Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Cuffaro.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Gli Antimafiosi.

Antonio Giangrande: Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Da deroga a regola: ne ‘L’inganno’ Barbano spiega le “torsioni giustizialiste” del sistema antimafia. Domenico Bonaventura, Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

“Un sistema che da deroga è diventato regola”. C’è questo alla base de “L’inganno. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, il nuovo libro di Alessandro Barbano, edito da Marsilio, presentato nei giorni scorsi a Roma e Milano. Nello scritto, Barbano – già direttore de Il Mattino di Napoli e vicedirettore de Il Messaggero e oggi condirettore del Corriere dello Sport – sottolinea la volontà di “raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori”. Sottolineare, cioè, le storture di un sistema che spesso si palesa come un sistema malato.

L’input, come egli stesso afferma, è la storia di Riccardo Greco. “Un imprenditore di Gela – afferma l’autore – che aveva denunciato, facendoli condannare, i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, ma che fu poi per anni perseguitato dallo Stato. Greco era una vittima, ma ciò non impedì a un Prefetto di porre una interdittiva antimafia. Allora l’imprenditore consultò l’avvocato, affermando di voler passare il testimone ai figli. Ma i provvedimenti che pendevano sulla sua testa sarebbero stati loro ‘trasferiti’. Capì che il problema era lui e decise di farla finita”.

Questa è la storia che dà lo spunto al libro. Naturalmente, non tanto e non solo per raccontare un fatto di per sé tragico, ma per andare alla sua base, alla sua origine. “E l’origine – dice Barbano – non può essere che in un sistema malato, quello dell’antimafia, che ha sviluppato uno schema in cui un imputato può vedersi, da un lato, assolto per non aver commesso il fatto ma, dall’altro, vittima di un provvedimento di confisca. Nello stesso giorno. Perché se la condanna ha bisogno di avere delle prove, per la confisca è sufficiente il compendio indiziario, si pensi alla dichiarazione di un pentito. Ma come spieghi a un cittadino che nel momento stesso in cui gli dici che è innocente, gli stai prendendo tutto?”, chiede Barbano con una domanda che sa che, purtroppo, non avrà risposta.

“A ciò si aggiunga un altro particolare non di scarsa entità: per questo tipo di provvedimenti – prosegue l’autore – è stato allargato notevolmente l’ambito di intervento: si è passati dalla pericolosità qualificata alla pericolosità semplice. Oggi sono ricomprese non solo fattispecie legate a reati di mafia, ma anche quelle legate, ad esempio, ai reati di stalking. Tutto viene considerato emergenza, e a tutto viene applicata una norma emergenziale. Il 41 Bis o l’ergastolo ostativo sono diventate regole, quando in realtà sono deroghe. Ciò è possibile perché la giurisprudenza ha sostenuto e promosso una torsione autoritaria nella sua stessa applicazione”.

Casi emblematici di quanto lei dice potrebbero forse essere considerate le azioni-retata che sempre più spesso caratterizzano l’attività inquirente? “Esatto, e questo avviene in particolare nel Mezzogiorno d’Italia, dove spesso assistiamo a retate da qualche centinaio di arresti che si concludono con poche condanne”. E non è per niente casuale che le Procure che commettono più errori siano quelle di Reggio Calabria, Napoli e Catanzaro.

Ma è possibile porre un freno a tutto questo, magari mettendo mano al Codice Antimafia? “Certamente. Bisognerebbe ricalibrarlo alla dimensione dei primi anni ’80, quando erano previste conseguenze per l’accertamento penale. Chi viene assolto non può vedersi confiscato. C’è bisogno di maggiori garanzie, non si può assistere, ad esempio, ogni volta al riempimento a piacimento di quella scatola vuota che è il reato di concorso esterno”. “La verità – conclude Barbano – è che spesso vediamo magistrati che agiscono come becchini dello stato di diritto, che piegano a torsioni giustizialiste a causa di una cultura inquisitoria purtroppo dilagante”.

L’inganno. L’Antimafia non serve affatto a combattere la criminalità organizzata e rovescia lo Stato di diritto. Alessandro Barbano su L’Inkiesta il 5 Dicembre 2022

Un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Ecco come Alessandro Barbano definisce la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura

Il percorso compiuto fin qui conduce a una conclusione impegnativa: l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno. Uso questa parola in senso politico e non morale. Cioè al netto della buona fede e dell’impegno di quanti si dedicano a combattere il crimine, l’Antimafia ha tradito il compito che le è stato assegnato dalla democrazia. L’inganno politico sta nell’idea che l’intera macchina dell’eccezione, raccontata in queste pagine, serva a combattere la mafia. Che l’arbitrio delle confische e la ferocia delle condanne servano a ripagare le vittime. Ma l’inganno si mostra anche al contrario: non è vero che chi critica la legislazione d’emergenza e invoca pene compatibili con i principi costituzionali fa il gioco della mafia e offende le vittime.

Si tratta di un teorema che non ha fondamento. Perché le vittime, e cioè i caduti e le loro famiglie, non sono risarcibili con la vendetta. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono morti per consegnare alle generazioni future l’idea che la mafia sia irredimibile, quindi invincibile. Che l’emergenza sia la cifra permanente delle relazioni tra lo Stato e i cittadini.

Che la lingua del sospetto sia il racconto del paese. Il loro sacrificio vale molto di più. Chi ha pagato il prezzo più alto nella lotta alla criminalità organizzata – cioè i congiunti di quei magistrati, poliziotti, politici, imprenditori, sindacalisti e giornalisti assassinati –, non può trovare consolazione al proprio dolore in una guerra eternata. Che può solo amplificare lo strazio di un martirio vano.

Se questo è vero sul piano morale, lo è ancora di più su quello razionale. Una pena che non redime trascina con sé il rancore tra le generazioni. Senza il ravvedimento dei padri, per lungo, doloroso e rischioso che sia, il destino dei figli è segnato. Uno Stato incapace di superare l’emergenza divide la società in fazioni. Una giustizia che pensa e parla con la lingua del sospetto alza una coltre di fumo sulla vita pubblica, nella quale «mafia» è, allo stesso tempo, tutto e niente.

I falsi protettori di Abele tirano per la giacca gli eroi dell’Antimafia per nascondere la loro cecità ideologica e proteggere le posizioni di potere costruite fin qui. Ma Abele è morto e nessuno di loro può resuscitarlo. Nessuno può restituire alla comunità la dedizione, il rigore, l’ispirazione spirituale di un magistrato come Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 sulla provinciale Caltanissetta-Agrigento, mentre si recava, senza scorta, in tribunale.

Commemorando la sua morte trent’anni dopo, il cugino di questo eroe involontario, don Giuseppe Livatino, rivolge parole impegnative a uno degli assassini, con il quale intrattiene da anni una corrispondenza privata: «Un abbraccio particolare a Gaetano Puzzangaro. Insieme possiamo costruire un volto nuovo di questa terra bellissima e disgraziata, come la definì Paolo Borsellino». Puzzangaro aveva ventun anni quando, insieme ad altri complici, speronò l’auto del giudice, per poi colpirlo a morte. Ha trascorso tre decenni in carcere, gran parte dei quali al 41bis. Ha studiato, si è ravveduto e, grazie al coraggio di una magistrata di sorveglianza, ha ottenuto la semilibertà.

La sua redenzione è stata al centro della causa. Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione.

Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.

Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese. Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, di beatificazione di Rosario Livatino: più volte l’ergastolano è stato chiamato a testimoniare il suo percorso interiore davanti al postulatore del Vaticano.

Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione. Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.

Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese.

Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, e assisterle con le garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia. Vuol dire promuovere nel paese un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere.

Vuol dire, da ultimo, diradare il polverone di sospetti, accostamenti superficiali, pregiudizi cognitivi e morali, rappresentazioni ideologiche con cui l’Antimafia racconta la società, sgombrare il campo dai fantasmi di una mafia che non risparmierebbe nessun territorio e nessun ambito civile del paese, e tornare a studiarla per quello che è oggi.

Non abbiamo della mafia nessuna rappresentazione attuale e attendibile. La macchina dell’investigazione giudiziaria è un’arma spuntata e autoreferenziale, sconnessa dai processi di territorio. Insegue una verità sempre più storica, tra le delazioni di pentiti pronti a tutto pur di garantirsi privilegi e immunità.

Assume l’enorme mole di intercettazioni di cui dispone come unica fonte di prova, in assenza di riscontri efficaci. Cede alle congetture di una polizia giudiziaria che non risponde, come del resto il pm, della raccolta e della proposizione di illazioni inconsistenti. Senza un’iniezione di responsabilità non si ferma la deriva, fuori controllo, del sistema investigativo. Né si ottiene, da una simile articolazione organizzativa e operativa, alcun fotogramma realistico della realtà criminale. Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico.

E che utilizza l’allarmismo come cassa di risonanza della propria propaganda. Questo non vuol dire che la minaccia della mafia nel paese sia scongiurata o fittizia. Né che, dopo i colpi subiti negli anni seguenti le stragi e dopo la sconfitta dei corleonesi, non possa rialzare la testa in forma diverse. I soli ventotto omicidi del 2020, contro gli ottocento o mille di trent’anni fa, non bastano per dire che la mafia è morta. Ma neanche per sostenere il contrario, e cioè che la mafia non uccide più perché non ne ha bisogno, essendosi infiltrata in ogni dove.

La mafia non è solo figlia di una condizione primigenia del potere, ma è sopravvissuta, in centocinquant’anni, ai cambiamenti sociali e alle strutture della modernità, trapiantandosi in due mondi e cogliendo ogni occasione di profitto e di potere. Nessuno ci garantisce che lo sviluppo tecnologico, i cambiamenti culturali, il controllo dello Stato e l’evoluzione della democrazia siano in grado di assorbire per sempre il fenomeno. E tuttavia sappiamo che il suo radicamento pesa su due fattori: la concentrazione del potere in forme occulte e l’arretratezza sociale del suo bacino di affiliazione. La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo.

Allo stesso modo lo sono le occasioni di lavoro e di socialità e la lotta alla dispersione scolastica che, in alcune aree del Sud, riguarda uno studente su quattro. Sono i ghetti culturali e civili i bacini di incubazione della mafia. Nessuna guerra li ha mai cancellati, nessuna legge speciale li ha mai arginati. Semmai li hanno resi più impenetrabili. La stagione dell’eccezione perciò deve chiudersi. Alle condizioni date, e qui raccontate, la delega della politica all’Antimafia offende il diritto e la civiltà, è inutile, di più, è un danno per la democrazia.

Prima cessa e meglio è. È ora di svelare l’inganno.

L’inganno, Alessandro Barbano, Marsilio, 256 pagine, 18 euro

I professionisti del bene che rovinano innocenti in nome dell’Antimafia. Nel nuovo libro di Alessandro Barbano, l’assurdità delle misure di prevenzione: non si basano su prove ma su indizi e sospetti. Il Dubbio il 29 novembre 2022

«La pena, per chi è stato condannato da innocente, è un’ingiustizia. Per chi è stato assolto, o mai processato, è un assurdo. Una Giustizia che la infligge, non per errore, ma per legge, è una macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile. Ad azionare quella macchina è un potere arbitrario, radicato nel cuore della democrazia, che ha trasformato l’eccezione nella regola, imponendo in nome dell’emergenza permanente, proclamata come un dogma, un diritto spiccio, che dismette le prove per il sospetto, confisca aziende e beni senza un giudicato, commina squalifiche e interdizioni civili.

È il «diritto dei cattivi», fondato dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai costituenti repubblicani, che ne immaginavano l’abolizione, e ripristinato dal legislatore negli ultimi quarant’anni. Quel diritto è arrivato a noi, come un’anomalia che è diventata la norma. Come un rimedio peggiore del male che si propone di combattere. Qui si raccontano gli abusi, gli sprechi, i lutti, il dolore e l’inquinamento civile perpetrati, in nome della lotta al crimine, da un sistema burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito.

Questo sistema è ciò che conosciamo con il nome di «Antimafia». È fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo Stato espropria enormi patrimoni privati. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus.

Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, da ultimo, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’Antimafia nella democrazia. Nelle pagine che seguono mi chiedo se questo sistema fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuto oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi lo promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto i rischi, di una sua ulteriore espansione.

La genesi di questo libro ha quella che chiamerei una scintilla personale. Nell’estate del 2017 mi trovo a Napoli ormai da sei anni per dirigere «Il Mattino», quando in Parlamento e nel dibattito pubblico si discute se equiparare i corrotti ai mafiosi. Mi pare un’aberrazione. Il fatto che la mafia persegua i suoi traffici facendo sempre meno ricorso alla violenza, e sempre più alla trama di relazioni inquinate che riesce a stabilire con il Palazzo, non significa che tutti i corrotti debbano essere considerati alla stregua dei mafiosi. E invece proprio in quei mesi questa confusione illogica sta per realizzarsi con una legge che estende il Codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, fino al peculato.

Chi non sa che cosa sia il Codice antimafia non può capire quanto sia grave questa decisione. Cominciamo con il dire che si tratta di una legge che disciplina un giudizio sommario, chiamato «procedimento di prevenzione». È un rito in cui l’accertamento della verità non si fonda su prove, ma è supposto sulla scorta di indizi, sospetti, valutazioni probabilistiche che non hanno alcuna incontrovertibilità. Sulla base di accertamenti superficiali il procedimento di prevenzione sequestra e confisca beni e aziende e commina misure che limitano la libertà, con effetti non molto diversi da quelli prodotti dalle condanne penali e dalle misure cautelari, previste dal diritto ordinario. Con una differenza sostanziale: i destinatari delle misure di prevenzione spesso non sono colpevoli, cioè persone giudicate e condannate. E talvolta non sono neanche sospettati per un reato specifico. Sono però considerati soggetti pericolosi. E come si valuta la pericolosità? Dalla loro abituale condotta, dal tenore di vita, dall’idea che si mantengano con i proventi di delitti, ancorché non ci sia prova di alcun delitto specifico.

Ma non finisce qui. Perché accade che la pericolosità si estenda dalle persone alle cose. Cosicché le misure di prevenzione si applicano anche nei confronti di quei beni che rischiano di finire nelle mani di persone pericolose. Con questa giustificazione vengono sottratti ai legittimi proprietari, che non sono pericolosi, ma che siano venuti in contatto, anche del tutto involontariamente, con altri soggetti giudicati a rischio.

Talvolta i cittadini a cui sono stati confiscati i beni vengono anche giudicati innocenti, cioè sottoposti a un processo penale e assolti dal diritto ordinario, ma nel frattempo il patrimonio o l’impresa gli sono stati già confiscati dal diritto speciale di prevenzione. Pensate all’assurdo logico che si realizza quando una persona viene, allo stesso tempo, riconosciuta innocente e colpita da una misura afflittiva come la confisca di una casa o dell’azienda di una vita.

Per trent’anni l’assurdo è stato spiegato così: tu non c’entri niente ma Io, Stato, mi prendo la tua proprietà per proteggerti, cioè per impedire che la mafia possa infiltrarsi. Con l’estensione delle misure di prevenzione l’equazione logica diventa: non so se tu sia persona onesta o corrotta, ma Io, Stato, mi prendo la tua proprietà per impedire che possa diventare oggetto di corruttela…».

Un libro da leggere senza pregiudizi ideologici. L’inganno di Alessandro Barbano smaschera l’Antimafia e i professionisti del bene. Maria Brucale su Il Riformista il 25 Novembre 2022

La Costituzione intesa come Carta fondamentale nasce a presidio di uno Stato liberale che offra a ogni individuo strumenti per difendersi dal potere. L’uomo è posto al centro quale soggetto di garanzia a tutela della sua libertà, il più alto dei diritti, protetto dalla doppia riserva di legge e di giurisdizione e della sua dignità, al cuore del sistema costituzionale e convenzionale. Dignità è parola di ampissimo respiro che inalvea ogni aspetto della sfera individuale e della vita di ognuno come singolo e nelle relazioni sociali: la sua rappresentazione nel privato e nel pubblico, la sua esistenza e il suo svolgersi quotidiano nel lavoro, nella famiglia, nei rapporti con la legalità e con le regole, con il potere, appunto.

Ma una regola è tale se è chiara, prevedibile, ragionevole, proporzionata, equilibrata, se il cittadino, qualunque cittadino in egual misura, non dovrà subirla ciecamente ed esserne travolto ma sarà posto nelle condizioni di rispettarla e di essere colpito da una punizione solo a fronte di una responsabilità certa rispetto alla quale abbia avuto ogni strumento per dibattere, contestare, offrire la propria verità. Ogni distorsione da tali concetti, essenza di una democrazia, può trovare giustificazione unicamente in comprovate situazioni di straordinarietà e di emergenza e soltanto per tempi limitati pena l’interruzione dello Stato di Diritto e la creazione di sacche di arbitrarietà oscure e violente perché pongono la persona che le subisce nella condizione di oggetto di diritti collocata in un cuneo cupo e incontrollabile di sostanziale illegalità.

Il fraintendimento dell’emergenza e dell’esercizio del potere statale per contenerla è tema centrale della coraggiosa analisi che Alessandro Barbano, giornalista, scrittore e saggista, da sempre fine osservatore di fenomeni politici, offre dei nostri tempi nel suo ultimo libro, L’Inganno – Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene, edito da Marsilio Edizioni. Uno scritto rigoroso e capillare nutrito di accadimenti degli ultimi anni raccontati con la lente dello storico che si interroga e che interroga il lettore su un metodo di contrasto alla criminalità organizzata troppo spesso espressione del “diritto penale del nemico” alimentato dalla paura sociale e teso a insinuarla, sorretto dalla esibizione di icone del male che legittimano il concetto tutto demagogico del fine che giustifica i mezzi, teso a “inserire come elemento ordinario e strutturale del sistema misure che potrebbero giustificarsi solo in quanto risposte all’emergenza, provvedimenti eccezionali legati a stagioni di particolare allarme sociale. La normativa che riguarda i reati di mafia altro non è che una deviazione dell’ordinamento oltre lo spirito della Costituzione”.

Barbano attraversa lo strazio di vicende umane e giudiziarie, di vite interrotte e spente dall’arbitrarietà dei meccanismi ablativi delle misure di prevenzione patrimoniale, dal giogo delle inchieste spettacolo di chi vorrebbe smontare un’intera regione e ricostruirla con i Lego sbandierando l’idea di un calderone di illegalità e di promiscuità nel quale gettare quasi a caso tutta una comunità. Entra nell’abominio dei regimi speciali e privativi dentro e fuori dal processo che rendono del tutto ineffettiva la difesa; di un doppio binario che pone l’imputato fuori dall’aula, distante dal suo difensore e ammette la formazione della prova per i reati più gravi nei colloqui segreti delle procure con i collaboratori di giustizia senza alcun contraddittorio. Percorre i corridoi delle carceri, delle opportunità negate, di un non luogo dimenticato e nascosto tanto più per chi sia accusato o condannato per un reato ostativo disegnato per negare il ritorno in società e assurto a contenitore delle più varie fattispecie penali da gettare in pasto al popolo come un boccone ristoratore di una fame scomposta e indefinita di sicurezza.

Si spinge nel silenzio del 41 bis, della negazione di ogni anelito di umanità, di affettività, di aspettativa di riabilitazione e di reintegrazione, di speranza. il crimine più grande è stare con le mani in mano, direbbe Marco Pannella. Ed è il principio guida di chi affronta consapevolmente le battaglie scomode, quelle che nessuno vuole intestarsi, se ne occupa. Un libro da leggere senza pregiudizi ideologici, scrollandosi di dosso la bulimia del diritto penale quale unico strumento di difesa sociale, le bandiere polverose dei simboli, il subdolo e ottuso bisogno di nemici da sopprimere, per la riaffermazione di un concetto di giustizia che è trasparenza, uguaglianza, controllabilità, accessibilità, in ultima analisi legalità. Maria Brucale

Un viaggio negli inferi dei diritti negate. Alessandro Barbano svela il grande bluff: le mani sporche dell’antimafia. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Novembre 2022

L’Italia è il Paese in cui i concetti di giustizia e ingiustizia vivono mescolati e talvolta sovrapposti. Sanzionata dalla Commissione europea per gli inaccettabili tempi lunghi dei procedimenti, condannata dalla Corte europea dei diritti umani per le condizioni invivibili delle carceri, quella che fu la culla del diritto – la patria di Cesare Beccaria – è diventata negli ultimi decenni la maglia nera della civiltà giuridica. Perché da noi c’è la mafia, viene detto. E in nome della lotta alla mafia tutto è lecito, tutto è accettabile: le storture dello Stato di diritto, le curvature delle garanzie costituzionali. Tutto.

La piaga giustizialista diventa parte di una Costituzione materiale, di una normativa non scritta che si trasforma in prassi dell’agire collettivo. Istituzionale e non. Con uno snodo di poteri che si fa esso stesso cabina di regia e incarnazione di interessi: i professionisti dell’antimafia sommano Procure e redazioni televisive, correnti della magistratura e movimenti politici, testate giornalistiche e associazioni, onlus, funzionari ed esecutori commissariali. Eccola, come la dipingeva già 35 anni fa Leonardo Sciascia, la rete dei professionisti dell’antimafia. Fondato su decenni di sodalizi cementati da patti immarcescibili, il "potere incontrastato e incontrastabile dell’Antimafia", come lo descriveva Sciascia, è l’hub per il quale passano promozioni e affari, assunzioni e premi. Perché le procure antimafia diventano la punta di lancia di un esercito sempre più sregolato, capace di tutto al di là dei veri risultati. Qualche dato? Il 29% dei detenuti non ha una condanna definitiva, il 15% è in attesa di primo giudizio. E il ricorso alla custodia cautelare non è senza conseguenze: l’anno scorso sono stati pagati 24 milioni di euro di indennizzi per ingiusta detenzione.

Con le Procure antimafia del Mezzogiorno a farla da padrona, in questa classifica del merito al rovescio: Reggio Calabria, Napoli e Catanzaro sono le Procure che commettono più errori giudiziari. Seguono Roma, Catania e Palermo. E non per caso: perché in nome della lotta alla mafia si possono calpestare diritti e ignorare garanzie. Di questo si occupa Alessandro Barbano, il giornalista garantista che ha scritto per Marsilio L’Inganno. Usi e soprusi dei professionisti del bene. Un testo-bussola per orientarsi meglio nel momento in cui Carlo Nordio, il magistrato più garantista, diventa ministro di un governo attraversato dal giustizialismo. Barbano ci mette quarant’anni di esperienza che trasuda dalla pratica delle aule giudiziarie, e che diventano indignazione. La sua diagnosi è critica: «L’attacco alle garanzie liberali è in atto da tempo nel Paese. Viene da un’alleanza tra una parte della magistratura inquirente, rappresentata dalle procure antimafia, le forze politiche della sinistra e dei Cinquestelle in concorrenza tra loro, una parte della burocrazia prefettizia, settori dell’ordine pubblico guidati da un’ispirazione securitaria, liberi professionisti e associazioni di volontariato animati da interessi di lucro. Questo singolare partito trasversale si è assegnato il compito di mettere la democrazia sotto tutela, in nome di una retorica dell’emergenza in cui sfuma ogni differenza tra eccezione e ordinario».

Non lesina i nomi, Barbano: «I giornalisti fondamentalisti di Report» sono la grancassa di questo partito (pag.76, pag. 189). Il braccio armato sono i magistrati che tirano la rete, ne indagano 400 e alla fine, forse, ne condannano quattro. Il capitolo 8 del libro, "le inchieste flop del Super Procuratore", è dedicato a questa categoria. E i sicari, buon ultimi, sono i commissari straordinari che ricevono in gestione le aziende confiscate. Le spolpano, e una volta inservibili le risputano. Ecco il sistema Saguto, che l’ex direttore del Mattino, Barbano, racconta per filo e per segno. Facendo parlare le vittime, per una volta: gli imprenditori ingiustamente accusati di prossimità con la mafia che una volta assolti non vedranno più tornare in piedi le loro aziende.

Il libro di Barbano è una discesa agli inferi del diritto in cui si fatica a trovare un Virgilio. Si racconta di quel pranzo con Raffaele Cantone, degli sfoghi di Catello Maresca, dell’amarezza di Andrea Cuzzocrea. Quaranta pagine fitte di note giuridiche, di sentenze e di decisioni della Cassazione sugellano un pamphlet che non si limita a leggere la realtà ma prova a indicare qualche soluzione. «Per indebolire questo potere senza freni, che ha tradito il compito assegnatoli dalla democrazia, bisogna revocare la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura e che alcune procure hanno trasformato in una leva per mettere le società sotto tutela». Se ne parlerà diffusamente giovedì all’Auditorium in una prima grande presentazione pubblica coordinata da Monica Maggioni con Giuliano Amato, Eriberto Rosso, Giovanni Melillo e Paolo Mieli. Il ritorno alla politica con la P maiuscola: eccola, l’utopia. Il risveglio, prima o poi, da questa lunga notte delle idee che ha sostituito i poteri e confuso troppe volte il bene con il male.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Quei magistrati “combattenti” che forzano e danneggiano il processo penale. Il dibattito. Il professor Giovanni Fiandaca spiega le degenerazioni del processo penale, visto più come battaglia e non come strumento di accertamento dei singoli reati. Giovanni Fiandaca su Il Dubbio il 22 ottobre 2022.

In un recente intervento sul Dubbio del Lunedì, Giorgio Spangher ha delineato un quadro ricostruttivo delle direttrici di tendenza del sistema- giustizia, con particolare riferimento al processo penale.

Anticipo che condivido in larga misura l’analisi svolta dal valoroso processualista, a cominciare dalla pare in cui egli rileva che da una certa fase storica in poi – segnata prima dall’emergenza terroristica e poi dall’escalation della criminalità mafiosa – è emersa la tendenza a concepire il processo penale, più che come meccanismo di accertamento di singoli e circoscritti reati, come strumento di lotta e contrasto a fenomeni criminali di ampia portata: con conseguente rottura di quell’equilibrio tra finalità repressiva e rispetto delle garanzie individuali che ogni procedimento penale dovrebbe, almeno in linea teorica, riuscire a mantenere.

Ma vi è di più. La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale.

Quale che sia il settore specifico di criminalità collettiva di vota in volta considerato, l’impiego del processo come una sorta di macchina da guerra è destinato a condizionare anche la fase preliminare delle indagini. Pubblici ministeri e polizia giudiziaria sono infatti indotti ad aprire grandi inchieste- contenitore ad amplissimo raggio su ambienti e persone potenzialmente sospettabili di relazioni criminose, ancor prima però di disporre di elementi di conoscenza relativi a possibili ipotesi specifiche di reato: piuttosto, l’indagine funge così da strumento esplorativo per andare alla ricerca di eventuali fatti penalmente rilevanti, con l’effetto di dilatare smisuratamente i tempi dell’accertamento giudiziario e di contestare non di rado reati di problematica e incerta configurabilità, con conseguente spreco di risorse materiali e umane. Prendendo implicitamente le distanze da un simile modello d’intervento, ad esempio il nuovo procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha dichiarato nel suo recente discorso di insediamento: «Indagheremo dove la legge ci impone di farlo e nel rispetto delle regole, ma processeremo dove saremo convinti di arrivare alle condanne. I processi che si devono fare saranno solo quelli che vanno fatti» (cfr. Giornale di Sicilia 16 ottobre 2022).

È una apprezzabile dichiarazione d’intenti, peraltro in linea con alcune innovazioni normative della riforma Cartabia che convergono nello scoraggiare le investigazioni esplorative. Certo, l’idea del processo come arma di lotta ha avuto motivazioni storiche che – come anticipato – riconducono alla presenza o recrudescenza nel nostro paese di gravi forme di criminalità sistemica, che il potere giudiziario si è trovato a dover fronteggiare anche per una specie di delega tacita ricevuta da un potere politico incapace di (o poco disposto a) mettere in campo strategie di intervento idonee a incidere in profondità sulle cause genetiche dei fenomeni criminali da contrastare e prevenire.

Ma – non soltanto a mio avviso – ha avuto in proposito un peso una componente soggettiva a carattere ideologico o latamente culturale, che ha a che fare con la auto- percezione di ruolo almeno di una parte della nostra magistratura penale e che in qualche misura perdura a tutt’oggi: mi riferisco alla concezione (presente in origine soprattutto tra i magistrati ‘ di sinistra’, ma poi estesasi con una certa trasversalità) che ravvisa la principale missione della giurisdizione penale nell’esercizio di un controllo di legalità a tutto campo (sull’attività dei pubblici poteri, prima ancora che sulle condotte dei cittadini comuni), nella difesa delle istituzioni democratiche dalle minacce della grande criminalità, nella promozione del rinnovamento politico e nella moralizzazione collettiva.

Questa concezione della giurisdizione, oltre a determinarne una sovra-esposizione politica con conseguenti squilibri nell’ottica della divisione dei poteri istituzionali, e a condizionare – come già detto – la gestione del processo penale strettamente inteso, produce in verità effetti pure sul modo di interpretare e applicare le norme del diritto penale sostanziale, che definiscono cioè i presupposti generali della punibilità e gli elementi oggettivi e soggettivi dei vari tipi di reato.

Quanto più infatti la giustizia penale assume un’impronta combattente di tipo simil-belligerante, tanto più il magistrato interprete-applicatore delle norme incriminatrici sarà tentato di cavarne il massimo della punibilità, adottando interpretazioni estensive o addirittura analogiche ( ancorché in diritto penale formalmente vietate!) che forzano o manipolano il contenuto testuale delle fattispecie legali; con buona pace dei principi di riserva di legge e tipicità, che dovrebbero in linea teorica fungere da presidi garantistici invalicabili. A neutralizzare o indebolire l’efficacia orientativa del principio della tipicità legale delle incriminazioni concorre un fenomeno connesso, che la dottrina di matrice professorale ha denominato processualizzazione delle categorie sostanziali.

Che vuol dire? Per rendere più accessibile il significato di questa espressione ostica, cerchiamo di esplicitarlo così: si allude alla mossa giudiziale di spostare sul terreno della prova processuale la soluzione di nodi problematici che attengono, invece, alla previa determinazione dei presupposti della responsabilità sul versante del diritto sostanziale, in conformità appunto al principio di tipicità penale.

Per esemplificare, si pensi al problema, ricorrente nei processi di mafia, di definire il partecipe punibile di un’associazione mafiosa. Orbene, il predetto fenomeno della processualizzazione si verifica ogniqualvolta l’organo procedente, piuttosto che partire da una precisa e vincolante definizione generale di che cosa secondo la legge penale debba intendersi per ‘ partecipe’, e ricercare poi gli elementi di prova corrispondenti, stabilisce con ampia discrezionalità se un certo soggetto rivesta tale ruolo: decidendo sulla base sia dei riscontri probatori contingentemente disponibili, sia delle esigenze repressive valutate di caso in caso (così, ad esempio, la soglia minima della partecipazione associativa punibile è stata dalla giurisprudenza più volte individuata nella mera sottoposizione al rito di affiliazione, non ritenendosi necessario anche il successivo ed effettivo compimento di concreti atti espressivi del ruolo di associato, come viceversa richiede ai fini della punibilità l’orientamento più garantistico predominante nella dottrina accademica).

È forse superfluo esplicitare che un tale stile decisorio contraddice, in maniera vistosa, i principi di un diritto penale di ascendenza illuministico- liberale. In una recente rievocazione, promossa dalla Camera penale di Palermo, del celebre maxiprocesso alla mafia siciliana istruito ormai più di un trentennio fa da Giovanni Falcone e da alcuni suoi colleghi di allora, si è ridiscusso del tormentoso problema di fondo di come rendere compatibile il contrasto giudiziario alle mafie con un modello di giustizia penale liberale e con i principi del giusto processo.

Partecipando alla discussione, ho ricordato che lo stesso Falcone – come risulta da svariati suoi scritti ricchi di acume analitico e propositivo, successivamente raccolti nel volume Interventi e proposte (Sansoni, 1994) – aveva ben chiari i non pochi inconvenienti dei maxiprocessi in termini di gigantismo processuale e di conseguente oggettiva difficoltà di accertare in maniera approfondita le colpevolezze individuali dei numerosi soggetti sottoposti a giudizio: e che, rendendosi altresì conto della tendenziale incompatibilità tra i processi di grandi dimensioni e il nuovo rito di stampo accusatorio (beninteso, considerato nella versione originaria) allora ancora in gestazione, egli raccomandava di privilegiare non già la strada dell’illecito di associazione (dispositivo di incriminazione comodo e servizievole anche per la sua idoneità a consentire scorciatoie probatorie), bensì la ricerca dei singoli reati- scopo rientranti nel programma associativo, e di concentrare su di essi la verifica processuale. Un metodo d’indagine, questo, a suo giudizio per un verso più efficace per rendere meno evanescente la prova e, per altro verso, più rispettoso delle istanze di garanzia.

Ritengo che questi suggerimenti di Giovanni Falcone meritino di essere, oggi, ripresi e rimeditati. A maggior ragione, considerando che la tendenza giudiziale all’utilizzo della fattispecie associativa è andato sempre più diffondendosi anche in settori criminosi che poco hanno a che fare con la criminalità organizzata, sovrapponendosi spesso in maniera indebita al concorso criminoso in uno o più reati specifici.

Paolo Cirino Pomicino per Dagospia il 19 settembre 2022.  

La storia di Scarpinato è lunga. Dopo il processo Andreotti, Scarpinato ha sfiorato il processo Mannino e poi la famosa trattativa Stato- mafia, processi entrambi risoltisi con una sconfitta della procura di Palermo che ha speso soldi e tempo per indagare sostanzialmente innocenti e che ha dovuto subire, in qualche caso, anche parole sprezzanti da diversi collegi giudicanti ed in particolare dalla suprema corte di cassazione. Eppure, insieme a Nino di Matteo, oggi che è a riposo Roberto Scarpinato continua a parlare ancora di mandanti oscuri, di ombre potenti che avrebbero coltivato questa fantomatica trattativa tra lo Stato e la Mafia.

Il mondo di Scarpinato ieri attaccava Giovanni Falcone, qualche volta anche in diretta televisiva, mentre oggi ne esalta la memoria così come fanno i rappresentanti del vecchio PCI che ricordano con enfasi Falcone e Borsellino mentre in Parlamento votavano contro tutti i provvedimenti adottati dal governo Andreotti per sconfiggere la mafia suggeriti proprio da Falcone. La disastrosa politica politicante.

La curiosità, però, non si limita alla figura di Roberto Scarpinato ma si estende anche alla sua gentile consorte, Teresa Principato, anch’essa PM nella più autorevole procura d’Italia secondo i mafiologi di turno. La trasmissione “Report” evidenziò qualche tempo fa una strana vicenda. La Principato aveva chiuso nella sua cassaforte un computer in cui erano registrati tutti i file sulle indagini a carico di Matteo Messina Denaro, comprese le registrazioni dei pentiti e le intercettazioni. 

Insomma l’intero patrimonio di notizie che, presumiamo, non avessero copie, per proseguire le indagini sul capo mafioso latitante da decenni. La cassaforte aveva due sole chiavi, una in possesso della Principato e l’altra del suo assistente il finanziere Pulici. Quest’ultimo fu processato ed assolto mentre nessuno si permise neanche di pensare ad una distrazione della Principato. Una sorta, insomma, di “noblesse oblige”. Ed allora chi prese tutto quel ben di Dio di notizie su Matteo Messina Denaro?

Forse la fata turchina o forse quelli che hanno, diciamo, occultato i rapporti tra Scarpinato e Antonello Montante (condannato a 8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), rapporti puntualmente registrati da quest’ultimo e custoditi in una sua villa poi perquisita e oggi in possesso della procura di Palermo (Renzi lo ha ricordato). 

Capita a tutti qualche distrazione, qualche amicizia pericolosa ed in molti casi arriva appunto la fata turchina con sembianze umane che provvede a far scomparire tutto. In qualche caso anche la memoria! Potremmo aggiungere ancora qualcosa sulla famiglia Scarpinato ma scadremmo nel pettegolezzo mentre registriamo che in aggiunta al PD è arrivato anche Conte ed il suo Movimento che hanno cominciato a reclutare pubblici ministeri a riposo mentre noi aspettiamo da tempo e con indomita speranza che ci sia qualcuno che volendo reclutare un magistrato tra i propri parlamentari scelga finalmente un magistrato giudicante. Come si vede il peggio non ha mai fine.

La vecchia interrogazione sul candidato 5 stelle. Chi è Roberto Scarpinato, il pm grillino integerrimo che vendeva casa ad un imputato. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

Pare che la notizia sia antica. Però nessuno la conosceva, e quando, ieri, me l’hanno portata, non ci credevo. Invece pare che sia tutto verificato. Roberto Scarpinato, fino qualche mese fa Procuratore generale a Palermo (una delle cariche più importanti in magistratura) e ora passato alla politica con il partito dei grillini e di Conte, ed esposto sempre su posizioni assolutamente integerrime, e di denuncia feroce del malcostume e della politica degli occhi mezzi chiusi con la mafia, beh proprio lui, quando già era un Pm molto noto a Palermo, vendette una casa di famiglia, a Sciacca (cittadina di circa 40 mila abitanti, sul mare, in provincia di Agrigento) ad un prezzo esorbitante e ad un acquirente un po’ sospetto.

La casa fu venduta per circa 700 milioni – scrisse all’epoca l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso – mentre – sempre secondo Mancuso, sul mercato non valeva neanche la metà di quei soldi. Fu un gran bell’affare. L’acquirente era stato processato per mafia, e questo Scarpinato lo sapeva. Si dice che l’acquirente fosse molto vicino ai Siino. Chi era Siino? veniva chiamato il ministro dell’economia di Riina, si occupava di appalti. Sugli appalti di Siino indagò il colonnello Mori ma poi la sua indagine, avviata da Falcone, fu archiviata, prima che Borsellino potesse prenderla in mano. Fu archiviata da Scarpinato e da un altro magistrato.

Coincidenze, coincidenze, coincidenze. Non è mica vietato vendere la casa a un probabile mafioso. Dov’è il reato? Non venitemi a parlare della solita bufala del concorso esterno in associazione mafiosa, per favore. È un reato che non esiste, lo abbiamo scritto mille volte.

Certo se il protagonista di quella vendita, invece di Scarpinato, fosse stato un deputato del centrodestra, o anche del centrosinistra, la Procura avrebbe aperto una indagine. Ma non era un deputato, il protagonista, e non ci fu indagine. Ora il protagonista ha la possibilità di diventare deputato. Tra gli integerrimi 5 stelle.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il caso del pm. Quando Scarpinato vendette una casa al doppio del prezzo ad un suo imputato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

L’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, vuole appendere la toga al chiodo di Palazzo Madama. Candidandolo come paladino dell’Antimafia nella sua Sicilia, il M5s di Giuseppe Conte gli ha promesso (e garantito, da capolista) uno scranno parlamentare. In quel Parlamento il nome di Scarpinato era già entrato, nel 1999. E non esattamente per un encomio. A farlo risuonare fu allora l’ex ministro della giustizia Filippo Mancuso che dai banchi dell’opposizione, dove sedeva per Forza Italia, indirizzò una circostanziata interrogazione al Governo.

L’atto di sindacato ispettivo partiva da un articolo pubblicato dal Velino il 26 ottobre di quell’anno. Rendeva noto un fatto che il ministro guardasigilli Oliviero Diliberto non ebbe modo di smentire nel merito. Scriveva Mancuso: «…Nel mirino degli investigatori c’è la vendita, fatta il 30 agosto del 1996, di un immobile a Sciacca e del quale Scarpinato Roberto, (al tempo, ndr) sostituto nella procura di Palermo, era comproprietario con la sorella Lidia Maria Giulia e altri parenti. La casa fu venduta per 690 milioni a una società, la Cesa, di cui è socia accomandataria gerente la signora Rosaria Di Grado. La signora Di Grado è la moglie di Salvatore Fauci, uno dei maggiori imprenditori siciliani specializzato nella produzione di laterizi. L’imprenditore, nel 1992, fu indagato dalla procura della Repubblica di Palermo assieme a decine di altri imprenditori in seguito al dossier De Donno sui rapporti tra mafia, politica e appalti. Attenzione: parliamo di Mafia e Appalti, l’inchiesta proibita costata qualche carriera e forse più d’una vita.

Occhio alle date che concatenano i tratti ora salienti, ora drammatici, di quella nefasta stagione del 1992: il 23 maggio la strage di Capaci uccide Giovanni Falcone, che insieme a Paolo Borsellino stava concentrando il lavoro su Mafia e Appalti. Il 13 luglio i pm di Palermo, Scarpinato e Lo Forte, chiedono l’archiviazione dell’inchiesta Mafia Appalti. Il 19 luglio il giudice Paolo Borsellino muore in un agguato sotto casa della madre, in via D’Amelio. Il 14 agosto viene concessa – con inusuale solerzia, alla vigilia di Ferragosto – l’archiviazione definitiva dell’indagine. E torniamo al 1992 con il documento agli atti parlamentari. Scriveva ancora l’ex magistrato Filippo Mancuso: «Nel 1992, comunque, la posizione di Fauci fu archiviata con decisione firmata dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, dall’aggiunto Guido Lo Forte e da, appunto, Roberto Scarpinato. Il fatto di cui sopra non risulta finora in alcun modo smentito e, nella parte riguardante i menzionati magistrati, appare di notevole gravità sotto l’aspetto deontologico e funzionale». Fin qui i fatti riportati alla Camera dei Deputati.

Leggiamo il resoconto stenografico depositato a Montecitorio, perché nell’archivio documentale delle interrogazioni parlamentari il testo a oggi non appare leggibile. Chiese allora Mancuso al ministro Diliberto: «Chiedo di sapere quali iniziative di propria competenza intenda promuovere nei confronti dei magistrati che, in questa vicenda, siano coinvolti o in prima persona o come titolari dei doveri di vigilanza e/o disciplinari, a tutt’oggi trascurati». L’allora ministro della Giustizia del governo D’Alema rispose senza eccepire i fatti, ma decise di non dover procedere. La replica di Diliberto: «Dalla documentazione acquisita dal procuratore generale, dal procuratore della Repubblica di Palermo, nonché dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, emerge in primo luogo che il dottor Scarpinato era nudo comproprietario per un sesto indiviso di un immobile a Sciacca pervenutogli in eredità dalla madre nel 1992. (…) Alla vendita per 690 milioni si provvide tramite una delle agenzie originariamente incaricate. Il dottor Scarpinato non partecipò alle trattative, ma alla stipula dell’atto, ovviamente, avvenuta nell’agosto 1996. Ad acquistare l’immobile fu la società Cesa di Di Grado Rosaria, moglie di Salvatore Fauci, già indagato in un procedimento instaurato a seguito di una informativa dei carabinieri del 1991 e alla trattazione del quale il dottor Scarpinato era stato designato nel maggio del 1992 con altri sette componenti del cosiddetto pool antimafia. Per il Fauci, come per altri venti dei complessivi ventisette indagati, fu chiesta l’archiviazione il 13 luglio 1992 con provvedimento a firma del procuratore Giammanco, del dottor Lo Forte e dello stesso Scarpinato. La richiesta fu accolta dal Gip il successivo 14 agosto».

Due date che coincidono con l’archiviazione di Mafia e Appalti, con lo spegnimento in tutta fretta di quello che era avviato ad essere il motore centrale delle indagini sul sistema corruttivo in Sicilia. Tanto che una parte della magistratura ha deciso di non arrendersi: la Procura di Caltanissetta a fine luglio di quest’anno ha riaperto il filone. Mafia e Appalti aveva messo in luce, tra le altre prime risultanze, il ruolo nevralgico di Angelo Siino: autentico regista degli affari dei Corleonesi, il “ministro dei Lavori pubblici” di Riina era un esperto di aste, gare e appalti. Nel suo sistema aveva previsto che per tutti gli affari conclusi in Sicilia, al “Capo dei capi” doveva essere assegnato lo 0,80%. Oltre a questa, le percentuali che doveva pagare chi otteneva l’appalto erano il 2% per i politici, il 2% per la famiglia mafiosa territorialmente competente e lo 0,50% per i pubblici controllori. Siino venne arrestato nel 1991 e iniziò a collaborare con la giustizia nel 1995; dai verbali dei suoi interrogatori derivano i dettagli sulle percentuali sugli appalti.

È scomparso l’anno scorso. Non potrà quindi dire la sua sulla vicenda di questa compravendita che ha riguardato la proprietà immobiliare del giudice Scarpinato e uno degli uomini ai quali sarebbe stato legato, il re dei laterizi Salvatore Fauci. E non potrà dire la sua Filippo Mancuso, scomparso nel 2011. Le sue ultime parole furono gridate nell’aula di Montecitorio: «Quella che vi sto mostrando è la relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documenta, anzi, come dire, confessa – data la situazione! – che il compratore o il marito della compratrice del pubblico ministero Scarpinato era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!». E concludeva: «Mentre sussisteva tutto questo, il dottor Scarpinato si elevava agli onori degli altari dell’antimafia, con un piglio che è ancora più grave dal punto di vista antropologico che da quello morale: un’indegnità comunque, in ogni caso». La risposta del Guardasigilli provò a dissolvere le ombre: «Nessun addebito di carattere deontologico e funzionale sembra poter essere rivolto al dottor Scarpinato. Peraltro ho provveduto a richiedere informazioni, come dicevo, anche alla procura di Caltanissetta. Questa ha riferito che non esistono indagini aventi ad oggetto il tema dell’interrogazione né alcun organo di polizia ha trasmesso comunicazione di notizia di reato attinente».

Nessun illecito, a parere del Ministro di allora, ma una dinamica tanto discutibile quanto scivolosa. Per la cronaca, stando alle valutazioni di Mancuso: l’immobile di Scarpinato, situato nel comune di Sciacca, pur essendo stato valutato 300 milioni di lire, venne venduto a quasi 700 milioni. Più del doppio del suo valore. Venne comprato dalla moglie di un indagato su cui lo stesso Scarpinato aveva svolto indagini e disposto l’archiviazione quattro anni prima di concludere l’affare. Nel giugno 2014 Siino iniziò a ricordare meglio il ruolo di Fauci: «Pagava il pizzo attraverso fatture gonfiate. Si aumentava il costo delle operazioni contabili, si riscuoteva il relativo importo e la differenza tra il valore reale e quello creato veniva consegnato in contante alla mafia». Fauci nel 2016 verrà condannato in Appello a un anno e mezzo per essere stato “Responsabile di false informazioni ai magistrati con l’aggravante dell’aver agevolato Cosa nostra”. Una storia che ha dell’incredibile, quella della casa di Scarpinato a Sciacca, su cui sarà indispensabile andare a fondo. Ieri lo ha chiesto Luca Palamara, oggi ci torna Matteo Renzi: «Ancora ieri c’è stata una polemica contro di me da parte del M5s e di Scarpinato, magistrato candidato con i grillini. Io vorrei chiedergli: perché invece di insultare me non risponde a Palamara?». Oppure a Filippo Mancuso, venti anni dopo.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Sotto accusa le rivelazioni dell'ex pm. Renzi a Scarpinato: “La lotta alla mafia non è cosa per te”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

“Renzi? Venga qui senza scorta a dire che vuole abolire il reddito di cittadinanza”, ha gridato sabato scorso Giuseppe Conte da un palco siciliano, alla presenza del candidato antimafia’ del M5S al Senato, l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Apriti cielo. La campagna si è infiammata, avvelenata da una intimidazione che ricorda quello degli squadristi: cento anni fa Roberto Farinacci aizzava dal palco con le stesse parole, a suon di minacce cui seguivano puntuali le manganellate ai rivali.

Matteo Renzi ha replicato duramente a Conte: “Un mezzo uomo che parla con un linguaggio da mafioso della politica”. Parole prese in prestito a Leonardo Sciascia che il senatore fiorentino ha scagliato dal comizio fatto proprio a Palermo. Poi il leader di Italia Viva ha rilasciato una intervista al Giornale di Sicilia dai toni altrettanto duri, E se l’è presa anche con Scarpinato. “Non prendiamo lezioni di antimafia da Roberto Scarpinato. Un ex premier che dice che devo andare a Palermo senza scorta non ha alcun senso delle istituzioni, sta istigando alla violenza con un linguaggio politico mafioso e non ha alcun rispetto per gli uomini e le donne delle forze dell’ordine che oggi sono qui a presidiare il territorio perché se qualcuno mi avesse messo le mani addosso lo avrebbe fatto perché sobillato da Conte e tutto il mondo parlerebbe di noi. Quella frase dimostra la statura dell’uomo, meschino e mediocre…”. Botte da orbi. E se l’analisi di Renzi poi va sull’antifona di Conte (“Io non prendo lezioni sulla povertà da Letta e Conte. Per uscire dalla povertà non ci vuole il reddito di cittadinanza, ma un lavoro pagato bene. Con sussidi e assistenzialismo la Sicilia non va da nessuna parte”) è a Scarpinato che il riferimento irriverente brucia di più.

L’ex magistrato, candidato con Conte nel collegio senatoriale Sicilia 1 e in Calabria, si ritrova in un denso passaggio de Il Sistema di Luca Palamara. Cosa rivelò su di lui l’ex capo della magistratura associata? Parlando di pratiche lottizzatorie tra le varie correnti della magistratura nei concorsi per il conferimento degli incarichi di vertice, Palamara ha raffigurato Scarpinato come persona vicina ad Antonello Montante, ex Presidente di Confindustria Sicilia, condannato dalla Corte di Appello di Caltanissetta a otto anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata a vari i reati. Stando al testo dell’ormai celebre libro di Palamara, Scarpinato avrebbe chiesto a Montante, allora particolarmente influente nelle dinamiche siciliane, una segnalazione per essere nominato Procuratore Generale a Palermo.

Scarpinato gli aveva replicato con un lungo articolo pubblicato sul Fatto quotidiano l’11 febbraio 2022, protestando che l’affermazione di Palamara era falsa: non avrebbe mai chiesto alcuna segnalazione a Montante. Le accuse nei suoi riguardi sono gravissime: secondo gli inquirenti, Antonello Montante sarebbe stato a capo di una rete di spionaggio dedita ad acquisire informazioni riservate (anche mediante accessi abusivi alla banca dati SDI delle forze di polizia), ivi comprese quelle riguardanti l’attività d’indagine che si stava svolgendo nei suoi confronti. La Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana ha redatto un corposo documento, chiamato “Il sistema Montante”, che però non ha incluso gli eventuali episodi di contatto intervenuti tra lui e il dottor Scarpinato.

Nella polemica si inserisce Repubblica, che definisce Palamara “fonte (s)qualificata” di Renzi. “Grave che l’articolista abbia omesso di fare una verifica che gli avrebbe consentito di accertare che in realtà la fonte di questi rapporti è un appunto manoscritto rivenuto all’esito di una perquisizione presso l’abitazione del Montante e riferito all’imminente nomina di Scarpinato”. L’ex Procuratore generale di Palermo ieri ha risposto al leader di Italia Viva per le rime: “A pochi giorni dalle elezioni politiche nazionali del 25 settembre, Renzi che sino ad oggi non si era mai occupato della mia persona, ha sferrato un attacco nei miei confronti replicando insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall’ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati. Renzi è evidentemente preoccupato della costante crescita di consensi del M5S per il quale sono candidato come senatore. Nessuna meraviglia che Renzi non esiti a fare ricorso per biechi calcoli elettoralistici a tali squallidi metodi diffamatori nei confronti di chi ritiene essere temibile antagonista politico per la credibilità personale conquistata in decenni di attività al servizio dello Stato sul fronte del contrasto alla criminalità mafiosa ed ai suoi potenti complici nel mondo dei colletti bianchi”.

Poi dallo sfogo Scarpinato è passato a una escalation verbale tipica di chi ha fatto il callo con le reprimende in aula: “Non è un caso che la reputazione e la credibilità di Renzi siano progressivamente colate a picco via via che gli italiani hanno imparato a conoscerlo come portavoce prezzolato di interessi di potenze straniere, nemico dell’assetto della Costituzione e promotore di leggi dichiarate incostituzionali che hanno contribuito a svuotare i diritti dei lavoratori e ad impoverirli”. Niente meno. Per la difesa, il tweet di Renzi che replica a Conte: “Anche oggi Giuseppe Conte parla di me dicendo bugie. Tutto pur di non parlare del perché ha chiuso la struttura dedicata al dissesto idrogeologico e delle truffe miliardarie permesse dal suo Governo. Accetterà mai un confronto?”, la domanda aperta. Siamo agli ultimi quattro giorni di campagna elettorale e tra i leader non c’è stato alcun confronto a quattro. “Renzi vuole farsi pubblicità parlando di me”, gli risponde il leader del M5S. In effetti la querelle tra i due contendenti, direbbero forse i sondaggisti se potessero parlare, sembra abbia portato a una nuova polarizzazione degli elettori, insoddisfatti dal duello Letta-Meloni, oggettivamente meno vivace di questo.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

I pasticci del pm. Ci ha riquerelato Scarpinato, siamo terrorizzati! Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2022. 

Ieri Nino Di Matteo, ex Pm palermitano e ora membro del Csm, ha criticato i partiti che hanno fatto sparire dai loro programmi la lotta alla mafia. Giusto. L’unica traccia di impegno contro le cosche lo hanno dato i Cinque Stelle candidando l’ex procuratore generale di Palermo. Che però… Proprio l’altro ieri è riemersa una storia che era stata dimenticata da tutti. Pare proprio che l’ex procuratore generale di Palermo (Roberto Scarpinato) qualche anno fa abbia venduto ad un prezzo altissimo una casa di famiglia nel paese di Sciacca a un suo ex imputato, che lui archiviò un paio di volte ma che poi fu condannato da altri. Non è una vicenda edificante.

La sollevò tanti anni fa l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso, il quale sostenne anche che questo compratore di casa fosse amico dei Siino, una famiglia che aveva tra i suoi esponenti il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici dei corleonesi di Riina”. Ahi ahi ahi. Nessun reato, pare, ma insomma per i Cinque Stelle che sospendono dal partito un assessore per una bazzecola qualunque, anche se non provata, questo è un macigno. Ieri ancora non era giunta la notizia di una nota di presa di distanze da Scarpinato da parte di Giuseppe Conte. E’ molto probabile che la nota arriverà oggi in giornata. E che Conte chieda a Scarpinato di impegnarsi a dimettersi dalla Camera in caso di elezione. (Sia chiaro: noi non siamo d’accordo; se il reato non c’è, non c’è. In nessuna parte del codice penale c’è scritto che un magistrato non possa fare affari con il proprio imputato. Però conosciamo purtroppo l’intransigenza morale di Conte).

Scarpinato ci ha riquerelato. Ha querelato il direttore di questo giornale perché abbiamo scritto di una casa di proprietà della sua famiglia, a Sciacca, che lui vendette alla bella cifretta di quasi 700 milioni a un signore che tempo prima era stato suo imputato ed era stato da lui archiviato. È un reato vendere la casa a un proprio imputato (che poi, da altri magistrati, fu condannato per altri fatti)? No. Pare che il codice penale non proibisca la compravendita di appartamenti tra magistrati e imputati e nemmeno proibisca pagamenti molto alti. Del resto che una casa a Sciacca, nel ‘96, valesse quasi settecento milioni quando a Roma trovavi un appartamento in zona semicentrale a 400 milioni non è un fatto così eccezionale. Sciacca è una cittadina di una certa importanza e non è lontana da Agrigento. Le case costano.

Non è chiaro però per cosa ci quereli Scarpinato. Nel comunicato che ha diffuso alle agenzie conferma tutte le notizie che noi abbiamo dato. Sorvola solo sul fatto che l’acquirente della abitazione fosse un suo ex imputato, però neanche lo smentisce questo fatto. E allora? Dov’è la diffamazione da parte nostra? Nell’aver riportato una interrogazione parlamentare regolarmente presentata da un deputato della Repubblica? Non credo. Nell’aver taciuto il fatto che questa interrogazione è vecchia di qualche anno? No, non lo abbiamo taciuto, lo abbiamo scritto bene bene in prima pagina. Nell’aver sostenuto che la vendita fu un reato? No, abbiamo spiegato e rispiegato che non c’è nessun reato. Abbiamo solo fatto notare che certo – ma questo è indiscutibile – se una cosa simile fosse successa a un assessore – non parliamo nemmeno di un deputato…- beh, quell’assessore avrebbe passato guai seri. Scarpinato non era un assessore e infatti – anche questo lo abbiamo scritto – la magistratura siciliana stabilì che non c’era niente su cui indagare e l’interrogazione del deputato – ed ex ministro della Giustizia – fu archiviata.

Giusto. E infatti anche questo lo abbiamo scritto. Dunque? Niente, le cose stanno così e noi siamo abituati. In Italia puoi scrivere quello che vuoi di chi vuoi, specie dei politici, ma dei magistrati o degli ex magistrati è meglio che non scrivi niente. Tacere, sopire, sopire, tacere. Così fan tutti. Pensate all’oblio nel quale è stato lasciato dai grandi giornali e dai politici il libro di Palamara e Sallusti. E vabbé, noi non ci adattiamo. Il nostro direttore ha già collezionato una ventina di querele dai magistrati. Si paga un prezzo alla libertà di stampa, no? La libertà dal potere dei magistrati è la più difficile. L’importante è non spaventarsi per le intimidazioni.

Attesa per le decisioni. Scarpinato e le querele al Riformista, Stefano Giordano: “Si è candidato, giusto scrivere di lui”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Roberto Scarpinato non è più un magistrato. È un politico, e dunque si adatta a fare quello che fanno certi politici: minaccia la stampa, evita di rispondere alle domande, scansa gli argomenti. Che però ci sono, e a volte riaffiorano da quei meandri della memoria collettiva in cui erano stati archiviati. Il Riformista è fatto oggetto di una campagna che punta “a punirne uno per educarne cento”: Scarpinato minaccia querele che possono servire, non spaventando noi, almeno a tenere alla larga gli altri. Ma qual è la pietra dello scandalo? Il Riformista ha pubblicato una interrogazione parlamentare presentata dall’ex parlamentare ed ex Ministro della giustizia Filippo Mancuso, virgolettando domande e risposta. Se pubblicare gli atti parlamentari diventa oggetto di querela, capiamo meglio la fascinazione che il Venezuela di Maduro esercita sul Movimento Cinque Stelle. A noi risultava ancora ammessa la facoltà dei giornali di mettere in pagina le interrogazioni parlamentari. Perfino di quelle di vent’anni fa. Anche perché talvolta, scansata la polvere degli anni, ci sono carte che continuano a parlare.

La vicenda che quella interrogazione evocava è degna di un romanzo di buona letteratura siciliana: un immobile di proprietà della famiglia Scarpinato a Sciacca (Agrigento) venne venduto – stando alla ricostruzione di Mancuso – al doppio del suo prezzo a una signora che solo per combinazione si scoprirà essere la moglie di un ex imputato che Scarpinato aveva scagionato dalle accuse di mafia, archiviandolo quattro anni prima. Una vicenda di casi e di combinazioni, niente di più, come ha avuto modo di rispondere a Mancuso l’allora guardasigilli Diliberto. Sperando che si possa ancora ricorrere all’archivio della Camera senza commettere reati, ci mettiamo a consultare altri documenti. Fonti ufficiali, quali la Relazione della Commissione Antimafia dell’Ars, e i verbali depositati presso la magistratura stessa. Diversi i riferimenti al caso di Antonello Montante. Dell’ammirazione spropositata che l’allora procuratore Scarpinato sentiva nei confronti di Montante, eretto a simulacro delle migliori virtù, si può scrivere senza timori di smentita.

Queste le parole con cui Scarpinato, allora Procuratore Generale di Caltanissetta, ha aperto l’anno giudiziario nel 2013: “Nella provincia di Caltanissetta, in particolare a far data dal 2004, si è verificata una profonda e storica frattura all’interno della classe imprenditoriale che ha visto contrapporsi due diverse anime di un mondo che sino ad allora in Sicilia è stato saldamente coeso ed egemonizzato da imprenditori variamente collegati ad organizzazioni mafiose, i quali avevano rivestito ruoli negli organismi rappresentativi degli industriali in varie province dell’isola. A seguito di tale spaccatura, e in esito ad un lungo braccio di ferro costellato anche da episodi di intimidazioni e si è alla fine affermato una giovane leva di imprenditori, alcuni dei quali dipendenti, poi uomini simbolo a livello nazionale e gratificati con incarichi in Confindustria nazionale, i più noti dei quali Antonello Montante, Ivan Lo Bello i quali si sono fatti promotori di un processo di profondo rinnovamento culturale nel mondo imprenditoriale all’insegna dell’impegno antimafia senza se e senza ma”. Su Montante una verifica in più avrebbe forse consentito di dare un giudizio diverso. Quel “Senza se e senza ma” ci ricorda qualcosa. Perché è con quella stessa identica espressione che Giuseppe Conte in questi giorni dalla Sicilia ha parlato di Scarpinato, uomo dedicato all’antimafia “Senza se e senza ma”.

Non condividono l’entusiasmo alcuni tra i giuristi più impegnati nella difesa del diritto a Palermo. L’avvocato Stefano Giordano, tra i più noti penalisti italiani, è il figlio di quell’Alfonso Giordano che ha presieduto il Maxi processo a Cosa Nostra di Palermo: “Le frequentazioni con politici e magistrati hanno portato a certi personaggi, a Palermo, benefici innegabili. C’erano persone che oggi sappiamo essere state colluse con la mafia che invece venivano ricevute con grandi onori in certe Procure della Repubblica”. Eccoci alla mafia dell’antimafia di cui Leonardo Sciascia parlava. “C’erano personaggi parapolitici che ruotavano intorno a certi magistrati, e che da quelli venivano insigniti come titolari della Legalità, con la L maiuscola. Errori di valutazione? Diciamo così”. Sulla compravendita dell’immobile di Sciacca, “C’è poco da denunciare. Chi si imbarazza, doveva imbarazzarsi prima. Non perché vi siano stati reati, ma per una questione di opportunità, di prudenza, di attenzione che qualche volta è venuta meno. Qui si parla di un compratore che – sia pure attraverso il tramite dell’agenzia immobiliare – entra in contatto diretto con un magistrato. Il compratore era entrato nell’inchiesta Mafia Appalti. Il venditore è quello che ha contribuito ad archiviarla”, precisa l’avvocato Giordano. Che poi puntualizza: “Quando il cittadino, che in quel caso era tra l’altro anche un magistrato, entra in politica, è normale documentarsi meglio sul suo passato. Lo hanno fatto anche sul Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Perché non si dovrebbe poter approfondire con qualche inchiesta su Scarpinato? Oppure lui ritiene di essere superiore al Capo dello Stato?”.

Infatti lo facciamo, non ci tiriamo indietro. E da garantisti continuiamo a dire che non c’è l’ombra di un reato, fino a prova contraria. “Però una cosa me la lasci dire. Nel sistema giudiziario americano ci sono tante falle ma ha una cosa buona: i Pubblici ministeri vengono valorizzati sulla base dei processi che vincono e di quelli che perdono. Facciamo il conto dei processi vinti e persi da Scarpinato, nella vita. E valutiamolo su quella base. Parliamo del Processo Andreotti, durato anni. Non ha portato a niente: si è risolto con il proscioglimento. Il processo aveva lo scopo di portare l’imputato alla condanna o di sollevare delle ombre? Se lo scopo ultimo era questo, allora va bene, ma non dovrebbe funzionare così”.

L’avvocato civilista Salvatore Ferrara ha un brivido nell’apprendere della querela che Scarpinato ha preannunciato al Riformista. “C’è una raccomandazione del Consiglio d’Europa che stigmatizza le minacce di querela a seguito di inchieste giornalistiche e ammonisce gli Stati membri da questo sistema intimidatorio verso la libertà di stampa. Chi si candida a rappresentarci nelle istituzioni dovrebbe fare tesoro di questa raccomandazione”. Ma stiamo parlando di un candidato al Senato per il M5S, naturale che la polemica sia anche politica. Tra gli altri candidati impegnati nelle piazze siciliane, risuona la voce di chi non risparmia critiche allo Scarpinato non più magistrato ma candidato grillino, come quella di Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa che corre con Forza Italia. “Scarpinato? Un khomeinista”, lo definisce Mulè. D’altronde in Iran, per aver sollevato un velo, c’è chi in questi giorni è stato messo a morte. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Attesa per le decisioni. Scarpinato e le querele al Riformista, Stefano Giordano: “Si è candidato, giusto scrivere di lui”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Roberto Scarpinato non è più un magistrato. È un politico, e dunque si adatta a fare quello che fanno certi politici: minaccia la stampa, evita di rispondere alle domande, scansa gli argomenti. Che però ci sono, e a volte riaffiorano da quei meandri della memoria collettiva in cui erano stati archiviati. Il Riformista è fatto oggetto di una campagna che punta “a punirne uno per educarne cento”: Scarpinato minaccia querele che possono servire, non spaventando noi, almeno a tenere alla larga gli altri. Ma qual è la pietra dello scandalo? Il Riformista ha pubblicato una interrogazione parlamentare presentata dall’ex parlamentare ed ex Ministro della giustizia Filippo Mancuso, virgolettando domande e risposta. Se pubblicare gli atti parlamentari diventa oggetto di querela, capiamo meglio la fascinazione che il Venezuela di Maduro esercita sul Movimento Cinque Stelle. A noi risultava ancora ammessa la facoltà dei giornali di mettere in pagina le interrogazioni parlamentari. Perfino di quelle di vent’anni fa. Anche perché talvolta, scansata la polvere degli anni, ci sono carte che continuano a parlare.

La vicenda che quella interrogazione evocava è degna di un romanzo di buona letteratura siciliana: un immobile di proprietà della famiglia Scarpinato a Sciacca (Agrigento) venne venduto – stando alla ricostruzione di Mancuso – al doppio del suo prezzo a una signora che solo per combinazione si scoprirà essere la moglie di un ex imputato che Scarpinato aveva scagionato dalle accuse di mafia, archiviandolo quattro anni prima. Una vicenda di casi e di combinazioni, niente di più, come ha avuto modo di rispondere a Mancuso l’allora guardasigilli Diliberto. Sperando che si possa ancora ricorrere all’archivio della Camera senza commettere reati, ci mettiamo a consultare altri documenti. Fonti ufficiali, quali la Relazione della Commissione Antimafia dell’Ars, e i verbali depositati presso la magistratura stessa. Diversi i riferimenti al caso di Antonello Montante. Dell’ammirazione spropositata che l’allora procuratore Scarpinato sentiva nei confronti di Montante, eretto a simulacro delle migliori virtù, si può scrivere senza timori di smentita.

Queste le parole con cui Scarpinato, allora Procuratore Generale di Caltanissetta, ha aperto l’anno giudiziario nel 2013: “Nella provincia di Caltanissetta, in particolare a far data dal 2004, si è verificata una profonda e storica frattura all’interno della classe imprenditoriale che ha visto contrapporsi due diverse anime di un mondo che sino ad allora in Sicilia è stato saldamente coeso ed egemonizzato da imprenditori variamente collegati ad organizzazioni mafiose, i quali avevano rivestito ruoli negli organismi rappresentativi degli industriali in varie province dell’isola. A seguito di tale spaccatura, e in esito ad un lungo braccio di ferro costellato anche da episodi di intimidazioni e si è alla fine affermato una giovane leva di imprenditori, alcuni dei quali dipendenti, poi uomini simbolo a livello nazionale e gratificati con incarichi in Confindustria nazionale, i più noti dei quali Antonello Montante, Ivan Lo Bello i quali si sono fatti promotori di un processo di profondo rinnovamento culturale nel mondo imprenditoriale all’insegna dell’impegno antimafia senza se e senza ma”. Su Montante una verifica in più avrebbe forse consentito di dare un giudizio diverso. Quel “Senza se e senza ma” ci ricorda qualcosa. Perché è con quella stessa identica espressione che Giuseppe Conte in questi giorni dalla Sicilia ha parlato di Scarpinato, uomo dedicato all’antimafia “Senza se e senza ma”.

Non condividono l’entusiasmo alcuni tra i giuristi più impegnati nella difesa del diritto a Palermo. L’avvocato Stefano Giordano, tra i più noti penalisti italiani, è il figlio di quell’Alfonso Giordano che ha presieduto il Maxi processo a Cosa Nostra di Palermo: “Le frequentazioni con politici e magistrati hanno portato a certi personaggi, a Palermo, benefici innegabili. C’erano persone che oggi sappiamo essere state colluse con la mafia che invece venivano ricevute con grandi onori in certe Procure della Repubblica”. Eccoci alla mafia dell’antimafia di cui Leonardo Sciascia parlava. “C’erano personaggi parapolitici che ruotavano intorno a certi magistrati, e che da quelli venivano insigniti come titolari della Legalità, con la L maiuscola. Errori di valutazione? Diciamo così”. Sulla compravendita dell’immobile di Sciacca, “C’è poco da denunciare. Chi si imbarazza, doveva imbarazzarsi prima. Non perché vi siano stati reati, ma per una questione di opportunità, di prudenza, di attenzione che qualche volta è venuta meno. Qui si parla di un compratore che – sia pure attraverso il tramite dell’agenzia immobiliare – entra in contatto diretto con un magistrato. Il compratore era entrato nell’inchiesta Mafia Appalti. Il venditore è quello che ha contribuito ad archiviarla”, precisa l’avvocato Giordano. Che poi puntualizza: “Quando il cittadino, che in quel caso era tra l’altro anche un magistrato, entra in politica, è normale documentarsi meglio sul suo passato. Lo hanno fatto anche sul Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Perché non si dovrebbe poter approfondire con qualche inchiesta su Scarpinato? Oppure lui ritiene di essere superiore al Capo dello Stato?”.

Infatti lo facciamo, non ci tiriamo indietro. E da garantisti continuiamo a dire che non c’è l’ombra di un reato, fino a prova contraria. “Però una cosa me la lasci dire. Nel sistema giudiziario americano ci sono tante falle ma ha una cosa buona: i Pubblici ministeri vengono valorizzati sulla base dei processi che vincono e di quelli che perdono. Facciamo il conto dei processi vinti e persi da Scarpinato, nella vita. E valutiamolo su quella base. Parliamo del Processo Andreotti, durato anni. Non ha portato a niente: si è risolto con il proscioglimento. Il processo aveva lo scopo di portare l’imputato alla condanna o di sollevare delle ombre? Se lo scopo ultimo era questo, allora va bene, ma non dovrebbe funzionare così”.

L’avvocato civilista Salvatore Ferrara ha un brivido nell’apprendere della querela che Scarpinato ha preannunciato al Riformista. “C’è una raccomandazione del Consiglio d’Europa che stigmatizza le minacce di querela a seguito di inchieste giornalistiche e ammonisce gli Stati membri da questo sistema intimidatorio verso la libertà di stampa. Chi si candida a rappresentarci nelle istituzioni dovrebbe fare tesoro di questa raccomandazione”. Ma stiamo parlando di un candidato al Senato per il M5S, naturale che la polemica sia anche politica. Tra gli altri candidati impegnati nelle piazze siciliane, risuona la voce di chi non risparmia critiche allo Scarpinato non più magistrato ma candidato grillino, come quella di Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa che corre con Forza Italia. “Scarpinato? Un khomeinista”, lo definisce Mulè. D’altronde in Iran, per aver sollevato un velo, c’è chi in questi giorni è stato messo a morte. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Strage di via Palestro, tenetevi le cantilene dell’antimafia militante. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

Ci sono diversi modi di commemorare le stragi, che in Italia purtroppo fino ai primi anni novanta del secolo scorso sono state tante. A Milano ogni anno si ricorda soprattutto quella di piazza Fontana del 1969: strage fascista, strage di Stato, strage casuale e non voluta? Ma ogni anno quel giorno i milanesi, comunque la pensino, sono tutti lì, perché la ferita è stata enorme, negli anni del movimento degli studenti e dell’autunno caldo delle fabbriche, che ancora esistevano.

Ma c’è un’altra ferita che brucia ancora, ogni anno, la sera del 27 luglio alle 23,15: la bomba del 1993 davanti al Pac di via Palestro, il Padiglione di arte contemporanea, luogo di giovani e di intellettuali, più che circo frequentato da tanti. Luogo stravagante per una strage di mafia, in effetti. Pure, così hanno stabilito le sentenze, così ha testimoniato una serie di “pentiti”, collegando quella Uno bianca imbottita di esplosivo con quella scoppiata a Firenze e altre a Roma, tutte negli stessi giorni. Le cinque vittime di Milano sicuramente non erano obiettivi della mafia. L’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari, che per primo vide quel filo di fumo bianco che usciva dall’auto.

I vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, che erano subito accorsi sul luogo. E Moussafir Driss, un immigrato marocchino che dormiva su una panchina dall’altra parte della strada e fu investito da un blocco di lamiera. Ogni anno a Milano sono soprattutto i vigili del fuoco a ricordare con la presenza in massa di autopompe i loro colleghi uccisi. Anche questa volta, e sono ormai ventinove anni che lo fanno. Suonano le sirene in via Palestro, poi a mezzanotte il Comune invita tutti a un concerto al cimitero monumentale. Commovente, quello di mercoledì sera, con la note struggenti del Requiem di Mozart.

Si sentiva la necessità della nota stonata della consueta filastrocca dell’antimafia militante? No, che non la si sentiva. Tanto che, poche ore prima del concerto e delle sirene dei vigili del fuoco, non più di venti persone erano lì ad ascoltare, sotto la voce “Il Pac non dimentica”, il curatore del padiglione Diego Sileo che intervistava un giovane giornalista siciliano, Marco Bova, collaboratore del Fatto quotidiano, che ha scritto un anno fa un libro su Matteo Messina Denaro, considerato il grande latitante di mafia, che Bova considera un “latitante di Stato”. E fa già un po’ sorridere –lo diciamo senza paternalismo-, che un ragazzo siciliano nato nel 1989, vent’anni dopo la strage di piazza Fontana, sia venuto proprio a Milano a usare quell’espressione un po’ torva e sospettosa dei ragazzi che negli anni settanta riempivano le piazze gridando “la strage è di Stato”.

Ma fosse solo questo. Perché quei venti che avevano sfidato il caldo della città deserta (ma al concerto erano ben di più) per dare il segnale di un ricordo commosso per quelle vittime, forse meritavano qualcosa di più serio della rifrittura mal recitata di tutti i luoghi comuni dell’antimafia militante. E perdente nei processi, dalla farsa “trattativa” fino alle bufale di Scarantino. Si capisce dalle prime parole del giornalista, dove si vuole arrivare. Ah, il fascino dei “mandanti”! Quelli che stanno sempre nel backstage. Chi ci sarà stato dietro le Brigate Rosse? E dietro la mafia? Quando ci si inerpica per questi viottoli, le brutte figure non si fermano più. Prendiamone una che fa veramente ridere. Partiamo da una constatazione seria: perché la mafia avrebbe dovuto far esplodere una bomba proprio davanti a un luogo d’arte sofisticato e non da tutti conosciuto come il Pac? Forse gli uomini di Cosa Nostra si sono sbagliati.

Potrebbero essersi confusi con il palazzo della stampa, che però è in piazza Cavour, cioè ad almeno 3-400 metri di distanza. Oppure, forse volevano colpire la casa di Marcello Dell’Utri, che però era ancora più distante, al di là del parco, in via Marina. Assurdità, ovviamente, ma intanto il nome è stato buttato lì, a futura memoria. Verrà ripreso alla fine, insieme a quello di Silvio Berlusconi e dell’inevitabile boss mafioso Giuseppe Graviano. In definitiva queste bombe del 1993 a che cosa sarebbero servite nella strategia di Cosa Nostra, se non a “destabilizzare per creare il passaggio tra la prima e la seconda repubblica”?

Il finale della manifestazione è veramente sconsolato. Ma non si sorride più, nel sentir dire che “purtroppo” l’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri mandanti delle stragi “non potrà andare avanti come destino giudiziario senza riscontri inossidabili e quindi si rischia l’archiviazione”. Chiaro? Se a un’ipotesi dell’accusa non si trovano “riscontri inossidabili”, non significa che forse l’indagato con quei fatti non c’entra niente, ma che ci sono colpevoli che la fanno franca. Chissà se ci hanno creduto quei venti poveretti di una sera accaldata di fine luglio.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Le elezioni della leader Fdi. La Meloni e le baggianate sul partito dell’antimafia: tutto quello che la leader FdI ignora su Borsellino. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Luglio 2022. 

Strana campagna elettorale, questa dell’estate 2022. Non si è ancora asciugato l’inchiostro –come dicono quelli colti- con cui ho difeso Giorgia Meloni dalla stupidità dell’antifascismo militante che l’ha colpita, che la stessa presidente di Fratelli d’Italia mette insieme, con una bella pagina su Libero, almeno dieci buone ragioni per non essere votata da tutti quelli che hanno a cuore lo Stato di diritto. Strana campagna elettorale.

Da sinistra fanno sapere che l’Occidente intero, a partire dagli Stati Uniti, è preoccupato dalla possibilità (per ora solo nei sondaggi) che la prima donna nera, di presunto animus più che di colore della pelle, possa accedere a Palazzo Chigi. E lei che risponde con un sacco di cose false e banali sulla morte di Borsellino e la necessità di “trovare i colpevoli”. Cioè risponde all’antifascismo militante con la più stupida e antistorica antimafia militante. Neanche fosse una di una certa sinistra. Giorgia Meloni è una dirigente politica prestigiosa e con le idee chiare. Il suo scritto di ieri merita una risposta seria, a prescindere dal fatto che è innanzi tutto molto disinformato. Oltre che molto pieno di omissioni, come quando si dice “Abbiamo il dovere morale e materiale di contribuire alla ricostruzione di fatti che la mafia ha volutamente insabbiato, anche trovando ignobili sponde in pezzi deviati dello Stato”. Eh, no.

La mafia non ha insabbiato proprio niente, e lo Stato non si è espresso tramite “pezzi deviati”, ma è entrato dentro le porcherie dei vari processi Borsellino con tutti i piedi e le scarpe. L’articolo inizia con un ricordo personale di una Giorgia ragazzina davanti al cui sguardo si snodano le immagini televisive della bomba di via D’Amelio. E un impegno, preso quel giorno, quel 19 luglio del 1992, quello di entrare in politica per lottare contro la mafia. Commendevole, soprattutto per una giovane donna non siciliana, persa in questi ricordi trent’anni dopo e con un’uscita forte a inizio di campagna elettorale. Il primo impegno, sancito in Parlamento anche con due proposte di legge, di cui una importante a modifica dell’articolo 27 della Costituzione, è per la difesa dell’ergastolo ostativo. Cioè quella condanna che non solo noi del Riformista, ma anche la Corte Costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo considerano una forma di pena di morte, di morte sociale. So di dire una cosa forte, ma chi difende una pena eterna senza vie d’uscita, deve avere il coraggio di sostenere anche la pena capitale, che del resto esiste non solo nel mondo islamico ma anche in alcuni degli Stati americani.

Conosco l’obiezione: se il condannato all’ergastolo ostativo vuol vedere una via d’uscita, basta che si trasformi in “pentito”. Ancor più facile la contro-obiezione. Non tutti hanno qualcosa da dire, esistono anche gli innocenti, poi esiste la paura delle ritorsioni nei confronti dei familiari, poi non tutti se la sentono di accusare altri. E comunque, per sostenere qualunque tesi, non è necessario aggrapparsi sempre al santino di Giovanni Falcone. Soprattutto perché il suo provvedimento lasciava la possibilità di accedere ai benefici penitenziari anche senza la collaborazione. Ipotesi che venne poi esclusa da un Parlamento, l’ultimo della prima repubblica, disorientato non solo per le stragi mafiose ma anche per l’assalto dei pubblici ministeri di Mani Pulite. Ma il più debole fu il governo, che non riusciva a sconfiggere Cosa Nostra sul piano militare, visto che i boss erano tutti latitanti, e pensò di dare un segnale di quella forza che non aveva con le leggi speciali e le torture nelle carceri di Pianosa e Asinara.

Non amo scrivere in prima persona, ma questa volta lo faccio, perché c’ero in quel Parlamento e anche in quelle carceri. Ho assistito giorno dopo giorno alla costruzione, a suon di botte e minacce, del falso pentito Scarantino. La seconda morte di Borsellino, il famoso “depistaggio più grande della storia”, è stato voluto e creato in quei giorni, insieme all’ergastolo ostativo e all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Cara Giorgia, consentimi la confidenza, se vuoi davvero impegnarti sulla verità per Borsellino, devi partire da lì. Perché ci sono gli atti processuali e le sentenze. Non è cosa da campagna elettorale, mi rendo conto.

Ma ci sono i nomi e i cognomi dei magistrati e dei dirigenti di polizia che hanno partecipato al banchetto del depistaggio. Non sono “corpi separati”, ti assicuro. C’è la frettolosa archiviazione del “processo mafia-appalti”, su cui indagavano Falcone e Borsellino. C’è la sentenza del processo “trattativa”, altro depistaggio di Stato, che ha assolto gli ex generali dei Ros Mori, Subranni e De Donno, le cui divise furono per anni e anni infangate dalla subcultura dell’antimafia militante, e che oggi noi tutti insieme abbiamo il dovere di onorare. E c’è anche l’ultima sentenza, quella che ha dovuto constatare la prescrizione dei reati contestati ai “pesci piccoli” delle forze dell’ordine.

Tutto scritto, nero su bianco. E lasciamo perdere, per favore, la fantasia di quel “papello” di Totò Riina che non è mai esistito, se non nella fantasia di un personaggetto come Ciancimino junior, che è stato per questo anche condannato. Anche in questo caso ci sono le sentenze. Mi spiace davvero che tu sia così disinformata. Su fatti lontani, ma anche su quelli più vicini, come quelli degli anni scorsi, quelli infausti della pandemia. Qui mi appello al tuo senso di umanità. Mentre tutti eravamo chiusi nelle case e se al supermercato una persona sternutiva veniva guardata e allontanata come un untore della peste seicentesca, puoi capire come ci si sentisse nel chiuso di un carcere, di una cella?

Sicuramente saprai che l’Europa (visto che sei anche presidente del partito conservatore) ha più volte condannato l’Italia per la ristrettezza fisica delle sue celle nelle carceri. Puoi quindi immaginare come si sentisse un detenuto in quei giorni? Sto parlando di un detenuto, un essere umano, uomo o donna, non di un mafioso o un rapinatore. Un essere umano, impaurito per il morbo e per la vita, come lo eravamo tutti noi. Un essere rinchiuso può reagire anche con la violenza, che va condannata e sanzionata. E così è stato. Ma nelle rivolte delle 50 carceri in quei giorni di marzo ci furono anche 14 morti, e molti prigionieri picchiati dagli agenti.

Non c’è nessuna inchiesta che abbia portato la prova di una regia mafiosa su quelle rivolte. Perché insisti? Mi tocca infine anche difendere il ministro Bonafede, chiedo scusa ai miei pochi lettori, perché il decreto “cura Italia” non ha affatto scarcerato, come scrisse Repubblica e come tu sembri credere, 376 mafiosi. I condannati per mafia erano solo tre, due dei quali malati terminali. Si trattava di sospensioni temporanee della pena chieste da decine di giudici di sorveglianza. Nessuno è scappato, quando il decreto è stato ritirato. Il mio spazio è finito. Vuoi fare una commissione d’inchiesta sulla strage di via D’Amelio? Benissimo, ma partiamo dal più grande depistaggio della storia e chiedi a chi sarà il presidente di convocare subito il magistrato Nino Di Matteo. Così entriamo nel vivo. E lascia perdere quel migliaio di detenuti al carcere ostativo. Hanno fatto tanto male, ma dopo trent’anni sono in gran parte persone diverse, ti assicuro. Cerca di credermi, è così. Buona campagna elettorale.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Le toghe rosse e gialle di nuovo nelle liste, FdI: «Serve una commissione d’inchiesta». Redazione il 18 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia. 

Le toghe rosse (e gialle) tornano inesorabilmente nelle liste. Negli ultimi anni sono stati candidati dalla sinistra due ex magistrati di peso come Pietro Grasso e Franco Roberti. Entrambi prima al vertice della Dna e poi andati in pensione. Grasso era già stato giudice estensore della sentenza del maxi processo a Cosa Nostra, poi parlamentare del Pd e poi presidente del Senato, infine fu eletto cinque anni fa con Leu. Non compare, almeno per il momento, nelle liste del Pd. Anche Roberti era stato procuratore nazionale prima di essere, nel 2019, eletto europarlamentare del Pd. Ora è il Movimento cinquestelle a puntare sui magistrati, candidando nel listino bloccato di Conte, Federico Cafiero De Raho e Roberto Scarpinato. Ex procuratori Antimafia, in passato alla guida uno della Procura di Napoli prima e della Dna poi, e l’altro della Procura generale di Palermo.

Toghe, FdI: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio»

«Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed ecco che la sinistra ripropone nelle proprie liste i nomi di importanti magistrati in pensione. Altro che terzietà della giustizia. Il M5S, in particolare, ha una vera e propria passione. Nel loro listino, infatti, ci sono due importanti ex magistrati, Roberto Scarpinato e Cafiero De Raho. Ho già proposto una commissione d’inchiesta che verificasse il ruolo di potenti magistrati poi passati nelle file del Pd. Dopo questa ulteriore vicenda, sarà assolutamente necessaria». Lo dichiara il Questore della Camera e deputato di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli.

Magistrati che entrano nelle liste, sì alla commissione  d’inchiesta

«Circa un mese fa», chiarisce Cirielli, «ho proposto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulle indagini contro il Pdl avvenute nel periodo in cui ero presidente della Provincia di Salerno e Franco Roberti, ex assessore regionale di De Luca e ora eurodeputato del Pd, era procuratore del tribunale di Salerno. Indagini che hanno portato decine di persone a essere indagate, perquisite e perfino arrestate. Tutte inchieste per lo più finite archiviate in istruttoria o comunque nel nulla, con assoluzioni in tutti i gradi di giudizio. Ma che hanno indirettamente e oggettivamente avvantaggiato De Luca alla conquista della Regione nel 2015,perché disarticolarono e delegittimarono in quegli anni, nel salernitano, dove l’attuale governatore sbancò, il centrodestra».

Il “salto evolutivo” dei 5Stelle: portano i pm in Parlamento. Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato sono i frontman non ufficiali del Movimento di Conte: il mito fondatore del grillismo rimane il legalitarismo esasperato. Davide Varì su Il Dubbio il 17 agosto 2022.

L’ex procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho e l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, due fior di magistrati, sono i simboli, i frontman non ufficiali del Movimento 5Stelle di Conte. Insomma, chi immaginava, si augurava, sperava in una svolta post Di Maio, Taverna e Dibba, deve essere rimasto assai deluso.

Ancora una volta i grillini si presentano come i campioni del populismo penale condito con la solita spruzzatina di temi sociali e qualche citazione di Mao buttata lì da Conte tanto per provare a vedere l’effetto che fa: hai visto mai che qualcuno a sinistra ci casca e magari dimentica il piccolo particolare che Conte, proprio lui, da ex premier firmò i decreti sicurezza di Salvini, quelli dei respingimenti in mare? Insomma, il mito fondatore del grillismo rimane il legalitarismo esasperato che diventa sempre più visione punitiva della giustizia.

E per far ciò ora il Movimento si affida per la prima volta direttamente ai magistrati ai quali consegna, senza più alcuna mediazione, le chiavi del Parlamento, e prepara il banchetto da consumare sulla lapide della separazione dei poteri…

Questione di opportunità. La politica parcheggio dei procuratori nazionali antimafia, da Grasso a Roberti a Cafiero de Raho: adesso basta! Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Agosto 2022 

In principio fu Pietro Grasso, poi Franco Roberti ed ora Federico Cafiero De Raho. Il salto dalla Procura nazionale antimafia alla politica nazionale sembra essere diventato la prassi. Tutto normale? No, se si pensa che il procuratore nazionale antimafia è il capo di un ufficio che coordina indagini e informazioni a livello nazionale, che fornisce al Parlamento le informative, che viene audito nelle Commissioni sulle varie proposte di riforma.

No, se si vuole che agli occhi dell’opinione pubblica la Procura nazionale antimafia non perda (se non l’ha già persa) l’immagine di terzietà e indipendenza che deve avere. No, se diventa lo specchio di una politica che per apparire credibile sceglie di puntare su ex magistrati. È un dubbio che avremmo voluto evitare di avere quello che spinge a domandarsi se l’Antimafia serva solo a combattere la criminalità organizzata o anche, indirettamente, a fare carriera politica. È una questione di opportunità quella che si pone adesso e riguarda i magistrati ex fuori ruolo. È una questione che si ripropone ora che il nome di Federico Cafiero De Raho, capo della Procura nazionale antimafia in pensione da maggio, è nel “listino” del Movimento Cinque Stelle.

«Una nomina che potrebbe presupporre rapporti pregressi, a meno che Giuseppe Conte non abbia chiesto in giro il numero di telefono di De Raho. Siamo al terzo procuratore su tre che, terminato il proprio ruolo, entra in politica», commenta l’avvocato Giorgio Varano, penalista e responsabile della comunicazione dell’Unione Camere Penali italiane. «Sui magistrati fuori ruolo facciamo riflessioni da anni, adesso si pone anche una questione relativa ai magistrati ex fuori ruolo – spiega Varano – Il procuratore nazionale antimafia ha accesso a tutte le indagini e le informative. Prescindendo dalla singola persona, è legittimo pensare anche, in un’ipotesi inversa, che difficilmente si potrebbe dire di no a un magistrato che ha avuto accesso a tante informazioni e poi chiede di essere candidato, si potrebbe verificare un condizionamento involontario. Penso che se un direttore dei servizi segreti si candidasse la cosa non verrebbe fatta passare sotto silenzio».

«Roberti e De Raho sono stati magistrati integerrimi ma qui la valutazione è politica – precisa Varano – , qui non si critica la persona né quello che un tempo è stato il magistrato, ma un meccanismo che tende, anche involontariamente, a costruire una candidatura. Ciò crea un grave danno di immagine della Procura nazionale». La questione è seria. Andrebbe valutata anche sul piano normativo. «Quella del procuratore nazionale antimafia è una carica delicatissima. Forse, per queste cariche così importanti, andrebbe introdotta una modifica normativa. Per cinque anni, per esempio, non dovrebbero poter ricoprire determinate cariche pubbliche – aggiunge Varano – . Sull’opportunità di elettorato passivo immediatamente dopo aver cessato la carica, andrebbe previsto un periodo di decantazione altrimenti si potrebbe pensare che la Procura nazionale antimafia faccia anche politica, cosa che non è e che non deve essere».

Nel caso di De Raho, scelto da Conte per far parte del famoso “listino”, non si preannuncia poi una competizione elettorale. In tal caso l’elettore non potrà dire la sua. «Una scelta politica del leader dei Cinque Stelle quantomeno inopportuna», commenta Varano. Grasso, Roberti e ora De Raho: una prassi ormai. «Per non parlare della grande sconfitta della politica che se deve ricorrere a ex magistrati per rendersi appetibile e spendibile manifesta seri problemi di credibilità. Ricorre a nomi che sono specchi per allodole, che non sono candidature ma nomine per fini elettorali, anche legittimi, perché è legittimo tentare di prendere più voti e coinvolgere la società civile ma un conto è coinvolgere l’economista, la campionessa sportiva, il virologo, e un conto è coinvolgere un ex magistrato che ha avuto accesso a indagini e informazioni riservate, che è stato audito in Commissione giustizia su leggi restrittive in materia penale. È un tema che si pone in maniera prepotente. È un tema che non dovrebbe passare sotto silenzio».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La lotta alla mafia. “Sull’antimafia aveva ragione Sciascia”, le parole di Falcone che tutti omettono. Valter Vecellio su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Lettura consigliata in questa estate canicolare: un vecchio libro, I disarmati di Luca Rossi. Contiene uno sfogo di Giovanni Falcone, mai smentito: «Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lotta antimafia… Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo… Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché ho fatto carriera, poi se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criticare… Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa…».

Altre letture: le sedute del Consiglio Superiore della Magistratura: i verbali relativi alla nomina a procuratore di Marsala di Paolo Borsellino (settembre 1986); e della nomina a capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, in lizza Antonino Meli e Giovanni Falcone (gennaio 1988). Aiutano a orientarsi su fatti, episodi, situazioni che sono parte della storia di questo Paese; per questo vanno raccontati nella loro interezza e integrità, se si vuole sperare di capirci qualcosa. La strage di via D’Amelio a Palermo dove hanno perso la vita Borsellino e la sua scorta, per esempio: sono trascorsi trent’anni, la vicenda continua a essere avvolta in un groviglio di menzogne, reticenze, omissioni. Non solo la questione dell’agenda rossa, che sicuramente quella domenica era nella borsa del magistrato, e mani “istituzionali” provvedono a farla sparire.

Di Borsellino scrive, su Il Fatto l’ex procuratore Giancarlo Caselli. Ricorda che con grande coraggio aveva manifestato pubblicamente il suo dissenso «dopo la sconcertante decisione del Consiglio Superiore della Magistratura” di nominare a capo dell’ufficio istruzione “un magistrato che di mafia sapeva poco o nulla (Meli, ndr), che aveva il vantaggio di esser molto più anziano». Scrive anche: «Commemorando l’amico ucciso, Borsellino disse che Falcone, preso in giro da “qualche Giuda”, aveva “cominciato a morire” proprio nel gennaio 1988 con l’umiliazione inflittagli dal Csm “con motivazioni risibili». Aggiunge: «Se non forse l’anno prima, con quell’articolo di Leonardo Sciascia»: vale a dire l’articolo che attaccava Borsellino per la nomina a procuratore di Marsala e che fu poi strumentalizzato per “affondare” Falcone”.

Ecco dunque il perché delle letture “consigliate”; segnatamente quel “Sciascia aveva perfettamente ragione”. Ragione d’aver sostenuto (cito Emanuele Macaluso che lo comprende subito): «che non si possono cambiare le regole in corsa, nemmeno a fin di bene. Perché se le cambi così, poi ognuno si fa la legge, o la nomina, a propria misura». Si può aggiungere che il magistrato e lo scrittore successivamente si incontrano, si spiegano, si chiariscono; c’è una fotografia che li riprende, sorridenti, quasi complici.

Ora le due citate sedute del Csm; la prima, quella della nomina di Borsellino a procuratore di Marsala. Di quel Csm fa parte anche Caselli che vota a favore; ma gli altri due aderenti a “Magistratura Democratica”, Elena Paciotti e Giuseppe Borrè, no: si astengono. Come mai? Anche loro Giuda? Ancora più netta la frattura nella seconda seduta, quella che “umilia” Falcone. Coerente Caselli vota per Falcone. Borré e Paciotti votano Meli; poi, scaduto il mandato al Csm Paciotti si candida, eletta, per l’allora Partito Democratico della Sinistra al Parlamento Europeo. Ecco, quando si raccontano le storie, vanno raccontate tutte. Valter Vecellio

La lotta partigiana e il timore degli avvocati...Gratteri e la resistenza contro Draghi e Cartabia perché teme la valutazione sulle sue inchieste flop. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Dal “resistere resistere” del Procuratore Saverio Borrelli contro Berlusconi, alla “Nuova Resistenza” di Nicola Gratteri contro Draghi e il ministro Cartabia. Dobbiamo temere che il Procuratore di Catanzaro voglia andare in montagna, visto che nell’intervista a Marco Travaglio fa riferimento esplicito al fatto che “quasi 80 anni fa, per conquistare la nostra democrazia, hanno perso la vita migliaia di donne e uomini”? Forse non è questa l’intenzione, ma le alternative paiono alquanto preoccupanti, se provengono da uomini in toga o in divisa. Anche perché il nuovo partigiano afferma con sicurezza che “Ogni stagione ha la sua resistenza”.

Chissà a quale forma di conquista di democrazia adatta ai nostri tempi sta pensando il Procuratore. Non a quella parlamentare, evidentemente, dal momento che la sua nuova lotta partigiana parte da una forte critica rispetto alla riforma del ministro Cartabia (che nel frattempo ieri è stata approvata al Senato), rispetto alla quale dice che “non dobbiamo abbassare la guardia”. Ma neppure attraverso il passaggio dalle urne, visto che il referendum ormai è andato secondo le sue aspettative e non ci sono scadenze elettorali immediate. Una cosa però è certa, che la nuova lotta partigiana dovrà passare prima di tutto attraverso una forte presa di distanza da questo governo. Nicola Gratteri già in precedenti interviste aveva definito Mario Draghi come un esperto di economia ma inadeguato su tutto il resto. Ieri ha precisato meglio, lamentando il fatto che “i media hanno diffuso un’aura di intoccabilità attorno a questo governo, che invece – almeno sulla giustizia – non funziona”. Voce dal sen di Travaglio fuggita. Che cosa sarà mai della morbida riforma Cartabia a far imbufalire, e soprattutto preoccupare il prestigioso magistrato? La valutazione anche da parte degli avvocati sulle carriere e sulla professionalità dei magistrati.

Un bel punto dolente, per il procuratore di Catanzaro. Potrebbe capitare che qualcuno di buona memoria o con un buon archivio andasse a rispolverare tutte le cantonate di una lunga storia. Quella iniziata da quel mattino del 12 novembre 2003 a Platì, quando l’intero paesino della Locride fu svegliato da centinaia di uomini in divisa i quali in diretta televisiva perquisirono, frugarono e poi arrestarono 150 persone, tra cui due sindaci, dodici ex assessori e poi segretari comunali e tecnici. La storia ci testimonia come finì. Nessuno fu condannato per mafia, e solo 8 su 150 risultò responsabile di reati di piccola entità. Ma un grande risultato politico, con un’intera classe dirigente distrutta e la fama di un paese di essere capofila della mafia, una reputazione negativa che resterà attaccata a un Comune in cui nessuno si vuol più nemmeno candidare alle elezioni amministrative.

Se quello di Platì fu l’esordio, l’elenco delle inchieste-bolla di sapone è lungo, e termina con quella clamorosa nei confronti del Presidente del Consiglio regionale della Calabria, Mimmo Tallini. Mandato agli arresti come amico dei mafiosi il 19 novembre del 2020, assolto perché “il fatto non sussiste” il 18 febbraio 2022. Una di quelle storie che si ripetono, con le manette (in questo caso i domiciliari) che conquistano le prime pagine, con il Fatto scatenato nell’apertura del giornale, e il Presidente del consiglio regionale qualificato come “facilitatore politico amministratore della ‘ndrangheta”. E Nicola Morra, Presidente della commissione bicamerale antimafia che lo qualifica subito come “impresentabile”. È il solito discorso sul terzo livello, quello in cui non credeva Giovanni Falcone. È la storia di Giancarlo Pittelli, privato della libertà da due anni e mezzo e che tra poco rischia di passare dai domiciliari al carcere (e sarebbe un vero scandalo, considerati anche la sua età e le condizioni di salute).

È stata la storia di Tallini, una vita politica distrutta. Tutti “mafiosi”, come l’ex vicepresidente della Provincia di Catanzaro Giampaolo Bevilacqua, assolto nello stesso giorno di Tallini, come l’ingegnere Ottavio Rizzuto, funzionario del Comune di Cutro, cui quelle accuse di abuso d’ufficio e concorso esterno in associazione mafiosa spezzarono per sempre il cuore, insieme all’assoluzione, nel settembre di un anno fa. E tralasciamo la buffonata politica dell’informazione di garanzia a Lorenzo Cesa.

Per tutto questo e altro noi la capiamo, dottor Gratteri. Fosse mai che qualcuno come un avvocato, fuori dalla protezione della sua casta, quella con la toga “giusta” dei magistrati, vada a mettere il naso nel suo curriculum processuale. Chissà se non è già capitato al Csm, quando le è stato preferito il collega Melillo per il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. Lei è molto bravo a difendere con le unghie e con i denti il suo ruolo, e il suo potere. E arriva fino al punto – e torniamo al concetto di “resistenza” – di fare un appello alla mobilitazione. Di chi? “In Italia – dice ci sono ancora tante personalità di grande levatura morale: facciano sentire la loro voce”. Il problema è: in montagna o nelle istituzioni democratiche?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

In Onda, la manina di Piero Grasso dietro la bocciatura di Nicola Gratteri come ministro: la verità di Matteo Renzi. Il Tempo il 04 giugno 2022

Perché Nicola Gratteri non venne accettato da Giorgio Napolitano come Ministro della Giustizia nel governo guidato da Matteo Renzi? È lo stesso ex presidente del Consiglio, ospite della puntata del 4 giugno di In Onda, programma tv di La7, a raccontarlo a David Parenzo e Concita De Gregorio, che avevano chiesto maggiori lumi sulla situazione del magistrato anti-mafia: “Non condivido tutto quello che dice Gratteri, come lui non condivide tutto quello che dico io, però avevamo un’idea che era quella di scardinare il potere delle correnti nel mondo della magistratura. Alcune correnti fanno il bello e il cattivo tempo nella magistratura. Ce n’è una Magistratura Democratica, che dice ‘intorno a Renzi va messo un cordone sanitario’. Questo non va bene, perché se uno commette un reato lo devi perseguire, ma non è che ci metti un cordone sanitario. L’idea di Gratteri era di scardinare tutto il sistema”.

“Chi è che è intervenuto quindi?” Renzi si pone da solo la domanda e continua il suo retroscena: “È una domanda che andrebbe fatta più al presidente emerito della Repubblica Napolitano, io ho rispettato la Costituzione e lui ha rispettato la Costituzione dicendo no a Gratteri, se lui non controfirma non si fa ministro. Però posso dire dei nomi io, quelli che io immagino essere dei nomi e in qualche misura non immagino soltanto. È noto che Gratteri, diciamolo con un eufemismo, non godeva delle simpatie dell’allora presidente del Senato Piero Grasso. Grasso andò ad una conferenza stampa ancora da magistrato e procuratore antimafia e dice di Silvio Scaglia e dell’indagine che lo coinvolge che quella è una strage della legalità. Penso che Grasso si debba vergognare per quelle parole, Scaglia è stato assolto e mentre Grasso era presidente del Senato e l’allora gup che aveva messo in carcere Scaglia era membro del Csm, Silvio Scaglia e Mario Rossetti e tanti altri vennero assolti perché quell’indagine era uno scandalo”.

Renzi parla anche dei giudizi di Gratteri sul governo Draghi, accusato di non occuparsi di mafia: “Io la trovo un’analisi ingenerosa, ne capisco la frustrazione visto che aspirava a ragione a poter guidare la Procura Nazionale Antimafia. Il Csm ha scelto Giovanni Melillo, un altro professionista, che ha lavorato con noi al governo facendo il capo di gabinetti di Andrea Orlando. Gratteri avrebbe fatto bene quel lavoro e la sua frustrazione la capisco perfettamente. Credo che questo sia un giudizio ingeneroso nei confronti del presidente Draghi”.

LE LACRIME SONO CORAGGIO, NON PAURA: È L’AFFOLLATA SOLITUDINE DI GRATTERI. Pubblicato il 7 Giugno 2022 da Redazione calabria.live direttore Santo Strati.

Di GIUSY STAROPOLI CALAFATI – Ci sono lacrime che, negli ultimi tempi, più delle parole costruite con accenti e con suoni, ci hanno costretti a una profonda riflessione, carica di trattative morali. Al centro la specie umana, sempre più insolente e irrequieta. Quasi reminiscente verso la sua stessa genesi. Sono quelle di Nicola Gratteri che, sono certa, molte altre sono state le volte che dai suoi occhi sono traboccate miste a sangue, seppure in scortato segreto. Quelle secrezioni liquide che abbiamo visto rivestire le superfici congiuntivali del procuratore della Repubblica di Catanzaro, appena qualche giorno addietro, nel famoso salotto romano di Maurizio Costanzo, le cito e non perché, e qui scredito di fatto la versione bastarda e irregolare dei falsi stakanovisti, hanno certo portato allo scoperto la debolezza dell’uomo né la sua fragilità, ma perché hanno messo in risalto senza alcuna fanatica ostensione, la purezza della paura. Che non è mancanza di coraggio, o stato di assoluto avvilimento, ma naturale stato emotivo.

Il pianto, che nell’uomo è l’espressione della commozione o del dolore, in botanica, è l’emissione della linfa ascendente dalla ferita praticata su una radice o alla base del fusto. Ma non sono forse la stessa cosa il pianto dell’uomo e quello della botanica? L’uomo e la botanica, non sono, forse, due elementi che coincidono perfettamente?

Nicola Gratteri è uomo, è albero ed è radice. Tutti lo siamo. E tutti piangiamo alla maniera dell’uomo e della botanica.

Ma ci sono lacrime, e qui sta la vera questione, che fanno male più di molte altre. Hanno un peso specifico più eccedente rispetto alle altre. E nel momento dell’attrito con il viso lasciano sulla pelle segni più profondi delle altre. E solcano senza potervi in quei solchi piantare nulla. Fendono l’anima incavandola fino all’estremo, e raggelano il sangue nelle vene, metastatizzino la sconvolgente umana inquietudine.

Io non ho visto piangere Nicola Gratteri, il procuratore, dietro lo schermo del mio televisore, qualche sera fa, ho assistito, invece, alla commozione di Nicola e basta. Nicola, nato a Gerace, in Calabria, il 22 luglio 1958, terzo di cinque figli, e un amore e un rispetto innati nei confronti della propria terra. Nicola che è figlio, appunto, è marito, è padre, è amico, è missionario totus tuus in una Calabria pellegrina, sempre poco fiduciosa in se stessa, e invece più fiduciaria negli altri. In una terra a tratti asciutta a tratti umettata, nella quale o ci rimetti la vita, o ci rimetti il cuore. E se non sai scegliere, ce li rimetti entrambi.

Nicola è uno di quelli che ha deciso di rimanere in Calabria. Uno di quelli che nella terra della nascita ha deciso di investire tutto ciò che ha. Persino le lacrime. Tanto che il pianto neppure lo discute. Succede. Capita piangere. E va bene così.

Sulle lacrime di Gratteri che, sì, è vero, si sono fermate sul suo viso, ma hanno altrettanto veramente bagnato il viso di molti, abbiamo riflettuto in tanti, e non perché esse vadano spiegate, o forse censite, messe agli atti come elementi probatori, ma capite sì. Concepite, come dai i grembi i figli, sì.

Caro, Nicola Gratteri, e parlo all’uomo, che se lo facessi al procuratore sarebbe pura retorica, questa terra chiede il doppio di quello che dà. E lei lo sa bene.

Ti dona un sorriso e ti chiede in cambio due lacrime; ti dona una mano e da te ne pretende due; ti offre la sua casa ma ti costringe al tuo viaggio; ti regala la sua vita, ma non ti concede di vivere la tua. Ti prepara l’orto ma non ti consente di lavorarlo libero.

È amara, la Calabria. È subdola, selvaggia, è una grandissima figlia di puttana. Ma la terra siamo noi, noi che di questa Calabria siamo il bello e il brutto, il buono e il cattivo, la pecora o il lupo.

E il pianto suo è anche nostro. Degli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i ruffiani, i piglianculo, i quaquaraqua. Di tutta questa categoria di scimmie, è il pianto dell’uomo.

Il pianto suo è colpa della nostra incapacità di volerci bene, dando al pane più valore che alla preghiera, al vino più importanza che all’acqua.

Il pianto suo, caro Nicola, non è paura, è affollata solitudine. E quella che si vede intorno a lei è una solitudine che mette paura. Porta i brividi. Delude e disillude, e forse certe volte anche corrompe. Nicola Gratteri è uno e non ha nessuno, se non i famosi cento anni di solitudine già a 63 anni di età.

La questione sociale di cui è protagonista Antonello dell’Argirò, in Gente in Aspromonte, il capolavoro di Corrado Alvaro, si ripete. E proprio per colpa della solitudine ingarbugliata a cui alcune volte anche lo Stato costringe, continuerà a proliferare. Una moltiplicazione che più che paura, fa terrore, sconvolge ogni genere di morale.

Non oso immaginare quante volte, Nicola Gratteri, abbia ripetuto a memoria le parole di Antonello, che chiosano il racconto: «Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio». Una pagina di letteratura e di vita che racconta l’amara solitudine dei luoghi e di chi li abita. Di chi li difende. Di una Calabria che quando è culla è già sepolcro.

Non la chiamo eroe, caro Nicola Gratteri, ai tempi della Magna Grecia lo sarebbe stato davvero. Figlio degli dei lo avrebbero considerato. Ne sono certa. Ed essi le avrebbero concesso la forza per sconfiggere la paura. Ma noi siamo uomini, e le verità degli dei non sono nostre. La storia, però, sì.

E lei è il mito di Davide, il giovane studente del Liceo Scientifico G. Berto di Vibo Valentia, e forse anche di Golia. Il riferimento certo di Abele e, sotto sotto, anche di Caino.

Per questo il suo pianto non lo chiamo paura, ma coraggio.

“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”. (Giovanni Falcone)  (gsc)

Gratteri e quel modello Falcone citato a sproposito tra gaffe e scivoloni. Otello Lupacchini su Il Riformista il 2 Giugno 2022. 

Nel solco degli insegnamenti di Adolf Hitler, per il quale «Le masse sono abbagliate più facilmente da una grande bugia che da una piccola», e di Joseph Goebbels, secondo cui «Se dici una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà», Nicola Gratteri, riapparso, dopo un’assenza semestrale, a Otto e Mezzo, si è lanciato in uno sguaiato monologo, denso di suggestive menzogne, messaggi obliqui e abusati luoghi comuni, intervistato, si fa per dire, dalla carismatica padrona di casa, l’inossidabile Lilli Gruber, e dal direttore de la Stampa Massimo Giannini, «ottima penna» del giornalismo italiano per antonomasia, restato comunque quasi sempre silente.

Il procuratore di Catanzaro, pronto a un’ormai stucchevole campagna d’estate per la promozione dell’ennesimo libricciuolo spacciato, «in concorso» con i soliti leccapiedi, per novella Divina Commedia, ha parlato, fra l’altro, della riforma della Giustizia e messo nel mirino il premier, apostrofandolo con encomiabile garbo: «Draghi? Non pervenuto per quanto riguarda la giustizia e la sicurezza, mi sembra solo un buon esperto di finanza. Sul resto non tocca palla o se lo fa, mi preoccupa ancora di più perché non capisce che facendo così sfascia tutto». Naturalmente, però, complici il trentesimo anniversario della strage di Capaci e altri sciagurati «accidenti», non ultima la guerra in Ucraina, molti ancora sono stati i piatti forti ammanniti dal Pirgopolinice della Locride, dall’assaggiarne almeno alcuni, tutti richiederebbe troppo spazio, sarebbe un vero peccato esimersi.

Sincero è il «dispiacere» del «magistrato antimafia più famoso d’Italia», per l’asserita «bocciatura» alla guida della Direzione nazionale antimafia, dove alla fine è andato invece Giovanni Melillo, procuratore capo di Napoli, che l’ha spuntata nella votazione finale del Consiglio superiore della magistratura. Per vero, dopo averci girato intorno tessendo ipocritamente le lodi del competitor, «bravo magistrato e ottimo organizzatore», ha finito tuttavia per ammettere: «Sì, ci sono rimasto male. Credo di essere il magistrato con maggiori competenze internazionali sulla lotta alla mafia». Non solo: ha sottolineato di essere stato penalizzato dalla mancata iscrizione a una corrente della magistratura, asserendo che «Chi è iscritto a una corrente è molto, molto avvantaggiato. Io questo già lo sapevo ma ho fatto la scelta di non iscrivermi. Io non conosco nemmeno il 50% dei membri del Csm, non li riconoscerei nemmeno per strada, perché non li frequento. Io ho fatto domanda alla procura antimafia perché pensavo di avere l’esperienza necessaria, facendo da sempre contrasto alla criminalità organizzata: non esiste nessun magistrato al mondo che abbia fatto più indagini di me sulle mafie».

Magari mettendo le zampe, posando, spesso anche a sproposito, a «massimo esperto mondiale» in subiecta materia, su quelle altrui; ma questa è un’altra storia. E, per rendere ancora più evidente la sua amarezza, ha aggiunto: «Per la ’ndrangheta ora sono un perdente». Si è ben lungi, ovviamente, da una dichiarazione di resa: non a caso Nicola Gratteri ha snocciolato l’elenco di chi con lui solidarizza: i vertici di polizia, carabinieri e guardia di finanza; la polizia giudiziaria che lo «adora»; soprattutto, «la gente, i calabresi», personcine lobotomizzate dagli schermi, gravemente segnate da ossessione paranoide per manette, arresti, verbali di polizia giudiziaria, veline dei Servizi, le quali, al pari di lui, hanno un rapporto idiosincratico con i fatti, dai quali, in genere, è meglio prescindere; finalmente, il team investigativo che lo affianca e poco importa se, in un successivo passaggio, abbia considerato questi «Magistrati fantastici» alla stregua di flebotomi e infermieri: lui e solo lui il «primario chirurgo», patirebbe come un’irrimediabile degradazione il dovere, disgraziatamente, tornare a svolgere funzioni di sostituto procuratore della Repubblica.

Questo la dice lunga sull’alta considerazione in cui l’«Os aureum» di Gerace tiene la Costituzione, a norma della quale «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107, comma 3). Di fronte a tale smaccata manifestazione di normofobia, i due comprimari non hanno avuto nulla da ridire; e neppure ha avuto qualcosa da ridire l’Associazione nazionale magistrati e il suo troppo spesso inutilmente facondo presidente Giuseppe Santalucia. Ma non c’è da meravigliarsi: nessuno ha mai avuto l’onestà intellettuale e il coraggio di rilevare e, dunque, chiedergliene conto, l’«evanescenza» delle «grosse» operazioni rivendicate a ogni pie’ sospinto dal Nostro, i cui esiti hanno quasi sempre tradito le «promesse» enunciate, con squilli di trombe e rulli di tamburi, nelle pletoriche conferenze stampa con cui è solito promuoverle. Performances, sia detto per inciso, che rischiano, a suo tutt’altro che sommesso avviso, d’essere inibite dall’improvvida «riforma Cartabia».

Ma si sa, gli esseri umani sono disposti a credere a qualunque cosa tranne che alla verità; non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non creda, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci; la maggior parte della gente non si preoccupa di scoprire la verità, ma trova molto più facile accettare la prima storia che sente. Che dire, poi, del goffo tentativo con cui ha preteso di «smontare» la riforma della giustizia, su uno dei punti oggetto, fra l’altro, della proposta referendaria, affermando: «La cosa che mi preoccupa di più è la riforma dell’ordinamento giudiziario: ad esempio la separazione delle carriere. Bisognerebbe facilitare il passaggio tra procura e tribunale, perché così si ha la completezza del magistrato, io ad esempio so che cosa serve per arrivare a una prova grazie all’esperienza che ho fatto da giudice»?

Un silenzio condiscendente ha accolto queste surreali argomentazioni, eppure è proprio qui, purtroppo per lui, che casca l’asino: gli esiti giurisdizionali, quasi sempre fallimentari, delle «grosse» inchieste gratteriane, con buona pace degli adulatori, sono lì a dimostrare, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che dalla propria asserita quanto indimostrata esperienza giurisdizionale, il Nostro abbia tratto ben poco profitto, sotto i profili sia della formazione sia della valutazione delle prove. Dove, tuttavia, Nicola Gratteri è riuscito a superarsi, è stato quando, raccogliendo l’assist degli interlocutori, «Quel “no” l’ha isolata come fu per Giovanni Falcone?», con l’aria di chi fa professione d’umiltà rifiutando paragoni, ha puntato ad abbassare il martire palermitano al proprio livello: «Falcone e Borsellino? Due monumenti, due persone che ho scelto a modello, ma sono di un’intelligenza irraggiungibile. Falcone capiva le cose vent’anni prima degli altri ed è per questo che è stato ostracizzato da tanti suoi colleghi gattopardi che poi lo piangevano sui palchi. Fu un eterno sconfitto, ma è un esempio irraggiungibile». Non è dato capire in cosa Falcone e Borsellino siano stati assunti «a modello» da Nicola Gratteri, il cui modus operandi non è seriamente paragonabile al loro e il cui pensiero si pone agli antipodi di quello di Giovanni Falcone.

Questi, infatti, già trent’anni or sono sosteneva: «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e delle stesse carriere dei magistrati del Pm non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il Pm, arbitro delle controversia il Giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del Pm dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti, rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura».

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Caro dottor Gratteri, se si suicidassero i tanti finiti in galera sarebbe una strage degli innocenti. Non c’è guerra allo Stato da parte della ’ndrangheta mentre non ci vuole la zingara per capire che, molto spesso, mafia e “antimafia” combattono una guerra finta. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 02 giugno 2022.

Venerdì scorso è stato sciolto il Consiglio comunale di Portigliola, un piccolo paese nel cuore della Locride. Dimenticate per un solo attimo il fatto che si tratta d’ un piccolo Comune e riflettete sugli effetti che la catena di scioglimenti che ha riguardato la Locride e la Calabria intera, potrebbe avere sulla crescita e legittimazione della ‘ndrangheta in un territorio difficile. Il sindaco e i consiglieri comunali di Portigliola sono incensurati ma ciò in Calabria, come in ogni Stato di polizia che si rispetti, vale meno che niente. Ovviamente in Italia nessuno si accorgerà delle vicende di Portigliola e nella stessa Calabria la notizia non avrà risonanza alcuna.

Gli amministratori del piccolo comune calabrese sono stati destituiti da un mandato ricevuto dal popolo, messi ai margini con “disonore” e senza dar loro alcuna possibilità di difendersi in un tribunale della Repubblica. Sanno che da questo momento in poi chiunque potrà dire di loro che sono “segnati” da una “misura di prevenzione” ledendo la loro dignità e il loro onore. Molti di loro si ritireranno della vita pubblica, altri non si riconosceranno più in questo Stato e coveranno rabbia e rancore verso i responsabili dello scioglimento del consiglio comunale nel quale erano stati democraticamente eletti. In qualche caso la rabbia diventerà ostilità verso lo Stato e quindi rivolta individuale che, in quanto tale, è destinata a formare l’humus necessario per fertilizzare il terreno in cui cresceranno le nuove leve della mafia.

La ’ndrangheta che cresce e si diffonde in Italia nasce in questa terra ed è figlia di tale meccanismo perverso che viene spacciato come lotta alla mafia. Sono certo che coloro che hanno promosso e decretato lo scioglimento non siano sciocchi perché sanno che il bersaglio è stato comunque colpito dal momento che la gente comune avrà la sensazione che la lotta alla “mafia” continua…. contro gli innocenti!

Anticipo la possibile eccezione: perché la rivolta individuale non diventa collettiva e perché nessuno, o quasi, denuncia una tale situazione? Perché la Calabria è avvolta in una cappa di paura che diventa omertà e quindi altro concime per la ’ndrangheta.

Se avessi avuto la forza avrei voluto discutere di questi temi in occasione del trentesimo anniversario della strage di Capaci e sarebbe stato interessante domandare agli “esperti” perché la mafia è stata sconfitta mentre la ’ ndrangheta è diventata più forte, più ricca, più “rispettata”, più temuta; ha fondato “colonie” in tutta Italia e in Europa, ha il monopolio del traffico di cocaina.

Riina e soci hanno commesso l’errore di passare da una scellerata “alleanza” con gli apparati statali alla sfida allo Stato mentre la ’ ndrangheta si è acquatta alla sua ombra. Anzi, da anni la ’ ndrangheta non uccide più o quasi, ha messo fine alle faide di paese, punisce severamente chiunque si dovesse dimostrare irriguardoso o violento verso gli uomini dello Stato.

Non c’è guerra allo Stato da parte della ’ ndrangheta mentre non ci vuole la zingara per capire che, molto spesso, mafia e “antimafia” combattono una guerra finta le cui vittime certe sono soprattutto gli ignari ( ma non tanto) cittadini calabresi. A questo punto so che qualcuno si porrà la domanda: è possibile che la situazione sia questa? Mi pongo anch’io la stessa domanda: è possibile?

Se ne avessi la possibilità chiederei un’inchiesta delle “gradi firme” del giornalismo italiano sulla situazione calabrese. Intanto cerco sinceramente di trovare delle risposte da parte di studiosi ed esperti. Il dottor Gratteri si è autodefinito uno dei massimi esperti al mondo in materia e io ho seguito con interesse il suo tour televisivo sperando che desse delle risposte ma, lo dico senza sarcasmo, quando va in televisione il procuratore di Catanzaro preferisce “ballare” da solo.

Così, ad esempio, può dire che la ’ ndrangheta sfrutterà la guerra in Ucraina per rifornirsi d’armi, magari cannoni, carri armati e obici come se i mafiosi dovessero combattere una battaglia campale. I mafiosi non dispongono di combattenti ma di sicari che uccidono a tradimento, tendono imboscate, opprimono i deboli, non toccano i “forti”. E per la loro “guerra” hanno armi a sufficienza. Inoltre il procuratore di Catanzaro, come di consueto, ha attaccato con grande accortezza la “politica” mettendo in campo un’abile strategia comunicativa destinata a un sicuro ritorno di popolarità.

Come sempre i “politici”, salvo qualche eccezione, non rispondono, un po’ per calcolo e un po’ per viltà così che Gratteri non ha bisogno di fare neanche un minimo di auto- critica. Per esempio, ha affermato che durante la stagione di “mani pulite” tanti politici si sono suicidati per un semplice avviso di garanzia mentre oggi hanno l’ardire di voler continuare a vivere e magari di dichiararsi innocenti perché sono innocenti. Non c’è più “religione”, signora mia!.

Ma sarebbe stato facile obiettare che se il segretario nazionale dell’Udc Lorenzo Cesa indiziato di concorso esterno, Mario Oliverio, già presidente della Regione (confinato) , o Mimmo Tallini, presidente del consiglio (arrestato) e soprattutto e innanzitutto le migliaia di persone “senza nome” che in Calabria sono finiti in galera senza colpa si fossero suicidati sarebbe stata una strage di innocenti da far invidia ad Erode. Ma chi farà mai queste domande pur poste con il dovuto rispetto e tutto il garbo del mondo?

Nicola Gratteri, il pm che parla direttamente al popolo (di destra) per “castigare” il Csm. Dopo la delusione per la mancata nomina alla Dna, il procuratore di Catanzaro ha deciso di usare la sua popolarità come un’arma. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'1 giugno 2022.

«Posso fare tante cose. Ci sono tanti magistrati potenti che possono fare solo i magistrati. Io posso fare tante cose, anche il contadino: ho una buona manualità». Chissà se pronunciando queste parole a Otto e mezzo, pochi giorni fa, Nicola Gratteri aveva in mente la parabola professionale di Antonio Di Pietro, che da pm amatissimo dalla gente si è ritirato in campagna, dopo una lunga parentesi in politica. Su una sua possibile discesa in campo il procuratore di Catanzaro smentisce, quel che è certo però è che da qualche tempo il magistrato calabrese riempie i palinsesti delle Tv per offrire il suo punto di vista ai telespettatori. Che si parli di lotta alla ’ndrangheta (specialità in cui Gratteri ha ben pochi rivali su piazza), di critica politica a un governo a suo dire indifferente al contrasto alla criminalità organizzata o di accusa nei confronti di un sistema giudiziario corrotto dal correntismo poco importa: il procuratore di Catanzaro ha voglia di parlare e anche tanto. Al Maurizio Costanzo show come da Lilly Gruber, senza dimenticare di presenziare a Piazza Pulita.

Ovviamente Nicola Gratteri è uno di quegli ospiti dal profilo così prestigioso che qualsiasi programma televisivo o giornale vorrebbe intervistare, meno scontato però è sentirsi dire sempre sì dal diretto interessato. Perché la sovraesposizione mediatica è sempre un’arma a doppia taglio che un magistrato di quel livello preferisce schivare.

Ma Gratteri ha bisogno di comunicare direttamente con l’opinione pubblica, col popolo. Soprattutto dopo la mancata promozione alla guida della Direzione nazionale antimafia. Un posto che l’investigatore calabrese considerava probabilmente come la naturale chiusura di una carriera brillante. «Ho fatto domanda alla Procura antimafia perché pensavo di avere l’esperienza necessaria, facendo da sempre contrasto alla criminalità organizzata: non esiste nessun magistrato al mondo che abbia fatto più indagini di me sul traffico internazionale di stupefacenti e sulle mafie», ha spiegato davanti alle telecamere di Otto e mezzo.

Motivo della bocciatura? La troppa indipendenza, l’estraneità alle dinamiche dell’Anm, sembra suggerire lo stesso Gratteri quando argomenta: «Sicuramente nella nomina alla Procura nazionale antimafia chi è iscritto a una corrente è molto molto avvantaggiato. Io questo già lo sapevo ma ho fatto la scelta di non iscrivermi». Perché il procuratore capo di Catanzaro si propone davvero come il magistrato più anti sistema in circolazione, un vero e proprio alieno nel mondo togato che lo percepisce come una bomba da disinnescare prima che faccia saltare tutti gli schemi.

Ma è come se Gratteri si fosse stancato di venir penalizzato per questa sua inafferrabilità e avesse deciso di utilizzare contro l’ostracismo del Csm l’arma di cui solo pochi suoi colleghi ancora dispongono: la popolarità. Quella che fino a poco tempo fa poteva ancora maneggiare con disinvoltura Piercamillo Davigo e che adesso forse il solo Gratteri può dire di possedere a certi livelli. È un’arma tutta politica e serve a rimuovere gli ostacoli interni, pressando con uno strumento esterno: l’opinione pubblica. E in una congiuntura così propizia, con la credibilità della magistratura ai minimi storici, non è detto che non funzioni. Anzi. Gratteri lo sa e vuole mostrarsi ai cittadini per come realmente si percepisce: un incontrollabile rottamatore messo ai margini dalla casta ed esposto alla vendetta delle mafie. Certo, mettere alle strette il Csm a furor di popolo sarà impresa tutt’altro che semplice, ma il procuratore di Catanzaro non ha grandi alternative per evitare un’altra delusione come quella della Dna.

Il tempo stringe e gli obiettivi possibili rimasti sul piatto non sono troppi: un posto nel nuovo Csm, magari sponsorizzato da qualche corrente anti corrente, a fare da «guastacarte», come dice lo stesso Gratteri; la guida di una procura prestigiosa, come quella di Napoli non ancora messa a bando; o un futuro senza toga, in Parlamento, il prossimo anno. Scenario, quest’ultimo, che il magistrato calabrese tende a escludere categoricamente, anche se in Tv continua ad attaccare il governo con una veemenza che neanche la leader dell’opposizione si sognerebbe di utilizzare.

Draghi? «Non pervenuto per quanto riguarda la giustizia e la sicurezza, mi sembra solo un buon esperto di finanza. Sul resto non tocca palla o se lo fa, mi preoccupa ancora di più perché non capisce che facendo così sfascia tutto». Cartabia? Nella sua «riforma c’è molta rabbia, è una sorta di resa dei conti tra la politica, che nel corso degli anni ha accumulato molta rabbia, e la magistratura», dice Gratteri. Che poi si scaglia pure contro una piccola iniziativa di civiltà: le casette dell’amore, dove ai detenuti è consentito di esprimere la propria affettività.

Il governo ha speso più «più di 28 milioni di euro per costruire le case dell’amore, un luogo dove i detenuti possono incontrarsi per 24 ore con moglie, marito e amanti», è il giudizio severissimo, ma probabilmente popolarissimo, di Gratteri. «Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea?». No. Ma il messaggio che arriva fuori dalle mura togate è che se mai ci sarà un futuro politico per Gratteri non sarà esattamente progressista.

Effetti perversi. La cattiva antimafia che ha fatto più danni allo stato di diritto che ai delinquenti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 26 Maggio 2022.

Non è difficile da individuare: se è fatta di passerelle, abusi carcerari, patti taciti con i pentiti mentitori, allora non è certo buona. Per combattere la criminalità organizzata serve un lavoro duro, difficile e lontano dalle telecamere.

L’antimafia è tante cose. È il lavoro di polizia e giudiziario, duro e spesso pericoloso, che in silenzio e negli uffici, non nel chiasso e dai palchi dell’informazione embedded in Procura, funzionari scrupolosi conducono a contrasto dell’illegalità e per l’applicazione delle leggi dello Stato.

Ma l’antimafia non è solo questo. L’antimafia è, appunto, anche la militanza spettacolare e retorica di certe star togate. L’antimafia è anche l’instaurazione e la difesa ferrea di un sistema penal-carcerario barbarico e di inutile afflizione. L’antimafia è anche la pretesa che un vecchio demente divorato dalle metastasi debba per forza morire in prigione, e che il potere pubblico dimostri la sua forza rivendicando il merito di averlo portato fuori da lì chiuso in una cassa. L’antimafia è anche la conferenza stampa a margine del rastrellamento di trecentocinquanta persone che inaugura la “rivoluzione” con cui si smontano pezzi di paese come giocattoli. L’antimafia è anche la requisitoria impunita contro il cinico mercante di morte, e la carriera fatta su quello scempio.

L’antimafia è anche il sodalizio tra il pentito mentitore e il pubblico ministero che fa spallucce se gli si ricorda che lo spione ha inguaiato tanta gente che non c’entrava nulla. L’antimafia è anche il maschio alfa del giustizialismo incorrotto secondo cui un po’ di innocenza in galera è dopotutto fisiologica e il sovraffollamento delle carceri è un finto problema, perché basta costruirne ancora – un ospedale, un carcere; un asilo, un carcere; una biblioteca, un carcere – così siamo tutti più sicuri e anziché solo tre innocenti al giorno possiamo sbatterne dentro a piacere, senza dover ascoltare questi rompiscatole dei garantisti.

L’antimafia è anche la magistratura che celebra la sana austerità della tortura del 41 bis a petto della intollerabile stagione passata, quella delle carceri adibite a Grand Hotel, luoghi dove i criminali si godevano il lusso di non dormire con un faro acceso in faccia o di respirare all’aria aperta per troppi, oltraggiosi minuti.

Quest’altra antimafia è ciò di cui non dovrebbe menare vanto nessun sistema civile, nessun ordinamento democratico, nessuna società appena evoluta. Ma è invece l’antimafia trionfante: quella che, mentre ha fatto assai poco male alla mafia, molto ne ha arrecato a quel che si direbbe, se ancora la dicitura avesse un senso qui da noi, lo Stato di diritto.

Anticipazione da "Oggi" il 19 maggio 2022.

In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, don Luigi Ciotti, fondatore di Libera contro le mafie, rivela: «Ero a Palermo quel 23 maggio 1992, il giorno tremendo di Capaci. Dovevo parlare di droga con gli insegnanti delle scuole. I segni della vita sono importanti. Da lì non me ne sono più andato». 

E spiega come decise di «tradurre in responsabilità e impegno il sacrificio di quelle vite». Racconta anche della scelta di Gian Carlo Caselli, che andò da lui al centro Abele a Torino per dirgli: «Io faccio domanda per la Procura di Palermo. Lascio qui la famiglia, mia moglie, i figli. Se puoi, dagli un’occhiata…».

A trent’anni dalla strage, dice don Ciotti, «la memoria di Giovanni, come quella di centinaia di altre vittime innocenti delle mafie, è uno stimolo prezioso ma anche esigente. Non basta ricordare».

Ma avverte: «Vedo il rischio che parole come legalità o antimafia si riducano a un concetto astratto di cui qualcuno ci ha rubato la sostanza... La parola antimafia sarebbe da mettere in quarantena. Non è una carta d’identità: l’antimafia è un fatto di coscienza, con atti conseguenti… Qualcuno ne ha anche fatto il cavallo di Troia per il malaffare». 

Il giudice usato come una clava dai forcaioli. L’incompresa lezione di Falcone ai somari dell’antimafia. Otello Lupacchini su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

Il 23 maggio di trent’anni or sono, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, vennero uccisi dall’esplosione di una potente carica di tritolo, posizionata a opera di Cosa nostra in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, sull’autostrada che da Punta Raisi conduce a Palermo.

Il tragico evento, cerniera tra la Prima e la Seconda Repubblica, era stato preceduto da lugubri presagi: nei primi giorni di marzo, Elio Ciolini, uomo legato all’estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, detenuto nel carcere di Firenze, aveva indirizzato ai giudici felsinei una lettera per annunciare una «nuova strategia della tensione in Italia» da attuarsi nei cinque mesi successivi, fino a luglio; in quel periodo, sosteneva, «accadranno eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico» e cioè esplosioni che colpiranno persone «comuni» in luoghi pubblici, il sequestro e l’eventuale «omicidio» di un esponente politico della Democrazia cristiana, il sequestro e l’eventuale «omicidio» del futuro Presidente della Repubblica; trascorsi alcuni giorni, era stato ammazzato Salvo Lima; sarebbero poi seguite la strage di Capaci, quella di via d’Amelio e, infine, quelle dell’estate 1993, le cui vittime sarebbero state «persone comuni».

Non interessa la fonte di tali premonizioni, quanto, piuttosto, segnalare il fatto che, da quel tragico 23 maggio 1992, le figure di Giovanni Falcone, prima, e di Paolo Borsellino, successivamente, hanno assunto natura mitologica, di cui, retorica aiutando e spirito critico mancando, si sarebbe alimentata l’antimafia strumento di potere. In virtù del sacrificio delle loro vite, si continua da allora ad arruolare i due Magistrati barbaramente assassinati sotto le bandiere della «pubblicità ingannevole», per tale intendendosi ogni pubblicità idonea, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, a indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e delle quali possa pregiudicare il discernimento.  Fu Adolf Hitler, in Mein Kampf, a esporre la teoria totalitaria della menzogna: il pensiero, la ragione, il discernimento del vero e del falso, la decisione, il giudizio, sono una cosa molto rara e assai poco diffusa nel mondo; è un affare d’élite, non della massa; quest’ultima è mossa dall’istinto, dalla passione, dai sentimenti e dai risentimenti; non sa pensare; né lo vuole: non sa che obbedire e credere; crede a tutto ciò che le si dice, a condizione che lusinghi le sue passioni, i suoi odi, i suoi terrori: inutile mantenersi nei limiti della verosimiglianza: al contrario, più si mente in modo grossolano, massiccio, brutale, più si sarà creduti e seguiti; inutile, altresì, cercare di evitare le contraddizioni; inutile mirare alla coerenza: la massa non ha memoria; inutile nascondere la verità: essa è radicalmente incapace di riconoscerla; inutile persino nasconderle che la si inganna: l’animale parlante è, prima di tutto, un animale credulo, e l’animale credulo è precisamente quello che non pensa.

Da uomo pensante, appartenente magari alle «masse degenerate e imbastardite», rifiuto d’accodarmi alle pseudo aristocrazie-totalitarie, del «credere, obbedire, combattere», quale dovere del popolo, essendo il pensiero prerogativa del capo. Reputo, invece, mio dovere denunciare lo scandalo dei maldestri tentativi di rappresentare Nicola Gratteri quale redivivo Giovanni Falcone, ovvero d’abbassare Giovanni Falcone al livello di Nicola Gratteri. A quest’ultimo, il quale parrebbe esposto a gravissimi pericoli per la propria incolumità fisica, va incondizionatamente tutta la mia più sincera, umana solidarietà, ben sapendo cosa significhi, per dolorosa, personale, quarantennale esperienza, vivere sottoposti a obiettive, gravi limitazioni, sia pure a fini securitari, della propria libertà personale. Il che, tuttavia, non m’impedisce, anzi me lo impone come dovere, di evidenziare l’assurdità di affermazioni del tipo «Il dottore Gratteri […], nel distretto di Catanzaro sta affrontando una situazione che è assolutamente analoga a quella che nei primi anni Ottanta affrontò il primo pool antimafia di Palermo, ecco perché col processo “Rinascita Scott” si arriva a […] numeri così alti di ordinanze di custodia cautelare e di imputati: la situazione (odierna) della Calabria è, da un punto di vista criminale, paragonabile a quella della Sicilia dei primi anni Ottanta», specie se ascrivibili non già a un oscuro «menante», addetto alla bassa cucina in qualche redazione giornalistica, quanto piuttosto a colui che ha sostenuto l’accusa nel processo palermitano relativo alla cosiddetta «Trattativa Stato-Mafia» e che, dunque, solo per questo dovrebbe sapere cosa accadeva nella Sicilia degli anni a cavallo del 1980, e cosa abbia rappresentato il maxi-processo istruito da Giovanni Falcone, nei confronti del Gotha e dei gregari di Cosa nostra a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.

Accusato di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, di essersi fermato sulla soglia del cosiddetto «terzo livello», Giovanni Falcone rilasciò un’intervista a Giovanni Bianconi, pubblicata sul quotidiano La Stampa del 6 settembre 1991, nella quale, affermato innanzitutto come sia sempre necessario «distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie», chiarì che «sotto il profilo penale non si poteva fare di più», là dove si fosse voluto «interrompere la solita trafila con cui si era andati avanti per decenni: omicidio eccellente, indagini che non portano a specifiche responsabilità per quel delitto, imputazioni collettive generiche, lunghe istruttorie con la carcerazione preventiva e poi proscioglimenti e assoluzioni per tutti»; ribadendo, dunque, che un’indagine antimafia, la quale aspiri ad approdare a qualche risultato utile, «dev’essere improntata a rigore, ma anche a cautela».

Alla temeraria obiezione giusta la quale «proprio questo avrebbe potuto riportare l’antimafia al solito tran tran burocratico», avanzata magari da «un sindaco che per sentimento o per calcolo» avendo cominciato «ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso», anche se avesse dedicato tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne avesse mai trovato per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministrava, si sarebbe potuto «considerare come in una botte di ferro». la replica di Giovanni Falcone fu tranchant: «Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba. In una Sicilia dove non ci sono altri esempi che l’illegalità, occorre far vedere che il diritto esiste. Buscetta, puntandomi la mano contro, una volta mi disse: “Io accuso voi magistrati con due dita, come fanno gli arabi per indicare una colpa gravissima. Avete creato dei mostri dando rilievo a personaggi di scarso peso, mentre in realtà i veri capi non li avete toccati”».

