’Argentina che andrà tra qualche giorno all’asta non è quella che Maradona indossava mentre dal 51′ al 55′ demoliva l’Inghilterra e vendicava sommariamente le Malvinas. No. Hodge fece lo scambio a fine primo tempo. O, almeno, così dice Dalma Maradona all’argentina Radio Metro.
«L’ex calciatore dell’Inghilterra pensa che la sua sia la maglia del secondo tempo di Argentina-Inghilterra ma non è così. Lui ha la maglia del primo tempo. Vorrei che la gente sapesse la verità. Non ce l’ha mia madre. So chi ha quella maglia ma non voglio dirlo per non esporre quella persona. L’unica cosa che posso dire è che all’asta non sta andando la maglietta con cui mio padre ha segnato i due gol».
Quella che garantirà a Hodge una serena vecchiaia nell’agio è “l’altra maglietta”, un prequel del tormento che seguirà. Il pugnetto davanti a Shilton in uscita, lo slalom successivo. Fotogrammi di immortalità.
Hodge – l’ex amico e compagno Steve – lasciò l’Azteca con un lingotto nella borsa. Il simbolo di una truffa, per gli inglesi. Un diamante di stoffa per lui ed eventuali suoi eredi. Sapeva Hodge. Colse l’attimo, senza farsi prendere dall’agonismo. Avrebbe passato il resto di quella partita e il secondo tempo della vita ringraziando di averci pensato. E gli altri lì, a rosicare, a odiarlo. Un algoritmo dell’esistenza: la ricchezza colta laddove seminavano il trauma.
Dopo la morte di Maradona, dagli Stati Uniti sono arrivati a offrirgli 2 milioni di dollari per quella 10. Si ostinò, Hodge, a tenerla per sé, lontana dalle grinfie della moglie che pure – immaginiamo – avrà provato a metterla in lavatrice (“ma puzza Steve!”) e dei ladri di cimeli, concessa in prestito dal 2003 al National Football Museum di Manchester. Ne fece anche il titolo della sua autobiografia, The Man With Maradona’s Shirt.
“Per me quella maglia ha un valore sentimentale incredibile – diceva a BBC Radio -. Per anni ho ricevuto telefonate continue da tv e radio, qualcuno è venuto anche a bussare alla mia porta. Mi hanno anche accusato di speculare per alzare il prezzo. A tutti coloro che me l’hanno chiesta ho sempre dato la stessa risposta: non è in vendita”.
Beh, ora è in vendita. Come sempre, come quasi tutto.
Da ilnapolista.it il 2 aprile 2022.
Che gioia vedere Marino Bartoletti in ottima forma al Museo Correale di Sorrento – nell’ambito de “I colori di Lucio” – per la presentazione del suo secondo libro “Il ritorno degli Dei (Gallucci)” – dopo il grande successo del suo primo titolo “La cena degli Dei” che gli è valso anche il Premio Bancarella 2021. Sulla copertina del testo, ora in libreria, Bartoletti ha fatto effigiare di spalle Paolo Rossi e Diego Armando Maradona e sollecitato da Francesco Pinto ha squadernato il suo eloquio romantico con un fiume in piena di aneddoti su Enzo Ferrari, Enzo Bearzot, Gaetano Scirea, et cetera, non dimenticandosi di Sinisa Mihajlovic “che è ora nelle mani dei bravissimi medici del Sant’Orsola di Bologna dove sono stato curato anch’io”.
Ma soprattutto la sua attenzione si ferma su Pablito e sulla sua storia, “fu squalificato nel calcio scommesse senza avere fatto nulla, ma non volle tradire un amico che l’aveva tradito…”.
Poi il terreno più scivoloso (Pinto), quello dei ricordi legati alla sua frequentazione con il Pibe de Oro. “Sa che io sono stato uno dei soli giornalisti con i baffi – l’altro era Gianni Minà, ndr – che fu invitato al matrimonio di Maradona? – dice Bartoletti -: molti giornali italiani, non invitati, sputarono su quello sponsale cercando di mettergli contro i tifosi argentini per lo sfarzo eccessivo… Ma sa chi c’era invitato anche? Tutti i residenti del Barrio natale bonaerense di Diego – Villa Fiorito – ed uno di quelli era appena uscito da galera… Maradona aveva il senso morale e pratico dell’amicizia”.
Sulla scorta di questo rapporto amicale Bartoletti racconta anche – lui era direttore di “Pressing”, l’anti Domenica Sportiva messa su dalle reti del Biscione – quando invitò, dopo Milan-Napoli del 1990-91, Maradona in trasmissione. “All’epoca davamo 5 milioni di lire in sterline d’oro per ogni comparsata – continua il direttore -, ma se Ruud Gullit pretese per mano della moglie l’intero cachet ad un cambio il più favorevole possibile, Diego mi disse che se gli avessi detto un’altra volta di prendere quei soldi mi avrebbe tolto l’amicizia. Anzi no, mi chiese una cosa: tutte le audiocassette di Cristina D’Avena che editavamo noi di Mediaset tramite la Jolly: quindi Maradona in trasmissione ci costò 2700 lire”.
Anche nel libro, mentre Paolo Rossi funge da detective avendo una dispensa speciale dal Paradiso per aiutare in un’indagine Bobo Mancini, anche a Maradona, dopo un dialogo paradisiaco con lo stesso Pablito, vengono accordate 12 ore per assistere all’intitolazione del suo Stadio e così Diego viene scarrozzato dal fido Armando Aubry – suo autista storico; ndr – che lo prende a Via Scipione Capece ed attraverso il Rione Traiano lo porta a Fuorigrotta. Lì l’ectoplasma di Maradona incontra un bambino che si chiama Diego e che ha questo nome in vece sua che lo riconosce e lo urla al padre incredulo, ma ora il piccolo potrà dire di avere anche lui visto Maradona. Il giorno dopo nella città partenopea si vociferò di un ritorno di Maradona: ma, i napoletani, si sa, sanno cavare l’arte anche dal sole”.
Morte Maradona, le accuse dei familiari: il suo avvocato lo aveva ridotto in schiavitù. Maurizio Crosetti su La Repubblica l'11 marzo 2022.
Il legale avrebbe creato uno stato di dipendenza con farmaci e droghe. L'ex fuoriclasse non sarebbe stato libero neanche di rispondere al telefono senza essere controllato. Diego Maradona era prigioniero del suo avvocato, Matias Morla, e del gruppo di persone che facevano capo all’ex legale del campione. Avrebbe trascorso gli ultimi mesi di vita in una sorta di reclusione, prima dell’incidente e dell’operazione al cervello: questa la denuncia dei figli di Maradona, che sulla pagina Facebook del padre hanno pubblicato parte delle risultanze dell’inchiesta sulla morte, condotta dalla Procura Generale di San Isidro e dal tribunale civile di La Plata.
Da corrieredellosport.it l'11 marzo 2022.
La «verità oggettiva» sulla morte di Diego Armando Maradona. L’hanno rivelata, diffondendola con una nota ufficiale, gli eredi del Pibe de Oro, scomparso a Tigre, in Argentina, il 25 novembre 2020, trovato solo in una camera angusta, convalescente dopo l’intervento alla testa. Com’è morto Maradona? Chi sono i responsabili? Perché ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita in quelle condizioni nonostante tutti sapessero del delicato intervento al cervello che aveva subito e delle cure necessarie per riprendersi?
Gli eredi, la moglie storica Claudia Villafane con i figli, firmatari del documento ufficiale, fanno riferimento alla verità oggettiva, la realtà dei fatti. Ciò che emerge, col lavoro della Procura del Comune di La Plata e di San Isidro, lascia senza parole. Il passaggio più delicato, quello decisivo, è il seguente: «Dalla fine di luglio dell’anno 2020 e fino all’inizio di novembre dello stesso anno, nel Barrio Cerrado Campos de Roca situato nel distretto di Coronel Brandsen, gli imputati, Víctor Stinfale, Matías Edgardo Morla, Maximiliano Pomargo, Vanesa Morla, Maximiliano Trimarchi e Carlos Orlando Ibañez, hanno ridotto Diego Armando Maradona a una condizione di servitù, limitando i suoi contatti con la famiglia, gli amici e i parenti, sia di persona che telefonicamente, fornendogli alcol, droghe e marijuana, e manipolandolo psicologicamente con diversi gadget, con lo scopo di tenerlo sotto il suo potere, per beneficiare economicamente del reddito generato attorno alla sua figura».
Diego, si legge, non poteva mai rimanere solo durante le visite, gli imputati «autorizzavano l’accesso ma almeno uno doveva essere sempre presente per vedere e sentire tutto ciò che accadeva». In pratica, a Diego non era concesso di restare neppure per un istante solo coi propri figli. Cosa accadrà adesso? Dopo la recente chiusura delle indagini, ci sarà un processo davanti ad un giudice con gli imputati, tra questi il suo medico di famiglia, Leopoldo Luque, e la psichiatra Agustina Cosachov.
Gli eredi, però, avvisano, invocando giustizia: «Non possiamo ignorare che in alcuni tribunali o pubblici ministeri vi sono persone suscettibili di interessi politici ed economici. Chiediamo a tutti coloro che hanno amato bene nostro padre di essere attenti a tutte le future risoluzioni di questo giudice perché - concludono - controllando tra tutti avremo una maggiore garanzia che finalmente la giustizia sarà fatta».
Marco Lobasso per leggo.it l'8 marzo 2022.
Deve essere stata una scena triste, struggente, come l'ha raccontata il giornalista argentino Ezequiel Fernandez Moores. Carlos Bilardo, 83 anni, da tre è ricoverato in una casa di cura argentina perché affetto dalla sindrome di Hakim-Adams, una malattia neurodegenerativa, che lo costringe su una sedia a rotelle, con perdita parziale della memoria.
Bilardo non aveva mai saputo della morte di Diego Armando Maradona, avvenuta sedici mesi fa, il auo amato capitano della Nazionale che Carlos guidò come allenatore nel vittorioso mondiale di Messico 86. I medici glielo avevano nascosto, preoccupati delle reazioni di un uomo anziano e malato. Invece, in un momento di disattenzione dello staff medico, la televisione accesa, un documentario su Diego e la scoperta che il grande campione era morto.
Secondo il racconto del giornalista Fernandez Moores, Bilardo è rimasto scioccato dalla notizia. Prima in silenzio, con lo sguardo fisso verso la tv, poi a mani giunte ha chiuso gli occhi senza più reazioni. Maradona, a detta di tutti, è il figlio che Bilardo avrebbe voluto avere e che non ha mai avuto; il suo legame con Diego era fortissimo, tanto che alcuni dei nazionali argentini di quel trionfo del 1986, con in testa Burruchaga, volevano organizzare un incontro tutti insieme con il loro ex allenatore per raccontargli di Diego e rendergli meno dura la terribile notizia della scomparsa del grande campione.
L'incontro, previsto per fine 2021, era però saltato e rinviato di qualche mese. I compagni di Diego non hanno fatto in tempo a riorganizzare e Bilardo ha scoperto di Diego da solo, davanti alla tv.
Una coincidenza sfortunata, perché in clinica ci sono sempre almeno due infermieri pronti a spegnere la tv quando passano immagini del Pibe o si parla di Maradona. Jorge, il fratello di Bilardo lo ha confermato: «Sono sempre stati attenti a distrarlo, Carlos ogni tanto chiede ai medici Dov'è il mio Dieci?'». Ha sempre ricevuto in risposta pietose bugie; fino a ieri che l'ha scoperto davvero ed è rimasto muto a pregare con le mani giunte, davanti al televisore.
Diego Maradona in Cina grazie a Romano Prodi. A L'Aria che Tira il retroscena: i brividi e la richiesta folle. Giada Oricchio su Il Tempo il 21 febbraio 2022.
“Maradona chiese 300 milioni di lire e saltò tutto”. E’ un Romano Prodi gioviale e in vena di ricordi, quello che parla con Myrta Merlino a “L’Aria che Tira”, lunedì 21 febbraio. La conduttrice rispolvera un aneddoto: “Lei fu ingaggiato da Deng Xiao Ping per portare Maradona in Cina, che vita strana ha avuto”. Prodi ha confermato che all’epoca dei fatti era a capo dell’IRI e alla conclusione dell’accordo per la costruzione di due grandi centrali elettriche, il rappresentante del governo cinese gli dice: “Avrei un problema delicato, andiamo in un’altra stanza, mi vennero i brividi, invece andammo nella stanzina e mi dice ‘sa professore, vengo a nome del presidente, erede del leggendario Mao Tse Tung, il quale ha il desiderio di veder giocare Maradona”.
Prodi ammette di essere rimasto di stucco, ma acconsente alla richiesta mettendosi in contatto con l’allora allenatore del Napoli e combinando l’esibizione. Ma ecco l’intoppo: “Maradona chiese 300 milioni di lire per sé stesso e un’impresa pubblica come faceva a darglieli? Sarebbe stata una cosa incredibile, ci sarebbero stati 600 milioni di telespettatori. Non so se Maradona si è poi pentito, ma questo le dice come il football sia il collante per tutto il mondo, è incredibile”. E Merlino fa ridere di gusto il professore: “Lo so bene, ne sono consapevole per storia personale” con riferimento al fidanzato ex giocatore Marco Tardelli.
Da corrieredellosport.it il 17 febbraio 2022.
Romano Prodi parla di calcio nel foyer del Teatro delle Celebrazioni prima dello spettacolo su Renato Dall'Ara, intervistato da Alberto Bortolotti. "Pensi che Deng Xiao Ping, il massimo leader cinese, quando io ero in visita come Presidente IRI, mi chiese di intercedere per portare Maradona in Cina. Occorrevano 300 milioni e io come azienda pubblica non potevo affrontare quell'esborso. Lui insistette molto: "se me lo porta, io sarò allo stadio e le garantisco 600 milioni di cinesi davanti ai televisori". Sul presente, l'ex premier ha detto in dialetto "i s'han da dsder". Tradotto: si debbono svegliare.
Da corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 17 febbraio 2022.
La missione a Pechino
(…) In quale considerazione Maradona teneva Deng Xiaoping? È qui che interviene Prodi, raccontando una storia che non è stata mai ricostruita nei dettagli. È il tempo in cui l’allora presidente dell’Iri, in missione a Pechino, stava firmando con l’Ansaldo un contratto per la costruzione di due grandi centrali elettriche.
Durante la cerimonia, la controparte cinese gli chiede di parlargli riservatamente per rivolgergli un messaggio personale. «La cosa - ricorda Prodi - mi lasciò non poco perplesso, soprattutto conoscendo l’inflessibile procedura con cui i cinesi preparano le cerimonie ufficiali. Lo seguii quindi in un ufficio nel quale ci raggiunse solo l’interprete. Con aria alquanto misteriosa mi fu annunciato un messaggio personale di Deng Xiaoping. Feci un sospiro di sollievo quando venni a sapere che il presidente mi pregava solo di esaudire un suo grande desiderio: vedere giocare Maradona».
La controparte cinese spiegò al presidente dell’Iri che con Maradona a Pechino Deng Xiaoping sarebbe andato personalmente allo stadio e a lui si sarebbero aggiunti almeno 600 milioni di telespettatori. «Tornato in Italia - riprende Prodi - si combinò la trasferta con Ottavio Bianchi, allora allenatore del Napoli.
Ma finì tutto nel nulla quando Maradona fece presente che andare a giocare in Cina non era parte del suo contratto e che, comunque, non si sarebbe mosso per meno di 300 milioni di lire. Richiesta che un’impresa pubblica come l’Iri non poteva evidentemente accettare, anche perché il saggio allenatore del Napoli ci fece doverosamente sapere che, in questo caso, anche gli altri giocatori avrebbero dovuto essere adeguatamente remunerati».
Conclusione: «Per questo motivo, proprio perché consapevole dell’incredibile importanza dello sport, ho sempre ammirato, ma non ho mai amato Maradona». Così sul mito cala un’ombra a Est. E veniamo ora alla proposta specificando, però, che è per Napoli ma non esclusiva per Napoli. Il capitolo in cui è avanzata è quello dedicato al Mediterraneo. Prodi racconta ora gli anni di Bruxelles e della sua presidenza della Commissione. E ribadisce che l’Europa, allora come oggi, l’Europa deve avere come priorità la tessitura di una rete di Paesi amici, cominciando col mettere l’Africa e il Mediterraneo al centro delle proprie strategie.
· 2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.
"Andreotti, Cossiga, il Cav: vi racconto casa Gervaso". Federico Bini il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.
La moglie del celebre scrittore, giornalista e aforista del '900 italiano racconta il loro grande amore.
L’ospitalità di casa Gervaso iniziata negli anni ’70, Cossiga e Berlusconi, l’amicizia con Andreotti, l’incontro a Mantova tra Roberto e Vittoria, il legame con Pingitore e la sepoltura al Vittoriale.
In che modo si è sviluppata questa consuetudine di invitare ospiti a casa vostra?
“È venuta da sé, quando eravamo a Roma negli anni ’70. Ricevevamo alle 14:00 ma anche la sera. Noi abitavamo in centro, vicino Piazza di Spagna e tutti i giorni passava qualche amico da casa nostra. Inoltre Roberto quando doveva fare un’intervista preferiva incontrare a tavola l’ospite in maniera da conoscerlo meglio. Ci venivano volentieri”.
Chi ha frequentato casa vostra a Roma?
“Della Prima Repubblica tutti. Ma soprattutto il mondo della cultura, dal pittore Gentilini a direttori d’orchestra, economisti e musicisti come Arbore. Una volta che venne Cossiga, ricordo che ad un certo punto nelle scale si sentiva un tic-tac continuo e non si capiva che cosa fosse. Allora c’era il terrorismo, quindi chiamammo la polizia pensando che fosse una bomba. Conclusione, una nostra vicina aveva messo inspiegabilmente la sveglia fuori dalla porta”
L’incontro Cossiga-Berlusconi?
“In una di quelle occasioni fu mio marito a presentare a Cossiga Berlusconi. Più avanti nel ’99 abbiamo riorganizzato questo incontro, ripensando ai tempi passati. In quella occasione, Silvio ha portato con sé Apicella e abbiamo cantato tutta la sera”.
Quali erano i salotti più noti di Roma negli anni ’70?
“Il più famoso ed esclusivo era quello di Maria Angiolillo. Il nostro non era un salotto ma un desco conviviale aperto agli amici”.
Ha qualche aneddoto da raccontare?
“Ricordo quando venne Silvio Berlusconi accompagnato all’ultimo momento da un amico comune. E fu la volta in cui Roberto lo conobbe, quando ancora era costruttore. Allora avevamo soltanto sei sedie per cui ho dovuto prendere la sedia della cucina. Avevo fatto la mousse al cioccolato già pronta per sei persone e io ho dovuto rinunciare alla mia per darla a Silvio”.
Com’era invece il rapporto tra suo marito e Giulio Andreotti?
“Noi eravamo molto amici. Lui veniva spessissimo. Tutte le prime interviste le concedeva a Roberto. Lui si è sempre prestato a qualunque cosa. Carinissimo e affettuoso”.
La macchina da scrivere di Ernest Hemingway?
“La teniamo in salotto. Fu un dono del nostro caro amico Ninni Pingitore. Un bellissimo regalo. Roberto è sempre stato un suo ammiratore. Lo adorava ed era ricambiato”.
Lei ha fatto su Instagram una pagina in cui ricorda gli aforismi di suo marito. Ce n’è uno in particolare a cui è legata?
“L’Italia sta in piedi perché non sa da che parte cadere. Ha anche scritto tanto su di me. Con Roberto è stato un grande amore”.
Come vi siete conosciuti?
“Anche se io abitavo in Via Tor Millina, vicino Piazza Navona e lui in Via dell’Anima. Eravamo vicinissimi, venti metri e ci siamo incontrati a Mantova. Io avevo letto L’Italia dei secoli bui, mi ero invaghita di questo scrittore. Lo volevo conoscere, allora mi ricordo che chiesi alla figlia di Vittorio Metz che era una sua amica di farmelo incontrare. Lei però ‘nicchiava’ e mi ha trascinato per mesi. Poi un giorno, io facevo l’indossatrice, sono andata a fare una sfilata di pellicce a Mantova. Roberto vi fu trascinato da una sua ‘fidanzata’. Dalla passerella dopo aver saputo che lui fosse presente, l’ho cercato tra gli ospiti con lo sguardo e dopo averlo individuato mi fermavo davanti a lui e gli sorridevo. Finita la sfilata c’è stato un cocktail, ci siamo incontrati, abbiamo parlato e mi ha chiesto che programmi avessi. Quando seppe che sarei stata a Fiuggi per un evento di moda, mi volle cercare chiamando tutti gli alberghi della cittadina”.
Cos’è che l’ha fatta innamorare di suo marito?
“Per me è stata determinante la sua domanda su quali fossero i miei punti fermi. Da quel momento lui è diventato il mio punto fermo. È stato un grandissimo amore”.
È stato anche un po' don Giovanni?
“Sì, però credo più per un fatto di vanità. Le donne gli piacevano, lo lusingava essere ammirato… io ero gelosa, ma so di essere stata il vero grande amore della sua vita”.
Chi erano i più cari amici di negli ultimi anni?
“Andrea Pucci, Franco Romeo, Eugenio Sidoli, Attilio Befera, Pier Francesco Pingitore e Alessandro Sallusti”.
Roberto adesso si trova al Vittoriale.
“Lui amava tantissimo questo luogo. Il suo desiderio era di essere sepolto in un piccolo cimitero vista mare. Pur non avendo il mare, il Vittoriale si affaccia sul Lago di Garda. E io spero un giorno, quando avverrà, che le mie ceneri possano essere sparse nel lago in modo che lui mi possa sentire vicina”.
Com’era suo marito nel privato?
“Portava allegria ed aveva sempre la battuta pronta”.
Qual è il ricordo più bello che avete condiviso?
“Tutta la vita è stata un bel ricordo con mio marito. E se ne è andato via sorridendo e secondo me gli uomini si vedono anche davanti alla morte. Lui è morto assolutamente sereno. E l’ultima cosa che mi ha detto è stata “bedda” (in siciliano) per fare una battuta! Dopo non ha più parlato”.
· 2 anni dalla morte di Gigi Proietti.
Fernando M. Magliaro per “il Messaggero” il 3 novembre 2022.
A due anni dalla scomparsa, arriva l'ufficialità: «Gigi Proietti avrà una tomba nuova al Verano». L'annuncio arriva direttamente da Ama che ha reso noto alla trasmissione radiofonica Gli Inascoltabili su Radio NSL New Sound Level che «il 12 maggio 2022, Roma Capitale ha approvato il progetto architettonico del manufatto e la Direzione dei Cimiteri Capitolini ha già incontrato l'architetto incaricato dalle eredi, il quale dovrà dar seguito al progetto architettonico approvato, ed è in attesa dell'avvio dei lavori da parte della famiglia Proietti.
La tomba sorgerà, come scelto dalle eredi del grande attore, in un'area specifica sottoposta a vincoli della Sovrintendenza del cimitero storico romano» non lontano dal Sacrario Militare. Gigi Proietti è scomparso il 2 novembre 2020.
Dopo alcuni mesi dalla scomparsa e quasi a ridosso delle elezioni comunali divamparono pesanti polemiche politiche a seguito della mancata sepoltura dell'attore, con la figlia di Proietti, Carlotta, che parlò di fake news per riportare un po' di calma. Le polemiche nacquero per un articolo del quotidiano La Repubblica in cui si sosteneva come le ceneri di Proietti fossero state portate in Umbria, nel cimitero di Porchiano del Monte, dove sono sepolti i genitori, per assenza di spazio nel cimitero del Verano.
Di lì, partirono una serie di attacchi all'Amministrazione Raggi - anche a causa delle enormi difficoltà nelle procedure di sepoltura e cremazione dei defunti - smorzati poi da una nota congiunta Comune, Ama e famiglia in cui si evidenziava come Proietti fosse stato cremato il 10 novembre e le ceneri sono state consegnate alla famiglia il giorno successivo.
«Già da novembre 2020, tecnici di Ama Cimiteri Capitolini, insieme a un rappresentante di Roma Capitale, hanno effettuato una serie di sopralluoghi con i congiunti del grande artista romano in più aree del Cimitero Monumentale del Verano», riportava la nota. Ora, a distanza di mesi, finalmente la conferma che sito e progetto sono stati scelti e autorizzati.
La comunicazione di Ama di ieri, diffusa alla trasmissione radiofonica, riporta come la cremazione dell'attore sia avvenuta velocemente e l'iter per la sepoltura sia stato avviato subito dopo la sua morte. Tutte le procedure si stanno svolgendo nel pieno e doveroso rispetto delle volontà della famiglia Proietti, che ha scelto di avere in custodia le ceneri del compianto artista (senza prevedere una sistemazione temporanea all'interno del cimitero del Verano) fino alla realizzazione di un manufatto dedicato, da costruire ex novo, all'interno del Cimitero monumentale.
Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 2 novembre 2022.
«Ciao core!», mi accoglieva sempre disponibile e sorridente quando lo chiamavo per annunciare i suoi nuovi progetti artistici. E alcuni anni fa, quando si diceva spesso che a Milano funzionava tutto alla perfezione, mentre a Roma era un vero bordello, gli chiesi cosa ne pensasse e lui, tranquillo nella sua romanità, rispose: «Beh, certo, è vero: a Milano funziona tutto bene, ma... è grande quanto l'Eur!». Poi aggiungeva con una punta di polemica: «Noi non ci rendiamo conto di quello che abbiamo intorno e mi fa male che non sia una Capitale amata. Ai francesi vaje a tocca' Parigi! A Roma i problemi ci sono sempre stati, ma da Roma nun me ne voglio anna'».
Gigi Proietti, un mattatore a 360 gradi, capace di riempire gli stadi e conosciuto dal vasto pubblico soprattutto come attore comico, in realtà è artisticamente nato nell'avanguardia degli anni Sessanta, nel teatro sperimentale delle «cantine romane», come lui amava sottolineare, insieme ad Antonio Calenda, Piera Degli Esposti, Giancarlo Cobelli. «Con il gruppo 101 recitavamo in un ex deposito di scope e dopo lo spettacolo c'era il "dibbbbbattito" co' trecento b».
Quando arriva il successo, i suoi spettacoli, puntualmente accolti da un tripudio di applausi, erano una garanzia per gli spettatori: sapevano che si sarebbero divertiti dalla prima all'ultima battuta, lasciando altrove problemi e affanni. Il suo principale obiettivo era di dare alla sua platea la certezza di scegliere, con lui, una serata diversa, fuori di casa e lontano dalla solita televisione.
Però, il pubblico era talmente abituato ai suoi exploit comici che, quando si cimentava in performance più impegnate, non sempre veniva accolto con il dovuto entusiasmo. Quella volta, per esempio, che accettò di fare la voce recitante nel «Cantico delle creature» nell'Abbazia di Fossanova, «una roba concettuale - mi raccontò - sulle note di un musicista molto impegnato, Goffredo Petrassi, ma che certo non è un compositore di canzonette», dopo la sua suite, uscì fuori dall'eremo per fumarsi in pace una sigaretta. Nel buio si sentì chiamare: «pss pss Proietti!» e scorse due tizi che gli si avvicinarono: un ambulante che vendeva bibite e un posteggiatore.
Gigi, credendo che avessero assistito alla sua esibizione, chiese loro se fosse piaciuta. Uno dei due gli puntò il dito contro, intimandogli perentorio: «Mai più, eh? Mai più!». E l'altro aggiunse, riferendosi agli ideatori della serata, compreso il musicista: «Lasciali perde' 'sti fiji de 'na mignotta: te rovinano!». Insomma, capì che non era piaciuta.
Eppure, colui che sarebbe diventato uno degli attori teatrali, e non solo, più amati, non era stato arso dal sacro fuoco del palcoscenico ed era insofferente all'etichetta di venire considerato l'erede petroliniano. «Come diceva Petrolini di sé stesso, io non discendo da nessuno, ma solo dalle scale di casa mia». Tuttavia, più volte aveva reso omaggio al creatore di «Chicchignola», al suo sarcasmo caustico, spingendosi nel repertorio dei «Salamini», «Gastone», «Nerone», «Ti ha piaciato?», reinventando la propria maschera comica.
Luigi Proietti, detto Gigi, era nato al Tufello, nella periferia romana del dopoguerra, tra case popolari e oratorio, in una famiglia modesta. Il padre faceva «l'impiegatuccio» ed era solito ripetergli: «Piove o tira vento, prendi lo stipendiuccio e la tredicesima». La mamma era casalinga, ma la vena artistica forse l'aveva ereditata proprio dal nonno materno che, pur facendo il pecoraio, era un poeta.
Per mantenersi agli studi (una laurea in Giurisprudenza appesa al chiodo: «E meno male! Come avvocato sarei stato un disastro!») Gigi cantava nei night con un gruppetto di amici: «Cominciavo alle 10 di sera e finivo alle 4 di mattina, uscivo fuori con un collo gonfio... non c'era misura di camicia che tenesse, ce voleva un copertone!». Quando si andò a esibire nelle piscine del Foro Italico, conobbe Sagitta Alter, la compagna di vita, la donna che gli ha dato due figlie, Susanna e Carlotta. Lei, svedese, faceva la hostess, accompagnava i turisti in giro per monumenti e la sera li portava lì a prendere il fresco e a sentire musica. Tra loro scattò la scintilla, ballando l'Hully Gully.
Il clic della passione scenica scatta con «Il Dio Kurt» di Alberto Moravia: un successo inaspettato grazie al quale si rese conto che, forse, poteva campare di questo mestiere.
La svolta arrivò quando Garinei e Giovannini lo scelsero per «Alleluja brava gente» al Sistina, accanto a Rascel. Una botta di fortuna, per lui: prendeva il posto di Domenico Modugno che aveva litigato con il celebre Renato Ranucci. Ma rammentava, divertito, che Giovannini passava tutte le sere nel suo camerino e gli intimava scherzando: «Stai attento! Ti abbiamo creato e ti distruggiamo!».
Fu allora che comprese la possibilità di coniugare il teatro ludico con la qualità artistica: il cosiddetto teatro popolare. Un genere che Proietti ha in seguito consacrato con «A me gli occhi please»: per la prima volta realizzava un recital con parole, musica, canzonacce, nel teatro tenda di piazzale Clodio che, all'epoca, si utilizzava per il circo. E una delle prime volte che si esibiva in un ambiente così dispersivo, dove ancora non utilizzava gli schermi per ingrandire la sua immagine, appena si aprì il sipario uno spettatore, dal fondo della sconfinata platea, vedendolo piccolo piccolo sul palcoscenico, gli urlò: «A Giggi! Mandace 'na foto!».
Non solo smisurato protagonista che, quando doveva accontentare i fan incontrati per strada, era «diventato un lavoro: prima l'autografo, poi la foto, poi chiamano col cellulare un parente a casa, di solito la mamma, e te la passano al telefono», Gigi è stato anche maestro nella sua bottega teatrale, creata mentre era direttore artistico del Brancaccio, dove sono nati, tra gli altri, i talenti di Enrico Brignano, Flavio Insinna, Francesca Reggiani.
Un carisma, il suo, che si declinerà nel «genio e sregolatezza» dell'Edmund Kean, interpretandolo al Globe Theatre: lo splendido spazio scenico shakespeariano, realizzato dalla tenace cocciutaggine di Gigi nel cuore di Villa Borghese nel 2003, da lui diretto fino alla sua scomparsa e ora a lui intitolato.
«Qui nun se ride», avvertiva gli spettatori. Eppure l'autoironia da consumato mattatore non mancava nella messinscena: metteva a nudo l'essenza tragicomica di un autentico animale da palcoscenico, rivelava tutti i difetti, le manie di grandezza, le frustrazioni, gli immancabili birignao che fanno di Kean una figura autentica. Grande fu l'emozione quando sedeva in platea il Presidente Mattarella: «La parte la conosco bene ma, siccome recito da solo per due ore, non vorrei che proprio stasera me scordo qualche battuta».
Chissà come Gigi avrebbe commentato il crollo di una scala esterna proprio del Globe, nel settembre scorso, mentre era affollato da studenti. Aveva fortemente voluto quel teatro ed era riuscito a realizzarlo con la complicità dell'allora sindaco Veltroni.
Certamente avrebbe provato un dolore profondo, come quello che tutti hanno provato quando, all'alba del 2 novembre 2020, l'attore, che proprio quel giorno avrebbe compiuto 80 anni, ha definitivamente spento le luci della «sua» scena, lasciando un vuoto incolmabile. E pensare che, data l'età, nei mesi precedenti aveva preannunciato il titolo del suo prossimo spettacolo: «A me gli occhiali, please».
LUIGI PROIETTI DETTO GIGI. Da mymovies.it il 28 febbraio 2022.
Regia di Edoardo Leo. Un film con Gigi Proietti, Renzo Arbore, Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann, Marco Giallini. Cast completo Genere Documentario, - Italia, 2021, durata 100 minuti. Uscita cinema giovedì 3 marzo 2022 distribuito da Nexo Digital. Oggi tra i film al cinema in 1 sala cinematografica Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13 Valutazione: 3,00 Stelle, sulla base di 2 recensioni.
Un emozionante viaggio all'interno della vita e della carriera del più importante uomo di spettacolo italiano.
Recensione di Simone Emiliani domenica 10 ottobre 2021
La vita artistica tra teatro, cinema e televisione di Gigi Proietti dagli esordi, ai successi, alle cadute raccontata dai suoi familiari, colleghi e amici che ne riscoprono la personalità e il talento artistico.
All'inizio era un altro progetto. Nel 2018 Edoardo Leo avrebbe dovuto realizzare un documentario su A me gli occhi, please, lo spettacolo che nel 1976 ha cambiato il recente panorama teatrale, con Proietti che è stato seguito per due anni nei camerini, durante le prove e gli spettacoli. Poi, dopo la morte dell'attore il 2 novembre 2020, si cambia strada. Il racconto di questo lavoro è dichiaratamente insufficiente per mostrare quello che ha lasciato Proietti nella sua carriera di oltre 50 anni.
Dentro a Luigi Proietti detto Gigi ci sono tre documentari.
Il primo è composto dai materiali d'archivio che ripercorrono le tappe fondamentali del suo percorso artistico dove risultano particolarmente interessanti quelli accanto a Federico Fellini durante il doppiaggio di Il Casanova, di Alleluja brava gente di Garinei e Giovannini dove è mostrato accanto a Renato Rascel e del varietà Fatti e fattacci dove è avvento uno degli incontri decisivi della sua carriera, quello con Roberto Lerici.
Il secondo è composto dalle testimonianze di Renzo Arbore, Loretta Goggi, Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann (lo ha definito "interprete drammatico che faceva morire dalle risate"), Nicola Piovani e Marco Giallini e dei suoi familiari: la sorella Anna Maria e le due figlie Susanna e Carlotta.
Il terzo è probabilmente il racconto che avrebbe voluto fare Edoardo Leo di Proietti in prima persona. Viene inquadrato di spalle e in macchina, ricorda quando è stato diretto da lui nell'adattamento teatrale di Dramma della gelosia assieme a Pino Quartullo e Sandra Collodel.
Dei tre documentari il primo è quello più compiuto, il secondo è quello più classico, il terzo è quello invece del rimpianto. Luigi Proietti detto Gigi è stato certamente esauriente nel mostrare la capacità dell'attore nel mescolare alto e basso, colto e popolare, le barzellette e la regia di opere liriche come quella del Don Giovanni da Mozart in quella che era diventata una specie di sua seconda casa, il Globe Theatre. Ripercorre poi alcuni dei momenti decisivi delle sue tappe dal celebre personaggio di Mandrake in Febbre da cavallo alla scena assieme a Vittorio Gassman in Un matrimonio di Robert Altman, dal grande successo televisivo di Il Maresciallo Rocca e i celebri doppiaggi di Marlon Brando, Dustin Hoffman, Donald Sutherland, Gatto Silvestro e l'urlo "Adriana" di Stallone in Rocky alla ferita rimasta aperta del Teatro Brancaccio quando la direzione artistica è passata a Maurizio Costanzo.
Una carrellata ampia, segnata da una voce-off che in alcuni momenti è apparsa troppo insistente ma utilizzata da Edoardo Leo per sottolineare quello che è stato il suo rapporto con Proietti e quella che è la sua visione su di lui. In più, anche se ci sono molte informazioni sul suo legame con Roma, non ne è emerso in pieno il rapporto viscerale di dipendenza. C'è tantissimo di Proietti in questo lavoro ma si voleva vedere ancora di più. La sua figura è ancora molto viva e presente nel nostro immaginario. Proprio per questo, forse il valore di Luigi Proietti detto Gigi aumenterà nei prossimi anni.
"Luigi Proietti detto Gigi", l’omaggio al mattatore amato dalla gente. Dal 3 al 9 marzo nelle sale il documentario diretto da Edoardo Leo sull'artista popolare, colto e raffinato che il cinema avrebbe potuto utilizzare di più. MAURIZIO ERMISINO su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2022.
Alla fine della prima di uno dei suoi spettacoli storici, A me gli occhi, please, Gigi Proietti chiese alla madre se le fosse piaciuto. La madre rispose con un ghigno: “abbastanza”. È uno dei tanti aneddoti che ascoltiamo nel documentario Luigi Proietti detto Gigi di Edoardo Leo, in uscita evento per una settimana al cinema, dal 3 al 9 marzo (prodotto da IIF e distribuito da Nexo).
È una frase che descrive bene quell’understatement tipico di Gigi Proietti, quel restare con i piedi per terra, non sentirsi mai divo, quello schernirsi e ridere di se stesso. «In uno dei suoi libri, “Il Decamerino”, diceva che siamo nell’epoca dei superlativi» ci ha raccontato Edoardo Leo. «Non basta dire: bravo. Bisogna dire: straordinario, genio assoluto. Alla fine di A me gli occhi, please tutti mi dicevano straordinario, mia madre mi ha detto: mi è piaciuto abbastanza. È un modo di essere ancorato al reale, di restare con piedi per terra». Gigi Proietti è stato un artista che forse ha avuto meno di quello che meritava. «La sua figura di comico ha preso il sopravvento su altri aspetti» ci ha spiegato Leo. «E una parte della critica lo ha un po’ sottovalutato. Quando si parla di direttori di teatri poche volte viene in mente la figura di Gigi, un grande intellettuale. Quando poteva aprire una casa per se stesso ha deciso di aprire un teatro per tutti, dove fare solo Shakespeare».
A questo proposito, nel film sentiamo dire che è Gigi che è mancato al cinema, e non il cinema a Gigi. «È una cosa un po’ curiosa» riflette Leo. «Gigi ha fatto pochi film, ma quelli che ha fatto sono cult, Casotto, Febbre da cavallo, alcuni film molto complessi con Tinto Brass. Il cinema che ha fatto lo ha fatto benissimo, per un uomo così legato al teatro che ogni anno si imponeva mesi e mesi di spettacoli e tournee, negli ultimi anni ha fatto molto cinema”.
Ma Gigi era così. Aveva quel suo understatement, applicava a ogni cosa un suo controcanto, smontava se stesso. “Non ho la tempra del divo, diceva spesso, gli veniva da ridere” ricorda con affetto Leo. “C’è un’altra cosa molto curiosa: quando ci si approccia ad artisti di quel tipo gli si dà del lei, lo si chiama Maestro. Gigi lo chiamavano tutti Gigi. Non era una lesa maestà, lui ti permetteva questo. Ho chiamato il documentario Luigi proietti detto Gigi, per questo. Le maestranze lo riconoscevano come uno di loro anche se era un artista, un intellettuale”.
Il documentario racconta anche dei momenti amari nella carriera di Proietti. Uno è stato il Teatro Brancaccio, che ha diretto due volte, e per due volte si è visto sollevare dall’incarico. Lui ha sempre risposto con un no comment, soprattutto quando, la seconda volta, si è visto sostituire da Maurizio Costanzo. Ma è stata una grande ferita. «Dobbiamo ricordare che, quando lo prese, il Brancaccio era uno spazio vuoto, un teatro da 1400 posti abbandonato a Via Merulana, al centro di Roma, e lo ha ridato ai romani. Ha riaperto a febbraio, all’ improvviso, e venivano i pullman dalle periferie per vedere gli spettacoli. La seconda volta che glielo hanno tolto è stata una ferita, ma non per lui: aveva dato un teatro ai romani e gli dispiaceva per loro. Gli ho chiesto in maniera diretta di questo fatto e ha glissato. Io ho trattato la cosa con il giusto rispetto».
L’altra nota dolente è stata la televisione. Il suo Fantastico 4 è stato un insuccesso, di cui ha sofferto molto. Ma poi si è rifatto con gli interessi. «Quello con la tv è stato un rapporto contraddittorio» commenta Edoardo Leo. «Le prime cose che ha fatto sono molto sperimentali, e sono stupito di cosa facevamo negli anni Sessanta e Settanta in televisione: si portavano i ragazzini a vedere Don Chisciotte, si recitava in diretta con i bambini che potevano interrompere e fare domande». «Quando è diventato un One Man Show ha fatto cose molto riuscite, pensiamo a un personaggio come Toto. Fantastico 4 fu considerato il più brutto Fantastico della storia, lui uscì con le ossa rotte da quell’esperienza: i tempi televisivi gli sembravano impossibili. Si metteva al servizio della televisione: quando poi è diventato così grande è la tivù che si è messa al suo servizio».
Edoardo Leo ha recitato diretto da Gigi Proietti, proprio in quella prima stagione del Teatro Brancaccio, in Dramma della gelosia, versione teatrale del celebre film. Viene spontaneo chiedergli che cosa gli abbia insegnato Proietti, che però, proprio nel suo documentario, dice che la recitazione non si insegna, si impara. «L’unica cosa da fare è prendere gli altri e farli lavorare su se stessi» commenta Leo. «Il talento non si può infondere con una siringa, ma quel talento lo devi allenare. Gigi non tentava di insegnare niente, cercava solo di spiegare ai ragazzi l’etica del lavoro, il rispetto del pubblico. La cosa che credo di aver imparato da lui, vedendolo in scena e fuori scena, è quanto fosse rispettoso del pubblico, e rispettoso del suo mestiere». «Lei pensa che Shakespeare sia popolare?». «Beh, no». «Arrivederci». È il discorso tra Gigi Proietti e una signora, riportato nel film.
Luigi Proietti detto Gigi riflette proprio sul concetto di popolare. «La parola popolare la abbiamo svuotata di significato» commenta Edoardo Leo. «Popolare è un concetto altissimo. Gigi Proietti ha cercato di dare dignità a quel termine. E in questo è significativo il Globe Theatre. Ha cercato di fare da tramite per portare il pubblico a rivedere qualcosa che appartiene loro. È un teatro popolare all’interno di una villa che è Borghese. In platea, davanti a tutti, ci sono quelli che pagano di meno».
· 2 anni dalla morte di Ezio Bosso.
Arianna Ascione per corriere.it il 19 maggio 2022.
«Ezio Bosso. Le cose che restano», documentario dedicato al direttore d’orchestra, compositore e pianista scomparso nel maggio del 2020 a soli 48 anni, va in onda stasera su Rai3 alle 21.20. Nel film il racconto è affidato allo stesso Bosso che si svela e fa entrare gli spettatori nel suo mondo e nel suo immaginario. Nella colonna sonora è presente anche il brano inedito «The Things That Remain», un ultimo messaggio per tutti, perché — come il musicista ha dichiarato — «ognuno si raccontera la propria storia ed io posso solo suggerire la mia».
Bosso, che si è avvicinato alla musica all’età di quattro anni grazie ad una prozia pianista e al fratello musicista, ha raccontato di aver conosciuto in conservatorio — nei primi anni Ottanta — Oscar «oSKAr» Giammarinaro, futuro cantante degli Statuto. Con la formazione ska (che prende il nome dall’omonima piazza torinese in cui si ritrovavano i mods, Ezio era uno di loro) avrebbe poi suonato per un anno e mezzo, con il nome d’arte di Xico.
Oggi, giorno in cui il compositore avrebbe compiuto 50 anni, l’amico Oscar Giammarinaro ha pubblicato un inedito a lui dedicato, «La musica magica». Composto nel 2019 e presentato all’ultimo Festival di Sanremo il brano era stato apprezzato dallo stesso Bosso prima della sua morte: «Avevo scritto una canzone per “Xico” — commenta Oscar — come regalo per il suo compleanno. A lui era piaciuta molto, al punto che avevo pensato di proporla al Festival di Sanremo. Ezio mi disse che se il brano fosse stato scelto, l’avrebbe arrangiato lui stesso per l’orchestra. A maggio però, Xico ci ha lasciati e la canzone è rimasta lì, come una nostra foto, bella e struggente nello stesso tempo».
Da qui la decisione di provare il Festival e ora di pubblicarla per rendere omaggio alla memoria del musicista. Tutti i diritti d’autore del testo saranno devoluti in beneficenza a Radio Parkies - Associazione Italiana Giovani Parkinsoniani, realtà internazionale già supportata da Bosso negli ultimi mesi di vita.
Nel corso della sua carriera Bosso non si è limitato alla musica classica. Ha collaborato con i musicisti e gli artisti più svariati. Tra loro: Pino Daniele, Billy Corgan degli Smashing Pumpkins, Gustavo Beytelmann dei Gotan Project, Alessio Bertallot e il pittore Jean Michelle Folon.
Era un tifoso del Torino. «Torinista ci nasci, è qualcosa di genetico» aveva detto in un’intervista a Propaganda Live.
Forse non tutti sanno che era cittadino onorario di Roma, Busseto, Gualtieri e Acireale.
Bosso ha collaborato in diverse occasioni con Gabriele Salvatores, componendo la colonna sonora dei film «Io non ho paura», «Quo vadis, baby?» e «Il ragazzo invisibile».
Nel 2019 è stato protagonista di due serate-evento su Rai3, «Che storia è la musica», che l’hanno visto nel triplice ruolo di autore, conduttore e direttore d’orchestra.
«La disabilità è negli occhi di chi guarda, perché il talento è talento e le persone sono persone, con le ruote o senza». Nel 2011 Ezio Bosso è stato colpito da una grave neoplasia, seguita successivamente da una malattia neurodegenerativa. «Sono diventato un simbolo controvoglia, mi chiedono consigli, ma io non ho ricette — diceva nel 2019 a 7 - Sette —. Mi fa paura essere considerato un testimonial di qualunque cosa che non sia studio, dedizione, musica fatta bene. È una lotta durissima, sfiancante, che mi prova duramente.
Tante volte ho voglia di smettere perché capisco che questa continua guerra mi fa male, anche fisicamente, la sofferenza psicologica si trasforma in dolore fisico». Poi però le sette note lo sfidano «e io, che di fronte a loro sono debole come è debole chi ama, cedo e mi ributto a capofitto in un nuovo progetto, in una nuova pagina musicale. Perché mi dà gioia e perché lì sono davvero io: un musicista e basta».
Al compositore è stato dedicato il giardino di piazza Statuto 18 a Torino, iniziativa fortemente voluta e sostenuta da Oscar degli Statuto.
· 2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.
Ricordando Zavoli con un’antologia tra cronaca e storia. Sergio Zavoli, il «padre» del giornalismo televisivo italiano. L'antologia delle inchieste radiotelevisive del grande giornalista scomparso a 96 anni nel 2020. Riproposta l'iconica trasmissione «Il dire e il fare». Redazione spettacoli su La Gazzetta del mezzogiorno il 04 Agosto 2022
Un’antologia delle inchieste radiotelevisive che Sergio Zavoli, scomparso a 96 anni il 4 agosto 2020, ha compiuto in oltre cinquant’anni di professione per la Rai. La propone «Sergio Zavoli. Il dire e il fare» in onda oggi alle 17 su Rai Storia per il ciclo “Italiani». Entrato in Rai nel 1947, Sergio Zavoli per quindici anni si dedica alle radiocronache e al documentario radiofonico, ispirato dal neorealismo di Cesare Zavattini, sotto il patrocinio di Vittorio Veltroni, capo delle Radiocronache Rai.
È Zavoli a ricordare quegli inizi in un’intervista rilasciata nel 2015 a Rai Storia. Dal 1962 collabora con i servizi giornalistici della Tv: si apre per lui un decennio incredibile, denso di incontri. Firma una cinquantina di servizi per Tv7, tra il 1963 e il ‘70, toccando i tanti lati di una società italiana in tumultuosa trasformazione, e avvicina molti protagonisti della cronaca, e in molti casi, della storia. Realizza documentari di soggetto storico, lunghe interviste e le 8 edizioni di «Processo alla tappa», racconto epocale del Giro d’Italia e dei suoi protagonisti.