A proposito del rigore e dello scrupolo garantista di Giovanni Falcone, valga la testimonianza del prof. Sergio Mattarella nell’intervento che pronunciò, quale presidente della Repubblica, il 23 maggio 2017: «Ho conosciuto il giudice Falcone prima ancora che l’eco delle sue inchieste lo rendesse famoso in Italia e all’estero. Ne ho seguito l’impegno messo in opera nella sua attività giudiziaria. Con quella sua attività ha impresso una svolta all’azione della giustizia contro la mafia. Anzitutto con il suo metodo di lavoro, con il suo modo di svolgere le inchieste. Nei primi tempi veniva talvolta criticato, dicendo che operava come un agente di polizia più che come un magistrato, una sorta di sceriffo. Non era vero: il suo era un metodo moderno, più dinamico, più attivo di quanto fosse abituale, ma manteneva forte e inalterato lo stile e il carattere del magistrato, attento, fino allo scrupolo, alla consistenza degli elementi di prova raccolti. Le sue inchieste, difatti, erano contrassegnate da grande solidità; e le sue conclusioni venivano sempre condivise dai Tribunali e dalle Corti giudicanti». Evito, pietatis causa, ogni notazione sul modus procedendi e sui risultati troppo spesso effimeri delle roboanti indagini di Nicola Gratteri, «evanescenti» sicut umbra lunatica.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Dagospia il 5 maggio 2022. “L’ANTIMAFIA È DIVENTATA UNA MAFIA” - FILIPPO FACCI: “LA SUPERPROCURA NON SERVE PIÙ A NIENTE. È UNO STRUMENTO COME L'ONU: SERVE ESSENZIALMENTE A DISTRIBUIRE POTERE, POLTRONE E DENARO. GIUNGENDO A FARE DANNI ALLA CAUSA PER CUI NACQUE" - "DIRLO È DIFFICILE: PERCHÉ OCCORRE RESISTERE ALL'ACCUSA DI OFFENDERE CHI PER COMBATTERE LA MAFIA SACRIFICÒ LA VITA. MA BISOGNA DIRLO LO STESSO. L'ANTIMAFIA, SENZA LA MAFIA CHE FU, È UNA FORMA DI POPULISMO CHE RESTA FUORI DALLO STATO DI DIRITTO COME NOI FINGIAMO DI NON SAPERE, MA IN EUROPA SANNO BENISSIMO…”

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2022.

Il nuovo superprocuratore antimafia è stato eletto dal Csm grazie al solito giochino di correnti. La cosa più facile, ora, sarebbe ricordare che le superprocure furono invenzioni di Giovanni Falcone (realizzate col ministro Claudio Martelli) alle quali a suo tempo si opposero le stesse correnti e la peggior magistratura politicizzata di destra e di sinistra. 

Tra il 1990 e il 1991 non si contano gli articoli dell'Unità, del Giornale, le puntate di Samarcanda, le posizioni del movimento «Proposta '88» (corrente dello stesso Falcone) e soprattutto di Magistratura Democratica che dell'eroe di Capaci scrissero cose orribili. 

Anche lo sciopero dei magistrati del 2 dicembre 1991 fu indetto «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura», come sintetizzo Liana Milella del Sole 24 Ore. Giacomo Conte del pool antimafia di Palermo aveva definito la Dia «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti», mentre Magistratura democratica, in quel dicembre 1991, denunciava un generico «disegno di ristrutturazione neo-autoritaria» mentre in una pubblica lettera (con sessanta firme, comprese quelle di Antonino Caponnetto e Paolo Borsellino) definivano la superprocura strumento «inadeguato, pericoloso e controproducente».

La seconda cosa facile, ma neanche troppo, sarebbe osservare che Falcone fu tanto anticipatore quanto gli strumenti da lui creati appaiono oggi obsoleti: grazie a essi la battaglia contro la Mafia è stata sostanzialmente vinta, ma questo è un fatto innominabile. Lo Stato, ferito a morte e delegittimato da Mani pulite, riuscì a concertarsi tra ministeri e procure sino ad abbattere la mafia per com' era stata conosciuta.

I capi di Cosa nostra e i loro sottoposti furono catturati, la struttura gerarchico-militare mafiosa fu demolita, ogni «cupola» fu dissolta al pari di un esercito di killer, estorsori, picciotti e prestanome rimasti disoccupati dopo ingenti sequestri di armi e droga e patrimoni economici e immobiliari. 

Non ci furono più bombe, stragi e omicidi seriali: un conforto che solo qualche nostalgico può dimensionare oggi a «cambio di strategia», anche sedi fatto la presa sul territorio si allentò, i traffici internazionali calarono o passarono in prevalenza a organizzazioni non siciliane, i presunti eredi della mafia isolana intrapresero altro mestiere o si riconvertirono a riciclaggio, finanza, sanità ed energia eolica (in sostanza appalti), al pari di criminalità organizzate estere o anche italiane che oggi superano Cosa nostra nei primati dell'illegalità.

Molti processi antimafia, negli ultimi trent' anni, si sono ridotti ad archeologie giudiziarie votate a delegittimare lo stesso Stato o i pezzi dello Stato (come i carabinieri del Ros) che vinsero la battaglia finale: un'operazione reiterata, ma che il tempo ha dichiarato fallita.

La terza cosa, da dire, non è facile per niente: anche se le prime due fungono da scivolo logico.

La citata superprocura antimafia e l'antimafia in generale, così come erano state disegnate e sono poi cambiate e degenerate, non servono più a niente per non dir di peggio. Sono strumenti come l'Onu, come la Fao: servono essenzialmente a distribuire potere, poltrone e denaro. 

Giungendo - nel caso - a fare danni alla causa per cui nacquero. L'antimafia è diventata una mafia, un'emergenza fattasi istituzione, e dirlo è difficile: perché occorre resistere all'accusa di offendere chi per combattere la mafia sacrificò la vita. Ma bisogna dirlo lo stesso. L'Antimafia, senza la mafia che fu, è una forma di populismo che resta fuori dallo Stato di diritto come noi fingiamo di non sapere, ma in Europa sanno benissimo. 

L'esempio più semplice riguarda la commissione parlamentare antimafia, che dal 1962 macina carta ed è ancora ufficialmente un organo della Procura generale presso la Cassazione: dovrebbe coordinare indagini e investigare per conto del ministero dell'Interno, ma non fa nulla del genere. In concreto non fa niente. Allo stesso modo - e qui si rischia il linciaggio in piazza - non servono a niente le associazioni antimafia che sul piano «sociale» vengono sovvenzionate dai ministeri dell'Interno e dell'Istruzione. Servono solo a tenere occupati dei nullafacenti.

Ma ancora più difficile, attenzione, è sostenere che l'Antimafia sia diventata una vero e proprio danno per il Paese, anche se nemmeno Mario Draghi e Marta Cartabia oserebbero pronunciare frasi del genere. Il certificato richiesto alle aziende che partecipano a un appalto pubblico, per cominciare, è un inferno burocratico da non credere.

Quelle che chiamano «misure di prevenzione», estese anche alle indagini sulla corruzione, si traducono in una magistratura cui basta niente per confiscare aziende e immobili assai prima di una sentenza, che, come sappiamo, non arriva mai: basta la famigerata e discrezionale «pericolosità sociale» perché l'amministrazione giudiziaria e cioè le procure (che a loro volta delegano a chi vogliono) mandino in malora patrimoni e aziende che in maggior parte sono andati appunto in rovina e basta, sempre in attesa di una sentenza.

A un certo punto si decise di mettere in mezzo le prefetture e di centralizzare il tutto in quell'altro mostro burocratico che si chiama Agenzia nazionale per i beni confiscati (a Reggio Calabria) dove parcheggiare anche un sacco di personale senza particolare vocazione professionale: centinaia di dipendenti «antimafia» che assai spesso, di aziende e gestione delle stesse, sapevano e sanno nulla. 

L'Agenzia il più delle volte è una sorta di cimitero in cui tutto muore o deperisce. E alla lunga questa pervasiva antimafiosità è diventata una ragione in più per non investire al Sud (ma anche più a Nord) e basta sfogliare i giornali per apprendere di imprenditori (assolti) cui l'antimafia frattanto ha ucciso tutto: le interdizioni l'hanno escluso dalle commesse pubbliche, i fidi bancari sono stati bloccati o ritirati, i lavoratori se ne sono andati da un pezzo, per non parlare della reputazione. E sono le procure antimafia all'origine e al vertice di tutto questo.

Per confiscare basta niente. Siamo in piena cultura del sospetto. Esempi non ne facciamo, sono troppi, ma basta il famoso caffè preso affianco a chi abbia la fedina penale non immacolata. 

Nell'inferno della prevenzione puoi precipitare anche solo per «conoscenza» (presunta) di tizio o caio, tanto poi ci sarà - un giorno - un bel processo. Un giorno, sì.

La netta sconfitta di Cosa Nostra, dei vertici di certa Camorra, nonché il dissolvimento della Sacra Corona Unita, no, non hanno fermato questo sistema, non l'hanno ridimensionato o adeguato alla realtà. C'era una retorica e un sistema di potere che andavano mantenuti.

È sempre «allarme», tensione da non abbassare, come se l'emigrazione della criminalità ad altri luoghi e modalità non fosse normale, come se la fine dell'emergenza dovesse coincidere con l'estirpazione del male dal cuore umano. È così che la politica più ignorante è diventata neo-alleata dell'Antimafia e dei suoi fantocci privi di meriti effettivi, fermi ad archeologie giudiziarie regolarmente sbugiardate.

Ma stiamo parlando di un moloch culturale e giudiziario che neppure un Mario Draghi potrebbe anche solo menzionare senza che scoppi un finimondo, ciò che appunto dovrebbe finire un mondo: quello della più inutile delle commissioni parlamentari, quella di una legislazione emergenziale fuori da ogni parametro europeo, quello di una macchina burocratica che sequestra e tritura le aziende e ammazza l'economia, quella delle superprocure che non hanno più bisogno di essere super, quella che ammette e disegna leggi inesistenti (mai passate dal Parlamento) come quel mostro giuridico chiamato concorso esterno in associazione mafiosa. Marta Cartabia ha provato con la giustizia ordinaria, e si è presa una sportellata in faccia. Con l'Antimafia le andrebbe anche peggio.

Estratto dell’articolo di Liana Milella e Conchita Sannino per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.

Lo scontro è durissimo, anche se i toni restano garbati. Ma la nomina di Gianni Melillo al vertice della Direzione nazionale antimafia vede fronteggiarsi due distinti modelli di procuratori e porta alla luce una divisione ideologica profonda in questo Csm che corre verso la sua naturale scadenza. 

[…] Il voto rivela una concezione contrapposta della carriera, tra chi è convinto - come i magistrati Di Matteo e Ardita - che non si possa delegittimare con una bocciatura chi fa i processi antimafia, e vota per Gratteri; e chi ritiene che debbano contare di più i meriti frutto delle tante esperienze fatte, e quindi sta con Melillo.

Chi lo preferisce - i 5 togati della sinistra di Area, i 3 di Unicost, i 2 laici di M5S Benedetti e Donati, nonché i due capi della Cassazione Curzio e Salvi - fa una precisa scelta di campo. Privilegia l'abilità nel coordinare un ufficio come Napoli con 102 pm e 9 procuratori aggiunti. E sono le parole del primo presidente Pietro Curzio e del Pg Giovanni Salvi a sciogliere i dubbi di chi, come Unicost, in commissione s' era astenuto. La votazione per Melillo è secca. Nessun ballottaggio, come pure s' era temuto.

Ma chi parla di Gratteri scuote il plenum. L'ex pm Nino Di Matteo dice che «sono state acquisiste notizie circostanziate di possibili attentati poiché i mafiosi lo percepiscono come un pericolo concreto». Di Matteo che, finito il mandato al Csm tornerà proprio in via Giulia, sostiene che la "bocciatura" di Gratteri per i mafiosi sarebbe «una presa di distanza istituzionale». […] 

Né Di Matteo né Ardita nominano Falcone. Ma dietro le parole di Ardita - «È come se la storia non ci avesse insegnato nulla, la tradizione del Csm è deludere le aspirazioni di magistrati esposti nel contrasto alla mafia finendo per contribuire indirettamente al loro isolamento» - c'è il suo nome. […]

Luca Fazzo per “il Giornale” il 5 maggio 2022. 

Cultura giuridica contro irruenza investigativa: alla fine erano questi i corni del dilemma che il Consiglio superiore della magistratura era chiamato a sciogliere ieri, dovendo scegliere il nuovo procuratore nazionale Antimafia.

I due candidati rimasti a contendersi una delle poltrone più ambite d'Italia (anche se di utilità concreta piuttosto discussa) erano rimasti due magistrati che rappresentavano plasticamente due approcci opposti al ruolo inquirente: da una parte Giovanni Melillo, oggi procuratore di Napoli, spessore culturale indiscusso; dall'altra il sanguigno Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro, l'uomo delle maxiretate contro la 'ndrangheta. 

Prevale nettamente il primo: il Csm si spacca, come era avvenuto il mese scorso per la nomina del capo della Procura di Milano, ma a Melillo non serve neanche il ballottaggio. Viene nominato con 13 voti contro i 7 di Gratteri.

A garantire a Melillo il successo al primo turno, sono - significativamente - i voti dei vertici della Cassazione, il presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, che nel voto su Milano invece si erano astenuti. 

Sia Curzio che Salvi vengono dalle file di Area, la corrente dei giudici di sinistra, ma sarebbe riduttivo leggere l'endorsement per Melillo, anche lui di Area, come una faccenda di schieramento. A pesare contro Gratteri è probabilmente anche una certa sovraesposizione mediatica, una visione un po' muscolare del ruolo, pugno di ferro in guanto di ferro (non sempre sorretta da altrettanti successi al momento delle sentenze).

Non a caso a favore di Gratteri si sono spesi ieri nel plenum del Csm gli ex «davighiani» Sebastiano Ardita e Antonino Di Matteo, ala «dura» delle toghe: Ardita arriva ad ammonire il Csm che non nominare Gratteri a capo della Procura nazionale «sarebbe non solo una bocciatura del suo impegno antimafia ma un segnale devastante al movimento culturale antimafia». 

Il plenum non se ne dà per inteso e nomina Melillo, a suo favore vota compatta Area ma anche consiglieri moderati come i laici Michele Cerabona e Alberto Maria Benedetti, a riprova che il diverso profilo dei due candidati ha scavallato anche gli schemi di schieramento.

Resta il fatto che per la guida della Procura voluta da Giovanni Falcone (cui il Csm negò di diventarne il primo capo) la nomina di Melillo conferma la tendenza a farne un feudo della sinistra giudiziaria: a partire dal 2005 è stata guidata da due magistrati così dichiaratamente marchiati che dopo averla lasciata entrarono in Parlamento per il Partito democratico, cioè Piero Grasso e Franco Roberti. 

La nomina dell'attuale titolare Federico Cafiero de Raho, uomo della corrente di centro Unicost, fu nel 2017 una sorta di risarcimento che il Consiglio superiore gli tributò all'unanimità per avere bocciato, nonostante il forte sostegno di Luca Palamara, la sua candidatura alla Procura di Napoli: gli venne preferito proprio Melillo, che diviene ora il suo successore. Alla fine i nomi che girano sono sempre gli stessi, a riprova di una certa difficoltà di ricambio nelle posizioni di vertice della magistratura.

Con la nomina di Melillo si chiude una prima tornata di nomine giudiziarie importanti. Ancora da coprire resta la procura generale della Cassazione, che Salvi libera a luglio. Di tutto il resto, dal tribunale di Milano alle procure di Firenze e Palermo, si occuperà probabilmente il prossimo Csm: quello attuale scade tra pochi mesi, ma per eleggere quello nuovo il Quirinale pretende che venga prima varata la riforma portata dal ministro Cartabia all'esame del Parlamento.

Da Super Procura a think tank antimafia. Storia della triste parabola della Dna. Nata per attrarre i migliori talenti investigativi da mettere al servizio della lotta alla mafia, Via Giulia si è trasformata in un centro studi sulla criminalità utile a far carriera. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 5 maggio 2022.

Nata per attrarre i migliori talenti investigativi da mettere al servizio della lotta alla mafia, si è trasformata in una sorta di centro studi sulla criminalità organizzata. È questa la parabola della Direzione nazionale antimafia, svuotata in trent’anni di storia della funzione immaginata da Giovanni Falcone e diventata più un luogo simbolico, una vetrina, che uno strumento investigativo.

La Dna deve essere un «organismo servente, un organismo che deve costituire un supporto e un sostegno per l’attività investigativa in contrasto alla criminalità organizzata che deve essere esclusivamente delle Procure distrettuali antimafia», è il progetto esposto da Falcone davanti al Csm il 24 febbraio 1992. Obiettivo: rendere effettivo il coordinamento delle indagini, garantire la funzionalità dell’impiego della Polizia giudiziaria e assicurare completezza e tempestività delle investigazioni. Come? Attraverso un flusso di informazioni «sistematico e basato sull’informatica», spiega Falcone, «si creerà d’intesa fra tutte le Procure distrettuali un sistema che sia tale da assicurare da un lato una sufficiente circolarità delle notizie e dall’altro di assicurare la tutela della riservatezza in determinati casi». La Dna sostanzialmente deve servire per sostenere il lavoro degli investigatori, offrendo supporto logistico, la collaborazione di magistrati (aggiuntivi) nei processi, ausilio nella gestione dei pentiti. Il tutto all’interno di un sistema orizzontale, basato sul «consenso», garantito dall’interesse comune di contrastare la criminalità organizzata. Ed è proprio questo aspetto che negli anni è venuto meno. Perché col tempo «le Procure si sono trasformate in “Repubbliche autonome”, gelose delle proprie indagini», dice chi in Via Giulia ci ha lavorato per molti anni. «Le informazioni in Dna arrivavano, sì, ma talvolta dai giornali».

I motivi di questa deriva sono molteplici e affondano le loro radici nella progressiva trasformazione della “Super Procura” in un semplice luogo di transito per magistrati ambiziosi, desiderosi di trovare uno “scranno” in Via Giulia più per questioni di curriculum che di reale interesse professionale. Un posto da sostituto o da aggiunto in all’Antimafia, in altre parole, diventa un semplice viatico per poter accedere a un incarico direttivo. Chi passa dalla Dna pensa solo al “ritorno trionfale” in una Procura dopo qualche anno, all’interno di un meccanismo non del tutto estraneo alle logiche correntizie. Inutile, dunque, mettersi di traverso, chiedendo ad esempio ai colleghi delle Distrettuali antimafia maggiore collaborazione e coordinamento, rischiando di inimicarsi potenziali compagni d’ufficio di domani. Eppure per molto tempo la Direzione nazionale antimafia ha avuto un importante ruolo di impulso nelle indagini. Fino all’era di Pier Luigi Vigna, procuratore nazionale dal 1997 al 2005, Via Giulia ha continuato a svolgere quei compiti di «collegamento investigativo» immaginati da Falcone. È quando Vigna va in pensione, nel 2005, che qualcosa si rompe, entra in scena la politica e si intromette nella selezione del successore. Sono gli anni del berlusconismo di governo e delle leggi “contra personam”. Come quella scritta per impedire la candidatura di Giancarlo Caselli alla “Super Procura”. Un emendamento alla riforma della giustizia a firma del senatore di Alleanza nazionale Luigi Bobbio recita testualmente: «Incarichi direttivi vietati a coloro i quali manchino meno di 4 anni per andare in pensione».

È la pietra tombale sul quasi certo arrivo di Caselli in Via Giulia. E da quel momento anche i procuratori nazionali si “politicizzeranno”. Succederà con Pietro Grasso, arrivato al posto di Caselli, che nel 2013 diventerà presidente del Senato, dopo essere stato eletto tra le file del Pd. E succederà anche con Franco Roberti, a sua volta eletto eurodeputato dem nel 2019, dopo la guida dell’Antimafia. Con Grasso comunque, Via Giulia conosce una stagione di grande prestigio istituzionale. L’allora Procuratore nazionale porta la Dna a stringere importanti rapporti di collaborazione con i ministeri dell’Interno e della Giustizia per creare ad esempio i pool di vigilanza contro le infiltrazioni mafiose nella ricostruzione dell’Aquila distrutta dal terremoto o negli appalti per Expo 2015. Ed è sempre sotto impulso di Grasso che nel 2010 nasce l’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Ma col tempo il ruolo di Via Giulia è apparso sempre più fiacco, disorientato.

La Dna si è trasformata in una sorta di think tank che ogni anno stila un rapporto sullo stato di salute del contrasto alle mafie ma non riesce ad andare troppo oltre il perimetro dell’analisi e a presenziare alle giornate commemorative. Magari sarà proprio il nuovo procuratore Giovanni Melillo a ridare impulso a quel sogno di Falcone. Perché la Direzione nazionale antimafia non ha grandi poteri operativi, processuali, ha solo un enorme potere moral suasion sui magistrati. Per questo serve un procuratore autorevole che ottenga la fiducia degli uffici giudiziari sparsi sui territori. In bocca al lupo.

Dna, vince Melillo. Di Matteo attacca: Gratteri lasciato solo come Falcone. Il procuratore di Napoli passa con 13 voti al primo turno. Ma è polemica in plenum: durissima la reazione del pm della "Trattativa". Simona Musco su Il Dubbio il 5 maggio 2022.

Il ballottaggio annunciato alla vigilia alla fine non c’è stato: Giovanni Melillo ha conquistato via Giulia al primo giro, diventando ufficialmente il nuovo procuratore nazionale antimafia con 13 voti. Una vittoria schiacciante, che agli occhi degli addetti ai lavori era già forse stata “annunciata” il 19 marzo scorso, quando a Napoli, feudo di Melillo, si è svolta la giornata in ricordo delle vittime di mafia, alla presenza della ministra Marta Cartabia. Ma per l’investitura ufficiale è stato necessario attendere questa mattina, quando il plenum ha confermato le aspettative, concedendo al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri solo sette voti.

Con lui si sono schierati i togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, i due consiglieri di Autonomia e Indipendenza, i due laici della Lega e quello del M5S Fulvio Gigliotti, mentre sono stati cinque i voti incassati da Giovanni Russo, fino a ieri reggente della Dna dopo il pensionamento di Federico Cafiero de Raho, che ha potuto contare sull’appoggio di Magistratura Indipendente e del laico di Forza Italia Alessio Lanzi. Il favorito dai “bookmakers”, dunque, è stato eletto con il placet del gruppo di Area, i voti del presidente e del procuratore generale della Cassazione, Pietro Curzio e Giovanni Salvi, quelli di Unicost e dei laici M5S Filippo Donati, Alberto Maria Benedetti e del forzista Michele Cerabona. Un’elezione che ha richiesto un’ora di discussione, dopo quella dedicata alle corpose relazioni, e che ha contrapposto in particolare gli interventi dei togati antimafia Di Matteo e Ardita a quello del collega di Area Giuseppe Cascini. I primi convinti che la «bocciatura» di Gratteri rappresenti un segnale pericoloso per la lotta alla criminalità, ma anche un modo per isolarlo e lasciarlo in pasto ai clan, come accaduto a Giovanni Falcone, il secondo costretto a prendere le distanze dall’idea che la scelta di un candidato diverso possa rappresentare una «delegittimazione» e che le nomine possano essere commentate in termini di bocciature e promozioni. Tutti e tre i candidati, ha ricordato infatti Cascini, vivono «sotto scorta da decenni», un modo per bollare come riduttivo l’appunto dei due togati pro Gratteri.

Anche perché a prevalere, secondo le posizioni di chi ha scelto Melillo, sono stati soprattutto altri aspetti: la sua precedente esperienza in Dna da sostituto, durata ben nove anni, nonché le esperienze all’ufficio giuridico del Quirinale e come capo di gabinetto dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando. E poi, questo uno dei leitmotiv della giornata, non basta fare antimafia per poter aspirare alla poltrona di via Giulia: anche l’esperienza con l’antiterrorismo non può che essere dirimente. Ma la discussione ha avuto soprattutto una connotazione politica. Ed è stato Di Matteo a non nascondere le implicazioni sociali della nomina, associando Gratteri a Falcone e definendolo l’unico – tra i tre – ad avvicinarsi a «quella visione del legislatore del 1991», che immaginava la Dna come «motore nevralgico della lotta alla mafia», che «è stata in parte tradita», correndo il rischio di «trasformarsi in una sorta di ufficio di rappresentanza, al più chiamato a regolare potenziali conflitti tra procure diverse». Proprio per tale motivo «una scelta di politica giudiziaria alta, e quindi non condizionata da giochi di potere di alcun tipo o peggio che mai da calcoli opportunistici» avrebbe richiesto di puntare su Gratteri.

L’uomo giusto, secondo Di Matteo, per la sua esperienza, la sua credibilità e, soprattutto, per la sua «da tutti riconosciuta indipendenza piena dal potere politico, per la sua estraneità alle patologie, purtroppo consolidate, del sistema correntizio, per la sua passione, per il coraggio che ha avuto anche nel sovrapporsi al serio rischio della sua incolumità». Una indipendenza dimostrata in maniera netta soprattutto nel periodo che ha preceduto la nomina: Gratteri, infatti, si è schierato più di chiunque altro contro le politiche della Guardasigilli, giocandosi il tutto per tutto e portando alle estreme conseguenze la sua immagine di uomo antisistema. Ma il punto, secondo Di Matteo e Ardita, è anche un altro: se la ‘ndrangheta è da tutti ormai riconosciuta come la mafia più potente al mondo, continuare ad affidare la guida della Dna solo a esperti di Camorra e Cosa Nostra sarebbe illogico. Poi l’affondo: «È indiscutibile che il dottor Gratteri è particolarmente sovraesposto e particolarmente a rischio – ha sottolineato Di Matteo -. In questa situazione temo che una scelta eventualmente diversa suonerebbe come una sorta di bocciatura dell’operato del dottor Gratteri» e «una ennesima presa di distanza istituzionale pericolosa e foriera di ulteriori rischi. Noi oggi dobbiamo anche avvertire la responsabilità di non cadere in quegli errori che hanno troppe volte tragicamente marchiato le scelte del Consiglio superiore sul tema della lotta alla mafia e, in certi casi, hanno creato quelle condizioni di isolamento e delegittimazione istituzionale che hanno costituito il terreno più fertile per omicidi eccellenti e stragi». Pensiero condiviso da Ardita, secondo cui il no a Gratteri rappresenta non solo «una bocciatura del suo impegno», ma anche «un segnale devastante per tutto l’apparato istituzionale del movimento culturale».

Giuseppe Cascini ha però preso la parola per respingere «fermamente l’idea, anche solo suggestivamente evocata, che un voto nei confronti di un candidato diverso da Gratteri possa essere inteso come una delegittimazione nella sua azione e del suo ruolo di procuratore di Catanzaro». Ribadendo la sua vicinanza e stima all’intera procura calabrese, Cascini ha sottolineato che «nell’enfatizzare gli aspetti positivi del proprio candidato si dimentica la figura professionale degli altri», tutti in prima linea nel «contrasto alla criminalità organizzata». La guida della Dna richiede però «prudenza» – parola che ha fatto saltare sulla poltrona il leghista Stefano Cavanna -, non nei confronti della lotta alla mafia, «ma nei confronti delle procure distrettuali, rispettandone l’autonomia». E qualunque scelta, «sul piano simbolico» avrebbe confermato «che il paese è impegnato nella lotta alla mafia».

A spiegare la presa di posizione dei due vertici del Palazzaccio ci ha pensato Curzio, che ha definito Melillo un candidato «di particolare autorevolezza». Una scelta, quella sua e di Salvi, dettata dall’importanza dell’ufficio in questione, che si colloca nell’ambito della procura generale della Cassazione, ma anche finalizzata a garantire al prescelto il più ampio numero di voti possibili e «una posizione nitida e ferma», da parte del Csm, «per consolidare la legittimazione di colui che verrà nominato e dovrà assumere questa responsabilità». Una posizione, la sua, che ha suscitato le rimostranze di Cavanna poco prima del voto: «Mi fa pensare che si sappia già quale sarà il risultato».

La polvere sotto il tappeto. “Gratteri come Falcone”, l’abbaglio del pm antimafia Di Matteo. Otello Lupacchini su Il Riformista l'8 Maggio 2022. 

Il dibattito davanti al Plenum del Consiglio superiore della Magistratura per la nomina del Procuratore nazionale antimafia a seguito del pensionamento di Federico Cafiero de Raho, al di là della designazione a maggioranza assoluta, in sede di prima votazione, di Giovanni Melillo, procuratore della Repubblica a Napoli, preferito ai due competitors, Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, e Giovanni Russo, procuratore aggiunto alla Direzione nazionale antimafia, presenta notevoli profili d’interesse.

Non potendo, tuttavia, almeno in questa sede, raccogliere ciascuna delle molteplici sollecitazioni, è giocoforza concentrare il fuoco dell’attenzione soltanto sulla suggestione, affatto ideologica, indotta dai sostenitori del procuratore di Catanzaro, segnatamente i Consiglieri Antonino Di Matteo e Sebastiano Ardita. A suggerire tale scelta, certamente selettiva, è la titolazione nel richiamo, sulla prima pagina de Il Fatto quotidiano del 5 maggio 2022, dell’articolo di Antonella Mascali: «Casta politico-togata contro Gratteri: Melillo capo alla Dna», sotto il molto significativo occhiello: «ora il pm è più a rischio», dove il «pm» in questione è, neanche a dirlo, Nicola Gratteri. Non meno rilevante, del resto, la chiusura dell’articolo, a pagina 14 del quotidiano in questione, che veicola una suggestiva premonizione: «Con la nomina di Melillo si apre la corsa alla sua successione a Napoli. Magari con Gratteri ancora in corsa».

Le performances oratorie ad promovendum Gratterium dei due citati Consiglieri, tra loro sostanzialmente sovrapponibili, puntano alla cattura psichica dell’Assemblea chiamata alla designazione, già frastornata dal roboante profluvio di aggettivi investiti nell’esaltazione dell’opus del Campione, di cui è disseminata l’orazione pro Gratterio del professor Fulvio Gigliotti da Catanzaro; la dýnamis somiglia a un incantesimo; logica e deontologia vi contano poco: speculando su exempla, fama, rumores la questione, a tutto voler concedere, si presta comunque a ogni arbitraria manipolazione, essendo chiaro che uscirebbe squalificato professionalmente «si quid in mala causa destitutum atque impropugnatum relinquit»; conta solo l’effetto persuasivo: «rhetori concessum est sententiis uti falsis, audacibus, versutis, subdolis, captiosis», purché suonino verosimili e vadano a segno, «et possint ad movendos hominum animos qualicumque astu inrepere».

L’intervento di Antonino Di Matteo, inizialmente, almeno formalmente, non scade nel vaniloquio ciarlatanesco: espressa la «convinzione che la visione del legislatore del 1991», quando la Direzione nazionale antimafia venne istituita sia stata «in parte tradita», avendo, «solo in alcune fasi della sua trentennale esistenza assicurato il servizio per il quale era stata concepita la funzione di motore nevralgico della lotta alla mafia», e, in altri frangenti, corso il «rischio di trasformarsi in una sorta di ufficio di rappresentanza al più chiamato a regolare potenziali conflitti tra procure diverse […] anche per la rinuncia di fatto all’esercizio del suo potere d’impulso privo di quella autorevolezza interna ed esterna alla magistratura che lo dovrebbero caratterizzare», prima sottolinea il dovere del Consiglio superiore di operare «una scelta di politica giudiziaria alta e quindi non condizionata da giochi di potere di alcun tipo o peggio che mai da calcoli opportunistici»; quindi invita l’Assemblea «a invertire questa deriva», scegliendo «il candidato in possesso della più spiccata attitudine a ridare ruolo centrale alla Direzione nazionale antimafia,», così da «proiettarla nella dimensione […] di cuore pulsante dell’attività di contrasto giudiziario alle mafie e al terrorismo»; esprime, finalmente, la convinzione «della maggiore e più spiccata idoneità allo scopo di Nicola Gratteri, non perché sia tecnicamente più bravo, più preparato dagli altri ottimi candidati, ma perché […] il più idoneo a ridare slancio all’attività della Direzione nazionale antimafia, […] innanzitutto per la sua esperienza in prima linea […]; per la sua personalità; per la credibilità acquisita all’interno e all’esterno della magistratura […]; per la sua […] indipendenza piena dal potere politico; per la sua estraneità alle patologie, purtroppo, consolidate, del sistema correntizio; per la sua passione e per il coraggio che ha avuto anche nel sovraesporsi al serio rischio per la sua incolumità».

Argomenti, all’apparenza, sottolineo, almeno all’apparenza, impeccabili, ma comunque inerti sull’Assemblea e, specialmente, rispetto a entrambi i due competitors. Impensabile, comunque, pena l’effetto boomerang, ricorrere al discorso «diabolico», ossia denigratorio sugli antagonisti. Di qui, allora, la necessità d’inoculare nel ragionamento un elemento affascinante: «Il dottore Gratteri […], nel distretto di Catanzaro sta affrontando una situazione che è assolutamente analoga a quella che nei primi anni Ottanta affrontò il primo pool antimafia di Palermo, ecco perché col processo “Rinascita Scott” si arriva a […] numeri così alti di ordinanze di custodia cautelare e di imputati: la situazione (odierna) della Calabria è, da un punto di vista criminale, paragonabile a quella della Sicilia dei primi anni Ottanta». Incredibile si possa semplicemente azzardare una simile equazione-equiparazione, destituita di ogni benché minimo fondamento, non già da un oscuro quisque de populo approdato, dio sa come, al sottoscala del giornalismo, ma da chi ha sostenuto l’accusa nel processo palermitano relativo alla cosiddetta «Trattativa Stato-Mafia», e solo per questo dovrebbe sapere cosa accadeva nella Sicilia degli anni a cavaliere del 1980, e cosa abbia rappresentato il maxi-processo istruito da Giovanni Falcone, nei confronti del Gotha e dei gregari di Cosa nostra a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.

Esaurite le considerazioni asseritamente attinenti alle «valutazioni di merito», senza peraltro spendere una parola, e analogo discorso vale sia per il Consigliere Sebastiano Ardita come pure per il professor Fulvio Gigliotti da Catanzaro, sui risultati utili ai quali solitamente approdano le «grosse» operazioni del dottor Gratteri, terreno particolarmente infido, perché è su di esso che si misura la differenza tra ciò che è semplicemente «grosso» e ciò che invece è «grande», il Consigliere Antonino Di Matteo, «ad permovendos hominum animos» tenta l’ultimo movimento strisciante evocato dal verbo «inrepere», allevare, insomma, angosce nell’uditorio: il dottor Gratteri, asserisce, «è uno dei magistrati più esposti, a rischio per la propria vita […], la criminalità organizzata ne percepisce l’azione come un ostacolo e un pericolo concreto e immanente, in questa situazione temo che una scelta eventualmente diversa (dalla sua designazione, n.d.r.) suonerebbe come una sorta di bocciatura del (suo) operato […], non verrebbe compressa dall’ opinione pubblica ancora attenta e sensibile davvero alla lotta alla mafia e, agli occhi dei mafiosi e del più ampio contesto criminale in cui si collocano, risulterebbe come una ennesima presa di distanza istituzionale pericolosamente foriera di ulteriori rischi (per) un magistrato così esposto».

Una sorta di ricatto morale: «Credo che noi, oggi, dobbiamo anche avvertire la responsabilità di non cadere in quegli errori che hanno troppe volte tragicamente marchiato le scelte del Consiglio superiore in tema di lotta alla mafia e in certi casi hanno creato quelle condizioni di isolamento e delegittimazione istituzionale che hanno costituito il terreno più fertile per omicidi eccellenti e stragi. Sarebbe veramente oggi un segnale di cambiamento rispetto a quelle fasi che hanno caratterizzato il Consiglio superiore della magistratura riconoscere la prevalenza (rispetto ai competitors, n.d.r.) e l’idoneità piena del dottor Gratteri a ricoprire l’incarico di procuratore nazionale antimafia». Peccato che tanto impeccabili argomenti non abbiano convinto la maggioranza assoluta dell’Assemblea, tetragona attorno alla candidatura di Giovanni Melillo.

Occorreva qualcosa di più, magari che fosse filtrata con maggiore tempestività, la notizia delle «’ndrine pronte a far saltare in aria Gratteri», raccolta, stando a «Il Fatto quotidiano» del 6 maggio 2022, che richiama una non meglio precisata «comunicazione secretata» trasmessa ai Servizi segreti italiani) da non meglio precisati «servizi di sicurezza di un Paese straniero […] probabilmente grazie a un’intercettazione (riguardante) soggetti collegati ad alcune famiglie mafiose infastidite da determinate indagini […] che minano gli affari della ’ndrangheta non solo in Calabria, ma anche in Sudamerica e negli Stati Uniti». Del resto, se Peithò, diavolessa-dea, non vi avesse inoculato «mèligma kai thelkèrion», neppure gli sforzi dialettici di Atena avrebbero disarmato le Moire (Eschilo, Eumenidi, vv. 805 ss) e, alla fine, non avrebbe prevalso Zeus agoràios, dio della parola (Agamennone, vv.785 ss.).

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il blitz della magistratura progressista ribalta tutto. Procura antimafia, le correnti impongono Melillo: Gratteri vittima del sistema Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Non sono state sufficienti le maxi inchieste contro la ’ndrangheta – ad iniziare dalla più volte citata ‘Rinascita Scott’ – per far nominare il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a capo dell’antimafia. Il Plenum del Consiglio superiore della magistratura, con una maggioranza schiacciante, gli ha preferito Giovanni Melillo, attuale procuratore di Napoli. Rispettate dunque le previsioni della vigilia che davano in pole l’ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd), nonostante in Commissione per gli incarichi direttivi avesse preso un solo voto, a differenza dei due che erano andati a Gratteri e a Giovanni Russo, quest’ultimo ex vice di Federico Cafiero de Raho alla Dna.

Per Melillo hanno votato ieri i cinque consiglieri di Area, la corrente progressista delle toghe di cui è esponente, i due laici pentastellati, Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, e quello in quota Forza Italia, Michele Cerabona. Al procuratore di Napoli sono andate anche le preferenze di tutti i togati (tre) di Unicost, la corrente di centro, e quelle dei due capi della Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il pg Giovanni Salvi, anch’essi esponenti della magistratura progressista e che per l’occasione hanno deciso di non astenersi come fanno normalmente. Per Gratteri, invece, hanno votato i due pm antimafia Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, i due togati di Autonomia&indipendenza Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, i laici in quota Lega Stefano Cavanna ed Emanuele Basile, nonché Fulvio Gigliotti, l’altro laico in quota M5s. A Russo, infine, sono andati i voti dei togati (quattro) di Magistratura indipendente e quello di Alessio Lanzi, il secondo laico in quota Forza Italia al Csm.

La discussione si è aperta con l’illustrazione dei percorsi professionali dei tre magistrati. Russo, prima pm a Napoli, è alla Dna dal 2009 e dal 2016 ha l’incarico di procuratore aggiunto. Gratteri, invece, è stato sempre in Calabria: pm a Locri, poi a Reggio e infine procuratore a Catanzaro. Melillo, infine, dopo aver fatto anch’egli il pm a Napoli, è stato al Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica e poi a via Arenula come capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) nella scorsa legislatura. Gli interventi più duri in Plenum sono stati quelli Di Matteo ed Ardita. L’ex pm del processo ‘Trattativa Stato-mafia’, prima di essere eletto al Csm, prestava servizio proprio alla Procura nazionale antimafia dove aveva avuto uno scontro con Cafiero De Raho al termine del quale era stato “rimosso” dal pool che si stava occupando delle indagini sui mandanti occulti delle stragi del 1992.

«Gratteri in questo momento è l’unico magistrato effettivamente in prima linea contro la criminalità organizzata, in particolare la ’ndrangheta, più pericolosa e temibile che esiste», ha esordito Di Matteo. «Si tratta – ha aggiunto – di uno dei magistrati più esposti al rischio. Sono state acquisite notizie circostanziate di possibili attentati nei suoi confronti poiché in ambienti mafiosi ne percepiscono l’azione come un ostacolo e un pericolo concreto. In questa situazione una scelta eventualmente diversa suonerebbe inevitabilmente come una bocciatura e non verrebbe compresa da quella parte di opinione pubblica ancora sensibile al tema della lotta alla mafia e agli occhi dei mafiosi risulterebbe come una pericolosa presa di distanza istituzionale da un magistrato così esposto». «Dobbiamo avvertire la responsabilità di non cadere in questi errori che hanno pericolosamente marchiato il Csm e creato le condizioni di isolamento, terreno più fertile per omicidi e stragi», ha quindi sottolineato Di Matteo, riferendosi chiaramente a Giovanni Falcone a cui venne preferito Antonino Meli per la Procura di Palermo.

«È come se la storia non ci avesse insegnato nulla», ha rincarato la dose Ardita, secondo cui «la tradizione del Csm è di essere organo abituato a deludere le aspirazioni professionali dei magistrati particolarmente esposti nel contrasto alla criminalità organizzata, finendo per contribuire indirettamente al loro isolamento. L’esclusione di Gratteri sarebbe non solo la bocciatura del suo impegno antimafia, ma un segnale devastante a tutto l’apparato istituzionale e al movimento culturale antimafia».

A gettare acqua sul fuoco il togato progressista Giuseppe Cascini: «Poche settimane fa sono stato tra i primi firmatari di una richiesta di apertura di una pratica a tutela del procuratore Gratteri e dei magistrati di Catanzaro per i gravissimi attacchi subiti ma ritengo molto opportuno, sul piano della politica giudiziaria, che a dirigere quell’ufficio sia destinato un magistrato che può vantare l’esperienza della direzione della più grande procura d’Italia». «Sono convinto – ha proseguito Cascini – della necessità di mantenere un giusto equilibrio tra le esigenze di impulso e di coordinamento e la autonomia delle procure territoriali».

Un approccio “prudente”, come è stato stigmatizzato da Cavanna, favorevole ai modi di fare “ruspanti” di Gratteri. Botta e risposta poi fra Di Matteo e Cascini a proposito dei colloqui investigativi con i mafiosi che verrebbero svolti alla Dna. Di Matteo ha smentito Cascini il quale aveva affermato che non essendo verbalizzati devono essere fatti con grande attenzione dai magistrati. «Sono anche videoregistrati», lo ha corretto Di Matteo. Per Gratteri questa è la seconda delusione cocente dopo il 2013. Era stato Luca Palamara a svelare come avvenne la bocciatura di Gratteri quando il suo nome venne scelto dall’allora premier Matteo Renzi per diventare ministro della Giustizia. Convocato d’urgenza a Roma, Gratteri chiese carta bianca per “ribaltare il sistema della giustizia”. La voce “si diffuse tra le correnti e il ‘Sistema’ – racconta Palamara – si mise in moto per bloccare tutto”. La sua colpa? Essere “molto autonomo, fuori dalle correnti e per di più intenzionato a fare rivoluzioni”. “Il Quirinale venne preso d’assalto da procuratori più importanti” e lo stesso procuratore di Roma Giuseppe Pignatone confidò a Palamara “di aver avuto in quelle ore contatti dai capi corrente”. Giorgio Napolitano prese atto “che la cosa non si poteva fare”.

Renzi, però, salì comunque al Colle con il nome di Gratteri, ricevendo in risposta un no secco. “Gratteri non era un problema solo in quanto Gratteri: la mossa di Renzi era una sfida al sistema delle correnti e dei grandi procuratori”, aggiunse Palamara, sempre profetico. Vicinanza a Gratteri è stata espressa con una nota da parte dei parlamentari grillini della Commissione Antimafia: «Non è il momento di creare divisioni ma è dovere di tutti serrare le fila, perché crediamo che il lavoro di squadra tra Melillo e Gratteri possa giovare al Paese tutto. L’Italia ha bisogno di magistrati competenti e coraggiosi e Gratteri rappresenta uno degli esempi migliori di uomo delle Istituzioni che, da sempre, sacrifica la propria vita per il bene di tutti». Paolo Comi

Il ritratto. Chi è Giovanni Melillo, il nuovo procuratore nazionale antimafia e le porte girevoli tra magistratura e politica. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Sessantuno anni, foggiano di nascita e napoletano d’adozione, Giovanni Melillo, neo capo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, è magistrato che tiene al profilo istituzionale. Fra i capi della Procura di Napoli degli ultimi anni è stato quello meno mediatico, più politico, autoritario. Un’aria da primo della classe, che gli deriva forse dall’essere risultato tra i primi in Italia al concorso in magistratura, forse da un fattore caratteriale, e che comunque non lo ha tenuto lontano da polemiche e critiche. In primis, a Napoli, quelle legate alla (non) comunicazione di notizie su arresti e omicidi tanto da innescare più di una volta le proteste dei giornalisti nonostante l’ ‘operazione trasparenza’ presentata con la decisione di consentire alla stampa l’accesso agli atti dopo formale richiesta all’ufficio del procuratore, quindi a lui stesso, e dietro pagamento dei diritti.

In magistratura dal 1985, Melillo è stato prima pretore a Barra, quartiere della difficile e degradata periferia di Napoli, poi sostituto procuratore dell’allora neonata Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Se non ci fossero state le porte girevoli ad oliare i passaggi dalla magistratura alla politica e viceversa, la sua carriera sarebbe stata diversa. Sta di fatto che nel 1999 Melillo arriva alla segreteria generale della Presidenza della Repubblica come consulente giuridico, due anni dopo passa alla Procura nazionale antimafia come sostituto con funzioni di coordinamento investigativo in materia di criminalità organizzata e stragi terroristiche. Roma è una città che consente molte esperienze e relazioni professionali. Bisogna saperle coltivare e se si ha ambizione, determinazione e un pizzico di cinismo si riesce anche meglio. Melillo resta a Roma circa otto anni e nel 2009 fa ritorno a Napoli come procuratore aggiunto, prima nella sezione Criminalità comune e poi in Dda. Le porte girevoli sono sempre lì, pronte a riportarlo fuori ruolo per consentirgli di ritornare a Roma.

È il 2014, al governo c’è Matteo Renzi e il Guardasigilli è Andrea Orlando: il nostro procuratore diventa capo di Gabinetto del ministro della Giustizia e assume un ruolo strategico nella gestione giuridica e organizzativa di molte questioni che passano per gli uffici di via Arenula. L’esperienza dura qualche anno perché, caduto il governo Renzi, per Melillo è tempo di indossare nuovamente la toga. Et voilà, le porte girevoli lo consentono. Nel 2017 è sostituto pg a Roma, poco dopo tenta la corsa a procuratore di Milano ma quando capisce che non può farcela fa un passo indietro, si ritira e appena può si candida alla guida della Procura di Napoli. La vittoria non è schiacciante ma lo porta comunque al vertice del più grande ufficio inquirente d’Italia, dal 2 agosto 2017 ad oggi. Anni segnati da una gestione accentrata e più votata all’innovazione tecnologica e alla specializzazione delle sezioni, non sufficiente però a dare all’ufficio quell’approccio davvero laico rispetto al potere giudiziario esercitato dai sostituti.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dopo la nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia. Melillo e le macerie lasciate in Procura: dal bavaglio alla stampa alle inchieste flop ‘grazie’ alle intercettazioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Chissà quale frase di Mafalda userebbe il procuratore Giovanni Melillo per definire la sua esperienza napoletana. A sfogliare il lungo elenco di vignette della piccola protagonista di fumetti nata dalla fantasia dell’argentino Joaquìn Lavado, in arte Quino, di frasi ce ne sono tante. Tutte con un’ironia un po’ cinica, a tratti dissacrante, che pare piacere molto al procuratore ora eletto come nuovo capo della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Giovanni Melillo, infatti, lascia la Procura di Napoli per dirigere l’ufficio nazionale della lotta alla criminalità organizzata. A metà mattinata, ieri, la notizia è rimbalzata dall’aula del plenum del Consiglio superiore della magistratura. Per tanti non è stata una sorpresa.

Melillo era dato in pole, chi lo conosce dice che non si sarebbe mai candidato se non avesse avuto chance di farcela. Quando si liberò il posto per dirigere la Procura di Milano Melillo ci provò, si candidò ma quando fu certo di non farcela fece un passo indietro. Poi arrivò la nomina alla Procura partenopea, il più grande ufficio inquirente d’Italia. Melillo lo ha diretto dal 2 agosto 2017 ad oggi. Anni attraversati da inchieste, polemiche, cambiamenti dettati anche da alcune contingenze. La pandemia, per esempio. Chi ha vissuto gli anni dell’era Melillo non può non aver notato il rigore e il tratto istituzionale che il procuratore ha dato all’organizzazione dell’ufficio, privilegiando l’innovazione tecnologica e la divisione dei sostituti in gruppi di lavoro sulla scia delle competenze e delle specializzazioni. L’obiettivo sembrava quello di rendere l’ufficio una macchina perfetta. Sembrava.

In questi anni la Procura ha abbassato i toni, ridimensionato l’impatto mediatico delle sue inchieste almeno sul piano formale. Melillo è il procuratore che ha sostituito le conferenze stampa nella sala all’ottavo piano del Palazzo al Centro direzionale con “colloqui informali”, nessuna intervista da rilasciare, nessuna dichiarazione da virgolettare sui giornali. Un profilo poco mediatico, ma capace comunque di incidere sui rapporti con la stampa. Melillo ha consentito l’accesso dei giornalisti agli atti previa richiesta formale al procuratore, quindi a lui, e dietro pagamento dei diritti. Una scelta presentata come un’operazione di garantismo, di trasparenza. Ma che non ha mancato di creare polemiche, cortocircuiti e distorsioni in più di un’occasione. I giornalisti, soprattutto i cronisti di nera, si sono ritrovati con molti canali di informazione chiusi, sbarrati. «Disposizione della Procura», «La Procura non autorizza» si sentivano rispondere. Bocche cucite su alcuni fatti e non su altri. E a deciderlo era il monarca del palazzo. I giornalisti se ne sono lamentati spesso.

Una prima volta chiesero e ottennero un incontro con il procuratore, c’era anche il presidente dei giornalisti campani e rappresentanti di fotoreporter, videomaker e operatori tv perché ai colloqui informali con il procuratore si accedeva senza telecamere e senza microfoni. Melillo fu cortese ma inamovibile, come nel suo stile. Negli anni la situazione è andata avanti tra altri e bassi, mesi fa un altro caso per via di arresti eccellenti comunicati dopo venti giorni e silenzi stampa su omicidi e cadaveri trovati in strada. E poi investigatori terrorizzati per fughe di notizie che li avrebbero portati sotto inchiesta. Il tutto in nome della presunzione di innocenza che però veniva poi ignorata da alcuni sostituiti, calpestata quando si dava risalto mediatico a inchieste o addirittura a semplici attività di perquisizione. In questi anni la Procura di Napoli ha intercettato migliaia di persone, eseguito arresti, avviato inchieste che non sono sempre state confermate da sentenza di condanna.

Il distretto di Napoli resta purtroppo uno dei distretti giudiziari con tante lungaggini e alti numeri di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Una piaga della giustizia tutta, a Napoli come altrove. Ma comunque un nodo da sciogliere perché si possa finalmente parlare di giustizia giusta. Nell’immediato la guida della Procura partenopea sarà affidata al procuratore vicario Rosa Volpe. Poi si apriranno le candidature per il dopo Melillo. Gira voce che possa candidarsi Nicola Gratteri, il procuratore uscito sconfitto da quest’ultima corsa alla Procura nazionale. Si vedrà. La speranza in ogni caso è che si vada finalmente nella direzione di un approccio veramente laico rispetto al potere giudiziario che i magistrati esercitano, in particolare i sostituti della Procura. Solo allora si potrebbe davvero di un nuovo corso.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Si scatena la zuffa tra le toghe. Nicola Gratteri bocciato all’antimafia, i risultati contro le cosche non sono stati eccezionali. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Gratteri è stato sconfitto, non sarà lui il Procuratore nazionale antimafia. Sarà Giovanni Melillo, attuale Procuratore capo di Napoli. Lo ha voluto il Pd e lo ha imposto con i voti delle toghe amiche del Pd. Che non amano Gratteri. Il Csm ha assegnato a Melillo 13 voti, quelli che bastavano a evitare il ballottaggio. La maggioranza assoluta. Sette voti a Nicola Gratteri cinque a Giovanni Russo. E questo ha provocato una specie di terremoto dentro la magistratura. Di Matteo e Ardita sono furiosi e lanciano accuse sanguinosissime. Cascini, che è considerato il capo di quelle che venivano chiamate le toghe rosse, difende invece Melillo, e dice che è stata solo una scelta tecnica e che lui non ha nulla contro Gratteri, e ricorda che recentemente ha chiesto che il Csm scendesse in campo per difenderlo dagli attacchi del Riformista.

Di Matteo invece ha rilasciato dichiarazioni molto polemiche. Riferendosi in modo evidentissimo a vecchi precedenti, quelli che riguardano le sconfitte che Giovanni Falcone subì in Csm alla fine degli anni ottanta, ha spiegato che respingendo la candidatura di Gratteri il Csm ha dato un segnale alla mafia. Un segnale di disimpegno dello Stato e un segnale di isolamento del Procuratore di Catanzaro, il quale – ha detto – è sovraesposto nella guerra alla cosche. Di Matteo e Ardita sostengono che è stato assurdo negare l’impegno e i risultati dell’azione di Gratteri contro la ‘ndrangheta e operare una scelta di tipo burocratico. Melillo è conosciuto come magistrato molto vicino alla politica e in particolare al Pd. Mentre Gratteri è noto come lupo solitario, slegato dai partiti, indipendente e quindi incontrollabile.

È probabile che queste caratteristiche dei due candidati abbiano pesato sulla scelta. È invece una forzatura insistere sui successi antimafia di Gratteri, perché non sono così evidenti. Gratteri è un magistrato valoroso che da molti anni è impegnato in modo spasmodico nella lotta alla ‘ndrangheta, ma onestamente bisogna ammettere che i risultati del suo lavoro non sono stati eccezionali. Ora comunque la guerra tra le toghe è clamorosamente riaperta. Proprio alla vigilia di uno sciopero che potrebbe anche essere un clamoroso flop.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Una toga di sinistra alla procura Antimafia. Il Csm si spacca ancora. Luca Fazzo il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

Melillo batte Gratteri, grazie anche ai voti moderati. Sconfitta l'ala dura dei magistrati.

Cultura giuridica contro irruenza investigativa: alla fine erano questi i corni del dilemma che il Consiglio superiore della magistratura era chiamato a sciogliere ieri, dovendo scegliere il nuovo procuratore nazionale Antimafia. I due candidati rimasti a contendersi una delle poltrone più ambite d'Italia (anche se di utilità concreta piuttosto discussa) erano rimasti due magistrati che rappresentavano plasticamente due approcci opposti al ruolo inquirente: da una parte Giovanni Melillo, oggi procuratore di Napoli, spessore culturale indiscusso; dall'altra il sanguigno Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro, l'uomo delle maxiretate contro la ndrangheta. Prevale nettamente il primo: il Csm si spacca, come era avvenuto il mese scorso per la nomina del capo della Procura di Milano, ma a Melillo non serve neanche il ballottaggio. Viene nominato con 13 voti contro i 7 di Gratteri.

A garantire a Melillo il successo al primo turno, sono - significativamente - i voti dei vertici della Cassazione, il presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, che nel voto su Milano invece si erano astenuti. Sia Curzio che Salvi vengono dalle file di Area, la corrente dei giudici di sinistra, ma sarebbe riduttivo leggere l'endorsement per Melillo, anche lui di Area, come una faccenda di schieramento. A pesare contro Gratteri è probabilmente anche una certa sovraesposizione mediatica, una visione un po' muscolare del ruolo, pugno di ferro in guanto di ferro (non sempre sorretta da altrettanti successi al momento delle sentenze). Non a caso a favore di Gratteri si sono spesi ieri nel plenum del Csm gli ex «davighiani» Sebastiano Ardita e Antonino Di Matteo, ala «dura» delle toghe: Ardita arriva ad ammonire il Csm che non nominare Gratteri a capo della Procura nazionale «sarebbe non solo una bocciatura del suo impegno antimafia ma un segnale devastante al movimento culturale antimafia». Il plenum non se ne dà per inteso e nomina Melillo, a suo favore vota compatta Area ma anche consiglieri moderati come i laici Michele Cerabona e Alberto Maria Benedetti, a riprova che il diverso profilo dei due candidati ha scavallato anche gli schemi di schieramento.

Resta il fatto che per la guida della Procura voluta da Giovanni Falcone (cui il Csm negò di diventarne il primo capo) la nomina di Melillo conferma la tendenza a farne un feudo della sinistra giudiziaria: a partire dal 2005 è stata guidata da due magistrati così dichiaratamente marchiati che dopo averla lasciata entrarono in Parlamento per il Partito democratico, cioè Piero Grasso e Franco Roberti. La nomina dell'attuale titolare Federico Cafiero de Raho, uomo della corrente di centro Unicost, fu nel 2017 una sorta di risarcimento che il Consiglio superiore gli tributò all'unanimità per avere bocciato, nonostante il forte sostegno di Luca Palamara, la sua candidatura alla Procura di Napoli: gli venne preferito proprio Melillo, che diviene ora il suo successore. Alla fine i nomi che girano sono sempre gli stessi, a riprova di una certa difficoltà di ricambio nelle posizioni di vertice della magistratura.

Con la nomina di Melillo si chiude una prima tornata di nomine giudiziarie importanti. Ancora da coprire resta la procura generale della Cassazione, che Salvi libera a luglio. Di tutto il resto, dal tribunale di Milano alle procure di Firenze e Palermo, si occuperà probabilmente il prossimo Csm: quello attuale scade tra pochi mesi, ma per eleggere quello nuovo il Quirinale pretende che venga prima varata la riforma portata dal ministro Cartabia all'esame del Parlamento.

Gianfranco Ferroni per "Il Tempo" il 6 maggio 2022.

“A Buckingham Palace prima hanno festeggiato la sconfitta di Nicola Gratteri. E subito dopo hanno brindato alla vittoria di Giovanni Melillo”, dice con amarezza un magistrato che parteggiava per il primo, nella gara la carica di procuratore nazionale antimafia.

A dirla tutta, Melillo ha tanti amici che lo stimano, tra i colleghi, ma i nemici sono molto agguerriti. 

E l’argomento che propongono questi ultimi è delicato, nel corso di una riunione: “Ma è opportuno che una poltrona così importante vada a una persona che in casa condivide la sua esistenza con un altissimo rappresentante di uno stato estero? Sì, perché Jill Morris, la signora Melillo, è stata per anni ambasciatore del Regno Unito in Italia, ed è un ‘pezzo forte’ dell’amministrazione inglese”.

Addirittura, tra i colleghi del procuratore c’è chi chiede “un intervento del Csm, del parlamento e anche del Copasir per chiarire la materia. La trasparenza, innanzitutto, deve essere garantita, quando i ruoli sono così delicati e riguardano la sicurezza dello stato”. Tutti d’accordo sul fatto che “l’Inghilterra è una nazione amica, e garante del diritto, ma se un alto magistrato vive, sposato o no, con un rappresentante di una dittatura che si fa?”

Quella formata da Roberto Cingolani e Stefano Bonaccini è una strana coppia: ma funziona. Il ministro per la Transizione ecologica e il governatore della regione Emilia Romagna sono d’accordo: va creato un hub nazionale per gas e rinnovabili, e Ravenna appare perfetta per ospitare la piattaforma per la rigassificazione e un parco eolico.

Si sono incontrati a Bologna, Cingolani e Bonaccini: "Qui ci sono le condizioni per realizzare le infrastrutture strategiche per l'Italia", ha detto il primo, sottolineando che si è “parlato di futuro come mai in precedenza".

Ovviamente è già partita la contraerea ambientalista, con Legambiente Emilia-Romagna pronta a rilevare che il rigassificatore "potrebbe rivelarsi un cavallo di Troia nella strategia energetica a medio termine della regione Emilia-Romagna: gli obiettivi del patto per il clima e il lavoro così come gli obiettivi indicati all'interno del Piano energetico regionale richiedono di avviare già ora un processo di totale de-metanizzazione ed elettrificazione dei consumi sul territorio regionale". E siamo solo all’inizio.

E’ stato il più famoso arbitro italiano, per oltre mezzo secolo: e sarà il salone d’onore del Coni di Roma a ospitare nel pomeriggio del prossimo 13 maggio la presentazione del libro “Concetto Lo Bello – Storie e momenti di vita tratti dall’archivio di famiglia”, dedicato al celebre dirigente sportivo.

All’appuntamento, organizzato dall’Associazione Concetto Lo Bello – Idee per lo sport, la cultura, il sociale, con il patrocinio del Coni, non mancherà il presidente del Coni Giovanni Malagò. Lo Bello era stato eletto in Parlamento nelle liste della Democrazia Cristiana nella circoscrizione della Sicilia orientale nel 1972, 1976, 1979 e 1983. Nel giugno del 1986 fu eletto sindaco di Siracusa, carica che ricoprì per cinque mesi.

Gratteri come Falcone. Il più apprezzato non passa come procuratore nazionale antimafia. SAVERIO PUCCIO su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2022.

Nicola Gratteri non commenta. Sorriso beffardo, ma nessuna parola. Poche ore prima, intorno alle 11,30, le agenzie di stampa hanno “battuto” la notizia del giorno: “Melillo è il nuovo procuratore antimafia, sconfitto Gratteri”. Non è chiaro quanto il procuratore Gratteri si aspettasse questo esito, ma non sembra avesse aspettative positive. Per assurdo, le notizie che trapelavano da Roma alcuni giorni fa, lasciavano intendere che il procuratore capo di Catanzaro potesse davvero giocarsi la partita per la successione a Federico Cafiero de Raho. Poi c’erano state le valutazioni emerse nella corsa di Gratteri, con le quali si evidenziavano i «metodi di indagine unici ed originali, di estrema efficacia» (LEGGI). Frasi e sensazioni che aveva fatto immaginare soluzioni ben diverse da quella arrivata oggi, ma che in realtà nascondevano gli equilibri interni al plenum del Csm.

La verità è che la politica non ha quasi mai apprezzato e condiviso lavori e metodi del procuratore più esposto d’Italia. Troppo scomode le sue dichiarazioni e i suoi modi di fare. Qualche inchiesta finita male, con l’accusa anche di un eccessivo protagonismo e una sovraesposizione mediatica. Eppure, il Consiglio superiore della magistratura, lo stesso che oggi ha preferito Melillo, poco più di quattro anni fa aveva sostenuto all’unanimità la nomina di Gratteri a procuratore capo di Catanzaro. E solo lo scorso dicembre aveva confermato lo stesso magistrato alla guida della Dda catanzarese per un altro quadriennio. L’ultimo, come previsto dalla normativa.

Un “amore” scomodo, evidentemente. Considerato che gli apprezzamenti per il lavoro del procuratore calabrese non sono mai andati oltre ai soliti comunicati stampa di routine. Gratteri è sempre stato inviso a certi ambienti di sinistra come ad altri di destra. Persino l’ipotesi di un suo ministero per il Governo Renzi venne immediatamente bloccato e osteggiato da buona parte della politica nazionale.

Gratteri è così. Sembra essere un po’ come quella pubblicità di una nota marca di scarpe secondo cui “o lo odi o lo ami”. Ovviamente qui non si tratta di “amare” o “odiare” qualcuno, semplicemente basterebbe scegliere le persone giuste al posto giusto, rispettando tutto e tutti.

Ciò che trapela dagli ambienti del palazzo di giustizia di Catanzaro è un Gratteri che appariva ben conscio della difficoltà di convincere i componenti del Csm sulla sua nomina quale successore di de Raho. L’indicazione è, comunque, politica e lui non ha mai taciuto dinnanzi a quelli che ha ritenuto errori della classe dirigente nazionale. Basti pensare alle dichiarazioni dirette e per nulla mediate sulla riforma Cartabia o su qualunque altro tentativo di mitigare le normative sulla detenzione dei mafiosi. Oppure, le polemiche continue e infinite sulla posizione giudiziaria di Giancarlo Pittelli, avvocato e politico di primo piano travolto dall’inchiesta antindrangheta del procuratore Gratteri.

In pochi mesi, il magistrato ha prima ritirato la candidatura presentata per guidare la Procura di Milano (realtà troppo in vista proprio nelle indagini sulla politica), ora silurato nella nomina a procuratore nazionale antimafia. A questo si aggiunge la decisione di non partecipare nemmeno al possibile incarico di procuratore di Roma, considerata che quella è una sede ancora più complessa e delicata.

Cosa farà Gratteri adesso? Quello che ha sempre dichiarato di voler fare: proseguire la sua esperienza a Catanzaro per «smontare la Calabria come un Lego». La guida alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro durerà almeno per altri tre anni abbondanti, quando scadrà il suo duplice mandato quadriennale iniziato il 16 maggio 2016. Una notizia non buona per “colletti bianchi”, “zone grigie” e malavitosi di ogni ordine e grado in azione nelle quattro province di competenza.

Quella di oggi non appare essere una giornata straordinaria nella lotta alle mafie, come hanno evidenziato magistrati del calibro di Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, ma potrebbe diventare un giorno buono per una terra che ha ancora tanto bisogno di essere ripulita da una ‘ndrangheta sempre più potente, sempre più collegata e invasiva.

Gratteri, menti raffinatissime e attentati: Una grave fuga di notizie. JAMES WORMOLD su Il Quotidiano del Sud il 6 maggio 2022.

Il New York Times, in un articolo sui 12 generali uccisi in guerra, ha scritto che le forze ucraine sono riuscite ad uccidere molti di loro grazie a informazioni fornite loro dai servizi segreti americani.

La Casa Bianca attraverso il Consiglio della sicurezza nazionale ha criticato l’autorevole testata dichiarando questa scelta “irresponsabile”.

In Italia, il Fatto Quotidiano, a firma di Lucio Musolino, scrive che i servizi di sicurezza di un paese straniero avrebbero appreso attraverso un’intercettazione della preparazione di un attentato contro il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. La segnalazione è di alcune settimane fa.

Il quotidiano americano e quello diretto da Marco Travaglio hanno svolto bene il loro lavoro. Hanno valutato che le loro notizie andavano divulgate. Si sono assunti delle responsabilità. Ma a differenza degli Usa, in Italia, il Copasir ha avuto un atteggiamento diverso.

«Ho telefonato questa mattina al procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, per esprimergli piena solidarietà e vicinanza anche a nome di tutto il Copasir», ha poi scritto un tweet, il presidente del Copasir, Adolfo Urso.

È molto grave che sia avvenuta una grave fuga di notizia di questo tipo. A poche ore dalla mancata elezione, o sconfitta meglio dire, di Nicola Gratteri, a procuratore nazionale antimafia. Considerato che le notizie sono datate, le misure di sicurezze saranno state già rafforzate, ma il progetto di attentato era meglio rimanesse riservato, infatti ha avuto accesso ad un’informazione “segreta e secretata” da parte di chi ha ascoltato l’intercettazione.

Nulla questio sul giornalista. La fuga di notizia è gravissima. Ci auguriamo che il Copasir, ma anche altri parlamentari, si attivino a verificare il livello di riservatezza dei nostri servizi. Se invece la talpa, perché una talpa c’è, sta in qualche Palazzo di Giustizia, il Ministro Cartabia dovrebbe predisporre un’ispezione.

Ci sembra che la soffiata al Fatto rischia di compromettere un’indagine rilevante. Ricordiamo che per nuovi provvedimenti le procure non possono tenere neanche conferenze stampa e poi notizie top secret diventano di pubblico dominio.

Non vorremmo che come ai tempi di Falcone e dell’attentato dell’Addaura riemergano quelle “menti raffinitissime” che nei meandri della Repubblica pestano sempre nel torbido per scopi oscuri e maleodoranti.

Il ricordo di Falcone e le ferite di mafia ancora aperte, il pg Salvi: «Abbiamo imparato dai nostri errori».  Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.

A 30 anni dalle stragi, l’incontro nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo. Il procuratore generale: «Anche nella magistratura vi furono resistenze, a volte anche invidie e ostilità». 

«Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono vittime di gravi attacchi da parte di chi, anche in aree della politica e persino delle istituzioni, vedeva nei nuovi metodi d’indagine, e soprattutto nella loro efficacia, una minaccia per lo status quo di connivenza, quando non di complicità, con Cosa nostra». Il ricordo che si trasforma in accusa arriva dal primo pubblico ministero d’Italia, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. E non risparmia le toghe che pure avversarono — finché furono in vita — i due giudici assassinati da Cosa nostra nelle stragi di trent’anni fa: «Anche nella magistratura vi furono resistenze, a volte anche invidie e ostilità».

La sessione di chiusura della Conferenza dei procuratori generali d’Europa apre di fatto, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, le celebrazioni per l’anniversario degli eccidi di Capaci e via D’Amelio, 23 maggio e 19 luglio 1992. E per Maria Falcone , sorella di Giovanni, è un’iniziativa che «concorre a rimarginare la ferita inferta a mio fratello da molti esponenti della magistratura che furono protagonisti, durante tutta la sua carriera, di attacchi violenti e delegittimanti che concorsero al suo isolamento».

Come fosse un dialogo a distanza, il pg della Cassazione aggiunge: «Falcone e Borsellino furono isolati ma non soli. In questi anni abbiamo corretto i nostri errori e messo a frutto i loro insegnamenti. Grazie al lavoro collettivo di alcuni che erano con loro e altri che ne hanno preso il posto, sono stati ottenuti risultati straordinari nel contrasto alla criminalità organizzata».

Salvi parla nell’aula bunker dell’Ucciardone dove ha trasferito i lavori della Conferenza (ospitata per due giorni dall’Assemblea regionale siciliana che il pg tiene a ringraziare insieme al Comune di Palermo) per rendere plastico l’omaggio al lavoro di Falcone e Borsellino: in questo «tempio della giustizia», come lo chiama il presidente della Corte d’appello Matteo Frasca, si celebrò il maxiprocesso alla mafia da loro istruito con gli altri giudici istruttori del pool antimafia. E la procuratrice generale della città, Lia Sava, che in passato ha lavorato a Caltanissetta alle più recenti inchieste su Capaci e via D’Amelio, ricorda come le indagini non si siano mai fermate. Ideatori ed esecutori sono stati processati e condannati, ma ci sono ancora zone d’ombra da illuminare.

La prossima settimana la Procura di Caltanissetta tirerà le sue conclusioni nel processo di primo grado a tre poliziotti accusati di aver contribuito ai depistaggi sulla morte di Borsellino. Sono fatti di cronaca che s’intrecciano con la storia rievocata davanti a Mattarella, che ascolta con attenzione. Anche sull’omicidio di suo fratello Piersanti, il presidente della Regione assassinato nel 1980, restano misteri mai svelati.

«Trent’anni rappresentano un passaggio di generazione», dice il vicepresidente del Csm David Ermini, che sottolinea l’importanza del «maxi» e delle tante sentenze successive al 1992: «La mafia non è sconfitta, ma è sconfitta l’idea dell’impunità della mafia». Poi cita Falcone e il suo appello ad «accantonare la contrapposizione amici-nemici tra politici e magistrati, e fare fronte unico». Parla di ieri ma sembra guardare all’oggi. E di attualità parlano le ministre dell’Interno Luciana Lamorgese e della Giustizia Marta Cartabia.

La prima ricorda la necessità, in primo luogo da parte delle forze di polizia, di sorvegliare sul’impiego dei soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza: «Ci attende una stagione di ingenti finanziamenti che possono rappresentare una nuova opportunità per il Paese, ma i flussi finanziari relativi al Pnrr vanno schermati da ingerenze e condizionamenti criminali». La seconda rievoca la sentenza pronunciata nel bunker con la quale «lo Stato di Diritto prevalse sulla violenza e la barbarie delle mafie», prima di richiamare l’impegno affinché «nel nostro oggi la voce del Diritto possa tornare a prevalere sul clamore delle bombe, della guerra e di ogni forma di sopraffazione».

L’invasione dell’Ucraina aveva già fatto irruzione nella Conferenza quando la procuratrice generale di Kiev ha chiesto aiuto ai colleghi europei per accertare quanto sta accadendo nel suo Paese, e dalla ministra Cartabia arriva la prima risposta: «Anche l’Italia, a breve, manderà in Ucraina un gruppo di esperti interforze, compreso un contingente della polizia penitenziaria, coordinato da un magistrato, per essere di supporto nella raccolta di prove per l’accertamento delle responsabilità dei crimini di guerra».

Don Luigi Ciotti. Parole e non sentenze. La povertà educativa dietro le violenze, don Ciotti: “Capire, non giudicare”. Francesca Sabella su Il Riformista il 18 Marzo 2022. 

Capire e non giudicare. Parlare e non sputare sentenze. Ascoltare per capire e non per attaccare. È questa l’unica strada per approdare a una giustizia che sia giustizia vera, rieducativa e non punitiva. Perché le parole sono pietre, ma possono essere anche mattoni con i quali costruire, anzi, ricostruire una vita segnata da un errore e non da un marchio a fuoco che non va più via. «È la prima volta che parlo a detenuti adulti, fino ad adesso ho parlato ad adolescenti delle carceri minorili – inizia così l’intervento di Anna Maria Torre, figlia di Marcello Torre vittima innocente della camorra – Con la mia famiglia, in particolare con mia madre, abbiamo atteso anni per reclamare giustizia e verità. La mia presenza oggi qui, anche emozionata, vuole verificare con voi, senza giudicarvi, le condizioni di un percorso di inclusione sociale e nostro, con le nostre sofferenze, il nostro dolore, di sentirci comunità».

Le parole di Anna Maria accendono un faro, non c’è rancore ma speranza. Ieri Anna Maria Torre ha partecipato a una delle giornate di incontri nelle carceri campane promosse dal garante dei detenuti Samuele Ciambriello, d’intesa con l’associazione “Libera” e alcuni familiari di vittime innocenti della criminalità organizzata. Ieri è stata la volta del carcere di Bellizzi Irpino e di Salerno. Su questa testimonianza, dal pubblico è intervenuto un detenuto di Bellizzi che ha consegnato alla dottoressa Anna Maria Torre una riflessione personale, raccontando poi di aver, da qualche settimana, intrapreso un percorso di giustizia riparativa per instaurare un dialogo con i familiari della persona che ha ucciso.

Parlare, costruire opportunità e non sentenze è lo scopo delle iniziative che accompagneranno detenuti, cittadini e vittime di mafie fino a lunedì quando a svolgerà a Napoli la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata dall’ associazione “Libera” di don Luigi Ciotti. Sono 300 i pullman che arriveranno a Napoli da tutta Italia con a bordo oltre 15mila ragazzi che hanno deciso di gridare il loro “no” alle mafie. La manifestazione prenderà il via alle ore 9 da piazza Garibaldi con un corteo che, attraversando la città, arriverà a piazza Plebiscito. Qui saranno letti i nomi di tutte le vittime innocenti di mafia. Nella piazza napoletana e in contemporanea in tante altre piazze d’Italia si ritroverà il Paese che si ribella all’indifferenza, all’illegalità, alle mafie e alla corruzione.

«Dobbiamo ricordare queste vittime innocenti – ha affermato Don Luigi – ma deve essere una memoria viva, che deve tradursi in più responsabilità e impegno non un giorno all’anno ma tutti i giorni attraverso cambiamenti profondi nella società. Il nostro Paese deve ricordare non solo i nomi importanti, ma tutti quei figli, padri, madri, mariti, mogli il cui dolore dei familiari è uguale e profondo». Poi l’allarme di Don Ciotti e l’appello alla politica: «Oggi le mafie sono tornate più forti di prima, ma purtroppo se ne parla di meno, si è creato un clima di normalizzazione nel Paese. Chiediamo alla politica che faccia la propria parte ma noi come cittadini siamo chiamati a fare la nostra». Poi di nuovo l’accento sul tema del lavoro e della povertà educativa, piaga che in Campania fa registrare un tasso di abbandono scolastico pari al 19%. «Siamo la terza regione d’Italia per numero di ragazzi che dicono addio ai banchi di scuola. «La dispersione scolastica ci vede agli ultimi posti in Europa. E soprattutto non dimentichiamo che abbiamo 3 milioni di giovani che hanno terminato i percorsi della scuola ma che non trovano lavoro – ha affermato Don Ciotti – Una società senza lavoro muore e le organizzazioni criminali per quattro soldi catturano i fragili».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Don Ciotti: «Io prete e basta. Bisogna prendere posizione». Cinquant’anni di battaglie. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.  

Dall’impegno con i tossicodipendenti alla lotta contro le mafie. Le minacce di Riina, l’amicizia con Caselli, l’uso dei beni confiscati. Vita di un animo ribelle, fin dal calamaio scagliato alla maestra. 

È un brutto giorno di fine ottobre del 1975. In una saletta spoglia del cimitero sud di Torino, ancora poco più che un cantiere, un giovane magistrato piange davanti alla bara di un collega e amico, annegato durante un’immersione sub. Quella morte insensata sta scuotendo così a fondo la sua fragile fede da lasciarlo ammutolito quando il prete coi paramenti viola, anche lui molto giovane, traccia nell’aria il segno della croce e inizia la messa funebre. Poi il prete parla, come in una parabola incarnata: della vita e dell’assurdità di quella bara tra loro, toccando corde di verità. «Non saprei ripeterne neanche una sillaba, ma quel prete mi aprì uno spiraglio», sorride adesso Giancarlo Caselli, il giovane magistrato di quarantasette anni fa: «Così quel giorno persi un amico ma ne trovai un altro, che mi ha accompagnato e rappresenta la Chiesa che amo».

Il prete col dono di parlare a tutti come se parlasse a ciascuno si chiamava Luigi Ciotti, aveva da poco compiuto i trent’anni e molti gli si rivolgevano con un confidenziale «don Gigi» nella Torino spavalda e spaventata d’allora, che correva appresso al benessere e fingeva di non vederne le contraddizioni mortali. Don Gigi non solo le vedeva: ci si tuffava a capofitto. «Avevo un occhio allenato agli ultimi, li scovavo», ha raccontato in una bella intervista a Roberta Scorranese. Erano gli anni delle stragi d’eroina, una realtà così smisurata per la società perbenista da rendere inadeguato anche chi la descriveva: «Ci sono loro, i “diversi”, quelli che hanno consumato la droga, hanno rubato, si sono prostituiti», si poteva leggere (testualmente) su qualche rinomato settimanale dell’epoca.

Forse gli inizi sono un buon periodo per narrare don Ciotti, che col tempo è diventato così monumentale e bravo a raccontarsi a giornalisti talmente pigri nel raccontarlo da produrre uno stereotipo che si ripete da almeno quattro o cinque lustri e, ripetendosi, non gli rende giustizia: prete antimafia, prete antidroga, prete operaio, prete di strada, tutte etichette anguste per un sacerdote che, come spiegò a Michele Brambilla, si considera «prete e basta», perché l’idea di prete contiene evangelicamente tutte le altre e soprattutto contiene la risposta alla domanda fondamentale di Caino, «sono forse io il custode di mio fratello?»: sì.

Don Gigi aveva creato il Gruppo Abele quando ancora non era stato ordinato, nel 1965. Era un ventenne figlio di poverissimi immigrati veneti, cresciuto in baracca, con nel cuore le «sue» Dolomiti e una grande rabbia verso le ingiustizie. Ha raccontato mille volte l’episodio del calamaio scagliato contro la maestra che gli dava del «montanaro» perché la madre non poteva comprargli un grembiule decente. Avesse incontrato compagni sbagliati, chissà, uno così poteva finire persino su una strada storta. Aveva invece incontrato quello giusto, il Vangelo, e più che un compagno un padre: monsignor Michele Pellegrino che, da arcivescovo di Torino, sfidava la Curia romana per difendere il suo clero irrequieto.

Il più irrequieto era quel ragazzo che scappava dal seminario dicendo ai superiori che andava ad aiutare una parrocchia di periferia e appena fuori si buttava tra «prostitute, ladri, omosessuali, delinquenti d’ogni risma… quei ragazzi mi accettavano, anche perché non sapevano che ero un prete e non facevo predicozzi inutili», raccontò un giorno a padre Nazareno Fabbretti. Dato che il nostro non si drogava e non bestemmiava, per sviare i sospetti pare accettasse di fare «un borseggio, il minimo esame che dovevo superare». Poi, si trattò di vedersela col «capobanda» per contendergli le anime della ghenga. Quello era «un marcantonio alto così» ma lui doveva già avere… aiuti superiori e lo stese. È lì il punto di partenza, la strada sarà la sua parrocchia.

La «roba» si vendeva sotto i portici di via Roma e perfino sulle bancarelle dei mercati rionali, un grammo a 60mila lire. I ragazzi cadevano. Don Ciotti li acchiappava per i capelli: «Non parlate di recupero, non definiteci missionari, non fate pietismo gratuito», ammoniva dalla cascina del Monferrato dove aveva incominciato a raccoglierli. Il resto è arcinoto e nobile: mezzo secolo di impegno civile, scioperi della fame, raccolte di firme, obiezione di coscienza contro leggi antidroga sbagliate e «mostri giuridici» come le norme sui migranti e la Fini-Giovanardi che appiattisce tossicodipendenti e spacciatori in un abbraccio mortale. Gli spacciatori prendono a minacciarlo presto, «finirai come Rostagno», l’ex leader di Lc assassinato in Sicilia dalla mafia: finisce sotto scorta, scorta sempre più fitta quando pure Totò Riina comincia a interessarsi a lui, «Ciotti, Ciotti, putessimo pure ammazzallo».

A quel tempo l’ha già spuntata sul reimpiego sociale dei beni confiscati ai mafiosi e ha già creato Libera, nel 1995, evoluzione civile del gruppo Abele e calamita di centinaia di associazioni contro picciotti e padrini, perché non basta aiutare i tossici, devi fermare chi ci si arricchisce sopra: le mafie. La battaglia si sposta a Palermo, suo sodale è più che mai Caselli, che lui incoraggia ad accettare l’incarico terribile di procuratore nella città che ammazza i suoi giudici migliori. Accanto al letto tiene le foto di Pertini e del cardinal Martini, in libreria il Vangelo e la Costituzione, sue bussole, sull’altare una sgualcita Bibbia in inglese appartenuta a un migrante affogato davanti a Lampedusa, perché «l’amore non basta», ha scritto nell’autobiografia: bisogna «prendere posizione», «non amo la paccaterapia», le pacche consolatorie… Chi a sua volta non lo ama (e ce n’è parecchi: l’uomo, come si dice, è «divisivo») lo considera un «Savonarola» bravo a usare la retorica «sfruttando le emozioni», uno che ha messo in piedi business, brand e altri anglicismi che con la parola di Gesù non c’entrano granché. Ma sono chiacchiere, veleni di fazione.

Caselli si considera «un Ciotti-dipendente» da molti anni. Tanti, ancora, ormai nonni, spingendo un passeggino, fermano don Luigi per strada, «ti ricordi di me? Ero uno dei tuoi ragazzi, ce l’ho fatta, sono uscito dalla droga, ho trovato l’amore». Io sono «tu che mi fai», diceva un altro grande prete, don Giussani. Quel «tu» misterioso, in certe vite, ha preso la faccia incazzosa e le mani ruvide d’un vecchio ragazzo di montagna.

ANTIMAFIA ALLA SBARRA. Una ditta di intercettazioni nelle indagini sul sistema Montante. Marco Bova su L'Espresso il 10 Agosto 2022. 

Antonello Montante, presidente di Confindustria in Sicilia. Palermo, 9 febbraio 2015.

L’azienda è partecipata da una società del Gruppo di cui è proprietario Giuseppe Catanzaro, il re della monnezza, a giudizio nell’indagine bis sulla rete allestita dall’ex paladino della legalità di Confindustria. La spa che lavora per le procure di tutta Italia smentisce qualsiasi rapporto.

L'ombra del caso Montante su una ditta di intercettazioni operativa in tutta Italia. Potrebbe essere l'ennesimo capitolo della spy story, che ha colpito Confindustria siciliana: le indagini sono in corso. A partire da una segnalazione, inviata lo scorso aprile, dalla Direzione nazionale antimafia alle principali procure, sull'intreccio societario che lega la Movia spa al sistema che ruota intorno all'ex paladino dell'antimafia, Antonello Montante.

Nello specifico, gli approfondimenti riguardano i rapporti tra la ditta “Movia spa”, costituita in provincia di Catania da due esperti del settore, e l'imprenditore Giuseppe Catanzaro, uno dei “signori della monnezza” in Sicilia, proprietario della megadiscarica di Siculiana (in provincia di Agrigento) e numero due degli industriali dell’isola, negli anni d’oro di Montante. Anche Catanzaro adesso sarà processato a Caltanissetta, assieme ad un’altra decina di presunti complici, nell’ambito dell’indagine “Montante-bis”. Nonostante l’arresto, nel 2018, del responsabile antimafia degli industriali, infatti, le indagini sulla sua rete non si sono fermate.

Il collegamento tra la Movia e Catanzaro è emerso proprio nel corso di questi successivi approfondimenti ed è scaturito dalla comunicazione di una procura distrettuale sulla quale si è messo al lavoro il gruppo ricerche della Dna. 

"La nostra società non ha, né ha mai avuto, alcun rapporto con il gruppo Catanzaro", dice Luca Spina, legale rappresentante della Movia spa, ditta operativa da vent'anni e apprezzata nel settore delle captazioni telefoniche, ambientali, ma soprattutto telematiche, con l'uso dei cosiddetti trojan. Tanto da svolgere attività per conto delle procure distrettuali di Milano, Bari, Lecce, Catanzaro, Napoli, Genova, Salerno, Potenza e Reggio Calabria, oltre che nelle carceri di Parma e Trani.

Dalle indagini dei magistrati è però emerso che il 30 per cento delle quote di “Movia spa” è detenuto dalla società “Sistemi Investimenti spa”, che a sua volta per l'11,98 per cento è di proprietà del “Gruppo Catanzaro srl”. Quest'ultima è la società di famiglia, in cui oltre a Giuseppe, compaiono anche i fratelli Fabio e Lorenzo, a loro volta oggetto di Sos (segnalazioni di operazioni sospette).

L'ingresso dei Catanzaro nella Sistema Investimenti è datato febbraio 2014, ben prima che il caso Montante esplodesse. E la Sistema Investimenti, per il 37 per cento, è di proprietà dell'avvocato catanese Antonio Ernesto Zangara, cognato di Ivanhoe Lo Bello, apripista della Confindustria legalitaria in Sicilia.

"Il Gruppo Catanzaro è un mero socio investitore, del tutto passivo", precisa Zangara: “Detiene una piccola quota di minoranza, priva sia di specifici poteri sia di particolari tutele" e "nessun ruolo, ha mai avuto, né potrebbe aver mai avuto, il mio acquisito rapporto di affinità (non di parentela) con il dottor Lo Bello nei rapporti con il suddetto Gruppo Catanzaro".

Il nome di Lo Bello, nelle indagini di Caltanissetta sul sistema Montante, è quasi onnipresente, nonostante l’ex presidente degli industriali siciliani non abbia subito alcun coinvolgimento giudiziario. Compare più volte, anche nelle agende sequestrate nella casa di Montante a Serradifalco (Caltanissetta), spesso in compagnia dello stesso Catanzaro. Particolari cristallizzati nel processo contro l’ex paladino dell’antimafia, alcuni mesi fa condannato dalla corte d’Appello di Caltanissetta a 8 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico.

Assieme a lui, condannati anche alcuni componenti del suo “cerchio magico”, ritenuti complici nel confezionamento di dossier ricattatori con informazioni riservate, in parte provenienti dai database delle forze di polizia. Tra le vittime il magistrato ed ex assessore regionale Nicolò Marino, diventato un bersaglio dopo le sue denunce sulla discarica di Catanzaro e sull’affare rifiuti in Sicilia. Anche per questo Catanzaro è stato rinviato a giudizio per associazione a delinquere e corruzione nell’ambito di un generale affresco che riguarda le sue presunte ingerenze sulle scelte del governo regionale di Rosario Crocetta.

Il potere infinito di Montante e la “mafia di ritorno”. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 febbraio 2022

Protetto dai ministri dell’Interno Annamaria Cancellieri e Angelino Alfano, dal direttore dei servizi segreti Arturo Esposito e da quello della direzione investigativa Antimafia  Arturo De Felice, dalla presidente dell’Eni Emma Marcegaglia, è stato costruito come simbolo dell'Antimafia nonostante il torbido passato e le frequentazioni in Cosa Nostra.

I suoi avvocati hanno tentato la carta della disperazione, avanzando richiesta per annullare il verdetto di primo grado, «in quanto era incapace di partecipare coscientemente al giudizio».

Racconti di feste di compleanno passate insieme ai “don”. Anche un Natale con il boss Vincenzo Arnone che, «in segno di rispetto», gli fa visita nella sua villa.

La storia nascosta del processo Montante in cui le vittime sembravano gli imputati e l’imputato la vittima. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 09 luglio 2022

È un processo che ha turbato la quiete d'inizio estate di quasi tutto il tribunale di Caltanissetta, visti i rapporti che l'ex vicepresidente di Confindustria intratteneva con i capi degli uffici giudiziari del distretto. Comunque siano andate le cose confermato l'impianto accusatorio: Montante a capo di un'associazione a delinquere dedita ai ricatti, al dossieraggio, all'intimidazione. 

È un processo che ha turbato la quiete d'inizio estate non solo degli imputati ma anche di quasi tutto il tribunale di Caltanissetta, visti i rapporti che l'ex vicepresidente di Confindustria intratteneva con i capi degli uffici giudiziari del distretto. 

L’anomalo atteggiamento di alcune parti civili, molto in sintonia con Montante e contro il testimone chiave dell'accusa Alfonso Cicero, quello che aveva svelato ai poliziotti e ai pubblici ministeri gli ingranaggi più nascosti del "sistema”. 

ATTILIO BOLZONI.  Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Sistema Montante: l’ex paladino antimafia condannato in appello a 8 anni. La Stampa l'8 Luglio 2022.  

La corte d'appello di Caltanissetta ha condannato l'ex presidente di Sicindustria, Antonello Montante, a 8 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. In primo grado aveva avuto 14 anni.  Antonello Montante, 59 anni, imprenditore di Serradifalco, considerato per anni paladino dell'Antimafia, accusato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, secondo la Dda di Caltanissetta, avrebbe messo in piedi, con la complicità di esponenti politici, rappresentanti delle forze dell'ordine, imprenditori e sindacalisti un vero e proprio "sistema", che si poggiava su un presunto continuo scambio di favori e raccomandazioni, ricatti sessuali e video hard, posti di lavoro e facili carriere. Una sorta di rete finalizzata a spiare i movimenti e le inchieste di procura e polizia. Condannati anche alcuni componenti del suo «cerchio magico», accusati a vario titolo di corruzione, rivelazione di notizie coperte dal segreto d'ufficio e favoreggiamento. A 5 anni è stato condannato il capo della security di Confindustria Diego Di Simone (il gup gli aveva dato 6 anni e 4 mesi), a 3 anni e 3 mesi il sostituto commissario Marco De Angelis, (4 in primo grado). Assolti il colonnello Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della Guardia di Finanza di Caltanissetta, che in primo grado aveva avuto 3 anni, e Andrea Grassi, dirigente della prima divisione dello Sco che aveva avuto un anno e 4 mesi.  L’avvocato Taormina: “Ricorreremo in Cassazione” «Rispetto al primo grado c'è stato un ridimensionamento, anche se ovviamente non siamo assolutamente soddisfatti e quindi proporremo ricorso per Cassazione. Resta il problema dell'associazione che non riteniamo proprio configurabile. Alcune ipotesi di corruzione, se pure ridimensionate, non sono rispondenti a quelle che sono le nostre ricostruzioni». Lo ha detto l'avvocato Carlo Taormina, difensore dell'ex leader di Sicindustria Antonello Montante. «Noi riteniamo che il rapporto di do ut des tra Montante e la polizia o la Finanza non sia mai stato provato», ha aggiunto. 

Antonello Montante è stato condannato in appello a 8 anni di carcere. ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'08 luglio 2022

Tutto era già scritto. Le prove schiaccianti, le carte che “cantavano”. E così, dopo un processo eccessivamente lungo, è arrivata la conferma giudiziaria: Antonello Montante è stato condannato dalla Corte d’appello di Caltanissetta a otto anni, con rito abbreviato, praticamente lo sconto di un terzo della pena.

Una catena di connivenze dentro e fuori le istituzioni, dossieraggi contro gli avversari, lettere anonime, incursioni dentro la banca dati del Viminale, esposti all’autorità giudiziaria come vendette trasversali. Per intimidire, piegare ai voleri della consorteria.

Si conclude un processo d’appello decisamente troppo lungo rispetto al primo grado e anche in assoluto, due anni e mezzo. Dodici mesi se ne sono andati per la sospensione dell’attività giudiziaria a causa del Covid e per i certificati medici sfornati a raffica dall'imputato, gli altri diciotto mesi per le udienze che hanno doppiato quelle di primo grado. Processo a tratti assai anomalo. 

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Sconto di pena rispetto al primo grado. Montante condannato in Appello, 8 anni per l’ex presidente di Sicindustria e paladino antimafia. Fabio Calcagni su Il Riformista l'8 Luglio 2022 

Sei anni in meno rispetto al primo anno, ma condanna confermata. La Corte d’Appello di Caltanissetta ha condannato l’ex presidente di Sicindustria, Antonello Montante, a 8 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. In appello la procura aveva chiesto per lui 11 anni e 4 mesi.

Montante, 59enne imprenditore di Serradifalco, considerato per anni paladino dell’Antimafia, secondo l’accusa aveva messo in piedi assieme ad un “cerchio magico” esponenti politici, rappresentanti delle forze dell’ordine, imprenditori e sindacalisti un vero e proprio “sistema”, che si poggiava su un presunto continuo scambio di favori e raccomandazioni, ricatti sessuali e video hard, posti di lavoro e facili carriere.

Nel processo andato in scena oggi alcuni di questi ‘componenti’ sono stati condannati: a 5 anni il capo della security di Confindustria Diego Di Simone (il gup gli aveva dato 6 anni e 4 mesi), a 3 anni e 3 mesi il sostituto commissario Marco De Angelis, (4 in primo grado).

Assolti invece il colonnello Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della Guardia di Finanza di Caltanissetta, che in primo grado aveva avuto 3 anni, e Andrea Grassi, dirigente della prima divisione dello Sco che aveva avuto un anno e 4 mesi.

Per il legale di Montante, l’avvocato Carlo Taormina, “rispetto al primo grado c’è stato un ridimensionamento, anche se ovviamente non siamo assolutamente soddisfatti e quindi proporremo ricorso per Cassazione. Resta il problema dell’associazione che non riteniamo proprio configurabile. Alcune ipotesi di corruzione, se pure ridimensionate, non sono rispondenti a quelle che sono le nostre ricostruzioni”. “Noi riteniamo che il rapporto di do ut des tra Montante e la polizia o la Finanza non sia mai stato provato“, ha aggiunto Taormina.

“Grande soddisfazione per la completa assoluzione del proprio assistito” manifestano invece i difensori del questore Andrea Grassi, gli avvocati Cesare Placanica e Walter Tesauro. “Già la sentenza di primo grado aveva sancito l’estraneità di Grassi a ogni rapporto opaco” nell’ambito del “Sistema Montante”, dicono. “Oggi, con la completa assoluzione, a Grassi è stato ridato anche l’orgoglio di dichiararsi, come fatto dalle prime battute delle indagini, un uomo dello Stato”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

La giustizia che trasforma il boss della ’Ndrangheta in cittadino senza macchia. ATTILIO BOLZONI u Il Domani l'08 febbraio 2022

La storia di Rocco Barbaro è semplice e nel contempo esagerata.

Quello che veniva indicato da una quantità di rapporti investigativi come il numero uno della ’Ndrangheta in Lombardia, finito nella lista del Viminale come «uno dei 30 latitanti più pericolosi», non solo è tornato libero a casa sua fra le creste delle montagne calabresi ma una sentenza dice pure che non è mafioso.

È sconcertante la distanza fra le risultanze investigative e l’ultimo verdetto della Cassazione 

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Roberto Scarpinato. Il suo "testamento" al Fatto. Le sconfitte in tribunale di Scarpinato? Per lui restano medaglie…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.  

Malinconico e sconfitto, il Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, in pensione da pochi giorni, lascia una sorta di testamento al Fatto quotidiano. Il che non stupisce, e neanche scandalizza, ognuno sceglie i propri amici e i propri sostenitori. Quello che ha dell’incredibile, dello straordinario, è che il neo-pensionato, la cui tesi, su cui ha lavorato per qualche decennio, della Trattativa Stato-mafia, è stata demolita dalla corte d’appello d’assise di Palermo il 23 settembre 2021, lasci proprio quello come eredità. La sua sconfitta. “Stragi, depistaggi ancor oggi: li accerti chi viene dopo di me”, è il titolo del suo articolo d’addio.

Ogni medaglietta appesa sul suo petto segna una battuta d’arresto alla sua carriera. Pure lui le esibisce con un certo orgoglio, tanto da tentare di riscrivere la storia siciliana, quella vista con gli occhi delle inchieste giudiziarie, come se le cose fossero andate diversamente, come se la storia della mafia e delle stragi avessero un unico punto di riferimento, un (ancora sconosciuto) regista occulto responsabile di tutto. E anche come se, nel frattempo, tassello dopo tassello, tutto quel che lui, e insieme a lui un gruppo omogeneo di procuratori, avevano tentato di costruire, non avesse cozzato davanti a dati di realtà diversi e opposti da quel che loro avevano ipotizzato e sperato. “Chiudendo la porta alle mie spalle” è espressione triste e quel che viene dopo sembra una richiesta di affetto, di speranza perché tutte quelle scartoffie ormai finite nel cestino vengano in qualche modo salvate da qualcuno che abbia voglia nei prossimi trent’anni di ricominciare daccapo.

Tutta quanta la storia e i personaggi escono falsati. Sicuramente in buona fede, ed è questo che rende ancor più folle la narrazione. Fin dalle prime righe, quando l’ex procuratore ricorda il suo esordio in magistratura a Palermo nel 1988, anni in cui era in corso un “corpo a corpo” con la “mafia militare”, che era solo “la parte più visibile e appariscente”. Perché c’erano “sotterranee manovre di Palazzo” per fermare le inchieste. Potremmo fermarci qui, senza infierire su ricostruzioni e giudizi ormai sconfitti dalla storia. Ma il dottor Scarpinato insiste, con la sua lente deformante. Prendiamo la figura di Giovanni Falcone, per esempio. Parliamo di colui che ha avuto un approccio alle inchieste di mafia molto diverso da certi suoi colleghi, anche del Csm, i quali infatti gli hanno stroncato la carriera in magistratura, costringendolo ad andarsene, fino alla morte per mano della mafia. Non è vero che lui abbia lasciato Palermo “perché gli veniva impedito di svolgere le indagini sui livelli dei poteri criminali superiori alla mafia criminale”. Anzi, Falcone aveva sempre dichiarato di non credere al “terzo livello” della criminalità organizzata, proprio come era molto cauto su certe deposizioni dei “pentiti”. Uno come lui non avrebbe mai dato ascolto a uno come Massimo Ciancimino, anzi l’avrebbe subito incriminato per calunnia.

Lei poi, dottor Scarpinato, si fa vanto di aver “sottoposto a giudizio Presidenti del consiglio, ministri, vertici dei servizi segreti…”. Ma non ci dice come sono finiti quei processi. Per esempio, quando dice di non aver mai smesso di cercare “i mandanti” delle stragi degli anni 1992 e 1993, e poi parla dell’inchiesta “Sistemi criminali”, perché non ricorda che quel polpettone, che metteva insieme un po’ di tutto –per esempio la strage di Bologna con quella di via D’Amelio- finì nella bolla di sapone dell’archiviazione nel 1998? E che dire della sorte, due anni dopo, della storia del famoso “papello” di Totò Riina con le famose richieste per far cessare le stragi? Il papello si rivelerà un falso, ma il teorema era rimasto nella testa degli accusatori come Scarpinato. Il quale vorrebbe che oggi qualche suo erede rispolverasse un concetto a lui caro, il “depistaggio”. Perché, ogni volta che qualche pubblico ministero “antimafia” vede la propria ipotesi accusatoria cozzare con diversi dati di realtà, invece di accettare il fatto che i processi si vincono e si perdono, grida al lupo del “depistaggio”. C’è sempre un deus ex machina, il Cattivo contro i Buoni, che sono sempre loro.

Ma qualcosa manca dal testamento del dottor Scarpinato, e siamo sicuri che non c’è nella relazione che lui dice di aver lasciato in eredità ai colleghi: un riferimento, anche piccolo, all’inchiesta mafia-appalti condotta dal generale Mori. Quella su cui non si può neanche scrivere perché lui ci querela, come ha già fatto con il direttore Piero Sansonetti e il collega del Dubbio Damiano Aliprandi, che per quello stanno subendo un processo. Quella che è finita archiviata tre giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, cui stava molto a cuore, e che potrebbe averne provocato l’assassinio. Sarebbe stato un bel modo per ricordare un grande magistrato e anche un altro, pure lui grande, Giovanni Falcone. Quello che l’aveva avviata. E che altri hanno gettato alle ortiche perché preferivano occuparsi di terzo livello e di “depistaggi”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Filippo Facci per "Libero quotidiano" il 25 dicembre 2021. Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, lunedì sera ha detto che l'antimafia non può diventare un potere - com' è da almeno trent' anni - e ha detto che non può diventare un trampolino per facili carriere che orientino abusi e rendite di posizione - com' è da almeno trent' anni - e lo ha detto a Palermo durante un convegno titolato «Ripensare la mafia - Ricostruire l'antimafia» organizzato dalla - l'intercalare è stucchevole - Commissione antimafia dell'Assemblea regionale. Ha detto anche altro: «Penso fermamente che antimafia voglia dire disvelamento di tutte le connivenze a tutti i livelli istituzionali, compresa la magistratura». Parentesi: Fiammetta Borsellino si può anche ascoltarla, visto che è tra le poche a non aver trasformato la sua parentela in una professione.

ESPERIENZE DURE Era giovanissima quando assieme alla famiglia fu sbattuta all'Asinara dall'oggi al domani: suo padre e Giovanni Falcone, che figli non ne aveva, dovevano scrivere l'ordinanza per il Maxiprocesso contro la mafia, e a Fiammetta venne l'anoressia psicogena, scese sotto i trenta chili. Poi suo padre esplose in via D'Amelio mentre lei era in Thailandia, 19enne: a prenderla a Fiumicino, dopo il volo da Bangkok, andò Pietro Grasso. Non fece una carriera antimafiosa, ma, dopo gli studi, andò a lavorare ai Servizi sociali. Da qualche anno però è molto incazzata, soprattutto dopo il fallimento epocale del processo sulla strage di via D'Amelio - quella che uccise anche suo padre - portato avanti dal carrierista antimafia per eccellenza, Antonino Di Matteo, che per 15 anni diede credito a un falso pentito che dapprima fece condannare all'ergastolo svariati innocenti e non credette, Di Matteo, né alla ritrattazione del falso pentito e tantomeno ai dubbi di Ilda Boccassini. Ma torniamo a quanto ha detto Fiammetta Borsellino, visto che, a suo dire, sulla strage e sul processo di via D'Amelio «sarebbe stata auspicabile un'attività d'indagine da parte del Consiglio superiore della magistratura: il comportamento omissivo di quest' organo è un dato di fatto, non una mia opinione». Di quali omissioni parla? Non occorre scervellarsi, lo ha detto lei: parlava del «più grande depistaggio e il più grave errore giudiziario del nostro Paese», appunto il processo su via D'Amelio, e non dimeno il «terribile clima all'interno della Procura di Palermo retta da Pietro Giammanco, peraltro mai sentito dalla magistratura». Chi è Pietro Giammanco? È l'uomo che divenne procuratore capo di Palermo al posto di Giovanni Falcone - seguendo un discutibile criterio di anzianità - ed è la toga di amicizie andreottiane che umiliò ancora Falcone e Borsellino nello spezzettare le loro indagini e tutte quelle del pool antimafia, quello che aveva istruito lo storico e vincente Maxiprocesso a Cosa Nostra. Borsellino, peraltro, il 28 giugno 1992 - Falcone era morto da un mese - apprese che un'informativa del Ros, spedita alla Procura di Palermo alla persona di Pietro Giammanco, indicava lui, Paolo, tra i possibili bersagli di un attentato mafioso: e Giammanco non gli aveva detto niente. Il giorno dopo, Borsellino si precipitò in procura a protestare, sferrò persino un pugno sul tavolo: il procuratore Capo farfugliò qualcosa, poi rimase in silenzio. Giammanco è sempre stato fumo negli occhi anche per l'antimafia professionale: basti ricordare le intemerate rivolte contro di lui da Leoluca Orlando. Alla ciambella però è sempre mancato il buco, perché Giammanco aveva un braccio destro che si chiamava Guido Lo Forte, altro futuro eroe dell'antimafia - istruì il processo Andreotti - dopo che a Pietro Giammanco subentrò Giancarlo Caselli.

DEPISTAGGI Un contrasto stridente, un salto della quaglia mai ben spiegato: proprio in questi giorni, peraltro, Lo Forte e Caselli hanno mandato in libreria un volume a doppia firma. Ma il legale della famiglia Borsellino - quindi anche di Fiammetta - meno di un mese fa accusò Lo Forte di aver firmato, nel 1992, la richiesta di archiviazione del dossier Mafia-appalti- in pratica la tangentopoli siciliana - che molti ancor oggi ritengono all'origine delle vere ragioni per cui saltarono in aria Falcone e Borsellino. Guido Lo Forte è in pensione dal 2016, ma il processo sul depistaggio del processo di via D'Amelio è in corso, e a qualche domanda ha dovuto rispondere. «Penso che il depistaggio, la sua funzione fondamentale, l'abbia praticamente svolta» ha detto ancora Fiammetta Borsellino, «e cioè quella di compromettere quasi per sempre il raggiungimento della verità... Dopo trent' anni muoiono testimoni e le prove si sbriciolano. Il depistaggio avviene per un concorso di omissioni o di lavoro fatto male». La Borsellino ha fatto un rapido accenno ai casi di Silvana Saguto (altra «antimafia» condannata in primo grado a 8 anni per molteplici reati) e all'ex numero uno della Confindustria siciliana Antonello Montante (altro ex «antimafia) già condannato a 14 anni per dossieraggio. Ma, lunedì sera, tutti sapevano che la Borsellino che aveva in mente altro, il suo legittimo pensiero fisso: ossia la pseudo-giustizia che una folta schiera di magistrati, per decenni, ha spacciato per verità, primo tra tutti il carrierista antimafia per eccellenza, Antonino Di Matteo, passato poi al delirante e fallito processo «Trattativa», passato poi alla Direzione nazionale antimafia non è chiaro in base a quali meriti, teorico ministro dell'Interno secondo i desiderata dei 5 stelle, cittadino onorario della città di Roma governata da Virginia Raggi. Un uomo premiato per i suoi fallimenti, nella miglior tradizione della magistratura italiana, «antimafia» o altro che sia.

·        Non era Mafia.

Non è più quella del 416 bis. Relazione della Dia: la mafia non c’è più e l’antimafia indaga sugli anni ’90. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

La Direzione Investigativa Antimafia (Dia) conduce indagini su Silvio Berlusconi, come mandante di stragi, da oltre trent’anni con grande impiego di forze e di denaro, e nonostante i fallimenti siano già stati tre. Lo si legge a pagina 6 della Relazione del secondo semestre del 2021 depositata due giorni fa al Parlamento. E’ scritto nelle stesse pagine in cui si spiega che la mafia non esiste più, per lo meno quella che l’articolo 416 bis del codice penale descrive come un’associazione di persone che “si avvalgono della forza di intimidazione”, dell’assoggettamento e del controllo del territorio. E che usavano anche la violenza come forma di intimidazione.

Oggi esistono sostanzialmente comitati d’affari che preferiscono fare accordi piuttosto che estorsioni e minacce. E gli uomini della Dia corrono il rischio di restare disoccupati. Ma hanno trovato un nuovo lavoro, che altro non è se non il rafforzamento di quello iniziato da oltre trent’anni, cioè da un periodo di poco successivo ai giorni della nascita, nel 1991, dell’Agenzia investigativa. Non c’è più la mafia. “Tuttavia-si legge nella relazione- malgrado la più attuale linea d’azione di Cosa nostra sia quella di ridimensionare il ricorso alla violenza…la Dia, attraverso le sue articolazioni centrali e territoriali, già da tempo, sta eseguendo mirate attività investigative sulle ‘stragi siciliane’ del 1992 e sulle cd. ‘stragi continentali’ del 1993-1994, su input di specifiche deleghe ricevute dalle competenti Autorità giudiziarie del territorio nazionale”. “Complessivamente –si conclude- da oltre 30 anni, sono impegnate in tali indagini le risorse di ben cinque Centri Operativi e del II Reparto”.

Un intero reparto dunque, quello talmente importante da essere segnalato come fondamentale per “l’evasione delle numerosissime deleghe assegnate dalle Procure distrettuali”. E “ben”, come dicono gli autori della relazione, cinque Centri Operativi. Tutti impegnati con grande dispendio di mezzi, uomini e denaro contro un unico obiettivo. Naturalmente non c’è il nome di Berlusconi, e neppure quello di Dell’Utri, nella relazione ufficiale. Tanto ci pensano i giornalisti amici, ad allungare il brodo, nel corso degli anni. Con decine di articoli, che spaziano dal Fatto a Domani. Ma nel documento della Dia non sono neppure menzionati i fallimenti precedenti. C’è da chiedersi se in Parlamento qualcuno le legge, queste relazioni, e se a qualcuno verrà mai in mente di interrogare il Ministro dell’Interno per visionare quanto meno i bilanci della Dia. Per non parlare del Csm, sempre pronto a “perdonare” i numerosi flop delle fallimentari inchieste di mafia.

Qualcuno ricorda ancora le indagini condotte dalla procura di Palermo su “M” e “MM”? E quelle di Caltanissetta su “Alfa” e “Beta”? E poi a Firenze l’inchiesta su “Autore 1” e “Autore 2”? Le sigle coprivano maldestramente sempre i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tutte archiviate, spesso su richiesta dello stesso pm. Carta straccia. E io pago! Dobbiamo ripeterlo più spesso, che questi magistrati e questi investigatori con le loro fantasie fanno pagare ai cittadini, anche in senso materiale, il prezzo dei loro errori, delle loro incapacità, dei loro furori politici.

Giusto per non ripetere la solita tiritera dei fratelli Graviano, sentite che cosa è successo ieri mattina a Reggio Calabria. Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha illustrato in un’aula di giustizia un’informativa della Dia (si, la solita Dia) su dichiarazioni di “pentiti” che chiamavano in causa esponenti politici e i loro presunti rapporti con uomini della ‘ndrangheta.

Barzellette, cui un importante uomo dello Stato in toga, pare dare credito: Craxi e Berlusconi a un summit in un agrumeto con la ‘ndrangheta. L’episodio risalirebbe ai giorni successivi all’assassinio di Aldo Moro, quindi nel 1978. I due sarebbero andati a questo vertice di mafia nella piana di Gioia Tauro, “presso l’agrumeto di tale Peppe Piccolo”. Lo racconta il “pentito” Girolamo Bruzzese, che sostiene di aver riconosciuto il personaggio politico e l’imprenditore brianzolo “per averli già visti in televisione”. Un po’ strano, non risulta che Berlusconi, impegnato solo nelle sue attività imprenditoriali, fosse spesso in televisione in quei giorni. Comunque il ragazzo fu subito, all’arrivo dei due, fatto allontanare dal padre su suggerimento nientemeno che di Peppe Piromalli, il boss dei boss.

Il racconto prosegue nel ricordo che, anni dopo, il padre di Bruzzese gli avrebbe spiegato che “Craxi e Berlusconi si sarebbero recati al summit perché Craxi voleva lanciare politicamente Berlusconi e quindi per concordare un appoggio anche da parte delle cosche interessate alla spartizione dei soldi che lo Stato avrebbe riversato nel mezzogiorno”. I due avrebbero alloggiato nel miglior albergo di Vibo Valentia, “penso in incognito”. Ricapitolando: il segretario di uno dei principali partiti italiani, che durante il rapimento Moro si era posto in particolare evidenza contro il “partito della fermezza” costituito da democristiani e comunisti, avrebbe avuto la bella pensata di andare a raccomandare a Piromalli un imprenditore brianzolo per farlo entrare in politica e garantirgli un po’ di voti mafiosi con l’impegno di investimenti per il sud. E avrebbe alloggiato nel miglior albergo di Vibo in incognito. Ma dottor Lombardo, lei crede davvero a queste scemenze?

Poi lo statista “pentito” Bruzzese spiega al colto e all’inclito che i corleonesi Riina e Provenzano si erano contrapposti alle famiglie mafiose palermitane dei Badalamenti-Inzerillo Bontate, perché “non accettavano più la politica di Craxi e Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli”. Ecco il cerchio che si chiude, mancavano solo Gelli e la P2. Se non c’è il fantasma di Aldo Moro, in quell’aula di Reggio Calabria però c’è quello di un ulteriore “pentito”, morto nel 2014, ma che aveva reso dichiarazioni spontanee alla polizia penitenziaria del carcere di Alessandria nel 2009.

Ci racconta il procuratore aggiunto, che questo Gerardo D’Urzo aveva parlato di un certo Valensise, che a quanto pare non è stato identificato, che con un altro esponente della ‘ndrangheta della jonica era andato a Roma e aveva avuto “un colloquio a Palazzo Grazioli con l’onorevole Silvio Berlusconi e questi gli disse al Valensise che quello che aveva promesso lo manteneva e dovevano stare tranquilli”. Eccetera. Così sono fatte le inchieste di mafia. Interverrà mai qualcuno in Parlamento o al governo o al Csm per mettere fine a queste vergogne? Intanto gli armamenti pesanti della Dia continuano a indagare con questi metodi, nell’attesa che la procura di Firenze, quella che indaga per strage Berlusconi e Dell’Utri, decida, entro dicembre, se chiedere un processo o procedere all’archiviazione. Sarebbe il quarto flop, dopo trent’anni.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Torna a indossare la divisa dopo 14 anni. Il calvario di Alfonso Bolognesi, il carabiniere distrutto dall’Antimafia: carcere, carriera in fumo ma… era innocente. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Più di tre anni in carcere. Quattordici tra processi e attese. Un errore giudiziario. Alfonso Bolognesi è tornato solo ora ad indossare la divisa da carabiniere e presto riacquisterà anche i gradi persi in questi anni di calvario giudiziario. Nel 2008 aveva 45 anni ed era comandante della stazione dei carabinieri di Pinetamare. Fu coinvolto in un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia e improvvisamente la sua vita e la sua carriera subirono un violento cambio di rotta. Fu arrestato con l’accusa di aver favorito la camorra casertana.

Il 28 ottobre 2008 Bolognesi dovette togliere la divisa. I pm dell’Antimafia lo accusavano di aver consentito al boss Giuseppe Setola, responsabile dell’ala stagista dei Casalesi, di sfuggire a vari blitz. Ci sono voluti cinque processi (tra primo grado e processi in Appello e Cassazione) per stabilire che la ricostruzione di pm e pentiti non era fondata, e che Alfonso Bolognesi andava assolto così come aveva sempre sostenuto il suo avvocato difensore, il penalista Raffaele Crisileo, che su questa vicenda ha ora scritto un libro (“Vittima innocente: la storia di un errore giudiziario”). Il calvario di Bolognesi è stato lungo e doloroso. Il maresciallo fu condannato a quattro anni di carcere per corruzione con l’aggravante camorristica, ne scontò tre e mezzo in carcere ottenendo di poter ultimare la pena con l’affidamento in prova, lavorando nella pizzeria del fratello in un paesino del Cilento.

Nel 2019 è arrivata la prima svolta con la sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere e ottenuta da Bolognesi in un diverso processo, sempre per corruzione, relativo a presunti omessi controlli in un esercizio commerciale di Castel Volturno. Quell’assoluzione ha segnato una svolta perché ha aperto la strada alla revisione al processo che si era concluso con la condanna a quattro anni per corruzione con finalità camorristica. Nel 2021, dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, si è ripetuto il processo e in dibattimento sono stati ascoltati di nuovo tutti i collaboratori di giustizia che avevano accusato Bolognesi, e alla fine il maresciallo è stato assolto. Assoluzione che è diventata ora definitiva. Gli anni del calvario giudiziario hanno privato Bolognesi della libertà, della divisa, dello stipendio e i problemi che ha dovuto affrontare sono stati tanti, da quelli più intimi e personali a quelli economici. La revisione del processo, l’assoluzione e il reintegro nell’Arma hanno messo fine al lungo incubo e gli hanno ridato una vita.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

«In cella cinque anni tra topi e umiliazioni, ma ero innocente. Per questo voto Sì». L'odissea di Rocco Femia, ex sindaco calabrese bollato come mafioso ma estraneo ai clan: «Sa quanti innocenti ho conosciuto in carcere? Almeno un centinaio». Simona Musco su Il Dubbio il 10 giugno 2022.

«Sa quanti innocenti ho conosciuto in carcere? Almeno un centinaio e non sto esagerando. Nessuno è immune. Anche a lei può succedere quello che è successo a me». Rocco Femia fino al 3 maggio del 2011 è stato sindaco di Marina di Gioiosa, poco più di 6mila abitanti sullo Jonio calabrese.

Per tre anni ha amministrato la “città del sorriso” senza sapere che, dal 2008, anno in cui i suoi concittadini lo avevano incoronato sindaco, il fascicolo col suo nome attendeva che un gip mettesse una firma che autorizzasse il suo arresto. Quella firma, alla fine, è arrivata al giro di boa della sua amministrazione. Che nel bel mezzo della notte è stata spazzata via dall’operazione “Circolo Formato”, circa quaranta arresti tra i quali sindaco e tre assessori. Rimasti in carcere per anni, bollati dai giornali come «malacarne» asserviti ai clan che dopo essersi sfidati anni prima a colpi di pistola avrebbero riacceso la loro faida alle urne.

Ma Femia, che in custodia cautelare in carcere ha trascorso cinque anni e nove giorni, alla fine si è rivelato un uomo innocente. Condannato per due gradi di giudizio a 10 anni, prima che la Cassazione evidenziasse l’assenza di qualsiasi elemento che giustificasse l’ipotesi che fosse un affiliato al clan Mazzaferro, e costretto a subire un nuovo processo d’appello, per verificare se, quantomeno, ci fossero gli estremi per considerarlo un concorrente esterno. Alla fine non c’erano nemmeno quelli. Così, nel 2021, 10 anni dopo essere uscito dalla Questura di Reggio Calabria con le manette ai polsi, i giudici hanno decretato la sua innocenza «per non aver commesso il fatto». Una sentenza che nessuno ha appellato, perché ormai era chiaro a tutti: non aveva fatto niente. Così come i suoi assessori, più fortunati di lui solo perché, per loro, la scarcerazione è arrivata qualche anno prima, così come l’assoluzione.

Femia, da giorni, attraversa la Calabria sotto il vessillo del Partito Radicale per promuovere i referendum. «La gente deve fare il proprio dovere e votare cinque sì – ci dice -. E lo dico perché quello che è capitato a me non capiti più a nessuno e per avere una giustizia giusta». In Questura, quel 3 maggio 2011, gli uomini in divisa se lo contendevano per portarlo fuori, a favore di telecamere. Alla fine vinsero i più alti in grado e Femia apparve davanti agli obiettivi accompagnato da due poliziotti, col volto sconvolto, dopo l’irruzione notturna di divise e telecamere in casa sua e una giacca a coprire il luccichio delle manette. Era lui il volto a cui gli obiettivi ambivano di più, perché un sindaco che finisce in carcere con l’accusa di essere stato eletto grazie alla ‘ndrangheta non può che essere la star indiscussa di un’operazione antimafia. E quelle foto sono ancora in rete, a ricordare quanto accaduto.

In carcere, quel sindaco, divenuto in un batter d’occhi ex, ci è rimasto finché è stato possibile trattenerlo. Ma l’accusa non è mai riuscita a dimostrare l’elargizione di un solo appalto, di una concessione o di un solo finanziamento a uomini del clan. Ai suoi avvocati – Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino – per dimostrarlo è bastato spulciare gli atti di tre anni di amministrazione, le singole assegnazioni, dirette solo nei casi di lavori da pochi centinaia di euro, e sempre affidati alla stazione unica appaltante provinciale, anche sotto soglia, proprio per fugare ogni dubbio di interferenze. Anzi, i giudici, in sentenza, hanno messo in evidenza «una serie di attività dell’amministrazione (…) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». I clan, insomma, li aveva combattuti. E tutto il resto è «un quadro probatorio del tutto privo di significatività».

Femia quell’etichetta assegnatagli d’ufficio non l’ha mai accettata. Ed è per questo che ora ha deciso di farsi promotore dei quesiti. «Non chiediamo chissà cosa: chi sbaglia è giusto che paghi – sottolinea -. Ma se una persona non commette un reato non deve pagare. E, soprattutto, non è giusto che paghi prima che sia certo che quel reato c’è stato». Il quesito che più gli sta a cuore è senza dubbio quello sul carcere. Di celle ne ha viste tre, in quei cinque lunghi anni. La prima a Reggio Calabria, «un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo». Poi a Palermo, dove i detenuti subivano controlli notturni della polizia penitenziaria e la battitura continua, «un rumore che mi è rimasto in testa». Vibo Valentia, infine, era «un lager».

Poi c’è il quesito sulla legge Severino, che lo tocca anche come ex amministratore. «Non è costituzionalmente corretto che un politico venga fatto fuori prima che una sentenza sia definitiva: si è innocenti fino a quel momento. E vorrei dire anche che una volta pagato il debito con la giustizia è giusto potersi rifare una vita», dice. Ma anche la separazione delle funzioni «è fondamentale: non è possibile che si possa saltare da una parte all’altra: il giudice deve essere libero di giudicare e non essere “pressato” dal pm». Quelli del 12 giugno, assicura però, non sono referendum contro i magistrati. «Anzi, l’obiettivo è aiutarli a lavorare nella massima trasparenza, onestà e chiarezza, senza pressioni – conclude -. Sono cose che loro stessi dovrebbero pretendere». 

Rocco Femia, ostaggio della giustizia per 11 anni: «Un teorema giudiziario…»

 La Cassazione assolve l'ex sindaco di Marina di Gioiosa, di professione professore, che ha subito in tutto otto gradi di giudizio, tra un’accusa e l’altra. Simona Musco su Il Dubbio il 15 ottobre 2022.

Undici anni di vita in sospeso. Undici anni trascorsi tra carceri e tribunali. Poi il colpo di spugna definitivo: Rocco Femia era ed è un uomo innocente.

Lo era per quanto riguarda l’accusa di aver fatto parte di una cosca di ‘ndrangheta, lo era nella seconda versione di quell’accusa – il concorso esterno – e lo era anche per quanto riguarda quella manciata di palme piantate lungo il corso della città di cui è stato sindaco, piante che avrebbe piazzato lì solo per aiutare i clan. Nulla di tutto ciò è accaduto, ora è un dato di fatto, un dato che finirà negli archivi giudiziari.

L’ultimo capitolo di questa storia allucinante è stato scritto giovedì, quando la Cassazione ha pronunciato l’ennesima sentenza nella vita dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa, di professione professore, che ha subito in tutto otto gradi di giudizio, tra un’accusa e l’altra. Assoluzione che è arrivata anche per l’ex assessore Vincenzo Ieraci, cancellando dunque le precedenti sentenze con le quali erano stati condannati a tre anni di carcere. Anche questa volta il fatto non sussiste. E il fatto è un’accusa di abuso d’ufficio aggravato, stralciata dal processo principale per associazione mafiosa, che gli è costato cinque anni e 10 giorni di custodia cautelare in carcere, salvo poi vedere riconosciuta la sua innocenza.

Tutto ruota attorno ad una gara d’appalto per la fornitura di 40 palme: sindaco e assessore, secondo l’accusa, avrebbero agevolato una ditta in odor di ‘ndrangheta dando in subappalto la piantumazione delle palme sul corso principale. Ma non era vero nulla: agli atti del Comune non c’era alcuna delibera di subappalto, né una determina da parte dell’ufficio tecnico. Ma soprattutto, non c’era agli atti la fattura da 1500 euro che la procura sosteneva fosse stata pagata.

La difesa – rappresentata dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino – ha portato in aula, sin dal primo grado, il responsabile del procedimento, che ha spiegato analiticamente l’iter del procedimento. Facendo notare che la ditta, poiché in ritardo con la consegna dei lavori, era stata anche costretta a pagare una multa da 700 euro. Nonostante questo, in primo grado sindaco e assessore, assieme agli imprenditori coinvolti, sono stati condannati a tre anni con l’aggravante del metodo mafioso.

Condanna ribadita dalla stessa Corte d’Appello che, dopo un calvario giudiziario dolorosissimo, aveva riconosciuto l’innocenza di Femia nel troncone principale del processo “Circolo formato”. In Cassazione, però, il procuratore generale ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste, evidenziando l’assoluta inconsistenza dell’accusa.

«Si è chiusa definitivamente questa tragedia architettata a tavolino – spiega Femia al Dubbio -. C’è grande soddisfazione, ma anche grande rabbia. Sono passati 11 anni per avere giustizia, anni in cui ho gridato la mia innocenza, dopo una vita distrutta, una famiglia che ha sofferto come non auguro a nessuno e una comunità che ha dovuto subire tutto questo. Ho dovuto aspettare tanto per vedere nei fatti che ciò che dicevo era vero. Erano gli altri, quelli che rappresentavano la giustizia, ad infangarmi. Ma c’è sempre un giudice a Berlino». Femia, finalmente uscito dal girone infernale della giustizia, chiederà ora il conto allo Stato per i cinque anni trascorsi dietro le sbarre. «Sono pronto a ripartire. Me lo merito», dice sorridendo al telefono ancora emozionato.

«La Corte di Cassazione, nell’annullare senza rinvio la decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria – commenta al Dubbio l’avvocato Minniti – ha ritenuto l’assoluta legittimità dell’operato del professore Femia e della sua amministrazione, che ha guidato dal 2008 al 2011 (fino all’arresto, ndr). Con questa sentenza, si conclude definitivamente il calvario giudiziario di quest’uomo, che da giovedì, finalmente, torna ad essere per tutti quello che è sempre stato: un cittadino senza alcuna macchia». Il troncone principale del processo si era chiuso il 10 marzo del 2021, con l’assoluzione nell’appello bis. Sentenza che la procura generale non ha impugnato, confermando, dunque, che quello ai suoi danni è stato un vero e proprio errore giudiziario.

Arrestato nel 2011 con l’operazione che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, indicato dai giudici come «partecipe consapevole» di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima ritenuta inossidabile e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno alla cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti.

Ma nella sentenza d’appello anche quell’accusa si è sbriciolata: i giudici, infatti, hanno contestato la presenza di «un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso». Insomma, il processo non avrebbe fatto emergere alcuna prova concreta a carico dell’ex sindaco. Anzi, sarebbero state diverse le evidenze di come l’amministrazione Femia, stroncata dopo tre anni con l’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa.

I giudici hanno infatti valorizzato «una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». Ora è una verità per tutti.

Processo Aemilia, prosciolto definitivamente l’ex consigliere Pagliani. Il Dubbio il 9 giugno 2022.  

Dopo sette anni si chiude in Cassazione la battaglia giudiziaria dell'avvocato e politico di Reggio Emilia. «Mi libero da un fardello folle e da un attacco personale e politico senza precedenti».

«Mi libero da un fardello folle e da un attacco personale e politico senza precedenti in questa provincia. Se fossi stato di sinistra, mai avrei patito un’accusa così ridicola». A parlare è Giuseppe Pagliani, ex consigliere provinciale e comunale di Forza Italia e Pdl a Reggio Emilia, definitivamente prosciolto in Cassazione dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

Il politico, di professione avvocato, venne arrestato il 28 gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione “Aemilia” contro la cosca di ‘ndrangheta emiliana. Trascorse in cella tre settimane prima che il Riesame lo liberasse. Nel processo, fu assolto in abbreviato, nel primo grado di giudizio. La Procura impugnò e fece ricorso in Appello dove venne condannato a 4 anni. La difesa, rappresentata dall’avvocato Alessandro Sivelli, ha fatto quindi ricorso in Cassazione dove venne disposto un nuovo processo conclusosi poi con l’assoluzione impugnata ancora dalla Procura generale d’Appello. Ieri in Cassazione la fine della battaglia giudiziaria: ricorso inammissibile.

«L’assoluzione definitiva in Cassazione dell’avvocato Giuseppe Pagliani dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa pone fine a una vicenda giudiziaria surreale fondata su di un teorema assurdo. Solo dopo sette anni di calvario Pagliani ora può riappropriarsi pienamente della sua vita e riprendere le sue coraggiose battaglie politiche», commenta Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia. Per la quale «l’iter di questo processo resterà però come un esempio di uso ingiusto della giustizia, ed è significativo che si sia concluso alla vigilia dei cinque referendum, l’occasione storica per rendere più difficili in futuro nuove simili persecuzioni».

Ad esprimere «grande soddisfazione» è anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. «Ma ci sono voluti purtroppo quasi otto anni per stabilire quello che era chiaro a chiunque conosca Giuseppe Pagliani – sottolinea Gasparri -. Il suo impegno politico e civile è sempre stato coraggioso e trasparente. In zone dove forse contrastare la sinistra dà più fastidio che altrove. In Emilia sono semmai gli esponenti di quello schieramento che dovrebbero spiegare alcune commistioni. Giuseppe Pagliani ha sempre condotto una battaglia politica a viso aperto e anche in questi anni di ingiusta persecuzione giudiziaria ha continuato a svolgere, stimato da tutti, la sua brillante attività professionale come capace e saggio avvocato. Apprezzato da tanti cittadini e da tanti imprenditori Giuseppe Pagliani meriterebbe un enorme risarcimento per le ingiustizie patite».

«Che questa sua definitiva assoluzione arrivi alla vigilia del referendum dimostra una volta di più come sia necessaria una riforma generale della giustizia che ponga fine all’uso politico che troppi togati hanno fatto del loro ruolo – conclude il senatore forzista -. Giuseppe Pagliani è stato una vittima di questi meccanismi e lo abbraccio insieme alla sua famiglia con grande gioia avendo sempre mantenuto con lui un rapporto di amicizia all’insegna della fiducia e della stima che non sono mai venute meno».

Assolto Pagliani: non aiutò la 'ndrangheta. Redazione l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

I rapporti del consigliere di Fi con la mafia calabrese erano solo un teorema.

Ai giudici del tribunale della Libertà di Bologna bastò leggere le carte per rendersi conto che lì dentro di prove non c'era l'ombra: il comportamento di Giuseppe Pagliani, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, non aveva avuto «effettiva rilevanza causale nella conservazione o nel rafforzamento delle capacità operative dell'associazione», ovvero della filiale della 'ndrangheta in Emilia Romagna. Così il 19 febbraio 2015, dopo ventidue giorni di carcere, Pagliani aveva potuto lasciare il carcere dove era stato spedito con grande risalto mediatico il 28 gennaio, uno dei 160 arrestati della megaoperazione Aemilia. Ma il tunnel giudiziario è durato altri sette anni.

Solo l'altro ieri la sentenza della Cassazione ha reso definitiva la sua assoluzione con formula piena. Se la malavita calabrese ha preso piede nella grande pianura sotto il Po, non è stato Pagliani ad aprirle le porte. Come dei giudici avevano scritto già sette anni fa.

L'ostinazione con cui la procura di Bologna ha portato avanti le accuse contro Pagliani si spiega solo con il risalto che all'epoca venne dato all'arresto suo e di un altro esponente in vista del centrodestra, il parmense Giovanni Paolo Bernini. Nella ricostruzione del pool antimafia, i due erano il coronamento del teorema, la prova provata che la 'ndrangheta in salsa emiliana non era solo una banda di criminali comuni ma anche un pericolo per le istituzioni, in grado di agganciare i canali della politica. Il Pd emiliano applaudì l'arresto di Pagliani e a Parma le manette a Bernini spianarono la strada alla conquista grillina del Comune. Il successo di Aemilia aprì al procuratore Roberto Alfonso la strada per la procura generale di Milano, il pm Marco Mescolini venne nominato capo della procura di Reggio.

Tanto sicura del fatto suo, la procura non doveva essere, dato che non presentò ricorso contro la scarcerazione di Pagliani. Al processo con rito abbreviato il pm Mescolini chiese comunque per l'esponente forzista una condanna esemplare: dodici anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Sei anni la richiesta per Bernini. Risultato: assoluzione di entrambi «per non aver commesso il fatto».

Ma mentre Bernini usciva di scena, assolto anche in appello e in Cassazione, per Pagliani la procura bolognese in appello otteneva una condanna. Quattro anni, un terzo della richiesta, ma quanto bastò ai grillini per festeggiare, «Forza Italia continua la sua tradizione di condannati per gravissimi reati di mafia». Invece non era vero niente, la Cassazione annulla tutto, nuovo processo, nuova assoluzione che ora diventa definitiva. L'unico elemento concreto contro Pagliani, l'incontro con un gruppo di calabresi, non aveva mai portato alla cosca alcun vantaggio concreto. La grande alleanza tra politica e 'ndrangheta in Emilia esisteva solo nei teoremi di Mescolini.

Ma le cicatrici restano. «È stata una carneficina personale e familiare basata sul nulla - si sfoga Pagliani all'indomani della sentenza -, un tentativo accanito di persecuzione che non ha precedenti. Se fossi stato di sinistra non avrei mai avuto questi attacchi». E se la prende anche con gli enti locali, che si sono sempre costituiti parte civile contro di lui, «sapendo benissimo di perseguitare un innocente». 

Bernini rilancia: ora si indaghi sulle collusioni tra il Pd e i clan. Luca Fazzo l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il politico: gli indizi portavano a sinistra ma i pm...

Chiuso definitivamente il capitolo sulle collusioni tra 'ndrangheta e politica in Emilia? Forse no. L'assoluzione definitiva di Giuseppe Pagliani offre lo spunto a Giovanni Paolo Bernini, l'altro politico di centrodestra finito nella retata del 2015 e assolto anche lui con formula piena, per rilanciare. Chiedendo che stavolta si indaghi nell'altra direzione, sul fronte che le indagini del pool antimafia di Bologna avrebbero sempre ignorato nonostante indizi concreti. Ovvero i rapporti dei clan con il sistema di potere di sinistra nella regione più rossa d'Italia.

Bernini ricorda che il protagonista dell'inchiesta Aemilia, il pm bolognese Marco Mescolini, approdò poco dopo alla guida della procura di Reggio. E però dovette fare le valigie, trasferito d'ufficio dal Csm per incompatibilità ambientale, dopo la rivolta dei suoi pm. Era stato lui, dissero i suoi sostituti, a decidere di rinviare la perquisizione del sindaco piddino della città del Tricolore «per non interferire con le elezioni». Alla guida della procura reggina Mescolini era arrivato grazie alle pressioni su Luca Palamara di una esponente locale del Pd, come raccontano le chat dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati.

Ma l'accusa che ora Bernini lancia agli inquirenti emiliani è ancora più grave: avere girato la testa quando nelle carte apparivano tracce che portavano non verso destra bensì a sinistra. «Alla luce del fiume di intercettazioni ambientali e telefoniche non tenute in considerazione - dice Bernini - e che coinvolgevano esponenti politici ed amministratori del Pd emiliano-romagnolo, chiedo la riapertura del filone di indagine sulle collusioni tra la politica e il clan calabrese. A meno che si voglia da parte di qualcuno far credere alla opinione pubblica che la malavita organizzata avesse agito da sola».

La chance per approfondire, dice Bernini, c'è: il pentimento del boss Nicola Grande Aracri, «la cui influenza ha determinato per troppo tempo le sorti del territorio emiliano infiltrandosi nel tessuto istituzionale e politico». Bernini si augura che grazie alla scelta di Grande Aracri « possano venire a galla le vere responsabilità politiche a Reggio Emilia ed in Emilia-Romagna nel favorire il radicamento della cosca».

Giuseppe Pagliani, sfogo drammatico: "Intercettati politici del Pd, solo io indagato". Paolo Ferrari su Libero Quotidiano l'11 giugno 2022

«Va assolutamente "riaperto" il processo Aemilia: mi appello al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, il magistrato con più esperienza nel contrasto all'ndrangheta». Lo ha chiesto ieri Giovanni Paolo Bernini, esponente di Forza Italia a Parma, all'indomani dell'assoluzione definitiva da parte della Cassazione di Giuseppe Pagliani, suo collega di partito a Reggio Emilia. I due politici forzisti nel 2015 vennero travolti dalla maxi inchiesta sulla' ndrangheta al Nord condotta dalla Dda di Bologna che portò all'arresto 160 persone, di cui 117 solo in Emilia. Fra le accuse per entrambi, concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio politico-mafioso. Bernini venne assolto già in abbreviato mentre per Pagliani era partita la classica "giostra giudiziaria".

Scarcerato dal Riesame, assolto in primo grado, condannato a 4 anni di carcere in appello. Nel 2018 la Cassazione dispose un nuovo processo d'appello al termine del quale, a differenza della volta precedente e nonostante la procura generale avesse chiesto la conferma della condanna, Pagliani verrà assolto. La procura generale nei mesi scorsi si era rivolta in Cassazione contro l'assoluzione ma il ricorso è stato dichiarato inammissibile e la sentenza è diventata definitiva, «Se fossi stato di sinistra non avrei mai avuto questo attacco», ha detto Pagliani appresa la notizia del suo proscioglimento da tutte le accuse. Il riferimento di Pagliani è al fatto che in questa indagine non c'è stato alcun indagato del Pd, nonostante le numerose intercettazioni agli atti degli inquirenti abbiano attestato come le cosche calabresi di stanza di Emilia intrattenessero rapporti con esponenti di punta dei dem. «È mai possibile solo ipotizzare che in un processo alla mafia di queste dimensioni ci siano esclusivamente esponenti di Forza Italia quando è noto che i clan calabresi hanno fatto lottizzazioni immense in tutta la regione, soprattutto nei comuni di Reggio Emilia e Modena, comuni dal 1945 sempre a guida Pci-Pds-Ds-Pd?», si domanda Bernini.