Quel decennio televisivo di Zavoli si chiude idealmente nel 1972 con il ciclo «Nascita di una dittatura», raccolta di 55 testimonianze sulle origini del fascismo, cinquant’anni dopo la marcia su Roma. Direttore del Gr1 dal ‘76, il 12 giugno 1980 viene nominato Presidente della Rai, in una fase cruciale del Servizio Pubblico, che vede profilarsi il mercato della concorrenza e nuove scelte per il futuro. Torna all’inchiesta Tv dopo la fine del suo mandato nel 1986, firmando i cicli di «Viaggio intorno all’uomo», «Viaggio nel sud», “Nostra padrona televisione», «Credere non credere», «Viaggio nella giustizia», «C’era una volta la prima Repubblica» e “Viaggio nel calcio» (1999), e soprattutto, nel 1989, le 18 puntate de «La notte della Repubblica», inchiesta che esplora i recessi della tragica stagione del terrorismo.
· 2 anni dalla morte di Kobe Bryant.
Vanessa Bryant in lacrime al processo per la diffusione delle foto dell'incidente in cui morì il marito Kobe. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 20 Agosto 2022.
La vedova del giocatore ha fatto causa a 8 funzionari della contea accusati di aver condiviso in privato immagini delle vittime dell'incidente in elicottero del 26 gennaio del 2020
«Avrei voluto correre giù dall'isolato e urlare, ma non potevo scappare. Non potevo fuggire via, non potevo sfuggire al mio corpo» : è la straziante testimonianza di Vanessa Bryant, vedova della star del basket Kobe Bryant, nel corso del processo contro i funzionari della contea di Los Angeles accusati di aver condiviso in privato le foto dei resi delle vittime dell'incidente aereo del 26 gennaio del 2020 in cui persero la vita il giocatore di pallacanestro, la figlia Gianna Maria e altre sette persone. Secondo l'inchiesta seguita alla tragedia, la responsabilità dello schianto dell'elicottero su cui viaggiavano Bryant e le altre vittime è da attribuire a un errore del pilota, morto anche lui nello schianto.
Le parole di Vanessa Bryant sono state riportate dal New York Times e si riferiscono alla reazione della donna quando venne a sapere della diffusione di quelle foto. La donna, piangendo, ha aggiunto che vive nel terrore che le immagini appaiano in Internet. «Una volta che sono diffuse, non puoi tornare indietro», ha sottolineato. E ha spiegato di aver subito uno stress emozionale sapendo che personale del dipartimento dello sceriffo di Los Angeles e dei vigili del fuoco fecero fotografie sulla scena e se le scambiarono, e di come fosse scappata di casa per trovare un luogo in cui piangere e urlare lontano dalle sue altre tre figlie quando apprese della loro esistenza. «Non voglio che si imbattano in quelle immagini mai», ha ripetuto. La vedova della stella dell'Nba sta facendo causa alla contea di Los Angeles per un milione di dollari di danni.
V. Ma. per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.
Vanessa Bryant aveva mantenuto il controllo davanti alle telecamere durante i primi sette giorni del processo. Ma l'altro ieri, chiamata a testimoniare per la prima volta sulle foto che mostrano i resti carbonizzati del marito Kobe e della figlia di 13 anni Gianna, la vedova è scoppiata in lacrime. Si tratta di immagini scattate sul luogo dello schianto dell'elicottero in cui la star del basket e la figlia rimasero uccisi nel gennaio 2020 e che sono state condivise via cellulare da vigili del fuoco e vicesceriffi, per uso personale.
«Mi sento presa alla sprovvista, devastata, ferita e tradita», ha detto la moglie quarantenne di uno degli atleti più leggendari della storia - e più amati, anche in Italia, dov' è cresciuto. «Ogni giorno vivo nella paura di vedere quelle immagini spuntare sui social media». Ha spiegato in tribunale che quel pensiero la tiene sveglia la notte nel letto con le figlie di tre e di cinque anni, e a volte per il panico non riesce a respirare. È stato il Los Angeles Times a rivelare per primo che le foto erano circolate.
Quando lei lo scoprì era a casa con tutte e tre le figlie, la più grande ha 19 anni. Corse fuori, perché non la vedessero piangere. «Ho pensato: "Mi restano due scelte, cercare di vivere la mia vita oppure farla finita"». E ha fatto causa, insieme ad un'altra famiglia, alla contea di Los Angeles per violazione della privacy.
Un vicesceriffo le ha mostrate al barista mentre beveva in un locale, un altro le ha inviate all'amico con cui giocava al videogioco «Call of duty», un vigile del fuoco le ha condivise ad un cocktail party, secondo le testimonianze degli stessi agenti ascoltate durante il processo.
Decine di quelle immagini sarebbero state spedite a qualcuno, forse un supervisore, che non è stato ancora identificato. La difesa ha dichiarato che era stato chiesto ai funzionari di scattarle per studiare il luogo dello schianto sulle colline di Calabasas, quando sembrava ancora possibile salvare alcune delle nove vittime e che, non appena lo sceriffo Alex Villanueva ha saputo che erano state condivise, ordinò di cancellarle subito.
La difesa ha argomentato inoltre che le immagini non sono mai diventate pubbliche e, dunque, non è possibile che abbiano causato sofferenza alla vedova. Ma lei replica che averle cancellate dopo il danno non basta, e chiede milioni di dollari di risarcimento. La giuria dovrà decidere se è stata vittima delle persone che avrebbero dovuto aiutarla.
L'altro accusatore nel processo è Christopher Chester, che ha perso la moglie Sarah e la figlia Payton nello stesso incidente. Payton e Gianna, coetanee, dovevano giocare insieme una partita alla Mamba Sports Academy, l'accademia di basket di Kobe Bryant a Thousand Oaks, in California, e l'atleta aveva offerto loro un passaggio.
La vedova Bryant ha ricordato il giorno dell'incidente, quel 26 gennaio 2020, e la speranza che il marito e la figlia fossero ancora vivi. All'inizio, sembrava che ci fossero cinque sopravvissuti, poi lo sceriffo Villanueva entrò nella stanza della stazione di polizia dove Vanessa aspettava. Le disse che erano morti, le chiese se poteva fare qualcosa per lei. «Gli risposi che, se non poteva riportarmeli, poteva per favore mettere in sicurezza la zona. Gli spiegai che mi preoccupavano i paparazzi».
Il campione Nba morì con la figlia Gianna di 13 anni. Kobe Bryant, 31 milioni di risarcimento alle famiglie delle vittime per le foto dell’incidente. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Agosto 2022
Era il 26 gennaio 2020 quando l’elicottero su cui viaggiava Kobe Bryant insieme alla figlia i 13 anni, Gianna Maria, e altre 6 persone, si schiantò e prese fuoco in California, nella contea di Los Angeles. Il campione e sua figlia morirono nel drammatico schianto. Ora una giuria federale ha ordinato alla Contea di Los Angeles di pagare 31 milioni di dollari di danni per le foto scattate dagli agenti dello sceriffo e dai vigili del fuoco.
Sedici milioni è il risarcimento che spetta a Vanessa Bryant, vedova della leggenda del basket, e 15 milioni a Chris Chester, la cui moglie e figlia morirono nello stesso incidente. Da tempo le famiglie, addolorate per le gravi perdite, avevano denunciato la paura che le immagini, comprese quelle dei presunti resti dei loro cari, potessero essere svelate su internet. Per questo motivo i loro avvocati avevano chiesto i danni per la sofferenza emotiva provata: 40 milioni per la vedova di Bryant e 30 milioni per Chester.
Le foto erano state fatte vedere da agenti e pompieri intervenuti sul posto a persone esterne all’indagine, tra cui un barman e amici. I loro difensori hanno argomentato che le immagini non sono mai diventate pubbliche e che i superiori avevano dato prova di sollecitudine cancellandole dagli apparecchi elettronici dei soccorritori. Le famiglie delle altre vittime si erano viste accordare l’anno scorso 2 milioni e mezzo di dollari di risarcimento nella stessa vicenda. I giurati del centro di Los Angeles hanno raggiunto il verdetto dopo circa quattro ore e mezza di deliberazioni.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Kobe Bryant: la contea di Los Angeles condannata a risarcire 16 milioni di dollari alla vedova. La giuria ha emesso la condanna dopo più di quattro ore di discussione. Complessivamente la Contea dovrà sborsare 31 milioni di dollari. La Repubblica su il 25 Agosto 2022.
Una giuria federale ha ordinato alla Contea di Los Angeles di pagare 31 milioni di dollari di danni per le foto scattate dagli agenti dello sceriffo e dai vigili del fuoco dell'incidente in cui morì la stella del basket Kobe Bryant. L'elicottero su cui viaggiava assieme alla figlia di 13 anni, Gianna Maria, e altre 6 persone, si schiantò e prese fuoco il 26 gennaio 2020 in California, nella località di Calabasas nella contea di Los Angeles.
La Contea è stata condannata a pagare 16 milioni di dollari a Vanessa Bryant, vedova del campione Nba, e 15 milioni di dollari a Chris Chester, la cui moglie e figlia morirono nello stesso incidente. Vanessa Bryant e Chris Chester hanno raccontato la loro costante paura che le immagini - comprese quelle dei presunti resti dei loro cari - fossero svelate un giorno al grande pubblico su internet, e i loro avvocati avevano chiesto i danni per la sofferenza emotiva provata: 40 milioni per la prima e 30 milioni per il secondo.
Le famiglie delle altre vittime si erano viste accordare l'anno scorso 2 milioni e mezzo di dollari di risarcimento nella stessa vicenda. I giurati del centro di Los Angeles hanno raggiunto il verdetto dopo circa quattro ore e mezza di deliberazioni.
· 1 anno dalla morte di Lina Wertmüller.
Maria Luisa Agnese per "Sette – Corriere della Sera" il 2 dicembre 2022.
A stare sul set con lei si poteva anche rischiare. Perché Lina Wertmuller, prima regista candidata all’Oscar con Pasqualino Settebellezze, era donna di temperamento. Ne sapeva qualcosa Luciano De Crescenzo che durante le riprese di Sabato, domenica e lunedì si vide azzannare un dito da lei sotto gli occhi di Sophia Loren.
«Ho sempre detestato quando gli attori, specialmente i miei, gesticolano troppo. Gli dissi di smetterla. Alzai anche la voce. Alla terza volta però, glielo morsi. Gli cucii poi la mano nella tasca, per far sì che non lo tirasse fuori mai più» chiuse sbrigativamente la questione la regista.
Poi, certo, si salvava con la sua umanità piaciona a 360 gradi: «mi facevo perdonare perché ero simpatica». Grande amica degli attori che sceglieva molto per assonanza affettiva, a cominciare da Sophia Loren e Mariangela Melato, caparbiamente voluta in Travolti da un insolito destino... proprio per il suo volto insolito.
Non si prese invece con un’altra temperamento sa, Monica Vitti. Che non comparì mai in un film di Lina dopo che una volta, a teatro, non voleva recitare in tuta come tutti gli altri e come dettava Lina. «Scoprii che le era arrivato un abito di voile azzurro e che lei aveva tagliuzzato la tuta. Allora, tagliuzzai l’abito, feci rammendare la tuta e le dissi "Mettiti questa, Ceciarelli, sennò ti spacco la faccia". Ceciarelli era il suo vero cognome», ha raccontato Lina a Candida Morvillo sul Corriere. Poco indulgente anche con un’esordiente Valeria Golino: «Mi accusava urlando di essere una cagna, un’attrice negata, e mi esortava a lasciare il set. Io ci rimanevo male, oggi ripenso a quel battesimo... traumatico e sorrido».
Wertmuller si è distinta pure, nel consenso mieloso che da sempre contorna Nanni Moretti, per averlo affrontato in pubblico. «Fu cafone. Mi aveva preso in giro in Io sono un autarchico e quando lo vidi a Berlino, sul red carpet, mi avvicinai per dargli la mano e riderci su. Se ne andò. E allora gli dissi: "A’ Moretti, ma vaffa..."».
Un’assertività femminile quasi innata, la sua. «Sono andata dritta per la mia strada, scegliendo sempre di fare quello che mi piaceva. Fin da piccola. Fui addirittura cacciata da 11 scuole». Del resto, Il giornalino di Gian Burrasca era il libro preferito di sua madre e poi il suo. Dopo aver collaborato con Fellini per Dolce vita e 8 e 1/2 e aver girato il primo film a costo quasi zero, I basilischi, si butta nella serie della neonata tv italiana con Rita Pavone: fece regia e testi per tutte le musiche di Nino Rota, Pappa col pomodoro inclusa.
Discola per tutta la vita, con quegli occhiali bianchi che fece diventare griffe personale, si placava solo con il suo grande amore Enrico Job, incontrato sul set e amato e idolatrato per sempre. Nel 1991 ebbero una figlia, Maria Zulima: lei aveva 63 anni e lui 57. Adozione, utero in affitto? «Tutte sciocchezze. Maria è la figlia di Job e quindi mia figlia» tagliò corto ancora una volta lei. Un anno prima di morire (9 dicembre 2021; ndr) ebbe l’Oscar alla carriera. Ritirandolo, lasciò cadere un’ultima provocazione: «Oscar? Bisognerà cambiargli nome, mettiamogliene uno femminile. Magari Anna». Lo dedicò, ovviamente, al marito. Morto 13 anni prima.
"Dritta per la mia strada": così Lina Wertmüller rifiutò le quote rosa. La regista capitolina è morta nel dicembre 2021, ma il suo esempio continuerà a influenzare molte generazioni di registi. Massimo Balsamo su Il Giornale l'1 novembre 2022
Una donna piena di contraddizioni, uno spirito libero, un esempio per tutti. Lina Wertmüller ha tracciato un solco nella storia del cinema per tanti motivi. In primis la sua unicità. Prima donna nella storia del cinema a ricevere una nomination all’Oscar come miglior regista, la cineasta capitolina scomparsa nel dicembre 2021 ha scritto pagine importanti della settima arte e nel 2020 ha ottenuto il meritato Oscar alla carriera. Un traguardo eccezionale, che ha reso il giusto onore alla sua straordinaria filmografia.
L’esordio folgorante e la svolta immediata
Una delle grandi qualità di Lina Wertmüller è stata la sua personalità travolgente. Sia da bambina – cacciata da undici scuole – che in età adulta, ha sempre affrontato la vita con carattere e senza peli sulla lingua, con il fare della decisionista. Romana, ma discendente da una nobile famiglia svizzera (Arcangela Felice Assunta Job Wertmüller von Elgg Esapañol von Brauchich il nome completo), la Wertmüller iniziò la sua carriera dividendosi tra la commedia musicale con Garinei e Giovannini e il teatro drammatico con Giorgio De Lullo. Esperienze fondamentali per la sua formazione.
L’anima leggera e l’anima impegnata hanno sempre convissuto. Per questo motivo Lina Wertmüller è sempre riuscita a pianificare la leggerezza con grande attenzione. Il suo film d’esordio, “I basilischi”, è tra le opere più importanti della sua filmografia. Affiancata da gran parte della troupe dell’amico-maestro Federico Fellini, la regista ha dipinto un ritratto ammaliante del Meridione, tra realismo e sublimazione, tra pregi e difetti. Riflettori accesi sulle contraddizioni, sempre.
“I basilischi” ottenne un successo incredibile – vinse il Festival di Locarno e altri quattordici premi in giro per il mondo – convincendo critica e pubblico. Ma l’etichetta di regista impegnata non era massimo delle sue aspirazioni. La Wertmüller ha sempre considerato la regia un’avventura sempre nuova. “Il divertimento è più importante del successo”, il suo mantra. Ed ecco la prima svolta.
Partire dalla realtà per poi deformarla
Per navigare in un mare libero, Lina Wertmüller optò per un colpo di coda: appuntamento alla Rai per proporsi alla direzione de “Il giornalino di Gian Burrasca”. Una serie tv che regalò una Rita Pavone inedita e che raccolse un successo incredibile, fuori da ogni aspettativa. Dopo qualche lungometraggio di buona ma non eccellente fattura, la regista dagli occhialetti bianchi (se ne fece fabbricare 5 mila, tutti dello stesso modello) cambiò definitivamente marcia con “Mimì metallurgico ferito nell'onore”.
Un film che segnò l’inizio della fortunata collaborazione con Giancarlo Giannini e con Mariangela Melato, all’epoca poco noti. Fin troppo, secondo alcuni produttori. Ma la Wertmüller tirò dritto, senza guardare in faccia nessuno. Da “Film d’amore e d’anarchia – Ovvero ‘Stamattina alle 10 in via dei fiori nella nota casa di tolleranza…’” a “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, una serie di lungometraggi dai titoli chilometrici allo stesso tempo divertenti, strazianti, esagerati, fortemente popolari.
Come molti altri colleghi, Lina Wertmüller è sempre partita dalla realtà. Ma non si è fermata alla semplice realtà: l’ha reinventata, rielaborata, deformata. Fino a raggiungere il grottesco, tra vizi e virtù, tra ambizioni e desideri, tra bramosia e fallimenti. Sempre interessata alla politica delle relazioni uomo-donna, così come al confronto tra classi alte e classi basse, la regista non si è mai adagiata sulla teoria. La pratica ha vinto sempre, l’umanità ha costantemente avuto la meglio sulla filosofia.
La conquista di Hollywood
Il cinema di Lina Wertmüller ha sempre descritto con precisione il presente, recando in sé anche un germe del futuro. Una filmografia profetica, per certi versi, ma sempre invasa dall’ironia e dallo scherno. “Pasqualino Settebellezze” rappresenta lo zenit del cinema di Lina Wertmüller e non solo per il grande successo riscontrato in America. È vero, è questo film ad aver collezionato quattro storiche candidature agli Oscar (miglior regia, miglior film straniero, migliore sceneggiatura e migliore attore protagonista). Ma c’è qualcosa che va oltre. La Wertmüller ha avuto il fegato di raccontare il nazismo con comicità. Un rischio incredibile, senza precedenti.
Una scommessa rischiosa, in grado di stroncare una carriera, ma vinta, anzi stravinta. Un grande lavoro di scrittura cinematografica, frutto della sua particolare visione artistica, tale da rendere un monologo avvincente quanto un dialogo. Anche dal punto di vista dell’immagine, delle inquadrature e del montaggio, la Wertmüller non ha mai sfigurato. Anzi ha creato un linguaggio visivo inimitabile, diverso da quello di Fellini, Antonioni e Leone.
Lina Wertmüller, sinonimo di coraggio
“Pasqualino Settebellezze” è stato un progetto particolarmente audace, ma del resto il coraggio a Lina Wertmüller non è mai mancato. Gli esempi sono tanti. Nel 1974, per “Tutto a posto e niente in ordine”, puntò su attori giovani e sconosciuti, sfidando il cinema del tempo che si reggeva sui grandi nomi. Nel 1992, invece, per “Io speriamo che me la cavo”, sdoganò un Paolo Villaggio inedito. Addio a Fantozzi, al comico irresistibile. Un’altra grande caratteristica della Wertmüller regista infatti è stata la capacità di plasmare i suoi attori, basti pensare alle trasformazioni di una diva come Sophia Loren.
E lei non ha mai guardato in faccia nessuno. Non ha mai invocato favoritismi, non ha mai ricercato il facile consenso. Nessuna distinzione tra maschi e femmine, anzi, la priorità al merito: “Non si può fare questo lavoro perché si è uomo o perché si è donna. Lo si fa perché si ha talento. Questa è l'unica cosa che conta per me e dovrebbe essere l'unico parametro con cui valutare a chi assegnare la regia di un film”. Anche senza quote rosa è possibile emergere, dimostrare, entrare nell'Olimpo.
Un grande, grandissimo esempio per tutti. Anche di libertà. Lina Wertmüller è stata disposta a tutto pur i salvaguardare l’integrità artistica. Non è da tutti rifiutare un milione di dollari per girare un film – “Caligola” – perché scritto da un’altra persona. Così come non è da tutti rispedire al mittente la proposta di dirigere “Caterina di tutte le Russie”, con tanto di no secco a un assegno da 2 milioni di dollari. “Sono andata dritta per la mia strada, scegliendo sempre di fare quello che mi piaceva”, disse in una delle sue ultime interviste. La storia le ha dato ragione. E la storia del cinema parlerà di lei, per sempre.
· 1 anno dalla morte di Max Mosley.
Da fanpage.it il 29 marzo 2022.
Max Mosley si è tolto la vita sparandosi alla testa con un fucile. A quasi un anno di distanza dalla morte dell'ex capo della Formula 1, è arrivata la conferma della tragica fine: dietro il gesto estremo – secondo quanto si è appreso dal Coroner's Court di Westminster – ci sarebbe stata la disperazione per avere appreso di essere ammalato di un tumore allo stadio terminale. "Ferite significative coerenti con una ferita da arma da fuoco", è quanto scritto nel rapporto ufficiale sull'uomo, deceduto a 81 anni.
A corredo della perizia c'erano anche altre annotazioni sulle condizioni psico-emotive del suicida: il cancro che gli era stato diagnosticato non era curabile, gli avrebbe lasciato poco tempo ancora di vita e soprattutto tra dolore cronico alla vescica e all'intestino, lenito solo in parte da cure palliative.
Il 24 maggio 2021, nella casa di Kensington, Mosley venne ritrovato cadavere e con addosso un fucile. Gli agenti che arrivarono dinanzi alla porta della camera da letto notarono un biglietto agghiacciante. C'era scritto: "Non entrare, chiama la polizia". All'interno c'era la salma dell'ex manager del Circus ricoperta di sangue, adagiato sulle ginocchia c'era il fucile a doppia canna con il quale s'era tolto la vita. È stata la prima deduzione fatta dagli uomini delle forze ordine che sul comodino notarono anche un biglietto, intriso di sangue, sul quale c'erano scritte poche parole: "Non avevo scelta".
Max Mosley morì suicida: l’ex boss della Formula 1 aveva un cancro terminale alla prostata. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.
Raccolte le dichiarazioni di medici e testimoni: l’81enne aveva poche settimane di vita. Fu presidente della Fia per 16 anni, si dedicò alla sicurezza delle auto anche da strada.
Max Mosley, ex capo della Formula 1 morto lo scorso 24 maggio a 81 anni, si è in realtà suicidato a causa di un aggravamento del cancro di cui soffriva da tempo. Secondo quanto ha riferito martedì 29 marzo il Daily Mail, infatti, aveva appena scoperto di essere diventato terminale per il linfoma alla prostata da cui era affetto, e di aver solo «settimane» da vivere e di poter trarre sollievo solo da cure palliative.
Mosley ha quindi scelto di spararsi nella sua casa del quartiere di Chelsea, a Londra, non prima di aver lasciato un biglietto di commiato appeso alla porta della camera da letto con scritto: «Non aprite, chiamate la polizia». E a chiamare il 999, l’equivalente del 118 in Regno Unito, erano stati la domestica e un vicino venuto a portargli la colazione, proprio dopo aver visto quel foglietto. Un altro biglietto è stato trovato sul comodino, con tra le poche frasi intelligibili un «Non avevo altra scelta».
Le rivelazioni emergono davanti all’udienza al Palazzo di Giustizia di Westminster, dove uno dei medici che avevano in cura Mosley ha spiegato che l’ex tycoon si era sottoposto a tutte le cure possibili, compresa la protonterapia, una radioterapia protonica, e un estremo tentativo chirurgico, ma che verso aprile si era arreso all’idea delle sole cure palliative e al tentativo di controllare la malattia.
Figlio di Oswald Mosley, ex capo del movimento fascista britannico, Max nacque a Londa il 13 aprile 1940. Fu corridore — nell’equivalente della Formula 2, per la Brabham e la Lotus, partecipando anche alla nefasta gara di Hockenheim del 1968 nella quale perse la vita il leggendario Jim Clark — e avvocato, prima di diventare presidente della Federazione internazionale dell’Automobile nel 1993, subentrando al francese Jean-Marie Balestre.
Proprio la morte di Clark lo portò a interessarsi al problema sicurezza, e si ritirò per fondare la March, team che nelle sue 16 stagioni in Formula 1 conquistò tre vittorie. Ma da leader del motorsport, vivendo in particolare dopo pochi mesi la tragica morte di Ayrton Senna a Imola , fu tra i principali promotori dei test Euro Ncap, fondamentali per garantire la sicurezza passiva delle auto sul mercato. Un test che ha quindi riguardato milioni di automobilisti e non soltanto i piloti.
Diversi gli episodi controversi nella sua vita. Celebre il caso del 2008 in cui il tabloid News of the World pubblicò un servizio sulla sua partecipazione a una «perversa orgia nazista». Anche se al quotidiano fu proibita la pubblicazione integrale del video, e fu inflitta una condanna al pagamento di 60.000 sterline (76.000 euro dell’epoca) per la violazione della privacy delle persone coinvolte, Mosley nel 2009 non si ricandidò alla presidenza della Fia (anche per il lutto che lo colpì con la morte del figlio Alexander, 39 anni, per overdose).
· 1 anno dalla morte di Gino Strada.
Gino Strada, l’uomo che odiava la guerra: «Curare le persone è un dovere, prima ancora che un diritto». L'Espresso il 7 marzo 2022.
Gli studi di medicina, l’impegno sul campo, l’idea di Emergency. Nel libro “Una persona alla volta” il racconto in prima persona del chirurgo pacifista scomparso lo scorso anno.
“Una persona alla volta” (Feltrinelli) arriva insieme alla guerra, e a pochi credo questo possa sembrare un caso, forse chi conosceva bene Gino Strada avrà pensato a uno dei suoi formidabili colpi sarcastici, lui uomo straripante di vita. È almeno dal 1994, l’anno della fondazione di Emergency, da quelle indimenticabili trasmissioni del Maurizio Costanzo Show dalle quali Gino Strada fece partire la campagna contro le mine antiuomo mostrando in tv fotografie fino ad allora ritenute oscene e inguardabili – donne e ragazzi senza braccia, senza gambe, senza occhi (campagna che portò all’abolizione delle mine con la legge 374 del 1997) – che siamo abituati ad ascoltare la sua voce allo scoppio di ogni conflitto, e la aspettiamo come possibilità di tornare a nutrire un po’ di fiducia nei nostri simili, e quindi in noi stessi. Ora che Gino non c’è più, portato via la scorsa estate da una malattia cardiaca (lui che da giovane e brillante studente, che arrivava da uno dei quartieri più popolari di Sesto San Giovanni, si era specializzato a Pittsburgh e Stanford proprio nel trapianto di cuore) c’è il suo libro, che assomiglia a un’autobiografia, non fosse che è lo stesso Gino a scrivere che «non (è) un’autobiografia, un genere che proprio non fa per me, ma quello che ho capito guardando il mondo dopo tutti questi anni in giro».
Non sarà un’autobiografia ma servono le sue parole, se scoppia l’ennesima guerra (violentissima e sporca come ogni guerra, una guerra antica, con attacchi via terra senza droni, piazza per piazza, via per via, quartiere per quartiere dentro un Paese di frontiera tra due mondi e due ère storiche), e per di più dopo due anni di pandemia. Parrebbe un copione dell’orrore: una pandemia, la crisi energetica, la minaccia della bomba a idrogeno, una guerra che rischia di divenire mondiale. E le sue sono parole che curano, perché serve poter pensare che anche se c’è la guerra, c’è qualcuno che fa qualcosa contro la guerra. E Gino Strada era soprattutto uno che faceva. Per lui, fin da bambino appassionato di scienza e di uomini, la medicina era lo strumento di realizzazione del diritto più fondamentale, quello alla vita. In questo senso la medicina era concretamente rivoluzionaria, come gli aveva insegnato Maccacaro. «Emergency non è la soluzione», scrive: «Ma intanto quel gesto di cura serve alla persona che ci è capitato di incontrare, aiuta a risolvere il suo problema. Praticare rapporti di solidarietà è il contrario della logica di guerra ed è indispensabile per costruire una società veramente civile. Emergency è soprattutto una pratica di medicina, che cura chi ne ha bisogno. E lo fa semplicemente perché c’è qualcuno che ne ha bisogno. Curare le persone è un dovere nostro, prima ancora che un diritto».
Prima che sulla questione dei diritti, Gino Strada pensava ai suoi doveri. Su questi fondava i primi. Credo di non sbagliare se scrivo che questo metodo gli derivava da un lato dalla dignità di una famiglia operaia e antifascista (Mario, suo padre, lavorò per una vita alla Breda di Sesto San Giovanni, gli zii Gino e Gianna alla Falck; tute blu, come mi dice Cecilia, la figlia di Gino, portate con la più grande dignità), dall’altro proprio dalla “Stalingrado d’Italia”: «Le grandi industrie, gli operai, il partito, il passato partigiano. A Sesto si faceva politica per forza (…), oltre ai fumi delle acciaierie respiravamo etica del lavoro, responsabilità, senso di comunità».
Perché l’uomo si possa dire davvero uomo, per Gino Strada è necessario che la cura sia un diritto universale. «Se è possibile essere curati a Milano perché non dovrebbe esserlo a Kabul?», si chiede. È così, semplicemente per questo, e poi perché «senza condizioni è l’unica condizione» e «il lavoro di medici non deve essere condizionato da altro che dai bisogni dei malati», che Gino una sera di fine 1993 decide di fondare Emergency, ne parla in cucina a Teresa, la sua prima moglie (poi morta nel 2009) e Cecilia, che gli danno del pazzo, dopo che aveva lavorato al Policlinico e all’ospedale di Rho, dopo che aveva lasciato Milano per andare a fare il chirurgo di guerra con la Croce rossa internazionale. Tutte le persone che lo conoscevano bene, i suoi migliori amici, i suoi familiari, mi dicono che uno dei più grandi talenti di Gino era la capacità di arrivare all’osso delle questioni, la capacità di sfrondare gli eventi per scoprirne l’essenza. Gino credeva che l’unico modo per dare una possibilità alla pace fosse garantire più diritti per tutti, e poiché il diritto alla cura è quello fondamentale, dal momento che decide della vita e della morte, allora è di questo che occorre occuparsi.
A chi gli chiedeva se era pacifista, rispondeva che era più semplicemente contro la guerra. A chi gli dava dell’utopista diceva che «l’utopia è solo qualcosa che ancora non c’è». E ancora che ciò che gli forniva l’energia necessaria per intraprendere opere complessissime per le quali era necessario il lavoro di anni e di una moltitudine di persone come aprire ospedali (a volte «scandalosamente belli») e portare cure in Afghanistan, Somalia, Sudan, Ruanda, Sierra Leone, Perù era «la difesa della dignità dell’individuo contro la sopraffazione del potere», come scrive Simonetta Gola nella postfazione. Questo gli dava la spinta: la questione della dignità. A guardarle così sembrano forse affermazioni che provengono da un’altra èra o dal futuro dei più giovani che lottano per salvare il pianeta. Chi pensa siano solo parole deve tenere a mente che Gino Strada preferiva agire. In 27 anni ha curato 11 milioni di persone, ha eseguito di persona 30mila interventi. E anche quando parlava e prendeva posizione non era mai uomo di compromessi.
Questo è l’aspetto che più di tutti mi ha sempre impressionato dell’impresa di Gino Strada, la sua caparbietà nel voler essere giusto (nel senso etimologico di diritto, quindi dritto, lo stesso senso operaio del fare, del prendersi cura del lavoro e del mondo con misura e la testa alta) e il fatto di esserci riuscito davvero. Nel Paese più corrotto tra i più avanzati, dove l’evasione fiscale è alle stelle e la fiducia nello Stato ai minimi, in un Paese che ospita quattro mafie si cresce sapendo che il valore individuale, la passione, la costanza, il merito non contano niente se paragonati alla rete di potere nella quale si è o meno inscritti, figuriamoci la possibilità di compiere imprese folli che vadano contro strutture costituite. I suoi migliori amici, sua moglie Simonetta, Cecilia, tutti mi dicono la stessa cosa: non ci sono altri modi per agire che quello di non scendere a compromessi e tirare dritto per la propria strada. Bisogna essere pronti a rimanere soli. Sarebbero tanti gli esempi da fare a questo proposito, sulla vita di Gino (a partire dal suo professore a Medicina che lo prese in simpatia «perché non sei un leccaculo»), e alcuni sono contenuti in questo libro, che raccontando la storia dell’utopia realizzata dell’uomo che ha sconfitto la guerra ci regala ossigeno. Grazie a Simonetta per aver spinto Gino «a tirare le fila» di quello che ha «visto e vissuto».
· 1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 7 Luglio 2022.
A un anno dalla morte, molte reti tv hanno reso omaggio a Raffaella Carrà: alla showgirl ma anche alla donna libera, a Raffaella (come la chiamavano nel mondo ispano-americano) e a «la Carrà» (come la chiamavamo noi), al primo ombelico della tv italiana e alla «colonna sonora» di tanti sabati sera.
Stupiscono, se mai, i molti articoli scritti da persone insospettabili, cioè persone impegnate tutto l'anno con l'alta letteratura e temi sensibili. Facile rispondere che questa è la forza della tv generalista che, nonostante Internet, è ancora il motore e lo specchio delle nostre passioni, emozioni, percezioni. Una forza capace di raccogliere una comunità altrimenti distante, di offrire immaginari condivisi in modo trasversale.
Sì, quello televisivo è proprio un divismo un po' speciale («la diva senza divismo» per citare una canzone della Carrà), creato in buona parte dall'abitudine, dalla ripetizione, dall'insistenza.
Prima del reality e dell'aspirazione a «essere tutti divi», la qualifica di «divo» aveva un carattere esclusivo, si riferiva alle star hollywoodiane e più in generale al mondo del cinema. Oggi non più, il divismo televisivo è spesso un catalogo sfibrato, privo di carisma. L'intellettuale, però, ha capito che la fenomenologia di Mike Bongiorno può essere anche vissuta come un atto di superbia; così oggi si tende a esagerare in senso contrario: il mito raccontato da vicino (di casa).
Nell'epoca della convergenza e della multimedialità, si preferisce parlare non tanto di mito quanto di icona, una parola che nel giro di poco tempo si è inflazionata. Raffaella, tra le sue molte virtù, era anche l'icona creata dai costumi di Luca Sabatelli. Per questo Pedro Almodóvar può affermare che «Raffaella non era una donna ma uno stile di vita» senza tema di dire una banalità perché la prima caratteristica del divismo, sartoriale o pr ê t-à-porter, è proprio quello di rappresentare uno stile di vita.
Un anno senza Raffaella Carrà, la Rai le intitola gli studi di Via Teulada. La Repubblica il 5 Luglio 2022.
La presidente Marinella Soldi con l'ad Carlo Fuortes alla cerimonia. La famiglia e Sergio Japini ringraziano per l'iniziativa.
"È trascorso un anno da quando Raffaella Carrà ci ha lasciati. Gran parte della sua straordinaria carriera è stata nella Rai ed è difficile immaginare un luogo di quest'azienda che non le sia legato. Abbiamo deciso di dedicare alla sua memoria il centro di produzione di via Teulada perché qui, nel 1961, Raffaella Carrà ha esordito e sempre da questi studi negli anni Ottanta ha condotto quotidianamente Pronto Raffaella. Un programma che coinvolgeva direttamente il pubblico introducendo novità di rilievo nel modo di fare tv in una fascia oraria, quella del primo pomeriggio, allora da esplorare". Lo dichiarano in una nota Marinella Soldi e Carlo Fuortes, presidente e amministratore delegato della Rai, ricordando così Raffaella Carrà a un anno dalla sua morte.
"Chiunque abbia collaborato con Carrà - aggiungono Soldi e Fuortes - ricorda la sua passione per ogni aspetto del lavoro, il rigore professionale, la disponibilità nei confronti delle persone che erano al di là dello schermo delle televisioni. La figura di Raffaella Carrà è un patrimonio della Rai e del Paese. È una personalità unica nello spettacolo italiano, cantante, attrice, ballerina, conduttrice, showgirl, capace di parlare a spettatori di tutte le età e per questo - concludono - ci fa piacere assegnare a questa sede storica dell'azienda il suo nome".
Il grazie della famiglia e Sergio Japino
Un gesto molto apprezzato da chi ha voluto bene a Raffaella. Sergio Japino e la famiglia Carrà desiderano ringraziare la Rai per aver voluto dedicarle gli studi di Via Teulada. Un gesto particolarmente apprezzato poiché in quegli studi la Carrà ha colto i primi successi con programmi che sono rimasti nel cuore di intere generazioni e che ancora oggi appaiono incredibilmente attuali. Una precorritrice dei tempi, un modello per milioni di donne e giovani ai quali ha fatto dono del suo coraggio, del suo spirito libero, della sua incredibile vitalità. Un'icona inimitabile eppure candidamente normale nella sua straordinaria semplicità. "Ci manca profondamente. A un anno dalla sua scomparsa, la sensazione di vuoto che ha lasciato dentro ognuno di noi fa ancora immensamente Rumore...".
Un anno senza Raffa. L'antidiva "scorretta" che non piaceva a chi oggi la esalta. Paolo Giordano il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.
Una carriera tra cinema, musica e tv che per decenni è stata snobbata dall'"intellighenzia". E uno stile di vita lontanissimo da manifesti e politica
A ricordarla comincia tu. Oggi è un anno esatto senza Raffaella Carrà che se ne è andata quasi a bruciapelo il 5 luglio 2021, poco dopo aver compiuto 78 anni, con pochissime persone ad accompagnarla. Aveva tenuto tutto segreto, aveva celebrato anche l'addio alla vita con la stessa riservatezza con la quale l'aveva vissuta. Sotto i riflettori quand'era sul palco oppure davanti alle telecamere o sulle prime pagine. Ma in silenzio, discreta e riservata, per tutto il resto.
Eppure era diventata una icona globale, una popstar nel senso di stella pop al punto che nel 2020 il Guardian la incoronò sex symbol in quanto «icona culturale che ha insegnato all'Europa le gioie del sesso». Lo ha fatto senza strilli, posizioni di rottura, polemiche frontali. Dal «Tuca Tuca» con relativo balletto ideato da Don Lurio in avanti. Da «Com'è bello far l'amore da Trieste in giù, l'importante è farlo sempre con chi hai voglia tu».
Anche in questo Raffaella Pelloni, diventata Carrà all'inizio dei Sessanta, è stata una pioniera in punta di piedi, con il garbo innato di ragazza di provincia che, passo dopo passo, aggiunge peso specifico al proprio talento. Ingrata come spesso le capita, l'Italia finora le ha dedicato «solo» una parte di lungomare nella sua Bellaria dove la mamma gestiva con la nonna il Caffè Centrale. A Madrid invece le hanno dedicato una piazza nel quartiere Malasana, vicino Chueca, il quartiere simbolo della comunità omosessuale.
Raffaella Carrà è sempre stata una «solista», non ha mai massicciamente aderito ad alcuna lobby, è sempre rimasta una artista popolare che parlava a tutti rifiutando di diventare il simbolo di una sola categoria. Come si è detto spesso (e lo ha ripetuto ieri Red Ronnie a Morning News su Canale 5) Raffaella Carrà non faceva parte della cosiddetta «intellighenzia», non era sventolata come simbolo dagli intellettuali politicamente schierati. Anzi.
Per decenni, diciamola tutta, è stata quasi snobbata. Grandissimi ascolti tv, certo. Popolarità inattaccabile. Ma vi ricordate le polemiche snob intorno agli ormai mitici fagioli di Pronto Raffaella?, il programma che nel 1983 ha inaugurato in Rai la fascia di mezzogiorno fino a quel momento praticamente inesistente? Polverizzò i dati d'ascolto, intervistò protagonisti come Sandro Pertini e Madre Teresa di Calcutta eppure lo snobissimo sghignazzo sul barattolo di vetro pieno di fagioli diventò un must tra i radical chic. Per lei era il passaggio dalla sacralità del sabato sera ai toni meno formali dell'ora di pranzo. E per la tv fu l'inizio di una nuova era. Eppure, salvo poche eccezioni, quella che era la «Nostra Signora della tv» pativa le stesse pene di quasi tutte le icone pop: adorata dal pubblico, sopportata dagli altri. E dire che, proprio a un anno dalla morte, si può finalmente guardare con lucidità indietro negli anni della sua carriera. Dal Centro sperimentale di cinematografia fino a I compagni per la regia di Monicelli e al ruolo con Frank Sinatra nel Colonnello Von Ryan. Dall'ombelico mostrato cantando Ma che musica maestro! a Canzonissima con Corrado nel 1970 fino al Tuca Tuca con Alberto Sordi e a Milleluci con Mina, con la quale la rivalità fu semplicemente di maniera, alla Beatles e Rolling Stones per intenderci, niente di più.
E poi le canzoni.
Ci sono brani di Raffaella Carrà che ancora oggi sono super classici, e non solo perché i ritornelli li conoscono tutti dappertutto (anche Jovanotti ha «messo» Rumore nel primo concerto del suo nuovo Jova Beach party a Lignano). Sono super classici perché hanno precorso i tempi e sono ancora nello spirito del tempo. Non a caso Raffaella Carrà è un simbolo della consapevolezza sessuale che è riconosciuto e citato in tutte le grandi manifestazioni, nei concerti, negli happening, nei Pride. Ma non era una «guerrillera», non faceva proclami né combatteva battaglie politiche o massmediali. Era un'artista. E proteggeva la propria riservatezza, vivendo la vita privata in quanto tale, ossia privata dei riflettori. E così hanno fatto anche le persone che l'hanno seguita e accompagnata, come Sergio Iapino, che l'ha rispettata anche dopo la morte senza parlare, senza fare rivelazioni o confessioni postume. Anche in questo Raffaella Carrà è stata controtendenza. Sempre focalizzata sul lavoro (anche il celebre caschetto era stato chiesto a Vergottini per avere un taglio che non perdesse forma nonostante i movimenti di danza). Sempre al centro dello spettacolo ma lontana dalla spettacolarizzazione. A un anno dalla morte, per lei continuano a parlare i brani come Festa, che nella versione spagnola Fiesta è un super classico. O come A far l'amore comincia tu, remixato da Bob Sinclar e incluso anche da Sorrentino nella Grande Bellezza. Uscì nel 1976, l'alba della disco music e il solleone del cantautorato impegnato, e di certo non fu celebrato come un capolavoro. Eppure quelle parole sono diventate slogan. Sono state scritte da Daniele Pace e inserite in un 45 giri con Forte forte forte (con il testo di Cristiano Malgioglio) e sono ancora la colonna sonora di una rivoluzione che oggi ha toni provocatori e dirompenti lontanissimi dallo stile Carrà, la vera popstar che faceva parlare la propria arte senza farne manifesto. Il contrario di chi, oggi, fa manifesti senza avere nessuna arte.
Raffaella Carrà, la divina della porta accanto. Beatrice Dondi su L'Espresso il 4 luglio 2022.
È già passato un anno da quando Raffa se ne è andata. Lei che riuscì a conciliare normalità e magnificenza
Nella prima puntata del neonato programma, alla prima telefonata della prima volta del rivoluzionario quiz che diventerà il simbolo della domanda formato tv, la signorina da casa ipotizzò che nel barattolo ci potessero essere 25mila fagioli. A quel punto Raffaella Carrà strinse le labbra lucide, alzò le sopracciglia e scosse la testa: «Forse un po' meno, ma riprova domani».
Ecco, il successo di quella donna immaginifica si potrebbe riassumere in questa semplice prova di conduzione datata anni Ottanta. Un telefono grigio, con la rotella e il prefisso per chi chiama da fuori Roma, capace di unire per la prima volta le case alla piccola scatola televisiva.
Una chiacchierata, tra amiche, dove anche se dici una castroneria al massimo ci scappa un sorriso. E una speranza, solida, che magari non oggi o magari chissà, prima o poi arriva un giorno migliore. Non le gambe, la risata, le canzoni, i guantini di pelle, gli abiti esagerati, le interviste impossibili, la folla plaudente, la schiena inarcata, il successo planetario, l’apertura mentale futuribile, l’urgenza della libertà.
Piuttosto in questo primo anno senza Raffaella Carrà, che ha lasciato una voragine emotiva persino in chi ha sempre guardato alla sua televisione con un filo di disincanto, quello che resta come lascito intriso di malinconia neanche fosse una brioche di Nanni Loi in un cappuccino altrui, è proprio la consapevolezza di aver perduto un'irripetibile meraviglia della porta accanto.
L'evidenza di una divina che seduta al tavolino mentre il montepremi scalava di 50 mila lire a ogni risposta mancata, era in grado di far sembrare quotidiana la sua sessualità pudica, i suoi abiti importabili, le sue faccette e i suoi lustrini sulle braccia aperte, composte, generose.
Da quell'infausto 5 luglio del 2021, in cui Raffaella smise all'improvviso di “cantare a casa mia”, il suo santino è cominciato ad apparire come un ologramma sopra ogni piccolo schermo, come un riflesso mancato, un post-it che all'utopica ricerca di un'erede capace di unire questi due aspetti così lontani, così vicini. Perché variegati omaggi le sono stati più (o meno) tributati, un po' di Ariston, un filo di Eurovision, una seconda serata, una promessa di una piazza, una manciata di libri, uno show che arriverà con calma nel 2023 oltre all'imperdibile “Tuca Tuca Remix” con Carmen Russo che balla in un Colosseo in miniatura con Enzo Paolo Turchi vestito da centurione.
Ma qualcuno in grado di regalarsi al pubblico in quel modo, no, non è stato ancora avvistato. Da Trieste in giù.
Carramba, che carriera. L’arte di essere Raffaella Carrà. Paolo Armelli su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.
Tutte le tappe della vita della showgirl raccontate nel nuovo libro di Paolo Armelli edito da Blackie Edizioni. Dal sostegno alla comunità Lgbtq+ al film inedito argentino ispirato a lei di cui solo in pochi sanno, una raccolta di momenti dell’iconica carriera dell'artista con il caschetto.
Come molte delle persone che lavorano tanto e con efficienza, e che hanno familiarità con il successo, Raffaella Carrà era un tipo piuttosto superstizioso. Aveva tutta una serie di rituali scaramantici, di abitudini propiziatorie: lei stessa raccontò per esempio di non entrare mai in scena da destra e che se in camerino le cadeva il pettine doveva batterlo tre volte prima di tornare a utilizzarlo. Prima di ogni debutto importante, poi, aveva il suo rito culinario: «Per scaramanzia la mattina di ogni prima televisiva, preparo il ragù alla bolognese, le tagliatelle e il tiramisù». Il sostanzioso menù era condiviso con due o tre persone selezionatissime del cast o della troupe, che la accompagnavano a casa per cenare dopo lo show.
Per la cronaca su YouTube si trova un video in cui lei stessa racconta, in una specie di programma parodico con Luca Barbareschi, la sua personalissima versione del ragù, imparata da Japino e rielaborata con estro: aglio intero rosolato, verdure tritate, carne macinata e un po’ di salsiccia, vino a sfumare e poi il pomodoro ovviamente («A Bologna mi guarderanno e diranno: ma cosa fa quella lì?»). Ma a parte le libertà in cucina, le scaramanzie più grandi della Raffa riguardavano il vestiario: era un must per lei che a ogni debutto, fin dal lontano 1970, indossasse sempre un abito bianco candido, per la seconda puntata, invece, si virava subito al rosso. Un pattern cromatico irrinunciabile, per lei un segnale di sicurezza e buon augurio.
Per chiunque altro potrebbero sembrare dettagli secondari, superficiali. Ma nessuna regina dello spettacolo può prescindere dal modo in cui appare, da come si manifesta al pubblico esteticamente. Anzi, nel suo caso, iconograficamente. Per Carrà vestirsi, acconciarsi, pettinarsi non erano un’attività qualunque. E non dovrebbe esserlo per nessuno, forse.
Per lei quella che indossava sul palco era una divisa, un’armatura, una bandiera: prepararsi per andare in scena, truccarsi, agghindarsi era un’ulteriore attenzione riservata a chi la guardava, un manifesto di cura. Attraverso i suoi abiti e le sue acconciature Carrà raccontava sé stessa, ma accoglieva anche l’altro.
[…]
Erano altri tempi e questa ostentata artificiosità era qualcosa di persino concettuale. Sta di fatto che Raffaella copriva la sua chioma: non aveva ancora trovato un taglio che la soddisfacesse e rappresentasse. Nata mossa, pare che quei capelli ricci fossero diventati per lei un vero e proprio complesso. Nei primi anni delle sue comparsate in televisione cercò un taglio che la definisse in modo univoco: quei tentativi la portarono verso un look un po’ bombato, quel bob style tanto caro alla moda parigina del primo Novecento, che era però ancora troppo anonimo, comune. E neanche molto comodo. Fu ancora una volta l’intervento di Boncompagni a determinare una delle svolte più clamorose nella carriera di Carrà, che decise a un certo punto di giocare la carta estrema: diventare bionda. Agli uomini piacciono le bionde ma sposano le more, recita l’adagio, ma la nostra Raffa non aveva intenzione di farsi sposare da nessuno: i suoi obiettivi erano altri. Responsabile principale della trasformazione radicale di Raffaella in senso tricologico fu Cele Vergottini.