Il pm titolare del processo Aemilia era stato Marco Mescolini, un tempo capo ufficio del vice ministro dello Sviluppo Economico, il senatore Roberto Pinza (Pd), durante il governo Prodi del 2006-2008, Mescolini era diventato famoso anche per essere stato un assiduo chattatore con Luca Palamara al quale chiese, ottenendolo, di essere promosso procuratore di Reggio Emilia. Le chat fra i due avevano poi determinato da parte del Csm il trasferimento per incompatibilità di Mescolini alla Procura di Firenze. Fra i motivi del provvedimento, quello di essere un magistrato che "aveva a cuore" le sorti degli esponenti locali del Pd. Era stato Bernini a sottolineare per primo questo aspetto nel suo libro che raccontava i retroscena dell'indagine Aemilia dove non erano mai stati valorizzati gli esiti investigativi dei carabinieri sui rapporti fra i politici locali del Pd e i clan cutresi. L'allora procuratore di Bologna Roberto Alfonso aveva dichiarato che erano tanti gli aspetti da approfondire emersi durante quell'indagine. E Roberto Pennisi, il sostituto della Dna che era stato applicato al procedimento, aveva chiesto di non essere riconfermato proprio per contrasti sulla conduzione delle investigazioni e sui soggetti da sottoporre a custodia cautelare. Ora la parola spetta a Gratteri.

La sentenza. Concorso esterno, assolto Massimo Grimaldi: “Finte di un incubo, oggi il mio 25 aprile”. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

Per anni il sospetto sollevato da un’indagine della Dda lo aveva accompagnato in ogni sua scelta privata e politica. Quel sospetto era diventato una sorta di etichetta politica, difficile da togliersi di dosso, e si era tramutato in un capo di imputazione messo nero su bianco negli atti di un procedimento penale. Ieri il processo si è concluso con una sentenza che ribalta l’impostazione accusatoria e fa a pezzi quell’etichetta. Massimo Grimaldi, consigliere regionale in quota Forza Italia, è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste».

Il verdetto, pronunciato dal giudice dell’udienza preliminare Nicoletta Campanaro al termine del rito abbreviato demolisce l’impostazione accusatoria, condividendo la tesi degli avvocati del collegio di difesa, i penalisti Claudio Botti e Carlo De Stavola. I dettagli della motivazione saranno noti con il deposito della sentenza. Per il momento parla il dispositivo: assoluzione. «È finalmente finito un incubo durato anni che ha causato tanta sofferenza a me e alla mia famiglia . Ringrazio i miei avvocati che hanno sempre creduto in me e i giudici che si sono letti le carte. Ho sempre rispettato anche il lavoro della Procura, chi ha condotto le indagini ha fatto il proprio dovere. Ora continuerò con passione la mia attività di consigliere e di esponente di partito. Oggi è il mio vero 25 aprile», è stato il commento di Grimaldi alla notizia della sentenza di assoluzione. Casertano, di Sessa Aurunca, Grimaldi siede in consiglio regionale da oltre quindici anni, prima con il Nuovo Psi e poi con Forza Italia.

Nel 2019 i pm della Direzione distrettuale antimafia ne avevano chiesto l’arresto, misura cautelare respinta dal gip per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Grimaldi era accusato di aver ottenuto sostegno elettorale da uomini legati alla camorra del clan dei Casalesi e di conseguenza di rappresentare non la cittadinanza ma gli interessi dei clan. Di qui l’accusa di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo camorristico. Accusa per la quale la Dda aveva chiesto la condanna del consigliere regionale a otto anni di reclusione. Tutto nasceva da un’inchiesta del 2017 che, per la seconda volta (un primo filone nel 2015 si era concluso con un’archiviazione), ipotizzava trame tra camorristi e politici. Venuto a conoscenza del fatto di essere stato iscritto nel registro degli indagati, Massimo Grimaldi si presentò spontaneamente alla Procura partenopea per essere interrogato e provare a chiarire la sua posizione di fronte alle dichiarazioni di ex affiliati al clan dei Casalesi i quali, da collaboratori di giustizia, avevano raccontato del sostegno elettorale fornito al consigliere dal clan in occasione delle elezioni regionali del 2005, 2010 e 2015, nelle quali Grimaldi era sempre stato eletto.

Prima ancora che questi sospetti si tramutassero in qualcosa di più concreto sul piano giudiziario, la gogna mediatica e politica partì inesorabile. Quello di Grimaldi divenne un caso che leader politici di altri partiti citarono per sostenere la richiesta di una revisione della legge sugli scioglimenti in modo da far includere anche i consigli regionali o per sostenere l’idea di un “patto liste pulite”. Insomma tutti a puntare il dito prima ancora che vi fosse il processo. Poi il processo c’è stato, e veniamo a questi giorni. Per le elezioni degli anni 2005 e 2015 i pm avevano chiesto l’assoluzione del consigliere regionale, per le elezioni del 2010 invece la condanna. Nel confronto poi con la tesi difensiva sono emerse le contraddizioni dei pentiti: per esempio, in alcuni Comuni dove i collaboratori avevano parlato di sostegno del clan Grimaldi non prese neanche una preferenza. Di qui l’inattendibilità della ricostruzione accusatoria dei collaboratori e il crollo delle accuse. Quindi la sentenza di ieri: «Il fatto non sussiste».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Non favorì il clan dei Casalesi, assolto l’ex senatore Tommaso Barbato. La Cassazione aveva ravvisato nelle due sentenze di violazioni di legge ed errori nella valutazione delle prove rinviando ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli il nuovo giudizio di merito. Il Dubbio il 22 aprile 2022.

La terza sezione di Corte d’Appello di Napoli ha assolto in maniera definitiva l’ex senatore Tommaso Barbato per il reato di concorso esterno per aver fatto parte del clan dei Casalesi. Era stata già la Corte di Cassazione ad annullare le altre due sentenze del Tribunale di Napoli Nord e dalla I Sezione Penale della Corte di Appello di Napoli dove Barbato era stato condannato.

La Suprema Corte però aveva ravvisato nelle due sentenze di violazioni di legge ed errori nella valutazione delle prove rinviando ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli il nuovo giudizio di merito. Oggi la sentenza definitiva di assoluzione. L’ex senatore è stato assistito nella lunga vicenda processuale dagli avvocati Francesco Picca e Claudio Botti.

La sentenza. Concorso esterno, assoluzione dopo anni di gogna per l’ex senatore Barbato. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Aprile 2022. 

Un incubo giudiziario finito. La Corte di Appello di Napoli (terza sezione penale) ha messo fine con una sentenza alla vicenda processuale che ha visto coinvolto l’ex senatore Udeur Tommaso Barbato, imputato per il reato di concorso esterno con il sospetto di aver avuto contatti con il clan dei Casalesi. Assoluzione, recita il dispositivo della sentenza. Accolta, dunque, la tesi della difesa (l’ex senatore è stato difeso dagli avvocati Francesco Picca e Claudio Botti).

Era stata già la Corte di Cassazione ad annullare le due precedenti sentenze, adottate dal Tribunale di Napoli Nord e dalla prima sezione penale della Corte di Appello di Napoli, con le quali Barbato era stato riconosciuto colpevole del reato di concorso esterno rispetto al clan dei Casalesi. La Cassazione, infatti, aveva ravvisato nelle due sentenze di merito gravi violazioni di legge e clamorosi errori nella valutazione delle prove rinviando ad altra sezione della Corte di Appello il nuovo giudizio di merito. Ed ecco, dunque, come si è arrivati a celebrare il nuovo processo di secondo grado che ieri si è concluso con una sentenza di assoluzione. Cadute le accuse che indicavano l’ex senatore tra coloro che avrebbero stretto un patto politico-mafioso con il clan casertano allo scopo – sempre secondo la ricostruzione della Procura bocciata ieri dalla Corte d’Appello – di ottenere l’affidamento, in favore di imprese riconducibili al clan, di lavori nell’ambito della gestione dell’acquedotto della Campania.

“Inchiesta Medea”, così salì alle cronache con il solito risalto mediatico che ha questo tipo di inchieste. Un episodio di corruzione è stato dichiarato prescritto. Di Barbato si era parlato recentemente per una foto scattata assieme al pm e politico Catello Maresca. La foto era di marzo scorso e destò scalpore perché Maresca da pm, nel 2014, aveva firmato alcuni atti dell’inchiesta che coinvolgeva proprio Barbato. Tanto rumore per nulla.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Si sgonfia l’impianto accusatorio. Inchiesta Petrolmafia, non era mafia: fioccano le assoluzioni. Umberto Baccolo su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

Dopo Mafia Capitale, che non era Mafia per niente, ecco un altro caso di una mafia che non esiste. Ma come in quel caso, nel tempo che ci è voluto a scoprirlo aziende rimangono distrutte, centinaia di persone si ritrovano a casa senza lavoro (qui oltre 400), e c’è chi ha fatto la custodia cautelare in carcere o ai domiciliari. Questa volta a sgonfiarsi vertiginosamente è stato l’impianto accusatorio di Petrolmafie, inchiesta che ha coinvolto le Procure Antimafia di Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria il cui obiettivo era dimostrare il coinvolgimento di associazioni mafiose nella commercializzazione illegale di carburanti, riciclando milioni di euro. Se non che il 6 aprile a Roma, uno dei filoni principali dell’inchiesta si è concluso con due dei principali imputati, Francesco Mazzarella e Salvatore D’Amico, imputati per tentata estorsione ed illecita concorrenza, sono stati scagionati del tutto non solo da quelle accuse, ma pure da quelle di mafia, il 416bis, insieme ad altri 4 coimputati che hanno avuto invece condanne a 1/2 anni per piccoli reati (quando la Procura ne chiedeva a botte di 12).

Questa sentenza a sorpresa indubbiamente va a mettere in crisi tutto il castello inquisitorio e la sua credibilità, anche per quel che riguarda la posizione della più celebre imputata, cioè l’ex cantante Anna Bettozzi, in arte Ana Betz, erede dell’impero economico del defunto marito petroliere Sergio Di Cesare. La Bettozzi nell’aprile del 2021 è stata arrestata in un maxi blitz della finanza, accusata di essere in affari con il clan Moccia. Per la Bettozzi sono stati chiesti addirittura 14 anni e 2 mesi, che sarebbe una condanna veramente esagerata, degna di un capo clan: il gup a breve dovrà prendere la sua decisione, ma ciò che nel frattempo è successo apre troppi dubbi sul procedimento. A titolo di esempio, la procura di Lecce prima degli arresti aveva sequestrato il deposito della Bettozzi, ma di recente la Cassazione ha disposto il dissequestro: come si concilia, verrebbe da chiedersi, la pronuncia della Cassazione con il mantenimento del sequestro ancora in realtà nelle mani dell’amministratore giudiziario (e questa sui sequestri preventivi è una delle grandi battaglie di noi di Nessuno tocchi Caino negli ultimi anni, visto il modo indecente in cui sono gestiti e i tantissimi innocenti rovinati per sempre economicamente e socialmente da queste misure di prevenzione)?

Ma fosse solo quello… perché come si scriveva sopra stanno inizando a fioccare le assoluzioni dei vari coimputati dall’accusa principe, quella che tiene tutto assieme, cioè quella di 416bis: non è solo il caso del 6 aprile a Roma, ma c’è stata anche la sentenza di Napoli, che ha mandato assolti dalle accuse di mafia e riciclaggio per i Moccia altri sei imputati principali, tra cui Silvia Coppola, figlia di Alberto, e Giuseppe Vivese, braccio destro di Moccia. Dopo simili sentenze a Napoli e a Roma, risulta davvero difficile pensare che la Bettozzi possa essere condannata per un’associazione mafiosa della quale sembra praticamente nessun altro dei coinvolti già arrivati a sentenza fosse parte, e per un riciclaggio che per ora sembra non esserci mai stato. Umberto Baccolo

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 13 ottobre 2022.

Imprenditrice, cantante, animatrice dei cosiddetti salotti romani, amica di potenti e (presunta) fidanzata di attori famosi. Soprattutto ereditiera dell'impero economico del marito Sergio Di Cesare e, da ultimo, a capo di una organizzazione dedita al contrabbando di derivati petroliferi con una serie di reati connessi e legami con importanti clan malavitosi. 

Ieri, a 63 anni, Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, arrestata nell'aprile del 2021 con 74 persone, è stata condannata in abbreviato a 13 anni e due mesi di carcere (si trova ai domiciliari). I pm Margio e Fasanelli ne avevano chiesti 14: assieme alla associazione a delinquere, al riciclaggio, alle false fatture e ai reati fiscali (185 milioni evasi tra Iva, accise, Ires), davanti al gup ha retto anche l'aggravante mafiosa. Con lei altri otto sono stati condannati a pene comprese tra i 9 anni e 4 mesi e i 4 anni e 2 mesi.

Una vita per certi versi rocambolesca, quella della 63enne. Nata a Porto Rotondo, entra nel mondo degli affari nel settore immobiliare. 

Sposa De Cesare e nel 1999 insieme a lui viene tenuta prigioniera per una notte nella loro residenza sull'Appia Antica, al Quarto Miglio, nel corso di una rapina in cui i banditi portano via soldi e preziosi per 100 milioni di lire. 

La sua vera vocazione è però quella dello spettacolo: show girl e ballerina, nei primi anni 2000 cambia nome, da bruna passa a bionda e si dà alla musica, ottenendo successo più all'estero (Russia e Inghilterra) che in Italia. Il suo primo videoclip «Ecstasy» vanta lo stesso produttore di Madonna e Michael Jackson. Arriva anche in tv come ospite fissa a «Quelli che il calcio». 

Con la consulenza di immagine di Lele Mora offre alle cronache il suo fidanzamento con Gabriel Garko (dietro il quale ci sarebbe in realtà un compenso in nero per pubblicizzare il marchio, l'attore non è indagato) così come fanno parlare le sue feste in terrazzo con giornalisti, magistrati (anche Luca Palamara) e nomi noti della mondanità. 

È stata vicina di villa in costa Smeralda di Silvio Berlusconi e vantava rapporti d'affari (estranei all'inchiesta) con Marco Tronchetti Provera. Bettz viene arrestata alla frontiera di Ventimiglia mentre a bordo di una Rolls Royce è diretta a Cannes, tenendo accanto una scatola di stivali a gamba alta che celano 300mila euro in contanti.

Gli accertamenti di carabinieri e finanza la inquadrano come capo indiscusso dell'associazione che quadruplica il fatturato della Max Petroli grazie alle relazioni con i Moccia, i Casalesi (un miliardo di finanziamenti in cambio di riciclaggio), i Piromalli e i Mancuso. È lei a tenere la gestione anche dopo la trasformazione in Made Petrol Italia, diretta formalmente dalla figlia 27enne Virginia Di Cesare.

La giovane finisce ai domiciliari assieme all'altro figlio (40enne) di Bettz, suo nipote, il nuovo compagno Felice D'Agostino (ritenuto il trait d'union con la camorra) e l'avvocato Ilario D'Apolito, che al momento dell'arresto le consiglia al telefono di nascondere la chiave di una cassetta di sicurezza nella tasca dell'autista: è quella dell'hotel Gallia a Milano, dove viene trovato un altro milione e 400mila euro. «A' Pie' - diceva Bettz alla sorella - io dietro c'ho la camorra». In un'altra telefonata racconta di aver prelevato 8 milioni «per metterli al sicuro». La sua ascesa finisce un anno e mezzo fa con l'arresto e ora la

“Lady Petrolio” Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz condannata a 13 anni di carcere per riciclaggio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Ottobre 2022. 

La Bettozzi usava la mafia per avere denaro e la mafia usava l'azienda della Bettozzi per moltiplicarlo ed entrare in un business importante. La donna venne arrestata nel maggio del 2019, mentre era a bordo di una Rolls Royce insieme all'attore Gabriel Garko alla frontiera di Ventimiglia con la Francia mentre era diretta al Festival di Cannes. In quella occasione la Guardia di Finanza la trovò in possesso di 300.000 euro in contanti occultati dentro una scatola di stivali a gamba alta

Anna Bettozzi “Lady Petrolio” imprenditrice, cantante, animatrice dei salotti romani, amica di potenti e (presunta) fidanzata di attori famosi vedova del petroliere romano Sergio Di Cesare, Dopo un passato da agente immobiliare e da aspirante popstar, adesso la donna sessantatreenne si è garantita un futuro da detenuta, essendo attualmente in detenzione domiciliare, è stata condannata con il rito abbreviato, che riduce ad 1/3 la pena prevista dal Codice, a 13 anni e 2 mesi di reclusione nel corso dell’udienza preliminare a Roma, in uno dei filoni della maxindagine sulle Petrol Mafie Spa. Nel processo sono state condannate altre otto persone, con pene comprese tra i 9 anni e 4 mesi e i 4 anni e 2 mesi. È stata anche disposta la confisca di 180 milioni di euro.

La Bettozzi venne arrestata nel maggio del 2019, mentre era a bordo di una Rolls Royce insieme all’attore Gabriel Garko alla frontiera di Ventimiglia con la Francia mentre era diretta al Festival di Cannes. In quella occasione la Guardia di Finanza la trovò in possesso di 300.000 euro in contanti occultati dentro una scatola di stivali a gamba alta e nel corso di una perquisizione in albergo a Milano le furono trovati altri 1,4 milioni di euro in contanti, che vennero messi sotto sequestro.

Con la consulenza di immagine di Lele Mora che spacciò alle cronache del gossip un suo chiacchierato fidanzamento con Gabriel Garko, che a distanza di tempo ha fatto pubblico “coming out”. Al tempo la Bettozzi aveva dichiarato ai giornali “Lo amo incondizionatamente“. 

Solo che da una intercettazione allegata all’inchiesta giudiziaria, risulta che l’attore aveva pattuito con “Lady Petrolio”, prima di un finto bacio tra i due immortalato dai paparazzi, un compenso di 250mila euro, dei quali la maggior parte sarebbe dovuta essere consegnata in contanti. Le prove sono contenute nelle telefonate intercettate. La sera del 28 febbraio 2019, ad esempio, Anna Bettozzi arriva alla stazione di Milano. Alle 19.41 chiama Garko e discutono del contratto. L’attore si lamenta: “Si era parlato del contratto in un certo modo…poi a me è arrivato un contratto fatto in un altro….il contratto era da 200mila“. “E quanto doveva essere?”. chiede la Bettozzi. “Il contratto doveva essere da cento”. risponde Garko. “100 in nero e 100 in fatturato, sul contratto va messo solo il fatturato. Il cash prima del contratto“.

I pm Margio e Fasanelli davanti al Gup avevano chiesto una condanna a quattordici anni, contestando insieme alla associazione a delinquere, al riciclaggio, alle false fatture e ai reati fiscali (185 milioni evasi tra Iva, accise, Ires), anche l’aggravante mafiosa che è stata riconosciuta. 

Le indagini congiunte della Guardia di Finanza e dei Carabinieri  con quattro diverse procure Antimafia (Roma, Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro) hanno portato alla luce un vasto giro di riciclaggio e autoriciclaggio e ripetute frodi nel settore degli oli minerali. In tutte le inchieste è stata evidenziata la “nefasta sinergia” tra mafie e colletti bianchi. Tra gli altri reati contestati dai giudici c’erano anche l’associazione per delinquere costituita per la commissione di plurimi reati tributari, illecita commercializzazione di prodotti petroliferi. Il tutto anche con il fine di agevolare le attività di associazioni della criminalità organizzata.

La Bettozzi ben “conosce i meccanismi fraudolenti già contestati al marito dal quale ha ereditato l’azienda, non è affatto una sprovveduta nel coltivare un rapporto apparentemente stravagante”. È Coppola a inserire la Bettozzi nel mondo campano, dove società presentano finte dichiarazioni di intento, fatturando poi fittiziamente. L’immagine di un garage dove hanno sede decine di aziende, gestite di fatto da personaggi di facciata che al telefono si confondono anche sul nome delle società che avrebbero dovuto rappresentare, fotografa il meccanismo utilizzato per frodare il Fisco attraverso teste di legno. “La figura del professionista terzo da nominare amministratore serve solo come specchietto per le allodole e per scaricare responsabilità – scrivono gli inquirenti – Unica obiezione, bisogna mettere al posto di comando (apparente) una persona credibile, non i soliti “rumeni sdentati“, come diceva la Bettozzi che usava la mafia per avere denaro e la mafia usava l’azienda della Bettozzi per moltiplicarlo ed entrare in un business importante.

Gli accertamenti congiunti svolti dai Carabinieri e Guardia di finanza al centro delle inchieste delle procure di Roma e Napoli, la inquadrano come capo indiscusso dell’associazione in relazione con i Moccia, i Casalesi (un miliardo di finanziamenti in cambio di riciclaggio), i Piromalli e i Mancuso grazie ai quali quadruplica il fatturato della Max Petroli. di cui era amministratrice la Bettozzi, indicata come “capo” indiscusso del sodalizio criminale. La società successivamente era stata trasformata nella “Made Petrol Italia” guidata dalla figlia Virginia Di Cesare ma, secondo gli investigatori, in realtà sempre sotto il controllo dalla madre. La ragazza è finita ai domiciliari assieme all’altro figlio (40enne) della Bettozzi, suo nipote, il nuovo compagno Felice D’Agostino (ritenuto il collegamento con la camorra) e l’avvocato Ilario D’Apolito, che al momento dell’arresto le consigliò al telefono di nascondere la chiave di una cassetta di sicurezza nella tasca dell’autista, che era quella dell’hotel Gallia a Milano, dove viene trovato un altro milione e 400mila euro. 

In una intercettazione la Bettozzi parlando con sua sorella P.ra, diceva: “Ah Piè , io dietro c’ho la camorra!”. Secondo gli inquirenti la donna era del tutto consapevole di chi erano i suoi nuovi soci in affari. Secondo l’accusa legarsi a gruppi camorristici è stato per “Lady Petrolio” molto vantaggioso: il giro d’affari della sua società petrolifera, grazie ai capitali illeciti da riciclare, nel giro di tre anni era passato da 9 a 370 milioni di euro .

Negli atti si legge che sua figlia, Virginia di Cesare, proponeva a un altro indagato di nominare Giulio Tremonti nel consiglio di amministrazione: “L’amministratore può anche non essere a conoscenza dell’eventuale falsità delle dichiarazioni di intento visto che è il cliente a dichiarare di possedere i requisiti di esportatore abituale ed è l’Agenzia delle Entrate che avalla la richiesti”. L’interlocutore è perplesso. Tremonti si accorgerebbe delle modalità illecite con cui la società opera e perciò non accetterebbe mai un incarico simile. Sarebbe meglio, dicono, individuare un soggetto che abbia in passato rivestito un ruolo nella Guardia di Finanza, che possa bloccare sul nascere eventuali indagini.

“Ho commesso degli errori e sono pronta a pagare, ma non mai avuto nulla a che fare con la criminalità organizzata”, si era già difesa la Bettozzi riferendosi a quelle intercettazioni con la sorella P.ra. “Anna Bettozzi è riuscita ad evitare l’abbraccio mortale con il clan Moccia servendosene ma conservando la sua autonomia“, spiegavano i magistrati dopo l’arresto. Di fatto però “la partecipazione tramite Alberto Coppola del clan Moccia alle dinamiche criminali del sodalizio capeggiato da Anna Bettozzi valeva circa un terzo degli investimenti”. Accuse che i penalisti del suo nutrito collegio difensivo composto dagli avvocati Cesare Placanica, Gianluca Tognozzi, Pierpaolo Dell’Anno e Antonio Ingroia contestano, sostenendo “”l’inesistenza di ogni minima collusione con la criminalità organizzata e confidando che l’effettiva comprensione dei meccanismi fiscali possa determinare l’esclusione degli altri profili di colpa”. Ma così non è stato. Redazione CdG 1947

Lady Petrolio, condanna a 13 anni e 2 mesi di carcere. Anna Bettozzi avrebbe frodato l'Iva e le accise vendendo carburante di contrabbando. Stefano Vladovich il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Con la sorella si vantava di avere dalla sua camorristi di rango. Come il clan Moccia di Afragola o i Casalesi di Casal di Principe. Anna Bettozzi, cantante e soubrettina vedova del petroliere Sergio Di Cesare, è stata condannata ieri, con rito abbreviato, a 13 anni e due mesi di carcere assieme ad altri otto imputati per riciclaggio. Indagata dalle Procure antimafia di tutt'Italia, nel maggio 2019 lady Petrolio viene fermata alla frontiera di Ventimiglia su una Rolls Royce con 300mila euro nascosti in uno stivale. «Vado al Festival di Cannes - dice agli agenti -, i soldi sono per albergo e ristoranti. Problemi?». Nella sua suite a Milano un altro milione e 400mila euro in contanti.

Parte l'indagine Petrol Mafie per smantellare un riciclaggio di denaro in cui la Bettz è una pedina importante. Gli uomini dello Scico le stanno dietro da tempo. Il mese prima, al telefono con la sorella P.ra, cerca di scoraggiarla sulla gestione di un deposito carburanti: «A Piè, ma ndo cvai? Te stanno a pija pe' culo! Io dietro c'ho la camorra». Una confessione che la lega alle famiglie che contano: dai camorristi noti, alla ndrangheta comandata dai Piromalli, i Labate, i Pelle e gli Italiano nel Reggino, nonché i Piscopisani a Catanzaro.

Oltre alla sua altre otto condanne comprese tra i 9 anni e 4 mesi ai 4 anni e 2 mesi per associazione a delinquere finalizzata alla commissione di vari reati tributari, illecita commercializzazione di prodotti petroliferi, riciclaggio, autoriciclaggio con l'aggravante di agevolare associazioni di stampo mafioso. Dalle indagini della Dda la Bettozzi, gestendo una società al collasso finanziario, trova nei soldi sporchi della mafia la soluzione a tutti i suoi problemi. Le iniezioni di liquidità dei clan salvano la sua azienda: il volume di affari in tre anni passa dai 9 milioni di euro a 370. Il sistema per fare una valanga di denaro è incentrato sul business dei prodotti petroliferi attraverso società di comodo, godendo di agevolazioni fiscali. Centro del malaffare la Italpetroli spa di Locri dove le varie società acquistano petrolio e derivati senza Iva. Dopo una serie di passaggi basati su false fatturazioni e prestanome, le società cartiere cedono i prodotti, a prezzi concorrenziali, a clienti «amici».

La Bettozzi ha un ruolo chiave da quando eredita l'impero del marito, la Max Petroli srl, poi Made Petrol Italia srl. Un impero, però, in stato di crisi. A ottenere soldi l'aiuta l'amico imprenditore Alberto Coppola, parente di Antonio Moccia. Nella sentenza di ieri è stata disposta la confisca di oltre 186 milioni.

Il folle caso. “Il dramma di Andrea Bulgarella, accuse inventate ma nessuno ora gli apre un conto”, intervista a Giovanni Guzzetta. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Marzo 2022. 

«Si ricorda il libro di Joseph Heller, Comma 22? Ecco, siamo finiti purtroppo nella stessa identica situazione», dice sconsolato il professor Giovanni Guzzetta, difensore di Andrea Bulgarella, un imprenditore di Trapani nel settore alberghiero accusato di essere stato in affari con il super boss Matteo Messina Denaro. «Nonostante Bulgarella sia scagionato da tutte le accuse – prosegue Guzzetta – per la banche continua a essere considerato un soggetto estremamente pericoloso: a oggi nessun istituto di credito sul territorio nazionale è infatti disponibile ad aprirgli un conto corrente».

Il procedimento a carico di Bulgarella si è chiuso da tempo con un nulla di fatto già nella fase delle indagini preliminari. I magistrati di Firenze, il procuratore Giuseppe Creazzo ed i pm Alessandro Crimi e Angela Pietroiusti, erano invece convinti che Bulgarella fosse addirittura l’imprenditore di riferimento di Cosa Nostra. I carabinieri del Ros, che condussero le indagini, avevano ipotizzato che Bulgarella avesse reimpiegato in Toscana i capitali del clan di Messina Denaro. Accuse pesantissime che, come detto, sono evaporate già prima di arrivare davanti al giudice.

Professor Guzzetta, il fascicolo nei confronti di Bulgarella si è chiuso ma non nel caso concreto non è cambiato nulla.

Esatto. Premesso che i danni economici subiti da Bulgarella a causa di questa indagine sono stati enormi dal momento che ha dovuto vendere tutte le proprietà, il futuro non è affatto roseo.

Ci spieghi.

Essendosi il procedimento chiuso nella fase delle indagini preliminari, quindi senza una sentenza di assoluzione nel merito, Bulgarella non potrà avere alcun risarcimento. Ma questo è il meno. Il problema principale adesso è non riuscire ad aprire un conto corrente e quindi a lavorare.

È difficile fare l’imprenditore senza almeno un conto corrente…

Esatto. È un uomo morto, non è in condizione di fare pagamenti di qualsiasi genere: dai fornitori ai dipendenti. Con i limiti che esistono sui pagamenti in contante di fatto è impossibile. Bulgarella non può effettuare alcuna operazione.

Possiamo ricostruire l’accaduto?

Quando scoppiò l’indagine, i conti bancari di Bulgarella vennero immediatamente chiusi senza alcuna motivazione.

Come andò nel concreto?

Molto semplice: le banche hanno receduto dal contratto.

Potevano?

Certo, c’è una disposizione del codice civile che lo prevede. Ricordo però che il codice civile risale al 1942 e all’epoca nessuno si era posto il problema che si potessero chiudere i conti correnti. Oggi ci sono le norme sull’antiriciclaggio che hanno modificato il quadro normativo.

Ma ora che Bulgarella è stato scagionato da tutte le accuse? Le banche devono per forza prenderne atto.

Ripeto, non è cambiato nulla.

Avete provato a chiedere spiegazioni?

Il sistema bancario non permettere di accedere ad alcuna informazione: appena si digita il nome di Bulgarella in un qualsiasi istituto bancario appare un “alert” sullo schermo che blocca tutte le procedure che sono in essere.

Avete provato allora a scrivere alla Banca d’Italia?

Sì, ma nessuno ci ha risposto.

E avete provato a chiedere al giudice visto che tutto è nato da un procedimento giudiziario?

Sì. Abbiamo chiesto al giudice che sollevasse il conflitto di legittimità costituzionale su questa norma contenuta nel codice civile. Ma il giudice non ha ritenuto di dover procedere.

È la teoria di Davigo: Bulgarella è un colpevole però non sono state trovate le prove.

Esatto. Bulgarella per lo Stato italiano è un paria. Pur essendo innocente, è nelle stesse condizioni di chi ha riportato condanne gravissime per associazione a delinquere.

Una situazione paradossale a dir poco.

Guardi, qui si sta ammazzando un imprenditore onesto. Essere siciliano significa essere attinto da un pregiudizio insuperabile. Per Bulgarella vale la presunzione colpevolezza.

Ci dovrà essere una soluzione da qualche parte.

Bulgarella, purtroppo, è finito nel classico imbuto senza uscita.

Paolo Comi

L'incredibile strafalcione dei magistrati. “È l’autosalone del clan”, confiscato ma era quello sbagliato: due imprenditori chiedono 6 milioni di risarcimento. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Febbraio 2022. 

Se la Presidenza del Consiglio accoglierà la richiesta di risarcimento dell’avvocato romano Andrea Rossi per conto dei suoi clienti, gestori dell’autosalone Gamma di Ostia, sarà lo Stato a pagare, con la bella cifra di sei milioni e centomila euro, per la “colpa grave” di pubblici ministeri e giudici. Oltre agli uomini della Guardia di finanza. Sono stati commessi errori, o c’è invece “colpa grave” per imperizia, incuria, scarsa professionalità? Errore, no di certo, nella vicenda che stiamo per raccontarvi. E se finirà con il risarcimento ai due soci della “Gamma srl”, titolari di un autosalone di Ostia dal 1996, sappiamo già che il denaro uscirà dalle tasche di tutti noi cittadini, perché i magistrati che sbagliano non pagano mai, grazie anche all’ultima decisione della Corte Costituzionale. Quella che secondo il neo Presidente Giuliano Amato, non avrebbe dovuto “cercare il pelo nell’uovo” e che invece l’ha trovato nel proteggere le spalle alle toghe. E vedremo anche se di questi magistrati, e delle loro responsabilità, si occuperà il Csm.

Partiamo dal 2015 e dalle inchieste di mafia che coinvolgono le famiglie degli Spada sul litorale di Ostia. C’è un “pentito” romeno (poteva mancare?) di nome Paul Dociu il quale, sentito dalla procura di Roma (pm Ilaria Calò, dal 2020 nominata procuratore aggiunto dal Csm) unitamente agli uomini dello Sco, segnalava l’esistenza dell’autosalone “Rosa car”, gestito dagli Spada in via dei Romagnoli 147/151 a Ostia, dando anche indicazioni piuttosto precise sull’ubicazione: “Prima del cavalcavia e dopo un albergo”. Chiarissimo. Tanto che gli uomini della squadra mobile annotano che l’autosalone chiamato “Rosa car” in via dei Romagnoli 147/151 svolge “attività commerciale di fatto di proprietà di Carmine Spada e Carlo Franzese”. Da quel momento le indagini dei pubblici ministeri Ilaria Calò e Mario Palazzi si intensificano, con intercettazioni nei locali di vendita auto che porteranno a numerosi arresti e alla chiusura del “Rosa car”. Agli esponenti della famiglia Spada viene contestata l’aggravante mafiosa, quindi, in contemporanea alle indagini penali parte anche il procedimento delle misure di prevenzione, che sono affidate alla Guardia di finanza.

Sono passati due anni dall’inizio dell’inchiesta e dalla collaborazione di Paul Dociu che con tanta abbondanza di particolari aveva indicato l’autosalone “Rosa car” come luogo di incontri e di affari del clan. A questo punto che cosa fanno i solerti agenti del Gico specializzati nelle misure interdittive? Pur disponendo dell’intera deposizione del “pentito”, ne leggono solo una riassuntiva e priva di tutti quei bei particolari che il cittadino romeno aveva sciorinato con tanta cura. Poi vanno sul luogo a cercare l’autosalone. Solo che il “Rosa car” non c’è più, è stato chiuso su disposizione dell’autorità giudiziaria. Al suo posto c’è un parrucchiere. Un attimo di smarrimento. Poi la genialata, visto che 350 metri più in là ce ne è un altro, di venditore di auto. Vabbè, si chiama in un altro modo, “Gamma auto”, ma fa lo stesso. Conseguenza? La Guardia di finanza, sulla base di questo primo “errore”, presenta la proposta della procedura di prevenzione nei confronti dei titolari dell’autosalone, Piergiorgio Capra e Giovanni Deturres.

L’incubo ha inizio. Perché a “errore” si somma “errore”. Signori del Csm state a sentire! A chi si rivolgono gli uomini del Gico per aprire quella procedura di prevenzione che ha ormai sostituito per durezza la stessa indagine penale nell’antimafia? Naturalmente ai pubblici ministeri Calò e Palazzi, gli stessi che hanno indagato, intercettato e poi chiuso il “Rosa car” degli Spada. Si accorgeranno dell’errore, penserà qualcuno. Assolutamente no. Forse erano distratti da altri problemi, dalla carriera, dalle correnti sindacali, chissà. Ma la cosa più incredibile è che i due pm usano le dichiarazioni del “pentito” Dociu per chiedere e ottenere il sequestro e la confisca della “Gamma auto”, che diventa improvvisamente luogo di riferimento del clan degli Spada. Così non aveva detto il collaboratore di giustizia, ma così viene stabilito dalla Procura di Roma e anche dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale. Parte l’amministrazione giudiziaria. I due soci si affannano a raccogliere e presentare documenti, fanno ricorsi, ma invano. La giustizia ha i suoi tempi e le sue regole, anche quella di inghiottire i propri “errori”.

La società “Gamma auto” e le stesse persone dei due soci finiscono nel meccanismo infernale del “sistema prevenzione”, quello che nel libro di Nessuno tocchi Caino (Quando prevenire è peggio che punire) viene bollato come vera inquisizione. I magistrati contestano alla società di non aver presentato i bilanci. Ma è falso, come risulta anche dalla certificazione della Camera di commercio. Nell’analisi della congruità dei redditi degli Spada vengono coinvolti anche Piergiorgio Capra e Giovanni Deturres, cosa inusuale in quanto “terzi”. Ma si compiono addirittura strafalcioni. Si contesta al primo il fatto che, perché il suo reddito fosse “congruo” con il giro d’affari della società, avrebbe dovuto denunciare almeno trentasei milioni di lire nell’anno 1990. Cioè quando lui aveva diciannove anni e, avendo ripetuto una classe, andava ancora a scuola. Del suo socio, che è più anziano, sono stati cancellati vent’anni di lavoro dipendente con relativi versamenti contributivi. Inoltre, ogni versamento di denaro proveniente dal conto corrente della madre di Piergiorgio Capra viene attribuito agli Spada. Sciatteria, incapacità professionale? Come dobbiamo qualificare questo inferno, questa tortura, questo incubo?

L’incubo è finito, almeno nella sua parte principale, dopo tre anni, quando, e siamo al 3 dicembre 2021, passa in giudicato il decreto del 18 novembre precedente con cui la Corte d’Appello di Roma ha revocato il sequestro e la confisca della Gamma Auto srl e dell’Autosalone, e poi restituito a Capra e Detorres le quote della società e l’azienda. Ma nel frattempo che cosa era accaduto nei tre anni di passione? In seguito al sequestro e confisca della società, i due titolari hanno sostenuto spese per l’amministrazione giudiziaria, sono finiti nelle black list bancarie, assicurative e finanziarie, hanno visto i conti correnti chiusi, e dopo la “riemersione” bancaria, hanno subito l’applicazione dei massimi interessi. Oltre al danno d’immagine e la distruzione di tre anni di vita, il peso economico di tutta la vicenda è stato notevole. Giusto quindi chiedere il risarcimento.

Ma tutto il resto? È sconvolto, “anche sul piano emotivo”, l’avvocato Andrea Rossi, che ci ha segnalato questa storia e che ringraziamo, perché tutti la devono conoscere, compresi i membri del Csm che fanno le promozioni, visto che vicende come queste non entrano nei curricula dei magistrati. “Una delle più gravi ingiustizie che mi sia capitato di vedere in trent’anni di professione –dice l’avvocato Rossi- sembrava che i magistrati non volessero proprio vedere l’evidenza”. Come dargli torto? Ma purtroppo quel referendum sulla responsabilità diretta delle toghe non s’ha da fare.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il capogruppo regionale di FI: "Giustizia è fatta". Dalla richiesta di domiciliari all’assoluzione, flop Woodcock: fine dell’incubo per Michele Schiano. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Febbraio 2022. 

La sentenza è arrivata nel pomeriggio. Assoluzione. E con la formula più ampia: «perché il fatto non sussiste». Un sollievo per Michele Schiano di Visconti, il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia che afferma: «Giustizia è fatta». Era finito in un’inchiesta della Procura di Napoli con l’accusa di voto di scambio. In sintesi il pm Henry John Woodcock era convinto che Schiano di Visconti avesse barattato un posto di lavoro in cambio del sostegno promesso all’ex senatore Salvatore Marano per un candidato del centrodestra alle elezioni comunali del 2015.

E ne era talmente convinto da chiedere inizialmente la custodia cautelare agli arresti domiciliari per Schiano di Visconti e da ricorrere in Appello dopo il no incassato dal gip che non ritenne gli elementi raccolti dall’accusa sufficienti a giustificare un provvedimento di custodia cautelare. Due no, insomma, nonostante i quali il pubblico ministero portò avanti la sua tesi. Sempre con gli stessi elementi, però. La difesa di Michele Schiano di Visconti (avvocati Michele Riggi e Giuseppe Pellegrino), che oggi può dirsi soddisfatta della coraggiosa scelta di optare per l’abbreviato in un processo in cui tutti avevano scelto il rito ordinario, aveva più volte chiesto al pm un interrogatorio. Fu concesso il 4 agosto 2020, poco prima della campagna elettorale per le Regionali.

L’interrogatorio seguiva l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Tutta l’accusa nei confronti del capogruppo regionale di Fratelli d’Italia si reggeva sul contenuto di una conversazione intercettata. Insomma, anche in questo caso le intercettazioni usate come unico mezzo di prova. Il gip non le aveva ritenute sufficienti, il Riesame nemmeno. Michele Schiano di Visconti provò a spiegare agli inquirenti la sua versione dei fatti e a dirsi estraneo alle accuse che venivano contestate. Ma il pubblico ministero firmò comunque la richiesta di rinvio a giudizio anche nei confronti del politico di Fratelli d’Italia. Da allora è trascorso oltre un anno e mezzo e l’inchiesta è arrivata al vaglio del giudice dell’udienza preliminare.

Una dozzina gli indagati, fra politici e soggetti ritenuti legati alla camorra di Secondigliano (in origine erano 82 le persone indagate, in fase preliminare c’era stato un primo serio ridimensionamento). L’unico a non seguire il rito ordinario è stato proprio Michele Schiano di Visconti. Assistito dagli avvocati Michele Riggi e Giuseppe Pellegrino, il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia ha optato per il rito alternativo convinto di riuscire a far valere le proprie ragioni e dimostrare la propria estraneità alle accuse. Una scelta coraggiosa, se si pensa che tutti gli altri coinvolti nell’inchiesta sono stati rinviati a giudizio e a breve comincerà per loro un processo che chissà quanti anni durerà prima di arrivare a una prima sentenza.

Forse ci sarà un’attesa di tre o cinque anni. Michele Schiano di Visconti non ha voluto sottoporsi a questa attesa che spesso vale come una condanna preventiva, che costringe a rimanere in una sorta di limbo che condiziona le scelte personali e professionali di chi ne è protagonista. E così ieri si è celebrata l’udienza e, colpo di scena, anche il pubblico ministero di udienza (che non era il pm Henry John Woodcock ma il pm Lucio Giugliano) ha chiesto l’assoluzione dell’imputato Schiano di Visconti. In pratica, il nuovo pubblico ministero ha deciso di allinearsi alla tesi difensiva, di seguire le conclusioni a cui del resto erano arrivati anche altri magistrati prima (il gip aveva escluso la richiesta di misura cautelare non ritenendo sufficienti gli indizi di colpevolezza e il Riesame aveva respinto, ritenendolo inammissibile, il ricorso presentato dalla Procura contro la decisione del giudice delle indagini preliminari di negare gli arresti).

Al termine della camera di consiglio, il giudice Giovanni Vinciguerra è uscito con un dispositivo che vuol dire assoluzione piena per Michele Schiano di Visconti. Assoluzione «perché il fatto non sussiste». Una pronuncia che taglia di netto le gambe alla tesi della pubblica accusa. Non ci fu voto di scambio. Non c’è l’accusa perché non c’è il fatto. Bisognerà attendere ora il deposito delle motivazioni per conoscere nel dettaglio il ragionamento del giudice. Intanto Michele Schiano di Visconti commenta: «Ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ho affrontato con silenziosa dignità questa vicenda. Ora posso dire ad alta voce che giustizia è stata fatta».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews). 

Ennesimo flop. Gratteri non ne indovina una: assolto Tallini, non è mafioso…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.  

Mimmo Tallini è stato assolto ieri perché “il fatto non sussiste”. L’ex presidente del Consiglio Regionale della Calabria non è mafioso e non ha attuato nessun voto di scambio con la cosca Grande Aracri. Una botta micidiale per gli uomini della Dda, che avevano chiesto una condanna a sette anni e otto mesi di carcere. Ma soprattutto l’ennesima caduta d’immagine per il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che nella consueta conferenza stampa del novembre 2020 aveva annunciato di aver messo le mani sulla mafia “di serie A”, con il solito ragionamento che individua il politico o l’amministratore pubblico come anello di congiunzione tra gli uomini della ‘ndrangheta, la società civile, le istituzioni e a volte anche la massoneria, come nel caso di Giancarlo Pittelli.

Quel 19 novembre del 2020 gli arrestati erano 19. Di questi ieri il gup di Catanzaro nel processo con rito abbreviato ne ha assolti altri cinque, oltre a Tallini. Che era rimasto due mesi ai domiciliari e mai in carcere, un po’ perché erano i giorni in cui lo stesso procuratore generale Giovanni Salvi, vista la diffusione intensa del Covid negli istituti di pena, aveva sollecitato i magistrati e le forze dell’ordine a ridurre le misure cautelari, ma forse anche perché quell’arresto era servito soprattutto per la conferenza stampa. Siamo alle solite: quale testata nazionale si sarebbe mai interessata al fermo di un improbabile antennista faccendiere e di pochi esponenti mafiosi se nell’inchiesta non fosse stato presente anche il boccone grosso della politica? Uno addirittura al vertice del Consiglio Regionale?

Entusiasta era stato il Fatto quotidiano, che l’aveva buttata anche in politica, per l’appartenenza del prestigioso arrestato all’area di centro, e aveva dedicato all’episodio la parte centrale della prima pagina, l’apertura, insomma. “Dialogare con questi?” era il titolo. E poi: “Altro che inciucio. Mentre metà del Pd vuole B come alleato, Gratteri scopre i voti di scambio del ras forzista con la cosca del business sanità”. E le intercettazioni, in cui mai veniva comunque fatto il nome del Presidente del consiglio (all’epoca dei fatti assessore al personale), né mai si sente la sua voce in colloqui con aderenti alle cosche, vengono usate in modo disgustoso per sentenziare che siamo in presenza della “dimostrazione plastica di come ‘ndrangheta e politica insieme si sono mangiati la Calabria”. E in un commento Tallini viene descritto come il “facilitatore politico amministratore della ‘ndrangheta”. Auguri Travaglio, per il processo dopo l’inevitabile querela. E anche a Nicola Morra che, da presidente dell’Antimafia, lo aveva qualificato come “impresentabile”.

La verità è che l’inchiesta aveva basi debolissime, e lo si era capito da quando, due mesi dopo il blitz, il tribunale del riesame aveva già scarcerato Tallini, accogliendo il ricorso degli avvocati Vincenzo Ioppoli, Valerio Zimatore e Carlo Petitto. E demolendo, mattoncino dopo mattoncino, tutta quanta l’ipotesi accusatoria e l’ordinanza del gip Giulio De Gregorio il quale aveva descritto Mimmo Tallini come “un’ombra dietro le ombre”, uno così furbo da non salire mai su auto altrui e da riuscire a non farsi mai intercettare al telefono con mafiosi. Veramente eccezionale, questo ragionamento: se ti intercetto al telefono con un boss sei mafioso, ma lo sei anche se non ti becco. Il tribunale del riesame aveva semplicemente smascherato il “giano bifronte” nel personaggio dell’antennista, che nella sentenza di ieri è stato condannato a sedici anni di reclusione.

Era una sorta di cavallo di troia, hanno detto i giudici, che giocava su due tavoli. Ma i due tavoli, quello mafioso e quello delle istituzioni, non sono mai stati due vasi comunicanti. Nonostante quelle motivazioni con cui il tribunale del riesame aveva mostrato l’inconsistenza delle accuse nei confronti del Presidente del Consiglio Regionale, Mimmo Tallini è andato a processo, e non si è più ricandidato alle ultime elezioni. Saranno stati soddisfatti Travaglio e Morra, almeno un risultato l’hanno portato a casa. Almeno loro, che in quel periodo avevano a cuore soprattutto l’integrità del governo Conte, la cui sopravvivenza sarà messa in discussione proprio un mese dopo, con l’informazione di garanzia, sempre targata Gratteri, al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa.

All’assoluzione di ieri di Mimmo Tallini, se ne è affiancata un’altra, per pura coincidenza temporale, che riguarda sempre un uomo delle istituzioni calabresi accusato di concorso esterno. Un’altra sconfitta della Dda, e non solo. Perché Giampaolo Bevilacqua, esponente del centrodestra ed ex vicepresidente della Provincia di Catanzaro, è stato assolto in via definitiva dalla cassazione, su ricorso dell’avvocato Francesco Gambardella, per i reati di concorso esterno in associazione mafiosa ed estorsione nei confronti di un imprenditore di Lamezia, in seguito a una vicenda processuale kafkiana, dovuta a un esasperante atteggiamento persecutorio da parte degli esponenti dell’accusa, che lo hanno trascinato dal 2013 di tribunale in tribunale: condanna in primo grado, assoluzione in appello, annullamento con rinvio in Cassazione, condanna in appello e oggi assoluzione definitiva in cassazione. Ditemi se non sono necessari i referendum per mettere almeno un po’ di ordine nell’accanimento giudiziario.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" il 4 febbraio 2022.

Il soprannome 'u Sparitu, condiviso con il fratello Giuseppe nelle latitanze degli anni Novanta, non promette niente di buono. Ma non c'è da dubitare che Rocco Barbaro, 56 anni, dopo la scarcerazione rispetti alla lettera le prescrizioni della sorveglianza speciale. 

Poca cosa per uno che ha evitato anni di carcere. Anche perché contro quello che la Direzione distrettuale antimafia di Milano indicava al tempo della sua cattura, l'8 maggio 2017, «il vertice» della 'ndrangheta lombarda, non ci sono altre accuse.

Barbaro, che per la procura era «il capo dei capi», è un uomo libero, benché battezzato alla 'ndrangheta con la dote del «vangelo» e nonostante sia considerato - dagli investigatori e dalla letteratura sul tema mafioso - il più importante esponente del ramo «Castanu» della cosca di Platì (Reggio Calabria). 

Quella che, dopo la stagione dei rapimenti, è diventata la famiglia più importante negli assetti criminali di Lombardia e Piemonte. Un Cerbero con tre teste: una sulle pendici d'Aspromonte, l'altra tra Corsico e Buccinasco nel Milanese e la terza a Volpiano (Torino).

Otto casati che affondano le loro radici nel matrimonio tra Francesco Barbaro (classe 1873) e Marianna Carbone (1877) con una storia che sembra uscita da una serie tv. Dai loro dieci figli discendono le otto 'ndrine che dominano dalla Calabria al Nord Italia, fino in Australia. 

Una delle più importanti è quella dei «Castanu», dal soprannome del padre di Rocco, Francesco Barbaro, classe 1927 morto ergastolano a 91 anni. Nomi, discendenze e soprannomi non sono un feticcio. Ma linee di sangue che diventano potere e tragedie umane. 

Come quella del brigadiere Antonino Marino, carabiniere di Platì ucciso nel '90 a Bovalino approfittando dei fuochi d'artificio alla festa del paese. Ad ucciderlo è stato proprio Ciccio Barbaro.

Il giorno della cattura del figlio Rocco i carabinieri e i Cacciatori di Calabria hanno dedicato l'operazione che riportava dietro le sbarre uno «dei trenta latitanti più pericolosi d'Italia» proprio alla memoria del compianto collega. 

A Milano i carabinieri e i magistrati della Dda gli davano la caccia per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Con il figlio Francesco e un nipote, queste le accuse, aveva comprato un bar a pochi metri dal Duomo, il «Vecchia Milano».

È il 2012 e Barbaro è stato scarcerato dopo una condanna a 15 anni per narcotraffico. È affidato in prova a un gommista di Buccinasco. Anche se, per la procura, più che lavorare pensa ad altro. Poco tempo dopo i carabinieri eseguono l'operazione «Platino». 

Nelle carte c'è un'intercettazione in cui viene definito da due affiliati «per regola» il «capo di tutti i capi, di quelli che fanno parte di queste parti». Lui capisce che è finito nel mirino e rivende il bar.

Quando vanno ad arrestarlo nel 2016, Barbaro non c'è. Resta latitante per un anno e mezzo. La sua cattura a Platì viene salutata come una «vittoria dello Stato» contro la mafia. Le condanne però le fanno i processi. In primo grado prende 16 anni, in appello scendono a 13, in Cassazione l'accusa di mafia cade e resta l'intestazione fittizia. 

L'appello bis va nello stesso solco. Barbaro sconta i pochi anni di condanna ed è libero. Per definirlo boss mafioso, secondo i giudici, serve l'attuale e operativo inserimento nella cosca al Nord.

Nel maxi processo «Infinito» del 2010, preso forse troppo ad unico fondamento della presenza della 'ndrangheta in Lombardia, non si parla mai di Rocco Barbaro. E le sole condanne recenti per i Barbaro-Papalia riguardano affari di terra e mattoni. 

Per i magistrati «non è mai sufficiente la verifica di una generica e non storicizzata appartenenza» al clan, ma «è necessario che la stessa trovi specifico riscontro operativo riguardo a un determinato assetto organizzativo e a quel determinato periodo».

·        Il Caso Cavallari.

Cavallari, dopo 27 anni cancellata la mafia: ok Corte d'Appello Lecce a revisione patteggiamento. La condanna scende a 1 anno e 6 mesi. Il Re Mida della sanità privata pugliese degli anni Ottanta e Novanta è morto nel gennaio 2021 a Santo Domingo dove viveva ormai «in esilio». Isabella Maselli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Novembre 2022.

Non saprà mai che il «marchio» di mafioso, che negli ultimi decenni di vita lo ha accompagnato e che lui ha sempre negato, alla fine è stato cancellato. Per Francesco Cavallari, «Cicci», il Re Mida della sanità privata pugliese degli anni Ottanta e Novanta, morto nel gennaio 2021 a Santo Domingo dove viveva ormai «in esilio», il riscatto arriva a 27 anni dal patteggiamento - era il 1995 - a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa, tentata estorsione mafiosa, falso in bilancio e corruzione. Con conseguente confisca del patrimonio, per 350 miliari di lire, derivata proprio dal reato di mafia.

Ieri la Corte d’appello di Lecce (presidente Ottaviano) ha accolto la richiesta-bis di revisione del processo presentata dai figli Daniela e Alceste, e ha cancellato l’accusa più infamante, quella di associazione mafiosa. La condanna resta per tutti gli altri reati (tra cui una tentata estorsione ai danni del costruttore Quistelli) ed è stata rideterminata in un anno e sei mesi di reclusione «postumi».

Per la prima volta in questa lunga e travagliata vicenda giudiziaria, tra le pagine più importanti e complesse della storia - non soltanto giudiziaria - barese, che ha cambiato per certi versi il volto della città, la Procura generale di Lecce aveva dato parere favorevole alla revisione del processo (rigettata nel 2016), almeno con riferimento all’accusa di associazione mafiosa. La Procura generale si è invece opposta alle ulteriori richieste dei difensori, relative all’aggravante mafiosa contestata nel reato di tentata estorsione e all’accusa stessa di aver tentato di costringere l’allora proprietario di Villa Anthea a cedergli le quote, organizzando l’occupazione della clinica con un gruppo di manifestanti.

L’accoglimento della richiesta delle difese - Alceste assistito dagli avvocati Valeria Volpicella (studio Lerario) e Mario Malcangi, Daniela assistita da Gaetano Sassanelli e Vittorio Manes - ha riscritto parte della storia. «Cicci» Cavallari, infatti, è l’unico degli imputati coinvolti nell’operazione «Speranza», sul mai provato intreccio tra mafia, affari e politica nella gestione delle Ccr, ad aver ricevuto una condanna per associazione mafiosa. Nel corso gli anni tutti gli altri imputati sono stati assolti. Ultimi, nel maggio 2021, l’ex manager barese delle Ccr, Paolo Biallo, cognato di Cavallari (deceduto nel dicembre 2019) e il boss barese Savino Parisi. Da qui la richiesta di revoca dell’applicazione della pena per Cavallari per mafia.

Ciò che ha mosso davvero la battaglia dei figli (negli ultimi tempi è tornato a Bari anche il fratello Marco) è anzitutto la volontà di restituire al padre la dignità, sia pure postuma. «La formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” con cui si è concluso il giudizio di ciascun imputato - si legge in una delle memorie difensive - , ha cristallizzato il dato per cui un’associazione non fosse mai stata costituita, nonché quello per cui, nell’ambito delle Ccr, non fosse ravvisabile un patto, un vincolo o una dimensione che anche solo implicitamente potesse assumere i caratteri della mafiosità». «Leggeremo le motivazioni della sentenza - dice l’avvocato Malcangi - e valuteremo se presentare ricorso in Cassazione». Anche perché questo potrebbe aprire anche la battaglia per la restituzione del tesoro dell’ex re della sanità privata barese.

La dichiarazione dell'avvocato Sassanelli

«Un sistema giudiziario che sovverte il principio dell'innocenza è un sistema che si condanna all’infamia. Come difensori oggi c’è molto poco di cui esser contenti perché si è certificata la più grossa ingiustizia consumata nel nostro distretto di corte di appello, senza che la vittima di questa ingiustizia abbia potuto assistere al suo riscatto. Il Dr. Cavallari è stato lasciato morire in esilio come il peggiore dei mafiosi ed oggi invece è stato finalmente ufficializzato quel che in realtà tutti sapevano e cioè che mafioso non lo è mai stato. Se quella è stata l’operazione speranza questa è stata l’operazione verità».

Quel «tesoro» da 150 milioni: nuova battaglia per Cavallari. Dopo la sentenza di revisione che ha cancellato la condanna per mafia a carico dell’ex re della sanità privata barese. Isabella Maselli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Novembre 2022.

Dopo la dignità e la memoria onorata, tocca al denaro. La Corte di Appello di Lecce ha stabilito che Francesco «Cicci» Cavallari non è mai stato un mafioso, ma non ha ancora messo l’ultima parola su questa storia che va avanti ormai da quasi trent’anni. La battaglia che si prospetta ora all’orizzonte è quella sulla restituzione dell’enorme patrimonio confiscato all’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese: all’epoca, nel 1985, era valutato in 300 miliardi di lire...

Case di cura riunite, Cavallari assolto dall'accusa di mafia dopo 29 anni: ora per gli eredi si può aprire la battaglia sui beni. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 17 novembre 2022.  

La corte di Appello di Lecce ha deciso sulla richiesta della famiglia del fondatore delle ex Ccr, morto nel gennaio 2021 a Santo Domingo

Volevano eliminare la parola “mafia” dalle loro vite, dopo che per anni sono stati additati come figli e nipoti del re della sanità privata barese, che pur di fare affari sarebbe sceso a patti persino con i boss. Daniela e Alceste Cavallari sono i figli maggiori di Francesco, detto “Cicci”, il fondatore delle Ccr (Case di cura riunite), morto all’età di 83 anni, nel gennaio 2021 a Santo Domingo. Hanno chiesto e ottenuto dalla Corte d’appello di Lecce la revisione del processo in cui il padre patteggiò la pena di un anno e dieci mesi di reclusione per associazione mafiosa, corruzione e reati fiscali, dopo che gli altri co-imputati sono stati tutti assolti.

La decisione è arrivata a tarda sera e ha revocato la sentenza emessa dal gup di Bari nel ‘95 e divenuta definitiva nel ‘96, assolvendo Cavallari dal capo A ovvero l’accusa di associazione mafiosa e rideterminando la pena (per i restanti reati) in un anno e quattro mesi. Una decisione che ha suscitato lacrime e commozione nella famiglia del manager, che tanto l’aveva sognata e non è riuscito ad ottenerla quando era in vita.

Il primo segnale che lasciava ben sperare i figli Daniela e Alceste è arrivato nel pomeriggio di ieri dalla Procura generale salentina, che ha detto sì alla revisione in relazione alla contestazione di associazione mafiosa. I giudici ne hanno discusso per ore, dopo aver valutato le richieste degli avvocati Gaetano Sassanelli e Vittorio Manes per Daniela Cavallari e Mario Malcangi e Valeria Volpicella per Alcestei. Il terzo figlio di “Cicci”, Marco, non ha chiesto la revisione ma è chiaro che tutto quello che conseguirebbe in termini legali - in caso di accoglimento - riguarderebbe anche lui.

Gli eredi, infatti, possono ora avviare un’altra battaglia legale per la restituzione di almeno una parte di quei beni per 350 miliardi di lire che furono sequestrati e poi confiscati, magari chiedendo un risarcimento allo Stato, visto che alcuni sono irrecuperabili. Di certo, il futuro di questa storia inizia dalla decisione della Corte d’appello di Lecce. La stessa che nel 2013 aveva già rigettato una prima istanza di revisione, ritenendo che nonostante le assoluzioni della maggior parte dei co-imputati di Cavallari, in realtà l’esistenza dell’associazione mafiosa non era stata esclusa ma solo «non sufficientemente provata».

Successivamente Cavallari ha fatto appello e la Cassazione ha rinviato di nuovo alla Corte d’appello, che - nel 2016 - ha ribadito il no perché non erano state ancora definite le posizioni del boss di Japigia, Savinuccio Parisi, e del manager delle Ccr Paolo Biallo (deceduto nel 2019). Cosa che accadde nel maggio 2021, quando per “Cicci” era già troppo tardi, considerato che la morte lo aveva colto nel suo buen ritiro a gennaio dello stesso anno. 

«Nella vita ho fatto tante cose, nel bene e nel male - soleva ripetere - ma non ho mai stretto accordi con i mafiosi». L’insussistenza di quegli accordi oggi è certificata da sentenze passate in giudicato e anche Francesco Cavallari è stato assolto dall’accusa di avere stretto patti con la mafia. "Un sistema giudiziario che sovverte il principio della innocenza è un sistema che si condanna all’infamia – ha commentato l’avvocato Sassanelli - Come difensori oggi c’è molto poco di cui esser contenti perché si è certificata la più grossa ingiustizia consumata nel nostro distretto di corte di appello, senza che la vittima di questa ingiustizia abbia potuto assistere al suo riscatto. Il dottor Cavallari è stato lasciato morire in esilio come il peggiore dei mafiosi ed oggi invece è stato finalmente ufficializzato quel che in realtà tutti sapevano e cioè che mafioso non lo è mai stato. Se quella è stata l’operazione speranza questa è stata l’operazione verità".

"Cavallari fu vittima della mafia, ora ci sia il riscatto morale": dopo l'assoluzione parlano i legali dei figli. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 18 Novembre 2022. 

Gli avvocati Gaetano Sassanelli e Mario Malcangi raccontano le ultime fasi della vicenda processuale dell'ex re della sanità privata morto nel 2021 a Santo Domingo. Ma "all'epoca furono commessi errori nelle indagini"

Francesco Cavallari "fu vittima di mafia, non certo sodale": per gli avvocati Gaetano Sassanelli e Mario Malcangi - che hanno assistito i figli del re delle case di cura nella richiesta di revisione del processo - la sentenza con cui la Corte d'appello di Lecce ha assolto "Cicci" dal reato di associazione mafiosa la dice lunga sugli "errori che furono commessi nel corso delle indagini". All'epoca Cavallari fu ritenuto complice del boss Savino Parisi e di alcuni Capriati e per questo accusato di mafia. Assolti i coimputati, è stata dichiarata anche la sua estraneità al contesto mafioso mentre resta la condanna a un anno e quattro mesi per corruzione e reati fiscali. Nel gennaio 2021 il fondatore delle Ccr, le Case di cura riunite, è morto a Santo Domingo a 83 anni.

Avvocati Sassanelli e Malcangi, la sentenza vi ha sorpresi o eravate ottimisti?

"La sentenza della Corte d'appello di Lecce è stata frutto di un percorso pieno di ostacoli nel quale la Procura ha svolto il suo ruolo sino in fondo, facendo tutto quanto nelle sue possibilità per opporsi, giungendo anche a chiedere un rinvio per meglio esaminare le richieste difensive, fino a quando però, con l'onestà intellettuale che le è propria, ha dovuto arrendersi dinanzi a quello che era un atto dovuto da parte della Corte. Per cui possiamo dire che era una decisione inevitabile, ma per nulla scontata soprattutto in considerazione della importanza legata a quella decisione". 

La famiglia Cavallari come l'ha accolta?

"I familiari hanno versato lacrime amare, perché il pensiero è volato al padre e all'amarezza di sapere che non ha potuto assistere al riconoscimento della totale infondatezza di una sua contiguità con contesti mafiosi. Non a caso la prima cosa che hanno fatto i suoi figli è stata quella di recarsi a pregare sulla sua tomba". 

La vicenda avrà strascichi concreti, perché la possibilità per gli eredi di rientrare in possesso di una parte del patrimonio o chiedere un risarcimento allo Stato che gli tolse beni per 350 miliardi di lire non è roba da poco.

"L'unico profilo fin qui considerato dai familiari è stato quello morale, della necessità di rimuovere quel marchio infamante di esser stato, il loro genitore o nonno, il promotore di una associazione mafiosa con i più pericolosi criminali della provincia. Del patrimonio confiscato a suo tempo parlate soltanto voi giornalisti, in realtà, perché i familiari non hanno mai posto questo problema, anche se probabilmente noi difensori oggi dovremo introdurre una riflessione sul punto. Ma è presto per farlo, ora loro sono concentrati sul riscatto morale dell'imprenditore ingiustamente condannato per mafia e trattato come mafioso con una carcerazione preventiva in strutture riservate ai più pericolosi criminali, nonostante le sue precarie condizioni di salute".

A vostro avviso, cosa nell'inchiesta, e nel successivo processo, fu sbagliato?

"La contestazione era certamente errata, come le sentenze successive hanno dimostrato, ribaltando la posizione del dottor Cavallari da vittima della mafia a carnefice e, addirittura, promotore dell'associazione mafiosa immaginata. Come sia stato possibile reputarlo sodale di persone che gli hanno fatto esplodere bombe nelle sue pertinenze non lo si comprende. È certo, però, che all'epoca c'era un clima per nulla sereno e si sono visti episodi che lanciano una luce oscura su quanto accaduto".

A cosa vi riferite?

"Ci pare giusto ricordare la figura di un professionista specchiato, oltre che di un grande giurista, come il professor Gaetano Contento, che rappresentava la difesa del dottor Cavallari e fu messo fuori gioco con una contestazione di infedele patrocinio. Quell'accusa naturalmente sfociò in un nulla di fatto, che però ebbe il risultato di escludere dal processo chi aveva scelto la linea di accertamento della verità, così determinando il crollo di Cavallari. Che poi, pur di chiudere la vicenda, accettò il patteggiamento per associazione mafiosa. Ma è noto a tutti che in quello stato d'animo pur di uscire dal carcere avrebbe patteggiato anche la strage di via dei Georgofili".

Una pagina che ha inevitabilmente segnato la storia della giustizia a Bari.

"Quello che è accaduto, e che oggi è stato finalmente riconosciuto anche a parere della pubblica accusa, è certamente la pagina più brutta fra le ingiustizie consumate nel nostro distretto di Corte di appello e lascia evidentemente l'amaro in bocca, perché la vittima di questa ingiustizia non ha neanche potuto assistere al suo riscatto. Il dottor Cavallari è dovuto morire in esilio come il peggiore dei mafiosi, mentre oggi è stato acclarato quel che in realtà tutti sapevano e cioè che mafioso non lo è mai stato: vittima della mafia, semmai. E un sistema giudiziario che sovverte il principio della innocenza è un sistema che si condanna all'infamia;. Se quella è stata l'operazione denominata Speranza, questa è stata l'operazione verità".

''Francesco Cavallari non è mai stato un mafioso''. La Corte d'appello di Lecce nel processo all'ex presidente delle Ccr di Bari. Norbaonline il 17-11-2022 

Francesco Cavallari, ex re Mida della sanità privata barese morto nel 2021 a Santo Domingo, non è un mafioso: la Corte d'appello di Lecce ha revocato stasera la sentenza di patteggiamento a 22 mesi di reclusione nei suoi confronti, limitatamente al reato di associazione mafiosa, confermandola per gli epsiodi di corruzione e falso in bilancio. I giudici, decidendo sulle richieste di revisione del processo avanzate dai figli di Cavallari, Daniela e Alceste, hanno assolto Francesco Cavallari, ex presidente delle Case di Cura Riunite (Ccr), dall'associazione mafiosa "perché il fatto non sussiste" e hanno rideterminato la pena fissandola ad un anno e quattro mesi di reclusione. La sentenza di patteggiamento della pena di Cavallari risale al 30 giugno del 1995 ed è diventata definitiva il 20 marzo del 1996.

Cavallari è l'unico degli imputati coinvolti nell'operazione "Speranza", sul mai provato intreccio tra mafia, affari e politica nella gestione delle Ccr, ad aver ricevuto una condanna per associazione mafiosa. Nel 1995, infatti, gli fu applicata con patteggiamento la pena a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa, falso in bilancio e corruzione, con conseguente confisca del patrimonio per 350 miliari di lire che derivava proprio dal reato di mafia. Tuttavia, nel corso gli anni, tutti gli altri imputati accusati di associazione mafiosa sono stati assolti. Ultimi, nel maggio 2021, l'ex manager barese delle Ccr Paolo Biallo (deceduto nel dicembre 2019) e il boss mafioso barese Savino Parisi. Da qui la richiesta di revoca dell'applicazione della pena per Cavallari per mafia avanzata dai figli attraverso gli avvocati Gaetano Sassanelli e Mario Malcangi.

La revisione del processo potrebbe aprire la strada alla restituzione dell'ingente patrimonio confiscato o una domanda di risarcimento per i danni subiti.

"Un sistema giudiziario che sovverte il principio della innocenza è un sistema che si condanna all'infamia. Come difensori oggi c'é molto poco di cui esser contenti perché si è certificata la più grossa ingiustizia consumata nel nostro distretto di Corte di appello, senza che la vittima di questa ingiustizia abbia potuto assistere al suo riscatto". E' il duro commento dell'avv.Gaetano Sassanelli, uno dei due legali dei figli dell'ex presidente delle Ccr di Bari. "Il dottor Cavallari", rileva Sassanelli, "è stato lasciato morire in esilio come il peggiore dei mafiosi ed oggi invece è stato finalmente ufficializzato quel che in realtà tutti sapevano e cioè che mafioso non lo è mai stato. Se quella è stata l'operazione "Speranza", questa è stata l'operazione Verità".

È morto da colpevole ma era innocente. Francesco Cavallari assolto troppo tardi. L’imprenditore pugliese non era un mafioso. La revisione del processo lo ha riabilitato solo dopo il decesso, avvenuto due giorni prima del rientro in Italia: per anni è stato costretto a vivere in “esilio. Valentina Stella su Il Dubbio il 18 novembre 2022.

Francesco Cavallari, ex presidente delle Case di Cura Riunite di Foggia, considerato il “re Mida” della sanità privata barese, non è/era un mafioso. Lo ha stabilito due giorni fa la Corte d’Appello di Lecce accogliendo la richiesta di revisione del processo avanzata dai figli Daniela e Alceste Cavallari, assistiti dagli avvocati Vittorio Manes, Gaetano Sassanelli e Mario Malcangi. La Procura generale, dopo molte tribolazioni, come ci spiega proprio Sassanelli, «ha aderito alla nostra richiesta e ha ritenuto, queste le sue parole, il nostro ragionamento giuridico inconfutabile».

Il legale, al margine della decisione, ha rilasciato dichiarazioni molto dure: «Un sistema giudiziario che sovverte il principio della innocenza è un sistema che si condanna all’infamia. Come difensori oggi c’è molto poco di cui esser contenti perché si è certificata la più grossa ingiustizia consumata nel nostro distretto di Corte di appello, senza che la vittima di questa ingiustizia abbia potuto assistere al suo riscatto». Cavallari, infatti, è morto purtroppo lo scorso anno a Santo Domingo, all’età di 83 anni, dove continuava a professare la sua innocenza. Malato da tempo, era ancora in attesa della revisione del processo, soprattutto in seguito all’assoluzione di tutte le altre persone coinvolte.

«Il dottor Cavallari – ha spiegato ancora Sassanelli – è stato lasciato morire in esilio come il peggiore dei mafiosi ed oggi invece è stato finalmente ufficializzato quel che in realtà tutti sapevano e cioè che mafioso non lo è mai stato. Se quella è stata l’operazione “Speranza” questa è stata l’operazione “Verità”». I giudici di Corte di Appello, nel dettaglio, hanno revocato la sentenza di patteggiamento a 22 mesi di reclusione nei suoi confronti, limitatamente al reato di associazione mafiosa, reato per il quale non è potuto rientrare in Italia per l’ostatività della condanna. Confermata invece per gli episodi di corruzione e falso in bilancio. I giudici hanno rideterminato la pena fissandola a un anno e quattro mesi di reclusione. La sentenza risale al ’95, diventata definitiva nel ‘96. La revisione del processo potrebbe aprire la strada ora alla restituzione dell’ingente patrimonio confiscato (pari a 350 miliardi lire) e/o una domanda di risarcimento per i danni subiti. Questa vicenda, ci spiega Sassanelli, risale agli anni ’90: «Questo procedimento giudiziario è in parte figlio del clima dell’epoca. Allora spesso l’azione penale non era esercitata come strumento di accertamento dei reati ma come strumento di lotta anche politica, se non addirittura di vendetta».

In quel clima «si sviluppò una forte ostilità nei confronti dell’imprenditore che in realtà aveva creato un sistema sanitario privato di eccellenza che aveva abolito i viaggi della speranza. Chi voleva curarsi anche per gravi malattie non era più costretto ad andare in altre regioni o all’estero. Inoltre le sue cliniche davano lavoro a migliaia di dipendenti». Questo successo dell’imprenditore Cavallari «ha dato parecchio fastidio politicamente ed è iniziata un’opera di delegittimazione nei suoi confronti». Poi arrivò l’arresto all’alba del 28 marzo 1995 per 416bis, a seguito di una inchiesta condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari, insieme con la Dna. Secondo l’accusa era il promotore di una associazione mafiosa, creata insieme ai più pericolosi criminali di Bari e provincia, finalizzata, attraverso atti intimidatori, a procurare vantaggi per le sue attività e per intimidire i concorrenti.

«Fu condotto nel carcere duro di Pisa, nonostante fosse afflitto da una grave malattia cardiaca che gli costò anche un’operazione durante la detenzione. Durante il trasferimento l’uomo si sentì male ma il trasferimento proseguì egualmente. E rimase in prigione diversi mesi. Poi perse anche il suo primo avvocato, il professor Gaetano Contento, estensore del ricorso per Cassazione contro l’ordinanza di custodia cautelare che fu annullata sui gravi indizi dagli ermellini. Il legale, molto stimato sul piano umano e professionale, fu costretto a rimettere il mandato difensivo perché fu ingiustamente, come i fatti hanno dimostrato, messo sotto processo per infedele patrocinio». In questa situazione, «che dal punto di vista di Cavallari era una tortura – avvocato storico impossibilitato a difenderlo e carcerazione prostrante –, l’uomo crollò e decise di rendere dichiarazioni autoaccusatorie pur di recuperare la libertà. Confessò la corruzione ma si disse sempre innocente per l’accusa di mafia. Poi però – ha sempre raccontato – gli fu prospettato un patteggiamento con sospensione della pena anche per il 416bis che prevedeva anche la restituzione dei beni sequestrati. In realtà poi il patrimonio venne confiscato e le cliniche fallirono. Cambiò letteralmente la storia della città di Bari, perché moltissime persone persero il lavoro».

In realtà, spiega ancora Sassanelli, Cavallari fu vittima della mafia: «Gli fecero esplodere delle bombe, quelle vere, perché, tra l’altro, la criminalità organizzata voleva estorcergli anche assunzioni». Dopo il patteggiamento, Cavallari si trasferì a Santo Domingo: «Con una condanna per mafia, decise di lasciare l’Italia. Nel prosieguo – continua Sassanelli – sono diventato il suo legale ed avevo organizzato il suo rientro in Italia in quanto era gravemente malato e non poteva curarsi in loco: due giorni prima che prendesse il volo già acquistato purtroppo è morto. In esilio, senza che abbia potuto assistere al riscatto della sua immagine».

  «Vi racconto 20 danni da ex Ccr. Ora sogno una pizza con la famiglia». Francesco Capriati è uno dei 245 lavoratori ex Case di Cura Riunite che torneranno ad essere impiegati a tempo pieno con un bando riservato, dopo oltre vent’anni di tribolazioni. Michele De Feudis su Il Corriere della Sera il 18 gennaio 2017. 

«Per anni mi sono sentito sempre insoddisfatto. A disagio. Fuori posto. I miei figli mi facevano notare le possibilità degli altri genitori, ed io soffrivo per non poterli accontentare. Ora per me e la mia famiglia inizia una nuova vita»: Francesco Capriati è uno dei 245 lavoratori ex Case di Cura Riunite che torneranno ad essere impiegati a tempo pieno con un bando riservato, dopo oltre vent’anni di tribolazioni. Francesco, 48 anni, vive a Japigia e la sua testimonianza consente di ricostruire l’Odissea di centinaia di famiglie baresi: è stato in cassa integrazione dal 1994 al 2002 e fino al 2014 in mobilità. Da due anni era disoccupato.

Signor Capriati, come ha iniziato a lavorare nelle Cliniche Riunite?

«Molti avevano un aggancio politico. Io “piantonavo” la villa del presidente delle Ccr, Francesco Cavallari, su Corso Alcide De Gasperi. Sapevamo che aiutava i disoccupati».

Come fu selezionato?

«Nessuna selezione. Una mattina, dopo tanti giorni di presenza all’ingresso della casa, Cavallari scese dall’auto e chiese: “Che stai a fare?”. “Vorrei lavorare”, risposi. Prese il nominativo e mi fece chiamare dall’ufficio personale».

Siamo all’inizio degli anni 90. Con che mansioni fu assunto?

«Avevo vent’anni. Facevo il dispensiere di cucina alla Santa Rita 2, poi…».

L’inchiesta giudiziaria ha cambiato tutto?

«E’ stata una mazzata. Ha stravolto la mia vita e quella dei miei colleghi. Ci sono decine di famiglie straziate, separazioni, tanti in depressione».

Cosa significava essere assunti alle Ccr nella Bari di inizio anni Novanta?

«Si aveva la certezza del posto fisso, di essere al sicuro nell’impero della sanità barese».

Ha vissuto invece tante disavventure.

«Per anni, insieme ai colleghi siamo stati sempre illusi. Rifiutavamo occasioni lavorative perché ricevevamo assicurazioni che ci avrebbero sistemato… Ma in tanti anni non è mai “uscito” niente per noi».

I concorsi?

«Sì, ne ho fatti due. Solo la graduatoria dell’Oncologico resta in piedi, ma non sono stato mai chiamato».

Cresceva la delusione.

«Gli altri andavano avanti e noi rimanevamo immobili. All’inizio prendevo uno stipendio di 800mila lire. Mi sentivo un re. Poi con la cassa integrazione ricevevo circa mille euro. E non ero contento».

Perché?

«Si parla tanto di reddito di dignità, ma io non voglio sussidi. Voglio lavorare».

Quanti sacrifici ha compiuto in questi anni?

«Ha patito soprattutto la mia famiglia. Mi sentivo un fallito. Ho provato tante umiliazioni ma non potevo mollare».

Cosa ha pesato di più per il buon esito finale?

«La nostra tenacia.Con la Usppi di Nicola Brescia al fianco abbiamo costretto la politica ad affrontare il nostro problema».

Che ricordo ha di Francesco Cavallari, già deus ex machina della Ccr?

«E’ stato una grande persona. Se Bari avesse avuto un altro Cavallari non sarebbe così ridotta. Ci sarebbe molto più lavoro. Era un imprenditore coraggioso. Noi lo chiamavamo “il presidente”. E continuiamo a serbargli gratitudine».

A chi ha comunicato per primo la lieta notizia del ritorno all’impiego?

«A mia madre. Era disperata per avere un figlio disoccupato a cinquant’anni. Le ho detto: “Mamma è finita. Ora avrò un lavoro vero”. Lei ha pianto».

Cosa farà con il primo stipendio? Ha un piccolo sogno da realizzare?

«Andrò a mangiare una pizza fuori con la famiglia. Sembra una cosa semplice, ma in passato non è stata mai scontata».

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli. Il Corriere della Sera l’8 maggio 2014 Angelo Rossano

È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci».

Francesco Cavallari

E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis.

Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80.

Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria. 

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

C’era una volta il «mafioso» Cavallari. Ecco l’immenso patrimonio che «Cicci» vuole indietro, scrive Carmela Formicola su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 23 settembre 2015. Cravatte jacquard, all’epoca si usava così. Si diceva ne avesse 12 tutte uguali. E anche 12 costose regimental. E almeno 12 o forse 24 maglioncini di cashmere, da usare nelle occasioni informali. Ai ricchi piace la dozzina, come unità di misura. Chissà perché. E Francesco Cavallari era indiscutibilmente un uomo ricco (magari lo è anche oggi ma la circostanza al momento non ci riguarda). Ricco, ricchissimo. Si narra che all’epoca d’oro del Teatro Petruzzelli - gestione Ferdinando Pinto - il re della sanità privata barese avesse regalato agli amici un viaggio in Egitto, con volo charter, per andare a vedere l’Aida alle Piramidi. Non tutti, della comitiva, apprezzavano Giuseppe Verdi, ma questo è un dettaglio. E quella era tutta un’altra epoca, aurea e opulenta un fiorire di accordi e amicizie, carriere e palazzine, di soldi e bella vita. Altro che i tempi uggiosi e striminziti di oggi, questo anemico orizzonte che ti tocca a meno che non sia tra i truculenti speculatori di Roma Capitale (che però anche quelli una bella fine non la stanno facendo). Quando lo chiamavano Re Mida - Francesco Cavallari, nel 1994, quando i primi magli della magistratura cominciarono a colpire, era proprietario non solo delle mitiche Case di cura riunite (ben dieci cliniche e una undicesima in costruzione) ma anche di una serie di società quali Oncohospital, Magida, Immobil D, Immobil M, Immobil Ag, Immobilgero, Gerohospital, Cardiohospital e altre ancora. Poi c’erano le ville e gli appartamenti, i titoli, i conti correnti, le automobili, le collezioni d’arte, le lire, i marchi, le sterline. Ma gran parte di questo patrimonio, com’è noto, è stato confiscato dalla magistratura nel dicembre 1996. Sono bastati circa due anni alla Giustizia per azzerare non solo un impero ma anche un pezzo di storia barese. Perché «Cicci», come lo chiamavano gli intimi, è stato un autentico personaggio, amato ed odiato, sfruttato, forse sfruttatore, per taluni generosissimo, per altri uno squalo. L’intreccio mafia politica affari - Una «triangolazione», l’avevano chiamato i giudici inquirenti, l’intreccio fatale tra impresa, politica e mafia. Mafia, già. Roba seria. Difatti Cavallari il 30 giugno 1996 patteggia una pena a un anno e dieci mesi di reclusione per associazione mafiosa. Secondo i magistrati l’imprenditore avrebbe «promosso diretto e organizzato tra il 1985 e il 1994 un’associazione per delinquere di stampo mafioso assieme ai pluripregiudicati Savino Parisi e Antonio, Mario e Giuseppe Capriati con la partecipazione di altre 25 persone». Il paradosso - Ma a distanza di anni e anni (quando forse di Cavallari, cliniche, triangolazioni, tangenti vere o presunte ci eravamo scordati tutti) l’ex imprenditore - che oggi simpaticamente gestisce (!) una gelateria a Santo Domingo - chiama i suoi avvocati e chiede: scusate, sbaglio o sono l’unico condannato per mafia in quel dannato procedimento? E i legali gli confermano che non sbaglia affatto. Perché la grande inchiesta sulla sanità privata culminata nel 1995 negli arresti della cosiddetta «Operazione Speranza» (allusione all’aria pulita che finalmente si sarebbe tornata a respirare dopo gli anni plumbei delle gestioni amicali) alla fine si è sciolta nel nulla. Qualcuno, con sintesi giornalistica, l’avrebbe definita «flop», almeno in termini di risultato finale. Qualche proscioglimento, qualche assoluzione, qualche prescrizione e del grandioso impianto accusatorio rimasero le ceneri. Possibile? Sì, e ancora oggi gli osservatori si domandano se fosse frettolosa, paranoica o peggio «politica» l’accusa, se sia invece stata morbida la magistratura giudicante, se siano stati prodigiosi gli avvocati degli imputati. Tant’è. Quel che è fatto è fatto. Come si fa un’associazione mafiosa da solo? - Ma torniamo a Cavallari che tra le palme e le noci di cocco, nella beatitudine dei Caraibi a un certo punto comincia a domandarsi: non ho capito, sono io l’unico fesso? Pardon: colpevole? Lui, informatore scientifico, compìto, sorridente, cattolico, un self made man che nel buen retiro dominicano intuisce la logica stringente del sillogismo aristotelico senza nemmeno averlo studiato, Aristotele. Il codice penale è moto chiaro. All’articolo 416 recita: «Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti...». Il 416 bis connota l’associazione di stampo mafioso. In ogni caso, per dar vita a un’associazione per delinquere, mafiosa o meno, bisogna essere almeno «tre o più persone». Cavallari a questo punto del ragionamento si chiede: ma se non ci sono altri condannati, con chi l’avrei fatta io questa cavolo di associazione mafiosa? Alcune buone ragioni per chiedere la revisione - Decidere di chiedere la revisione del patteggiamento significa per Cavallari riprendersi un paio di cose fondamentali: la dignità. E i soldi. Se i giudici stabilissero che Cavallari non è mafioso, verrebbe meno anche l’ordinanza di confisca dei suoi beni, emessa in base alla normativa antimafia. Sacrosanto: sei mafioso? Ti tolgo i soldi, che sicuramente hai guadagnato in maniera illegale. Ma all’ex Re Mida della sanità pugliese non interessa soltanto la possibilità di riavere indietro l’ingente patrimonio confiscato (i soldi non sono mai troppi, anche Pablo Picasso diceva: «Mi piacerebbe vivere come un povero ma con un sacco di soldi»). C’è dell’altro, c’è di più. Cancellare il reato di associazione mafiosa significa riprendersi un pezzo di vita. La soddisfazione di dire: avevo ragione quando dicevo che non ero mafioso, che c’era un teorema, un accanimento contro di me. Una questione di immagine, oltre tutto, e per la borghesia, certe volte, l’immagine conta più dei soldi. Corte d’appello, Cassazione e ritorno - Così Cavallari, assistito da due avvocati-mastini (il tranese Mario Malcangi, relativamente giovane ma soprattutto agguerrito e il luminare della legge professor Franco Coppi, già legale tra l’altro di Giulio Andreotti) chiede la revisione del patteggiamento. Revisione che riceve dai giudici della Corte d’Appello di Lecce un granitico «No». La Corte di Cassazione, tuttavia, cui la difesa dell’ex imprenditore ricorre, rispedisce le carte a Lecce. «Vedete bene», sussurra in soldoni la Suprema corte. E il 18 settembre scorso i giudici d’Appello leccesi hanno deciso di acquisire la sentenza di patteggiamento e tutti i verbali del procedimento concluso nel ‘96. I giudici torneranno a riunirsi a metà gennaio, in seguito potrebbero decidere di rideterminare la pena inflitta all’ex presidente delle Ccr e di eliminare dunque il reato di associazione mafiosa. Ma è il copione di Punta Perotti? - La storia si ripete. Qualora la Corte d’Appello di Lecce accogliesse le richieste di Cavallari ci sembrerebbe di assistere a qualcosa di già visto. «Assolti e confiscati» è il titolo che Michele Matarrese ha dato al suo libro autobiografico, un titolo che ha dentro l’ossimoro di una vicenda giudiziaria surreale: i costruttori di Punta Perotti, nel lungo e controverso procedimento giudiziario, sono stati a un certo punto assolti dall’accusa di lottizzazione abusiva. Tuttavia gli scheletri di Punta Perotti sono rimasti sotto confisca, e poi abbattuti in uno show mediatico-politico che tutti ricordiamo. A quel punto la famiglia Matarrese ha dovuto costruire un impianto giudiziario internazionale, perfino più tenace del cemento armato, per sentirsi dire alla fine, ma molto alla fine, e sempre con la lieve smorfia del dissenso legalistico: va bene, forse avevate ragione voi. Risultato: prima o poi l’amministrazione dovrà risarcire i costruttori degli edifici (abbattuti) di Punta Perotti e magari restituirgli i suoli dove oggi si stende la verde spianata della giustizia. O ingiustizia. Punti di vista. Una stagione indimenticabile - Non a caso sia il caso Punta Perotti sia l’affaire Ccr (ma non dimentichiamo l’oscura storia del rogo doloso del teatro Petruzzelli) maturano sostanzialmente nella stessa stagione. Si nutrono di un humus, pescano negli stessi ambienti, in quella Bari sull’orlo del grande salto di qualità, pronta a cambiare pelle e a dire basta al marchio/stereotipo «bottegai, commercianti, levantini, palazzinari», no, no: noi siamo ben altro! Ma qualcosa si è inceppato nel meccanismo del revanchismo. Le cause? Mah, bisognerà chiederlo ai sociologi, agli economisti, agli intellettuali. Tribunale, il palazzo dei passi perduti - Da cronisti possiamo solo fare un salto all’indietro, nei corridoi del palazzo di Giustizia di piazza De Nicola. Qualcuno riteneva di avere buoni amici tali da coprire le audacie? Qualcun altro aveva deciso di vestire i panni del giustizieredellanotte e fare piazza pulita di ogni illecito anche solo sospetto? Sospetti, veleni e fango, di fatto, alla metà degli anni Novanta, si sono consumati nei corridoi (e non solo) della giustizia barese. Ma sono cicli destinati a ripetersi, né possiamo dimenticare che spazzata via la (presunta) triangolazione che governava la sanità privata convenzionata pugliese, non siano venute altre batoste giudiziarie, in epoca più recente, a raccontarci crudamente che forse una sanità scevra da interessi non esisterà mai. Vuoi che da qualche parte della Puglia, in questo stesso istante, non sia all’opera il Tarantini di turno pronto a tentare di corrompere qualcuno per piazzare le protesi commercializzate dalla sua società magari intestata a un cugino lontano? Ah, quante cose abbiamo visto noi umani...E se dovessero restituirgli tutto? - Ma torniamo a Francesco Cavallari. E al suo patrimonio. Le gloriose, eleganti, efficientissime cliniche private sono diventate patrimonio della Cbh. Qualcuna ha chiuso, qualcun’altra è stata accorpata, altre sono state riconvertite. Ci sono stati procedimenti civili e poi scioperi, proteste, cassintegrati, interrogazioni parlamentari. In più la tecnologia ha rifatto il giro del mondo e le leggi sono cambiate. Morale: difficilmente, qualora Cavallari rientrasse in possesso delle quote societarie delle sue antiche società, il polo sanitario privato potrebbe rinascere con quella struttura e quell’organizzazione. Poi ci sono le quote delle società edili e immobiliari. L’ex presidente delle Case di cura riunite le cliniche se le costruiva da solo, con le sue aziende. Così non solo erano floride le sue attività sanitarie ma lo era anche il suo business edilizio. Ma questi, lo abbiamo già detto, sono tempi cupi, la crisi ha messo in ginocchio moltissime imprese edili, sono sopravvissuti soltanto i grandi e una marea di gente sta a spasso. E che dire della sfarzosa villa di corso De Gasperi? Oggi è occupata dalla Guardia di Finanza, che ha sistemato certi tristi armadietti di metallo e la macchina per le fotocopie accanto al camino bianco con le colonnine doriche. Che fai: sfratti le Fiamme Gialle? Cose che solo in Italia possono succedere. Ma queste sono tutte congetture. Una volta rientrato in possesso del suo immenso tesoro, Francesco Cavallari potrebbe:

a) tornare sulla scena sociale ed economica barese come una consumata primadonna, quale di fatto è già stato;

b) rinchiudersi in uno dei suoi lussuosi appartamenti o delle sue sontuose ville e fare il nonno felice.

(C’è anche una terza opzione: restare a Santo Domingo, in compagnia della sua giovane compagna dominicana, continuare a servire il buon gelato italiano e mandare tutti a quel paese, che magari dà ancora più soddisfazione). Ville, appartamenti e poi, come ogni ricco che si rispetti, Cavallari aveva anche un bel parco macchine, una Maserati, una «collezione di beni d’interesse storico e archeologico», come annota il giudice nell’ordinanza di confisca. E ancora quote societarie, titoli, conti correnti. Un tesoro intestato anche ai figli Daniela, Marco e Alceste Giancarlo e alla moglie, Grazia Biallo, che lo lasciò intensamente provata dallo scandalo. In una effervescente intervista rilasciata in esclusiva alla Gazzetta del Mezzogiorno nel luglio 2013, Cavallari ammise: «Sì sono ancora innamorato di mia moglie. Le ho detto che finiremo la nostra storia insieme». Una boutade? Chissà...Francesco Cavallari, nel tempo, ha affinato le sue doti di comunicatore, che sono sempre state il suo punto di forza, fin dall’epoca dei giri faticosissimi che toccano a ogni informatore scientifico che si rispetti, epoca in cui - si narra - manteneva il sorriso anche dinanzi alle porte sbattute in faccia. Ma ora si è fatto più acuto, più sottile, più ironico. Nelle rarissime dichiarazioni pubbliche è stato chiaro a tutti quanti messaggi cifrati stesse inviando a personaggi di ogni genere, pesci grandi e piccoli, amici, ex amici, vecchi nemici, uomini e donne. E ai magistrati, ovvio. Dalla donna che per prima lo fece arrestare (l’attuale procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto) al suo più grande accusatore (Alberto Maritati, già procuratore nazionale antimafia aggiunto poi anche sottosegretario di un governo di centrosinistra), fino a uno dei giovani pubblici ministeri che firmò le richieste di arresto dell’«Operazione Speranza» (Michele Emiliano, l’attuale presidente della Regione Puglia). E adesso? Il 2016 potrebbe essere l’anno della cancellazione del reato di associazione mafiosa, della restituzione dei beni confiscati e del trionfale ritorno a Bari. E - chi può dirlo? - delle clamorose rivelazioni che, 22 anni dopo l’arresto, a 77 anni d’età, Cavallari potrebbe infine decidersi a fare. Raccontando davvero la storia che solo qualcuno conosce, che solo in pochi hanno intuito. I pochissimi amici che gli sono rimasti accanto in tutto questo tempo (tanti altri hanno preso il volo dopo il rovesciamento di fortune) parlando di «Cicci» amano citare una canzone di Francesco De Gregori, «Il panorama di Betlemme», quando il vecchio soldato sul campo di battaglia dice «... io non sono quel tipo di uomo che si arrende senza sparare». Ecco, questo era (forse è ancora) Francesco Cavallari, l’uomo in doppiopetto e cravatta che con la ventiquattrore di similpelle girava come una trottola dal lunedì e al sabato e la domenica andava a messa con le suore negli istituti religiosi, preparando in cuor suo la grande scalata alle vette del successo. Dei beni che forse un giorno lo Stato gli restituirà, anche la villa di Rosa Marina (attualmente occupata da un’associazione che di tanto in tanto porta i disabili al mare): «Qui passerò i miei prossimi 50 anni di vita», confidò fiducioso Cicci alla Gazzetta nel luglio 2013. Contento lui.

·        Il Caso Contrada.

A 92 anni Bruno Contrada dovrà attendere ancora per il dovuto risarcimento. Dopo trent'anni di processi, e una illegittima detenzione riconosciuta dalla Cedu, la corte di appello di Palermo si prende un altro mese di tempo per decidere se risarcire Bruno Contrada. Annarita Digiorgio il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dovrà aspettare ancora un mese Bruno Contrada per sapere se potrà usufruire del risarcimento per ingiusta detenzione che gli ha riconosciuto la Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Trent’anni di processi non sono bastati per mettere un punto al calvario giudiziario di un uomo di 92 anni ingiustamente condannato e rinchiuso in carcere per dieci anni.

Bruno Contrada, alto funzionario del Sisde, fu arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Dopo sentenze annullate, confermate e smentite, nel 2007 è stato condannato a dieci anni di reclusione, quasi tutti poi scontati in galera, per concorso esterno in associazione mafiosa. Un reato che nel codice penale non esiste.

Nel 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha detto che quella condanna non aveva motivo di essere, stabilendo che Contrada non andava né processato né condannato. Mentre a essere condannato dalla Corte di Strasburgo è stato lo Stato italiano "per un reato che non esisteva nel Codice penale italiano all'epoca in cui avrei commesso i fatti contestati”.

Il governo italiano aveva anche presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale pronuncia ma era stato respinto.

La Corte d'Appello di Palermo a quel punto ha riconosciuto all'ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro.

Ma la Procura di Scarpinato si era appellata e nel gennaio 2021 la Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza di risarcimento.

E cosi oggi il procedimento è tornato alla corte di Appello di Palermo.

Contrada, 92 anni, con gravi problemi di salute, stamattina era in aula. Ma quando il procuratore Marzilla, opponendosi alla richiesta di risarcimento, ha iniziato a elencare le vecchie condanne già disconosciute dalla Cedu, Contrada non ci ha visto più e ha iniziato a inveire in aula. E mostrando al procuratore il suo certificato penale ha esclamato: "Ecco a lei il mio certificato penale: E' nullo! io sono stato assolto. Io sono incensurato come risulta dal certificato. Ha capito? Lei mi accusa di cose non vere”.

Che io debba sentire un pg che ripete tutte le accuse che sono state cancellate non solo dalla corte europea, per cui ero stato sottoposto a pena disumana, è degradante e mi fa ribollire il sangue. Contro di me - ha raccontato Contrada - è stato fatto un processo iniquo. Ho ricevuto le infami accuse di criminali mafiosi da me contrastati per anni. Io Ho lottato per più di 30 anni contro criminali che mi hanno poi accusato. Criminali come Gaspare Mutolo e come Tommaso Buscetta".

"E' inutile rivolgersi alla Corte di Strasburgo dove i tempi medi per una sentenza superano ormai i dieci annise poi l’Italia non esegue le sentenze" ha commentato il suo avvocato "per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezione".

Condannato è lo Stato, ma non vuole risarcire l'ingiusta vittima.

L'ex poliziotto contro il pg. Contrada urla la propria innocenza: “Sono senza macchia!”, ma dopo 30 provano a metterlo sul banco degli imputati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Dicembre 2022

Costretto ancora a gridare la propria innocenza, a 91 anni e a trenta dal proprio arresto, di nuovo in un’aula giudiziaria, Bruno Contrada si arrabbia e sventola con piglio la carta che ne certifica il suo stato di incensurato. Quasi in faccia a un procuratore che cerca di metterlo di nuovo sul banco degli imputati. Come se, dopo trent’anni, il processo per concorso esterno in associazione mafiosa dovesse cominciare da capo. Siamo a Palermo, ancora e ancora.

In corte d’appello, dove colui che fu il poliziotto più brillante della città, ammazzato e messo in manette dall’invidia prima ancora che da una strampalata inchiesta giudiziaria, è di nuovo a chiedere quel che gli è dovuto. Il risarcimento per l’ingiusta detenzione, dopo che ormai sette anni fa la Corte Europea per i diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano per aver arrestato, tenuto in galera, processato e condannato ingiustamente questo suo fedele servitore. E ora siamo qui, dopo i vari rimbalzi tra appelli e cassazioni, con un risarcimento per ingiusta detenzione già fissato in 667.000 euro, ma poi annullato e poi ancora deliberato. In queste aule che furono il feudo di Roberto Scarpinato, che non si è arreso dopo aver perso clamorosamente il “processo trattativa”, tanto che ci ha scritto sopra un libro e poi ha anche portato in Senato il disappunto per la sua sconfitta professionale. Un triste modo di andare in pensione, comunque.

Il pg che fa saltare per aria l’indignazione di Bruno Contrada si chiama Carlo Marzella. La sua posizione, e quella della Procura generale nei confronti dell’ex numero uno della squadra mobile è considerata “ovvia” dall’avvocato Stefano Giordano: “…d’altra parte, da quando c’era Roberto Scarpinato, ha sempre perseguitato il dottor Contrada”. Non solo persecuzione però, perché ci vuole anche una certa cattiveria, una certa voglia di ferire anche la dignità di quest’uomo che è stato privato di tutto, a partire dalla libertà. Ce lo ricordiamo, solitario nel carcere militare, sorvegliato da venti uomini in divisa. E il processo non arrivava mai, e poi un po’ assolto un po’ condannato, sempre per l’evanescenza del concorso esterno, finché la Cedu non ha detto all’Italia “adesso basta”, restituite questa vittima alla sua vita.

Lui si è fatto sentire, nell’aula di Palermo. In faccia all’impassibile Marzella. “Ecco a lei il mio certificato penale, è nullo. Io sono stato assolto. Sono incensurato, come risulta dal certificato. Ha capito? Ha capito o no?”. Chissà se qualcuno in quell’aula è arrossito, davanti a questo novantenne un po’ malfermo sul suo bastone, che trova però la forza di alzarsi e andare a sventolare il simbolo della sua vita immacolata che qualcuno ha voluto macchiare. Non c’è in quest’aula l’ex pm Antonio Ingroia, che lo volle in ceppi la vigilia di Natale del 1992, dopo aver raccolto le vociferazioni di qualche “pentito” imbeccato male, perché raccontava di salette riservate di ristorante che non c’erano, di anfore mai trovate e amanti inesistenti. Ingroia che si era esibito in una requisitoria lunga ventidue udienze, e che anni dopo e in seguito a non brillanti carriere come politico e come avvocato, continuava a dire che Contrada era colpevole, se non di mafia, almeno di favoreggiamento. E ne stiamo parlando ancora trent’anni dopo?

La verità è che in quell’anno 1992, quello in cui la mafia alzò il tiro fino a uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un po’ tutti avevano perso la testa a Palermo, e non solo a Palermo, visto che il Parlamento votò le leggi emergenziali le cui conseguenze negative subiamo ancora oggi. E l’arresto di un brillante investigatore in carriera come Contrada fu occasione di lotte furibonde e di faide all’interno del mondo delle divise e delle toghe. Il capo della mobile era sulle tracce del latitante Bernardo Provenzano, e dopo il suo arresto furono messi da parte tutti gli uomini che lavoravano in quella direzione. Tutto alle ortiche, meglio ascoltare le solite chiacchiere da ballatoio, riferite “de relato” di qualche collaboratore. “Intendo solo essere reintegrato nei miei diritti” ha detto a Palermo Bruno Contrada con dignità.

“Che io debba sentire un pg che ripete tutte le accuse che sono state cancellate non solo dalla Corte europea, per cui ero stato sottoposto a una pena disumana e degradante, mi fa ribollire il sangue. Contro di me è stato fatto un processo iniquo, ho ricevuto le infami accuse di criminali mafiosi, da me contrastati per anni. Io ho lottato per più di trent’anni contro criminali che mi hanno poi accusato”. Diamogli ancora la parola, prima di metterci in attesa della decisione della corte d’appello che arriverà tra un mese. “Ascoltando le parole del pg io dovrei stare seduto sulla panca destinata agli imputati”. Ma Bruno Contrada come sempre si è alzato in piedi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La fatwa dell’antimafia: «È il legale di Contrada, non può partecipare». L'avvocato siciliano "censurato" perché difensore dell'ex 007 al premio dedicato alla memoria di suo padre, giudice del maxiprocesso. Lo sfogo: «Pregiudizi miserevoli». Simona Musco su Il Dubbio il 3 Agosto 2022

«Questa associazione ha annullato la presenza dell’avvocato Stefano Giordano avendo appreso che lo stesso cura professionalmente parte delle controversie del dottor Bruno Contrada». L’incredibile frase appena riportata è contenuta in un comunicato stampa reso pubblico dall’associazione “Amici di Onofrio Zappalà”, che ha deciso di escludere dalla serata del Premio Zappalà 2022 l’avvocato, figlio del giudice Alfonso Giordano, colui che presiedette il maxiprocesso contro la mafia a Palermo. Una scelta dettata dall’attività professionale di Giordano, “reo” di difendere Contrada, «ufficiale di Polizia – continua la nota stampa -, funzionario e agente del Sisde, associato a presunti rapporti tra i servizi segreti italiani e criminalità, culminati proprio nella strage di Via D’Amelio dove morì il giudice Paolo Borsellino e condannato in passato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia con sentenza del 2007».

Una sentenza poi ribaltata nel 2017, quando la Cassazione, nel processo di revisione, annullò senza rinvio la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, dichiarandola «ineseguibile e improduttiva di effetti penali», poiché al tempo non era previsto il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma il semplice sospetto basta a spingere l’associazione a prendere le distanze, perpetuando l’antipatica convinzione che il difensore sia comunque colpevole degli eventuali reati commessi dai propri assistiti. In questo caso, perfino quando quel difensore è chiamato a rappresentare – perché sangue dello stesso sangue – la memoria di un uomo, come Alfonso Giordano, che la mafia la contrastò a colpi di sentenze. «Pur nella piena rispettabilità dell’avvocato Giordano – continua dunque la nota -, che in maniera del tutto legittima offre le sue prestazioni professionali ad un imputato per mafia (fatto non vero, ndr), non riteniamo conveniente la sua presenza per motivi di opportunità, visto che parliamo apertamente di mafia, depistaggi e servizi segreti deviati dello Stato. La presenza di Salvatore Borsellino ne accentua tale disagio, visti i tempi di azione ed il tipo di reati a suo tempo contestati».

A spiegare come sono andati i fatti è proprio Giordano, che racconta al Dubbio la telefonata ricevuta a ridosso dell’evento, al quale, ovviamente, non ha più preso parte. «Questo premio veniva conferito alla mia memoria di padre da due associazioni, tra le quali “I Marinoti” – racconta -, i quali mi hanno contattato dicendomi che l’associazione “Agende Rosse” aveva messo un veto sulla mia partecipazione. Da qui ho ovviamente deciso di non presentarmi, pensando che la cosa comunque rimanesse riservata. Quando ho letto il comunicato stampa mi è parsa una presa di distanza: il problema è che io abbia difeso e difenda ancora Contrada, come difendo tante altre persone, innocenti e colpevoli. Io sono un penalista, un docente universitario di diritto penale e mi hanno insegnato che è diritto/dovere garantire la difesa e farlo con i mezzi stabiliti dalla legge. E questo io faccio: sono una persona corretta e perbene e mio padre era molto fiero del mio lavoro».

Il comunicato stampa ha spinto Giordano a replicare pubblicamente, spiegando che la sua mancata partecipazione alla manifestazione è stata «il risultato di una mia scelta personale, non appena ho appreso che alla manifestazione avrebbe preso parte il signor Salvatore Borsellino, con il quale – per molteplici ragioni – non ho mai inteso e non intendo condividere alcuna occasione d’incontro». Ma le esternazioni delle due associazioni hanno colpito soprattutto il lato professionale dell’avvocato siciliano: «Non solo le allusioni e le affermazioni riferite al mio assistito sono radicalmente false (il dottor Contrada non è affatto “imputato per mafia”) o comunque destituite di qualsiasi evidenza probatoria (i “presunti” rapporti tra i servizi segreti e la mafia che coinvolgerebbero il dottor Contrada). Ma – per quanto qui mi interessa – quella che costituisce una funzione garantita dalla Costituzione (l’esercizio del diritto di difesa) viene svilita e anzi considerata come una “macchia” che deturpa la mia persona e la mia professionalità, rendendomi indegno – nella sostanza – di rappresentare mio padre Alfonso Giordano in una serata a lui dedicata. La maggior parte degli avvocati è corretta e leale ed è una figura essenziale ai fini dell’accertamento della verità – aggiunge al Dubbio -. Quindi che si consideri il professionista incapace di parlare di legalità, di giustizia e di fenomeni criminali perché è un difensore è frutto di una cultura profondamente errata e miserevole».

Il tutto, per giunta, “riducendo” i suoi 25 anni di esperienza alla sola vicenda Contrada. «Inutile dire che, a questo punto, escludo qualsivoglia mia futura partecipazione a eventi organizzati dalle associazioni “Amici di Onofrio Zappalà” e “I Marinoti”, per ricordare mio padre o per qualsiasi altra finalità. Mentre riservo di meglio valutare eventuali profili diffamatori che l’articolo in commento possa presentare».

«Mio padre – spiega ancora Giordano al Dubbio – è sempre stato rispettoso dei diritti di tutti, accusa e difesa. L’idea per cui io sia “indegno” perché ho avuto tra i miei assistiti Contrada mi sembra una follia totale e devo dire che è frutto di una cultura propugnata da forze politiche come il M5S e magistrati vari che pensano di essere gli unici detentori della verità. Quello che scrivono i giudici non vale: il solo Vangelo è quello dei pm, autori di teoremi che, alla lunga, fanno la fine che fanno, perché basati su convinzioni personali, che non sono suffragati dal metodo Falcone, quello dei riscontri delle prove – conclude -. Che sono le uniche cose che valgono in un processo».

Risarcimento a Contrada, la Cassazione bacchetta la Corte d’Appello: “Errore di diritto”. Angela Stella su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

I giudici di appello hanno sbagliato “nel ritenere sussistente il dolo e colpa grave in rapporto al diverso, e mai contestato, delitto di partecipazione nel reato associativo di stampo mafioso, considerato che il ricorrente è stato processato e condannato per il diverso reato di concorso esterno nel reato associativo, la cui configurabilità è stata, tuttavia, esclusa dalla Corte Edu per incertezza descrittiva e imprevedibilità di configurazione giuridica all’epoca dei fatti. […] Qui si annida l’errore di diritto in cui è incorsa la Corte territoriale”. È quanto hanno scritto i giudici della Terza Sezione Penale della Cassazione nelle motivazioni con cui lo scorso 24 giugno hanno annullato con rinvio l’ordinanza con la quale la Corte di Appello di Palermo aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione proposta da Bruno Contrada, difeso dall’avvocato Stefano Giordano.

L’ordinanza impugnata, concludono i supremi giudici, “deve, quindi, essere annullata dovendo il giudice del nuovo rinvio, sulla scorta degli accertamenti in punto di fatto indicati nell’ordinanza impugnata, determinare la ricorrenza del dolo o colpa grave, causa ostativa alla riparazione, in relazione non già alla fattispecie di reato di partecipazione all’associazione mafiosa, mai contestata e rispetto la quale il ricorrente non si è mai difeso nel processo, bensì rispetto a condotte sinergiche al favoreggiamento sia delle singole vicende accertate, sia dell’associazione mafiosa”. Angela Stella

Attesa la nuova decisione della Cassazione. Il risarcimento è una farsa, Contrada aspetta ancora…Paolo Comi su Il Riformista il 6 Maggio 2022. 

Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per lo Stato italiano sono carta straccia. L’ultimo caso in ordine di tempo di non esecuzione di una di queste sentenze riguarda quello del maxi risarcimento per ingiusta detenzione nei confronti dell’ex dirigente della polizia di Stato e dei servizi Bruno Contrada. L’alto funzionario, ora novantenne, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta dell’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti poi scontati in regime detentivo, per concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata. «Il reato contestato di concorso esterno è il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni 80 del ‘900 e che si è consolidata nel 1994 con la sentenza della Cassazione “Demitry” e i fatti contestati a Contrada risalgono agli anni Ottanta», scrissero i giudici di Strasburgo. Non essendo quindi il reato contestato sufficientemente chiaro, né prevedibile, Contrada non avrebbe potuto conoscere le pene in cui sarebbe incorso. Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso alla Grande Chambre contro tale pronuncia ma era stato respinto.

Forte di questa sentenza, Contrada aveva chiesto e ottenuto dall’allora capo della Polizia Franco Gabrielli di revocare il provvedimento di destituzione emesso contro di lui a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure come pensionato, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. La Corte d’appello di Palermo, competente sul punto, nel 2020 riconosceva a Contrada un risarcimento pari a 667mila euro. La pronuncia veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano. La Cassazione annullava la decisione della Corte d’Appello, disponendo un nuovo giudizio. I giudici di piazza Cavour scrissero che “non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”. In altre parole se la sentenza di condanna e i suoi effetti devono essere annullati, Contrada ha comunque commesso le condotte contestate e quindi non ha diritto ad alcun risarcimento.

La Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio a gennaio scorso sposò appieno tale orientamento, sconfessando così la sua precedente pronuncia. L’ultima parola spetterà ancora una volta alla Cassazione che si pronuncerà il prossimo 24 giugno sul nuovo ricorso di Contrada. Per l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex capo della squadra mobile di Palermo, «esiste un serio problema di tenuta dell’ordinamento giuridico: è inutile rivolgersi alla Corte di Strasburgo, dove i tempi medi per una sentenza superano ormai i dieci anni, se poi l’Italia non esegue le sentenze». «Il risarcimento di Contrada è un fatto puramente simbolico ma di grande importanza in uno Stato che si definisce di diritto», aggiunge Giordano. Tutto questo accade, ironia della sorte, durante la presidenza italiana del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Oggi è infatti in programma a Palermo la Conferenza europea dei procuratori generali alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella.

Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è l’organo chiamato a verificare che siano stati rimossi gli effetti delle violazioni nei confronti delle persone e che non vengano quindi ripetute violazioni analoghe da parte dello Stato condannato. Inoltre, il Comitato dei ministri è chiamato a verificare che sia avvenuto il pagamento della somma riconosciuta a titolo di “equa soddisfazione”, richiedendo informazioni circa i tempi previsti per la loro esecuzione. Se lo Stato risulta gravemente inadempiente, il Comitato può, quale extrema ratio, decidere di sospenderlo dalla rappresentanza nel Consiglio d’Europa o di invitarlo a ritirarsi. Sarebbe a dir poco imbarazzante che ciò avvenisse proprio sotto la presidenza italiana. Paolo Comi

Accolto il ricorso dell’ex Sisde. La Cassazione dà ragione a Contrada: ha diritto al risarcimento per ingiusta detenzione. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Giugno 2022. 

“Devo constatare con grande amarezza che ci sono alcuni magistrati i quali non vogliono accettare la pronuncia della Cedu secondo cui la condanna nei confronti di Bruno Contrada deve essere cancellata”. A dirlo al Riformista è il difensore di Contrada, l’avvocato Stefano Giordano, commentando la decisione della Cassazione di accogliere la scorsa settimana il ricorso contro l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo di rigettare la domanda di ingiusta detenzione per l’ex dirigente della polizia di Stato e dei Servizi. “L’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli – prosegue Giordano – ha sempre criticato le decisioni della Cedu, parlando di ‘diritto straniero’. Vorrei ricordare che l’Italia fa parte del Consiglio d’Europa ed ha ratificato la Convenzione dei diritti dell’uomo, quindi è tenuta al rispetto delle pronunce di Strasburgo”.

L’alto funzionario del Ministero dell’interno, novantuno anni il prossimo settembre, venne arrestato alla vigilia di Natale del 1992 su richiesta proprio dell’allora procuratore Caselli. Al termine di un iter processuale quanto mai complesso i cui elementi di prova erano le dichiarazioni di alcuni pentiti, ad iniziare da Gaspare Mutolo, Contrada era stato condannato in via definitiva nel 2007 a dieci anni di reclusione, quasi tutti scontati in regime detentivo, per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’. Nel 2015 la Cedu, a cui gli avvocati di Contrada si erano rivolti, aveva però stabilito che questa condanna dovesse essere cancellata in quanto il reato contestato di concorso esterno era il risultato di “un’evoluzione giurisprudenziale iniziata alla fine degli anni ‘80 del ‘900”, e quindi non previsto da disposizioni di legge. Per tale motivo l’Italia aveva violato l’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo secondo il quale nessuno può essere condannato per un’azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Il governo italiano aveva anche presentato ricorso, poi respinto, alla Grande Chambre contro tale pronuncia.

Contrada aveva allora presentato istanza di revoca del provvedimento di destituzione emesso nei suoi confronti a gennaio del 1993, chiedendo il reintegro seppure in quiescienza, e contestualmente il risarcimento per l’ingiusta carcerazione patita. Per il primo aspetto, l’allora capo della Polizia Franco Gabrielli aveva dato subito corso alla richiesta di Contrada, ricostruendogli la carriera da prefetto, per il secondo, la Corte d’appello di Palermo nel 2020 gli aveva riconosciuto un risarcimento di 667 mila euro. La pronuncia della Corte d’Appello veniva impugnata in Cassazione dalla Procura generale del capoluogo siciliano, allora retta da Roberto Scarpinato. La Cassazione annullava la decisione della Corte palermitana, affermando che non vi era “alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto”, disponendo un nuovo giudizio in quanto se la sentenza di condanna ed i suoi effetti dovevano essere annullati, Contrada aveva comunque commesso le condotte contestate e quindi non aveva diritto ad alcun risarcimento. La Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio lo scorso gennaio sposò tale orientamento, sconfessando così la sua precedente pronuncia con cui aveva fissato il risarcimento a Contrada.

“A questo punto aspettiamo le motivazioni della sentenza”, prosegue Giordano, soddisfatto per la decisione di Piazza Cavour. “Il risarcimento di Contrada – aggiunge – è un fatto puramente simbolico ma di grande importanza in uno Stato che si definisce di diritto”. Il ‘problema’ sarà ora la composizione del collegio che dovrà pronunciarsi. In questa interminabile staffetta, molti giudici hanno esaminato il fascicolo divenendo così incompatibili. “Mi auguro solo, vista l’età di Contrada ed il suo precario stato di salute, che una volta lette le motivazioni la Corte d’Appello fissi quanto prima l’udienza”, continua Giordano. “Dopo questa pronuncia, mi aspetto però altro fango nei confronti di Contrada visto l’avvicinarsi della ricorrenza della strage in cui perse la via Paolo Borsellino”, conclude Giordano. Contrada, accusato di avere avuto rapporti con i mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio, era stato uno dei pochi ad accorgersi del depistaggio posto in essere dal falso pentito Vincenzo Scarantino. Paolo Comi

Nessun risarcimento per Contrada? La Cassazione rispedisce il caso a Palermo. La Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza con la quale la Corte d'Appello di Palermo aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di Bruno Contrada. Il Dubbio il 25 giugno 2022.

La Corte di Cassazione, sezione terza penale, accogliendo il ricorso dell’avvocato Stefano Giordano, ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale la Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Antonio Napoli, aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di Bruno Contrada «per la pena sofferta con effetto della sentenza dichiarata ineseguibili e improduttiva di effetti penali dalla Cassazione del 2017». Nel gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza di risarcimento della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. Ripassando quindi la palla ai giudici palermitani.

Dopo il no di Napoli, dunque, ora la questione verrà affrontata nuovamente dai giudici d’Appello, che dovranno rivalutare il ricorso presentato dall’avvocato Giordano. Dopo la prima bocciatura, il legale aveva contestato violazione «per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezionalità per quanto riguarda la sua esecuzione». «Ai sensi dell’art. 46 della Cedu pertanto, il giudice interno si è sottratto all’obbligo di esecuzione delle sentenze europee che hanno dichiarato l’illegittimità del processo celebrato a carico di Bruno Contrada – aveva evidenziato dopo quella pronuncia – e la presenza di trattamenti inumani e degradanti nella illegittima detenzione del mio assistito». Insieme al ricorso per Cassazione Giordano aveva depositato un dossier articolato presso il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, «perché per l’ennesima volta, non solo lo Stato Italiano commette delle gravissime violazioni ai danni dei suoi cittadini, ma reitera dette violazioni rifiutandosi di eseguire il giudicato europeo, causando gravi problemi di incompatibilità tra la giurisprudenza italiana e la normativa europea. Valuteremo nei prossimi giorni le ulteriori iniziative da intraprendere a seguito di questa ennesima sconfitta della giustizia italiana».

Questioni sulle quali ora bisognerà fare chiarezza, dopo la decisione del Palazzaccio di rinviare per un nuovo giudizio il caso Contrada.

«Aspettiamo il deposito delle motivazioni per meglio comprendere la portata del provvedimento», ha dichiarato all’AdnKronos l’avvocato Giordano. «Quel che è certo è che la Corte di Cassazione si è rifiutata di ratificare la decisione ingiusta e convenzionalmente illegale della Corte di Appello di Palermo, che non aveva preso minimamente in considerazione le nostre difese e il diritto Cedu, neppure per confutarli. Rimane obiettivamente sempre meno margine, con questo provvedimento, per coloro che si ostinano a non attuare la Convenzione e a fare finta che la sentenza della Corte Edu su Contrada non sia mai esistita. Adesso puntiamo a che il risarcimento a favore del dottor Contrada venga riconosciuto nei tempi più brevi, considerati l’età e lo stato di salute dello stesso».

Mariateresa Conti per “il Giornale” il 26 giugno 2022.

«Sono stanco. Ma lei lo sa quanti anni ho? Novant' anni, nove mesi e un po' di giorni.... Ed è la terza volta che questo risarcimento torna alla Corte d'Appello di Palermo, la terza. Non vorrei che abbiano guardato l'età nel fascicolo e che aspettino che me ne vada...». La voce di Bruno Contrada sale di tono, ripercorrendo l'ennesima tappa della sua odissea giudiziaria cominciata con l'arresto la vigilia di Natale del 1992. 

Trent' anni tra cella, avvocati e aule di tribunale, otto di carcere, cinque processi. Novantuno anni il 2 settembre, ex funzionario del Sisde condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, riabilitato nel 2015 da un pronunciamento della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha fatto scuola, stabilendo che il suo processo e la conseguente condanna non dovevano esistere, perché prima del '94 il reato per cui è stato condannato non era configurato con chiarezza, pronunciamento fatto proprio dall'Italia con una sentenza della Cassazione dl 2017 che ha revocato la sua condanna.

Riabilitato (ha avuto restituito il grado e rimodulata la pensione), non ha visto un euro di risarcimento per gli oltre otto anni di detenzione - «94 mesi, 2970 giorni tra carcere e domiciliari», precisa - che ha dovuto subire. Ieri l'ennesima tappa di questa odissea giudiziaria che ha dell'incredibile anche per la tempistica. 

La Cassazione gli ha dato ragione, ha annullato il rigetto da parte della Corte d'appello di Palermo dell'istanza di risarcimento. Ma ha annullato con rinvio. Bisognerà trovare nuovi giudici d'appello «che non si siano mai occupati della mia vicenda, mica facile», ricorda Contrada, a cui assegnare il caso, e poi altra tappa in Cassazione. La terza.

La terza, appunto. Era stata sempre la Suprema corte, nel 2021, ad accogliere, disponendo però il rinvio, il ricorso della procura di Palermo contro il risarcimento di 670mila euro per ingiusta detenzione stabilito in prima battuta dalla Corte d'Appello di Palermo ad aprile del 2020.

Nel gennaio scorso il nuovo «no» al risarcimento dei giudici di Palermo adesso rigettato dalla Cassazione. E il gioco a ping pong continua. «Non sono avido, ma questi soldi mi spettano di diritto. La sentenza europea è arrivata a pena interamente scontata, non potevano rendermi la libertà di cui sono stato privato ingiustamente. Li vorrei non per me, ma per darli ai miei figli o a qualcuno che ne ha bisogno». 

“Contrada si trova processato per fatti gravi, senza essere indagato o convocato”. Il suo legale annuncia ricorso alla Cedu: «mai stato convocato neanche per le indagini preliminari». Ma per Il giudice del rito abbreviato per l’omicidio Agostino, l’ex 007 e “Faccia da mostro” si incontravano con i boss. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 gennaio 2022.

Nemmeno durante il fascismo poteva capitare di ritrovarsi accusati, direttamente in sentenza, per fatti gravi senza subire almeno formalmente un processo con tutte le garanzie del caso. Nella nostra Repubblica democratica, un tempo definita culla del diritto, può succedere eccome. Lo ha scoperto per caso l’avvocato Stefano Giordano, legale dell’ex 007 Bruno Contrada, quando il suo assistito nei giorni scorsi è stato invitato a comparire, come testimone, al processo del delitto Agostino.

Nella sentenza del processo con rito abbreviato per la morte di Agostino Contrada risulta come persona coinvolta in fatti gravi

A quel punto, autonomamente, l’avvocato Giordano è venuto in possesso della requisitoria della Procura Generale di Palermo e della sentenza del processo per la morte di Agostino celebrata con il rito abbreviato. Ed è in questa sentenza – a firma del Gup di Palermo Alfredo Montalto, l’allora giudice del processo trattativa di primo grado – che ritrova il nome di Bruno Contrada come persona coinvolta in fatti gravi. Ma senza, come detto, essere stato indagato, inquisito o interrogato sui fatti.

La sentenza mai comunicata da alcun organo giudiziario contiene gravi violazioni convenzionali

«Appare assurdo – denuncia l’avvocato Giordano – come in questo Paese sia ancora consentito fare processi senza tutelare i diritti delle persone che vengono giudicate e quindi senza le garanzie che la Costituzione, la Cedu ed il codice pongono a tutela dell’indagato e dell’imputato. È certamente agevole celebrare i processi contro persone che non hanno alcuna possibilità di difendersi».

Secondo l’avvocato, è stata commessa una grave violazione, per questo annuncia che porterà il caso davanti ai giudici della Corte Europea di Strasburgo. «La sentenza – spiega sempre il legale di Contrada -, mai comunicata al mio assistito né al sottoscritto da alcun organo giudiziario, contiene gravi violazioni convenzionali, tra cui il diritto alla presunzione di innocenza e il diritto di accesso al giudice, tutelati dagli artt. 3 e 13 Cedu».

La sentenza del marzo 2021 ha condannato il boss Nino Madonia

Ricordiamo che si tratta di una sentenza emessa a marzo del 2021. Il gup di Palermo Alfredo Montalto ha condannato il boss Nino Madonia accusato del duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio commesso il 5 agosto 1989. Il processo si è svolto con rito abbreviato. Del duplice omicidio era imputato anche il boss Gaetano Scotto che, a differenza di Madonia, ha scelto il rito ordinario e quindi era in fase di udienza preliminare. Il gup lo ha rinviato a giudizio. Il processo a suo carico è cominciato il 26 maggio scorso.

Nella sentenza in questione, recuperata da pochi giorni dall’avvocato Giordano, in effetti compare anche Bruno Contrada. Il giudice Montalto scrive che, come possibile concomitante movente dell’omicidio dell’agente Agostino e della moglie, oltre a confermare anche sotto tale diverso profilo la matrice mafiosa, «conduce ancora una volta il delitto nell’alveo degli interessi precipui del “mandamento” di Resuttana capeggiato dai Madonia, con i quali, infatti, tutti gli esponenti delle Forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza oggetto di indagini intrattenevano, a vario titolo, rapporti. Ci si intende riferire a Bruno Contrada, ad Arnaldo La Barbera e allo stesso Giovanni Aiello».

Il gup Alfredo Montalto ritiene attendibile il pentito Vito Galatolo

Ed ecco che fa un riferimento ancora più esplicito. Il Gup dichiara attendibile il pentito Vito Galatolo, il quale testimonia che ebbe a vedere personalmente Contrada in occasione di alcune visite in vicolo Pipitone e «in alcune di tali occasioni contestualmente ad una persona, “appartenente ai servizi segreti”, soprannominata il “mostro” perché “aveva la guancia destra deturpata da un taglio, la pelle rugosa e arrossata..”». Quest’ultimo sarebbe Giovanni Aiello, conosciuto con il soprannome “Faccia da mostro”. Anche lui compare in sentenza, senza essere processato. La differenza con Contrada, è che lui è morto da qualche anno.

Secondo il Gup Contrada e “Faccia da mostro” incontravano i boss in vicolo Pipitone

«I predetti – prosegue il Gup – , in particolare, nel vicolo Pipitone, si incontravano con Antonino Madonia (ma anche con Vincenzo Galatolo e Gaetano Scotto) con il quale si appartavano “all’interno della casuzza… … …a volte anche un’ora o due ore” e ciò nel periodo precedente all’arresto del Madonia (29 dicembre 1989) ancorché imprecisamente indicato dal Galatolo, in sede di incidente probatorio, negli anni “87 – 88 – 89 fino all’arresto di Nino Madonia” tenuto conto che il Madonia sino al 5 novembre 1988 era detenuto e, quindi, certamente non poteva essersi trovato presente nel vicolo Pipitone». Ma per il Gup Montalto, questa imprecisione temporale «non inficia minimamente la complessiva attendibilità della dichiarazione di Vito Galatolo».

Galatolo è stato considerato inattendibile per le procure di Caltanissetta e Catania

Per completezza, c’è da dire che per la stessa dichiarazione di questo pentito, ben due procure (quella di Caltanissetta e Catania) hanno chiesto l’archiviazione, perché secondo i Pm è risultato inattendibile. Ma evidentemente, per la procura generale di Palermo no. Parere confermato dal gup Montalto. Resta il fatto che Contrada (ma anche Aiello, alias “faccia da mostro”, mai inquisito), si ritrova in sentenza per un fatto gravissimo e senza essere indagato o sentito nel merito.

Secondo questo assunto cristallizzato in sentenza, l’ex 007 avrebbe partecipato alle riunioni con esponenti mafiosi dove si decidevano alcuni tra i delitti più atroci. Sempre il giudice Montalto, scrive in sentenza che «secondo quanto riferito da Vito Galatolo, una delle visite di Contrada ed Aiello, in occasione della quale questi incontrarono Nino Madonia, Pino Galatolo, Vincenzo Galatolo, Gaetano Scotto e Raffaele Galatolo, fu notata dall’Agostino che stava effettuando un appostamento proprio nel vicolo Pipitone».

Contrada non è mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari

In una sentenza, Contrada viene indicato come frequentatore degli esponenti mafiosi nella casa al vicolo del Pipitone di Palermo dove si decidevano le stragi. Fatti gravissimi, ma senza essere mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari. È possibile? Ma non è finita qui. C’è il processo Agostino, quello con rito ordinario, in Corte d’Assise di Palermo e Contrada è stato invitato a deporre come testimone. Attraverso il suo legale, l’ex funzionario di polizia ha fatto avere alla Corte che celebra il dibattimento un certificato medico che attesta le sue gravi condizioni di salute.

L’avvocato di Contrada Stefano Giordano annuncia ricorso alla Cedu

Ma la questione è ancora più surreale. Contrada viene sentito come testimone, quindi privo di garanzie rispetto a una persona imputata. Il paradosso è che formalmente non è imputato, ma viene sentito nel processo del delitto Agostino dove, parallelamente, in quello abbreviato appare in sentenza come persona indirettamente legata all’omicidio. E senza, ribadiamolo, essere inquisito. «Per entrambi i motivi – annuncia l’avvocato Giordano – agiremo davanti alla Corte Europea per la violazione di questi diritti e sarà mia cura interloquire con la Procura Generale e soprattutto con la Corte di Assise, in via ufficiale, affinché il dottor Contrada possa rendere dichiarazioni, eventualmente dal domicilio, nella veste di indagato di reato connesso».

La vicenda dell'ex numero tre del Sisde. Caso Contrada, i giudici sfidano l’Europa: “È innocente ma non lo risarciamo”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.  

La Corte d’Appello di Palermo ha rigettato la richiesta di Bruno Contrada di avere un risarcimento per i molti anni trascorsi ingiustamente in carcere. Non sappiamo bene perché l’abbia rigettata. In pratica però la decisione si fonda su due idee forti.

La prima è che l’indipendenza dei giudici consente ai giudici di contravvenire alle sentenze della Cedu, che pure hanno il valore di sentenze di una corte di giustizia superiore e dunque devono semplicemente essere eseguite. Questa sentenza invece fa strame della legalità. Avete presente quella tiritera che si ripete ogni volta che un imputato viene condannato (“le sentenze non si giudicano ma si eseguono”)? La Corte di Appello di Palermo ha deciso di assumere un atteggiamento del tutto contrario: le sentenze si ignorano. perché qui comandiamo noi.

La seconda idea forte che sta dietro la sentenza è che se un imputato viene considerato innocente, e se ha scontato ingiustamente molti anni di carcere, ha diritto a un risarcimento solo se i suoi accusatori sono convinti che sia innocente. Se invece mantengono il sospetto che sia colpevole, niente risarcimento perché la giustizia non può mai essere un fatto oggettivo ma deve adattarsi alle situazioni. e soprattutto non deve scalfire la dignità e il potere degli accusatori o dei giudici.

La Corte d’Appello di Palermo – come ha spiegato in una sua dichiarazione l’avvocato Stefano Giordano – con questa sentenza ha violato le regole. Non aveva nessun diritto di decidere “se” risarcire, ma solo quanto quando e come. Ora Contrada spera di ottenere giustizia dalla Cassazione. Noi speriamo che la ottenga. Perché se invece prevalesse l’ottusità e l’arroganza della parte più arretrata e antiliberale della magistratura, sarebbe un segnale pessimo. Nessuna persona ragionevole può pensare che non sia giusto risarcire una persona che ha trascorso molti anni in prigione per via di un processo che la Corte Europea ha dichiarato illegittimo.

Contrada, che è stato uno dei massimi esponenti dei servizi segreti italiani, e che ha combattuto molte battaglie contro la mafia, è stato imprigionato per otto anni e – sempre secondo la Corte Europea – sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. E ora è nuovamente vittima dell’arroganza illegale.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La sentenza. Bruno Contrada non va risarcito, fu condannato e incarcerato ingiustamente. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021.  

Le cose certe sono due. Prima: Bruno Contrada non era colpevole. Seconda: Bruno Contrada ha passato quattro anni e mezzo in cella e altri tre e mezzo ai domiciliari (in tutto otto anni). Per un errore – anzi per diversi errori – molto gravi della magistratura.

La sua non colpevolezza, a più di vent’anni dall’arresto, è stata accertata prima dalla Corte di Strasburgo e poi dalla nostra Cassazione. E su questa base la Corte d’appello di Palermo aveva quantificato in quasi 700mila euro il risarcimento dovuto. Non sono neanche tanti 700mila euro per una vita distrutta.

Bruno Contrada è un importantissimo ex poliziotto, che operava in Sicilia, combatteva la mafia, e poi è stato anche il numero 2 dei servizi segreti. Fu condannato per “concorso esterno in associazione mafiosa” per fatti degli anni Ottanta. Contrada fece notare che quel reato non esiste nel codice penale italiano (e non esiste in nessun codice penale, in tutto il mondo). In genere viene usato quando gli inquirenti non trovano nessun reato specifico da imputare a una persona che però vogliono che sia condannata. Concorso esterno ha questo vantaggio: non devi provare né che l’imputato è mafioso né che abbia commesso delitti precisi. È una categoria dello spirito.

La Corte Europea stabilì che in ogni caso questo reato, ”italianissimo”, prima del 1992 non esisteva né nel codice penale né in nessun aspetto della giurisprudenza, e dunque non poteva assolutamente essere contestato. Contrada non andava arrestato, non andava processato, non andava condannato, non doveva scontare nessunissima pena.

La Procura e l’avvocatura dello Stato però hanno fatto ricorso contro la decisione della Corte d’Appello. Non vogliono che Contrada riceva una lira. Un caso limpido di accanimento. Dovuto a che cosa? Forse solo al fetido spirito dei tempi.

E la Corte di Cassazione ieri ha deciso di sospendere il risarcimento e di chiedere alla Corte di Appello di Palermo di riesaminare il caso. Non si conoscono ancora i dettagli di questa sentenza. Però si sa che con i tempi della giustizia italiana, visto che Contrada ha quasi 90 anni, è probabile che non vedrà mai il risarcimento. È stato perseguitato, ingiustamente incarcerato, ridotto in miseria, e ora gli si dice: vabbè son cose che succedono. E dicendogli così si decide di trasgredire in modo clamoroso e sfacciato una sentenza della Corte Europea.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

·        Il Caso Lombardo.

(ANSA il 7 gennaio 2022) - La Corte d'appello di Catania ha assolto l'ex presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, per concorso esterno all'associazione e corruzione elettorale. Alla lettura della sentenza l'ex leader del Mpa non era in aula. L'inchiesta che in dieci anni di udienze ha portato a due sentenze 'contrastanti' e a un annullamento con rinvio della Cassazione si basa su indagini dei carabinieri del Ros di Catania su rapporti tra politica, imprenditori, 'colletti bianchi' e Cosa nostra. Per la Procura Lombardo avrebbe favorito clan e ricevuto voti alle regionali del 2008, quando fu eletto governatore. Accuse che lui ha sempre respinto.

La Corte ha assolto Lombardo dall'accusa di concorso esterno perché il fatto non sussiste e da quella di reato elettorale aggravato dall'avere favorito la mafia per non avere commesso il fatto. La Procura, con i Pm Sabrina Gambino e Agata Santonocito, aveva chiesto la condanna di Raffaele Lombardo, a sette anni e quattro mesi di reclusione, per l'accesso al rito abbreviato. Al centro del processo i presunti contatti di Raffaele Lombardo con esponenti dei clan etnei che l'ex governatore ha sempre negato sostenendo di avere "nuociuto alla mafia come mai nessuno prima di me", di "non avere incontrato esponenti" delle cosche e di avere "sempre combattuto Cosa nostra". 

Per questo i suoi legali, gli avvocati Maria Licata e il professore Vincenzo Maiello, hanno chiesto l'assoluzione del loro assistito "perché il fatto non sussiste". Il procedimento ha anche trattato presunti favori elettorali del clan a Raffaele Lombardo nelle regionali del 2008, in cui fu eletto governatore, e a suo fratello Angelo, per cui si procede separatamente, per le politiche dello stesso anno. 

La Seconda sezione penale della Cassazione, tre anni fa, ha annullato con rinvio la sentenza emessa il 31 marzo 2017 dalla Corte d'appello di Catania che aveva assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa l'ex governatore e lo aveva condannato a due anni (pena sospesa) per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ma senza intimidazione e violenza. Una sentenza, quella di secondo grado, che aveva riformato quella emessa il 19 febbraio 2014, col rito abbreviato, dal Gup Marina Rizza che lo aveva condannato a sei anni e otto mesi per concorso esterno all'associazione mafiosa ritenendolo, tra l'altro, "arbitro" e "moderatore" dei rapporti tra mafia, politica e imprenditoria.

Nelle motivazioni la Corte d'appello di Catania, nel riformare la sentenza di primo grado, aveva rilevato che "il summit tra i vertici mafiosi e Raffaele Lombardo nel giugno del 2003 a casa" dell'ex presidente della Regione, uno dei pilastri dell'accusa, "è un fatto assolutamente privo di riscontro probatorio". 

Erano stati invece dimostrati, secondo i giudici di secondo grado, "i rapporti tra Lombardo e esponenti della mafia, che avrebbero agito per agevolare la sua elezione, ma dal quale non avrebbero ricevuto alcun favore". La Corte d'appello gli aveva contestato la corruzione elettorale con l'aggravante di avere favorito la mafia, che non usa violenza né intimidisce, ma compra i voti con soldi, buoni spesa e favori. Una decisione non condivisa dalla Cassazione che "in accoglimento del ricorso della Procura generale di Catania" aveva poi annullato "la sentenza con rinvio ad altra sezione" della Corte d'appello di Catania, davanti alla quale si è celebrato il nuovo processo.

Sicilia, 12 anni imputato: l’ex governatore Raffaele Lombardo assolto dall’accusa di concorso mafioso. Redazione sabato 8 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia. Dodici anni imputato. Certo, meglio che “12 anni schiavo” come capitò al violinista afroamericano Solomon Northup, ma pur sempre un dramma. A lieto fine, fortunatamente, visto che la Corte d’Appello di Catania ha assolto l’ex-governatore della Sicilia Raffaele Lombardo dall’accusa di concorso esterno in associazioni mafiosa e corruzione elettorale. Giusto così, ma quanta fatica in una vicenda giudiziaria che tra condanne, assoluzioni e rinvii si è rivelato più stressante di una scarrozzata sulle montagne russe. L’incubo di Lombardo, all’epoca leader dell’Mpa, movimento “sicilianista” legato al centrodestra, comincia nel 2009.

Risale, infatti, a quell’anno l’avvio dell’inchiesta Iblis sui rapporti tra mafia, affaristi e “colletti bianchi” nel territorio catanese. A spiccare nell’inchiesta affidata dai pm etnei ai carabinieri del Ros è il nome di Rosario Di Dio, boss affiliato al clan di Nitto Santapaola. Dalle intercettazioni emergono rapporti tra persone implicate nell’inchiesta e Lombardo, che del resto non li ha mai negati ma che ha definito di «natura politica». Per la Procura, invece, il governatore sosteneva la cosca attraverso favori in cambio di voti per lui. Un’ipotesi sempre rigettata da Lombardo: «Non solo non ho mai agevolato queste persone, ma ho persino loro nociuto».

In effetti, l’imputazione di concorso esterno (reato giurisprudenziale non codificato) è sempre sfuggente. Più che le condotte, contano i contesti nei quali esse di dipanano. È questo spiega il saliscendi della vicenda giudiziaria conclusasi ieri: prima la condanna, poi l’assoluzione, seguita dall’annullamento con rinvio. Dodici anni di inferno, appunto, chiusi ieri dalla sentenza della Corte d’appello catanese.  Assoluzione con formula piena: «il fatto non sussiste» per il reato di concorso esterno mentre «non ha commesso il fatto» relativamente alla corruzione elettorale. Lombardo, dunque, è ufficialmente innocente. Nel frattempo, tuttavia, è diventato anche un “ex“. L’inchiesta lo ha espulso dalla politica. E anche questa è una condanna.

Mafia, Raffaele Lombardo assolto: "Anni di calvario". Marco Leardi il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. L'ex presidente della Regione Sicilia era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. "I giudici sono stati estremamente coraggiosi", ha commentato il politico.

"La mia è una vicenda umana e giudiziaria incredibile. Dodici anni di calvario e di grande sofferenza". Ora che il processo si è concluso con una sentenza a suo favore, Raffaele Lombardo parla così. L'ex presidente della Regione siciliana è stato assolto dalla corte di Appello dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste e da quella di reato elettorale aggravato dall'avere favorito la mafia per non avere commesso il fatto. La procura, con i pm Sabrina Gambino e Agata Santonocito, aveva chiesto per l'ex governatore la condanna a sette anni e quattro mesi di reclusione, per l’accesso al rito abbreviato.

L'odissea giudiziaria del politico siciliano era iniziata quando ancora era presidente della Regione etnea. Al centro del processo che lo aveva coinvolto, alcuni suoi presunti contatti con esponenti dei clan locali. Circostanze che Lombardo aveva da sempre negato, affermando al contrario di aver "nuociuto alla mafia come mai nessuno prima". Non solo. L'esponente politico, da subito, aveva anche negato di aver incontrato esponenti delle cosche, contro le quali - aveva più volte spiegato - si era sembra battuto. Proprio in merito a quelle imputazioni, infatti, gli avvocati Maria Licata e il professore Vincenzo Maiello avevano chiesto l'assoluzione del loro assistito "perché il fatto non sussiste". Una linea che ora ha trovato riscontro nella decisione dei giudici.

Il procedimento aveva anche come oggetto alcuni presunti favori elettorali del clan a Raffaele Lombardo per le regionali del 2008, nelle quali fu eletto governatore, e a suo fratello Angelo, per cui si procede separatamente, per le politiche dello stesso anno. In oltre dieci anni di udienze, il percorso giudiziario attraversato da Lombardo era stato segnato da una serie di pronunciamenti da parte dei tribunali, con due sentenze contrastanti e un rinvio in Cassazione, sino all'odierna conclusione.

"I giudici sono stati estremamente coraggiosi. Il mio timore era quello di una sentenza di compromesso, in cui mi assolvevano dal concorso esterno in associazione mafiosa ma mi lasciavano il reato elettorale. Invece ringrazio i giudici e la giustizia per una sentenza giusta", ha commenato Lombardo all'Adnkronos. L'ex governatore siciliano non era presente in aula al momento della lettura del dispositivo di sentenza.

Tra le prime reazioni alla sentenza da parte del mondo politico, quella dell'attuale presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci. "La sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catania restituisce finalmente serenità non solo a Raffaele Lombardo e ai suoi familiari, ai quali rivolgo un pensiero di affetto e amicizia, ma anche all'Istituzione che ha guidato. Bisogna avere rispetto delle sentenze e fiducia nella giustizia. Guai quando la giustizia invade il campo della politica e viceversa", ha affermato il governatore siciliano.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

Raffaele Lombardo innocente. Dopo dieci anni di supplizi giudiziari. Con una sentenza clamorosa e destinata a restare nella storia, l’ex governatore della Sicilia è stato assolto, nell’appello bis a Catania, dall’accusa di concorso esterno e corruzione elettorale. I fatti per i quali era (ancora) a giudizio risalgono al 2008. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 07 gennaio 2022.

Lo avevano descritto secondo i più infamanti paradigmi per un uomo delle istituzioni: corrotto e colluso con la mafia. Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Sicilia, è stato invece assolto ieri dalla Corte d’appello di Catania. Era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale.

La decisione è arrivata dopo circa cinque ore di camera di consiglio e dopo la difesa conclusiva affidata all’avvocato Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale nell’Università di Napoli Federico II. Lombardo era presente al momento dell’arringa del suo difensore ma non quando è stato letto il dispositivo della sentenza dalla presidente della Corte d’Appello, Rosa Angela Castagnola: «In riforma della sentenza emessa», la Corte «assolve Raffaele Lombardo del reato di cui al capo “a” perché il fatto non sussiste e del reato al capo “b” per non avere commesso il fatto».

La Procura generale, rappresentata in aula dai magistrati Sabrina Gambino e Agata Santonocito, aveva chiesto la condanna dell’ex governatore siciliano a sette anni e quattro mesi di reclusione, considerando le riduzioni previste dal rito abbreviato con cui il processo è stato celebrato. Secondo l’accusa, Lombardo avrebbe favorito clan e ricevuto voti alle Regionali del 2008, quando fu eletto presidente.

Il processo, lungo e delicato, ha affrontato diversi passaggi. La Seconda sezione penale della Cassazione, tre anni fa, aveva annullato con rinvio la sentenza emessa il 31 marzo 2017 dalla Corte d’appello di Catania con la quale l’ex governatore era stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ed era stato condannato a due anni (pena sospesa) per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ma senza intimidazione e violenza.

La sentenza di secondo grado aveva riformato quella emessa il 19 febbraio 2014, col rito abbreviato, dal Gup Marina Rizza. In quel caso Lombardo era stato condannato a sei anni e otto mesi per concorso esterno all’associazione mafiosa. Venne, tra l’altro, considerato «arbitro» e «moderatore» dei rapporti tra mafia, politica e imprenditoria.

Tutte le e contestazioni sono state sempre respinte da Raffaele Lombardo. Il verdetto di oggi riabilita il politico, anche se dopo dieci anni di processo ritornare tra la gente e chiedere il sostegno elettorale diventa molto difficile. Lombardo, leader e fondatore dell’Mpa, all’inizio degli anni Duemila, era considerato uno dei politici più influenti non solo in Sicilia. È stato anche Presidente della Provincia di Catania ed eurodeputato. 

La sentenza della Corte d'Appello di Catania. Raffaele Lombardo assolto, fine dell’odissea lunga 10 anni: cadono le accuse di mafia e corruzione elettorale. Redazione su Il Riformista il 7 Gennaio 2022. 

Assoluzione. È questa la sentenza pronunciata da Rosa Angela Castagnola, presidente della Corte d’Appello di Catania, nei confronti di Raffaele Lombardo, ex presidente della Regione Siciliana ed ex leader del Mpa, il Movimento per le Autonomie fondato dallo stesso Lombardo.

L’ex governatore siciliano era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Per entrambi i reati Lombardo è stato assolto: dal primo “perché il fatto non sussiste”, dal secondo “per non aver commesso il fatto”.

Una inchiesta ma soprattutto un processo monstre quello di Lombardo: dieci anni di udienze avevano portato a due sentenze ‘contrastanti’ e a un annullamento con rinvio della Cassazione. Indagine condotta dai carabinieri del Ros di Catania che verteva in particolare su presunti rapporti tra politica, imprenditori e i clan etnei di Cosa nostra. In particolare secondo la Procura Lombardo aveva favorito Cosa nostra ricevendo voti ‘mafiosi’ alle elezioni regionali del 2008, quando venne eletto presidente della Regione. 

Per Lombardo la Procura, tramite i pm Sabrina Gambino e Agata Santonocito, aveva chiesto la condanna a 7 anni e quattro mesi di reclusione. Dall’altra parte l’ex governatore siciliano aveva sempre negato ogni accusa, sostenendo al contrario di aver “nuociuto alla mafia come mai nessuno prima di me“, di “non avere incontrato esponenti” delle cosche e di avere “sempre combattuto Cosa nostra”. Per questo i suoi legali, gli avvocati Maria Licata e il professore Vincenzo Maiello, ne avevano chiesto l’assoluzione, richiesta poi accolta dalla Corte d’Appello.

LA STORIA DEL PROCESSO – La prima sentenza, con rito abbreviato, arriva il 19 febbraio 2014: il gup Marina Rizza condanna Lombardo a sei anni e otto mesi per concorso esterno all’associazione mafiosa ritenendolo, tra l’altro, “arbitro” e “moderatore” dei rapporti tra mafia, politica e imprenditoria.

Sentenza parzialmente smontata dalla Corte d’Appello di Catania nel 2017, che assolse l’ex governatore dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa condannandolo a due anni (con pena sospesa) per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso, ma senza intimidazione e violenza. 

Nelle motivazioni in particolare la Corte definisce “privo di riscontro probatorio” il presunti summit tra Lombardo e vertici delle cosche etnee che si sarebbe tenuto nel giugno 2003 a casa dell’ex presidente della Regione Sicilia, uno dei capisaldi dell’accusa.

Tre anni fa quella sentenza era stata annullata con rinvio dalla Seconda sezione penale della Cassazione, accogliendo il ricorso della Procura generale di Catania.

LA REAZIONE DI LOMBARDO – Raffaele Lombardo, che non era presente in aula al momento della lettura del dispositivo, si è detto “molto felice e sollevato” per la doppia assoluzione. 

“Siamo molto soddisfatti. Questa assoluzione è un risultato che rende giustizia alla verità”, ha spiegato all’Adnkronos l’avvocata Maria Licata, uno dei due legali dell’ex governatore.

Il folle processo durato più di 10 anni. Raffaele Lombardo assolto completamente, ma intanto è stato distrutto da accuse false. Angela Stella su Il Riformista l'8 Gennaio 2022. 

La Corte d’Appello di Catania ha assolto ieri l’ex presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Alla lettura della sentenza l’ex Fondatore e leader del Movimento per le Autonomie non era in aula ma al telefono con uno dei suoi legali si è detto «molto felice e sollevato per assoluzione». Ha poi aggiunto all’Adnkronos: «Sono stati 12 anni da incubo, la sentenza mi ripaga di tante sofferenze. La mia è una vicenda umana e giudiziaria incredibile».

Per uno dei politici più influenti della Sicilia è stata una vera e propria odissea giudiziaria: una condanna, un’assoluzione, un annullamento dell’assoluzione con rinvio. Tre sentenze, tutte diverse l’una dall’altra. E ieri la quarta sentenza: ancora una assoluzione. Le indagini sono state condotte in questi dieci anni dai carabinieri del Ros di Catania che hanno indagato sui rapporti tra politica, imprenditori, ‘colletti bianchi’ e Cosa nostra. Secondo l’accusa l’ex Presidente Lombardo avrebbe favorito i clan mafiosi in cambio di migliaia di voti per le regionali del 2008, quando poi fu eletto governatore. Accuse che la difesa dell’ex Presidente, rappresentata dagli avvocati Vincenzo Maiello e Maria Licata, ha sempre respinto.

Anche ieri, in chiusura delle controrepliche, l’avvocato Maiello, come riferisce l’Adnkronos, ha detto: «Abbiamo l’esigenza di mettere capo alla definizione di questa vicenda giudiziaria le cui conseguenze, sul piano personale ma non solo personale, sono sotto gli occhi di tutti. Raffaele Lombardo deve essere assolto. Non ha mai stretto patti con Cosa nostra.». E ha aggiunto: «Lombardo ha fatto solo scelte contro Cosa nostra», ricordando che nella sua Giunta Lombardo aveva scelto due magistrati antimafia, Caterina Chinnici e Massimo Russo. La Procura generale aveva invece chiesto la condanna di Lombardo a sette anni e quattro mesi di reclusione. Al centro del procedimento i suoi presunti contatti con esponenti dei clan etnei che l’ex governatore ha sempre negato sostenendo di avere «nuociuto alla mafia come mai nessuno prima di me», di «non avere incontrato esponenti» delle cosche e di avere «sempre combattuto Cosa nostra».

Ad accusare Lombardo ci sono stati alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Dario Caruana. Questi aveva riferito di una riunione riservata, in cui si affrontavano argomenti di appalti ed affari, svoltosi nei primi sei mesi del 2003 in una casa di campagna alle porte di Barrafranca. Dichiarazioni sempre smentite da Lombardo. E ora anche dall’ennesima decisione. «Siamo molto soddisfatti. Questa assoluzione è un risultato che rende giustizia alla verità», ha detto all’Adnkronos l’avvocata Maria Licata. Mentre al Riformista dice il prof avv Maiello: «Sono contento di aver contribuito ad un risultato che rimette al centro i valori della legalità penale e respinge gli approcci di pratiche premoderne di giustizia sommaria e protestativa. Questa sentenza restituisce a Raffaele Lombardo e a quanti avevano creduto nel suo progetto politico e amministrativo la dignità e l’onore offuscati dall’altalenarsi di verdetti contraddittori».

Sempre con l’Adn ha parlato l’ex ministro Dc Calogero Mannino: «Personalmente provo la soddisfazione che può provare un amico. Un amico, peraltro, sempre convinto della sua innocenza». Esprime soddisfazione per la sentenza anche l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino: «L’assoluzione di Raffaele Lombardo è una riconquista dello Stato di Diritto. Perché scaccia, in un sol colpo, i processi sommari, quelli per sentito dire, la logica del sospetto, il “diritto del nemico” e le condanne non per fatti-reato ma per “tipo d’autore”, dove le uniche prove sono le parole dei pentiti». Angela Stella

Lombardo: «Quella gogna sui giornali mi ha ferito più del processo». Parla l’ex presidente della Regione Siciliana assolto dall’accusa di concorso esterno dopo un'odissea giudiziaria durata dieci anni. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

Raffaele Lombardo ha ripreso a respirare a pieni polmoni, a contatto con la natura nel suo agrumeto, dopo un’odissea giudiziaria durata circa dieci anni. L’ex presidente della Regione Siciliana, assolto un mese fa dalla Corte d’appello di Catania dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale, racconta la sua esperienza che lo ha segnato come uomo e come rappresentante delle istituzioni al culmine della popolarità in Sicilia e nel panorama politico nazionale. A Palazzo d’Orleans fecero parte della sua Giunta due magistrati antimafia: Caterina Chinnici e Massimo Russo. Il tritacarne mediatico nel quale è finito non ha fatto perdere all’ex governatore siciliano la fiducia nel sistema giudiziario e non ha spento, nonostante tutto, la passione per la politica. Lombardo è stato difeso dagli avvocati Vincenzo Maiello (ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) e Maria Licata.

Dottor Lombardo, come sta trascorrendo questi giorni e con quale stato d’animo?

«Trascorro questi giorni con la mia famiglia, come sempre, e con i miei amici e dedico molto tempo all’agrumeto. Il tutto con una ritrovata serenità, pur consapevole del fatto che la mia vicenda giudiziaria non si è ancora conclusa».

Lei è stato descritto secondo i paradigmi più infamanti per un uomo delle istituzioni: corrotto e colluso con la mafia. La sua odissea giudiziaria cosa consegna alla storia della Sicilia e del nostro Paese?

«Non so quanto gli italiani siano interessati alla storia, auspico che le nuove generazioni maturino per essa un interesse maggiore di quella che manifesta quella contemporanea. La mia vicenda giudiziaria è stata segnata da una grande anomalia che dovrebbe spingere tutti a più di una riflessione. Io appresi dell’indagine a mio carico dagli organi di stampa e questo è un fatto sempre disdicevole, ma a maggior ragione lo è quando investe una carica pubblica, poiché mina alla radice la fiducia dei cittadini nei confronti di essa. Non è ciò che è accaduto soltanto alla persona Raffaele Lombardo che io stigmatizzo, ma soprattutto all’istituzione che all’epoca rappresentavo. E sul punto vorrei essere chiaro».

Dica pure.

«Io non ritengo ingiusto essere stato sottoposto a processo perché è doveroso che la magistratura indaghi, quando ha notizia di fatti che possono costituire reato o ritenga che vi siano fatti che meritino in questa prospettiva un accertamento. Non ritengo neppure ingiusto che la Procura abbia ritenuto di sostenere l’accusa nei miei confronti e che si sia celebrato un processo nel quale mi sono difeso con i miei avvocati ed è stata da ultimo pronunciata una sentenza. Credo, peraltro, che vada ricordato che la Procura della Repubblica inizialmente richiese l’archiviazione per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso e venne ordinata dal Gip l’imputazione coatta. Tutto ciò attiene, comunque, alla fisiologia di uno Stato di diritto. Quello che, invece, è estraneo ad essa è che notizie riservate siano state date alla stampa, in violazione evidente della legge e senza che nessuno abbia seriamente indagato, come mi si dice sempre accade in casi del genere, su come sia stato possibile e sulle ragioni di ciò. La campagna di stampa avviata nei miei confronti ha fortemente inciso sulla mia vicenda processuale e sulla decisione di rassegnare le dimissioni, vanificando un’esperienza politica intrapresa con il consenso di 1 milione e 800 mila voti liberamente espressi, il 66% del totale».

Nella sua Giunta sedevano anche due assessori ex magistrati antimafia…

«E con loro altri tecnici e politici di assoluta competenza e integrità».

Si definisce vittima della “giustizia ingiusta” e della gogna mediatica?

«No, non mi ritengo una vittima. Non si addice alla mia indole e l’esito di questo grado di giudizio, che conferma la fiducia da sempre da me riposta nel sistema giudiziario, lo dimostra. Gli anni del processo sono stati troppi ma il sistema ha le sue regole ed alcune di esse sono il portato di un pensiero complesso elaborato in secoli di storia. Oggi comprendo che un processo rapido non è per ciò stesso un processo giusto. Ci sono i tempi dell’accusa, ma anche quelli della difesa e c’è soprattutto il diritto di appellare, di contrastare una decisione che si ritiene ingiusta, innanzi ad un giudice che sia sempre terzo».

A distanza di anni anche dalla sua vicenda giudiziaria, errori e lanci di fango mediatici sembrano non essere stati eliminati. È più facile condannare nei “tribunali televisivi” che nelle aule giudiziarie?

«Nelle aule giudiziarie si discute di fatti, ma, soprattutto, accusa e difesa si confrontano, ascoltando l’una le ragioni dell’altra e la sintesi è affidata ad un giudice che il sistema impone essere terzo. Tutto ciò negli studi televisivi, ma anche in altri contesti per il vero, sembra impossibile ed è considerato quasi infamante ammettere di avere commesso un errore di valutazione. A ciò si aggiunga che la maggior parte della stampa è alla costante ricerca di un colpevole verso il quale indirizzare le frustrazioni di una massa di inconsapevoli consumatori del prodotto mediatico».

I danni per chi finisce in questo tritacarne però sono incalcolabili…

«Assolutamente e non solo per l’interessato, ma anche per i familiari che subiscono incolpevoli il peso di tutto ciò. Ma il danno maggiore lo si arreca proprio al sistema giudiziario che deve resistere alla pressione esterna di un’opinione pubblica non sempre consapevole e culturalmente attrezzata».

Riprenderà a fare politica?

«Avendola fatta attivamente e quasi esclusivamente per quarant’anni anni è impossibile disinteressarmene. Mi prefiggo di dare una mano a chi ha fiducia e vuole scommettere sull’idea autonomista e sul movimento che nel 2005 con alcuni coraggiosi fondammo».

La vicenda. Per Raffaele Lombardo chiesti 7 anni: contro di lui solo parole, nessun reato. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia su Il Riformista il 5 Febbraio 2021.  

Della compresenza di vita e di morte, della luce e del suo passaggio in ombra, del lutto che spesso segue al lusso, hanno scritto grandi pensatori, romanzieri e storici meridionali. Uno dei più sensibili e raffinati tra loro, Gesualdo Bufalino, conterraneo e amico di Leonardo Sciascia, una volta parlò proprio del “luttuoso lusso d’esser siciliani”. La concomitanza di vita e morte, di amore e odio, di chiaro e scuro, di ascesa e caduta, è l’essenza del luogo e dei suoi abitanti.

La Sicilia è un caso più unico che raro. Meno che nazione ma più che regione, la Sicilia è un lusso e il suo non è un presidente qualsiasi, è un Governatore. Raffaele Lombardo è uno di questi. O meglio è stato. Fino a quando ai piedi del “vulcano buono”, mentre danzava la lava purpurea e si moltiplicavano i travisamenti, è comparso l’uomo cattivo, un killer di mafia che aveva ammazzato molto. Guardando in televisione i lineamenti saraceni e gli occhi normanni dell’ex governatore, Maurizio Avola si ricordò di lui. Affermò che quell’uomo politico aveva incontrato finanche il boss dei boss: Nitto Santapaola.

Correva l’anno 2006 e il racconto, per stessa ammissione di Avola, era riferibile all’inizio degli anni 90. Si può pensare di fare riferimento a fatti di vent’anni prima in uno stato di diritto? Lo si può fare in Italia, dove non c’è più differenza tra il giudice e lo storico o meglio il giudice può anche pensare di scrivere la storia. I pentiti a volte si adeguano a questa ambizione storicistica ed è così che la memoria di Avola, sospesa per vent’anni, incontrò improvvisamente il guizzo dell’illuminazione. Si ricordò del volto del presidente della regione che, nei vent’anni precedenti, era stato appena assessore regionale agli enti locali, europarlamentare, vice sindaco, presidente della provincia di Catania, assiduo frequentatore quotidiano degli studi televisivi.

Per Lombardo, da quell’anno duemilasei, il lusso di fare il presidente divenne un “lusso luttuoso” come spesso accade in Sicilia. E accade non per il gioco di un destino cinico e baro, ma per volontà di giocatori cinici e bari, procuratori e collaboratori di giustizia volti non a contrastare il male ma a maledire i cattivi, a ricercare non fattispecie di reato ma tipi d’autore, a perseguire non il fatto successo ma il successo o… l’insuccesso, quello che doveva succedere e non è successo: fare della Sicilia la terra promessa dei mulini a vento e dei treni a vapore. Di Lombardo, subito dopo Avola, si sono ricordati in tanti: uomini di mafia e pentiti della mafia. Poco importa se non esista una sola intercettazione telefonica e ambientale che lo veda protagonista. Conta il “dicunt”, quello di tacitiana memoria, per fare i processi nel nostro paese. Eppure i saggi siciliani ammonivano che la narrazione degli uomini, alla stregua del mare, è “tradimintusa”: può essere ambigua, insincera, a volte tradire. Ancor più se si parla di mafia e pentimenti.

Non ci vuole Alessandro Manzoni per dire che il “torto e la ragione non si dividono mai con un taglio netto”, ma bisogna certamente appellarsi al nipote di Cesare Beccaria e alla sua “storia della colonna infame” per capire che la collaborazione con la giustizia è fondamentale ma non può essere risorsa assoluta ed esclusiva in un processo penale. Esiste una collaborazione che serve alle indagini perché ricostruisce da dentro la mafia, quella di Buscetta e dei primi pentiti per intenderci, i quali – per dirla con Leonardo Sciascia – sono uomini di mentalità intimamente mafiosa impauriti e amareggiati che, vedendo cadere intorno a loro amici e parenti, restituiscono i colpi ricevuti, si vendicano. Di loro, dei “pesci grossi”, che ricostruivano la mafia, lo scrittore di Racalmuto si fidava, li considerava attendibili. C’è un racconto dei fatti accaduti che si accompagna al ravvedimento e ce n’è un altro che è invece calunnia, impostura, alla stregua dei sicofanti che, in Attica, ammazzavano il nemico denunciandolo come ladro di fichi.

Un unico argine ha inventato lo stato di diritto per non edificare nuove colonne infami: mai la parola dei pentiti può costituire l’unico elemento probatorio, mai è possibile condannare se manchi un fatto di reato che prescinda dal loro dire, dal loro verbo che da solo diventa una corsa senza fari nel cuore della notte. Accade invece che, nella città del “Liotro”, si svolga un processo d’appello in cui manca un fatto di reato e questo Raffaele Lombardo, divenuto suo malgrado un tipo d’autore, rischi di essere condannato solo sulla base di un giogo di favella, di semplici racconti e suggestioni, sulla cui base il procuratore generale, pochi giorni fa, ha chiesto la condanna a sette anni e quattro mesi.

Capita per esempio che un soggetto di mafia, D’Aquino, riferisca di aver incontrato un uomo (allora) vicino a Lombardo e di avergli chiesto la promozione in una cooperativa sociale.

Quell’uomo vicino a Lombardo è stato assolto, la promozione non è mai avvenuta, ma quelle dichiarazioni hanno assunto rilevanza nel processo a carico dell’ex presidente. I fratelli Mirabile accusano Lombardo di aver avuto rapporti con il boss di Caltagirone Ciccio La Rocca: nelle migliaia di intercettazioni che li vedono protagonisti non viene mai pronunciato il nome Lombardo. C’è poi Paolo Mirabile che racconta di aver incontrato il principe Scammacca, a suo dire proprietario di un maneggio, vestito da cavallerizzo, per chiedergli di intercedere presso Lombardo nientedimeno che per la licenza di una pizzeria. Non solo non c’è traccia dell’incontro ma soprattutto Scammacca (che non è principe) non ha mai avuto a che fare con un cavallo e un maneggio in vita sua.

La trama surreale prosegue. Che dire delle dichiarazioni di un certo Nizza che afferma di aver votato per un giovane vicino a Lombardo? Quel giovane sarebbe il fratello di Lombardo che ai tempi aveva solo 48 anni. In Sicilia si consumano a volte miracoli: si consegna l’elisir di eterna giovinezza. Un altro di nome Digati, mafioso agrigentino, racconta ancora di aver votato il partito di Lombardo sin dal 2000 (quando era in mente dei) onde poi, per il principio aristotelico di non contraddizione, dire di aver sempre votato per forze politiche lontane dal politico di Grammichele. Lombardo avrebbe incontrato a palazzo d’Orleans il pentito Tuzzolino (condannato per diffamazione aggravata nei confronti di un magistrato e ritenuto di personalità istrionica e inattendibile) ma le telecamere di sorveglianza h 24 dell’edificio non lo hanno mai ripreso. Non c’è traccia ancora del presunto summit di Barrafranca a cui fa riferimento il pentito Caruana.

Il figlio del boss Di Dio, ipotetico raccomandato di Lombardo per regolare una situazione debitoria in un consorzio di bonifica, non viene neanche ricevuto dai dipendenti del consorzio. Un certo Squillaci avrebbe sentito dire da La Rocca, nel carcere di Opera ove erano reclusi in sezioni diverse, che questi era preoccupato per Lombardo. Se ciò può assumere rilevanza in un processo penale siamo oltre il teatro dell’assurdo di Beckett. Altri pentiti, come La Causa, dicono che la mafia avrebbe votato per Lombardo ma non si capisce il quando, il come e il perché. Se la licenza per la pizzeria di Mirabile non è mai arrivata, se la promozione nella cooperativa sociale non è avvenuta, se il figlio di Di Dio non ha mai parlato con il direttore del consorzio di bonifica, se Bevilacqua – altro mafioso chiamato in causa – non è mai riuscito a far assumere una signora all’aeroporto di Catania, se l’appalto della “Tenutella” – altro cavallo di battaglia dell’accusa – non è mai finito nella mani della mafia, è lecito chiedere di cosa viene accusato Lombardo?

Per quale motivo quattro “pesci grossi”, capi mafia di blasone, come Ferone (che ammazzò finanche la moglie di Nitto Santapaola), Malvagna, Pellegriti, Di Fazio (rappresentante provinciale della mafia a Catania), appena sentiti dopo l’elezione a presidente della regione, hanno riferito che Lombardo non aveva a che fare con la mafia? Può uno del calibro mafioso di Umberto Di Fazio non aver sentito parlare di Lombardo? L’interrogativo è inquietante: esiste un solo riscontro fattuale delle dichiarazioni che veda la presenza dell’imputato intento a delinquere? In un sistema liberale può bastare che un uomo accusi un altro e che quest’ultimo venga condannato?

Se manca il fatto, il processo è medioevale. È il processo alle streghe in cui Caterina, la presunta strega, viene fatta morire, a colpi di tenaglie ardenti, sol sulla base di un’accusa di stregoneria che diventa, vera o no, delazione mortifera. È un sillogismo scriteriato in una Sicilia nella quale spesso – sosteneva Sciascia nel ricordo di Giovanni Falcone – “si nascondono i cartesiani peggiori”. La logica direbbe: se per noi Lombardo è un cattivo, come è stato possibile che non abbia commesso il reato? Il reato è “in re ipsa”: il reato è nell’autore anche se non è autore di reato. Ragionando così, il terreno giudiziario diventa però sicotico o addirittura sifilitico. L’unico rimedio costituzionale hahnemanniano resta il fatto, il fatto di reato.

L’unico anticorpo rispetto a una degenerazione terribile e luciferina. Senza ciò, si dà vita a una razionalità, per dirla con gli amici di Leonardo Sciascia, formale e immorale che è piegata a uno scopo abominevole: “mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne”. Il rischio è quello che non si accerti la verità processuale. Che non si “dica” giustizia ma si “faccia” giustizia. Dietro l’angolo non c’è l’Areopago, il tribunale di Atena, ma una carnezzeria, la corte delle Erinni. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia

Il caso. Processo senza prove, per il Pm Raffaele Lombardo “Aveva la mafia dentro…” Antonio Coniglio, Sergio D'Elia su Il Riformista il 29 Novembre 2020.  

È il 29 marzo 2010 e sull’Esa, la sede catanese della presidenza della regione, come in un romanzo gotico, cala improvvisamente un velo di inquietudine. La vicenda giudiziaria, che condurrà alle dimissioni da presidente della regione Raffaele Lombardo, si abbatte improvvisa sulla terra di Sciascia. È la stampa a notificarla, per pubblici proclami, ai siciliani. L’indagato, che allora è l’inquilino di palazzo d’Orleans, apprende dalla carta stampata di rischiare l’arresto. Non basterà la smentita della procura intenta a negare ipotesi di misure cautelari. L’informazione plasma, orienta, crea, divide. I titoli sensazionalistici vanno in scena per mesi, per anni. Serpeggiano come un crocchio di manzoniana memoria. Ben 16 titoli di apertura del Tg1 delle ore 20 vengono dedicati al processo Lombardo e il direttore Minzolini viene censurato dal comitato di redazione per accanimento.

I magistrati catanesi appaiono in disaccordo: un procuratore capo e un aggiunto (attuale procuratore capo di Catania) derubricano il reato a voto di scambio ma i sostituti non ci stanno. La questione finisce dinnanzi al Consiglio superiore della magistratura. Sull’imputazione decide un Gup che dispone l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa. Lombardo si ritrova coinvolto in un doppio binario, sotto processo per concorso esterno e per voto di scambio, con buona pace del ne bis in idem. Oggi, dopo una condanna di primo grado, una assoluzione in appello, un annullamento con rinvio della suprema corte di cassazione, l’appello bis di quel processo è alle battute finali.

In quel sacco dalle pareti elastiche, manca sempre il tassello principale: qual è il fatto di reato commesso dall’ex presidente della regione siciliana? In cosa Lombardo avrebbe favorito la mafia e in cosa la mafia sarebbe stata favorita da Lombardo? È un processo indiziario che si fonda sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che irrompono nel bel mezzo del bailamme mediatico. I collaboratori raccontano di vecchi incontri, di summit, di collegamenti con il presidente della regione. Non c’è però una sola intercettazione telefonica o ambientale, nonostante il politico siciliano sia finito nel grande fratello di Gioacchino Genchi, nella quale si trovi un riscontro fattuale, che configuri il fatto di reato. I pentiti parlano, accusano ed entrano nel romanzo. Marco Pannella avvisava che, quando i giornali anticipano le notizie, c’è sempre il rischio che scatti la presunzione utilitaristica in chi collabora. Il collaboratore arriva dopo la notizia, sa di servire al processo e diventa egli stesso l’unica ancora del fatto di reato.

I Pm argomentano che Lombardo sarebbe nato in un contesto mafioso e avrebbe studiato dai salesiani. Come il boss dei boss: Nitto Santapaola. Una sorta di destino cinico e baro, di predestinazione alle relazioni pericolose. Lombardo mafioso perché nato nel territorio di Ciccio La Rocca (che poi è pure il territorio di don Luigi Sturzo), Lombardo mafioso perché conosce il boss Rosario Di Dio che però è stato pure sindaco e avrà incontrato pure prefetti, vescovi e procuratori. Il boss si sarebbe presentato a un consorzio di bonifica, raccomandato da Lombardo, per regolare una sua situazione debitoria. Particolare non di poco conto: non sarebbe neanche stato ricevuto dai dipendenti della struttura. Lombardo mafioso perché i pentiti dicono che è amico loro ma forse ha pure tradito la mafia.

E il fatto, il re del diritto penale? Pare per esempio, secondo l’accusa, che Lombardo avrebbe agevolato l’organizzazione criminale nell’assegnazione di un appalto per la realizzazione di alloggi per i militari di Sigonella. Il tentativo ipotetico, mai provato, non sarebbe andato a buon fine ma basta ciò per aprire le porte al sospetto. Il geologo Barbagallo, in odore di mafia, si lamenta telefonicamente di essere stato penalizzato da Lombardo e, per le elezioni regionali, giura di non esser passato neanche dalla sua porta ma è un altro elemento chiave del processo. Lombardo avrebbe avuto rapporti con il boss Bevilacqua talmente stretti da redarguire un tale Bonfirraro perché quest’ultimo sostiene alle elezioni il candidato vicino a Bevilacqua e non il suo.

Il pentito Caruana parla del misterioso summit di Barrafranca che non lascia traccia come i beati paoli, il mafioso Palio dice che il clan cercava voti per il politico di Grammichele da prima del ‘98, tesi confermata dal super pentito Santo La Causa. C’è da interrogarsi su come sia possibile che le accuse del pentito D’Aquino agli uomini di Lombardo, per le quali questi hanno raggiunto l’assoluzione, possano ricadere misteriosamente sull’ex presidente della regione. E ancora se possano, in uno stato di diritto, assumere rilevanza i racconti del collaboratore Francesco Schillaci che avrebbe appreso, affacciatosi come Romeo dalle finestre del carcere di massima sicurezza di Opera, dal boss La Rocca che Lombardo era un fidato amico di quest’ultimo.

Sembra di trovarsi dinnanzi alla preoccupazione paventata da Luigi Ferrajoli in La mutazione sostanzialistica del modello di legalità penale. Sembra di assistere a un reato di status e non a un reato di azione o di evento. Per cosa si dovrebbe punire Lombardo, quale fatto ha commesso? Per un summit nel quale non c’è traccia della sua presenza, un favore alla mafia mai provato? È come se, nella terra nella quale si è passati dalla “mafia non esiste” al “tutto è mafia”, il consenso debba essere sempre e comunque inficiato dalla mano mafiosa. E Lombardo di voti ha fatto man bassa in ogni competizione elettorale. Raffaele Lombardo è diventato un tipo d’autore. È il taterschuld, la colpa d’autore, la colpa per il modo d’essere.

Ciò che conta è il modo di essere dell’agente, ciò che si ritiene l’agente sia. L’essenza della colpa d’autore sta nel rivolgersi alla psiche dell’uomo, alla sua mentalità. Lo stato non si interessa soltanto dell’azione esterna ma si arroga finanche il diritto di assurgere a stato etico. La potestà punitiva incide sulla sfera spirituale dell’individuo. È la fine della separazione tra diritto e morale: il tramonto dello stato di diritto. Come ha scritto Tullio Padovani: «L’oggetto del rimprovero di colpevolezza consiste nell’aver plasmato la propria vita in modo da acquisire una presunta personalità delinquenziale».

Quando il caso giudiziario è esploso Raffaele Lombardo compiva 60 anni. Qualche giorno fa ha festeggiato il suo 70° compleanno. L’esperienza di un governo regionale venne interrotta ex abrupto e, per dieci anni, un uomo è stato sottoposto alla potestà punitiva dello Stato accompagnato dallo stigma della mafiosità. Il punto non è se l’ex presidente della regione siciliana abbia governato bene o male, se sia simpatico o antipatico, se sia gelido o affabile, se sia un riformatore o una macchina di consensi clientelari. La questione è il fatto: indicateci il fatto di reato! Sarebbe possibile condannare un uomo, chiunque esso sia, solo sulla base delle dichiarazioni dei pentiti? No, non è possibile. I posteri ci diranno quanto nell’affaire Lombardo, nel suo crucifige, abbia inciso la sua scelta di bloccare i termovalorizzatori in Sicilia, di scontrarsi con poteri più forti di lui.

Questo è il giudizio storico ma la potestà punitiva deve attenersi rigorosamente al fatto e non può trattare i fatti come pesci sul banco del pescivendolo. A colpi di mannaia, di giudizi moralistici un tanto al chilo. Il giudice deve stare lontano dal verminaio delle passioni. Solo così non si scriveranno romanzi gotici ma si recupererà il senso più profondo dello “ius dicere”, dell’affermare il diritto.

Oggi, sul processo Lombardo, a un passo dalla sentenza, occorre finalmente esercitare la virtù del dubbio. Senza la virtù del dubbio, il finale è già scritto. La chiusa non sarà una manifestazione di forza della prova giuridica, ma una prova di forza del “diritto del nemico”. È la terribilità – come ammoniva Sciascia – nemica del diritto e della giustizia, che condanna non per quel che si è fatto ma per quel che si è, che non ci libera dal male, ma ci libera dai “cattivi”. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia

L'assoluzione dell'ex presidente della Sicilia. Raffaele Lombardo assolto completamente dopo 12 anni di limbo a un passo dall’inferno. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia su Il Riformista l'11 Gennaio 2022. 

La notizia dell’assoluzione l’ha raggiunto in una chiesa mentre, a guisa del segno di un destino magnetico che restituisce bene ai sentimenti buoni, dava l’ultimo saluto al suo amico di sempre, Giuseppe L’Episcopo, il proprietario di quel maneggio considerato dai pubblici ministeri di Catania la “cassetta della posta della mafia”. Secondo l’accusa, in quel luogo, i boss gli avevano recapitato messaggi, richieste, suppliche e preghiere. Perché in fondo questo accade nel più feroce dei processi, quello in cui non si processa il fatto di reato ma il tipo d’autore. Capita che anche il più puro dei sentimenti, l’amicizia, la filía, debba essere insozzato, sporcato dai sospetti, dalle ambiguità più malfide.

Il cattivo non può avere amici buoni e nessun luogo, per l’empio, è buono. Luoghi e persone si confondono in un circolo vizioso di infamia e disonore. Similes cum similibus congregantur. I simili si accompagnano con i loro simili. Il pubblico ministero che parte da questo assioma vorrebbe coltivare l’ambizione diabolica di mettere un imputato dentro una “campana di vetro”, processarne la vita, entrare finanche nel talamo della sua intimità. Raffaele Lombardo da Grammichele ha aspettato la sentenza, che lo ha assolto da ogni accusa di concorso esterno per mafia e corruzione elettorale, in quel momento di estremo commiato e, forse, da qualche giorno, alle pendici dell’Etna, in tanti credono nel destino onesto che accompagna sempre i buoni sentimenti. Due concezioni millenarie: quella “magnetica” e quella “elettrica” del destino: non conta ciò che accade ma come lo si vive, una realtà buona è il prodotto di pensieri, parole, opere, buoni sentimenti. Certo ci sono voluti dodici anni, un governo della Regione ingiustamente decapitato che equivale alla razzia dei principi democratici, una Sicilia ancora più infamata, la vita di un uomo sospesa in un limbo di maldicenze a un passo dall’inferno, ma la giustizia come la civetta di Minerva infine è arrivata.

I giudici di Catania hanno “detto” giustizia, non “fatto” giustizia. In questa ennesima triste storia di diritto penale del nemico quasi convertita nel lieto fine delle Eumenidi che non maledicono, la tazza del consolo vuole che emergano quei magistrati davvero “ordinari”, i quali silenziosamente amministrano la giustizia. Non si troveranno i loro nomi sui giornali, perché valutano i fatti senza nessun’altra vocazione, foss’anche quella apparentemente più nobile che diventa la più luciferina di creare hegelianamente “la società dei giusti”. Per esempio, quel Procuratore, oggi in pensione, Michelangelo Patanè, il quale, insieme al suo aggiunto di allora Carmelo Zuccaro, evitò che Lombardo – come voleva la sceneggiatura del caso – uscisse in manette da Palazzo d’Orleans, finendo per questo finanche dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura. E, infine, il collegio della Corte d’Appello di Catania presieduto da un giudice del giusto processo che non ha mai dissipato le parole: Rosa Anna Castagnola.

Di questa storia restano le arringhe dell’avvocato Maria Licata e del professore Vincenzo Maiello e l’ennesimo sforzo di Radio Radicale di rendere pubblico, di far conoscere per deliberare, come voleva Marco Pannella, consapevole che, solo uscendo dalle “segrete stanze”, il potere sia capace di conoscere un principio riparatore, incontrare il senso del limite, quella misura che è il senso vero dello Stato di Diritto: μηδεν ἄγαν, midén ágan, nulla di troppo. Resta anche Il Riformista che, pressoché isolato, scrive pagine non di cronaca ma interpreta una battaglia culturale e civile. Perché, dopo quattro, questo è il quinto articolo su questo giornale, quello del finale di partita di una storia giudiziaria, un lieto fine se non fosse che l’uomo, la sua vita familiare e politica, nel corso di dodici anni di attesa di giudizio, hanno già subito danni, forse, irreparabili. Noi di Nessuno tocchi Caino abbiamo conosciuto Raffaele Lombardo il giorno in cui la nostra compagna Sabrina Renna insistette per farcelo conoscere, iscrivendolo alla nostra organizzazione nelle mani della sua tesoriera Elisabetta Zamparutti. Siamo stati orgogliosi della sua tessera quando, per tutti, era Caino, il tipo d’autore, il condannato a un destino cinico e baro.

Di Lombardo abbiamo sperimentato, negli incontri che si sono susseguiti, una realtà diversa dalla rappresentazione mediatico-giudiziaria: un uomo scrupoloso, appassionato, curioso, desideroso di far conoscere le ragioni della sua vita e della sua esperienza di governo. Soprattutto abbiamo letto le carte di quel processo, senza fatti, prove, fondato esclusivamente sulle dichiarazioni dei pentiti. La mafia non più come organizzazione criminale ma come morbo che assale, contagia, anche se si è asintomatici, se le proprie scelte siano diametralmente opposte alle ragioni del male. Una storia fatta di presunti contatti, di fattoidi, un romanzo gotico nel segno del sentito dire. Lombardo era mafioso perché alcuni pentiti dicevano che lo fosse.

E questo è bastato per distruggere la vita di un uomo e di una esperienza di governo, lasciando sul campo i “morti civili”: un piano dei rifiuti drammaticamente interrotto quando si erano gettate le basi per la differenziata, una coraggiosa e incompiuta riforma della sanità, una Sicilia ancora una volta marchiata come irredimibile. Sono i “morti civili” di un armamentario bellico che si nutre di una eterna emergenza, nel nome della quale si tiene in piedi un reato senza fattispecie, il concorso esterno in associazione mafiosa, e una norma demoniaca – il 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario – che le giurisdizioni superiori hanno già dichiarato confliggere con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

Una norma che, alla stregua di tutti i bis – 4 bis, 41 bis, 416 bis… diffidate di ogni articolo bis, nemico del Diritto! – non chiede ai detenuti una educazione sentimentale, un alto livello di coscienza, una nuova vita ma, come tutti gli assoluti iuris et de iure, impone loro di continuare a “trafficare”, a “scambiare” la loro libertà con un’accusa, un “dire male di”. Chiediamo a questi detenuti, di fare quello che hanno continuato a fare nella loro prima vita: “maledire”! E può uno Stato di Diritto trasformare gli uomini in uno “strumento vocale”, in un mezzo anziché chiedergli solo di essere un fine, semplicemente diventare uomini capaci di conoscere l’amore, la gratitudine, l’umanità? L’essere “addomesticati”, nel senso etimologico del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry: creare dei legami, condurre a casa. Fino a quando ci permetteremo un Paese nel quale, in nome della igienizzazione, della sterilizzazione della società, potremmo sacrificare i principi fondamentali e trattare i territori del mezzogiorno come un lebbrosario insalubre di misure di prevenzione, confische, interdittive, scioglimenti comunali, destituzione di classi dirigenti, massacro di uomini nel nome di un’antimafia che si specchia nella mafia, finendo per somigliarle? Per trent’anni, alla terribilità della mafia si è risposto con una terribilità uguale e contraria.

Sulla teoria del fine che giustifica i mezzi, il regime dell’antimafia ha allestito nel nostro Paese un arsenale terribile di leggi speciali e misure di emergenza, di processi inquisitori e sommari, di misure in teoria di sicurezza e prevenzione di fatto di pregiudizio e punizione, di pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi. Nessuno tocchi Caino continua la sua lotta volta a scongiurare la tragica eterogenesi dei fini che si rivelano l’opposto rispetto agli scopi originari. Siamo convinti che sia possibile combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani fondamentali. La conclusione positiva, seppur tardiva, della vicenda di Raffaele Lombardo ci conferma che è possibile.

Allora, nel finale di questa storia siciliana, immaginiamo l’uomo di Grammichele nelle campagne della sua terra quando ci raccontava che non poteva fare a meno di quel sole che non sa maledire. Quel processo si è (quasi) concluso con le Erinni convertite in Eumenidi, con la vendetta che ha lasciato posto alla speranza. Certamente la giusta chiusa è il sorriso, da qualche parte, chissà dove, di Giuseppe L’Episcopo e la sgroppata dei suoi cavalli. Quei mammiferi avevano interpretato una decisa “disobbedienza civile”: non ci stavano proprio, poveri diavoli, a esser “associati” con la mafia. Antonio Coniglio, Sergio D'Elia

Il diritto ha perso la bussola. Caso Lombardo, quando per i Pm non contano i fatti. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l'11 Gennaio 2022. 

Ripetere le sacrosante ma arcinote considerazioni sull’ennesima vicenda di malagiustizia, quale quella che ha distrutto senza motivo la vita privata e politica dell’ex Presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, è quasi frustrante. Lo sappiamo bene ormai: rimanere prigionieri per undici anni di accuse infine giudicate del tutto prive di fondamento, è una indegna barbarie. Consentire alla Pubblica Accusa di accanirsi appellando sentenze assolutorie ne costituisce un’aggravante. Aver pensato, con la riforma Bonafede della prescrizione, che tutto ciò fosse troppo poco, dovendosi consentire di prolungare senza limiti quella barbarie, dà la dimensione dell’impazzimento che ha travolto il Paese in questi ultimi anni. Tutto detto e ridetto in ogni modo ed in ogni salsa. Ma se non facciamo uno sforzo ulteriore, volto a comprendere davvero perché tutto ciò possa accadere, e quindi a porvi rimedio, le nostre rimarranno lamentazioni sterili e perfino un po’ lugubri.

E forse una mano per fare questo passo in avanti ce la danno proprio le argomentazioni svolte in udienza dalle due rappresentanti della Procura Generale, riportate testualmente (e meritevolmente) dall’agenzia Adnkronos. Le due magistrate stanno illustrando in quali termini il Presidente Lombardo avrebbe concorso nei fatti criminali posti in essere dalla associazione mafiosa a lui contestata. Perché al politico siciliano non vengono contestate condotte materialmente individuabili: non un appalto, non una legge di favore, non una delibera di Giunta; bensì una ben più indefinibile ed inafferrabile condotta “rafforzativa” della autorevolezza criminale della cosca. Ed ecco come viene spiegata questo classico della fumisteria giurisprudenziale in tema di concorso esterno dalle due PP.MM.: «Il concetto di rafforzamento dell’associazione può trovare sotto il profilo plastico un esempio guardando al mondo della finanza. Pensiamo a cosa accade nel mondo della finanza alle quotazioni in borsa ogni qual volta vengono diffuse notizie su alleanze, fusioni o separazioni.

Lo scorso anno, quando si diffuse la notizia della fusione dell’alleanza tra Fiat e Peugeot, le azioni facenti capo al gruppo Fiat Chrysler volarono. Quell’accordo, che poi non è avvenuto, ha avuto l’effetto di far volare le azioni. Questo è quello che riteniamo sia accaduto in concreto [sic!, n.d.r.] in riferimento a un gruppo criminale che si trova a giocarsi, dalla sua, un patto sinallagmatico. E questo è l’effetto che questo patto può avere per Cosa Nostra». Secondo la ricostruzione del Pg -prosegue il lancio di agenzia- non è tanto importante concentrarsi se si sia tenuto o meno il summit mafioso alla presenza di Lombardo, come indicato nella sentenza di primo grado, ma guardare al fatto complessivo come “tante tessere del mosaico”. Ecco un caso magnificamente esemplificativo di come il diritto penale nel nostro Paese abbia dissennatamente perso la sua connotazione essenziale, senza la quale il suo esercizio diventa puro arbitrio: la “tipicità”, cioè la determinatezza della norma incriminatrice. E si badi, non è “colpa” delle due PM, perché da decenni la elaborazione giurisprudenziale è impegnata a legittimare simili derive illiberali.

La condotta materiale che si attribuisce all’imputato è, in questo caso, di avere dato “autorevolezza”, forza, valore a quella cosca, che verrebbe legittimata dal sostegno dei vertici della politica regionale, desumibile da un incontro al quale “non importa” se il Lombardo abbia partecipato, al pari di come le azioni di una società quotata acquistano valore al solo “annuncio” di un accordo, anche se esso poi non si concretizzerà. Invito tutti a riflettere seriamente sul senso e sulle decisive implicazioni di quel ragionamento accusatorio, ove davvero si voglia comprendere come sia possibile che gli esiti di un processo penale possano oscillare, impazziti, tra condanne pesantissime ed assoluzioni draconiane intorno allo stesso fatto. Molto semplicemente, perché non c’è il fatto.

Perché si usa la norma penale, e la si interpreta, in modo da ampliare in modo indiscriminato l’area della incriminabilità, nella irresponsabile illusione di poter così meglio prevenire i fatti criminali. Accade invece il contrario: con l’arbitrio della indeterminatezza dell’accusa, si affida alle Procure un potere enorme ed incontrollabile, ma al contempo si fa strame non solo della vita e della dignità delle persone, ma anche della credibilità e della autorevolezza della giustizia. Ecco su cosa occorre lavorare, se non vogliamo ridurre principi basilari di civile convivenza a vuote giaculatorie senza speranza.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

La vicenda dell'ex presidente della Regione Sicilia. Il caso Lombardo e il reato che non esiste: il concorso esterno in associazione mafiosa. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 12 Gennaio 2022. 

La vicenda giudiziaria di Raffaele Lombardo, che ha registrato una nuova assoluzione da parte della Corte di Appello di Catania, dopo che la Corte di Cassazione aveva annullato la prima sentenza di assoluzione, si è snodata, come ormai da tempo spesso avviene per gli amministratori pubblici delle Regioni del Sud, intorno alla accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E va ad aggiungersi ad una lista, che sta diventando infinita, di politici meridionali, devastati nella loro dimensione pubblica da tale accusa, palesemente infamante, e poi, dopo un calvario di svariati anni, riconosciuti innocenti. Con un danno irrimediabile non solo per le loro vite, ma anche per le collettività in cui hanno svolto le loro battaglie politiche e che sono state private di protagonisti importanti della dialettica democratica e per la stessa credibilità del sistema giustizia.

La circostanza che, specie in Sicilia ed in Calabria, si assista ad un ripetersi così frequente di vicende giudiziarie, che hanno al loro centro il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e che, dopo che la vita degli accusati è stata distrutta, si concludono con una assoluzione, non può non imporre una riflessione per tentare di individuare le ragioni di una tale sistematica aberrazione. Su questo punto occorre subito svolgere una considerazione. Sono vicende che, nonostante la pressione che la stessa gravità di una accusa di contiguità con la criminalità organizzata di stampo mafioso non può non esercitare sull’animo di chi decide e nonostante la pressione che media ed avversari politici spesso esercitano, si concludono spesso con una assoluzione. Vi è la conferma, perciò, che il valore della autonomia e dell’indipendenza che la Costituzione assicura ai Giudici italiani è un valore irrinunciabile a tutela dell’intera collettività. Il che non significa, certo, che i Giudici non possono sbagliare, ma, senza voler affrontare in questa sede il tema della responsabilità per palese negligenza ed ignoranza, indica che quella autonomia e quell’indipendenza riducono, e grandemente, i margini di errore.

L’indagine deve, allora, dirigersi altrove, muovendo, innanzitutto, dalla considerazione del reato contestato: il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, che è spesso giustamente definito, su questo giornale, come “il reato che non esiste”. Esso, frutto esclusivamente di elaborazione giurisprudenziale, è stato “creato” per poter dare una risposta repressiva a quelle forme di contiguità (politica, imprenditoriale, giudiziaria, professionale, ecc.) con le organizzazioni criminali, non idonee tuttavia ad integrare una ipotesi di partecipazione diretta al sodalizio criminale. Che si sia trattato di una “creazione” giurisprudenziale lo ha detto con chiarezza la Corte Europea di diritti dell’Uomo, che, nella ormai famosa sentenza Contrada, ha affermato la applicabilità della incriminazione alle sole vicende successive al consolidarsi nella giurisprudenza degli elementi costitutivi di tale reato. E non si può non notare, subito, che una tale “creazione” giurisprudenziale è stata una condotta eversiva rispetto ad un sistema rigido delle fonti, quale quello che caratterizza l’ordinamento italiano, che non attribuisce alla giurisprudenza il compito di introdurre nuove norme. Avrebbe dovuto esservi una immediata reazione del legislatore per ripristinare una corretta ripartizione di competenze.

A parte l’aspetto appena indicato, il punto debole della costruzione sta nella individuazione (o meglio nella mancata adeguata individuazione) degli elementi costitutivi di questa fattispecie. Già il reato di partecipazione ad associazione mafiosa ha confini molto labili, atteso che è idoneo ad integrare l’illecito ogni contributo alla vita o al rafforzamento della associazione, senza alcuna determinazione di requisiti minimi della condotta incriminata. È evidente, allora, che, nel momento in cui si intende spingere oltre i confini dell’illecito penale per coinvolgere anche chi non faccia in nessun modo parte del sodalizio criminale, i concetti di “contributo” e di “apporto” alla associazione, la cui esistenza individua la condotta del concorrente esterno, finiscono con l’essere ancora di più privi di qualsiasi preventiva caratterizzazione. Sono, così, spalancate le porte a margini di discrezionalità di tale ampiezza, da essere inevitabilmente subordinati a soggettivi giudizi di valore e a personali condizionamenti socioculturali. Si realizzano, in definitiva, le condizioni ottimali per l’attuazione di “una giustizia etica” e, attraverso di essa, di “uno stato etico”, foglia di fico di tutti i totalitarismi.

In questa prospettiva, si concretizzano, specie per coloro che vivono ed operano in territori ad alto tasso di criminalità mafiosa, con cui è inevitabile convivere, margini di rischio penale incalcolabili preventivamente. Basti pensare a tutte quelle vittime del “pizzo”, che hanno dovuto subire il processo, e talvolta la condanna, per il reato di concorso esterno consumato per aver pagato, e, quindi, in definitiva colpevoli per non essersi messe nelle mani di uno Stato, che, a sua volta, troppe volte aveva dimostrato di non essere in grado di proteggerle. Trasformate, perciò, da vittime in criminali, in virtù di una fattispecie di reato priva di qualsivoglia determinatezza. Con una fattispecie così totalmente aperta, accade anche che condotte che, nella normale vita di relazione, possono al più essere tacciate di semplice irregolarità o di mera non aderenza ai precetti morali, nel momento in cui vedono coinvolto anche un membro di una associazione criminale diventano lo spunto per l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa.

Cosa fare? Prendersela con i pubblici ministeri? Sarebbe errato, anche se troppo spesso l’incriminazione per concorso esterno appare una forzatura. Ma è la stessa configurazione della incriminazione a legittimare la forzatura. Per poter muovere un biasimo bisognerebbe dubitare della loro buona fede. Ma è un dubbio che non può essere preconcetto. Se si parte dubitando della buona fede di chi istituzionalmente è chiamato, anche rischiando personalmente, a combattere la mafia, si mettono in discussione non solo il ruolo delle Procure della Repubblica, ma le stesse fondamenta dello Stato. Il punto è un altro. Ancora una volta è la politica che non ha fatto e non fa il suo dovere. Per convenienza, per vigliaccheria, per opportunismo, per impotenza. In uno Stato democratico, spetta al Parlamento determinare le condizioni di afflizione, affinché i propri cittadini non siano in balia di poteri arbitrari. È questo il senso profondo dell’art. 25 della Costituzione, repubblicana ed antifascista, che stabilisce che le norme penali debbano contenere una precisa descrizione delle condotte vietate e punite.

Quella norma indica con chiarezza che il Costituente non ha voluto che al potere arbitrario della dittatura si sostituisse un potere arbitrario dell’ordine giudiziario. Per tale ragione i componenti di quest’ultimo sono espressamente sottoposti alla Legge, che non può essere una pagina bianca. Le forze politiche, che omettono di legiferare in questa materia e, di conseguenza, tollerano, ormai da decenni, questo stato di cose, semplicemente non fanno il loro dovere e violano il dettato costituzionale. C’è da chiedersi se la vicenda Lombardo, per il rilievo politico avuto dalla persona coinvolta, potrà finalmente indurre il Parlamento a fissare dei paletti precisi per determinare l’ambito di applicazione del reato di concorso esterno. I primi segnali non fanno ben sperare.

La notizia dell’assoluzione di Lombardo è stata data, dalla maggior parte delle testate di informazione, con estrema parsimonia. Il pensiero non può, ancora una volta, non andare alla riflessione di Sciascia, che aveva individuato nei professionisti dell’antimafia un ostacolo all’affermarsi della legalità. Troppo utile, per questi signori ed i loro alleati, l’esistenza di un reato del tutto indefinito, ma altamente infamante, da poter scagliare contro gli avversari. Astolfo Di Amato

·        Il Caso Cuffaro.

La figlia di Totò Cuffaro diventa magistrato. E lui si commuove: «Ha sconfitto le mie sconfitte». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022

Ida Cuffaro proclamata a Roma, l’annuncio del padre (che non è andato alla cerimonia) durante un convegno. «Oggi per me è un giorno importante»

La proclamazione c’è stata ieri a Roma. Ora Ida Cuffaro, figlia dell’ex governatore siciliano, è un magistrato. «Sono orgoglioso del risultato che ha ottenuto», le parole del padre, che ha dato la notizia durante un convegno dell’Associazione Nazionale Piccole Imprese.

«Oggi per me è un giorno importante», ha spiegato, commosso, l’ex presidente della Regione da poco riabilitato dalla magistratura di sorveglianza di Palermo dopo una condanna a sette anni per favoreggiamento alla mafia che lo costrinse alle dimissioni. «Il suo successo sconfigge la mia sconfitta», ha detto alla platea del convegno Cuffaro, ora commissario della Dc Nuova.

Ida Cuffaro ha superato anche l’esame per diventare avvocato e ha vinto un dottorato all’università di Palermo. Una carriera brillante quella della figlia dell’ex governatore, una ragazza molto riservata, che ha sempre scelto di evitare la ribalta.

La notizia del superamento del concorso in magistratura, pubblicata nei mesi scorsi, venne accolta sui social dalle critiche di chi riteneva inopportuno che a indossare la toga fosse la figlia di un condannato per reati di mafia. In difesa dell’allora studentessa si schierò il docente universitario Costantino Visconti. «Sono insulti vergognosi e scandalosi ai danni di una ragazza studiosissima e coraggiosa», commentò.

Condanna per mafia, Cuffaro riabilitato. Ma non potrà candidarsi per sette anni. Nel frattempo l'ex presidente è tornato alla politica ed è il coordinatore della Dc Nuova, che ha ottenuto voti ed eletti sia al Consiglio comunale di Palermo che nell'Assemblea regionale siciliana. La Repubblica il 3 ottobre 2022.

Il tribunale di sorveglianza di Palermo ha concesso la riabilitazione all'ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, dalle due condanne da lui rimediate: una negli anni '90, per diffamazione nei confronti di un magistrato, Francesco Taurisano, l'altra - ben più grave - per favoreggiamento aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra, che aveva portato l'esponente democristiano, nello scorso decennio, a scontare circa 6 anni.

I giudici, pur dando atto del percorso di ravvedimento dell'ex governatore, difeso dall'avvocato Marcello Montalbano, hanno però applicato una norma della "legge Spazzacorrotti" che impedisce a Cuffaro di tornare alla politica attiva e al cosiddetto elettorato passivo: dato che per lui l'interdizione dai pubblici uffici è perpetua, dovranno trascorrere sette anni dalla data del provvedimento perché Cuffaro possa tornare a candidarsi.

Nel frattempo l'ex presidente è tornato alla politica ed è il coordinatore della Dc Nuova, che ha ottenuto voti ed eletti sia al Consiglio comunale di Palermo che nell'Assemblea regionale siciliana. Lui personalmente però non può scendere in campo. La sua difesa sta valutando la presentazione di un'opposizione allo stesso tribunale di sorveglianza: ritiene infatti che l'applicazione della norma della Spazzacorrotti, entrata in vigore dopo la fine della vicenda giudiziaria di Cuffaro, sia retroattiva e perciò vietata dai principi del diritto penale.

Secondo i giudici del tribunale di sorveglianza, oltre ad aver scontato la pena, Cuffaro, "ha ritenuto di manifestare pubblicamente la presa di distanza dal fenomeno mafioso, dichiarando che 'la mafia è una cosa che fa schifo. Lo contìnuo a dire perché quando l'ho detto qualcuno ha riso sopra, ma la mafia fa schifo ed è il più grande cancro che abbiamo in Sicilia".

L'ex governatore, inoltre, ha allegato alla sua istanza "una notevole mole di documenti da cui emerge un'importante e continuativa dedizione ad attività di volontariato e partecipazione a numerose iniziative legalitarie in difesa dei diritto dei detenuti". I magistrati citano i viaggi in Burundi, presso l'ospedale "Cimpaye Sicilia", di Cuffaro che ha messo "a disposizione della comunità locale le proprie capacità organizzative e sanitarie al fine di favorire un più ampio progetto di assistenza e le raccolte fondi  finalizzate alla realizzazione di progetti di sviluppo nel Burundi e nel Niger".

E ancora Cuffaro ha "scritto tre romanzi col dichiarato intento di devolvere i proventi delle vendite a sostegno dello sviluppo di progetti di recupero a vantaggio dei detenuti nonché per la cura della sclerosi multipla". Infine il tribunale dà atto all'ex governatore di aver pagato tutte le spese processuali e di mantenimento in carcere e di aver versato alla Regione Sicilia i 158.338 euro a titolo risarcitorio che gli aveva imposto la Corte dei Conti.

Ida Cuffaro diventa giudice, speriamo che il frutto cada lontano dall’albero. Arturo Guastella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Ottobre 2022.

Parafrasando un luogo comune, ora l’auspicio è quello «che il frutto possa cadere ben lontano dall’albero che lo ha generato». E, nel commentare, l’ingresso in magistratura di Ida Cuffaro, figlia di Totò ex presidente della Regione Sicilia, finito in carcere per favoreggiamento alla mafia, non abbiamo motivo per dubitarne, anche se il neo magistrato, nella votazione finale del concorso, ha riportato appena due punti (24 agli scritti e 72 agli orali) in più del minimo. Un punteggio, ben lontano dal 110, lode e menzione, con il quale si era laureata in Giurisprudenza all’Università di Palermo. Un cursus honorum, di tutto rispetto, visto che la ragazza, dopo essersi abilitata alla professione di avvocato, aveva vinto anche un dottorato di ricerca, presso lo stesso ateneo, con una tesi su «pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali».

Certo, e non si ha motivo di dubitarne, ora la sua carriera la porta su barricate opposte a quelle che usava frequentare il suo genitore, anche se quest’ultimo, dopo aver scontato la sua pena ed essere ritornato in politica, non ha perso occasione per ribadire di aver imboccato la via della legalità, dicendosi fortemente pentito dei suoi trascorsi poco limpidi.

Certo sono lontani i tempi, quando bastava avere un parente, anche di terzo grado, che aveva una qualche pendenza con la giustizia, per vedersi sbarrata qualunque strada verso una qualsiasi carriera nelle forze dell’ordine. Figurarsi in Magistratura… E, tuttavia, avere in famiglia un magistrato, dopo che questi ultimi, i giudici, erano stati considerati per anni gli avversari da contrastare, se non proprio da combattere, un qualche imbarazzo deve averlo creato all’ex Presidente della Regione Sicilia.

Come non deve essere stato semplice per la dottoressa Cuffaro, fare una simile scelta, consapevole che, comunque, sarebbe stata sempre vista come la figlia di un politico che si intratteneva con i mafiosi, scegliendo a sua volta, una professione, quella dei magistrati, che dalla mafia sono stati più e più volte, colpiti a morte, screditati e politicamente attaccati per isolarli e colpirli più agevolmente.

È anche vero che le colpe dei genitori non debbono ricadere sui figli e che a questi ultimi deve essere data la possibilità di seguire la propria strada, anche se quest’ultima collide violentemente con l’operato illegale dei propri parenti. Siamo anche certi che i commissari che hanno esaminato il neo magistrato, queste perplessità le hanno avuto, finendo, tuttavia, per premiare il merito e la volontà, espressa con la stessa decisione di accedere ai ranghi della giustizia, di essere pronta a fare, sempre, comunque, e per intero, il proprio dovere, anche in contrasto con l’ambiente nel quale si è cresciuti.

Del resto, la dottoressa Cuffaro, già prima del concorso in Magistratura, aveva scelto la via della ricerca accademica, rifuggendo da una professione, quella di avvocato, che, per forza di cose, l’avrebbe portata a difendere (come è giusto che sia) anche qualche malavitoso, perpetuando, così, l’equivoco di quel frutto che non può che cadere vicino all’albero. Nella sua scelta, inoltre, ci deve essere stata sottesa l’ammirazione per chi rischiava la propria vita per difendere i diritti dei cittadini, combattendo in prima linea una potentissima organizzazione malavitosa, i cui tentacoli si era resa conto erano riusciti ad infiltrarsi persino in casa propria. Una decisione ponderata, e per ciò stesso, degna di fiducia. Quasi come simbolo che nella guerra alla Mafia, l’esercito dei suoi nemici può annoverare anche chi si credeva per lo meno neutrale, se non proprio colluso.

Forse quel grido singhiozzato ai mafiosi di pentirsi, della vedova Schifani, dopo la strage del giudice Falcone e della sua scorta, deve aver aperto i cuori a quanti più siciliani si è fin qui creduto. Sarebbe auspicabile, che in un futuro processo di Mafia, magari alla primula rossa, Matteo Messina Denaro, fosse proprio il giudice togato, Ida Cuffaro, a comminargli la pena più severa.

·        Il Caso Matacena.

(ANSA il 16 settembre 2022) - L'ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, di 59 anni, è morto a Dubai. La causa del decesso, secondo quanto si é appreso, sarebbe da attribuire ad un infarto. La notizia, diffusasi nel pomeriggio a Reggio Calabria, la città in cui Matacena aveva vissuto prima di trasferirsi a Dubai, è stata confermata dai legali dell'ex parlamentare, Marco Tullio Martino, Enzo Caccavari e Renato Vigna. Matacena, che deceduto poco dopo essere stato portato in ospedale, viveva negli Emirati Arabi da circa 10 anni dopo essere stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Matacena, in passato, era stato legato all'annunciatrice televisiva Alessandra Canale. Dopo il divorzio dall'ex moglie, Chiara Rizzo, si era da poco risposato con Maria Pia Tropepi, ex modella e medico. Il padre di Matacena, Amedeo senior, morto nel 2003, aveva creato la società "Caronte" per la gestione dei servizi di traghettamento nello Stretto di Messina ed era stato presidente della Reggina calcio.

Morto a Dubai ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, era latitante. Viveva negli Emirati dopo condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La Repubblica il 16 Settembre 2022.

L'ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, 59 anni compiuto proprio ieri, è morto a Dubai. La causa del decesso sarebbe da attribuire ad un infarto. La notizia è stata confermata dai legali dell'ex parlamentare, Marco Tullio Martino, Enzo Caccavari e Renato Vigna.

Matacena, morto mentre veniva portato in ospedale, viveva negli Emirati Arabi da circa 10 anni dopo essere stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. In passato era stato legato all'annunciatrice televisiva Alessandra Canale. Dopo il divorzio dall'ex moglie, Chiara Rizzo, si era da poco risposato con Maria Pia Tropepi, ex modella e medico chirugo che era con lui quando ha avuto un malore. Ed era con lui nell'ambulanza che doveva portarlo in ospedale e dove l'ex parlamentare è morto.

Nei giorni scorsi era stato già ricoverato nei giorni scorsi in un ospedale perchè accusava problemi alla colecisti. Era stato dimesso ed era tornato a casa, nel centro di Dubai.

Chi era Matacena

Il padre di Matacena, Amedeo senior, morto nel 2003, aveva creato la società "Caronte" per la gestione dei servizi di traghettamento nello Stretto di Messina ed era stato presidente della Reggina calcio. Amedeo invece è attivissimo in politica fin dalla fondazione di Forza Italia, seppure con un passato nel Pli, viene eletto nel 1994 nel collegio uninominale di Reggio Calabria-Villa San Giovanni nel 'Polo del Buongoverno', seggio che riconquista nel 1996, fino al 2001, quando, inaspettatamente non viene ricandidato.

L'inchiesta e la condanna

Negli anni '90 è coinvolto la maxi inchiesta "Olimpia", un'indagine della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria in cui erano stati ricostruiti i rapporti mafia-politica a Reggio e in Calabria e molte delle vicende sanguinose scaturite dalla così detta 'seconda guerra di ndrangheta', iniziata con l'omicidio del boss Paolo De Stefano, il 10 ottobre del 1985, ad opera di alcuni gruppi 'secessionisti', a lui prima legati.

Iniziano i guai giudiziari per l'ex parlamentare.  Scaricato da Forza Italia e senza l'immunità parlamentare, Amedeo Matacena è accusato di aver allacciato rapporti con la cosca Rosmini, una delle più potenti del panorama ndranghetistico della zona, per ottenerne l'appoggio elettorale. Arriva la prima condanna in Appello e successivamente la sentenza definitiva della Cassazione a tre anni di reclusione, nel luglio 2014, dopo numerosi ricorsi e contro ricorsi.

La latitanza

Recentemente erano stati revocati sia l'ordinanza di custodia cautelare che il sequestro dei beni. Per questo Matacena meditava il rientro in Italia e il ritorno nella sua Reggio Calabria.

Stroncato da un malore. Amedeo Matacena morto a Dubai da latitante, la storia dell’ex deputato di Berlusconi: “Qui vita da cane”. Redazione su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Amedeo Matacena è morto a Dubai stroncato da un malore. Aveva 59 anni l’armatore ed ex deputato di Forza Italia che si trovava negli Emirati Arabi in stato di latitanza, dopo la condanna a tre anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, è deceduto in ambulanza durante la corsa disperata in ospedale. A confermare la notizia all’agenzia Agi è stato l’avvocato di fiducia dell’ex parlamentare, Marco Martino.

Nativo di Catania ma cresciuto a Reggio Calabria, Matacena sarebbe stato colpito da un infarto. Viveva a Dubai da circa dieci anni dopo la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa dalla Corte d’assise d’Appello di Reggio Calabria nel 2012 confermata dalla Cassazione nel 2013.

Negli ultimi anni, dopo il divorzio con Chiara Rizzo, Matacena si era rispostato con Maria Pia Tropepi, ex modella e medico. Il papà di Matacena, Amedeo senior, scomparso nel 2003, aveva creato la società Caronte per la gestione dei servizi di traghettamento nello Stretto di Messina ed era stato presidente della Reggina calcio.

Da ansa.it il 5 agosto 2022.

È stata revocata l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nell'ambito dell'inchiesta "Breakfast", condotta dalla Dda di Reggio Calabria, a carico dell'ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. 

La revoca è stata disposta dal Gip distrettuale di Reggio Calabria, Vincenza Bellini, con il parere contrario della Dda. Il Gip ha accolto l'istanza presentata dai difensori di Matacena, Marco Tullio Martino e Renato Vigna. Il giudice ha anche disposto il dissequestro dei beni di Matacena, che è da anni rifugiato a Dubai, negli Emirati arabi.

Il dissequestro dei beni di Matacena è stato motivato dal Gip dal lungo tempo trascorso dalla data di commissione dei reati contestati all'ex parlamentare e dall'esclusione, in fase cautelare, della contestata aggravante mafiosa. 

Nell'ambito dello stesso processo "Breakfast" erano stati arrestati e condannati in primo grado l'ex ministro dell'Interno Claudio Scajola e l'ex moglie di Matacena, Chiara Rizzo. Il giudice Bellini, inoltre, ha ritenuto confermato "il giudizio di gravita indiziaria" nei confronti di Matacena, che, nell'ordinanza di arresto a suo carico, era accusato di intestazione fittizia di beni, con l'aggravante mafiosa. 

In una nota, l'avvocato Martino afferma che anche la Procura generale della Corte di Cassazione, in relazione ad un precedente ricorso, aveva chiesto l'annullamento dell'ordinanza di custodia cautelare a carico di Matacena nell'ambito dell'inchiesta "Breakfast".

 "Ringrazio mia moglie e i miei avvocati perché, grazie al loro impegno, è stata revocata l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa a mio carico nell'ambito dell'inchiesta "Breakfast" ed è caduto anche l'ultimo sequestro dei miei beni, che adesso tornano nella mia disponibilità. Alla fine la verità è venuta a galla. Adesso manca solo la ciliegina sulla torta: la sentenza della Corte Europea e giustizia, dopo tanta ingiustizia, sarà fatta". 

(ANSA il 12 agosto 2022) - L'ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e a Dubai da diversi anni, fa sapere all'ANSA di "leggere con grande disappunto che, nonostante sia divorziato a Chiara Rizzo da molto tempo, negli articoli di stampa è ancora indicata erroneamente come mia moglie". E precisa di aver sposato la contessa Maria Pia Tropepi, ex modella, imprenditrice e noto medico chirurgo, dalla quale aspetta due gemelli che nasceranno nella seconda metà di novembre e di essere per questo molto felice. 

Chiara Rizzo, ex moglie di Matacena, fu accusata con l'ex ministro Claudio Scajola di aver favorito la latitanza di Matacena e per questo entrambi hanno subito un processo. Nei giorni scorsi Matacena si è visto revocata l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nell'ambito dell'inchiesta Breakfast condotta dalla Dda di Reggio Calabria e il dissequestro dei propri beni. A chi gli domanda se intende rientrare in Italia, risponde che attende la sentenza della Corte Europea di giustizia perchè la sua vicenda giudiziaria sia definitivamente conclusa.

(ANSA il 23 settembre 2022) - E' scontro in famiglia sulla salma dell'ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena morto latitante a Dubai dopo essere stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. La seconda moglie Maria Pia Tropepi, in attesa di due gemelli, replica al figlio Athos, avuto da Matacena in prime nozze dalla conduttrice televisiva Alessandra Canale, che nei giorni scorsi aveva chiesto il rimpatrio della salma in Calabria, affermando, in una nota, che era desiderio del defunto essere cremato a Dubai e che sulla vicenda sarebbe in atto un conflitto di interessi.

"Le cause del suo decesso - scrive Maria Pia Tropepi - sono state certificate dal nosocomio degli Emirati Arabi presso il quale Amedeo è giunto ancora vivo, accompagnato dal personale sanitario che ho allertato appena colto dal malore. Amedeo Matacena era da tempo e notoriamente affetto da cardiopatia, ed è stato stroncato da un infarto del miocardio. 

Solo per il profondo amore che ci legava, intendo dare esecuzione alle sue volontà, tutelando, in ogni sede, sia i miei diritti di vedova ma soprattutto quelli dei nostri figli che stanno per arrivare. Nonostante questo mio momento di lutto, la vicenda sta assumendo strani toni, motivo per cui lo studio legale Hamdan Al Kaabi che mi rappresenta negli Emirati Arabi Uniti, ha già provveduto a trasmettere la dovuta documentazione e le necessarie informazioni al Consolato Italiano a Dubai allo scopo di prevenire eventuali azioni che vanno contro la volontà di Amedeo.

Parenti con i quali - precisa la donna - mio marito aveva pubblicamente interrotto ogni rapporto, stanno addirittura cercando di avanzare dubbie richieste, contro ogni norma legale e di buon senso che si applichi sia in Italia che negli Emirati. Sarà dunque compito delle autorità locali, le uniche che vantano il possesso di ogni necessario documento, stabilire quale sarà, secondo la legge locale, la sorte che dovrà avere il corpo senza vita di Amedeo Raniero Matacena".

La morte dell'ex parlamentare. Amedeo Matacena è morto in esilio: perseguitato, stava per diventare padre di due gemelli. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Settembre 2022 

Morire da latitante, morire di latitanza. Con due bambini che nasceranno senza padre. Proprio mentre il grattacielo di accuse si era sgretolato pezzetto dopo pezzetto, la sorte ha portato via Amedeo Matacena, costretto a lasciare l’Italia e a rifugiarsi a Dubai per sfuggire a inchieste calabresi una più assurda dell’altra. Basti solo dire che i provvedimenti di custodia cautelare da cui l’ex deputato di Forza Italia era inseguito erano fondati solo sul solito reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa.

La maledizione calabrese, dove tutto pare essere ‘ndrangheta, nella testa di alcuni pm. Un’aggravante che, proprio un mese fa, era caduta come un birillo nell’inchiesta di Reggio Calabria dal simpatico nome di “Breakfast”. La gip Vincenza Bellini aveva non solo accolto la richiesta di revoca della custodia cautelare richiesta dagli avvocati Marco Tullio Martini e Renato Vigna, ma aveva anche disposto il dissequestro di alcuni beni. Proprio come aveva già fatto nel maggio scorso la corte d’appello di Reggio Calabria nei confronti di alcune proprietà della moglie di Matacena, Chiara Rizzo.

Amedeo non è mai stato un personaggio famoso. Imprenditore e figlio di imprenditori, decisamente benestanti, ma nulla di più. Era un vero liberale, non solo di cultura, ma di appartenenza, un ragazzo della scuola di Alfredo Biondi e Antonio Martino, per intenderci. Ma se le inchieste nei suoi confronti hanno conquistato il circo mediatico è anche perché la sua vita e quella di sua moglie si sono intrecciate a un certo punto con quella del ministro Scajola, che cercava di dare qualche buon consiglio alla famiglia. Boccone grosso, per certi ambienti. Fu così che una certa mattina del 2014 colui che oggi è sindaco di Imperia e presidente della provincia si ritrovò, mentre era a Roma in albergo, a subire l’irruzione di sette agenti in camera all’alba. E poi prelevato e impossibilitato per sei giorni a comunicare con la moglie e con gli avvocati. Infine un mese di carcere e sei di domiciliari. Una condanna in primo grado e l’appello il prossimo 27 settembre, pur con il reato ormai prescritto.

Un’inchiesta fatta di carta, fondata su reati insignificanti se privati dell’aggravante mafiosa, come l’intestazione fittizia di beni per Matacena, “procurata inosservanza della pena” per Scajola e Chiara Rizzo, sospettati di aver tentato di favorire una latitanza che era già in corso , mentre Matacena era a Dubai, arrivato lì con le proprie forze. Era bastata una banale intercettazione per apparecchiare l’inchiesta “prima colazione”. Che cosa ci entrassero Matacena, la moglie e l’ex ministro con la ‘ndrangheta ancora non si è capito. E non si capirà, quando gli ultimi pezzettini di queste inchieste che sono tutte solo italiane saranno chiusi per “morte del reo”.

Reo? Persino gli Emirati Arabi, che non sono certo campioni di diritto e di diritti, possono darci qualche lezione, al riguardo. Anche a Dubai infatti, come nel resto del mondo, il codice penale non prevede il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Così nei mesi scorsi, benché la ministra Cartabia, proprio come fece nei confronti dei rifugiati parigini, si fosse impegnata personalmente nel richiedere e sollecitare l’estradizione di Amedeo Matacena, questa non è stata mai concessa, proprio perché il reato non c’è. Del resto non esiste neanche nel codice penale italiano, ma viene usato solo per poter intercettare e applicare la custodia cautelare. Potete riporre le manette, cari magistrati calabresi, ora Amedeo si è liberato di voi. Non so se voi sarete liberi dalla vostra coscienza. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ingiustizia è fatta: Amedeo Matacena sarà un uomo libero. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 4 Agosto 2022.  

Dopo nove anni l’ex deputato forzista sta per coronare la sua latitanza a Dubai. La sentenza del tribunale di Reggio Calabria del 4 agosto ha tolto di mezzo l’intestazione fittizia di beni. E la condanna definitiva sta per estinguersi anche se lui non ha mai fatto un giorno di carcere

Poche parole di un comunicato Ansa del 4 agosto sono il primo tassello per la fine della latitanza estera più lunga, quella di Amedeo Matacena junior, ex deputato e coordinatore calabrese di Forza Italia condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Breakfast.

La gip di Reggio Calabria Vincenza Bellini ha disposto la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere del politico e imprenditore calabrese che, dopo nove anni e un mese di latitanza a Dubai, è ancora un uomo libero senza avere scontato un solo giorno di pena.

Lo stesso Matacena aveva dichiarato pochi mesi fa di essere vicino al traguardo e intanto si gode il dissequestro dei suoi beni ottenuto dai difensori Marco Tullio Martino e Renato Vigna.  Ma sono in arrivo altre buone notizie per il fuggitivo. A dieci anni dalla condanna irrevocabile, la pena si estingue. Per chiudere il conto mancano undici mesi. Nel giugno 2023 Matacena sarà libero. 

Negli uffici della Dda di Reggio Calabria c’è amarezza. La condanna del parlamentare azzurro era stata un momento qualificante per le inchieste sul crimine organizzato in Calabria e i suoi legami con la politica, che sono la vera forza della ‘ndrangheta al di là del flusso di denaro proveniente dal narcotraffico.

Le relazioni di Matacena gli hanno consentito di evitare le carceri italiane e i suoi i mezzi finanziari lo hanno messo in condizioni di affrontare la latitanza in un paese che solo da poco ha iniziato a collaborare con la giustizia italiana estradando soprattutto esponenti della camorra.

L’Espresso si è più volte occupato del caso Matacena ma la fine di questa storia sembra già scritta.

Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.

Scajola: «È vero, mi adoperai per far avere a Matacena l’asilo politico a Beirut». E alla Rizzi trovò lavoro nel Pdl, scrivono Carlo Macrì e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. «È vero, mi adoperai per Amedeo Matacena per fargli avere l’asilo politico a Beirut. L’ho fatto perché era un amico e un parlamentare di Forza Italia. Con lui mi comportavo come fossi il suo avvocato». Carcere di Regina Coeli, 9 maggio scorso, Claudio Scajola risponde alle domande dei pubblici ministeri di Reggio Calabria che lo accusano di aver favorito la latitanza di Matacena e per questo anche di concorso esterno alla mafia. Parla del suo rapporto con l’ex esponente del partito condannato definitivamente, ma anche del legame con sua moglie Chiara Rizzo e rivela: «Aiutai anche lei facendola lavorare per il tesoriere del Pdl Ignazio Abrignani». La conferma la forniscono gli stessi legali della donna Carlo Biondi e Candido Bonaventura depositando il contratto. L’indagine avviata dagli inquirenti reggini - il procuratore Federico Cafiero De Rhao, il sostituto Giuseppe Lombardo e il pubblico ministero Antimafia Francesco Curcio - sembra essere entrata in una fase cruciale. Le prime ammissioni fornite da Scajola consegnano infatti elementi preziosi a una ricostruzione accusatoria che pone l’ex titolare dell’Interno al centro di una rete che si sarebbe mossa «per favorire la criminalità organizzata». Anche rispetto al ruolo di Vincenzo Speziali, l’uomo che si accreditava come il mediatore con l’ex presidente libanese Amin Gemayel e rassicurava Scajola sul proprio interessamento per il trasferimento di Matacena da Dubai a Beirut.Ulteriore conferma l’avrebbe fornita proprio la segreteria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, anche lei finita in carcere su richiesta della procura di Reggio. Due giorni fa, nel corso dell’interrogatorio, la donna ha ricostruito alcuni passaggi fondamentali su quanto accaduto tra l’agosto del 2013 e il febbraio scorso, per trovare un rifugio sicuro a Matacena. Poi ha rivelato: Scajola fece pedinare Chiara Rizzo. Le intercettazioni e i pedinamenti affidati agli investigatori della Dia avrebbero effettivamente confermato questo particolare avvalorando l’ipotesi che il «controllo» fosse stato deciso per motivi di gelosia. Scajola avrebbe infatti mal digerito il legame che c’era tra Rizzo e l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, l’amico che improvvisamente nelle conversazioni veniva definito «l’orco». L’interrogatorio della stessa Rizzo è durato oltre cinque ore ed è stato secretato. La donna avrebbe ammesso di aver chiesto aiuto a Scajola per suo marito e soprattutto di aver più volte discusso la possibilità che il Libano gli concedesse l’asilo politico. I legali avevano anticipato che avrebbe parlato del legame (professionale e personale) con l’ex ministro e per questo hanno fatto allegare al fascicolo copia della scrittura privata siglata dalla signora con Abrignani per «svolgere attività immobiliare su case e prefabbricati». Un altro documento ottenuto dal Monte dei Paschi di Siena specifica che «la signora non risulta mai essere stata delegata ad operare sul conto corrente 24141.37 presso l’Agenzia 1 di Reggio Calabria, intestato alla “Amadeus Spa”» mentre un analogo scritto, sempre riferibile a Mps e acquisito dalla Dia «ammetteva la disponibilità della donna». Mentre è in corso l’interrogatorio della Rizzo, a Bologna viene convocato nuovamente come testimone Luciano Zocchi, il segretario di Scajola al Viminale, che quattro giorni prima dell’attentato brigatista contro Marco Biagi consegnò al ministro l’appunto sulle due richieste dell’allora sottosegretario Maurizio Sacconi e del direttore generale di Confindustria Stefano Parisi, per assegnare la scorta al giuslavorista. Di fronte al pubblico ministero di Bologna Antonello Gustapane, Zocchi ha ribadito di aver fatto consegnare i due appunti Scajola e di averne poi dato copia anche al prefetto Giuseppe Procaccini, all’epoca vicecapo della polizia la stessa sera del 15 marzo, e alla moglie di Sacconi, Enrica Giorgetti, il giorno dopo l’omicidio Biagi.

Decine di raccoglitori catalogati per nome e per argomento, scrivono Carlo Macrì e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Documenti riservati, veri e propri dossier che l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola custodiva nei propri studi di Roma e Imperia oltre che a Villa Ninnina, la lussuosa dimora ligure a Diano Calderina. È l’archivio messo sotto sequestro dagli investigatori della Dia per ordine dei pubblici ministeri di Reggio Calabria. Non è l’unico. In una cantina della segretaria di Amedeo Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, sono state trovate migliaia di carte che dovranno essere adesso analizzate. Materiale prezioso per l’inchiesta che ha portato in carcere Scajola e tutte le persone che negli ultimi mesi hanno protetto e agevolato - secondo l’accusa - la latitanza di Matacena, l’ex deputato di Forza Italia condannato a cinque anni di pena per complicità con la ‘ndrangheta. Le verifiche si concentrano poi sulle movimentazioni bancarie, per ricostruire i flussi finanziari che avrebbero consentito a Scajola e agli altri di mettere in sistema il «programma criminoso», come lo hanno definito i magistrati motivando la scelta di indagarli anche per concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare emergono alcuni trasferimenti di denaro, considerati sospetti, effettuati da Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare riparato a Dubai. Nella loro richiesta di cattura gli inquirenti - il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, il sostituto Giuseppe Lombardo e il pm nazionale antimafia Francesco Curcio - evidenziano come le risultanze investigative «costituiscono uno spaccato di drammatica portata, in grado di enfatizzare la gravità “politica” del comportamento penalmente rilevante consumato da Scajola, il cui disvalore aumenta a dismisura proprio nel momento in cui lo si mette in correlazione al delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso posto in essere da Matacena, da considerare la manifestazione socio-criminale più pericolosa per uno Stato di diritto che un ex parlamentare ed ex ministro dell’Interno dovrebbe avversare con tutte le sue forze e che, invece, consapevolmente sostiene, agevola, rafforza». Al momento di sollecitare l’arresto preventivo chiedono che sia disposto il trasferimento in carcere per due motivi: «Da un lato l’obiettiva gravità dei fatti reato e dall’altro la evidente pericolosità sociale dei prevenuti, quali risultano dall’estremo allarme riconnesso a condotte delittuose poste in essere in modo programmato». Tutto questo, aggiungono, «non solo è essenziale alla conservazione ed al rafforzamento della capacità di intimidazione che deriva dal vincolo associativo che caratterizza l’organizzazione di tipo mafioso a favore della quale il contributo consapevole di Matacena è stato prestato, ma si pone come ineludibile passaggio al fine di evitare o, comunque, arginare l’espansione in ambiti imprenditoriali e politici delle consorterie criminali di tipo mafioso, potenzialmente in grado di condizionare in modo irreversibile tali ambiti decisionali ed operativi». E concludono: «Tale giudizio negativo, che si riflette inevitabilmente in termini di concretezza e specificità anche sulla valutazione del pericolo di reiterazione di analoghe condotte delittuose, risulta rafforzato dalla capacità criminosa degli indagati». Sono migliaia i documenti che Scajola conservava seguendo un metodo che gli investigatori definiscono «maniacale». Riguardano politici, imprenditori, personaggi con i quali ha avuto a che fare nel corso della sua lunga e intensa attività. Ma anche affari, viaggi, richieste di interventi, raccomandazioni. Qualche settimana fa, nell’ambito di un’inchiesta che riguarda il porto d’Imperia, i magistrati della Procura locale gli avevano sequestrato materiale riservato risalente all’epoca in cui era ministro dell’Interno. Comprese alcune relazioni su Marco Biagi. In quell’occasione si trattò di una ricerca mirata. Giovedì scorso, invece, gli inquirenti calabresi hanno deciso di portare via l’intero archivio, alla ricerca di ogni elemento utile a sostenere l’accusa più grave. Non solo lì. Quando sono arrivati nell’abitazione sanremese della segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, gli agenti della Dia hanno scoperto che la donna aveva la disponibilità anche di una cantina. E in esecuzione dell’ordine dei magistrati che prevedeva la verifica «delle pertinenze e dei locali annessi a tutti gli immobili», alla ricerca degli indizi necessari a «ricostruire la genesi e la natura dei rapporti tra i soggetti sottoposti a indagini», hanno deciso di controllarla. Senza immaginare di poter trovare tanto materiale. Nello scantinato c’erano infatti - pure in questo caso classificati in faldoni - molti documenti relativi all’attività dell’ex parlamentare condannato. Un intero capitolo della richiesta d’arresto è dedicato ai «riscontri economico-finanziari» che i pubblici ministeri ritengono di aver trovato all’ipotesi accusatoria. Sono elencate decine di movimentazioni bancarie che ora gli indagati saranno chiamati a chiarire. In particolare sui conti di Chiara Rizzo risultano trasferimenti di denaro di vari importi. Alcuni molto consistenti, come quello del 15 luglio 2009 per 952.000 euro; oppure quello da 270.000 euro effettuato nel 2010 attraverso la Compagnie Monegasque de Banque - Principato di Monaco, Paese nel quale la signora Matacena ha spostato la residenza. Sotto osservazione è finito pure il patrimonio della madre del condannato, anch’essa indagata nell’inchiesta calabrese e ora agli arresti domiciliari, con particolare attenzione agli spostamenti di soldi tra l’Italia e l’estero.

Nelle centinaia di telefonate tra Claudio Scajola e Vincenzo Speziali, l’uomo che faceva avanti e indietro con Beirut, il nome di Silvio Berlusconi ricorre più di una volta, scrivono Carlo Macrì e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” Quando si parla della candidatura dell’ex ministro dell’Interno al Parlamento Ue, poi sfumata, ma anche e soprattutto in relazione all’incontro che lo stesso Berlusconi avrebbe dovuto avere con Amin Gemayel: il potente ex presidente del Libano, spacciato da Speziali come zio di sua moglie, nella ricostruzione dell’accusa avrebbe dovuto garantire la latitanza mediorientale sia di Amedeo Matacena che, probabilmente, di Marcello Dell’Utri, i due ex parlamentari di Forza Italia condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. Per Matacena, di cui adesso Berlusconi sostiene di non avere ricordo, Scajola comunica in una telefonata del 7 febbraio di avere già fatto preparare dagli avvocati una dettagliata richiesta di asilo politico, che Speziali dice di poter agilmente sostenere perché a Beirut si sta per formare un nuovo governo. Erano i primi di febbraio, periodo in cui Speziali parlava di continuo con Dell’Utri. Circa 100 telefonate in 10 giorni, in media una decina di conversazioni al dì, e non è difficile immaginare che parlassero della possibile meta libanese del neocondannato per mafia, bloccato proprio a Beirut un mese fa. Un motivo in più, nei sospetti degli inquirenti, per interessare anche Berlusconi dei contatti con Gemayel, il quale avrebbe dovuto fargli visita in Italia alla fine di febbraio. Dai discorsi di Scajola e Speziali si capisce che erano loro gli artefici dell’incontro, perché non appena il secondo dice di aver parlato con l’esponente libanese per fissare la data della visita in Italia (26 febbraio), Scajola risponde che lo riferirà all’ex Cavaliere. L’argomento ritorna più volte, e quando a fine mese l’incontro salta perché Gemayel era a Roma ma Berlusconi pretendeva che lo raggiungesse ad Arcore, l’esponente libanese - racconta Speziali - s’è offeso ed è ripartito senza vederlo. Dell’appuntamento saltato Scajola discute con la moglie di Matacena, aggiungendo però di non preoccuparsi perché «l’operazione» (verosimile riferimento alla possibilità di far accogliere in Libano il marito ricercato dalla giustizia italiana) andrà avanti ugualmente. Tuttavia, spiega Speziali all’ex ministro, prima della domanda di asilo politico bisognava assicurarsi la «rete di protezione». Tra gli approfondimenti delegati dalla Procura di Reggio Calabria alla Dia, ci sono le verifiche sugli ordini dati da Scajola ed eseguiti dai poliziotti della scorta. Per alcuni di loro si sta vagliando l’ipotesi di inquisirli per peculato e abuso d’ufficio, visto l’uso troppo personale che hanno accettato da parte dell’ex ministro; dagli accompagnamenti di Chiara Rizzo all’acquisto di effetti personali destinati alla signora, come un paio di calze che gli agenti di scorta vengono spediti a comprare dalla segretaria dell’ex ministro per la moglie del latitante condannato per complicità con la ‘ndrangheta. In quell’occasione, persino la segretaria e il poliziotto della scorta si lamentano delle pretese di Scajola. Ma dalle intercettazioni dell’ex titolare del Viminale emerge una circostanza considerata più grave e inquietante: informazioni riservate su altre persone, a partire dai loro spostamenti sul territorio nazionale, raccolte attraverso funzionari di Stato a lui fedeli. Scajola riceveva le notizie che aveva chiesto e se ne vantava al telefono con alcuni interlocutori, commentando soddisfatto che il suo «servizio segreto» privato funzionava a dovere. Dopo gli arresti della scorsa settimana, si passa all’esame dei movimenti sui conti bancari della famiglia Matacena, sia in italia che a Montecarlo e in Lussemburgo, dove hanno sede società e proprietà costitute dall’ex parlamentare in fuga. Anche dell’aspetto economico-finanziario, mentre Matacena era già a Dubai per evitare il carcere in Italia, si occupavano sua moglie e Scajola. Il quale faceva intervenire la propria segretaria Roberta Sacco, ora agli arresti domiciliari, per risolvere ogni questione. Come quando, mentre Scajola è in un’altra stanza con Chiara Rizzo, chiama un funzionario della filiale del Banco di Napoli alla Camera dei deputati - dove l’ex deputato condannato mantiene un conto - per provare a fare in modo che la moglie di Matacena possa muovere il denaro. Il funzionario spiega che senza una delega bisogna che si presenti l’onorevole, o almeno la signora; la segretaria di Scajola replica che lui «è fuori, non può venire», mentre di lei comunicherà un numero di telefono per fissare un appuntamento. Tra le intercettazioni ci sono pure i messaggi telefonici che Matacena mandava alla moglie per avvisarla di collegarsi via Skype, in modo da evitare spiacevoli interferenze e raccomandarle di intervenire per ottenere o far partire bonifici, tra il Lussemburgo e il principato di Monaco, sui quali i responsabili delle banche fanno resistenza. L’ipotesi dei pm è che anche per affrontare queste vicende Scajola abbia messo a disposizione della moglie di Matacena il proprio «mondo di relazioni». Nel quale rientrano, tra gli altri, due personaggi seguiti e fotografati con lui in un pedinamento romano dell’11 febbraio scorso, prima di un incontro a Piazza di Spagna con Speziali. Si tratta di Daniele Santucci (socio in affari del figlio dell’ex ministro che la Dia ha verificato essere stato alle Seychelles ad agosto 2013, quando c’era pure Matacena, già latitante, prima di spostarsi a Dubai) e di Giovanni Morzenti, condannato per corruzione a Torino e indagato a Roma per ricettazione nell’ambito dell’indagine sullo Ior.

Ecco perchè Claudio Scajola è un mafioso, scrivono Enrico Fierro e Lucio Musolino su “Passione Tecno.” E ora sul capo dell’uomo che fu ministro dell’Interno della Repubblica, pende la mannaia di una accusa gravissima: quella di aver favorito con i suoi comportamenti, la mafia più potente, la ’ndrangheta. La Procura di Reggio Calabria e la Direzione nazionale antimafia tornano all’attacco dopo che il gip ha respinto le ipotesi di aggravante mafiosa per Scajola. Un personaggio che ha “rapporti di cointeressi forti” con Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Di più, dalla voluminosa inchiesta del pm Giuseppe Lombardo emerge il ruolo di Scajola come “socio occulto di Matacena”. Uu lavoro durissimo che ha richiesto grandissima pazienza da parte del potente ligure. È il 15 gennaio di quest’anno 2014 e Chiara e Claudio si fiondano a Bernareggio, in Brianza, senza il “fastidio” della scorta. La donna deve partecipare a un summit con vari imprenditori, tra questi Gabriele Sabatini, finito nei guai con la giustizia per una storia di intestazioni fittizie di beni di un personaggio che la Dia considera “soggetto mafioso”. Scajola aspetta più di un’ora in strada, ma in una telefonata con la sua segretaria spiega il perché. “… lì è una iniziativa con suo marito, che l’ha portata avanti lui, che avevo seguito anch’io, se lo ricorderà anche lei… che lei dice, io ci vado perché, se per caso andasse avanti e funzionasse io ne avrei un vantaggio. Capito? Per quello l’ho fatto volentieri…”. L’ex ministro e l’ex parlamentare di Forza Italia, scrivono i pm, “condividono interessi che vanno ben oltre l’aiuto del primo a favore del secondo per ragioni squisitamente umanitarie”. I due “risultano inseriti in un circuito criminale ben più ampio, che trova la sua chiave di lettura nel ruolo di Matacena in ambito ’ndranghetistico ricostruito nella sentenza di condanna”. Scajola sapeva tutto di Matacena e dei suoi guai giudiziari per mafia, eppure “decide di prestare il suo consapevole contributo diretto ad agevolarne la latitanza”. Intrattiene rapporti economici-imprenditoriali con Chiara Rizzo, la moglie del latitante. La signora ha anche un fratello poliziotto fino a tre settimane fa scorta del ministro Graziano Delrio. Con lady Matacena, l’ex ministro “avvia nuovi progetti imprenditoriali”, infine, ed è questo l’aspetto più allarmante, “esercita la sua influenza politica su Silvio Berlusconi al fine di ottenere una candidatura alle prossime elezioni europee”. Il progetto fallisce e Scajola ne parla ripetutamente con Chiara Rizzo addossando le responsabilità a Toti (“un cretino”) e agli ultimi giapponesi che circondano l’ex Cavaliere, ma i “consi – gliori” della ’ndrangheta reggina un pensierino sulla necessità di avere un loro uomo a Bruxelles, lo avevano fatto. I PM partono “dai concetti affermati dall’avvocato Paolo Romeo, nella sua veste di ideologo e ispiratore di molteplici condotte delittuose, nel corso del confronto con il suo interlocutore diretto a chiarire il ruolo di Matacena”. Il “depositario di una serie di agganci, una rete di rapporti da utilizzare per ottenere finanziamenti pubblici da utilizzare per fare l’ira di Dio”. Per la Procura di Reggio Calabria Claudio Scajola “è membro di rilievo di questo network di relazioni”. Ma il comitato d’affari è più ampio, i tentacoli si estendono in ambienti insospettabili. Gli “invisibili”, li chiama il procuratore Cafiero de Raho, che ruotano attorno allo studio milanese di Bruno Mafrici. Massoni, uomini delle istituzioni, mafiosi e imprenditori capaci di riciclare e fare girare i soldi dei clan reggini. Mafrici è un reggino che si fa chiamare “avvocato” e che il pentito Nino Fiume indica “vicino alla cosca De Stefano”. Proprio intercettando Mafrici, i pm di Reggio arrivano ad Amedeo Matacena che si era rivolto al faccendiere per il leasing di uno yacht. L’ex parlamentare latitante, però, è solo uno dei contatti. La rubrica dell’“avvo – cato”, che curava gli affari della Lega di Bossi e del suo tesoriere Francesco Belsito, è piena di nomi eccellenti, in via Durini 14 a Milano, infatti, non passavano solo gli affari della Lega ma anche boss del calibro di Paolo Martino, “ministro del tesoro” della cosca De Stefano. “Prendiamo quella società che fa 20 milioni di utile”. Mafrici parla con Giorgio Laurendi, socio dello studio. A un tale Massimo, invece, spiega i contatti con il Qatar che gli consentiranno di stringere rapporti con il mondo petrolifero. Il telefono di Mafrici è dual sim e riceve anche le telefonate di chi si vuole raccomandare con Belsito, all’epoca in cui era sottosegretario di Stato. Come due imprenditori che gli chiedono di intercedere verso Belsito per avere notizie di “prima mano” su come comportarsi per vincere le gare d’appalto per lo sviluppo del Meridione”. In ogni luogo ci sono amici pronti a dare una mano. Mafrici parla con Romolo Girardelli, il genovese che chiamano l’“ammiraglio”. Spunta il progetto di aprire uno studio a Tirana, in Albania. “Se serve, un mio amico ti presenta politici e generali della finanza. Ho amici a tutti i livelli”. Alta mafia. Alle cure di Mafrici si era affidato Amedeo Matacena, il caro amico di Claudio Scajola.

L'ira di Matacena: vittima di toghe rosse, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Nel caso Scajola-Matacena mancavano solo le toghe rosse. «Contro di me c'è stato un complotto-vendetta», dice da Dubai l'ex deputato di Forza Italia, che tuona contro la condanna a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa arrivata in Cassazione dopo due assoluzioni nel merito. «Mai avuto rapporti o fatto affari con la mafia, è una favola. Chi mi ha colpito ha avuto gratifiche e avanzamenti di carriera», dice Matacena all'Ansa via Skype: «Da deputato mi interessai del Palazzo dei veleni di Reggio Calabria (l'allora Procura, ndr), di alcuni magistrati, dei pentiti ricompensati in nero e dei riscatti per sequestri pagati con i soldi dello Stato. Quando la Cassazione ha annullato l'assoluzione - denuncia Matacena - i miei avvocati videro un magistrato a me ben noto nell'ufficio del presidente della Cassazione che mi avrebbe giudicato e che avrebbe annullato la sentenza. Quando poi il processo passò al secondo grado, venne cambiato il giudice con uno di Magistratura democratica che mi ha condannato». Chi è questo magistrato che avrebbe fatto pressioni? Mistero. Ma quali sono i veleni a cui fa riferimento Matacena? Bisogna tornare alla guerra di 'ndrangheta degli anni Novanta, che fece quasi 600 morti e ai processi Olimpia che decapitarono le cosche. Un cocktail esplosivo innescato dalle rivelazioni al procuratore Agostino Cordova nel 1992 di Pietro Marrapodi, massone «pentito» poi suicidatosi nel 1996 (ma la famiglia dice che è stato ucciso): il notaio, ex Dc di lungo corso, fu il primo a parlare di una borghesia massonica che decideva i destini della città (erano gli anni del Decreto Reggio e della valanga di soldi piovuti dopo i moti degli anni Settanta) ma soprattutto disse che alcuni magistrati erano «contigui» ai boss. La denuncia cadde nel vuoto e la magistratura rispose con la raffica di condanne, compresa quella di Matacena, colpevole di aver fatto eleggere un politico affiliato alla cosca Rosmini e incastrato da alcuni collaboratori di giustizia considerati attendibili. Tanto che per la Cassazione quelle di Matacena sono solo «farneticazioni di un disperato». Intanto emergono nuovi dettagli sui rapporti tra l'ex armatore e Claudio Scajola. L'ex ministro dell'Interno è accusato di essere al centro di una presunta spectre affaristico-massonica vicina alle cosche pronta a garantire a Matacena un esilio dorato a Beirut. I pm cercano riscontri alle affermazioni (secretate) dell'ex titolare al Viminale durante l'interrogatorio di venerdì ma non si escludono nuovi clamorosi colpi di scena. È spuntato un assegno da 3,5 milioni di dollari concesso dalla banca Greca «Marfin Egnatia Bank Societe Anonyme», con sede legale a Thessaloniki (Grecia), alla Amadeus spa, società controllata da Amedeo Matacena e dalla moglie Chiara Rizzo, ancora in Francia in attesa di estradizione (se ne parla la prossima settimana). Secondo i pm il passaggio di denaro rientra nel risiko societario orchestrato da Matacena e dai suoi sodali per occultare il patrimonio da 50 milioni. E mentre la Procura dà la caccia ai fantasmi la 'ndrangheta «ruba» l'esplosivo sotto il naso dello Stato. In questi giorni alcuni sub della Marina sono impegnati a recuperare centinaia di panetti di tritolo dai resti della «Laura C», la nave da guerra carica di tritolo affondata nella primavera del 1943 da un sommergibile inglese e arenata nel fondo sabbioso di Saline Joniche. Nel 1996 era stata messa in sicurezza, ma evidentemente il lavoro non fu fatto propriamente ad arte. Fino a oggi le cosche hanno fatto la spesa al supermarket del tritolo. Gratis.

La strana caccia allo Scajola, scrive Felice Manti. Ormai quella sull’ex ministro Claudio Scajola è una competizione tra Procure. Non bastava l’inchiesta Breakfast dei pm reggini sul presunto sodalizio in odor di ‘ndrangheta per aiutare l’ex deputato Amedeo Matacena a sottrarsi alla cattura; non bastava l’ombra dell’omicidio «per omissione» sull’ex titolare al Viminale nell’indagine sulla scorta tolta al giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Br il 19 marzo del 2002, riaperta dai pm di Bologna grazie a nuove carte scoperte nell’archivio di un ex collaboratore di Scajola. Adesso sul capo del politico ligure si è abbattuta una doppia tegola. Il pm di Imperia Alessandro Bogliolo ha chiesto il suo invio a giudizio, con citazione diretta, per finanziamento illecito e ricettazione. I lavori di ristrutturazione della sua residenza, Villa Ninina – questa l’ipotesi dei pm liguri – valevano circa tre milioni di euro ma sono stati pagati 1,5 milioni. La differenza costituisce, secondo l’accusa, il finanziamento illecito per l’ex deputato di Forza Italia. È giallo invece sull’accusa di ricettazione: il filone è quello nato durante una perquisizione su denuncia dell’ex deputato Pdl Eugenio Minasso, nella quale sarebbe spuntata una informativa (segreta?) nella quale si faceva riferimento a Minasso come consumatore di cocaina. Ma i legali di Scajola contestano l’ipotesi accusatoria: «Non è vero che il nostro assistito non poteva averle. Aspettiamo la ricostruzione dell’accusa per capirne di più». E qui la vicenda si complica. Perché proprio a Villa Ninina sono arrivati ieri i pm reggini del caso Matacena, a caccia di quei documenti che servirebbero a dimostrare l’esistenza della presunta Spectre affaristico-massonica di cui farebbe parte Scajola. Ma quali carte troverà? Quelle sequestrate dalla Dia di Reggio ai primi di maggio, non quelle legate all’inchiesta di Imperia aperta per ricettazione. Sarà scontro? È presto per capirlo. A Bologna si lavora («a ritmo elevato», commenta l’aggiunto Valter Giovannini). L’allora segretario di Claudio Scajola, Luciano Zocchi, sarà ascoltato domani sulla morte del giuslavorista? Che faranno i pm reggini sulle carte sequestrate all’ex collaboratore che hanno fatto scattare l’inchiesta? Sarà battaglia tra Procure?

La coscienza sporca di Reggio, continua Felice Manti. Toghe rosse, casacche azzurre e cosche nere. A Reggio Calabria non si fanno mancare niente. Si fa più complessa la vicenda di Claudio Scajola, l’ex ministro dell’Interno accusato di essere al centro di una presunta spectre affaristico-massonica vicina alle cosche pronta a garantire un esilio dorato a Beirut all’ex deputato azzurro ed ex armatore della Caronte Amedeo Matacena, condannato a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa in Cassazione dopo due assoluzioni nel merito. L’ex titolare del Viminale forse non sa in che guaio si è cacciato con quelle telefonate abbastanza compromettenti a Chiara Rizzo, consorte dell’ex deputato di Forza Italia oggi latitante a Dubai, per favorirne lo spostamento a Beirut. Perché quella condanna per mafia Matacena non l’ha digerita, com’è ovvio pensare. Ma mai prima di ieri l’uomo accusato di contiguità con la cosca Rosmini aveva alzato così il tiro, riaprendo un cassetto che sembrava morto e sepolto, come buona parte dei protagonisti di allora. «Mai avuto rapporti o fatto affari con la mafia, è una favola. Chi mi ha colpito ha avuto gratifiche e avanzamenti di carriera», ha detto Matacena all’Ansa via Skype: «Da deputato mi interessai del Palazzo dei veleni di Reggio Calabria (cioè dello scontro alla Procura e al Tribunale reggino, nda), di alcuni magistrati, dei pentiti ricompensati in nero e dei riscatti per sequestri pagati con i soldi dello Stato. Quando la Cassazione ha annullato l’assoluzione – denuncia Matacena – i miei avvocati videro un magistrato a me ben noto nell’ufficio del presidente della Cassazione che mi avrebbe giudicato e che avrebbe annullato la sentenza. Quando poi il processo passò al secondo grado, venne cambiato il giudice con uno di Magistratura democratica che mi ha condannato». Affondo pesantissimo, come pesantissima è stata la replica della Suprema corte, di una durezza inusitata. «Sono farneticazioni di un uomo disperato, un latitante che si sottrae a una condanna definitiva che poggia su fatti storici accertati e pacifici come i contatti con la cosca Rosmini. Non c’è stato alcun collegio precostituito ed è singolare che questo signore si lamenti del fatto che i suoi legali avrebbero visto un magistrato nell’ufficio del primo presidente. Chi mai dovrebbe esserci in quell’ufficio se non dei magistrati?  Il collegio della Quinta sezione penale, quello che decretò la condanna definitiva il sei giugno 2013, non sapeva nemmeno chi fosse questo Matacena». Sarà. Sta di fatto che Matacena parla di un magistrato che avrebbe fatto pressioni e soprattutto che Matacena rispolvera la stagione più difficile di Reggio. Negli anni Novanta scoppia una guerra di ’ndrangheta che lascia sull’asfalto centinaia di morti. Reggio è travolta da una Tangentopoli reggina per colpa di una classe politica ingorda che divora i fondi del Decreto Reggio (una valanga di soldi pubblici piovuti dopo i moti degli anni Settanta):  le famiglie vanno alla sbarra nei processi Olimpia che decapitano le cosche ma non le indeboliscono, come dimostrerà la sentenza di primo grado del processo Meta. Anzi, si scoprirà che i vecchi avversari di allora hanno deposto le armi e si sono spartite la città, con la complicità di una buona parte della sedicente borghesia reggina, compiacente se non indolente (che è anche peggio). La mafia muore, paga dazio e rinasce. La borghesia e la politica si spartiscono la torta dei soldi pubblici. E le toghe? E quella lobby massonica che va a spasso con le ‘ndrine e i servizi segreti dopo l’accordo nato negli anni Settanta a seguito dei moti di Reggio e dei «Boia chi molla», ispirato dalla gioventù nera e pilotato dalle cosche, come sostengono alcuni pentiti? Il primo a squarciare il velo sui veri pupari che a Reggio fanno il bello e il cattivo tempo anche sulle spalle dei boss si chiama Pietro Marrapodi. Notaio, dc e massone «pentito» viene trovato morto nel 1996 a casa sua.  Un destino avvolto nel mistero, soprattutto perché la sua morte fa comodo ai nemici della città che lui ha denunciato. È stato lui a rivelare al procuratore Agostino Cordova, nel 1992, l’esistenza di questa zona grigia, di questi “Invisibili” cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo nell’inchiesta Breakfast. Ma la sua unica colpa, forse quella che l’ha fatto uccidere, è la pesantissima accusa di «contiguità con i boss» di alcuni magistrati illustri. La denuncia cade nel vuoto, ma la risposta della magistratura non può che essere severa. Tutti i capi mafia superstiti vengono condannati nei processi Olimpia, che stanno alla ‘ndrangheta come il Maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel calderone di Olimpia c’è anche Matacena, colpevole di aver fatto eleggere Giuseppe Aquila, l’ex mozzo della Caronte affiliato alla cosca Rosmini da un legame di sangue benché sia figlio di un poliziotto, e incastrato da alcuni collaboratori di giustizia considerati attendibili. I rapporti tra l’ex armatore e la famiglia di ‘ndrangheta sarebbero molteplici, stando alle deposizioni dei pentiti diventate sentenza inoppugnabile: ne emerge una figura a tinte fosche, di un Matacena che tratta con capimafia e affiliati di somme di denaro da restituire, pentiti da far ritrattare e altre nefandezze.  Difficile pensare a un complotto delle toghe. Ma nella città in cui 007 deviati, politici, massoni e boss indossano a turno la stessa maschera tutto è possibile.

Quel sogno scissionista delle cosche, continua Felice Manti. La stampa rossa salta sull’inchiesta che ha portato in cella l’ex ministro Claudio Scajola e scatta il fango: «Scajola reclutava i boss», spara Repubblica, attribuendo la titolarità della congettura ai pm. Ma spulciando le carte sulla presunta cupola affaristico-mafiosa che avrebbe voluto garantire all’ex deputato Amedeo Matacena la latitanza dorata in Libano («Macché, faccio il maître», si lamenta su Repubblica l’ex azzurro), questa congettura non c’è. Anzi, accostare ‘ndrangheta e politica in questa vicenda è ancora un azzardo. Il Gip di Reggio Olga Tarzia (ma la Dda farà ricorso al Riesame) non crede né all’aggravante «mafiosa» del sodalizio né a Scajola come «l’interlocutore politico destinato a dialogare con la ‘ndrangheta» mentre Matacena aveva «rapporti stabili tra l’ex armatore e la cosca Rosmini», circostanza che ha fatto scattare la condanna definitiva in Cassazione a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «È un reato usato per colpire Forza Italia, che aveva una forza notevole», dice Matacena, che ricorda l’elezione di Giuseppe Aquila con Forza Italia alla Provincia di Reggio negli anni Novanta: «Vicino ai boss? Peppe lavorava a bordo delle navi di mio padre da quando aveva 14 anni – aggiunge Matacena – suo padre era un poliziotto e per come lo conoscevo io era una persona perbene». Quanto ai rapporti tra Scajola e la moglie Chiara Rizzo, ancora latitante nonostante la promessa di un veloce ritorno in Italia «per chiarire tutto», anche ieri si sono rincorse le voci di una possibile relazione sentimentale tra i due, che avrebbero avuto contatti via Skype e Viber «per evitare eventuali intercettazioni». Secondo i pm l’ex titolare al Viminale le avrebbe «prestato» la scorta per alcune commissioni e – in caso di candidatura alle Europee – avrebbe impegnato una parte dello stipendio per affittare un appartamento a Montecarlo. Veleni a cui Matacena non crede, come Maria Teresa Scajola: «Mio marito è un galantuomo, con una grande testa e un grande cuore». Ma sulla scorta il questore di Imperia Pasquale Zazzaro vuole vederci chiaro: «Ho dato incarico al vicario di eseguire un’ispezione». Gli inquirenti avrebbero anche in mano la prova regina sull’aiuto che Scajola avrebbe dato a Matacena: oltre alla lettera scritta al computer in francese a «mio caro Claudio» firmata pare dall’ex presidente libanese Amin Gemayel (coinvolto nell’inchiesta ma non indagato) con le garanzie sulla latitanza a Dubai ci sarebbe un altro documento scritto a mano da Scajola su carta intestata della Camera dei deputati. Insomma, prove da portare a processo e ipotesi tutte da dimostrare, come in ogni inchiesta. Ma nessuno, prima di ieri, aveva mai azzardato la teoria che dietro la nascita di Forza Italia ci sarebbe la ‘ndrangheta. Cosa che neanche i pm di Reggio Calabria si sono mai sognati neanche lontanamente di ipotizzare. Lo ha detto ieri il pm Giuseppe Lombardo, sbugiardando in tempo reale le deliranti tesi di Repubblica: «Esiste una struttura stabile che si occupa di proteggere i latitanti», dice a Libero il magistrato che ha inchiodato il gotha delle famiglie di ‘ndrangheta e che ora cerca i padrini in quella zona grigia tra politica, massoneria e servizi segreti deviati. Ma, precisa Lombardo, «non si tratta di un soccorso azzurro perché non c’è un colore politico predefinito». La ‘ndrangheta è troppo seria per stare dietro a un solo partito, va dove c’è il potere e, come in Sicilia, è dagli anni ’70 – quando cavalcò i moti di Reggio e i «Boia chi molla» – che coltiva il sogno di una Calabria autonomista, per non dire scissionista, un po’ come vorrebbe la Lega in Padania. Vincenzo Mandalari, presunto boss e organizzatore del summit di ‘ndrangheta del 31 ottobre 2009 al Centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano (Milano) condannato a 14 anni in primo grado, al telefono con un ex assessore Sel (poi sospeso) di Bollate diceva: «Destra o sinistra non è importante». Qualcuno lo dica a Repubblica.

Felice Manti è nato 40 anni fa a Reggio Calabria. Con Antonino Monteleone nel 2010 ha scritto «O mia bella Madundrina», premio Livatino 2011. Ha scritto anche «Il grande abbaglio - controinchiesta sulla strage di Erba» con Edoardo Montolli (Aliberti editore) e «I padroni dell'acqua», instant book per Il Giornale, dove lavora dal 2005.

Caduto anche il mandato di cattura verso l'ex deputato di Forza Italia. Caso Matacena, volevano lo scalpo del ministro Scajola ma l’inchiesta è naufragata. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Agosto 2022 

Non c’è l’aggravante mafiosa, inoltre il passare del tempo ha fatto crollare ogni esigenza, quindi viene revocata l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Amedeo Matacena, l’ex deputato di Forza Italia da tempo residente a Dubai e condannato a tre anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma soprattutto ricercato per intestazione fittizia di beni nell’inchiesta della procura di Reggio Calabria dal nome “Breakfast”, ovvero colazione, secondo la fantasia che le ultime riforme sulla presunzione di innocenza non dovrebbero consentire più.

Ora non più ricercato, almeno per questa inchiesta, dopo la decisione della gip reggina Vincenza Bellini, che ha accolto l’istanza degli avvocati Marco Tullio Martini e Renato Vigna e ha anche disposto il dissequestro di alcuni beni. Del resto già nel maggio scorso la corte d’appello di Reggio Calabria aveva emesso un analogo provvedimento relativamente a una serie di proprietà intestate all’ex moglie di Matacena, Chiara Rizzo, con parole molto chiare. Visto che “la capacità reddituale ben poteva giustificare l’acquisto dell’immobile”, tutto ciò che era stato comprato a Miami e che era stato sequestrato nel 2017 era perfettamente legittimo.

Si sgretola piano piano la costruzione che era stata presentata come un grattacielo di stampo mafioso messo in piedi da una combriccola formata, oltre che da Matacena e dalla sua ex moglie, anche da un personaggio politico molto importante, l’ex ministro Claudio Scajola. Per capire la rilevanza che all’epoca, siamo nel maggio del 2014, la procura antimafia di Reggio Calabria aveva dato alla vicenda e ai personaggi protagonisti, basta sentire lo stesso Scajola, oggi Presidente della provincia e sindaco di Imperia. “Ero in albergo a Roma una mattina appena sveglio, quando hanno fatto irruzione nella mia camera sette agenti della Dia, che mi hanno prelevato e tenuto sequestrato per sei giorni, durante i quali non ho potuto vedere né mia moglie né gli avvocati. Neanche fossi un boss mafioso”. Che cosa era successo?

Che Scajola, amico di famiglia ed ex collega di Matacena, era stato intercettato mentre parlava al telefono con la moglie del deputato di Forza Italia, e quindi sospettato di volerne favorire la latitanza. Matacena nel frattempo era già a Dubai, senza aver atteso l’aiuto di nessuno, men che meno quello dell’ex ministro. Ma la cosa singolare è che tutta la costruzione del processo “Colazione” (forse si allude a quella che né Scajola né Chiara Rizzo hanno potuto consumare prima degli arresti?) è fondata su reati che, senza l’aggravante mafiosa, sono ben lungi dal prevedere la custodia cautelare in carcere. Intestazione fittizia di beni per Matacena, “procurata inosservanza della pena” per gli altri due. Il tutto condito in salsa ‘ndranghetista però, acquista ben altro sapore. Soprattutto mediatico. Occorre ricordare però che persino gli Emirati arabi, che non sono campioni di garantismo, si sono rivelati più attenti allo Stato di diritto dei magistrati italiani. Anche a Dubai infatti, come nel resto del mondo, il codice penale non prevede il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Infatti, benché nei mesi scorsi anche la ministra Cartabia, come già i suoi predecessori, si sia impegnata personalmente, come già aveva fatto nei confronti dei latitanti parigini di terrorismo, nel richiedere e sollecitare l’estradizione di Amedeo Matacena, questa non è stata mai concessa, perché non viene riconosciuto il reato. Neanche nel codice penale italiano del resto esiste il concorso esterno in associazione mafiosa. È solo uno strumento utile per applicare la custodia cautelare in carcere, per poter fare intercettazioni, per avere visibilità mediatica. È quel che è successo allora.

Quando, se era già un bel boccone quello di Matacena, che era stato deputato di Forza Italia, ma apparteneva anche a un’importante famiglia di imprenditori impegnati nel settori dei traghetti nello stretto di Reggio e Messina, le manette a uno come Claudio Scajola, ex ministro degli interni, era lo scalpo più succulento. Cinque anni tra indagini e processo, dopo 33 giorni a Regina Coeli e sei mesi tra domiciliari e obbligo di firma e residenza. E il pubblico ministero che porta in aula due “pentiti”, Cosimo Virgilio e Carmine Cedro, che collocano il ministro a S. Marino a guidare una banda di massoni ‘ndranghetisti in giorni in cui lui era una volta a Londra e l’altra negli Stati Uniti. Un processo che finisce, per lui e Chiara Rizzo, con le condanne a due anni di carcere per quel reato che non ha neanche la gravità del favoreggiamento e che è ormai prescritto, ma che il prossimo 27 settembre vedrà l’inizio dell’appello. Matacena intanto aspetta la decisione della Corte Europea, cui ha fatto ricorso. E Scajola, eletto a furor di popolo sindaco di Imperia quattro anni fa con una lista civica che si è presentata contro centrosinistra ma anche contro centrodestra, commenta lapidario: “Il mio vero processo è quello che ha celebrato la mia città quando mi ha eletto”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La Cosa nuova. Report Rai PUNTATA DEL 20/11/2021 di Paolo Mondani, Giorgio Mottola. di Paolo Mondani e Giorgio Mottola, Consulenza Lucio Musolino. Collaborazione di Norma Ferrara e Alessia Marzi, Immagini di Alfredo Farina, Carlos Dias, Cristiano Forti, Fabio Martinelli. Viaggio all'origine della 'ndrangheta: come ha fatto la mafia calabrese a diventare l'organizzazione criminale più potente e più ricca d'Italia e d'Europa. Con le testimonianze esclusive di ex affiliati, membri riservati e condannati, Report ricostruirà la storia della cupola segreta degli Invisibili: politici, imprenditori e professionisti che fanno parte della direzione strategica della 'ndrangheta e che hanno consentito alle cosche di mantenere rapporti con le istituzioni, la massoneria deviata e i servizi segreti. La rifondazione della 'ndrangheta contemporanea ha una data precisa: il 26 ottobre del 1969. Quel giorno sull'Aspromonte, a Montalto, si svolge un summit dei capi della mafia calabrese a cui partecipano i vertici della destra neofascista. Qualche mese dopo scoppiano i moti di Reggio Calabria e si prepara il golpe Borghese. È in queste occasioni che la storia della 'ndrangheta si incrocia con la P2 di Licio Gelli e nasce la Santa, la struttura segreta che consente alle cosche di avere rapporti diretti con le logge deviate. Da quel momento parte una scalata al potere che ha consentito alla 'ndrangheta di entrare nel cuore delle istituzioni italiane, orientando indagini, portando in Parlamento i propri uomini e facendo arricchire i propri imprenditori di riferimento.

LA COSA NUOVA di Paolo Mondani e Giorgio Mottola Consulenza Lucio Musolino. Collaborazione Norma Ferrara e Alessia Marzi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il colloquio che Report ha documentato all’autogrill di Fiano Romano fra Matteo Renzi e l’ex dirigente dell’Aise Marco Mancini potrebbe non essere l’unico incontro avvenuto fra un politico e un agente segreto durante la crisi del governo Conte. Secondo quanto rivelato dal conduttore televisivo Bruno Vespa nei giorni in cui si stava per votare la fiducia all’esecutivo uno 007 avrebbe avvicinato il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, per parlare del suo possibile sostegno a un eventuale reincarico a Giuseppe Conte. Lo stesso Cesa nel 2006 fu oggetto di un dossieraggio scoperto nell’ambito dello scandalo Telecom-Pirelli che gli venne rivelato da Marco Mancini e dall’allora capo del Sismi Nicolò Pollari.

LORENZO CESA - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Non è stato così, cioè direttamente non ho avuto nessuna pressione. Perché racconta che qualcuno sia salito a casa mia… ma…sarebbe stato anche sprovveduto.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 Confermo sillaba per sillaba, quello che ho scritto nel libro. D’Accordo?

NICOLA PORRO - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Ripeti sillaba per sillaba.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 Sillaba per sillaba. Ed è noto che io non invento niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In quel frangente politico di fine gennaio, il voto dell’Udc di Lorenzo Cesa sarebbe stato determinante per la nascita di un Conte-Ter, dopo la crisi aperta da Renzi proprio nei giorni in cui il leader di Italia Viva incontrava Marco Mancini in autogrill.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 E andrebbe rivisto con attenzione anche l’incontro di Renzi.

NICOLA PORRO - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Eh. Eh.

BRUNO VESPA – QUARTA REPUBBLICA – 15/11/2021 Va bene? Di che cosa hanno parlato?

NICOLA PORRO - QUARTA REPUBBLICA - 15/11/2021 Eh. Eh.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il nostro Marco Mancini, insomma, impone una riflessione sul ruolo dei servizi segreti nello svolgimento del regolare corso della democrazia. E’ il tema della puntata di questa sera. Una puntata ricca di testimonianze inedite raccolte nel cuore dell’organizzazione criminale più potente in Italia, la Cosa nuova, è una organizzazione sino ad oggi sconosciuta. Nasce dopo le stragi del 1992, quando esponenti della ‘ndrangheta e di Cosa nostra si riuniscono in una cupola fino ad oggi rimasta occulta. E’ proprio grazie agli strumenti messi a disposizione dalla Cosa nuova che la ‘ndrangheta è diventata la mafia più forte, più imponente, più ricca d’Europa. Che cosa è successo? Che è emersa una cupola che è formata da uomini invisibili, riservatissimi, così almeno li definiscono, che non sono affiliati ufficialmente alla mafia ma ne fanno parte a tutti gli effetti. Si tratta di soggetti politici, di professionisti, di uomini dei servizi segreti o di uomini che sono in contatto con i servizi segreti. Da questa storia emerge anche un ruolo particolare del Sismi, il servizio segreto militare, tra gli anni 2001 e il 2006 gestione Nicolò Pollari, nominato dal governo Berlusconi, alle dirette dipendenze del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Ecco, Mancini era un fedele dirigente di Pollari. In quegli anni, emerge anche che a via Nazionale c’è un impiegato che dipende anche lui da Pollari che gestisce una centrale di dossieraggio e di spionaggio, questo per tutelare Berlusconi dagli attacchi di magistrati, giornalisti e sindacalisti. Pollari e Mancini sono anche i protagonisti di un altro episodio misterioso. Quello dell’ottobre del 2004. La notte del 6 ottobre viene trovata nel comune di Reggio Calabria, un ordigno. Secondo una informativa dei servizi di sicurezza a firma Marco Mancini quell’ordigno era destinato a Scopelliti, sindaco del centro destra, allora, che era un po’ in crisi di consensi. Quella bomba cambierà la sua storia e la storia della Calabria. A distanza di 20 anni però un ex assessore proprio di Scopelliti, ‘ndranghetista e massone, sta raccontando la sua verità e secondo lui i mandanti e le finalità di quell’ordigno erano completamente diversi da quelli che sono stati raccontati. Dovete avere adesso la pazienza di riavvolgere il nastro su una storia che vi abbiamo già in parte raccontato, quella di un relitto che è in fondo al mare che trasportava un carico di morte, la Laura C, che ci sta restituendo dei fantasmi dal passato. E alla fine dei quel nastro ci porterà a dei politici che stanno giocando una partita importantissima per le elezioni del nuovo presidente della Repubblica. I nostri Paolo Mondani e Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel mar Jonio calabrese, è seppellito da più di sessant’anni un piroscafo militare affondato durante la Seconda guerra mondiale, la Laura Cosulich, meglio conosciuta come Laura C. Adagiata sui fondali a oltre 50 metri di profondità, custodisce ancora nella stiva il carico di esplosivo che trasportava all’epoca.

MAURIZIO MARZOLLA - ASSOCIAZIONE Y CASSIOPEA Ecco, vedi? Qua si intravede il tritolo. Ora non so dirti delle 1200 tonnellate quante fossero di tritolo perché poi c’erano anche proiettili di obice e di antiaerea.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi anni il tritolo della Laura C si è trovato al centro di storie di ‘ndrangheta e servizi segreti, in cui è difficile distinguere la leggenda dalla realtà. La seconda misteriosa vita del relitto è iniziata con le dichiarazioni di un controverso ex boss della ‘ndrangheta, in stretti rapporti con i servizi segreti negli anni ‘80 e un passato nella legione straniera.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha collaborato direttamente con i servizi segreti?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì. parecchie volte.

GIORGIO MOTTOLA Con quali, con il Sismi?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Con il Sismi, sì.

GIORGIO MOTTOLA Ma mentre era ancora nella ‘ndrangheta?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Io ero dappertutto. Facevo pure il mercenario, in Rodhesia.

GIORGIO MOTTOLA Ha fatto il mercenario?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Per conto del governo francese.

GIORGIO MOTTOLA Dove ha fatto operazioni con la legione straniera?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Ciad, Zaire, Iraq, Somalia, Eritrea.

GIORGIO MOTTOLA Quindi ha sparat?.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Eh certo.

GIORGIO MOTTOLA Ha ucciso?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Che ne so? Non guardavo quando sparavo. Capisci? Eh…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Della Laura C e del suo arsenale sommerso Nucera sarebbe venuto a sapere negli anni ’80 quando era ancora un boss della cosca Iamonte.

GIORGIO MOTTOLA Che lì ci fosse una nave carica di esplosivo l’ha segnalato lei.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA L’avevo segnalata nell’86 ai servizi. Manca più di tre quarti dell’esplosivo che c’era.

GIORGIO MOTTOLA Quindi è stato estratto già dagli anni ’80?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA No, dopo, dopo negli anni ’90 è stato estratto. Hanno fatto venire i sub e hanno cominciato a tirare fuori tutto questo esplosivo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo il racconto di Nucera, confermato da altri pentiti, ma finora mai riscontrato da prove materiali, nelle stive sommerse della Laura C si sarebbe registrato un gran movimento qualche settimana prima dell’attentato di Capaci in cui morì Giovanni Falcone.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA L’esplosivo della strage di Capaci era mischiato pure quello della Laura C. Al cento percento.

GIORGIO MOTTOLA Perché dice al cento percento? Come fa a saperlo?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Perché i pescherecci catanesi venivano spesso in quella zona. Me lo spiega lei che venivano a fare? A portare cosa … droga? Ma penso che la Calabria gliene potevano dare quanto ne volevano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che il tritolo della Laura C sia stato usato nella strage di Capaci non è mai stato provato. La voce, però, è stata ritirata fuori all’inizio degli 2000 dai servizi segreti, che in quel periodo sono stati molto attivi sul relitto. Nello stesso periodo infatti il Sismi scrive un’informativa in cui sostiene che provenga dalla Laura C l’esplosivo usato per il confezionamento della bomba che ha cambiato il corso della storia politica calabrese. L’ordigno ritrovato nella notte fra il 6 e il 7 ottobre del 2004 nel bagno del comune di Reggio Calabria.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Nel bagno adiacente al cortile da dove passava il sindaco di Reggio Calabria, all’epoca Scopelliti, fu messo un ordigno che poi si scoprì senza innesco.

GIORGIO MOTTOLA Quindi non poteva scoppiare?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Non poteva scoppiare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo le prime notizie che filtrano la notte stessa a mettere la bomba sarebbe stata la ’ndrangheta con l’obiettivo di attentare alla vita del sindaco di allora Giuseppe Scopelliti che già il giorno prima si era visto assegnare la scorta dopo un’informativa del Sismi in cui si annunciava un possibile attentato nei suoi confronti.

GIORGIO MOTTOLA Come mai venne data la scorta a Scopelliti il giorno prima?

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Su segnalazione di Marco Mancini, che raccontò che c’era un pericolo di attentati nei confronti del sindaco di Reggio Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Marco Mancini, agente segreto allora dirigente del Sismi agli ordini di Nicolò Pollari, firma la prima informativa che segnala pericoli per l’incolumità di Scopelliti. È ancora lui l’autore della seconda informativa che rivela la bomba in comune, indicando la posizione esatta dove verrà trovata. Ed è sempre Mancini a firmare anche la terza informativa che tira in ballo la Laura C e la ‘ndrangheta, parlando esplicitamente di attentato mafioso contro Giuseppe Scopelliti.

FERNANDO PIGNATARO - DEPUTATO PDCI 2006-2008 Sicuramente il Sismi e Marco Mancini in un certo periodo avevano un ruolo in Calabria preponderante. Si è aspettato nel 2010 che alcuni collaboratori di giustizia cominciarono a dire che probabilmente si trattava di un attentato fatto ad hoc per favorire l’ascesa politica del sindaco che si trovava in difficoltà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima della scoperta della bomba, la giunta Scopelliti era in crisi e rischiava la sfiducia. Ma dopo la storia dell’attentato la sua carriera subisce un’improvvisa accelerata: la maggioranza si ricompatta e viene rieletto sindaco con il 70 percento dei consensi. Poi a metà mandato si dimette e viene portato in trionfo alla presidenza della Regione Calabria. Una carriera fulminante che secondo un pentito, ex assessore della giunta Scopelliti, sarebbe stata costruita a tavolino a partire dal fallito attentato.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Per quanto riguarda l’esplosivo nel bagno ritrovato a palazzo san Giorgio è stata una bufala. Con l’aiuto dei servizi segreti. C’era stato l’interesse di Nicola Pollari in questa situazione coinvolgendo anche altre persone esterne ai servizi segreti, affinché questo potesse andare in atto e portarlo comunque avanti.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Questo è Scopelliti?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicolò Pollari era allora il capo del Sismi alle cui dipendenze lavorava Marco Mancini che sull’ordigno al Comune preparò le informative che chiamavano in causa la ‘ndrangheta. Ed è proprio all’ex agente del Sismi che proviamo a chiedere spiegazioni. Lo incontriamo all’università di Pavia, a margine di una sua lezione sul segreto di Stato.