Da “L’arte di essere Raffaella Carrà”, di Paolo Armelli, (Blackie Edizioni), numero pagine, costo 20 euro, 226 pagine
Anticipazione da Oggi il 22 giugno 2022.
Il 5 luglio sarà trascorso un anno dalla scomparsa di Raffaella Carrà. Il settimanale OGGI nel numero in edicola da domani le dedica la copertina e la ricorda con un’intervista di Michela Auriti a Barbara Boncompagni, un servizio sulle celebrazioni in preparazione per l’anniversario e una riflessione di Walter Veltroni su perché Raffaella riusciva a piacere a tutti.
«Credo che il 5 luglio starò malissimo, non ho ancora smaltito la perdita», dice Barbara Boncompagni, figlia di Gianni, che per oltre un decennio fu compagno della Carrà. «Avevo 5 anni quando arrivò nella mia vita. Tra noi scoppiò una chimica pazzesca. Ci riconoscevamo affini, due guerriere con esperienze di vita simili: entrambe figlie di genitori separati, lei con un padre lontano e io con una figura materna poco presente (la moglie svedese di Boncompagni l’aveva lasciato per un altro uomo, ndr)».
Ricorda la Boncompagni, che oggi è un’autrice televisiva: «Raffa era molto concentrata sulla carriera. Però è stata un grande punto di riferimento. Era una donna priva di pregiudizi, libera. Mi capiva. Avevamo 20 anni di differenza e da lei ho imparato la disciplina». E ricorda come la Carrà scelse di isolarsi quando si ammalò: «Penso che lei non volesse arrecare dolore. Così si è privata del nostro amore, della vicinanza. Ha fatto ancora una volta una scelta militare».
Della Carrà scrive Veltroni su OGGI: «Quale è stato l’esperanto che ha unito mondi tra loro così diversi? La casalinga di Voghera e la comunità Lgbt? Credo sia stata la leggerezza di Raffaella: in un tempo greve come questo, una parola alla quale Italo Calvino ha cercato di conferire la legittima nobiltà appare quasi blasfema. Raffaella trasmetteva un senso di libertà e lo faceva perché era gentile. Le persone gentili amano la libertà di tutti, gli arroganti solo la propria. Raffaella era in buon rapporto con la vita».
Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 9 maggio 2022.
Prima regola: «Nessuno ha le caviglie troppo piccole». Che poi sarebbe il classico «Sii ciò che vuoi essere», già declinato dalle filosofie di Confucio, Paolo Coelho e Lady Gaga. Ma se a dirlo è una come Raffaella Carrà, quella regola delle caviglie piccole non è solo una massima di vita: è un comandamento.
A metterne in fila dieci, come fossero tavole della legge, ci ha pensato lo scrittore veneto Paolo Armelli, 34 anni, che dal primo giugno porterà in libreria "L'arte di essere Raffaella Carrà" (Blackie Edizioni): un volume che ripercorre in dieci capitoli, ciascuno dedicato a un preciso principio, la vita, le opere e il pensiero della star italiana definita, dal prestigioso The Guardian, l'icona che insegnò all'Europa le gioie del sesso.
«È passato quasi un anno dalla sua morte e Raffaella ha lasciato un vuoto nell'immaginario e nel cuore di tutti i suo fan», spiega Armelli, «questo libro nasce dall'idea di raccontarla a chi non l'ha vissuta, ai più giovani che non hanno incrociato la sua carriera. Un esperimento transgenerazionale per portare il suo verbo dove non è ancora arrivato».
Dei dieci comandamenti intervallati, nel libro, da interviste a persone che hanno conosciuto o amato Carrà, da Vanessa Incontrada a Vladimir Luxuria, dal deputato Alessandro Zan alla sua fotografa Marinetta Saglio Zaccaria - tre in particolare, secondo Armelli, parlano direttamente alla generazione Tik Tok.
Uno è proprio il primo, quello delle caviglie, «un messaggio di body positivity ante litteram» che risale agli esordi della sua carriera, quando, a quattordici anni, Carrà ricevette dalla scuola di danza un giudizio apparentemente inappellabile: aveva le caviglie «troppo piccole» per ballare, e non sarebbe mai potuta diventare una danzatrice classica professionista.
Sarebbe diventata molto altro, naturalmente: coreografa e ballerina, attrice e soubrette del sabato sera (Canzonissima, Milleluci, Fantastico), pop star da milioni di dischi, conduttrice in Italia e in Spagna, in Fininvest e in Rai. Sempre sulla cresta dell'onda e sempre capace di proteggere la propria privacy.
«L'altro comandamento molto adatto a quest'epoca è il decimo, Il rumore va bene finché lo decidi tu. Lei era una figura pubblica, ma su certe cose non faceva penetrare nessuno. Insegna molto ai ragazzi che oggi sui social dicono qualsiasi cosa, esponendosi».
Amata dai bambini ma mai diventata madre, due amori indimenticabili (Gianni Boncompagni e Sergio Japino), un grande dolore nel privato (la morte del fratello Renzo, a 56 anni, per tumore) e una vita spesa davanti alle telecamere, a dieci mesi dalla sua scomparsa Raffaella Carrà continua a fornire materiale narrativo all'immaginario pop: oltre al libro di Armelli anche uno spettacolo teatrale (Fiesta di Fabio Canino), un film (Ballo Ballo di Nacho Alvarez) e un musical in preparazione, oltre a due progetti una fiction prodotta dal Gruppo Lucisano, una docuserie di Wildisde entrambi in dirittura di arrivo.
«Forse avremmo dovuto parlarne di più quando era ancora con noi. Le commemorazioni ufficiali in Italia sono mancate, non le abbiamo reso veramente omaggio, come invece è successo in Spagna. A Madrid le hanno dedicato una piazza, da noi ancora non sono riusciti a intestarle degli studi».
Per Carrà, come ricorda Armelli nel libro, l'estero non fu mai un piano B ed Ettore Bernabei, direttore generale Rai negli anni in cui la sua carriera prendeva il volo, lo aveva capito benissimo. «Lei è come la Ferrari», disse, «la esporteremo in tutto il mondo».
Amata in Italia, in Spagna e nel mondo latino americano, Carrà fu l'unica diva «apprezzata compiutamente a livello internazionale prima di Laura Pausini», dice Armelli. Pausini che non a caso adesso, prima di salire sul palo dell'Eurovision di Torino, «ricorda commossa a tutti quanto Carrà sarebbe stata perfetta in quel ruolo. Nel 2011, quando la Rai si decise tornare all'Eurovision con Raphael Gualazzi, chiamò a condurre la telecronaca proprio lei».
Amata dalla comunità LGBTQ «suo malgrado», diceva, non avendo fatto nulla per meritarsi tanta adorazione («Sulla tomba lascerò scritto: Perché sono piaciuta tanto ai gay?»), Carrà disse di aver cominciato a capire quel mondo dalla prima Canzonissima, «quando ricevevo lettere di ragazzi disperati disse in un'intervista - per le incomprensioni con la famiglia, pronti a uccidersi».
Per questo, spiega ancora Armelli, alla generazione fluida dei millennials ben si adatta il sesto comandamento, Fai l'amore con chi hai voglia tu, «perché lei fu la liberazione sessuale incarnata». Pioniera dell'approccio positivo al sesso, la cosiddetta Sex positivity (Terzo: Un nuovo taglio di capelli risolve tutto) e della autodeterminazione femminile (Quarto: Sei molto più del tuo ombelico) Carrà ha sempre promosso nei suoi brani, dal Tuca Tuca a A far l'amore comincia tu, da Rumore a Tanti auguri, l'idea della donna come promotrice dell'approccio erotico, dalla forte carica sessuale, che prende l'iniziativa e vivifica un rapporto altrimenti sterile.
«Oggi è facile fare l'agiografia di Carrà, parlandone soltanto in positivo. È ovvio che aveva anche dei difetti, che negli anni ha affrontato difficoltà, critiche e polemiche. Ma resta un personaggio che non conosce tempo. Tra i suoi talenti c'era quello di parlare a chiunque, dal pubblico familiare di Rai 1 a quello dei talent come The Voice. Le sue hit hanno scalato le vette delle classifiche, ma sono ballate in discoteca ancora oggi. Arrivava ovunque, era una star ma era capace di lottare per le cause sociali». Umana, insomma. Anzi no: divina.
Valentina Lupia per roma.repubblica.it il 14 aprile 2022.
Oltre 400 metri quadrati tra moquette rosa cipria, dettagli oro, scaffali in vetro, marmi in via Nemea 21, a Vigna Clara, nel cuore di Roma Nord. L'annuncio non è quello di una casa qualunque, ma del mega appartamento di lusso dove abitava Raffaella Carrà, morta il 5 luglio dell'anno scorso a 78 anni. A gestire la vendita è l'agenzia Remax e il prezzo è sconosciuto: "Su richiesta". Si tratta, in sostanza, di una trattativa riservata, al contrario di quella prevista per l'attico (con vista spettacolare sul Campidoglio) abitato fino al 2018 da Ennio Morricone, in vendita a 12milioni di euro col supporto della Christie's International Real Estate Rome.
L'immobile, si legge nell'annuncio, si trova all'interno di un comprensorio di 15 palazzine, "con tanto di parco, piscina, campi da tennis e portineria h24". È "tranquillo e luminoso", con "tre accessi indipendenti". La zona giorno è caratterizzata da "un ampio salone di rappresentanza", con divani a fantasia e un grande tavolino in vetro, oro e marmo al centro. L'icona della tv italiana aveva arredato anche i muri con quadri che però l'agenzia ha oscurato, con tutta probabilità per una questione di sicurezza. Il salone compare in una foto pubblicata a luglio 2021 da Laura Pausini. Uno scatto che risale al 2013, quando la cantante aveva portato la figlia Paola, nata pochi mesi prima, a casa della signora della tv. Così i fan, scovando sui portali immobiliari l'appartamento, non hanno avuto dubbi: "È la casa di Raffaella!".
Le camere da letto sono in tutto nove e quella padronale - una suite - presenta grandi armadi a muro, dettagli con carta da parati fiorata sulle tonalità del rosa, mobilio vintage bianco con dettagli dorati e ampie pareti specchiate che lungo le altezze incontrano giochi di controsoffittatura. I bagni sono cinque, tra i quali uno per gli ospiti, uno di servizio in cucina e uno padronale che si snoda tra specchi, vistosi dettagli in ottone, una vasca idromassaggio e una sauna. C'è anche una sala trucco: impossibile entrarvi non pensando a una Raffaella Carrà che si prepara per eventi mondani, interviste, appuntamenti in tv. Per tenersi in forma c'è una palestra, magari dove riscaldarsi prima di una nuotata o di qualche set a tennis. Completano l'offerta un'area box-lavanderia alla quale si accede con un ascensore interno "e tre locali cantina".
· 1 anno dalla morte di Ennio Doris.
Ennio Doris a Feltri, così in piazzatta a Portofino è nato il patto con Berlusconi. Libero Quotidiano il 24 luglio 2022
Banca Mediolanum festeggia l'anniversario della fondazione del gruppo avvenuto nel 1982: tutto iniziò con un incontro fortuito tra Ennio Doris e Silvio Berlusconi... Banca Mediolanum festeggiai suoi 40 anni con un volume fotografico che ripercorre la storia del gruppo. Tra gli altri contributi, anche un articolo-intervista di Vittorio Feltri a Ennio Doris (scomparso lo scorso novembre), scritto nel 1987 per la rivista «Fondi&Gestioni» e che riproduciamo integralmente.
Obiettivo ricchezza. Per raggiungerlo, bisogna osare: anche di fermare Berlusconi per strada e dirgliene quattro. Quattro idee , s'intende. Può capitare che vi ascolti, si interessi e vi metta alla prova. Come è accaduto a Ennio Doris, 47 anni, di Tombolo, un paesino di commercianti di bestiame vicino a Padova, che un giorno incontra l'onnipotente Silvio a Portofino, ed esclama: «Eccolo lì, è proprio lui», questi si volta, sorride allo sconosciuto, gli stringe la mano. Seguono convenevoli e chiacchiere varie. E' fatta: dopo cinque minuti parlano già di lavoro, si scambiano gli indirizzi. Trascorrono un paio di settimane.
Doris non si illude certo che il padrone di Canale 5 si rammenti di lui. Ma una sera squilla il telefono: «Sono Berlusconi». Il quale chiede all'esterrefatto interlocutore un appuntamento. Così, fra i due è nato il patto di ferro che ha dato vita, nel 1982, a Programma Italia, la società che distribuisce fondi comuni della Fininvest: lo scrigno del gruppone milanese.
AL 50 PER CENTO - Piccolo ma non trascurabile particolare: il padovano non aveva una lira, ma nell'affare gli è toccata una fetta cospicua, 50 per cento, che oggi vale un Perù. La società, un caso unico nella galassia societaria del gruppo di Segrate, ha 1.900 agenti sparpagliati nella Penisola, quasi tutti al Nord e al Centro, che raccolgono capitali a tappeto, "puntandoli" su una vasta rosa di attività (assicurazioni, immobiliari, titoli, azioni) che ha la prerogativa di ridurre al minimo i margini di rischio.
E le rendite, nonché la fiducia dei signori clienti, crescono di anno in anno, rinforzando l'impalcatura della holding. Ma chi è lo "sfrontato" veneto che ha avuto il coraggio di rimorchiare il dottore di Arcore?
Come ha fatto a sedurlo?
Una storia lunga. Comincia nel 1955 quando i genitori di Ennio scelgono di farlo studiare; e non è una decisione facile da prendersi, dato che la famiglia non è povera, ma poverissima, e a quei tempi un ragazzo curvo sui banchi di scuola anziché sulla zolla da zappare significava doppia perdita: una spesa e un mancato guadagno. Lo iscrivono all'istituto tecnico commerciale facendogli pressappoco questo discorso: «Noi il sacrificio lo sopportiamo volentieri, però ne devi sostenere uno anche tu: essere promosso a giugno, sempre. Se ti bocciano una volta, vai al mercato come garzone». Lo studente accetta.
STUDIO MATTO - E per paura di un avvenire da anonimo e abbruttito ambulante, si butta sui libri come un maniaco: primo della classe gli pare poco, e viene nominato all'unanimità il migliore allievo dell'intero corso. Un portento di volontà ed impegno. «Studiavo 10,12 ore al giorno», racconta. «Non per pavoneggiarmi, ma per la soddisfazione di fare le cose bene, per sfruttare completamente le opportunità che mi offrivano gli insegnanti: imparare ogni lezione, non disperdere nulla, in maniera che poi, nel lavoro, fossi agevolato. A 19 anni col diploma in tasca, mi presentai al Banco antoniano di Padova e Trieste.
Fui assunto. Immagini la felicità: finalmente avevo uno stipendio, e sollevavo i miei da un bel peso. Allora, un posto in banca era manna, buon reddito e sicurezza».
«L'impiego mi piaceva e non mi costava fatica. Sgobbavo e facevo carriera rapidamente. A 27 anni ero direttore di filiale. Mica male.
Forse sarei rimasto lì se non avessi incontrato un grosso imprenditore che mi cedette il timone di un'azienda metalmeccanica, la più in crisi delle tante che possedeva. Era una sfida. E mi ci gettai a capofitto. Ho avuto fortuna: ricordo quel periodo con nostalgia. Gli operai mi seguivano perché ero dalla loro parte. L'autunno caldo non ci sfiorò nemmeno. O meglio: aderivamo agli scioperi per evitare rappresaglie. Ma recuperavamo con gli straordinari, e la produzione non ne soffrì.
Anzi, ottenemmo risultati apprezzabili. Il proprietario era contento».
E lo era a tal punto che non faceva un passo senza tirarsi dietro il fido ragioniere salito ormai al rango di manager. «Col capo», dice Doris, «partecipavo alle assemblee degli azionisti della banca. E fu proprio in una di queste occasioni che ebbi una folgorazione decisiva per il mio carattere. Raggiunsi il principale in una fabbrica, scesi dalla mia Fiat 850, che aveva percorso 120mila chilometri ed era sgangherata, e salii sulla sua Citroën Pallas, auto meravigliosa. Sedetti dietro, un divano morbidissimo. I piedi sprofondavano nella moquette, avevo i brividi. Lui era al volante e sembrava un re. Non dimenticherò mai quella scena. Pensai: questa è la macchina che fa per me. Non solo: mi resi conto che per guidare con gioia e disinvoltura bisogna essere padroni. E da quel momento l'idea di mettermi in proprio non mi abbandonò più».
Nel 1970 l'ex bancario ritrova un vecchio amico che vende quote per il fondo della Fideuram, e ha l'aria di passarsela benino. Lo interroga, si fa spiegare in che cosa consiste l'inconsueta professione, a quanto ammontano i profitti: le provvigioni. E domanda: «Come si fa entrare nel giro?». Risposta: «Pigliano chiunque, purché sveglio, in grado di portare a casa contratti».
ARBITRO DI SE STESSO - La prospettiva di essere arbitro della propria vita stimola il giovane ragioniere ad aprire un nuovo corso: pianta in asso l'azienda metalmeccanica ed esordisce nel ramo finanziario. Gli inizi sono duri, poi è un trionfo. In alcuni anni, dandoci dentro con volontà, sale nella scala gerarchica; e da venditore semplice arrivano i quartieri alti della Dival, dépendance della Ras.
A un certo punto il pallino ce l'ha in mano lui: ingaggia gente, forma i quadri, organizza. Soprattutto riscuote eccellenti compensi e acquisisce un'esperienza di prim' ordine che gli permette di veleggiare sicuro nelle burrascose acque economiche degli anni '70, quando l'inflazione divorava i redditi e scoraggiava il risparmio. Doris nonostante tutto - la recessione interna e la crisi internazionale - era ottimista: «$ illogico supporre, riflettevo, che un Paese industrializzato come il nostro, per quanto affaticato, non riprenda a svilupparsi, secondo il naturale andamento della storia che comporta sbandamenti temporanei, ma non marce indietro».
Aveva ragione. Ma come, e a chi, dimostrarlo? Nel 1981, Doris sfoglia un numero di Capital, il mensile del Corriere della Sera, che ha in copertina la foto di Berlusconi e dentro, una lunga intervista. Per curiosità, legge. «Le parole di Silvio ammetto francamente, mi entusiasmarono. Mi colpì un concetto, sopra gli altri: e cioè che nel lavoro è sbagliato porsi traguardi modesti, ma occorre pensare in grande. Condividevo.
Ci meditai su molti giorni con l'intento di applicarne il principio nella mia attività; e quando lo sperimentai mi accorsi che funzionava perfettamente».
E con Berlusconi, com' è andata?
«Lo stesso anno, andai a Genova per un affare. Non mi garbava di dormire lì e prenotai un albergo a Santa Margherita. Era presto e per riempire un paio d'ore arrivai a Portofino. Incontrai il dottore per caso. No, davvero, non lo conoscevo... Vedendolo pronunciai il suo nome ad alta voce, come succede quando ci si imbatte in un personaggio importante, un attore, un uomo politico, uno scrittore. E un po' me ne vergognai. Ma lui fu gentile, mi trattó da amico. Gli dissi che avevo apprezzato la sua intervista. Con naturalezza, conversammo una dozzina di minuti. Il resto si sa».
Adesso, Doris, è un big.
Le strategie le concorda col superpresidente, ma al resto provvede da sé, condividendo la responsabilità delle tattiche, della conduzione, della gestione e dei programmi a breve termine col dottor Foscale e col dottor Paolo, fratello del "Berlusca". E il successo reca la sua firma, anche se lui, l'ex povero, attribuisce la maggior parte dei meriti al celebrato socio: «ovviamente» afferma. «I suoi consigli, e gliene chiedo spesso, sono illuminanti».
Non ci sarà in lei una dose di piaggeria?
«Evitiamo di scherzare. Silvio ha un'intelligenza fenomenale. Nel nostro primo colloquio, mi stupì la prontezza con cui afferrava i problemi del fondo di cui non era affatto esperto. Mi pose immediatamente quesiti profondi: segno che in una manciata di secondi aveva intuito ciò che di norma si comprende dopo anni di studi e di pratica. D'altronde, non scopro io che è un genio: guardi il suo impero, e tenga presente che è sorto dal nulla». La sede di Programma Italia è a Milano 2, palazzo Donatello, a un tiro di fionda dall'emittente. Il ragionier Ennio occupa una stanza enorme, ovattata, dove non si ode un rumore. È un uomo alto e solido, tipica taglia della razza Piave. Parla con scioltezza e proprietà di linguaggio; in ogni sua frase emerge la carica berlusconiana, la voglia matta di vincere, un'inquietudine attiva e uno spirito di gruppo da équipe sportiva lanciata alla conquista di chissà che. All'occhiello della giacca ha un distintivo: il mitico Biscione. Moglie giovane (sette anni meno di lui), ha due figli: un ragazzo di 20 anni e una ragazza di 17. Ha un hobby: la bicicletta. Ma ci va solamente la domenica con qualche collaboratore: e mentre pedalano, discutono di Fininvest, così l'allenamento vale il doppio. Era tifoso della Juventus fino all'estate scorsa, ma anche il cuore sportivo ora ha cambiato battito, e scandisce la marcetta del Milan, l'unica impresa del feudo che non ha ancora battuto la concorrenza. «Ma è questione di pazienza» dice Doris. «Quando assisto alle partite mi eccito come in ufficio. Se potessi, farei un salto dalla tribuna al campo per segnare io qualche gol». Sarebbe una buona idea.
L'eredità di Ennio Doris. Marco Lombardo il 22 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il manager di Banca Mediolanum racconta il fondatore scomparso 5 mesi fa: "È stato il campione degli imprenditori".
C'è una frase di Ghandi che spiega tutto il senso di un'esistenza: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». Ennio Doris da novembre non c'è più, eppure in Banca Mediolanum è sempre presente. Vive nei valori che ha costruito dal primo giorno e lo si vede anche nelle storie di innovazione che stanno trasformando il business finanziario in qualcosa che è molto di più. Uno di questi aspetti è ciò che in Mediolanum hanno chiamato Humanovability una filosofia di vita che la banca ha messo in pratica senza esitazioni anche nei momenti difficili che ha ispirato anche la costituzione di una nuova posizione interna in cui l'innovazione sostenibile è diventata parte dello sviluppo finanziario, oltre che uno dei cinque valori fondanti. Lo stesso principio ha ispirato anche la nascita di una fintech chiamata Flowe che fa della sostenibilità innovativa il suo core business. A sintetizzare il tutto c'è Oscar di Montigny, che dopo oltre otto anni alla direzione marketing e comunicazione del Gruppo, in Banca Mediolanum oggi è Chief Innovation, Sustainability, Value Strategy Officer. Una formula piena di parole e che vuol dire soprattutto futuro.
Tutto cominciò con una banca senza sportelli quando gli sportelli erano la banca.
«All'inizio Banca Mediolanum non sortì certo l'effetto wow del mago che tira fuori il coniglio dal cilindro. Tant'è che il mito vorrebbe che allora Ennio Doris fosse guardato con ironia dai grandi dell'industria. Poi, con il passare degli anni, il reale valore di aver trasformato il consulente prima in promotore e poi in Family Banker è stato capito, e soprattutto molto apprezzato, nei momenti più critici vissuti dal sistema bancario tradizionale. E l'effetto wow, dirompente a qual punto, è stato percepito in tutta la sua forza. In altre occasioni, invece, il successo è arrivato abbastanza a ridosso dell'iniziativa».
Tipo quando la banca rimborsò tutti i suoi clienti dopo il crack della Lehman Brothers.
«Ovvio che non è stata una decisione presa in leggerezza, ma il percorso è stato breve e deciso. E qui, che effetto!: porca miseria, Doris ha rimborsato tutti mentre gli altri istituti non hanno fatto praticamente quasi nulla di nemmeno paragonabile. È stato come un gol di tacco in rovesciata: fantastico! Ma se hai uno schema di gioco e non riesci a adottarlo non solo per tutte le partite ma per tutto il campionato, alla fine però lo scudetto non lo vinci. Ennio, in questo, era un campione. E le lezioni apprese direttamente dai campioni ti nutrono per tutta la vita. Ricevere direttamente da lui quegli insegnamenti è stata una grande fortuna... non solo professionale».
Come proseguire seguendo quello schema?
«Oggi siamo una banca di sistema, e questo è il tempo dell'interpretazione dei segnali dal futuro. Guardare ad esso con occhi diversi nell'era in cui tutto si è democratizzato molto e una start up ti può fare il mazzo è sempre più complicato. L'effetto wow diventa rarissimo, e ancor meno la sua efficacia duratura nel tempo, ma in Flowe ne siamo pianamente coscienti e non verremo colti di sorpresa. Nel mondo ci sono o saranno - realtà forse più sexy di quanto siamo noi ora, ma il nostro compito adesso è quello di consolidare e rilanciare, consolidare e rilanciare, consolidare e...».
Parliamo allora di Flowe: come ci si è arrivati?
«Come spesso capita in storie del genere: con un fallimento. In realtà non era ancora Flowe. Avevamo il mandato di produrre un'idea disruptive, che nel mondo digitale vuol dire qualcosa fuori dai parametri consolidati. Al tempo l'azienda mi aveva permesso di costituire e guidare una funzione Innovazione che avesse la dignità di una Direzione organizzativa: ci mettemmo al lavoro con i delegati delle altre Direzioni del gruppo, una quindicina di persone. Arrivammo all'incontro decisivo con Ennio e Massimo Doris e il Direttore Generale sicuri di noi, tutti d'accordo».
E a quel punto?
«Una volta sentii dire da Silvio Berlusconi che se uno ha un'idea e tutti sono d'accordo, allora probabilmente non è una buona idea. Forse non è vero che tutti debbano essere contrari, ma di sicuro è più probabile che le buone idee incontrino il dissenso dei più. Insomma: presentammo il lavoro di circa sei mesi. Finisco di parlare e Doris mi punta il suo dito indice dicendo: Non ti pago per distruggere quello che ho creato. Diciamo che quel primo riscontro non è stato uno dei momenti più felici della mia carriera professionale, ma certamente uno dei più ricchi e densi di insegnamento».
Come mai?
«Rimettere in gioco l'idea consolidata alla base di un'azienda o il suo modello di business originario è il processo meno naturale che possa attivarsi in qualsiasi organizzazione, altrimenti AirBnB sarebbe nata in Hilton, Amazon dentro una grande catena retail, Uber l'avrebbe inventata una cooperativa di taxi. Tuttavia, quando subito dopo aver congedato i miei colleghi dalla stanza restai da solo con Ennio, Massimo Doris e il Direttore Generale, rilanciai e approfittai di una grande qualità di Doris: la sua totale apertura a concederti sempre una seconda possibilità. Quell'episodio mi ha fatto capire molte cose del lavoro ma anche della vita. Lavorando sulla scorta di quella seconda occasione dopo pochi mesi siamo arrivati a Flowe».
Doris la volta dopo disse subito di sì?
«Sei mesi di studio e analisi. Sei incontri mensili con Massimo Doris. Un incontro finale anche con Ennio Doris. Il dito era sempre puntato, ma stavolta ci disse: Lo voglio subito!».
Cos'ha di diverso questa idea?
«Mettere l'uomo al centro. Sembra un discorso facile, ma questi tempi dimostrano quanto sia difficile far coincidere le dichiarazioni di intenti coi fatti. Diventando un utente di Flowe (noi li chiamiamo Flome) non sei solo un cliente ma partecipi a un progetto, aderisci a dei valori, vieni educato all'importanza di produrre un impatto e orientato a farlo concretamente, e soprattutto hai la possibilità di decidere di investire e far investire in qualcosa di positivo per il pianeta e la società, oltre che per te. Tutto in Flowe è ragionato per mettere l'essere umano al centro. Con il denaro che diventa il mezzo e non più lo scopo».
Un'idea di innovazione all'interno di un Gruppo in cui resterà per sempre l'impronta del fondatore.
«È qualcosa di cui essere orgogliosi che non potrà mai cambiare. Poi succederà certamente di essere contaminati dalle novità portate da nuovi scenari: modelli di business, prodotti, servizi, linguaggi, comunità. Ma non siamo preoccupati perché Massimo e Sara Doris, pur nella complessità di dover ereditare una leadership ingombrante, hanno già dimostrato da tempo le loro capacità nel business come nelle attività filantropiche; forti di quell'imprinting così ben definito. E così sarà anche per le generazioni successive».
E poi c'è ancora lui, anche con la voce in quegli spot che l'hanno reso famoso.
«Sì, è bello. In un mondo che deve andare costantemente a caccia di un testimonial o di un influencer, il nostro vantaggio è stato quello di avere questo patrimonio già in casa. Anche in questo Ennio ha anticipato tutti. C'è un'idea fondante che cerco di mettere alla base della mia esistenza e della mia professione: Fai della tua vita un dono e fai di questo dono qualcosa di significativo per l'insieme. Io ci sto ancora tentando, Ennio c'è riuscito da tempo, meritandosi l'eternità».
· 1 anno dalla morte di Paolo Isotta.
Isotta, l'intransigente capriccioso. Ritratto del più importante critico musicale degli ultimi decenni. Anche la sua insofferenza era un metodo, un presidio di libertà. VITTORIO SGARBI su Il Quotidiano del Sud il 27 Novembre 2022
Il malumore di Paolo Isotta, il più importante critico musicale degli ultimi decenni (celebrato qualche settimana fa al San Carlo di Napoli, per la passione di Amedeo Laboccetta), la sua proverbiale malmostosità erano una cifra, uno stile, una calcolata forma di autolesionismo, per potersi consentire tutto, e anche il contrario di tutto, fino all’estremo capriccio; se è vero che, dopo l’adorazione, giunse al vituperio dell’idolatrato Riccardo Muti, come sa bene Paolo Viola, che pure scrive del “carattere iperbolico ed apodittico dei suoi giudizi (…«il migliore di ogni epoca»…«il peggiore che abbia mai ascoltato»…ecc.) tendenti sempre ad irridere alcuni – meglio se grandissimi, come Abbado o Pollini – ed a magnificare altri, meglio se sconosciuti: l’importante per lui è «épater les bourgeois» e con ciò costruirsi la fama di supremo giudice che tutti sovrasta”.
Non è propriamente così. Anche le reazioni umorali di Isotta hanno sostanza critica, sono “capricci” motivati da una lotta contro il potere che va oltre la musica stessa. E di cui la musica è stata strumento. O non è così, Viola? E vale per Abbado come per Pistoletto, e altri mostri sacri che dell’arte hanno fatto un’arma. L’insofferenza di Paolo Isotta poteva anche essere apparente ingiustificata, ma era un metodo, un presidio di libertà fondato sulla autorità riconosciuta della dottrina. Isotta era più colto, e insinuava dubbi e incertezze. Non era irriverente, era intransigente. Era rigoroso e capriccioso. E non risparmiava nessuno. Per quanto intuiva della nostra affinità, mi rispettava e mi guardava a distanza. Io lo tenevo in grande considerazione, e condividevo anche i giudizi più estremi, le impuntature, gli sberleffi, gli sfregi.
Credo che, con esclusione dello spirito imprenditoriale, Isotta avesse la stessa libertà e spregiudicatezza critica di Leo Longanesi, interprete controtempo dei limiti del suo tempo, durante e dopo il Fascismo. Critico con Mussolini, non pensò che, dopo di lui, fosse arrivato il migliore dei mondi possibili, e tenne alto il suo spirito critico.
Eccone alcune illuminazioni: “Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano queste idee; L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere chiamati; I filosofi, è cosa strana, non capiscono nulla di arte, mentre gli artisti capiscono assai di filosofia: segno è che l’arte è anche filosofia, ma la filosofia non è arte; I nostri deputati leggono poco, si sente dal loro silenzio; Le dittature sono due: quella della libertà e quella dell’autorità; L’uomo mediocre è indispensabile e inutile. La sua forza sta nel rendere indispensabile la sua inutilità; Noi siamo il cuore d’Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria; Non è necessario esser dei geni; ci si può accontentare di una mediocrità, tanto mediocre, da star fuori del comune; Non interessarsi dell’arte può essere un male, ma interessarsene con cattivo gusto può essere peggio; Per il borghese lo Stato non esiste: esistono solo le tasse da pagare; Benedetto Croce: non capisce, ma non capisce con grande autorità e competenza; Bisogna trovare un fratello al Milite Ignoto; Ci si conserva onesti il tempo necessario che basta per poter accusare gli avversari e prendergli il posto; Conservatore in un Paese in cui non c’è niente da conservare; È meglio assumere un sottosegretario che una responsabilità; Fanfare, bandiere, parate. Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica; Il professore di lingue morte si suicidò per parlare le lingue che sapeva; La carne in scatola americana la mangio, ma le ideologie che l’accompagnano le lascio sul piatto; Non bisogna appoggiarsi troppo ai princìpi, perché poi si piegano; Nulla si difende con così tanto calore quanto quelle idee a cui non si crede; Siate enfatici e transigenti; Soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia; Un’idea imprecisa ha sempre un avvenire; Veterani si nasce; Vissero infelici perché costava meno”. Paolo Isotta avrebbe sorriso e condiviso.
Marcello Veneziani per “La Verità” il 26 ottobre 2022.
Stasera il Teatro San Carlo di Napoli renderà onore con un concerto di Francesco Nicolosi e il violino di Cecilia Laca a un grande musicologo e scrittore, Paolo Isotta, scomparso lo scorso anno. Ci sarà il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi e il sovraintendente del San Carlo, Stéphane Lissner, lo stesso che vietò sette anni fa a Isotta di metter più piede alla Scala di Milano per una fatwa infame, in seguito a una sua critica severa; un'interdizione che fece soffrire Paolino, all'epoca critico musicale del Corriere della Sera (da cui fu in seguito «esodato»).
Sarebbe bello che anche La Scala dedicasse un omaggio riparatorio al critico musicale che per 35 anni seguì in teatro gli eventi musicali per il principale quotidiano italiano. La serata al San Carlo nasce da un'iniziativa di Amedeo Laboccetta, suo amico personale, che ha anche pubblicato un ricco volume di scritti in onore di Isotta - Vita, estro e miracoli in 22 testimonianze (ed. Controcorrente, il titolo è colpa mia), tra cui Bassolino e Buttafuoco, Dell'Utri e Travaglio, Feltri e Sangiuliano, Malgieri e Solinas, Farina, Sgarbi e il sottoscritto.
Con Paolo Isotta ci conoscevamo poco, ma da lunghissimo tempo. Ci volevamo bene, senza mai frequentarci o essere amici. Non leggevo quasi mai i suoi scritti, e lui probabilmente non leggeva i miei, nonostante le sue dediche affettuose e ammirate. Non era malevolenza o poca stima, mai venne meno la reciproca benevolenza e considerazione.
Ma i nostri ambiti d'interesse erano diversi, benché poi ci fossero terre di confine in comune, ideali e stili di pensiero. E la passione comune per Totò, a cui Paolo dedicò il suo ultimo libro. So poco e niente del suo universo musicale, e anche lui si mostrava lontano dai territori a me più famigliari. Non volevo perciò addentrarmi in una selva per me oscura e soprattutto scriverne da incompetente o solo da amico compiacente.
Se dovessi figurarlo in una caricatura lo disegnerei come un elefantino in tutù, in cui l'apparente goffaggine del suo fisico di piccolo pachiderma era riscattata dalla grazie lieve del suo danzare tra musiche e saperi vasti e raffinati. Così me lo ricordo, Paolino, come un elefantino vestito di bianco. Del resto l'elefante diventò il protagonista del titolo del suo libro più fortunato, uno di quei libri-vita in cui scorre tutto l'universo delle tue conoscenze, dei tuoi incontri, dei tuoi affetti e delle tue allergie.
Un gran bel libro che solo ora, risfogliandolo, ho scoperto di avere letto davvero, viste le numerose mie sottolineature e qualche noticina in margine. Un libro amabile per le sue digressioni, le sue note di passaggio, incidentali, i suoi ricordi infantili e famigliari, i sapori e gli odori che effondeva. Mi piaceva l'intarsio più che la trama generale: era nelle sue pieghe che si nascondevano i tesori più intriganti, più che nel viaggio musicale.
Un suo denigratore, lo raccontò lui stesso con ironico distacco, definì La virtù dell'elefante «un'immensa cacata» e si rifiutò di pubblicarlo; il detrattore-editore ci prese per metà, perché immensa quell'opera era davvero; un gran bazar di vita, d'arte e di cultura, di figure, figuri e figurine, macchiette e parenti, un testo, a volte barocco ma mai falso o affettato. L'elefante citato da Isotta non era poi una bestia della giungla ma un'opera d'arte, si riferiva all'elefante del Bernini di fronte a Santa Maria della Minerva, a Roma.
E l'iscrizione sotto l'elefante spiega e nobilita la figurazione di Paolo come un elefantino: «Occorre una virtù robusta per reggere cotanta mole di sapere».
Mi colpì del suo libro e poi del suo seguito, Altri canti di Marte, la ricchezza sovrabbondante di nomi ed episodi narrati, che debordano da quelle pagine e mostrano di essere scritte davvero con la memoria di un elefante. Sorprendevano certe sue espressioni gustose, che ricordavo usate in linguaggi aviti e gerghi dialettali, modi di dire e di pensare del nostro sud, sepolti nella memoria o che pensavo circoscritti al mio paese o noti solo a rari superstiti.
Isotta è stato pure un dannunziano napoletano sui generis, un Mario Praz della musica, un esteta pagano che passeggia tra le rovine e i vicoli di Napoli, tra il vecchio e l'antico, più qualche strepito di criatura.
Ci sono napoletani che ti fanno amare Napoli sopra ogni altra città, te la fanno sentire ancora come la tua capitale e ti fanno dimenticare i napoletani molesti e imbroglioni, più qualche insopportabile trombone che fa di professione il napoletano. Isotta è uno di quei rari e grandi napoletani; ne ho conosciuti una decina tra viventi e morti che meritano quel titolo. Alcuni, non a caso, erano suoi amici, come Raffaele La Capria e Ruggero Guarini.
Di Isotta mi intrigavano tante cose ma una più di tutte: la sua religione pagana e napoletana, sublime e superstiziosa, una religione dei santi più che di Dio, che antepone San Gennaro a Gesù Cristo, a cui Isotta chiedeva d'intercedere presso il Santo napoletano; e poi una processione di santi soprattutto meridionali, da Santa Patrizia, a cui si scioglie il sangue come a San Gennaro, fino a Padre Pio (abbiamo entrambi stroncato l'hangar edificato da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, dedicato al Santo). La protettrice letteraria invocata da Paolino era la Madonna del Carmine che ha tanti devoti a Napoli e al sud.
Da noi era accompagnata però da una fama minacciosa: non fate il bagno al mare il 16 luglio che è la sua festa, diceva la dissennata saggezza popolare, perché può esservi fatale. Ho proposto di far leggere stasera a Luca Violini i suoi brani dedicati a San Gennaro. Una volta, raccontava Paolino, San Gennaro gli salvò la vita da ragazzo in un incidente, avvolgendolo (lo aveva accoumogliato, diceva lui) nel suo manto. Che san Gennaro l'accompagni ancora col suo manto e metta una buona parola per lui, nonostante il brusco e disgraziato passaggio all'altra riva.
Lettera di Pierluigi Panza a Dagospia il 27 Ottobre 2022.
Ho conosciuto o conosco l’ex collega Paolo Isotta, il sovrintendente Stéphane Lissner e Marcello Veneziani: sono tutte persone stimabili.
Però, visto che quella “bellissima nave” che è il nostro Paese è ora governata dai partiti dei Conservatori e dalla Lega, le due forze politiche che più basano le loro radici su una matrice culturale (la Tradizione e le Identità) e non economica (come il Marxismo o il Liberalismo), credo sia un approccio sbagliato partire dalla ricerca di “santini” perseguitati. Ci sono metodi e forze più utili per una riforma dei settant’anni di egemonia culturale della Sinistra.
Paolo Isotta, è vero, fu contrastato dagli abbadiani di sinistra maggioritari nella cultura musicale e anche giornalistica dei suoi tempi, ma non visse da perseguitato, anzi!
Per vent’anni celebrò le gesta del conterraneo Riccardo Muti indiscriminatamente e non so con quanta lealtà critica; quando il maestro andò a Roma qualcosa tra loro si ruppe e, direi con analoga insincerità, nei successivi anni disse tutto il male di lui e persino dei suoi familiari.
Poiché Muti è generalmente ritenuto un tradizionalista si capisce che non sempre la politica spiega tutto. Isotta non prese mai in considerazione luoghi dove l’opera lirica si stava riformando, privilegiando festival per ragioni amicali: e tutto questo gli fu detto in vita.
La sua scrittura era raffinata, elegante ed esito di vasta cultura, ma le sue invettive non mettevano i direttori dei giornali al riparo da possibili querele e dunque questi, e i colleghi, avevano diritto a chiedergli di intervenire sui pezzi senza essere disprezzati. Lissner non lo cacciò con una “fatwa infame in seguito a una sua critica severa”: i comportamenti di Isotta alla Scala erano diventati insopportabili.
Si è scritto molto su uno schiaffo a un collega, si ricorda l’invettiva a voce alta contro la prima donna che diresse alla Scala, i fastidi che recava ai vicini, le pretese per presenziare a teatro... Non devo difendere Lissner (che con me non fu amichevole e lasciò la Scala malamente): questi sono i fatti.
Isotta – che è sproporzionato paragonare a Mario Praz – fu allontanato per i comportamenti e perché cercò il “gesto” conflittuale. Non fu il sovrintendente di sinistra che cacciò il critico perché di destra, troppo facile! Venne poi difeso, da alcuni con consueta doppiezza.
Bene fa Napoli a ricordare questo suo importante figlio, bene Veneziani a raccontarlo, bene Lissner a partecipare, non credo che la Scala gli debba qualcosa semmai la storia della critica musicale potrebbe riservargli un posto in saggi e manuali mentre oggi, anche nei discorsi fuori dai teatri, Isotta viene ricordato ridendo come uno di cui non si può “nemmeno pronunciare il nome”. Quando era potente, però…
Dagospia il 24 Ottobre 2022. Mercoledì 26 ottobre il teatro San Carlo di Napoli celebrerà il grande musicologo Paolo Isotta, scomparso a 70 anni il 12 febbraio 2021. Di seguito, l'articolo che Vittorio Feltri ha scritto per il Maestro.
Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 24 Ottobre 2022.
Avete presente quel momento, al quanto imbarazzante, in cui vi trovate costretti tra le pareti di un ascensore con uno sconosciuto e non sapete dove diavolo posare gli occhi o cosa dire? Ecco, a me capitò di conoscere Paolo Isotta in una situazione come questa.
Era il 1974 e allora lavoravo come cronista presso La Notte, la cui redazione era sita in piazza Cavour, a Milano.
Nello stesso magnifico stabile era da poco ubicata la redazione del Giornale Nuovo di Indro Montanelli, il quale stava attrezzando la sua squadra tra cui compariva anche questo giovane napoletano contraddistinto da una rara e sfacciatissima eleganza. Ogni dì, subito dopo pranzo, facevo un salto all'ultimo piano del cosiddetto "palazzo dei giornali", che era stato fatto costruire dal duce decenni prima perché diventasse la fissa dimora del Popolo d'Italia, quotidiano diretto dal fratello di Benito Mussolini.
TUFFO NELLA BELLEZZA Non mi recavo lassù per digerire, bensì per deliziare i miei occhi, immergendomi nello splendore dell'arte, che con la sua magnificenza ci dona la parvenza della straordinarietà dell'essere umano, capace di ogni genere di cattiveria e nefandezza ma pure di creare capolavori, come appunto l'enorme mosaico di Mario Sironi, il pezzo forte del palazzo dei giornali.
Non ero l'unico a compiere questo giornaliero pellegrinaggio ad alta quota. Pure Paolo, mosso evidentemente dal bisogno impellente di regalarsi un tuffo nella bellezza che conforta lo spirito, alla stessa ora si imbarcava sul montacarichi e si piazzava davanti al mosaico, restando ad ammirarlo con aria stupefatta come se lo vedesse per la prima volta. Così un pomeriggio ci salutammo con un sorriso poiché eravamo diventati intimi sebbene non ci fossimo scambiati neppure una parola, insomma eravamo intimi sconosciuti. Così appresi che scriveva per il foglio di Montanelli, il quale lo aveva assunto in vista del varo del Giornale Nuovo.
La sua napoletanità mi affascinava, la riscontavo non soltanto nell'irresistibile nonché inconfondibile accento ma altresì nel gusto per l'abito sartoriale, nella scelta talvolta audace, quindi di carattere, dei colori e degli abbinamenti. Si capiva che il ragazzo era fresco sì ma promettente, traboccante di personalità.
LINGUAGGIO FORBITO Il giorno seguente eravamo già a pranzo insieme al "Gatto Nero", ristorante allora situato in via Senato, praticamente a due passi dai nostri rispettivi uffici. Fu la prima di una lunga serie di colazioni. Dopo il buongusto fui colpito dal linguaggio forbito che, insieme alla bassa statura e alla eccentricità, faceva di Paolo un personaggio assolutamente particolare.
Diventammo amici, tanto amici che, allorché passai da la Notte al Corriere d'Informazione, trasferendomi da piazza Cavour in via Solferino, conservammo la consuetudine di desinare insieme. Isotta mi raggiungeva e mangiavamo un boccone al ristorante Il Rigolo. Pur essendo giovanissimo, Paolo ricopriva il ruolo di critico alla grande e si era già distinto perché scriveva in maniera faconda e suggestiva. Insomma, era divenuto subito famoso nel mondo della musica.
Dopo quattro o cinque anni che Isotta lavorava per il Giornale, il direttore del Corriere Paolo Isotta (1950-2021) è stato un musicologo, critico musicale e scrittore. Frequentò le facoltà di Lettere e di Giurisprudenza dell'Università di Napoli, Federico II. Studiò pianoforte con Vincenzo Vitale e composizione con Renato Parodi e Renato Dionisi. Nel 1971 ottenne una cattedra come professore straordinario al Conservatorio Francesco Cilea di Reggio Calabria, per poi diventare ordinario a Torino e poi a Napoli; nel 1994 lasciò l'insegnamento «per progressiva intolleranza verso gli allievi».
Nel gennaio 2019 il Conservatorio di Musica "San Pietro a Majella" di Napoli lo decretò professore emerito Nel 1974, venne assunto come critico musicale a Il Giornale di Indro Montanelli. Nel 1980, passò al Corriere dela Sera, dove subentrò all'allora titolare Duilio Courir, del quale era stato vice, e continuò la sua attività di critico fino al 2015. Ha scritto diversi saggi di storia della musica e musicologia Franco Di Bella si innamorò di lui come critico musicale e lo assunse.
Allora il quotidiano di via Solferino, però, disponeva già di un giornalista che si occupava della materia, Duilio Courir, il quale si risentì e organizzò una specie di battaglia sindacale allo scopo di impedire a Isotta di svolgere il suo compito. Per anni lo hanno pagato senza che Paolo vergasse una riga. Va da sé che questo gli pesò molto poiché nulla vi è di più offensivo per un giornalista che ami il suo mestiere di essere parcheggiato in panchina.
Il direttore Di Bella, a causa della vicenda della P2 fu licenziato, e gli subentrò Alberto Cavallari, che aveva una venatura rosastra da comunista, soprattutto aderiva alle richieste del comitato di redazione, che è sempre stato rosso, per esserne a sua volta sostenuto, per cui Isotta nemmeno con Cavallari compose mai un pezzo, pur essendo un fenomeno. In quel periodo ero migrato nella mia città natale per dirigere Bergamo Oggi e Paolo veniva spesso a farmi visita, non ci allontanammo dunque. Penso che egli non fosse molto soddisfatto a quel tempo.
Dovette trascorre ancora qualche anno prima che gli fosse concesso di fare ciò per cui egli era remunerato. Cavallari fu allontanato e al suo posto giunse Piero Ostellino, il quale prese a coinvolgere Paolo nella realizzazione del giornale, così - finalmente - Isotta emerse quale critico musicale ufficiale del Corriere della Sera. Io, che intanto ero rincasato al Corriere, allora ero stato promosso inviato, perciò ero spesso in giro per il mondo, tuttavia ci capitava di vederci di frequente in sede.
E ci divertivamo come ai vecchi tempi. Essendo Paolo molto fecondo dal punto di vista non solo musicale ma anche letterario, la nostra assidua frequentazione mi arrecò notevoli benefici, ne uscii senza dubbio arricchito. Fu forse l'unica persona ad influenzarmi nel modo di vestire, mi ispirai parecchio a Isotta, di cui non mi dispiaceva il coraggio nella selezione cromatica di determinati capi.
Diciamo che io allora ero più timido, osavo poco per non esagerare, poi maturai pienamente il mio stile. Nella scrittura Paolo era elaborato e ricco come nell'abbigliarsi, però nel contempo appariva chiaro, raffinato, elevato, il risultato finale era in ogni caso l'armonia, la proporzione, ossia l'essenza della bellezza secondo gli antichi greci.
IL PIANOFORTE Ci capitava non di rado di pranzare a casa sua. Allora abitava in un appartamento su Corso Italia. Consumavamo ciò che preparava la sua collaboratrice domestica e poi, come da consuetudine, saltavamo dal cibo all'arte, ossia dalla tavola al pianoforte, che Paolo suonava divinamente. Era arduo in questo campo tenergli testa, eppure ci provavo ed egli mi raccomandava per prendermi in giro: "Amico mio, continua a scrivere ché è meglio!".
Ad un certo punto, sorprendendomi, Paolo si stufò della vita milanese e tornò a Napoli.
Credo sia stato il richiamo delle radici e riportarlo laggiù. E per un paio di mesi vissi con lui nel capoluogo campano, periodo che ricordo come uno dei più belli della mia intera esistenza. Ovviamente non abitavamo sotto lo stesso tetto. Io mi trovavo a Napoli al fine di seguire e narrare per il Corrierone il processo Tortora.
Paolo era così felice per il mio arrivo nella sua città che venne a prendermi in aeroporto a bordo di una vespa. Allora il casco non era obbligatorio, avevo un borsone con me e ancora mi domando incredulo come abbiamo fatto a stare tutti e tre, ovvero io, Paolo e la valigia, sullo stesso piccolo mezzo che sgommava tra strade e stradine di Napoli, nel traffico convulso del mattino, uscendone indenni. Una indimenticabile scena, che definirei comica, tuttora mi fa piangere dal ridere.
L'ALTERCO Percorrevamo una salita che conduceva all'appartamento di Paolo quando nacque un alterco con un altro motociclista. All'improvviso vidi Isotta trasfigurarsi. Si fermò, non intimidito dalle minacce dell'uomo, bensì voglioso di dimostrargli che non lo temeva.
Mollò lo scooter tra le mie mani e per fortuna ebbi la prontezza di reggerlo, ancora stordito com' ero dalla rapidità con la quale la scenata a cui, mio malgrado, stavo assistendo si era materializzata dal nulla senza che me ne accorgessi.
Roba da far gelare il sangue nelle vene, roba a cui noi polentoni mollicci non siamo abituati. I due si urlarono in faccia le peggiori cose, ma senza sfiorarsi, come due gatti che bisticciano per una sensuale gatta femmina in calore guardandosi in cagnesco. Sembrava finita lì quando Paolo, ripreso il comando del mezzo, si voltò ancora verso il tizio che aveva a sua volta ripreso il comando del suo, e proferì con la consueta classe la frase più volgare che gli abbia mai sentito pronunciare, anzi l'unica volgarità che ho udito provenire dalla sua bocca: "Tu, a me, me po' fa solamente no' bocchino".
Tutto mi sarei aspettato da Paolo meno che un litigio per questioni stradali e soprattutto non lo avrei mai immaginato capace di affermazioni così triviali.
Insomma, il mio soggiorno a Napoli era cominciato nel peggiore dei modi, o nel migliore, mettetela un po' come vi pare, fatto sta che il seguito fu ancora più esilarante.
Con Paolo ogni sera era un'avventura, uno spasso continuo, una girandola di conoscenze, incontri, uscite, cene al circolo nautico, dove puntualmente mi veniva posta la medesima domanda: "Ma che si dice a Milano di De Mita?". Isotta mi presentò la Napoli cosiddetta "bene", quella della aristocrazia, dei professionisti, dell'alta borghesia, che possiede quella maniera così melodica di parlare, una cadenza che mi incanta. Nessuno è più signore di un signore napoletano, persino quando scade nel turpiloquio nel bel mezzo della via.
Paolo aveva queste uscite qui, fulminanti e inaspettate.
Anni fa mi capitò di vederlo in televisione, ospite in una trasmissione di Raitre. Il conduttore, indiscreto e audace, gli domandò: "Isotta, è vero che lei è gay?". Al che egli, infastidito come non mai, anzi persino risentito, dopo un silenzio che sembrava infinito, protestò con indignazione: "Io gay? Io? Io so' ricchione". Scoppiai a ridere.
ROZZO IN MODO CHIC Eccolo lì il mio amico, napoletano verace, allergico al politicamente corretto, tanto raffinato da potersi permettere di essere rozzo in modo chic. Per il suo carattere aveva avuto qualche problema nel nostro ambiente, era scomodo, faceva il critico quindi faceva le critiche senza sconti e questo non era gradito. I direttori temevano le grane che Isotta poteva arrecare con i suoi articoli e ad un certo punto il Corriere lo pensionò. Non mi lasciai sfuggire l'occasione e lo volli a Libero in qualità di pregiatissimo collaboratore. Io e Paolo eravamo uniti non solo dalla avversione all'ipocrisia ma pure dall'amore smodato nei confronti degli animali. Fu un momento solenne quando, nella sua splendida abitazione napoletana, mi presentò il suo cane e il suo gatto, che per lui erano la famiglia, li amava alla follia, li trattava come figli, viveva per loro e li ha celebrati nel volume "La memoria dell'elefante".
Una delle ultime occasioni in cui lo incontrai fu alla presentazione del mio libro, "Il Borghese", a Napoli. Vi prese parte anche il caro amico Ciriaco De Mita. Poi lo rividi a Milano e lo trovai un po' appesantito, eppure non avevo la più pallida idea che questo avrebbe potuto procurargli dei problemi cardiaci. Una notte si spense. Provai incredulità. Verificai la notizia. Più e più volte. Rifiutavo di crederci. Ero straziato dal dolore. Da quel momento mi sono sentito più solo.
Aveva appena letto una mia dichiarazione riguardante il fatto che nessun omosessuale ci avesse mai provato con me, quando una volta mi telefonò e mi chiese: "Ma come? Non ti sei accorto che ti corteggio da una cinquantina d'anni?". Fu quella la nostra ultima conversazione. Sempre all'insegna dell'ironia, poiché non esiste maniera più intelligente di prendere la vita.
· 1 anno dalla morte di Franco Battiato.
Così lontano così vicino. Vita, musica e miracoli di un artista sorprendente. Un film di Marco Spagnoli con Stefano Senardi illumina l'opera del Maestro Franco Battiato. Conciliava gli opposti: classica e pop, filosofia e ironia, isolamento e successo. Alessandro Gnocchi l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.
Per celebrare Franco Battiato, maestro della musica italiana, arriva sul grande schermo, dopo la presentazione al Taormina Film Fest 2022, il film evento Franco Battiato La Voce del Padrone diretto da Marco Spagnoli, dal 28 novembre al 4 dicembre solo al cinema. Ad accompagnare lo spettatore in questo viaggio è Stefano Senardi, tra i più noti produttori discografici italiani, autore del film insieme al regista, e caro amico di Franco Battiato. Partendo da Milano e arrivando fino a Milo, nella casa di Franco Battiato, Senardi incontra personalità molto diverse: Nanni Moretti, Willem Dafoe, Caterina Caselli, Morgan, Alice, Carmen Consoli, Vincenzo Mollica, Francesco Messina, Roberto Masotti, Francesco Cattini, Alberto Radius, Carlo Guaitoli, Eugenio Finardi e tanti altri. Il documentario è imperdibile, non solo per i fan di Battiato. Ecco qualche motivo per andare al cinema.
LEZIONE DI POP
I primi dieci minuti sono una autentica lezione di musica impartita da Franco Battiato attraverso Pino Pischetola, detto Pinaxa, ingegnere, ma sarebbe meglio dire architetto, del suono. Pinaxa smonta Cerco un centro di gravità permanente isolando tracce vocali e strumentali. Batteria quasi disco music, tappeto orchestrale di stile classico, lavoro certosino sulle voci dei madrigalisti, raddoppio della voce di Battiato. Ecco: una sinfonia tascabile, per giunta buona anche da ballare. Il tutto meticolosamente studiato da Battiato per aver successo.
SUCCESSO
Come racconta Morgan, che interpreta anche Segnali di vita, Battiato aveva deciso, dopo anni di sperimentazione, di avere successo. Lo pianificò e lo ottenne senza seguire le mode o copiare altri artisti. Prese le canzoni e ne riscrisse le regole di suo pugno. Il successo, quello vero, si può misurare da un fatto inaudito. Il pubblico dei concerti che canta il testo esoterico di Cerco un centro di gravità permanente: «Una vecchia bretone / Con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù / Capitani coraggiosi / Furbi contrabbandieri macedoni / Gesuiti euclidei / Vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori / Della dinastia dei Ming». Roba mai vista né prima né dopo.
STUDIO
La vita di Battiato, come molti ricordano nel film, era dedicata allo studio e all'approfondimento. Il tempo era prezioso e non si poteva sprecare. Battiato teorizzava che fosse necessario ogni tanto «staccarsi» dal proprio mezzo espressivo prediletto per sperimentare altre forme d'arte. Ecco dunque il Battiato regista e il Battiato pittore. L'approccio alla tela avviene per mettersi alla prova in un campo dove si sentiva inadeguato. Battiato aveva studiato anche canto insieme con l'amico Giorgio Gaber. Già frequentavano il mondo della musica e della discografia ma erano autodidatti dal punto di vista canoro. Le foto che li ritraggono assieme, da giovani, sono impressionanti: se non fosse per la barba di Franco potrebbero sembrare fratelli. Gli studi di Battiato sono proseguiti in ambito spirituale. L'esoterismo e la mistica, cristiana e no, sono le influenze principali. L'esoterismo è un calderone di dottrine che vanno da un estremo all'altro: dal massimo al minimo della raffinatezza, dalla filosofia alla cialtroneria. Battiato aveva scelto bene grazie al piccolo aiuto di un suo amico: Roberto Calasso, editore di Adelphi. Questo è l'unico punto in cui il film si limita a un accenno.
SPIRITO
Fu Calasso a indirizzare Battiato verso i seminari milanesi di Henri Thomasson, allievo diretto del mistico e filosofo armeno Georges Gurdjieff, che spiegò a noi occidentali una parte del grande pensiero orientale. Il titolo La voce del padrone, allude all'omonima casa discografica ma è una citazione da Gurdjieff, secondo il quale un uomo è composto di quattro corpi. Il quarto, il più elevato, è l'Io, la coscienza, la volontà: un padrone che impartisce ordini attraverso la voce. Il Centro di gravità permanente è un'altra idea di Gurdjieff, che definiva in questo modo la ricerca di un punto di vista autentico, slegato dagli avvenimenti esterni. Segnali di vita poi è un florilegio tratto dal pensatore armeno: «Si sente il bisogno di una propria evoluzione / sganciata dalle regole comuni / da questa falsa personalità». Molti fan hanno notato le coreografie di Battiato, in video come quello di Voglio vederti danzare, scambiandole per lo scherzo di un campione d'ironia. Cosa che in effetti Battiato era ma non in queste occasioni nella quale accenna i movimenti delle Danze sacre di Gurdjieff.
MONDI LONTANISSIMI
Battiato è stato capace di unire con leggerezza Mondi lontanissimi, che è anche il titolo di uno dei suoi dischi più belli. In Battiato coesistevano l'avanguardia e il pop; la profondità e l'ironia; la passione per la tecnologia e la conoscenza storica; la meditazione e i palazzetti dello sport; la mistica cristiana e l'esoterismo; il successo di massa e i messaggi per iniziati; la Sicilia e Milano; la vita e la morte, avvertita come rito di passaggio e non fine di tutto. Il film resta come testimonianza del transito terreno di un artista con lati ancora da scoprire.
SAGGEZZA
L'universo di Battiato era pervaso di poesia. Lo fa notare bene Eugenio Finardi, che si commuove mentre parla: «La musica è qualcosa che riguarda l'assoluto, la poesia è l'arte più umana». Battiato conciliava i due aspetti. Anche quando parlava. Infatti chiudiamo con le parole di Battiato. Domanda Mino Damato in un programma Rai: «Battiato, quando parliamo di mondi lontanissimi, di qualcosa che ci arriva in modo diretto e indiretto dai secoli passati, di cosa parliamo, di un suono, di un sentimento o di un concetto?». Battiato: «Il concetto è fraintendibile e cambia, asseconda le mode, il suono attraversa i secoli il sentimento è eterno». Domanda Vincenzo Mollica in un programma Rai: «Battiato, come vuole essere ricordato?». Battiato: «Come un suono». Mollica: «Un suono?». Battiato: «Il suono è la vibrazione di quello che sono».
Fra le particelle sonore dell'alchimista Battiato. Carlo Boccadoro il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.
Le partiture ritrovate l'anno scorso aprono nuovi scenari sulla ricerca del grande musicista.
Franco Battiato ha attraversato molti luoghi differenti lungo l'arco del suo percorso musicale, durato oltre quarant'anni. Tra il mondo delle serate nei locali milanesi (la cui esperienza Battiato non solo non ha mai rinnegato ma, anzi, ha sempre indicato come fondamentale per lo sviluppo della sua personalità artistica) e quello della composizione contemporanea nei teatri d'opera la strada è lunga, ma lui l'ha attraversata con uguale consapevolezza e serietà di intenti, senza darsi inutili gerarchie stilistiche interne e affrontando ogni sfida musicale che gli si presentava davanti con professionalità e leggerezza, evitando sia l'incensamento narcisista proprio di molti cantautori e musicisti pop che la megalomania autoreferenziale di troppi compositori che si muovono nell'ambito classico.
Tuttavia, all'interno di questo ampio cammino, la produzione che va dalla fine del 1974 a tutto il 1978 rimane ancora oggi troppo poco conosciuta. Diversi sono i motivi di questo oblio rispetto al resto dei suoi lavori: indubbiamente non sono mancate (né mancano tuttora) ostilità da parte dei circoli di musica classica nei confronti di un musicista che arriva da esperienze non accademiche, dobbiamo considerare però anche una notevole trascuratezza da parte di Battiato stesso nel conservare e mettere a disposizione di altri musicisti le partiture necessarie a una maggior circolazione delle proprie opere.
Con atteggiamento di autentico musicista d'avanguardia, Battiato rivolgeva la propria attenzione unicamente al presente; ogni progetto valeva per l'occasione in cui veniva creato. Un concerto, un disco, una volta realizzati, venivano superati e si passava alla prossima idea. La possibilità che qualche altro esecutore potesse riprendere quei brani in un ipotetico futuro non veniva minimamente considerata, ciò che importava era solamente l'hic et nunc. Un modo di pensare non dissimile da quello di compositori come John Cage, Terry Riley e Harry Partch, che non hanno mai voluto catalogare per i posteri la propria opera: non a caso Battiato disse in una intervista nel 2009 di considerarsi «per natura l'opposto di Stockhausen, che era un fanatico della storicizzazione dei propri lavori».
Durante gli ultimi venti anni ho sollecitato più volte lo stesso Battiato e alcuni dei musicisti che avevano partecipato alla realizzazione di questi album in modo da poter ritrovare qualcosa di scritto, ma senza risultati: nessuno ricordava che fine avessero fatto i materiali originali e non esistevano neppure delle fotocopie, a parte quella de L'Egitto prima delle sabbie. Nel 2021, il ritrovamento di alcune partiture ha gettato una luce diversa sullo sviluppo autorale dal compositore; prima che questi spartiti tornassero a disposizione, chi si occupava criticamente della produzione degli anni Settanta (esistono diversi libri che dedicano spazio al Battiato sperimentale) doveva farne un'analisi basandosi unicamente sull'ascolto delle registrazioni discografiche. Osservando le partiture, invece, si vedono differenze notevoli tra quella che è la stesura scritta delle composizioni e ciò che effettivamente si ascolta nei dischi: sezioni tagliate, strumentazioni differenti, cambi di tessitura e di articolazione, ordine interno di alcune sezioni modificato: una serie di dettagli che dimostrano il certosino lavoro compiuto da Battiato in studio di registrazione, completando partiture che per lui evidentemente erano un punto di partenza, modificabile durante il confronto reale con i musicisti che le avrebbero interpretate. Il cammino disegnato da questi lavori tra il '74 e il '78 è molto vario dal punto di vista stilistico, ma saldamente unificato dalla coerenza del progetto iniziale dell'autore: esplorare a fondo l'universo sonoro degli strumenti acustici. Battiato abbandona il suo amato sintetizzatore VCS3 con cui ha realizzato i primi dischi da solista, elimina qualsiasi strumento legato al mondo del rock e si concentra in modo continuo, quasi maniacale, su elementi selezionati con cura. Il pianoforte, la voce e il violino sono quelli che lo interessano maggiormente e sui quali concentra come un raggio laser tutta la propria attenzione. Non estraneo a questo interesse è l'incontro con musicisti di grande caratura, che lo spingono in questa direzione: Antonio Ballista in primis, ma anche Alide Maria Salvetta, Bruno Canino, Roberto Cacciapaglia e Giusto Pio. Un piccolo gruppo di fedelissimi amici che condivide la fiducia nelle capacità di Battiato come autore di musica cameristica, anche quando il mondo della musica classica sembra respingerlo con indifferenza e talvolta acribia. Molti di questi esecutori lavoravano abitualmente con figure di primo piano dell'avanguardia di quegli anni come Luciano Berio, Salvatore Sciarrino, Paolo Castaldi, Luis De Pablo, Niccolò Castiglioni, Franco Donatoni: il fatto che gli stessi interpreti di questi autori non guardassero a Battiato come a un parvenu ma come a un compositore da prendere sul serio deve essere stato indubbiamente un segnale importante di incoraggiamento per il musicista siciliano. Una delle caratteristiche principali della personalità di Battiato è l'irrequietezza: se guardiamo il suo catalogo, vediamo come egli non si fermasse mai troppo a lungo su un particolare stile compositivo e che una volta esplorate a fondo le caratteristiche di ciò che stava sperimentando passava rapidamente a occuparsi di altro.
Non stupisce, dunque, che questo periodo, per quanto piuttosto breve, abbia registrato un gran numero di iniziative; oltre alla realizzazione di cinque album solisti infatti ci sono anche iniziative teatrali, esibizioni da solo e in gruppo, arrangiamenti e collaborazioni con altri musicisti: in questi anni la sua curiosità appare instancabile. Eppure allo stesso tempo egli si sente isolato dal resto del mondo culturale e, dopo pochi anni, ritiene di aver realizzato tutto quello che gli era possibile nel campo dell'avanguardia. Così, abbandona il mondo della sperimentazione classica e comincia a riavvicinarsi alla canzone, portando con sé il suo bagaglio di esperienze per proseguire i suoi esperimenti. Quando, diversi anni dopo, incomincerà a interessarsi nuovamente al mondo della composizione classica, lo farà principalmente attraverso grandi forme: opera lirica, balletto, melologo, musica sacra. Siamo molto lontani dal laboratorio in cui venivano testati al limite delle loro possibilità gruppi di piccoli strumenti: lavori come Genesi e Gilgamesh richiedono grandi masse corali e orchestrali spesso integrate dall'elettronica, diversi solisti vocali, allestimenti scenici complessi e molto costosi (nel caso degli ologrammi utilizzati nella sua ultima opera Telesio i costi, all'epoca della prima esecuzione nel 2011 al Teatro Rendano di Cosenza, furono quasi proibitivi): anche le strutture musicali di questi lavori successivi sono completamente diverse, Battiato dipinge su tele di grandi dimensioni mentre queste opere degli anni Settanta hanno un carattere più intimo, nel caso di un lavoro come Cafè Table Musik quasi scopertamente autobiografico. Del resto il Battiato degli album usciti per l'etichetta Dischi Ricordi lavorava sugli armonici, ascoltando frequenze estreme: aveva bisogno di esaminare al microscopio ogni più minuta particella sonora per trasformarla, e di conseguenza utilizzare pochi strumenti per poterlo fare nel dettaglio. Le sue partiture per organici orchestrali, come ad esempio la Messa Arcaica, si muovono invece utilizzando gesti solenni, di ampia campitura, con lunghe frasi all'unisono che si imprimono rapidamente nella memoria. Il suo linguaggio compositivo ha sempre rifiutato l'atonalità e il distaccarsi completo dalla tradizione che molti compositori italiani e stranieri hanno utilizzato dal dopoguerra in avanti, ma nello stesso tempo non si è fatto irretire da nostalgie o linguaggi che ammiccassero al pubblico attraverso l'utilizzo di forme troppo familiari, il suo utilizzo della tonalità o dell'armonia non ha nulla a che vedere con quello della tradizione ottocentesca; lontanissimo da lui anche l'atteggiamento ironico dell'estetica postmoderna che vedeva il passato musicale come un grande museo/soffitta in cui rovistare e sovrapporre a piacimento reperti, a seguito della fine della Storia: la sua musica è fatta di elementi vivi, non di maschere o simulacri.
La fiducia di Battiato nelle possibilità espressive di elementi ormai abbandonati o considerati sorpassati dal modernismo è incrollabile, l'indipendenza di pensiero sembra far parte del suo DNA. In questo senso egli può essere considerato un fratello spirituale di compositori come John Tavener o Arvo Pärt, anche se le sue composizioni seguono traiettorie estetiche molto differenti da quelle di questi autori.
Largo all'avanguardia. Ecco la musica che fa luce sull'"altro" Battiato. Mattia Rossi l'8 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il maestro era un compositore classico che ora l'ensemble Sentieri Selvaggi riscopre.
È il 1972 e Karl Stockhausen, guru della musica contemporanea, è a Milano per un concerto. Tra il pubblico c'è un giovane musicista 27enne che riesce a omaggiare il maestro del suo primo disco dalla sconvolgente copertina e dal titolo Fetus pubblicato proprio quell'anno. Benché fosse agli esordi, la musica elettronica sperimentale di Franco Battiato, tra synth e VCS3, colpì il maestro tedesco che in un'intervista dichiarò di stimare «un italiano che si chiama Battiato».
Una stima che si tradusse nella commissione, nel 1975, di una parte nella sua Inori. Fu in quell'occasione che Battiato, raggiunto Stockhausen a Kürten, venne spinto a dedicarsi massicciamente allo studio della notazione e, di conseguenza, della musica classica contemporanea. Non è possibile, infatti, comprendere appieno Battiato senza considerarlo per quello che realmente fu: un compositore.
Tutta la prima parte della carriera compositiva di Battiato è fortemente legata al nome di Stockhausen e Clic (1974), venne dedicato al maestro tedesco. Con l'album Battiato (1977), il compositore siciliano inaugurò la sua fortunata attenzione al pianoforte: Za è un brano composto unicamente da pochi accordi dissonanti ripetuti ossessivamente per 19 minuti e che trasfigurano la tastiera in strumento percussivo finalizzato alla ricerca, esclusivamente timbrica, delle risonanze.
Tale ricerca pianistica porterà Battiato, nel 1978, a comporre L'Egitto prima delle sabbie e Sud afternoon. Si tratta di due brani di importanza capitale (basti dire che i musicisti che li incisero furono Bruno Canino e Antonio Ballista). L'Egitto, in particolare, composto da un'unica scala di Do maggiore ripetuta per 14 minuti, proseguì nella sperimentazione timbrica: lo scheletrico materiale melodico lascia spazio alla ricerca acustica sugli armonici offerti dal suono del pianoforte che risuona, si amplifica o si smorza. Un brano dirompente che, non a caso, in quel medesimo anno, vinse il prestigioso concorso pianistico Premio Stockhausen (ancora una volta lui). Proprio quei due brani, L'Egitto e Sud afternoon, sono ora di nuovo disponibili nella versione di Carlo Boccadoro e Filippo Del Corno dal titolo Sentieri selvaggi plays Franco Battiato (Universal) che riproduce un loro concerto del 2009 a Milano.
L'eclettismo di Battiato all'interno della galassia della musica contemporanea è testimoniata anche da altri suoi sperimentalismi come gli esempi di musica concreta, di rumorismo, di musica vocale e perfino di musica organistica: il formidabile Canto fermo - che con Orient effects compone il lato B di M.elle le Gladiator (1975) - inciso sul monumentale organo della cattedrale di Monreale, richiama esplicitamente i lavori organistici a cluster, soprattutto Volumina di Ligeti, e meriterebbe appieno di comparire nei programmi concertistici.
Convertitosi alla musica leggera - L'Egitto prima delle sabbie fu seguito dall'album-ponte Adieu/San Marco, firmato con gli pseudonimi Astra (artista) e Albert Kui (autore) per non compromettere la fama di compositore sperimentale, e poi da L'era del cinghiale bianco per poter mangiare come ammise ironicamente lo stesso Battiato - il compositore di Jonia tornò alla musica classica, sua primaria vocazione, verso la fine degli anni '80. Ma fu un ritorno non più improntato sullo sperimentalismo finito in gloria con L'Egitto e il Premio Stockhausen, bensì sul classicismo. Battiato, ad esempio, scrisse ben quattro opere liriche: Genesi nell'87, Gilgamesh nel '92, Il cavaliere dell'intelletto nel '94 (mai incisa) e Telesio nel 2011. Si tratta di pagine, soprattutto le prime due opere, nelle quale Battiato si misurò con la scrittura orchestrale e nelle quali seppe dosare strumenti, cori, solisti e linguaggi diversi come quelli tradizionali, orientali financo il canto gregoriano. La musica sacra è esclusiva protagonista, invece, della straordinaria Messa arcaica, la cui prima fu nel 1993 nella basilica di Assisi, un'opera in cui le cinque parti (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei) sono cucite da un filo rosso di semplicità armonica e pervadente dolcezza melodica.
All'interno di una precisa cifra stilistica classica, indispensabile per inquadrare Battiato, l'elettronica tornerà almeno altre due volte in maniera fondamentale. Quella delle musiche per balletto di Campi magnetici del 2000 è un'elettronica più raffinata e organizzata rispetto a quella degli anni '70, è musica visionaria impalcata su magmi, flussi e fulmini sonori. E se è vero, come è vero, che il primo amore non si scorda mai, Battiato, nel 2014, verso quella che sarà la fine della sua carriera, dichiarerà ancora una volta la sua consustanzialità con lo sperimentalismo e l'elettronica in Joe Patti's experimental group.
Certo, il Battiato compositore classico contemporaneo è l'aspetto, forse, meno noto. Eppure fu, senz'altro, il più pervasivo della sua arte. Anzi, forse la più profonda essenza di Battiato sta proprio nel suo repertorio classico e, specularmente, è la sua formazione classica che ha informato anche la sua musica leggera.
Franco Battiato, l’interprete di ogni minimo smottamento delle mode. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.
Le canzoni di Battiato sono prima di tutto un gioco e come tali meriterebbero di essere interpretate.
A un anno dalla morte di Franco Battiato, Rai Documentari ha presentato «Il coraggio di essere Franco» (Rai1). Scritto e diretto da Angelo Bozzolini e prodotto da Aut Aut Production, il documentario ripercorre la vita e la carriera di uno degli autori più versatili, curiosi e felicemente post-moderni della musica pop. In realtà più che una biografia canora, «Il coraggio di essere Franco» è una sorta di beatificazione del cantante siciliano, con Alessandro Preziosi (la voce narrante e non solo) nelle vesti del postulatore. Nessuno disconosce i suoi grandi meriti: è stato sperimentatore e finissimo interprete di ogni minimo smottamento delle mode, ha coltivato ossimoricamente l’ermetismo pop e «lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco», il gusto naturale per l’artificiale e l’esoterismo e la spiritualità dei libri con le copertine color pastello. Ci vuole il coraggio di essere franchi e ammettere che l’artista siciliano andrebbe preso meno sul serio. Le canzoni di Battiato sono prima di tutto un gioco e come tali meriterebbero di essere interpretate perché rappresentano un filone della cultura italiana ancora tutto da decifrare: il kitsch colto, da non confondersi con il camp.
«Chiaramente parliamo del Battiato — ha scritto Antonio Iannizzotto — del periodo di massimo splendore, che va da “L’era del cinghiale bianco” (1979) a “Come un cammello in una grondaia” (1991), che si apriva con la pensosa “Povera patria” destinata a diventare la colonna sonora ufficiale delle manifestazioni antimafia degli anni Novanta e a monumentalizzare in qualche modo Battiato come intellettuale — che fu anche un modo di normalizzarlo. Di lì a poco sarebbe nato il sodalizio con Manlio Sgalambro, il filosofo dalla voce gracchiante e dalla prosa apocalittica, che quando saliva sul palco con Battiato non si capiva chi era il ventriloquo e chi il pupazzo». A parte gli addetti ai lavori, Angelo Bozzolini si è limitato a intervistare i soliti noti.
Ferruccio Gattuso per “il Giornale” il 28 novembre 2022.
Ciò che fu Simonetta Vespucci per il pittore Sandro Botticelli, o Camille Claudel per lo scultore Auguste Rodin (prima) e per il compositore Claude Debussy (poi), o ancora il soprano Aloysia Weber per Mozart. Pattie Boyd è questo, è una donna fatta della stessa materia dei sogni. Una musa ispiratrice, nel più puro senso del termine.
Se si pensa che a lei sono state dedicate canzoni immortali come Something, I Need You e If I Needed Someone scritte da George Harrison per i Beatles, oltre a Layla e Wonderful Tonight di Eric Clapton, se si pensa che due rockstar di questo calibro se la sono contesa mettendo a rischio una grande amicizia (sposandosela a turno), se si scopre infine che fu lei la responsabile dell'infatuazione "indiana" dei Beatles e del loro ritiro spirituale in India alla corte del Maharishi Mahesh Yogi nel 1968, è facile capire come negli occhi limpidi di questa donna di 78 anni, originaria di Taunton (contea di Somerset), ex modella di successo nel cuore degli anni Sessanta, dea della Swingin'London, passi una bella fetta della più grande stagione del rock.
E di un'Inghilterra che, in quell'epoca, si prendeva la ribalta del mondo. Oggi Pattie Boyd è a Milano, per presentare il suo libro fotografico Pattie Boyd - My Life In Pictures (Reel Art Press, £39,95), disponibile in Italia dal 1° dicembre, e incontrerà il pubblico (ore 17) come special guest della festa BeatlesMi (mostra di memorabilia, rarità, concerti a cura di Riccardo Russino e Davide Verazzani) al Mosso di via Mosso, all'interno del fitto cartellone della Milano Music Week.
Ms Boyd, come vive il suo eterno rapporto con la storia dei Beatles: un privilegio o una sorta di condanna?
«Come un semplice dato di fatto, qualcosa che è venuto dal destino. Li incontrai davvero per caso, e finii per sposare George».
Come avvenne questo incontro? La leggenda dice che George si innamorò all'istante.
«Non è una leggenda. Ero appena giunta sul set del film dei Beatles A Hard Day' s Night. George ci mise poco a chiedermi di sposarlo, alla fine della giornata di riprese, nelle quali tra l'altro dovevo recitare una sola battuta. Non ci feci caso, pensavo scherzasse».
E poi?
«Poi me lo richiese dopo poco tempo e dissi di no. Ero fidanzata. In ogni caso iniziammo a frequentarci e dopo qualche mese, eravamo nel 1965, George mi chiese ancora di sposarlo. Evidentemente non scherzava».
E dire che lei doveva essere una meteora nella storia dei Beatles.
«Conoscevo il regista Richard Lester: avevo girato con lui alcune pubblicità per la tv. Mi chiese di venire a fare un provino per un film dei Beatles, e la cosa mi lasciò di stucco. La mia unica aspirazione era fare la modella. Non ho mai pensato di fare l'attrice».
Il suo libro è fitto di immagini suggestive: lei fu una star tra le modelle inglesi negli anni Sessanta: ritratta sulle copertine di "Vogue", perfino citata nelle vignette di Andy Capp come la ragazza perfetta per vestire la minigonna. Se dovesse definire con una parola quell'epoca, quale userebbe?
«Libertà. Assoluta. In tutto l'universo artistico fu così: pittori, scrittori, musicisti, registi, designer, fotografi. Ci si prendeva le libertà, si osava».
Tutto questo nell'Inghilterra simbolo del conservatorismo e della tradizione.
«Esattamente. Non penso che si possa definire esagerata la parola rivoluzione. Oggi le cose vanno diversamente».
Vale a dire?
«La gente sembra non sopportare più la libertà, si abbandona all'intolleranza. E, in fondo, questa libertà sembrano non volerla più. Ne hanno paura».
Due divinità del rock come George Harrison e Eric Calpton hanno dedicato a lei canzoni capolavoro. È chiaro che la semplice bellezza non spiega tutto.
«Tutto questo resta un mistero. O piuttosto è un segreto che non voglio svelare. In realtà non posso saperlo. Certamente non ho usato incantesimi o formule alchemiche. Si torna al destino, e al fatto che non possiamo controllarlo».
In realtà lei seppe stimolare questi artisti anche culturalmente: la storia dice che a lei si debba l'infatuazione per l'India dei Beatles.
«La verità è questa: Paul fu il primo a sapere che il Maharishi era a Londra. Nello stesso tempo George sapeva che io stavo studiando meditazione trascendentale. Fu una combinazione. E ci ritrovammo in India».
Cosa ricorda di quei giorni?
«Una grande armonia tra i quattro Beatles. Due mesi laggiù ai piedi dell'Himalaya, a meditare, scherzare, a scrivere canzoni senza alcuna pressione».
Lei fu letteralmente contesa tra George Harrison e Eric Clapton: cosa portò alla fine del matrimonio con George?
«Qualche volta nella vita le relazioni giungono a una fine naturale, avevamo preso due strade diverse. Quando finii tra le braccia di Eric, George non sembrava troppo dispiaciuto.
Lui è sempre stato chiuso. Chissà forse era meglio, ai suoi occhi, che mi mettessi insieme a un bravo chitarrista piuttosto che a uno scarso».
Due artisti molto sensibili, ma anche due uomini complicati.
«Sì, i tradimenti di George, la dipendenza da alcol di Eric. Ho attraversato quella tristezza con molto coraggio. La cosa più dura fu non essere ascoltata da Eric. Chi ha delle dipendenze ascolta solo sé stesso».
Rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella sua vita?
«Sì, assolutamente. Se non avessi fatto quelle scelte mi sarei privata di tante esperienze che mi hanno formato come persona. Sono passata anche attraverso la sofferenza, ma ne è valsa la pena».
Beatles, tutti i segreti del "Revolver" che cambiò la storia del pop. Esce un cofanetto con rarità del grande disco dei "Fab Four". Da Yellow submarine a Taxman ogni brano è un vero capolavoro che rimane vitale. McCartney: "Allora la nostra sfida era stare in studio". Alessandro Gnocchi il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.
Nel 1966, i Beatles sono arrivati a una svolta. Non intendono più suonare dal vivo. Troppo caos e poca soddisfazione, il suono sommerso dal boato degli stadi, i problemi di ordine pubblico, una vita da reclusi negli alberghi. Subito dopo, scartano l'idea di un nuovo film, nonostante il contratto già firmato, e rifiutano di apparire in un Beatles Christmas Show. I Beatles vogliono il controllo totale della loro musica.
A questo punto, il quartetto è diventato un gruppo da studio di registrazione, quello mitico di Abbey Road, a Londra, ed è costretto a farsi un'idea di cosa comporti questo cambiamento. I Beatles si scoprono più liberi di esplorare a piacimento, forzando non solo i propri limiti ma anche quelli di un nuovo strumento musicale: lo studio stesso. Il primo frutto è il disco Revolver, un classico, ora pubblicato in cofanetto con versione stereo e mono più tutte le sedute d'incisione e i brani che non hanno trovato spazio. Questi ultimi sono Paperback Writer e Rain. Il primo è uno dei miglior riff di chitarra heavy mai suonati e fu scritto da Paul McCartney quando il metal neppure esisteva. Il secondo è pura psichedelia con un giro di basso (ancora Paul) rallentato e manipolato in studio fino a farlo diventare un raga indiano. Ecco, questi sono gli «scarti», viene da ridere a scriverlo, chiunque ci avrebbe costruito una carriera attorno. Ma non i Beatles. Spiega Paul McCartney, presentando la nuova edizione: «Non abbiamo mai voluto trovare una formula e ripeterla all'infinito, come hanno fatto altre band. Se avessimo trovato una formula, l'avremmo gettata subito nella spazzatura per non cadere in tentazione».
Tutti conoscono i brani di Revolver, anche se magari non sanno che appartengono a questo capolavoro, ma vale la pena di fare un minuscolo ripasso. Taxman è la prima, grande prova di George Harrison come autore (anche se l'assolo di chitarra pare sia farina del sacco di Paul). Taxman non perde mai d'attualità, è un inno contro le tasse. Paul: «Ci eravamo accorti che i nostri guadagni erano letteralmente divorati dal fisco». I laburisti avevano introdotto una imposta che colpiva proprio i musicisti, all'epoca una parte importante dell'export britannico. Ecco il testo di Taxman: «Lasciati dire come andrà/ Uno per te, diciannove per me/ Perché sono l'uomo delle tasse/ Sì, sono l'esattore (...)/ Se guidi un'auto, tasserò la strada/ Se provi a sederti, tasserò la sedia/ Se hai troppo freddo, tasserò il riscaldamento/ Se fai una passeggiata, tasserò i tuoi piedi». Nel reparto «brani impossibili da eseguire dal vivo» si collocano altre due vette del disco: I'm Only Sleeping, malinconico tributo di John Lennon alla depressione, e la epocale Tomorrow Never Knows, figlia dei trip di LSD, dove Lennon e il produttore George Martin mettono a dura prova la tecnologia rudimentale dell'epoca, tra campionamenti, nastri suonati al contrario, registrazioni all'aperto. Il mondo scoprì effetti inediti come quello che riproduce il grido dei gabbiani. Il testo proviene in gran parte dal Libro tibetano dei morti riletto da Timothy Leary: quando sei in crisi, rilassati e lasciati andare al flusso dei pensieri. Il titolo è una frase-lapsus di Ringo Starr, pronunciata durante un'intervista, Ringo intendeva «tomorrow never comes» (domani non arriva mai). La canzone chiude l'album ma fu la prima a essere incisa, non c'è male come dichiarazione d'intenti. Paul: «Doveva essere chiaro a tutti che stare in studio non sarebbe stato noioso, era una nuova sfida». L'influenza di Tomorrow Never Knows è incalcolabile, molti gruppi dance di oggi come i Chemical Brothers hanno cercato di rifare questa canzone per tutta la carriera, probabilmente senza riuscirci.
Significativo e divertente l'elenco degli strumenti (alcuni non proprio tali) che appaiono nel disco, a parte quelli scontati: clavicordo, sitar, corno francese, tablas, scatole di latta, fischietti, clacson, catene. Paul aveva voglia di sperimentare con gli archi: voilà, ecco Eleanor Rigby. Su questa canzone c'è una storia da raccontare. John e Paul andavano a prendere il sole al cimitero di Woolton (gli inglesi sanno essere molto bizzarri) dove c'è una lapide di Eleanor Rigby e un'altra di un certo McKenzie... A George piaceva la musica indiana: voilà, ecco Love You To. Paul e John volevano far qualcosa di simile ai grandi gruppi soul americani: voilà ecco Got To Get You Into My Life, e nel cofanetto trovate versioni alternative, senza i fiati, e con le chitarre in primo piano, al livello di quella finita nell'album. Una storia del tutto particolare è quella di Yellow Submarine, il brano simbolo di Ringo Starr, qui alla voce. All'inizio era una canzone di John ed era tutt'altro che allegra: «In the town where I was born/ No one cares, no one cares». Si può tradurre così: «Nella città dove sono nato nessuno si prende cura di me». Chiara l'allusione alla solitudine del piccolo John, cresciuto da una zia.
Nel 1965, il precedente album dei Beatles, Rubber Soul, aveva colpito, dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, negli Stati Uniti, Brian Wilson, mente musicale dei Beach Boys. Wilson si mette al lavoro e sforna, nel 1966, poco prima di Revolver, il capolavoro Pet Sounds, che include Wouldn't it Be Nice, God Only Knows e altri brani passati alla storia. Paul McCartney ascolta Pet Sounds e rimane di ghiaccio. Pensava che Rubber Soul e Revolver avessero superato ogni barriera, ma questo Brian Wilson aveva qualcosa di irripetibile, un gusto eccezionale per la melodia e l'armonia, una bravura assoluta nell'orchestrare e arrangiare. Paul decide che i Beatles devono replicare con qualcosa di unico e irripetibile. Nasce così Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band che si spinge anche oltre Revolver (anche se non tutti lo preferiscono a Revolver). Tra Rubber Soul, dicembre 1965, e Sgt Pepper's, giugno 1967, passano circa diciannove mesi. Sono i diciannove mesi che hanno cambiato il volto della musica pop. Per sempre.
"Ho sparato a John Lennon": quando la felicità non è una pistola fumante. L'8 dicembre 1980 John Lennon fu ucciso da 5 colpi d'arma da fuoco esplosi da Mark Chapman: il killer è ancora in carcere, la vedova Yoko Ono vuole sconti l'intera pena. Angela Leucci il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale.
“Qualche anno dopo quel simpatico giovanotto inglese tornava a casa per vedere il suo figlioletto. Mentre firmava degli autografi, non so proprio perché, qualcuno gli sparò”. Così il personaggio di Forrest Gump, nell’omonimo film, per bocca di Tom Hanks, riassumeva in maniera eloquente l’assassinio di John Lennon.
Poco prima del 40esimo compleanno, l’8 ottobre 1980 Lennon aveva rilasciato un’intervista a Playboy, in cui aveva affermato: “Tra poco compio quarant'anni e la vita comincia a quarant'anni, così dicono. Oh, ma ci credo anch'io. Perché mi sento bene. Sono entusiasta”. Due mesi più tardi, il 9 dicembre, il cantante morì a causa dei colpi di arma da fuoco esplosi da Mark David Chapman nei pressi dell’abitazione dell’artista a New York.
Lennon aveva due figli, dei quali uno, Sean, aveva solo 5 anni. Aveva una moglie, Yoko Ono, e aveva combattuto per difendere il loro amore agli occhi del mondo. L’artista era un entusiasta e forse non si sarebbe mai aspettato di morire in quel modo. In una ninna nanna per Sean, Beautiful Boy, aveva scritto: “La vita è ciò che ti capita mentre sei impegnato in altri progetti”. Purtroppo la morte è arrivata inaspettatamente.
Un colpo tra le mille luci di New York
Classe 1955, americano del Texas, Chapman aveva avuto fino all’omicidio di Lennon una vita decisamente poco ordinaria. Un’infanzia in una famiglia con un padre violento, una conversione religiosa e numerose ossessioni erano alle spalle di un uomo depresso, con tendenze suicide, che credeva che la risposta a tutte le domande fosse nel romanzo Il giovane Holden.
Oltre al libro, una delle sue ossessioni erano proprio i Beatles: Chapman detestava il fatto che si fossero definiti più famosi di Dio e criticava Lennon per il fatto che vivesse nell’agio grazie alla sua arte. In più il brano God l’aveva fatto infuriare: l’artista nel testo scrisse che non credeva in Dio e che non credeva nei Beatles, ma solo nel suo amore con Yoko. Così Chapman, tre mesi prima dell’omicidio, iniziò a pianificarlo.
Nel pomeriggio del 9 dicembre 1980, alle 17, Chapman incontrò Lennon fuori dal Dakota Building a New York e si fece firmare la propria copia dell’album Double Fantasy. Cercò di restare con alcuni astanti in quel momento, tra cui una fan dei Beatles, che gli rifiutò l’appuntamento.
Allora Chapman attese e attese, fino alle 22.50, quando Ono e Lennon rientrarono al Dakota, dove vivevano, dopo una sessione di registrazione. Come riporta l’Independent, Yoko chiese a John di andare a cena prima di rientrare, ma il cantante le rispose: “Andiamo a casa perché voglio vedere Sean prima che vada a dormire”. Furono queste le sue ultime parole alla moglie.
I due coniugi non fecero il loro ingresso nel Dakota in auto, ma scesero sulla West 72nd Street: lì Chapman esplose 5 colpi con proiettili a punta cava, dei quali uno perforò il polmone dell’artista e un altro si conficcò nel collo. Uno dei soccorritori urlò all’assassino se si rendeva conto di cosa avesse fatto e lui risposte: “Ho appena sparato a John Lennon”. Dopo di che restò ad attendere la polizia in piedi in quei pressi, leggendo Il giovane Holden.
Poche decine di minuti più tardi Lennon, che i soccorritori ospedalieri cercarono di rianimare, fu dichiarato morto. Si dice che nella filodiffusione del nosocomio in quel momento stesse andando All My Loving dei Beatles, che recita: “Equando sarò via, scriverò a casa ogni giorno e ti spedirò tutto il mio amore”.
Le reazioni nel mondo dello spettacolo furono di grande cordoglio, a partire dagli stessi ex membri dei Beatles. Come spiega però UltimateClassicRock, le parole più commoventi provengono da quel bambino di 5 anni che un giorno sarebbe diventato anch’egli un musicista, il figlio del cantante Sean Lennon. Il piccolo disse: “Ora papà è parte di Dio. Penso che quando muori diventi molto più grande perché fai parte del tutto”.
Un tragico destino in una canzone
Le canzoni di Lennon, in particolare quelle dei Beatles, possiedono un fascino senza tempo. Ma nei decenni alcune di queste suggestioni sono state fraintese o acconciate per sostenere qualche folle teoria. Come Helter Skelter, che Charles Manson utilizzò per spiegare la sua teoria del caos e giustificare gli omicidi della Manson Family. Una dei cui membri, Susan Atkins, era stato proprio ribattezzata Sadie con riferimento al brano dei Fab Four Sexy Sadie. Ci sono poi tutte le canzoni a supporto della bizzarra teoria del Pid (Paul Is Dead), secondo cui Paul McCartney sarebbe morto in un incidente stradale e sostituito da un sosia.
"Venduto per una birra". Charles Manson, il musicista dall'anima criminale
Ma il brano che stride fortemente con quello che è accaduto a John Lennon è Happyness Is a Warm Gun (ossia “la felicità è una pistola calda”). La canzone nacque dopo che il cantante lesse un articolo in cui un padre raccontava al figlio l’emozione di averlo fatto sparare per la prima volta, cosa che all’artista sembrò folle: così partorì un brano pieno di divertissement, doppi sensi e metafore. In queste alcuni ci hanno visto l’eroina, eventualità sempre smentita da Lennon, ma è molto più probabile che la canzone presenti delle allusioni sessuali, tanto più che viene probabilmente citata la moglie del cantante, Yoko Ono, nel testo chiamata “Mother Superior”. Certo è che quel titolo, all’epoca dell’omicidio di Lennon fece un grande scalpore, proprio per come l’artista fu assassinato.
La scena del crimine
Il Dakota Building è uno storico edificio di New York realizzato alla fine del XIX secolo. Le sue suggestioni artistiche sono straordinarie, tanto che molto spesso hanno ispirato diversi artisti, soprattutto nella settima arte. Per esempio, nel film di Rosemary’s Baby di Roman Polansky, la vicenda di satanismo che costituisce la trama del film è ambientata nel Dakota, anche se gli interni sono stati ricostruiti in studio. Un anno dopo l’uscita della pellicola, Charles Manson fu il mandante del crimine che rese Polansky vittima indiretta. La Manson Family trucidò infatti alcuni ospiti di casa Polansky, la moglie del regista Sharon Tate e il piccolo Patrick, il nascituro che l’attrice portava in grembo.
Anni dopo, nonostante la coincidenza luttuosa, il Dakota sarebbe diventata la residenza della famiglia Ono Lennon e il luogo in cui il cantante avrebbe trovato una morte inaspettata.
La condanna e la vedova
Pare che Chapman abbia avuto altri obiettivi nella sua follia omicida. Tra questi obiettivi un altro ex Beatles - Paul McCartney, David Bowie, Elizabeth Taylor, l’ex first lady Jaqueline Kennedy Onassis e perfino il presidente degli Stati Uniti appena eletto e non ancora insediato Ronald Reagan.
Accusato di omicidio di secondo grado, Chapman fu condannato al carcere a vita il 24 agosto 1981. Dopo i primi vent’anni in prigione, in cui l’uomo è stato anche seguito da cure psichiatriche, è stato ammesso alle udienze per la libertà vigilata, che però gli è sempre stata negata. La vedova Yoko Ono ha sempre chiesto a gran voce che l’uomo resti in carcere a scontare la propria condanna all’ergastolo.
In questi anni, Yoko ha trattato pubblicamente la propria tragedia personale per opporsi all’utilizzo indiscriminato delle armi, garantito dal Secondo Emendamento, negli Stati Uniti. La moglie di John Lennon ha diffuso lo scatto realizzato agli occhiali insanguinati dell’artista, realizzata dopo la morte del suo amato.
Franco Giubilei per lastampa.it l'11 settembre 2022.