GIORGIO MOTTOLA Le attività del Sismi sembrano essere state molto anomale all’inizio degli anni 2000 in Calabria. È così? Il Sismi ha fatto la polizia giudiziaria? Non risponde a niente, dottore però.

MARCO MANCINI Perdonami Giorgio.

GIUDICE SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Perché i servizi si interessavano a Scopelliti?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Erano interessati a blindare la persona di Peppe Scopelliti affinché prendesse tutto e per tutto, sia nel lato politico, sia nel lato personale, di immagine e di successo.

SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Perché c’era bisogno di fortificarlo da un punto di vista dell’immagine?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Più che fortificarlo, formarlo. Uso un termine inventarlo, strutturarlo e portarlo avanti.

SILVIA CAPONE - TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA Nell’interesse di chi?

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Delle consorterie ‘ndranghetistiche. Peppe Scopelliti rappresentava la famiglia De Stefano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’ex assessore della giunta Scopelliti, Sebastiano Vecchio massone e ‘ndranghetista, l’attentato a Scopelliti andrebbe rivisitato. Secondo lui era una bufala, era finalizzato esclusivamente per blindare e lanciare politicamente la figura di Scopelliti, non solo nell’interesse della coalizione di partito ma soprattutto per le cosche, in particolare quella dei De Stefano. Scopelliti nega di aver avuto rapporti con i De Stefano e con altre famiglie ‘ndranghetiste e ci scrive che secondo lui, invece quell’attentato era finalizzato a condizionare la gara per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia. Scopelliti ci dice anche che lui ha svolto nel corso della sua carriera un’azione di contrasto forte nei confronti della ‘ndrangheta. E di aver ricevuto anche delle minacce, lui e la sua famiglia. Tuttavia, Vecchio continua e ipotizza invece che dietro quel falso attentato ci sia un ruolo dei servizi di sicurezza. Nicolò Pollari smentisce la versione di Vecchio e la bolla come falsa. Una cosa però è certa, che vero o presunto, quell’attentato ha avuto l’effetto di compattare il centro destra intorno alla figura di Scopelliti e di lanciarlo alla guida della Calabria. E’ certo anche che lo 007 dell’autogrill, Marco Mancini, ha avuto anche un altro ruolo in un altro episodio legato sempre alla Calabria. Era in contatto con uno dei cosiddetti “invisibili”, il commercialista Zumbo. E’ una delle figure più controverse della nuova ‘ndrangheta, il commercialista Zumbo che si vanta anche di aver avuto frequentazioni famigliari con la cosca De Stefano, faceva il doppio lavoro: di giorno commercialista, nell’ombra era la cerniera tra i servizi di sicurezza e la ‘ndrangheta. E’ proprio grazie a questo ruolo che i boss per dieci anni hanno potuto penetrare nei segreti delle procure e delle indagini dei magistrati, riuscendo anche a condizionare l’esito di alcune inchieste.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi 20 anni i rapporti tra servizi segreti e ‘ndrangheta in Calabria sono passati attraverso figure di cerniera che hanno messo in collegamento il mondo di sotto della mafia e il mondo di sopra delle istituzioni. Uno dei soggetti principali di raccordo è il commercialista di Reggio Calabria Giovanni Zumbo.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola, di Report la trasmissione di Rai3.

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA E lo so, sono sceso per educazione.

GIORGIO MOTTOLA Mi sto occupando dell’attività che hanno avuto i servizi qui in Calabria, rispetto a cui so che lei ne sa abbastanza.

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA No, sono solo un semplicissimo commercialista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’umile commercialista ha finito di scontare da poco 11 anni in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Grazie ai suoi rapporti con i livelli più alti dei servizi segreti italiani, sarebbe riuscito a pilotare, per conto di alcuni capicosca, l’arresto dei boss avversari e a passare soffiate sulle indagini in corso a capimafia del calibro di Giuseppe Pelle, tra i vertici della ‘ndrangheta di San Luca.

GIORGIO MOTTOLA Lei sarebbe l’uomo di collegamento tra ‘ndrangheta e servizi segreti?

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA Come dicono loro. Ma di quello che dicono e di quello che la realtà è… ce ne passa.

GIORGIO MOTTOLA Lei però è riuscito ad esempio a incontrare un boss importante come Giuseppe Pelle.

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA A Reggio Calabria ci conosciamo tutti, è un piccolo paese.

GIORGIO MOTTOLA Lo ha incontrato casualmente?

GIOVANNI ZUMBO - EX COMMERCIALISTA No, casualmente no. Offenderei la vostra intelligenza e soprattutto la mia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La vicenda del boss Pelle è tra le più emblematiche, potrebbe essere infatti la prova di un accordo stipulato negli anni 2000 tra la ‘ndrangheta e una parte dello Stato. Nell’estate del 2010 stanno per scattare gli arresti dell’inchiesta “Crimine-Infinito”, la più importante indagine della storia della ‘ndrangheta, che per la prima volta ricostruisce organigrammi e struttura della mafia calabrese. Pochi giorni prima che venga resa pubblica, Giovanni Zumbo sale in Aspromonte e va a fare visita al boss Giuseppe Pelle con in dono informazioni riservatissime. Come documenta questo audio, che trasmettiamo per la prima volta, al capomafia Zumbo si presenta così.

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Ho fatto parte di... e faccio parte tutt'ora di un sistema che è molto, molto più... vasto di quello che... Ma le dico una cosa: molte volte mi trovo a sentire determinate porcherie che a me mi viene il freddo!

GIUSEPPE PELLE – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Li deve sopportare, no?

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Ci sono i servizi militari, che sono solo militari cioè non possono entrare persone che non sono militari. Io faccio parte comunque di questa, come esterno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che Zumbo fosse in contatto con il Sismi è stato confermato a processo dall’allora capocentro di Reggio Calabria del servizio segreto militare che ha spiegato di aver avuto l’autorizzazione dal suo superiore: Marco Mancini.

GIORGIO MOTTOLA Tu, all’epoca in cui vai da Pelle, collaboravi con i servizi segreti.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Forse i servizi segreti collaboravano con me.

GIORGIO MOTTOLA I tuoi referenti chi erano?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ahhahah.

GIORGIO MOTTOLA Perché ridi? Ma è vero o no che hai incontrato Mancini?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Lo conosco e allora? Sì, come conosco tre quarti dei giudici, come conosco tre quarti dei carabinieri, della guardia di finanza, della polizia.

GIORGIO MOTTOLA Lo conosci perché lo hai incontrato personalmente?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA L’ho incontrato.

GIORGIO MOTTOLA L’hai incontrato, ok.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E allora?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Durante la visita al boss in Aspromonte, Giovanni Zumbo rivela dettagli segretissimi sulle indagini in corso e gli garantisce di essere in grado di avvisarlo una settimana prima degli arresti.

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Dirvi che si può salvare, sarei ipocrita, la situazione per come è messa, non è messa bene bene bene.

GIUSEPPE PELLE – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Ma io ho di sopra due operazioni scusate?

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Sì.

GIUSEPPE PELLE – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 E quando la fanno questa operazione a Milano?

GIOVANNI ZUMBO – INTERCETTAZIONE DEL 20/03/2010 Questa ancora…ancora di preciso non lo sappiamo, ma lo sapremo. Una settimana prima io vi dico tutto quello che ...

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ti dico una cosa, questa te la posso dire. Nessuno la sapeva, non la sapeva neanche la procura di Reggio Calabria, neanche il procuratore la sapeva.

GIORGIO MOTTOLA E come facevi a saperla tu, però?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Che ti posso fare? Che ti posso fare…

GIORGIO MOTTOLA Ma tu non solo la sapevi, gli dici il numero degli arresti, gli dici che lo puoi avvertire cinque ore prima… Non è da tutti!

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E non te lo posso dire…

GIORGIO MOTTOLA Non sei un umile commercialista.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA No, sono pure mago.

GIORGIO MOTTOLA Perché tu ti fai tutti quegli anni di carcere e non spieghi chi te l’ha detta quella cosa?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Per la mia dignità che non ha un prezzo.

GIORGIO MOTTOLA Però che c’entra la dignità con l’aiutare un boss a sfuggire la cattura?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ho fatto un… definiamolo un errore. Ma se io faccio una cosa e poi mi siedo e racconto tutto quello che faccio, io sono un pezzo di merda, non so un uomo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come dimostra questo video mai trasmesso prima, quando viene arrestato durante il colloquio in carcere con la moglie, Zumbo spiega che le informazioni date al boss provenivano da una persona scesa da Roma che gli aveva dato precise garanzie.

GIOVANNI ZUMBO – CARCERE DI REGGIO CALABRIA – 29/10/2011 Mi hanno fregato. Francesca lo capisci bene questo? Me lo ha chiesto lui di andare, io gli avevo detto di no, non era il caso. Tu devi capire bene una cosa Francesca. Che ci sono determinate cose che non si devono dire. Non per il bene mio, per il bene tuo.

GIORGIO MOTTOLA Ma qualcuno ti aveva garantito quella soffiata che tu facevi a Pelle non sarebbe stata intercettata?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Non me lo ricordo neanche, credimi.

GIORGIO MOTTOLA Ma che non ti ricordi? Hai fatto 11 anni di carcere, come fai a non ricordartelo?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Il carcere è una parte della vita. È stata una passeggiata lunga, ma una passeggiata tutto sommato.

GIORGIO MOTTOLA Probabilmente tu hai agito per conto di altri?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Stai parlando dello Stato?

GIORGIO MOTTOLA Sì… di membri dello Stato.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E se pure fosse così che hai intenzione di fare, se io ti dico chi sono? GIORGIO MOTTOLA Raccontarlo. Denunciarlo, raccontarlo.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Li denunci? Denunci le persone che…

GIORGIO MOTTOLA Assolutamente sì, puoi metterci la mano sul fuoco.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E’ aggressivo. Sei pure disposto a fare una cosa del genere?

GIORGIO MOTTOLA Ma assolutamente sì.

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA E poi magari andartene in Madagascar perché poi in Italia non ci puoi stare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella conversazione in carcere con la moglie Zumbo fa riferimento ad un certo Mancini.

GIOVANNI ZUMBO – CARCERE DI REGGIO CALABRIA – 29/10/2011 Questo che era venuto dopo? Mancini, quando mi è successo il fatto per Mancini si è interrotto. Perché poi cos’è successo? Mi ha detto che siccome là hanno perso i contatti l’unica persona che noi ci fidiamo visti trascorsi sei tu.

GIORGIO MOTTOLA Chi è ‘sto Mancini di cui parli? Marco Mancini?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Sicuramente non è lui.

GIORGIO MOTTOLA Non è lui?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Mancini ce ne sono tanti.

GIORGIO MOTTOLA Mancini ti ha mai raccontato di questa inchiesta “Crimine-Infinito” che all’epoca si chiamava “Patriarca-Tenacia”?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Ma nella maniera più assoluta!

GIORGIO MOTTOLA Posso farle qualche domanda invece sulle sue attività in Calabria? Lei ha mai incontrato Giovanni Zumbo? Zumbo è andato dal boss Pelle e ha fatto delle rivelazioni su delle indagini in corso nel 2010. Neanche su questo mi risponde.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio degli anni 2000, il rapporto tra il Sismi di Nicolò Pollari e la Calabria è tanto intenso quanto anomalo. I servizi militari partecipano infatti direttamente alle indagini sulla ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA É normale che i servizi partecipino direttamente alle indagini?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 No, assolutamente. Non è che non è normale: non è possibile.

GIORGIO MOTTOLA È vietato?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 E’ vietato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comportamento anomalo dei servizi è emerso solo molti anni dopo, con la testimonianza in aula, mai approfondita e finita subito nell’oblio, di un allora sostituto procuratore dell’Antimafia nazionale.

DEPOSIZIONE – TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA 8/10/2003  ALBERTO CISTERNA – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA 2002 - 2005 Capitò che in procura nazionale Antimafia incontrai per caso nei corridoi del secondo piano, davanti alla porta del procuratore Vigna all’incirca, una persona che poi ho saputo essere Marco Mancini, il direttore della prima divisione del Sismi. In quel periodo l’attività del Sismi sul settore della criminalità organizzata, fu particolarmente intenso. Nell’operazione “Bumma” i servizi segreti hanno lavorato accanto alla procura distrettuale di Reggio Calabria. É una operazione strategica nella connessione, nei link di connessione tra Direzione Distrettuale Antimafia e Direzione Nazionale Antimafia e Sismi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’operazione “Bumma” a cui ha collaborato il Sismi ha sempre al centro la Laura C. Secondo le informative dei Servizi, il tritolo del piroscafo sarebbe stato venduto dalla ‘ndrangheta ai terroristi islamici. Circostanza mai riscontrata. Proprio come la storia del fallito attentato a Scopelliti, che si verifica poche settimane dopo l’operazione “Bumma”.

DEPOSIZIONE – TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA 8/10/2003 ALBERTO CISTERNA – SOSTITUTO PROCURATORE DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA 2002 - 2005 Secondo episodio ritrovamento dell’esplosivo all’interno del palazzo comunale di Reggio Calabria. Anche quella operazione in qualche modo in connessione tra la procura distrettuale di Reggio Calabria e il Sismi vedeva la presenza in campo, schierati a Reggio negli uffici di procura, dell dottor Mancini e degli uomini di punta della sua divisione.

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 Provi a immaginare se su un fatto di terrorismo indaghi la polizia con il pubblico ministero e le agenzie di informazione a guida politica.

GIORGIO MOTTOLA Quindi il rischio è che con l’intervento dei servizi ci sia quasi un controllo della politica sulle indagini?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 Assolutamente sì, perché non è un caso che le agenzie di informazione dipendano per legge dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri

GIORGIO MOTTOLA Se i servizi segreti partecipano direttamente alle indagini si rischia anche un cortocircuito democratico?

ARMANDO SPATARO – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TORINO 2014 - 2018 Assolutamente, si rischia un cortocircuito. Si determina certamente un’alterazione dei principi di divisione e competenze che fa parte dell’assetto democratico di un Paese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E considerato il cortocircuito che parrebbe esserci stato in Calabria in quegli anni. La visita di Zumbo a casa del boss Pelle potrebbe essere stata una conseguenza delle attività anomale dei servizi?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA A quindi tu ora mi fai la domanda: che interesse possono avere i servizi con sette cristiani che erano latitanti nel paese, con una guerra a Duisburg?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il riferimento di Zumbo è alla strage di Duisburg del 2007. Davanti a un ristorante italiano della città tedesca vengono uccise sei persone. Tutti calabresi. Alcuni di loro erano in rapporti di parentela o di affiliazione alla cosca Pelle.

INTERCETTAZIONE DEL 15/08/2007 - Chi è? - É morto mio fratello, è morto mio nipote. È morto tuo fratello. Sono morti tutti. - Anche mio fratello? - Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’Italia è un danno di immagine internazionale. Arrestare i responsabili diventa la priorità dello Stato italiano. E, nel giro di due settimane finiscono in manette i principali responsabili della strage. Ma sebbene la sparatoria di Duisburg fosse la conseguenza di una faida iniziata dai Pelle, gli arresti scattano in quei giorni solo per gli esponenti della cosca avversaria, quella degli Strangio che aveva realizzato l’attentato in Germania. Secondo quanto è emerso nel processo “Gotha”, la celerità degli arresti potrebbe essere dipesa anche da una trattativa che pezzi dello Stato avrebbero messo in piedi con rappresentanti del clan Pelle; vale a dire lo stesso clan capeggiato dal boss a cui Zumbo svela l’inchiesta.

GIORGIO MOTTOLA É sbagliato pensare che dopo la strage di Duisburg, ad un certo punto, ambienti mafiosi hanno cominciato a parlare con apparati dello Stato e quindi nel 2010 si volevano difendere quei mafiosi che avevano dato una mano?

GIOVANNI ZUMBO – EX COMMERCIALISTA Può essere, può essere tante cose. La verità non la saprai mai, né tu che la devi ricevere, né io che probabilmente ne sapevo molto ma molto più di te.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che Zumbo ne sappia più di noi, lo diamo per scontato. Ma chi è che ha incaricato Zumbo di andare dal boss Pelle e avvisarlo degli imminenti arresti? E poi cosa sa di così riservato che se fosse rivelato al nostro Giorgio Mottola sarebbe costretto il nostro inviato a lasciare l’Italia? Quello che sappiamo noi di Zumbo, lo abbiamo ascoltato dalle intercettazioni, mentre non sapeva di essere registrato. Lui va dal boss Pelle e gli dice di far parte integrante di una struttura segreta militare, parte dall’esterno insomma, e di venire a conoscenza di cose riservatissime. Ora parla anche Zumbo in carcere, là immaginiamo invece che sapesse di essere registrato e dice alla moglie che c’erano stati dei mandanti che erano scesi addirittura a Roma per incaricarlo di andare a contattare e dare garanzie al boss Pelle. Poi lì si lascia anche sfuggire un nome: Mancini. Dice al nostro Giorgio Mottola, non è Marco Mancini, quello dell’autogrill. Poi dopo alcune insistenze ammette comunque di aver avuto contatti con quel Marco Mancini. Poi Zumbo, comunque a testimonianza della sua capacità di infiltrare le istituzioni, si è fatto anche aggiudicare dal tribunale, l’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati alla mafia. Si è comunque fatto i suoi 11 anni, nelle more questa estate, si è beccato altri tre anni di condanna in primo grado, questo nei processi che stanno ridisegnando la storia della ‘ndrangheta che sta portando avanti con tenacia il procuratore Aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. E’ lui che ha scoperto la Cosa nuova, questa cupola fatta da personaggi invisibili: dove dentro ci sono mafiosi, soggetti politici, uomini della massoneria deviata e dei servizi segreti che però ha radici lontane. A contribuire all’ideazione di questa Cosa nuova, di questa cupola di invisibili, è stato anche il boss Paolo De Stefano, lui che ha rimodernizzato la ‘ndrangheta. Massone, fascista, ha tessuto rapporti con la camorra di Raffaele Cutolo e con Cosa Nostra. E’ a lui che dobbiamo lo sdoganamento della ‘ndrangheta in quella che è la strategia della tensione: dal golpe Borghese, al rapimento di Aldo Moro. Sono stati trovati contatti fra esponenti della cosca De Stefano con brigadisti e il giorno del sequestro Moro è stato avvistato sul posto il boss Antonino Nirta di San Luca. E’ lui che ha contributo alla realizzazione della cupola degli invisibili, abbiamo visto uno è Zumbo il commercialista, ma il capo secondo la procura di Reggio Calabria, sarebbe un avvocato, Paolo Romeo, che è stato condannato in primo grado a 25 anni per associazione mafiosa. Paolo Romeo è considerato la cerniera tra la massoneria, la politica, e i servizi segreti. E’ stato lui il regista occulto delle candidature degli ultimi 40 anni in Calabria, compresa quella di Scopelliti. E’ stato ex Movimento Sociale Italiano, ex partito Socialdemocratico italiano, ma anche lui è sospettato di aver portato acqua al molino dei De Stefano.

PROCESSO ‘NDRANGHETA STRAGISTA – 06/06/2019 NINO FIUME – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C'è una ‘ndrangheta che può essere paragonata a un treno con tanti vagoni, e ogni vagone ha il suo capo locale. E poi c'è il capotreno, anche se è temporaneo. Diciamo un treno locale, poi c'è un treno ad alta velocità, dove non possono salire tutti, ci vanno solo i capi, e che al di sopra di questo treno c'è gente che viaggia in aereo, e non si fa vedere. Che all’insaputa anche dei passeggeri che stanno sul treno dirige gli scambi, li rotta per quello che deve fare. Quelli sono i riservatissimi, se li vogliamo chiamare così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella metafora del pentito, l’aereo è la cupola segreta degli invisibili. I membri riservati della ndrangheta che operano a cavallo tra il mondo delle cosche, la politica, i servizi segreti e la massoneria deviata. Nel processo “Gotha” è emerso che questa cupola ha il suo epicentro in uno degli insediamenti più antichi della città di Reggio Calabria, il quartiere Gallico. Feudo elettorale e criminale di un politico della prima Repubblica, l’avvocato Paolo Romeo.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Paolo Romeo era inserito nel quarto livello politico.

GIORGIO MOTTOLA Della ‘ndrangheta.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì. Gestiva un po’ i politici

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’avvocato Paolo Romeo è stato per vent’anni uno dei massimi dirigenti del Movimento Sociale Italiano a Reggio Calabria e poi è diventato deputato nel 1992 con il partito Socialdemocratico. Sulle sue spalle pende già una condanna definitiva per concorso esterno per essere stato al servizio della cosca di Paolo De Stefano.

GIORGIO MOTTOLA Quali erano i rapporti fra Paolo Romeo e la cosca De Stefano?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era un unicum con la cosca De Stefano, nel senso che curava sicuramente i rapporti tra Paolo De Stefano e gente di Roma.

GIORGIO MOTTOLA Quando dice gente di Roma, intende politici?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Intendo politici soprattutto, ma non solo politici.

GIORGIO MOTTOLA Esponenti dei servizi segreti?

CARMELO SERPA Soprattutto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’estate Paolo Romeo ha ricevuto una nuova condanna a 25 anni al termine di un processo in cui era accusato di essere uno dei capi della cupola dei riservati della ‘ndrangheta, ruolo con il quale avrebbe favorito i rapporti delle cosche con il mondo delle istituzioni, degli apparati di sicurezza e delle logge deviate.

PAOLO ROMEO – AVVOCATO Sono lusingato per la considerazione che loro hanno di me, ma non è così io sono un povero spiantato. Ecco perché non combattono la mafia e la mafia è forte. Perché se la pigliano con me che non sono nessuno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nonostante la sua professione di modestia, la procura di Reggio considera Romeo uno dei più potenti uomini della Calabria. Per anni, avrebbe deciso le sorti della politica, costruendo carriere importanti come quella di Giuseppe Scopelliti, da lui lanciato prima alla guida del Comune e poi alla presidenza della Regione Calabria. Come ha raccontato il pentito Sebastiano Vecchio.

SEBASTIANO VECCHIO - EX ASSESSORE COMUNALE REGGIO CALABRIA Per me che facevo politica da circoscrizione e poi sono passato assessore, era come se mio fratello voleva incontrare Ronaldo. Io volevo incontrare Paolo Romeo. Era il Dio della ‘ndrangheta e della politica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma sebbene Romeo provenga dall’Msi e abbia coltivato strette relazioni con Alleanza Nazionale, i suoi rapporti sono stati trasversali, determinando carriere politiche sia nel centro destra, che nel centrosinistra. PAOLO ROMEO – AVVOCATO Io quando sono in contatto con il sistema relazionale di centrodestra, ho dei comportamenti. Quando vado a relazionarmi con un sistema di relazioni di sinistra, è chiaro che io tendo ad acquistare la stessa temperatura. E non sono stato un camaleonte. Sono stato uno che ha sofferto intellettualmente processi di evoluzione avendo consapevolezza che la realtà è complessa e non è solo bianco o nero.

GIORGIO MOTTOLA È un adattamento darwiniano, in qualche modo?

PAOLO ROMEO – AVVOCATO Ma è un adattamento darwiniano da leader, non sono stato trascinato dalle onde, ho navigato. Perché questa mia natura, di navigatore, di governatore degli eventi, spesso la spiegano come se venisse, derivasse, da poteri occulti che io avrei o da protezioni che io avrei ora dalla ‘ndrangheta ora la massoneria. Capisce qual è il dramma della mia vita? Sta in questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni 2000, sotto la guida di Romeo, il rapporto tra ‘ndrangheta e politica entra in una nuova fase. A differenza di quanto accaduto negli anni ’90, le cosche non presentano più propri candidati e non sostengono un preciso partito. Non ne hanno più bisogno perché sono in grado di pescare in tutto il bacino degli eletti di destra come di sinistra.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO La ‘ndrangheta non ha motivo più di candidare i suoi uomini. Che motivo ha? Non è la ‘ndrangheta che va a trovare i politici: sono i politici che vanno a trovare la ‘ndrangheta per chiedere sostegno elettorale e sono come i topi che cadono nella colla quando gli metti la trappola.

GIORGIO MOTTOLA La ‘ndrangheta non devi più spendere nemmeno i soldi per le campagne elettorali.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Si ‘nnaca, come diceva Sciascia, no? Il massimo del movimento restando fermi. Un ‘nnacamento: il massimo del movimento restando fermi. E questo fa la ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Paolo Romeo avrebbe fatto da collegamento tra la ‘ndrangheta e la politica fin dagli anni ’80. Quando era ancora un dirigente dell’Msi sostenne la latitanza di Franco Freda, il terrorista neofascista, considerato all’epoca responsabile della strage di Piazza Fontana a Milano in cui persero la vita 17 persone. Per nascondere il terrorista, Paolo Romeo chiese aiuto alla cosca De Stefano.

GIORGIO MOTTOLA La ‘ndrangheta si muove per aiutare Freda a scappare, tra l’altro col suo intervento, con la sua mediazione.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO Ed è sbagliato pure questo: non è che è la ‘ndrangheta che ha aiutato Freda a fuggire da Catanzaro e a espatriare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per far fuggire Freda, Paolo Romeo si rivolge a un parente stretto di Paolo De Stefano, Paolo Martino che è anche un suo cliente. Il familiare del boss, porta il neofascista a casa di un affiliato della cosca, Filippo Barreca. Ma essendo troppo pericoloso nascondere il terrorista, dopo alcune settimane trascorse nel covo della ‘ndrangheta, Freda viene accompagnato al confine con la Francia e scappa in Costarica.

PAOLO ROMEO - AVVOCATO L’operazione che io faccio è fallimentare. Cioè io tento di rivolgermi al mio cliente Martino che mi assicura di poter essere in grado – millantando – di farlo espatriare e invece tutto questo Martino non fa. Martino agevola, senza che io sapessi nulla, la consegna di Freda a Barreca per il tempo necessario affinché lui organizzasse il trasferimento in Costarica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’aiuto che Romeo e gli uomini della cosca De Stefano danno al neofascista Franco Freda rientrerebbe in una precisa strategia criminale che ha origini lontane. Per rintracciarle bisogna inerpicarsi sulle strade sterrate dell’Aspromonte e arrivare fin sulla vetta più elevata, Montalto. All’ombra del Cristo Redentore, in una masseria nascosta tra gli alberi, il 26 ottobre del 1969 si è tenuta una riunione che ha cambiato il corso della storia della mafia calabrese. Cosa avvenne lo racconta, per la prima volta davanti a una telecamera, uno dei pentiti.

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C’era tantissima gente proveniente da tutte le province della Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al summit di Montalto si fronteggiano la vecchia ‘ndrangheta rurale dei capi storici e la nuova generazione mafiosa guidata da Paolo De Stefano che intende dare una svolta all’organizzazione.

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Paolo De Stefano in prima persona disse a tutti quanti, guardate che verranno accompagnate qui delle persone che non appartengono a noi, sono personaggi politici. Questi ci possono portare soldi, ci possono portare armi, ci possono portare pratica o comunque insegnamenti per fare le cose migliori di come le abbiamo fatte fino a oggi. Nel frattempo, da un lato della boscaglia arriva questo gruppo di uomini.

GIORGIO MOTTOLA E chi erano?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Stefano delle Chiaie, Pierluigi Concutelli e Valerio Borghese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stefano Delle Chiaie fondatore del movimento neofascista Avanguardia Nazionale, Pierluigi Concutelli, tra i capi di Ordine Nuovo, condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Occorsio, e Junio Valerio Borghese, ex gerarca fascista, per un periodo presidente onorario del Movimento Sociale Italiano e poi fondatore del Fronte Nazionale.

GIORGIO MOTTOLA Come viene accolta la presenza di questi invitati?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA C’è stato qualcuno che ha contesto. Ha detto: “Ma che ne facimu e sta gente noiatri”, questa gente a che ci serve? Paolo De Stefano ha risposto: come a che ti serve? Questa gente ci può mettere in condizione di avere tutto.

GIORGIO MOTTOLA Come mai Paolo De Stefano aveva rapporti con questi soggetti?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ma Paolo è sempre stato, come si dice… un fascista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pochi mesi dopo il summit scoppiano i moti di Reggio Calabria, la rivolta che mette per settimane a ferro e fuoco la città dopo l’assegnazione del capoluogo di regione a Catanzaro. La protesta viene sin dall’inizio egemonizzata dalle organizzazioni neofasciste, a partire da Avanguardia Nazionale.

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Nei moti di Reggio Calabria il ruolo della ‘ndrangheta è stato determinante perché era la ‘ndrangheta a poter mobilitate le piazze di Reggio Calabria, non Avanguardia Nazionale.

PAOLO MONDANI Ma era concordata?

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE C’era un accordo, un accordo operativo tra Avanguardia e ‘ndrangheta che risale all’autunno del 1969, quindi ancora prima di piazza Fontana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Vincenzo Vinciguerra sta scostando in carcere l’ergastolo per la strage di Peteano, l’attentato fascista che nel pieno della strategia della tensione uccise tre carabinieri. All’epoca del summit di Montalto, Vinciguerra era il braccio destro di Stefano delle Chiaie.

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE So che ha partecipato a delle riunioni in Aspromonte.

PAOLO MONDANI Riunioni nelle quali si era deciso che cosa?

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Si era parlato dell’intervento della ‘ndrangheta nel golpe Borghese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il golpe borghese del 1970 è una delle pagine più buie e misteriose della storia italiana. L’ex gerarca fascista Junio Valerio Borghese si mette alla testa di un colpo di Stato a cui inizialmente aderiscono alcune tra le massime cariche dell’esercito, del corpo forestale e dei servizi segreti.

VINCENZO VINCIGUERRA – EX DIRIGENTE AVANGUARDIA NAZIONALE I moti di Reggio Calabria degenerati con le tecniche di guerriglia urbana precedevano quella che era la data effettiva del golpe Borghese.

GIORGIO MOTTOLA Sia ‘ndrangheta che Cosa nostra hanno partecipato al golpe Borghese?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì, sì, sì. Perché la ‘ndrangheta ha dato disponibilità per tutto ciò che sarebbe passato da Reggio Calabria verso la Sicilia. Perché il golpe Borghese si parlava che avrebbe dovuto avvenire a partire da Palermo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il summit di Montalto del ‘69 segna l’ingresso della ‘ndrangheta in un disegno eversivo che punta a ribaltare la democrazia in Italia. In quell’occasione però non viene saldata una alleanza strategica solo con l’estrema destra. Nel golpe borghese c’è infatti un terzo alleato criminale, che è anche il regista dell’intera operazione: la loggia Propaganda 2 di Licio Gelli.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Per avere il controllo, mi segua bene, delle logge, del territorio e delle votazioni, praticamente Gelli che cosa ha fatto? Essendo le famose ‘ndranghete calabresi che sono al livello di clan e di famiglie, inserivano uno di ogni clan, dentro. Uno per ogni locale, per ogni cosca.

GIORGIO MOTTOLA Licio Gelli ha contribuito a rifondare la ‘ndrangheta negli anni ’70?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Gelli ha rifondato il potere. Che ancora dura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso anno in cui viene costituita la P2 di Licio Gelli, la ‘ndrangheta si dota di una nuova struttura interna: la Santa.

NICOLA GRATTERI – PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO Con la Santa si è data la possibilità in origine solo a 33 ‘ndranghetisti, di avere la doppia affiliazione, cioè di entrare a far parte di una loggia massonica deviata. Quindi di interagire col mondo delle professioni, con un ceto sociale alto, con classe dirigente. E quindi entrare nella stanza dei bottoni. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie alla nascita della Santa, il livello più alto della ‘ndrangheta si fonde con la massoneria deviata, dando vita a nuovo sistema criminale. La mafia calabrese compie così un vero e proprio passaggio di stato: da organizzazione statica, irrigidita da una miriade di clan e famiglie, attraverso la contaminazione con la massoneria rompe i vincoli delle vecchie regole e si evolve verso una struttura incorporea. Diventa invisibile e capace di permeare qualsiasi ambito dell'economia e della politica.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Devi essere santista per entrare nella massoneria.

GIORGIO MOTTOLA Lei è stato santista?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Ma che cos’è la Santa?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA NUCERA La Santa è un grado superiore che decide. Praticamente è il cervello.

GIORGIO MOTTOLA E quindi cosa può fare in più?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Tutto. Un santista può dire alla polizia che lei è stato quello che ha sparato senza portare peso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un santista, è autorizzato a dialogare con la polizia o con i servizi segreti e le sue decisioni sono incontestabili da parte dell’organizzazione. Insomma, una volta erano 33 i santisti, adesso sono centinaia. Ma questa è una struttura. Poi negli anni si è dotata di un’altra struttura, di invisibili, i cosiddetti riservati. Cioè di personaggi che non sono direttamente affiliati alla ‘ndrangheta ma ne fanno parte a tutti gli effetti. Ai vertici di questi invisibili, ci sarebbe Paolo Romeo, questo almeno secondo la procura di Reggio. Paolo Romeo, che avrebbe aiutato nella latitanza, nella prima parte, il terrorista neofascista Freda avvalendosi anche della collaborazione di alcuni esponenti della cosca De Stefano. Poi Romeo è anche il regista della candidatura di Scopelliti che grazie all’attentato, vero o finto che sia, scoperto dallo 007 Marco Mancini, quello dell’autogrill, è riuscito anche a diventare governatore della Calabria, accumulando consensi. Romeo per chi vuole fare politica in Calabria è il “Dio della politica e della ‘ndrangheta” almeno così lo definisce l’ex assessore di Scopelliti, anche lui ‘ndranghetista e massone, Sebastiano Vecchio. E sarebbe appunto ai vertici di questa cupola degli invisibili. Che ha radici lontane, era stata ideata grazie proprio ad un boss come Paolo De Stefano, fascista e massone anche lui, aveva sdoganato la ‘ndrangheta a livello nazionale facendola partecipare alla strategia della tensione, dal golpe borghese in poi. Ma tutto questo avviene sotto la regia del venerabile Licio Gelli, l’uomo della P2. Che cosa fa Licio Gelli? Infiltra la P2 dei capi della ‘ndrangheta, ciascuno per ogni cosca. Questo gli consente di controllare da una parte le logge, di controllare il territorio, e di controllare anche le elezioni perché nessuno come la ‘ndrangheta è padrone del territorio in materia di voti. Ora questo connubio ha sicuramente aiutato la ‘ndrangheta a diventare la mafia più potente in Europa. Proprio perché era stata infiltrata dalla P2 un potere che è riuscito a resistere anche alla scoperta delle liste di Castiglion Fibocchi. Ecco secondo un pentito, quel potere della P2 è confluito in altre logge. Una di questa sarebbe La Fenice, fondata da un misterioso Conte, il conte Ugolini, avrebbe ereditato proprio parte del potere di Licio Gelli, imprenditori, politici, uomini dei servizi segreti. Una ragnatela che ha tessuto relazioni anche con alcuni politici che oggi stanno giocando una partita, importante, fondamentale, per la nomina del nuovo presidente della Repubblica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Una delle più potenti logge deviate legate alla ‘ndrangheta ha il nome di un animale mitologico: la Fenice. La sua esistenza è stata rivelata da un imprenditore del porto di Gioia Tauro organico alla cosca Molè.

PROCESSO GOTHA 14/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era una vera e propria loggia, la Fenice, dove era stata istituita a Rizziconi - tempi passati - alla fine degli anni’80. E scelsero il nome la Fenice proprio perché a livello mitologico è rappresentata come l’uccello che rinasce sempre dalle ceneri. E quindi un potere che non basterà nessuna attività giudiziaria a poterla… a farla morire: risorgerà sempre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia della Loggia Fenice è strettamente collegata allo Stato di San Marino. Da qui proviene infatti il suo fondatore: il conte Giacomo Maria Ugolini che mette in piedi alla fine degli anni ’80 un sistema di cui la loggia è solo un satellite. Ugolini è un misterioso personaggio che all’inizio degli anni ’90 viene nominato ambasciatore in Egitto e Giordania della piccola Repubblica del Titano.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Lo propose lui, lo propose. Chiese di essere riconosciuto, di essere nominato ambasciatore. Cosa che il governo fece abbastanza volentieri.

GIORGIO MOTTOLA Solo che per voi qui a San Marino era uno che veniva dal nulla, praticamente.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Eh sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A San Marino fino a quel momento nessuno aveva mai sentito parlare del conte Ugolini. Ma grazie alle sue relazioni con il governo italiano, in poche settimane è riuscito a guadagnarsi il credito dei ministri della Repubblica del Titano.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Vantò delle amicizie, delle relazioni con il ministero delle Finanze, con il ministero della Difesa; con il ministero delle Finanze c’erano rapporti con Pollari.

GIORGIO MOTTOLA Nicolò Pollari?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Sì.

GIORGIO MOTTOLA Lo stesso Nicolò Pollari che poi è diventato capo dei Servizi segreti?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Dei Servizi segreti, Sì. Effettivamente ci consentì di risolvere alcuni problemi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nicolò Pollari diventa capo del Sismi nel 2001 quando al governo c’era Berlusconi e la delega ai servizi è stata affidata a Gianni Letta. Secondo Virgiglio l’allora capo del Servizio segreto militare era uno dei membri più importanti della loggia fondata dal conte Ugolini.

PROCESSO GOTHA 14/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ugolini aveva in mano il vecchio sistema dell’intelligence, tramite Pollari lui aveva in mano questo sistema qui.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Che ci fosse un rapporto stretto tra Ugolini e Pollari, ci viene confermato anche dal segretario storico dell’ex ambasciatore, anche lui massone dichiarato.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Con Nicolò Pollari avevamo ottimi rapporti, ma un rapporto nato stranamente. Non so se lei abbia mai sentito parlare di Milingo.

GIORGIO MOTTOLA Come no.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Mi ricordo che Nicolò Pollari aveva bisogno di incontrare questo… si parlava tanto di Milingo, di queste guarigioni, di queste cose.

GIORGIO MOTTOLA Pollari voleva un contatto di Milingo per una guarigione?

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Per una signora. E da lì ci incontrammo e cominciammo a frequentarci. Diventammo – devo dire - dei buoni amici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oltre a Pollari, della loggia Ugolini avrebbero fatto parte anche cardinali, imprenditori e industriali. Potere istituzionale che Ugolini mescolava al potere criminale della ‘ndrangheta che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella loggia coperta fondata dall’ex ambasciatore a San Marino.

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Si qualificava come massoneria, ma probabilmente era un titolo…

GIORGIO MOTTOLA Era una massoneria deviata?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Deviata, deviata.

GIORGIO MOTTOLA Chi faceva parte di questa loggia segreta?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Persone che venivano qualificate come industriali, nel mondo della finanza, del mondo bancario.

GIORGIO MOTTOLA Anche delle forze dell’ordine?

ALVARO SELVA - EX MINISTRO DEGLI INTERNI REPUBBLICA SAN MARINO Sì, sì, finanzieri. Sanmarinesi non c’erano. Italiani.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI L’ambasciatore è stato il fondatore della Gran Loggia di San Marino. Basta.

GIORGIO MOTTOLA E non c’erano logge coperte che facevano riferimento all’ambasciatore Ugolini?

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma secondo il pentito Virgiglio il sistema Ugolini sarebbe nato dalle ceneri della P2 negli anni ’80, dopo la scoperta delle liste della loggia deviata di Licio Gelli. L’obiettivo era di proseguire l’esperienza massonica del venerabile.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 GIUSEPPE LOMBARDO – PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Sappiamo tutti che formalmente la P2 viene disciolta con la legge Anselmi, cioè di quel modello che cosa, diciamo, passa al sistema Ugolini?

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il potere: passa il potere però non viene fatto il potere com’era strutturato nella vecchia Propaganda 2. Non ci interessa a tutti i costi la politica, non ci interessa una fazione della politica, cioè destra, sinistra, non ci interessa. In mano dobbiamo avere il potere economico - finanziario, in mano dobbiamo avere l’ingresso delle merci, quindi i porti, e quindi questo è il sistema.

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Con Licio Gelli avevamo dei buoni rapporti, questo sì. Noi andavamo a trovarlo a Villa Wanda.

GIORGIO MOTTOLA Come mai frequentavate con l’ambasciatore Licio Gelli?

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Eravamo degli amici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la morte del conte Ugolini, diventa tesoriere dell’omonima fondazione, Giorgio Hugo Balestrieri, un ex capitano della Marina militare e della Nato. Tessera numero 2191 della loggia P2, è tra i fondatori della potente Loggia Montecarlo, istituita da Licio Gelli nel principato di Monaco poco tempo prima della scoperta delle liste a Castiglion Fibocchi.

GIORGIO MOTTOLA Che cos’era la loggia Montecarlo e perché è stata istituita?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA La loggia Montecarlo è stata istituita perché c’era della gente in giro che voleva fare affari. Una loggia d’affari.

GIORGIO MOTTOLA Non bastava la P2?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA La P2 era fatta, era finita. GIORGIO MOTTOLA Quindi la Loggia Montecarlo doveva in qualche modo subentrare alla P2?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA Sì e no. Ma guardi io i primi tempi che ero lì andavo avanti e indietro con Washington. Sono stato veramente in grande contatto con Hugo Montgomery che era l’ex capo della Cia a Roma.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E della loggia Montecarlo avrebbe fatto parte anche il conte Ugolini che poi successivamente ha costituito la sua organizzazione massonica deviata, scegliendo come sede San Marino per una ragione molto precisa.

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA San Marino è tutto un riciclo. Io ho visto cosa facevano.

GIORGIO MOTTOLA Riciclavano soldi?

GIORGIO HUGO BALESTRIERI – EX CAPITANO DELLA MARINA MILITARE ITALIANA Ugolini portava fuori i soldi di un certo gruppo di italiani.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E i contatti grazie al suo ruolo di ambasciatore di San Marino, Ugolini li aveva soprattutto con i politici italiani.

GIORGIO MOTTOLA Immagino che lei con l’ambasciatore ne avrà conosciuti...

ANGELO BOCCARDELLI – ASSISTENTE PERSONALE DI GIACOMO MARIA UGOLINI Ne ho conosciuti. Abbiamo incontrato, conosciuto Fini, financo D’Alema con il quale avevamo stretto rapporti non di amicizia, ma un gran buon rapporto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gianfranco Fini e Massimo D’Alema, ci fanno sapere che nessuna frequentazione c’è stata con Ugolini, ma solo rari incontri istituzionali nella sua veste di ambasciatore di San Marino. Secondo il pentito, vi sarebbe un politico di primissimo piano che avrebbe avuto un ruolo cruciale nel sistema Ugolini.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Un referente particolarmente importante in Calabria negli ultimi tempi era quello di Gianni Letta, ma sempre da un punto di vista politico, raccordo politico.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 GIUSEPPE LOMBARDO – PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Ci faccia capire meglio: che cosa vuol dire?

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era l’espressione di questo sistema Ugolini sulla Calabria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo Cosimo Virgiglio, l’imprenditore organico alla ‘ndrangheta, e appartenente alla loggia segreta Fenice, l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, sarebbe stato uno dei referenti del sistema messo in piedi dal Conte Ugolini, l’ambasciatore sammarinese che avrebbe raccolto l’eredità della P2.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report, volevo farle una domanda se ha mai conosciuto l’ambasciatore Ugolini.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Eh, non so nemmeno chi sia…

GIORGIO MOTTOLA Non sa neanche chi sia? Perché c’è un collaboratore di giustizia che dice che lei faceva parte di questa loggia Ugolini che l’ambasciatore Ugolini ha messo in piedi.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Non so chi sia.

GIORGIO MOTTOLA Mai sentito? Era ambasciatore di San Marino.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ex imprenditore ‘ndranghetista Cosimo Virgiglio ha raccontato anche di un incontro con Gianni Letta in un ristorante di Catanzaro, avvenuto all’inizio degli anni 2000 per discutere di un investimento dei Lloyd’s di Londra in presenza di imprenditori e maestri venerabili delle logge calabresi.

PROCESSO GOTHA – 17/04/2019 COSIMO VIRGIGLIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Letta sì, l’ho incontrato direttamente lì, all’Orso Cattivo, quando scese giù per quel famoso investimento dei Lloyd’s di Londra. Avevano bisogno di investire 100 milioni di euro in Calabria acquistando delle strutture o ricettive o di distribuzione alimentare. A quella riunione parteciparono il nostro Maestro Venerabile, uno della Apicamera di Crotone, un altro signore di Sellia Marina, un grosso imprenditore, e lì insomma si pianificò come poterci muovere.

GIORGIO MOTTOLA Scusi dottor Letta se insisto, perché questo collaboratore di giustizia sta parlando in diversi processi e parla di questa loggia Fenice.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO

DEI MINISTRI Ma io non so chi sia e non so che dica, ma dice delle cose che non stanno né in cielo né in terra. GIORGIO MOTTOLA E non ha mai incontrato Cosimo Virgiglio, dottor Letta?

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI No.

GIORGIO MOTTOLA All’Orso cattivo di Catanzaro?

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI No, mai stato.

GIORGIO MOTTOLA Mai stato a Catanzaro.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI No.

GIORGIO MOTTOLA Si sta inventando tutto?

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Presumo di sì perché io non so nulla di quello che lei mi ha detto.

GIORGIO MOTTOLA Perché secondo questo collaboratore Ugolini avrebbe messo in piedi un sistema di potere che è stato un po’ la prosecuzione della P2.

GIANNI LETTA - EX SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Non certamente con me.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora Cosimo Virgiglio, imprenditore, ‘ndranghetista, gran maestro venerabile è il primo a denunciare l’esistenza della loggia Fenice, fondata negli anni ‘80. E spiega anche l’origine del nome, perché come l’uccello mitologico, risorgerà, sopravviverà dice lui, anche alle inchieste giudiziarie. L’avrebbe fondata il conte Ugolini, insieme ad altre logge satelliti che gravitavano intorno al centro dell’impenetrabile Repubblica di San Marino, con diramazioni sino alla famigerata Gran Loggia di Montecarlo che era stata fondata negli anni ’80 da Licio Gelli quando stava per morire la loggia P2, la loggia massonica del venerabile. E secondo il tesoriere Balestrieri, il conte Ugolini da Montecarlo, avrebbe fatto uscire dei soldi. Ovviamente manca la versione di Ugolini, quindi lo dice Balestrieri questo. Quello però che è certo è che il conte Ugolini tesseva dei rapporti importanti con uomini delle istituzioni italiane, il capo dei servizi segreti Pollari, con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti Gianni Letta. E proprio Gianni Letta secondo sempre Cosimo Virgiglio sarebbe stato il referente delle politiche per la Calabria del conte Ugolini. Sarebbe stato presente in un vertice che si sarebbe tenuto nel 2005 presso un ristorante di Catanzaro, dove i Lloyd’s di Londra avevano manifestato l’intenzione di investire 100 milioni di euro sulla Calabria nell’acquisto di strutture turistiche e di società per la distribuzione alimentare. Letta smentisce, dice al nostro Mottola: io non conosco il Conte Ugolini né ho frequentato le logge. Noi ovviamente gli crediamo. Quello che è certo è che però Gianni Letta pur non essendo mai entrato in parlamento ha gestito il potere più di qualsiasi altro politico. E’ stato intercettato nell’inchiesta sulla P4 mentre dialogava con Bisignani, Bisignani il cui nome era nelle liste di Castiglion Fibocchi della P2, stava raccontando, svelando, a Letta dell’inchiesta sulla P4, inchiesta per cui Bisignani patteggerà anche la pena. Letta ha anche ammesso che Bisignani gli aveva suggerito, caldeggiato, le candidature del magistrato Papa e anche il nome gli aveva suggerito, di un vertice dei servizi di sicurezza. Attualmente sta tessendo la tela per Silvio Berlusconi, anche lui ex P2, per la nomina del nuovo presidente della Repubblica. E attualmente Letta è a capo di queste fondazioni che hanno una natura politica, economico-finanziaria, sanitaria, soprattutto culturale. E’ stato anche a capo di queste altre sino ad un po’ di tempo fa, ora io mi chiedo: sicuramente ce ne sarà sfuggita qualcuna ma come fa alla venerabile età di 86 anni a gestire tutto con la qualità con cui lo fa? Insomma, la nostra sicuramente è solamente invidia. Ex Rai, ex Ansa, ex Tempo è stato nominato vicepresidente della comunicazione Fininvest nell’87 e Berlusconi lo ha utilizzato spesso come un suo ambasciatore, l’aveva inviato presso il presidente della cassazione Santacroce in prossimità della sua condanna per i reati finanziari. Letta è stato anche l’artefice del patto del Nazareno, fra Berlusconi e Renzi. E poi è stato anche il protagonista, questa volta però non principale, del film di Alberto Sordi: Io so, che tu sai, che io so

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora stiamo parlando della cosiddetta cupola degli invisibili: una struttura occulta che è emersa durante i processi di Reggio Calabria che stanno ridisegnando la storia della ‘ndrangheta degli ultimi anni. E’ una struttura nella quale si sono infilati ‘ndranghetisti, la massoneria deviata, uomini dei servizi segreti, soggetti politici. Uno degli invisibili, secondo le intercettazioni e secondo i collaboratori di giustizia, sarebbe l’avvocato Giancarlo Pittelli uno di coloro che ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di Forza Italia in Calabria, poi dopo ha aderito a Fratelli d’Italia. E’ l’avvocato dagli anni ’80 dei Piromalli e dei Mancuso, cioè delle due famiglie più importanti della ‘ndrangheta con i De Stefano. E secondo alcuni pentiti anche i De Stefano avrebbero investito nelle attività immobiliari di Silvio Berlusconi, Milano 2, insieme ai siciliani. Ovviamente l’avvocato Ghedini smentisce fino a prova contraria gli crediamo. Però è successo anche che negli anni ’80 quando Berlusconi aveva appena formato la Fininvest era sceso giù in Calabria per trasmettere si era appoggiato ad una emittente locale: TeleCalabriaUno. Dopo una serie di omicidi di stampo mafioso la Fininvest acquista TeleCalabriaUno e la affida ad un antennista che fino a quel momento aveva lavorato nell’emittente. A dargli le chiavi in mano del canale è proprio Galliani. Da chi è stato benedetto questo antennista?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso processo in cui il boss Graviano ha confermato gli investimenti di Cosa Nostra nelle attività di Berlusconi, un pentito calabrese Nino Fiume, ha per la prima volta raccontato di investimenti fatti dalla ‘ndrangheta nel progetto Milano 2 di Silvio Berlusconi. In cordata con la mafia siciliana, avrebbe dunque investito i soldi delle cosche calabresi in Milano 2 anche Paolo De Stefano, uno dei più importanti capi della storia della ‘ndrangheta.

PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 06/06/2019 NINO FIUME – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Perché Paolo De Stefano, sua moglie aveva la contabilità e doveva avere soldi da Milano 2, che li aveva investiti ai tempi di Bontate, e questi palermitani non gli restituivano mai i soldi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli stessi anni Silvio Berlusconi si dà anche alla televisione e fonda Fininvest. Per trasmettere i programmi di Canale 5 in Calabria si appoggia a una tv locale, Telecalabria Uno. Ma nel 1981 il proprietario dell’emittente calabrese, Francesco Priolo, viene ucciso in un agguato a Gioia Tauro. E a distanza di qualche settimana viene trovato ammazzato anche il figlio, Pino Priolo, succeduto alla guida della tv. Dopo l’omicidio, il gruppo Fininvest di Berlusconi acquisisce Telecalabria Uno e ne nomina responsabile Angelo Sorrenti, che era un dipendente dei Priolo.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Nel momento in cui si concluse la trattativa della vendita sia Galliani che Lacchini mi dissero guarda adesso noi abbiamo bisogno di un responsabile e vorremmo che fossi tu.

GIORGIO MOTTOLA Eri un operaio specializzato…

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Si, quando c’era da installare, da fare, ero io…

GIORGIO MOTTOLA Certo, però eri un operario praticamente.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Si, un operaio, un installatore.

GIORGIO MOTTOLA Ti ritrovi poi improvvisamente a gestire l’azienda.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Sì, 900 mila lire al mese.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo che Adriano Galliani affida all’ex operaio la responsabilità della società di Fininvest in Calabria, per prima cosa Angelo Sorrenti va a fare visita al boss di Gioia Tauro Pino Piromalli.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Andai a trovare Piromalli e mi ha detto tu puoi restare. E se te lo dico io che puoi restare… testuali parole.

GIORGIO MOTTOLA Ti diedi la benedizione, praticamente?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Si, Piromalli mi ha dato la garanzia che non mi ammazzava nessuno dopo che hanno ammazzato la famiglia Priolo.

GIORGIO MOTTOLA Tu avevi un buon rapporto con Piromalli?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Come si fa ad andare avanti laggiù senza…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel periodo in cui è il riferimento di Fininvest in Calabria, i rapporti di Sorrenti con la cosca Piromalli sono molto stretti al punto che cresima un nipote di Pino Piromalli. E nei mesi in cui il governo Craxi salva le trasmissioni di Fininvest con il decreto Berlusconi, i Piromalli chiedono a Sorrenti di entrare in società con loro.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Loro erano appena usciti di galera e non potevano però risiedere nel comune di Gioia Tauro. Mi chiamarono, andai lì e Nino u catanese mi disse sono arrivati degli amici da Catania per dire che vogliono fare qui un’azienda metalmeccanica e noi abbiamo pensato perché non ce la facciamo noi? E abbiamo pensato a te.

GIORGIO MOTTOLA Quindi tu hai fatto praticamente da prestanome ai Piromalli in quella fase?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Da socio. I soci ero io e poi c’erano rappresentanti delle famiglie Molé e Piromalli.

GIORGIO MOTTOLA A quel tempo eri già rappresentante di Fininvest in Calabria?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Sì e se no i soldi dove li prendevo?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In questo modo il dirigente della società di Fininvest Angelo Sorrenti si teneva buono il boss Piromalli e la sua cosca.

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Gli facevo i miei regalini quando era il momento. Una macchina una volta gli ho regalato a Pino. Una Mercedes. Una Mercedes.

GIORGIO MOTTOLA Questo mentre tu eri responsabile di Fininvest giù in Calabria?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Esatto.

GIORGIO MOTTOLA Fininvest ti considerava una garanzia rispetto alla ‘ndrangheta?

ANGELO SORRENTI – EX DIRIGENTE FININVEST Dopo quello che ero successo se ero ancora lì, vuol dire che qualcosa… Ero un cuscinetto tra loro e gli altri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio degli anni ’90 dopo che sono cominciati i suoi guai giudiziari, Sorrenti ha denunciato Giuseppe Piromalli per estorsione, contribuendo alla sua condanna. Ma i Piromalli avrebbero continuato ad avere un ruolo nelle vicende di Berlusconi. Infatti, Giuseppe Piromalli in persona, sarebbe stato addirittura determinante nella nascita di Forza Italia, stando almeno a quanto racconta in un’intercettazione un ex parlamentare berlusconiano: Giancarlo Pittelli, avvocato del boss Giuseppe Piromalli e imputato in diversi processi con l’accusa di essere uno dei cosiddetti “invisibili” della ‘ndrangheta.

GIANCARLO PITTELLI - AVVOCATO Dell’Utri io lo so… perché Dell’Utri la prima persona che contattò per la fondazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro. Tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria che sono i numeri uno in assoluto. Uno si chiama Giuseppe Piromalli e l’altro si chiama Luigi Mancuso. Io li difendo dal 1981.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Giancarlo Pittelli, ex Forza Italia, dal 2017 in Fratelli d’Italia, è finito agli arresti per i suoi contatti, i suoi legami, con i Piromalli. Ovviamente è innocente sino all’ultimo grado di giudizio. Per quello che riguarda l’antennista Sorrenti, invece, dopo essere andato a chiedere la benedizione e aver ottenuto la garanzia che non gli avrebbero sparato né a lui né ai suoi famigliari ha guidato la Fininvest in Calabria. Nel gioco nelle parti dice ero il cuscinetto fra Fininvest e la ‘ndrangheta. Ora Ghedini ci scrive dicendo che non è emerso nelle indagini un coinvolgimento della Fininvest, e che non poteva conoscere i rapporti personali dell’antennista con i Piromalli. Comunque le acquisizioni delle singole emittenti sul territorio – scrive Ghedini - non le faceva certo Berlusconi. Anche le dichiarazioni di Antonino Fiume sono prive di ogni fondamento, nessun investimento è stato fatto su "Milano2" da parte del boss Paolo Di Stefano, soggetto anch'esso del tutto sconosciuto a Silvio Berlusconi. E aggiunge Ghedini vi sarà certamente noto, che in più indagini vi è stata fatta una verifica sui flussi finanziari di Milano 2 e se n'è potuta constatare l'assoluta regolarità. Insomma, tutto bene anche per il boss Piromalli, che è a piede libero per aver scontato la pena. Ora nella galleria degli invisibili, tra i personaggi ce n’è uno che sarebbe stato funzionale a Forza Italia e che sarebbe rimasto invisibile anche alla giustizia italiana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I nuovi equilibri che hanno determinato la nascita della Seconda Repubblica, avrebbero avuto origine qui in Aspromonte, durante una riunione tenuta tra il settembre e l’ottobre del 1991 al Santuario della Madonna di Polsi. Vi avrebbero partecipato boss di ‘ndrangheta provenienti da tutto il mondo ed esponenti di Cosa Nostra per discutere cosa fare dopo la caduta del Muro di Berlino e la crisi dei riferimenti politici storici.

GIORGIO MOTTOLA In questa riunione a Polsi si decide di sostituire i vecchi referenti politici?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Dc e Psi fuori…

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Si, il nuovo potere, il rinnovamento. In effetti subito dopo la riunione di Polsi sono cominciati gli attentati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E sarebbe proprio nel corso della riunione di Polsi del 1991, che secondo il racconto fatto ai magistrati da Nucera, sarebbe stata pianificata l’inizio della strategia stragista che pochi mesi dopo avrebbe portato agli attentati di Capaci e via D’Amelio. Ma al summit non sarebbero stati presenti solo boss della mafia.

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA C’era pure uno dei Matacena.

GIORGIO MOTTOLA Amedeo Matacena?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Sì. Il pelato, u scucculato.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa si dice durante quella riunione?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Si parla che bisogna rinnovare, che bisogna votare, che bisogna dare appoggio al partito degli uomini.

GIORGIO MOTTOLA Che cos’è questo partito degli uomini?

PASQUALE NUCERA – EX ‘NDRANGHETISTA Gli uomini erano quelli che facevano parte della ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il politico menzionato dall’ex boss ‘ndranghetista è Amedeo Matacena, punto di riferimento in Calabria di Forza Italia negli anni ’90.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Non sono mai stato a Polsi io.

GIORGIO MOTTOLA In quell’occasione si provò a parlare di un nuovo partito da fondare, il cosiddetto partito degli uomini.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Mai stato a Polsi. Ma se in Italia si facesse un partito degli uomini, non in quel senso di Polsi, nel senso di quello che significa uomini, in questo momento dove abbiamo dei quaquaraqua, sarebbe una gran cosa per l’Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1994, tre anni dopo la riunione al santuario di Polsi raccontata da Nucera, Amedeo Matacena viene eletto per la prima volta deputato con Forza Italia. Il suo primo intervento in aula è per chiedere l’abolizione del 41 bis.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Ho presentato documenti dove attraverso il 41 bis veniva estorta la dichiarazione dei pentiti. Non è ammissibile che il sistema della giustizia continui attraverso questi strumenti a violare sistematicamente i diritti civili, i diritti umani.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’epoca l’abolizione del 41 bis era in cima alle priorità di Cosa nostra e della ‘ndrangheta. Nel cosiddetto papello, è la seconda delle richieste che la mafia avrebbe fatto nella trattativa con lo Stato per far cessare le stragi.

GIORGIO MOTTOLA Si rende conto che ha fatto un discorso da portavoce delle organizzazioni criminali?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Non è un problema mio. Ho svolto il mio mandato di libero parlamentare. Sono contrario e lo ero e lo sarò.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2013 Amedeo Matacena è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. E proprio per sfuggire alla pena da quasi 10 anni vive da latitante qui negli Emirati Arabi, a Dubai.

 AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Questo è la mia seconda patria, io non posso assolutamente dimenticare che quando la mia nazione, il mio Paese, mi ha tradito questo paese mi ha accolto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In realtà, stando alla sentenza della Cassazione, è Matacena ad aver tradito il suo Paese considerato che ha favorito le cosche mentre era un parlamentare della Repubblica. E a breve, poiché lo Stato italiano non è riuscito a farlo estradare, nonostante la condanna definitiva, potrebbe tornare in Italia da cittadino libero, senza aver mai scontato nemmeno un giorno di carcere.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Se lo Stato non riesce a farmi espletare la pena entro il prossimo, adesso non ricordo, 3-4 giugno del 2022…decade la pena.

GIORGIO MOTTOLA Giugno è dietro l’angolo…insomma ci siamo quasi.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Ci siamo quasi ma non tornerò a vivere in Italia, non vi preoccupate. Non è mio interesse.

GIORGIO MOTTOLA Anche perché la ri-arrestano, se viene in Italia, ci sono altri procedimenti.

AMEDEO MATACENA No, dopo il 3 giugno non ho più niente, non sono indagato da nessuna parte.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in Italia altre inchieste potrebbero attendere Matacena che prima della condanna era tra gli uomini più ricchi della Calabria. Fino alla fine degli anni ’90 infatti, Amedeo Matacena è stato tra i proprietari della Caronte Spa, la società che da più di mezzo secolo ha il semi monopolio sui traghetti che fanno la spola sullo Stretto di Messina. Un impero che ha portato guadagni per centinaia di milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Come ha fatto la sua famiglia a detenere il monopolio della tratta Villa San Giovanni – Messina dagli anni ’70 fino ad oggi praticamente?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Abbiamo chiesto le concessioni e quello che ha vinto è stata la qualità di un servizio eccellente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma secondo una recente indagine della Dia di Reggio, il monopolio dei traghetti dei Matacena si è imposto grazie a un rapporto preferenziale con le più potenti cosche di ‘ndrangheta.

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA I Matacena non sono mai stati proprietari di niente, ma erano semplicemente persone che sapevano fare un certo mestiere, cioè quello di far camminare le navi e allora sono stati scelti e li hanno affidati a loro.

GIORGIO MOTTOLA Loro chi?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA I De Stefano ….in particolare…

GIORGIO MOTTOLA I De Stefano hanno scelto i Matacena?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Ma non sono stati soltanto loro, eh. Li c’è stata… tre cosche diverse: i De Stefano, i Piromalli, gli Alvaro, i Serraino.

GIORGIO MOTTOLA Quindi l’impero dei Matacena all’origine ha la ‘ndrangheta?

CARMELO SERPA – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo, non era dei Matacena, era della ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni ’60 a gestire la rotta Messina – Villa San Giovanni era solo la Tourist Ferry Boat della famiglia Franza, originaria di Messina. Mentre la Caronte dei Matacena gestiva la tratta meno redditizia perché più lunga, Reggio Calabria - Messina. Stando al racconto di tre diversi pentiti le famiglie di ‘ndrangheta costrinsero l’azienda rivale a consorziarsi con i Matacena. Ne nacque la Caronte Tourist ferries boat che in poco tempo si sarebbe trasformata in un feudo ‘ndranghetista, in cui - secondo il pentito Giuseppe Liuzzo - le cosche si spartivano la gestione delle biglietterie, dei bar e dei posti di lavoro sulle navi. Secondo un collaudato manuale Cencelli.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 È un quaquaraqua.

GIORGIO MOTTOLA Perché lui sostiene che il 35 percento delle assunzioni venisse spartito fra gli ‘ndranghetisti.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Non potete fare domande su quello che dichiara per boutade un pentito. Deve chiedere ai Franza che fra l’altro avevano un ufficio con dei colonnelli ex carabinieri che dovevano verificare le persone che andavano ad assumere. Non può chiederlo a me.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma anche quando Matacena si è messo in proprio con la Amadeus Spa, tentando di gestire altre rotte tra la Calabria e la Sicilia, le sue navi venivano affittate secondo la Dia a società riconducibili al clan Santapaola di Catania.

GIORGIO MOTTOLA In tutte le attività sue e della sua famiglia in qualche modo si sono infilate un po’ Cosa nostra, un po’ la ‘ndrangheta.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 L’Infiltrazione mi pare che c’è stata dappertutto.

GIORGIO MOTTOLA In Calabria c’è o no la ‘ndrangheta?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Un problema c’è. O quantomeno c’è stato. Io ricordo quando eravamo ragazzini, durante la guerra di mafia, ne sono stati fatti tanti fatti di sangue.

GIORGIO MOTTOLA Dopo gli anni ’80 non si può più parlare di ‘ndrangheta?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo la condanna e le inchieste giudiziarie ad Amedeo Matacena sono state sequestrate aziende, immobili e conti bancari. Ma qui nell’Emirato che gli ha garantito la totale protezione negli ultimi dieci anni le risorse non sembrano essergli mancante.

GIORGIO MOTTOLA Oggi com’è la sua vita qui a Dubai?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Sicuramente meglio del passato, ho una mia società di consulenze.

GIORGIO MOTTOLA Quindi in che settore?

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Finanziario, di costituzioni societarie, di supporto ad altre attività, documentazioni…

GIORGIO MOTTOLA Immobiliari, immagino.

AMEDEO MATACENA – DEPUTATO FORZA ITALIA 1994 - 2001 Immobiliari anche, certo. Io sono come la Fenice, io so che sto risorgendo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo è curioso e anche inquietante il riferimento che fa Matacena al nome della Fenice, cioè il nome di quella loggia di cui farebbe parte secondo il maestro venerabile Virgiglio, secondo il quale anche questa loggia avrebbe ereditato il potere della P2 e che sarebbe sopravvissuta anche alle inchieste giudiziarie, come è successo del resto a Matacena. Una loggia massonica ai cui vertici ci sarebbe anche stato l’avvocato Paolo Romeo. Tornando invece a Matacena, ai traghetti Caronte&Tourist ci scrivono che è vero che le quote appartengono alla famiglia Matacena ma che non hanno alcun rapporto con Amedeo. Ecco, questo dovevamo. E intanto Matacena può camminare tranquillamente per le strade di Dubai perché gli Emirati non riconoscono il reato di concorso esterno alla mafia. Ecco chi va in quei posti, in viaggi a Dubai, e frequenta gli Emiri potrebbe spiegare a loro l’importanza, con una consulenza, l’importanza di combattere la mafia a livello globale. Se la Calabria è rimasta indietro nel nostro Paese lo dobbiamo anche a quella galleria di personaggi che abbiamo visto oggi, politici, massoni, uomini dei servizi segreti o in collegamento con i servizi segreti. Forse possiamo aspirare come Paese a qualcosa di meglio.

·        Il Caso Roberto Rosso.

'Ndrangheta, i giudici: «La sfrenata ricerca di voti spinse Roberto Rosso al patto criminale».  Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.  

Il tribunale di Asti sulla condanna dell’ex assessore regionale: «Decise scientemente di accettare l’aiuto della ‘ndrangheta»

Era alla «sfrenata ricerca di consenso elettorale», Roberto Rosso, e «probabilmente quello è il movente che lo ha spinto all’accordo con soggetti che egli ha riconosciuto come mafiosi»: lo scrivono — nelle 1.014 pagine della motivazione — i giudici del tribunale di Asti, che lo scorso 10 giugno hanno condannato l’ex assessore regionale a 5 anni di reclusione per voto di scambio politico-mafioso. Ma visto che il movente può spiegare la vicenda ma «non fa parte degli elementi costituivi del reato», il collegio — presidente Alberto Giannone, giudici a latere Claudia Beconi e Beatrice Bonisoli, tutti estensori — aggiunge altro: «Rosso ha deciso scientemente di accettare la collaborazione di Viterbo e Garcea (personaggi vicino alla ‘ndrangheta, ndr) promettendo una cifra enorme, poiché intendeva sfruttare il bacino elettorale della criminalità organizzata calabrese, non semplicemente procurarsi voti nei ceti popolari e dei meridionali». E ancora: «Altrimenti non avrebbe promesso 15.000 euro a due sconosciuti a cui non avrebbe neppure chiesto il contenuto della collaborazione». 

I fatti si riferiscono alla campagna elettorale del 2019 per le regionali, dove Rosso era candidato con Fratelli d’Italia (da cui è stato poi espulso): fatti finiti al centro del maxiprocesso Carminius-Fenice, nato dall’inchiesta del Gico della guardia di finanza, coordinato dai pubblici ministeri della Dda di Torino Monica Abbatecola (ora in servizio a Genova) e Paolo Toso. Analizzando la posizione di Rosso, nelle ultime pagine di una sentenza enciclopedica, i giudici arrivano a una conclusione, rispetto all’elemento soggettivo del reato, l’aspetto più complicato: «In conclusione — scrivono — l’insieme di indizi fin qui considerati porta a ritenere provato il dolo di Rosso, e cioè la consapevolezza di rapportarsi ad appartenenti alla ‘ndrangheta e la volontà di avvalersi del loro aiuto per procurarsi voti di preferenza nelle zone e nelle persone di influenza di Garcea e Viterbo e della loro consorteria di riferimento: anche secondo i metodi notoriamente impiegati dalla medesima consorteria». 

Seguendo la prospettiva dei pm, «che non pare infondata»: Rosso era «ingordo di voti», tanto da «mirare consapevolmente» qualunque bacino di voto, compreso quello «influenzabile dalla ‘ndrangheta». Non regge, secondo i giudici, la spiegazione difensiva, sulla scorta dell’esame e delle argomentazioni dei legali, gli avvocati Giorgio Piazzese e lo studio di Franco Coppi (che faranno appello): un disturbo bipolare, da cui la caccia di voti vista come una «droga»; e la fiducia in due sconosciuti perché presentati da un’amica, Enza Colavito (avvocato Alessandro Paolini), condannata in concorso a 4 anni e 6 mesi. Non fu invece estorsione la dazione di cento mila euro fatta dall’ex granata Gigi Lentini, per la quale è stato assolto Alessandro Longo (avvocato Michela Malerba): «La prova della condotta, a fronte della negazione di tutti i soggetti interessati, non può essere ricavata esclusivamente dalle citate anomalie relative alla ragione del prestito ed alla fideiussione». 

In senso opposto, le parole sull’imprenditore Mario Burlò (avvocati Maurizio Basile e Domenico Peila), condannato a 7 anni per concorso esterno: «Nel settore degli affari immobiliari ha effettuato almeno due acquisti pagando cospicue provvigioni “in nero” non dovute e ingiustificate a componenti del sodalizio e così arrecando a favore di questi e della stessa associazione mafiosa rilevanti vantaggi patrimoniali». Affari come quello per la villa dell’ex giocatore Arturo Vidal, curata anche dall’agente immobiliare Ivan Corvino (avvocato Saverio Ventura), che s’è visto derubricare l’accusa in concorso esterno, per 8 anni di reclusione: «Consapevole di essersi imbattuto nella ‘ndrangheta» era comunque andato avanti, «nel tentativo di ritrarre cospicui compensi patrimoniali da suddividere con gli altri due imputati».

Meloni disse di lui: "Voltastomaco". Roberto Rosso torna libero dopo oltre 2 anni, attesa per la sentenza di secondo grado. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Sei mesi in carcere e poi altri due anni abbondanti ai domiciliari e due giorni fa finalmente libero, Roberto Rosso, ex assessore regionale piemontese la cui sorte politica tramontò con l’arresto il 20 dicembre del 2019 e sfociò in una condanna di primo grado a cinque anni di carcere nel giugno scorso. Che l’ex esponente di Fratelli d’Italia, due volte sottosegretario ed ex enfant prodige della Dc all’età di diciannove anni, non sia un esponente e neanche un fiancheggiatore della ‘ndrangheta lo può certificare non solo il suo avvocato, ma chiunque lo abbia conosciuto. Ma sappiamo come vanno queste inchieste. E quale era il clima quel 20 dicembre 2019, il giorno dopo il trionfo del procuratore Gratteri in Calabria con le centinaia di arresti e l’inizio della persecuzione nei confronti dell’avvocato Giancarlo Pittelli.

Anche Roberto Rosso è un avvocato, ma del nord, di Trino Vercellese. Anche in questo processo gli indizi sono partiti dalle intercettazioni. In campagna elettorale molti candidati si fanno prendere la mano e se sono, come il pm ha definito nel processo Rosso, “ingordi” di voti, possono finire nelle mani di millantatori o, peggio ancora, di mafiosi, che promettono voti. E successo a Milano a un altro assessore regionale, Domenico Zampaglione, che è addirittura finito nelle mani di persone che a un certo punto avevano iniziato a ricattarlo con minacce nei confronti della sua famiglia. È capitato qualcosa di simile a Roberto Rosso. Le cose sarebbero più o meno andate così. Nel 2019 c’erano in Piemonte le elezioni regionali. Roberto Rosso era transitato da circa un anno dal partito di Berlusconi a Fratelli d’Italia. Una conquista che la stessa Giorgia Meloni aveva voluto festeggiare con grande fanfara. E a maggior ragione quando l’avvocato vercellese risultò il primo degli eletti con oltre 4.777 preferenze, che immediatamente monetizzò ricevendo l’incarico di assessore della giunta Cirio.

Un incarico che durerà non più di sei mesi, quando il 20 dicembre dello stesso anno scatteranno le manette e quell’accusa infamante di voto di scambio mafioso con gli uomini della ‘ndrangheta. “Mi viene il voltastomaco”, disse subito Giorgia Meloni, la stessa leader che pochi mesi prima aveva incoronato e premiato il suo candidato. Dalle stelle alla polvere, e il poveretto fu immediatamente espulso dal suo nuovo partito e costretto alle dimissioni da assessore, cui lui stesso aggiunse quelle da consigliere regionale. I suoi interlocutori “sbagliati” si chiamavano Onofrio Garcea e Francesco Viterbo. Le intercettazioni della Guardia di Finanzia avevano accertato che i due avevano chiesto a Rosso 15.999 euro per procurargli voti in ambienti cui lui, introdotto soprattutto nel mondo piemontese degli imprenditori e dei professionisti, non avrebbe potuto accedere senza qualche sostegno più “popolare”. Sempre dalle captazioni telefoniche risultò poi che i due avrebbero accettato di fare uno sconto all’assessore, che avrebbe versato solo 7.900 euro. Anche perché poi, a quanto pare, i voti “popolari” erano solo millantati e non arrivarono mai.

A questo punto bisognerebbe ricordare quella sentenza numero 28 della cassazione che, a sezioni unite, proprio alla fine di dicembre del 2019, aveva stabilito la necessità del dolo per dimostrare che un imputato abbia inteso con il proprio comportamento aiutare un’organizzazione mafiosa. Come poteva Roberto Rosso sapere che i due che gli avevano offerto aiuto in campagna elettorale erano mafiosi? Ed ecco il piccolo colpo di scena. Qualcuno tra gli investigatori aveva scoperto che nel 2012 Roberto Rosso quando era parlamentare aveva firmato un’interpellanza del deputato Pd Vinicio Peluffo in cui tra gli aderenti a una cosca della ‘ndrangheta veniva citato anche il nome di Onofrio Garcea. Una di quelle firme che non si negano a un collega diventa atto d’accusa. E stupisce che un tribunale, che pure ha condannato l’esponente di Fratelli d’Italia a cinque anni contro gli undici richiesti dalla pubblica accusa, non abbia tenuto conto del fattore soggettivo. Del non ricordo. Per la cronaca: il processo di primo grado si è concluso con 16 condanne ma anche 13 assoluzioni, perché, come capita anche al sud, c’è la mafia ma non tutto è mafia. E Roberto Rosso dovrà anche versare 75.000 euro nelle casse di Fratelli d’Italia perché il partito di Giorgia Meloni si è costituito parte civile nei confronti del suo ex enfant prodige.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

·        I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Annacondia in tv: «Lo Stato mi ha tradito ed oggi sono un fantasma. Ho avuto Trani nelle mie mani, ma non ci tornerei». Di Nico Aurora il 2 Ottobre 2021 su ilgiornaleditrani.net. 

«Ho avuto Trani nelle mie mani, ma non so se ci tornerò. Di certo, lo Stato mi deve prima restituire una identità, perché oggi sono un fantasma». Così Salvatore Annacondia, intervistato da Antonio Procacci nell’ambito della rubrica «Il graffio», di Telenorba, la trasmissione di Enzo Magistà che ha focalizzato l’attenzione sull’ex boss del nord barese divenuto collaboratore di giustizia, e per 30 anni sottoposto a protezione nell’ambito del patto stipulato con lo Stato in cambio delle sue dichiarazioni.

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Per tutto questo tempo ha vissuto nelle Marche con un altro nome e cognome e rifacendosi una vita grazie anche al fondo specificatamente destinato ai collaboratori di giustizia. Il suo ristorante in quel di Civitanova Marche è stato molto frequentato anche da personaggi di spicco del jet set e è sembrato voltare veramente pagina rispetto al suo passato.

Ciononostante, come in più di un’occasione il sito Cronache maceratesi ha posto in risalto, Annacondia è stato indagato in alcuni procedimenti penali avviati dalla Procura della Repubblica di quel luogo ed oggi e sotto processo per uno di quelli.

Tanto è bastato per fare decadere le tutele della protezione e farlo ritornare a tutti gli effetti Salvatore Annacondia, sebbene senza i documenti: «Sono un fantasma per colpa dello Stato», ha dichiarato al microfono e con la sola tutela dell’oscuramento del volto. Pochi, però, i peli sulla lingua soprattutto per richiamare la sua forte personalità criminale.

Eppure, da ragazzo, poco c’era mancato che Salvatore Annacondia sfondasse nel mondo del cinema: «Avevo 13 anni, lavoravo in un locale di Milano e incontrai casualmente Federico Fellini: mi voleva a Roma ma non ci andai perché il destino ha voluto che facessi altro».

Di quell’altro Annacondia non mostra pentimento, tanto da affermare che ancora oggi, se volesse, sarebbe in grado di sparare a 40 metri di distanza e centrare l’obiettivo.

Ciò che oggi ha determinato il suo nuovo ingresso in scena è quello che lui definisce un “tranello” dello Stato: «Ho aiutato in tutte le maniere la magistratura nelle sue indagini e cosa ho avuto in cambio? Ritrovarmi adesso ad essere un fantasma perché ci sono settori della pubblica amministrazione che non funzionano».

Annacondia dice di vivere alla giornata e non sapere scrutare il suo futuro, ma sul passato è lucido e spietato: «Ho commesso più crimini del diavolo, ma non ho mai fatto né usura, né estorsioni perché non mi è mai piaciuto succhiare il sangue delle persone. Certo, ho avuto in mano la vita delle persone ma ho anche fatto del bene a tanti e aiutato chi di dovere nel fare indagini che, diversamente non si sarebbero fatte: meritavo rispetto e lo Stato non deve sfidarmi a ritornare quello che ero».

Annacondia non nasconde di avere paura di ritorsioni, «perché una persona deve vivere nella paura se vuole vivere», ma forse è proprio per questo che dichiara di non volere tornare a Trani, anche se la tentazione sarebbe forte.

Su Trani, però, dipinge con incredibili lucidità, orgoglio e compiacenza, un passato in cui lui era «la» città in tutti i sensi: «Ho corrotto forze dell’ordine e magistrati, in carcere ho fatto entrare di tutto fra armi, droga, champagne e bische. Il carcere con me era un albergo a cinque stelle, anche se con le sbarre. E a chi dice che con me Trani era una città avvolta nel terrore rispondo che, invece, fui proprio io a trasformarla: feci trasferire i malfamati alla 167, aprii il mio ristorante e feci illuminare tutto il porto, subito dopo con l’Amet facemmo la stessa cosa nel centro storico. Con me a Trani c’era la tranquillità. Certo, ci furono anche gli omicidi, ma lontano dalla gente, perché fra la gente si stava sereni».

I delinquenti di oggi agiscono con il metodo mafioso evocando il suo nome, e Annacondia cosa risponde loro? «Scordatevi di me e trovatevi un lavoro onesto. Io ero quasi in ufficio di collocamento e ho aiutato tante persone, oggi aiutate voi stessi lavorando in tutta onestà.

Quanto al proposito di fare saltare la cattedrale, Annacondia chiude davvero col botto: «Avrei voluto lasciare un segno di me in quel modo, ma poi amavo così tanto la mia città che non solo ci rinunciai, ma l’ultima cosa che feci fa farla illuminare».

Fra gli ospiti della trasmissione il dottor Pasquale Drago, il magistrato che nel 1991 fece arrestare Annacondia prima che si imbarcasse per Cipro: «Quello che ha dichiarato davanti alle telecamere conferma la sua rilevante personalità, purtroppo criminale. Certamente, oggi qualcuno coverà vendetta nei suoi confronti e non posso non essere preoccupato per la fine del programma di protezione, perché questo potrebbe mettere in pericolo l’ordine pubblico».

L’avvocato penalista Michele Laforgia è parso Invece poco tenero nei confronti dell’ex boss: «Un grande seduttore, le cui dichiarazioni spesso sono state veritiere ma in altre occasioni del tutto infondate come nel caso dell’incendio del teatro Petruzzelli. Certamente non possiamo sentirci persino in debito con chi ha commesso almeno 50 omicidio e concorso in altri 200».

Il difensore di Annacondia, Gabriele Cofanelli, ha parlato invece di «scelta drastica e tecnicamente sbagliata dello Stato. Il processo in cui il mio assistito è imputato è ancora in corso e la privazione dell’identità è alquanto incomprensibile, soprattutto perché oggi Salvatore Annacondia svolge un lavoro onesto e vive una vita dignitosa».

Il sindaco Amedeo Bottaro, chiamato in causa dallo stesso Annacondia, risponde così: «Non sono stato certo io a ripulire la città dopo di lui, ma una magistratura cui dovremmo essere sempre grati. Spiace che ancora oggi questa persona parli utilizzando termini mafiosi, facendo comprendere di essere ancora in grado di scatenare l’inferno. Però prendo per buono quello che dichiara alla fine, quando si rivolge ai giovani invitandoli a non seguire il suo esempio: fa bene e speriamo che la stessa cosa valga anche per lui, rispetto al suo passato».

Salvatore Annacondia, lo Stato revoca al più importante boss pugliese la nuova identità dopo trenta anni. Stasera intervista tv". Noinotizie.it l'1 Ottobre 2021. 

Matteo Messina Denaro in macchina, nel dicembre 2009, nella campagna dell’agrigentino. Lato passeggero. Pochi fotogrammi, da telecamere piazzate nei pressi di casa del boss Pietro Campo. Esclusiva tg2. In tema di mafia e criminalità organizzata, ecco in arrivo un’altra esclusiva. È di telenorba.

Di seguito il comunicato:

Salvatore Annacondia, a capo della più sanguinosa organizzazione criminale pugliese degli anni Ottanta e Novanta, è tornato. Trent’anni dopo il suo arresto e la lunga collaborazione con la giustizia, il boss del nord barese ha di nuovo il suo vecchio nome. A rivelarlo è lui stesso in un’intervista esclusiva rilasciata ad Antonio Procacci e che andrà in onda venerdì 1 ottobre, alle 21.20, al Graffio, il programma condotto dal direttore Enzo Magistà e in onda alle 21.20 su Telenorba e TgNorba24.

Lo Stato ha revocato l’identità con cui “manomozza” si era rifatto una vita, gettandosi alle spalle un curriculum che l’ha portato ai vertici della criminalità organizzata in Italia: 70 omicidi per sua mano, oltre 200 uomini e donne uccisi per sua volontà, narcotrafficante internazionale, vicino ai massimi esponenti della ‘ndrangheta. Clamorosa anche la sua collaborazione con lo Stato: migliaia di persone arrestate e condannate grazie alle sue dichiarazioni, testimone nei più importanti maxi processi italiani.

Nella prima puntata stagionale del Graffio, a cui interverranno il magistrato Pasquale Drago, già coordinatore della Ddi di Bari, il sindaco di Trani Amedeo Bottaro e l’avvocato penalista Michele Laforgia, sarà trasmessa la prima parte di un’intervista esclusiva ad Annacondia, che parla per la prima volta in tv. Si parlerà delle ultime vicende, quello che lui definisce il tradimento dello Stato ai danni dei pentiti, della sua famiglia, del rapporto con Trani, anche con una incredibile rivelazione. E poi ancora le mafie pugliesi, la corruzione di giudici e delle forze dell’ordine, gli omicidi, gli agguati clamorosi falliti, un autentico fiume in piena. 

Dimmi come ti chiami e ti dirò chi sei: questa si chiama giustizia? La storia di Luigi Leonardi, da testimone a collaboratore di giustizia: “Se sono un delinquente, arrestatemi”. Francesca Sabella su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

La storia di Luigi Leonardi è una di quelle storie che hanno dell’incredibile, perfetta per un film, devastante se parliamo di vita vera come in questo caso. La storia dell’imprenditore che ha denunciato le estorsioni firmate dalla criminalità organizzata delinea perfettamente i confini entro i quali si muove una giustizia che non funziona e che viene meno a uno dei suoi compiti primari: dare risposte ai cittadini. Siano esse di segno negativo o positivo, deve darle.

È chiamata a rispondere delle decisioni che si prendono in un’aula di tribunale ma che si riflettono inesorabilmente e spesso con conseguenze drammatiche su chi le subisce. Questa volta tutto l’assurdo della vicenda è contenuto in un cognome. Nel 2008 Leonardi decide di denunciare la camorra che aveva iniziato a chiedere il pizzo per la sua attività. Inizia il processo dopo le denunce di estorsione. Uno si era appena concluso con 81 persone condannate in via definitiva. Ma veniamo al secondo. Leonardi viene inserito nel programma di protezione come testimone di giustizia e vengono condannate tre delle dieci persone che aveva denunciato, senza l’aggravante del metodo mafioso. Così Leonardi risulta poco attendibile. Poi salta fuori che un cugino di secondo grado del padre era un “delinquente” e il ministero degli Interni lo informa che molto verosimilmente anche lui potrebbe essere un delinquente. «In attesa di chiarimenti quindi sono stato etichettato come collaboratore di giustizia – racconta – Io sono incensurato, non sono mai stato indagato, non ho ancora visto una prova che possa dimostrare che io sia un delinquente e dopo sei anni ancora attendo risposte».

E le risposte le cerca negli uomini di giustizia. Ha scritto al procuratore Melillo, a Cafiero De Raho, ha fatto ricorso al Tar, al Consiglio di Stato, c’è perfino un’interrogazione parlamentare in corso. Ma nessuno risponde. Intanto quell’etichetta pesa come un macigno. Può un cognome stabilire chi sei? «No. È per questo che ho maturato l’idea di andarmi a costituire, per cercare almeno di comprendere con l’aiuto degli inquirenti, visto che la Dda, la Commissione centrale e la politica tutta, non sanno darmi spiegazioni del mio essere un delinquente – racconta Leonardi – Tante volte mi son detto che magari costituendomi, come è giusto che faccia un delinquente che si penta delle sue malefatte, la giustizia sia in grado di darmi spiegazioni sul mio essere un delinquente». Sì perché oggi per lo Stato Luigi Leonardi che ha ricevuto il premio Borsellino, che tiene seminari nelle scuole per parlare di legalità, che lavora accanto a don Maurizio Patriciello dalla parte degli oppressi, è un delinquente. È un pentito. È un collaboratore di giustizia. Perché?

Perché “pur non rilevandosi concreti elementi che inducono a ritenere che il Leonardi abbia accusato falsamente esponenti della criminalità organizzata di avergli imposto tangenti estorsive ovvero che egli goda di una provvista di denaro di natura illecita o abbia acquistato possidenze immobiliari frutto di reinvestimento di capitali mafiosi, le attuali emergenze impongono una rimeditazione in ordine alla possibilità strumentale del Leonardi di richiedere di essere sottoposto a misure di protezione” si legge agli atti. «Tali “emergenze” coincidono sostanzialmente sulla valorizzazione della mia parentela con Antonio Leonardi, un collaboratore di giustizia cugino di mio padre di secondo grado. Perché nonostante non si rilevino concreti elementi per poterlo fare, questo Stato, incurante delle conseguenze di ciò sulla mia persona, fa di me un pentito. E io a queste condizioni sì che lo sono, pentito, ma di aver denunciato».

E Leonardi il parente in questione lo denunciò pure. In questa sede non vogliamo sostituirci alla giustizia, ma solo chiedere che vengano date risposte a un uomo che da anni vive sotto scorta per aver denunciato la camorra, ma paradosso dei paradossi, ora viene accusato di farne parte. Per un cognome. «A oggi – conclude Leonardi – la battaglia a tutela della mia dignità, contro questo Stato che mi accomuna ai delinquenti, è in assoluto la battaglia più triste e cruenta che abbia mai intrapreso perché fatta nei confronti di chi ho sempre creduto: lo Stato». La nascita è un caso, ma è un gran bel caso e un cognome può essere una grande fortuna o una grande maledizione, ma non può essere l’ago della bilancia. Bilancia, simbolo della giustizia.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

"Mafia, vivo sotto protezione ma spesso rivelano la mia identità": un collaboratore di giustizia accusa il Servizio pentiti. Federica Angeli su La Repubblica l'8 marzo 2022.

Ha contribuito a far condannare i boss romani. E con la famiglia dal 2016 ha cambiato 10 città. "I Nop non ci proteggono e subiamo angherie".

“La verità è che noi collaboratori di giustizia veniamo trattati coi guanti bianchi dallo Stato fino a quando serviamo. Quando poi i processi sono terminati e le nostre parole, tanto preziose quando era ora di incastrare boss e prive di significato quando si sono raggiunte le condanne, diventiamo un peso. E allora iniziano angherie gratuite che ci mettono in pericolo”. La denuncia è di un pentito che preferisce mantenere l’anonimato e che vive sotto copertura in località protetta con tutta la sua famiglia (moglie e tre bambini).

Vive da fantasma in giro per l’Italia dal 2016 da quando la sua testimonianza ha portato in carcere una cinquantina di boss della mafia romana, oggi condannati con sentenza passata in giudicato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Di lui i magistrati nelle ordinanze di arresto dei mafiosi scrivono “testimone attendibile e affidabile in quanto a conoscenza di tutti i fatti occorsi poiché un tempo interno al clan di cui rivela fatti precisi e circostanziati”. Le sue accuse di oggi, se dovessero rivelarsi vere e attendibile come la testimonianza che ha incastrato 46 boss, metterebbero nei guai il Nop, il Nucleo operativo pentiti, ovvero il servizio che in tutta Italia si occupa della gestione dei collaboratori di giustizia.

Cosa intende quando dice che lo Stato vi abbandona quando non servite più?

"Che le premure che ha all’inizio il Nop, ovvero spese mediche pagate, trattamento di riguardo nelle località in cui ci portano, attenzione massima a ogni avvisaglia di pericolo che comunicavamo, dopo un anno, quando i processi ormai sono incardinati e hanno preso una piega favorevole alle procure, svaniscono. E la nostra vita diventa un incubo".

Può spiegarmi meglio?

"Le faccio un esempio: noi pentiti, da quando entriamo nel programma di protezione, perdiamo la nostra identità, ci danno un nuovo nome e cognome. Nessuno deve sapere chi siamo. Invece, operatori del Nop nella località in cui attualmente ci troviamo hanno rivelato alle segretarie della scuola dove vanno i miei figli la nostra vera identità. Questo significa che non possiamo più vivere in questa città, la nona che cambiamo e le ultime due sempre per questo medesimo motivo. Ora anche i compagni di scuola dei miei bambini sanno chi siamo. E rivelano ai nostri figli che le loro mamme gli hanno detto: 'Non giocare con quella bambina perché il papà ha il Covid e sta male'. E i nostri figli sono isolati. Le persone hanno paura di chi ha avuto a che fare con la mafia. Le sembra giusto questo?"

Siete quindi in procinto di cambiare città per la decima volta in sei anni?

"In teoria dovremmo, ma nessuno dalla Procura ci ascolta. Il Nop, sapendo di aver sbagliato, ha rigirato la frittata e detto che siamo stati noi a rivelare la nostra identità. Ma noi non siamo stati ammoniti per questo mentre, in genere, se una procura crede alle segnalazioni del Nop, ci ammonisce e, dopo tot ammonizioni, sei fuori dal programma. Invece qui tutto tace, non succede nulla, non ci cambiano località e non ci puniscono. E ci mancherebbe, anche visto che non abbiamo fatto nulla”.

Mi accennava anche ad altri problemi, vuole dirli?

"Certo. Ogni volta che cambiamo un appartamento e ci trasferiamo in un’altra città, ci vengono accollate spese per danni, veri o presunti, che avremmo fatto noi nella casa che lasciamo. Per quelli veri, ci mancherebbe, è giusto. Ma ogni volta ci imputano spese inesistenti. Come una volta che ci hanno detratto 700 euro per un conguaglio del gas che, secondo loro, non avremmo mai pagato. Abbiamo chiamato la ditta del gas e chiesto se avessimo lasciato insoluti e ci hanno risposto che era assolutamente tutto a posto e pagato: la telefonata l’abbiamo registrata, ormai ci tuteliamo così. Oppure un’altra volta ci sono stati addebitati 2.000 euro per ridipingere una parete che i miei figli avevano sporcato con dei pennarelli. A parte il fatto che la cifra richiesta mi sembra eccessiva, ho pagato perché il danno effettivamente era stato fatto. Dopo mesi un nostro parente, sempre sotto protezione, è finito in quella casa e ci ha mandato un messaggio chiedendoci se fossimo stati in quella città e in quella casa perché aveva visto dei disegni sul muro. Quindi, noi abbiamo pagato 2.000 euro per ridipingere una parete che poi non è stata imbiancata? Questo è solo uno dei tanti esempi, neanche le spese mediche ci pagano.

Ha provato a denunciare tutto questo?

"Ovviamente sì, ma, malgrado le prove e le registrazioni, nessuno ci prende in considerazione. La cosa assurda è che ci dicono di sporgere denuncia presso il servizio Nop che ci segue come collaboratori di giustizia"

Le sue accuse sono molto forti, rifarebbe la scelta di collaborare con la giustizia?

"Quando ho scelto di passare dalla parte dello Stato l’ho fatto perché credevo nella giustizia e nella legalità e pensavo fossero più forti della mafia. Ci credo ancora e spero che le mele marce di questo nucleo siano allontanate e che un qualsiasi magistrato che legge le mie parole possa scegliere di ascoltarmi e capire che, ancora una volta le mie parole sono verità. Come lo sono state contro i mafiosi oggi in carcere, lo sono oggi".

Commissione Parlamentare Antimafia: Collaboratori e testimoni di giustizia.

Descrizione del fenomeno

Esiste una netta differenza tra i collaboratori e i testimoni di giustizia. Infatti, mentre i primi sono persone che hanno un passato di appartenenza ad una organizzazione criminale o mafiosa i secondi sono cittadini incensurati.

I collaboratori sottoscrivono un "contratto" con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall'interno dell'organizzazione criminale in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari. 

I testimoni invece forniscono la loro testimonianza relativamente all'accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione godono di una protezione da parte degli organi dello Stato appositamente creati. In molti casi si tratta di commercianti che si rifiutano di pagare il "pizzo" o di persone non più disposte a continuare a pagare interessi a tassi usurai concessi loro da membri dell'organizzazione mafiosa. 

I collaboratori di giustizia, che in gergo giornalistico vengono definiti "pentiti", sono un elemento indispensabile nella lotta contro le mafie, così come per altri versanti lo sono stati negli anni '70 e '80 del secolo scorso relativamente al fenomeno del terrorismo. Essi, infatti, permettono di conoscere direttamente:

come le organizzazioni criminali sono strutturate

quali obiettivi perseguono

quali strategie adottano

di quali rapporti di connivenza o di collusione si nutrono

quali delitti hanno compiuto o intendono compiere.

I collaboratori di giustizia, inoltre, permettono:

l'arresto di importanti boss mafiosi

il sequestro e la confisca di patrimoni illecitamente accumulati

di evitare l'uccisione di alcune persone finite nel mirino delle cosche.

Un mafioso che inizia la sua collaborazione con lo Stato viola una regola fondamentale delle organizzazioni mafiose: la consegna del silenzio, l'omertà, che è garanzia del mantenimento della segretezza, di esercizio del potere e di assicurazione dell'impunità. È per tale motivo che alcuni collaboratori di giustizia, considerati "infami" nel mondo mafioso, sono stati colpiti dalle cosiddette "vendette trasversali", vale a dire che i loro cari (figli e parenti) sono stati vittime di feroci agguati. 

Le dichiarazioni dei collaboratori e quelle dei testimoni devono essere oggettivamente riscontrate dagli investigatori al fine di constatarne la loro veridicità. Appurato che la collaborazione o la testimonianza sono veritiere, i collaboratori e i testimoni di giustizia sono inseriti in un apposito programma di protezione, introdotto in Italia per la prima volta con la legge 15 marzo 1991, n. 82. Una apposita Commissione ministeriale, denominata Commissione centrale, presieduta da un sottosegretario di Stato e composta da magistrati ed investigatori di comprovata esperienza nelle indagini sulla criminalità organizzata valuta e decide l'ammissione dei soggetti allo speciale programma di protezione, nonché la modifica e la revoca dello stesso. La struttura che attua il programma di protezione è il Servizio centrale di protezione, il quale si occupa dell'assistenza e della promozione di misure per il reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma. Il Servizio mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell'Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate. Inoltre, attraverso i 14 Nuclei Operativi, con competenza regionale o interregionale, il Servizio centrale di protezione cura la diretta attuazione delle misure di assistenza offrendo il necessario supporto alle diverse esigenze delle persone protette. 

Nel 2001, la legislazione in materia di collaboratori di giustizia è stata modificata dal Parlamento. La legge 13 febbraio 2001, n. 45 ha stabilito innanzitutto una formale e netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia nonché un diverso regime giuridico di trattamento tra le due figure; ha stabilito criteri più rigidi per la selezione delle collaborazioni; ha introdotto il limite temporale di centottanta giorni, periodo entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni e gli elementi di cui è a conoscenza; infine, ha introdotto, per l'ammissione ai benefici penitenziari, dei limiti di pena da scontare in carcere nella misura di un quarto della pena inflitta e, in caso di condanna all'ergastolo, di dieci anni di reclusione. 

Il maggior numero dei collaboratori di giustizia si è riscontrato nella metà degli anni Novanta, all'indomani delle stragi di Capaci e di via d'Amelio del 1992 - che costarono la vita ai magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e agli agenti delle loro scorte - e delle autobomba fatte scoppiare nelle città di Roma, Firenze e Milano nel 1993, che uccisero oltre dieci persone. Dopo questi eventi lo Stato decise ed attuò una dura azione di contrasto alle organizzazioni mafiose, in particolare nei confronti di Cosa Nostra siciliana. Fu quello un momento, infatti, in cui le istituzioni repubblicane e l'opinione pubblica italiana percepirono in modo traumatico la reale minaccia rappresentata dalle mafie. 

Da rilevare, infine, che tra le principali organizzazioni mafiose il minor numero di collaborazioni si riscontra tra gli appartenenti alla 'Ndrangheta calabrese. La ragione di questo fenomeno consiste nel fatto che i membri di questo gruppo criminale sono legati tra di loro da veri e propri legami di sangue, per cui per un potenziale collaboratore di giustizia si tratterebbe di fornire informazioni sulle attività delittuose e sugli omicidi compiuti dai propri padri, fratelli ed altri famigliari.

Normativa di riferimento

Legge 15 marzo 1991, n. 82 (Norme per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia)

Legge 13 febbraio 2001, n. 45 (Modifica alle norme per la protezione di coloro che collaborano con la giustizia)

Dati statistici

N° totale di persone sottoposte a protezione. Suddivisione tra collaboratori e testimoni di giustizia, compresi i familiari. Anni 1995 - 2007 (al 31 agosto)

Testimone di giustizia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il testimone di giustizia è una figura prevista nell'ordinamento giuridico italiano. Alla loro tutela ed incolumità fisica provvede il servizio centrale di protezione. La legge, non dando una definizione formale del testimone, si limita a stabilire le condizioni ricorrendo le quali un soggetto possa essere ritenuto tale.

Storia.

Tale figura è introdotta dalla legge 13 febbraio 2001 n. 45 della Repubblica italiana che ha modificato la precedente disciplina relativa ai collaboratori di giustizia di cui alla legge 15 marzo 1991 n. 82.

Nell'agosto 2013 il governo Letta ed approvò uno schema decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella P.A. italiana come avveniva fino ad allora per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, accogliendo così la proposta portata avanti dall'associazione nazionale testimoni di giustizia presieduta da Ignazio Cutrò. La norma è contenuta nel decreto legge 31 agosto 2013 n. 101 - convertito in legge 30 ottobre 2013 n. 125. La norma, modificando la legge 82/1991, prevede che nelle ipotesi di assunzione per chiamata diretta nella pubblica amministrazione italiana godano di diritto al collocamento obbligatorio con precedenza previsto dalla legge 23 novembre 1998 n. 407.

La disciplina normativa.

L'art. 16 bis della legge 82/1991, come modificato dalla legge 45/2001, afferma che a coloro che si trovino in particolari condizioni di cui all'art. 9 e all'art 13 comma 5 della legge si applichino particolari misure di protezione, scaturenti dalla situazione in cui essi si trovino per le dichiarazioni rese nel corso di un procedimento penale.

La legge del 2001 estende al testimone di giustizia la disciplina propria del collaboratore di giustizia ed in particolare, l'art. 16-ter, afferma che i testimoni di giustizia hanno diritto:

a misure di protezione fino alla effettiva cessazione del pericolo per sé e per i familiari;

a misure di assistenza, anche oltre la cessazione della protezione, volte a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell'avvio del programma, fino a quando non riacquistano la possibilità di godere di un reddito proprio;

alla capitalizzazione del costo dell'assistenza, in alternativa alla stessa;

se dipendenti pubblici, al mantenimento del posto di lavoro, in aspettativa retribuita, presso l'amministrazione dello Stato al cui ruolo appartengono, in attesa della definitiva sistemazione anche presso altra amministrazione dello Stato;

alla corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno, concordata con la commissione, derivante dalla cessazione dell'attività lavorativa propria e dei familiari nella località di provenienza, sempre che non abbiano ricevuto un risarcimento al medesimo titolo, ai sensi della legge 23 febbraio 1999, n. 44;

a mutui agevolati volti al completo reinserimento proprio e dei familiari nella vita economica e sociale.

Lo stesso articolo prevede poi che le misure di protezione siano mantenute fino alla effettiva cessazione del rischio. Inoltre "se lo speciale programma di protezione include il definitivo trasferimento in altra località, il testimone di giustizia ha diritto ad ottenere l'acquisizione dei beni immobili dei quali è proprietario al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell'equivalente in denaro a prezzo di mercato".

Attualmente la disciplina è stata recentissimamente riassettata dalla Legge n.6/2018, in Gazzetta Ufficiale dal 6 febbraio 2018, che ha disciplinato in maniera organica la protezione dei testimoni di giustizia, come articolato dal disegno di legge del precedente anno.

Il dibattito sulla figura.

Il legislatore è intervenuto solo nel 2001 per dare rilievo giuridico ad una figura che già esisteva: colui che non avendo commesso alcun reato (ma spesso essendone stata vittima) decide di collaborare con lo Stato fornendo informazioni utili alle indagini e così mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri familiari.

L'efficacia della legge si è però scontrata con l'enorme sacrificio richiesto ai testimoni di giustizia. Questi, costretti a lasciare la propria comunità e i propri affetti, sovente non sono stati messi in condizione di rientrare nel luogo di origine o di rifarsi una vita che non somigliasse ad una forma di "esilio", lamentando anche la difficoltà di svolgere il ruolo di "testimone di giustizia".

L'attuale legislazione in materia di testimoni di giustizia resta piuttosto lacunosa in quanto alle misure di protezione e di assistenza "nei confronti delle persone esposte a grave e attuale pericolo per effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari e del giudizio". Questa normativa associa infatti la condizione dei testimoni e quella dei collaboratori di giustizia, pur trattandosi di due categorie profondamente differenti.

I testimoni di giustizia, infatti, sono persone che normalmente non provengono da ambienti malavitosi, occupanti normali posizioni nel tessuto economico e sociale, spesso impegnati in attività imprenditoriali. Costoro sono spesso vittime delle organizzazioni criminali e assumono il ruolo di testimoni dopo aver subito estorsioni o aver assistito a eventi criminosi.

Spesso la loro testimonianza risulta decisiva consentendo l'individuazione dei colpevoli e la successiva condanna penale. Talvolta essi hanno dato luogo a proteste, riportate dalle cronache giornalistiche, al fine di evidenziare all'opinione pubblica la condizione di disagio in cui spesso si trovano a vivere.

Collaboratore di giustizia (Italia). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Un collaboratore di giustizia, secondo la legge italiana, è un soggetto che trovandosi in particolari situazioni di conoscenza di un fenomeno criminale, decide di collaborare con la magistratura italiana. Alla loro tutela ed incolumità fisica provvede il servizio centrale di protezione. La figura si distingue dal testimone di giustizia.

Storia

Il codice Rocco conosceva solo istituti come quelli dell'articolo 56 commi terzo e quarto, per il colpevole che "volontariamente desiste dall'azione" o che "volontariamente impedisce l'evento" (cui si è aggiunto di recente, come novella, il ravvedimento operoso dell'articolo 452-decies); successivamente i magistrati impegnati nella lotta alla mafia in Italia furono però i primi a riconoscere l'importanza di comportamenti ulteriori, volti a scardinare il vincolo omertoso delle più pericolose associazioni a delinquere rivolgendosi ai loro componenti.

Un importante avvenimento per il fenomeno del pentitismo nella sua forma più conosciuta si ebbe con la legge 6 febbraio 1980, n. 15 (la cosiddetta legge Cossiga) che diede un importante impulso alla lotta contro il terrorismo, sebbene sia stata criticata per il fatto di concedere privilegi ai criminali di primo piano, ovviamente in possesso di informazioni importanti, mentre chi commetteva crimini in un ruolo subalterno, spesso non aveva la possibilità di fornire informazioni utili alla Giustizia e quindi doveva rinunciare agli sconti di pena.

Giovanni Falcone, Ferdinando Imposimato ed Antonino Scopelliti furono tra i primi magistrati a intuire l'importanza del fenomeno dei collaboratori di giustizia per la lotta contro la criminalità organizzata. Alla riflessione da loro attivata si devono numerosi provvedimenti volti ad incoraggiare l'utilizzo dei cosiddetti “pentiti” per la risoluzione di importanti e delicate indagini nonché per la formazione della cosiddetta "prova orale" nel dibattimento processuale.

Negli anni 1990 furono emanate le prime norme a tutela di questi soggetti, in particolar modo riguardo alla figura del collaboratore e del testimone di giustizia. Grazie all'opera del magistrato palermitano simbolo dell'Antimafia venne poi emanato il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82 ricordata come una delle prime leggi emanate per disciplinare il fenomeno nell'ambito della repressione della mafia in Italia; il provvedimento fu modificato dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45.

La disciplina normativa

La legge 6 febbraio 1980, n. 15. Fu la prima legge a prevedere la concessione di sconti di pena, sebbene si applicasse solo ad individui che fossero giudicati terroristi. Tra i soggetti che ne beneficiarono vi furono Patrizio Peci, Antonio Savasta, Roberto Sandalo e Michele Viscardi.

La legge 15 marzo 1991, n. 82. Grazie all'influenza dell'operato dei magistrati italiani Antonino Scopelliti e Giovanni Falcone si ebbe nell'emanazione del decreto legge 15 gennaio 1991 n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991 n. 82, che normò per la prima volta figura del "collaboratore di giustizia" (nella norma chiamato semplicemente come collaboratore).

La legge 13 febbraio 2001 n. 45. La legge 13 febbraio 2001 n. 45, modificando la norma del 1991, ha introdotto successivamente la figura del testimone di giustizia. Il testo della legge del 2001 andò a riformare l'originaria disciplina risalente al 1991, infatti, ferme restando le riduzioni di pena e l'assegno di mantenimento concesso dallo Stato, le modifiche approvate sono sostanziali, tra queste:

il pentito ha un tempo massimo di sei mesi di tempo per dire tutto quello che sa, il tempo inizia a decorrere dal momento in cui il pentito dichiara la sua disponibilità a collaborare;

il pentito non accede immediatamente ai benefici di legge ma vi accede solo dopo che le dichiarazioni vengano valutate come importanti e inedite;

il pentito detenuto dovrà scontare almeno un quarto della pena;

la protezione durerà fino al cessato pericolo a prescindere dalla fase in cui si trovi il processo.

La norma è stata criticata da varie voci, soprattutto da alcuni esponenti della magistratura italiana e che hanno trovato nei pentiti una fonte preziosa di informazioni per ricostruire dinamiche e struttura della crimine organizzato in Italia. Armando Spataro ha sostenuto che:

il requisito della novità delle dichiarazioni toglie importanza alla pluralità di contributi utili ai fini delle indagini e del processo, ove il pentito fornisca una versione concordante con altre già acquisite;

la distinzione tra conviventi del collaboratore e tutti gli altri soggetti per i quali l'estensione della protezione è subordinata all'esistenza di grave ed attuale pericolo lascia perplessi anche in relazione alla ferocia con cui si sono consumate le vendette trasversali;

i sei mesi vengono giudicati troppo brevi per chi è chiamato a ricordare fatti criminosi talvolta remoti nel tempo, avvenuti anche decenni prima dell'inizio della collaborazione.

Differenza col testimone di giustizia.

Occorre sottolineare la differenza concettuale che intercorre fra collaboratore e testimone di giustizia: il primo termine è riferito genericamente ad una persona che si auto-accusa e/o anche accusa altri, di crimini e che di essi si "pente" iniziando la propria collaborazione con la giustizia.

Invece, secondo la legge italiana, il testimone di giustizia in senso stretto non ha commesso alcun crimine e la sua collaborazione nasce da diversi motivi che non siano, ad esempio, gli sconti di pena (si veda in tal senso la figura di Rita Atria e Lea Garofalo).

Collaboratori famosi:

Antonino Calderone

Carmine Schiavone

Giovanni Pandico

Leonardo Vitale

Carmine Alfieri

Tommaso Buscetta

Salvatore Contorno

Francesco Marino Mannoia

Angelo Epaminonda

Pasquale Galasso

Umberto Ammaturo

Gaetano Grado

Salvatore Cancemi

Gaspare Mutolo

Santino Di Matteo

Gioacchino La Barbera

Leonardo Messina

Salvatore Annacondia

Francesco Di Carlo

Giuseppe Marchese

Calogero Ganci

Francesco Onorato

Giovanni Brusca

Enzo Brusca

Gaspare Spatuzza

Salvatore Grigoli

Nino Giuffrè

Luigi Giuliano

Pasquale Barra

Pasquale D'Amico

Felice Maniero

Maurizio Abbatino

Antonio Mancini

Claudio Sicilia

Vittorio Carnovale

Antonio Iovine

Giovan Battista Ferrante

La vicenda di un'imprenditrice in Sicilia raccontata in un libro. Mio padre vittima di mafia, io del lato oscuro dell’antimafia: la mia storia “A testa alta”. Desirè Vasta su Il Riformista il 5 Agosto 2022. 

Ho voluto raccontare in un romanzo la mia vita e quella della mia famiglia per liberarmi da un peso, riscattarmi dal passato e, chissà, magari scuotere le coscienze di persone, come i magistrati, che hanno un potere eccezionale: quello di riparare al torto e decidere di compiere un atto di giustizia. Sì, perché io credo fortemente nella Giustizia; d’altronde se non ci avessi creduto fino in fondo, oggi, farei un altro lavoro. Con questo mio libro, che si intitola A testa alta, voglio anche trasmettere un messaggio di forza, di coraggio e di speranza a tutti quegli imprenditori che si trovano ad affrontare una situazione simile alla mia. La mia esperienza può servire anche a loro. Mettere nero su bianco ciò che mi è accaduto nella vita mi ha aiutato a comprendere meglio e ad affrontare le mie paure. Con questo libro ho avviato un percorso introspettivo che per me è stato fondamentale anche per superare i drammi che ho vissuto e gettarmi il dolore alle spalle.

Non ho nulla contro la magistratura. Penso semplicemente che sia il sistema a essere sbagliato. Un sistema che su molti imprenditori ha avuto pesanti conseguenze, non solo per le loro aziende, ma anche, soprattutto, nella loro vita privata e familiare. Parliamo di persone che con sacrificio e impegno si sono totalmente dedicate alla loro impresa e, dopo esserci riuscite, hanno fatto di essa l’orgoglio della propria vita. Perché fare attività economica è un gesto eroico, soprattutto in Sicilia. Ed è una grande soddisfazione quando si riesce a garantire un futuro diverso ai propri figli e un impiego solido ai propri dipendenti che a loro volta sono padri di famiglia.

Ho deciso, non senza difficoltà, di parlare apertamente di avvenimenti dolorosi. Racconto, in primo luogo, della mafia e di come essa ai tempi ha colpito mio padre con intimidazioni pesanti. Ma parlo anche del lato oscuro dell’antimafia e di come essa sia riuscita a svilire anni di sacrifici e di duro lavoro. Dico ovviamente quanto abbiamo sofferto io e la mia famiglia che lo Stato ha tentato ingiustamente di dividere, mettendo una parte di essa contro l’altra. Dopo una ingiusta detenzione di mio padre, come tale riconosciuta dallo stesso Stato italiano, abbiamo cercato di riprendere in mano la nostra vita sia a livello familiare che economico. Nonostante gli innumerevoli ostacoli frapposti sulla strada della mia azienda, sono riuscita a crearmi una realtà imprenditoriale discreta. Ma non posso permettere a nessuno di diffamare, ancora oggi, il nome della mia famiglia con accuse senza fondamento di giudizio. Pregiudizi, solo pregiudizi, che si trasformano in asfissianti preclusioni, interdittive al lavoro onesto.

La mia impresa ha dovuto fare i conti con quelle che, con sentenze passate in giudicato, si sono rivelate accuse prive di prova rivolte a mio padre. Ma la certificazione giudiziaria della sua innocenza non basta a rendere libera la mia attività. È paradossale e ingiusto che io debba pagare un “fine pena mai” per un errore giudiziario – sentenziato in via definitiva dallo Stato – di cui mio padre è stato vittima. Ma mentre mio padre è stato vittima conclamata di estorsioni mafiose, io, sua figlia, sono interdetta da misure cosiddette antimafia. Capite bene allora che qualcosa non va nel sistema in cui mi sono, mio malgrado, ritrovata.

Io vedo – e ne sono felice – parenti di un tempo capi mafia oggi non più in vita che ricoprono incarichi di prestigio nei comuni, che gestiscono appalti e somme pubbliche di enorme rilievo o che concorrono alle elezioni regionali. È giusto, è sacrosanto che sia così – lo ripeto: ne sono felice – perché nel nostro sistema penale non è scritto da nessuna parte che figli o nipoti debbano pagare gli errori di padri, nonni o zii. Ma questa regola – giusta, umana, civile – vale solo nel sistema penale antimafia? Il sistema di cosiddetta prevenzione antimafia è un mondo a parte? Per gli imprenditori che hanno avuto successo in terra di mafia vige un’altra legge: quella del sospetto?

Come nel mio caso, la stortura è evidente: un’impresa creata da una ragazza, figlia di un imprenditore assolto da ogni accusa penale di mafia, sconta per via amministrativa un pregiudizio antimafia, paga a caro prezzo un discredito fondato sul dubbio inesistente. Non mi arrendo a questo stato di cose. Qualcuno mi dovrà spiegare come e perché io, figlia di un soggetto assolto da accuse di mafia, non posso fare impresa, non sono degna della fiducia da parte dello Stato.

Testo di Desirè Vasta 

Luigi Ilardo, un delitto di mafia e di stato. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 31 luglio 2022

Lo uccidono il 10 maggio 1996, di sera, a Catania. Luigi Ilardo sta rincasando, scende dall'auto, poi gli spari. Le sue figlie, Luana e Francesca, corrono. E corre anche Cettina, la seconda moglie. Urlano, sono disperate, lo accarezzano. Ma non c'è nulla da fare. Luigi Ilardo è morto.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Lo uccidono il 10 maggio 1996, di sera, a Catania.

Luigi Ilardo sta rincasando, scende dall'auto, poi gli spari.

Le sue figlie, Luana e Francesca, corrono. E corre anche Cettina, la seconda moglie. Urlano, sono disperate, lo accarezzano. Ma non c'è nulla da fare. Luigi Ilardo è morto.

Chi è quell'uomo a terra? E' un boss di Cosa Nostra, imparentato con i Madonia di Vallelunga – Ilardo è cugino di “Piddu”, il numero due della Cupola ai tempi di Tòtò Riina - un legame che gli ha permesso di scalare il mandamento di Caltanissetta. Fino al vertice.

Ha già trascorso una decina di anni in cella, in Puglia, all'Ucciardone, all'Asinara. Sembra a tutti un regolamento di conti tra mafiosi. Ma non è così: Luigi Ilardo muore perché voleva cambiare vita. Per amore delle sue figlie. E perché non credeva più in quella Cosa Nostra.

Aveva deciso di fare l'infiltrato per conto dello stato all'interno della mafia. Per tre anni collabora con “Bruno”, nome in codice del colonnello Michele Riccio dei Ros, i reparti speciali dei carabinieri. E proprio a ”Bruno”, pochi giorni prima di morire, aveva confidato: «Ho deciso di collaborare con la giustizia dando la mia disponibilità, anche perché voglio chiudere definitivamente con il mio passato e avere la fortuna di passare ciò che mi rimane di vivere tranquillo vicino ai miei figli. L’unica cosa che mi ha spinto è stata, effettivamente, la ricerca della normalità della mia esistenza». Era a un passo, sarebbe entrato nel programma di protezione il 15 maggio. Ancora cinque giorni. Ma lo uccidono prima.

C'è qualcuno che lo "vende”, che fa sapere ai boss che Luigi Ilardo sta raccontando i segreti di Cosa Nostra fuori da Cosa Nostra. Perché? Lui stava portando gli investigatori sulle tracce di Bernardo Provenzano, un fantasma. E stava per svelare anche i retroscena delle stragi del 1992. Troppo pericoloso per lasciarlo in vita.

Personaggio per molto tempo dimenticato, Luigi Ilardo è stato al centro dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia dei pubblici ministeri di Palermo, quella conclusa con una sfilza di condanne in primo grado e una sfilza di assoluzioni in appello.

In questa serie del Blog Mafie pubblichiamo stralci del libro “Luigi Ilardo. Omicidio di Stato” (edizioni Chiarelettere) scritto da Anna Vinci con la testimonianza della figlia Luana.

Vi racconto chi era mio padre e perché voleva cambiare la sua vita. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 31 luglio 2022

Dopo undici anni di dura detenzione e rari permessi, mio padre decise di cominciare un percorso di collaborazione, e di «redenzione», come nessuno mai aveva ancora fatto, prima quale «informatore» e infine comunicando alle autorità preposte di volersi dissociare ufficialmente da Cosa nostra.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Mi chiamo Luana Ilardo, sono figlia di Luigi Ilardo, nato nel 1951, cugino del più noto Giuseppe Madonia, nipote di Francesco, vicino al clan dei Corleonesi, capomafia di Vallelunga Pratameno, in provincia di Caltanissetta, che fu ucciso dalla fazione palermitana.

Era il 1978. Quello stesso anno fu «combinato» e divenne «uomo d’onore», mio padre Luigi. Dopo poco da quel giuramento, fu spiccato contro di lui un mandato di cattura. Motivo per cui mio padre si diede latitante. Normale che la strada per lui fosse già tracciata, per un giovane ventisettenne, legato allo zio, cresciuto nei codici che appartenevano non solo alla famiglia ma al luogo geografico e mentale, in quella zona brulla chiusa su di sé, noi isolani tra gli isolani.

Io nacqui nell’aprile del 1980. Fino ai miei tre anni, mio padre fu un uomo in fuga; quando fu arrestato era il 1983 e rimase in carcere, salvo alcuni periodi di permessi speciali, per undici anni. La maggior parte scontata in regime di 41 bis, carcere duro, con gravose restrizioni della libertà personale. Saldato il suo debito con la giustizia, uscito dalla galera nel gennaio del 1994, decise di prendere le distanze da un sistema ai suoi occhi profondamente cambiato rispetto agli anni in cui era entrato a farne parte.

Mi scopro a raccontare certe vicende intramezzandole con ricordi privati, e resto la bambina ignara di allora, eppure sono la donna consapevole di oggi. Deve essere qualcosa che ha a che vedere con la forza dell’amore. Nulla intacca il mio affetto. Come se quello che c’era fuori fosse stato altrove. E anche oggi le ombre passate e i pericoli presenti che mi sovrastano, mi inquietano, mi fanno soffrire, restano luoghi che io attraverso quale estranea pur andando fino in fondo alla mia battaglia, nella mia personale ricerca di giustizia.

Perché so che la mia liberazione avverrà quando emergerà la verità della storia, più grande di mio padre, nella quale lui si è trovato coinvolto e della quale è stato uno dei protagonisti. Quando uscirò da questo limbo? C’è il cielo sopra di me verso il quale guardo fiduciosa, e sotto l’abisso che mi costringo a ignorare, ma è una vertigine pericolosa. Per la mafia mio padre è il «traditore» e per lo Stato non è un collaboratore di giustizia, ma un informatore che ha rilasciato per anni «dichiarazioni spontanee» nell’ambito di quello che le forze dell’ordine definiscono «un rapporto confidenziale».

Se si può capire, dal loro punto di vista, il giudizio degli «uomini d’onore», anche se non è accettabile, la definizione che resta appiccicata a mio padre da parte delle istituzioni ha inquinato la narrazione, la verità fatica a venire a galla, il suo ricordo e il nostro presente di figlie e figli sono intaccati e noi viviamo in famiglia sempre sul chi va là: fidarsi di chi?

Fortunatamente, questa strana isola che è la Sicilia rimescola sempre le carte e nel mio andare ho incontrato sia alcune parti dello stato sia donne e uomini, un tempo su opposte barricate, che si ritrovano nella ricerca comune della verità. Io voglio raccontare a mia figlia la storia del nonno per quella che è stata: nel male e nel bene.

Dopo undici anni di dura detenzione e rari permessi, mio padre decise di cominciare un percorso di collaborazione, e di «redenzione», come nessuno mai aveva ancora fatto, prima quale «informatore» e infine comunicando alle autorità preposte di volersi dissociare ufficialmente da Cosa nostra.

Dopo due anni di questo rocambolesco cammino, che lo stava per condurre a divenire ufficialmente collaboratore di giustizia, mio padre fu ucciso con nove colpi di arma da fuoco sotto il balcone della nostra abitazione a Catania, in via Quintino Sella. Gli spari, provenienti dalla strada, echeggiano ancora nelle nostre orecchie. La prima a scendere fu Cetty, la sua seconda moglie, seguita a ruota da noi ragazze. Fui la prima a vederlo in una pozza di sangue, fui la prima a comprendere che da quella strada non si sarebbe rialzato.

Fui anche la prima cui quella morte in diretta cambiò per sempre la vita, ma sarò l’ultima a dimenticarlo e questa testimonianza vuole esserne la conferma. Da lì a qualche giorno, saremmo dovuti entrare ufficialmente nel «programma di protezione», era già tutto predisposto.

Venerdì 10 maggio 1996, alle 20.45, mio padre morì. Lunedì 13 maggio, all’alba, lo «Stato buono» avrebbe dovuto prelevarci dalle nostre vite per nasconderci chissà dove. Una fuga di notizie dalla Procura di Caltanissetta, come attestano le indagini giudiziarie, fece decidere un’improvvisa accelerazione del suo omicidio

Con il papà ricercato, la nostra latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 01 agosto 2022

Era l’estate del 1983, eravamo a Barcellona Pozzo di Gotto. Io mi trovavo lì perché era impossibile separarmi da lui. Lui fuggiva, era ricercato dalla polizia e, nonostante fosse un uomo con immensi ed evidenti problemi, decideva di tenermi con sé

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Ricordo quella vasca piena d’acqua con tanti paperotti gialli a galleggiare, mio padre immerso dietro di me e io che, contenta, battevo le mani schizzando acqua ovunque. Quella casa un po’ fatiscente, fatta quasi tutta in pietra, l’ingresso al piano terra con i poster dei cantanti dell’epoca attaccati alle pareti, scale strette che dividevano i due piani, un altro bagno piccolissimo con i sanitari in ceramica rosa e le mattonelle tipiche degli anni Ottanta, con fantasie floreali verdi.

La stanza da letto, non molto grande, con un armadio in stile siciliano antico, un grande specchio centrale e una porta finestra dalla quale entrava tanta luce, sul letto una trapunta a costine in velluto color cipria. Avevo compiuto da qualche mese tre anni, non sapevo di essere una piccola latitante e che quel Natale mio padre non sarebbe stato con noi: fu arrestato nel dicembre del 1983.

Era l’estate del 1983, eravamo a Barcellona Pozzo di Gotto. Io mi trovavo lì perché era impossibile separarmi da lui, a causa delle mie ripetute crisi nervose e delle lacrime senza fine appena si prospettava un suo allontanamento, e così, straziato da quelle reazioni, mio padre non riusciva più a lasciarmi. Lui fuggiva, era ricercato dalla polizia e, nonostante fosse un uomo con immensi ed evidenti problemi, decideva di tenermi con sé, contro i pareri di sua madre e di tutta la famiglia, durante i giorni in cui la latitanza non lo portava lontano da Catania.

Oggi ringrazio Dio per quella scelta azzardata, perché per me rimangono i momenti più belli e felici della tormentata vita che, io non lo sapevo, era dietro l’angolo. All’epoca, mio padre aveva una Giulietta rossa fiammante con gli interni blu in velluto a costine. Durante le mie notti insonni, lo costringevo a girare in macchina per i borghi di Barcellona, per farmi rilassare e addormentare su quel sedile a me tanto caro, ascoltando la solita canzone che in questi quarant’anni mi risuona sempre in testa: ... Lasciatemi cantare / Con la chitarra in mano / Lasciatemi cantare / Una canzone piano piano... Toto Cutugno l’aveva presentata a Sanremo quell’anno ed era la ninna nanna che preferivo. Mio padre per causa mia, bambina ignara, testarda e capricciosa, rischiava l’arresto da parte delle forze dell’ordine: era, infatti, molto azzardato per un pericoloso latitante, costretto a nascondersi lontano dai luoghi sicuri e dai suoi affetti, portare con sé una figlia piccola e proteggerla. Di quel periodo di latitanza, oltre a questi ricordi rimangono impresse nella mia mente le strade strette, le case essenziali e precarie con grandi basole di pietra a terra, e la sua mano che mi reggeva e sollevava perché non inciampassi.

Le anziane signore sedute su vecchie sedie di paglia, davanti a ogni porta che apriva sulla strada, avevano in mano un telaio tondo per ricamare e al nostro passaggio si alzavano premurose, ci salutavano, in una dimostrazione di gioia e affetto che raramente ho rivisto in vita mia.

Ero confusa dalle loro coccole e dai regali inattesi, preziosi, custoditi nelle loro case: biscotti, frutta, verdura e qualsiasi genere di cibo. Tra pranzi e cene non sapevano più cosa offrirci e donarci. «Gino, che cosa vuoi per stasera? Gino, cosa ti serve? ’A picciridda che cosa vuole mangiare?» Mi sentivo una piccola principessa accompagnata dal suo «re» gigante, non capivo il perché ma era chiaro che tutti lo idolatravano e gli volevano bene come a un figlio.

RITORNO A BARCELLONA POZZO DI GOTTO

Molti anni dopo, durante uno dei suoi ultimi permessi premio dalla prigione, tornammo con mio padre a Barcellona Pozzo di Gotto. Avevo appena compiuto dodici anni, era il 1992, non avevo più calpestato quel suolo dalla latitanza di mio padre, ma subito mi ritrovai a casa: la stessa aria, il cielo di sempre, limpido, le stesse dissestate basole a pavimentare le strade.

Mio padre mi riportò in paese come fossi un trofeo di cui andar fieri, nei suoi occhi lucidi aveva un sorriso malinconico. […] Nel varcare la stretta viuzza le rividi rimettersi in piedi, con gli occhi colmi di lacrime di gioia e un sorriso sul volto; ci vennero incontro nel solito tentativo di abbracciare mio padre, nonostante le esili membra e le spalle curve, che apparivano ancora più fragili davanti al corpo imponente di mio padre. Ero ancora la bambina che giocava con le paperelle, lui restava il mio «re». Lo sarebbe stato per sempre.

Era un uomo di un metro e novantadue per 110 chili di peso, senza un filo di grasso addosso; i lunghi anni di galera e di noia cui era costretto – senza contare che era sempre stato un uomo di azione – avevano scolpito con allenamenti costanti il suo fisico, rendendolo ai miei occhi statuario. Mi dava l’impressione di oscurare il sole di quella angusta e piccola via. [...] Pochi passi ancora per le viuzze incassate e riconobbi quella casa a me tanto cara. Quando si aprì la porta, adocchiai subito, appeso alla parete dell’ingresso, lo stesso poster di un famoso cantante di una decina di anni prima, ancora in buone condizioni.

Tutto era rimasto esattamente come la memoria mi suggeriva. […] Limitata dai miei dodici anni, non capivo bene il perché ritornassi in quella che era casa nostra solo dopo tanto tempo, ma per il modo in cui ero stata educata intuivo subito le domande che non andavano fatte. Questa era una di quelle. Codici arcaici, soprattutto per le «femmine». Mi ricordo questa parola, usata per indicarci, più spesso di donne o ragazze. Noi fimmine, sempre, a ogni età. Mentre i maschi cambiavano nel crescere: bambini, ragazzi e poi uomini.

Queste riflessioni le feci dopo, quando quei codici di ubbidienza cominciarono sempre più a starmi stretti. Oggi non ho nessuna percezione di dove si trovi quella casa, ma ho la certezza che il giorno in cui troverò la forza di andare a cercarla basterà solo dire poche parole per ritrovarla: «Sono Luana, la figlia di Gino».

Ragionevolmente, penso che la maggior parte di quelle anziane donne non sia più di questo mondo, ma sono altrettanto convinta che i loro figli e nipoti sappiano di quell’uomo che per loro era soltanto Gino. […] Nel procedere tra i miei frammenti di storia, mi rendo conto solo adesso che non ho mai nominato mia sorella, alla quale sono tuttora legata da un profondo amore, come solo può esserci tra chi dello stesso sangue ha subito lo stesso danno. Lei, Francesca, anche se di due anni più grande di me, per carattere è stata sempre la sorellina da proteggere.

È così anche adesso. Io mi espongo, parlo, testimonio, cerco di capire, sapere, ho sete di verità e il nostro amore mi dà forza. Ma, alla fine, chi lo sa chi è più forte tra le due? Chi resta nelle retrovie e provvede ai viveri dell’anima, perché l’altra possa rifocillarsi e riposare per avere un po’ di tregua, o chi avanza in prima linea?

Quella parentela pericolosa con i potenti boss Madonia di Vallelunga. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 02 agosto 2022

La sorella di mio nonno, anni addietro, aveva sposato il boss emergente don Ciccio (Francesco) Madonia, dal quale ebbe tre figli, tra cui colui che sarebbe diventato il potente boss Piddu (Giuseppe) Madonia. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Mia madre, Margherita, è stata una delle donne più belle che ho visto in vita mia. Aveva lunghi capelli castani, era molto alta e slanciata, con un fisico da modella; guardandola in foto rimango ancora colpita da cotanta bellezza, femminilità e sinuosità. Credo che lei e mio padre avessero avuto da subito una forte attrazione fisica, entrambi affascinati dalla reciproca bellezza.

Mia madre era di origine veneta ed era una giovane molto indipendente. Fin dai suoi diciannove anni, aveva fatto la spola tra la Germania, dove lavorava con il fratello, e Belluno, dove viveva con la madre e di cui era originaria. Delle poche volte in cui mi raccontò il primo incontro con mio padre, non dimenticherò mai la magia d’amore che traspariva dallo sguardo perso nei ricordi. Rari momenti di quiete.

Era scesa a Catania con un’amica per qualche giorno di vacanza. La sera che conobbe mio padre era andata in una rinomata discoteca della movida catanese, il Golden Gate, che si trovava vicino a corso Italia, zona residenziale e cuore pulsante della ricca città, una traversa adiacente alla nostra successiva abitazione. Mio padre era già un ragazzo molto in vista, grazie alla posizione agiata e milionaria della nostra famiglia. A poco più di vent’anni, possedeva una porsche nera ultimo modello. Mia nonna, Francesca Mastrolorito, era un’insegnante rispettata, figlia di un’ottima famiglia borghese, generosa di carattere.

Mio nonno Calogero era un ricco e facoltoso commerciante, aveva una grossa azienda agricola a Lentini (Siracusa) dove commerciava prodotti agricoli e capi di bestiame. La nostra proprietà era una delle più grandi e importanti della zona, mio nonno fu addirittura il primo fornitore di bestiame dello Stato italiano dopo gli anni massacranti del dopoguerra. La nostra proprietà, per questi meriti, era solita ospitare autorevoli cariche istituzionali e giornalisti con relative riprese tv, anche da parte della Rai, a dimostrazione del fatto che eravamo una delle più grandi realtà del settore e di una Sicilia in ripresa dopo anni di povertà e dissesto economico.

La strana Sicilia, Trinacria, con tre gambe che convergono tutte al centro, una senza le altre non potrebbe esistere. Lontane, ma pur sempre vicine. Quella agiatezza economica fece crescere la mia famiglia in condizioni di smisurata ricchezza e lusso, facendo emergere e risaltare ancora di più dei ragazzi (mio padre e i suoi fratelli, mio zio Giovanni e mia zia Clementina) che già si facevano notare per bellezza, temperamento, educazione. Da quella stessa sera in discoteca, mia madre mi raccontò che non ritornò a Belluno. Il loro fu un grande amore, acerbo, e di breve durata.

Mio padre era un uomo di pochissime parole, ma il suo fare, il suo atteggiamento, era sempre molto chiaro ed eloquente. Mia madre, sin da subito fu accolta nella casa dei miei nonni paterni come una quarta figlia, sebbene molto lontana dal nostro mondo. Un inizio come tanti, anzi molto più sfavillante, e poi…

L’INIZIO DELLA SCALATA IN COSA NOSTRA

In quegli anni, la figura di mio padre cominciava a occupare posto nella comunità mafiosa parentale e correlata alle nostre origini famigliari. La sorella di mio nonno, anni addietro, aveva sposato il boss emergente don Ciccio (Francesco) Madonia, dal quale ebbe tre figli, tra cui colui che sarebbe diventato il potente boss Piddu (Giuseppe) Madonia.

Personalmente, crescendo, grazie ai libri di storia e alla cronaca, ho tentato, ho voluto ricostruire le radici della mia famiglia, la realtà nella quale ero immersa e crescevo. Impregnata da un’educazione che, come ho già detto, imponeva il silenzio, e ciò che non si conosceva restava sconosciuto.

Denari, provenienze, faide rimanevano fuori dalla casa dove noi ragazzette crescevamo. Solo nell’adolescenza, che fu tranciata di netto dalla morte violenta di mio padre, compresi le esatte connessioni e sfumature delle nostre origini famigliari e del nostro modo di vivere, non proprio «normale». La verità è che quando nasci, cresci, ti formi, vivi in un ambiente uguale a quello di tutte le persone che frequenti e non solo dei famigliari, diventi un «appartenente», anche se non sei mai definito tale. Un unico modo di essere, di pensare, direi anche di sognare e immaginare, ti plasma.

Non hai altri termini di paragone, l’innocenza dell’età contribuisce a non farti comprendere le diversità, le anomalie, rendendo normale e usuale quel tipo di vita, che di normale, oggi mi è chiaro, nulla ha. Credevo che il nostro modo di ragionare e di comportarci fosse lo stesso delle altre famiglie. E c’era in noi anche un certo compiacimento per tutta quella ricchezza, per il nostro, diciamo, distinguerci. Perché non solo eravamo rispettati, noi Ilardo, nel nostro gruppo di famiglie legate da patti tra «uomini d’onore», ma anche in parte della buona società catanese. Il sangue di quel 10 maggio 1996 sancì per sempre in me la certezza che la nostra vita era quella dei «cattivi».

Fu tremendo scoprire, in seguito, che il cattivo non era sempre ben riconoscibile!

Un sequestro di persona, il padre in galera, un’infanzia molto difficile. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 03 agosto 2022

Io fui concepita esattamente durante questo periodo di latitanza. Nacqui il 7 aprile 1980. Mia madre, già instabile di carattere e propensa a una certa dipendenza dall’alcol che ben presto si sarebbe radicalizzata facendo di lei un’alcolista, non riusciva a farsi carico di una neonata e così la famiglia decise di portarmi a Enna, dalla sorella di mia nonna.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Non passò molto tempo da quando i guai e le scelte sbagliate portarono l’inizio della decadenza nelle nostre vite e nella nostra famiglia. Papà in quegli anni scalò le vette di Cosa nostra; il temperamento, la posatezza, la serietà lo rendevano «diverso» agli occhi dei membri dell’associazione, che in prevalenza era formata da uomini provenienti da ambienti più umili e disagiati, soprattutto da un punto di vista etico, sociale, culturale. Nel frattempo, dal grande amore con mia madre, nascemmo mia sorella e io.

Le foto e i racconti ci vedono in un grande appartamento a Picanello (Catania), zona ad alta concentrazione di personaggi di spicco e malavitosi di potere. I vestiti lavorati a mano e le copertine pregiate di eccellente manifattura dimostravano l’importanza della nostra nascita e la magnificenza della famiglia da cui provenivamo, come sfondo due bellissimi genitori che rappresentavano l’apoteosi di un amore consacrato e dello stesso benessere e agio economico di cui godevamo. Attraverso quelle immagini degne di un film kolossal, già s’intravedeva la massima scalata al potere che, da lì a breve, avrebbe cambiato per sempre le nostre vite.

Mio padre, in quegli stessi mesi, si macchiò la coscienza di colpa per un concorso in sequestro di persona a scopo estorsivo in Calabria e traffico internazionale di armi. Erano gli anni dei sequestri in Aspromonte, le famose impervie montagne calabresi. Anche questa verità l’ho saputa più avanti, intorno ai miei undici anni, solo in uno sfogo di ira di mia madre, in preda all’alcol. Per anni mi portai addosso il trauma di aver sentito quella verità così violenta e dura, sbattuta senza troppi giri di parole sul mio piccolo e non preparato cuore.