Lo studio filologico di grandi classici della musica pop come Revolver dei Beatles può rivelare lo spirito originario di una canzone celebre, Yellow Submarine, apparentemente così festosa da entrare anche fra i cori degli ultras allo stadio.
Lontano dall’essere la marcetta rock dal refrain irresistibile fatta apposta per imprimersi a fuoco nelle orecchie di chi la ascoltava e la ascolta, quel pezzo in realtà era stato immaginato da John Lennon in tutt’un’altra luce, molto più malinconica e personale: “In the town where I was born, No one cared, no one cared”, cantava Lennon nel primo demo.
È uno dei reperti pubblicati nella riedizione di Revolver, di prossima uscita, e non è l’unico: le discussioni sul presunto malcontento dei musicisti classici coinvolti nella registrazione delle parti di violino in Eleanor Rigby sembrano azzerate dai dialoghi amichevoli fra Paul McCartney e gli stessi musicisti.
I dissapori all’interno della band cominciarono proprio all’epoca di quell’album, ma a detta di Mc Cartney Revolver fu il disco in cui i quattro Beatles furono sé stessi come non erano mai stati, dunque il loro contributo fu massimo.
Se gli autori di questa preziosa riedizione di un capolavoro – Giles Martin e Klaus Voormann - hanno potuto lavorare su take e demo rubati in sala mentre i Fab Four suonavano in sala, permettendo l’esame della genesi di gemme fra le più preziose dei quattro di Liverpool, è grazie alla tecnologia vista all’opera in Get Back, il documentario di Steve Jackson.
Strumenti e voci sono stati estratti e inseriti nell’album senza che le caratteristiche ne siano state alterate, il che ha permesso di ricostruire l’evoluzione di canzoni nate in un modo e uscite in un altro, come insegna Yellow Submarine. Se verranno utilizzate le stesse tecniche con la stessa padronanza e passione, si può solo immaginare cosa si riuscirà a tirare fuori da altri dischi leggendari.
«Love Me Do» compie 60 anni. La leggenda dei Beatles iniziò lì (anche se all’inizio non piacque a tutti...). Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 5 Ottobre 2022.
Quando uscì, il primo singolo dei Fab Four arrivò solo diciassettesimo in classifica. Ma con disarmante semplicità fu la pietra con cui la band costruì la sua chiesa eterna
Il bizzarro attacco d’armonica, il mantra ripetuto ed elementare («amami che ti amo anch’io»), i tre accordi facili facili: pochi avrebbero scommesso sul successo di «Love me do», la prima pietra della chiesa eretta dai Beatles. Ovvero il loro primo singolo, 60 anni fa, il 5 ottobre del 1962. E in pochi in effetti diedero allora credito ai quattro: il brano arrivò solo 17esimo nelle classifiche inglesi e si disse che il manager Brian Epstein ne avesse comprate, da solo, 10 mila copie. Fatto sta che i Beatles avrebbero dovuto aspettare quattro mesi, con «Please please me», per scalarle fino alla vetta.
Ma il destino era segnato: con «Love me do» esordisce definitivamente Ringo Starr alla batteria, sigillando in eterno la leggendaria formazione e l’estetica frangettata e sbarazzina è quella che farà impazzire milioni di teenager. Certo, è difficile intuire in «Love me do» la genialità di «A day in my life» o «Hey Jude»: ma, forse, la rivoluzione copernicana in musica dei quattro sta proprio lì. Essere partiti da quella disarmante semplicità per evolversi in una maestosa complessità. E diventare la più grande band della storia.
Lennon furioso con McCartney, va all'asta la lettera shock. Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 7 Agosto 2022.
È la risposta all'intervista bomba di Paul pubblicata dalla rivista inglese 'Melody Maker'. John lo accusa di essere un ingrato per tutti i soldi guadagnati con i Beatles e gli contesta di non aver apprezzato la sua 'Imagine'
Va all'asta una lettera shock scritta da John Lennon a Paul McCartney un anno dopo la rottura dei Beatles. È stimata almeno 30mila dollari e sarà messa in vendita da Gotta have rock and roll. La lettera di tre pagine è datata 24 novembre 1971 (i Beatles si sciolgono il 10 aprile 1970) ed è una risposta di Lennon all'intervista bomba di McCartney pubblicata dalla rivista inglese Melody Maker in cui si era lamentato sia dei Beatles sia di John.
Parole di fuoco
Secondo Gotta have rock and roll John si infuriò talmente, quando lesse l'intervista, che mandò la lettera, firmata, annotata a mano e indirizzata a Paul, all'editore della rivista, Richard Williams insieme a un appello per pubblicarla solo poche settimane dopo la precedente intervista di Paul chiedendo che gli fosse concesso lo stesso spazio.
Le accuse a Paul
Quando uscì l'intervista, i Beatles erano ancore alle prese con questioni finanziarie e personali. Nella lettera, tra le altre cose, John se la prende con Paul accusandolo di essersi dimostrato un ingrato nei confronti di tutti i soldi guadagnati grazie ai Beatles e contesta il fatto che l'ex amico non abbia apprezzato il suo brano Imagine imputandogli anche buona parte delle responsabilità per la decisione di sciogliere la band.
"Io e Yoko siamo una cosa sola"
I Beatles, infatti, al tempo si erano ormai sciolti da circa un anno e stavano negoziando sulla spartizione del denaro. Inoltre, John accusa anche Paul di aver acquistato un'altra casa discografica all'insaputa di tutti. Nel post scriptum, invece, John si dichiara perplesso riguardo la richiesta dell'ex compagno di lasciare le rispettive mogli fuori da tale diverbio in quanto lui e Yoko rappresentano ormai una cosa sola. "Pensavo che sapessi ormai che sono - scrive Lennon tutto maiuscolo - JOHNANDYOKO".
Una amicizia logorata
Peter Jackson nella sua docuserie per Disney+ Get Back descrive la relazione tra John e Paul come amichevole, ma questa lettera mostra quanto fosse logorata la loro amicizia dopo il 1970.
Gaia Terzulli per open.online il 7 agosto 2022.
Nel caso in cui qualcuno avesse mai avuto dei dubbi su quanto sia stata dolorosa la rottura di una delle più grandi rock band della storia di tutti i tempi, i Beatles, un documento inedito è ora in grado di dimostrarlo. Si tratta della lettera che John Lennon scrisse a Paul McCartney nel 1971 e che il sito di cimeli musicali Gotta Have Rock and Roll avrebbe messo in vendita per 40.000 dollari.
Tre pagine di testo scritte a macchina nel novembre di 51 anni fa e spedite 18 mesi dopo la rottura della band. L’autore di Imagine avrebbe deciso di scriverle in risposta al fatto che McCartney aveva citato in giudizio il gruppo e poi rilasciato un’intervista per la rivista Melody Maker.
Il duro messaggio all’amico
Rivolgendosi al «mio vecchio amico ossessivo», nella lettera Lennon lo accusa d’ingratitudine per avere scartato Imagine a fronte di tutti i soldi guadagnati grazie alla band e gli imputa gran parte della responsabilità nella decisione di sciogliere il gruppo. «Se non sei l’aggressore (come affermi), chi diavolo ci ha portato in tribunale?» scrive Lennon.
«Come ho detto prima, hai mai pensato che potresti sbagliarti su qualcosa?». L’artista esprime anche perplessità circa le parole del collega che, nell’intervista per Melody Maker, chiedeva di lasciare fuori dalla loro disputa le rispettive mogli, Linda e Yoko Ono. «Pensavo che aveste già capito che io sono JohnandYoko» ossia una cosa sola, risponde Lennon nella lettera.
La versione di McCartney
Toni e parole duri, che lasciano però aperto uno spiraglio di speranza, quella di potersi presto parlare di persona: «Nessun sentimento duro contro di te. So che fondamentalmente vogliamo lo stesso, e come ti ho detto al telefono e in questa lettera, ogni volta che vuoi incontrarmi, tutto ciò che devi fare è chiamare», conclude Lennon.
Dal canto suo, in un’intervista rilasciata l’anno scorso alla Bbc, McCartney aveva detto che «Non ho istigato io la rottura. Quello è stato il nostro Johnny. John un giorno è entrato in una stanza e ha detto che avrebbe lasciato i Beatles», ha spiegato il cantante. Secondo il quale, il collega avrebbe definito la rottura «piuttosto elettrizzante, un po’ come un divorzio. E poi siamo rimasti a raccogliere i pezzi».
Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2022.
«Chi muore giovane è caro agli dei», sentenziavano gli antichi greci. Un dogma secondo cui chi lascia questo mondo presto e nel pieno del fulgore resta immortale, specialmente se in circostanze tragiche. Chi muore vecchio è dunque meno genio, meno grande, meno tutto? Marilyn Monroe, Amy Winehouse, Jim Morrison, John Lennon.
L'ex Beatle con le sue innegabili poesie in musica gode e godrà sempre di una fama maggiore rispetto all'ex compagno di band Paul McCartney che però ha avuto un merito, almeno: quello di campare a lungo e di festeggiare domani 80 anni. Un libro appena uscito, traboccante d'affetto e di aneddoti, vuole riportare giustizia nei Fab Four e documentare come Paul non fosse affatto "inferiore" a John e che la sua carriera da solista non fosse da buttare.
«McCartney ha avuto un ruolo determinante, molto più di quanto si sia solitamente portati a credere», si legge nella prefazione di Alan Parsons, «il suo profilo di Mister Everyman e la sua vita priva di scandali l'hanno allontanato dallo stereotipo del genio maledetto o da banalità simili. E così, per decenni, il suo apporto ai Beatles è stato considerato importante, ma, riteniamo, inferiore a quanto avrebbe meritato». Vediamo perché.
Punto primo. Paul è stato il deus ex machina degli album Abbey Road e Let It Be: era il collante del gruppo, colui che telefonava a John, George e Ringo per portarli in sala di registrazione. Secondo: è stato l'autore di molti capolavori beatlesiani, dalla rassicurante Hey Jude alla destabilizzante Helter Skelter e ai brani non scritti da lui ha spesso dato contributi essenziali (per esempio, l'introduzione di Strawberry Field).
La grande storia di Paul McCartney (Hoepli) scritto da Carmine Aymone, Michelangelo Iossa e Riccardo Russino parte dal civico 20 di Forthlin Road di Liverpool, la strada in cui ancora viveva quando i Beatles esplosero.
Nasce da mamma Mary, infermiera, morta giovane per cancro al seno, e Jim, trombettista e pianista. È stato uno dei primi vegetariani insieme all'amata moglie Linda, morta anche lei per tumore dopo una lunga battaglia. In totale ha avuto tre mogli e cinque figli. Sono almeno tre i dischi dei Beatles che non avrebbero visto la luce senza lo zelo di Paul.
Lennon-McCartney sono la firma dei brani della band fenomeno senza precedenti e senza eredi, quattro ragazzi da un miliardo di copie tra album e singoli, divinità della musica, del costume, della moda e della pop art. E dopo i Beatles? Paul ha scritto delle perle e ha prodotto tantissima musica, tanto che si potrebbero assembrare almeno quattro album con il materiale mai uscito.
Nel 1973 Paul è il primo artista pop ingaggiato per la colonna sonora di James Bond con Live and Let die. Nel 1980 arriva l'album McCartney 2: lo registra da solo suonando tutti gli strumenti. È un disco insolito, sperimentale, amato o odiato dai fan, considerato pioniere della musica anni 80 (merito o colpa?), distrutto dalla critica. In classifica fu un triondo. McCartney azzarda, si allontana da quello che i fan si aspettano da lui, tanto i soldi li aveva fatti coi Beatles...
Per sentirsi più libero, dal 1993 al 2008 pubblica tre album sotto un altro nome: The Fireman, in coppia con il produttore Youth. Strawberries Oceans Ships Forest è tutto musica, zero parole. È del 1998 Rushes, anch' esso solo strumentale: musica ambient ed elettronica. In una canzone si sente una donna simulare un orgasmo. Electric Arguments (2008) è mix di rock pop e ambient e per la prima volta la copertina porta la firma McCartney e Youth. E oggi? Sta per finire il suo tour dal vivo negli States, il 25 giugno si esibirà al festival di Gastonbury. Non sarà caro agli dei, ma se non è immortale lui...
Giacomo Papi per “Vanity Fair” il 17 giugno 2022.
Come un antico romano, Paul McCartney si sta preparando. A ottant’anni – li compirà il 18 giugno – fa quello che farebbe ogni uomo: mette in ordine i ricordi e racconta la sua verità, sulla musica e sulla vita. Ma mentre fa ordine si immalinconisce e si annoia, e così si concede, come nel suo stile, l’ironia di giocarci. Quattro anni fa, nel 2018, in Carpool Karaoke ha accettato di tornare in incognito a Liverpool, nelle strade, nelle chiese e nelle case della sua infanzia, per riapparire e regalare un concerto a sorpresa nel pub di quartiere.
Più tardi, durante la pandemia, si è fatto intervistare da Rick Rubin per raccontare il suo rapporto con la musica e le canzoni in McCartney 3, 2, 1; intanto scriveva con il poeta Paul Muldoon una monumentale autobiografia in due volumi costruita attraverso le canzoni – The Lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi (Rizzoli) – per scavare nella memoria, precisare la propria versione dei fatti e spiegare i propri gusti letterari, ma anche per rivendicare la paternità di decine di canzoni firmate insieme a John Lennon; infine, insieme a Yoko Ono e Ringo Starr, ha autorizzato il regista Peter Jackson a montare Get Back, uno straordinario documentario in tre puntate che offre a chiunque la possibilità di stare nello studio e sul tetto insieme ai Beatles nel 1970, durante la registrazione del loro ultimo album.
È lo sforzo di un uomo che vuole rendersi comprensibile, perfino a se stesso, e che però nonostante i suoi sforzi non riesce a svelare, neppure a se stesso, il proprio mistero, l’oscura ragione per cui canzoni come Yesterday, Let It Be, Hey Jude, Eleanor Rigby o Here There and Everywhere («la mia canzone preferita tra tutte quelle che ho scritto») siano arrivate proprio a lui, e non a un altro, trasformandolo in uno dei più grandi compositori della storia.
Perché il punto, parlando di McCartney, è che ogni suo gesto e parola contraddice i più diffusi e solidi luoghi comuni sul genio e la sregolatezza, sull’arte, il dolore e l’angoscia come benzina della creazione. Il suo mistero è proprio il fatto che il sublime possa sgorgare anche dalla normalità. Nella sua placida serenità Paul McCartney assomiglia, insomma, a quel detto di Hugo von Hoffmansthal: «La profondità va nascosta. Dove? Alla superficie».
E non si parla soltanto del sublime estetico, ma anche del sublime erotico, perché se esistesse una macchina in grado di misurare le tempeste di ossitocina provocate da un singolo ragazzo, Paul McCartney, che bello e sensuale non è mai stato, sarebbe probabilmente il maschio che ne ha provocate di più in tutto il Novecento, quindi nell’intera storia dell’uomo. Guardando Get Back, per esempio, è evidente che Paul sia l’unico uomo risolto e sereno, ma anche l’unico genio tra i quattro.
Non se ne sta in disparte per manifesta inferiorità come Ringo, non tiene il broncio come George e non è un geniale buffone-sbruffone come John, per quanto sorvegliato dall’ombra di Yoko: Paul trascina gli altri come un fiume, li guida senza offenderli e aspetta con pazienza che John – all’epoca già uscito dal gruppo – riprenda a catalizzare l’energia generale, ma intanto in pochi minuti inventa Get Back, come se fosse un respiro, un gesto naturalmente destinato a sgorgare, e riprova all’infinito Let it Be, che era nata già perfetta, perché diventi ancora più perfetta, prendendosi sulle spalle con gentilezza la fallibilità degli altri tre.
E però, osservando il suo strapotere, avverti un disagio: hai la sensazione che il suo genio si nutrisse anche del talento degli altri, del gruppo e della competizione, che è sempre alla base delle grandi imprese collettive, dell’incredibile esplosione di creatività dei Beatles tra il 1956 e il 1970 come dell’Atene di Pericle, del Rinascimento fiorentino, dei ragazzi di via Panisperna o dell’Olanda ai Mondiali del 1974. Paul McCartney si nutriva del mondo, quindi anche degli altri, che infatti alla fine decisero di sottrarsi.
Riprovava LET IT BE, già perfetta, prendendosi sulle spalle con gentilezza la fallibilità degli altri tre alla sua avvolgente onnipotenza. Ed è forse questa la ragione per cui, dopo lo scioglimento, Paul non è più riuscito a scrivere musica all’altezza di quella composta per i Beatles, a differenza di John e George.
Quello che, invece, Paul McCartney è riuscito a chiarire nell’autobiografia è la radice della propria poetica che affonda, fin da ragazzo, in una particolarissima forma di nostalgia. La quantità di sue canzoni che parlano del passato e della necessità di accettarlo, anzi di accoglierlo, è impressionante. Dalla prima, I Lost My Little Girl, scritta a 14 anni dopo la morte per cancro di sua mamma Mary nell’ottobre 1956, fino a Get Back e Let It Be, le ultime con i Beatles nel 1970, passando per Penny Lane e Golden Slumbers («Once there is a way to get back home»), quasi tutto nei suoi testi è uno sguardo all’indietro che avvolge e assolve il passato.
È una poetica che, insieme alla perdita della mamma, condivideva con John Lennon, autore di Strawberry Fields e In My Life, ma che in McCartney era così potente da allargarsi alla musica, «alle canzoni che erano hit prima che tua madre nascesse», ai foxtrot che il padre Jim suonava al piano, e da investire perfino il futuro e l’amore che, per potere essere pensati, dovevano essere filtrati dalla nostalgia, come in When I’m Sixty Four, scritta a 16 anni immaginandosi vecchio a potare le siepi con il suo amore di sempre.
Nei testi e nelle melodie di Paul McCartney è come se niente possa passare davvero. Per questo bisogna lasciare che sia: il bene continua anche nel dolore e la mamma torna a sussurrarti parole sagge anche se non c’è più. Il senso di solitudine di ognuno, di Eleonor Rigby e Father McKenzie (che in origine si chiamava Father McCartney), è sempre circondato dai volti e dalle voci di chi non c’è più. Anche da quelli degli amici, di John e di George, ma soprattutto dalle sensazioni e dalle presenze che abbiamo assorbito quando eravamo bambini.
Perché l’infanzia è la nostra unica verità. Come in Yesterday, che Paul sognò una notte del 1964, a 22 anni, credendo fosse una melodia antica. Fu John a rivelargli che esisteva soltanto nella sua testa. Gli era arrivata chissà da dove, nascosta dentro parole buffe («Scrambled eggs da da da») anche se in realtà parlava del passato. Oggi, sessant’anni più tardi, McCartney si è convinto che il testo parlasse inconsciamente di sua mamma. Tutto in Paul McCartney esprime gratitudine per quello che si perde, gratitudine perché c’è stato.
«Lei è certamente qui», scrive McCartney in The Lyrics, «la mamma che si assicurava sempre che mangiassimo e che ci lavassimo dietro le orecchie non se ne è davvero mai andata, (…) Riesco ancora a sentirla fischiettare in cucina. Poteva essere qualcosa che aveva ascoltato alla radio, o una melodia che conosceva. E mi ricordo che pensavo: “Oh, è bello che sia contenta”, e questa sensazione mi accompagna ancora oggi».
Dagotraduzione da Page Six l'8 giugno 2022.
Rullo di tamburi prego. Giovedì, la leggenda della musica Ringo Starr ha ricevuto una laurea honoris causa dal Berklee College of Music di Boston. L'iconico batterista - il quarto Beatles - è salito sul podio il 2 giugno per ritirare il diploma e impartire un po' di saggezza ai suoi compagni laureati. Facendo una breve sosta a Boston mentre era in tour con la sua All Starr Band, il musicista ha potuto prendere parte alla cerimonia.
«L'idea che io sia un dottore mi lascia senza fiato», ha detto dopo aver mostrato il suo nuovo diploma scintillante nella stanza. Starr ha detto che ricevere il diploma è stata come «una strana fiaba». «Ho iniziato a suonare nella fabbrica in cui lavoravo ed è successo che il mio vicino di casa suonasse la chitarra e il mio migliore amico in fabbrica suonasse il basso», ha spiegato. «Suonavamo per gli uomini nel seminterrato, quelli sono stati i miei primi concerti».
Raccontando come ha iniziato a suonare la batteria da bambino, Starr ha rivelato che tutto è iniziato a 13 anni, mentre era in ospedale per la tubercolosi. Starr ha ricordato che c’era un uomo che una volta al mese portava strumenti musicali per i bambini, ma lui rifiutava di suonare qualsiasi cosa non fosse una batteria.
«Ho suonato quel tamburo ed è stata una pazzia. Da quel momento in poi ho voluto fare solo il batterista», ha detto. «Era il mio grande sogno e lo sto ancora vivendo. Posso suonare con ragazzi fantastici, come la band qui. Conduco una vita fantastica».
Starr non ha potuto partecipare alla cerimonia di laurea a maggio, inviando invece un video registrato in cui si rivolgeva ai laureati. Il batterista pluripremiato di Grammy ha dichiarato nel video: «Finalmente sono un dottore! Non sono mai andato al college, ma di certo ho avuto molta esperienza nel fare musica, quindi penso di averlo guadagnato a modo mio».
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 18 gennaio 2022.
«The Beatles. Get back» è uno straordinario documentario, ma forse avrebbe più senso chiamarlo «documento», considerato l'inestimabile valore storico (è su Disney+). Lo è innanzitutto per la natura stessa del contenuto, quanto di più lontano dalle pratiche e dalle logiche di consumo attuali della tv, tradizionale oppure on demand che sia.
«Get back» è un'estesa catarsi di otto ore che riporta letteralmente in vita i Beatles, immortalati durante le registrazioni dell'album «Let it be» e le prove del celebre «rooftop concert», il concerto sul tetto di Savile Row a Londra (quello del ritorno e della rottura). Artefice dell'ambizioso progetto è Peter Jackson (Il signore degli anelli), l'unico ad aver avuto accesso a un patrimonio di 56 ore di filmati e oltre 150 ore di audio inediti; il montaggio finale è un kolossal più adatto ai puristi e ai fan sfegatati che a un pubblico ampio e trasversale.
Si prova, si suona, si scrive, si corregge: si ha l'impressione che ci si trascini senza che succeda nulla, mentre si plasmano e prendono forma capolavori immortali. È questa l'anima del «documento»: un prodotto di difficile etichettatura, in bilico tra grande cinema e reality. Il fine lavoro di restaurazione scandaglia i retroscena e i «dietro le quinte» di una produzione artistica, fatta di intuizioni, screzi, divertimento e maniacale professionalità.
«Get back» è un tuffo nel quotidiano dei «Fab Four», ciascuno con le proprie spigolosità; ma è anche una lezione pratica sulle differenze tra analogico e digitale, una testimonianza autentica di come si registravano i dischi negli anni Sessanta e su come andavano consolidandosi alcuni meccanismi dell'industria musicale degli anni a venire. A suggello dell'operazione c'è il libro «The Beatles. Get back» a cura di John Harris con splendide fotografie di Ethan A. Russel e Linda McCartney, edito da Mondadori.
Daria Galateria per “il Venerdì di Repubblica” il 17 gennaio 2022.
Yoko Ono fu invitata al simposio Destruction in Art che si tenne nel settembre del 1966 nella Swinging London; in due mesi era diventata famosa «quanto la principessa Margaret e il formaggio Stilton». I suoi modi liberi, a Tokyo e a New York, avvilivano da sempre i genitori, famiglia giapponese di samurai e banchieri (le donne non dovevano uscire la sera, né fare arte); quanto al carattere, il Times aveva rinominato la ragazza Yoke One, il Giogo numero Uno.
Si infilò quel cappio il 9 novembre 1966 John Lennon, passato a salutare un amico alla galleria d'arte Indica (varietà di marijuana), dove l'indomani si apriva la mostra di quella tale Yoko Ono, artista nippo-americana appena sbarcata a Londra. Su un piedistallo c'era una mela; «il costo era 200 sterline per guardarla marcire», raccontò divertito Lennon, che le diede un morso (nulla a che vedere con il logo della Apple Records, una mela verde Granny Smith intonsa). Grande fu al momento il disappunto di Yoko, perché la sua mostra era sul tempo; il frutto era destinato a avvizzire.
Nel 1989, fu realizzata una versione in bronzo della mela col morso di Lennon (e in tema di mele famose, ce n'era una, avvelenata, sul comodino del suicida Alan Turing, genio matematico decifratore, nella guerra mondiale, del codice segreto dei nazisti, Enigma, e padre dell'informatica, poi condannato come omosessuale a un'umiliante cura ormonale: la Apple Computers ha sempre smentito di averne tratto ispirazione).
Il catalogo della mostra di Yoko Ono dunque annoverava una "Sky-tv" a circuito chiuso per guardare il cielo, «orologio del tempo eterno»; erano previste varie performance per restituire l'opera d'arte al pubblico e all'occasione, come accendere un cerino davanti a una tela vuota e guardare il fumo (instruction paintings, dipinti consistenti in "istruzioni per l'uso"), lo specchio per guardarsi il didietro (un quadrettato di sederi animava il filmino Bottoms, sempre del 1966), una scala per esaminare sul soffitto una scritta minuscola, "yes".
«È stata una cosa positiva», si rilassò Lennon, che insistette per piantare un chiodo su un apposito muro; ma era proibito, prima dell'inaugurazione; un chiodo virtuale, propose, per cinque scellini? Virtuali? Il miliardario ragazzo di provincia («con un padre come il mio, chi ha bisogno di malattie?», scriverà in Skywriting) fu presentato alla piccola sacerdotessa dell'happening: «Ero una snob dell'underground, sapevo dei Beatles, naturalmente, ma non mi interessavano affatto». «Non sapeva chi fossi», ricorderà Lennon, «conosceva solo Ringo di nome, perché in giapponese vuol dire mela».
Da lastampa.it il 6 novembre 2022.
La cerimonia di inserimento nella Rock and Roll Hall of Fame a Los Angeles doveva essere l'occasione per una reunion 2022 dei Duran Duran, ma Andy Taylor non è stato in grado di essere con la band che ha rivelato la sua diagnosi di cancro durante il loro discorso sul palco.
È stato il frontman Simon Le Bon a leggere ieri sera una lettera aperta di Taylor, nella quale spiegava che poco più di quattro anni fa gli e' stato diagnosticato un cancro alla prostata metastatico in stadio 4. «Molte famiglie hanno sperimentato questa malattia e, naturalmente, non siamo diversi», ha scritto. La malattia «non era immediatamente pericolosa per la vita ma non c'è cura Nonostante gli sforzi eccezionali della mia squadra, ho dovuto essere onesto in quanto sia fisicamente che mentalmente sarei andato oltre i miei limiti. Tuttavia, niente di tutto dovrebbe sminuire ciò che questa band (con o senza di me) ha raggiunto in 44 anni».
Parlando ai giornalisti nel backstage della cerimonia, Le Bon ha definito «assolutamente devastante» l'aver saputo della malattia di Andy Taylor. «Amiamo molto Andy. Non starò qui a piangere, sarebbe inappropriato, ma è così che ci si sente», ha aggiunto. La band britannica degli anni '80 ha rotto i legami con Taylor nel 2006. Anche l'ex membro Warren Cuccurullo, che inizialmente doveva partecipare, non è andato alla cerimonia a Los Angeles.
Barbara Costa per Dagospia il 5 novembre 2022.
Simon Le Bon è… Charlie Il Lardo. Così i suoi cari Duran Duran alle spalle lo sfottevano, e per la sua pancetta e per i bottoni dei pantaloni che faceva saltare restando col sedere e pisello all’aria. Davanti a tutti, anche ai giornalisti, e una volta pure su un palco in concerto. E questo perché il front man dei Duran Duran non portava le mutande, e come non si sia lessato i gioielli di famiglia calzando pantaloni di pelle a ode e imitazione del suo mito, Jim Morrison, è l’unico dietro le quinte che Stephen Davis non svela nel suo "Please Please Tell Me Now. La Storia dei Duran Duran" (Il Castello ed., dal 9 novembre).
Biografia che squarcia il pop decennio '80, di cui i Duran Duran sono stati capofila incendiari. Ci leggi i retroscena inediti, ben taciuti ai media quando i Duran erano all’apice, e per oculato controllo di manager e di produttori lupi: perché niente doveva scalfire l’immagine della prima band non costruita a tavolino ma mirante esclusivamente al business!
I 50/60enni prefiche preoccupate per l’andazzo degli adolescenti odierni, si guardino dentro e indietro: cosa facevano, adolescenti, loro, negli anni '80? Non erano essi stessi redarguiti da genitori spaventati dalla Duran-mania? Se avessero saputo cosa i Duran nascondevano sotto la maschera di bravi figlioli… e che celavano dietro tonnellate di fondotinta, ombretto, e fard? Cocaina cocaina cocaina. E ecstasy.
E alcool a litri, super litri. Quando in Italia si smaniava per questi 5 bellocci inglesi e non si contavano le Clizia ingorde di sposare Simon Le Bon, i Duran macinavano milioni di dischi, e tour sold out mondiali, erano onnipresenti dappertutto, ma spenti i riflettori… risse, suite per noia distrutte (con o senza Elton John), lordate di sangue, e shampoo nelle fontane d’hotel, e dagli hotel non cacciati grazie alle mazzette, e auto sfasciate, e attacchi di panico, e vino e droga a strafottere (pure in concerto, sniffata sugli ampli), e f*ttere f*ttere f*ttere, con chiunque a loro piacesse e ci stesse, conigliette di Playboy incluse: “A noi bastava dirigersi verso la prescelta ed esclamare: ciao baby!”. Ventate di abbandoni dionisiaci, per parate di ego immensi. E con top model sposate e a casa – incinte – ad aspettarli. State attenti a quello che desiderate: il lato negativo della fama? “Puoi scoreggiare, ma non puoi più grattarti il c*lo in pubblico in santa pace!”.
I Duran erano marchi griffati ambulanti, ultravezzeggiati, vestiti Antony Price, e lacca come non ci fosse un domani su tinture accese e un trucco curato e calcato il doppio delle loro donne. E i Duran non erano gay. E neppure bisex. Eterosessualissimi. Ne sa qualcosa Andy Warhol, il quale folle si innamora senza speranze di Nick, il tastierista dei Duran. Warhol che, tutte le volte Nick fa tappa a New York lo tampina, ci prova, ma niente. Ed ecco i feticismi del bassista John Taylor: “La mia donna ideale deve sapermi legare, frustare, e farmi dei panini al bacon buonissimi!”.
Scrive Davis che l’80 per cento dei fan dei Duran era femminile. Sai che scoperta!!! E però i Duran si impermalivano se la stampa li targava boy-band, video-band, vocalist modaioli. Ma, di grazia, che altro sono stati? Bravi musicisti ma non fenomenali, titanici buca-schermo per da lì titillare clitoridi acerbi.
La fregatura più grande dei Duran son state proprio le ragazzine: ehi, mai fidarsi di fan giovanissime! Sono volubili, crescono a vista d’occhio, e li rinnegano quando i Duran si accasano e poi divorziano, stritolati dallo star system… Case pignorate, carte di credito rimbalzate, montagne di denaro sniffate in coca che li riduce a zombie. Se il batterista Roger è il primo a piantarli per vivere in campagna e lì curarsi l’esaurimento nervoso, i Duran rimasti in 4, poi 3, non lo negano: per più periodi hanno suonato per pagare le bollette. Lontani da stadi e gran teatri, ma in piccoli locali, coi media che li dimenticano per il metal, il grunge, il brit pop. I media che non li cercano più perché impegnati ad esaltare boy-band rispetto ai Duran… più giovani. E, come i Duran, con un pubblico urlante e adorante, all’80 per cento composto da ragazzine…
Da primi in classifica in UK e in USA, un boss discografico disse ai Duran di mettersi i soldi da parte e il cuore in pace: sarebbero durati altri due dischi, altri due anni, poi scaricati. Disse loro la sola verità possibile: nel music business non si dura. Non si può durare. È costruito per spremerti. Apposta. Dalla vetta e la più alta si scende. È inevitabile. I Rolling Stones? Sono l’eccezione. E poi, dai, i Duran non sono mai stati gli Stones!
Troppo infantili. Nessuno è né è mai stato né sarà mai gli Stones e men che mai per continuità, e presa, decennio dopo decennio. I Duran hanno avuto la loro Rio. Wild boys. È stata una figata. Finché è durata. Ma quanto tempo è che suonano di rendita, alle vane calcagna di ogni novità? L’ultima hit l’hanno centrata, dopo anni di buio, nel 2005, con "Sunrise". A 25 anni dal loro trionfo. Spropositato. Ma meglio non farglielo notare. Si bisbiglia che il chitarrista Warren Cuccurullo sia tuttora offeso per essere stato appiedato e avere dovuto restituire il posto a Andy.
E che Andy sia eternamente risentito di quella volta, in Sri Lanka, dove stavano girando dei video, e lui cadde in una melma di piscio e m*rda di elefante, beccandosi martirizzanti virus intestinali. E non vi azzardate a rammentare a John Taylor che lui portava i capelli viola: “Erano borgogna, e con riflessi magenta, str*nzi!!!”. Ma come si fa a non notarlo? Lo stesso John Taylor che, da Duran milionario, viveva con mammà, e l’ha lasciata solamente per non farsi scoprire con le piattole!!! Mammà lo avrebbe sgridato. Al Duran bamboccione e sozzo latin lover, mammà controllava ancora le mutande?!?!?!
Barbara Costa per Dagospia il 6 gennaio 2022. “Porca p*ttana, succedevano cose pazzesche a Seattle!!!”. Per la p*ttana, se era vero, e noi qui, in Italia, appresso alla saga di Al Bano e Romina, e a Eros Ramazzotti e alla sua terra promessa, quando la terra promessa 30 e più anni fa era Seattle! E se non c’eri, o se c’eri ma vagivi, o se c’eri ma guardavi altrove, prendi e leggi "Grunge Is Dead", di Greg Prato, appena uscito in nuova edizione.
Quel ruggito, quel ribollire di energia e elettricità, tutto quello che veloce è successo e veloce è imploso, Greg Prato te lo fa raccontare da chi c’era, in una cacofonia di voci incredule a ripensare come “gente con la terza media e nemmeno, chiusa in una città merd*sa”, sia riuscita a creare cultura, a stravolgere cultura, e mezzo mondo. Le band grunge erano formate da tossici in paranoia, “losers consapevoli di essere degli emarginati”, “figli di boscaioli, capelli lunghi mal lavati e non pettinati, e camicie di flanella e Doc Martens”, che si inventano una musica chiamata grunge. E che è questo grunge?
Non si sa come sia venuto fuori il termine, Lester Bangs lo utilizzava già nel '72, ma c’è chi dice sia stato “Kirk Hammett, dei Metallica, ad aprire le cateratte”, boh, forse, no, “grunge è lo sporco nello scarico dell’acquaio in cucina, è il laniccio dentro l’ombelico”, ma musicalmente è “un ritorno, a livello di strutture compositive, e melodie, al più classico rock”.
Il grunge è l’equivalente sonoro del vomitare, è una muraglia di suono, che ti aderisce addosso, il grunge è un assalto, sgradevole, portato sul trono del mondo occidentale da musicisti disadattati, ragazzi cupi e fragili, come un tale, Kurt Cobain, uno che parla poco, “che gira con un topolino ammaestrato su una spalla”, “ha bassa tolleranza nei confronti delle stupidaggini”, dice che ha la nausea e gli fa male lo stomaco, e paga il caffè dicendo di passare presso un certa Sub Pop, e lì ti danno un disco con un solo brano, "Love Buzz".
Questo tipo qui suona in una band “con un nome tremendo, Nirvana”, “con altri due fessi”, e però “porca vacca, come facevano a suonare come fossero stati in nove?!? In fretta migliorarono, musicalmente crebbero. Cobain pareva un incrocio tra Charles Manson, e Gesù Cristo, e Johnny Rotten. Lo sai che Krist Novoselic, a una festa, ubriaco, è saltato nudo su un falò, e si è bruciato le p*lle?”. I Nirvana, come gli altri, suonavano con strumenti scadenti perché non potevano permettersene altri.
Tutti senza un soldo, a mangiare patate crude, bere birra cattiva e a saltare su e giù per illudersi sazi, e alcuni si fidanzano con spogliarelliste, o con prostitute, derelitte come loro ma in grado di racimolare qualche dollaro. Senza una casa, questi musicisti vivono nei furgoni, dormono sul palco, dormono sul pavimento, o in case più simili a pisciatoi. Inca*zati col mondo, sociofobici, infelici, ma consapevoli che senza la musica – quella musica – la loro vita avrebbe fatto ancora più schifo.
Tra di loro si innalzano donne “che mettono paura” (Susan Silver, sì. E Courtney Love, e Kim Gordon, e Kathleen Hanna) che non stanno con le band ma che mettono su band, donne che fanno da sole, gridano e suonano la loro rabbia contro ogni sopruso, ogni “p*ttana”, ogni “tr*ia”: il male che gli hanno fatto e gli fanno lo esibiscono, sulle braccia, sanguinanti a rossetto rosso. Le donne grunge calpestano tutto, e tutti, ma più gli uomini porci, perché “dead men don’t rape!”.
Hai presente la strozzatura centrale di una clessidra? A un certo punto, nel 1991, Seattle fu quella strozzatura. Accade qualcosa di grosso, accade che quattro band di Seattle – Soundgarden, Nirvana, Alice in Chains, Pearl Jam – hanno i loro dischi primi in classifica. Senza marketing o promozione ("Man In The Box", degli Alice in Chains, diventa una hit, e le radio avevano paura a trasmetterla!) se non con video girati di malavoglia e passati da MTV senza sosta.
All’improvviso "Smell Like Teen Spirit", non si sa come né perché, ma lo senti e lo vedi girare ovunque. I dischi grunge si vendono a caterve. Tutti li vogliono. Dopo anni passati a suonare davanti a 10, 15 persone “che avevi dovuto convincere a venirti a sentire”, il mondo si mette in ascolto, “l’intero pianeta del ca*zo, amico!”. Gente che poco prima dormiva in macchina, in strada, o sul divano altrui, firma con le major. E subito dopo… è agli stessi protagonisti grunge che non va bene più. Si scoprono dalla fama instupiditi e terrorizzati. Il successo, non è roba per loro, e lo scaricano per il cesso. Gli preferiscono l’eroina.
Eccola qua, la rovina dell’intera scena. Praticamente tutti, prima o poi, ci cascarono dentro, e in pieno. “Quando mi sono fatto la prima pera”, ha detto Layne Staley, degli Alice in Chains, “mi sono inginocchiato, e ho ringraziato Dio da quanto stavo bene”. I suoi testi sono cruda e senza filtri testimonianza di cosa sia vivere e morire da eroinomane. "Down In a Hole": Layne era quello che scriveva, cantava, quello che si bucava. Layne più di altri decise di andare a fondo, di guardar dentro quel baratro, non tornando più indietro. "No Excuses". Ago e morte.
Voler stare davanti a un pubblico, al tempo stesso odiare di stare davanti a un pubblico… sul tetto del mondo e da quel tetto voler scendere, decidendo di scomparire, inghiottito nell’ero. Senza più denti, due dita (“aveva le vene ormai compromesse, che non irroravano più sangue alle mani”), un giorno gli buttarono giù la porta e rinvennero Layne morto, da 15 giorni, ago in vena, e più dosi pronte. Era il 5 aprile 2002.
Otto esattissimi anni dopo Cobain. Grunge is dead nell’ero, e in uno sparo. Kurt Cobain, Layne Staley, danno quelle risposte che non si vogliono sentire. Brividi lungo la spina dorsale che non si vogliono provare. E allora che è quella voglia di ascoltarli? Non tutti siamo Eddie Vedder, i Pearl Jam sono rimasti in piedi, bravi loro, il resto… 'fanc*lo, siamo soltanto esseri umani, sicché, che altro dire, “l’ultimo che lascia Seattle, spenga la luce”.
Quarant'anni fa si scioglievano gli ABBA: tutte le canzoni che devi conoscere. Da “Dancing Queen” a “Mamma mia”: il gruppo pop svedese si sciolse nel lontano 1982, ma la sua musica ancora oggi è ovunque. Massimo Balsamo l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Quattrocento milioni di dischi venduti in tutto il mondo, secondi solo ai Beatles. Hit che sono la definizione di evergreen, in grado di abbattere ogni tipo di barriera per gli artisti europei. Gli ABBA hanno scritto la storia della musica e ancora oggi, a 40 anni dallo scioglimento, continuano a influenzare decine e decine di band. Il segreto del successo dal gruppo composto da Björn Ulvaeus, Benny Andersson, Agnetha Fältskog e Anni-Frid Lyngstad è nella capacità di fare sembrare semplici delle canzoni complesse. Il pop che raggiunge la perfezione, persino nei videoclip, che spalancarono loro le porte del mercato internazionale.
La reunion del 2018 è stata seguita dall’album “Voyage”, ma nell’immaginario collettivo restano le canzoni del decennio 1972-1982. La matrice della pop music, i costumi di scena stravaganti e a dir poco eccentrici, brani di impatto con testi spesso sottovalutati. Da “Waterloo” a “SOS”, passando per “Mamma mia”: ecco quali sono le canzoni che non potete non conoscere.
Ring Ring
ABBA appena nati, quale occasione migliore per farsi conoscere dell’Eurovision Song Contest? Il gruppo propose “Ring Ring”, canzone che diede una grande svolta in diversi paesi. Un brano leggero, senza grosse pretese, ma già in grado di rivelare le sfumature pop e folk del gruppo svedese.
Waterloo
Eurovision Song Contest 1974, la nascita della leggenda ABBA. “Waterloo” ebbe un successo clamoroso e continua a rappresentare il manifesto del gruppo nordico: uno spirito allegro e positivo nel paragonare la disfatta di Napoleone con l’innamorarsi di una persona. Una hit che tracciò un solco, esplorando territori diversi dall’amore melenso raccontato nelle canzoni dell’epoca.
SOS
“Sos” segnò un’altra svolta nella carriera degli ABBA. Una potente dimostrazione della possibilità di conciliare testi malinconici a melodie ammalianti. Un brano insolito, ma comunque orecchiabile e originale. L’aura di malinconia svedese qui al suo zenit, ma venne sfruttata anche negli anni a seguire.
Mamma mia
“Mamma mia” è forse il brano più conosciuto degli ABBA. Una canzone geniale da ogni punto di vista, forse tra quelle pop la migliore mai scritta. Avanguardia allo stato puro, a partire dal titolo facile da memorizzare, fino alla serie di svolte sonore contenute in meno di quattro minuti. Una hit immortale, in grado di spodestare in classifica “Bohemian Rhapsody” dei Queen.
Fernando
Dieci milioni di copie vendute, il più grande successo commerciale degli ABBA. “Fernando” è un perfetto riassunto della filosofia degli svedesi: testo impegnato (dalla guerra alla rivoluzione messicana) con melodie irresistibili. Un testo specifico in cui la gente ci legge ciò che vuole, una grande dimostrazione di maturità artistica.
Dancing Queen
Un semplice omaggio alla musica e al divertimento, “Dancing Queen” è un inno alla gioia e al senso di libertà che si prova ballando. Una musica frivola, molto semplice, con il solito retrogusto triste, con la classica vena malinconica. Musica che apparteneva e che appartiene ancora oggi a tutti.
The Name of the Game
Un brano epico, leggermente diverso dal solito, ma comunque vincente. “The Name of the Game” è un pezzo che parla di rapporti d’amore finiti male. Un testo adulto, ma comunque allegro, con i riflettori accesi sulla crescita, su quando ci si ritrova ad affrontare situazioni più grandi di sé ed è l’amore a farne le spese.
The Winner Take It All
Una ballad spezzacuore semi-autobiografica, una canzone molto triste. Gli ABBA avevano già raccontato amori finiti, ma “The Winner Take It All” affronta il tema in maniera diversa, da una prospettiva differente. Un pezzo che dà anche conforto nel pieno di una crisi emotiva, uno dei migliori testi del gruppo svedese.
Under Attack
“Under Attack” è probabilmente uno dei brani più sottovalutati dagli ABBA. Questa fu l’ultima canzone incisa dai quattro artisti svedesi in un clima piuttosto triste: tutti erano consci dell’arrivo della fine della cavalcata di gloria. Ma la canzone merita grande considerazione per la sua varietà di sonorità rispetto alle canzoni precedenti.
L’assassinio a NY di John Lennon. Cantava la pace, la tragica fine 42 anni fa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Dicembre 2022
«John Lennon, fine di un mito»: la notizia circola già dal giorno prima, ma sulla stampa appare soltanto il 10 dicembre 1980. La sera dell’8 dicembre, John Lennon è stato assassinato da un fanatico con problemi psichiatrici davanti al Dakota Building, il palazzo di New York affacciato su Central Park, dove vive con la moglie Yoko Ono e il figlio Sean.
“La Gazzetta del Mezzogiorno” dedica diversi approfondimenti al tragico assassinio del celebre artista, icona della musica mondiale.
Claudio Gatti riporta la cronaca di quanto avvenuto: «“Mister Lennon?” ha gridato e poi, assicuratosi di avere di fronte il bersaglio desiderato, ha sparato ripetutamente con una calibro 38 nella schiena dell’ex beatle. “Ovviamente l’uomo lo stava aspettando“, ha dichiarato il sergente di polizia Robert Barnes, riferendosi all’omicida, poi arrestato e identificato per Mark David Chapman. Immediatamente dopo gli spari, Yoko Ono, rimasta miracolosamente incolume, ha accompagnato il marito moribondo in ospedale con una macchina della polizia. Contemporaneamente, una folla di alcune centinaia di persone si formava di fronte al Dakota. Si calcola che vi fossero almeno 500 persone, giovani fans del cantante accorsi a rendergli l’estremo omaggio. Non appena si è resa conto della triste realtà, Yoko Ono ha pregato l’editore David Geffen di diffondere la seguente dichiarazione: “John amava e pregava per il genere umano. Per piacere, fate lo stesso per lui”».
Sono passati dieci anni dallo scioglimento dei Beatles: da allora Lennon si è gradualmente ritirato dalle scene. Nel ‘71, dopo il successo di “Imagine”, si è trasferito con Yoko Ono a New York: i due diventano presto simboli dell’attivismo pacifista. «Negli anni ‘60 fummo i Beatles ed avemmo le qualità, la passione e l’energia per esserlo. Negli anni ‘70 ci fu la separazione, ma gli anni ‘80 saranno quelli del ritorno», aveva proclamato Lennon pochi mesi della sua morte in un’intervista ora riportata sulla “Gazzetta”.
«John era un grand’uomo», ha detto Paul McCartney, «il mondo sentirà la sua mancanza». «È certamente vero, ma i Beatles e quindi Lennon vivevano già nel mito, e se domani come oggi la musica non accademica continua a cercare nuove soluzioni o nuovi motivi di rilancio sul piano della popolarità, nessuno potrà fare a meno di guardare ai quattro giovani di Liverpool che vent’anni fa ad essa aprirono nuovi orizzonti, e non potrà quindi dimenticare anche chi come Lennon, per colpa di un fanatico cacciatore di autografi, ha concluso prima del tempo la sua intensa, movimenta e feconda avventura terrena», conclude lo storico critico musicale della “Gazzetta” Nicola Sbisà.
Freddie Mercury moriva 31 anni fa: la morfina, gli ultimi, confusi, istanti, la broncopolmonite dovuta all’Aids. Roberto De Ponti su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.
Roberto De Ponti ripercorre ne «L’ultimo Freddie Mercury», il passo d’addio del Mito. Ecco l’estratto del capitolo finale: «Serenamente» che racconta la scomparsa del cantante
31 anni fa
Il 24 novembre 1991, a 45 anni, Freddie Mercury moriva per una broncopolmonite causata dall’AIDS diventando ufficialmente una leggenda della musica. Ancora oggi le canzoni dei Queen e la voce di Mercury sono un’attualissima colonna sonora che ci accompagna quotidianamente, senza sentire il passare del tempo. Questa è la drammatica storia dell’ultimo giorno di vita del cantante svelata da Roberto De Ponti nel capitolo «Serenamente» de L’ultimo Freddie Mercury (Sperling & Kupfer), il libro che racconta la vita di Freddie dall’ultimo concerto con i Queen del 9 agosto 1986 al Mercury Tribute di Wembley del 20 aprile 1992
«Freddie non riusciva a parlare»
Domenica 24 novembre 1991. La notte era stata piuttosto complicata. Intorno alle tre, Freddie si era svegliato chiedendo aiuto a Jim che dormiva al suo fianco. «Non riusciva a parlare correttamente e continuava a indicarmi la sua bocca, spazientito. Stava accadendo qualcosa di drammatico. Cercai di capire che cosa voleva, ma non ci riuscii.» Con l’aiuto di Fanelli, Hutton riuscì a far superare la crisi a Freddie, poi i due lo lasciarono tranquillo per qualche minuto. Intorno alle cinque e mezza arrivò la seconda crisi. Jim chiamò di nuovo Joe, che a sua volta chiese a Freestone di raggiungerli. «Freddie calmati, Freddie calmati», implorava Fanelli mentre teneva stretto a sé Mercury durante quello che con ogni probabilità era un attacco epilettico. Quando finalmente Freddie si calmò, ha raccontato Jim, «spossato dallo sforzo, cadde in un sonno profondo». Freestone: «Freddie era entrato in coma dopo un attacco di brividi. Giaceva irrigidito, con la testa in posizione innaturale, gli occhi puntati verso l’angolo alle sue spalle. Provammo a scuoterlo delicatamente, a parlargli, ma fu come se non si accorgesse della nostra presenza».
Il rimorso di non aver fatto venire i genitori
Peter chiamò il dottor Atkinson e avvisò Mary della situazione. Il medico arrivò a Garden Lodge e fece a Freddie un’iniezione di morfina. Non ci sono indicazioni, spiegò Atkinson: Freddie potrebbe tirare avanti inqueste condizioni per alcuni giorni come potrebbe lasciarci da un momento all’altro. C’è ben poco da fare ormai, se non aspettare e stargli vicino. Mary si presentò poco più tardi e rimase per qualche ora con lui, sola in camera. Freestone, nel frattempo, avvisò la famiglia Bulsara dell’aggravarsi delle condizioni di Freddie. È il caso che veniamo a vederlo? chiese mamma Jer. Non è necessario, rispose Freestone, non sta molto bene, aspettate qualche giorno quando si sentirà un po’ meglio. «Vivo nel rimorso di non aver permesso ai suoi cari di venire a vederlo nel pomeriggio.» Allarmato dal precipitare della situazione, piombò a Garden Lodge Dave Clark, e nel pomeriggio arrivò anche Terry Giddings. Intorno alle sei e mezza, il dottor Atkinson disse che la sua presenza al momento non era più necessaria e chiese a Joe di accompagnarlo ai Mews, dove aveva posteggiato l’auto.
Gli ultimi, confusi, istanti
Le testimonianze, a questo punto, diventano inevitabilmente confuse, frammentarie e contrastanti. Freestone ricorda che «Freddie e Dave Clark stavano di sopra; io, Jim, Joe, Terry e Gordon Atkinson rimanemmo al piano di sotto, in cucina». E mentre Fanelli accompagnava il dottor Atkinson ai Mews, «Dave Clark chiese a me e a Jim di salire su per aiutare Freddie, che doveva andare in bagno. Giunti al suo capezzale, provammo a metterlo in una posizione più comoda, ma aveva smesso di respirare». Hutton ha raccontato in modo diverso gli ultimi istanti. «Chiesi a Dave di uscire un momento dalla stanza», poi, mentre aiutava Freddie a risistemarsi sul letto, «lo sentii tentare di sollevare la gamba sinistra per darmi un piccolo aiuto. Fu l’ultima cosa che fece. Abbassai lo sguardo sulla sua faccia e mi resi conto che era morto». Clark, ricorda Hutton, «era ancora sulla porta quando Freddie morì». Dave Clark, in un’intervista all’Express, raccontò tempo dopo che «i dottori se n’erano andati e sapevamo ormai che era soltanto questione di tempo. Eravamo soli quando è morto. Sono corso al piano di sotto per chiedere aiuto a Phoebe, il suo assistente personale, e a Joe. Mary Austin è arrivata subito e ha chiamato i genitori di Freddie per dare la notizia». (…)
Ore 18.48
Freddie Mercury, nato Farrokh Bulsara, lasciò questo mondo alle ore 18.48 di domenica 24 novembre 1991. La villa all’1 di Logan Place piombò nel caos. Freestone telefonò a Fanelli, che stava lasciando i Mews, urlandogli di fermare il dottor Atkinson: digli di tornare subito, Freddie è morto! Joe rincorse l’auto, buttandosi praticamente davanti al cofano della vettura per bloccarla: dottore, Freddie è morto, si fermi! Alla «fermata del ventisette», sentendo questo trambusto, i giornalisti si accorsero che a Garden Lodge stava accadendo qualcosa di grave. Atkinson rientrò immediatamente e a passi lunghi salì in camera da letto di Freddie, lo visitò e non poté far altro che constatarne il decesso. Sul certificato scrisse: «Ora delle morte: sei e quarantotto p.m.». Roger Taylor, ignaro dell’accaduto, stava per passare a far visita al vecchio amico: «Stavo andando a trovarlo, ed ero quasi arrivato, quando mi chiamò Peter Freestone per dirmi che Freddie se n’era andato».
I genitori, finalmente, vennero
Freestone, figlio del direttore generale delle pompe funebri John Nodes, provò a prendere in mano la situazione. Per prima cosa cercò di contattare Jim Beach, con John Libson l’esecutore testamentario di Mercury, e dopo un’ora riuscì a sentirlo da Los Angeles, dove «Miami» si trovava per affari dei Queen. Beach chiese se fosse possibile lasciare il corpo di Freddie a Garden Lodge fino al lunedì, in modo che lui potesse tornare e accompagnare la salma, ma Freestone e Hutton risposero che non era una buona idea. I tre raggiunsero un compromesso: non facciamo uscire Freddie di nascosto da casa, se i giornalisti se ne accorgessero penserebbero che vogliamo nascondere la notizia. (…) In serata, mamma Jer e papà Bomi arrivarono per salutare il loro figliolo. Com’è bello, sospirò la madre dandogli una carezza sul viso. «Freddie appariva così sereno, estatico e radioso che loro chiesero se per caso lo avessimo truccato», ha raccontato Hutton. «Gli rispondemmo di no.»
La notizia al mondo
In tempi di AIDS, la prassi voleva che il corpo fosse portato via all’interno di un sacco, obbligatorio in caso di malattia contagiosa, sistemato in un anonimo contenitore in vetroresina. Peter e Jim si opposero e ottennero che fosse utilizzata una cassa in legno di quercia. (…) Il carro funebre, un anonimo furgone di colore nero, entrò in retromarcia nei Mews. E mentre gli addetti dell’agenzia di pompe funebri senza mostrare alcuna emozione cominciavano a svolgere il proprio lavoro, Roxy Meade finiva di limare il comunicato che di lì a poco avrebbe consegnato ai reporter in attesa fuori dal portone di Garden Lodge. A mezzanotte in punto, esattamente come ventiquattr’ore prima, la portavoce dei Queen aprì il portone verde e venne circondata dai giornalisti, ai quali consegnò un foglio con una stringata dichiarazione di due righe. Freddie è morto pacificamente questa sera. La sua morte è dovuta a una broncopolmonite causata dall’AIDS. (…)
Una lunghissima giornata
(…) Qualche minuto più tardi, a mezzanotte e venti, Freddie lasciava per l’ultima volta Garden Lodge sul furgone nero mentre la polizia, che aveva concordato le operazioni con Terry Giddings creando un blocco stradale, riuscì a impedire a reporter e paparazzi di seguirlo. Il corpo di Freddie Mercury venne portato al sicuro in un luogo segreto in Hewer Street, dove si trovava il magazzino con le celle frigorifere dell’agenzia John Nodes. A Garden Lodge il telefono cominciò a squillare in continuazione. Barbara Valentin, ignara del fatto che Freddie fosse morto, chiamò per scambiare quattro chiacchiere con lui e chiedergli come stava. (…) Peter e Joe si divisero l’ingrato compito di avvisare gli amici, anche se la notizia della morte di Mercury ormai aveva già fatto il giro del mondo. Jim non se la sentiva, rimase impietrito tutto il tempo. Poi, intorno alle quattro di notte, gli abitanti di Garden Lodge, stremati dalla giornata, andarono a letto a cercare di dormire.
L’ultima cartolina
Nella casa scese un silenzio irreale. In cucina era rimasta ammonticchiata la posta del giorno – in prevalenza lettere di fan, biglietti d’auguri, cartoline – che come ogni mattina Peter o chi per lui prelevava dalla cassetta di Logan Place e sistemava sul piano della credenza. Quel giorno, naturalmente, nessuno aveva trovato il tempo di guardarla, riordinarla e smistarla. Sopra quella pila di carte campeggiava una cartolina firmata «Ratty». Peter «Ratty» Hince era il roadie di Freddie, il tecnico personale, l’uomo dai capelli lunghi che sul palco ha passato qualcosa come seicentocinquanta volte il famoso microfono a stiletto a Mercury. (…) «Ratty», in vacanza da qualche parte in giro per il mondo, aveva pensato di mandare un augurio di pronta guarigione al suo vecchio compagno di battaglie in tour, e la cartolina, per una di quelle strane combinazioni della vita, era arrivata a Garden Lodge proprio domenica 24 novembre 1991. Se l’avesse letta, Freddie sarebbe scoppiato in una fragorosa risata. Il messaggio diceva: «Sbrigati a stare meglio, vecchio bastardo!»
Roberto De Ponti per il “Corriere della Sera” il 20 Novembre 2022.
Erano in centoventimila, sabato 9 agosto 1986, pronti a portare in trionfo la «Regina», ma qualche stima particolarmente ottimista sosteneva che gli spettatori fossero duecentomila, per uno show che tecnicamente non sarebbe mai dovuto esistere. Il tour in effetti avrebbe dovuto chiudersi a Marbella, in Andalusia, quattro giorni prima, ma il promoter Harvey Goldsmith e il tour manager Gerry Stickells, visto l'andamento trionfale delle prevendite, avevano subito programmato un'ultima data.
Wembley non era disponibile per un terzo concerto, così sembrò logico opzionare la location più grande che l'Inghilterra potesse offrire: per citare un evento, già nel 1976 da queste parti si erano presentati in centodiecimila per sentire Rolling Stones, 10cc, Lynyrd Skynyrd e Todd Rundgren. A Stickells piaceva vincere facile: quando i quattro Queen gli dissero che si sarebbero esibiti a Knebworth soltanto se i biglietti fossero andati esauriti, il tour manager rispose: scommetto che li venderemo tutti non appena annunceremo la data.
Andò esattamente così. La data venne aggiunta ufficialmente a tour in corso, dopo che i preziosi tagliandi per le due esibizioni di Wembley e per quella di Newcastle andarono bruciati in poche ore. E Internet ancora non esisteva. Come avrebbe ammesso Brian May anni dopo, «avevamo così tante richieste che avremmo potuto riempire Wembley per una settimana di fila».
Così, nel pomeriggio caldo e umido del 9 agosto 1986, in quella che si sarebbe poi rivelata una serata a suo modo storica, Thomas McGuigan cominciò a godersi quell'incredibile spettacolo dall'alto della sua posizione privilegiata, a cavalcioni di un tubo sul traliccio che reggeva alcuni dei numerosi occhi di bue che da lontano illuminavano il palco largo 55 metri, alto 15 e profondo 20.
Il colpo d'occhio era spettacolare. () Il concerto era stato pubblicizzato con il nome di «A Night of Summer Magic», una notte di magia estiva, ma Freddie preferiva chiamarlo «Queen Tornado», e alla fine, guarda un po', venne ribattezzato così. Mai scontentare Freddie. In ogni caso, qualsiasi nome avesse la giornata, McGuigan voleva gustarsela fino all'ultima stilla di musica. () Il ruggito della folla salì improvvisamente quando due elicotteri si stagliarono all'orizzonte, fecero un giro dietro il palco e atterrarono nel backstage. Le scritte sulle fiancate, queen e a kind of magic , resero chiaro a tutti chi fossero i passeggeri.
Due viaggi da Battersea, la vecchia centrale elettrica sul Tamigi con quattro ciminiere resa celebre dalla copertina di Animals , album del 1977 dei Pink Floyd: venti minuti di volo per planare sul luogo del concerto. () I primi a sbarcare furono Brian e John con famigliari e assistenti, quindi fu il turno di Freddie e Roger con seguito. Il pubblico accolse i propri eroi con un boato. () Ne erano successe, di cose, quel pomeriggio, a Knebworth.
Persino, pare, sembra, si dice, la nascita di una bimba nel bel mezzo di un'esibizione di contorno: la neomamma evidentemente doveva essere una grandissima fan di Mercury e compagni per presentarsi in mezzo a centoventimila persone correndo il rischio di un parto prematuro. O forse questa è solo leggenda, una delle tante che hanno sempre accompagnato i Queen. () Nessuno sospettava che il 9 agosto 1986 sarebbe stato ricordato come la data dell'ultima esibizione dei Queen. Quello che però Thomas non poteva neppure immaginare è che lui quel concerto non lo avrebbe visto. Né quello né nessun altro, mai più.
Erano le nove e un quarto quando, forse per la stanchezza per essere rimasto lassù tutto quel tempo, forse per un piccolo malore, forse per l'effetto delle birre bevute, forse per una semplice perdita di equilibrio, McGuigan cadde dal traliccio finendo rovinosamente addosso ad alcune persone che stavano ai piedi della struttura.
Si rialzò in piedi malconcio e mezzo intontito, Thomas, ringraziando il cielo di non essersi fatto niente di male, giusto in tempo per non accorgersi che le persone su cui era caduto lo stavano insultando, che una di queste aveva estratto un coltello a serramanico dalla tasca e gliel'aveva infilato nella pancia, una, due, tre volte. E poi ancora. E di nuovo. Un'esecuzione in mezzo a un mare di gente.
Thomas McGuigan venne soccorso con la velocità che permetteva la difficoltà di muoversi tra centoventimila persone interessate a ben altro che a un tizio che, come molti, sicuramente stava smaltendo i postumi di una sbornia. Morì dissanguato mentre l'ambulanza che avrebbe dovuto trasportarlo all'ospedale St. John ancora cercava di districarsi in mezzo alle auto parcheggiate in qualche modo lungo le stradine di campagna. ()
Della morte per accoltellamento di uno spettatore venne informato Harvey Goldsmith, che però preferì nascondere la notizia alla band fino al termine del concerto: non avrebbero potuto fare niente per salvare il ragazzo, spiegò poi il promoter, e annullare l'esibizione a pochi minuti dall'inizio avrebbe causato inimmaginabili problemi di ordine pubblico. I Queen, ignari di quanto fosse accaduto lì sotto, diedero il meglio di sé. Davanti a quella folla che ondeggiava di fronte al palco come un campo di grano spazzato dal vento, e che si allungava a perdita d'occhio verso la campagna inglese, anche un animale da palcoscenico come Freddie fece fatica a contenere l'emozione.
«Lo ammetto, questo è un posto enorme persino per i nostri standard. È davvero bello da qui! È spaventoso. Voi bastardi siete bravi, devo dirvelo. Ci sentiamo fra un altro paio di canzoni, aspettatemi!» esclamò al microfono dopo aver concluso una spettacolare versione di A Kind of Magic . «Come ci si può separare quando si ha un pubblico come questo? Dico davvero! Non siamo tanto stupidi», aggiunse smentendo, come ogni volta al termine di Another One Bites the Dust , le immancabili voci di imminente scioglimento della band. E poi il saluto finale, sulle note di God Save the Queen.
«Grazie bella gente. Siete stati tremendi Siete stati un pubblico davvero speciale. Grazie mille. Buonanotte, sogni d'oro, vi vogliamo bene». () Nessuno, in quella notte calda e sudata, poteva immaginare che quello di Freddie era un addio, non un arrivederci. () Solo Mercury ne era cosciente. E, come lui, Mary Austin, che nel backstage al termine del concerto ne incrociò per un lunghissimo istante lo sguardo.
«Era il suo ultimo tour, lo sapeva, ed è stato davvero difficile per lui affrontarlo portandosi dentro tutto quel carico emotivo. Ricordo solo il suo sguardo spento mentre camminava. Io ho guardato lui, lui ha guardato me, ed entrambi sapevamo che quella era l'ultima volta che scendeva da un palco», ha confessato Mary venticinque anni dopo a Bbc Radio 4, in una delle rare interviste concesse. Era finita. Freddie aveva appena concluso l'ultimo ballo sul palco.
Per questo aveva fretta di andarsene da lì. Si cambiò velocemente e scortato dagli assistenti, accompagnato da Jim Hutton e da Roger, si avviò verso l'elicottero che lo avrebbe riportato a Londra. Sull'elicottero, nella notte illuminata dal serpentone dei fanali delle auto in coda per fare ritorno nella capitale, con le luci della città e dell'aeroporto di Heathrow sullo sfondo, Freddie insieme con gli altri membri della band venne avvisato via interfono da Goldsmith dell'uccisione di Thomas McGuigan.
«Ucciso?» chiese incredulo. «E come? Perché? Ma quando? Come è successo?» Mercury apparve molto scosso dalla notizia. Fu una questione di secondi. Pur se coperto dal rumore dei rotori, Freddie prima ascoltò le spiegazioni sommarie di Goldsmith, poi, facendo in modo che il promoter, e non solo lui, lo sentisse chiaramente, replicò gelido: «Se la gente deve morire perché vuole vederci, non farò mai più concerti». No, non era quella la vera ragione che l'avrebbe tenuto per sempre lontano da un palco. Ma in ogni caso sarebbe stato di parola.
Luca Pavanel per “il Giornale” il 27 Ottobre 2022.
Queenmania, o forse è meglio dire «un febbrone per Freddie». Comunque sia, ancora (e ancora) spuntano altri tasselli da ascoltare e da leggere, storie, analisi su quello che è stato uno dei più grandi gruppi rock del Novecento, nella formazione originaria - Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon - «dissolto» nel 1991, con la morte fisica dell'insostituibile frontman Farrokh Bulsara, in arte Mercury appunto.
Lui, che ancora oggi con la sua musica fa sognare legioni di fan, e non solo; lui, che in questi giorni riviene evocato per un nuovo brano, in circolazione e presentato come «emozionante inedito con la sua voce»; lui che, insieme agli altri della formazione ora campeggia di nuovo dalla copertina dell'edizione aggiornata - e appena giunta nelle librerie - di Queen. As It Began - La biografia ufficiale, a cura di due tra i massimi esperti della band, ovvero Jacky Smith & Jim Jenkins, con il contributo del chitarrista May e del batterista Taylor (454 pagine, EPC Editore). Ma andiamo per ordine.
Dopo Bohemian Rhapsody, il film del 2018 omonimo del brano-capolavoro compreso nel loro album A Night at the Opera e la pubblicazione di nuove raccolte e libri, si pensava che la «Queenmania» ormai si assestasse, esprimendosi magari solo, o quasi, per ricordare l'ultimo atto dell'epopea, la scomparsa del leggendario cantante; ogni anno, a proposito, ci sono speciali in tv, concerti a suon di cover nei teatri, interviste ai Queen superstiti.
Ma la storia del gruppo è paragonabile a una matrioska, c'è sempre qualcosa da aprire e scoprire. Ed ecco dunque, spuntare il nuovo video di Face It Alone, pezzo che verrà pubblicato a novembre con la ristampa dell'album The Miracle, con versioni alternative dei singoli. «Abbiamo ritrovato questa piccola gemma con Freddie, della quale ci eravamo quasi dimenticati - ha detto Roger Taylor - è stata una scoperta e deriva dalle sessioni di registrazione». Il pezzo, infatti, venne realizzato nel 1988 dopo una pausa dall'ultimo tour di quel periodo.
«Musica meravigliosa», «se l'hanno scartato un motivo c'era», «il brano è chiaramente rattoppato ma la voce lo eleva a gioiello», «rimane la grande icona di Mercury ad aleggiare nel tempo»: sono i fan a esprimersi sulla Rete, dicono di tutto e il suo contrario su quel titolo appena riesumato. Quando il brano viene scritto, la star - secondo informazioni divulgate - è già a conoscenza della sua malattia (primo test dell'Hiv in forma segreta nel 1986, ripetuto nell'87, risultato: «positivo») e probabilmente il suo modo di scrivere comincia a mutare.
Per questo forse musica e testo di Face It Alone («Affrontalo da solo») appaiono, nonostante la voce cristallina e grintosa, a tratti come «cupi», malinconici; frasi come «la tua vita è tua. Sei responsabile di te stesso. Padrone di casa tua, alla fine devi affrontare tutto da solo», «quando la luna ha perso il suo splendore». Siamo lontani dai tempi gaudenti di Don't stop me now («Non fermarmi adesso»), nell'album Jazz, canzone nella quale Mercury cantava «stanotte mi divertirò sul serio, mi sento vivo e capovolgerò il mondo».
Già, proprio così. Testi, concerti, momenti privati, backstage. C'è ancora tanto da sapere. E l'arrivo dell'edizione ampliata della biografia ufficiale Queen. As It Began aggiunge altri particolari. Sfogliato e letto il tomo, è difficile immaginare qualcosa di più completo.
Per esempio, attingendo a interviste esclusive con i membri della band, viene completata la storia dell'Era Mercury e degli anni immediatamente successivi alla sua morte. C'è inserito l'esatto racconto di come si formò la band e come i «fantastici quattro» della Regina arrivarono a fare il tutto esaurito negli stadi durante i tour, con i loro spettacoli dal vivo. D'altra parte chi ha curato la pubblicazione è stato un testimone assai privilegiato: per dirne una, Jacky Smith gestisce il fan club internazionale e fa parte dell'entourage Queen da 40 anni.
Quindi si può immaginare il livello di profondità raggiunto nelle ricerche, pure iconografiche. A questo proposito, che bello perdersi tra le fotografie, addirittura pre-Queen. C'è un'immagine degli Smile (il gruppo di cui facevano parte May e Taylor) immortalati nel 1969 fuori dalla Royal Albert Hall di Londra; suggestivi i primi scatti della Regina in concerto, nel 1970; ecco una foto di «famiglia» nella casa del cantante (1973) poi le prove di Freddie con il Royal Ballet.
«Restate sintonizzati - invita l'ultima pagina del viaggio biografico - Sono previsti dei grandi tour, altri lavori solisti, ristampe di album, collaborazioni» e magari un nuovo libro. Insomma, il testamento morale dei Queen vale sempre e continua a dettare la linea: «The show must go on», lo spettacolo deve continuare.
Luca De Gennaro per "la Stampa" il 10 gennaio 2022.
È passato mezzo secolo da quando il rock progressivo, che integrava elementi di musica classica, contemporanea e jazz espandendo gli orizzonti del rock' n'roll tradizionale, visse la sua stagione d'oro e trovò in Italia un seguito appassionato. All'inizio degli Anni 70 i Genesis ebbero successo da noi prima che nella patria Inghilterra, e un gruppo sperimentale come i Van Der Graaf Generator arrivò al numero uno in classifica.
In quell'epoca, così importante da lasciare uno strascico che arriva fino ad oggi, il supergruppo formato dal fenomenale tastierista Keith Emerson, il cantante e bassista Greg Lake e il batterista Carl Palmer, già famosi per la militanza in altre band, produsse dischi epici come il fantasioso Tarkus e una rilettura in chiave rock di Quadri Di Un'Esposizione del compositore russo Musorgskij.
Erano i più vicini alla musica classica ma anche tra i più istrionici sul palco, dove Emerson saltava sull'organo e prendeva selvaggiamente a pugnalate la tastiera mentre Palmer percuoteva enormi gong alle spalle della sua batteria. Per celebrare il 50° anniversario della band è uscito Emerson Lake & Palmer - L'autobiografia ufficiale (Rizzoli Lizard) che raccoglie le testimonianze dei tre protagonisti corredate da foto straordinarie.
Emerson e Lake sono purtroppo scomparsi entrambi nel 2016. Carl Palmer, a 71 anni, tiene viva la memoria della band portando sul palco la «Carl Palmer ELP Legacy». «Tornerò a suonare in America a fine gennaio - ci dice dalla sua casa in Inghilterra - e se tutto va bene dovrei venire in Italia in maggio. Nel frattempo sto montando un concerto in cui potrò suonare di nuovo con Emerson e Lake, in sincrono con le loro immagini e le loro parti musicali tratte da un nostro show alla Royal Albert Hall. So che Keith e Greg lo avrebbero voluto e le loro famiglie hanno approvato il progetto. Spero di poterlo realizzare entro la fine del 2022».
È vero che voi tre formaste la band pur non essendo amici?
«Eravamo amici di musica, in un modo che non avevo mai sperimentato prima né mai più mi succederà. Avevamo poco in comune, andavamo abbastanza d'accordo ma non saremmo mai andati in vacanza insieme, ma quando eravamo dietro ai nostri strumenti era magico. Suonavamo e basta. Non abbiamo mai litigato per questioni di soldi o di donne, ma potevamo discutere per tre anni su quattro misure di una canzone. Eravamo tre individui, molto onesti tra noi, ognuno con le sue convinzioni, ognuno con la stessa importanza: Emerson, Lake e Palmer».
Tra i batteristi della sua generazione diversi non riescono più a sostenere un intero concerto. Lei ancora suona con grande vigore. Come si mantiene in forma?
«Io non sono una rockstar. Non lo sono mai stato e non è per questo che ho scelto il mio mestiere. Vengo da una famiglia di musicisti, dai nonni ai nipoti suonano tutti. Sono stato fortunato perchè ho suonato con delle band di successo ma il mio obiettivo era solo essere sempre più bravo, quindi mi sono sempre preso cura di me. Mi sono divertito anche io, intendiamoci, ho preso qualche droga come tutti, ma cercando di non oltrepassare mai il confine. Non ho mai bevuto troppo, sono sempre stato attento alla dieta e all'esercizio. Faccio attività fisica tutti i giorni (c'è un tapis roulant professionale nel suo studio, n.d.r.), vado a sciare e mi piace suonare la mia batteria. Anzi, credo di suonare meglio di prima. La mia filosofia è semplice: se miglioro, va bene. Se non miglioro ma mantengo il mio standard, va bene. Quando mi accorgerò di non riuscire più a mantenere il mio livello, allora Ciao Ciao Baby, smetterò di suonare».
I vostri concerti sono rimasti nella storia per il gigantismo, come testimonia la foto che apre e chiude il libro, che ritrae le centinaia di persone che lavoravano ai vostri tour.
«Oggi lo show di un artista di prima categoria, come Rolling Stones o U2, impegna lo stesso numero di persone, solo che noi lo abbiamo fatto per primi. Allora sembrava esagerato, ma ha segnato la strada per ciò che sarebbe arrivato dopo e di questo vado fiero, anche se la stampa ci definiva pomposi e stravaganti e dicevano che buttavamo i soldi. Investivamo nello show, spendevamo per portare la musica al pubblico».
Arrivaste in Italia nel 1972, a Genova e Bologna, poi altre volte, fino allo storico concerto a Milano nel 1974. Cosa ricorda di quei tour?
«A dire il vero il primo tour italiano fu un incubo. Voi italiani siete gente splendida ma il problema era l'organizzazione. Non c'era controllo, il pubblico entrava di pomeriggio mentre noi stavamo ancora provando sul palco, qualsiasi cosa veniva decisa all'ultimo momento, non era facile suonare da voi in quell'epoca. In ogni caso ho dei bei ricordi. Un giorno all'Hotel Hilton di Roma chiesi di affittare un'auto e mi diedero una Ferrari verde!»
In quegli anni metteste sotto contratto con la vostra etichetta, la Manticore, due importanti band italiane, P.F.M. e Banco Del Mutuo Soccorso.
«Avevo incontrato Franz Di Cioccio (batterista della P.F.M., ndr) proprio in Italia. Mi aveva fatto ascoltare Celebration, che secondo me poteva diventare un successo anche in Inghilterra. Pubblicammo il disco sulla nostra etichetta, vennero a fare dei concerti e il singolo entrò nella hit inglese. Li portammo con noi in America e anche lì stava per succedere qualcosa di importante, ma per essere davvero una band internazionale avrebbero dovuto trasferirsi. Preferirono non farlo e mi dispiace perchè erano e sono musicisti eccellenti. Sono rimasto in contatto sia con loro che con il Banco e ci è capitato di suonare negli stessi festival».
Il libro termina con l'ultimo grande concerto di ELP, nel 2010, al festival High Voltage di Londra. Che ricordi ha di quel momento?
«Sapevo che sarebbe stato il nostro ultimo show. Fu molto difficile prepararlo. Keith e Greg già non stavano bene, ci vollero cinque settimane di prove per eseguire brani che conoscevamo a memoria da 40 anni. Alla fine non fu il concerto che avremmo voluto, e il pubblico se ne accorse. Non ho mai ascoltato la critica, il pubblico è quello che conta. Sono quelli che comprano i biglietti e i dischi, e in quell'occasione volevano vederci insieme un'ultima volta. Lo sapevamo, dunque tutti e tre ci impegnammo al massimo. Una settimana dopo chiamai gli altri e dissi: amici, mi piange il cuore ma secondo me è meglio se chiudiamo qui. Non la presero bene, specie Greg, ma ci voleva qualcuno che lo dicesse e in quell'occasione toccò a me».
Eravate rimasti in contatto negli ultimi anni?
«Mi sentivo con Keith, avevamo un nuovo progetto insieme. La telefonata che mi comunicò il suo suicidio la ricevetti dopo un concerto in Italia, a Carrara. Con Greg non ci eravamo più sentiti negli ultimi quattro anni. Non voleva parlare della sua malattia».
Si sarebbe mai aspettato che Emerson si togliesse la vita?
«Lui aveva un grave problema a una mano, da anni. Lo avevo accompagnato io ad operarsi all'ospedale a Los Angeles, e sembrava avesse risolto ma il problema tornò e l'ultimo concerto fu molto difficile per lui. Poi la situazione peggiorò, dovette smettere di suonare e quella fu la causa. Era un musicista, non poteva sopportare di non mettere più le mani sulla tastiera. Quello che posso dire è che nel momento in cui anche io mi renderò conto di dover smettere, semplicemente prenderò un aereo e sparirò nel tramonto».
Simpsons, 35 anni fa la prima puntata: "Homer e Bart, eroi perdenti e spesso rivoltanti". La Repubblica il 19 Aprile 2022.
La serie di animazione di maggior successo di sempre. Repubblica ne scrisse per la prima volta nel 1991: "Una feroce parodia della middle-class americana che è riuscita in breve a far dimenticare altre celebri famiglie del cartooning statunitense, a cominciare dagli Antenati della Hanna & Barbera, che (nonostante l'ambientazione preistorica) tradiscono una matrice legata alla realtà del 1960".
Tante parole sono state spese per i Simpsons. Una serie che ha fatto la storia della tv, dell'animazione ma anche della società. Un'affermazione che non può che trovare tutti d'accordo, anche i più accaniti detrattori della gialla famigliola irriverente. Nascono 35 anni fa, dalla penna di Matt Groening, con una serie di corti che diventeranno una serie tv vera e propria nel 1989. Un successo planetario.
Era la fine degli anni '80 e a quei tempi le serie tv non arrivavano in tempo reale (o quasi reale) al di qua dell'Atlantico. Infatti i Simpson per attraversare quel tratto di oceano ci misero un paio d'anni, arrivando nel 1991. Per celebrare questo compleanno vi riproponiamo il primo articolo di Repubblica su di loro - a firma Oscar Cosulich - che risale al 28 aprile 1991.
In realtà, la prima citazione risale a un anno prima, all'interno di un articolo dedicato ai film d'animazione. Sempre a firma Cosulich. Si leggeva in un inciso sul costo dei programmi. "Succede così che realizzare una puntata dei Simpsons (la famigliola demenziale che ha conquistato l'America e arriverà da noi in autunno sugli schermi di Italia 1) costi 700.000 dollari, contro i 200/250.000 di un programma medio di questo genere".
E già dal costo si può capire come i Simpson abbiano cambiato radicalmente il mondo dell'animazione in tv.
I Simpson, la rivoluzione della tv irriverente
Quando Matt Groening aveva creato la bizzarra famiglia dei Simpsons per il Tracy Ullman Show non poteva certo immaginare di stare avviando uno dei più grandi successi del cartooning televisivo. Promossi rapidamente a titolari di un programma tutto loro Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie Simpson sono una feroce parodia della middle-class americana, eroi perdenti e spesso rivoltanti, protagonisti di crudi ritratti metropolitani.
Volendo fare un paragone musicale si può dire che i Simpsons stanno alla Disney come i rappers ai Pink Floyd. La bandiera della sgradevolezza, che grazie al segno di Groening è innanzitutto di sicuro effetto comico, è riuscita in breve a far dimenticare altre celebri famiglie del cartooning statunitense, a cominciare dagli Antenati della Hanna & Barbera, che (nonostante l'ambientazione preistorica) tradiscono una matrice legata alla realtà del 1960, irrimediabilmente superata da un piccolo delinquente come Bart Simpson.
Do the Bartman (che fin dal titolo è la parodia di Batman) ci mostra un grande saggio vocale di Bart (la voce è della bravissima Nancy Cartwright, opportunamente sottotitolata e lasciata in versione originale), per una sorta di videoclip promozionale dell' album Sing The Blues, interpretato dalla famiglia al completo.
Sullo schermo scorrono immagini comiche e apocalittiche che, pur esulando dalla abituale struttura di questi cartoons, ne rendono perfettamente lo spirito. Da notare poi che i Simpsons, realizzati grazie a una collaborazione tra la Fox e la Gracie Films, hanno un curioso legame con Tim Burton: tra gli animatori coinvolti nelle loro vicende c' è infatti Brad Bird, già regista di Family Dog (cortometraggio abbinato ad Alla Ricerca della Valle Incantata e ora personaggio protagonista di una serie tutta sua), il cui design era curato proprio da Burton, ex-cartoonist passato al cinema dal vero senza aver dimenticato i vecchi amori.
La favola del Maggiolino, 50 anni fa lo storico record. Nel febbraio del '72 la casa tedesca toccò i 15 milioni di auto vendute. La Repubblica il 18 Febbraio 2022.
Cinquant'anni fa il record. Oltre 15 milioni di modelli venduti. Il Maggiolino della Volkswagen mise a segno il primato di produzione.
Erano le 13.45 del 17 febbraio 1972, quando il numero 15.007.034 del modello della casa tedesca superò la produzione di auto, fino ad allora detenuto dalla Ford Model T.
Per celebrare il traguardo venne creata la serie speciale 'der weltmeister' ('campione del mondo'), che aveva a bordo una "ricca dotazione di serie e alcuni accessori dedicati".
Prodotto in serie dal dicembre 1945, "con la sua costante evoluzione il Maggiolino seppe diventare un bestseller e un simbolo non solo nella Germania occidentale, ma anche in molti mercati di esportazione".
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
Eredità Agnelli: le carte del notaio von Grünigen sui testamenti di Marella. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.
Mentre John, Lapo e Ginevra Elkann poche settimane fa hanno deliberato di prorogare di 10 anni il termine della loro società personale (la Dicembre), nel procedimento torinese sulla faida familiare emergono le carte del notaio svizzero esecutore testamentario di Marella Caracciolo, la nonna degli Elkann. Si chiama Urs von Grünigen; in pensione da un paio d’anni, si dedica all’escursionismo, alla cucina e a difendersi dalle accuse di Margherita Agnelli sulla falsità dei testamenti. Ma come è finito in mezzo al conflitto Agnelli-Elkann questo sconosciuto professionista svizzero, unico soggetto senza legami di parentela con la famiglia? Cosa dice nelle carte depositate a Torino? E lo scontro giudiziario tra madre e figli è del tutto scollegato dalle manovre sulla Dicembre? Perchè prorogare al 2060 una cassaforte familiare, tra le più ricche e potenti in Europa, che aveva scadenza nel 2050? Facciamo il punto e un breve riassunto dei soggetti in campo.
Madre e figli
Margherita Agnelli, 67 anni, rimasta unica figlia dell’avvocato Gianni Agnelli e di Marella dopo il suicidio nel 2000 del fratello Edoardo a 46 anni, è madre di otto figli: i tre Elkann avuti giovanissima (tra i 20 e i 24 anni) nel primo matrimonio e i cinque de Pahlen con il secondo marito.
John dal notaio
Andiamo al 7 novembre scorso. Fuori da un’aula del tribunale di Torino si affollano i giornalisti per un’udienza, che sarà interlocutoria, nella causa sull’eredità. Lo stesso giorno, intorno alle 19, in un ufficio del Lingotto, davanti al notaio Remo Morone, viene decisa una «modifica dei patti sociali della Dicembre società semplice». Sono presenti di persona John e Ginevra Elkann mentre Lapo è rappresentato da Gianluca Ferrero, un professionista vicino alla famiglia che di lì a poco sarà nominato presidente della Juventus, decapitata dall’ inchiesta sui bilanci.
Il cuore dell’impero
La Dicembre, che ha sede proprio nello studio Ferrero, è il cuore dell’impero e del potere di John Elkann. Un tempo era controllata da Gianni Agnelli che nel 1996 fece entrare il nipote con una piccola quota. Lo incoronò tre anni dopo facendo scrivere nello statuto che in caso di sua morte o interdizione tutti i poteri sarebbero passati a John Elkann. Il resto è un’esecuzione del volere dell’Avvocato con il nipote che progressivamente sale fino al 60%, tra acquisti propri e donazioni della nonna Marella, con Lapo e Ginevra al 20% ciascuno. Secondo una perizia commissionata pochi mesi fa da Margherita Agnelli al professore della Bocconi Fabrizio Redaelli, la società degli Elkann valeva 4,6 miliardi nel 2019, anno della morte di Marella. Perizia e data non casuali: Margherita e i suoi figli de Pahlen ritengono infatti, nel più ampio disegno di azzerare ogni atto ereditario, di poter rivendicare diritti anche sulle quote della cassaforte. E questa, ragionevole, velleitaria o folle che sia, è comunque una pretesa sottoposta all’alea della decisione di un giudice.
La Dicembre detta legge
La ragione di vita della Dicembre è gestire la partecipazione del 38% nell’olandese Giovanni Agnelli bv, l’ex accomandita che raccoglie decine di membri della famiglia Agnelli ormai allargata a numerosi altri cognomi. Ma con quel 38%, che è una maggioranza relativa, detta legge anche sulla governance e sulle decisioni strategiche della holding di partecipazioni Exor che gestisce, tra le altre, quote rilevanti in Stellantis (14,4%), Ferrari (23%), Cnh (27%) e ha il controllo di Juventus (64%), del gruppo editoriale Gedi (La Repubblica, La Stampa ecc), per un valore totale intorno ai 30 miliardi. Giusto un anno fa era scattato il voto multiplo su Exor aumentando la presa della famiglia che con il 52% del capitale controlla l’85% dei diritti di voto.
La modifica dei patti
Dunque ogni piccola mossa della Dicembre viene soppesata, analizzata, interpretata da uno stuolo di manager, banchieri, avvocati, investitori che fanno parte della filiera o seguono il gruppo dall’esterno. La politica (legittima) di privacy societaria concorre ad alimentare ancor di più teorie e congetture. Il 7 novembre viene presa un’unica decisione: prorogare il termine della società dal 2050 al 2060. Quindi non era in scadenza. Forse la società ha contratto obbligazioni che andavano oltre il 2050? O l’ha fatto qualche controllata con l’esigenza di adeguamento della capofila? Tra le altre è circolata anche l’ipotesi che la proroga con relativa modifica dei patti serva a riaffermare semplicemente davanti a un notaio lo status e l’assetto giuridico attuali della società. Oppure sia strumentale ad aprire una finestra per un socio che vuole recedere. Ma chi? John che potrebbe isolare e blindare la quota di maggioranza, magari in un trust? Congetture, speculazioni, appunto. Poi però abbiamo avuto una spiegazione tecnica, anche se un po’ criptica, da fonti vicine alla famiglia: la durata massima è stata aggiornata portandola al livello dell’età media attesa, calcolata sul socio più anziano. Cioè John, nato nel 1976 che nel 2060 avrà 84 anni. Una sorta di adeguamento alla normativa e alla giurisprudenza in materia di società semplici.
Torino e la Svizzera
Al tribunale di Torino l’altra partita in corso è cominciata nel febbraio 2020 quando Margherita e quattro dei suoi figli de Pahlen, assistiti dall’avvocato Dario Trevisan, hanno chiamato in causa i tre Elkann ritenendo illegittima la successione, a loro vantaggio, prima di Gianni Agnelli, morto nel 2003 e poi di Marella, scomparsa nel 2019. E in mezzo ci è finito anche il notaio von Grünigen. Adesso siamo in prossimità di una decisione di merito ma i legali degli Elkann, Eugenio Barcellona e Carlo Re, hanno sollevato una questione pregiudiziale, cioè la competenza di Torino a giudicare visto che in Svizzera sono in corso procedimenti sulla stessa materia. Il tribunale dunque dovrà esprimersi sul difetto di giurisdizione. Italia o Svizzera? È anche una delle questioni chiave contestate da Margherita alla successione della madre: si è radicata infatti in terra elvetica, compreso il testamento a favore dei tre Elkann, ma Marella - in questa prospettiva legale sostenuta da corposa documentazione ma altrettanto documentalmente avversata dalla controparte - non aveva residenza abituale in Svizzera dunque l’ordinamento è quello italiano che però vieta i patti successori.
Incognite e certezze
Se passasse questa tesi potrebbe vacillare uno dei vecchi capisaldi (il patto successorio) dell’intero impianto dell’eredità Agnelli e, in teoria, Margherita potrebbe aspirare alla quota del 50% del patrimonio materno con possibili impatti sugli assetti della cassaforte Dicembre. È una costruzione piena di «se» e dalle incognite giudiziarie ma non scalfisce le certezze dei legali degli Elkann secondo i quali gli assetti della Dicembre non possono essere messi in discussione e nemmeno gli accordi originari onnicomprensivi di Margherita sull’eredità dell’Avvocato e sulla rinuncia a quella della madre (in cambio di 1,3 miliardi), tant’è che ha perso in tutti i tribunali.
Urs von Grünigen
Il notaio Urs von Grünigen viene coinvolto proprio perché esecutore testamentario e poi amministratore dell’eredità (nominato dal Comune di Luenen) fino all’esito della controversia. Quindi a oggi, dopo tre anni, è tutto fermo, congelato: non si è ancora proceduto alla divisione dei beni tra cui la villa di Sankt Moritz Chesa Alkyone destinata a John (4.299 mq di abitazione e 4.272 mq di parco), Chesa Medzi per Lapo (1.245 mq e 1.876 mq) e la casa di Lauenen per Ginevra (1.107 mq).
I dubbi di Margherita
Margherita sostiene che la madre sarebbe «stata indotta a rilasciare il testamento, nonostante non ne potesse comprendere la portata» e che per motivi di salute fosse «minata nella sua effettiva capacità naturale a testare». Inoltre le tre versioni del testamento svizzero del 2011, 2012 e 2014 sarebbero invalide per vizi di forma: notaio e testimoni non parlerebbero l’italiano e Marella non parlava il tedesco, è sbagliata la data di nascita, le firme sono tremule, l’ultima «irriconoscibile». A supporto ha presentato perizie grafologiche. E durante il procedimento torinese i suoi legali hanno chiesto, senza ottenerla, che fosse ammessa una querela di falso del testamento (strumento processuale che non ha alcun collegamento con la querela penale).
«Marella capace di intendere e volere»
Il notaio di Gstaad, chiamato in causa e assistito dall’avvocato Giorgio De Nova, ricorda che le iniziative giudiziarie «promosse in Svizzera» da Margherita «per rimuoverlo dall’incarico (tenute significativamente celate a codesto tribunale) sono state integralmente respinte». Margherita aveva chiesto al notaio formali informazioni sulla successione Caracciolo e sulle operazioni di inventario, senza ottenere risposta. Si apprende dal documento prodotto da von Grünigen che in Svizzera pendono ben tre giudizi (denominati Thun II, Ginevra III e Thun I) sulle stesse materie trattate a Torino. «Marella Caracciolo - sostiene il notaio - era pienamente capace di intendere e volere nel momento in cui ha comunicato le proprie ultime volontà». E oggi Margherita e i suoi figli sono «definitivamente estranei alla Successione Caracciolo e quindi anche alle attività del notaio quale esecutore testamentario e amministratore dell’Eredità Caracciolo», quindi non hanno alcun titolo «per chiedere l’esonero del notaio da tale incarico e l’accertamento di suoi pretesi obblighi di rendere il conto della gestione dell’Eredità Caracciolo».
L’eredità degli Agnelli, Margherita e la rete (già nota) di finanziarie off shore. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.
Torna a galla (lo scrive oggi Il Fatto Quotidiano) la vecchia storia della rete offshore creata per custodire un parte riservata del patrimonio di Gianni Agnelli, morto nel 2003. Si tratta di finanziarie, costituite a fine anni ‘90 e smantellate anni fa, per lo più domiciliate alle Isole Vergini i cui nomi e referenti (Bundeena, Silver Tioga, Layton ecc), oltre che negli atti della causa civile in corso a Torino, erano stati al centro di un procedimento penale a Zurigo, intentato da Margherita Agnelli contro Morgan Stanley, e chiuso da tempo con l’archiviazione.
Le holding da 900 milioni
Alcune di queste holding che custodivano un patrimonio stimato da 900 milioni - come ha scritto il Corriere nel settembre 2021 - erano riconducibili a Marella Caracciolo, la vedova dell’Avvocato scomparsa nel 2019, mentre altre 15 erano genericamente attribuibili a “members of the Agnelli family”. La ricostruzione della rete offshore è uno degli elementi a sostegno della tesi legale di Margherita, ovvero di essere stata tenuta all’oscuro di una parte consistente dell’eredità Agnelli. La tesi di un «presunto tesoro nascosto è una storia assai vecchia e da tempo conclusa», secondo i legali degli Elkann.
Gli accordi
Nel procedimento civile torinese la figlia dell’Avvocato (e madre, tra l’altro, di John, Lapo e Ginevra Elkann), intende invalidare la successione di sua madre Marella Caracciolo (morta nel 2019), «l’accordo transattivo» sull’eredità dell’Avvocato (da cui ha ricevuto asset per oltre un miliardo) e il «patto successorio» del 2004 con la madre (con il quale ha rinunciato all’eredità materna). Insomma tutti gli atti dell’eredità Agnelli che, tra l’altro, hanno consolidato l’assetto attuale del gruppo Exor (Stellantis, Ferrari ecc), con al vertice John Elkann. La successione di Marella, inoltre, secondo Margherita doveva ricadere sotto il diritto italiano e non svizzero perché la madre non aveva residenza abituale in terra elvetica. Su questo passaggio tecnico decisivo si pronunceranno, probabilmente a inizio 2023, i giudici torinesi.
La signora degli anelli. Nicola Santini su L’Identità il 10 Novembre 2022
Si è riaperto un fronte mai dismesso. Che va avanti da vent’anni e che sembrava essere giunto ad una tregua, sintomatica solo di calma apparente. E di un sistema giudiziario che non ha mai troppa fretta. L’ascia di guerra tra Margherita Agnelli, unica figlia in vita dell’Avvocato, e il figlio John Elkann, patron Fiat o di quel che ne rimane, nonché erede più liquido di un patrimonio enorme, non è mai stata sepolta.
Dalla morte di Gianni Agnelli in avanti, è stato un susseguirsi di rivendicazioni patrimoniali, cause legali e accuse. E nemmeno la morte di Marella Caracciolo di Castagneto, madre e nonna delle parti, è servita a riunire una famiglia dove i rapporti sono scanditi solo dalle udienze e dagli scambi di carte bollate. Sui due fronti ci sono Margherita Agnelli de Pahlen contro i tre figli John, Lapo e Ginevra Elkann. Ieri per una divisione, a detta della prima, estremamente sbilanciata nell’assegnazione di case, titoli, opere d’arte e denari, quando morì il padre, oggi per la successione di donna Marella, che ha indicato i tre nipoti Elkann (figli di Margherita e dello scrittore Alain Elkann) come suoi unici eredi, dimenticando, di fatto, che Margherita ha anche altri figli dal secondo matrimonio con il conte de Pahlen, che sono cinque.
Lunedì 7 novembre – la giudice del tribunale civile di Torino Nicoletta Aloj ha sentito per circa due ore i legali delle rispettive parti: Carlo Re ed Eugenio Barcellona per i fratelli Elkann e Dario Trevisan per Margherita Agnelli. Da quanto ne sappiamo- udienza a porte chiuse- i legali hanno depositato nuove memorie. E il giudice si è riservato la decisione sulla data di rinvio.
Il tribunale di Torino si dovrà pronunciare sulla questione territoriale, ossia la giurisdizione di competenza: Torino o la Svizzera, i due fronti sui quali si dovrebbe decidere e che potrebbero cambiare le sorti del procedimento.