Era difficile accettare che l’uomo più buono al mondo, ai miei occhi, si fosse macchiato di un atto tanto brutto, che le sue scelte e azioni fossero state causa di sofferenze per persone innocenti. La cruda, spietata confessione di mia madre cominciò già allora a tormentare la mia anima e il mio cuore. Poi, crescendo, aumentò in me la curiosità di sapere, ma insieme anche l’imbarazzo di dover chiedere. Da dove potevo partire? Iniziai a fare qualche timida domanda a mia nonna. Il suo deciso «Chi ti ha detto una cosa del genere?», stoppò definitivamente ogni ulteriore tentativo.

Solo alcuni documenti lasciati incustoditi iniziarono a schiarirmi le idee, alleggerendo la mia sofferenza, seppur immensa. Dalle carte emergeva che mio padre non era un assassino... tuttavia, era stato accusato di sequestro lampo di persona, durato ventiquattro ore, ai danni del figlio di un imprenditore (un gioielliere), senza nessuna conseguenza per la povera vittima. Non era andato a buon fine. Un caso, altrimenti... Furono solo mio padre e la sua omertà a pagarne il conto alla giustizia: mandato di cattura internazionale per le imputazioni dei reati ascritti. Principio della sua folle fuga e della sua conclamata latitanza.

IN LATITANZA ILARDO DIVENTA PADRE

Io fui concepita esattamente durante questo periodo di latitanza. Nacqui il 7 aprile 1980.

Mia madre, già instabile di carattere e propensa a una certa dipendenza dall’alcol che ben presto si sarebbe radicalizzata facendo di lei un’alcolista, non riusciva a farsi carico di una neonata e così la famiglia decise di portarmi a Enna, dalla sorella di mia nonna. Zia Costantina aveva un maschietto, avrebbe voluto avere una bambina: i suoi desideri e la necessità della famiglia coincisero. Ovviamente con il consenso di mio padre, che aveva un legame di profondo affetto con la zia. Fino ai sei anni portai il cognome di mia madre: Loana Dalla Lastra.

Mio padre, essendo latitante, non poté riconoscermi e, per lunghi anni, ciò fu motivo di grande sofferenza durante la sua carcerazione. Avviò le procedure di riconoscimento proprio dopo la cattura, dal penitenziario stesso. Ricordo che questa delicata situazione, che a lui premeva molto, credo principalmente per l’inaffidabilità di mia madre – con i suoi gravi problemi di dipendenza dall'alcol – e per il suo orgoglio di uomo, diede un gran da fare a mia nonna, che gestiva tutta l’organizzazione famigliare seguendo le indicazioni che mio padre inviava dal carcere, stressata anche dal rapporto con il pool di avvocati che avevamo a nostra disposizione.

Vagamente, rammento anche i vari incontri con le assistenti sociali che valutavano la stessa richiesta e la conferma dell’inevitabile affidamento ai nonni paterni, visto che mia madre passava ormai più tempo in Veneto che in Sicilia. Il giorno del mio riconoscimento suggellò la fine delle preoccupazioni di mio padre; ero piccola, ma lo percepivo. Da Loana Dalla Lastra, a circa sei anni diventai finalmente Luana Ilardo.

In Sicilia, tutti tendevano a storpiarmi il nome originario. Loana era insolito e così fu cambiato in Luana. Ho la certezza che, al di là dell’orgoglio paterno verso la propria erede, mio padre ci tenesse tanto a quel riconoscimento per tutelarmi dall’instabilità di mia madre, che continuava a rifiutare aiuto con un percorso di disintossicazione.

Così la moglie di Luigi Ilardo si è sottratta alle regole di Cosa Nostra. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 04 agosto 2022

Mio padre e il loro amore erano stati la motivazione per vivere una vita ben lontana dalle sue abitudini nordiche. Senza di lui, non riuscì più a tollerare quel mondo «severo e rigido» in cui mai si era ritrovata.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

La sua latitanza finì con un importante arresto nell’anno 1983, all’Aeroporto di Roma-Ciampino su un volo Alitalia.

La cattura fu l’inizio del periodo più sofferente e tormentato della mia vita e di quella della mia famiglia. Le porte della galera si aprirono per lui, ma contestualmente anche per noi. Cominciarono i duri anni di incessanti viaggi nelle più disparate strutture penitenziarie. Puntualmente ogni quindici giorni partivamo in macchina, o con altri mezzi, per raggiungerlo ovunque si trovasse.

Mia madre non resse il colpo. Perso il suo grande amore e diventando sempre più dipendente dall’alcol, non trovò più motivazioni per rimanere in Sicilia. Se ne andò poco dopo l’arresto, a Belluno. Non l’ho mai perdonata per aver lasciato me e mia sorella, crescendo però ho compreso il calvario e l’immensa sofferenza che tutta la situazione aveva provocato nel suo fragile e instabile animo.

A causa di quell’arresto, il suo principe non c’era più e lei si trovò sola a vivere in una realtà ben strutturata, consolidata, tipica delle famiglie mafiose siciliane dove, per le regole e la disciplina introiettate, la moglie di un «uomo d’onore», massimamente di un boss, non ha altra scelta che sottomettersi a un regime psicologico e fisico di totale fedeltà, sudditanza e attesa... lunga, incerta, attesa.

Mio padre e il loro amore erano stati la motivazione per vivere una vita ben lontana dalle sue abitudini nordiche. Senza di lui, non riuscì più a tollerare quel mondo «severo e rigido» in cui mai si era ritrovata.

In Veneto, l’attendevano la leggerezza e la vita di una donna libera da occhi indiscreti, etichette, protocolli e barriere sociali; lì Margherita era solo e soltanto Margherita, non la moglie di un potente boss mafioso all’apice della sua carriera. Lì non doveva dare esempio di comportamenti e devozioni, come invece, obbligatoriamente, tutte le donne di mafia devono fare. Le famiglie del detenuto, il loro tenore di vita, la loro seria e rigida condotta quotidiana sono lo specchio di chi sconta la galera, ed è fondamentale essere all’altezza più che mai, quando l’uomo di casa è arrestato.

La moglie e i famigliari dei mafiosi entrano in «lutto» dal giorno successivo all’arresto del proprio caro. Inizia una vita di basso profilo, divisa esclusivamente tra la crescita dei figli e il servigio di moglie e, nel caso, nuora devota che assolve tutte le richieste e gli ordini da parte di chi la libertà non l’ha più. È un accordo silente e implicito al quale le consorti di uomini mafiosi, soprattutto di un certo calibro, devono sottostare senza nessun atto di ribellione, accettando senza discutere i sacrifici e le privazioni che l’arresto induce, portando avanti con esclusiva dignità e amore la famiglia che rimane fuori. E per quel vincolo di sangue, restano in carceri mentali ben più opprimenti di quelle dello Stato.

Per una ragazza di rara bellezza e con una mentalità nordica, che vede la libertà come un valore assoluto e sacro, era impossibile resistere a tante limitazioni e restrizioni, soprattutto quando il suo uomo era in galera e con una richiesta ufficiosa di sedici anni di detenzione. Le uniche persone che scandivano le sue giornate, e con le quali le era concesso passare del tempo, erano i genitori e i famigliari di suo marito, perfetti estranei, che mai le avrebbero consentito neanche una semplice pizza fuori, una sera, con un’amica.

Era troppo per Margherita, la libera Margherita che, avendo anche lei una madre alcolizzata, della libertà aveva fatto una missione di vita. Così in un colpo solo, mia sorella Francesca e io perdemmo padre e madre, rimanendo a vivere in modo altalenante (soprattutto io) con i nonni paterni e con la zia Clementina, sorella di papà, che ci amava sopra ogni cosa. Loro sottostavano alle indicazioni che mio padre forniva dal carcere, riguardo alla nostra educazione. Si preoccupava perfino del nostro abbigliamento e dei nostri più piccoli desideri. Ogni settimana, puntuale, arrivava dal carcere una sua lettera, dove dava disposizione di tutto quello che andava fatto e comprato per renderci felici. […].

Quelle visite in carcere, i lunghi viaggi e i pianti delle bambine. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 05 agosto 2022

Mio padre era molto rispettato e trattato con affetto anche all’interno del carcere dallo stesso personale penitenziario, il quale aveva sempre gentilezze e premure nei nostri confronti. Capitava a volte, soprattutto nel carcere di Lecce, dove ha passato diversi anni, che ci permettessero colloqui in piccole stanze private, in forma individuale.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Ben presto io e mia sorella tornammo inseparabili, l’una mai senza l’altra. Acquistati nuovi equilibri e abitudini, una delle prime tappe ovviamente fu il carcere per andare a trovare papà. Come sempre, ogni quindici giorni, arrivati al fine settimana iniziavano i preparativi per affrontare i lunghi viaggi, spesso in macchina. La spesa rigorosamente come le restrittive regole carcerarie prevedevano e sempre lo stesso menù: il falsomagro con il ragù e i piselli era il piatto preferito di papà, mia nonna impiegava due giorni per cucinarlo e confezionarlo proprio come lui desiderava.

La biancheria doveva essere secondo lettera ricevuta, dove espressamente chiedeva ogni singolo capo di abbigliamento, specificando nel dettaglio modello, marca e colore. Infine, la preparazione di noi figlie, che non era per nulla meno impegnativa: mio padre, infatti, teneva tantissimo al nostro abbigliamento, dovevamo essere sempre elegantissime anche nel minimo particolare e non potevamo mai indossare per più di una volta gli stessi capi. E così, qualche giorno prima del viaggio, eravamo solite uscire per andare in una delle migliori boutique per bambini e comprare nuovi vestiti da indossare con calze, scarpe e accessori annessi.

[...] Dopo lunghissime ore di viaggio e vari mezzi usati per raggiungere la struttura penitenziaria, si cominciava l’ennesima stremante attesa per accedere al colloquio, anche se solitamente erano quasi tutti pro forma i vari passaggi che ci attendevano. Si entrava da un ingresso principale aperto al pubblico dove, arrivati «all’accettazione», si iniziava a compilare infiniti fogli e ad allegare vari documenti, contestualmente si compilava il modulo in cui doveva essere riportato in maniera minuziosa qualsiasi bene (cibo, abbigliamento, biancheria, libri...) che veniva immediatamente ritirato e preparato al controllo. […] Conclusa l’accettazione dei pacchi in entrata, si attendeva il turno, a volte anche svariate ore, per un’ora sola di colloquio.

Quelle sale di attesa erano l’esatto specchio del massimo degrado della società. Si poteva vedere di tutto, dalle signore poco civili e scomposte ai bambini sporchi e irrequieti che si gettavano su ogni centimetro di pavimento gridando e lamentandosi con parole volgari nei più stretti dialetti siciliani. Mia nonna, prima di entrare, era solita fermarsi in un’edicola e comprarci quattro, cinque giornalini a testa per tenerci buone e sedute durante la snervante attesa.

UNA RIGIDA EDUCAZIONE FAMILIARE

La nostra rigida educazione imponeva una certa compostezza nonostante l’età e la noia sempre dietro l’angolo, soprattutto quando aspettare diventava, per vari motivi, estenuante. Superata l’attesa, cominciavano ad aprirsi e chiudersi dietro di noi infinite porte con sbarre di ferro e grosse chiavi che dividevano un ambiente dall’altro; l’ultima sala prima dell’incontro era quella dove eravamo sottoposte a metal detector e ulteriori controlli fisici a mano negli indumenti.

La nostra famiglia faceva sempre la differenza. Ci presentavamo in maniera elegante, discreta e composta nell’abbigliamento e nell’atteggiamento, per questo motivo con ogni probabilità eravamo sempre ben accolti e trattati con un occhio di riguardo: «Siete la famiglia di Ilardo, vero? Si vede, signora! Quanto è educato suo figlio, un signore come pochi, noi continuiamo sempre a chiederci cosa ci faccia qui un ragazzo del genere...!». Mio padre era molto rispettato e trattato con affetto anche all’interno del carcere dallo stesso personale penitenziario, il quale aveva sempre gentilezze e premure nei nostri confronti.

Capitava a volte, soprattutto nel carcere di Lecce, dove ha passato diversi anni, che ci permettessero colloqui in piccole stanze private, in forma individuale: quelle erano occasioni intime durante le quali, non separati dalle solite barriere, potevamo avere un contatto fisico. Ricordo i primi colloqui che feci a Favignana, quando ero ancora più piccola. Le regole erano diverse per la tenera età mia e di mia sorella. Entravamo in grandi stanze dove c’erano diversi tavoli rotondi, ognuno occupato da una famiglia. Mio padre ci attendeva lì, con un tavolo stracolmo di merendine e dolci di ogni genere. Proprio durante una di quelle visite, al momento del saluto, ricordo un’ennesima crisi di pianto. Infatti, continuavo a piangere e dimenarmi dicendogli che volevo rimanere a dormire con lui là dentro.

Sento ancora la sua solita e rammaricata risposta: «... sai che papà deve lavorare e appena può torna a casa». Una di quelle volte fu davvero straziante per me e, ora, penso chissà quanto lo sia stato per lui. Appena sentivo: «Ilardo, la visita è finita!» cominciavo subito a piangere ed ero trasportata fuori a forza. Inutile dire che oggi, solo per la sofferenza che mio padre provava in quei tristi secondi, avrei evitato tante lacrime e inutili capricci, se così si possono definire. Un sorriso grande quanto il mondo al nostro ingresso. Un dolore enorme a ogni saluto. Nel frattempo, mentre crescevo, continuavano a cambiare frequentemente il carcere dove papà era detenuto. Per noi erano sempre amare sorprese, a volte ricevevamo le telefonate a casa che ci informavano della situazione, ma tante volte no.

Capitava infatti che, come da abitudine, a cadenza quindicinale, ci preparassimo nel rispetto del solito rituale (cibo, vestiti, viaggi al carcere preposto) e solo al nostro arrivo ci sentissimo dire: «Ilardo è stato trasferito...». Inutile tentare di descrivere lo stato d’animo che si impadroniva di tutti noi. La disperazione di mia nonna era leggibile sul suo viso. Il passo successivo, poi, era comunicare a me e mia sorella la tragedia di un viaggio a vuoto e l’impossibilità di abbracciare papà. Nonostante fosse una situazione anomala (lo comprendo solo oggi), noi eravamo abituate a quello stile di vita e a quella sfiancante attesa per una sola ora di visita, tuttavia la delusione e la frustrazione del mancato appuntamento diventavano logoranti per le settimane successive. [...]

Dalle celle dell’Ucciardone all’inferno dell’Asinara. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 06 agosto 2022

Una sola visita ogni mese e al colloquio erano ammessi due adulti, famigliari di primo grado. Per arrivarci ci volevano due giorni di viaggio. Ci fu sospesa anche la telefonata mensile alla quale avevamo abitualmente diritto. L’Asinara durò due lunghi e incessanti anni di calvario

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Uno dei penitenziari più squallidi e poveri che ricordo è sicuramente l’Ucciardone. Per noi era una fortuna in termini di distanza, due o tre ore di viaggio rispetto alle dodici, spesso diciotto, che di solito affrontavamo. Bastò poco davvero per augurarci di rifarle. Una struttura penitenziaria così brutta, sporca e fatiscente non l’avevo mai vista.

Lo stesso degrado che appariva agli occhi era proporzionale alle famiglie dei detenuti che vedevamo all’interno. Negli occhi di mia nonna, in quelle occasioni, si leggeva a tratti la vergogna di trovarsi in luoghi del genere, lei che era una donna molto colta e di gran classe, che utilizzava sempre lo stesso stile nel vestiario: abiti di seta con fantasia floreale o gonne scure con camicie di seta; possedeva anche diversi torchon, collane con fili di perle intrecciati o di pietre preziose in colori diversi, che abbinava alla tonalità predominante del suo abbigliamento.

Non era una donna molto appariscente nonostante la sua bellezza, i dispiaceri erano impressi sul suo viso e nei suoi grandi occhi verdi. Ho sempre pensato che mio padre fosse un po’ il figlio prediletto, per la sua bontà d’animo, per i suoi sbagli, perché come ogni degna madre aveva per lui tanti altri rosei progetti sfumati.

[…] La devastazione arrivò con l’Asinara. Quella volta non ci giunse nessuna telefonata per avvisarci del trasferimento; ci trattarono come bestie, così mi sentii: solo all’esibizione dei documenti all’ingresso del penitenziario a Lecce ci informarono del cambiamento di detenzione. L’ennesima tragedia che dovemmo affrontare. Nonostante mia sorella e io non sapessimo all’epoca neanche cosa fosse l’Asinara, ci fu subito chiaro dal gelo che calò su nostra nonna: sembrava una statua di ghiaccio. Si immobilizzò.

Come sempre sapevamo quando chiedere e quando no, e così tacemmo, ancora una volta. Rientrati a casa, seguirono giorni inquieti, confusi, e subito iniziarono telefonate allarmate ad avvocati, amici, parenti, tutti dell’ambiente, quello che noi eravamo abituate a frequentare.

Al tentativo di capire perché l’Asinara, si aggiunsero nuove preoccupazioni: per quanto tempo? E come raggiungere l’isola? Quali restrizioni si sarebbero sommate a quelle attuali? La cupezza dei giorni, i troppi silenzi, le frasi interrotte quando noi ragazzine entravamo in una stanza portavano la nostra vita già dolente al limite della sopportazione. Infine si decisero a parlare, non ricordo più chi si fece carico di quella comunicazione delicata.

DUE LUNGHI ANNI ALL’ASINARA

Del resto non c’era molto da dire: non avremmo visto papà per un po’... Il po’ non fu definito. Il copione restò lo stesso per me e Francesca: pianti, crisi e il non voler accettare quell’ennesimo cambiamento. Era troppo per noi. Una sola visita ogni mese e al colloquio erano ammessi due adulti, famigliari di primo grado.

Per arrivarci ci volevano due giorni di viaggio. Ci fu sospesa anche la telefonata mensile alla quale avevamo abitualmente diritto. L’Asinara durò due lunghi e incessanti anni di calvario, per noi che fummo private di quell’ora di amore e per mia nonna che, a ogni rientro, nonostante tentasse di mascherare e di non farci sentire il resoconto del viaggio, tornava con cinque anni di vita in meno... Nascoste come sempre a origliare fuori dalla porta della cucina, sentivamo i pianti nei suoi racconti, lamentava di vedere il figlio trattato come una bestia, in una «divisa» da carcerato con i capelli rasati tipo animale e spesso in stato non cosciente come se fosse sedato, drogato. Il suo Gino irriconoscibile.

Di quel periodo, trattengo il fermo-immagine di lei seduta a capotavola nel pomeriggio con le lacrime agli occhi. In un secondo momento, comprendemmo anche la motivazione dell’impossibilità di vedere papà in quell’ennesimo carcere. I controlli vaginali effettuati su di lei, denudata di ogni sua veste e dignità. Quello, senza nessuna ombra di dubbio, fu il periodo più sofferto della detenzione di mio padre. […]

Inutile dire che quegli anni per noi furono secoli, non passammo mai tanto tempo senza vedere il nostro papà. Continuavamo puntualmente a scrivere lettere ogni settimana, anche se devo dire che lo facevamo mal volentieri e solo sotto espressa richiesta di mia nonna, non per un motivo preciso ma credo semplicemente per capricci infantili: perché volevamo continuare a opporci. Dopo quasi due anni, finalmente la bella notizia: papà trasferito di nuovo e portato via dall’isola dell’Asinara.

Per noi figlie cominciò la fibrillazione del tanto agognato incontro per poterlo vedere. In quell’occasione, fu presente anche nostra madre, avvenimento raro, che era scesa dal Veneto per stare con noi (in genere le sue visite non duravano mai più di quindici giorni). Eravamo stati anche fortunati, perché papà era stato portato al Bicocca, detto «l’albergo». All’epoca era una delle ultime carceri costruite a Catania e, quindi, rispetto alle altre molto datate vantava i privilegi e il decoro di una struttura nuova di zecca.

Oggi è un penitenziario «di passaggio», dove i detenuti sono trasportati solo in occasione dei processi. […] Poi, nostro padre fu nuovamente trasferito, non sono certa se subito a Lecce o prima in un’altra struttura, ma fu allontanato un’altra volta da Catania.

E il nonno esultò per le uccisioni di Falcone e Borsellino. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 07 agosto 2022

Un giorno, era il 23 maggio 1992, durante la messa in onda del telegiornale fu diffusa la notizia della strage di Capaci: Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta morirono in seguito all’esplosione di tritolo sull’autostrada. Vedemmo il nonno sussultare, dopo tanto tempo, per la prima volta. Sembrava provasse gioia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Un giorno, era il 23 maggio 1992 (nostra nonna era morta da pochi mesi), durante la messa in onda del telegiornale fu diffusa la notizia della strage di Capaci: Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta – Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani – morirono in seguito all’esplosione di tritolo sull’autostrada.

Vedemmo il nonno sussultare, dopo tanto tempo, per la prima volta. Sembrava provasse gioia; io e mia sorella ovviamente non capivamo perché fosse contento davanti a quelle orribili immagini di morte. Anche se per educazione ricevuta non sentivamo come nostra la tragedia, quelle morti si aggiungevano ad altri atti violenti che negli anni erano avvenuti nella nostra isola, nella nostra città. In quel periodo, eravamo ancora convinte che la polizia e le forze dell’ordine fossero i cattivi della situazione, le persone responsabili della lontananza di nostro padre.

In casa se ne parlava, ma noi per sapere qualcosa dovevamo origliare e per comportamento assorbito, diventato «naturale», sapevamo quando chiedere e quando tacere. Per una volta, tuttavia, davanti a quelle immagini talmente forti ed essendo sole con il nonno che gioiva dopo tanto tempo, chiedemmo il perché della «bella notizia».

Lui ci rispose che quell’uomo, Giovanni Falcone, era uno dei principali accusatori di papà e che finalmente, con la sua morte, ci sarebbero state probabilità di riavere nostro padre a casa. A quella risposta, io e mia sorella non facemmo altro che accodarci alla sua gioia, sperando più che mai che papà potesse ritornare a casa prima possibile, a maggior ragione perché dopo la scomparsa della nonna la nostra vita non era più la stessa.

Nonostante la presenza della signora Nuccia e le visite continue di zia Clementina, io e mia sorella Francesca provavamo un triste senso di abbandono, costrette spesso a fare fronte a problemi di vita quotidiana ai quali non eravamo abituate: la nonna era stata per anni il centro della nostra vita, la nostra casa.

Continuarono a passare i mesi e, nel frattempo, apprendemmo della successiva strage in cui a cadere fu Paolo Borsellino, che aveva raccolto l’eredità di Giovanni Falcone. Anche quello, da quanto percepivamo a casa, era un altro punto a favore che rendeva sempre più vicina la possibilità di un rientro a casa di papà.

Ironia della sorte, un «dispetto» della vita a mia nonna, che aveva perso la salute e la serenità a causa delle travagliate vicende penali di mio padre, iniziarono ad arrivare flebili segnali di una sua possibile libertà. In quell’anno, ottenne uno o due permessi premio di quindici giorni ciascuno per buona condotta, che portarono poi alla definitiva sospensione della pena per aver scontato undici anni dei sedici e mezzo di condanna a suo carico.

UN’AMICA DI PAPÀ

In quel periodo, dopo una delle sue visite e il rientro in galera, un tardo pomeriggio citofonò a casa nostra una donna, presentandosi come Cettina Strano, un’amica di papà. Salì a casa, con il permesso del nonno.

Un breve silenzio e poi il nonno ci lasciò insieme a lei – forse già sapeva, sempre noi eravamo le ultime – con un lieve imbarazzo che subito superò, dicendoci che, a seguito della sopraggiunta mancanza della nonna, papà era molto preoccupato per noi e le aveva espressamente chiesto di starci vicino fino al suo ritorno a casa. Io e mia sorella eravamo un po’ perplesse, tuttavia eravamo sempre preparate agli imprevisti, tanti ne avevamo vissuti di dolorosi. E Cettina ci fece subito una buona impressione.

Era diretta nel parlare ed era una bella donna «moderna» dai capelli scuri sciolti sulle spalle, con una tuta intera di jeans nera e stivaletti di pelle. Abbigliamento e modo di fare che a noi erano stati proibiti a causa dell’educazione conservatrice che da sempre vigeva nella nostra famiglia. La nonna aveva lasciato la sua impronta. E per mio padre, i jeans li indossavano solo i «figli di nessuno». Vedere quella donna così giovane e libera fu per noi una ventata di novità. Era uno spiraglio di vita diversa.

Avremmo avuto qualcuno con cui condividere le nostre idee più frivole e «trasgressive». Da quella sera, sempre verso lo stesso orario, si ripeté la visita da parte di Cettina.[...] Non ci volle molto a conquistare la nostra simpatia e fiducia; il tardo pomeriggio, quando smetteva di lavorare, la aspettavamo con trepidazione. Andammo avanti così per i mesi a seguire, fino a quando finalmente arrivò la tanto attesa e sperata notizia del rientro di mio padre. Questa volta, però, era il sogno che si avverava, non si parlava più di quindici giorni di permesso ma di un lungo periodo di permanenza.

Dopo undici anni di prigione, la porta si apre e mio padre torna a casa. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani l'08 agosto 2022

Quel pomeriggio, sicuramente uno dei più felici della nostra vita, tornò a casa papà. Francesca e io, sempre impazienti, aspettammo come consuetudine non so quante ore al balcone per vederlo arrivare, e così successe! Impossibile descrivere la gioia nel vederlo scendere dal taxi che lo accompagnò a casa.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Quel pomeriggio, sicuramente uno dei più felici della nostra vita, tornò a casa papà. Francesca e io, sempre impazienti, aspettammo come consuetudine non so quante ore al balcone per vederlo arrivare, e così successe! Impossibile descrivere la gioia nel vederlo scendere dal taxi che lo accompagnò a casa. Quando aprimmo la porta e ce lo ritrovammo davanti, libero, senza guardie accanto, fu davvero strano. Un rientro diverso da tutti gli altri.

La casa, senza la presenza della nonna e nonostante le visite giornaliere di Cettina, era diventata buia e vuota. Credo che, malgrado la gioia sua, mia e di mia sorella nel poterci riabbracciare senza barriere, quel vuoto fosse percepibile in ogni angolo della casa. Infine, dopo un paio di ore passate tra lacrime di gioia, coccole, grandi respiri di lui, quasi volesse liberarsi non solo dell’aria, e noi che sorridevamo al mondo, papà ci disse di prepararci perché dovevamo uscire. Ubbidimmo in silenzio.

Chiamò un taxi e salimmo tutti e tre, procedendo in una direzione a noi figlie ignota. Continuammo a non domandare. Incredibile come certe forme mentali diventino parte di te. Saper scegliere il silenzio, questo forse è il diktat più forte che abbiamo assorbito nella nostra famiglia, che del resto rispecchiava in pieno il modo di agire delle poche persone che frequentammo durante la latitanza e il carcere di nostro padre.

Giunti in via Torino, dove all’epoca c’era una delle più grandi concessionarie di moto, la famosa Toti Motor, io e mia sorella cominciammo a sorridere con gli occhi, non sapevamo cosa facessimo lì ma conoscendo il nostro «re» potevamo solo immaginarlo. Papà chiese al taxi di fermarsi e attendere. Noi entrammo in quella grandissima rivendita di moto. Il tempo di varcare l’ingresso e subito ci raggiunse il proprietario, che con un abbraccio affettuoso salutò mio padre. Lui, dopo averci presentato con il solito orgoglio, ci guardò e ci disse: «Scegliete i due motorini che vi piacciono di più!».

Francesca e io non riuscivamo a frenare la gioia e il proprietario, al quale era stato raccomandato di darci i motorini migliori e più sicuri di tutta la concessionaria, ci indicò gli ultimi arrivi fiammanti ancora incellofanati, due Piaggio Zip Fast Rider bellissimi, uno accanto all’altro. Quello rosso fu la mia scelta, quello nero e viola la scelta di mia sorella.

Poi ci fermammo pochi minuti in viale Vittorio Veneto, a circa un paio di chilometri da casa, dove c’era da sempre il punto di ritrovo di tutta la nostra famiglia e dove il nonno era solito andare ogni mattina e pomeriggio a passare del tempo con i suoi amici. Se non ricordo male, quella sera ordinammo una pizza a domicilio e mangiammo a tavola io, mia sorella, nonno e papà.

[...] I lunghi anni di galera ci avevano privato della naturalezza, della banalità dei gesti, dell’abitudine ai luoghi comuni che si vivono in famiglia. Per certi versi, eravamo perfetti estranei e a volte anche in soggezione. Finita la cena, mio nonno andò a dormire in camera sua, noi andammo a dormire insieme nel lettone: papà un gigante, al centro, mia sorella e io ai lati abbracciate a lui. Oggi, ripensando a quei momenti di gioia e felicità, l’amarezza si insinua nel mio animo.

Rivedo il lenzuolo che mio padre portò fino alla bocca nonostante le temperature non lo richiedessero, il dormire fermo immobile come se fosse privo di vita. Con i miei quattordici anni guardavo stranita quei comportamenti, oggi a quarant’anni li ricordo con somma tristezza e tanta consapevolezza. Pensando ai duri regimi carcerari sento un’immensa angoscia che mi ferma a tratti il respiro, e mi chiedo chissà quante volte il mio gigante buono ha patito il freddo e la paura durante le sere dei lunghi undici anni passati lì dentro. 

Una nuova moglie, una nuova famiglia e una vita “normale”. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 09 agosto 2022

Il giorno del matrimonio, nonostante discussioni e litigi, anche violenti, arrivò. Cetty e papà si sposarono in comune e tennero il ricevimento in un noto locale catanese. La principale causa di controversia era lo «stato sociale» di Cetty, che avendo origini molto umili, secondo il punto di vista della famiglia e delle Famiglie non era all’altezza di essere la moglie di Gino Ilardo.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Un giorno, come faceva di solito quando ci doveva parlare di cose importanti, nostro padre ci chiamò nella stanza da letto e, seduti tutti e tre sul lettone, fece il seguente discorso: «Amori di papà, voi state diventando signorine e arriverà il tempo che certe cose non potrete più discuterle con me. Sapete quanto ho combattuto per la mamma e quanto abbia provato in tutti i modi, soprattutto per voi, ad aiutarla e farla guarire».

Si riferiva senza nominarla alla sua dipendenza dall’alcol. «La signora Nuccia, per quanto bene vi vuole e nonostante vi abbia cresciuto in questi anni, non potrà rimanere tutta la vita con noi, anche perché ricordatevi che per crescere voi non ha cresciuto le sue figlie e quindi è doveroso da parte mia cercare di lasciarla un po’ più libera per passare del tempo con loro. Avete capito che Cetty e io ci vogliamo bene, ma la mia scelta di farla stare con voi anche quando non c’ero è stata fatta per farvela conoscere bene e capire se la volevate qui a casa... Ora io vi dico che, se non siete d’accordo, posso frequentarla anche fuori, come ho fatto fino a ora, ma se invece accettaste la sua presenza in casa, io deciderei di sposarla e così sarei più tranquillo per il vostro futuro, sapendovi accanto a una donna che, nonostante non sia vostra madre, rappresenti comunque una figura femminile con la quale voi possiate confidarvi e crescere. Prendetevi del tempo per decidere, rifletteteci... in base alla vostra scelta, io deciderò di sposarla o meno...».

Queste erano le occasioni in cui papà riusciva a toglierci anche il respiro: un gigante buono raggomitolato su sé stesso che, con occhi intrisi d’amore e con il suo italiano senza inflessione dialettale, sapeva mettere totalmente «al tappeto» due piccole ribelli. A quella domanda non ci fu esitazione, io e mia sorella con grande piacere gli dicemmo che eravamo contente e d’accordo con la sua scelta.

Cominciarono i preparativi per il matrimonio; a casa furono giorni di festa tra la scelta degli abiti e di tutto ciò che occorreva. Cetty, più che mai, era felice e orgogliosa della vita da favola che sembrava annunciarsi. A differenza del nostro stato d’animo, però, il resto della famiglia, mio nonno, i miei zii e parenti più vicini non erano d’accordo, il che creava inevitabilmente malumori e discussioni anche dai toni accesi con mio padre. […] La principale causa di controversia era lo «stato sociale» di Cetty, che avendo origini molto umili (i suoi genitori erano semplici «lavoratori»), secondo il punto di vista della famiglia e delle Famiglie non era all’altezza di essere la moglie di Gino Ilardo.

Era innegabile che la sua estrazione sociale fosse molto diversa dalla nostra. Noi seguivamo una disciplina, avevamo un contegno e un modo di pensare austero che sicuramente era ben diverso da quello di Cettina. Lei era del tutto estranea alle dinamiche tipiche delle antiche famiglie mafiose. Era una donna piena di energia, libera nel pensiero e nell’agire. Gli stessi atteggiamenti che a me e mia sorella divertivano e ci facevano intravedere un’esistenza da donna libera erano i motivi di non approvazione delle nozze da parte dei maschi importanti gerarchicamente nella Famiglia, che condividevano in pieno il giudizio del nonno. Impossibile negare che in tutte le occasioni famigliari Cetty si comportasse in maniera ben diversa dalle altre femmine, che ossequiose sapevano stare silenziosamente sempre un passo e una parola indietro rispetto agli uomini.

E MATRIMINIO FU!

[…] Il giorno del matrimonio, nonostante discussioni e litigi, anche violenti, arrivò. Cetty e papà si sposarono in comune e tennero il ricevimento in un noto locale catanese. La sposa indossava un abito semplice di seta, a tubino sopra il ginocchio e di color cipria con intarsi di argento, ai piedi un paio di sandali argentati impreziositi da pietre dure; i suoi capelli scuri lunghi e mossi erano raccolti in un’acconciatura arricchita da strass.

Aveva pochi e discreti brillanti al collo e alle orecchie. Il «re», maestoso e imponente come sempre, indossava un abito color grigio perla con camicia azzurro mare e cravatta di seta abbinata; al suo polso un preziosissimo Rolex Daytona in oro giallo. Papà aveva una grande passione per gli orologi importanti, ne possedeva con immenso vanto una sua personale collezione. […] Da lì a pochi giorni, durante la cena, arrivò una delle notizie più belle che potessimo mai sentire: con qualche sorriso complice, lei e papà ci annunciarono che Cetty era incinta! Avremmo avuto un altro fratello in casa, un nuovo pulcino da ricoprire di amore e coccole, una piccola vita che ci avrebbe unito ancora di più e che avrebbe fatto da collante tra me, mia sorella e Iury.

Quell’annuncio consacrava più che mai una famiglia formata e fortemente desiderata, era l’inizio di un cambiamento che prendeva forza e forma. Tutto per la prima volta, in particolar modo nella vita mia e di Francesca, stava diventando «normale». Un padre e una «madre», dei fratelli dentro casa, come nella maggior parte delle famiglie. 

Un battesimo in grande stile per i due figli maschi. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 10 agosto 2022

Per gli «uomini d’onore» e soprattutto per mio padre e la sua innata mania di grandezza e magnificenza di cui era fiero, nulla al mondo era troppo per festeggiare la gioia e l’orgoglio nell’annunciare al mondo e alla società i suoi nuovi due eredi maschi. Decise di farli battezzare nella chiesa madre di Giardini Naxos.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Papà, intanto, mandava avanti anche la sua vita oscura a tutti noi. Iniziavo a vedere un uomo nuovo, felice come non mai, ma dietro quell’apparente felicità, mentre continuava a ottemperare a tutte le necessità di ogni membro della famiglia, trasparivano forte preoccupazione e stanchezza, fisica e morale. Fu proprio in quei mesi, ormai eravamo giunti all’ottobre del 1995, che mi capitò più volte di vederlo disteso sul letto in silenzio, con gli occhi persi nel vuoto. Alla mia preoccupata e retorica domanda, le solite risposte: «Amore, ho un po’ di mal di testa, amore sono stanco...».

[…] Passarono i giorni e, come sempre, il suo amore incondizionato superò la collera nei nostri confronti. Era un papà sospettoso che non aveva altra scelta se non il perdono e una rinnovata fiducia. Con il sabato arrivò la sua solita preghiera verso me e Francesca di andare a trascorrere il weekend a Lentini con lui, Cetty e i bambini, come ormai era loro consuetudine.

Richiesta puntualmente rifiutata. Io e mia sorella passavamo la settimana aspettando proprio la loro partenza per cominciare i festeggiamenti e le uscite, senza nessun controllo e alcuna supervisione da parte loro, nessun limite di orario, nonostante promettessimo falsamente massima diligenza e buon senso. Mio nonno aveva uno scarso udito, era diventato sempre più vecchio e intollerante agli spostamenti e rimaneva con noi a Catania, perché preferiva dormire nel suo letto e non lasciare le sue abitudini e comodità. 

Il permesso di restare, nonostante ci fosse accordato davvero malvolentieri, era ricambiato con la promessa da parte nostra di raggiungerli la domenica mattina. Intorno a mezzogiorno, la solita auto con autista e guardia del corpo ci avrebbe prelevato da Catania per portarci da papà e riaccompagnarci, quasi subito dopo pranzo, nuovamente a casa. Si procedeva con l’organizzazione del battesimo dei gemelli, inutile dire che il ricevimento per un matrimonio avrebbe comportato meno preparativi e spese.

Per gli «uomini d’onore» e soprattutto per mio padre e la sua innata mania di grandezza e magnificenza di cui era fiero, nulla al mondo era troppo per festeggiare la gioia e l’orgoglio nell’annunciare al mondo e alla società i suoi nuovi due eredi maschi. Decise di farli battezzare nella chiesa madre di Giardini Naxos. Non mi fu mai chiara la scelta di quel luogo, ma conoscendolo bene ho certezza che anche quella non fu una decisione presa a caso.

Noi, bardati come i santi patroni delle più grandi processioni paesane, arrivammo con tre macchine davanti alla chiesa: in una c’eravamo tutti noi, le altre due di scorta con i suoi uomini e con i bauli pieni di bomboniere, passeggini e tutto il necessario per affrontare la lunga giornata fuori. Scendemmo davanti alla chiesa e, lasciando la nostra macchina a uno dei «suoi» per andarla a posteggiare, avemmo il tempo di sollevare il capo e renderci conto di una folla colorata e assortita che ci stava attendendo.

Una marea di persone tirate a lustro nei loro eleganti abiti che stava aspettando solo noi, una silenziosa gara al vestito più lussuoso e agli ori e diamanti più costosi era in corso per determinare l’importanza e il prestigio di ogni partecipante. In Sicilia, in genere, ma soprattutto nelle famiglie mafiose, è fondamentale affermare il proprio potere all’interno dell’organizzazione durante le occasioni in cui tutti insieme ci si riunisce, con la partecipazione di mogli e figli che devono essere sfoggiati come i più preziosi trofei a conferma del proprio prestigio.

[…] Finita la sfiancante ma felice e serena giornata, gli uomini di papà lasciarono gli angoli della sala e iniziarono, sotto indicazione di Cetty, nostra e di papà, a raccogliere tutto quello che indicavamo e a riempire le nostre macchine per tornare a casa. Pensando oggi a loro, li ricordo con affetto: per tutto il tempo che rimasero nella nostra vita, sono stati i nostri factotum, babysitter, compagni di gioco, autisti.

Accettavano ogni tipo di richiesta, dalla spesa all’accompagnarci in ogni dove; solitamente erano sempre gli stessi tre o quattro a esserci accanto, gli altri stavano per lo più a Lentini. Io e mia sorella, forse anche per l’età, non ci siamo mai poste tante domande al riguardo, per noi quella era la normalità; solo crescendo e con la maturità e la rielaborazione dei ricordi abbiamo capito che in quelle abitudini tanto scontate per noi di «normale» c’era davvero ben poco. 

DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

Un furto, l’inizio della fine con la sfida lanciata all’uomo d’onore. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" Il Domani l'11 agosto 2022

Quel furto, a mio padre fu subito chiaro, era molto di più di un «attacco» economico, era la sfida lanciata da qualcuno che non aveva timore e aveva osato, appunto, sfidare Luigi Ilardo e tutta la sua potente famiglia in un duello di sangue e morte, perché altra fine non poteva esistere per un affronto del genere compiuto ai danni di un «uomo d’onore» del suo calibro

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Eravamo nella primavera del 1996. Una sera di fine marzo che invitava a uscire, Francesca e io ci preparammo con tanta voglia di divertirci. Raggiungemmo la nostra comitiva e, in stile carovana, ci recammo tutti al Taitù, nota discoteca di Taormina, tanto in voga in quel periodo, dove si ballava musica house e ogni fine settimana si alternavano dj famosi. La serata trascorse come quelle di sempre tra divertimenti, alcol e risate.

L’ultima tappa fissa prima del rientro verso Catania era il piccolo bar vicino al locale per mangiare i cornetti appena sfornati. Intorno alle sei e trenta del mattino, con un’altra macchina e alcuni amici, mia sorella era rincasata, prima di me; una mezz’ora dopo, anche io ero riuscita a eludere la sorveglianza di mio nonno rientrando in casa senza far rumore né svegliarlo. La prima tappa fu la camera di mia sorella, che trovai stranamente chiusa a chiave; bussai e le chiesi il motivo, la sua risposta fu: «Ho trovato la porta della stanza di papà aperta, c’è un impermeabile beige e la macchinetta della pressione sul letto, manca una federa del cuscino e sono terrorizzata che qualcuno sia in casa... aspettavo te...».

Accendemmo tutte le luci della casa, tornammo insieme nella stanza da letto di papà, tutto era come Francesca mi aveva descritto. In preda al panico ma senza altra scelta, Francesca e io iniziammo un giro di perlustrazione, controllammo la porta di ferro del garage – che era stata sempre negli anni oggetto di preoccupazione – correttamente chiusa con i suoi chiavistelli, le altre sei camere anch’esse regolarmente con le porte chiuse e senza nulla fuori posto.

Nella stanza di papà la chiave della cassaforte era nella sua solita piccola ciotola di argento; per maggiore sicurezza e con il cuore in gola, guardammo anche sotto ogni singolo letto, senza trovare nulla oltre alla nostra paura. Dentro di noi sapevamo che qualcosa non andava, che nonno mai si sarebbe alzato dal letto entrando nella stanza di papà, toccando o prendendo la federa del cuscino (papà, Cettina e i bambini erano a dormire in campagna).

Dopo qualche minuto di confronto, arrivammo alla decisione di non allertare o chiamare nessuno, sarebbe stato controproducente per noi: avremmo rischiato di far scoprire l’assurdo orario in cui eravamo rincasate e le nostre facce, stanche e un po’ brille dopo lunghe ore di discoteca, sarebbero state le prove della notte brava appena trascorsa. Magari avremmo creato ansia e agitazione a Lentini, facendo rientrare papà senza una reale e giusta causa. Decidemmo di comune accordo di non dare troppo peso all’accaduto e andare a letto come se nulla fosse.

Quella domenica riuscimmo a sottrarci al pranzo lentinese, accampando la scusa dei compiti da svolgere, ma in realtà passammo parte della giornata a dormire per recuperare le ore di sonno perse. Nel pomeriggio ci preparammo e uscimmo per riunirci con la solita comitiva. Intorno alle diciotto e trenta, suonò il cellulare di mia sorella: era Cetty che con un tono insolitamente duro, appena rientrata a casa con papà e i bambini, le chiedeva se fosse scappata da casa con il fidanzato e le intimava di fare immediatamente rientro, perché papà era fuori di sé.

LO SCONTRO CON IL PADRE

Sapevamo bene che quella telefonata e quel tono presagivano seri guai. Arrivai a casa dopo Francesca e fui accolta da papà in corridoio con uno schiaffone che mi girò letteralmente la testa (mio padre solo due volte ci mise le mani addosso); non realizzavo cosa stesse accadendo, corsi verso il salotto da dove giungevano dei singhiozzi: era mia sorella che piangeva, rossa in volto e tumefatta, Cettina era in uno stato di agitazione irrefrenabile.

Mio padre ci raggiunse alterato, lo sguardo violento come mai lo avevo visto prima di quel giorno. Si stava per gettare ancora su di noi. Due dei suoi uomini a fatica tentavano di tenerlo fermo mettendosi davanti a lui e impedendogli di scagliarsi di nuovo contro me e Francesca. Dalla sua bocca uscivano parole impronunciabili, rivolte a noi, mai sentite prima [...]. Il silenzio e lo sgomento si impadronirono di me. Non potevo credere a ciò che avevo sentito, caddi in uno stato confusionale che mi fermò il respiro, i pensieri e il cuore.

I minuti successivi furono i più lunghi della mia vita, mai e poi mai vidi mio padre in quello stato quasi demoniaco, agitato, pieno di rabbia. Fu chiaro a tutti che quell’evento avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. Non sapeva più cosa fare, chi chiamare, girava freneticamente per tutta la casa. Nell’ora successiva giunsero altre persone, i suoi uomini, che insieme a lui continuavano a fare sali e scendi da casa, entra ed esci dalla stanza da letto fino a quando non si sentì l’ultima chiusura definitiva della porta di ingresso. Ci raccogliemmo, Cettina, io e mia sorella, nella nostra stanza.

Cetty era sconvolta ed evidentemente sotto choc per la ferocia che per la prima volta vide in mio padre, per giunta una ferocia rivolta verso noi figlie. Infine, mentre cercava di calmarsi, ci spiegò che vedendo la stanza da letto come noi l’avevamo vista (lei non lo sapeva), papà, sospettoso, aveva aperto la cassaforte regolarmente chiusa, trovandola però del tutto vuota.

[…] Quel furto, a mio padre fu subito chiaro, era molto di più di un «attacco» economico, era la sfida lanciata da qualcuno che non aveva timore e aveva osato, appunto, sfidare Luigi Ilardo e tutta la sua potente famiglia in un duello di sangue e morte, perché altra fine non poteva esistere per un affronto del genere compiuto ai danni di un «uomo d’onore» del suo calibro. Quel giorno cambiò le nostre vite e noi ragazze non sapevamo che il peggio doveva ancora arrivare. Si fece sera tardi, a stento riuscivamo a proferire parola l’uno con l’altro, solo un po’ di fiato per farci delle domande ed esporre le riflessioni sull’accaduto

 Papà, sempre stravolto ed estenuato, rientrò a casa. Chiuse me e mia sorella in camera e cominciò un interrogatorio severo su luoghi di frequentazione, amicizie, orari di quella sera. Domande e ancora domande... scandagliando con scrupolo per ore la nostra vita e ogni dettaglio che potesse tornare utile. Non ebbe il coraggio di scusarsi per la violenza con cui colpì me e, soprattutto, mia sorella; erano come sempre i suoi occhi a parlare.

Sguardi di rabbia, altri di pentimento e commiserazione... penso verso sé stesso. Chiese a mia sorella di fargli vedere dove l’avesse colpita e, simili a rocce sgretolate, qualche lacrima rigò il suo viso e il nostro. Le ultime parole indelebili, le cito testualmente, furono: «Qualcuno si è permesso di entrare nella mia chiesa e rubare il mio oro...».

Tutto cambia e nulla cambia. Così papà ci disse che tornava in galera. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 12 agosto 2022

Il silenzio assordante della stanza era infranto dai nostri singhiozzi di figlie disperate. La nostra vita stava cambiando ancora una volta... la nostra vita stava peggiorando di nuovo. I mesi sereni che avevamo vissuto erano già un lontano ricordo, tutto nuovamente sfumato, tutto durato troppo poco, ancora una volta ci sentivamo rubare l’unica felicità vera che avessimo mai assaporato.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Sempre più spesso lo trovavo sdraiato sul suo letto, assorto e assente, a fissare il soffitto. Io restavo sul ciglio della porta con la solita triste domanda: «Papà, che hai?». Lui dava la solita secca risposta con un filo di voce: «Sono stanco».

Ancora oggi è la frase che mi risuona nella mente più di ogni altra. Già allora percepivo quanto ci fosse dietro quelle due sole parole; oggi che conosco tutta la verità della doppia vita che conduceva, hanno una valenza e un peso per me insopportabile e devastante. Una mattina di inizio maggio, entrò nella mia camera, si sedette sul mio letto baciandomi la fronte e mi svegliò. Era bello come il sole, bellissimo... aveva indosso il suo abito del matrimonio con Cetty.

«Amore di papà, sto partendo...» Quello sguardo di amore intenso era da tanto che non lo vedevo puntato su di me; non sapevo nulla di quella partenza e in un secondo mille pensieri affollarono la mia testa. Quel vestito, una partenza non comunicata... sollevandomi dal letto, la prima domanda preoccupata fu: «Quando torni?». La sua risposta: «Vado a Roma, torno presto...». Mi aggrappai con tutta la forza al suo corpo, lo baciai, ero piena di amore per lui, come in passato: nonostante la sua severità, i suoi sguardi duri – soprattutto degli ultimi mesi – era sempre il mio gigante buono, era il mio respiro, il mio cuore, era l’uomo che insieme ai miei fratelli amavo di più al mondo. Era mio padre.

Quella partenza per noi improvvisa, quel saluto così amorevole erano stati fonte di grande apprensione, ma il rivederlo a casa appena dopo un giorno ci rasserenò l’animo. Mi chiamò nella camera di mia sorella, ci sedemmo tutti e tre sul letto. Era evidente che non ci fosse in lui nessuna volontà di rimprovero, ma quelle riunioni a tre annunciavano sempre comunicazioni importanti. Baciandoci entrambe con infinito amore ci strinse a lui e cominciò il suo discorso.

Sono passati venticinque anni ma riesco perfettamente a risentire il suono della sua voce e delle parole che stava pronunciando. «Amori di papà, vi devo dire una cosa... papà deve rientrare in galera, non per molto ma deve farlo... Voi state serene per favore, non potete più permettervi di comportarvi male, rimarrete a casa con Cettina, i bambini, la signora Nuccia e il nonno. Ormai siete grandi e io ho la necessità, per affrontare questa cosa, di sapervi serene e tranquille, non posso avere il pensiero di voi che vi comportate male e fate arrabbiare Cettina, lo dovete fare per me!».

Quella notizia era la più brutta che potessimo ascoltare, il mondo di nuovo crollato sulle nostre spalle, l’ennesimo distacco, allontanamento, abbandono che mai avremmo voluto vivere. Tra le lacrime, con la voce rotta dal pianto, la mia prima domanda fu: «E ora come faremo a venire da te? Cetty ha sempre detto che non verrà mai a fare un colloquio in carcere... noi vogliamo vederti». Papà, con gli occhi lucidi e un nodo in gola che cercava di superare per darci coraggio, rispose di stare serene, che ci avrebbe pensato lui e che noi saremmo andate a trovarlo regolarmente come in passato.

Il silenzio assordante della stanza era infranto dai nostri singhiozzi di figlie disperate. La nostra vita stava cambiando ancora una volta... la nostra vita stava peggiorando di nuovo. I mesi sereni che avevamo vissuto erano già un lontano ricordo, tutto nuovamente sfumato, tutto durato troppo poco, ancora una volta ci sentivamo rubare l’unica felicità vera che avessimo mai assaporato.

Da quell’esatto momento, i nostri umori già provati dalle avversità subite nelle precedenti settimane ebbero un tracollo finale. A casa non si parlava più, non si sorrideva più, non si viveva più.

INCUBI

La notte di quella stessa sera, io ebbi un incubo. Sognai di trovarmi a casa quando il citofono aveva suonato e a rispondere al mio «Chi è?» era stata la voce di Francesca, che mi chiedeva di papà perché si era messa in un altro pasticcio.

Insieme a lei c’era una volante della polizia, un carabiniere chiedeva di conferire con papà perché mia sorella era stata fermata e «beccata» a guidare una motocicletta senza avere il patentino, dunque la polizia doveva verbalizzare e contestare l’accaduto a un genitore. Avevo risposto che papà non era in casa ed era sceso da Bonaffini, il piccolo negozio di generi alimentari a lato del nostro palazzo, dove da una vita facevamo la spesa.

Ero andata ad avvisarlo di quanto stava accadendo e della necessità della sua presenza. Arrivata all’interno della piccola bottega, avevo chiesto immediatamente al proprietario dove fosse papà e lui, con aria triste, mi aveva fatto cenno verso il retrobottega; avevo superato la cassa e trovato papà in lacrime.

Mai avevo visto la mia «roccia», il mio gigante buono piangere in quel modo. Mi ero gettata tra le sue braccia e confusamente gli chiedevo di dirmi cosa stesse succedendo, perché piangeva. Lui, continuando a singhiozzare, mi aveva detto che c’erano due persone all’angolo opposto della bottega, che io non avevo notato, e volevano ucciderlo. […].

DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

L’agguato e la raffica di spari, nostro padre era a terra morto. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 13 agosto 2022

Passarono forse un paio di minuti, quando la quiete di quella sera del 10 maggio 1996 fu lacerata da un assordante rumore. Fino ad allora, non avevo ancora mai udito una raffica di spari. Non sapevo cosa stesse accadendo, ma ebbi subito la certezza che quel maledetto rumore avesse a che fare con lui. Iniziammo tutte e tre a gridare come pazze.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Nel pomeriggio, Cetty mi disse che quella sera lei e papà avevano deciso di passare un po’ di tempo da soli, non accadeva dalla nascita dei gemelli, cioè esattamente da nove mesi. Avevano deciso di andare a mangiare una pizza e avrebbero lasciato in custodia a me e mia sorella, per la prima volta, i gemelli e Iury. Nonostante fosse venerdì sera, giornata di nostra spettanza per uscire, a ridosso del clima di sofferenza e tensione che si respirava a casa per noi fu doveroso concedere loro quel momento di intimità che avevano perso da tempo. Intorno alle diciannove e trenta iniziarono i preparativi, Cettina ci aveva dato tutte le indicazioni per svolgere al meglio il nostro «incarico».

Sarebbero stati una cena e un rientro veloce per l’apprensione della responsabilità assegnataci, ma noi eravamo ben soddisfatte di godere quel momento da brave sorelle maggiori. Cetty tentò di addormentare Giuliano, mentre io portai Giancarlo, un po’ indisposto, nel salone poco illuminato cantandogli una ninna nanna per cullarlo. Addormentato Giuliano, Cetty venne con fare nervoso a togliermi Giancarlo dalle braccia per occuparsene lei; non mi piacque il suo comportamento, ma feci finta di nulla. Addormentato il gemello, andò in doccia e cominciò a truccarsi con un telo addosso. Erano le venti e quindici circa quando squillò il telefono, Francesca rispose e mi chiamò per passarmi papà.

La sua voce affettuosa mi disse ciò che poco prima aveva raccomandato a mia sorella: «Amore di papà, non vi arrabbiate se stasera non potrete uscire, ma Cetty e io abbiamo necessità di avere un momento per noi... Vi prego, fate le brave e prendetevi cura dei gemelli e di Iury nel miglior modo possibile, noi mangiamo una pizza veloce e torniamo subito a casa... fatelo per papà!». Io gli risposi tranquillizzandolo, anzi aggiunsi che eravamo contente per una volta di comportarci da sorelle maggiori. Ignara di quello che si sarebbe consumato da lì a trenta minuti.

Quella fu l’ultima volta che sentii la voce dell’uomo che più ho amato nella mia vita. Mi trovavo in bagno con mia sorella a scherzare sul trucco che Cettina aveva utilizzato, spesso la prendevamo in giro per la quantità che ne consumava e lei, mandandoci a quel paese, scherzava a sua volta, giustificandosi. 

10 MAGGIO 1996

Sentimmo la saracinesca automatica del garage, collocato sotto il bagno in cui eravamo, il segnale che papà era arrivato e che, come da abitudine, stava scaricando qualcosa al suo interno prima di far scendere Cetty e uscire. Passarono forse un paio di minuti, quando la quiete di quella sera del 10 maggio 1996 fu lacerata da un assordante rumore.

Fino ad allora, non avevo ancora mai udito una raffica di spari. Non sapevo cosa stesse accadendo, ma ebbi subito la certezza che quel maledetto rumore avesse a che fare con lui. Iniziammo tutte e tre a gridare come pazze. «Papà! Gino!» In una frazione di secondo corsi come il vento verso la porta di casa seguendo Cettina in reggipetto e sottana. La scena che mi si presentò davanti fu la più brutta, inaspettata, atroce che mai vidi nella mia vita. Mio padre riverso a terra in una pozza di sangue, crivellato di colpi. Credo che al mondo non possano esistere parole degne per tentare di descrivere quello che il mio cuore provò e i miei occhi videro. Mi buttai a terra accanto a Cettina, che era distesa vicino al suo uomo.

Giunse anche Francesca. Cercai di sollevare la testa di mio padre, cercai di fare qualcosa... ma cosa?! Era ancora caldo, forse era ancora vivo... il suo sangue era addosso a me... a Cettina... a Francesca, china anche lei. Eravamo tre donne straziate. Le lacrime e la nostra disperazione mi facevano urlare come la peggiore delle pazze.

Ripetevo: «Ti prego... non andare... non ci lasciare... Rispondimi... ti prego... ti supplico, parlami... Parlaci!». Mai più udii una sua parola, mai sentii risposta a quella supplica che avrebbe straziato il cuore a qualsiasi essere umano e resuscitato qualsiasi morto. Mai più udii la sua voce. Rimasi in quella posizione, ferma, paralizzata, nessun muscolo riuscì a compiere più alcun movimento. L’incubo più brutto della mia esistenza aveva preso vita. Non so quantificare il tempo, ma iniziarono ad arrivare decine di persone, auto della polizia, carabinieri, folla incuriosita... i miei occhi vedevano, la mia mente era assente, incapace di realizzare ed elaborare qualsiasi pensiero.

Alcuni cercarono di scostarci da lui, di allontanarci. Ricordo un momento in cui riuscirono ad alzarmi da terra nonostante scalciassi come il più imbizzarrito dei cavalli, picchiando chiunque si avvicinasse a me, aggredendo qualsiasi persona tentasse di toccare mio padre e, soprattutto, di separarci. Mia sorella buttata per terra, piangendo, ripeteva come un automa: «È morto? È morto? Ti prego, dimmi che non è morto... che è vivo!». «Amore mio, papà è morto... hanno ucciso nostro padre, papà non c’è più... Ci ha lasciate.» La accompagnai dentro casa. Cettina, non ricordo più dove fosse, era di certo distrutta dal dolore: avevano ammazzato il suo amore, il padre dei suoi figli. […]. 

DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

LA SERIE SU LUIGI ILARDO. Dai giornali abbiamo saputo che nostro padre era un boss di Cosa Nostra. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 14 agosto 2022

Pensavamo che con la morte di papà fosse finito tutto e, invece, fu solo l’inizio di un altro calvario parallelo alla sua vita, per noi ma soprattutto per me. Al pomeriggio del funerale ci fu la tumulazione. Dai giornali appresi finalmente parte della verità. Parlavano del potente boss Luigi Ilardo

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano. 

Pensavamo che con la morte di papà fosse finito tutto e, invece, fu solo l’inizio di un altro calvario parallelo alla sua vita, per noi ma soprattutto per me, che oggi, nonostante siano trascorsi da allora venticinque anni, combatto cercando di rendergli giustizia. Al pomeriggio del funerale ci fu la tumulazione. Dai giornali appresi finalmente parte della verità.

Avevo sempre intuito, e poi toccato con mano, che eravamo una famiglia sui generis, ma solo la carta stampata mi diede la spiegazione completa di ciò che eravamo e ciò che era soprattutto lui. Parlavano del potente boss Luigi Ilardo, della parentela con la altrettanto potente famiglia mafiosa Madonia, scrivevano che era stato ucciso sotto casa da clan rivali per l’egemonia sui territori nisseni e dell’ennese, che era bramoso di potere, di conquista e per questo fu fermato. Per certi versi fu una sorpresa per me, perché nonostante la familiarità con ciò che leggevo non avevo mai avuto completo e chiaro il quadro della situazione e dei suoi affari, segreti, all’infuori della gestione della campagna e della nostra famiglia. Parlavano di estorsioni, appalti, interessi della mafia sulla gestione di opere pubbliche.

[…] Nel frattempo iniziavamo a vedere la famiglia di Cettina sempre più presente in casa, vedevamo fare scatoloni, impacchettare, portarli giù in garage; lei non ebbe mai il coraggio di dirci che aveva deciso di tornare a casa di sua madre.

[…] Con il tempo riprendemmo a uscire e frequentare le discoteche. Fu durante una serata che conoscemmo Michele, un ragazzo un po’ più grande di noi che, impietosito dalle nostre precarie condizioni, decise di aiutarci. Divenimmo grandi amici in poco tempo e, siccome era in cerca di casa anche lui, affittò un appartamento più grande dove ospitarci a sue spese. […] Fummo costrette a rientrare a casa. Riaprendo la porta di via Quintino Sella, quella leggerezza, quel distacco dai ricordi belli ma soprattutto brutti, il dolore, le lacrime e la terribile scena nel garage riaffiorarono alla mente. Il silenzio era padrone, niente più girelli e risate, niente primi passi dei miei fratelli, niente più rumori di giochi, nessun telefono squillava e nessun citofono suonava.

Non c’era più nulla che ricordasse la presenza dei gemelli, di Iury, della famiglia felice che eravamo stati, anche se per pochi mesi, in un tempo non lontanissimo. Nessuna voce in quell’appartamento buio; il nonno, rimasto solo, non si preoccupava neanche più di sollevare le serrande per far entrare luce e aria pulita in casa. Si era completamente lasciato andare, era «morto» insieme a suo figlio. Lo trovammo seduto a capo di una tavola vuota, provato, depresso, tanto invecchiato; per un «uomo d’onore» come lui la nostra fuga era imperdonabile, ma appena ci guardò, già dai primi momenti, trasparì che anche lui era profondamente cambiato, aveva perso tutta la sua potenza, la sua voglia di comandare e dettare legge.

Da leone capobranco si era ridotto a un uccellino indifeso. Uscimmo, incredule, e decidemmo di continuare il pellegrinaggio nella vecchia casa amata andando nella stanza di papà, dove scegliemmo di trasferirci per vivere e dormire. Quello era il posto in cui era più vivo il suo ricordo, nonostante una parte di noi volesse solo dimenticare per continuare a sopravvivere e, un giorno, a vivere ancora. Aprimmo il suo armadio... ogni cosa era al suo posto, ordinata come sempre in modo ossessivo. Al solo spalancare l’anta fummo avvolte dal suo odore, prendemmo qualche maglione e vi affondammo il viso, chiedendo a Dio il perché di quella grande penitenza inflitta a due ragazze innocenti e colpevoli solo di essere nate, senza nessuna richiesta, da una famiglia maledetta. Dovevamo stare lì almeno fino al compimento dei miei diciotto anni. 

Con il nostro rientro a casa, riprendemmo i contatti con gli uomini di mio padre. Avevano le chiavi della campagna di Lentini, avevano non so come – me lo chiedo soprattutto oggi sapendo come funzionano la legge, le normative sui passaggi di proprietà e le assicurazioni – l’utilizzo di qualche sua macchina rimasta. Ritornavamo spesso a Lentini accompagnate da loro; quella splendida, ricca e rigogliosa proprietà, piena di animali, uomini, mezzi pesanti, auto e qualsiasi bene, aveva perso ogni vita. Solo le strutture e gli edifici testimoniavano ancora la sua esistenza.

Durante la nostra permanenza là eravamo spesso raggiunte da visite di amici e uomini di papà che, nonostante la differenza di età, con antica devozione e rispetto conferivano con noi come se fossimo due donne adulte. Parlavamo dell’accaduto, di quello che era stato detto, di quello che era stato fatto, del ruolo di papà, di chi altro era caduto ammazzato, di chi era scappato e di chi ancora era finito in galera. Si impegnarono di farsi carico del nostro futuro, affinché non ci mancasse nulla. Si discuteva di alcuni beni materiali che avrebbero venduto a Lentini – camion, bobcat, scavatori – per dare il ricavato a noi e soddisfare le nostre esigenze. Eravamo sempre due ragazze della mafia, senza averlo chiesto.

DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

E zia Clementina ci disse: «Papà voleva collaborare con la giustizia». DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" Il Domani il 15 agosto 2022

Ci furono momenti, soprattutto all’inizio, in cui forse odiai mio padre; poi leggendo le sue dichiarazioni di «apertura» al dialogo davanti al colonnello Michele Riccio compresi che la sua coraggiosa scelta fu l’ennesimo atto di immenso amore nei nostri confronti. Aveva deciso di rischiare di pagare anche con la sua vita la nostra libertà, il nostro futuro.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Nella nuova abitazione cambiammo vita, per andare avanti. Ci riconciliammo con Cetty dopo il suo ritorno nella casa della madre, avevamo bisogno di vedere, respirare aria di famiglia, crescere per quanto possibile i nostri piccoli fratelli, i gemelli e Iury. La prima volta che li rivedemmo fu motivo di gioia, anche se dopo tanto tempo i gemelli non ci riconobbero. Avremmo recuperato gli anni persi. Lavoravo in un supermercato, avevo due giorni liberi e chiesi a Cettina di poter tenere per quei giorni i gemelli con me e Francesca: erano i nostri fratelli e tali sarebbero rimasti.

Avevo vent’anni ma mi sentivo molto più grande della mia età, avevo vissuto tante vite. Oltre ai nostri fratelli, gli unici rapporti con la famiglia Ilardo che mantenemmo furono con zia Clementina e il nonno, che rimase il nostro secondo papà pur nella sua vecchiaia e nelle nostre distanze. Erano passati quasi quattro anni dalla morte di papà quando un giorno, parlando con mia zia, si aprì l’ennesimo capitolo di una storia senza fine. Lei mi disse che papà non era stato ucciso per i motivi conosciuti e dei quali in famiglia si parlò, ma che aveva perso la vita perché aveva deciso di collaborare con la giustizia.

Da quell’affermazione nacque quasi una discussione che rischiò di degenerare... cominciai a manifestare tutte le ragioni per screditare quella notizia, cui mi era impossibile credere. Continuavo a ripetere che un uomo non fa undici anni di galera per decidere una cosa del genere a fine pena, che se così fosse stato saremmo entrati in un programma di protezione, che ci saremmo accorte di qualcosa di strano.

E nostro padre mai avrebbe continuato a condurre i suoi affari circondato da uomini e da gente oltre ogni ragionevole dubbio di stampo e calibro mafioso, che per una scelta di quel tipo non avrebbe mai messo a repentaglio la nostra vita e soprattutto quella così innocente dei bambini appena nati. Non volevo sentire altro e così, per restare in buoni rapporti, non ne parlammo più. Solo dopo qualche mese, leggendo i giornali, la terribile verità di zia Clementina fu confermata. Iniziai ad analizzare ogni notizia, ogni articolo, buttai per aria quel puzzle ricostruito a fatica con anni di sofferenza e riprovai, senza ordine, a ricomporlo. La bomba era esplosa e non potei che rassegnarmi a quella terribile verità.

Da quel giorno, agli occhi di un’intera nazione non ero più solo la figlia di un potente boss mafioso, ma anche di un «informatore», di un «pentito». Il travaglio interiore e le tante domande innescate da quella verità furono senza precedenti. Credevo di aver seppellito lui e la memoria del suo operare, e invece dovevo rimodulare nuovamente la mia vita, i miei pensieri, la mia rabbia, i miei dubbi, la mia immagine agli occhi della società. 

LA COLLABORAZIONE CON IL COLONNELLO RICCIO

[…] Ci furono momenti, soprattutto all’inizio, in cui forse odiai mio padre; poi leggendo le sue dichiarazioni di «apertura» al dialogo davanti al colonnello Michele Riccio compresi che la sua coraggiosa scelta fu l’ennesimo atto di immenso amore nei nostri confronti. Aveva deciso di rischiare di pagare anche con la sua vita la nostra libertà, il nostro futuro.

Mi chiamo Ilardo Luigi, sono nato a Catania il 13.3.51. Attualmente ricopro l’incarico di vicerappresentante provinciale di Caltanissetta, coprendo anche l’incarico di provinciale in quanto il provinciale Vaccaro Domenico, attualmente si trova detenuto. Ho deciso formalmente di collaborare con la giustizia dopo essermi reso conto di quello che effettivamente ho perduto durante questi anni passati lontano dai miei famigliari e dai miei figli, nella speranza che il mio esempio possa essere di monito e d’aiuto ai ragazzi che, come me, si sentono di raggiungere l’apice della loro vita entrando in determinate organizzazioni. Come fu allora per me, che sono arrivato a prendere il mondo nelle mani il giorno in cui fui fatto «uomo d’onore». [...] Spero che la mia collaborazione dia atto di quanto tutto ciò che fanno apparire è falso, e poi di vero non c’è niente se non tutte quelle scelleratezze che, purtroppo, alcune persone si sono macchiate, facendo cadere nel nulla tutto quello di buono che c’era in questa organizzazione.

Cosa nostra oggi è diventata una macchina solamente di morte, di tragedie e di tante menzogne. Oggi, dopo tutto quello che abbiamo assistito, dato tutti i delitti così orrendi e atroci che si sono macchiati certe persone che sono state e sono ai vertici di questa organizzazione, facendo ricadere la colpa su tutti gli affiliati, perché ormai gli affiliati di Cosa nostra, portano dentro il marchio di essere stati tutti dei sanguinari e delle persone che non vedono nulla al di fuori che il delitto [...] L’unica cosa che mi ha spinto è stata effettivamente la ricerca della normalità della mia vita; della mia vita e di quella dei miei figli, perché sono stati i loro sacrifici, i loro disagi e i loro dolori, in special modo l’ultimo periodo della mia carcerazione in strutture speciali, a farmi capire i veri valori della vita, che io non ho mai trascurato perché amo profondamente i miei figli [...] [...] Ho capito che l’unica strada che mi potesse ridare un po’ di tranquillità è questa della collaborazione. L’ho accettata volentieri e sono pronto ad andare incontro a tutto quello che questa mia decisione comporta. Confido solo nella sensibilità delle persone che mi dovranno condurre in questa strada, gestendo quello che è la mia volontà e confido molto che queste persone, prima di tutto, mettono avanti le possibilità dei pericoli che possono correre i miei famigliari, dopo di ciò io sono disponibilissimo a tutto quello che c’è da fare, sono pronto a parlare di tutto quello che concerne la mia vita dal momento in cui sono entrato in Cosa nostra a oggi che ho deciso di uscirne formalmente.

DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

“Infiltrato” nella mafia, così passava notizie al Ros dei carabinieri. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 16 agosto 2022

Quel famoso Bruno, che sentivo chiamare dal telefono di casa, venni a sapere che non era altri che il colonnello dei Ros, Michele Riccio. Michele... quel nome che destò tanta curiosità da parte nostra alla nascita dei gemelli e di cui non capivamo il perché. Appresi da tutto il materiale disponibile, che mi angustiava ma che volevo conoscere, il loro rapporto «speciale».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Foto, immagini, registrazioni audio, trascrizioni di confessioni e addirittura filmati. Ci volle un po’, ma tutto purtroppo era sempre più chiaro... Papà aveva deciso di collaborare con la giustizia, ma non in modo convenzionale; aveva scelto la maniera, a mio avviso, più sfrontata, pericolosa, scellerata e discutibile, mai vista fino ai giorni nostri.

Fu il primo e unico «infiltrato» nella storia italiana mafiosa. Quel famoso Bruno, che sentivo chiamare dal telefono di casa, venni a sapere che non era altri che il colonnello dei Ros, Michele Riccio. Michele... quel nome che destò tanta curiosità da parte nostra alla nascita dei gemelli e di cui non capivamo il perché. Appresi da tutto il materiale disponibile, che mi angustiava ma che volevo conoscere, il loro rapporto «speciale»: mio padre aveva intrecciato con lui un legame di strette confidenze e dichiarazioni registrate su nastri, e nelle svariate ore che trascorsero insieme durante quel delicato e difficoltoso cammino si legò emotivamente a lui.

Aveva affidato la sua vita, ma soprattutto la nostra, a quell’unico uomo che oltre a proteggerlo in vesti istituzionali, tutelando la sua e nostra incolumità, era anche un suo fraterno amico. A oggi, la mia valutazione sulle sue scelte rimane contrastante su molti aspetti.

L’unica certezza è che è stato un pazzo, ha sopravvalutato sé stesso e soprattutto lui, Michele, e quello «Stato buono» che doveva accompagnarlo nell’insidioso e pericoloso cammino. Per molti oggi è un eroe, un uomo coraggioso come pochi, forse come nessun altro. Io, da figlia, non posso che valutare con amarezza anche il rovescio della medaglia e criticare la maniera di portare avanti la sua scelta azzardata (la leggerezza, potrei dire), con cui ahimè ha messo a rischio la vita mia, di mia sorella, dei miei fratelli e di Cettina, la sua amata moglie.

Avrebbero potuto farci del male, sciogliere anche qualcuno di noi nell’acido, come accadde a quel piccolo angelo di Giuseppe Di Matteo. È difficile spiegare anche a me stessa come quell’uomo, che ci amava tanto visceralmente, ne sono certa oltre ogni ragionevole dubbio, abbia rischiato così tanto sulla nostra pelle innocente.

Non saremmo stati né le prime né le ultime vittime della mafia, che già da tempo ormai non aveva dimostrato alcuna pietà nel punire il tradimento dei suoi affiliati.

ALLA RICERCA DI BERNARDO PROVENZANO

[…] Con un lavoro duro, senza darmi tregua a livello emotivo e scoprendo nuovi linguaggi, regole, ambienti, persone impegnate a ricercare la verità, ancora oggi, dopo venticinque anni, aggiungo e tolgo tasselli a quel puzzle ricomposto più volte e buttato per aria altrettante. Unisco ciò che leggo, che imparo giuridicamente, mi confronto con altre versioni e ricordo mio padre. Questa è la parte più difficile: legare i ricordi di figlia al linguaggio spesso burocratico e asettico delle indagini. Per me, per noi, nulla è asettico. Tutto diventa emozione.

Uno di quei giorni in cui lo vidi sdraiato sul letto, quando alla mia domanda su cosa avesse mi rispose che «era stanco», aveva indosso pantaloni e un maglione dolcevita neri, ben distanti dal suo solito abbigliamento elegante e di buon gusto. Lui, poi, detestava il nero. Oggi, so che quello fu il giorno stesso del suo sopralluogo e appostamento con i Ros e Riccio al casolare di Bernardo Provenzano. Viaggiò parte della notte e della successiva mattina vestito di scuro, nascosto dietro il sedile di un’auto civetta.

Le persone vedono l’impresa, l’azione, ciò che stava facendo e l’importanza di tale gesto. Io non riesco che a provare pena e compassione nel sapere il mio gigante rannicchiato in quelle condizioni, come una bestia stipata nei furgoncini che portano gli animali al loro ultimo giorno di vita. Cerco di immaginare spesso cosa pensasse in quei concitati momenti; immagino l’adrenalina, l’inevitabile paura, i sensi di colpa e il timore di una ritorsione nei nostri confronti se qualcosa fosse andato male.

Penso al fortissimo tormento interiore che, ne sono certissima, affliggeva il suo animo durante quel cammino di lucida follia. Ripenso a tutte le volte che mi sono sentita rispondere «sono stanco» e già percepivo il suo mondo nascosto dietro due semplici parole. E non osavo andare oltre, perché in famiglia si era educati al silenzio. Adesso capisco la verità della sua stanchezza fisica, ma più che mai, ora posso dirlo, psicologica, e la tensione estrema per ciò che stava facendo.

Vidi, rividi, stoppai milioni di volte il fermo-immagine del suo incontro a Mezzojuso, dove condusse i Ros e i carabinieri: lì c’era lo Stato italiano, non solo simbolicamente, per la cattura «mancata» di Provenzano. Sento... immagino il contrordine del generale Mori, l’ubbidienza del colonnello Riccio. Perché ubbidì?! Perché?! Risuona in me la domanda senza risposta certa. Lo mandarono lì dentro solo, indifeso, senza un’arma addosso. Aveva cambiato due auto per presentarsi da zio Binnu, aveva rischiato un controllo dei suoi uomini, che tutelavano il protocollo del loro «Santo Patrono» per quelle rare persone che potevano avere il privilegio di vederlo, e mio padre era tra questi, perché faceva parte di un’antica famiglia mafiosa, «l’aristocrazia» di Cosa nostra.

Figlio, nipote di «uomini d’onore», di massoni anche, potenti, spregiudicati, inseriti, che conoscevano molto e sapevano tacere sempre. Uomini cerniera tra la parte nascosta di Cosa nostra e quella dei presentabili, che custodivano segreti di strada e di cosche, di boss e politici emergenti o già affermati. Omertà sempre.

Arrivò lì dentro con il cuore che probabilmente faceva fatica a contenere nello sterno, aspettava un plotone di forze armate che da un momento all’altro avrebbero fatto la più degna irruzione da film all’interno di quel casolare, minuti, attimi infiniti di attesa... e mai quegli uomini arrivarono. Aveva espresso anche un desiderio per quel finale da film mai consumato: «Non fatemelo guardare più in faccia quando lo arresterete, non avrò più il coraggio di incontrare il suo sguardo dopo ciò che ho fatto». 

L’ergastolo come mandante allo zio “Piddu”, lo stesso sangue di mio padre. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 17 agosto 2022

Poi ci fu la conferma in Corte d’appello: quattro ergastoli, tra cui uno per mio zio Giuseppe Madonia, designato come il mandante dell’omicidio, suo cugino, il suo stesso sangue. Forse avrei dovuto provare sollievo, felicità. Venti anni per sentire quei nomi, per arrivare a quella giustizia tanto attesa.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Cominciò il lungo processo. Non ci fu dibattito cui non partecipai, cui non presiedetti. Passai anni nell’aula Serafino Famà del Palazzo di Giustizia di Catania, seduta immobile, senza nessuno accanto se non la scorta del magistrato.

Due anni di processo, di dibattimenti, di difese, di bugie infamanti, di attesa, furono il peggiore e più ingombrante dei conviventi, sempre presenti. Arrivò la prima sentenza. Poi ci fu la conferma in Corte d’appello: quattro ergastoli, tra cui uno per mio zio Giuseppe Madonia, designato come il mandante dell’omicidio, suo cugino, il suo stesso sangue. Forse avrei dovuto provare sollievo, felicità. Venti anni per sentire quei nomi, per arrivare a quella giustizia tanto attesa.

Ma così non fu, non lo è ancora oggi. È difficile spiegare, provare a descrivere ciò che il mio animo prova, soprattutto o meglio esclusivamente, alla luce delle accuse e delle responsabilità accertate di mio zio. Ho passato giorni di angoscia, di continui pensieri, di infinite elaborazioni su quelle ultime parole pronunciate dal giudice.

Mio padre e mio zio erano legati da un profondo affetto fraterno... mio zio nacque insieme alle sue sorelle sul tavolo di casa mia e rimasti orfani della madre, la sorella di mio nonno, crebbero con papà e i miei due zii. Erano cugini sulla carta ma fratelli nell’animo. Erano compagni di gioco, di feste, presenze fisse l’uno nella vita dell’altro.

A mio padre – sbagliando per loro, facendo bene per molti altri, e lasciando il mio personale giudizio in un limbo – non posso negare la verità delle conseguenze delle sue scelte. Le sue confessioni fecero arrestare circa una cinquantina di persone, ma tra loro ci furono anche le mie zie. Privò, come accadde a noi, le mie cugine e i miei cugini delle loro madri.

Quelle zie con cui noi eravamo cresciute, con cui ogni domenica avevamo condiviso la tavola, le feste, ogni ricorrenza bella o brutta che fosse. Facevano parte della nostra vita, della nostra quotidianità. Quella fu la cosa che mi creò più dolore e imbarazzo, soprattutto agli occhi delle mie cugine che, come me e Francesca, non hanno mai avuto colpa alcuna se non quella di essere nate in una famiglia «diversa» dalle altre.

Le ho viste soffrire, affrontare con immensa dignità fin da giovani la vita da sole, sposarsi, partorire i loro figli senza i genitori accanto, e di ciò, ahimè, non posso che sentirmi in colpa, nonostante la mia totale innocenza. Magari sarebbe accaduto a prescindere, ma avere la certezza che la causa del distacco da mia zia, e il conseguente calvario, porti il nome di mio padre, mi ha fatto sempre sentire in difetto nei loro confronti, per qualche verso responsabile, nonostante di responsabilità io non ne avessi nemmeno una.

Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo guardandole negli occhi, ma tra tutte le pene e i sentimenti contrastanti che il mio cuore rincorre questo è uno. Analizzando la posizione di mio zio, che cosa doveva fare? Poteva opporsi a chi in Cosa nostra portò alla sua attenzione un tale tradimento da parte di mio padre? Per quanto brutto sia e forse poco comprensibile, soprattutto detto da me, lui, loro sono rimasti coerenti con il proprio protocollo.

Mio padre decise di dissociarsi, non loro, e sempre mio padre sapeva perfettamente a cosa sarebbe andato incontro oltre ogni ragionevole affetto, parentela. Ragionando per ipotesi – perché altro io non posso fare – che soluzione avrebbe avuto mio zio Piddu dal fondo della sua galera? Opporsi a quella richiesta pur sapendo della «condotta scorretta» che il suo cugino fraterno aveva deciso di intraprendere a discapito delle promesse e degli impegni presi con la vita che aveva suggellato e, per lui, «scelto» di vivere? Nella mia testa, nel mio cuore, dal mio limbo non posso farmi giudice delle scelte della mia famiglia.

Però, a differenza di tutto il resto del mondo che conosce solo un lato della medaglia, per alcuni versi e forse anche a denti stretti, non posso che fare un passo indietro e come la più equa delle bilance dire che loro non hanno fatto altro che rimanere «coerenti» con il loro ordinamento e con un imprescindibile «statuto».

Questa sentenza a me non porta altro che ulteriore amarezza, e la sensazione di una parziale sconfitta è fonte di enormi tormenti interiori. Continuo a ripetere che mai al mondo condannerei le scelte fatte da mio padre, anche perché solo lui sa cosa ha passato e subito in quegli undici anni di reclusione, ma metto in dubbio il modo in cui ha attuato la scelta di una nuova vita. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

Chi ha tradito mio padre? Chi ha spifferato i suoi piani a Cosa Nostra? DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 18 agosto 2022

Luigi Ilardo cercava tutela, si era fidato delle istituzioni mettendo la sua vita e le nostre nelle loro mani. Le sue confessioni hanno fatto pagare il conto alla mafia, ma hanno lasciato impunita gente corrotta e deviata, che si nasconde dietro la nostra bandiera, dietro le nostre istituzioni. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Luigi Ilardo cercava tutela, si era fidato delle istituzioni mettendo la sua vita e le nostre nelle loro mani. Le sue confessioni hanno fatto pagare il conto alla mafia, ma hanno lasciato impunita gente corrotta e deviata, che si nasconde dietro la nostra bandiera, dietro le nostre istituzioni.

Quella parte di stato marcia che offende e tradisce chi, con grande senso morale e del dovere, combatte e tenta di salvaguardare la società rischiando la propria vita. Offende tutti quegli uomini che ogni giorno, uscendo da casa, salutano i propri cari come se fosse sempre l’ultimo giorno, indossando una nobile divisa e mettendo in pericolo la propria incolumità per tutelare noi cittadini, al misero costo di una manciata di pane. Papà aveva intenzione di rivelare tutte le interconnessioni e gli affari sporchi che da sempre legano la mafia alla parte di Stato malata.

Il latitante Bernardo Provenzano, in questa triste storia, ne è la conferma, come tanti altri illustri mafiosi che hanno beneficiato della copertura di alcuni esponenti delle istituzioni, in cambio di favori, di richieste, di voti alle elezioni, della gestione di terre impervie come la Sicilia, dove neanche lo Stato riusciva a entrare e governare.

La sua sfumata cattura, nel giorno del blitz mancato, ne è la più amara conferma. Era tutto pronto, c’erano gli uomini, le armi, le auto e gli elicotteri. E qualcuno ha dato lo stop, sacrificando per sempre la vita di mio padre che, nonostante l’avesse rischiata nell’esatto momento in cui varcò la porta di quel casolare, non ottenne nulla se non la firma della propria condanna a morte.

Questo è ciò che mi genera più rabbia, la sua illusione di proseguire, il suo non aprire gli occhi quando era chiaro, certo e palese che lo stavano utilizzando solo nella speranza di qualche arresto clamoroso e qualche medaglia all’onore. Io non ho rancore nei confronti del colonnello Riccio, ma non capisco come uomini di perspicacia e intelligenza rara, quali lui e mio padre, non avessero capito che entrambi erano stati usati come pedine per l’ennesima trappola.

E allora avrebbero dovuto fermarsi. Avrebbero dovuto correre ai ripari. Sapevano perfettamente cosa rischiavano, soprattutto mio padre, dopo aver portato lo Stato in quel maledetto casolare senza nessun risultato e con la più clamorosa delusione di sempre. La mafia non guarda in faccia nessuno, uomini, donne, bambini, avvocati, magistrati.

Oggi per qualche verso sento me e i miei fratelli come miracolati; forse dovrei – sembrerebbe assurdo – anche ringraziare mio zio, che non ha permesso di toccare noi innocenti, ma non il responsabile di quel progetto di tutela nei confronti di Luigi Ilardo e della sua famiglia che non venne mai attuato. Questa è la triste realtà di come funzionano le cose in un mondo che gira al contrario.

Dover ringraziare i «cattivi» e non i «buoni», perché quei buoni, o meglio chi doveva esserlo, sono stati peggiori di loro. Per lunghi anni ho nutrito rancore nei confronti del colonnello Riccio, perché ho sofferto per i suoi silenzi, per me incomprensibili. Oggi, infine, la mia maturità mi ha permesso di comprendere che le sue scelte furono dettate dalla volontà di proteggerci da eventuali strumentalizzazioni. Esserci ritrovati mi dà forza.

Chi non perdonerò mai sono quei grandi uomini corrotti delle istituzioni che la sera del 10 maggio 1996, alle ventuno, probabilmente stavano cenando o si apprestavano a farlo con le loro famiglie intorno, mentre io e i miei fratelli toccavamo la morte con le mani, con i nostri vestiti imbrattati di sangue, con le vite per sempre spezzate a causa delle loro inadempienze, delle loro leggerezze, dei loro sporchi traffici.

Ma chi si odia di più: gli spietati assassini che non hanno fatto altro che, con coerenza, rispettare il loro protocollo, o chi è stato infame fino alla fine tradendo il più sacro e nobile giuramento verso la patria? Hanno assicurato «gli sciocchi» alle galere, ma chi ha stoppato quel blitz dov’è? Chi ha «spifferato» la volontà di mio padre dov’è? Chi ha fatto sapere ai mafiosi l’intenzione di denunciare le alte cariche dov’è?

Sono a casa, nella peggiore delle ipotesi, nella migliore si trovano in lussuosi alberghi senza chiedersi in quale disperazione hanno lasciato esseri umani come me. Ho patito la fame, ho saputo vivere senza una lira in tasca e con la beneficenza e l’affetto delle persone che avevo intorno, ho usato carta igienica al posto degli assorbenti, ho subito sfratti, utenze tagliate, ogni tipo di denigrazioni, falsità e giudizi da parte delle persone, per una vita e delle scelte imposte da altri.

I miei fratelli sono stati vittime di bullismo, di insulti, di discriminazioni. Avevano poco più di dieci anni quando, un giorno al mare, per una futile lite durante una partita di pallone, i compagni di gioco li chiamarono «figli di cornuto e sbirro, di un pentito di merda». Non sapevano nulla della nostra vera storia e fu proprio in quell’occasione che fummo costretti a raccontare tutta la verità, o quasi.

Luigi Ilardo e la trattativa nella requisitoria del pm Nino Di Matteo. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 19 agosto 2022

Quella «Grande Oriente» è una vicenda che certamente ha prodotto l’effetto immediato più tragico nei confronti del suo protagonista principale: Gino Ilardo. Un effetto tremendo, nel momento in cui Cosa nostra sostanzialmente, uccidendo Ilardo, ha dimostrato di potere stoppare sul nascere una collaborazione di altissimo livello

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Ora dobbiamo affrontare, sia pure per sintesi, l’importante vicenda legata alla collaborazione del confidente Ilardo con il colonnello Riccio e alla possibilità intenzionalmente non sfruttata da parte del Ros dei carabinieri e del comandante operativo Mori in particolare, di catturare Bernardo Provenzano.

E di farlo facilmente attraverso le specifiche, analitiche, preziosissime indicazioni che Ilardo, prima di essere ucciso il 10 maggio del 1996, aveva fornito al Ros. [...] (Precisazioni sulla sentenza definitiva di assoluzione Mori e Obinu per favoreggiamento aggravato, alla formula di assoluzione «Il fatto non costituisce reato» – acquisizione della sentenza irrevocabile di assoluzione, non comporta alcun automatismo e non vincola il giudice, che, fermo restando il rispetto del principio del ne bis in idem, può rivalutare anche il comportamento dell’assolto al fine di accertare la sussistenza di gravi responsabilità per un’altra fattispecie – prova dei fatti considerati come eventi storici).

Ecco perché non solo siamo legittimati, ma abbiamo il dovere di ripercorrere il percorso fattuale, i punti salienti della vicenda Ilardo, Provenzano, Riccio, Mori, mancata cattura di Provenzano. Gino Ilardo nello stesso momento in cui ricopriva all’interno di Cosa nostra cariche apicali – la reggenza delle Province mafiose di Caltanissetta ed Enna – svelava in diretta, al colonnello Riccio, gli assetti, i segreti antichi, le dinamiche in divenire di Cosa nostra e – per favore non dimenticatelo mai – non soltanto con riferimento alle vicende di ordinaria criminalità mafiosa, ma anche in riferimento a rapporti più alti e più inconfessabili di Cosa nostra con la politica, con la massoneria, con soggetti deviati e devianti dei servizi di sicurezza.

Dopo tanti anni in cui ho seguito fin dalla fase dell’indagine anche questa vicenda, non esito a definire, perché ne sono convinto, quella di Ilardo come una storia unica, più unica che rara certamente, nel panorama delle vicende di mafia e antimafia nel nostro paese. Una vicenda incredibile, una vicenda eccezionale, una vicenda vergognosa, una vicenda tragica nell’epilogo che ha avuto, intanto nei confronti – non dimentichiamolo mai – del suo protagonista principale, Gino Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio 1996, otto giorni dopo avere incontrato tre magistrati delle Procure distrettuali di Palermo e Caltanissetta, il colonnello Mori e altri ufficiali del Ros presso la sede centrale del Ros a Roma, e cinque giorni prima rispetto al momento in cui – la data era già stata fissata – Ilardo con il suo primo interrogatorio formale innanzi all’autorità giudiziaria, fissato per il 15 maggio, avrebbe assunto formalmente la veste di collaboratore di giustizia e sarebbe stato sottoposto al programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia.

Quella «Grande Oriente» è una vicenda che certamente ha prodotto l’effetto immediato più tragico nei confronti del suo protagonista principale: Gino Ilardo. Un effetto tremendo, nel momento in cui Cosa nostra sostanzialmente, uccidendo Ilardo, ha dimostrato di potere stoppare sul nascere una collaborazione di altissimo livello che sarebbe stata devastante per l’organizzazione e per tutti coloro i quali colludevano con l’organizzazione mafiosa.

Quindi l’aspetto tragico, più immediato, è nei confronti del suo protagonista principale, Gino Ilardo, ma è una vicenda che ha continuato a produrre i suoi effetti perversi anche successivamente all’omicidio di Ilardo. E questi effetti si sono prodotti – mi piace sottolinearlo fin dall’inizio – anche in danno di quel colonnello Michele Riccio, che è stato l’artefice e il motore di quelle investigazioni e che, pur con tutti i suoi limiti, le sue iniziali incertezze nella comprensione di quello che stava accadendo e nel coraggio di denunciarlo, ha finito per scontrarsi anch’egli con la volontà di quella parte dello Stato che evidentemente non voleva che la collaborazione di Ilardo portasse frutti, perché quei frutti erano allora ritenuti troppo pericolosi e destabilizzanti.

E qui si scorge la grande importanza del collegamento di questa vicenda con quella di cui ci stiamo occupando in questo processo, con le specifiche imputazioni mosse agli odierni imputati. La vicenda Ilardo è il frutto avvelenato della trattativa. È il frutto avvelenato della condotta in particolare del comandante operativo del Ros di allora, Mori, del comandante del Ros di allora, Subranni. In quel momento storico in cui si sviluppò la collaborazione informale di Ilardo, dall’inizio del ’94 fino a tutto il ’95 e ai primi mesi del ’96, la verità è una sola: Provenzano non poteva essere catturato.

Non poteva essere catturato perché era il garante da parte mafiosa, di quegli accordi che erano scaturiti dalla trattativa, di quegli accordi che erano il frutto di quel percorso che i carabinieri del Ros avevano iniziato contattando Vito Ciancimino, per capire cosa Cosa nostra volesse o pretendesse in cambio della cessazione della sua strategia di attacco frontale alle istituzioni. Provenzano non poteva essere catturato perché, dopo la fase prettamente iniziale della trattativa in cui l’interlocutore mafioso era Riina, egli stesso aveva assunto quella veste e aveva abilmente indirizzato verso una soluzione – tra virgolette – più ragionevole quei contatti inizialmente viziati dalla eccessività e dalla esosità delle pretese di Riina.

Bernardo Provenzano, il capo dei capi che doveva restare libero. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 20 agosto 2022

Provenzano non poteva essere catturato perché rappresentava la garanzia dell’adempimento da parte dei mafiosi degli accordi e quindi la garanzia di una direzione di Cosa nostra verso prospettive più moderate, verso la prospettiva di abbandono definitivo di quella strategia stragista che ancora aveva prodotto i suoi effetti e le sue conseguenze tragiche...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Provenzano non poteva essere catturato perché rappresentava la garanzia dell’adempimento da parte dei mafiosi degli accordi e quindi la garanzia di una direzione di Cosa nostra verso prospettive più moderate, verso la prospettiva di abbandono definitivo di quella strategia stragista che ancora aveva prodotto i suoi effetti e le sue conseguenze tragiche con gli attentati del ’93 e fino al fallito attentato dell’Olimpico nel gennaio del ’94.

C’è un altro motivo: Provenzano non poteva essere catturato perché un eventuale suo arresto, l’eventualità anche teorica di una sua collaborazione con la giustizia avrebbe scoperto le carte. Avrebbe sparigliato gli accordi. Avrebbe comportato, soprattutto per i carabinieri del Ros, la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito, che era iniziato già nel giugno del ’92, venisse definitivamente alla evidenza dell’autorità giudiziaria e dell’opinione pubblica.

Questo era il motivo per cui Subranni e Mori non potevano, non dovevano e non hanno voluto catturare Provenzano, perché preoccupati di rispettare il patto con l’ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetrazione, la perpetuazione della segretezza di quell’accordo.

Ecco perché anche oggi, anche in questa sede è opportuno esaminare, stante l’evidenza di questi profili di collegamento con le imputazioni oggi mosse ad alcuni dei nostri imputati, la vicenda Ilardo. Con una precisazione e un auspicio, prima di passare a una sintetica ricostruzione dei fatti. L’auspicio è che, finalmente, anche questa tragica vicenda venga letta in un quadro d’insieme e di sistema con altre vicende, delle quali abbiamo a lungo discusso in queste udienze.

Dobbiamo uscire ma dovete uscire anche voi signori della Corte, da quel percorso che ha portato a conseguenze di sostanziale ingiustizia e di sostanziale mancata comprensione dei fatti. Dobbiamo uscire da quel percorso caratterizzato dalla atomizzazione di vicende che vengono sempre lette separatamente. Questo è stato il vizio di fondo di tutto il percorso, cioè per decenni che magistrati inquirenti e giudicanti, a nostro parere, hanno scontato.

Vicende che vengono lette sempre separatamente ma che invece possono e devono trovare una valutazione unitaria. La trattativa Ros-Ciancimino, la cattura di Riina, la mancata perquisizione del covo di Riina, l’episodio di Terme Vigliatore finalizzato a evitare che venisse catturato Benedetto Santapaola, la mancata cattura di Provenzano il 31 ottobre ’95 a Mezzojuso, ma soprattutto il mancato sviluppo di ogni possibilità di progressione investigativa che, partendo dai favoreggiatori di Provenzano, dalla sera del 31 ottobre ’95, avrebbe inevitabilmente facilmente condotto già in quel periodo all’arresto del latitante.

Quella parte di Stato che aveva trattato non poteva permettersi che giudiziariamente emergesse, attraverso le parole di Gino Ilardo e attraverso la valorizzazione del suo apporto collaborativo – che con la cattura di Provenzano sarebbe stata massima – venissero fuori vicende troppo imbarazzanti di stretta attualità in quel momento, quali quelle ben note allo stesso Ilardo, che ne aveva già anticipato, seppure per cenni, il contenuto a Riccio.

Ed erano le vicende legate agli accordi mafiosi che, con l’intermediazione di Marcello Dell’Utri, la mafia aveva stipulato con il nascente partito Forza Italia già prima delle elezioni del marzo ’94 e che avevano avuto sbocco nell’affermazione di quel partito sulla base degli accordi con la mafia. Valorizzare Ilardo, indagare sulle sue confidenze a Riccio, portarlo a un percorso di collaborazione con la giustizia, valorizzato anche dalla cattura di Provenzano, avrebbe creato questo problema. Ilardo già nel ’94 aveva detto a Riccio, sostanzialmente, le stesse cose che hanno costituito poi, ovviamente con gli approfondimenti dovuti, gli accordi con Forza Italia intermediati da Dell’Utri, l’invito a dire: «... state calmi, noi faremo qualcosa» – bisognerebbe rileggerlo sempre, quel rapporto – «nel giro di cinque, sette anni noi quelle cose che voi volete cercheremo di farle, sul carcerario, sul sequestro dei beni, sul 416 bis». In diretta, la vicenda Ilardo rappresentava il pericolo numero uno che la trattativa venisse svelata giudiziariamente mentre ancora era in corso.

Quegli stessi carabinieri che avevano avuto un ruolo così decisivo – mi riferisco a Mori soprattutto – nella fase iniziale della trattativa, non potevano permettere, valorizzando il contributo conoscitivo di Ilardo, che si desse credito a chi per primo stava riferendo della conclusione della trattativa tra Provenzano e Forza Italia per il tramite di Dell’Utri.

Quella parte che aveva condotto la trattativa – e mi riferisco in particolare sempre all’imputato Mori – non si poteva nemmeno permettere che attraverso le parole di Ilardo, eventualmente consacrate in un verbale di interrogatorio, emergessero altre verità scabrose legate a ciò che Ilardo sapeva e aveva intenzione di riferire a verbale sulla commistione di interessi mafiosi e di interessi politico-istituzionali, in molti dei delitti eccellenti e con ogni probabilità anche nelle stragi del ’92 e del ’93.

La volontà di Ilardo: raccontare tutto sulle stragi del 1992. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 21 agosto 2022

Fin dall’inizio, Ilardo precisò ai suoi interlocutori che le finalità essenziali della sua collaborazione sarebbero state due: da una parte ottenere il contatto diretto e personale con Bernardo Provenzano, per poterlo fare arrestare, e dall’altra fornire un contributo informativo importante sulle stragi del ’92 e del ’93 con particolare riferimento ai moventi, ai mandanti esterni a Cosa nostra.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

La vicenda Ilardo, signori giudici popolari, non può essere letta – come pure, soprattutto mediaticamente, si è tentato per anni di fare – nel senso di – la tecnica è sempre la stessa – minimizzare, parcellizzare, ridicolizzare. La vicenda Ilardo non può essere letta, come si è tentato per anni, come la vicenda deputata a stabilire esclusivamente chi e per quali ragioni decise di non intervenire il 31 ottobre ’95 a Mezzojuso.

Quello è un passaggio, probabilmente è il meno importante di un percorso molto più complesso che ci deve portare a capire perché i carabinieri del Ros, teoricamente la punta dell’Arma più avanzata nel contrasto investigativo antimafia, non svilupparono, neppure successivamente al 31 ottobre e all’incontro che quel giorno Ilardo ebbe con Provenzano, le immediate, preziose, precise, articolate, dettagliate informazioni che Ilardo, attraverso Riccio riversò immediatamente ai carabinieri del Ros.

Questo è il cuore. Informazioni sui luoghi dove si svolgeva la latitanza di Provenzano, informazioni sui luoghi e sui casolari dove Provenzano incontrava gli altri uomini d’onore, sui soggetti che materialmente in quel momento – e poi vedremo, capiremo per quale incredibile lasso di tempo – gestivano la latitanza del Provenzano. Tutto questo mentre quegli stessi carabinieri, l’odierno imputato Mori in prima persona, parallelamente a questa gravissima omissione operativa, ometteva di informare l’autorità giudiziaria di quel preziosissimo apporto conoscitivo che Ilardo aveva loro riversato.

E perfino gli altri colleghi, perfino le articolazioni territoriali interessate dello stesso Ros e perfino la Sezione anticrimine Ros di Palermo – lo schema è sempre quello: non fare e non comunicare. Ripercorriamo, allora, necessariamente i passaggi principali di questa vicenda. Dopo aver chiesto un colloquio con il dottor De Gennaro, già nell’ottobre del ’93, mentre era detenuto presso la casa circondariale di Lecce, Ilardo iniziò a offrire una collaborazione di natura confidenziale alla Dia e in particolare al colonnello Riccio, che venne delegato dopo il primo colloquio, che si svolse con De Gennaro e dott. Di Petrillo, dallo stesso De Gennaro.

La collaborazione si intensificò nel momento della scarcerazione dell’Ilardo nel gennaio del ’94 e si protrasse con risultati sempre più significativi fino al 10 maggio ’96. Fin dall’inizio – questo è importante, lo hanno testimoniato anche De Gennaro e Di Petrillo – fin dal primo contatto con De Gennaro e Di Petrillo, Ilardo prospettò la sua disponibilità, una volta uscito dal carcere, a infiltrarsi, a reinserirsi in Cosa nostra alla quale apparteneva da tempo, a fornire in diretta notizie sull’organizzazione.

Fin dall’inizio, Ilardo precisò ai suoi interlocutori che le finalità essenziali della sua collaborazione sarebbero state due: da una parte ottenere il contatto diretto e personale con Bernardo Provenzano, per poterlo fare arrestare, e dall’altra fornire un contributo informativo importante sulle stragi del ’92 e del ’93 con particolare riferimento ai moventi, ai mandanti esterni a Cosa nostra.

E ciò anche sfruttando le pregresse conoscenze ed esperienze dirette che aveva avuto anche per le sue origini familiari, per il suo inserimento, anche da un punto di vista del vincolo familiare di sangue, antico ed importante in Cosa nostra, nel Gotha dell’organizzazione mafiosa, per i suoi contatti con la ’ndrangheta ed esponenti non soltanto siciliani e calabresi, appartenenti all’area dell’eversione di destra. Signori giudici popolari, sapete chi è Ilardo.

È figlio di un vecchio mafioso massone, il quale aveva, grazie al solito schema dell’appartenenza alla Massoneria, dei rapporti talmente importanti con persone importanti, che per anni, per decenni, forniva – attraverso un regolare contratto stipulato con la pubblica amministrazione – all’esercito dei carabinieri i muli. Allevava i muli nella sua azienda di Lentini, e aveva l’esclusiva della fornitura degli animali per i reparti dei carabinieri e dell’esercito che avevano necessità di questi animali.

Siamo a un livello veramente notevole, anche da un punto di vista delle conoscenze, anche da un punto di vista della famiglia. Gli scopi erano questi due ed effettivamente questo scopo dichiarato venne, nel periodo della collaborazione informale con il colonnello Riccio, accompagnato dal conseguimento e dal raggiungimento di risultati eccezionali.

Mai, mai, veramente, non temo di poter essere smentito, mai erano stati conseguiti risultati qualitativamente e quantitativamente di tale importanza con un’unica attività investigativa. Mai, attraverso un rapporto confidenziale tra un mafioso e un esponente delle forze dell’ordine, erano stati conseguiti risultati di questo tipo specifici, numerosi, importanti. Mai. Nemmeno ai tempi della collaborazione del boss Di Cristina con il colonnello Pettinato, perché lì era una collaborazione confidenziale importante ma di scenario, certamente non di individuazione dei covi dei latitanti. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

Un (quasi) pentito caduto nella trappola del “gioco grande”. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 22 agosto 2022

Questi erano i risultati, i frutti che immediatamente l’asse della collaborazione Ilardo-Riccio, organi inquirenti e magistratura, avevano prodotto. L’arresto di questi latitanti, le modalità esecutive, lo spessore criminale di primo livello di ognuno di loro nel panorama mafioso dell’epoca, il numero di queste operazioni, dimostrano un dato che non si può mettere seriamente in discussione...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.

Qualcuno degli importanti risultati raggiunti. Il 12 aprile 1994 Ilardo aveva incontrato assieme a Ciro Vara un soggetto che gli si palesò come Simone, che gli aveva mostrato alcune buste contenenti delle lettere che disse di avere ricevuto da Bernardo Provenzano, precisando che stava andando in Calabria per spedirle, per farle pervenire ai destinatari, commentando quell’incarico con l’espressione «appena riceveranno queste lettere ne vedremo delle belle».

Nella stessa data della comunicazione – vedete come si comportava Riccio quando era alla Dia, cominciamo a vedere – Riccio informava i suoi superiori della Dia, che il giorno successivo con nota del 15 aprile ’94 informavano ufficialmente la procura della repubblica di Palermo. Alcuni giorni dopo la segnalazione, si apprendeva che Bernardo Provenzano con una lettera spedita da Reggio Calabria aveva sottoscritto, indirizzandola ai giudici delle misure di prevenzione di Palermo, una nomina dei suoi difensori.

All’epoca molti sostenevano che Provenzano fosse morto – ricordo anche il clamore mediatico. Ancora, ma soltanto per limitarci ai risultati più evidenti, il 2 agosto ’94, dopo un breve personale sviluppo delle notizie che gli aveva fornito Ilardo, il colonnello Riccio individuava il rifugio del latitante di mafia Vincenzo Aiello che – lo abbiamo visto incidentalmente in vari passaggi dell’istruzione dibattimentale in questo processo – in quel momento era il vicecapo provinciale di Cosa nostra a Catania. Non venivano arrestati mafiosi di basso rango. 

Il 5 agosto con personale della Dia di Catania venivano catturati lo stesso Aiello e altri importanti mafiosi poi condannati per favoreggiamento ad Aiello. Il 21 dicembre ’94, con personale della Dia di Caltanissetta, seguendo le indicazioni specifiche di Gino Ilardo, si procedeva all’arresto del latitante Domenico Vaccaro, in quel momento capo della provincia mafiosa di Caltanissetta.

Indicazioni specifiche, non dicevano (Ilardo a Riccio e Riccio alla Dia e alla procura) «vedete, forse potreste seguire questa persona o questo clan», dicevano «sta lì, vedete se sta lì, seguite queste persone». Lo facevano e li catturano. Il 13 gennaio ’95, sempre con le stesse modalità, sempre seguendo indicazioni specifiche di Ilardo, sempre attraverso la comunicazione tempestiva di Riccio alla Dia, veniva individuato il rifugio del latitante Lucio Tusa e veniva arrestato a Catania, la cui importanza mafiosa si coglie non soltanto con riferimento al suo grado di parentela – è nipote di Giuseppe Piddu Madonia – ma anche come uomo essenziale nelle dinamiche del potere «provenzaniano» in quel momento.

Ancora, Gino Ilardo, era stato in grado di mettersi nelle condizioni di avere notizie specifiche per catturare un altro capo provincia, un altro rappresentante provinciale, Salvatore Fragapane e il 25 maggio ’95 all’alba, dopo una serie di appostamenti, personale della Dia trae in arresto Fragapane. Signori della Corte, ci sarebbero altri risultati clamorosi, comunque importanti.

Questi erano i risultati, i frutti che immediatamente l’asse della collaborazione Ilardo-Riccio, organi inquirenti e magistratura, avevano prodotto. [...] L’arresto di questi latitanti, le modalità esecutive, lo spessore criminale di primo livello di ognuno di loro nel panorama mafioso dell’epoca, il numero di queste operazioni, dimostrano un dato che non si può mettere seriamente in discussione: la professionalità e l’abilità con le quali Riccio tutelò e blindò la segretezza del rapporto, pur in un contesto in cui non fece mai mancare il flusso informativo nei confronti dei suoi superiori e dell’autorità giudiziaria.

Ma non vi ho ancora parlato del risultato che, da un certo punto di vista, è ancora più importante, comunque altrettanto importante rispetto alla cattura dei latitanti.

Per la prima volta, attraverso l’opera di infiltrazione, di collaborazione di Ilardo, venne acquisito quel materiale documentale, i famosi «pizzini», provenienti da Provenzano, quei manoscritti la cui riconducibilità a Provenzano è stata definitivamente consacrata in più sentenze passate in giudicato, tra le quali quella «Grande Oriente», quella «Grande mandamento». Quei «pizzini», che avete acquisito anche in questo processo, sono stati acquisiti nel corso delle indagini per valutare, comparare altri «pizzini», asseritamente provenienti dall’utenza. 

Mai e poi mai gli apparati investigativi dello stato avevano avuto a disposizione un’arma viva ed efficace come Gino Ilardo, un mafioso di elevatissimo spessore che riusciva a trasmettere in presa diretta allo Stato tutte le informazioni più nascoste e strategiche della consorteria mafiosa.

Quando i carabinieri del Ros, il generale Mori, presero in mano l’indagine «Oriente» con l’aggregazione di Riccio al Ros, già sostanzialmente a partire dal giugno del ’95, avevano in mano non solo la chiave per arrestare Provenzano, avevano in mano la chiave utile per aprire quella porta che avrebbe loro consentito – se solo avessero voluto – di individuare e scardinare tutto quel sistema provenzaniano che ancora, invece, per lunghi anni, almeno fino alla cattura di Provenzano nell’aprile del 2006 a Montagna dei Cavalli, dominò incontrastato i meccanismi del potere mafioso in Sicilia.

Mori che cosa fece? Mortificò gli sforzi del Riccio e quella facile chiave di accesso al potere provenzaniano di Cosa nostra venne presa e volutamente gettata via, allo scopo di salvaguardare, con il mantenimento della latitanza di Provenzano, il difficile equilibrio faticosamente raggiunto dopo anni di intermediazione nella trattativa Stato-mafia con il prevalere della fazione Provenzano. [...] Non si può nemmeno ipotizzare la decisione del mancato intervento a Mezzojuso come frutto di una cautela o diffidenza nei confronti di una fonte di cui si dovrà verificare l’attendibilità. Ma quale verifica di attendibilità? Aveva fatto catturare già 6 latitanti di spicco di Cosa nostra. Mai, mai nella storia.

DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"

Mafia, a luglio è morto il pentito Angelo Siino, fu il "ministro dei lavori pubblici dei boss". La notizia tenuta segreta dalla famiglia. La Repubblica il 26 Novembre 2021. L'ultima audizione nel 2014, al processo "Trattativa Stato-mafia". Da molto tempo era ammalato. Negli anni Ottanta lo chiamavano il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra" perché era l'ambasciatore dei Corleonesi nel palazzo della Regione e in tutti gli altri dove si spartivano gli appalti. L'uomo del 3 per cento. Angelo Siino, collaboratore di giustizia dal 1997, è morto il 31 luglio nella località segreta dove viveva, la famiglia ha voluto tenere riservata la notizia, che è trapelata solo oggi. "Bronson", lo chiamavano anche così per la somiglianza con l'attore, aveva fatto la sua ultima apparizione in aula al processo "Trattativa Stato-mafia": quel giorno aveva parlato di un progetto di attentato nei confronti dell'ex presidente della Regione Siciliana Rino Nicolosi: "Voleva rompere sugli appalti - disse - me lo rivelò Giovanni Brusca". Il suo ruolo ed i suoi rapporti con l'alta finanza ed i politici era stato delineato da tre pentiti di primo piano di Cosa nostra: Balduccio Di Maggio, Leonardo Messina e Giovanni Drago. Ma a raccontare fatti inediti e di grossa portata su Siino era stato il boss ormai pentito Giovanni Brusca che faceva da tramite tra Totò Riina ed il "ministro" di Cosa nostra. Qualche anno fa Siino decise di raccontare tutti i segreti di Cosa nostra in un libro, scritto con il suo legale storico Alfredo Galasso. Nel libro ("Vita di un uomo di mondo") ha raccontato personaggi come Salvo Lima e Michele Sindona, senatori della Repubblica come Giulio Andreotti e Marcello Dell'Utri. Ci sono i ricordi dei viaggi fra i lussi di Parigi e quelli nei gironi del carcere dell'Asinara, delle battute di caccia con le "mangiate" e le "parlate" nelle masserie dei boss, ma anche i retroscena di alcune vicende che hanno fatto tremare un'isola e anche l'Italia intera. "Sono e mi chiamo Angelo Siino, nato a San Giuseppe Jato il 22 marzo del 1944. Ho ripetuto queste generalità cento volte dinanzi ai Tribunali e alle Corti di tutt'Italia, fino a perderne il senso reale, il senso della mia vita". E' questo l'incipit del suo libro. Due anni fa, la sua vita era stata stravolta dal suicidio del figlio Giuseppe, di 47 anni, che si è ucciso sparandosi un colpo di pistola alla testa dopo un litigio con la moglie.

Camorra, il figlio di Sandokan inizia a collaborare coi magistrati. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. Walter Schiavone, figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco sta rendendo dichiarazioni al Gup e alla Dda di Napoli sul business della mozzarella. Walter Schiavone, figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco «Sandokan» Schiavone, ha iniziato a collaborare con la giustizia, in particolare con la Dda di Napoli, cui avrebbe reso già due interrogatori. La circostanza è emersa ieri al tribunale di Napoli nel corso dell’udienza preliminare dell’indagine anticamorra relativa al controllo da parte del clan del business della distribuzione di prodotti caseari, come la mozzarella di bufala, nel Casertano; un’inchiesta per la quale Walter Schiavone fu arrestato nel giugno di quest’anno. Dinanzi al gup Salvatore, Schiavone ha ammesso che Antonio Bianco e altri suoi soci imponevano la vendita dei prodotti caseari sul mercato. Il collegio difensivo è composto da Paolo Caterino, Emilio Martino e Romolo Vignola. La prossima udienza si terrà il 17 dicembre e sarà utile per chiarire altri punti sulle pesanti accuse e collegamenti con il clan dei Casalesi

Si pente Walter Schiavone: è il figlio di Sandokan. Today il 26 Novembre 2021. È il secondo figlio del capoclan dei Casalesi ad iniziare il "nuovo percorso". Il rampollo del boss, già prima di iniziare a collaborare, era entrato nel programma di protezione per via del pentimento del fratello Nicola. Walter Schiavone, figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco "Sandokan" Schiavone, ha iniziato a collaborare con la giustizia, in particolare con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, cui avrebbe reso già due interrogatori. La circostanza è emersa ieri al tribunale di Napoli, nel corso dell'udienza preliminare dell'indagine anticamorra relativa al controllo da parte del clan del business della distribuzione di prodotti caseari, come la mozzarella di bufala, nel Casertano. Un'inchiesta per la quale Walter Schiavone fu arrestato nel giugno di quest'anno, imputato per ricettazione aggravata dalla modalità mafiosa. Un business fatto anche dalla località protetta, dove Walter si trovava dopo l'inizio della collaborazione del fratello Nicola, con incontri con i suoi sodali, secondo gli inquirenti. Schiavone ha riferito che la distribuzione di prodotti caseari avveniva con meccanismi di concorrenza sleale: "Sapevano che eravamo del clan e ci agevolavano sui prezzi", ha chiarito in aula. Agevolazioni che riguardavano "sia i fornitori sia i rivenditori dei prodotti". Poi, replicando ad una domanda del suo difensore, ha confermato l'inizio della sua collaborazione con gli organi inquirenti: "Sto parlando anche di altro", ha dichiarato Walter Schiavone. Il rampollo del boss, già prima di iniziare a collaborare, era entrato nel programma di protezione per via del pentimento del fratello maggiore Nicola, primogenito di Sandokan. Secondo la Dda di Napoli, dopo l'arresto di Nicola nel 2010, il clan sarebbe stato gestito proprio da Walter, che in alcuni processi precedenti alla collaborazione aveva già ammesso di aver fatto parte del clan, sebbene negli anni 2013 e 2014. Dal carcere del sito protetto dove si trova, in videocollegamento con il tribunale di Napoli Nord, Schiavone aveva già fatto dichiarazioni ammissive: "Ho preso lo stipendio dal clan per conto di mio padre e mio fratello Nicola".

Le rivelazioni sul "racket della mozzarella". Walter Schiavone collabora con i magistrati: è il secondo figlio del boss dei Casalesi Sandokan a "vuotare il sacco". Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Novembre 2021. Walter Schiavone inizia a collaborare con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Il figlio secondogenito del capo del clan dei Casalesi Francesco ‘Sandokan’ Schiavone ha infatti iniziato a parlare con la magistratura, circostanza che sarebbe avvenuta già in due interrogatori. Una circostanza emersa soltanto ieri nel tribunale di Napoli, dove era in corso l’udienza preliminare sull’inchiesta relativa al controllo da parte dei Casalesi del business della distribuzione di prodotti caseari (come la mozzarella di bufala, ndr), indagine che ha portato all’arresto di Walter Schiavone nel giugno di quest’anno. Schiavone, 40 anni, era già entrato nel programma di protezione dopo il pentimento del fratello maggiore Nicola, il primogenito del boss ‘Sandokan’. La DDA partenopea accusa tra l’altro Walter Schiavone di aver gestito il clan dopo l’arresto del fratello Nicola nel 2010. Walter aveva in realtà già parzialmente ammesso la sua appartenenza al sodalizio criminale dei Casalesi nel corso di un secondo processo: “Ho preso lo stipendio dal clan per conto di mio padre e mio fratello Nicola”, aveva riferito in videocollegamento il secondogenito di ‘Sandokan’. Nell’udienza di ieri, come riferisce Casertanews, Schiavone jr ha spiegato ai magistrati che il business della distribuzione e imposizione della mozzarella ai caseifici avveniva anche mentre lui era ‘confinato’ in una località protetta dopo l’inizio della collaborazione del fratello Nicola: anche da lì Schiavone emanava i suoi ordini per mandare avanti il racket della mozzarella. In particolare Walter Schiavone, secondo l’accusa, avrebbe obbligato i titolari di diversi caseifici della penisola sorrentina a vendere sottocosto e in via esclusiva i loro prodotti alle aziende riconducibili al clan dei Casalesi, che poi si sarebbe occupato della distribuzione in ‘regime di monopolio’ nella stessa penisola sorrentina e in alcune zone della provincia di Caserta. “Sapevano che eravamo del clan e ci agevolavano sui prezzi“, ha spiegato Schiavone, sottolineando che le agevolazioni nella distribuzione dei prodotti caseari riguardavano “sia i fornitori sia i rivenditori” della merce. Collaborazione con la DDA confermata anche rispondendo a una domanda del suo avvocato, Domenico Esposito, al quale ha spiegato che con i magistrati antimafia sta parlando “anche di altro”. Sul nuovo status di ‘collaboratore’ ulteriori novità sono attese dalla prossima udienza fissata per il 17 dicembre.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

E' in isolamento da 20 giorni. La moglie: "Chiediamo solo il trasferimento". L’ex pentito Luigi Giuliano è in carcere, l’appello disperato: “Mi uccido, non posso stare con i detenuti comuni”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Luglio 2021. “Nel reparto con i detenuti comuni non ci posso stare, rischio la vita“. E’ il grido disperato di Luigi Giuliano, 48 anni, ex collaboratore di giustizia dopo aver militato nell’omonimo clan che tra gli anni ’80 e ’90 governò nel centro di Napoli. Luigi Giuliano jr è il figlio di Nunzio Giuliano (morto ammazzato 20 anni dopo essersi dissociato dalla camorra), primogenito di Pio Vittorio e fratello di Luigi, colui che è stato ribattezzato ‘o Rre di Forcella. E’ cresciuto in una famiglia nata con il contrabbando e affermatasi nel mondo della criminalità organizzata durante la guerra alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Dopo essere uscito dal programma di protezione, Giuliano jr vive da anni a Reggio Emilia dove nel novembre 2020 è stato arrestato dopo aver accoltellato in un negozio di elettrodomestici un uomo per ragioni di natura passionale. Condannato a un anno e otto mesi di reclusione, il 48enne era stato sottoposto agli arresti domiciliari dai quali è evaso lo scorso 6 luglio quando le forze dell’ordine lo hanno sorpreso in un parchetto vicino la sua abitazione.

Trasferito nel carcere di Reggio Emilia, si trova da 20 giorni in isolamento e non vuole andare in cella con altri detenuti. Il motivo? Teme per la sua vita perché in passato è stato collaboratore di giustizia e in carcere queste cose non si dimenticano. Nei giorni scorsi, attraverso la moglie, ha contattato il garante dei detenuti del comune di Napoli, Pietro Ioia, per denunciare quanto accaduto e chiedere di essere trasferito in un altro carcere dove è presente il reparto riservato ai collaboratori di giustizia. “Deve scontare circa un anno in carcere e chiede solo di essere trasferito perché teme per la sua incolumità” spiega la moglie al Riformista. Luigi Giuliano jr è stato collaboratore di giustizia, così come buona parte dei suoi zii (a partire dall’ex boss Lovegino), all’inizio degli anni Duemila. “Anche se per lo Stato italiano non è più in pericolo, in carcere queste cose funzionano diversamente e chi è stato pentito viene considerato alla stregua di un collaboratore di giustizia attuale” prosegue la donna. “I regolamenti di conti la camorra non li dimentica” aggiunge. Luigi negli ultimi giorni ha tentato anche gesti di autolesionismo. Nella giornata di domenica 25 luglio si è inferto dei tagli ed è stato trasferito in una cella di isolamento priva di materasso e di altri oggetti considerati pericolosi per la sua incolumità. “Dorme a terra, è disperato. Chiede solo di scontare la sua pena in un posto sicuro, nulla di più” chiarisce la moglie. Sulla vicenda è intervenuto anche il garante di Napoli Pietro Ioia: “E’ psicologicamente provato, sono in contatto con il garante dell’Emilia Romagna Marcello Marighelli e speriamo di risolvere la situazione quanto prima”.

La storia di Nunzio Giuliano, morto ammazzato 20 anni dopo essersi dissociato. Il percorso di Nunzio Giuliano, nato nel 1948 e morto ammazzato la sera del 21 marzo 2005 in via Tasso, non è stato come quello dei sui cinque fratelli Luigi, Guglielmo, Carmine, Raffaele e Salvatore. Loro sono stati spietati camorristi fino a quando hanno potuto. Poi quando le cose si sono messe male hanno deciso di passare dalla parte dello Stato raccontando quel che sapevano sulla criminalità organizzata di Napoli e provincia in cambio di sconti di pena, protezione e soldi, quelli che vengono garantiti ai collaboratori di giustizia durante e al termine del loro percorso. Nunzio Giuliano, dopo una giovinezza segnata da piccoli precedenti, sin dall’inizio degli anni ’80, quando l’ascesa dei suoi fratelli, capeggiati da Luigi detto Lovegino (‘o Rre di Forcella) era sotto gli occhi di tutti, decise di defilarsi, di mettersi alle spalle un cognome pesante e iniziare una vita lontano da Forcella e dalla camorra. Decise così di trasferirsi nel quartiere Chiaia con la moglie e i due figli, Pio Vittorio e Luigi (Gemma nascerà invece nel 1987) dove li “costringeva” ad andare a scuola e a stare lontano dall’ambiente contaminato di Forcella. “La mattina prima di scendere – raccontò anni fa il figlio Luigi Giuliano a VocediNapoli.it – controllava se io e mio fratello avevamo messo il profumo e se nelle tasche dei pantaloni c’erano dei soldi. Lo faceva per capire se la nostra intenzione era quella di andare a scuola o dai nostri zii e cugini a Forcella dove potevamo fare quello che volevamo, anche solo giocare con le moto”. Luigi Giuliano all’epoca era adolescente e già subiva il fascino criminale della sua famiglia. “Mio padre era l’unico che ha sempre provato a portarci sulla retta via. Non amava la musica neomelodica e non voleva che parlassimo in napoletano. Ha provato in tutti i modi a farci crescere con la schiena dritta. Da Forcella ci ha portati a vivere in un quartiere borghese come quello di Chiaia iscrivendoci alle medie alla scuola Tito Livio. Poi le cose andarono diversamente perché venne arrestato nel 1983, incastrato dalle dichiarazioni dei pentiti”. “Ricordo ancora – racconta Luigi – che il giorno in cui la polizia si presentò a casa nostra per arrestare mio padre io ero quasi felice. Vi sembrerà strano, mi sentivo liberato, scarico, consapevole che non sarei più stato obbligato ad andare a scuola. Potevo così andare dai miei zii a Forcella. A distanza di anni – aggiunge – ho capito quello che lui voleva trasmetterci e oggi non posso far altro che essergli grato per i suoi insegnamenti. Certo, li ho recepiti in ritardo ma adesso, dopo anni in carcere e un periodo da collaboratore di giustizia, ho iniziato una nuova vita”. Nunzio Giuliano esce dal carcere dopo circa tre anni, nel 1987, e nei mesi successivi, il 10 dicembre, muore per overdose il primogenito Pio Vittorio. Aveva 17 anni. Lo trovarono nel bagno dell’abitazione della nonna con l’ago ancora conficcato nel braccio. Fu la mazzata più grande. Durante il periodo di detenzione Nunzio aveva provato in tutti i modi di farlo smettere, rivolgendosi anche a Don Riboldi, il vescovo di Acerra autore di mille battaglie a favore della legalità e della giustizia. Ma tutto fu inutile. Pio Vittorio andò incontro a una morte annunciata per chi sin da piccolo sceglie quella strada. Nonostante la giovane età aveva un figlio di 2 anni che aveva chiamato come il padre. Furono giorni burrascosi culminati con il prelievo forzato della salma di Pio Vittorio dal vicino ospedale Ascalesi per riportarla a casa dei nonni per la veglia funebre. L’allora capo della squadra mobile di Napoli, Matteo Cinque, si recò a casa del nonno del 17enne e utilizzò le parole giuste per farsi riconsegnare il corpo per sottoporlo all’autopsia disposta dall’autorità giudiziaria. Il giorno dei funerali in migliaia si presentarono davanti alla chiesa egiziaca a Forcella.  Non mancarono momenti di tensione che lo stesso Nunzio Giuliano fece rientrare. “Il gruppetto di fotografi – scrive Renato Caprile – in un articolo pubblicato su Repubblica il 13 dicembre 1987 – che non è riuscito a guadagnare il sagrato è pronto ad usare gli attrezzi del mestiere. Ma la madre di Vittorio ha un gesto di stizza. E subito un paio di guardaspalle partono minacciosi in direzione dei paparazzi. Volano parole grosse. Ma l’intervento di Nunzio Giuliano, 38 anni, il padre di Vittorio, calma gli animi. Lasciateli in pace ordina Nunzio sono qui per lavorare. E’ un loro diritto, capito?”. Dopo l’uscita dal carcere, Nunzio venne condannato a tre anni di soggiorno obbligato in un paese del Veneto. Fu in quel periodo che diede inizio alla sua battaglia contro la droga con tanto di manifesti affissi per le vie del centro di Napoli. Poi iniziò a girare per le scuole cittadine raccontando ai giovani la propria esperienza, partecipò a numerose iniziative sociali anche in altre regioni italiane e venne invitato in diverse trasmissioni televisive. Il suo “verbo”, la sua nuova vocazione, vennero sempre visti con sospetto dall’Antimafia e più in generale dallo Stato italiano che non si “fidava” di una persona cresciuta in un ambiante malavitoso da cui si è però allontanato prima che compisse 30 anni e iniziasse l’ascesa criminale dei suoi fratelli. Eppure i temi affrontati negli anni ’80 e ’90 da Nunzio Giuliano oggi – dopo 30 anni – sono più che mai attuali. Dopo la sua morte (di cui non si conoscono, a distanza di 13 anni, mandanti ed esecutori materiali) venne pubblicato “Diario di una coscienza”, una raccolta di considerazioni dello stesso Giuliano: “Questo non è un libro su Nunzio ma intende essere il libro di Nunzio, quello che tante volte lui stesso era stato sul punto di scrivere, ma che per tanti motivi non aveva mai visto la luce. Il compito che Nunzio ha lasciato a noi è stato dunque quello di realizzare un testo di questo tipo, ricco di riflessioni vive, composte in maniera del tutto originale, fatte da un uomo che ha affrontato la sua esistenza come un viandante affronta un viaggio che dura tutto l’arco di una vita. Niente di residuale, ma il pensiero lucido di chi ha saputo emergere dalla sua condizione, indirizzando la propria riflessione su temi che spaziavano dal sociale al politico, dal religioso al filosofico […] L’abitudine di Nunzio di annotare tutto su foglietti sparsi, che spesso rileggendo metteva da parte, e alcuni frammenti di interviste, ci hanno consentito di farlo parlare quasi sempre in prima persona e di sottrarre all’oblio i suoi pensieri”. (dalla prefazione di Maria Rosaria Rivieccio e Roberto Marrone). Lo scorso 21 marzo 2018 a Nunzio Giuliano è stata intitolata una panchina all’interno del Real Bosco di Capodimonte di Napoli. La sua famiglia ha voluto ricordarlo così, partecipando al progetto   “Racconta la tua storia al Bosco di Capodimonte. Adotta una panchina, un albero o una fontanella” lanciato dal direttore del bosco Sylvain Bellenger in collaborazione con l’associazione Amici di Capodimonte onlus. “Ragazzi ribellatevi ad un destino scritto da altri. Studiate! La cultura è libertà”. Questa la frase, che Nunzio Giuliano ha ripetuto migliaia di volte nel corso della sua vita, presente sulla targhetta commemorativa installata su una panchina che si trova nei pressi di un campo di calcio presente all’interno del Bosco di Capodimonte.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Lara Sirignano per "Il Messaggero" il 6 luglio 2021. Il libro in cui ha raccontato la sua storia si intitolava Ero cosa loro, una biografia fatta di violenze, destini già scritti, sopraffazione, fino alla scelta di uscire dalla prigione di una famiglia mafiosa che, su designazione dei fratelli, suo malgrado, aveva finito per guidare. Sarebbe stato l'amore per il figlio, che avrebbe voluto allontanare da una sorte criminale quasi naturale, a spingerla a pentirsi. «Mentre ero in carcere mi portarono mio figlio. Aveva solo sei anni e mi chiese perché fossi detenuta e cosa era la mafia. Io lo presi in braccio e tentai di spiegarli che la mafia è una brutta cosa», disse durante uno dei primi processi in cui vestiva i panni della collaboratrice di giustizia. Un ravvedimento durato poco quello di Giusy Vitale, 50 anni, sorella di due padrini, storici alleati di Totò Riina, alla guida del mandamento di Partinico, paesone a 50 chilometri da Palermo ostaggio dei fumi maleodoranti di una distilleria. Gli antichi legami si sarebbero riannodati attorno ai vecchi affari. E Giuseppina detta Giusy, che vantava il primato della prima boss in gonnella e della prima donna ad aver voltato le spalle al clan, è tornata in cella. Secondo la Dda di Palermo sarebbe a capo di una organizzazione di narcotrafficanti che, insieme ad altri 4 gruppi criminali, si spartiva la gestione dei flussi di stupefacenti tra Palermo, la provincia e Trapani.

L'ORDINANZA. «È assolutamente chiaro come la donna non si sia dissociata dall'ambiente criminale in genere e da Cosa nostra in particolare», scrive il gip nella ordinanza che applica la misura cautelare a 85 tra boss e trafficanti di droga, Giusy compresa. Tra gli episodi che dimostrerebbero che l'ex pentita, protagonista di documentari di diverse tv straniere, non ha mai rotto il suo rapporto con il clan c'è una sua conversazione con il nipote Michele Casarrubia del dicembre 2018. I due sono a Roma per trattare l'acquisto di una grossa partita di cocaina con il clan dei Casamonica. Casarrubia, nell'informare la zia delle dinamiche criminali della cosca di Partinico, le riferisce che, a seguito di un furto di marijuana commesso dal cugino, Michele Vitale, questi era stato convocato dai vertici della cosca per rendere conto del suo gesto. La donna, per nulla sorpresa, risponde che l'iniziativa è assolutamente fisiologica perché conforme alle regole di Cosa nostra. Regole che Giusy non ha mai dimenticato. Ma l'inchiesta della Dda che ha svelato il bluff della prima pentita ai vertici di un clan, racconta, ancora una volta, che a comandare in Cosa nostra sono sempre gli stessi personaggi. I Vitale, in questo caso. Il 41 bis, che ha ormai messo fuori gioco Leonardo e Vito, non ha interrotto la tradizione. E se Giusy è tornata alla famiglia in nome del business non hanno mai abbandonato la strada tracciata da Cosa nostra il nipote Michele, la sorella Antonina e il genero di Leonardo Vitale, Nicola Lombardo. A Michele appena adolescente, cresciuto a pane e mafia, il padre ergastolano sussurrava durante i colloqui in carcere di riferire «che c'era una vacca da scannare», chiaro riferimento a un omicidio da eseguire. Sulle orme del genitore il giovane Vitale entra ed esce di galera, poi passa a occuparsi degli affari e prende in mano un gruppo criminale capace di coltivare e produrre enormi quantità di marijuana e di gestire un vasto traffico di droghe. La banda controlla diverse piazze di spaccio e per la cocaina si approvvigiona dalla ndrina dei Pesce di Rosarno e da un noto narcotrafficante romano poi catturato in Spagna. Di peso nell'organigramma del mandamento anche Lombardo, deputato alla risoluzione di controversie tra privati. In virtù del prestigio criminale che gli derivava dall'inserimento organico nella famiglia di Partinico amministrava l'ingiustizia mafiosa dirimendo le liti tra imprenditori in disaccordo sulla concessione d'uso di alcune macchinette del caffè, recuperava trattori rubati a un uomo d'onore, faceva ottenere risarcimenti ad agricoltori il cui raccolto era stato devastato dagli animali di un allevatore. Ordinaria gestione di potere di un clan che ha potuto contare anche sull'appoggio di insospettabili: amministratori locali collusi il Comune recentemente è stato sciolto per infiltrazioni mafiose - ma anche un agente di polizia penitenziaria che, in cambio di ricotta, vestiti e buoni benzina portava fuori dal carcere gli ordini del boss detenuto. 

L'ex killer e collaboratore di giustizia tornato a vivere a Napoli. Gennaro Panzuto, le minacce su TikTok (“Esce Maradona e ti fa la festa”) e la camorra ‘status symbol’: “Ma sono tutti confidenti”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

Su TikTok è molto attivo e i suoi video ottengono migliaia di visualizzazioni. Clip dove attacca i clan di camorra, dove consiglia ai giovani di non lasciarsi affascinare dalla malavita e dove consiglia ai commercianti di denunciare sempre e non piegarsi mai alle richieste di racket. E’ la nuova vita di Gennaro Panzuto, 48 anni, ex killer ed ex collaboratore di giustizia tornato a Napoli a inizio 2021 dopo essere stato “sbattuto” fuori dal programma di protezione non senza polemiche.

Da mesi gira nella “sua” Torretta, zona del quartiere di Chiaia dove è nato e dove si è affermato anche all’interno del clan Piccirillo. Adesso gira per quelle viuzze, frequenta la zona degli Chalet, dà una mano al cognato che noleggia gommoni e tira avanti soprattutto grazie all’aiuto economico dei genitori in attesa di trovare un lavoro e di concretizzare alcuni progetti con tv straniere. “Perché per noi ex collaboratori di giustizia – spiega – è tutto difficile, la burocrazia non ci aiuta e i pregiudizi non finiscono mai”.

Il suo profilo su TikTok è molto seguito e i suoi video generano commenti e minacce. Spesso si ritrova sempre la stessa frase. “Ora che esce Maradona ti fa la festa“, dove per Maradona si intende il campione della malavita, il boss o l’elemento apicale che sarebbe pronto a vendicare con il sangue il tradimento, l’essere passato a collaborare con la giustizia e, cosa che non va sottovalutata, l’essere ritornato dopo 14 anni divisi tra carcere e domiciliari nella città dove faceva il camorrista.

“Rischio di morire tutti i giorni ma l’ho metabolizzato, l’unica cosa che mi fa paura è la vecchiaia. Mi attaccano su TikTok, mi minacciano anche di morte, mi danno dell’infame perché sono contro l’omertà, perché invito i commercianti a denunciare, perché denunciare non deve essere un tabù” spiega Panzuto, soprannominato in passato anche “Terremoto“, in una intervista al Riformista. “Sono tutte cose – precisa – che riferisco puntualmente alle forze dell’ordine, la Questura è al corrente di tutto perché una cosa deve essere chiara: sono loro che devono andare via da questa città”.

Le minacce arrivano da account fake e arrivano da diversi quartieri, in particolare Secondigliano. “Lì dove la parte malsana pensa di essere il ‘made in camorra‘ perché è questo uno degli effetti collaterali della serie Gomorra” sostiene Panzuto. Il “Maradona”  sarebbe un esponente apicale dell’Alleanza di Secondigliano, e in particolare del clan Licciardi. “Era il mio riferimento criminale, colui che mi ha cresciuto” spiega. Ma le minacce riguardano anche altre zone della città e arrivano soprattutto da giovani “che mi attaccano non perché sono un ex collaboratore di giustizia ma perché i miei messaggi vanno a cozzare con la loro realtà”.

Perché – ribadisce- “l’omertà nella camorra non esiste. Oggi più che ieri sono tutti un esercito di confidenti: è diventata una gara al tradimento, a chi deve rivelare informazioni contro i clan rivali o contro i propri alleati. I primi ad infrangere questa prima regola della camorra sono gli stessi boss. Tutti i clan blasonati di Napoli, a partire dai Licciardi, dai Mallardo, dai Contini, hanno i loro confidenti e sperano di avere una sorta di immunità, agevolazioni e trattamenti di favore. Ma – osserva – c’è l’esempio di Salvatore Lo Russo che dovrebbe essere emblematico. L’ex boss di Miano, confidente di Pisani, alla fine è stato arrestato”.

Perché è questa la fine di tutti i camorristi, quando non si ammazzano tra di loro. “Vivi sei mesi di gloria o poco più. Mesi di falso potere, di falsa ricchezza. Poi il conto arriva sempre e se va bene finisci in carcere per un bel po’. Oggi – puntualizza – la malavita è diventata più uno status symbol da ostentare, soprattutto sui social, che una strada per guadagnare soldi. Perché rispetto al passato, soprattutto i clan più piccoli, si dividono davvero le briciole”. “Tra 10 anni mi vedo vicino ai miei amici che non ci sono più, ridendo e scherzando” conclude, si spera con un velo di ironia, Panzuto.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Gennaro Panzuto, l’ex killer: “Se mi uccidono diranno che ero tornato nella camorra. Io sotto protezione? Solo a Napoli”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Dice che lo Stato lo ha scaricato da quando, lo scorso febbraio, non gli ha rinnovato lo status di collaboratore di giustizia, liquidandolo con poco meno di 30mila euro di capitalizzazione dopo 14 anni vissuti sotto protezione e invitandolo a lasciare la Liguria perché persona non gradita. Così da quasi nove mesi Gennaro Panzuto, 46 anni, detto “Terremoto“, ex reggente del clan Piccirillo nella zona della Torretta a Chiaia e killer di fiducia del potente clan Licciardi dell’Alleanza di Secondigliano, è tornato a Napoli dalla sua famiglia perché “qui ho un tetto dove dormire e non pagare le spese di affitto”. Spese che avrebbe voluto pagare senza problemi ma il reinserimento nella società di un ex pentito non è cosa facile, soprattutto in un periodo di pandemia, e “senza una busta paga, un contratto” non posso richiedere altri fondi che lo Stato prevede per chi ha collaborato con loro. Vive a Napoli da mesi. Ha rilasciato numerose interviste per far si che la “mia storia di merda sia da esempio per le giovani generazioni, per i tanti figli di Gomorra che ostentano, sono affascinati dalla malavita ma in realtà hanno solo bisogno di una guida sana, di qualcuno che indichi loro la strada”. La sua ambizione è quella di aprire una associazione antiracket alla Torretta, il suo quartiere, diventare un punto di riferimento per i cittadini che “hanno ancora paura di denunciare quando subiscono richieste e soprusi”. Vive a Napoli da nove mesi nonostante i clan che ha accusato da collaboratore sono ad oggi attivi sul territorio. Dai Licciardi, e quindi l’Alleanza di Secondigliano (Contini, Mallardo), ai Piccirillo e i Frizziero di Chiaia fino ai nemici dei Mazzarella. E’ consapevole di essere in pericolo ma non vuole andare via da questa città né tornare sotto protezione perché la considera “un meccanismo trappola” nonostante, tuttavia, i benefici, almeno in termini di pena da scontare, ricevuti. “La mia vita è rovinata, i miei figli (ben nove, ndr) vivono lontano e con loro spero di recuperare, ex compagne permettendo, il rapporto. Io per ora voglio restare qui ed essere d’aiuto. E’ l’unica cosa che chiedo a chi, di fatto, mi ha costretto a tornare a Napoli. Se devo essere protetto dallo Stato voglio che ciò avvenga nella mia città”. Poi la provocazione alla Direzione Distrettuale Antimafia che lo scorso anno ha dato parere favorevole alla sua uscita dallo status di collaboratore nonostante “diversi processi sono ancora in corso e i clan accusati sono tutt’oggi attivi”. “Che piaccia o meno – osserva Panzuto – senza i collaboratori non si va da nessuna parte. Senza il nostro apporto le indagini non si sbloccano così come le carriere”. Poi aggiunge: “Se oggi mi ammazzano, le persone che mi hanno fatto uscire dal programma di protezione diranno che sono stato ucciso non per rappresaglie vecchie ma perché volevo reinserirmi nella malavita di Napoli”.

Gennaro Panzuto. Facebook il 2 agosto 2021:

Salve mi chiamo Gennaro Panzuto, sono un ex collaboratore di giustizia e attualmente mi trovo a Napoli vorrei con la mia triste esperienza far capire ai giovani che la camorra e un cancro senza cura e siccome ancora oggi nonostante sia un collaboratore paradossalmente x loro sono una sorta di mito ed è x questo che mi piace pensare se certe cose dette da me vengono x loro prese più in considerazione  spero che ho l'opportunità di fare con voi qualcosa di costruttivo x questa bellissima città e sopratutto x tutti questi figli di Napoli che non hanno riferimenti positivi da seguire a presto. 

Antonio Giangrande: Di lei ho ripreso e pubblicato l’articolo de Il Riformista sul mio ultimo saggio di aggiornamento 2021 sulla Mafia, nel capitolo riguardante pentiti e collaboratori di giustizia. Ed in calce allo stesso inserirò questo messaggio senza data di nascita e numero di telefono. Essendo un saggista e non un giornalista, pubblicherò, al fine di ricerca e discussione, tutti gli articoli che riportano la sua testimonianza, indicando doverosamente autore ed editore. Testi di cui lei mi comunicherà i link da cui prelevarli. Io della cronaca faccio storia.

Gennaro Panzuto. Facebook il 2 agosto 2021: Stanotte guardavo questo noto film di Pasquale Squitieri GUAPPI con un superlativo Fabio testi e un incantevole Claudia cardinale ...oggi il mondo intero e convinto che vedendo gomorra ha capito come viviamo a Napoli e sopratutto che la nostra cultura è legata alle dinamiche narrate di gomorra ...mentre invece quella che gomorra fa vedere e una sub cultura che non ha niente a che vedere con le nostre radici e la nostra cultura ...quel genio di pasquale squitieri gli e dovuto che lo chiamo così...anni indietro e riuscito a creare l'esatta fotografia sia culturale che umana di questa bella e paradossale città.. si narrando una realtà come la camorra ma facendo bene attenzione a far capire da dove nasce la camorra dalla fame dalla poco istruzione e della coerente mancanza dello stato ....lasciando anche spazio nella figura di coppola rossa che ci può esistere in questa città la speranza di un cambiamento ..e no come purtroppo gomorra ha fatto credere al mondo intero che la camorra nasce x la conquista del monopolio della droga e basta ....la realtà è quella di pasquale squitieri e senza se e senza ma posso dire chi vuole capirci qualcosa di questa triste realtà che è la camorra guardasse questo film ...io speriamo che me la cavo di Paolo villaggio...scugnizzi...mi manda picone...questi film raccontano napoli ...gomorra a fatto solo si che questi giovani senza riferimenti imitano goffamente i personaggi di gomorra e solamente x ottenere uno status simbolo e no x la FAME che davvero si è vissuto in passato ..ricordatevi lo stato prima ci ha affamati poi ci ha etichettati e dopo ci ha anche usato da diversivo così la gente litalia intera mentre era distratta e giustamente impaurita dalle guerre di mafie ..loro indisturbati facevano i loro porci comodi creando carriere e creandosi tesori che ancora adesso custodiscono ......io lo dirò fin che campo ho trovato più misericordia nell'antistato che dallo stato ....e detto da me che sono stato un cammorrista e un assassino siamo obbligati a fare una lunga riflessione .......gp

"Oggi sono tutti figli di Gomorra ma è solo apparenza". Gennaro Panzuto, il killer pentito torna a Napoli: “Lo Stato ti abbandona, rischio la vita qui ma non vado via”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 22 Giugno 2021. “Rischio di morire tutti i giorni ma da Napoli non voglio andarmene, se ne devono andare loro”. A parlare è Gennaro Panzuto, 46 anni, ex killer di camorra e per 14 anni collaboratore di giustizia. Dallo scorso mese di febbraio 2021 è tornato nella sua città d’origine e non ha intenzione di andarsene. Anzi. Vuole raccontare alle nuove generazioni, soprattutto a quei ragazzini che imitano la serie Gomorra e ne subiscono il fascino, che la malavita non porta a nulla. “Carcere o morte, non ci sono altre alternative” racconta l’ex pentito, da tutti conosciuto come “Genny terremoto” perché “in tutte le cose criminali che facevo creavo uno scossone”. Gennaro oggi ha nove figli, avuti da tre donne diverse, che vivono lontano da Napoli. In passato elemento apicale e braccio armato del clan Piccirillo della Torretta, zona popolare del quartiere Chiaia, guidato dallo zio Rosario Piccirillo (attualmente in libertà vigilata lontano da Napoli dopo quasi 20 anni di carcere), l’ascesa criminale di Panzuto è avvenuta a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila. La sua cosca era manovrata dall’alto dall’Alleanza di Secondigliano e soprattutto dal clan Licciardi. Genny è stato arrestato nel 2007 in Inghilterra, dove si era trasferito per gestire alcune attività illecite dell’organizzazione (“aprivamo società nel settore dell’abbigliamento, poi le facevamo fallire trattenendo però tutti i capi e rivendendoli”), e dopo pochi mesi è passato a collaborare con la giustizia. Era accusato di omicidio e di associazione camorristica, rischiava l’ergastolo. “E’ stata la mia compagna a convincermi. Avevamo figli e mi ha fatto capire che passare dalla parte dello Stato sarebbe stata la scelta migliore per il futuro. Così – racconta – dopo diverse settimane al 41 bis, decisi di pentirmi e raccontare tutto quello che sapevo. Non è stato facile perché in quei 180 giorni, dove le tue dichiarazioni sono al vaglio dei magistrati, ho tentato più volte il suicidio”. Panzuto punta però il dito contro il sistema dei pentiti in Italia: “E’ solo un modo per i magistrati per fare arresti e fare carriera perché noi ex collaboratori di giustizia non riusciamo più a reinserirci nella società. Dopo 14 anni da pentito (passati in carcere e ai domiciliari), lo Stato mi ha liquidato con 30mila euro. Che ci faccio con questi soldi? Non posso nemmeno fittarmi una casa perché le referenze non sono dalla mia parte. Il problema è che lo Stato, purtroppo, non ci crede nel cambiamento di una persona e ci lascia allo sbaraglio”. Per Panzuto il modello da seguire è quello americano: “Ti cambiano identità e di danno un lavoro vero, poi appena commetti il primo errore torni subito in carcere”. Il ritorno nella sua città non è passato inosservato. Panzuto non vive più alla Torretta ma è spesso in giro e non ha paura: “Nel mio quartiere pensano che sono tornato per dare una mano a mio zio, altri clan pensano invece che sono tornato per rimettermi in gioco nella malavita. Ma le forze dell’ordine sanno perché sono a Napoli: io non sarò mai più lo strumento di morte per nessuno. Oggi – prosegue – rischio tutti i giorni di morire perché i miei clan storici sono ancora attivi. Sto parlando dei Contini, dei Licciardi, dei Mallardo, così come i clan nemici. Noi criminali abbiamo fatto diventare questa città come Beirut e per me collaborare con lo Stato era anche per provare a dare il mio contributo. Tuttavia, nonostante le mie dichiarazioni, tanti processi non sono mai partiti”. Panzuto è il cugino di Antonio Piccirillo, 25 anni. Antonio è il figlio di Rosario e più volte in questi anni ha preso le distanze dalla criminalità organizzata scendendo in piazza con l’Antimafia. “Invito mio cugino, visto e considerata la sua posizione, a supportarmi in questa lotta sociale che sto facendo anche io, per invitare i giovani a fare lo stesso passo” auspica "Genny terremoto". “I ragazzi oggi sembrano tutti figli di Gomorra. All’apparenza sembrano tutti malavitosi per come si vestono, come si pongono. E’ uno stile che è diventato uno status. Oggi tutti pretendono rispetto, vogliono prevalere sugli altri. In realtà questi giovani vengono utilizzati dai grandi clan per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e continuare in silenzio a portare avanti i propri affari”. “Oggi vorrei essere un esempio per i ragazzi. Vorrei raccontare la mia esperienza e far capire loro che ci sono altre strade. Da piccolo sognavo di fare il contrabbandiere perché pensavo fosse davvero un mestiere lecito. Purtroppo sono cresciuto così, in un ambiente dove c’era poco da scegliere. I ragazzi oggi invece devono avere l’opportunità di scegliere e capire bene cosa è giusto e cosa è sbagliato. La fascia d’età 15-25 anni è quella più delicata: se non vieni seguito bene, allora rischi davvero di prendere una brutta strada e pagarne poi le conseguenze. Quando sei più grande, invece, hai una consapevolezza diversa”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Il sistema e la mafia. A cosa servono i pentiti e cosa gli viene chiesto: la verità o nuovi arresti? Nicola Quatrano su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Decine tra Procuratori, Sostituti Procuratori, giornalisti allineati e politici di scorta ci hanno ammonito in questi giorni a non scandalizzarci per la liberazione di Giovanni Brusca, che ha saldato, con 25 anni di carcere (non duro), la pena inflittagli per “non mi ricordo” quanti omicidi (en passant, anche un bambino), ma stimabili più o meno in 150. E si capisce la soddisfazione dei Pm (e dei giornalisti allineati e politici di scorta) che hanno fatto carriera grazie agli arresti che Brusca ha reso possibile, meno digeribile è il giudizio del Procuratore Antimafia, Cafiero de Raho, secondo cui si sarebbe trattato di «una vittoria dello Stato». Poteva anche essere meno enfatico, tutto sommato! Il canovaccio è comunque sempre lo stesso: i testimoni a contratto (questo sono i “pentiti”) sono sgradevoli, moralmente discutibili, ma essenziali. E sono indispensabili per battere le Mafie. Con la stessa pacata sicurezza però, dopo 30 anni e forse centinaia di “pentiti”, gli stessi Procuratori, Sostituti Procuratori (giornalisti allineati e politici di scorta), ad ogni tentativo di rendere meno sadica la tortura del 41 bis, ci ammoniscono che “la Mafia non è morta, è viva e vegeta, e non bisogna abbassare la guardia”. E allora – viene da chiedersi – a che cosa sono serviti tutti questi “pentiti” ben pagati? La “vittoria” dello Stato si risolve in definitiva nell’assicurare una tranquilla pensione a Giovanni Brusca? Da parte mia, non voglio negare che i “pentiti” siano utili, e nemmeno che molti altri ordinamenti se ne servano. Si tratta però di capire che cosa ad essi viene davvero chiesto, in cambio di sontuosi vantaggi processuali ed economici: la verità? O semplicemente altri arresti (e i progressi di carriera che spettano a chi li esegue). Sembra un sofisma, ma non lo è. Ce lo ha insegnato il caso Tortora. Anche lì i “pentiti” erano la novità che poteva consentire di sgominare la terribile Nco di Raffaele Cutolo, ma ad essi non si chiedeva la “verità”, soltanto “arresti”, e magari eccellenti. Il resto è storia. Il difetto – come sempre – sta nel manico. La speciale attenuante ex art. 8 dl 152/91 prevede rilevantissimi sconti di pena (e altri vantaggi) a chi aiuti “concretamente” gli inquirenti a raccogliere “elementi decisivi” per la ricostruzione dei fatti, e per la individuazione o la cattura degli autori dei reati. Immaginate però quale può essere il dramma di chi vorrebbe assicurarsi tutto questo ben di Dio, ma non ha magari niente di aggiungere a tutto quanto hanno già detto le centinaia di pentiti che affollano le località protette! O desiste, e si tiene il suo ergastolo al 41 bis… O si inventa qualcosa. Tanto – penserà – i Pm sono di bocca buona e, pur di arrestare, non vanno troppo per il sottile. Vero che c’è un’altra strada (una “terza via” non manca mai), e la raccontò un pentito che chiameremo “Procopio”, a proposito di un altro che chiameremo invece “Cesare”. Ebbene Procopio disse che, quando militavano insieme in un clan camorrista dell’hinterland napoletano, Cesare a un certo punto cominciò a fare cose strane. Commetteva e, soprattutto, commissionava omicidi che non avevano ragione né senso. «Allora – dice Procopio – capimmo che aveva intenzione di pentirsi». E preparava il suo canestro di arresti da fornire agli inquirenti. Certo, se ci fosse un Giudice davvero terzo, tutto questo non sarebbe possibile. Un Giudice che analizzasse e valutasse la prova con lo scrupolo necessario. Ma in un Paese in cui l’unicità delle carriere dei magistrati, invece di ancorare il Pm alla cultura della giurisdizione, ha solo finito col trascinare il Giudice verso la cultura poliziesca che pervade irrimediabilmente le Procure dell’intera Repubblica, il famoso Giudice di Berlino non si distingue quasi più dall’ago nel pagliaio. Nemmeno la Corte di Cassazione, zeppa di ex Pm, che si è distinta in questi anni per travisare, a vantaggio delle Procure, quelle poche norme garantiste lasciate intatte da Parlamenti che, quanto a loro, cercavano il consenso riducendo le garanzie. Quel che forse è peggio, è che più o meno tutto quanto oggi sappiamo delle Mafie – in assenza di vere indagini – ci viene dalle bocche dei pentiti. Non solo i nomi, ma anche il contesto e le dinamiche criminali. Notizie fornite con l’esigenza di stupire, di fornire a tutti i costi quegli “elementi decisivi” capaci di cambiare la vita. Non so perché (non è vero, lo so) mi viene in mente l’annotazione (ricordata da Sciascia e credo anche da Manzoni) del giudice Giovan Battista Sacco nel fascicolo processuale di Caterina Medici, bruciata al rogo come strega nel 1617 a Milano. Egli segnalava che la stessa imputata, sotto tortura, aveva rivelato che tutte le streghe hanno la pupilla dell’occhio più bassa e più profonda delle altre donne. Con ciò indicando un segno di riconoscimento da tener ben presente nei casi futuri. Chissà quante altre sventurate hanno subito il rogo per colpa delle loro pupille. Nicola Quatrano

"Il Boss dei due Mondi" o "Don Masino". Chi era Tommaso Buscetta, il “traditore” della Mafia che ha svelato Cosa Nostra a Giovanni Falcone. Vito Califano su Il Riformista il 24 Maggio 2021. Tommaso Buscetta è stato definito il “Boss dei due mondi”, era soprannominato Don Masino, l’uomo che svelo Cosa Nostra. Considerato il primo collaboratore di Giustizia, “uomo d’onore”, a svelare ai magistrati il funzionamento e i meccanismi della Mafia. La sua figura ha ispirato molte opere e compare in quasi tutti i film e i libri che raccontano gli anni della Mafia stragista. L’ultimo in ordine di tempo, Il traditore di Marco Bellocchio del 2019, è valso numerosi riconoscimenti all’attore Pierfrancesco Favino, nel ruolo di Buscetta, a Luigi Locascio e al regista, ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento tra gli altri. Buscetta era nato a Palermo, nel 1928, da una famiglia poverissima, ultimo di 17 figli. Sposò a 16 anni Melchiorra Cavallaro dalla quale ebbe quattro figli. Avrebbe sposato nel 1966 in Messico la soubrette Vera Girotti, con la quale ebbe la figlia Alessandra. E quindi due anni dopo, in Brasile, conobbe Cristina De Almeida Vimarais, che sposò anni dopo, nel 1978, in carcere a Torino, e con la quale ebbe quattro figli. A Enzo Biagi raccontò di aver perso la verginità a 8 anni con una prostituta in cambio di una bottiglia d’olio. Fin dall’adolescenza iniziò una serie di attività illegali nel mercato nero. Divenne celebre, degno di “rispetto”, quindi soprannominato “Don Masino”. Nel 1945 venne affiliato a Cosa Nostra ed entrò a far parte del mandamento palermitano di Porta Nuova. Si trasferì in Argentina e in Brasile prima di tornare a Palermo. Divenne un killer, coinvolto nel contrabbando di sigarette e nello spaccio di droga. Fu arrestato per contrabbando e associazione a delinquere.

PRIMA GUERRA DI MAFIA – Quando scoppiò la cosiddetta “Prima guerra di Mafia” si schiero con Angelo La Barbera per poi passare al gruppo di Salvatore “Cicchiteddu” Greco. Dopo la strage di Ciaciulli, della quale negò ogni responsabilità, fuggì in Svizzera, Messico, Canada e quindi negli Stati Uniti d’America, dove aprì una pizzeria con un prestito della famiglia Gambino. Nel 1968 venne condannato in contumacia a 10 anni per associazione a delinquere. Nello stesso processo fu assolto per i fatti di Ciaculli.

Riuscì a eludere la legge per anni, viaggiando in Italia e in tutto il mondo sotto falso nome, con documenti contraffatti. Dopo un arresto a Brooklyn fu rilasciato dopo il pagamento di una cauzione da 75mila dollari. Una volta in Brasile fece partire un traffico di eroina e cocaina verso il Nordamerica. Reinvestì il denaro in una compagnia di taxi. Fu arrestato nel 1972: nel suo deposito blindato in Brasile fu trovata eroina per un equivalente di 72 miliardi di lire. Era ritenuto a capo di una rete di trafficanti còrsi, italo-brasiliani e italo-americani. Estradato, fu rinchiuso nel carcere dell’Ucciardone a Palermo, condannato a otto anni per traffico di stupefacenti. Raccontò anni dopo che in carcere a Cuneo fu avvicinato da uomini di Francis Turatello affinché si occupasse di liberare Aldo Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse nel 1978. Trasferito nel carcere piemontese le Nuove, evase nel 1980 e si nascose nella villa dell’esattore Nino Salvo, sotto la protezione dei boss Stegano Bontate e Salvatore Inzerillo, che volevano arruolarlo nella loro lotta a Salvatore Riina, il nuovo boss della famiglia dei corleonesi. Fece ritorno in Brasile e si sottopose a due operazioni: alla faccia e alla voce per non essere più riconoscibile.

SECONDA GUERRA DI MAFIA – Quando la seconda guerra di Mafia finì nel 1984, con la vittoria dei corleonesi, Riina decise di eliminare Buscetta. Due figli di quest’ultimo scomparvero nel nulla e non vennero mai ritrovati, furono uccisi un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti per un totale di 11 parenti. Fu arrestato mentre era nella sua abitazione di San Paolo in Brasile con Leonardo Badalamenti. Rifiutò di collaborare con i giudici Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci. Provò ad avvelenarsi con la stricnina quando fu concessa l’estradizione. Arrivò in Italia accompagnato dagli uomini del vicequestore Gianni De Gennaro e decise di collaborare.

LA COLLABORAZIONE – A Falcone raccontò organigrammi e piani della Mafia: perché non si riconosceva più nella nuova Cosa Nostra, quella dei corleonesi, che a suo dire aveva perso la sua identità. Il traditore insomma non era lui, ma proprio i sanguinari di Totò Riina che per conquistare il potere avevano abbandonato “dei valori, dei principi conosciuti e condivisi da tutti”. Le sue dichiarazioni aprirono il mondo della Mafia fino ad allora ignoto per l’omertà degli affiliati. Mandamenti, famiglie, la Commissione che era l’organo di vertice di Cosa Nostra. I magistrati riuscirono a capire quello che stava succedendo a Palermo. Rifiutò però di parlare dei legami politici di Cosa Nostra. Fu estradato nel 1984 negli Stati Uniti, con una nuova identità e la libertà vigilata in cambio di nuove rivelazioni contro la Mafia americana, testimoniando nel 1986 al Maxiprocesso di Palermo e nel processo Pizza Connection di New York. Dopo gli attentati mortali ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Buscetta cominciò a parlare dei legami politici di Cosa Nostra facendo i nomi dell’onorevole Salvo Lima e di Giulio Andreotti come principali referenti dell’organizzazione. Fu quindi tra i principali testimoni nei processi a carico di Andreotti per associazione mafiosa e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli del 1979. Andreotti fu assolto per quest’ultimo e ritenuto connivente con la mafia per fatti precedenti al 1980, prescritti al momento della sentenza.

LA MORTE – Buscetta fece molto discutere con una sua crociere nel Mediterraneo e in un libro intervista con Saverio Lodato criticò lo Stato per non aver distrutto Cosa Nostra. È morto a 71 anni, a New York, stroncato da un tumore che lo aveva colpito da anni. È sepolto sotto falso nome a North Miami.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il caso. La testimonianza di Brusca può scagionarlo, la direzione nazionale antimafia si mette di traverso. Angela Stella su il Riformista il 28 Marzo 2021. «Non è accettabile che le dichiarazioni dei pentiti siano utilizzate solo quando sono funzionali alle tesi accusatorie, mentre siano ostacolate quando potrebbero servire per esigenze difensive»: a parlare è l’avvocato Michele Capano, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale, e difensore di Stefano Genco, condannato in via definitiva nel 2000 per concorso esterno in associazione mafiosa a 4 anni di reclusione. L’avvocato Capano, nell’ambito dell’attività propedeutica al deposito di un’istanza di revisione della condanna, il 17 settembre 2020 ha chiesto di escutere il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, detenuto al momento nel carcere romano di Rebibbia. Il 28 settembre il magistrato di sorveglianza di Roma autorizzava il legale a sentire Brusca, per poi precisare che la modalità per lo svolgimento del colloquio con Brusca sarebbe dovuta avvenire in video collegamento, secondo le indicazioni dettate dal Servizio Centrale di Protezione, che fa capo al Ministero dell’Interno. «Da quel momento, nonostante il sollecito dello stesso Magistrato di sorveglianza al Servizio Centrale di Protezione e al carcere di Rebibbia, non ci è stato consentito di effettuare l’investigazione difensiva. A sei mesi di distanza dall’autorizzazione – prosegue Capano – dobbiamo prendere atto della condotta eversiva di importanti articolazioni dello Stato, che si ostinano a ignorare il disposto di un provvedimento giurisdizionale, come un qualunque latitante. Ben due Ministeri – Giustizia per il carcere e Interni per il Servizio Centrale – si fanno beffe della decisione di un Magistrato di Sorveglianza, alla faccia della divisione dei poteri. Mi chiedo, sempre alla faccia della divisione dei poteri, da chi queste articolazioni del potere esecutivo prendano effettivamente ordini. Mentre la Direzione Nazionale Antimafia interviene “a monte” della procedura, rilasciando un parere che viene richiesto dal magistrato prima di autorizzare, tali articolazioni del potere esecutivo, “a valle”, aspettano il definitivo benestare della stessa Direzione Nazionale Antimafia, al di fuori di ogni norma. Mi chiedo, ed ho chiesto nei giorni scorsi al Ministro della Giustizia Marta Cartabia ed al Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese inviando loro una nota, se viviamo in un Paese nel quale le Istituzioni siano libere di non rispettare provvedimenti giudiziari o se sia possibile pretendere la concreta vita dello Stato di Diritto». Tale condotta, secondo Capano, lede il diritto di difesa del suo assistito: l’istanza di revisione serve infatti a sottoporre al vaglio di alcuni magistrati acquisizioni utili ad evidenziare un possibile errore commesso ai danni del Genco dai giudici dell’epoca, avvalendosi anche del contributo di verità che potrebbe fornire Giovanni Brusca. «Brusca, a quanto pare, invece è “Cosa Loro”: neanche a venticinque anni di distanza dall’ inizio della sua collaborazione, quando hanno avuto ogni agio nel chiedere ed ottenere dal collaboratore tutte le informazioni di cui avevano bisogno, si consente ad un difensore di valersi di quella fonte di prova per un contributo di verità. È un’esperienza, l’ennesima, che induce a riflettere sul reale “stato” della possibilità del difensore di fiducia di svolgere attività investigativa a beneficio del proprio cliente, secondo la disciplina che la legge 397 del 2000 inserì nel corpo del nuovo codice del 1988». Alla prova dei fatti, una volta di più, «si rivela l’ ipocrisia di apparenti “poteri difensivi” che necessiterebbero – per rendersi concreti – della collaborazione di quelle stesse Procure che hanno interesse contrario alle investigazioni stesse: è un sistema che non funziona. Ci vuole un’Autority per queste investigazioni: un soggetto terzo che garantisca la difesa in evenienza di questo genere: lo dico e propongo all’Unione delle Camere Penali. Proprio nel corso del lavoro per quest’istanza di revisione, mi sono imbattuto in una chiusura assoluta (priva di tutela giurisdizionale rispetto ai dinieghi) a richieste documentali da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, cioè di quella Procura i cui errori secondo la prospettazione difensiva – noi vorremmo sottolineare attraverso la revisione». In conclusione, ci dice Capano: «Voglio pensare che contributi utili all’accertamento della verità abbiano un valore anche quando propiziati da esigenze difensive tese a pronunce assolutorie, oltre che quando necessitati da ragioni accusatorie tese all’individuazione di reati. Questo vorrebbero il codice di procedura penale ed il Magistrato di Sorveglianza di Roma che ci ha coraggiosamente autorizzato, questo non vogliono “altrove”. Mi auguro che l’alto intervento delle Ministre cui mi sono rivolto possa risolvere questa situazione incancrenita».

La riflessione dopo la morte di Cutolo. Il paradosso di uno Stato contro la tortura che usa il carcere duro per estorcere collaborazioni. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 21 Febbraio 2021. La morte di Raffaele Cutolo era, purtroppo, prevedibile. Non tanto per la sua età, ma perché, da tempo, in gravissime condizioni di salute. Il 6 luglio scorso, l’Unione Camere Penali Italiane, con l’Osservatorio Carcere, aveva denunciato che, nonostante il quadro sanitario allarmante, non era stata autorizzata la visita del medico di fiducia, per non meglio specificate “ragioni di opportunità”. Ciò nonostante quanto riferito dalla moglie e dalla figlia del detenuto che, in una delle poche occasioni d’incontro concesse, avevano constatato come il loro congiunto non fosse in grado di alzare gli occhi, di portare un bicchiere d’acqua alla bocca, di parlare e comunque di interagire. Stato comatoso confermato anche dal suo difensore che descriveva una persona immobile, condotta in sala colloqui con la sedia a rotelle, con il capo reclinato verso il petto, in silenzio e privo di reazioni di qualsiasi genere. All’epoca, Cutolo assumeva quindici pillole al giorno, straziato dal diabete, dalla prostatite, dall’artrite ed era fortemente ipovedente. Eppure quella piccolissima parte della riforma dell’Ordinamento Penitenziario divenuta legge aveva ribadito che «i detenuti e gli internati possono richiedere di essere visitati a proprie spese da un esercente di una professione sanitaria di loro fiducia» e aggiunto che «possono essere autorizzati trattamenti medici, chirurgici e terapeutici da effettuarsi a spese degli interessati da parte di sanitari e tecnici di fiducia». Le “ragioni di opportunità” evidentemente furono ritenute prevalenti sul principio costituzionale del diritto alla salute e sulle norme dell’Ordinamento Penitenziario. Non sembrò “opportuno” che un ottantenne, capo di un’associazione criminale che non esiste più da almeno 40 anni, detenuto da 57 anni, potesse avere le cure di un medico di fiducia. Egli doveva attendere che la vendetta giungesse a termine. Oggi il nemico è morto e alla Questura di Napoli è stato affidato il compito di organizzarne il trasferimento da Parma a Ottaviano e la sepoltura. Non vi è dubbio che Raffaele Cutolo sia effettivamente stato un “nemico”, un colpevole di efferati delitti, un uomo che ha voluto la morte di altri uomini, ma dobbiamo continuare a interrogarci su quale sia la strada maestra per avversare tali condotte criminali e, soprattutto, se quella intrapresa sia la migliore e conforme a giustizia. Su questo tema, più volte l’Unione Camere Penali Italiane è intervenuta per denunciare l’illegittimità della detenzione speciale prevista dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario nel giugno del 1992. Una norma di carattere emergenziale, divenuta poi definitiva e quindi a pieno regime, introdotto nel 2002. Circostanza che conferma, ancora una volta, che nel nostro Paese ciò che è provvisorio diventa definitivo e che non si è in grado di affrontare concretamente un’emergenza destinata a essere cronica. Dal 1992, cioè da circa trent’anni, siamo quindi in perenne allarme. Ma qual era, all’epoca, l’emergenza? Il 23 maggio 1992 vi era stata la strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e di altre quattro persone. Il Governo pensò di affrontare la gravità della situazione con il carcere duro, per dare il segnale di uno Stato forte. Ma dopo poco più di un mese dal decreto legge, il 19 luglio 1992, il dramma si replicò con la strage di Via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e altre cinque persone. Quanto accaduto dimostra, senza possibilità di smentita, che la scelta politica non fu delle migliori e che non era – e non è – la strada da intraprendere. Il 41 bis prevede che, quando ricorrono gravi motivi di ordine o di sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia possa sospendere il trattamento rieducativo nei confronti di alcuni detenuti. Tale sospensione dovrebbe avere lo scopo d’impedire i collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza. Quanto accaduto dall’entrata in vigore della norma, fa comprendere che la scelta – oltre a essere a nostro avviso illegittima – non paga e che sarebbe meglio, invece, intensificare l’opera di risocializzazione verso queste persone, intervenendo anche all’esterno sul tessuto sociale di appartenenza. Oggi i detenuti che scontano la pena in regime previsto dall’articolo 41 bis sono ben 700. Certamente non sono tutti capi di cosche criminali. La maggior parte sono gregari a cui la vita – e dunque lo Stato – non ha offerto alternative e continua a non offrirne, impedendo anche quel trattamento previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Ma la detenzione speciale non è solo sospensione del trattamento. Nella pratica va molto oltre quello che prevede la norma e si concretizza nel termine usato di “carcere duro”. “Duro” perché si è reclusi in istituti o sezioni speciali, sorvegliati da personale specializzato della polizia penitenziaria. Si ha diritto a un solo colloquio al mese, video controllati e registrati, in locali in cui non è possibile alcun contatto. Se non si fa il colloquio, una telefonata al mese di dieci minuti, registrata. Limitazione dei beni e del danaro ricevuto dall’esterno. Censura della corrispondenza. Massimo due ore di aria al giorno con non più di quattro persone. È, di fatto, una detenzione che mira all’annientamento della personalità dell’uomo, in nome di una ragione ufficiale d’impedire i contatti con l’esterno. Ma vi è anche un altro scopo, denunciato più volte dall’Unione Camere Penali Italiane e detto a “bassa voce” da altri, quello investigativo. La collaborazione alle indagini può far venire meno lo stato di detenzione speciale. A fronte di tale unica via d’uscita, per ragioni di sopravvivenza, chi non ha nulla da offrire al suo carnefice, deve recitare un fantasioso copione, con le devastanti conseguenze giudiziarie per altri soggetti spesso innocenti. Vi è poi l’interpretazione restrittiva della norma, nella sua applicazione concreta. Si potrebbero citare un’infinità di casi. Basti per tutti quanto accaduto il mese scorso. È stato vietato ad un recluso al 41 bis l’acquisto del libro scritto dall’ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia. Le ragioni: possibile aumento del suo carisma criminale. Ci si chiede, pertanto, come abbia fatto Raffaele Cutolo a sopravvivere a 34 anni e 2 mesi in regime di 41 bis e se della sua detenzione lo Stato – quello di diritto, che ha abolito la pena di morte e introdotto, seppur recentemente, il delitto di tortura – debba essere fiero.

La trattativa infinita sulla dissociazione dei boss. Enrico Bellavia su L'Espresso il 23 febbraio 2021. Ventotto anni di negoziato tra offerte, disegni di legge e proclami per una via d’uscita morbida dalle organizzazioni criminali. Così i padrini inseguono la fine del 41 bis. Dici dissociazione e pensi trattativa. Per questo conviene andare indietro almeno a 28 anni fa. 1993. Per capire cosa accade intorno al ciclico ritorno del tema, bisogna tornare a quell’anno. L’anno delle stragi al Nord, l’anno che precede l’arresto di Giuseppe e Filippo Graviano, l’ultimo boss in ordine di tempo ad avere annunciato la presa di distanza dall’organizzazione senza però "farsi pentito". In mezzo c’è la revoca unilaterale del 41 bis che ferma gli eccidi e scongiura l’attentato all’Olimpico. Le manette ai due fratelli stragisti, a gennaio 1994, interrompono il negoziato ma non mandano in soffitta il progetto di una via morbida all’uscita da Cosa nostra: assunzione di responsabilità ma senza accuse ai sodali. L’idea, mutuata dalla legislazione sul terrorismo, non trova applicazione nelle norme antimafia, ma tenta più di un magistrato di sorveglianza, indotto a vedere nella scelta di dissociarsi quel venir meno dell’attualità del pericolo che intanto fa cadere il regime di carcere duro. Poi, forse, consente l’applicazione dei benefici premiali per chi ha buona condotta da esibire e lunga espiazione. Cade così il tabù dell’ergastolo ostativo. Picconate su picconate, con bollo di Cassazione e Corte Costituzionale, in nome delle garanzie, con più di un sospetto che si tratti di un espediente svuota carceri. Trattativa e dissociazione compaiono insieme in una informativa ufficiale dello Sco del settembre del 1993, proprio nel pieno della stagione delle bombe: «Obiettivo sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il “carcerario” e il “pentitismo”». In realtà il negoziato, scolpiranno i giudici di Firenze in sentenza, è già un pezzo avanti. Il perimetro è quello delle carceri. Lì si gioca la partita. Allora come adesso. Perché il dissociato è solo un ex, non un collaboratore di giustizia il cui profilo era stato disegnato da Giovanni Falcone, ma un “mafioso in sonno”. Se le carceri sono il perimetro, la Chiesa spesso è stata la leva. L’intenzione è buona ma di buone intenzioni, si sa, è lastricata la strada per l’inferno. Febbraio 1994, il vescovo dei terremotati, un insospettabile come monsignor Antonio Riboldi, lancia l’idea della resa per centinaia di camorristi. Vogliono accedere al rito abbreviato, che garantisce lo scontro di un terzo della pena. In soldoni significa: niente ergastoli e massimo 30 anni. E a cascata i benefici: lavoro esterno, semilibertà, permessi premio. A settembre di quello stesso anno il pentito Domenico Cuomo gela gli entusiasmi e rivela che quel progetto è la risposta meditata dei vertici della camorra al pentimento di Pasquale Galasso e all’arresto di Carmine Alfieri. A raccontarla più o meno negli stessi termini è anche il casalese Dario De Simone. Carceri, Chiesa e, naturalmente, Parlamento. Il 29 marzo del 1995 il vice presidente della Camera Luciano Violante tende la mano: «Uscite, venite fuori dalla organizzazione, consegnatevi, e lo Stato saprà valutare con equilibrio questo vostro comportamento. Noi non vi chiediamo necessariamente il pentimento, cioè la collaborazione». L’autorevolezza del personaggio consente uno sfondamento a sinistra. Don Luigi Ciotti ha il prestigio per metterci il proprio doppio bollo d’assenso. Ma Giancarlo Caselli, procuratore capo a Palermo, nel luglio del 1996 è costretto a raffreddarlo: «La «dissociazione è pericolosa, potrebbe rallentare l’insostituibile contributo di collaborazione e sarebbe un lusso che noi non possiamo consentirci». Proprio in quei giorni è deflagrata la notizia che a dissociarsi è stato Salvatore Cucuzza, il killer del segretario regionale del Pci Pio La Torre, ucciso nel 1981. Cucuzza, in realtà, prova a rimanere nel limbo ma quando i pm di Palermo gli dicono che deve collaborare, non senza qualche tentennamento, finisce per saltare il fosso. Ma il Parlamento ha ricevuto: il 13 dicembre del 1996 il senatore Bruno Napoli, del Centro cristiano democratico insieme con i colleghi Davide Nava e Melchiorre Cirami (quello del legittimo sospetto) presentano i 15 articoli del disegno di legge ‘‘Misure a favore di chi si dissocia dalla mafia’’ che nelle intenzioni dovrebbe offrire la «la via istituzionale più genuina e trasparente», quella legislativa. L’alt dei magistrati è fermo e la questione viene accantonata fino al febbraio del ‘99 quando a riproporla è l’autista di Totò Riina, Salvatore Biondino. Chiede un incontro al procuratore nazionale Pierluigi Vigna e ai procuratori di Palermo e Caltanissetta, Piero Grasso e Giovanni Tinebra. Grasso dice no, Tinebra sì, Vigna vuole spingersi oltre e continua i colloqui investigativi fino ai primi mesi del 2000 oltre che con Biondino con Pietro Aglieri, Giuseppe Madonia e Michele Greco. Tempo dopo, in Antimafia, raccontò che a colpirlo furono le parole di uno dei mammasantissima: «Cosa nostra un tempo era onorata, in un altro tempo faceva paura, ora fa schifo». I boss proposero di riunirsi per redigere un testo comune che servisse a formalizzare la loro scelta. A parole non chiedevano neppure la revoca del 41 bis, ma solo un invito alle nuove generazioni a non seguire il loro esempio. Vigna disse che dal governo non arrivò il via libera e la questione si arenò ancora. Il 6 giugno del 2000 è l’avvocato Carlo Taormina dice al Giornale: «Credo che lo Stato sia divenuto abbastanza forte in confronto della mafia. Mi chiedo se non sia il caso di intraprendere quella strada (la dissociazione) anche per i mafiosi al fine di riconsiderare razionalmente la questione carceraria di questi detenuti». Due giorni dopo parla il procuratore nisseno Tinebra e apre alla dissociazione, ma poi l’anno dopo, frattanto diventato capo delle carceri, dirà al Corriere della Sera di aver cambiato idea. Ma nel giugno del 2000 vuole dire la sua anche l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino che al Messaggero offre anche la data di morte della mafia, 1958: «Dopo è solo delinquenza». Tira in ballo i tentativi di Vigna e lancia un segnale diretto alla politica. «Lo Stato non è Vigna e per trattare bisogna essere in due». Il 6 febbraio del 2001 Repubblica rivela ciò che è accaduto. Racconta di Biondino e degli incontri con Vigna, della linea concordata dai boss e della posizione diversa assunta da Pietro Aglieri, dissociato sì ma disinteressato a qualunque contropartita, in linea con un proprio percorso spirituale. Sarà per questo che il suo avvocato ribadisce: «Dissociazione? Per me è una malattia mentale». A settembre del 2001 un pezzo da novanta come Pippo Calò, il plenipotenziario a Roma della cupola mafiosa si dissocia pubblicamente ammettendo di aver fatto parte della commissione mafiosa ma negando la propria responsabilità nelle stragi: «Decideva tutto uno solo e il nome non posso farlo». Sul finire di quell’anno il procuratore aggiunto di Palermo, Guido Lo Forte denuncia: «Temiamo patti con le istituzioni». Proprio in quei giorni il collega Alfonso Sabella magistrato di Palermo in forza al Dap è stato messo alla porta dal ministro della giustizia, il leghista Roberto Castelli. La cacciata ha una ragione precisa: si è opposto alle manovre sulla dissociazione all’interno delle carceri. Anzi, di Rebibbia in particolare, dove convivono Biondino, libero di spostarsi di cella in cella come scopino, Salvatore Imerti, big della ‘ndrangheta calabrese, Pietro Aglieri, Giuseppe "Piddu" Madonia, Salvatore Buscemi, e Giuseppe Farinella, ovvero tutti i boss siciliani della linea morbida. Il 12 luglio 2002 il cognato di Riina, Leoluca Bagarella parla da L’Aquila e legge un proclama in cui allude a «promesse che non sono state mantenute» e dice che i detenuti al 41 bis si sentono «presi in giro». Poi dà la scossa: «Siamo stanchi di essere strumentalizzati dalle forze politiche». A seguire ci tengono a far sapere che sono d’accordo Salvatore Madonia, Cristoforo Cannella e Giuseppe Giuliano che il 16 luglio 2002 scrivono a Daniele Capezzone, allora segretario dei Radicali per dare una strigliata ai legali che ora siedono in Parlamento: «Erano i primi, quando svolgevano la professione forense, a deprecare più degli altri l’applicazione del 41 bis. Allora svolgevano la professione solo per far cassa». Come dire: siete arrichiti con i processi, siete ora in condizione di fare leggi e scardinare il 41 bis e ve ne state fermi? Nel 2003 e 2004 dalle carceri partono altri segnali, uno arriva all’ex ministro Roberto Castelli che lo rivelò nel 2011, dicendo che respinse l’offerta dopo essersi consultato con dei magistrati. Nel 2013 in Parlamento arriva il ddl del senatore di Gal Lucio Barani, che «ipotizza un indulto fino a 8 anni che comprende reati di mafia alla sola condizione della completa divulgazione di reati commessi durante la militanza in organizzazioni di tipo mafioso». Ed è l’allora procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi ad alzare lo scudo: è «l’ennesimo tentativo surrettizio di introdurre una blanda dissociazione per concedere a pericolosissimi criminali un salvacondotto per gravissimi crimini di mafia».

Lo stragista Filippo Graviano si dissocia da Cosa nostra perché vuole uscire dal carcere. Lirio Abbate su L'Espresso il 18 febbraio 2021. Il boss palermitano condannato all’ergastolo per le stragi di Falcone e Borsellino e del 1993 vuole usufruire della nuova normativa per lasciare il 41 bis. Per ottenere il permesso premio. Grazie allo spiraglio aperto dalla Corte Costituzionale presieduta da Marta Cartabia, oggi ministra della Giustizia. Il capomafia Filippo Graviano, quello che ha ordinato l’uccisione del beato Pino Puglisi, che ha organizzato l’attentato a Paolo Borsellino e progettato ed eseguito l’attacco allo Stato con le bombe del 1993 a Roma, Milano e Firenze, ha chiesto al giudice di sorveglianza dell’Aquila un permesso premio. Ma non è solo questa la novità: l’ergastolano vuole uscire dal carcere per un giorno perché ha maturato, come ha comunicato ai magistrati, il proposito di dissociarsi dalle scelte del passato. Tutto ciò apre nuovi scenari nel contrasto alle mafie. Non è un “pentimento” del boss di Brancaccio, ma il tassello di una più grande strategia che punta a disarcionare il 41 bis, il carcere impermeabile, e far tornare liberi i boss condannati per omicidi. E una vicenda significativa che si collega alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi a quella della Corte costituzionale che nel 2019 ha dato una spallata all’ergastolo ostativo che impediva la concessione di benefici ai mafiosi che non collaboravano. Una norma introdotta all’indomani della strage di Capaci, proprio per “premiare” boss e gregari che saltano il fosso. Per Filippo Graviano il ripensamento normativo è una strada strategica su cui sta cercando di muoversi per tornare ad assaporare la libertà. «Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività, ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete», è il percorso che nell’aprile dello scorso anno l’allora presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, oggi ministra della Giustizia, indicava alla magistratura di sorveglianza. Parole particolarmente significative pronunciate nello stesso periodo in cui i giudici erano al centro di polemiche per la scarcerazione di boss della mafia. Le affermazioni di Cartabia erano contenute nella relazione annuale sull’attività della Corte, nella parte dedicata al carcere e all’esecuzione penale, con il richiamo alle più importanti sentenze della Consulta in quel periodo. Di «speciale rilievo», ricorda l’allora presidente, oggi Guardasigilli, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui ai condannati per una serie di gravi delitti, a cominciare da mafia e terrorismo, non consentiva la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia e anche in presenza di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di un loro ripristino. Quella disciplina impediva «ogni verifica in concreto del percorso di risocializzazione compiuto in carcere dal detenuto, rischiando di arrestare sul nascere questo percorso». Così ora quella e altre pronunce hanno dato gli strumenti alla magistratura di sorveglianza per poter esercitare «con attento discernimento i propri poteri discrezionali». Filippo Graviano è fratello di Giuseppe, quello che fino a pochi mesi fa dall’aula della corte di Reggio Calabria che lo processava per la ’ndrangheta-stragista, in accordo con Cosa nostra, ha lanciato messaggi ricattatori a Silvio Berlusconi, per il loro passato. Entrambi sono stati condannati all’ergastolo per le stragi di Falcone e Borsellino, per l’omicidio del beato Puglisi e per le bombe del 1993 in cui vennero uccise pure due bimbe. Ora Filippo ha fatto mettere a verbale ai magistrati di Firenze che indagano sulle stragi al Nord e sul leader di Forza Italia e su uno dei fondatori del partito, Marcello Dell’Utri, che si dissocia da Cosa nostra. Filippo ammette la sua partecipazione alla cosca di Brancaccio. Sul resto tace. I pm gli hanno fatto presente di essere interessati alle stragi e ai rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e la famiglia Graviano, e a questo punto Filippo – ormai dissociato – ha voluto sottolineare che c’è “una questione pregiudiziale” rispetto alle domande che i pm gli hanno posto. Cosa significa? Tutto questo appare come una strategia messa in campo dalla famiglia Graviano. Un progetto di lungo corso che i fratelli di Brancaccio stanno portando avanti. Non dimentichiamo che sono stati capaci, grazie alle loro complicità, di procreare nel 1996 mentre si trovavano detenuti al 41 bis all’Ucciardone. Quello che doveva essere un regime impermeabile, di fatto per loro non lo fu, e così Giuseppe e Filippo diventarono papà e i loro figli sono stati partoriti dalle loro compagne in una clinica in Costa Azzurra. Il dissociato adesso sostiene di non avere più contatti con il fratello Giuseppe, ma, sarà una coincidenza, alcune persone disegnano una traiettoria convergente: hanno lo stesso difensore, l’avvocato Carla Archilei che spessissimo va a trovare Giuseppe nel carcere di Terni, e poi Francesca Buttitta, la moglie di Filippo, ha sporadici contatti con il cognato Giuseppe e frequenta a Roma la stessa abitazione in cui vive gran parte della famiglia Graviano. Di questo progetto di dissociazione aveva già parlato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, il quale ricordava che nel 2004 era stato proprio Filippo Graviano a comunicargli, mentre erano in carcere che «se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati». In quel momento erano trascorsi dieci anni da quando Giuseppe sosteneva di aver agganciato Berlusconi tramite Dell’Utri, avviando una trattativa. Emerge il progetto della dissociazione, già percorso più di vent’anni fa dai boss in accordo con alcuni politici. Spatuzza, ricordando un episodio avvenuto durante la detenzione, rivela: «Filippo Graviano mi dice che in quel periodo si sta parlando di dissociazione, quindi a noi interessa la dissociazione». I boss di Brancaccio, per Spatuzza, «avevano in mano il Paese» grazie ad un tavolo aperto con Berlusconi e Dell’Utri, e chiedevano la cancellazione del 41 bis e provvedimenti legislativi che legittimassero la semplice dissociazione dei boss, alla maniera degli ex brigatisti. In passato ci sono stati diversi tentativi di dissociazione e di estensione dei benefici dei collaboratori di giustizia anche ai dissociati di mafia, e alcuni magistrati si sono opposti a dare questo riconoscimento legale. «La dissociazione poteva avere senso da un’ideologia politica, non certamente da un’attività criminale, che sarebbe stata una specie di condono, di amnistia o di nulla osta, in cambio di un impegno, ad esempio, a non trafficare più nella droga», lo diceva Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e già al vertice dei servizi segreti, in audizione alla Commissione parlamentare antimafia nel 2012, ricordando che questa era la sua posizione fin dal 1994. Adesso i fratelli stragisti di Brancaccio sono alla ricerca di spunti “giudiziari” per far revisionare i loro processi e allo stesso tempo ottenere l’uscita dal 41 bis così da permettere a entrambi, dopo 27 anni di detenzione, di usufruire dei benefici di legge che li possono portare alla scarcerazione. E puntano ad annientare il regime di detenzione carceraria per i boss e tutto quello che rende forte il contrasto alle mafie impedendo le comunicazioni con l’esterno, e aprendo di conseguenza le porte d’uscita ai capimafia.

Il boss Giuseppe Graviano ha parlato con i pm dei soldi di Silvio Berlusconi. di Lirio Abbate su L'Espresso il 5 marzo 2021. Aperta a Firenze una nuova inchiesta sui capitali iniziali del leader di Forza Italia, con i giudici che volano a Palermo. Mentre il boss prosegue con la sua strategia, iniziata con una lettera del 2013 all’allora ministra Lorenzin e che oggi passa da un libro in lavorazione. C’è un’inchiesta giudiziaria destinata a creare seri problemi a Silvio Berlusconi. È stata aperta nei mesi scorsi dalla procura antimafia di Firenze. L’inchiesta parte dalle dichiarazioni fatte davanti ai giudici della corte d’Assise di Reggio Calabria dal boss Giuseppe Graviano, già condannato a diversi ergastoli per aver ordinato, tra gli altri, gli omicidi del beato Pino Puglisi, del piccolo Giuseppe Di Matteo, di altre vittime innocenti, donne e bambini, e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993, quando decise che Cosa nostra doveva attaccare lo Stato. Il capomafia ha aggiunto che nel periodo in cui era latitante, avrebbe incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi. E il boss ha sostenuto che l’ex Cavaliere, prima di iniziare la sua attività politica, gli avrebbe chiesto di essere aiutato in Sicilia. Secondo Graviano, però, molte delle attese che Cosa nostra aveva riposto in Berlusconi vennero meno: il “ribaltamento” del regime carcerario del 41bis non ci fu e neppure l’abolizione dell’ergastolo. «Per questo ho definito Berlusconi traditore», ha spiegato Graviano rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, aggiungendo di essere stato latitante dal 1984 e che questa sua situazione non gli ha impedito di incontrare Berlusconi, «che sapeva della mia condizione». «Mio nonno», un facoltoso commerciante di frutta e verdura, ha detto Graviano «era in contatto con Berlusconi» e fu incaricato da Cosa nostra di agganciare l’ex presidente della Fininvest per investire somme di denaro al Nord. Missione riuscita, a detta del boss, sostenendo che «sono stati investiti nel settore immobiliare una cifra di circa venti miliardi di lire». Graviano dice che suo nonno è stato di fatto socio di Berlusconi: «I loro nomi apparivano solo su una scrittura privata che ha in mano mio cugino Salvo».

L’INTERROGATORIO. La procura di Firenze che indaga su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’ambito delle stragi del 1993, adesso scava pure sui patrimoni iniziali dell’ex Cavaliere. In passato sui soldi di provenienza della mafia avevano indagato anche i pm di Palermo nell’ambito del processo in cui Dell’Utri è stato condannato per concorso in associazione mafiosa. Le dichiarazioni dell’ergastolano sembrano più una minaccia all’ex premier, un modo per tentare di incassare soldi e libertà. Lo scorso novembre, sulla base di queste esternazioni, i procuratori di Firenze sono andati nel carcere di Terni e hanno interrogato Giuseppe Graviano, che ha accettato di incontrare i magistrati rispondendo pure alle loro domande, assistito dal suo difensore di fiducia. Un lungo interrogatorio che i pm toscani hanno secretato. I riscontri alle sue affermazioni sono già stati avviati.

LA STRATEGIA. Nonostante le condanne all’ergastolo per delitti di mafia a cui Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo sono stati definitivamente condannati, dalle loro mosse si intuisce che vogliono lasciare il carcere sfruttando tutti i mezzi possibili per tornare liberi. C’è il tentativo di smontare le accuse dei collaboratori di giustizia per poi chiedere di avviare una revisione dei processi e allo stesso tempo provare ad uscire dal circuito del 41bis, il carcere impermeabile, per transitare nel regime ordinario da cui è più facile ottenere la possibilità di essere scarcerati. Per questo motivo Giuseppe Graviano da diversi mesi ha coinvolto tutti i componenti della sua famiglia nel raccogliere dati e documenti e far scrivere un libro sulle sue vicende giudiziarie, raccontandole secondo la sua visione e il suo interesse, mettendo in discussione - secondo lui - le vecchie sentenze di condanna. Emerge il profilo di un uomo presuntuoso, ostinato ma anche di un abile oratore, attento osservatore e opportunista, un personaggio che vuole essere carismatico e al centro dell’attenzione, non a caso è un capo importante fra i corleonesi di Cosa nostra, con solidi agganci con il latitante Matteo Messina Denaro. Il fatto che abbia scelto di parlare in aula di Berlusconi è frutto di un calcolo che ha valutato con accortezza per lo sviluppo della sua strategia.

LA LETTERA ALLA MINISTRA. I segnali lanciati da Giuseppe Graviano a Silvio Berlusconi si leggono già nel 2013, quando il Cavaliere entra con il suo Popolo delle libertà, nel governo delle larghe intese di Enrico Letta. Il boss sceglie di scrivere una lettera di cinque pagine alla nuova ministra della Salute, Beatrice Lorenzin. Il capomafia apre il suo testo presentandosi e dichiarandosi innocente, «in espiazione dell’ergastolo ostativo», e «condannato solo per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza riscontri», e poi «come ben sapete voi esponenti del Pdl, perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori, venivo accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli di altre accuse di associazione mafiosa, invitandomi a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi».

La lettera del boss Giuseppe Graviano alla ministra Beatrice Lorenzin del 2013. Scrive a Lorenzin, e la lettera è stata acquisita dalla procura di Firenze, e ricorda «la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi». All’allora ministra indicata da Berlusconi, Graviano scrive che dimostrerà la sua estraneità «a tutto ciò che mi viene contestato e ingiustamente condannato e non maledico la causa che mi ha portato a questa tragica situazione e non giudico i politici che hanno varato queste leggi, in particolare il Centro destra, inumane e inesistenti in nessun altro paese del pianeta terra, non danno la possibilità di uscire dal carcere, se non si confermano le contestazioni, anche accusando persone innocenti, nel mio caso confermare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia» e sottolinea che ci vorrebbe il coraggio di qualche politico «alle successive elezioni» rivolto ad «abolire la pena dell’ergastolo».  Nel circuito dei detenuti al 41bis c’è molta fibrillazione per il disegno strategico che i Graviano stanno portando avanti. E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire.

LA DISSOCIAZIONE. Il giorno prima di interrogare Giuseppe Graviano, i procuratori aggiunti di Firenze, Luca Turco e Luca Tescaroli, hanno sentito Filippo Graviano. I pm hanno subito sottolineato il motivo della convocazione: «Siamo interessati al tema del concorso di altre persone nelle stragi del 1993-1994 e ai rapporti economici tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, lei (Filippo Graviano ndr) e la sua famiglia. È disponibile a parlarne? Vorremmo partire dal 28 luglio 2009 quando lei ha manifestato il proposito di dissociarsi “verso le scelte del passato”». La risposta del boss è immediata: «Fino al 2009 il mio nome non era di interesse di nessuna procura; nel 2009 ci fu l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, io mi ero reso conto che la mia vita passata non era corretta e stavo facendo un percorso interno. Lui sosteneva che nel carcere di Tolmezzo gli avevo detto che stavamo aspettando qualcosa dall’esterno». In quell’occasione, come ha ricostruito Spatuzza, il boss gli disse che se certe cose non si fossero verificate, sarebbe arrivato il momento di parlare coi magistrati, annunciando la possibilità di una scelta di dissociazione dall’organizzazione. Per il collaboratore sarebbe l’ulteriore prova che un accordo con pezzi della politica ci fu. Ma il capomafia continua a negare questa circostanza. «Fatta questa premessa», dice ai pm Filippo Graviano, «mi proclamo innocente rispetto ai reati che mi sono stati attribuiti nella sentenza di Firenze (quella sulle stragi del 1993 ndr) e ritengo che, per me, questa sia una questione pregiudiziale rispetto alle domande che mi avete posto. Il mio interesse è quello di ottenere una revisione della mia posizione giudiziaria. Non sono disponibile a rispondere alle vostre domande. Mi sono dissociato da Cosa nostra facendo una dichiarazione espressa di dissociazione». E poi conclude: «Ammetto la mia responsabilità in relazione alla partecipazione a Cosa nostra palermitana, mandamento di Brancaccio, non sono mai stato capo del mandamento neppure come sostituto». L’interrogatorio, dopo un’ora, si conclude così.

IL SOPRALLUOGO A PALERMO. In relazione a questa indagine sulle stragi e sui soldi che secondo Graviano sono stati versati a Berlusconi, i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze sono stati in trasferta dall’8 al 12 febbraio nella zona di Palermo per effettuare “accessi”, verifiche e sopralluoghi. Una spedizione tenuta riservata in cui i pm erano accompagnati da un gruppo di investigatori che si occupano proprio dell’inchiesta sugli attentati a Roma, Milano e Firenze in cui sono stati già condannati Giuseppe e Filippo Graviano. Questa trasferta, per le modalità con le quali è stata condotta, sembra la stessa usata quando si deve far effettuare il sopralluogo ad un nuovo collaboratore di giustizia che ricostruisce storie di cui è stato testimone o protagonista. Il piano dei Graviano è in atto, aspettano che qualcuno lo porti a compimento.

Le accuse. Articoli ad orologeria di Espresso e Fatto: tornano le falsità dei Graviano su Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2021. I signori Filippo e Giuseppe Graviano, ergastolani condannati per reati gravissimi legati a Cosa Nostra, sono liberi, come ogni detenuto, di difendersi, di dichiararsi non colpevoli, di tentare un alleggerimento della propria posizione accusando altri, di fare i dissociati o i pentiti anche a scapito di altri. In poche parole, è loro diritto anche inventarsi le solite balle nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Vogliono agitare sotto il naso di qualche pubblico ministero il nome del presidente di Forza Italia come carotina per ingolosire? Liberissimi di giocare al gatto e il topo con l’amministrazione della giustizia per trarne qualche personale vantaggio. La prospettiva di un’intera vita al 41-bis non piace a nessuno. Ma quel che è intollerabile, inaccettabile e persino un po’ disgustoso è il fatto che esistano ancora magistrati disponibili, fin dall’inizio degli anni novanta, quando qualche ambiente di barbe finte aveva tentato di incastrare Berlusconi con l’operazione “Oceano”, a credere che quelle carotine siano davvero commestibili. Soprattutto dopo che, una prima volta negli anni novanta e una seconda nei duemila, precedenti tentativi di indagare Berlusconi e Dell’Utri per collegamenti alle cosche sono falliti e le inchieste hanno portato sempre e solo all’archiviazione. Energie investigative e soldi pubblici buttati via. Finirà così anche questa volta. E c’è da domandarsi a che cosa possa portare tanta testardaggine nel continuare a frugare, scavare, sapendo benissimo che se i fratelli Graviano, così come i loro predecessori esperti nell’arte della calunnia, avessero davvero qualche storia di vita che possa anche solo aver sfiorato quella – intensa e sempre pubblica – di Berlusconi, sarebbero già diventati gli eroi dell’antimafia militante. Meglio di Spatuzza, forse addirittura meglio di Buscetta. Due pubblici ministeri di Firenze che indagano sulle stragi (forse) mafiose del 1993 sono stati per cinque giorni a Palermo del novembre scorso. Ce lo raccontano i giornali in servizio permanente effettivo dalla parte dei Buoni contro colui che rappresenta il Male Assoluto. Funziona più o meno così: il settimanale L’Espresso, ridotto dalle glorie del passato a due paginette allegate come omaggio domenicale alla Repubblica, lancia l’amo come anticipazione il venerdì, disciplinatamente raccolto dal Fatto quotidiano del sabato. Apprendiamo così che il viaggio al sud è stato determinato dalle pubbliche, solite (nulla di nuovo) dichiarazioni di Giuseppe Graviano , nel novembre dell’anno scorso, davanti alla corte d’assise di Reggio Calabria, durante un processo che riguarda la ‘ndrangheta. Una storia trita e ritrita e già archiviata: Giuseppe Graviano avrebbe incontrato due volte l’imprenditore (non ancora politico) Berlusconi in latitanza, ma poi ne sarebbe stato tradito perché il leader di Forza Italia, dopo aver vinto le elezioni nel 1994 non aveva eliminato l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e neanche l’ergastolo. Che cosa c’entra tutto ciò con le stragi del 1993 su cui ancora indaga la procura di Firenze? Assolutamente niente. A meno che non esista davvero qualcuno che pensi che Berlusconi e Dell’Utri abbiano chiesto ai fratelli Graviano di mettere per loro conto le bombe in cambio di qualche riforma in tema di giustizia. Se mi è permessa una piccola divagazione, vorrei ricordare che Vittorio Sgarbi e io nel 1996 siamo stati indagati per concorso esterno in associazione mafiosa per otto mesi proprio perché nella campagna elettorale del 1994 in Calabria avevamo proposto quelle riforme come nostra iniziativa individuale. Riforme che il centro-destra quando fu al governo si guardò bene dall’attuare, proprio perché non le aveva nel programma. Ve lo immaginate Ignazio La Russa che abolisce il 41-bis? O Bossi che si impegna contro l’ergastolo? Roba da Pannella, piuttosto. Non è chiaro se, come insinua il Fatto, Giuseppe Graviano abbia scelto il momento politico per lanciare il suo (piccolo) petardo, come già aveva fatto nel 2013 quando Silvio Berlusconi aveva aderito al governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Di certo non ha avuto un movente politico nel novembre 2020, quando c’era il governo Conte due e Forza Italia era all’opposizione. Ma forse la scelta politica e temporale l’hanno fatta proprio i giornali delusi dalla nascita del governo Draghi e incattiviti dalla presenza in maggioranza e anche dal rilancio politico di Berlusconi in Italia e in Europa. Non c’è oggi nessuna lettera, come quella inviata nel 2013 al ministro Lorenzin, in cui Graviano diceva che lo avevano obbligato a denunciare Berlusconi e che in caso contrario gli avrebbero attribuito tutte le stragi del 1993. Non c’è niente di niente che spieghi il momento scelto dall’Espresso e dal Fatto per pubblicare notizie di quattro mesi fa. Notizie? Ma lo sono davvero? L’unico fatto è il viaggetto (spero non sia costato troppo) dei pubblici ministeri fiorentini in Sicilia. Starebbero anche indagando, senza senso del ridicolo, sulla nascita del patrimonio iniziale dell’imprenditore Berlusconi. E già, perché il nonno dei fratelli Graviano sarebbe stato una sorta di socio occulto per conto di Cosa Nostra. Tutto già esaminato e archiviato da tempo come barzelletta. Durante il viaggio i due pubblici ministeri avrebbero però effettuato una piccola deviazione al carcere di Terni, dove è ristretto il fratello maggiore di Giuseppe, Filippo Graviano. E qui il discorso si fa serio, perché questo detenuto da dieci anni si dichiara un “dissociato” da Cosa Nostra, e dopo 27 anni di permanenza al regime del carcere impermeabile previsto dall’articolo 41 bis e dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, ha cominciato a chiedere di avere un permesso premio. Ai magistrati ha però detto che non vuol parlare delle dichiarazioni di suo fratello se prima non si rimette in discussione la sua condanna per le bombe del 1993, rispetto alle quali si dichiara innocente. E si torna sempre lì, a quelle esplosioni (con vittime ) di Roma Milano e Firenze, che sono parse sempre strane rispetto agli obiettivi propri di Cosa Nostra. Ma non sono i fatti del passato a preoccupare oggi, piuttosto i messaggi. Perché ogni volta che Filippo Graviano prova a chiedere un permesso premio, ecco pronto il Fatto quotidiano a gridare allo scandalo, non senza ricordare che se un mafioso di quella levatura osa tanto, la colpa è della Corte Costituzionale e della sua sentenza che lo consente. E oggi pare già presa di mira la neo ministra di giustizia. Ecco che cosa scrive l’Espresso: «E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della giustizia Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire». Ecco, il gioco è fatto: da Graviano a Cartabia, passando per Berlusconi. Due piccioni con una fava. Qual è l’obiettivo dei professionisti dell’antimafia?

Per Graviano un altro ergastolo e se la prende con Berlusconi, ma perfino il Fatto ci crede poco…Redazione su Il Riformista il  25 Luglio 2020. La Corte d’assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, come mandanti di tre attentati avvenuti in Calabria contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994 nei quali morirono Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, brigadieri, e furono feriti altri quattro militari. Filippone è stato condannato anche a 18 anni per associazione mafiosa con il clan Piromalli. Il processo per gli attentati del ‘93 e del ‘94 ha avuto una corsia principale, nella quale si è discusso di quei due omicidi, e una corsia “complanare” nella quale si è parlato di Berlusconi. Anche se col processo Berlusconi non c’entrava proprio niente. Il protagonista assoluto della scena è stato Giuseppe Graviano, che all’inizio degli anni novanta ebbe un ruolo importante in Cosa Nostra, e che è il figlio di un vecchio boss di Brancaccio. Graviano, sollecitato più volte dal Procuratore aggiunto di Reggio Giuseppe Lombardo, ha parlato molto di Berlusconi, ma sempre in modo vago, senza mai affondare. Attirando su di sè le attenzioni dei sostenitori del processo ”Trattativa Stato mafia” e della teoria che Berlusconi c’entri con Cosa Nostra. Però anche loro non sono rimasti molto soddisfatti delle dichiarazioni di Graviano, che ha consegnato un suo memoriale ai giudici, nei quali accusa sì Berlusconi, ma per una questione che con la mafia c’entra poco: Graviano sostiene che suo nonno, insieme ad altri, avrebbe prestato 20 miliardi (di lire) a Berlusconi negli anni 60, e che non li avrebbe mai riavuti indietro. E sostiene anche (cosa che fa inorridire i sostenitori di Stato-Mafia) che non era Dell’Utri il tramite dei rapporti con Berlusconi. Il Fatto Quotidiano ieri ha dato un grande spazio al memoriale offerto da Graviano ai giudici. Il titolo principale della prima pagina era “Con noi B. guadagnò miliardi” (dove la B. sta per Berlusconi). Però, nelle pagine interne, l’articolo di Marco Lillo e Rocco Musolino è molto più prudente. Precisa cento volte che Graviano non è attendibile e che la sua versione è contraddittoria.

Il Domani al traino di Graviano. “Mafioso e stragista”, De Benedetti all’attacco di Berlusconi scatenando il suo "Domani". Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2021. Questa volta a mettere in campo il carro armato contro Silvio Berlusconi, dopo l’Espresso e il Fatto, provvede direttamente un antico antagonista, forse vero nemico nei sentimenti, come Carlo De Benedetti. E usa il suo giocattolo privo di orpelli e controlli, il nuovo quotidiano Domani, che pare talvolta più un volantino di propaganda politica o giudiziaria che un giornale. Le prime quattro pagine sono dedicate interamente a lui, quel Silvio Berlusconi che, se pur ha dovuto alla fine della lunga battaglia sulla Mondadori pagare denaro sonante all’antico antagonista, resta un uomo di grande successo da invidiare: grande imprenditore, due volte presidente del consiglio, con una bella famiglia di figli e nipoti che lo adorano. Non è questa l’immagine che l’editore e il direttore di Domani e anche una antica firma di Repubblica come Attilio Bolzoni hanno dell’ex presidente del Consiglio. “L’ombra delle stragi torna su Berlusconi”, così l’apertura di Domani di ieri. E giù quattro pagine di non-notizie. Ma, scrivono i cronisti Attilio Bolzoni e Nello Trocchia, “basta incastrare insieme i fatti, metterli in fila, rileggere qualche documento…e tornare all’Italia di quasi trent’anni fa”. Eh si, perché prima delle 49 citazioni con cui il libro di Sallusti-Palamara commenta i complotti giudiziari che hanno preso di mira Berlusconi inaugurando il filone di investigazione sessuale, in tanti ci avevano già provato, nel percorso del professionismo dell’antimafia. Nessuno lo ricorda, ma prima ancora dell’inchiesta “Sistemi criminali” ce ne fu una chiamata “Oceano”, che presto si inabissò. Lo so, perché ci fu una parte di servizi segreti avversa agli uomini della Dia che svolgevano quelle indagini, che per lungo tempo mi inviò, mentre ero alla presidenza della commissione giustizia della Camera, lettere e documenti in perfetto stile “barbe finte”. Non ho mai fatto alcun uso di quei documenti. Ho solo dato riscontro del fatto di averli ricevuti indossando un foulard della Dia nel corso di un’intervista che mi aveva fatto Emilio Fede quando era direttore del Tg4. Era chiaro fin dal 1994 che Silvio Berlusconi fosse il bersaglio non solo di ambienti politici, ma anche giudiziari. I meno pericolosi erano i milanesi, fin da quando Saverio Borrelli aveva intimato “chi sa di avere scheletri nell’armadio non si candidi”. Altri furono più agguerriti. E puntarono alto. Da dove arriva questo palazzinaro brianzolo così volgare, dove ha preso i soldi per inventare e avere successo con le televisioni commerciali e comprare una squadra di calcio, il Milan, che mieterà successi nel mondo come nessun’altra? E come mai decide di entrare in politica subito vincendo le elezioni? Chi gli ha dato i voti? Quattro indagini ufficiali (più “Oceano”), quattro archiviazioni non sono ancora sufficienti. Qualche “pentito” lo si trova sempre, un tanto al chilo. Così oggi, a leggere gli informatissimi tre organi di stampa, Espresso, Fatto e Domani, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sarebbero di nuovo iscritti sul registro degli indagati a Firenze per “concorso in strage”. E si, sarebbero i mandanti delle bombe messe (forse) da Cosa Nostra nel 1993 in luoghi d’arte di Milano, Roma e Firenze. Lo scopo di quegli attentati? Creare paura e affidarsi all’ “uomo nuovo”. Bisogna risalire ai giorni che precedettero la famosa “discesa in campo”. C’è oggi un ergastolano al 41 bis, condannato per diverse stragi di mafia, Giuseppe Graviano, che sta assaporando gli ultimi provvedimenti della Corte Europea e della Corte Costituzionale sul regime del carcere impermeabile, e la possibilità, a certe condizioni, di poter avere permessi premio pur senza essere un “pentito”. Graviano è uno che dice e non dice, fa giochi di prestigio con le parole, si fa “sorprendere” a fare confidenze mentre passeggia nei cubicoli dell’aria nel carcere pieno di microspie. Ma l’ultima volta ha parlato anche in un’aula processuale, a Reggio Calabria, verso la fine del 2020, e ha detto che nel 1993, mentre era latitante, avrebbe incontrato tre volte Berlusconi a Milano e che quest’ultimo gli avrebbe chiesto aiuto in Sicilia per le future elezioni cui si sarebbe candidato nel 1994. Ma non è sufficiente Graviano, c’è anche Gaspare Spatuzza, quello le cui parole sono d’oro perché ha smascherato il complotto ordito tramite il falso pentito Scarantino, quando tutto avrebbe potuto essere chiaro fin dal 1992. Spatuzza dice che Graviano gli aveva già parlato di Berlusconi durante un incontro al bar Doney di via Veneto a Roma il 21 gennaio 1994. E, guarda caso, dice Domani, proprio in quei giorni anche Dell’Utri era a Roma, per partecipare alla convention di presentazione di Forza Italia. Chiaro il nesso? Cose di piccoli uomini, mafiosi a assassini, che cercano qualche via d’uscita dalla loro misera vita. Ma il punto è che i pubblici ministeri di Firenze si sono precipitati nei mesi scorsi in Sicilia e anche nelle diverse carceri a interrogare pentiti e non. E il punto è anche che “basta incastrare insieme i fatti, metterli in fila, rileggere qualche documento…” per far scattare le ghigliottine, senza prove, senza indizi, senza riscontri. E senza pudore. Facciamo un esempio facile, tenendo nelle mani l’articolo di “Domani”. Si parla dell’attentato contro Maurizio Costanzo. E lo si definisce “..protagonista di trasmissioni contro la mafia ma anche contrario alla discesa in campo di Silvio Berlusconi”. Chiara l’allusione? La mafia voleva uccidere il conduttore di Mediaset forse per un motivo o forse per l’altro o forse per tutti e due. Si potrebbe far notare che per esempio Fedele Confalonieri era molto perplesso sul fatto che Berlusconi entrasse in politica, mentre altri come il liberale professor Urbani gli spiegavano il disastro che avrebbe investito l’Italia qualora le elezioni fossero state vinte dalla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, mentre le forze politiche del pentapartito che avevano governato l’Italia erano state spazzate via dalle inchieste di Tangentopoli. E come dimenticare quanto l’allora imprenditore di Arcore abbia supplicato Martinazzoli perché si candidasse contro Occhetto? Basterebbe un po’ di memoria sulla nascita di Forza Italia. O forse un po’ di volontà. Invece basta mettere insieme un po’ di pere e un po’ di mele, sale quanto basta. I famosi dati sui trecento detenuti cui non fu rinnovato il 41-bis, oggetto di “trattativa”, mentre si dimentica che di questi solo 18 erano di appartenenti alla mafia. O addirittura il “decreto Biondi”, che sarebbe stato emanato dal governo Berlusconi non, come era stato detto fino a ora, per scarcerare i corrotti, ma gli uomini delle cosche. E quali? Fare nomi e cognomi please, visto che dopo che il provvedimento fu ritirato in seguito al disconoscimento di paternità del ministro dell’interno Maroni, che ne era stato l’estensore insieme al collega guardasigilli, meno del 10 per cento degli scarcerati fu riarrestato. Quante stupidaggini! Una volta dell’Utri condannato per aver fatto da cerniera tra Cosa Nostra e Berlusconi, l’altra, nel processo “trattativa”, per aver tramato “contro” lo stesso presidente del consiglio. Ma intanto, ci racconta Domani, c’è un grande movimento di pubblici ministeri di mezza Italia di questi tempi che convergono sugli stessi due indagati come mandanti di stragi. Perché, come dice Graviano, “lui voleva scendere”, e ci voleva “una bella cosa”. Cioè le bombe e anche… – ci credete? – il decreto Biondi. Senza senso del ridicolo “Domani” scrive che “il contenuto del provvedimento sarebbe stato conosciuto con anticipo da Cosa Nostra”.

Berlusconi e De Benedetti, storia di una passione autentica tra due ex amici. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Allora, dilemma: che gli ha preso all’Ing (con la maiuscola, come Avv per Agnelli e Cav per il cavaliere) Carlo De Benedetti quando ha commentato la malattia (Covid a 83 anni con un sacco di problemi pregressi, come da manuale) di Silvio Berlusconi dandogli dell’ «imbroglione» e parlando del proprio personale orgasmo – «la mia maggior goduria» – quando quello fu costretto a rimborsare alla sua Cir un bel pacco di miliardi? Qui ci sarebbe da rifare la storia d’Italia con tutta la “guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti quando fu giocata una partita mortale sulla Mondadori. Ma occorrerebbero pagine per chi non sa e non ricorda. Mettiamola invece sul piano personale. Li ho conosciuti e anzi li conosco entrambi, De Benedetti e Berlusconi, umanamente parlando. E quando ho visto questa sparata dell’ingegnere a commento della malattia che aveva costretto Berlusconi al ricovero recalcitrante per polmonite da Covid mi sono chiesto se avesse avuto una botta di follia. Ho pensato in questi giorni durante i quali si è scatenata la zuffa all’italiana con violenza verbale, battute da querela e da fogna, e insomma sono rimasto ipnotizzato come spettatore cronista dal solito clima da guerra civile mentale e verbale che ci accompagna dalla fine della guerra fredda, anzi da molto prima. Con calma, anzi con rammarico, direi che De Benedetti si è fatto prendere da uno dei suoi personali attacchi di odio. Carlo De Benedetti ed io scrivemmo insieme un libro intervista qualche anno fa e diventammo amici, io bevevo la sua stessa tisana giallina che gli portavano in caraffe e rievocammo la sua vita e le sue guerre. E devo dire che mi colpì presto la dicotomia, o se preferite la contraddizione, fra il suo aspetto pacioso, florido senza essere grasso, apparentemente misurato e contegnoso, ma colmo di disprezzo e con una schiuma interna di conti non saldati. Dette a me l’anteprima di aver voluto letteralmente licenziare Eugenio Scalfari proprio perché voleva cacciarlo via e sostituirlo dalla mattina alla sera con Ezio Mauro che dirigeva la Stampa, lasciando in braghe di tela l’avvocato Agnelli, editore de la Stampa, che non credeva ai suoi occhi. Mi parlò molto, molto male, di persone che sono morte e di cui dunque taccio il nome. Ne parlò in maniera sferzante. E anche con qualche ragione, penso. Mi colpì molto quando disse che essendo fuggito da bambino in Svizzera con i suoi a causa delle persecuzioni razziali, sperimentò la fame e la povertà e giurò a sé stesso di non voler più essere povero, ma anzi di voler diventare ricco, ricchissimo, straricco. E lo fece. Fu un imprenditore di motociclette, di auto, entrò e uscì dalla Fiat litigando con Agnelli cui lasciò in compenso la Panda («una specie di carrarmato brutto e solido che costava poco e rendeva molto»), mi parlò con commiserazione altera di Francesco Cossiga che dopo le loro guerre gli venne a portare come dono di pace un coltello da pastore sardo (ma non una parola sul fatto che Cossiga insieme a De Michelis perorarono la sua causa presso la Casa Bianca dopo che la Olivetti era stata messa sul libro nero delle aziende che passavano segreti americani ai russi). E naturalmente mi parlò della Olivetti di Adriano Olivetti, il gioiello italiano delle macchine da scrivere e anche dei primi computer (con scheda Ibm) che lui, l’Ingegnere, gettò nella spazzatura perché non rendeva. Mi disse di quando gli offrirono di finanziare un giovanotto, un certo Bill Gates, che fabbricava computer in garage e che purtroppo non lo fece. Una bella storia di vittorie e qualche sconfitta, ma con un bel cesto di sassi nelle scarpe che non cessavano di dolergli. Una di queste era il comportamento dei figli che lo avevano sostituito nelle aziende e che non volevano sapere dei giornali perché i giornali portano solo rogne e niente soldi. In particolare, il dente avvelenatissimo col figlio Rodolfo con cui ebbe dei chiarimenti che sembravano regolamenti di conti e che si conclusero poi con la vendita del gruppo Repubblica-L’Espresso che passò alla Fiat poco dopo aver insediato nella direzione lo sfortunato e bravo Carlo Verdelli che sarà poi cacciato dai nuovi padroni dalla mattina alla sera. Una vita di lotte feroci fra combattenti italiani in un panorama molto italiano, con qualche ombra russa dei tempi sovietici. Quando iniziammo la nostra intervista mi disse: «Immagino che lei voglia prima di tutto sapere qual era la storia degli agenti russi nell’Olivetti». E me la raccontò, a suo modo. Aveva distrutto Scalfari, un altro giornalista storico di Repubblica, Cossiga, Craxi, Agnelli. Ma più di tutti, naturalmente., l’oggetto del suo odio al vetriolo era Silvio Berlusconi di cui parlava peraltro – e con mia sorpresa – come di un vecchio amico che di tanto in tanto lo andava a trovare per chiedergli consiglio, cui lui benignamente accordava qualche suggerimento utile. I due, quanto ad essere nemici, lo furono in maniera totale, da grande gioco del capitalismo italiano con ogni sorta di colpo di scena, accusa di falso, corruzione, imbroglio. Schiere di avvocati se le dettero di santa ragione per anni. La Mondadori alla fine andò a Berlusconi con Panorama ma senza Repubblica e l’Espresso che andarono invece a De Benedetti, con passaggi milionari di soldi decisi dai giudici nei vari livelli della causa. Tutto ciò detto, resta aperta e non risolta la domanda: perché De Benedetti ha di fatto augurato la morte anziché la guarigione all’ex nemico caduto malato? Qualcuno forse obietterà: ma non esageriamo, certo che gli ha augurato la guarigione ma con una battutaccia senza conseguenze. Ecco: quando si vuole augurare lunga vita al nemico caduto da cavallo, si fa come fece Bersani il quale, senza farsi pubblicità, andò a trovare Silvio Berlusconi in ospedale ferito e scioccato dal lancio di una madonna di piombo, da parte di un odiatore di passaggio. L’odio, sia detto per amor di verità banale, è un sentimento umano che ha il suo ruolo nell’economia selvatica dell’essere. Quell’espressione di De Benedetti usata per esprimere disprezzo persino per la malattia fisica del corpo di Berlusconi, appartiene o no all’armeria dell’odio ideologico? Naturalmente le risposte saranno divise in due fra chi conferma e chi dissente, ma nel caso di diniego per dissenso – De Benedetti non voleva manifestare odio e augurare la morte, ma gli è soltanto sfuggito il piede dalla frizione – resterebbe in piedi la domanda d’obbligo successiva: De Benedetti ha superato il limite del logoramento e ha perso il controllo definitivo della muscolatura liscia del pensiero che dovrebbe regolare l’emissione dei gas emotivi? Nessuno può garantire, ma io voto sì. Per De Benedetti, penso, e per una discreta fetta di italiani andati in acido e fuori controllo, tutto ha a che fare con Berlusconi, come prima con Craxi. Berlusconi ha impedito – storicamente e vorrei sapere chi si sentisse di negarlo – che con la decapitazione della prima Repubblica vincesse la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e del nuovo “coso” uscito dalla Bolognina. De Benedetti ha detto che per lui Berlusconi è ed è stato «una specie di Alberto Sordi» della politica italiana. Ora, ammesso che De Benedetti intendesse paragonare i personaggi miseri e imbarazzanti creati da Sordi, davvero lui o chiunque altro può dire che l’impensabile operazione politica che fece saltare i piani e le speranze del Pds con una impossibile alleanza fra i leghisti separatisti di Bossi e gli ex fascisti di Fini, fosse una “albertosordata”? Davvero? Una cosa da Ambra Jovinelli? Da Fratelli De Regie o da Sarchiapone di Walter Chiari? Davvero? Qui secondo me casca l’asino dell’innocenza pretesa nelle parole di De Benedetti. Il suo (mal)augurio a Berlusconi è stato maldestramente mascherato da sbuffo di insofferenza nei confronti di un preteso pagliaccio, un “albertosordo” dell’impresa e della politica. Sarebbe da imbecilli pensare che davvero De Benedetti lo pensasse perché tutta la sua (di De Benedetti) vita politica con la tessera numero uno del Partito Democratico è stata dedicata a combattere su tutti i campi sia alla luce del sole che nei vicoli notturni, contro quell’uomo che rovesciò il tavolo e bloccò il ribaltone destinato ad instaurare in Italia un sistema politico egemomìnizzato dal vecchio Pci. Per molti fu un lutto e fra quei molti c’era sicuramente De Benedetti. E tuttavia, come può un uomo del suo rango, fingere di essersi battuto contro un imbroglione che “albertosordeggiava”? È impossibile. Dunque, a mio parere, questa verità storica e fattuale esclude qualsiasi attenuante benevola per la maledizione che l’Ingegnere ha lanciato contro il vecchio nemico spaventato dalla morte, sorpreso dalla polmonite, ricoverato quasi con la forza, messo a brutto muso di fronte alla prospettiva di lasciarci la pelle. Come se non bastasse, e infatti non basta, De Benedetti come i bambini capricciosi che rifiutano di chiedere scusa alla nonna accoltellata in un momento d’ira, ha ribadito che diceva sul serio, che non si scusava di nulla e che aveva ragione lui. L’uscita di De Benedetti ha comunque funzionato anche da test di Rorschach, quello delle macchie d’inchiostro di fronte alle quali ognuno vede quel che ha già nella testa. C’è stata una pletora di gaglioffi che per il piacere di giocare come i pirati che si giocavano una bottiglia di rhum, si sono gettai nel gioco malaticcio sotto la rubrica “Piatto ricco mi ci ficco”. L’Italia dei codardi ha fatto quasi tutta un passo avanti per applaudire. De Benedetti ha giocato un pessimo finale di partita e purtroppo non saprà trovare dentro di sé la forza che altre volte ha trovato per fare un passo indietro e giocarsi la carta magnifica non dell’autocritica – che detesto – ma del decoro e del rispetto. Orsù, Ingegnere: ha ancora l’età per esibirsi in un colpo di reni che la restituisca alla postura del coraggio, l’unica uscita da questa storia.

Graviano e il permesso premio: dalla disinformazione alla “trattativa Consulta-mafia” il passo è breve. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 Feb 2021. Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Corte costituzionale sul 4 bis, Filippo Graviano ha chiesto un permesso premio. Ogni volta, come nel caso di Graviano, che un detenuto mafioso “eccellente” fa istanza per chiedere un permesso premio, puntualmente arriva il Fatto Quotidiano a ricordare la famosa sentenza della Consulta che ha ritenuto incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui vieta il permesso premio. Non solo. Subito in qualche modo si evoca la presunta trattativa Stato-mafia, una tesi giudiziaria che è diventata una spada di Damocle sopra la testa di chiunque ha cuore la nostra Costituzione, nata per arginare qualsiasi forma autoritaria e concezione da Stato di Polizia. Ma fin dai tempi antichi, la paranoia e complottismo sono da sempre andati a braccetto con quei poteri che vogliono soffocare lo Stato di Diritto e avere sempre più potere ricorrendo perfino all’utilizzo dei nomi di quelle persone che hanno seriamente servito lo Stato come, in questo caso specifico, quello di Giovanni Falcone. Per farlo hanno bisogno di chi inconsciamente crea disinformazione, o fa allusioni come quando viene ricordato che tra i giudici della Consulta c’era anche l’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia. La colpa di quest’ultima è quella di essere una fine giurista, che ha come unica via maestra la Costituzione. Una carta che fa da scudo a ogni singolo cittadino dagli abusi di qualsiasi potere, economico, politico o giudiziario che sia.

La dissociazione non è contemplata giuridicamente per i mafiosi. Ora è la volta di Filippo Graviano, il quale assieme al fratello Giuseppe ebbe un ruolo importante nell’organizzazione delle stragi continentali del 1993 a Firenze, Milano e Roma e nell’omicidio di don Pino Puglisi. Dal 1994 è ininterrottamente al 41 bis. Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Consulta, Filippo Graviano ha chiesto il permesso premio. «Si dice dissociato. Basterà?», si chiede l’autore dell’articolo de Il Fatto. No, per la Consulta non basta assolutamente come parametro di valutazione. La dissociazione è un fatto personale, che a differenza di chi è dentro per terrorismo non è contemplato giuridicamente nei confronti dei mafiosi. Per quest’ultimi esiste solo lo status di collaboratore di giustizia per avere diritto a tutti i benefici penitenziari. Basti pensare al pentito Giovanni Brusca, colui che ha sciolto un bambino nell’acido e ha commesso quasi un centinaio di omicidi. Lui da tempo ha usufruito di vari permessi e nessuno si è scandalizzato. Un suo diritto, nulla da obiettare.

Per Falcone il 4 bis non esclude i benefici in assenza di collaborazione. Così come, dal 2019 è un diritto poter richiedere il permesso premio anche da parte di chi non ha collaborato con la giustizia. Si fa il nome di Falcone che ha ideato il 4 bis dell’ordinamento penitenziario per i detenuti mafiosi. Verissimo, peccato che si omette di dire una verità “indicibile” per chi usa l’antimafia come strumento di potere: consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ebbene sì, la sentenza della Consulta, dove all’epoca – lo ricordiamo con piacere anche noi – c’era anche Marta Cartabia, avvicina il 4 bis al decreto originale ideato da Falcone: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Era accaduto che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, che introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello voluto da Falcone. Con il decreto legge post strage, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone voleva invece salvaguardato. Anche questo episodio dovrebbe far riflettere sul fatto che non c’è stata nessuna trattativa che aveva alleggerito la carcerazione dei mafiosi. Esattamente l’opposto. Una reazione durissima, tanto da approvare il 41 bis e rinchiudervi centinaia e centinaia di persone. Un vero e proprio rastrellamento dettato dall’emergenza del momento che però, oltre ai boss veri, hanno recluso al carcere tantissime persone non appartenenti a cosa nostra. Ci furono numerose istanze presentate dinanzi alla magistratura di sorveglianza che, a sua volta, ha sollevato il problema alla Corte costituzionale. Quest’ultima, con la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993, ha sentenziato che per decidere la proroga del 41 bis, bisogna valutare caso per caso. Detto, fatto. A ben 300 detenuti non è stato rinnovato il carcere duro, ma solo 18 di loro appartenevano alla mafia. Non solo. A seguito di una nuova applicazione, si era ridotto a soli undici soggetti mafiosi. Il mancato rinnovo del 41 bis è frutto di scelta dettata dalla sentenza della Corte costituzionali e altri fattori che nulla c’entrano con la presunta trattativa. Casomai, ancora una volta, il “mostro” è la Consulta, rea di far applicare la Costituzione italiana e quindi difendere lo Stato di Diritto anche in tempi emergenziali. A meno che non si pensi che ci sia stata una trattativa Consulta- mafia. Non diamo limiti all’immaginazione.

La Corte costituzionale ha posto paletti molto rigidi. Ma ritorniamo alla “dissociazione” mafiosa. Un falso problema sul quale, forse per ignoranza, alcuni giornali tentano di specularci sopra. Nonostante la portata “rivoluzionaria” della sentenza, la Consulta dimostra comunque di aver preso attentamente in considerazione le particolari esigenze di tutela alla base della previsione dell’articolo 4 bis. Essa, infatti, si cura di precisare che la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – che da assoluta diviene relativa, nei limiti in cui opera la pronuncia in esame – può essere superata solo in base a valutazioni particolarmente rigorose, che non si limitino alla regolare condotta carceraria, alla mera partecipazione al percorso rieducativo o a semplici dichiarazioni di dissociazione del detenuto. Viene messo in rilievo, in proposito, che già la prima versione dell’art. 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario prevedeva che l’accesso alle misure alternative e premiali per i reati di prima fascia fosse subordinato all’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva», requisito tuttora necessario ai sensi del c. 1-bis dell’articolo in parola per i casi di collaborazione inesigibile, impossibile o irrilevante. La magistratura di sorveglianza, pertanto, secondo quanto indicato dalla Corte, non dovrà solo svolgere una seria verifica della condotta penitenziaria del detenuto, ma dovrà altresì considerare il contesto sociale esterno, acquisendo dettagliate informazioni per il tramite del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente. Viene ricordato, poi, che ai sensi del comma 3-bis dello stesso art. 4-bis, tutti i benefici in questione non possono mai essere concessi allorché il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale evidenzino l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.In sintesi, la sola “dissociazione” non basta. È uno dei tanti elementi che la magistratura di sorveglianza deve valutare per concedere o meno il permesso premio che può essere richiesto dopo l’espiazione di tantissimi anni. La collaborazione con la giustizia rimane la “via maestra”. Esattamente come prevedeva Falcone.

Quei collaboratori di giustizia diventati “consulenti a vita” delle procure. Dal rigore del metodo Falcone all’uso indistinto del pentitismo per combattere i clan mafiosi: funzionamento (e limiti) del programma di protezione testimoni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 marzo 2021. I criteri del programma di protezione dei collaboratori di giustizia sono fissati da una legge del 1991 scritta su impulso di Giovanni Falcone, che allora era direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia. Con il tempo, poi, il parlamento ha affinato lo strumento più volte, soprattutto sulla distinzione tra chi si pente dopo aver fatto parte dei clan e chi è vittima o testimone dei fatti e decide di parlare. Le dichiarazioni agli inquirenti dei collaboratori di giustizia, ad esempio, devono avvenire entro 180 giorni dalla dichiarazione di volontà di collaborare. Come funziona la protezione? La prima fase è il trasferimento del “pentito” e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza. La seconda fase è il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove possono sorgere problemi di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l’arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono i benefici carcerari se il collaboratore deve scontare la pena. Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, è parametrato all’indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociale e via discorrendo.

Un patto tra lo Stato e il pentito. In sostanza la collaborazione si fonda su un patto tra lo Stato ed il pentito. Una trattativa: tu fai i nomi e noi ti garantiamo una vita decente. Se da una parte la figura del pentito è sacrosanta per la lotta alla mafia, dall’altra si rischia di trasformarlo in una sorta di “consulente” a vita. Questo perché i pentiti sono sempre considerati imputati di reato connesso. Ecco perché, anche nei processi su episodi recenti, ci ritroviamo pentiti “storici” che non possono conoscere i fatti attuali. Può anche accadere che lo Stato possa diventare inconsapevolmente il braccio armato della lotta tra clan. Non di rado accade che i pentiti siano una testa di legno di un clan che li usa per smantellare i loro rivali senza ricorrere allo spargimento di sangue. Può anche accadere che nel corso del tempo ci siano pentiti che ricordino improvvisamente degli eventi; a volte gli eventi si incastrano con i teoremi giudiziari del momento.

Il “Nano” e gli altri e la strage di Via D’Amelio. In particolare, sulla strage di via d’Amelio, diversi pentiti si sarebbero inseriti nel raccontare le loro verità solo dopo che erano emersi nuovi nomi nelle accuse degli inquirenti. Tra questi, figurerebbero anche pentiti che non erano di Cosa Nostra, come Nino Lo Giudice, che un tempo era a capo di un clan di Reggio Calabria. Il “Nano”, così era soprannominato, sapeva, ma non lo aveva mai detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, uomo da qualche anno morto d’infarto, su cui si era concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo avrebbe confidato anni prima Pietro Scotto, quando erano insieme in carcere all’Asinara. Non solo, sempre a dire del “Nano”, anni dopo lo stesso Aiello avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle Procure siciliane. Inutile dire che parliamo di un pentito che in diverse occasioni è risultato inattendibile, parla e ritratta a seconda di come tira il vento.

Quei pentiti che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Ma ogni tanto c’è anche un giudice a Berlino. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché «non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita». La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali». Non solo Fontana, ma pure Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione – dove smontata il teorema trattativa stato mafia – confermata in cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami».

Lo Stato magnanimo con Giovanni Brusca. Eppure con Brusca, proprio perché pentito, lo Stato è stato magnanimo. Ha sciolto nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo, per zittire il padre che pentito lo era diventato prima di lui. Ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Ha schiacciato il telecomando dando il via all’inferno di Capaci. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che finirà di scontare il prossimo novembre nel 2021 e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Il sospetto che dica ciò che i PM vogliono sentirsi dire è abbastanza concreto. Tanti pentiti rischiano di comportarsi così. Il pentitismo è importante, ma pochi Pm seguono le orme di Falcone: vagliare le dichiarazioni dei pentiti, senza assecondarli. E se raccontano menzogne, inquisirli per calunnia.

Sosteneva Falcone che per sconfiggere la mafia bisogna saper distinguere i pentiti veri dai falsi pentiti…Il Dubbio il 22 gennaio 2021. Pubblichiamo una raccolta di articoli a firma di Giovanni Falcone che rovesciano il “senso comune” sul magistrato antimafia. Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà. Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine, che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra. Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia. Non gli ho dato mai del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare, e neppure gli ho portato dolci siciliani, come qualcuno ha insinuato: «Falcone porta tutti i giorni i cannoli a Buscetta…». Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato per perseguire dei criminali, non per farmi degli amici. A volte ci si chiede se ci sono pentiti «veri» e pentiti «falsi». Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in provincia di Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio a Palermo del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Nel 1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in prigione per saperne di più e il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano le armi destinate all’assassinio. Era chiaro fin dalle primissime battute che mentiva. Infatti è ben strano che un’organizzazione come Cosa Nostra, che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di portare pistole a Palermo; né è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio «eccellente», deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei come il Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti, subito disposti, hanno confermato, come era previsto, che si trattava di accuse inventate di sana pianta. Nel 1984 ci viene segnalato un altro «candidato» al pentimento: Vincenzo Marsala. Nel corso del processo per l’omicidio del padre, aveva pronunciato accuse molto gravi contro le famiglie di Termini e di Caccamo, sostenendo di aver ricevuto le informazioni in suo possesso dal padre. Lo faccio condurre a Palermo e dal tenore di alcune sue risposte mi convinco che si tratta al novantanove per cento di un uomo d’onore, nonostante i suoi dinieghi. Gli dico allora: «Signor Marsala, a partire da questo momento lei è indiziato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Decida che cosa fare». Mi guarda e insiste di non far parte di Cosa Nostra. Interrompo l’interrogatorio e lo rinvio. Qualche settimana dopo ha fatto sapere di essere pronto a parlare seriamente. La sua confessione di mafioso si è rivelata utilissima. Conoscere i mafiosi ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni. Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni. Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso – il tradimento, o la semplice fuga in avanti – provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi, di «dire la verità», è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita.

·        Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Lo dice pure il Consiglio di Stato. Basta scioglimenti facili dei Comuni, rispettare il voto popolare. Pierpaolo Zavettieri su Il Riformista il 15 Luglio 2022. 

Fin quando non ci sarà una giustizia certa e giusta nessun crimine troverà adeguata ed efficacie risposta da parte dello Stato. Tale convincimento impone di non accettare passivamente che una norma chiara come l’art. 143 del Testo unico degli enti locali sia costantemente “forzata” in termini interpretativi da Prefetture, Viminale, Consiglio dei Ministri, Capo dello Stato e che, in caso di contenzioso giuridico, si possa incorrere in valutazioni poco serene da parte della giustizia amministrativa, ai vari livelli. La norma sugli scioglimenti, ancorché inutile e superata dalle leggi ordinarie, non è altro che una reazione del Governo, immediata e straordinaria, ai gravissimi ed efferati fatti criminali dei primi anni 90. Ma si sa, in Italia nulla è più definitivo di una norma emergenziale!

Non vi è alcun dubbio infatti che la nostra legislazione, anche al netto del “143”, impedisca qualsivoglia possibilità per un amministratore locale di agire impunemente a favore della criminalità, organizzata o comune che sia. Se un sindaco commette un reato è sanzionabile a norma di legge! Ciononostante, volendo considerare attuale il “143”, dovremmo quantomeno avere il coraggio di denunciarne l’utilizzo spasmodico da parte degli organi preposti. Quasi mai, infatti, negli innumerevoli casi di comuni “sciolti”, si è potuto rilevare un “reale” riscontro di elementi “concreti, univoci e rilevanti”, tali da condizionare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione comunale sotto indagine, così come recita il TUEL.

Se la percentuale di errori, a volte clamorosi, commessi da “burocrazia” e “magistratura” non fosse così elevata, probabilmente non sarebbe necessario alcun dibattito sull’argomento e neppure le battaglie di Associazioni come “Mezzogiorno in Movimento” o Nessuno tocchi Caino. Insomma, è la dose che fa il veleno! Solo per avere un saggio di come spesse volte siano state gestite circostanze afferenti l’utilizzo del “143” è utile citare uno stralcio significativo della sentenza del TAR Lazio che ha disposto l’annullamento dello “scioglimento” e la “riabilitazione” del Comune di Marina di Gioiosa: «Dalla documentazione complessivamente presentata in giudizio, tuttavia, emerge un quadro fattuale caratterizzato dalla presenza di un notevole ritardo da parte della prefettura reggina nel riscontro delle richieste di informazioni antimafia; di contro, il Comune risulta essersi attivato celermente, appena avuto notizia delle interdittive». Peccato che il Consiglio di Stato, sul ricorso avverso la sentenza del TAR, in tempi così celeri da legittimare eventuali dubbi sulla corretta presa visione degli atti, ha prima concesso la sospensiva e poi ribaltato le inconfutabili motivazioni del TAR. Cos’altro vorreste aggiungere!

È di pochi giorni fa invece la sentenza del Consiglio di Stato che, sul caso Guardavalle, contro ogni previsione, ha ribaltato in senso “correttamente garantista” l’esito del TAR sullo scioglimento del Consiglio Comunale. Le parole del Collegio in questo caso non possono non essere destinate a riaffermare la corretta giurisprudenza: – È opinione del Collegio che le circostanze fattuali … non restituiscano un quadro sufficientemente probante, sia pure nella logica del “più probabile che non”, del condizionamento o del collegamento mafioso, ma di una gestione non particolarmente efficiente ed efficace dell’attività amministrativa, che non può però giustificare lo scioglimento degli organi elettivi, il quale incide sui «più alti valori costituzionali alla base del nostro ordinamento, quali il rispetto della volontà popolare espressa con il voto e l’autonomia dei diversi livelli di Governo garantita dalla Costituzione».

Giudicato esemplare e monito per lo stato di diritto, caratterizzato da una sentenza le cui motivazioni fanno presa sulle coscienze perché finalmente esaltano nettamente il valore della volontà popolare (imprescindibile in democrazia) e i più alti valori costituzionali. La decisione del Consiglio di Stato vince sullo sconforto diffuso degli amministratori locali e restituisce speranza alle comunità offese dall’onta del pregiudizio fondato su una abusata cultura del sospetto che vizia ogni forma di giudizio. L’auspicio è che la sentenza “Guardavalle” non rimanga caso isolato ma divenga sentenza pilota per un reale “cambio di rotta” che restituisca dignità e motivazione a chi ancora intende spendersi per le proprie comunità, specie in territori difficili come il Mezzogiorno.

Pierpaolo Zavettieri Sindaco di Roghudi

Ora anche Morra lo ammette: i commissariamenti sono un flop. Il Dubbio il 30 aprile 2022.

Dopo anni di denunce da parte di stampa e associazioni il presidente dell'Antimafia arriva alla stessa conclusione: «I commissari quasi sempre si limitano ad una gestione ordinaria dei comuni sciolti, paralizzandoli di fatto, forse per mancanza d’assunzione di responsabilità».

«Dall’analisi fatta emergono, purtroppo, nuove criticità: le gestioni commissariali, nei Comuni sciolti per mafia, non prestano la dovuta attenzione o, comunque, non riescono ad affrontare in maniera adeguata gli obblighi della trasparenza e della prevenzione della corruzione». A dirlo all’Adnkronos è il presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, a pochi giorni dall’approvazione, in Commissione, della «Relazione sulla prevenzione della corruzione e sulla trasparenza nei Comuni sciolti per mafia», dalla quale emergono «gravi e costanti» carenze sulla trasparenza e inadempimenti.

«Il ruolo dei Commissari designati dopo uno scioglimento per mafia dovrebbe essere garantire trasparenza, accrescere l’efficienza, l’efficacia, la chiarezza e la produttività all’interno dell’ente sciolto, con l’obiettivo teorico di far penetrare tali principi e valori nell’agire quotidiano dell’Amministrazione Pubblica – osserva Morra -. A riguardo, infatti, abbiamo evidenziato l’importanza di avviare iniziative di prevenzione, vigilanza e controllo in contrasto alle potenziali infiltrazioni criminali nelle procedure amministrative e di spesa dei Comuni».

Un flop dei commissariamenti? «Si lo è – risponde il presidente della Commissione Antimafia, relatore della Relazione – Purtroppo è quanto emerge dai dati sulla mancata trasparenza nonostante il commissariamento degli enti sciolti ed analizzati in questa relazione».

«Sono gravi e costanti le carenze nella sezione della “trasparenza” dei siti istituzionali su cui, ad esempio, spesso mancano gli elenchi dei beni confiscati per mafia. Nel corso delle gestioni commissariali, frequentemente, il ciclo di programmazione dei bilanci non viene rispettato ed il piano dei conti integrato non viene prodotto o pubblicato, impedendo di fatto di effettuare i controlli da parte dei Revisori dei conti e della Corte di Conti». «Abbiamo esaminato in Antimafia le relazioni prodotte al termine del commissariamento sui comuni sciolti per infiltrazione e nel 78% dei casi non si ipotizza alcun evento corruttivo durante il 2019, e tutto ciò ci sembra irreale», sottolinea Morra. «Stiamo individuando strumenti di verifica e di controllo dell’attività di commissariamento perché il lavoro dei commissari incide e non poco sul futuro di vita o di morte economica e sociale di una comunità. Non è accettabile, ad esempio, che un paese come Platì, comune della provincia di Reggio Calabria, in passato sia stato commissariato per dieci anni – continua il presidente della Commissione parlamentare Antimafia -. Si deve proseguire nell’attività di bonifica amministrativa, senza influire negativamente sulla collettività perché lo scioglimento per mafia di un comune ha inevitabilmente delle ripercussioni, anche in termini di autostima oltre che di immagine, su tutta la comunità.

Affinché le gestioni commissariali siano più efficienti e centrino gli obiettivi della trasparenza e della prevenzione alla corruzione, l’Antimafia è pronta ad elaborare delle proposte: «La Commissione continuerà a lavorare sui dati raccolti ed analizzati, la strada sembra indirizzarci verso una verifica delle attività svolte da parte dei Commissari nei comuni sciolti, cui potrebbero seguire dei benefici per chi adempie al meglio i propri doveri; viceversa pensare a dei meccanismi selettivi evitando in futuro commissariamenti blandi o addirittura inutili sembra essere la via da seguire».

Alla domanda se ci sia un abuso delle normative che riguardano lo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose, Morra risponde: «Sicuramente ciò che risponde e rispetta meglio i principi cardini sui quali si poggia l’intero nostro ordinamento giuridico, riguarda la responsabilità penale verso singoli soggetti e forse non su tutta la squadra amministrativa. Anche se a mio avviso si potrebbe e dovrebbe estendere la normativa per lo scioglimento, seppur con la dovuta cautela ad altri enti pubblici». I dati contenuti nella Relazione dicono che alcuni Comuni sono recidivi tanto da essere colpiti fino a tre volte dallo scioglimento: «Se un comune viene sciolto più volte è chiaro che il commissariamento non è stato efficace, tutt’altro. È fondamentale individuare meccanismi che garantiscano l’applicazione degli strumenti già previsti per assicurare che, concluso il periodo di commissariamento, il primo e fondamentale passo per il ritorno alla normalità, l’ente non sia nuovamente facile appannaggio delle consorterie criminose, certamente non ancora scomparse dalla scena».

«Quando viene sciolto un comune cade il consiglio comunale che è l’organo eletto democraticamente, ma spesso è proprio negli uffici tecnici che bisognerebbe intervenire – osserva il presidente della Commissione parlamentare Antimafia – iniziando dal responsabile per la prevenzione della corruzione e per la trasparenza ovvero mettendolo in condizioni di poter svolgere le funzioni previste che tutelerebbero al meglio l’ente». Rispetto alle sue competenze, Anac «ha un ruolo importante nel dare un indirizzo nella redazione degli atti e delle norme a cui i Comuni devono attenersi. Ciò non è sufficiente perché sovente le ditte si avvalgono di prestanomi che aggirano i divieti imposti dalle norme – osserva Morra -. Vanno date delle direttive più stringenti e rafforzato l’ufficio dell’anticorruzione. In primis bisognerebbe concentrarsi sulle confische che producono quasi sempre il fallimento di un’azienda, fermando a volte anche economie sane, legate inevitabilmente a quelle malavitose. Anche la gestione dei beni confiscati affidata ai Comuni andrebbe ripensata, poiché ci sono dei costi che molti comuni non sono in grado di affrontare e sostenere per la gestione del bene».

A 30 anni di applicazione della legge sugli scioglimenti dei comuni per mafia, sono all’esame diverse proposte normative: «Si pensa all’individuazione di un organismo terzo che provveda, nei comuni sciolti per mafia, al monitoraggio del rispetto della normativa sulla trasparenza e sulla prevenzione della corruzione, svolgendo altresì una funzione di supporto e di impulso nei confronti delle commissioni straordinarie. Attività da continuare a svolgere anche al termine del commissariamento, monitorando e supportando gli enti locali negli anni immediatamente successivi al ripristino dell’ordinaria amministrazione». (di Sara Di Sciullo)

Comuni sciolti per mafia: la Puglia è «maglia nera». Già cinque gli enti locali commissariati dal 2021. Foggia è il secondo capoluogo di provincia sciolto per mafia dal 1991 ad oggi. Il primo fu Reggio Calabria nel 2012. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Aprile 2022.

Foggia lo scorso mese di agosto, Squinzano nel Leccese a gennaio, Carovigno a marzo e Ostuni nel Brindisino a dicembre dello scorso anno, ieri Trinitapoli nella Bat: cinque comuni pugliesi sciolti per mafia nel 2021 e nei primi mesi del 2022, un primato di cui, forse, meglio non esserne fieri. Eppure i numeri, quelli che emergono in modo freddo ma preoccupante dal dossier 2021 «Le mani sulle città» di Avviso Pubblico (la realtà associativa nata nel 1996 che unisce Comuni, Province e Regioni con l’intento di diffondere la cultura della legalità) attribuiscono alla regione «Tacco d’Italia» un record che la posiziona sopra a Calabria e Sicilia, anch’esse ai vertici nazionali con altri quattro Enti locali sciolti nel corso dell’ultimo anno in conseguenza di fenomeni di infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso.

Ma, a ben vedere, oltre che conquistare il titolo di regione con il maggior numero di Comuni sciolti per mafia, c’è un altro triste record che caratterizza la nostra regione: Foggia, infatti, è il secondo capoluogo di provincia sciolto per mafia dal 1991 ad oggi. Il primo fu Reggio Calabria nel 2012. Così come i quattro scioglimenti decretati in Puglia rappresentano un record per la regione, eguagliando quelli del 1993 quando fu sciolta anche Trani, che però all'epoca non era ancora capoluogo di provincia, e 2018.

È bene chiarire che, come previsto dalla legge, per arrivare allo scioglimento di un Comune non è necessaria la sentenza di un tribunale o che siano state disposte misure di prevenzione, ma è sufficiente che emerga una possibile soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata. Tutto questo tramite un complesso procedimento di accertamento, effettuato dal Prefetto attraverso un’apposita commissione di indagine (la commissione d’accesso). Nonostante questo, dal dossier di «Avviso Pubblico», che ha analizzato i decreti di scioglimento e le relazioni prefettizie, emerge come nella quasi totalità dei casi l’accesso al Comune è avvenuto in seguito alle risultanze di indagini giudiziarie o dopo operazioni svolte dalle forze di polizia.

Foggia, a tal riguardo, nell’ambito del dossier nazionale, si ritaglia una «vetrina» tutt’altro che rispettabile tanto da assurgere a una sorta di caso tutto da studiare.

Nel capoluogo dauno, infatti, la relazione prefettizia ha evidenziato che le indagini erano state avviate in seguito all’elevato numero di interdittive antimafia emesse dal Prefetto (dal 2016 al 2021 sono state ben 85) e agli esposti in cui si denunciavano forme di contiguità degli amministratori locali con esponenti delle consorterie mafiose. L’accesso al Comune è iniziato nel marzo 2021 e già nel mese di giugno il primo cittadino rassegnava le sue dimissioni con conseguente scioglimento del consiglio comunale. Ciò non ha impedito, comunque, di concludere l’accesso e procedere all’applicazione dell’art. 143 del Testo unico degli enti locali, avendo riscontrato collegamenti diretti e indiretti fra gli amministratori e i clan.

Per la cronaca: nella maggior parte degli enti locali sciolti per mafia nel 2021 il sindaco guidava una maggioranza sostenuta dalle liste civiche, a Foggia, invece, l'amministrazione era di centro-destra. I soggetti coinvolti nell’ex palazzo del Podestà sono stati 13 amministratori locali e 5 dipendenti dell'apparato burocratico.

Infine un dato statistico che fotografa la situazione nazionale: sono stati 365 i decreti di scioglimento dal 1991 ad oggi: una media di uno al mese. All’origine appalti truccati, affidamenti diretti di servizi pubblici a soggetti vicini ai clan, voto di scambio e corruzione: le mafie, insomma, continuano a infiltrarsi nell'economia legale aggredendo la vita amministrativa delle città.

Il racconto dell'ex sindaco. Così hanno sciolto il comune di Scicli. Francesco Susino su Il Riformista l'11 Marzo 2022.  

Alcuni giorni fa, ho partecipato alla presentazione del libro di Nessuno tocchi Caino Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’Inquisizione Antimafia. Si è tenuta al Siracusa Institute fondato dal grande giurista internazionale Cherif Bassiouni e oggi diretto dall’avvocato Ezechia Paolo Reale. Nel raccontare la mia storia e quella dello scioglimento del Comune di Scicli per mafia, ho cominciato dalla fine, cioè da quando il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Catania, ovvero colui che doveva sostenere l’accusa nei miei confronti, dichiarò che non intendeva proseguire oltre l’azione penale contro di me! D’un colpo questo determinò la mia personale assoluzione dalla grave accusa di concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso e una forte censura per quei suoi colleghi che avevano costruito il castello accusatorio.

In precedenza, invece, in primo grado, il Tribunale di Ragusa mi aveva completamente assolto utilizzando in sentenza una frase che, anche a livello politico, aveva fatto molto discutere: “in definitiva è inaudito che l’imputazione abbia superato il vaglio dell’udienza Preliminare”, un’altra inusuale censura al Gup da parte di un altro magistrato giudicante. Ho raccontato anche che nessun altro nel Comune di Scicli – politico, funzionario o dipendente dell’ente – era stato imputato in un processo penale per quella vicenda (come se avessi fatto tutto da solo!), e che per i soggetti dipendenti della ditta di raccolta rifiuti, loro sì imputati, prima cadde l’accusa del metodo mafioso e poi, in secondo grado, anche quella dell’associazione a delinquere. Mi sono fermato qui per carità di patria! Quello che è accaduto, e che nessuno potrà più restituire alla città, è stata la paralisi totale in cui fu precipitato il Comune di Scicli per quasi due anni, da quando fu insediata la Commissione di accesso agli atti fino alla pronuncia di scioglimento.

Tutti noi, dai politici ai dipendenti, vivevamo una situazione surreale nella quale ti sentivi costantemente sotto giudizio, quasi fossi il più efferato dei delinquenti o il più cinico dei mafiosi presenti nell’isola. Impossibile dimenticare l’audizione di consiglieri comunali e assessori al primo piano del Palazzo di Città, nel settembre del 2014. Tutti gli interessati furono convocati dai Commissari al Comune di Scicli allo stesso orario, le 9 del mattino (come se nessuno di loro avesse impegni lavorativi, come se dovessero essere ascoltati nello stesso momento!). L’audizione terminò la sera. Le convocazioni furono fatte tramite gli uffici comunali, in barba a qualsiasi clausola di riservatezza. La stampa e le televisioni, quella mattina, erano presenti al Municipio ancora prima degli interessati con telecamere e flash. Praticamente si era organizzata una gogna di massa e quello che doveva essere un procedimento amministrativo (la verifica dei presupposti dello scioglimento), nei fatti, era un processo penale di piazza, con gli agnelli sacrificali costantemente sbattuti in prima pagina. Due giornali – ragusanews e La Spia – in particolare si contraddistinsero per insistenza di notizie e accanimento nei nostri confronti.

Ovviamente, nessuno mi risarcirà delle sofferenze personali patite in quei mesi né mi risarcirà della serenità sottratta a me e alla mia famiglia, ma questo riguarda la mia sfera personale e non voglio pietismo. Piuttosto, ho avuto modo di constatare come anche il giudizio amministrativo che è seguito allo scioglimento si svolga su di un piano di sperequazione imbarazzante, quasi quanto l’impossibilità di contraddittorio registrato durante l’azione della Commissione prefettizia. Orbene, fondando la propria decisione su un “giudizio pronostico”, sulla regola del “più probabile che no”, il TAR, in primo grado, rigettò l’impugnazione mossa da alcuni consiglieri sul fatto che doveva ancora concludersi il giudizio penale di primo grado e che all’inizio vi ho già raccontato come si è concluso. In appello, invece, il Consiglio di Stato, pur ridimensionando la sentenza del TAR (che aveva pure condannato alle spese), utilizzando gli stessi principi del giudice di primo grado, disse che, anche se il sindaco era stato assolto…. c’era ancora il giudizio d’appello!

Mi fermo qui. Voglio solo rilevare come, una legge nata per intervenire in aree del paese dal forte condizionamento mafioso, la Locride, dove venivano commessi delitti efferati, nei fatti sia diventata lo strumento in cui pezzi delle istituzioni combattono altri pezzi delle istituzioni e lo fanno ad armi impari. È necessario, per la stessa tenuta democratica del Paese, che la legge sullo scioglimento per mafia sia riscritta. Francesco Susino

·          Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Antonio Giangrande: La mafia dell’antimafia: interdittive e sequestri preventivi. Cuzzocrea e Cavallotti.

Criminalizzazione di un territorio con normativa razzista a scopi politici. Il fallimento delle aziende del meridione d’Italia voluto dalla politica di sinistra a favore delle imprese del Nord Italia.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi e la gestione criminale dei beni confiscati.

La storia del calabrese Andrea Cuzzocrea e dei siciliani Cavallotti.

Levano l'appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell'antimafia.

Il video editoriale di Piero Sansonetti del 02/11/201702 su “Il Dubbio”.

Intervista ad Andrea Cuzzocrea di Emiliano Silvestri a Reggio Calabria del 10 giugno 2017 a cura di Fabio Arena

La storia infinita della famiglia Cavallotti e delle loro aziende poste sotto sequestro.

Alla luce delle indagini della Procura di Caltanissetta continua l’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Un impero economico di miliardi di euro nelle mani di pochi.

Servizi di Matteo Viviani del 5 dicembre 2017.

Luigi Romano per formiche.net il 6 dicembre 2022.

Un presidente emerito della Consulta e un procuratore nazionale si dividono su un libro che mette sotto accusa l’Antimafia, descrivendola come un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Il primo, Giuliano Amato, sposa in toto le ragioni del libro, il secondo, Giovanni Melillo, le contesta altrettanto apertamente. 

Così la presentazione all’Auditorium parco della Musica de “L’inganno”, scritto dal giornalista e saggista Alessandro Barbano ed edito da Marsilio, si trasforma in un faccia a faccia vibrante. A cui non sono estranei gli altri due protagonisti del dibattito: il giornalista e storico Paolo Mieli e il segretario nazionale delle Camere Penali, Eriberto Rosso, la cui adesione alle tesi del libro è esplicita. A moderare l’incontro la giornalista Eva Giovannini.

Così una platea di trecento invitati, tra cui rappresentanti delle istituzioni, della politica, dell’impresa e delle professioni, come Gianni Letta, Paolo Savona, Carlo Calenda, Maria Elena Boschi, Matteo Richetti, Renato Brunetta, Lucia Annibali, Roberto Giachetti, Lorenzo Bini Smaghi, Lorenzo Casini, Veronica De Romanis, Danilo Iervolino, Gianni Lettieri, Gabriella Giammanco, Annamaria Malato, Luca De Fusco, Francesco Tagliente, Enzo Cardellicchio, assiste  a un confronto serrato sulla crisi della giustizia penale e sulla deriva dell’Antimafia, che il libro di Barbano definisce un sistema dove l’eccezione diventa regola. Con l’effetto che confische e sequestri colpiscono migliaia di cittadini e imprenditori mai processati, o piuttosto assolti, sentenze anticipano leggi, pene crescono al diminuire dei reati e una falsa retorica professa l’idea che il rovesciamento dello Stato di diritto sia necessario alla vittoria sulla malavita.

«Da giurista negli anni Sessanta – racconta Amato – ho firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno». Il presidente conclude con un appello a non esagerare. 

Di segno opposto l’intervento del procuratore Giovanni Melillo, per cui «il j’accuse del libro ripete non pochi dei vizi che attribuisce al mostro giudiziario contro cui si scaglia. Neanche come provocazione può accogliersi – secondo Melillo – l’idea che la legislazione antimafia sia un moloch nutrito di sole pulsioni giustizialiste». Il procuratore condivide l’idea che «il sistema giudiziario abbia bisogno di una massiccia dose di cambiamento, ma non nel senso che auspica Alessandro Barbano, che vuol comprimere il ruolo della magistratura inquirente».

Esprimendo «personale dissenso sulla tesi del libro», il procuratore accusa l’autore di «estremismo». Ma a difendere l’autore sono tanto Paolo Mieli quanto Eriberto Rosso. Il primo denuncia il «lockdown giudiziario che tiene in una morsa la democrazia italiana e che scatena retate contro innocenti nell’indifferenza generale. «Come mai – dice lo storico e giornalista – abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche un senso di colpa? Come mai – aggiunge provocatoriamente, rispondendo a Melillo – la scuola dell’illuminismo napoletano oggi produce solo la tiritera al libro di Barbano»? 

«Un bel libro e non una provocazione», definisce «L’inganno» Eriberto Rosso: «Barbano tenta di ricostruire una sensibilità garantista che la nostra politica e il legislatore hanno perduto nel tempo, poiché tutte le risposte emergenziali si sono stabilizzate nel sistema. Non a caso la stessa riforma Cartabia prevede che il giudice che proscioglie l’imputato, perché non è riuscito a provare la sua colpevolezza, trasmetta gli atti al procuratore antimafia, affinché valuti se procedere con le misure di prevenzione. Vuol dire assolvere e punire allo stesso tempo, questo è inaccettabile». 

Da ultimo l’intervento dell’autore, che è una replica alle critiche del procuratore: «Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi?

Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? 

Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia? Non mi sento un estremista – ha concluso Barbano – quando chiedo che la ricerca doverosa degli autori delle stragi porti a giudizio prove verificate, o quando rivendico che la giustizia non sia la sede della lotta alla mafia, ma il luogo sacro ed estremo dove si accerta la colpevolezza o piuttosto l’innocenza».

Il dibattito sulle misure di prevenzione. “Confische incostituzionali”, Amato demolisce l’Antimafia che ha distrutto vite e aziende. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Dicembre 2022

Le misure di prevenzione sono ‘contro’ la Costituzione. Parola di Giuliano Amato, presidente emerito della Consulta. La presentazione romana questa settimana dell’ultimo libro del direttore Alessandro Barbano dal titolo “L’inganno. Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, è stata l’occasione per fare il punto sull’istituto quanto mai controverso delle misure di prevenzione. Amato ha ricordato di quando era un giovane giurista negli anni Sessanta e, in compagnia di Leopoldo Elia e Augusto Barbera, sollevò per la prima volta il tema della compatibilità delle misure di prevenzione con il dettato costituzionale.

Il principale problema era dovuto al fatto che le misure di prevenzione, pur essendo afflittive, non venivano comminate da un giudice ma dall’autorità amministrativa, per l’esattezza quella di polizia. L’elemento cardine che giustifica un procedimento così severo era quello del “sospetto”. Lo Stato aveva dato un potere di fatto illimitato ai questori. A tal riguardo Amato ha ricordato una circostanza degna di Franz Kafka, quella in cui il questore provvedeva a diffidare formalmente la persona che a suo insindacabile giudizio avesse destato sospetti per la sua condotta di vita. Se la medesima persona continuava, sempre ad insindacabile giudizio del questore, a destare sospetti, scattava allora la denuncia penale per aver violato il provvedimento di diffida del questore. Un corto circuito che nulla aveva a che fare con lo stato di diritto.

Le misure di prevenzione ebbero poi negli anni una loro valorizzazione giurisdizionale e il sistema, pur pieno di criticità, si stabilizzò.

Lo spartiacque, ha aggiunto Amato, si ebbe nel 1965 quando vennero estese anche ai fenomeni mafiosi. Dalle persone ai beni il passo è stato breve. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove, ha ricordato il presidente emerito della Corte Costituzionale, l’autorità di pubblica sicurezza può tranquillamente interdire per cinque anni una impresa ai suoi titolari sospettati di avere rapporti con la mafia, pur in assenza di procedimenti penali. L’intervento di Amato non poteva non essere apprezzato dall’autore del libro che ha esordito con una provocazione: se il sistema emergenziale italiano è giustificato dalla presenza di quattro organizzazioni criminali, allora bisogna anche giustificare Guantanamo. Il sistema di prevenzione, sul quale si discute sempre troppo poco, è un unicum nei Paesi europei.

Come ricordato da Barbano, infatti, non esiste in nessun altra realtà. In Italia si può essere assolti perché il fatto non sussiste al termine del processo e allo stesso tempo vedersi confiscati tutti i propri beni. A differenza della condanna, per la confisca sono sufficienti solo “elementi indiziari”. La ricerca doverosa degli autori della stragi di mafia deve essere svolta in una cornice di diritti e garanzie, ha sottolineato Barbano, ricordando che tutti coloro che avevano letto il libro come prima cosa gli dicevano: “che coraggio che hai avuto!”. “Coraggio lo ha chi lotta contro la mafia” non chi racconta un meccanismo legislativo dello Stato.

Durante il dibattito, al quale ha partecipato anche il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo, che ha sostanzialmente difeso l’impianto normativo delle misure di prevenzione ed il lavoro svolto dai pm e dai prefetti, è stato poi affrontato anche il tema del regime del 41 bis. “Serve un ragionevole bilanciamento”, ha aggiunto Amato, che firmò la modifica dell’ordinamento penitenziario sul punto. “Il 41 bis deve avere una sua utilità, altrimenti è solo vessazione”, ha quindi puntualizzato Amato. Paolo Comi

Misure di prevenzione patrimoniali: la deriva del codice antimafia "resiste" in Cassazione. Dalla recente pronuncia delle sezioni unite sembra prevalere la tutela dei beni rispetto al diritto di chi se li è visti ingiustamente confiscare. Alessandro Parrotta, AVVOCATO, DIRETTORE ISPEG, su Il Dubbio l’1 Dicembre 2022

Tornano a far parlare di loro le temibili misure di prevenzione patrimoniali, la cui applicazione ha trovato, man mano, un significativo raggio di estensione nella disciplina antimafia. A distanza di quasi due mesi dall’ultimo intervento dello scrivente sul tema (riflessione sulle conseguenze derivanti dalla pronuncia di improcedibilità dell’azione penale e suoi effetti preclusivi e/ o di valore di "giudicato" – nel procedimento di prevenzione), poco più di una settimana fa le Sezioni Unite sono intervenute per dirimere il contrasto creatosi in ordine ai presupposti in base ai quali il sottoposto o i terzi, aventi diritto sul bene, possono chiedere la riparazione dell’errore giudiziario costituito dalla confisca illegittimamente disposta.

Il Supremo Consesso, con un revirement che lascia sgomenti, ha ritenuto che in tema di confisca di prevenzione, la prova nuova, rilevante ai fini della revocazione della misura ai sensi dell’art. 28 del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di esso, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è diventata definitiva; non lo è, invece, quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore».

Sebbene ad una prima lettura non parrebbero esserci differenze dall’istituto della revisione processuale, che, in effetti, contempla la possibilità di sovvertire un giudicato nel merito quando dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono prove nuove, è proprio sul concetto di "novità" che le Sezioni Unite si concentrano: discostandosi dal rimedio processual-penalistico della revisione (aderendo a quell’orientamento che, ancora oggi, si ostina a ritenere la confisca di prevenzione non già come una pena bensì come uno strumento civilistico di carattere restitutorio), al fine di caducare il giudicato di prevenzione, adotta i canoni del rimedio processual- civilistico della revocazione, già prevista dal Codice Antimafia (sottoposta peraltro ad un termine di decadenza, a differenza che per la revisione).

Una pronuncia, quella della Sezioni Unite, che sembra del tutto sbilanciata rispetto la tutela – mai banale, certamente – della collettività in rapporto alla tutela del singolo, sia come diritto di difesa sia soprattutto come diritto alla proprietà privata. È evidente, infatti, come, tra le righe della pronuncia in esame, vi sia una qualche forma di preferenza verso la tutela della stabilità dei beni anche solo provvisoriamente sottoposti a misura ablatoria patrimoniale rispetto al diritto e alla possibilità del singolo di vedersi restituiti, un domani, all’esito di un complesso procedimento di prevenzione, i beni ingiustamente confiscati. Che danno si verificherebbe a un ente se gli venisse prima affidato un immobile confiscato da destinare alla collettività e poi, quello stesso immobile, dovesse essere restituito, a seguito di un positivo giudizio di "riparazione" dell’errore giudiziario, al legittimo – proprietario? Questo il ragionamento che pare aver animato la decisione della Corte.

A tali conclusioni si giunge ancor più facilmente se solo si considera, facendo un paragone con la disciplina della revisione, che mentre per quest’ultima sono ammissibili anche prove che erano già esistenti ma che non sono state acquisite oppure acquisite ma non valutate o ancora non prodotte per negligenza – ad esempio – del difensore, per la revoca di un provvedimento definitivo di confisca di prevenzione le prove ontologicamente ‘ nuove’ consisterebbero – secondo l’interpretazione data dalla Corte esclusivamente in quelle sopravvenute al provvedimento ablatorio definitivo o quelle preesistenti, ma incolpevolmente non conosciute.

Andrebbero quindi escluse quelle preesistenti, che non siano state dedotte dalla parte a meno che non ne venga dimostrata l’indeducibilità a causa di forza maggiore. Se ne trae, in definitiva, una pronuncia, a tratti, "funzionalmente" orientata che, tuttavia, lo si crede con forza, è figlia del suo stesso male: le misure di prevenzione, introdotte in un periodo storico particolare, in un settore e con destinatari originali circoscritti, per via della "semplicità" con cui si possono disporre, hanno assunto sempre più la veste di una anticipazione di una equivalente (quanto agli effetti ablatori) misura cautelare reale, quando non già di una sentenza di condanna.

Operazione Apogeo, Piergiorgio Capra: “chiesto maxi risarcimento di 8,1 milioni d’euro”. PressMoliLaz il 17 Marzo 2022 su pressmoliselazio.it.

Si è svolta, la conferenza stampa indetta dalla Gamma Auto SRL presso l’Ostia Antica Park Hotel. Il tavolo ha visto tra i relatori Piergiorgio Capra (titolare della concessionaria), la giornalista Federica Angeli, il dr. Antonio Del Greco (ex dirigente della Polizia di Stato) e l’avvocato Andrea Rossi.

Durante l’evento, Piergiorgio Capra ha ribadito “il danno d’immagine compiuto verso la sua azienda per una superficialità giudiziaria, che ha portato l’attività a essere accostata alle vicende del clan Spada: errore evitabilissimo, se solo i procuratori avessero letto e studiato attentamente le carte inerenti le dichiarazioni del pentito Dociu Paul, che indicava chiaramente come l’autosalone vicino al gruppo criminale lidense fosse la Rosa Car di via dei Romagnoli”.

Sulla questione si è espressa anche Federica Angeli, che giornalisticamente ha acceso i riflettori mediatici sull’attività illecita della famiglia Spada sul Litorale Romano. Ha dichiarato come “sia necessario nel giornalismo la certezza delle fonti, come peraltro prevederebbe anche una deontologia professionale e insegno ai miei studenti nei corsi che tengo sull’attività giornalistica. Nei fatti accaduti alla Gamma Auto, si è condannata mediaticamente un’attività nonostante fosse totalmente estranea alle logiche del malaffare”.

Nel suo intervento, il dr. Antonio Del Greco ha detto come “a Ostia tutti conoscono, anche per fama, quelle realtà legate al malaffare. Logiche note alla cittadinanza locale in quanto un grande paese e che non possono essere sconosciute a realtà come quelle delle Forze dell’Ordine e della Giustizia. Sul caso Gamma Auto, la Giustizia ha pagato due situazioni: la mancanza di fonti affidabili sul territorio e la voglia di chiudere in fretta il caso”.

A chiudere l’evento, è arrivato l’intervento dell’avvocato Andrea Rossi, che segue gli interessi della famosa concessionaria lidense. Il legale ha detto: “Abbiamo chiesto un risarcimento di 8,1 milioni d’euro allo Stato italiano con una PEC indirizzata al Presidente del Consiglio, equivalenti al fatturato di 2,5 milioni d’euro l’anno dell’azienda per tre anni, ovvero tutto il periodo di sequestro e confisca. Oggi parliamo di una cifra indicativa, poiché al momento stiamo ancora calcolando i danni contabili, materiali, d’immagine e soprattutto morali verso i gestori dell’attività. Infatti, dobbiamo pensare come oggi la concessionaria sia nella black list di un importante istituto di credito nazionale per questa faccenda, oltre a essere stata dipinta come ‘vicina’ a un’attività criminale da varie testate giornalistiche”.

Le imprese non erano mafiose: i pezzi pregiati restituiti ai Rappa. Tornano agli imprenditori decine di immobili, compreso il palazzo del Tar. Riccardo Lo Verso su livesicilia.it il 28 luglio 2022.

Le imprese non erano mafiose, né ci fu l’immissione di soldi di provenienza illecita. Non c’è Cosa Nostra dietro la scalata imprenditoriale dei Rappa. A partire dal capostipite Vincenzo per proseguire con figli e nipoti.

Respinto l’appello della Procura

La Corte di Appello per le misure di prevenzione restituisce quasi integralmente i beni agli imprenditori Rappa. Una grossa fetta era già stata dissequestrata in primo grado. Ora si aggiungono alla lista i pezzi pregiati del patrimonio immobiliare.

La decisione del collegio presieduto da Aldo De Negri è dello scorso 22 maggio, ma Livesicilia ne è venuta a conoscenza solo adesso. La Corte ha respinto il ricorso della Procura che avrebbe voluto togliere di nuovo tutto ai Rappa, dando ragione alla difesa.

Non ha retto la ricostruzione della Dia. L’iniziale sequestro è del 2014, quando il presidente delle Misure di prevenzione era ancora Silvana Saguto di recente condannata in appello e ora di nuovo sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione in atti giudiziari e falso.

Nel 2018 in primo grado il Tribunale aveva confiscato gran parte dei beni di Vincenzo Rappa (fra cui le imprese Vincenzo Rappa snc, Villa Heloise Costruzioni, Cipedil e Gei Generali Imprese) e restituito quelli che appartengono ai figli Filippo, Sergio e Maurizio, e ai nipoti Vincenzo, Vincenzo Corrado e Gabriele. Tra i beni dissequestrati c’erano pure l’emittente televisiva Telemed e le concessionarie Nuova Sport Car.

Prima il pizzo, poi gli affari

Il capostipite della famiglia era stato vittima del pizzo e “per operare nell’edilizia ha dovuto soggiacere alle indebite pretese del sodalizio mafioso” , così stabilirono i giudici nel processo penale. Poi, a partire dagli anni Novanta, strinse un rapporto di fiducia con i mafiosi. In particolare i boss Ganci, Madonia e Galatolo. Ma furono pochi i cantieri aperti in questa seconda fase. E sono gli unici immobili per cui è scattata la confisca anche in secondo grado.

Revocata la condanna per riciclaggio

Per il reato di concorso esterno Rappa senior è stato condannato con sentenza definitiva, ma è pendente un ricorso davanti alla Corte di giustizia europea presentato dagli eredi. Eredi che due anni fa, e anche questa è una notizia finora inedita, hanno incassato un importante successo. Con un processo di revisione è stata annullata la condanna limitatamente alla ipotesi di avere riciclato i soldi della mafia.

Confermato il concorso esterno

La revisione è stata, invece, respinta per il concorso esterno, ma i legali della difesa ritengono di potere sfruttare davanti ai giudici europei il principio già applicato per Bruno Contrada. All’epoca della contestazione il reato di concorso esterno in associazione mafiosa neppure esisteva.

I legali hanno sempre e comunque respinto l’accusa: Rappa pagò il pizzo – per una cifra di 1,6 miliardi di lire – in un momento storico in cui era stato vittima di attentati (misero delle bombe nei suoi cantieri).

Solo che i giudici dissero che avendo pagato l’estorsione miliardaria prima ancora che gli venissero chiesti i soldi Rappa senior aveva finito per agevolare la mafia. In confisca vanno ora soltanto alcuni immobili in via Evangelista di Blasi e in via dei Cantieri di proprietà della Villa Haloise srl che contestualmente è stata dissequestrata.