La posizione di Margherita Agnelli segue fatti inconfutabili: nonostante il domicilio in Svizzera, tutti sapevano che la madre viveva in Italia. I fratelli Elkann invece sostengono che Marella Caracciolo avrebbe vissuto in Svizzera non soltanto negli ultimi anni della sua vita, ma anche, pensate un po’ nel 2004, quando sono stati firmati gli atti dalla madre, con i quali si è regolata la privazione da parte della stessa dei beni del padre in cambio di 1.2 miliardi di euro e con essi anche il patto successivo in cui rinunciava alla futura eredità della madre. Parte essenziale degli accordi del 2004 riguardava anche la quota della Dicembre, la fetta più grossa del patrimonio, ossia la società che controlla un’infinità di gruppi tra cui Exor, tra Stellantis, Ferrari, Juventus, il gruppo Gedi (per intenderci la Repubblica e La Stampa), The Economist, Cnh, Iveco, Louboutin e altre partecipazioni finanziarie. Margherita, infatti, aveva venduto il suo 33% alla vedova Agnelli, si disse “per ristabilire la pace in famiglia”.
La decisione tanto attesa del Tribunale di Torino servirà ad accertare se su questa lotta intestina all’interno della Dinasty Italiana debba valere il diritto testamentario elvetico o quello italiano.
Cosa vuol dire? Se il tribunale di Torino dovesse far valere il diritto svizzero, il procedimento sull’eredità potrebbe chiudersi una volta per tutte e la avrebbero vinta gli Elkann. In caso di decisione opposta, se la battaglia fosse da combattersi nelle sedi legali italiane, se dunque fosse riconosciuta come giurisdizione di competenza l’Italia per affrontare il procedimento, allora l’impero Agnelli di oltre 4.6 miliardi di euro potrebbe essere messo in discussione. E la figlia dell’Avvocato avrebbe portato a casa quello che per lei è sempre stato l’oggetto di un principio di equità prima ancora che una vagonata di soldi.
A sostegno di Margherita, secondo la quale gli interessi di Marella sono sempre stati in Italia, un maniacalmente dettagliato dossier che ricostruirebbe, giorno dopo giorno, gli spostamenti della vedova Agnelli negli ultimi 15 anni su questa terra. L’atto di citazione di Margherita, circa 200 pagine compilate dall’avvocato milanese Dario Trevisan, mette nero su bianco la visione di scenario di un vero e proprio complotto mirato “alla totale esclusione della figlia e dei suoi discendenti, figli del conte Serge de Pahlen, dalla successione Caracciolo”La figlia dell’Avvocato sostiene nei carteggi che la madre sarebbe “stata indotta a rilasciare i testamenti, nonostante non ne potesse comprendere la portata” in quanto per motivi di salute fosse “minata nella sua effettiva capacità naturale a testare”.
Sul fronte Elkann si fa presente che la signora già dagli anni ‘70 aveva il domicilio a Saint Moritz con iscrizione all’Aire e che una vecchia indagine fiscale dell’Agenzia delle Entrate sull’eredità Agnelli aveva confermato che Marella era regolarmente residente in Svizzera dagli anni ‘70. In più, John, Lapo e Ginevra Elkann nella loro memoria replicano che nel 2004 “due fondamentali accordi sono stati negoziati e liberamente sottoscritti” da Margherita, che grazie ai quali ha ottenuto 1,2 miliardi.
Gianni Agnelli, il certificato stravolge la storia della famiglia: clamoroso in tribunale. Marco Bardesono su Libero Quotidiano il 09 novembre 2022
«Ne bis in idem» è una massima latina a cui si richiama il codice penale e per la quale non si può essere processati due volte per lo stesso reato. Massima che non si applica nel Diritto Civile, tant' è che Margherita Agnelli ha intentato per la seconda volta (la prima fu nel 2007), pur con alcuni distinguo, una causa per ottenere il riconoscimento della sua parte di eredità del papà (Gianni Agnelli) e, in linea diretta, quella della mamma Marella Caracciolo. Non che la figlia dell'Avvocato sia stata diseredata, ma a suo dire una parte più che cospicua dei beni di famiglia le fu nascosta, e fu costretta «in buona fede» a firmare nel 2004 «un patto successorio in cui rinunciava alla futura eredità della madre» a fronte di una buona uscita di 1,2 miliardi di euro.
Oggi in palio c'è un impero: 4,6 miliardi e le quote della società Dicembre, fondata dagli Gianni Agnelli e che controlla una galassia di gruppi che valgono 28 miliardi, tra cui Exor, Stellantis, Ferrari, Juventus, Gedi (Repubblica, La Stampa), The Economist, Cnh, Iveco, Louboutin e altre partecipazioni finanziarie. Ieri mattina alle 12 di fronte al giudice Nicoletta Aloj si è svolta l'udienza a porte chiuse, presenti il legale della signora de Pahlen (cognome di Margerita Agnelli, acquisito dal secondo marito), l'avvocato Dario Trevisan, e quelli dei tre fratelli Elkann (John, Lapo e Ginevra, eredi di Gianni e Marella), figli di primo letto della stessa Margherita (che ha altri cinque figli nati nel secondo matrimonio), gli avvocati Carlo Re e Eugenio Barcellona. In verità la causa era stata intentata nel 2020, un anno dopo la scomparsa di Marella, ma si era arenata per la pandemia. Ieri giudice, parte e controparte hanno stabilito il calendario delle prossime udienze.
Margherita ha deciso di adire per vie legali a Torino perché chiede che alla faccenda venga applicato il diritto successorio italiano e non quello svizzero. Infatti, per l'eredità di Marella era stato richiamato il diritto testamentario elvetico (la moglie dell'Avvocato era residente in Svizzera) che di fatto non consente alcuna impugnazione, mentre in Italia la materia è meno rigida e a Margherita un giudice potrebbe dare ragione. La prima decisione del magistrato riguarderà proprio la competenza territoriale, svizzera o italiana, e solo successivamente, se il Tribunale di Torino accerterà la propria competenza, si entrerà nel merito della attribuzioni. Margherita de Pahlen sostiene che la residenza elvetica della madre fosse fittizia e, per dimostrarlo, aveva assoldato anche alcuni investigatori privati che hanno redatto un'informativa conclusiva delle loro indagini nella quale si dimostrerebbe che la vedova di Gianni Agnelli avrebbe «trascorso più tempo in Marocco che in Svizzera, mentre la maggior parte del tempo lo passava tra Roma e Torino».
Dalle memorie redatte da Margherita Agnelli e presentate in giudizio, la figlia dell'Avvocato afferma di essere stata «vittima di escamotage orditi dai consulenti della madre Marella e preordinati alla sua esclusione dall'eredità». Dal canto loro, invece, i figli sostengono che Margherita abbia perseguito «il vano obiettivo di screditare nell'ordine: madre, consulenti del padre e i propri figli primogeniti. Margherita in realtà scredita - tristemente - solo se stessa».
Infine, per Margherita Agnelli tornare a essere l'erede di questo impero significherebbe mettere le mani sulla quota che spetterebbe agli eredi diretti in Italia, ovvero il 50%. I giudici (è prevista la sede collegiale), dovranno passare al vaglio carte e memorie per raggiungere una decisione sulla competenza territoriale e per questo si dovrà attendere la primavera del 2023..
Fabrizio Massaro per “MF” l’8 novembre 2022.
C'erano persino i carabinieri ieri mattina davanti alla porta della giudice civile di Torino Nicoletta Aloj per evitare la ressa di cronisti attirati dall'udienza - rivelata sabato scorso da MF-Milano Finanza - della causa Margherita Agnelli contro i figli John, Lapo e Ginevra Elkann per l'eredità della madre (e nonna) Marella Caracciolo, la vedova di Gianni Agnelli, nonché per la «petizione» dell'eredità di quest' ultimo nella parte che secondo Margherita non è stata ritrovata né rendicontata.
Ed è quest' ultima una delle novità che stanno emergendo da questa storia familiar-giudiziaria che potrebbe stravolgere gli assetti di controllo di Exor. Valore stimato (dai periti di Margherita): 4,65 miliardi alla data della morte di Marella nel febbraio 2019. Oltre ai testamenti della madre, Margherita chiede che siano riportati nell'eredità del padre quadri di artisti famosi come Giacomo Balla, Giorgio De Chirico, Francis Bacon, Claude Monet, Jean-Léon Gérome e il patrimonio che sarebbe stato tenuto fuori dall'asse ereditario detenuto in alcune società all'estero, stimato in circa 580 milioni di dollari nel 2003, alla data della morte dell'Avvocato.
La causa è giunta ieri a un momento decisivo, dopo uno scontro tra principi del foro durato un'ora e mezzo. Da una parte il legale di Margherita Agnelli, Dario Trevisan, dall'altro Carlo Re e Eugenio Barcellona dello studio Pedersoli, difensori dei tre Elkann, e il professor Giorgio De Nova che assiste l'esecutore testamentario di donna Marella, Urs von Grünigen. È stata un'udienza di «precisazione delle conclusioni» combattuta a colpi di memorie e contro-memorie, con allegati perizie grafologiche, verbali di Agenzia delle Entrate, documenti, fatture.
Tutto per dimostrare, da una parte, e confutare, dall'altra, la questione fondamentale: dove era davvero residente abituale Marella Caracciolo? In Italia, come sostiene la figlia, o in Svizzera come ribattono i tre nipoti e dove sono già pendenti altre cause per questioni legate sempre all'eredità di Marella? La decisione del giudice (o, meglio, del collegio della seconda sezione civile) tecnicamente riguarderà una questione preliminare; ma è la chiave di volta della causa, perché da essa dipende il diritto applicabile.
Se fosse quello italiano, verrebbe rimesso in discussione il «patto successorio» di diritto svizzero siglato nel 2004 da Margherita di rinuncia alla futura eredità della madre, che a sua volta è legato all'«accordo transattivo» sull'eredità del padre. Per essi Margherita nel 2004 ottenne 1,2 miliardi di euro, in una fase in cui la Fiat era in grave difficoltà. Margherita Agnelli e i cinque figli avuti dal secondo marito Serge de Pahlen, anch' essi parte nella causa, hanno giocato le loro carte, i legali degli Elkann anche, la giudice si è riservata di decidere senza fissare un termine.
Secondo la ricostruzione effettuata da Margherita, tra il 2003 e il 2018 Marella ha trascorso in media 189 giorni l'anno in Italia, 94 in Marocco e solo 68 in Svizzera. Esiste anche un dossier predisposto dall'agenzia investigativa Swiss East Affairs, che ha messo in fila gli spostamenti degli aerei e dei jet privati usati da Marella per i trasferimenti tra l'Italia e il Marocco. Persino i passaporti sono stati analizzati: i rinnovi nel 2008 e nel 2017 sono avvenuti in Italia, sostiene Margherita, e non presso il consolato in Svizzera come accade con i residenti abituali all'estero.
A Villa Frescot, tra la quindicina di persone di servizio, c'era un ufficio amministrativo che si occupava di gestire gli affari di Marella, l'assistenza sanitaria, i viaggi, le visite. La difesa degli Elkann è invece che i beni dell'Avvocato erano noti e i capitali esteri erano di Marella già prima della morte di Gianni, e che inoltre non si può dubitare della residenza di Marella in Svizzera, dove aveva il domicilio già dagli anni '70 con tanto di iscrizione all'Aire e importanti proprietà immobiliari. Circa Dicembre, la linea degli Elkann è da sempre che nessuna decisione - di tribunale italiano o svizzero - potrà incidere sulla quota di controllo di John.
"IO DENUNCIO LA SETTA, UN SISTEMA MAFIOSO”. IL BOMBASTICO TESTO DI MARGHERITA AGNELLI CHE FA DA INTRODUZIONE AL LIBRO MAI PUBBLICATO DI MARC HURNER, ‘’LES USURPATEURS’’, 2008, RIPRESO DA GIGI MONCALVO NEL SUO NUOVO LIBRO “AGNELLI COLTELLI”
Dagospia il 28 ottobre 2022. Da “Agnelli Coltelli”, di Gigi Moncalvo (ed. Vallecchi) - ESTRATTO
Il 23 ottobre 2008 è stato ultimato un libro, commissionato e voluto direttamente da Margherita Agnelli, che solo pochissime persone hanno potuto vedere e avere tra le mani. Ancora meno sono coloro che l’hanno potuto leggere. Si intitola Les Usurpateurs, Gli usurpatori. Sottotitolo: La storia scandalosa della successione di Giovanni Agnelli.
Il manoscritto è in francese, in copertina c’è la facciata della casa in cui Edoardo e Margherita Agnelli sono cresciuti a Torino, in corso Oporto. Il libro porta il logo Édition des Syrtes, la casa editrice di Ginevra di Serge de Pahlen, il marito di Margherita Agnelli.
L’autore è Marc Hürner, il consulente per l’intelligence finanziaria, che ha lavorato per Margherita per molti anni e poi, visto che i suoi preziosi consigli venivano disattesi o perfino seguiti al contrario, ha preferito occuparsi di altri grossi casi della sua agenzia e condurli in porto con successo, come ad esempio l’affaire di Bernard Tapie e del Crédit Lyonnaise in Francia.
Hürner vive a Bruxelles, è titolare della Fip, Financial Intelligence & Processing, guida un pool di esperti di ingegneria e investigazione finanziaria, di lotta contro la criminalità, la frode, il riciclaggio. È l’uomo che sa tutto sulla storia dell’eredità Agnelli, sulla consistenza del patrimonio estero dell’Avvocato, sui paradisi fiscali, su banche e finanziarie che custodiscono questo tesoro, su sigle societarie, fiduciari ed effettivi beneficiari, che in alcuni casi non coincidono con gli eredi, dato che Margherita non ha mai potuto accedere a questi beni. Hürner ha investigato sui buchi neri di questa storia e ha scoperto molte cose.
Per quella versione dell’ottobre 2008 di Les Usurpateurs, Margherita Agnelli aveva scritto di suo pugno una prefazione con le ragioni che l’avevano spinta a rivolgersi al Tribunale civile di Torino. Le ragioni di allora sono anche quelle di oggi. Sono passati quattordici anni, ma il testo è sempre attuale. È cambiato solo il nome di qualche avvocato. E la situazione si è fatta ancor più complicata ed esasperata.
Introduzione di Margherita Agnelli a “Les Usurpateurs”, di Marc Hürner, Édition des Syrtes
Perché io, Margherita, figlia di Giovanni Agnelli, ho deciso nel maggio 2007 di chiedere alla Giustizia italiana di ottenere dai consiglieri di mio padre la composizione reale e completa del suo patrimonio e della sua gestione negli ultimi anni della sua vita?
Semplicemente perché io ne sono oggi responsabile come legittima erede. Perché il 18 dicembre 2003, mi è stato fatto firmare un documento intitolato Proposta accettata le cui prime righe manoscritte erano «io accetto, pour gain de paix» e cioè per spirito di conciliazione, per avere la pace. E io ho firmato in nome di questa conciliazione, di questa pace tanto cercata, tanto attesa ma che non arriverà.
Si è venuto a sapere che queste parole non sono state riportate nella Transaction finale firmata il 18 febbraio 2004. Io ho firmato il 18 dicembre 2003 davanti a mia madre che continuava a non salutarmi da un anno e che fece lo stesso quel giorno. Avrei dovuto diffidare di più, ma invece mi sono fidata, ho avuto fiducia.
Fiducia negli avvocati, uno dei quali (Emanuele Gamna) è stato un amico d’infanzia che sembrava così vicino a noi. L’amore per la mia famiglia mi ha spinto ad accettare la divisione di ciò che sembrava essere il patrimonio di mio padre cosicché tutti vi trovassero il proprio tornaconto. Altrimenti, è ovvio, niente pace.
Sono andata perfino oltre poiché mi sono fidata della mia famiglia credendo che le questioni che ci riguardano sarebbero rimaste tra noi, nelle nostre mani, parlandone tra noi come è sempre stato per i nostri affari personali. Un affare di famiglia come una complicata successione non può essere regolato nel segreto, nel tabù, nel silenzio, nell’intrigo e nell’intelligenza offuscata e stordita dalla confusione e dalla paura. Prima si esce da questa paura, da questo orrore, e dopo sarà possibile ritrovare i nostri spiriti.
È stato molto peggio di quanto avrei potuto immaginare poiché la strada di non-ritorno era stata tracciata. La zizzania, i malintesi hanno devastato il paesaggio, la paura ha preso il posto della fiducia: questo elemento indispensabile per un buon rapporto con i miei figli era scomparso.
Ero diventata, a leggere certa stampa e a sentire le malelingue, agli occhi di tutti i miei figli, un mostro che aveva distrutto la propria famiglia spinta dalla sete di guadagno. «Defraudare mia madre» come hanno scritto certi giornalisti per ben caricaturare l’orrenda persona che io ero nel grande calderone molto borderline del patrimonio familiare.
E, per mettermi a tacere, hanno anche scritto che hanno dovuto darmi molti, molti soldi. La confusione delle intenzioni, la maleducazione se non l’assurdità e la villania mi hanno spinto a chiarire la situazione per cercare di ritrovare quel mondo cortese e benevolo che era stato il mio, almeno ai miei occhi e nel ricordo di molte altre persone.
I miei due avvocati, a ragione, si dicevano impotenti a porre rimedio a tutto ciò. Li mettevo continuamente al corrente della mia profonda perplessità riguardo alla situazione, ma il muro del silenzio e dell’indifferenza si erigeva tranquillamente, sotto i miei occhi, senza una piega. Mi dicevano senza sosta che io dovevo smetterla di porre e pormi domande perché tutto era sistemato.
Io volevo semplicemente sistemare le mie cose e andare avanti, per poter organizzare, tra l’altro, il mio lavoro secondo un certo ordine che mi pareva logico. Infatti, volevo regolare la mia successione.
Siamo alla fine di maggio del 2004 ma i miei avvocati eludono il problema: ciò non è più di loro interesse. Hanno ricevuto il loro ricco compenso di 25 milioni di euro, intascato l’assegno e per loro era finita, si fermavano lì. Questa somma di denaro era stata evocata proprio alla fine delle negoziazioni come un success fee.
Una volta firmato l’accordo, la parte avversa, senza che si sappia troppo chi potesse essere davvero, ha aggiunto al conto finale, come indennizzo, una somma supplementare di venti milioni per il mancato profitto sulla copertura o non-copertura degli averi in dollari del patrimonio. Non era molto chiaro.
Un colpo da maestro! Poiché sono io a dover pagare i miei avvocati col denaro venuto non si sa da dove su un conto della Pkb Privatbank che ha sede a Lugano e di cui il mio avvocato Jean Patry è presidente.
A partire dal mese di ottobre 2003 tutte le tracce delle riunioni che hanno avuto luogo fino a quel momento scompaiono. Le nuove riunioni si svolgono quasi o del tutto senza verbale: non c’è più bisogno di archiviare, il cliente è la parte avversa. Mi ci sono voluti anni per rendermene conto.
D’altronde, i miei due avvocati mi hanno detto di essere stati contattati da Grande Stevens fin dalle prime riunioni e che lui ha fatto capire loro di potersi fare carico dei loro onorari in maniera consistente. Essi mi hanno allora dichiarato, con la mano sul cuore, che non avrebbero mai accettato. Ma mi consigliarono di lasciarli far finta che avrebbero accettato poiché in quel modo avrebbero, con un po’ di fortuna, ricavato delle informazioni.
Ovviamente mi sono opposta ma, grazie al loro savoir faire dissuasivo e pieno di una saggia autorità quasi paterna, dissi a me stessa che forse avevano ragione. Dalila è riuscita ad avere Sansone con l’astuzia sì, ma soprattutto con la fatica, con un tormento infinito: e lui le ha rivelato il segreto della sua forza. E così si è arrivati a quella scellerata convenzione del 18 febbraio 2004.
Ed eccomi, come vi dicevo, nel mezzo di un guado. Avevo detto loro che lo scopo non era stato raggiunto e che ne avevo il presentimento sin dall’inizio benché questo scopo fosse di una semplicità evidente: bisognava semplicemente mettere in chiaro, tra me e mia madre, il patrimonio di mio padre perché era importante per tutte le persone coinvolte che fosse identificata e rispettata la comunione dei beni.
Mi sembrava logico: altrimenti come potevamo noi restare in comunione? Nel Codice civile italiano si parla giustamente di una comunione di eredità, proprio perché questa condivisione ci arricchisce della vita dell’altro, dello scomparso: lo condividiamo insieme nella vita, nei ricordi, nell’amore che abbiamo avuto per lui, in quello che ci ha lasciato. È anche una questione di responsabilità reciproca essere coscienti di un bene, è un dovere con cui sono cresciuta e un diritto che, semplicemente, mi tocca in eredità.
Nel preambolo della transazione del 18 febbraio 2004, si dice che le parti (io e mia madre) riconoscono che una controversia è sorta in relazione della successione di mio padre (Signor X) e che io ritengo di non essere stata informata in maniera precisa sulla consistenza del patrimonio del Signor X e sulle donazioni che quest’ultimo avrebbe potuto fare, sia riguardo ai beneficiari delle suddette donazioni, sia riguardo il loro ammontare.
Per stanchezza e, soprattutto, stremata da un tale dolore per aver perso mio padre, mia madre, mio fratello, i miei tre figli maggiori, cedo in nome di questa famosa pace. Il diritto così sigillato e muto e le orecchie dei miei due avvocati non vogliono proprio capirlo.
È a questo punto che mi decido ad andare a cercare un altro consiglio giuridico per regolare la mia successione. Siamo a maggio del 2005. Questo nuovo consiglio, dopo alcuni piacevoli incontri mi dice che sarà molto difficile, persino impossibile, mettere in piedi qualsiasi struttura per la mia successione poiché, essendo già io stessa nell’ombra, in generale questi problemi si ripercuotono sulla generazione futura.
Bene, adesso abbiamo un secondo avvocato che viene ad accompagnare il primo.
Stavolta è lo specialista delle successioni, in particolare della brillantissima successione di Heini Thyssen che è costata in onorari più della successione stessa, a quanto ho sentito dire dopo. Un ometto intelligente e vivace che prende molti appunti e documenti, li studia e per lui tutto si chiarisce, ma in realtà mi mette in un bel pasticcio.
Ad ogni modo, voglio solamente mettere in chiaro questa ripartizione, di modo che io possa a mia volta condividere e organizzare il mio lavoro di conseguenza. Eh no, quanto vuole, Signora? Cento, duecento, trecento? Qual è il suo prezzo? Stupefatti, io, mio marito Serge e il responsabile del family office, ci guardiamo, non abbiamo mai chiesto soldi, ma solo un semplice rendiconto e tutto ciò di cui ho bisogno per strutturare il family office.
Dopo aver tentato più volte di parlare di una cifra negoziabile, è stato chiaro che una sola cosa era necessaria a ristabilire l’ordine: il rendiconto.
A questo proposito, Gianluigi Gabetti è stato contattato e la sua risposta fu che «lui non ha niente a che vedere con questa storia, non è mai stato al corrente di nulla, ma mi fa sapere che posso serenamente occuparmi della spartizione tra i figli de Pahlen, poiché noi ci incarichiamo degli altri».
«Noi chi?». mi sono permessa di chiedergli, ma questa domanda non ha avuto risposta.
A tal fine, i miei primi tre figli non dovevano fare altro che firmare una convenzione in cui dichiaravano di rinunciare a essere miei eredi. Rinunciavano molto semplicemente a dei diritti che non conoscono nemmeno poiché per la Costituzione italiana, per degli italiani residenti in Italia, è questo il caso dei miei primi tre figli, è un atto considerato nullo. Senza aggiungere che quel noi si arrogava il diritto, ancora una volta, di usurpare i miei diritti, prima di figlia di Giovanni Agnelli e ora di madre. Di nuovo la divisione e non la condivisione!
Visti questi fatti, chiamo mio figlio Lapo per augurargli buon compleanno e ne approfitto per dirgli che vorrei rivederlo, passare qualche tempo con lui visto che non era più accaduto dopo la morte di mio padre. Siamo già a ottobre 2005, quasi tre anni dopo. Con mio stupore, mi risponde che non può parlarmi né vedermi fino a quando non avrò fatto la pace con suo fratello Jaki!
Cado dalle nuvole perché la transazione del 18 febbraio 2004 era stata firmata né più né meno per «gain de paix», per spirito di conciliazione, conferendo proprio a lui, in particolare a Jaki, sacri vantaggi; e dunque «di che cosa mi parli adesso?».
«Tu devi fare la pace» sono le sue ultime parole, e riattacca. Resto sbalordita. Tutti i miei tentativi di regali, lettere per i compleanni, Natale, Pasqua, sono rimasti lettera morta.
Devo prima fare la pace! Due giorni più tardi, Lapo è in coma per overdose.
Nessuno mi chiama: è l’avvocato amico che me lo fa sapere. Scendo immediatamente nonostante le dissuasioni e l’accoglienza glaciale che ricevo nella casa che fu di mio padre, dove ci sono tanti ricordi; sono pietrificata.
Lapo, al risveglio del coma, non vuole vedermi; gira la testa. Quando sente che suo fratello mi parla, allora gli chiede: «Perché se tu le parli, io non posso?».
In questi momenti tragici, di una violenza psicologica intensa che conoscono solo le vittime di dipendenze e le loro famiglie, ma anche l’enorme amore che questi esseri umani hanno la capacità di generare per guarire il male delle ferite che portano, abbiamo avuto un momento di tregua che mi ha permesso di tornare a Torino dalla mia famiglia.
Quel momento fu decisivo perché tutto ad un tratto mi sono resa conto di aver abbandonato i miei figli ad un sistema: non li avevo resi liberi accettando di vederli allontanarsi ma, al contrario, prigionieri di un mondo opaco, viscido, in cui tutto è sorvegliato, ascoltato, senza la minima libertà e in cui si è incessantemente giudicati e, se necessario, isolati.
Io denuncio la setta, un sistema mafioso. Dico all’avvocato Jean Patry: «Sono sconvolta» e non c’è la minima emozione. Le sue uniche parole di conforto sono che devo stare zitta e soprattutto che non devo pormi più domande!
Lo dico a Maître Vogt, il piccolo avvocato, il nuovo. Lo dico ovunque, laddove i miei deboli mezzi me lo permettano, a chi vuole o può intenderlo.
Oggi, lo dico chiaramente in queste pagine, poiché so bene che questo silenzio ostinato che già mio padre interponeva come una barriera tra lui, i suoi affari e la sua famiglia, non aveva niente di buono. Silenzio che il Signor Vogt mi ha assestato nel 2006 dopo 18 mesi di lavoro, dopo aver esaminato ogni angolino, ogni foglio del dossier, dopo averlo portato con sé nel suo ufficio. Mi annuncia all’improvviso l’inconveniente di un conflitto di interesse insorto inopinatamente con il gruppo Fiat.
Incredibile ma vero.
Un certo Gandini, genero di Franzo Grande Stevens, si fa allora portavoce del gruppo Agnelli per farmi sapere che Marchionne vuole avere lo studio di avvocati Bär & Karrer per curare gli interessi del gruppo Agnelli ma, ovviamente, essi devono decidere se vogliono continuare con me, dato che esiste un conflitto d’interesse!
Oggi, Bär & Karrer è anche l’avvocato dell’Ubs di cui Sergio Marchionne è amministratore, ovvio, no? Quali interessi... Anche se, deontologicamente, non è corretto.
Eccoci alla casella di partenza e a questo silenzio o mutismo, ma non è per niente la stessa cosa. Questo silenzio pesante e impenetrabile che solo verso la fine della sua vita mio padre cominciò a sfumare, facendo emergere una parvenza d’ordine nei suoi affari. I suoi ordini non sono stati eseguiti, Gianluigi Gabetti si defilava, Siegfried Maron ha detto delle cose completamente differenti da quanto si è scoperto nella gestione dei profitti di mio padre.
In linea di principio avrei dovuto occupare l’ufficio di Ginevra del gruppo Agnelli (Sacofint) così come mio marito, ma guarda caso, l’affitto era giunto a scadenza e visto che la congiuntura era così difficile, il Signor Gabetti aveva giusto potuto conservare il suo ufficio, la sala riunioni e qualche piccolo ufficio per la sua segretaria e qualche collaboratore di passaggio.
Ma niente più spazio per me e mio marito!
Non c’era più spazio. Oggi gli uffici sono stati spostati in un grande e comodo edificio, giusto a due minuti a piedi dalla casa di Gabetti, per i suoi eletti e sempre gli stessi collaboratori fedeli che in realtà non sono di passaggio.
L’ufficio di Zurigo (Sadco) suggerisce allora a mio padre che noi possiamo andarci una volta a settimana ogni quindici giorni per fare il punto con la Signora Ursula Schulte e il Signor Siegfried Maron. Invece no, non sarà possibile perché ci sono dei lavori in quel momento, ma appena la sistemazione sarà terminata, Gianluigi Gabetti dice che ce lo avrebbe fatto sapere.
Come sono stata ingenua e piena di fiducia.
Poi è arrivata la malattia di mio padre e le cose, ma soprattutto le persone, hanno organizzato il loro ordine, ma non quello che mio padre avrebbe voluto.
Oggi, quello che mi lascia stupefatta non è la mia ingenuità, né la mia fiducia, ma la malafede, l’astuzia, la violenza morale e psicologica, la disonestà innata o l’incompetenza con cui tutto quest’affare è stato condotto.
Ringrazio Marc Hürner e il suo team di aver messo i puntini sulle i e di aver pazientemente smontato la macchina e i meccanismi della manipolazione. Ci sono voluti degli anni, nessun avvocato tranne Charles Poncet ha voluto rivolgersi ad un analista finanziario. La ripartizione della successione è stata fatta, come si dice, su misura. Viste le perdite umane, morali, affettive e psicologiche sul tessuto familiare, non so bene come definire gli uomini che hanno tramato per escludermi dalla famiglia e per prendere un posto smisurato che non apparteneva loro.
Se provo a mettere in chiaro gli affari e i conti e, perché no, le menzogne che mi riguardano, è per pura necessità di vita, per il rispetto che porto a questa vita, per me stessa e per tutte le persone che ne sono coinvolte.
Un comportamento borderline è una strategia di vita, come molte delle nostre patologie. È di questo che si tratta a proposito della struttura finanziaria del gruppo Agnelli come appariva ai miei occhi. Essa ha una disfunzione.
Negli ultimi anni, tra le brigate rosse, il comunismo, la paura e la confusione, sono state allestite delle strutture per la protezione di un importante capitale o patrimonio familiare. Sono convinta che la gestione e il controllo del gruppo Agnelli, divenuti troppo complessi sotto molti aspetti, siano d’un tratto sfuggiti al controllo e alle mani di mio padre nel contesto generale dell’ormai famosa operazione Mani pulite (1992) in cui molti credevano di dover essere i prossimi ad essere colpiti.
Non è stato per niente divertente. Vi posso assicurare che è spossante vedere tutte le persone preoccupate, morire l’uno dopo l’altro, farsi sostituire da un vuoto di storia e di coscienza, di paura e di mutismo.
Chi governava allora il gruppo Agnelli?
Chi governava, più precisamente, durante i dieci mesi di agonia di mio padre?
Nessuno!
È la risposta: non se ne sa niente!
È il castello de La bella addormentata nel bosco. Tutti dormono un sonno
profondo sul trono dell’oblio ben controllato dal bravo Cerbero.
Nessuno sa, i documenti sono tutti stati bruciati, dicono Voser, Maron e Schulte: sì, tutto è stato bruciato, non c’è più alcuna traccia, nulla. È l’amnesia generale e l’euforia imperante.
Forse, perlomeno, le tracce di luce che abbiamo tentato di seminare sul lungo cammino potranno aiutare a comprendere meglio, quando tutto si fa nero, incomprensibile, opaco e ingiusto, che la coscienza è una forza di vita che ci aiuta a vedere. Senza questa luce non possiamo perdonare tutto il nostro passato per vivere in pace con noi stessi e con gli altri.
Questo libro non è una denuncia ma una constatazione dei fatti che mi sento in dovere di condividere con chiunque si senta coinvolto.
Estratto da “Agnelli Coltelli”, di Gigi Moncalvo (ed. Vallecchi), pubblicato da “La Verità” il 7 novembre 2022.
Margherita oggi è ancor più scatenata che in passato anche se, limitatamente alla propria posizione, ha tratto grossi benefici anche dalla morte di sua madre grazie al venir meno dell'usufrutto di cui Marella godeva su molti beni. Questo valore aggiuntivo è valutato in quasi 2 miliardi. In sostanza si tratta della stessa cifra che lei reclama, per legge pari al 50% dei beni lasciati dalla madre, anche se l'ha esclusa dal testamento.
La figlia ritiene infatti che le spettino non meno di 2 miliardi di euro dei 4 cui ammonta il patrimonio di Marella. [...] Non solo, ma Margherita si riserva di conoscere e calcolare anche il valore delle donazioni fatte in vita da Marella ai tre nipoti per vedere se sia stata superata la quota disponibile della defunta.
Nel caso lo sia stata, come appare da molti atti ante-mortem, chiede che venga aumentata la somma cui lei ha diritto e, di conseguenza, ridotte quelle lasciate a John, Lapo e Ginevra. [...] Margherita, proprio per questo insieme di ragioni, attuali e passate, ha impugnato tutti e tre i testamenti di sua madre. [...] In questa nuova guerra di successione, per dare ancora più forza alle proprie rivendicazioni, Margherita ha coinvolto quattro dei cinque figli de Pahlen: anche Pietro, Anna, Sofia e Tatiana (eccetto Maria) sono dunque entrati nella contesa contro John, Lapo e Ginevra Elkann con la stessa motivazione della loro madre: «I testamenti non sono validi».
Secondo le volontà della nonna, ai tre eredi da lei indicati spettano 1,3 miliardi di euro a testa (cioè un terzo di 4 miliardi). Se gli altri fratelli de Pahlen riuscissero a insinuarsi nella successione, i tre Elkann perderebbero 800 milioni, scendendo a 500 milioni a testa, cioè la stessa quota spettante agli altri cinque (diventerebbe difficile escludere Maria poiché è nipote a pieno titolo anche se non ha chiesto di invalidare il testamento).
Ma c'è un'ulteriore ipotesi.
Qualora Margherita vedesse riconosciuto il suo diritto ereditario, la massa successoria dovrebbe essere divisa per due: il 50% (cioè 2 miliardi) alla figlia, il restante 50% agli otto (o tre) nipoti. In tal caso ci sarebbero da spartire 2 miliardi tra i nipoti: 250 milioni per ciascuno. In sostanza la quota spettante a ciascuno dei tre Elkann che oggi è di 1,3 miliardi (o della metà se venisse riconosciuto valido il diritto successorio della loro madre) potrebbe ridursi scendendo di 800 milioni, oppure di più di un miliardo di euro a testa, rispetto alla quota attuale. Si tratta di un'ipotesi di non facile realizzazione.
Se il testamento venisse invalidato, Margherita potrebbe ottenere la metà, ma poche sarebbero le possibilità per i cinque nipoti esclusi, dato che la defunta non li ha nominati eredi. A meno che il tribunale non sia di diverso avviso. [...] In ogni caso, i figli de Pahlen, secondo i loro conteggi, reclamano almeno 1,1 miliardo. Se le richieste fossero accolte, l'impatto non sarebbe trascurabile sulle società di famiglia prima fra tutte la Dicembre, vertice di un impero da 30 miliardi.
Con una tale posta in gioco di denaro e di potere, i colpi di scena giudiziari non finiranno presto, poiché i tre eredi Elkann non sono rimasti a guardare e vogliono a tutti i costi scongiurare il pericolo di veder scendere il loro miliardo e 300 milioni iniziale fino a 500 milioni o, nell'altro caso, a 250.
Per questo, nel 2020, hanno avviato una causa civile a Torino chiedendo al tribunale di condannare la loro madre «al risarcimento del danno patrimoniale, reputazionale e non patrimoniale patito». Secondo i tre figli nati da Alain Elkann, Margherita ha arrecato loro un duplice danno: con gli accordi che aveva sottoscritto con Marella, in particolare il patto successorio in cui rinunciava ai suoi diritti ereditari, Margherita ha danneggiato i suoi eredi (tutti gli otto figli) senza pensare alla propria futura successione, ma soltanto per ottenere beni, denaro e opere d'arte che probabilmente i tre figli Elkann non erediteranno mai da lei.
L'accordo del 2004, secondo John & C., è andato e andrà quindi solo a vantaggio dei cinque figli de Pahlen. Per quanto riguarda il danno «reputazionale e non patrimoniale» lamentato dai tre Elkann, fanno fede, secondo loro, tutte le controversie, polemiche, campagne di stampa che ritengono siano state condotte dalla madre a detrimento della loro onorabilità.
In futuro, si potrebbe addirittura verificare il caso che i tre figli Elkann, quasi certamente esclusi dal testamento di Margherita, decidano di impugnarlo e chiederne l'annullamento pretendendo che venga rispettata la legittima cui hanno diritto sui beni della madre. Si tratterebbe di uno scenario incredibile in cui i de Pahlen si vedrebbero portare via una quota cospicua (tre ottavi) dell'eredità della madre a vantaggio dei ben più ricchi Elkann.
Per quando riguarda gli effetti del patto successorio, anche i de Pahlen, come gli Elkann, in via ipotetica potrebbero denunciare la loro madre per averli danneggiati perché, quando Margherita morirà, la sua massa successoria avrà un ammontare inferiore a quello che avrebbe potuto avere se non avesse rinunciato nel 2004 ai suoi diritti ereditari nei confronti di sua madre.
È davvero improbabile che i de Pahlen arrivino al punto di fare causa alla propria madre.
Tuttavia, non è da escludere una simile eventualità che potrebbe essere addirittura ispirata e appoggiata dalla stessa Margherita al fine di rafforzare l'obiettivo principale di tutto questo tourbillon giudiziario. Infatti, questa nuova offensiva legale fa parte di un quadro che ha uno scopo ben preciso, come dimostra anche la causa intentata in Svizzera da Margherita contro la madre nel gennaio 2018: l'annullamento degli accordi di Ginevra stipulati nel 2004, sia per la parte economica che, soprattutto, per la parte tombale sull'eredità di Marella.
Assistita dall'avvocato milanese Dario Trevisan, Margherita ha presentato un atto di citazione di oltre duecento pagine in cui delinea un complotto con l'accusa ai suoi consulenti dell'epoca di aver «adottato una serie di escamotage preordinati alla totale esclusione della figlia e dei suoi discendenti, ramo de Pahlen, dalla successione Caracciolo».
Il motivo? Occultare a Margherita il vero patrimonio del padre. In più, secondo lei, negli ultimi anni di vita la madre sarebbe «stata indotta a rilasciare i testamenti, nonostante non ne potesse comprendere la portata» dato che per motivi di salute era «minata nella sua effettiva capacità naturale a testare».
Attraverso giudici e avvocati Margherita spera di convincere John a cercare una soluzione extra-giudiziale. Tuttavia, John non è intenzionato ad allacciare alcuna trattativa [...]: «I due macigni di cui vorrebbe disfarsi» hanno scritto gli avvocati (di Elkann, ndr.) in un comunicato «sono due fondamentali accordi negoziati e liberamente sottoscritti proprio da colei che ora come nel 2007 vuole cancellarli dal mondo del diritto. È da circa un quindicennio che Margherita de Pahlen cerca di mettere in discussione gli accordi sulla successione del padre e della madre da lei voluti e sottoscritti nel 2004 e che le hanno procurato beni che, soltanto all'epoca, valevano circa un miliardo e trecento milioni di euro.
È proprio nel quadro di tali accordi che Margherita ha deciso di vendere le sue partecipazioni nella Dicembre società semplice, con atto non più reversibile. [...] Margherita de Pahlen ha stipulato gli accordi successori quando la Fiat era in difficoltà e ha così deciso di preferire, alla Fiat, ingentissime attività liquide e straordinarie opere d'arte. Non ha mai sostenuto di essere stata in alcun modo ingannata o indotta in errore». [...] La conclusione è netta: «Queste pretese temerarie, cui si resisterà con fermezza in ogni sede, non sono comunque in alcun modo idonee a mettere in discussione la partecipazione di maggioranza assoluta che John Elkann detiene nella società Dicembre».
Gli avvocati di Margherita, a loro volta, mostrano una identica risolutezza. C'è un episodio citato nella loro ricostruzione inviata ai giudici che lascia intuire quanto i rapporti familiari siano dominati da sospetti e diffidenze e condizionati dai codici e dalle strategie legali. Marella è morta da poche ore, i tre Elkann, la madre e gli altri nipoti accorrono a Villa Frescot. «Lo stesso giorno, cioè il 23 febbraio 2019» è scritto negli atti depositati dai legali di Margherita «John, Lapo e Ginevra Elkann, tramite l'avvocato Harold Frey di Zurigo, presentano un'istanza contro la madre negli uffici giudiziari del Cantone di Berna: chiedono ai giudici di pronunciarsi dichiarando che il patto successorio era valido e che Margherita Agnelli non è l'erede della defunta».
Col cadavere di Marella ancora caldo, dunque, ecco la mossa dei tre fratelli Elkann che ordinano all'avvocato svizzero di depositare subito quell'istanza, evidentemente già preparata in attesa che la nonna spirasse. Si trattava di un tentativo per anticipare e vanificare una mossa di Margherita che avverrà qualche giorno più tardi: poco dopo la morte della madre, Margherita aveva chiamato in giudizio John Elkann come «convenuto» in quanto principale erede della nonna. [...] Margherita si è rivolta anche al tribunale di Torino [...] chiedendo di far invalidare la successione della madre, l'accordo transattivo sull'eredità dell'Avvocato e il patto successorio del 2004. Insomma, di annullare e ricalcolare da capo tutta l'eredità Agnelli, sia quella di Giovanni che quella di Marella.
Estratto da “Agnelli Coltelli”, di Gigi Moncalvo (ed. Vallecchi), pubblicato da “La Verità” l’8 novembre 2022.
John Elkann come ha giudicato e come ha accolto le notizie sulla disfatta planetaria del cugino? Possibile che non fosse stato informato di quel progetto e non avesse fatto qualche valutazione o espresso, nel caso non gli piacesse, qualche perplessità sul ruolo preponderante e così esposto mediaticamente che la Juventus rivestiva nell'operazione? [...] Molti di coloro che lo conoscono bene si dicono certi che John non poteva non sapere.
E aggiungono un altro particolare. John ha adottato la sua consueta tattica, quella del silenzio e del fifty-fifty. Non ha preso posizione in nome della sua regola aurea che vale soprattutto col cugino: «Lasciamolo fare, tanto io in ogni caso ci guadagno qualcosa. Se tutto va bene, Exor incasserà i profitti e gli incassi della Superlega e quindi dovrà sborsare meno denaro per ripianare i debiti della Juve. Se invece tutto dovesse andar male, avrò ottenuto un altro grosso risultato: tutti avranno modo di capire quanto mio cugino è inadeguato, quali e quanti guai riesce a combinare, quanto sia inaffidabile per ruoli di rilievo e come ormai il suo tempo alla Juventus sia ampiamente scaduto». [...] John però non può continuare a nascondersi.
Glielo ha detto anche Mario Sconcerti, la firma più illustre del calcio in Italia: «Andrea Agnelli è quello che ha portato al macero un'idea miliardaria nonostante gli sponsor che aveva: che titoli ha adesso per essere lui a riproporla? I problemi tra i club e l'Uefa sono problemi di governance dell'intero movimento e vanno affrontati, ma c'entrano poco con il progetto Superlega che prevede un campionato europeo con 16 squadre fisse più quattro invitate, nessuna retrocessione, un blocco fisso di squadre promosse all'infinito in base alla ricchezza. O ha cambiato idea?».
[...] Andrea Agnelli deve (forse) aver cominciato a capire qualcosa quando ha visto che, dopo il primo ministro britannico Boris Johnson, perfino Mario Draghi interveniva sulla vicenda. E pensare che contava sulla pavidità dei politici e non li riteneva un ostacolo: e infatti, avete visto uno italiano entrare con decisione sull'argomento fin dalle prime ore? Temevano di inimicarsi Andrea, o meglio John e i suoi giornali? Persino Evelina Christillin, che sta sempre attenta a non dare fastidio, gli ha votato contro a Montreux in sede Uefa. Nei corridoi dell'Hotel Fairmont era la più scatenata contro Andrea (lontano da Torino il coraggio cresce). [...]
«Sono sempre stato juventino ma, dopo aver visto all'opera Agnelli, non riesco nemmeno più a tifare la Juve» ha dichiarato Paolo Del Pino, vicepresidente vicario della Federcalcio, che si è visto tradire sulla trattativa per far entrare i fondi d'investimento nel calcio. Il giornale della casa, La Stampa, ha perfino tirato in ballo la buonanima facendo scrivere in un articolo a Marco Tardelli (non c'era nessuno che avesse il coraggio di intervistarlo?) che «l'Avvocato direbbe di no».
E, quando in casa Fiat, si invoca Manitù, nell'alto dei cieli, e il suo grande spirito è un gran brutto segno. Pure il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha sfottuto Andrea: «È difficile immaginare un dirigente sportivo in grado di produrre un tale disastro e un atto di totale masochismo per la società che dirige. Sintetizzo: la Superlega è l'equivalente sportivo della Fiat Duna».
A John da molti mesi piace giocare come il gatto col topo ai danni del cugino. Il presidente di Exor e di Stellantis periodicamente mette le sue carte in tavola e fa filtrare questi concetti: le sue scelte riguardanti i manager della Juventus, il cui 63% è in mano ad Exor, si sono rivelate azzeccate. Aldo Mazzia, ex Exor, ha gestito ottimamente l'aspetto economico, altrettanto Beppe Marotta, amministratore delegato del club. Andrea li ha fatti fuori, si è visto con quali risultati I compiti di Andrea Agnelli - politica, sport, marketing e comunicazione commerciale - sono stati cannati in pieno.
Tutti sanno com' è andata a finire nel settore commerciale che era ben diretto da Francesco Calvo: le sue dimissioni all'indomani del love affair di sua moglie Deniz con Andrea avevano gettato il settore nel caos totale. Il giovane Agnelli, infatti, aveva pensato bene di non cercare un sostituto di Calvo, che tra l'altro era molto stimato e molto amico di John.
Anche l'altro impegno di Andrea - la politica sportiva - ha prodotto risultati ancor più disastrosi negli ultimi due anni: malgrado le vittorie della Juve, Agnelli non conta molto né in Lega né in Federcalcio, dove è uscito sconfitto su molti fronti. Ad esempio, non ha saputo usare quella che avrebbe potuto rappresentare una autentica bomba contro la Federcalcio: la richiesta di 581 milioni di danni per i danni subiti nella vicenda Calciopoli. La società bianconera rivendicava la disparità di trattamento sullo scandalo del 2006 e la mancata revoca dello scudetto di quell'anno, assegnato all'Inter nonostante l'emergere successivo di responsabilità nerazzurre in molte partite.
La Juventus non aveva dimostrato alcuna intenzione di arrendersi, per una questione di principio più che per concrete possibilità di veder riconosciute le proprie ragioni. Il Tar aveva dichiarato inammissibile una prima richiesta di 444 milioni, ma Agnelli aveva rilanciato al rialzo: nel ricorso al Consiglio di Stato, l'ultimo grado di giudizio della giustizia amministrativa, la richiesta era salita a 581 milioni.
Una cifra mostruosa, considerando che già la precedente sarebbe stata insostenibile per la Federcalcio, ma così motivata dai legali della società sul piano dei mancati ricavi: 31,6 milioni dalle partite, 24,3 dagli sponsor, 69 dai diritti radiotelevisivi, 245,6 per la perdita di valore del marchio, 57,6 per il valore dei giocatori e, infine, 85 per i danni legati ai ritardi nella costruzione dello Juventus Stadium. Tutto poi era finito nel nulla ma, secondo alcuni, Andrea Agnelli avrebbe dovuto utilizzare quest' arma per ottenere, in cambio della pace, altri tipi di trattamento a favore del club.
Anche in questa occasione la Juventus dimostrò gravi lacune sul piano della comunicazione. La scelta di Andrea di affidarsi in toto a Claudio Albanese non si è rivelata molto felice: tra i giornalisti sportivi, i suoi modi bruschi non hanno prodotto risultati. Anche se in effetti, invece di occuparsi di comunicazione, ha preferito la scalata dietro le quinte diventando il vero Rasputin di Andrea. E nemmeno questo piace al principale azionista.
John possiede una buona dose di perfidia, al di là di quanto sembra trasparire dal suo volto pallido e dell'aspetto in apparenza timido.
Periodicamente fa circolare l'indiscrezione, alternativamente, o di voler mettere in vendita il 30% della Juve a un «fondo straniero» non meglio precisato, oppure di voler sostituire Andrea. Con un patrimonio di 24 miliardi di dollari, John è uno degli uomini più influenti e ricchi dell'intero pianeta. Non gli piace essere circondato da cattiva fama e debiti, specie se non è lui a farli. Per questo avrebbe intenzione di vendere, a causa di un indebitamento netto che, al 30 giugno 2021, ammontava a 389,2 milioni di euro, Un dato sempre costante nel tempo: l'anno prima era stato di 385,1 e nel 2019 di 463,4 milioni. La holding della famiglia Agnelli, che detiene la maggioranza assoluta della Juventus, con una quota del 63,76%, tra poco più di un anno avrà un margine ancora maggiore per cedere quote di capitale senza perdere il diritto di gestire la società in piena libertà.
Andrea Agnelli si giustifica con la pandemia: «Nel biennio 2020-2021 il mondo del calcio ha accumulato perdite fino a 8,5 miliardi. Abbiamo avuto gli stadi vuoti per lungo tempo, in tema di diritti tv ci sono broadcaster che non pagano e contrazioni ovunque». Un segnale della situazione economica? L'ammontare degli stipendi della stagione 2020-2021 sarebbe stato spalmato in due anni, e il pagamento degli stipendi dei calciatori differiti. Ma in un modo che ha provocato le attenzioni della Procura della Repubblica.
Da molti mesi ormai Andrea Agnelli ha imboccato un vicolo cieco che ha portato a questa domanda: con quale credibilità può restare presidente della Juventus? Il meccanismo di fiducia si è rotto non solo con John, il vero padrone del vapore, ma anche con i tifosi e le istituzioni calcistiche europee e mondiali. I danni che si potrebbero riverberare sul club sono enormi e intuibili. Ancor più deleteria è stata questa ostinazione nell'accodarsi a Florentino Perez, al quale interessa di più portarsi a casa le autostrade italiane, tramite Abertis e Atlantia dei Benetton (anche se ne ha già migliaia di km in giro per il mondo) piuttosto che parare le terga ad Andrea Agnelli.
Il quale, alle spalle, non ha né il denaro, né il potere, né le risorse, né i 93.267 soci della Casa Blanca di Madrid. E se la deve vedere con inchieste non soltanto sportive che cercano di scoprire come sia stato possibile, con un solo milione di cash, realizzare plusvalenze per 250 milioni di euro. A dare risposte non bastano i cervelli finanziari (detestati da John) di cui Andrea si serve con fiducia cieca e assoluta: Francesco Roncaglio e i Ginatta, sia Roberto che Matteo.
Queste sono le circostanze che hanno creato voci di un avvicendamento al vertice della Juve. L'uomo jolly di Elkann è il cugino Alessandro Nasi. Diventa urgente per John resettare la situazione, ma non è facile. Il prossimo futuro è pieno di incognite. Intanto Andrea può scordarsi ciò a cui ambiva: il vertice della Ferrari, più potere in Exor, la granitica certezza che John riaprisse il portafoglio di Exor per il sesto aumento di capitale a favore della Juve. Alessandro Nasi? Perché no.
Sarebbe una bella rivincita anche per Alena Seredova, compagna di Alessandro, che diventerebbe meritatamente la vera first lady, mentre l'eterna aspirante (a quel ruolo) Ilaria D'Amico si ritroverebbe ridimensionata: senza più un programma Sky, col marito in casa tutto il giorno in ciabatte e, quel che è peggio, con Alena che ha trasformato in una grande vittoria quella che all'inizio sembrava una sconfitta.
Mario Gerevini per corriere.it il 6 novembre 2022.
Italia o Svizzera? È la questione preliminare ma centrale dell’ennesimo capitolo giudiziario sull’eredità miliardaria degli Agnelli. La storia infatti non è finita, anzi. A Torino da domani, davanti al giudice Nicoletta Aloj, si entra nel vivo di una causa civile che Margherita Agnelli de Pahlen ha avviato all’inizio del 2020 sulla successione della madre, Marella Caracciolo, morta a quasi 92 anni nel 2019, 16 anni dopo il marito, l’avvocato Gianni Agnelli.
La figlia da anni contesta i presupposti di tutti gli atti ereditari. Ma perché la madre di John, Lapo e Ginevra Elkann (e di altri cinque figli con il secondo marito Serge de Pahlen), ha avviato la causa in Italia, avendone già una pendente a Ginevra? Perché — a suo dire — la madre Marella avrebbe avuto la residenza abituale in Italia, dove è morta, e quindi la successione andrebbe regolata dal diritto italiano e non da quello svizzero.
Marella Caracciolo, per esempio, in tre testamenti «svizzeri» ha indicato come unici eredi i soli Elkann. E proprio quello della giurisdizione è il nodo-chiave da sciogliere: è attesa la prima di una serie di udienze tecniche, per la decisione si andrà al 2023.
Se le richieste di Margherita fossero accolte, ci potrebbero essere impatti sugli assetti della cassaforte di famiglia, la Dicembre società semplice (John 60%, Lapo e Ginevra 20% a testa), e a cascata sulla governance del gruppo Exor (Stellantis, Ferrari eccetera). Cioè una partecipazione del valore di circa 4,6 miliardi che governa un impero da quasi 30 miliardi. I 4,6 miliardi sono riferiti al valore della Dicembre al momento della morte (2019) di Marella Caracciolo, secondo una perizia che Margherita — ha scritto Milano Finanza — ha commissionato al docente della Bocconi Fabrizio Redaelli. E della Dicembre Margherita rivendicherebbe il 50%.
I legali dei fratelli Elkann hanno sempre sostenuto che il controllo di John sulla holding torinese al vertice del gruppo non può essere in alcun modo messo in discussione. E sulla presunta residenza italiana di Marella, fonti vicine ai fratelli Elkann ricordano, tra l’altro, che la moglie dell’Avvocato già dagli anni ‘70 aveva il domicilio a Sainkt Moritz con iscrizione all’Aire e inoltre una vecchia indagine fiscale dell’Agenzia delle Entrate sull’eredità dell’Avvocato aveva confermato che Marella era regolarmente residente in Svizzera dagli anni ‘70.
Al contrario, secondo Margherita i legami famigliari e gli interessi di Marella sono sempre stati in Italia, dove ha passato più giorni all’anno che in Svizzera o in Marocco. Con un articolato dossier ha ricostruito giorno per giorno gli spostamenti della madre negli ultimi 15 anni, interrogando le tante persone di servizio e di assistenza anche con l’aiuto di investigatori privati. L’atto di citazione di Margherita, 200 pagine argomentate dall’avvocato milanese Dario Trevisan, delinea lo scenario di un complotto. I consulenti di Marella avrebbero «adottato una serie di escamotage preordinati alla totale esclusione della figlia e dei suoi discendenti, ramo de Pahlen, dalla successione Caracciolo».
Il motivo? Occultare a Margherita il vero patrimonio del padre. Sostiene dunque Margherita che la madre sarebbe «stata indotta a rilasciare i testamenti, nonostante non ne potesse comprendere la portata» e che per motivi di salute fosse «minata nella sua effettiva capacità naturale a testare». La difesa degli Elkann chiede a Torino di dichiarare la carenza di giurisdizione o in subordine di attendere la decisione della causa elvetica.
L’eredità Agnelli e la guerra in famiglia: la saga a una svolta. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.
Nella disputa sull’eredità Agnelli è in corso un check del Var. La giudice Nicoletta Aloj ieri ha ascoltato per due ore gli avvocati dei fratelli Elkann, Eugenio Barcellona e Carlo Re, e il legale di Margherita Agnelli, Dario Trevisan. Un’udienza a porte chiuse nella quale, a quanto si è appreso, le due parti hanno presentato nuove memorie. Una decisione è attesa non prima del nuovo anno. Ma siamo a un passaggio chiave non solo di questa causa civile: tutta la «sanguinosissima» saga, quasi ventennale, dell’eredità Agnelli è a una svolta. Vediamo perché.
La partita in corso e la questione pregiudiziale
La partita in corso è cominciata nel febbraio 2020 quando Margherita Agnelli ha chiamato in causa i tre figli Elkann (John, Lapo e Ginevra) ritenendo illegittima la successione, a loro vantaggio, prima di suo padre, l’avvocato Gianni Agnelli morto nel 2003 e poi di sua madre, Marella Caracciolo, scomparsa nel 2019. Adesso, a due anni e mezzo dal fischio d’inizio, la partita è sospesa perché gli avvocati dei fratelli Elkann hanno sollevato una questione pregiudiziale, ovvero la competenza di Torino a giudicare.
La raccolta e la valutazione degli elementi
Da tempo, infatti, è in corso un procedimento in Svizzera sulla stessa materia e dunque — argomentano in una corposa memoria — i giudici torinesi dovrebbe astenersi in base alla Convenzione Italo-Svizzera del 1933. Insomma, «non v’è spazio — scrivono i legali degli Elkann — per decidere questa controversia nel merito» e dunque i giudici torinesi dovrebbero alzare le braccia e dichiarare il difetto di giurisdizione. «Eccezioni infondate», replicano negli atti i legali di Margherita, a fianco della quale si sono costituiti anche quattro dei cinque figli nati nel secondo matrimonio con Serge de Pahlen. Si va dunque alla moviola con il collegio giudicante della seconda sezione civile di Torino che deciderà dopo aver raccolto tutti gli elementi e le istanze delle due parti (a questo servono le udienze «tecniche»).
Il luogo in cui si radica la successione
Italia o Svizzera? Sembra una questione di lana caprina ma è invece cruciale e va letta in parallelo con la manovra legale di Margherita tesa a dimostrare che la madre Marella non aveva la residenza abituale in Svizzera. Cioè là dove è radicata la sua successione, compresi i testamenti a favore dei nipoti Elkann. Se Torino decidesse di spogliarsi della causa a favore di Ginevra, la partita dell’eredità potrebbe chiudersi definitivamente. Se invece il procedimento proseguisse sui binari del diritto nostrano e gli avvocati di Margherita riuscissero a dimostrare l’«italianità» di Marella allora uno dei capisaldi storici dell’eredità Agnelli potrebbe essere messo in discussione.
La transazione tra Margherita e sua madre
Margherita infatti firmò a Ginevra due atti nel 2004: l’accordo transattivo sull’eredità del padre e un patto successorio con la madre in base al quale rinunciava preventivamente all’eredità di Marella che poi sarebbe morta nel 2019. Parte integrante degli accordi di Ginevra era anche una transazione sulla Dicembre, la società-cassaforte al vertice dell’impero Exor-Stellantis-Ferrari: Margherita aveva venduto il suo 33% alla madre. Tutto compreso la figlia dell’Avvocato portò a casa oltre 1,2 miliardi di euro. Tanti, pochi, giusto o sbagliato, sarà poi il tema al centro delle cause che la signora de Pahlen avvierà in seguito, senza mai ottenere soddisfazione.
I patti successori vietati in Italia
Ora, però, se Torino trattenesse la causa si accenderebbe una lucina nell’orizzonte di Margherita. In Italia infatti i patti successori sono vietati e dunque in teoria (e con una lunga serie di «se») quel pilastro del patto successorio del 2004 potrebbe cadere. Con possibili effetti a cascata sugli assetti della Dicembre, in mano a John Elkann. Ecco perché una decisione apparentemente secondaria e incidentale del tribunale di Torino può essere determinante, in un senso o nell’altro, nella partita dell’eredità Agnelli.
Dynasty Agnelli, madre contro figli per rivendicare l'eredità di Marella. Riparte il processo per l’eredità di Marella Agnelli: 2,4 miliardi contesi tra Margherita e i figli John, Lapo e Ginevra. Una guerra che va avanti da vent’anni. Tra detective, spie e colpi bassi. Tony Damascelli su Il Giornale il 06 novembre 2022
Domani gli Elkann vanno a processo. John, Lapo, Ginevra, figli di Margherita e Alain Elkann vengono portati in tribunale, a Torino, dinanzi al giudice Aloj Nicoletta. Sul tavolo, miliardi due e milioni quattrocento, di euro ovviamente, la metà del pacchetto ereditario così valutato nel 2019 sul patrimonio Dicembre-Giovanni Agnelli Bv-Exor finito nel possesso di donna Marella, moglie di Gianni, l’Avvocato. Margherita, colei che dopo la nascita del quinto figlio del secondo matrimonio, il padre così gentilmente definì: «Ho lasciato un figlia e ho ritrovato una bambinaia», Margherita, dunque, trascina da vent’anni la battaglia per quei moltissimi denari che, secondo Lei, le sarebbero stati sottratti da un sistema disegnato da Gabetti e Franzo Grande Stevens, con l’assenso silenzioso o forse del tutto assente, della madre. Per dare valore alla propria tesi l’erede in parte mancata ha messo in movimento avvocati e detective, ha coinvolto uffici doganali, commissariati di polizia, un plotone di testimoni per dimostrare che sua madre, contrariamente a quanto sostenuto dai tre Elkann figli, non risiedesse affatto in Svizzera e che, dunque, qualunque atto legale debba essere dibattuto nei tribunali italiani. La questione non è affatto o squisitamente di principio ma punta al sodo, al conquibus, a riappropriarsi di un monte contabile clamoroso che verrebbe poi redistribuito ai cinque figli avuti dal secondo marito, anche se risulta che soltanto quattro di essi, Peter, Anna, Tatiana e Sofia, si siano costituiti in giudizio a fianco della madre, contestando il testamento di Gianni Agnelli in favore di Marella Caracciolo. Sono sei le cause aperte a conferma di una saga famigliare che va a macchiare l’immagine di una dinastia che ha avuto nelle mani l’Italia, non soltanto quelle imprenditoriali. Gli avvocati di Margherita hanno documenti che confermerebbero come donna Marella, minata dalla malattia senile, non fosse nella piena facoltà di intendere e di agire e che l’eliminazione dall’eredità di Margherita, con relativa liquidazione della parte spettante, non possa rispondere ai patti successori che fanno parte, questo è opportuno ricordarlo, della storia della famiglia, una specie di passaggio di consegne e di potere avviato dal nonno senatore e portato avanti da Gianni e in seguito da Umberto. Fu proprio all’epoca dell’Avvocato che il nuovo matrimonio con Serge De Pahlen aveva fatto credere e sognare Margherita che il consorte potesse diventare il nuovo reggente dell’impero, nel caso in cui. Riferiscono alcuni «storici» fiattini che il franco russo Serge trovò un impiego di margine all’interno dell’azienda, conosceva le lingue ma oltre a questo non dimostrò altro che potesse affascinare e convincere l’azionista titolare che, dopo avere ricevuto alcuni report critici e negativi, tagliò fuori il genero da qualunque progetto ereditario e affine. Anzi si mormorò che l’Avvocato proprio non avesse a genio il nuovo parente, mai citato, mai ricordato e così i figli e figlie di costui e di Margherita. Così accadde che il rapporto tra padre e figlia prese a incrinarsi; quando Giovanni Alberto morì, era lui il primo designato a prendere il posto dello zio dopo il rifiuto di Edoardo, Margherita ipotizzò un rientro, presa anche da nuovi afflati religiosi ma la sua anonima dimora svizzera, scelta con Serge e mai amata dall’Avvocato, dimostrò quasi il tentativo di una esistenza umile, semplice in contrasto con i desideri più prosaici del marito, almeno secondo la vulgata del tempo. La scomparsa di Gianni Agnelli aprì ufficialmente la contesa e il contenzioso, John, Lapo e Ginevra (insieme con donna Marella) si sono ritrovati addirittura una nemica in casa, la loro madre, o meglio chi contesta, non più chi li disprezza con parole maligne e perfide, ma chi mette in dubbio il loro operato nella vicenda dell’eredità. La scorsa estate un episodio di margine ha illustrato lo stato dei rapporti, Margherita ha ricevuto in eredità la dimora settecentesca di Villar Perosa dove storicamente viene accolta la squadra della Juventus per il discorso ufficiale di John Elkann e Andrea Agnelli ma quest’anno l’accesso alla villa è stato negato per alcuni screzi tra madre e figli, John e Lapo, cosi i due dirigenti sono stati costretti a portare la squadra in visita alla cappella di famiglia nel cimitero del paese della Val Chisone. Il tribunale di Torino deciderà se respingere o procedere, le carte sono mille, i personaggi in scena vivono un clamore non desiderato, sullo sfondo le figure di Gianni e Marella, gli Agnelli, l’epopea di una famiglia ultracentenaria, segnata da dolce vita e vita dolce, tragedie, morti nascoste, scandali, crisi finanziarie. Una storia che resiste ma che, in verità, più non esiste.
Dagospia il 15 agosto 2022. Dal profilo facebook Consorzio Costa Smeralda
18 luglio 1970, sera. Hotel Cala di Volpe di proprietà della Società Alberghiera Costa Smeralda, conosciuta anche come Sacs, controllata dal Principe Karim Aga Khan e principale consorziata
In un tavolo del ristorante è seduto l’Avvocato Gianni Agnelli, l’uomo più ricco d’Italia, uno degli imprenditori più conosciuti a livello internazionale
L’Avvocato ama e frequenta la Costa Smeralda; la famiglia di sua moglie, Marella Caracciolo di Castagneto, è tra le fondatrici della Costa Smeralda; lui è amico del Principe Karim Aga Khan, fondatore della Costa Smeralda, e prima ancora del padre, Ali Khan, e della nonna dell’Aga Khan, la torinese Teresa Magliano.
Al tavolo dell’Avvocato viene consumata la cena e, come digestivo, due caffè, due vodka, una grappa, per un conto di 16.200 lire.
A consegnarlo all’Avvocato è lo storico capo barman dell’Hotel Cala di Volpe, Domizio Germiniasi.
Lo straordinario documento storico è emerso, nel Sessantesimo della Costa Smeralda, grazie alla pubblicazione della ricevuta di pagamento sul gruppo Facebook “Professionisti della Costa Smeralda di ieri è di oggi”.
Sestriere, creato dagli Agnelli diventa una gemma inglese. Tony Damascelli il 24 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il fondo Icon compra le piste da sci create nel 1934 dal senatore Giovanni. Che fecero innamorare l'Avvocato.
Il senatore porta un cappello a larga tesa, le labbra stringono una pipa, l'abito prevede anche il gilet, al suo fianco c'è un giovane dall'aspetto assai spavaldo, indossa un ampio doppiopetto su una maglia camicia e la postura è del playboy dell'epoca. Stanno entrambi appoggiati a un parapetto che si affaccia davanti a crinali non meglio definiti, grigi di terra, è il Sestriere.
È la storia degli Agnelli, il fondatore della dinastia, senatore Giovanni e suo nipote Gianni, uniti nella fotografia che riassume la storia di un sito allora sconosciuto e che ricevette il timbro di comune, il più alto d'Italia, dal regio decreto del 18 ottobre del 1934. Ma già era vivo nei sogni del senatore che aveva acquistato quelle terre per 40 centesimi al metro quadro. Da Villar Perosa al Sestriere corre la storia della famiglia che ormai ha abbandonato il sito montano a nuovi imprenditori e che ora è passato al 100% al fondo inglese «iCON Infrastructure», ma ne conserva i racconti e le memorie di quasi un secolo.
Gli eredi di Umberto Agnelli, la moglie Allegra e i figli e i nipoti, vi hanno ancora dimora, così i Nasi, come accadeva con i Camerana, mentre il ramo dell'Avvocato ha scelto un altro presepe, St. Moritz, preferito da Gianni e oggi dai suoi nipoti. I 2.035 metri di altitudine non sembravano poter favorire un futuro imprenditoriale e turistico se non per gli appassionati dello sci. Il sogno del senatore era di offrire un posto ai torinesi non troppo lontano dalla città per replicare le grandi piste americane. In un viaggio in Norvegia si innamorò delle torri che ospitavano un albergo. Affidò il progetto all'ingegnere Vittorio Bonadé Bottino, lo stesso che aveva disegnato il Lingotto e Mirafiori. Al tempo non esistevano strade asfaltate per raggiungere Sestriere, si doveva andare sù con i muli per portare il materiale necessario alle opere di edificazione. Giovanni Agnelli, il senatore, voleva un albergo e questa fu la Torre e un altro luogo di ristoro popolare, si aggiunsero tre funivie, Bottino vinse la scommessa sui tempi di costruzione, l'8 di dicembre del 1932 l'albergo fu consegnato al senatore che ricompensò l'ingegnere con 500 lire.
Siamo nella favola, un giorno di calda estate consegnò quella montagna arida alla prima grande gloria di cronaca sportiva, il 6 luglio del '52 si correva l'undicesima tappa del Tour de France, da Le Bourg d'Olsans per 182 chilometri fino al Sestriere, al traguardo si presentò un uomo solo, il suo nome era Fausto, il suo cognome Coppi, il trionfo. Il senatore aveva lasciato i sogni ai nipoti, suo figlio Edoardo era morto in un incidente aereo, Gianni e il più giovane Umberto si sarebbero occupati, con spirito diverso, del Sestriere e della squadra di calcio, la Juventus. Il primo per puro piacere e lusso di vita, il secondo con lo spirito di impresa. Non erano anni di grande fortuna per quella montagna, troppo alta, troppo impegnative le piste. L'Avvocato arrivava con l'elicottero e si avventurava, con i maestri di sci, su piste esclusive, senza mai dimorare più di un giorno. Umberto preferiva le discese del Banchetta. Le due famiglie si dividevano, tra Svizzera e Italia. Ma i bilanci contabili erano sempre più pesanti, il sogno del senatore abbisognava di nuove realtà finanziarie, oltre all'impegno dei Nasi, oltre al fascino e al prestigio era necessario trasformare il Sestriere in un luogo non riservato solo allo sci. L'impegno venne affidato da Umberto Agnelli ad Antonio Giraudo, fu la svolta, con la supervisione di Tiziana Nasi. Giraudo intuì che sarebbe stato opportuno rilanciare il sito con due obiettivi, accorpare, con l'acquisto del pacchetto azionario, tutti gli impianti di sci di Sauze e Sestriere, disegnare una mappa completa fino al Monginevro, 400 chilometri di piste, la Via Lattea, un'insegna onirica e creare nuovi posti letto, trasformando quello che era soltanto un punto di arrivo per gli sciatori, in un luogo aperto ad altre iniziative sempre nell'ambito dello sport, con le grandi manifestazioni, i mondiali di sci e l'Olimpiade invernale.
E, ancora, la pista di atletica con i nomi più illustri, gare di automobilismo, raduni di varie discipline sportive e il colpo migliore: l'innevamento artificiale che fino ad allora era stato riservato solo alla pista che avrebbe ospitato una gara di sci veniva esteso a tutte le piste, per garantire ai turisti la neve per l'intera stagione. Oggi nuovi imprenditori hanno ricevuto l'eredità, gli Agnelli conservano alcune dimore, la storia è passata, tutto cominciò con 40 centesimi, Sestriere resta nella fotografia con le montagne di sfondo, tra il senatore e suo nipote.
(ANSA il 14 gennaio 2022) E' morto il conte Pio Teodorani Fabbri, marito di Maria Sole Agnelli, una delle sorelle dell'Avvocato Gianni Agnelli. Aveva 97 anni. Nato il 23 marzo 1924 a Cesena, città con cui ha mantenuto sempre un forte legame, è stato vicepresidente dell'Ifi, la finanziaria del gruppo prima della nascita di Exor.
Dal matrimonio con Maria Sole, che lo aveva sposato in seconde nozze, è nato nel 1964 il figlio Eduardo. Pio Teodorani Fabbri è morto nella casa di Torre in Pietra, vicino a Roma dove viveva con la moglie. I funerali si svolgeranno lunedì 17 gennaio alle 15 nella chiesa di San Domenico a Cesena. I funerali si svolgeranno lunedì 17 gennaio alle 15 nella chiesa di San Domenico a Cesena.
Marchionne, la malattia e le ultime volontà (disattese): «Fca? Non farò accordi con i francesi». Bianca Carretto su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.
Sergio Marchionne, il 17 giugno scorso, avrebbe compiuto 70 anni. I ricordi sono alleati, riscrivono la storia, hanno la potenza travolgente di riproporre uno sguardo sul passato anche se a volte si trasformano in invisibili lividi nell’anima.
Ho in una cassetta di sicurezza la trascrizione dei suoi WhatsApp, dei suoi messaggi, delle sue mail, delle sue confidenze aziendali e personali che hanno cimentato la nostra amicizia, le terrò in un angolo oscuro e segreto.
Ma forse alcune rivelazioni è ora che non siano più celate.
Il 26 giugno 2018 — quattro anni fa — a Roma, fu la sua ultima uscita pubblica, per me la vera ricorrenza della sua morte, avvenuta il 25 luglio 2018. Quel giorno il ceo di Fiat Chrysler Automobiles doveva consegnare al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri una Jeep Wrangler, un momento di serenità; al contrario, ho ancora presente la visione nitida del suo avanzare sofferente, circondato da una moltitudine di uomini vestiti di nero che parevano un plotone di esecuzione mentre accompagnava il condannato.
C’era un leggìo, sistemato sotto i pini del Pincio, che si trasformò in un improvvisato confessionale di cui non si intravedeva la grata anche se iniziammo a parlare sottovoce, come se gli alberi avessero le orecchie. Noi due soli, aveva allontanato i suoi collaboratori presenti all’evento, dietro di lui; per sostenerlo Davide Barca che, per anni, tutelava non solo la sua integrità fisica ma anche la sua privacy, con un affetto filiale.
Marchionne non sopportava di far intravedere la sua debolezza, anche se era sotto gli occhi di tutti; la sua voce, affaticata, mi chiedeva di aiutarlo a nascondere la sua fragilità fisica e, nello stesso tempo, mi affidava i suoi pensieri più tormentati, come volesse liberarsi.
«Quando ho liquidato Montezemolo dalla Ferrari, eravamo a Cernobbio, sappi che mi vergognavo come un ladro, ma fui costretto a farlo, lui non meritava di essere cacciato in quel modo». E posso affermare che era profondamente sincero.
Gli chiedevo di recuperare le forze, di stare in silenzio, ma sentiva il tempo trascorrere veloce e continuava a parlare: «Mi brucia di non aver concluso nessuna alleanza con General Motors ma non farò mai un accordo con i francesi di Psa, andremo avanti da soli, saremo all’altezza dei nostri concorrenti. Ho il dovere di proteggere gli stabilimenti, i nostri dipendenti, non andremo mai via dall’Italia, l’Alfa Romeo tornerà grande».
Marchionne aveva dimostrato con i fatti di aver riportato la Fiat — presa in stato fallimentare, anche se ora pare che tutti lo abbiano dimenticato — ad essere una multinazionale che si poggiava sulle due sponde dell’Atlantico; ansimando, continuava a ripetere: «Per finire il mio piano devo arrivare a marzo 2019, vedrai che verranno riconosciuti i miei diritti». Per quella che può apparire una vera beffa maligna del destino, Fca e Psa, nell’ottobre del 2019, annunciarono il progetto da cui è nata Stellantis, esattamente contro la sua volontà.
A quel punto pareva essersi, in parte, rinfrancato, il suo respiro era più regolare, dovevamo salutarci, con la chiarezza che aveva sempre distinto il nostro rapporto, diretto e sincero, sapevamo entrambi che non ci saremmo mai più rivisti.
L’emozione aveva preso il sopravvento sulla ragione: «Io ci sarò sempre... E poi, dopo di me ci sarà Alfredo». Altavilla si era tenuto, per quella mezz’ora, a pochi metri, pronto a intervenire, in ansia per quel capo burbero e prepotente, a cui voleva molto bene.
Era lui il delfino destinato, ma anche questa decisione è stata disattesa.
(ANSA l’8 novembre 2022) - La Corte europea di giustizia ha deciso di annullare la decisione con cui la Commissione Ue nel 2015 chiese al Lussemburgo di recuperare da Fiat Chrysler Finance Europe l'aiuto ritenuto illegittimo e incompatibile con il mercato unico ottenuto attraverso il meccanismo di tax ruling.
Con il pronunciamento odierno i giudici di Lussemburgo annullano la precedente sentenza del Tribunale Ue con la quale vennero respinti i ricorsi del Lussemburgo e di Fiat Chrysler Finance Europe contro la decisione comunitaria di bocciare il tax ruling a favore della società.
Il Tribunale, spiega la Corte Ue, nella sua valutazione ha commesso un "errore di diritto" in quanto ha "erroneamente confermato il sistema di riferimento adottato dalla Commissione ai fini dell'applicazione del principio di libera concorrenza alle societa integrate in Lussemburgo, omettendo di tener conto delle norme specifiche che attuano tale principio in tale Stato membro".
Il caso risale al settembre 2012, quando le autorita tributarie lussemburghesi avevano adottato un accordo fiscale (tax ruling) a favore della Fiat Chrysler Finance Europe approvando un metodo per determinare la sua remunerazione che consentiva alla società di stabilire annualmente il suo utile imponibile a titolo di imposta sulle societa nel Lussemburgo.
Nell'ottobre 2015, la Commissione stabilì che si trattasse di un aiuto di stato incompatibile con il mercato interno; di qui l'ordine di recuperare da Fiat il vantaggio fiscale "indebito" di cui aveva usufruito. Oggi i giudici di Lussemburgo concludono che - poiche al di fuori dei settori in cui il diritto tributario dell'Unione e oggetto di armonizzazione - spetta allo Stato membro interessato determinare, attraverso l'esercizio delle proprie competenze in materia di imposte dirette e nel rispetto della propria autonomia fiscale, le caratteristiche costitutive dell'imposta, "solo il diritto nazionale applicabile nello Stato membro interessato deve essere preso in considerazione al fine di individuare il sistema di riferimento in materia di imposte dirette" per valutare "non solo se esista un vantaggio" fiscale, "ma anche se quest'ultimo abbia carattere selettivo".
(ANSA l’8 novembre 2022) - La sentenza della Corte europea di giustizia, che questa mattina ha annullato la decisione con la quale la Commissione europea nel 2015 chiese al Lussemburgo di recuperare da Fiat Chrysler Finance Europe l'aiuto fiscale ottenuto tramite tax ruling, considerato illegittimo, è una sconfitta per l'Antitrust Ue e "una grave sconfitta per l'equità fiscale". Lo scrive in un tweet la vicepresidente Ue Margrethe Vestager, responsabile per la Concorrenza.
Fisco, la Corte Ue dà ragione alla Fiat. Annullata la condanna per aiuti di Stato da 30 miliardi. Vestager: "Ha perso l'equità". Sofia Fraschini il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.
La Corte di Giustizia europea va contro la Commissione Ue e annulla la condanna inflitta a Fiat Chrysler Finance Europe (oggi del Gruppo Stellantis) per le mini-tasse in Lussemburgo.
Una sentenza storica alle luce della dura battaglia che l'Europa sta portando avanti da tempo contro il fisco creativo a favore delle multinazionali, in particolare quelle americane.
La vicenda, in questo caso riguardante una società italiana, risale a qualche anno fa, quando, la Commissione Ue chiese al Granducato di recuperare dal gruppo automobilistico l'aiuto, ritenuto illegittimo e incompatibile con il mercato unico, ricevuto attraverso il meccanismo di tax ruling. Circa 30 milioni di sconti fiscali. Era il 2012 quando le autorità tributarie lussemburghesi avevano adottato un accordo fiscale con la casa auto per farle pagare meno tasse. In parallelo, Fca aveva spostato la sede amministrativa in Olanda, con una sussidiaria, Fiat Chrysler Finance Europe, proprio in Lussemburgo.
Nell'ottobre 2015, la Commissione stabilì che si trattava di un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno; di qui l'ordine di recuperare da Fiat il vantaggio fiscale di cui aveva usufruito. Piccato, l'allora ad del gruppo Sergio Marchionne dal Salone dell'Auto di Parigi aveva definito la vicenda una cavolata.
Oggi, a più di dieci anni di distanza, i giudici hanno rivisto la questione dopo, che nel dicembre 2021, l'avvocato generale della Corte di giustizia Ue, Pritt Pikamae, aveva chiesto di invalidare la decisione.
Un ribaltamento di fronte che ha spinto la commissaria europea per la Concorrenza Margrethe Vestager, all'epoca a capo dell'Antitrust europeo quando la Commissione Juncker promosse l'azione contro Fca, a definire la decisione una grave sconfitta per l'equità fiscale. Di fatto, i giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che - poiché al di fuori dei settori in cui il diritto tributario dell'Unione è oggetto di armonizzazione - spetta allo Stato membro interessato determinare, attraverso l'esercizio delle proprie competenze in materia di imposte dirette e nel rispetto della propria autonomia fiscale, le caratteristiche costitutive dell'imposta.
Quello di oggi è ultimo grado di giudizio, non sono previsti ricorsi. Fca e il Granducato hanno definitivamente vinto sulla Commissione Ue mettendo a sego un precedente che ora avrà effetti a cascata. Anche se la decisione della Commissione è stata annullata, la sentenza fornisce importanti indicazioni sull'applicazione delle norme dell'Ue sugli aiuti di Stato in materia fiscale. Ora studieremo la sentenza e le sue implicazioni. E comunque ci impegniamo a continuare a utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per garantire che la concorrenza leale non venga distorta nel mercato unico attraverso la concessione da parte degli Stati membri di agevolazioni fiscali illegali alle società multinazionali, ha commentato Vestager incassando, su questo fronte, l'ennesima sconfitta.
Nel 2019, il Tribunale dell'Unione europea aveva già annullato la decisione della Commissione europea di ritenere illegittimo aiuto di stato l'accordo fiscale concesso dal governo olandese a Starbucks, la catena di caffè americana Secondo il tribunale, la Commissione europea è stata incapace di dimostrare l'esistenza di un vantaggio a favore di Starbucks.
L'ultima doccia fredda era arrivata, infine, a maggio del 2021 su un altro tax ruling (da 250 milioni di euro), a favore di Amazon, e ancora una volta sul campo del Lussemburgo, da sempre al centro delle polemiche per il suo regime fiscale che attira le major.
Da gazzetta.it il 2 aprile 2022.
Circa 3,2 milioni di remunerazioni nel 2021 per John Elkann, che è la figura apicale, presidente e Ceo di Exor, in calo rispetto ai 4,6 milioni dell'anno precedente. Per Andrea Agnelli invece 566mila euro, superiori rispetto ai 506mila euro del 2020. È quanto emerge dal bilancio al 31 dicembre 2021 della holding della famiglia Agnelli, Exor appunto, proprietaria della Juventus e della Ferrari, depositato nei giorni scorsi con 1,7 miliardi di utile.
La remunerazione annua di John Elkann è la sommatoria tra un salario di 850mila euro, 1,473 milioni di compenso in azioni, 898mila euro in bonus più 379mila euro da altre società del gruppo. Andrea Agnelli è nel cda di Exor, da cui però non ha ricevuto compensi: i suoi emolumenti sono solo in veste di presidente della Juventus.
Enrico Mingori per “Tpi - The Post Internazionale” l'11 aprile 2022.
Leggendo la consueta lettera annuale agli azionisti di Exor, si apprende che la famiglia Agnelli-Elkann si è lanciata in un nuovo business: dopo autornotive, calcio, editoria, moda, assicurazioni, armamenti, ora ecco anche il nucleare.
Il presidente John Elkann ci fa sapere infatti che la holding di casa è diventata azionista di due importanti aziende produttrici di uranio: la Cameco e la NexGen Energy, entrambe canadesi.
“Riteniamo che l'energia nucleare sarà determinante per affrontare la triplice sfida di ridurre la povertà energetica, elettrificare le applicazioni industriali e sostituire i combustibili fossili., spiega il presidente agli azionisti.
Cameco è la più grande società di uranio quotata indipendente al mondo: Exor ad oggi ne possiede il 2,4%, una partecipazione che vale circa 200 milioni di dollari. Non si conosce invece il valore della quota detenuta in NexGen, società che, dice Elkann, «sta sviluppando il più grande progetto di uranio a basso costo a livello globale».
Nella lettera agli azionisti, il presidente di Exor sottolinea come Cina e Stati Uniti puntino forte sulle centrali nucleari per ridurre le emissioni di gas serra e come la Commissione europea abbia incluso questa forma di energia tra quelle finanziabili nell'ambito della transizione ecologica.
«Sebbene il quadro della domanda sia più brillante che mai, l'industria dell'uranio è in un deficit strutturale dell'offerta», dice Elkann agli azionisti. «Tuttavia, a nostro avviso, i prezzi dovranno aumentare ulteriormente per incentivare nuovi progetti, a vantaggio dei nostri investimenti poiché godono di consistenti riserve a basso costo».
Dopo il rosso da 30 milioni di euro patito nel 2020 causa emergenza Covid, nel 2021 Exor - sede ad Amsterdam - ha registrato un utile consolidato di 1.7 miliardi di euro e ha visto crescere del 30% il valore patrimoniale netto per azione. In qualità di presidente. John Elkann ha percepito un compenso pari a 3,6 milioni di euro, in calo rispetto ai 4,6 milioni del 2020.
"Vi racconto la mia nuova vita da perfetto sconosciuto". Angelo Allegri il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.
L'erede degli Agnelli vive a Lisbona con la moglie portoghese: "Lì è lei quella famosa. Io lavoro alla nostra fondazione per i bambini". La nuova vita di Lapo Elkann è portoghese. Portoghese come la moglie, Joana Lemos, ex pilota di rally, e oggi organizzatrice di eventi. Si sono sposati il 7 ottobre scorso, nel giorno in cui lui compiva 44 anni. «Il lockdown l'ho trascorso quasi tutto in Portogallo», dice l'interessato. «Viviamo tra l'Estoril, dove c'è il circuito automobilistico, a pochi chilometri da Lisbona, e l'Algarve, nel sud del Paese. Per noi è più facile avere una vita normale là, piuttosto che in Italia, anche per questo non le voglio infliggere un trasferimento. Tra l'altro in Italia mia moglie è la signora Elkann, ma in Portogallo io sono il signor Lemos. È più famosa lei di me, io sono semplicemente il marito».
Lei era arrivato alla sua età con un percorso netto. Molte compagne, ma nessuna moglie: questa volta che cosa è successo per convincerla al matrimonio?
«Di regole non ce ne sono: ho amici che si sono sposati giovanissimi e sono ancora insieme, altri si sono lasciati. Il matrimonio è costruire una famiglia con qualcuno che stimi, che rispetti e che ami. È difficilissimo anche solo provarci: trovare l'amore è una cosa, trovare qualcuno con cui costruire va ancora oltre. Di mia moglie ho detto che mi aiuta a diventare la versione migliore di me stesso e lo confermo. Ogni mattina sono orgoglioso di svegliarmi e vedere la donna che ho al mio fianco».
Come minimo vi ha unito l'amore per i motori. Sua moglie ha un passato da pilota, lei è un noto appassionato di velocità... Chi guida tra voi due?
«Diciamo che ci alterniamo, piace a entrambi. Ci ha unito la passione per l'automobile ma anche la passione per la solidarietà. Mia moglie è una persona umanamente forte e buona. Io sono più creativo, lei più strutturata: ha portato la Parigi-Dakar in Portogallo, ha portato il grande tennis e il grande golf, sa cosa è il gioco di squadra. Lei aiuta e supporta me, io lei. Siamo due positivi con capacità diverse. E la pandemia è stata una bella conferma: stavamo praticamente 24 ore insieme».
È diventata vice-presidente della Fondazione Laps che lei ha creato qualche anno fa.
«Ecco, per esempio, parlando di solidarietà piace a tutti e due andare sul terreno e far succedere le cose. Firmare un assegno non basta. O almeno non basta a noi. La Fondazione è nata nel 2016. Dal Banco alimentare alla Croce Rossa, abbiamo collaborato con molti enti e avviato tante iniziative: lanciato una campagna come "Never Give up" con l'aiuto tra l'altro di Bebe Vio, Alex Zanardi, Ronaldo, Xavier Zanetti. I proventi della raccolta fondi sono andati alla Croce Rossa per sostenere le famiglie in crisi per il Covid. Siamo riusciti a collaborare con nazionali di calcio come quella italiana, portoghese e israeliana. Abbiamo anche la soddisfazione di aver ricevuto un riconoscimento come l'Uefa Foundation Award di cui siamo molto orgogliosi».
Ma la fondazione che obiettivi ha?
«La Fondazione nasce per aiutare i bambini e durante la pandemia l'attività si è allargata in genere al sostegno delle famiglie, un modo indiretto per aiutare i più piccoli. Cerchiamo di usare la mia visibilità per sensibilizzare l'opinione pubblica e mobilitare risorse. Vogliamo riuscirci con un sorriso, dare aiuto ma anche dignità, felicità e positività. L'ultima cosa che abbiamo fatto è sull'isola di Madeira, sempre in Portogallo».
E cioè?
«Ai primi di dicembre abbiamo inaugurato una casa per tossicodipendenti o alcolisti in recupero senza fissa dimora: avranno un primo percorso di sei mesi con le famiglie per riprendere in mano la loro vita. L'abbiamo fatto in collaborazione con Fondazione Casa, una realtà molto grande che opera in Portogallo ma anche in altri Paesi del mondo. Aveva ricevuto in dono una casa diroccata a Madeira, un'isola che ha delle problematicità sociali forti, non avevano i mezzi per rimetterla a posto, ci abbiamo pensato noi. Tra l'altro l'incontro con loro può diventare il modello di quello che cerchiamo di fare».
Vale a dire?
«In Portogallo cerchiamo di aggregare nomi e realtà forti del business in grado di creare una filiera, una rete in grado di supportare più enti con percorsi duraturi. In generale cerchiamo serietà, trasparenza e limpidezza nell'operare. Nel Terzo settore non ci si può permettere nemmeno una virgola fuori posto. Bisogna fare ancora più attenzione che in una azienda quotata. Si vive di trasparenza e attenzione per gli altri. Per questo nelle nostre iniziative ci facciamo seguire da una società di revisione come Deloitte. Vale per Madeira ma anche per il progetto che abbiamo appena avviato in Calabria».
Di che cosa si tratta?
«Nei giorni scorsi siamo andati a Crotone a conoscere una suora che è una santa: Suor Michela, premiata anche dal presidente della Repubblica, con la sua vice Suor Caterina. Hanno due associazioni, «Noemi» e «Piccoli passi». Si occupano delle donne vittime di violenza e dei loro bambini. Per capire il contesto di una zona difficile come la Calabria abbiamo incontrato anche magistrati in prima linea su questo tema come i giudici minorili. Creeremo una casa protetta per sostenere chi ha bisogno, per un periodo lungo due anni. Abbiamo deciso di intervenire quando abbiamo visto che qualcuno ha sfondato i cancelli delle loro associazioni».
Perché ha scelto di aiutare i bambini? C'entra qualcosa il fatto che lei sembra avere un rapporto complicato con la sua infanzia? Una volta ha detto: sono stato un bambino fortunato ma mi sono anche sentito infelice.
«La verità è che l'esperienza più forte l'ho avuta durante una visita al carcere di Nisida, a Napoli. Lì ho incontrato un ragazzo killer della camorra che mi ha raccontato la sua storia. Gli ho chiesto: se ti aiutassi a cambiare vita, ci staresti? Proveresti a uscirne? E lui mi ha dato una risposta che mi ha gelato: guarda che se io esco fuori la mia "spettanza" di vita è al massimo di sei mesi. Mi ricordo che rimasi così turbato che uscito dal carcere vomitai. E allora ho pensato che si può andare in Africa a fare del bene, ma si può anche iniziare da casa nostra. E i primi progetti che ho curato riguardavano Napoli e la Campania. Saranno almeno il 30% del totale di quelli che abbiamo avviato. Ora voglio allargare la presenza in altre Regioni. La Calabria, appunto, ma anche il Piemonte, a Torino. Qui vorremmo mettere la sede della Fondazione in una zona disagiata di case popolari e farne il nostro quartier generale. Per essere più presenti sul territorio».
Torino la ricollega direttamente alle radici della sua famiglia...
«È un discorso complicato: vivo in Portogallo e quando vengo in Italia mi sposto tra Torino, Roma e Milano. Ma sono nato in America, ho fatto il liceo a Parigi, l'università a Londra. Una fortuna, indubbiamente, che però rende più difficile mantenere i rapporti con gli amici e tenere salde le radici. Anche se, ovunque vado, le sento italiane. Ci sono, certo, tanti luoghi che amo nel mondo. Adoro Israele, perché sono ebreo, amo il Portogallo perché mi ha accolto. Ma delle radici italiane sono orgogliosissimo».
E qui si torna a Torino...
«Sono torinese come mio nonno Gianni. Ma anche napoletano: mia.nonna materna, una Caracciolo, me l'ha insegnato e non l'ho dimenticato. Il papà di mio papà, invece, era alsaziano ed è stato capo della comunità ebraica francese. Era un ebreo askenazita. Non è finita: la mamma di mio padre, che lavorava alle Nazioni Unite, era un'ebrea, questa volta sefardita, di famiglia torinese».
Anche dal punto di vista religioso lei è un bel mix: cresciuto in un contesto cattolico; suo padre Alain Elkann, ebreo; sua madre Margherita convertita all'ortodossia. La sua fondazione ha un fondamento religioso o si ispira, per così dire, ai valori di un umanesimo laico?
«Si va al di là della religione. Un concetto ancora precedente, con tutto il rispetto per le diverse fedi, è quello di spiritualità. Abbiamo fatto di tutto per superare ogni distinzione: lavorando in Israele abbiamo fatto progetti ed aiutato famiglie ebree, musulmane e cristiane. La realtà dei fatti è che secondo me di Dio ce n'è uno solo. Che tu sia cristiano, musulmano odi qualsiasi altro credo. Non do giudizi, solo non sopporto gli estremi e gli estremismi. Questi portano il male».
Lei però ha detto di essere ebreo e l'ebraicità viene trasmessa per via materna. Quindi...?
«Sono ebreo perché mi sono convertito qualche anno fa. Ho sempre sentito l'orgoglio di avere un padre ebreo, che nel suo modo personale è stato un gran padre. Poi ha pesato il rapporto con la mia nonna paterna, Carla Ovazza. Una persona con un cuore gigantesco che ha sofferto molto nella vita, negli anni Settanta fu anche rapita, ed è sempre stata portatrice di bontà e umanità. In ogni momento ha lavorato nell'ottica di fare del bene. Perfino a proposito del sequestro: rimase prigioniera per quattro mesi eppure anche nei confronti dei suoi rapitori non ho mai sentito cattiveria o desiderio di vendetta. Mio nonno paterno, che si dava da fare per la comunità ebraica, era una figura istituzionale, mia nonna era amore».
Con queste origini così variegate e cosmopolite come si trova a Lisbona?
«Benissimo. Il Portogallo come l'Italia è un Paese che dà calore. E questo si apprezza molto in un momento in cui il Covid ci porta a essere distanti. Il calore lo senti nel sole, nel mare, negli occhi della gente. E Lisbona è una città estremamente internazionale. Molto più di quello che si pensi. Dal punto di vista di creatività e innovazione c'è molto da fare. E tanto si fa, molti creativi si sono spostati lì. Per me è un ambiente interessantissimo. Io mi considero sì un imprenditore della solidarietà e un uomo che ha fatto impresa ma resto un creatore e un creativo. Per questo mi appoggio a dei manager, perché non sono un gestore quotidiano del business e non è quello il mio forte. In passato, non mi vergogno a dirlo, ho commesso l'errore di mettermi troppo nei panni dell'imprenditore, con il risultato di perdere in creatività. La pandemia mi ha fatto capire che era ora di invertire la rotta».
Nel frattempo, però, una, delle sue passioni italiane vive momenti difficili: la Juve. L'Inter l'ha superata.
«Intanto l'Inter ha preso un manager molto bravo come Beppe Marotta, per il quale ho grande stima e che ha fatto un grande lavoro. Oggi, secondo me, è uno dei più bravi che ci sono in Italia».
La Juve però l'ha lasciato andare via.
«Non sono particolarmente addentro nelle cose juventine. Non conosco le problematiche interne e non ci voglio entrare. Sono coinvolto emotivamente come tifoso. E da tifoso dico che se lo scudetto non lo vince la Juve mi piacerebbe lo vincesse il Napoli. Ma tutto lascia pensare che se lo contenderanno Milan e Inter e l'Inter è più forte».
Quanto alla Juve?
«Io sono portato a guardare a squadre come Ajax e Sporting, che ha vinto lo scudetto l'anno scorso in Portogallo: vivai forti, giovani forti. Il povero Chiesa si è fatto male ma sarebbe bello avere tanti Chiesa in diversi ruoli. Più talenti italiani, come Locatelli, in più aree del campo e meno stranieri. Un discorso che vale per tutta la Serie A, che dovrebbe investire di più sui ragazzi. Intanto, però, mi preparo al mio prossimo grande conflitto di interesse calcistico, che sembra ormai inevitabile».
Cosa intende?
«Portogallo-Italia, lo spareggio di marzo per i mondiali. Sarà divertente ma anche dura. Mancini è più forte del suo collega portoghese. Ma i nostri avversari hanno Ronaldo, che non vuol perdere il suo ultimo mondiale Anche se lo stesso vale per Chiellini. E quanto valga Giorgio lo abbiamo visto agli europei». Angelo Allegri