Così come tutte le altre società. Sono gli unici immobili costruiti nella seconda fase della vita di Vincenzo Rappa. Nel periodo antecedente non c’è la prova che le imprese abbiano goduto dell’appoggio, della protezione e dei soldi di Cosa Nostra. Insomma, non c’è la prova che fossero imprese mafiose. Tutti gli investimenti sono giustificabili con il volume di affari lecito. Nessuna sperequazione.

Il collegio difensivo

Così tornano ai Rappa le società e decine di immobili, compreso il prestigioso Palazzo Benso che si affaccia su Porta Felice e ospita la sede del Tar. Mille e 200 metri quadrati settecenteschi che costeggiano le Mura delle Cattive. Hanno avuto ragione i legali delle difese, gli avvocati Raffaele Bonsignore, Giovanni Di Benedetto, Giuseppe Oddo, Mauro Torti, Salvino Mondello, Rosalba Di Gregorio, Simone Lonati, Alberto Stagno d’Alcontres, Fabio Pantaleo.

Indagato l'ex pm di Palermo Scaletta, oggi membro del Csm. L'accusa: "Raccomandò il cognato".  Francesco Patanè su La Repubblica il 10 novembre 2022.

La procura di Caltanissetta ipotizza l'abuso d'ufficio. L'inchiesta è nata dalla denuncia degli imprenditori Rappa, sospettati di rapporti con la mafia e poi scagionati: "Sollecitò la nomina del parente nell'amministrazione dei nostri beni". Lui commenta: "Sono sereno e a disposizione dell'autorità giudiziaria"

L'ex sostituto procuratore di Palermo Dario Scaletta, neo-eletto componente del Consiglio superiore della magistratura, è indagato per abuso d'ufficio dalla procura di Caltanissetta. "Apprendo dalla stampa, sono sereno e a disposizione dell'autorità giudiziaria di Caltanissetta", commenta Scaletta. L'indagine nasce dalla denuncia presentata in primavera dagli imprenditori Rappa (assistiti dall'avvocato Raffaele Bonsignore), costruttori coinvolti in indagini di mafia ai quali venne sequestrato (e poi restituito) un patrimonio da centinaia di milioni di euro.

Dario Scaletta Secondo l'esposto dei Rappa, Scaletta avrebbe sollecitato la nomina del cognato Alessio Melis a coadiutore dell'amministrazione giudiziaria assegnata a Walter Virga dall'ex presidente della sezione Misure di prevenzione Silvana Saguto, condannata in primo e secondo grado per corruzione perché accusata di illeciti nella gestione dei beni confiscati, e radiata dalla magistratura.

La procura nissena sta indagando sul presunto intervento del magistrato per raccomandare la nomina del cognato nella procedura di prevenzione: da qui l'accusa di abuso d'ufficio. Virga diede l'incarico a Melis per cinque mesi, da giugno a fine ottobre 2014, liquidandogli una parcella di circa 20mila euro. Scaletta, all'epoca pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, era il titolare del fascicolo sulle misure di prevenzione a carico dei Rappa.

Il magistrato ora indagato era stato coinvolto nello scandalo Saguto per un'ipotesi di rivelazione del segreto d'ufficio. L'ex pm era accusato di avere riferito notizie relative all'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a uno dei magistrati indagati. Il fascicolo venne poi archiviato dal gip di Milano, competente perché la presunta fuga di notizie sarebbe avvenuta nel capoluogo lombardo.  

Beni confiscati alla camorra, la ramanzina di Libera: “Dai Comuni serve più trasparenza, Campania maglia nera”. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Novembre 2022

Su 138 Comuni campani destinatari di beni immobili confiscati 53 ancora non pubblicano l’elenco sul loro sito internet, vuol dire che il 38,4% dei Comuni è ancora totalmente inadempiente. L’allarme lo lancia Libera Campania con la seconda edizione del rapporto “RimanDATI Campania”, un report sullo stato della trasparenza dei beni confiscati nelle amministrazioni locali. La fotografia che viene fuori da questo studio è in bianco e nero: anche i Comuni campani che pubblicano l’elenco non sempre seguono modalità pienamente rispondenti alla norma. C’è ancora un bel po’ di strada da fare, dunque.

«Nonostante i significativi passi in avanti dimostrati dal confronto tra la prima e la seconda edizione – commenta Riccardo Christian Falcone, responsabile beni confiscati Libera Campania – le risultanze di RimanDATI Campania 2022 dimostrano quanto il lavoro che abbiamo davanti sia ancora lungo e difficile. Ciò che impone a tutti, istituzioni, cittadini e società civile organizzata, di assumersi meglio e di più la propria parte di responsabilità. Il nostro orizzonte resta la piena conoscibilità e fruibilità dei dati e delle informazioni sui beni confiscati come strumento di facilitazione dei processi di riutilizzo sociale. In questa prospettiva, continueremo a lavorare». Al momento i Comuni che hanno regolarmente pubblicato l’elenco dei beni confiscati sono 85, la provincia di Salerno è la più virtuosa con 19 Comuni su 26 (in pratica il 73%), seguita dalle province di Avellino (7 Comuni su 11, il 63,6%), Napoli (31 Comuni su 49, il 63,3%), Benevento (4 Comuni su 7, il 57,1%). Chiude la classifica la provincia di Caserta, con una percentuale di pubblicazione del 53,3% e 24 Comuni virtuosi su 45.

Ma quanti sono i beni confiscati alla camorra nella nostra regione? Stando ai dati del portale OpenRe.g.i.o, in Campania si contano 2.656 immobili. Il dato si riferisce agli immobili destinati, quelli cioè già trasferiti al patrimonio indisponibile dei Comuni nei quali insistono. Ovviamente il numero maggiore è nella città di Napoli (1341 particelle confiscate e destinate), a seguire la provincia di Caserta (805) e quelle di Salerno (311), Avellino (87) e Benevento (21). A questi numeri vanno aggiunti quelli relativi ai tre Enti sovraterritoriali campani destinatari di beni confiscati, vale a dire la Regione Campania con 3 beni immobili destinati, la Città metropolitana di Napoli con 82 beni immobili destinati e la Provincia di Avellino con 3 beni immobili destinati. Totale: 88 beni immobili.

Un patrimonio immenso, dunque. Se ben utilizzato potrebbe dare un grande valore aggiunto in termini di opportunità nel sociale a favore del territorio e dei cittadini. Per trasformare questi immobili, da beni confiscati a sedi di nuove iniziative, c’è bisogno di una serie di passaggi che passano anche per le iniziative delle amministrazioni locali, per la trasparenza, la tempestività e la completezza delle informazioni. Il report di Libera ha puntato la lente anche sulla qualità dei dati pubblicati dai vari Comuni: in 45 Comuni Campania, per esempio, i dati sono pubblicati in formato aperto. Più dettagliate le informazioni relative a dati catastali, tipologia e ubicazione degli immobili in questione, meno quelle relative a consistenza, destinazione, utilizzazione e assegnazione. Oltre il 75% dei Comuni non specifica la durata della concessione del bene al soggetto gestore e in generale si è mediamente accresciuta la quantità e la qualità degli elenchi nella direzione del rispetto degli obblighi di legge relativi ai contenuti e al formato di pubblicazione. Anche in questo caso – fa sapere Libera – si tratta di un passo avanti importante anche se non ancora pienamente soddisfacente.

Così come ancora non può dirsi soddisfacente il quadro emerso dall’analisi sui tre Enti sovraterritoriali monitorati in Campania: in questo caso la maglia nera va alla Regione Campania in relazione alla mancata pubblicazione dell’elenco. Nel report presentato da Libera viene fotografata, inoltre, la capacità di risposta delle amministrazioni locali alle domande di accesso civico con le quali, successivamente ad una prima ricognizione, viene richiesto agli Enti locali di pubblicare o aggiornare gli elenchi. Ebbene, dallo studio è emerso che sulle 138 domande inoltrate ai Comuni, la risposta è arrivata solo in 50 casi. Ciò significa che il 64% dei Comuni cui è stata inviata la richiesta di pubblicazione o di aggiornamento dell’elenco non ha risposto, disattendendo in questo modo ad una precisa previsione normativa, secondo la quale gli Enti della pubblica amministrazione, interrogati dai cittadini con gli strumenti previsti dalla legge, hanno l’obbligo di rispondere entro trenta giorni.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “Il Messaggero” il 14 novembre 2022.

Si chiama Agenzia per l'amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, ma di fatto gli immobili e le società che gestisce sono soltanto quelle sottratte alla criminalità che facciano già parte del patrimonio dello Stato: confische definitive, disposte da sentenze che spesso arrivano a molti anni dal sequestro.  Così gli immobili, quando vengono trasferiti agli enti locali, sono deteriorati o vandalizzati e le società in liquidazione. 

I comuni non hanno i soldi per ristrutturarli e l'assegnazione ad associazioni o cooperative che abbiano scopi sociali o di impresa viene rinviata. Per questo 300 milioni del Pnrr, in otto regioni tutte del Sud, finanzieranno progetti presentati da comuni e associazioni per risistemare ville, palazzi o semplici appartamenti confiscati. […]

Al 31 dicembre dello scorso anno, rispetto ai 19.255 beni in gestione, sono ancora 6.486 quelli da assegnare (33%). Tra le 16 Regioni e 71 tra province e città metropolitane con cui l'Agenzia ha avviato interlocuzioni per l'affido di 2.664 beni, solo su 1.637 è stato esercitato favorevolmente il diritto di opzione. A livello nazionale, la destinazione è andata a buon fine nel 61,45%, in 355 comuni. […] 

Anche la distribuzione dei beni confiscati sul territorio rappresenta una criticità. La forte concentrazione in alcune aree, spesso di ridottissima dimensione, ha portato a un livello di saturazione rispetto alle concrete possibilità di acquisizione e di riuso, con difficoltà per gli enti locali di gestire e valorizzare ulteriori acquisizioni.

In testa c'è la Sicilia, dove i beni trasferiti sono 7.679, al secondo posto la Calabria (3.069) seguita da Campania (3.046) e dalla Puglia (1.814). Per questo il ministero per il Sud, attraverso l'Agenzia per la Coesione, ha previsto che 300 milioni di euro di fondi del Pnrr siano destinati ai progetti di ristrutturazione degli immobili confiscati. Non sono previsti invece finanziamenti per le start up e resteranno fuori regioni come la Lombardia dove i numeri stanno crescendo: sono 1.521 i beni che l'Agenzia ha trasferito agli enti locali.

(ANSA il 10 novembre 2022) - Il pm palermitano Dario Scaletta, neo-eletto componente del Consiglio Superiore della Magistratura, è indagato dalla Procura di Caltanissetta per abuso d'ufficio. L'inchiesta nasce dalla denuncia degli imprenditori Rappa, costruttori palermitani dalle alterne vicende giudiziarie accusati di essere vicini a Cosa nostra. Secondo l'accusa Scaletta avrebbe sollecitato la nomina del cognato Alessio Melis a coadiutore dell'amministrazione giudiziaria nella procedura di prevenzione aperta a carico dei Rappa.

Nel 2014 la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, poi indagata a Caltanissetta per corruzione per illeciti nella gestione dei beni confiscati e successivamente radiata dalla magistratura, sequestrò il patrimonio milionario dei Rappa nominando amministratore giudiziario l'avvocato Walter Virga.

Virga, figlio di un magistrato ex componente del Csm, nominò come suo coadiutore Alessio Melis, cognato di Scaletta. L'incarico durò da giugno a fine ottobre 2014. Scaletta, all'epoca pm della Dda di Palermo, era il titolare del fascicolo di misure di prevenzione a carico proprio dei Rappa. Il 24 dicembre il pm chiese la misura di prevenzione nei confronti degli imprenditori e un secondo sequestro dei beni. L'istanza fu accolta e a febbraio 2015 il tribunale dispose il sequestro, nominando ancora una volta amministratore Walter Virga.

Il pm di Palermo Dario Scaletta indagato dalla procura di Caltanissetta per abuso d’ufficio. Quanti altri dovrebbero avere la stessa sorte…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Novembre 2022.

La vicenda riapre il caso della legittimità di un indagato a far parte dell’organo costituzionale che, come scrive la Carta, si fa carico anche dei processi disciplinari sulle toghe italiane. Normale chiedersi come possa un indagato giudicare e promuovere o bocciare i colleghi? Ma il pm Scaletta in realtà al momento non è il solo magistrato indagato a sedere nel Csm, infatti anche il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone esponente di Area la corrente di sinistra della magistratura, eletto nel nuovo Csm è indagato a Potenza

Il pm palermitano Dario Scaletta, neo-eletto componente del Csm è indagato dalla Procura di Caltanissetta per abuso d’ufficio. L’inchiesta a suo carico nasce dalla denuncia degli imprenditori Rappa, costruttori palermitani dalle alterne vicende giudiziarie accusati di essere vicini a Cosa nostra. Secondo l’accusa Scaletta avrebbe sollecitato la nomina del cognato Alessio Melis a coadiutore dell’amministrazione giudiziaria nella procedura di prevenzione aperta a carico dei Rappa.

Nel 2014 la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, allora presieduta da Silvana Saguto, poi indagata a Caltanissetta per corruzione per illeciti nella gestione dei beni confiscati e successivamente radiata dalla magistratura, sequestrò il patrimonio milionario dei Rappa nominando amministratore giudiziario l’avvocato Walter Virga.

Virga, figlio di un magistrato ex componente del Csm, nominò come suo coadiutore Alessio Melis, che è il cognato di Scaletta. L’incarico durò da giugno a fine ottobre 2014. Scaletta, all’epoca era un sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, e titolare del fascicolo di misure di prevenzione a carico proprio dei Rappa. Il 24 dicembre il pm Scaletta chiese la misura di prevenzione nei confronti degli imprenditori e un secondo sequestro dei beni. L’istanza fu accolta e a febbraio 2015 il tribunale dispose il sequestro, nominando ancora una volta amministratore Walter Virga.

Il pm Scaletta era stato coinvolto nello scandalo Saguto per un’ipotesi di rivelazione del segreto d’ufficio, accusato di avere riferito notizie relative all’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a uno dei magistrati indagati. Il fascicolo venne poi archiviato dal gip di Milano, competente perché la presunta fuga di notizie sarebbe avvenuta nel capoluogo lombardo. 

Scaletta recentemente eletto componente del Consiglio superiore della magistratura, ha commentato: “Apprendo dalla stampa, sono sereno e a disposizione dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta“. Il magistrato è stato indagato in passato sempre per abuso d’ufficio, in relazione a un’altra vicenda che riguarda il cognato e che è emersa da una indagine sul commercialista Giovanni Giammarva il quale venne intercettato mentre parlava con una terza persona di Scaletta e sosteneva che questi avrebbe liquidato circa 70mila euro in più in una procedura di prevenzione e che aveva fatto avere incarichi al cognato tramite altri commercialisti. Il procedimento penale a carico di per questi fatti è stato archiviato per estinzione del reato per prescrizione.

La vicenda riapre il caso della legittimità di un indagato a far parte dell’organo costituzionale che, come scrive la Carta, si fa carico anche dei processi disciplinari sulle toghe italiane. Normale chiedersi come possa un indagato giudicare e promuovere o bocciare i colleghi? Ma il pm Scaletta in realtà al momento non è il solo magistrato indagato a sedere nel Csm, infatti anche il procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone esponente di Area la corrente di sinistra della magistratura, eletto con i resti (come miglior primo dei non eletti) a Palazzo dei Marescialli alle recenti elezioni per il Csm, risulta attualmente indagato a Potenza a seguito di una denuncia presentata nei suoi confronti dal nostro direttore Antonello de Gennaro. La denuncia inizialmente era stata archiviata ma adesso a seguito di opposizione alla richiesta di archiviazione è al vaglio del Gip dr.ssa Marianna Zampoli di Potenza. Udienza fissata il prossimo 22 novembre.

Il procuratore aggiunto Carbone ha più volte cercato di mandare a processo per diffamazione a mezzo stampa il nostro Direttore Antonello de Gennaro, chiedendo persino il sequestro delle pagine social del nostro giornale (senza mai ottenerlo !) sostenendo in maniera incompetente la competenza territoriale della Procura di Taranto sul nostro lavoro giornalistico , venendo smentito dal Gip dr. Benedetto Ruberto del Tribunale di Taranto il quale smantellò il “teorema” di Carbone, pm d’udienza, e sentenziò che “la competenza territoriale va, invece, correttamente individuata presso il Gup del Tribunale di Roma“!

Successivamente, quattro anni dopo Carbone non contento, ha calpestato la decisione del Tribunale di Taranto peraltro passata in giudicato, ed ha insistito sulla sua competenza territoriale, ma anche in questo caso il suo “teorema” giuridico è stato smentito dalla GIP dr.ssa Teresa Reggio del Tribunale di Potenza, che ha dichiarato “la propria incompetenza per territorio” in quanto radicata dinnanzi al Tribunale di Roma disponendo la “trasmissione degli atti presso il PM del Tribunale di Roma” . Chissà se adesso il dr. Carbone prenderà pace e si leggerà finalmente le sentenze della Cassazione e rispetterà le decisioni dei Tribunali in materia di Legge sulla Stampa ? Redazione CdG 1947

Il pm della Dda di Palermo nel mirino. Campagna di Repubblica, Corriere e Fatto contro Dario Scaletta: i giornali vogliono Woodcock al Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Novembre 2022

In questi giorni sta andando in scena una riedizione, con la classica campagna mediatica a contorno, della nota vicenda dell’hotel Champagne che all’epoca aveva costretto alle dimissioni ben cinque consiglieri del Csm, determinando così un ribaltone degli equilibri a Palazzo dei Marescialli. A finire nel mirino dei ‘giornaloni’, con l’aggiunta del Fatto Quotidiano, è stato questa volta il pm della Dda di Palermo Dario Scaletta, eletto lo scorso settembre con 729 voti al Csm in quota Magistratura indipendente, il gruppo di ‘destra’ delle toghe.

Ma cosa avrebbe fatto di così grave Scaletta, fino all’altro giorno sconosciuto alle cronache, per meritare l’attenzione del Corriere e di Repubblica, i quotidiani più importanti del Paese che nel maggio del 2019 fecero esplodere il Palamaragate, pubblicando atti riservati della Procura di Perugia? Bene, il pm siciliano sarebbe indagato per abuso d’ufficio, un reato che non si nega a nessuno, a Caltanissetta. L’accusa, in particolare, è quella di aver ‘segnalato’ nel 2014 la nomina del cognato per un incarico giudiziario all’allora presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, poi radiata dalla magistratura proprio per il modo in cui gestiva tali procedure. L’indagine, incredibilmente ancora pendente a distanza di otto anni, è stata riesumata adesso per ‘spingere’ Scaletta alle dimissioni prima dell’insediamento al Csm, previsto per il mese prossimo, a causa della scure disciplinare che è pronta ad abbattersi sulla sua testa.

I quotidiani, sempre ben informati, hanno infatti scritto di una imminente “trasmissione degli atti” da parte della Procura di Caltanissetta, diretta da Salvatore De Luca, notoriamente vicino all’ex procuratore di Roma e ora presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone, alla Procura generale della Cassazione diretta da Luigi Salvato, presente nelle chat di Luca Palamara per le nomine, vicino alla sinistra giudiziaria come il suo predecessore Giovanni Salvi di cui è stato il braccio destro. Finendo sotto procedimento, la permanenza di Scaletta al Csm sarebbe quindi quanto mai “inopportuna”, anche se in passato ci sono stati magistrati, come Roberto Rossi, attuale procuratore di Bari, che da consiglieri del Csm affrontarono un disciplinare senza essere costretti alle dimissioni.

Il sospetto, allora, è che si voglia sovvertire il risultato delle urne, che ha visto il successo delle toghe di destra, con una indagine penale ‘a scoppio ritardato’. In caso di dimissioni di Scaletta, il suo posto verrebbe preso da Henry John Woodcock, pm napoletano da sempre ben visto dalle parti del Fatto Quotidiano e con discrete entrature a Largo Fochetti e in Via Solferino. Contro tale potenza di fuoco mediatica, il destino di Scaletta sembra essere segnato, tranne che la sua corrente, almeno questa volta, non prenda una decisa posizione chiedendo che venga fatta chiarezza su tutte le nomine dei parenti di magistrati fatte nella vicenda Saguto, in quella di Antonello Montante e di Piero Amara. Per evitare, come accaduto con Palamara, che paghi uno per tutti. Paolo Comi

Beni confiscati: in Puglia metà dei Comuni non pubblica dati. La ricerca analizza le modalità di pubblicazione degli elenchi anche su scala regionale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 settembre 2022.

Su 97 comuni pugliesi destinatari di beni confiscati sono 50 quelli che non hanno pubblicato l’elenco e le informazioni su destinazione, uso, tipologia dei beni confiscati sul loro sito internet. A rilevarlo è Libera con il secondo rapporto «RimanDati» sullo stato della trasparenza dei beni confiscati nelle amministrazioni locali, promosso in collaborazione con il gruppo Abele e il dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. «Ciò significa - spiega Libera - che più della metà dei comuni sono inadempienti pari al 51,5%, anche se si registra un lieve aumento degli Enti che pubblicano l’elenco (dal 43% del 2021 al 48,5% del 2022). Il monitoraggio ha avuto inizio nel mese di aprile 2022 e si è chiuso a luglio 2022. La ricerca analizza le modalità di pubblicazione degli elenchi anche su scala regionale. Sui 392 comuni che hanno pubblicato l’elenco è stato costruito un ranking nazionale: su una scala da 0 a 100 la media è pari a 55,5 punti. La Puglia è tra le regioni che supera la media nazionale con un punteggio pari a 57,9.

«Misure di prevenzione: quasi una rappresaglia contro chi è assolto». Intervista a Valerio Spigarelli: «Il mondo politico quasi rivendica questo strumento. Ma non si interroga su quanto sia ingiusto». Valentina Stella su Il Dubbio il 18 settembre 2022.

Da sempre critico sulle misure di prevenzione è l’avvocato Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere Penali.

Via Arenula ha detto: tranquilli che se scatta l’improcedibilità per le confische alla mafia, ci stanno sempre le misure di prevenzione.

Non ha torto il ministero ma semmai, con lapsus freudiano, evidenzia un problema: nel nostro Paese l’accertamento di responsabilità penali, ai fini delle misure di prevenzione, non è per nulla necessario. È possibile che un cittadino venga assolto in uno o più processi ma comunque gli vengono applicate le misure di prevenzione. Esse sono fondate su presupposti, quali la pericolosità sociale del soggetto, diversi dalla responsabilità penale dello stesso. Non è infrequente che nella prassi giudiziaria una persona venga sottoposta ad un processo penale sulla scorta di determinati elementi che vengono ritenuti non solo non idonei per una condanna ma addirittura smentiti. Quegli stessi elementi vengono però utilizzati nel giudizio di prevenzione per applicarne le misure. Ora per fortuna la Cassazione comincia a dire che non si può fare, ma per anni siamo andati avanti così.

Ma quindi al di là dell’improcedibilità bisognava agire sulle misure di prevenzione?

Certo. Esse sono diventate un succedaneo del processo penale, fondato su regole probatorie molto meno stringenti. Questo provoca quello che è sotto gli occhi di tutti: io pm provo a farti condannare nel processo penale; se non ci riesco, come un riflesso pavloviano, ti applico le misure di prevenzione.

Pertanto il Ministero sottolinea l’ovvio.

Sì. La politica quasi rivendica questo strumento delle misure di prevenzione. Ma non si interroga su quanto ingiusto sia questo strumento. La prevenzione infatti manca di tassatività, è fondata sull’inversione dell’onere della prova, sulla negazione dichiarata dell’imparzialità del giudice e sulla commistione tra un’attività di tipo giurisdizionale ed un’attività di tipo esecutivo. Nel procedimento di prevenzione è soprattutto la presunzione di innocenza a non contare, anzi conta esattamente il contrario: ribadisco, puoi essere sottoposto a misure di prevenzione anche sulla scorta delle prove sulla base delle quali sei stato assolto nel processo penale.

Cosa intende per imparzialità del giudice?

Le misure vengono chieste ad un giudice che magari sequestra tutto quanto. Lo stesso giudice sarà anche chiamato a decidere se confermarle o meno nel corso del processo di prevenzione.

Questo elemento di discussione si inserisce nella più ampia riforma del processo penale. Non le sembra che una riforma definita ‘ epocale’ sia stata approvata in un eccessivo silenzio?

Non c’è stato alcun dibattito una volta avuto il prodotto finale della legge delega. Benché le commissioni parlamentari avessero due mesi di tempo per studiarla ed esprimere il parere, di fatto non c’è stata alcuna discussione. E poi non è affatto una riforma epocale.

Perché?

Ci sono elementi contestabilissimi passati sostanzialmente sotto silenzio. Alcune soluzioni sono addirittura illogiche: se lei vuole fare appello nei confronti di una sentenza, deve fare elezione di domicilio anche se è già agli atti. È un criterio ispirato alla complicazione e alla deterrenza alle impugnazioni. L’esempio più eclatante è che questo viene richiesto pure per il ricorso in Cassazione quando all’imputato in quella fase non spetta alcuna notifica personale. Se davvero fosse una riforma epocale avrebbe guardato al codice in maniera più complessiva. Dal mio punto di vista era molto meglio il lavoro della Commissione Lattanzi e non quello poi editato dalla politica nel suo complesso.

Lei parlava di deterrenza: se rinunci al processo ti premio?

Tutti quelli che vogliono da tempo una certa riforma del processo penale sostengono che il processo accusatorio regge pochi dibattimenti. Ma questo obiettivo va perseguito non con strumenti di deterrenza nei confronti del dibattimento. Si dovrebbe fare in modo da condurre le indagini talmente bene da spingere l’imputato a patteggiare perché schiacciato dall’esito non favorevole. Nella riforma Cartabia invece si fa un ragionamento contrario: ponti d’oro da chi scappa dal processo e deterrenza rispetto alle impugnazioni. Ma c’è qualcosa di ancora più clamoroso: le limitazioni poste in essere durante l’emergenza pandemica, come ad esempio puntare molto al processo scritto o sentire l’imputato per videoconferenza, adesso, come avviene spesso nel nostro Paese, sono diventate l’ordinario.

La giustizia riparativa ha diviso gli esperti.

È una idea che va salvata perché è importante. Il problema è come la si mette in pratica. In alcuni casi si scontra con alcuni principi fondamentali del sistema accusatorio: non è condivisibile che sia un pm, prima ancora di stabilire se la notizia di reato è sussistente o meno, ad avviare ad un percorso di mediazione, o che sia un giudice a farlo motu proprio, senza la richiesta delle parti e prima ancora di una sentenza.

Ma questa riforma riduce gli spazi difensivi?

Diciamo che la fuga dal processo accusatorio compie un ulteriore passo inesorabile.

Nel dibattito tenuto sull’Asterisco recentemente, mi pare di aver capito che lei addebita anche all’avvocatura questo risultato.

Il presidente dell’Ucpi ha messo sul tavolo un dato vero: solo una minoranza di avvocati durante la pandemia ha chiesto la discussione orale in appello o Cassazione. Quel dato avrebbe dovuto spingere l’avvocatura a cambiare modo di fare: è un cedimento, ci si arrende alla consuetudine. Questa non è una responsabilità delle associazioni dell’avvocatura – a cui casomai si potrebbe rimproverare di non aver combattuto questo trend – ma è un comportamento dell’avvocatura, in cui mi metto anche io. Dovremmo riflettere su come questo porterà ad una sorta di mutazione genetica dell’avvocato. Che avvocato immaginiamo per il futuro? Quello che punta al minor danno o quello che in ogni caso difende quando c’è da difendere?

Ha fiducia che nella prossima legislatura con la vittoria del centrodestra si approvi la separazione delle carriere?

Se la politica fosse questione di pura aritmetica le direi di sì. Ma sono purtroppo allenato a disillusioni su questo campo. Come disse Enrico Cuccia «le azioni non si contano ma si pesano» : siamo su un terreno in cui non possiamo dare per scontata la volontà politica. Aspettiamo a vedere. Quello che può farci aprire il cuore alla speranza è che queste battaglie non sono più appannaggio del solo centrodestra ma anche di altri, come Azione e Italia Viva. Però la separazione delle carriere, per la quale mi spendo da decenni, non è la soluzione di tutti i mali se accanto ad essa abbiamo un sistema penale che ha una idea regressiva della pena così come professata da gran parte del centrodestra.

Finisce il processo, resta il sequestro: la beffa della riforma penale. Dopo l’allarme di “Libera” e 5S, il ministero della giustizia rassicura sugli effetti del decreto: «L’improcedibilità non fermerà le confische». Pagherà solo l’imputato...Valentina Stella su Il Dubbio il 16 settembre 2022.

Strada ormai in discesa per la ministra Cartabia che potrà così chiudere il suo lavoro approvando in via definitiva anche i decreti attuativi delle riforme del processo civile e penale. Oggi infatti la Commissione Giustizia della Camera ha votato il parere positivo sul testo del civile. M5S e FdI si sono astenuti, contraria Alternativa. Il parere contiene delle condizioni che ricalcano quelle approvate martedì dalla Commissione Giustizia del Senato.

Per quanto concerne il penale la Commissione ha espresso un parere positivo “secco”, cioè senza osservazioni o condizioni, proposto dal relatore Franco Vazio (Pd). Il testo è stato votato dall’ex maggioranza, tranne M5S che ha votato “no”, dopo aver proposto un parere alternativo in cui venivano chieste delle modifiche al testo del governo. FdI si è astenuta. Enrico Costa (Azione) ha parlato di un «parere semi-giustizialista» respingendolo, così come il capogruppo del Pd Alfredo Bazoli: «Questa riforma – ha detto all’Ansa – è la cosa migliore approvata in questa legislatura: migliora in efficienza, efficacia, in tema di garanzie per gli imputati e per le parti tutto il processo penale». Anche al Senato la Commissione Giustizia aveva espresso un parere positivo “secco”. Soddisfatto, al termine del voto, il relatore Vazio: «È un passo importante in direzione di un giusto processo e anche in direzione di accelerare i tempi del processo pur tenendo alte le garanzie. Ogni riforma, anche la migliore, va verificata sul campo e anche questa non si sottrae a questo principio. Certo è che il lavoro svolto sui decreti legislativi dal ministro Cartabia e dagli uffici del ministero è stato eccellente».

Il Movimento 5 Stelle nel parere alternativo aveva inserito dieci specifiche osservazioni e richieste tra cui: non esercitare la delega «in riferimento all’estensione dell’applicabilità degli istituti relativi alla “messa alla prova” e all’ impunibilità per particolare tenuità del fatto”» e «in riferimento all’ulteriore sconto di pena di 1/6 in caso di non esercizio dell’appello da parte dell’imputato». I pentastellati avevano chiesto pure di implementare «la disciplina relativa alla confisca in caso di intervenuta improcedibilità, in modo da poter portare avanti il procedimento in appello (anche) ai soli fini della confisca». Su questo punto, mercoledì sera il ministero della Giustizia aveva fatto trapelare una sorta di rassicurazione, anche per replicare alle preoccupazioni di Libera: «Non esiste alcun rischio per le confische dei patrimoni illeciti alla criminalità organizzata: anche in caso di improcedibilità del processo, il procedimento continua per l’applicazione delle misure di prevenzione, a cominciare dalla confisca». Il solito incomprensibile doppio binario: di certo non una bella prospettiva per gli imputati che così rimarranno, in modo anche paradossale, intrappolati e stritolati a vita dalle maglie della giustizia, vedendosi spesso rovinate professioni e esistenze. Che succede, ad esempio, se si viene assolti in primo grado e poi scatta l’improcedibilità in appello? Quell’assoluzione non vale niente nel procedimento delle misure di prevenzione, dove non esistono il contraddittorio e le garanzie per la difesa previsti invece nel processo penale vero e proprio?

Molto critico è l’imprenditore siciliano Pietro Cavallotti, vittima di questo assurdo sistema: «Le misure di prevenzione a questo servono, no? – ci dice – A distruggere le persone che il pubblico ministero non riesce a far condannare in un normale processo penale. Stiamo andando verso un nuovo orizzonte: meno diritto penale, più misure di prevenzione. E cioè: stessi effetti della sanzione penale, senza però le garanzie del processo penale. Questa però non è una conquista, è una regressione». Cavallotti è sfiduciato e irritato: «Abbiamo migliaia di cittadini che sono stati espropriati di tutti i loro beni, potenzialmente senza mai essere stati condannati o rinviati a giudizio o magari sono stati processati e poi assolti. Tutto questo non è normale. Sono furti di Stato e queste cose vanno dette. Altro che confisca da profitto. Qua si tratta di confisca senza reato. E quando non c’è reato si presume che i beni siano il frutto del lavoro, non del reato che non esiste».

Tornando ai decreti, il penultimo step è un passaggio formale in Cdm, che potrebbe avvenire già prima di ottobre, ci dicono fonti di Via Arenula. Quindi anche prima di quanto auspicato dalla Guardasigilli al Forum Ambrosetti. Passaggio finale sarà la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

L'inquisizione antimafia. Mafia, la contraddizione di un’emergenza lunga trent’anni. Alessandro Morelli su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

Lo “stato di emergenza” iniziato con la “dichiarazione di guerra” dell’Italia alla Mafia, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, quest’anno compie trent’anni, ricorda Sergio D’Elia nella sua intensa prefazione al volume curato da Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo, dal titolo Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia, edito da Reality Book e il Riformista (2022). Un’emergenza che dura da trent’anni è una contraddizione in termini. In una sentenza del 1982, riguardante la carcerazione preventiva, i cui tempi erano stati dilatati in ragione di un’altra situazione straordinaria (quella determinata dal brigatismo), la Corte costituzionale dichiarò che “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea.

Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”. Il giudizio a conclusione del quale fu emessa tale pronuncia (che fece salva la disciplina allora vigente) era stato originato, tra gli altri, dal caso di Giuliano Naria, sottoposto a carcerazione preventiva per più di nove anni e poi assolto con formula piena. La temporaneità è, peraltro, una condizione necessaria ma non sufficiente a rendere compatibile uno stato di emergenza con i principi della nostra Costituzione e del diritto internazionale. L’emergenza, infatti, non è la dimensione dell’irrazionalità e dell’arbitrio: essa altera il contesto entro il quale sono condotti i bilanciamenti tra i valori in campo ma non legittima l’adozione di misure palesemente sproporzionate e irragionevoli. Che sia così lo si evince, per esempio, dalla disposizione riguardante la più drammatica condizione di emergenza espressamente prevista dai Costituenti: la guerra. L’articolo 78 della Costituzione stabilisce che quando le Camere deliberano lo stato di guerra, esse conferiscono al Governo i “poteri necessari”, non i “pieni poteri”. E la necessarietà esprime un criterio di proporzionalità che deve essere tenuto presente anche quando è in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato.

Il diritto emergenziale antimafia, che trova alcune delle sue articolazioni più importanti nelle norme sulle misure di prevenzione, sulle informazioni interdittive e sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni, finisce con l’identificare nella prevenzione l’azione più efficace (e, quindi, sufficiente) della lotta alla criminalità organizzata. La prevenzione, tuttavia, non consente un accertamento adeguato dei fatti, si accontenta di un’osservazione sommaria, alimentando così una sempre più diffusa cultura del sospetto, espressione di un dilagante populismo penale e giudiziario. Si tratta di un diritto emergenziale che, come si evince dalle riflessioni sviluppate e dalle tante storie di tragici errori raccontate nel libro, appare ispirato da un principio di presunzione di colpevolezza che non si pone soltanto in contrasto con l’opposta indicazione contenuta nell’articolo 27 della Carta costituzionale e con i dettami del “giusto processo”.

In discussione è innanzitutto il principio di solidarietà, che nel disegno dei Costituenti funzionalizza l’adempimento dei doveri inderogabili di cui parla l’articolo 2 e pone le basi etiche e giuridiche della coesione sociale e politica: quale spazio residua a tale istanza in una società dominata dalla cultura del sospetto? E in crisi sono anche il principio democratico e gli altri che con esso fanno sistema (come quelli di autonomia e di sussidiarietà): “dove la mafia notoriamente esiste – scrive D’Elia – e, perciò, per una sorta di incompatibilità ambientale, vengono annullati per decreto il confronto politico, le procedure democratiche, la partecipazione popolare, le elezioni. […] Il messaggio è devastante: le istituzioni più vicine ai cittadini – consigli comunali, giunte e Sindaci – sono forme anacronistiche della vita politica. La democrazia stessa è considerata un sistema superato”.

Non si discute la necessità di una legislazione e di azioni repressive adeguate a fronteggiare efficacemente il fenomeno mafioso. Si ritiene però che la lotta alla Mafia possa e debba svolgersi entro il perimetro della legalità costituzionale e nel rispetto dei diritti fondamentali. Che sono innanzitutto quelli dei più deboli. Se la guerra contro la Mafia è innanzitutto difesa dei deboli contro poteri criminali forti, sua premessa indefettibile è il riconoscimento dei soggetti deboli. Come ha scritto Luigi Ferrajoli, nella dimensione del diritto penale il debole, nel momento del reato, è la vittima; nel processo è l’imputato; nella fase dell’esecuzione penale è il condannato. Marcare con decisione la differenza tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati dallo Stato e quelli della Mafia è il primo passo per vincere la guerra. Alessandro Morelli

La missione del Comitato sulle misure di prevenzione. Basta gridare alla mafia dove la mafia non c’è. Miriam Romeo su Il Riformista il 18 Giugno 2021. 

La parola è l’arma più potente del mondo. Essa può ferire e distruggere vite umane senza lasciare alcun segno visibile sul corpo ed è, al contempo, in grado di guarire l’animo umano offrendosi come dono gentile all’ascoltatore bisognoso di conforto. È potente anche perché ha il potere di plasmare ciò che ci circonda. Wittgenstein sosteneva, infatti, che i limiti del proprio linguaggio sono i limiti del proprio mondo, nel senso che la nostra stessa capacità di intendere il mondo è dettata dalle parole che utilizziamo per descriverlo.

Ho passato anni a domandarmi perché la mia terra natia, la Sicilia, fosse considerata solamente come la culla della mafia, terra di Caino. Crescendo, mi sono resa conto che vi è una narrazione tipica – utilizzata specialmente nei momenti in cui si tratta di raccontare le vicende giudiziarie legate agli imprenditori del posto – che, per farla breve, è un po’ così: in Sicilia, se hai un’impresa florida, se hai superato l’asticella del reddito sufficiente ad alimentare sospetti, vuol dire che sei un mafioso o che hai fatto affari con la mafia. Tertium non datur.

Io ingenua non lo sono mai stata e non ho mai pensato di negare l’esistenza di questo terribile cancro, tuttavia, sono sempre stata intimamente convinta che questa non fosse l’unica narrazione possibile e che il linguaggio utilizzato negli ultimi vent’anni sia stato causa di una gravissima mistificazione della realtà. La mia intima opinione è divenuta concreta certezza nel momento in cui mi sono ritrovata a studiare le misure di prevenzione e le assurdità di un sistema in cui il sospetto fa da padrone e il cui procedimento rinnega le garanzie fondamentali. In questo settore, infatti, il linguaggio utilizzato dagli “esperti” per descrivere le operazioni in atto è stato il peggiore possibile: “beni sequestrati alla mafia”, “maxi-sequestro ai mafiosi” … e chi più ne ha più ne metta. Nessuno che si premurava di spiegare che si trattasse soltanto di clickbaiting, che nei procedimenti di prevenzione non si svolge l’accertamento di alcun reato e che, se si vuole essere certi di aver sequestrato dei beni alla mafia, quella vera, bisogna agire tramite un processo penale.

Le storie sulle misure di prevenzione vedono spesso come protagonisti soggetti assolti in un processo penale o mai rinviati a giudizio ma considerati, allo stesso tempo, “socialmente pericolosi”, con buona pace del principio di presunzione di innocenza. Eppure, queste storie sono passate troppo spesso in sordina, inabissate da un linguaggio che ha trasformato le vittime in carnefici, macchiate per sempre da parole infamanti come “mafioso” trasformatesi in lettere scarlatte, pronte a sottolineare in ogni tempo un’indefinita nube di sospetto, anche quando sentenze e decreti urlano a gran voce l’estraneità da ogni forma di criminalità. Io con le misure di prevenzione non c’entravo nulla o, quantomeno, non le ho mai conosciute personalmente. La mia storia non si aggiunge a quella delle vittime di certa antimafia ma è quella di una studentessa di Giurisprudenza che ha deciso di stare dalla loro parte.

Per questo mi sono iscritta a Nessuno tocchi Caino, per aiutare i numerosi imprenditori innocenti a uscire dal cono d’ombra nel quale per molto tempo si sono rifugiati. È giunto il momento di cambiare la narrazione, di squarciare il velo di Maya e far conoscere la vera realtà ma per farlo bisogna essere in molti, unirsi in “social catena”. È per questo che è stato ufficialmente istituito il Comitato di Nessuno tocchi Caino sulle Misure di Prevenzione, di cui ho l’onore (e l’onere) di essere la Segretaria, insieme a Massimo Niceta in qualità di Presidente e Pietro Cavallotti nel ruolo di Portavoce. La costituzione è avvenuta, simbolicamente, all’Abbazia di Santa Anastasia di Castelbuono, un bene prezioso creato e custodito con amore dall’ingegnere Francesco Lena e dalla moglie Paola, all’improvviso sequestrato e, dopo un lungo calvario giudiziario, restituito ai suoi legittimi proprietari con un mare di debiti.

La parola come dono, come conforto, è lo strumento che Pietro e Massimo utilizzano da tanti anni per supportare altri imprenditori come loro, ricordandogli, come nel dialogo di Plotino e di Porfirio, l’importanza del confortarsi e incoraggiarsi per “compiere nel miglior modo questa fatica della vita”. La nostra forza è la nonviolenza che non è mai protesta ma proposta, dialogo con il potere. Per affrontare questo dialogo bisogna, però, conoscere. È necessario informare per riformare, perché nessun cambiamento sarà mai possibile se prima non avremo sensibilizzato l’opinione pubblica su quest’amara realtà. Fra i nostri strumenti: la realizzazione di un docu-film sulle misure di prevenzione e di un libro dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, e la predisposizione di ricorsi alle alte giurisdizioni in collaborazione con l’Università di Ferrara. Ci impegneremo in tutto questo. Lo faremo avendo cura delle parole da usare, scegliendole sempre con cautela ma con la giusta dose di ribelle coraggio. Miriam Romeo

Azienda dissequestrata ma la famiglia resta in ostaggio. Pietro Cavallotti su Il Riformista il 27 Maggio 2022. 

Due anni e mezzo di carcere preventivo, altri due di sorveglianza speciale, tre assoluzioni, un dissequestro confermato anche in secondo grado, 24 anni di calvario giudiziario. Ho perso il conto delle udienze, dei rinvii, degli articoli di giornale che ci sono stati inferti come coltellate. Sono questi i numeri della storia della mia famiglia, una storia lontana dal vedere la sua fine.

Nei giorni scorsi la Corte di Appello di Palermo ha dissequestrato la nostra azienda, bocciando gli appelli del Pubblico Ministero e del Procuratore Generale. Per meglio dire, è stato confermato il dissequestro del nulla perché quell’azienda, frutto del nostro lavoro e dei nostri sacrifici, durante l’amministrazione giudiziaria era stata messa in liquidazione per poi essere dichiarata fallita subito dopo la restituzione. Siamo passati dalla sezione misure di prevenzione alla sezione fallimentare, dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare. Così, potremo sperimentare l’“efficienza” di altri settori della giustizia italiana. Ricordo il giorno del sequestro, emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presidente Silvana Saguto.

Era stato pubblicizzato dai giornali asserviti a quella sezione come l’esempio più fulgido di come si colpiscono le infiltrazioni della mafia nel tessuto economico. Tradotto: era l’esempio più ignobile di come giudici irresponsabili, grazie a una legge che conferisce loro il libero arbitrio, possono colpire persone colpevoli di nulla. Una legge fascista che, piuttosto che essere cancellata dal nostro ordinamento, è diventata uno dei totem dell’antimafia belligerante, con buona pace del compianto giudice Falcone che nel 1991 ammoniva su quanto fosse «gravemente distonica, rispetto ai principi dello “Stato dei diritti”, oltre che inefficace, la pretesa di ricorrere massicciamente alle misure di prevenzione contro il crimine organizzato, trascurando il rigoroso accertamento delle responsabilità attraverso il processo penale». È successo, invece, che, tradendo Falcone, si è andati alla caccia dei patrimoni dimenticandosi di individuare i reati. Risultato? Un esproprio di dimensioni gigantesche che ha distrutto intere economie e la vita di tantissimi imprenditori incensurati, mai rinviati a giudizio o assolti definitivamente.

Poi ricordo il giorno del dissequestro e del silenzio tombale di quella stampa che dieci anni prima aveva distrutto la mia famiglia, elogiando i “paladini” che sarebbero stati condannati dal Tribunale di Caltanissetta per fatti gravissimi. Ci fu riconsegnata una società con debiti per milioni di euro nei confronti delle banche, dei dipendenti, dei fornitori e dell’erario. Abbiamo chiesto a diversi istituti di credito l’apertura di un conto per potere vendere ciò che era rimasto della nostra azienda e pagare i debiti dell’amministratore giudiziario. Nessuno ci ha voluto aprire un conto. È davvero assurdo: prima lo Stato ti sequestra la società senza un motivo, te la mette in liquidazione riempendola di debiti e dopo non ti consente di provare a pagare quei debiti.

Ma tutto questo non è bastato. Contro il Tribunale prima e la Corte di Appello poi, un magistrato ha deciso di fare ricorso in Cassazione: la nostra azienda deve essere confiscata. È convinto che i nostri padri, assolti con sentenza definitiva, siano mafiosi e che noi figli siamo colpevoli di avere imparato il loro mestiere. Si è avuto il coraggio di contestare persino l’inedito reato di “trasferimento fraudolento di esperienza lavorativa”! Solo in Italia può succedere che un magistrato possa tenere in ostaggio un’intera famiglia. A un magistrato fare ricorso non costa nulla, mentre per noi significa altri anni di vita persi tra avvocati, giudici e tribunali. Si ricorre a oltranza, forti di una totale irresponsabilità civile e professionale. Come si fa a non capire che la responsabilità civile servirebbe a salvaguardare i cittadini innocenti dall’arbitrio di magistrati che operano male e non a impedire a quelli che lavorano bene di colpire chi commette reati? Com’è possibile che lo Stato sia totalmente indifferente nei confronti delle sue vittime?

Forse lo Stato non interviene perché non vuole riconoscere i propri errori e, ancor più, il fallimento di un sistema di cui l’Italia si è fatta vanto nei più alti consessi internazionali. Eppure, è così semplice capire che chi sbaglia deve pagare e che le vittime degli errori giudiziari devono essere risarcite. Per farlo, basterebbe approvare le proposte di legge ferme al Senato e alla Camera dei Deputati a firma di Gabriella Giammanco e Matilde Siracusano. Da molto tempo mi chiedo quale sia il senso della difesa in un processo di prevenzione. Noi abbiamo lottato con la consapevolezza di essere nel giusto. E con questa consapevolezza e con una speranza invincibile continueremo a difenderci dalla persecuzione giudiziaria ed extragiudiziaria, perché in fondo… la gente come noi non molla mai. Pietro Cavallotti

Nel Pnrr 300 mln per valorizzare 200 progetti in 8 regioni del Sud. Beni confiscati alle mafie, la protesta del Terzo settore: “Tanti fondi stanziati ma rischiano di essere occasioni perse”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Nella Missione 5 del Pnrr si fa riferimento alla valorizzazione dei beni confiscati alle mafie per una cifra pari a 300 milioni di euro. Uno stanziamento che punta alla realizzazione di 200 progetti nelle otto Regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia). Di questi, 250 milioni sono riservati a progetti selezionati attraverso l’Avviso dell’Agenzia per la coesione territoriale volto alla valorizzazione economica e sociale dei beni confiscati alle mafie e che rientra tra gli interventi descritti nel Pnrr. Quell’avviso, nei mesi scorsi, ha movimentato il terzo settore, che ha fatto le barricate per chiederne la modifica, che non è arrivata.

Il tema dei beni confiscati alla criminalità organizzata è tornato ad essere di stretta attualità – almeno in Campania – nell’ultima settimana con il primo Forum Espositivo dei Beni Confiscati in Campania che si è svolto l’1 e 2 aprile alla Stazione Marittima di Napoli. Uno dei temi emersi nel corso di quella due giorni è stata l’apertura alla vendita dei beni immobili confiscati alle mafie. Una posizione, espressa sia dal governatore della Campania Vincenzo De Luca, che dall’assessore alla Legalità, Mario Morcone, che è contraria a quanto previsto dalla legge 109/1996, che indica nel riutilizzo sociale dei beni confiscati l’obiettivo principale di restituzione alla collettività. L’apertura alla vendita inoltre implica l’impossibilità di accertarsi che i beni non finiscano nuovamente in mani criminali attraverso dei prestanomi.

Ciò di cui non si tiene conto, poi, ragionando su questa possibilità, è l’enorme esperienza di buone pratiche di riutilizzo sociale, che proprio in Campania vede alcuni tra i maggiori esempi positivi. Tra questi esempi figura senza dubbio La Gloriette, il bene confiscato a Michele Zaza a Posillipo. Una villa panoramica dove la cooperativa sociale L’Orsa Maggiore, ha realizzato Casa Glo, un centro diurno che accoglie giovani vulnerabili. La cooperativa era presente tra gli stand al Forum Espositivo dei Beni Confiscati in Campania. Quella è stata l’occasione ulteriore per dialogare con diversi altri enti gestori beni confiscati che stanno partecipando al progetto S.T.A.R.T. Campania, approvato nell’ambito dell’Avviso pubblico per l’avvio di iniziative a sostegno delle imprese sociali impegnate nella gestione di beni confiscati alla criminalità del Ministero dell’Interno. Un progetto di formazione ed affiancamento agli enti che gestiscono beni confiscati in Campania, al quale sono iscritti diversi degli enti presenti al forum e di cui L’Orsa Maggiore è ente capofila.

«È prezioso stare nei dibattiti e contribuire a tenere alta l’attenzione su dei punti sui quali c’è bisogno di lavorare. In un momento in cui i bandi guardano solo al mattone, è necessario ampliare lo sguardo», sottolinea la presidente de L’Orsa Maggiore Angelica Viola. Il riferimento è anche al bando dell’Agenzia di coesione di cui sopra. «Un ente locale che presenta una scheda su un bene già in affidamento, per spendere i soldi di quel bando deve toglierlo all’ente, risanarlo e riattivare le procedure per un nuovo affidamento. Un’assurdità. Questa – aggiunge la Viola, confermando diverse voci emerse durante i lavori – rischia di essere è un’occasione persa. Non si tiene conto che la pregressa storia ed impegno per valorizzazione e riutilizzo rischiano di essere azzerate».

Altro tema sollevato dalla presidente de L’Orsa Maggiore riguarda l’economia dei beni confiscati. Da una parte il riutilizzo dei beni che «creano economia, e come soggetti economici concorrono al Pil del Paese. Inoltre, se faccio un’assunzione la persona che diventa un lavoratore pagherà le tasse allo Stato», dice a Il Riformista, Angelica Viola. Altro tema economico riguarda i fondi Puag che arrivano dalla confisca dei conti correnti ai mafiosi. «Questi non tengono conto delle esperienze che avrebbero bisogno di far partire idee di riutilizzo sociale di beni confiscati. L’Agenzia dei beni confiscati e gli enti locali non possono lavarsi le mani dopo l’assegnazione di un bene, lasciando al terzo settore oneri di ordinaria, straordinaria manutenzione nonché start up di servizi, anche innovativi e sperimentali di prossimità. Devono affiancare e supportare gli enti del terzo settore. Invece sono più attente alcune fondazioni. Penso a fondazione Con il Sud, Peppino Vismara, Cariplo». Altra questione di carattere economico riguarda la produttività delle aziende confiscate. «Ci sarebbe da affrontare il tema di chi nomina gli amministratori giudiziari. La sfida del Paese deve essere far vivere e produrre quelle aziende. E in questo cammino il mondo profit deve allearsi al non profit. Il numero di confische e sequestri aumenta, ma su questo tema il Paese è ancora troppo lento», conclude Angelica Viola.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(ANSA il 19 maggio 2022) - Maxi confisca di beni per un ammontare di circa 150 milioni di euro a Palermo e provincia ai danni di Carmelo Lucchese, 56 anni, imprenditore nel settore della grande distribuzione alimentare. Il provvedimento è della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo su richiesta della Procura, Direzione Distrettuale Antimafia, ed è stato esrguito dai finanzieri del comando provinciale di Palermo. 

La confisca riguarda la società Gamac Group srl, con sede legale a Milano, che gestisce 13 supermercati tra Palermo e provincia (Bagheria, Carini, Bolognetta, San Cipirello e Termini Imerese) che, era già stata affidata quando era scattato il sequestro ad un amministratore giudiziario, nominato dal tribunale, con il compito di garantire la continuità aziendale e mantenere i livelli occupazionali per preservare i diritti dei lavoratori, dei fornitori e della stessa utenza.

Secondo le indagini della Dda sulla base degli accertamenti svolti dai militari del Gico del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Palermo, Carmelo Lucchese, pur essendo incensurato, "sarebbe da ritenere - dicono gli investigatori - un imprenditore colluso alla criminalità organizzata, posto che il medesimo, seppure non organicamente inserito nell'organizzazione criminale, ha sempre operato sotto l'ala protettiva di Cosa Nostra". 

Alla base delle indagini si sono anche le dichiarazioni rese da diversi collaboratori di giustizia, come Sergio Flamia, e uno degli ultimi pentiti, Filippo Bisconti, l'ex capo della famiglia di Belmonte Mezzagno. Una complessa ricostruzione ha consentito di evidenziare strutturati contatti con la famiglia mafiosa di Bagheria, e far emergere i vantaggi "imprenditoriali" di cui ha potuto beneficiare nel tempo. L'imprenditore, secondo quanto accertato dalle indagini, a Bagheria, non avrebbe mai pagato il pizzo.

E grazie all'aiuto dei mafiosi bagheresi non avrebbe avuto aumenti sulla "tassa mafiosa" da versare in città per ogni punto vendita. Per il tribunale, non c'è prova che soldi di Cosa nostra siano finiti nelle società di Lucchese, ma l'imprenditore è accusato di essersi rivolto ai boss anche per liberarsi di alcuni soci e sbaragliare la concorrenza. Così Lucchese sarebbe riuscito a espandersi economicamente nel settore, acquisendo ulteriori attività commerciali. Scoraggiare la concorrenza anche con la violenza. 

Nel 2005, avrebbe fatto addirittura incendiare un supermercato di Bagheria che rischiava di portargli via clienti. Attorno alle indagini su Provenzano c'è il capitolo più misterioso di tutta questa storia: è ancora Flamia a raccontare che un ex poliziotto della sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo avrebbe passato notizie sulle inchieste a Lucchese, poi finite ai boss di Bagheria.

"La moglie del poliziotto lavorava in uno dei supermercati", ha aggiunto il pentito. Per l'accusa, l'imprenditore è "soggetto socialmente pericoloso", avrebbe anche assunto parenti dei mafiosi, "quale riconoscimento - è l'accusa - del loro determinante intervento in momenti cruciali nel percorso di espansione commerciale". Oltre alla confisca delle aziende e delle quote sociali della Gamac Group srl sono stati affidati ad un amministratore giudiziario 7 immobili di cui una villa in zona Pagliarelli a Palermo; 61 rapporti bancari e 5 polizze assicurative; 16 autovetture, tra cui 2 Porsche Macan.

Fontana di Trevi a Roma, l’attico dell’ex boss della banda della Magliana diventa scuola per magistrati. Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022.

Il bene confiscato nel 2018 a Ernesto Diotallevi diventerà una sede di legalità. «Qua le mafie hanno perso», le parole del ministro Lamorgese. 

Un attico di lusso affacciato sulla Fontana di Trevi è la nuova sede romana della Scuola superiore per magistrati. La residenza di 14 stanze era stata confiscata solo quattro anni fa a Ernesto Diotallevi, storico capo della banda della Magliana. La cerimonia di inaugurazione si è svolta nella mattinata di mercoledì alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che nel suo intervento ha sottolineato «l’alto significato della decisione di trasformare questo luogo privilegiato da ostentazione della illegalità a sede dell’organismo che cura la formazione e l’aggiornamento dei magistrati».

«In questa, come in altre occasioni, si riafferma la legalità - ha detto il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese - Oggi portiamo a segno un risultato concreto che ci consente di apporre virtualmente un sigillo a questo immobile: qui le mafie hanno perso». La titolare del Viminale ha ricordato «la grandezza dell’intuizione che guidò il legislatore quarant’anni or sono» che «aprì il varco a una più strutturata attività di contrasto alle mafie, capace di colpire concretamente l’accumulazione di patrimoni illeciti».

Il ministro della Giustizia Marta Cartabia , durante il suo saluto iniziale ha ricordato: «La formazione dei magistrati è indispensabile per le riforme».

Mario Fabbroni per leggo.it su il 13 Maggio 2022.  

I nuovi magistrati prenderanno “vita” tra le mura della casa dove “dettava legge” la Banda della Magliana. Illegalità che si trasforma nel trionfo della giustizia, proprio nel cuore di Roma. Anzi, con affaccio sulla Fontana di Trevi. 

Diventa infatti Scuola superiore per magistrati (intitolata a Mario Amato) il lussuoso appartamento di 14 stanze confiscato nel 2018 a Ernesto Diotallevi, soprannominato “er Secco” nella saga cinematografica “Romanzo Criminale”. Il passaggio è simbolico ma soprattutto sostanziale, uno dei segni più luminosi della città che vuole cambiare.

E la presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, oltre che del Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ne evidenzia l’alto significato «trasformando questo luogo da ostentazione della legalità a sede dell’organismo che cura la formazione e l’aggiornamento di magistrati».

La figura di Diotallevi, secondo gli inquirenti, era contigua a quella di Danilo Abbruciati, uno dei boss della “bandaccia” (detto “er Camaleonte”) ed aveva avuto la funzione di uomo-cerniera tra la Banda della Magliana e il tessuto economico-finanziario della Capitale, nell’ambito dei rapporti tenuti per conto di Cosa Nostra. 

Il mega appartamento di Fontana di Trevi, dopo la confisca emessa in primo grado dal tribunale per le misure di prevenzione di Roma, passò all’Agenzia Nazionale per i beni confiscati, nonostante la Corte d’Assise nel processo del 1996 assolse Ernesto Diotallevi riconoscendone, tuttavia, i legami con la criminalità organizzata romana e siciliana.

La Direzione investigativa antimafia, i Carabinieri e la Guardia di Finanza trovarono opere d’arte per un valore di 25 milioni. 

Proprio per la pericolosità sociale di Diotallevi, il sequestro dell’immobile si trasformò in confisca. Il carisma criminale di “er Secco” venne riconosciuto più volte anche da Enrico Nicoletti, ex cassiere della banda. Ora questa casa cambia vita: dovrà essere un faro per l’aggiornamento di tutti i magistrati, l’Italia ci crede.

La villa tolta al boss della 'ndrangheta 25 anni fa, abbandonata tra sprechi e degrado. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 18 Aprile 2022.

ISOLA CAPO RIZZUTO (CROTONE) – Eolo abita a Punta Cannone, uno dei più suggestivi tratti del vasto litorale di Isola Capo Rizzuto, e continua a soffiare forte, ma gli infissi non sbattono più da tempo sulle pareti di quella villetta che s’affaccia su un mare scoglioso e tempestoso e un tempo lontano fu del boss Nicola Arena, uno dei più potenti della ‘ndrangheta.

Hai voglia a soffiare, Eolo, il vento non può più sbattere porte e finestre portate via dai ladri, mentre le vetrate di enormi affacciate sono in frantumi chissà da quando sul pavimento e perfino le saracinesche sono state smontate, insieme a cancello, portoncino blindato e cassette elettriche. Val bene una scarpinata raggiungere quel mare incontaminato a pochi passi da lì, ma per arrivarci bisogna passare tra cumuli di rifiuti abbandonati – ci sono pure i cuscinetti di un divano – e gli scheletri della villetta, a più riprese finita nel mirino di vandali a ladri. Scheletri di un progetto mai decollato che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di una “colonia climatica”.

Ovvero una struttura per le vacanze al mare di bimbi con disabilità, in aderenza all’obiettivo dell’inclusione sociale e del contrasto all’illegalità fissato nella misura Pon Fesr Calabria, con cui sono stanziati al Comune 450mila euro. Ma in quella villetta a due piani nessuno osa più mettere piede per riutilizzarla a fini sociali nonostante i soldi pubblici già sperperati. Nessuno osa metterci piede, se non l’intrepido team dei Disobb3dienti dell’istituto nautico Ciliberto di Crotone, che, nell’ambito del laboratorio di monitoraggio civico coordinato dalla professoressa Rossella Frandina, quest’anno hanno deciso di vigilare sull’andamento della gestione dei beni confiscati alla ‘ndrangheta.

L’ennesima storia di ritardi e inadempienze, con sullo sfondo l’ombra di pressioni dei clan, film già visto a queste latitudini, quando al centro della scena ci sono, appunto, beni confiscati alla ‘ndrangheta. Il copione che si ripete inizia con la confisca definitiva del bene, il cui valore allora era stimato in 200 milioni di ex lire, risalente al lontano 14 ottobre ’97, data di una sentenza della Corte di Cassazione all’epoca in cui i provvedimenti si scrivevano a mano, anche se non è cambiato molto da allora. Insieme a quella villetta erano stati sottratti al boss anche un immobile a tre piani per un valore di un miliardo e 57 milioni di lire nella località Parco Inziti, un immobile a tre piani nella località Le Cannelle, un fondo rustico del valore di un miliardo e 130 milioni, terreni nelle località Bordogna, Cardinale, Cepa, San Giovanni, Vermica, un appartamento a Cropani Marina, un altro immobile a Sellia Marina e altri due a Isola.

Dal febbraio ’70 assunto come guardiano presso i villaggi Valtur con la paga di un milione di ex lire al mese, Arena non poteva, in base agli accertamenti patrimoniali condotti dalla Dda di Catanzaro, disporre di tutti quei beni, ritenuti frutto di proventi illeciti. Tanto più che era stato condannato a 14 anni di reclusione – la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro, del 27 febbraio ’97, con cui veniva rideterminata la pena di 15 anni inflitta al boss dal Tribunale penale di Crotone, era divenuta irrevocabile il 14 ottobre dello stesso anno, data della contestuale acquisizione definitiva dei beni al patrimonio dello Stato – poiché ritenuto a capo di un’associazione mafiosa dedita a estorsioni, comprese quelle imposte alla Valtur, e a qualsiasi attività illecita volta a rafforzare economicamente la cosca da lui capeggiata, con l’aggiudicazione e il pilotaggio di gare d’appalto.

Parliamo del capo carismatico di una delle cosche più potenti della ‘ndrangheta, che faceva (forse lo fa ancora) sentire il suo predominio su una vasta area che comprende territori a cavallo tra le province di Crotone e Catanzaro. Il 20 agosto 2001 l’Agenzia del demanio notifica i preavvisi di sgombero. Il 24 ottobre il Comune di Isola indica all’Agenzia le destinazioni dei beni confiscati. Un decreto del 29 marzo 2002 dell’Agenzia del demanio dispone il trasferimento al Comune per finalità sociali.

L’incarico di progettazione della colonia climatica viene affidato nel 2009 dalla Giunta guidata dall’ex sindaco Carolina Girasole all’ingegnere Tommaso Corda. Un anno dopo, la Giunta licenzia il progetto esecutivo finanziato dalla Regione per 450mila euro. L’intervento, ammesso al finanziamento nell’ambito del Por Sicurezza Calabria 2007-2013, sarà avviato dalla successiva Giunta guidata dall’ex sindaco Gianluca Bruno, ma, a lavori pressoché ultimati, l’immobile verrà vandalizzato, a più riprese. E la procedura per l’indizione di un bando per l’assegnazione sarà rinviata. L’inizio del progetto era previsto per il 31 dicembre 2012, la fine per il 15 giugno dello stesso anno. Il primo acconto, del 30 per cento, il Comune lo chiede nel 2011; gli ultimi pagamenti risalgono al 2016.

Il documento programmatico per il triennio 2019-21 dell’amministrazione comunale, oggi guidata dalla sindaca Maria Grazia Vittimberga, prevede ancora la realizzazione della colonia climatica in quella struttura al “foglio 31 particella 12”, ma il gergo formal-legale non dice che sono rimasti moncherini attorniati dal degrado. Intanto la villetta è ancora lì, a deteriorarsi tra cumuli di rifiuti abbandonati, esposta a tutte le intemperie.

Oltre 215mila beni sequestrati alle mafie, ma l'arma della confisca è spuntata da burocrazie e risparmi. Giulio Marotta su La Repubblica l'8 Aprile 2022.

Come funzionano e come possono essere migliorate le misure di prevenzione patrimoniale.

Le misure di prevenzione patrimoniale, introdotte dalla legge Rognoni-La Torre e oggi disciplinate dal codice antimafia (artt. 16 ss.) costituiscono uno strumento fondamentale nel contrasto alla criminalità organizzata, perché consentono di acquisire i patrimoni accumulati con i proventi di attività illecite.

Il sequestro (si tratta di oltre 215.000 beni dal 1997 al 2020, che non includono peraltro quelli sequestrati nei processi penali ordinari: soprattutto immobili, ma anche autovetture, aziende etc.) non solo colpisce la forza economica dei clan mafiosi ma ne indebolisce la capacità di infiltrazione nel tessuto economico e sociale ed il consenso fondato sulla distribuzione di posti di lavoro.

Le disposizioni del codice antimafia acquistano ancora più importanza se si considera che la perdita dei beni viene percepita dalle organizzazioni criminali, come risulta dalle intercettazioni telefoniche, in termini addirittura superiori alle stesse misure di custodia cautelare o di condanna penale, per la perdita di prestigio sociale e di potere di fronte agli associati. Un ulteriore salto di qualità è rappresentato dalle norme che prevedono la destinazione di beni simbolo del potere criminale per fini di utilità pubblica o sociale, offrendo così nuove opportunità di lavoro e di sviluppo sociale nei territori dove sono ubicati.

Il sequestro dei beni appartenenti ai boss mafiosi è disposto dalla sezione misure di prevenzione del tribunale: nel periodo 2010-2020 si registra una media annua di 500 nuovi procedimenti di prevenzione (che riguardano generalmente una pluralità di beni), con una crescita significativa, negli ultimi anni, delle misure di prevenzione adottate dagli uffici giudiziari dell’Italia settentrionale, a ulteriore conferma della forte presenza delle organizzazioni criminali in aree diverse da quelle di radicamento tradizionale. Molto rilevanti i dati sulle confische relative a beni ubicati nel Lazio (e soprattutto a Roma) e in Sicilia.

Con il sequestro il bene è sottratto alla disponibilità dei loro proprietari; viene contestualmente nominato un amministratore giudiziario per la gestione provvisoria e la manutenzione ed il giudice competente a coordinare e verificarne l’attività. Si tratta di una fase molto importante perché occorre risolvere una serie di rilevanti problemi. Per i beni immobili si devono verificare i diritti dei terzi (ad esempio il bene può essere occupato dal nucleo familiare del soggetto cui il bene è stato confiscato o da un soggetto agli arresti domiciliari) e lo stato dei beni (sanatoria degli abusi esistenti, realizzazione delle opere di ristrutturazione e manutenzione, messa a norma degli impianti etc.).

Per le aziende si tratta di riavviare in tempi brevi l’attività, procedendo anche alla liquidazione dei creditori, superando le difficoltà che emergono spesso per l’interruzione delle linee di credito e per il “costo” derivante dalla “emersione dalla illegalità”: le aziende confiscate sopravvivevano spesso in situazioni di palese illegalità (lavoro nero o comunque irregolare, con mancato versamento contributi; evasione fiscale; emissione di fatture false; inosservanza delle disposizioni sulla sicurezza dei luoghi di lavoro; riciclaggio proventi illeciti, assenza di scritture contabili), rappresentando perciò un ostacolo alla libera concorrenza, con danni rilevantissimi per le imprese che invece rispettano tutti gli adempimenti previsti dalle norme di legge.

Quando la confisca è definitiva l’Agenzia nazionale per i beni confiscati può procedere alla destinazione dei beni agli enti locali o ad altre amministrazioni pubbliche a fini istituzionali o sociali, a seguito di un’attenta valutazione delle manifestazioni d’interesse e dei progetti di riutilizzo da parte dei soggetti interessati; i beni possono essere gestiti direttamente oppure affidati in concessione, tramite avviso pubblico, alle associazioni che ne fanno richiesta; gli immobili potranno essere anche locati a persone che versano in particolare condizione di disagio economico e sociale. La legge prevede inoltre possibilità di vendita al miglior offerente: le ipotesi più frequenti sono quelle delle aziende che non risultano in grado di sopravvivere in una condizione di piena legalità ovvero di immobili non riutilizzabili perché in pessime condizioni. Si ricorre inoltre alla vendita per soddisfare le richieste legittime dei creditori.

Come affermato dal ministro della Giustizia in Commissione antimafia, Marta Cartabia, “l’Italia è considerata dagli altri Paesi un modello nella lotta alle mafie…. la legislazione riguardante la gestione dei beni tolti ai criminali è considerata da tutti un patrimonio e un pilastro fondamentale, sia per la sua capacità effettiva di generare ricchezza, sia anche per il suo valore simbolico. Un bene, un’azienda, un immobile sottratto alla criminalità organizzata e restituito alla collettività è un messaggio forte che lo Stato manda alle organizzazioni criminali e soprattutto ai cittadini”.

Peraltro, a fronte dell’enorme patrimonio dei beni sequestrati alle organizzazioni mafiose, e l’impegno della magistratura nell’esecuzione delle indagini patrimoniali realizzate nei procedimenti di prevenzione, sono emersi una serie di rilevanti problemi, che hanno ostacolato una compiuta attuazione della normativa.

Un primo elemento negativo, ai fini di una esatta valutazione dei meccanismi di sequestro e riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, è rappresentato dalla mancata integrazione dei diversi sistemi informativi, che ostacola anche la trasmissione in via telematica della documentazione tra le diverse amministrazioni; come affermato dalle stesse relazioni semestrali del ministero della giustizia (l’ultima relazione riporta i dati disponibili al 31 dicembre 2021), i dati della Banca centrale del ministero sono ancora largamente incompleti, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, e non consentono di avere un quadro effettivo ed aggiornato della situazione processuale dei singoli beni oggetto di sequestro e dei problemi emersi nel corso della gestione provvisoria né di conoscere puntualmente il loro valore.

Un secondo aspetto riguarda i tempi estremamente lunghi che intercorrono tra il primo sequestro, la confisca e la destinazione finale del bene, che favoriscono in molti casi il degrado e l’occupazione abusiva dei beni (si registrano anche atti di vandalismo da parte dei soggetti a cui l’immobile è stato sequestrato) e quindi pregiudicano il loro successivo riutilizzo; la celerità delle procedure assume ancora più importanza con riferimento alle aziende sequestrate. In base ai dati dell’ultima relazione del ministero della giustizia il 41% dei sequestri è poi oggetto a confisca; e, rispetto al totale dei beni confiscati, la percentuale di quelli effettivamente destinati è inferiore al 10 per cento.

Ciò è dovuto, innanzitutto, alla complessità delle procedure (la recente relazione della Commissione antimafia formula una serie di proposte per coniugare efficienza e trasparenza delle procedure con la tutela dei soggetti che subiscono il sequestro) e alle carenze dei sistemi informatici; inoltre, solo a molti anni di distanza dalla sua istituzione (2010), si sta finalmente procedendo alla copertura integrale dei larghi vuoti di organico dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, ciò che ha avuto inevitabili riflessi negativi sull’attività istruttoria necessaria per una sollecita e corretta individuazione della migliore destinazione. Sarebbe inoltre molto utile un maggior ricorso all’assegnazione provvisoria dei beni immobili, al fine di evitare il loro degrado e l’accumulo di debiti dovuti al mancato pagamento delle rate condominiali.

Ed ulteriori rilevanti problemi emergono anche con riferimento ai beni che sono formalmente affidati alle Regioni, agli enti locali ed alle altre amministrazioni ma che non risultano però riutilizzati (una prima stima elaborata dall’Agenzia per i beni confiscati indica una percentuale di beni effettivamente riutilizzati del 50%). Ciò è dovuto all’insufficiente preparazione ed interesse delle amministrazioni locali, in particolare quelle di piccole dimensioni (le amministrazioni locali spesso non conoscono nemmeno i beni disponibili nel proprio territorio: a febbraio 2021 poco più di un terzo degli enti locali interessati aveva chiesto l’accesso alla banca dati dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati) e all’assenza di adeguati finanziamenti per i progetti di riutilizzo sociale: in mancanza di risorse economiche per le spese di ristrutturazione e gli oneri di gestione, le associazioni non partecipano alle gare ovvero restituiscono in tempi brevi il bene loro assegnato.

Da questo punto di vista, in aggiunta ai finanziamenti già previsti dal PNRR, dai fondi europei e dalle leggi ordinarie (tuttora utilizzati sono parzialmente), nonché alle risorse messe a disposizioni dalle Fondazioni, appare essenziale risolvere il problema dell’utilizzo delle risorse liquide confluite nel Fondo Unico Giustizia (denaro, valori e titoli sequestrati, somme derivanti dalla vendita degli immobili etc.), che ammontano ad una cifra complessiva di oltre 4 miliardi di euro, destinando una quota consistente di tali risorse al riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie nonché a soddisfare i creditori in buona fede.

Andranno inoltre utilizzate le opportunità previste dalla legge di ricorrere a forme consortili tra i comuni o di “mettere a reddito” i beni immobili destinati, rispettando naturalmente il vincolo di destinazione a fini sociali della relativa rendita finanziaria. Ed è importante altresì che la manifestazione di interesse degli enti locali sia sempre preceduta (e non seguita) da una verifica della effettiva disponibilità dei soggetti privati interessati, in modo da fondare su basi concrete il progetto di riutilizzo del bene. Da questo punto di vista va vista con favore l’istituzione di momenti di confronto tra amministrazioni statali, regionali, locali e associazioni del terzo settore che faciliti la predisposizione di progetti di riutilizzo dei beni socialmente validi e realmente sostenibili: un esempio significativo è rappresentato dal Forum cittadino sulle politiche in materia dei beni confiscati alla criminalità organizzata di Roma capitale.

Un’attenzione particolare merita sicuramente il tema della riconversione delle aziende confiscate. I dati sul campione di 2.796 aziende, già in gestione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, evidenziano una fortissima presenza di imprese collegate alla criminalità organizzata nei settori dell’edilizia, del commercio e dei servizi di alloggio e ristorazione.

In questo ambito un impegno specifico merita il riutilizzo dei terreni agricoli confiscati alla criminalità organizzata, che assume una rilevanza ancor maggiore nell’attuale fase di crisi internazionale degli approvvigionamenti alimentari. Come già detto, si pone per molte di tali aziende un “costo della emersione dall’illegalità”: le difficoltà nel reperire le risorse necessarie per il riavvio dell’attività in un sistema concorrenziale conduce spesso alla liquidazione delle imprese, a partire da quelle a conduzione familiare e alle ditte individuali. Si tratta di un tema molto importante, che necessita l’adozione, da parte degli amministratori giudiziari, di misure tempestive di rilancio dell’impresa, perché il sequestro determina inevitabilmente un rapido processo di deterioramento della situazione finanziaria ed economica, con conseguenti riflessi negativi dal punto di vista occupazionale.

Si corre cioè il rischio che l’intervento dello Stato, agli occhi dei lavoratori dell’azienda sequestrata, sia percepito come la causa della perdita del posto di lavoro e non costituisca invece l’occasione per ottenere finalmente condizioni di lavoro e di retribuzione regolari. Anche a tale proposito la relazione della Commissione antimafia illustra alcune misure utili a garantire il mantenimento delle linee di credito per le aziende confiscate che hanno avviato il percorso per un ritorno alla legalità. Storie di mafia assicurerà un costante lavoro di informazione sullo sforzo compiuto da tante amministrazioni pubbliche ed associazioni per assicurare nuovi servizi alla collettività tramite il riutilizzo dei beni confiscati.

I beni confiscati alle mafie. Il tesoro da 40 miliardi che lo Stato non riesce a sfruttare: quasi 8mila beni che abbandonati e non valorizzati. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

Si legge beni confiscati alle mafie, e si fa riferimento a un asset che ha un valore di circa 40 miliardi di euro a livello nazionale. «È un asset che può e deve essere una leva per la ripresa del nostro Paese e in particolare del Mezzogiorno», spiega Mario Morcone, assessore alla Legalità, Sicurezza, Immigrazione della Regione Campania, illustrando i contenuti della due giorni di rilievo nazionale sui patrimoni confiscati alla criminalità organizzata che si terrà oggi e domani alla Stazione marittima. I beni confiscati alle mafie sono soprattutto immobili, terreni e aziende.

L’evento, realizzato in partnership con le Regioni Lombardia, Toscana, Lazio e Sicilia, sarà caratterizzato da mostre e dibattiti. L’obiettivo è abbinare alle parole i fatti, quindi attraverso i dibattiti discutere dei problemi e dei progetti e attraverso gli stand mostrare le buone prassi che già esistono sul territorio. Buone prassi che di fronte ai numeri di beni confiscati e non utilizzati sono sicuramente una goccia nell’oceano. Ad animare questa due giorni dedicata ai beni confiscati c’è proprio l’idea che l’oceano è fatto di gocce, e pertanto si comincia dalle buone prassi, dalle poche esperienze positive. Ci saranno 28 stand che esporranno prodotti e progetti virtuosi: dai kimoni in seta alla cioccolata per diabetici, dai progetti dedicati agli adolescenti alle opportunità di lavoro per le categorie più fragili. «Con questo primo forum speriamo di dare una scossa a una questione che a mio avviso – spiega Morcone – non è soltanto simbolica e legata a una scelta, comunque importante, di recupero di patrimoni illegali e di impatto sociale, ma è una questione anche economica».

In Campania si parla di 6.691 immobili sottratti alla camorra (che equivalgono al 16% del dato nazionale) e di 1.117 aziende confiscate. Totale: quasi 8mila beni. Un patrimonio che, dopo essere stato sottratto alla criminalità organizzata, rischia nella maggior parte dei casi di essere abbandonato, non valorizzato, disperso. E invece andrebbe restituito al territorio e alla comunità, valorizzato e messo in condizione di produrre ricchezza in termini di lavoro, opportunità, legalità, migliore qualità della vita. «In questa operazione giocano un ruolo importante le Regioni, il bando del Ministero per il Sud che è stato prorogato al 22 aprile – sottolinea l’assessore Morcone – e gioca anche molto il protagonismo dei sindaci. E su questo aspetto la nostra realtà è fatta sia di sindaci che fanno cose importanti, elaborano finanziamenti e progetti di rilievo, sia di sindaci che sono fermi alle solite lamentele per il personale che manca negli uffici tecnici o che non è in grado di fare e dire, sia ancora di sindaci che nascondono un’inerzia legata al proprio elettorato».

La Campania è una delle regioni con il più alto numero di Comuni commissariati per sospetti condizionamenti mafiosi. «Ci sono Comuni che non hanno mosso una virgola sui beni confiscati», ricorda Morcone, sottolineando la necessità di una svolta, «di una scossa» sottolinea. «I beni confiscati sono una leva economica, sono un’importante leva di sviluppo che offre la possibilità di dare una mano ai giovani e ai più fragili, può consentire l’aiuto alle persone, le start up, le cooperative, anche l’ingresso di privati se generano economia e lavoro. Il forum – aggiunge – nasce intanto perché non è più accettabile sentir dire che tutto è fermo. La verità è che sui beni confiscati ci sono luci e ombre. Ed è il momento di ampliare le luci. Del resto – conclude Morcone – mai come in questo momento storico c’è bisogno di tenere gli occhi bene aperti: tra la pandemia, la guerra e i soldi che arriveranno con il Pnrr la situazione è particolarmente delicata, i rischi sono dietro l’angolo, soprattutto quelli di nuove mire della criminalità organizzata».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dal codice al dogma: prigionieri di un’antimafia superata dalla storia. Sì, il dibattito sulla giustizia è cambiato, ma deve arrestarsi lì dove i sacerdoti dell’ortodossia ribattono: fate come diciamo noi, o siete collusi con i boss. Peccato che le norme di 30 anni fa siano inadeguate a contrastare i nuovi traffici. Errico Novi su Il Dubbio il 14 marzo 2022.

È stato un anno nuovo per la giustizia. Produttivo. Ricco di aperture su diversi fronti. E in particolare sullo snodo più delicato, il rapporto fra indagini e informazione. Con le nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza (decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 188) si è aperto un varco nella palude degli ultimi trent’anni, nel pregiudizio giustizialista stratificatosi a partire da Mani pulite. Eppure resta un’ultima fortezza inaccessibile a qualsiasi tentativo di confronto: la legislazione e la teoria dell’antimafia. Un sistema di certezze che non si riesce a scalfire, e che anzi ostacola anche riforme non immediatamente connesse alla repressione del crimine organizzato. Basti pensare all’improcedibilità, il complicato antidoto al blocca-prescrizione di Bonafede.

COSÌ IL DOGMA DELL’ANTIMAFIA HA CAMBIATO PURE L’IMPROCEDIBILITÀ

Quando a fine luglio l’attuale maggioranza sembrava aver trovato un’intesa sul nuovo istituto, che sostituisce la cosiddetta “prescrizione del processo” all’estinzione del reato, ecco il colpo a sorpresa. Il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e il capo dei pm di Catanzaro Nicola Gratteri paventano il naufragio di gran parte dei giudizi per mafia. Basta la parola: la norma cambia. Viene condita di eccezioni e si trasforma in un groviglio ancora più tortuoso di quanto non fosse già in partenza. Basta consultare l’articolo 2 secondo comma della riforma penale (al secolo, la legge 134 del 2021): oltre tre pagine fitte di Gazzetta ufficiale. Non solo. A riprova che dal timore di urtare i dogmi dell’antimafia siano scaturite le più pesanti contraddizioni di un anno di politiche sulla giustizia, va citata la legge sull’ergastolo ostativo.

Con il testo che nelle prossime ore la Camera dovrebbe licenziare in prima lettura, si lancia di fatto una sfida alla Corte costituzionale: quasi si arriva a irridere l’ordinanza 97 del 2021, con cui la Consulta aveva accertato l’illegittimità, pur senza renderla immediatamente efficace, delle norme per cui i condannati all’ergastolo ostativo, essenzialmente i mafiosi, possono accedere alla liberazione condizionale solo attraverso la collaborazione. Con il consueto esemplare spirito di responsabilità e rispetto istituzionale, il giudice delle leggi aveva evitato l’impatto fatale di una pronuncia così dirompente per l’ordinamento, e aveva lasciato al Parlamento un anno di tempo per allestire la piattaforma d’atterraggio del nuovo regime normativo, in modo da consentire ai giudici di Sorveglianza la valutazione del singolo caso senza rischi per la sicurezza.

Alla fine i deputati si sono esercitati nel predisporre una selva di norme spesso irragionevoli, che ostacola a tal punto il percorso dell’ergastolano verso il più importante dei benefici, da vanificare quasi la pronuncia. È doveroso riportarsi al magistrale intervento pubblicato sul Foglio di giovedì scorso dal professor Giovanni Fiandaca, che ha disarticolato con impietosa efficacia le contraddizioni del testo.

QUEL RICATTO IMPLACABILE CHE ATTERRISCE I GARANTISTI

E il fatto più rilevante è che, di fronte a una così sfrontata indifferenza alla Costituzione, non si è levata in Parlamento praticamente nessuna di quelle voci garantiste che, nell’intero anno precedente, si erano battute con successo per cambiare il corso della politica giudiziaria. Quando c’è di mezzo la mafia, ci si autoconsegna al silenzio. Si preferisce riparare nell’astensione dal dibattito, nonostante in tutte le altre occasioni si intervenga puntualmente per armonizzare la legislazione penale con lo Stato di diritto. Fa troppa paura il ricatto permanente del fronte giustizialista, politico e togato.

Chi osa mostrarsi garantista anche sulla legislazione antimafia viene immediatamente bollato come amico o fiancheggiatore dei boss. Vale la pena ricordare come, sull’ergastolo ostativo, le sole e uniche voci che alla Camera si siano levate fino all’ultimo per denunciare l’incoerenza delle nuove norme siano di due donne e deputate coraggiose: Enza Bruno Bossio del Pd e Lucia Annibali di Italia viva. La prima, in particolare, è rimasta isolata all’interno del proprio partito, che ha invece condiviso con il Movimento 5 Stelle, e portato a casa, diverse modifiche restrittive.

L’antimafia, nella sua pretesa intangibilità, è un ricatto. È una roccaforte inespugnabile. Un sistema impossibile o quasi da riformare. È un’arma sempre pronta per respingere avanzamenti del diritto anche su altri versanti, come si è ricordato a proposito della riforma penale. È un pregiudizio, innanzitutto, rispetto a ogni tentativo di riforma penitenziaria. E qui è facile richiamare il caso delle ultime ore: la nomina di Carlo Renoldi, un giudice dopo tanti pm, a capo del Dap.

Una scelta sulla quale la guardasigilli Marta Cartabia dovrà sfidare in Consiglio dei ministri l’assoluto dissenso di Lega e Movimento 5 Stelle, dissenso anticipato, nel plenum del Csm, da Nino Di Matteo. Renoldi, ora alla Cassazione ma con una lunga esperienza da giudice di Sorveglianza, ha osato schierarsi troppo nettamente su un’idea di carcere orientata alla rieducazione e al reinserimento sociale, più che alla vendetta. Apriti cielo. Anche e soprattutto perché il magistrato ha esteso ile proprie analisi critiche al 41 bis, il cosiddetto carcere duro concepito per isolare i capimafia. Ecco: ogni “eresia” che incroci il contrasto della criminalità organizzata è la scintilla di un nuovo conflitto, e soprattutto di una nuova scomunica.

L’antimafia è un moloch che impedisce di disegnare nuovi modelli di giustizia e di esecuzione penale. E proprio per il suo granitico dogmatismo è ormai un paradigma inadatto rispetto al proprio obiettivo, la repressione delle organizzazioni criminali. Davvero a trent’anni dalla dichiarazione di guerra della mafia stragista possiamo continuare a rispondere con le stessearmi di allora? È possibile tenere in piedi una legislazione di emergenza che pretende di battere la mafia con la rincorsa a remote connessioni familiari, anziché con strumenti tecnologici e normativi commisurati all’evoluzione dei traffici, alle nuove e sofisticate forme di arricchimento illecito? È un interrogativo necessario innanzitutto per il futuro del Mezzogiorno.

LA CIECA E INQUISITORIA LOGICA DELLE MISURE DI PREVENZIONE

In Sicilia, Calabria, Campania il codice antimafia (tecnicamente il decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, modificato più volte e anche dal decreto Pnrr, il 152/2021) consente sì di rispondere a fenomeni criminali ancora ben radicati, connessi essenzialmente al narcotraffico, ma si ostina pure nel colpire con inflessibile cecità migliaia di imprese, pienamente inserite nel circuito legale, in virtù di parentele, relazioni presunte, sospetti. È il “campo largo” delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, che continuano a mietere vittime innocenti, e che in alcuni contesti –esemplare il caso della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo – hanno finito, negli anni passati, per ridurre in cenere il tessuto produttivo locale.

A Caltanissetta è in corso il processo al cosiddetto sistema Saguto, di cui continua ad emergere il ricorso discutibile al cosiddetto “processo di prevenzione”, e di cui vi parla anche la prefazione al libro “Quando prevenire è peggio che punire”, firmata da Sergio D’Elia e riproposta in questo numero del giornale. Adesso il quesito da porsi è se una legislazione antimafia basata sul sospetto, sul doppio binario, su modelli estranei allo Stato di diritto e al giusto processo, non rischi di distrarre le energie di magistratura e forze dell’ordine dall’attuale dimensione dei fenomeni criminali. È un timore, quello di insistere su un bersaglio sbagliato, che in realtà sembra insinuarsi anche nelle analisi dei più alti responsabili delle strategie antimafia.

Persino il procuratore nazionale Cafiero de Raho o il pg di Cassazione Giovanni Salvi non mancano di segnalare, nelle proprie relazioni annuali, l’esistenza e l’evoluzione di circuiti illeciti e di traffici assai più sofisticati, alternativi al consueto modello delle cosche. Solo che a tali analisi non segue la richiesta di ristrutturare davvero il codice antimafia. Ci si limita a sostenere che le organizzazioni criminali, assimilabili o meno alla mafia, sono ancora forti, e anzi più ricche e internazionali, e che quindi non si può dismettere nulla del vecchio armamentario repressivo. Ma pur nel pieno rispetto di valutazioni proposte da fonti così autorevoli, permane l’impressione che si esiti a rivedere il codice e le strategie antimafia non perché davvero utili a perseguire gli attuali circuiti internazionali dell’illecito, ma per la soggezione a quel ricatto morale evocato all’inizio.

Non si può neppure discutere di 41 bis, di regime penitenziario ostativo, di misure di prevenzione applicate senza contraddittorio, avulse dalla prova formata nel processo. Non si osa mettere in discussione principi investigativi ancora basati sulla ricerca di una lontana sospetta parentela. Non si osa perché in fondo nessuno ha il coraggio di un atto di blasfemia. Nessuno ha voglia di trattare la vecchia antimafia per quello in cui rischia di essersi trasformata: una religione dogmatica, un misto di nostalgia e ricatto, un’eredità della guerra dichiarata a Capaci e via D’Amelio, un plotone pronto a fulminare i presunti disertori. Eppure il nemico di allora è già da decenni rinchiuso al 41 bis o scomparso dalla faccia della terra.

In uno Stato che vuol modernizzare, grazie al Recovery, il proprio sistema giustizia, e che potrebbe efficacemente dedicarsi al contrasto dei nuovi sistemi di arricchimento illecito, possiamo davvero permetterci di sprecare tante risorse umane ed economiche nella rincorsa nostalgica alla mafia di trent’anni addietro? Quasi nessuno ha il coraggio di avanzare quell’interrogativo, se non fosse per il presidio garantista del Partito radicale, di Nessuno tocchi Caino, dell’avvocatura e di poche voci dell’accademia, da Giovanni Fiandaca a Salvatore Lupo. Ma un paese che vuole coltivare la speranza di lasciarsi alle spalle la pandemia, e la guerra, non può pensare di restare imprigionato nell’eterno ritorno di un’antimafia sganciata dal tempo.

L'attacco del "Fatto". Travaglio contro Renoldi: “Fucilate il capo del Dap, per lui la prigione non è una tomba”. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Luglio 2022 

Fucilate Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e amico dei mafiosi! L’ordine parte dal giornale di Marco Travaglio e viene immediatamente raccolto dai fedeli scudieri parlamentari grillini, che scattano sull’attenti e vergano un’interrogazione alla ministra Cartabia. Colei che annovera tra i suoi peccati anche quello di aver nominato al vertice del Dap un magistrato che non porta sul petto le stellette dell’antimafia militante. Quella del “processo trattativa” che piace ai Di Matteo e agli Ardita, che infatti sulla nomina nel plenum Csm si sono astenuti.

L’occasione è data da una notizia che proviene dal mondo carcerario (o forse proprio da quello dell’antimafia militante) ed è anche vecchia di due mesi. Da quando cioè una delegazione dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in visita autorizzata nelle carceri della Sardegna, nelle giornate del 7 e 10 maggio, ha potuto incontrare anche i detenuti ristretti al regime del 41-bis. Scandalo! Il Fatto si riferisce alla presidente dell’associazione, Rita Bernardini, e ai due dirigenti Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti (definiti anche con sprezzo “coniugi”, come se fosse un reato) trattandoli come se fossero stati sorpresi mentre fornivano lenzuola annodate e per far evadere Zagaria e Bagarella. Ma lo scandalo consiste solo nel fatto che nell’autorizzazione rilasciata dal direttore Carlo Renoldi per l’accesso della delegazione agli istituti di Sassari e Nuoro mancasse la dicitura “a esclusione della sezione 41-bis”. Una scelta positiva. Tenendo presente anche il fatto che il carcere “impermeabile” non riguarda solo i condannati, ma anche persone in custodia cautelare.

Ma è chiaro il retro-pensiero di chi non ha neppure la più pallida idea di che cosa sia un carcere né dei diritti civili e umani. I “pizzini”, questo è il primo sospetto. Come se chiunque si occupi dei diritti dei detenuti, e lo stesso direttore del Dap, fossero complici dei boss e pronti a farsi da tramite per aiutarli in nuovi delitti. Così non sfiora la mente il fatto che un’associazione come “Nessuno tocchi Caino” possa invece essere molto utile per aiutare anche coloro che un tempo uccisero e fecero stragi, al superamento di quel che furono e a un percorso di cambiamento. Meglio invece, per la subcultura travagliesca e grillina, tenere questi uomini come belve feroci isolate e chiuse nei loro recinti. Certo, la nomina nel marzo scorso da parte della ministra Cartabia di un magistrato come Carlo Renoldi al vertice del Dap, e tre mesi dopo di un funzionario esperto come il provveditore regionale di Lazio Abruzzo e Molise (ma anche ex direttore delle carceri di Brescia, Padova e Rebibbia nuovo complesso) come Carmelo Cantone, ha segnato una svolta. E al Fatto quotidiano schiumano di rabbia.

La militanza antimafia comporta che tutto rimanga sempre come era, con i delinquenti fermi all’immagine di quel che erano stati al momento dell’arresto, a meno che non facciano i “pentiti”, magari mandando in galera un po’ di innocenti come fece, ispirato dai tanti suggeritori e dopo esser stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, Vincenzo Scarantino. “Visite anti-ergastolo ai boss”, le chiamano al Fatto. Con disprezzo nei confronti della Corte Costituzionale e delle sue sentenze che hanno aperto la strada prima ai permessi premio e in seguito agli altri benefici penitenziari previsti dal regolamento anche per i condannati “ostativi”, vittime da trent’anni di una normativa incostituzionale. «Ci risulta che si sia parlato dell’ergastolo ostativo», si scrive con lo stesso tono scandalizzato che si userebbe se fosse stata programmata un’evasione di massa dei boss mafiosi. Meglio spettegolare, con lo stile di chi intervista i citofoni, sul fatto che il direttore del Dap, cioè il numero uno dell’amministrazione penitenziaria, nel firmare il permesso all’associazione di incontro con tutti i detenuti, avrebbe “approfittato” dell’assenza di colui che era ancora il suo vice, l’ex pm “antimafia” Roberto Tartaglia, orgogliosamente ricordato come uno dei promotori del fallimentare “processo trattativa”, per compiere la scappatella.

Come se la storia stessa di Carlo Renoldi, quel che ha sempre detto e fatto, non parlasse per lui. Se ne erano ben ricordati i due membri del Csm che non lo hanno votato, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, che avevano prontamente raccolto il “la” inviato loro, dalle colonne del Fatto quotidiano ovviamente, da Giancarlo Caselli, quasi un ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. E pensare che ogni giorno l’ex segretario di Magistratura democratica Nello Rossi ci ricorda dei fasti garantistici che furono della corrente di sinistra, dimenticando che anche l’ex procuratore Caselli viene di lì, da quella storia. Da un mondo che bocciò sempre la carriera e le aspirazioni, ma anche il pensiero, di un gigante come Giovanni Falcone. Un mondo che oggi senza vergogna si ritrova contiguo a Marco Travaglio. Ci provano anche con Carlo Renoldi, perché è un riformatore, e lo sta dimostrando. Per questo ogni occasione è buona per proporre la sua fucilazione, cioè tentare di portarlo alle dimissioni. Ma sarà dura, con la ministra Cartabia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ma quale scandalo: i Radicali hanno già visitato i 41bis e iscritto boss dagli anni 80. Il Fatto e i 5S attaccano il capo del Dap, Carlo Renoldi, per aver permesso a persone non parlamentari di recarsi in sezioni del carcere duro, ma le autorizzazioni sono state concesse anche dalle amministrazioni precedenti. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 7 luglio 2022.

«L’era Renoldi alla direzione dell’amministrazione penitenziaria è cominciata con un permesso senza precedenti dal tempo delle stragi mafiose!», è l’incipit dell’articolo de Il Fatto quotidiano che contesta al neocapo del Dap di aver “bucato” il 41 bis concedendo alla delegazione radicale di “Nessuno Tocchi Caino” una visita presso le sezioni del carcere duro. Peccato però che siamo all’ennesima fake news visto che già nel 2019, gli esponenti del Partito Radicale, Rita Bernardini in primis, hanno già potuto visitare i detenuti in regime del 41 bis. Non solo. Basti pensare che nel 2017, una delegazione delle Camere penali ha potuto visitare la sezione del 41 bis a Rebibbia. Quindi altro che visita “senza precedenti”. Così come, altro tema posto dall’articolo, non è un caso inusuale che alcuni ergastolani si tesserano con i radicali. Lo fanno pubblicamente fin dagli anni 80. Ma ora, dopo l’articolo de Il Fatto, il gruppo parlamentare del M5s chiede spiegazioni anche su questo fatto quando non solo, com’è detto, è roba stranota da quarant’anni, ma rientra nello statuto del Partito Radicale e dell’associazione Nessuno Tocchi Caino: l’iscrizione è aperta a tutti, nessuno escluso. Soprattutto per i Caini.

È Partita una campagna stampa contro il nuovo capo del Dap?

Quindi nessun precedente per quanto riguarda la visita alle sezioni del 41 bis, ma molto probabilmente è un proseguo di una campagna stampa contro il nuovo capo del Dap, Carlo Renoldi, “reo” di aver criticato nel passato alcune misure afflittive del 41 bis. Attenzione. Non ha mai messo in discussione il regime differenziato e mai ha parlato di “ammorbidimento”. Da consigliere della Cassazione ha contribuito a emanare provvedimenti che vietano tutte quelle misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto al suo scopo originario. Non sono azioni, appunto, che ammorbidiscono il cosiddetto carcere duro, come continuano ad affermare i prevedibili detrattori specialisti nell’informazione distorta. In realtà si tratta del pieno rispetto della ratio di questa misura differenziata che sulla carta dovrebbe avere un solo unico scopo: vietare ai boss mafiosi di veicolare all’esterno ordini al proprio gruppo di appartenenza criminale. Nient’altro.

Bernardini: «Il Fatto poteva ascoltare le nostre videoregistrazioni»

Ma ritorniamo allo “scandalo” radicale. A rispondere è una delle dirette interessate, ovvero Rita Bernardini che ha effettuato le visite nelle carceri sarde – dove ci sono anche le sezioni del 41 bis – autorizzate dal Dap. Innanzitutto, l’articolo non rivela nulla di inedito. «Il Fatto Quotidiano – spiega Bernardini tramite un post pubblico su Facebook – spia dal buco della serratura quel che faccio e facciamo alla luce del sole. Bastava ascoltare le nostre videoregistrazioni pubbliche per sapere che eravamo stati autorizzati (due mesi fa!) a visitare 5 carceri sarde anche nelle sezioni del 41 bis». L’esponente del Partito Radicale sottolinea: «Fra l’altro, non è vero che è la prima volta che ciò accade per i non parlamentari; visitammo infatti il 41 bis di Viterbo il 22 aprile 2019».

Sulle ultime visite inviato un report al capo del Dap Renoldi

Sulle visite in Sardegna dal 6 al 12 maggio di quest’anno, Rita Bernardini ha inviato un report di 11 pagine al Capo del Dap Carlo Renoldi: «Immagino che le talpe al Dap per conto del giornale di Travaglio l’abbiano avuta per mano ma – vedi un po’ – non si sono accorte che in quel resoconto denunciavamo che in Sardegna c’è una carenza molto allarmante di Direttori (solo tre per dieci istituti penitenziari), di comandanti della polizia penitenziaria (a scavalco in diversi istituti), di educatori». Rita Bernardini sottolinea che in quella relazione sono dettagliate le condizioni di vita di tutti i detenuti, una vita in carcere dove le attività (lavoro, scuola, sport, cultura) sono ridotte al lumicino e le giornate trascorrono in un disperato ozio. «Per non parlare del diritto alla salute negato in molti casi, compresi quelli psichiatrici che sono centinaia», aggiunge. Non solo.

Rita Bernardini rivela che, come “Nessuno Tocchi Caino”, quando hanno successivamente incontrato il capo del Dap Renoldi, egli ha fatto presente che non avrebbero dovuto “parlare” con i detenuti al 41bis, ma solo visitare le celle. «Personalmente – spiega l’esponente radicale – gli ho fatto presente che “verificare le condizioni di detenzione” (questo è infatti lo scopo delle delegazioni autorizzate ai sensi dell’art. 117 del regolamento di attuazione dell’OP) è impossibile senza ascoltare chi è detenuto». In effetti, ricorda che proprio nella visita di pasquetta del 2019 a Viterbo, un detenuto in carrozzella passava quel tempo di isolamento totale disegnando e le disse (poteva parlare) che non lo autorizzavano ad avere più di 10 colori. «Chiesi poi all’agente di sezione quale fosse il motivo di “sicurezza” legato a questa limitazione. La risposta fu che non c’era e che il detenuto avrebbe potuto avere i colori», chiosa Rita Bernardini.

Che abbiano parlato anche con Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina e stragista corleonese), è un dato di fatto. Ma era per verificare le condizioni di detenzione, ovviamente riportate dettagliatamente e in maniera riservata al Dap. “Nessuno Tocchi Caino”, d’altronde, lo fa da sempre. In perenne contatto con gli ergastolani e verificare le condizioni disumane e degradanti. Lo scandalo, casomai, è quello di chi strumentalizza sulla mafia corleonese completamente annientata 30 anni fa, per evitare qualsiasi miglioramento delle misure afflittive nate con l’emergenza e rese ordinarie nonostante la fine decennale di quell’epoca, appunto, emergenziale. Una mafia, che con la cattura di Riina, è poi “cambiata” scegliendo il metodo della “sommersione”. Ovvero proseguire con gli affari illeciti, senza far rumore.

La “scoperta” dei 5Stelle: anche i boss si iscrivono a “Nessuno Tocchi Caino”…

Il Movimento 5Stelle, pensando che sia un fatto inedito quello “rivelato” da Il Fatto, dice che chiederà al capo del Dap se risponde al vero che “Nessuno Tocchi Caino” abbia chiesto ai mafiosi di iscriversi. Non si comprende cosa ci sia di oscuro o inedito. I grillini possono leggere lo statuto dell’associazione che ha gli stessi principi di quello del Partito Radicale. Rita Bernardini spiega a Il Dubbio che il partito fondato da Pannella ha proprio questo come obiettivo: ricondurre soprattutto i criminali organizzati alla non violenza. Non è un mistero che ci sono iscritti che appartenevano a gruppi terroristi di destra e di sinistra. Così come non è un mistero che si iscrivono anche alcuni boss.

Marco Pannella fece già “scandalo” quando si recò al carcere di Palermo per dare la tessera del Partito Radicale a Michele Greco, il “ papa della mafia”. Bernardini ricorda a Il Dubbio il caso Giuseppe Piromalli che fece scandalo nel 1987. Parliamo dello spietato boss della ‘ndrangheta che da ergastolano si tesserò con i Radicali, ed era il periodo della campagna per il tesseramento finalizzato alla salvezza del Partito Radicale. Ecco cosa disse Marco Pannella in tal occasione: «Penso piuttosto che proprio Piromalli, non quello “trionfante” libero e potente, ma quello sconfitto e ormai inerme abbia voluto essere “anche” radicale, “anche” nonviolento, lasciare magari ai suoi nipoti, a chi comunque crede, ha creduto in lui, questo segnale. Sta di fatto che egli ha voluto concorrere a “salvare” il Partito Radicale. Se avesse avuto ancora da conquistare, contrattare, salvare “potere”, allora avrebbe avuto contatti con tutti, tranne che con noi. E dico proprio “tutti”».

Il caso del senatore Giovanardi. Interdittive antimafia, perché il gioco al massacro deve finire. Gian Domenico Caiazza Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

Le “interdittive antimafia” vanno annoverate tra quelle esclusività delle quali il nostro Paese ama fregiarsi, così compiendo ogni possibile sforzo per assomigliare sempre meno a un Paese civile. Di cosa si tratta? Sono provvedimenti amministrativi affidati alla discrezionalità dei Prefetti. Dunque, veri e propri strumenti polizieschi, con i quali un Prefetto è in grado letteralmente di espropriare, sterilizzare e quindi uccidere una azienda, sulla base del solo sospetto che essa possa essere “infiltrata dalla Mafia”. Essendo una misura di polizia, essa è dunque di natura “preventiva”, “anticipatoria”, “cautelare”; insomma, essa non presuppone un accertamento di responsabilità penale pronunciata da un giudice, e nemmeno un quadro di gravità indiziaria. La valutazione del Prefetto è legata al criterio cosiddetto della “probabilità cruciale”.

Quando leggete queste locuzioni incomprensibili, dovreste aver già capito di quale incivile, assurdità si stia parlando. Basta – dice la giurisprudenza amministrativa- che la infiltrazione mafiosa sia “più probabile che non”, per spalancare al Prefetto le porte di un potere immenso e devastante. Quella azienda, piccola o grande che sia, viene inibita da ogni possibile contratto con la Pubblica Amministrazione. Inoltre, viene esclusa dalla “white list” delle aziende immacolate, e dunque non potrà più partecipare a gare pubbliche, non potrà avere licenze o autorizzazioni amministrative di qualunque genere; eventuali contratti già stipulati sono risolti per recesso, autorizzazioni e concessioni sono revocate; e, dulcis in fundo, verrà automaticamente esclusa da ogni accesso al credito bancario. Insomma, l’azienda è morta. Volete un esempio di cosa significhi quel “più probabile che non”? Eccovelo: se l’azienda è posseduta da persone per bene, amministrata da persone per bene, ha sempre operato correttamente dal punto di vista fiscale, ma tra i suoi dipendenti annovera il nipote di un tizio accusato di essere un boss mafioso, ecco che l’infiltrazione mafiosa è “più probabile che non”.

Voi comprendete bene il risultato di questa aberrazione: interi settori della vita economica del Paese, soprattutto (ma ormai non solo) in territori ad alta intensità mafiosa, sono nelle mani dei Prefetti di Polizia, che esercitano un potere di vita o di morte sulle imprese in nome di sospetti di infiltrazione mafiosa “più probabili che non” . Il Consiglio di Stato (n.4483/2017), chiamato a dare un criterio possibilmente oggettivo di questa formuletta infame, ha precisato: “50% +1”; ora sì che siamo tranquilli.

Il provvedimento prefettizio è ricorribile davanti alla giustizia amministrativa, con il risultato che le conferme, in tutta Italia e poi in Consiglio di Stato, sono superiori al 90% dei ricorsi. Contro questa vergogna senza fine pochi osano battersi, a livello politico, perché in questo Paese se ti azzardi a sollevare anche solo obiezioni a qualunque cosa sia qualificata come “antimafia”, sei marchiato di infamia.

Ci ha provato il senatore Carlo Giovanardi, che si è molto dedicato al problema, raccogliendo le grida di dolore di tanti sventurati operatori economici catturati e strangolati dalla trappola del “più probabile che non”, e mal gliene incolse. Avendo ripetuto in una serie di iniziative pubbliche (conferenze stampa) le denunce già fatte oggetto delle sue iniziative parlamentari, si è trovato indagato e poi imputato di ogni nequizia: minacce volte a turbare le attività di un corpo Amministrativo (cioè il Prefetto di Modena ed il gruppo interforze istituito dal Ministro degli Interni) ed a “costringerli” a modificare la valutazione (“più probabile che non”) riferita a una sventurata azienda gestita da persone per bene; nonché oltraggio a Pubblico Ufficiale (sempre il Prefetto, immagino).

Giovanardi ha eccepito l’insindacabilità delle sue iniziative di parlamentare, ma pm e Tribunale non ne hanno voluto sapere. Quindi il Senato ha ribadito la insindacabilità, e il Tribunale di Modena, tetragono, ha sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Vediamo se almeno qualche brandello dell’art. 68 della Costituzione verrà fatto salvo dalla Consulta. Intanto, siete tutti avvisati. Se qualche persona a voi cara si è vista spazzare via dalla mattina alla sera la propria attività economica, la propria azienda, perché secondo il Prefetto il sospetto di infiltrazione mafiosa, essendo la cassiera del ristorante la cugina del figlio di don Ciccio Vattelapesca, è “più probabile che non”, guardatevi bene dal protestare pubblicamente contro una simile infamia. Se rischia di lasciarci le penne un parlamentare di lungo corso, diciamo che, per chiunque di noi, è almeno “più probabile che non”.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Le proposte di legge. Come combattere la mafia con il diritto. Pietro Cavallotti su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

La settimana prossima, in una conferenza all’Assemblea Regionale Siciliana, a partire dal libro di Nessuno tocchi Caino Quando prevenire è peggio che punire, presenteremo le proposte di legge per porre fine ai torti e ai tormenti dell’Antimafia. Ci arriverò preparato dopo aver letto con molta attenzione un articolo della professoressa Daniela Mainenti su Il Fatto quotidiano. Dopo averlo letto, ho dovuto rileggerlo con più attenzione perché non ci avevo capito niente. La professoressa ha cercato di rassicurarci sulla legittimità delle misure di prevenzione, spiegandoci che le loro origini non risalgono al periodo fascista. Ho tirato un sospiro di sollievo.

Ma il sospiro mi si è spezzato nel petto e il sollievo è durato poco perché, subito dopo, ha precisato che la confisca di prevenzione troverebbe il suo antecedente storico niente meno che nel diritto romano! Questo dovrebbe farci stare tranquilli perché ci permetterebbe di constatare “l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali”. Che vi fosse interesse a confiscare e a sopraffare gli inermi per sete di potere non lo metto in dubbio. Il problema è che talvolta nella storia millenaria dell’umanità non c’è stato il dovuto rispetto per i diritti umani inviolabili. Mi preoccupano molto le “analogie” con la confisca del diritto romano. C’è chi sostiene che lì la confisca aveva sostanzialmente natura di pena applicata a seguito di certi reati. E già all’epoca si prestava ad abusi perché i beni venivano incamerati dall’imperatore.

Lungi da me fare analogie con gli odierni amministratori giudiziari nelle cui mani finiscono le aziende confiscate, le quali costituiscono moderni uffici spesso di collocamento per amici, parenti o persone di fiducia dei giudici che le sequestrano. C’è poi da rabbrividire perché, oltre alla confisca, il diritto romano prevedeva la schiavitù, la pena di morte, la tratta di essere umani e la tortura. Vogliamo riportare in vita anche questi istituti? Noi siamo riusciti a fare peggio degli antichi romani: ci siamo spinti fino a concepire la confisca nei confronti di persone che non hanno commesso alcun reato: gli assolti, quelli che non sono stati mai rinviati a giudizio! Beccaria riteneva la confisca dei beni del condannato una vera e propria barbarie, in aperto contrasto con i principi dell’illuminismo giuridico. Oggi, invece, l’antimafia nostrana ci propone la confisca senza condanna come l’avanguardia del diritto. Qualcosa non torna.

Ma ritorniamo a noi. La proposta della senatrice Gabriella Giammanco cerca di riportare il sistema attuale delle misure di prevenzione al dettato originario della Rognoni-La Torre. La scelta è mettere al centro la persona con tutti i suoi valori, per rispettare i principi fondamentali della civiltà giuridica: giusto processo, principio di legalità, presunzione d’innocenza. Poi ancora il “chi sbaglia paga”, mentre chi viene rovinato ingiustamente dallo Stato deve essere risarcito. Insomma – mi rendo conto – cose di poco conto per chi è accecato dalla furia antimafiosa. Si tratta però di cose che, quando non sono rispettate, allontanano l’azione dello Stato dall’obiettivo sacrosanto di contrastare il crimine e distruggono la vita altrettanto sacra degli innocenti. In poche parole: sì alla confisca nei confronti dei mafiosi, no alla confisca nei confronti degli innocenti. Non si può citare Falcone per sabotare ogni tentativo di riforma liberale della legislazione antimafia. Soprattutto se ci si dimentica che, per Falcone, la cultura del sospetto non era l’anticamera della verità ma del komeinismo. Quella cultura del sospetto che permea di sé l’intero sistema delle misure di prevenzione.

Ci sono tanti interrogativi di diritto sostanziale e processuale ai quali io, da umile lavoratore, non riesco a dare risposta. Ancora più impegnative sono però le domande alle quali anche la professoressa Mainenti dovrebbe rispondere. È giusto che lo Stato faccia vivere nel terrore e nella disperazione chi non ha fatto niente? Lo chiedo, perché gli effetti delle misure di prevenzione sono proprio questi. E da qui si deve partire per giudicare e correggere un istituto giuridico. Non si può ragionare solo sulle finalità nobilissime che lo dovrebbero giustificare se, per come è strutturato, non è allineato con quelle finalità. Ci vuole tanta forza a sopportare che lo Stato, con leggi barbare, ti toglie il lavoro e lo dà in pasto in qualche caso a parenti di magistrati, avvocati, coadiutori, colletti bianchi senza scrupoli. Il tutto nel nome della “legalità”.

L’unica via d’uscita che lo Stato sembrerebbe indicare ai tanti innocenti finiti nel tritacarne della prevenzione è il suicidio. Ma forse neanche questo servirebbe perché la persecuzione continuerebbe, anche dopo la morte, con la confisca agli eredi dei beni dei morti, ma sempre per “prevenire” i reati del defunto, qualora dovesse risorgere! Noi abbiamo scelto la vita, la speranza di un cambiamento verso la giustizia giusta. E, con pazienza, cercheremo di portare avanti le nostre idee, per convincere chi, come la professoressa Mainenti, ha un’opinione diversa. Pietro Cavallotti

I beni confiscati alle mafie? La metà degli immobili non sono ancora utilizzati. Alessandra Coppola su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2022.

L’allarme del Terzo settore. Critiche sul bando dell’Agenzia per la Coesione: assegnazioni riservate agli enti pubblici e i fondi vanno a finanziare solo ristrutturazioni. Risposta? «Gli Ets possono co-progettare». Borgomeo: «Non è vero, restiamo residuali». 

La lezione di Rosarno. Quattro alloggi rimessi a nuovo con fondi europei in una palazzina sottratta alla ‘ndrina dei Pesce, più 16 moduli abitativi edificati su un terreno confiscato: abbandonati, vandalizzati, occupati abusivamente. Il caso del «residence Lamezia», ancora nella Piana, 90 camere ristrutturate e addirittura arredate grazie a un Piano operativo nazionale (Pon) Sicurezza: ancora vuote. Nella migliore delle ipotesi, l’esempio di Noha di Galatina: un recupero con soldi pubblici nel 2009, per arrivare all’assegnazione solo nel 2018. 

La via del riutilizzo dei beni confiscati alle mafie è costellata di buone intenzioni, che non sempre vanno a segno. Ecco perché il presidente della Fondazione con il Sud, Carlo Borgomeo, con Buone Notizie parla di «grande occasione mancata». Si riferisce al recente bando dell’Agenzia per la coesione territoriale che - nel quadro del Pnrr - destina 250 milioni di euro agli enti territoriali del Mezzogiorno per la valorizzazione degli immobili sottratti alla criminalità. 

Due errori strutturali, segnala Borgomeo. Il primo è nel lungo elenco di cui Rosarno, Lamezia e Galatina sono solo flash: «Si sottovaluta l’esperienza negativa dei Pon Sicurezza in base ai quali i Comuni finanziavano progetti di ristrutturazione, e poi? In un territorio dominato dalle mafie, l’effetto psicologico di un bene recuperato dallo Stato, con dispendio di risorse pubbliche, ma inutilizzato, è devastante». Al rischio di spreco si aggiunge un pericoloso assist alla propaganda mafiosa.

Fondazione Con il Sud

Il secondo punto è quello che ha portato tutto il Terzo settore a protestare, da Libera, all’Arci alle associazioni che da anni hanno esperienza nella gestione (complicata) dei beni confiscati: «Siamo stati esclusi dal bando», sottolinea Borgomeo, benché sia espressamente indicata nel Pnrr la possibilità «di avvalersi della co-progettazione del Terzo settore». A Buone Notizie il direttore dell’Agenzia per la coesione territoriale, Paolo Esposito, chiarisce: «Il bando sostiene di fatto la partecipazione degli enti del Terzo settore sin dalla fase di programmazione dell’intervento. Infatti è attribuito un punteggio specifico e puntuale alle proposte dei Comuni che presentino il progetto in collaborazione con il partenariato istituzionale, economico e sociale e le organizzazioni del territorio». 

L’Agenzia ha prorogato il bando fino al 28 febbraio e ha risposto alle critiche con un lungo elenco di Faq (domande e risposte). Il ministero per il Sud è intervenuto a fornire ulteriori spiegazioni, sottolineando la necessita di coinvolgere le associazioni e indicando una preferenza per «progetti destinati a creare centri antiviolenza per donne e bambini o case rifugio, oppure asili nido o micronidi». Infine, lo stesso direttore Esposito ha diffuso poco prima di Natale una nota in cui spiegava che la ragione per cui l’Avviso è stato riservato alle amministrazioni pubbliche sta soprattutto nella necessità di «una tempistica coerente con il Pnrr». Il coinvolgimento di privati, insomma, avrebbe aperto una serie di lungaggini burocratiche. 

Il presidente di Fondazione con il Sud la considera «un’argomentazione debole: significa che bisogna comunque spendere quei soldi?». Quanto al punteggio per i Comuni che rispondono al bando coinvolgendo il Terzo settore, Borgomeo indica un limite sostanziale: i fondi non possono essere usati che per la ristrutturazione. Mentre serve che stiano in piedi non solo le mura, ma anche l’associazione che le abita: una quota dei fondi andrebbe destinata alla «start up», all’avvio del progetto di valorizzazione. Si ponga per esempio il caso di un Comune che voglia ospitare in un appartamento ex mafioso un Centro contro la violenza sulle donne: questo bando aiuta a mettere in piedi la struttura, ma - si chiede Borgomeo - con quali soldi si attiva poi il centro? Una proposta, già sostenuta in passato, è stanziare, accanto ai finanziamenti per la ristrutturazione, una quota del Fondo unico della Giustizia (dove confluiscono gli euro confiscati ai mafiosi) da spendere esattamente per sostenere il progetto all’interno del bene, pagare i primi stipendi, dare il via al riutilizzo immaginato ai tempi della legge 109 del ‘96. 

Ventisei anni dopo l’Agenzia nazionale per i beni confiscati conta 35mila immobili di cui almeno 17 mila ancora da destinare. Più quattromila aziende che, per una lunga serie di ragioni, quando perdono la proprietà mafiosa si ritrovano senza più la capacità (dopata) di stare sul mercato. Nel caso degli immobili, l’esperienza ha insegnato che non sono sempre in condizioni, o in posizioni, che li rendono di facile riutilizzo. Il dibattito su come valorizzarli al meglio è aperto. Intanto si procede sperimentando. L’Agenzia ha tentato per la prima volta nel 2020 l’assegnazione diretta (senza la mediazione degli enti territoriali) di mille unità immobiliari, invitando il Terzo settore: sono stati solo 160 i progetti presentati. Una gara molto complicata, spiegano dalle associazioni.

Ragionare in sinergia

«Si tratta di una buona prima esperienza - valuta l’avvocato antimafia Ilaria Ramoni, amministratore giudiziario di beni confiscati - che però a mio avviso mette in luce la necessità delle piccole realtà associative di essere supportate non solo nell’effettivo riutilizzo del bene, ma anche nella fase di partecipazione al bando. In quest’ottica, si può anche comprendere che l’avviso dell’Agenzia per la coesione destini i fondi agli enti locali, fermo restando che sarebbe necessario ascoltare le realtà presenti sul territorio e ragionare in un’ottica di sinergia». 

Si torna alla via indicata dalla nota del «Gruppo di lavoro permanente sui beni confiscati» creato da Fondazione con il Sud assieme ad Arci e Forum del Terzo Settore, riassunta nella parola «co-progettazione». «Non è - scrive il Gruppo - una mera rivendicazione di spazi e di ruoli da parte del Terzo settore. Essa vuol dire, in concreto, tenere insieme gli interventi di ristrutturazione con quelli di gestione». Quel che sembra emergere da questo bando, concludono, è ancora una volta «una cultura politica che vede il Terzo settore non come un attore di sviluppo ma come un soggetto “residuale” nel quale far convergere due debolezze: le incapacità del pubblico e le non convenienze del privato».

Questo istituto va riformato con urgenza. Interdittive: norma da cambiare e una sentenza lo dimostra. Giovanni Francesco Fidone su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Il recente intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 28/01/2022 ha aperto un importante dibattito sul tema delle interdittive antimafia, affrontando la questione della legittimazione di amministratori e soci di una persona giuridica a impugnare le misure prefettizie, ponendo una pietra tombale sulla vexata quaestio.

La vicenda nasce, infatti, da un dibattito giurisprudenziale che ha visto, nel corso degli anni, contrapporsi due orientamenti.

Da una parte, un primo orientamento “rigorista” ha ritenuto che soltanto l’impresa destinataria del decreto prefettizio abbia legittimazione attiva a impugnare un’interdittiva antimafia. Dall’altra parte, un secondo orientamento ha invece riconosciuto un interesse morale che si traduce nella legittimazione attiva al ricorso anche da parte di ex amministratori o parenti menzionati nel provvedimento come soggetti che, in qualche modo, hanno determinato l’emissione della misura antimafia. Oggi l’Adunanza Plenaria scioglie il nodo interpretativo aderendo alla tesi più severa: «Gli amministratori ed i soci di una persona giuridica destinataria di interdittiva antimafia non sono titolari di legittimazione attiva all’impugnazione di tale provvedimento».

Il ragionamento di Palazzo Spada è molto semplice: il provvedimento prefettizio può essere impugnato solo ed esclusivamente dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti e, quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subirebbe la lesione immediata e diretta alla propria posizione giuridica soggettiva. Senza voler muovere alcuna critica alla sentenza che rappresenta, peraltro, la lettura più aderente al dato normativo della fattispecie, le conseguenze applicative di un simile orientamento meritano molto più di una riflessione. Solo chi non ha mai avuto a che fare con un’interdittiva, può pensare che l’istituto in alcuni casi non travolga, come la peste bubbonica, non soltanto l’impresa ma anche le vite di amministratori, soci, parenti e talvolta anche amici (si, è proprio così), con un meccanismo a cascata degno, per usare le parole di una celebre sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, di un “regime di polizia”.

E allora, siano sufficienti due esempi, fra tutti, per comprendere la portata storica della pronunzia. È fatto notorio che, molto spesso, alla misura interdittiva segua il commissariamento dell’impresa: in questo caso, considerato che un commissario non avrebbe alcun interesse a impugnare un’interdittiva, il provvedimento diventerebbe definitivo e l’ex amministratore colpito, o anche i soci o parenti menzionati nell’atto prefettizio, sarebbero costretti a subire gli effetti devastanti dell’atto senza poter reagire in alcun modo, come un marchio a fuoco indelebile. In buona sostanza, una Pubblica Amministrazione può “demolire” un’impresa e, conseguentemente, diverse vite umane con un provvedimento che risulterà del tutto insindacabile in sede giurisdizionale. E nessuno mai potrà dirci se quel provvedimento fosse, o meno, illegittimo o se fosse giusto o sbagliato.

Ma valga anche un altro esempio. Capita spesso che, in attesa della decisione giudiziale, le imprese colpite da interdittiva, costrette alla paralisi totale, falliscano. Non è chiaro quali siano gli effetti della portata dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sulle domande risarcitorie, ma non sembra potersi escludere che, in questo caso, l’amministratore o i soci dell’azienda fallita non potranno neppure agire per il ristoro degli incommensurabili danni patiti. Il cortocircuito che ne deriva è pericolosissimo e pone a rischio le fondamenta del nostro Stato di Diritto.

E allora, la coerente interpretazione fornita da Palazzo Spada non fa altro che dimostrare che il problema sta proprio nella normativa: se le interdittive hanno assunto i contorni delineati dal Consiglio di Stato, è perché l’istituto lo consente. La conclusione, a questo punto, non può che essere una e una soltanto: diviene impellente, oggi più che mai, una proposta di riforma dell’istituto, che elimini simili inaccettabili storture e che trasformi l’istituto da potenziale strumento di “inquisizione medievale” ad autentico presidio di legalità.

Giovanni Francesco Fidone

Quasi 2000 "interdittive anti-mafia" in 4 anni: così lo Stato combatte l'infiltrazione nell'economia italiana. Imprese deboli e fondi pubblici obiettivi principali della criminalità organizzata. De Raho: "La modernizzazione delle mafie si completa investendo in aziende che non hanno accesso al credito bancario per la crisi. Le mafie non hanno bisogno di firmare atti, non hanno bisogno di documenti; al contrario occultano comportamenti illeciti con lo schermo di soggetti solo apparentemente sani, entrano così nel mercato dell’economia legale". Nel mirino anche il Pnrr. Giulio Marotta su La Repubblica il 15 Gennaio 2022.

Le ingenti risorse economiche che derivano dalle attività illecite (narcotraffico, traffico d’armi, estorsioni, gioco d’azzardo e scommesse, contrabbando) vengono riciclate dalle organizzazioni criminali nell’economia legale, anche attraverso un’attività di infiltrazione nelle imprese in difficoltà finanziaria. Per contrastare la presenza mafiosa nell’economia è essenziale il lavoro di intelligence degli apparati dello Stato per realizzare un'attività costante di prevenzione.

Imprenditore assolto dalle accuse di mafia, la Procura gli sequestra due società. Il Quotidiano del Sud il 26 Gennaio 2022.

La Direzione Investigativa Antimafia, su disposizione del Tribunale di Reggio Calabria, ha eseguito questa mattina un ulteriore provvedimento di sequestro di due società, con sede in Genova, nella disponibilità di un noto imprenditore calabrese.

Quest’ultimo, fu arrestato nel luglio del 2016 nell’ambito di una importante operazione antimafia a conclusione delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria -Direzione Distrettuale Antimafia- in quanto gravemente indiziato del reato di associazione di tipo mafioso, quale partecipe di una pericolosa cosca ‘ndranghetista delocalizzata nel territorio ligure.

Il Tribunale di Palmi il 18 luglio del 2020 aveva assolto l’uomo da questa accusa a lui ascritta per non aver commesso il fatto. Il Tribunale di Reggio Calabria, tuttavia, su proposta della Procura reggina e a seguito delle approfondite indagini patrimoniali effettuate dalla Direzione Investigativa Antimafia ha comunque emesso il provvedimento di sequestro ritenendo il soggetto caratterizzato da una pericolosità sociale qualificata.

Al sequestro effettuato nel mese di novembre nei confronti dello stesso imprenditore (4 società operanti nel settore edile ed immobiliare, 21 fabbricati e 13 terreni siti in Genova e provincia, Cittanova (RC), Bardi (Pr) e Bardineto (Sv), conti correnti e posizioni finanziarie per un valore stimato di oltre 2 milioni di euro) vanno ad aggiungersi l’intero capitale sociale e patrimonio aziendale di ulteriori 2 aziende, una attiva nella gestione di partecipazioni societarie e l’altra nella somministrazione di bevande ed alimenti del valore di oltre 100.000 euro.

Sette aziende confiscate su 10 si trovano al Sud. Se utilizzate aiuterebbero economia e lavoro. In Sicilia si ravvisa la presenza di quasi un terzo di quelle sottratte alla criminalità (30,6%), mentre la Campania ne raccoglie il 18,8%, la Calabria il 12%, la Puglia il 6,2%. MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 25 novembre 2021.

Se utilizzate potrebbero aiutare l’occupazione e l’economia del Mezzogiorno. In Italia, infatti, ci sono oltre 2.700 aziende confiscate, 7 su 10 si trovano al Sud, che attendono di essere restituite alla società civile. Se questo avvenisse, la loro attività produttiva potrebbe cresce di quasi il 300%, l’occupazione del 5-10%, e ulteriori benefici a livello territoriale e lungo la filiera produttiva si otterrebbero dalla riattivazione del circuito economico di forniture. 

A mostrarlo è una stima di Unioncamere, in collaborazione con il Centro studi Tagliacarne, sulla base dei dati presenti sul portale Open Data aziende confiscate (aziendeconfiscate.camcom.gov.it). Il portale è uno strumento completo e dettagliato su queste realtà sottratte alla criminalità, fortemente concentrate nelle regioni meridionali (quasi il 70%), nelle costruzioni e nel commercio (circa la metà) ma che operano anche settori di interesse pubblico, come la Sanità (16 aziende) e la fornitura di energia e acqua (63).

Per restituire alla società civile queste imprese liberate dal giogo delle mafie, rilanciandone l’attività, occorre il lavoro di più soggetti, pubblici e privati, ed è indispensabile partire dalla conoscenza di questo patrimonio oggi chiaramente sottostimato. A questo è diretto il progetto “Open Knowledge” – Animazione e formazione per creare valore sociale, economico e civico per il territorio attraverso la conoscenza e l’utilizzo degli open data sulle aziende confiscate, ammesso a finanziamento nel quadro del Pon Legalità 2014-2020. 

L’iniziativa verrà realizzata da Unioncamere, dalle agenzie del sistema camerale (Centro studi Tagliacarne e Sicamera) e da 22 Camere di commercio di Calabria, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia.

“Grazie al collegamento tra le banche dati dell’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati ed il Registro delle imprese delle Camere di commercio, siamo in grado di avere una mappatura dettagliata delle imprese sottratte alla criminalità e delle loro caratteristiche”, sottolinea il presidente di Unioncamere, Andrea Prete. “Le tecnologie, la condivisione delle informazioni e la collaborazione tra istituzioni e società civile possono contribuire a restituire alla società e al mercato queste attività, favorendo trasparenza, partecipazione e controllo sociale”.

Il progetto si inserisce nel percorso di miglioramento delle competenze della Pubblica Amministrazione nel contrasto alla criminalità organizzata, mediante l’utilizzo delle tecnologie digitali e l’informazione open da esse veicolate. Informazione necessaria per la formulazione di schemi interpretativi sui fenomeni illegali e schemi predittivi sui fattori che consentono un efficace reinserimento e valorizzazione delle aziende confiscate nell’economia legale.

Mediante attività di sensibilizzazione e approfondimento, il progetto OK – Open Knowledge risponde all’esigenza di maggiore e più capillare conoscenza delle informazioni e dei dati disponibili su quella importante variabile fenomenologica attraverso la quale leggere il livello di infiltrazione mafiosa nell’economia rappresentata dalle aziende confiscate. Dati che ora, grazie all’interconnessione tra le banche dati dell’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati e quelli delle Camere di commercio consentono di aprire una visuale anche sulle caratteristiche delle aziende.

Il progetto intende inoltre rendere ‘utili’ e ‘utilizzabili’ i dati una volta che essi sono stati fatti conoscere. Per raggiungere questo scopo saranno sviluppate azioni di animazione e formazione volte non solo all’illustrazione tecnica delle modalità di utilizzo dei dati e di navigazione del Portale “Open Data aziende confiscate”, ma anche finalizzati ad individuare e ad approfondire strumenti interpretativi di vario livello che consentano di comprendere appieno e utilizzare i dati per le attività di controllo, monitoraggio o valorizzazione delle aziende confiscate.

LE AZIENDE CONFISCATE

Il 47% delle aziende, secondo i dati forniti dall’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, sono attive. Un’impresa su due non ha chiuso e continua a lavorare, gestita dall’Agenzia o destinata ad altri operatori.

A novembre si contano 2.757 imprese in confisca definitiva. Le costruzioni sono il settore più rappresentato tra le aziende confiscate (22,9%), seguite dal commercio (23,4%) e dagli esercizi ricettivi e ristorazione al 9,3%; le attività immobiliari si attestano al 7,5%, le manifatturiere al 6,7%, il trasporto e magazzinaggio al 5,3% e l’agricoltura al 4,5%. Questi settori raccolgono l’80% delle imprese confiscate. Tutti i settori sono comunque rappresentati inclusi non pochi casi di aziende operanti in settori strategici di interesse pubblico, ovvero nel campo della sanità e assistenza sociale (0,6%) e delle infrastrutture (distribuzione di acqua e reti fognarie, rifiuti: 1,1%; produzione e distribuzione di energia elettrica: 1,2%).

A livello territoriale, quasi il 70% delle aziende confiscate è localizzato nelle cinque regioni del Mezzogiorno interessate dal progetto “Open Knowledge”. In Sicilia si ravvisa la presenza di quasi un terzo delle aziende confiscate (30,6%), mentre la Campania ne raccoglie il 18,8%, la Calabria il 12%, la Puglia il 6,2%. La forma giuridica maggiormente utilizzata dalle imprese confiscate è quella di società di capitale (63%),  mentre le imprese individuali sono il 22% e le società di persone il 15,1%.  Quello delle confische è comunque una faccenda che riguarda anche il Nord. Le mafie colpiscono anche le regioni settentrionali, dove si può parlare di infiltrazioni che ormai sono diventate vere e proprie radici. Basti pensare che nella sola Lombardia sono state confiscate quasi duecento aziende.

(ANSA il 20 luglio 2022) – La Corte d'Appello di Caltanissetta ha condannato a 8 anni e 10 mesi l'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, imputata di corruzione, concussione e abuso d'ufficio. 

La giudice, che nel corso del processo è stata radiata dalla magistratura, era accusata di aver gestito illecitamente le nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati e confiscati alla mafia scegliendo solo professionisti a lei fedelissimi. In cambio avrebbe ricevuto da loro favori e regali. In primo grado aveva avuto 8 anni e 6 mesi.

La sentenza conferma sostanzialmente con lievi modifiche quella di primo grado. Nel processo erano imputati a vario titolo anche personaggi ritenuti appartenenti al "cerchio magico" dell'ex presidente. 

Tra loro l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, considerato il "re" degli amministratori giudiziari, che è stato condannato a 7 anni e 7 mesi; il marito dell'ex giudice, l'ingegnere Lorenzo Caramma, condannato, come in primo grado, a 6 anni e due mesi, il figlio di Silvana Saguto, Emanuele Caramma, condannato a 4 mesi. Confermata la pena di 3 anni per l'ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo e per il professore della Kore di Enna ed ex amministratore giudiziario Carmelo Provenzano, che in primo grado aveva avuto 6 anni e 10 mesi. 

Condannati anche a un anno e 4 mesi Walter Virga, figlio del giudice Tommaso Virga, processato separatamente e assolto col rito abbreviato, messo alla guida, questa la tesi dei pm, dell'impero sequestrato agli imprenditori Rappa, senza avere alcuna esperienza.

A 4 anni e 2 mesi è stato condannato l'amministratore giudiziario Roberto Santangelo, a 2 e 8 mesi il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca, a un anno e dieci mesi il preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna Roberto Di Maria. Condanne a 2 anni e 8 mesi per Maria Ingrao, la moglie di Provenzano e Calogera Manta, la cognata.

Caso Saguto, l’ex giudice condannata a 8 anni e 10 mesi in appello. Condannato anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il re degli amministratori giudiziari che avrebbe ricevuto diversi incarichi da Silvana Saguto. Il pg di Caltanissetta: «Confermato impianto accusatorio». Simona Musco su Il Dubbio il 21 luglio 2022.

Il “Sistema Saguto” esiste. A confermarlo è stata la Corte d’Appello di Caltanissetta, che ha riformato parzialmente in appello la condanna inflitta in primo grado all’ex giudice della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, condannata a 8 anni e 10 mesi e 15 giorni di reclusione (quattro mesi in più rispetto al primo grado), con l’accusa di avere gestito in modo clientelare e illegale i beni sequestrati e confiscati alla mafia.

La sentenza è arrivata dopo tre ore di camera di consiglio del collegio presieduto dal giudice Marco Sabella, al quale la procura generale aveva chiesto una condanna a 10 anni per l’ex toga. Un lungo dispositivo, quello letto dal presidente, che ha di fatto confermato la sentenza di primo grado, che aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere, escluso il «depotenziamento di alcuni reati satellitari», ha commentato dopo la sentenza il procuratore generale Antonino Patti.

Confermata, invece, l’accusa di corruzione: l’ex giudice avrebbe intascato una mazzetta da 20 mila, consegnata dall’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, condannato a 7 anni e 7 mesi (un mese in più rispetto al primo grado) e considerato il re degli amministratori giudiziari, che dalla Saguto avrebbe ricevuto diversi incarichi. Confermati i 6 anni e 2 mesi inflitti in primo grado a Lorenzo Caramma, marito della giudice, mentre si riduce a quattro mesi (sei nel primo processo) la condanna inflitta al figlio Emanuele Caramma. Confermate le condanne per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo (3 anni) e per l’ex professore dell’Università Kore di Enna Carmelo Provenzano (sei anni e 10 mesi). Condannati anche Rosolino Nasca, direttore della Dia di Palermo (2 anni e 8 mesi), l’amministratore giudiziario Roberto Santangelo (4 anni e due mesi), Walter Virga (un anno e 4 mesi), Maria Ingrao e Calogera Manta (2 anni e 8 mesi). Un anno e dieci mesi di reclusione per il preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna Roberto Di Maria e 2 anni e 8 mesi il tenente colonnello della Guardia di finanza, Rosolino Nasca, ex direttore della Dia di Palermo.

Disposta anche una estensione delle confische: per Saguto e Seminara, ammontano, rispettivamente, a 661.272 euro e 650.172 euro. Risarcimenti anche per il ministero della Giustizia a carico di Seminara e Caramma, per complessivi 48.300 euro a testa; e per 7.850 euro a Saguto.Secondo l’accusa, per anni l’ufficio della sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo è stato trasformato in un ufficio di collocamento, con un comportamento «predatorio» da parte degli amministratori giudiziari, recando «un danno irreparabile e incalcolabile all’immagine dell’amministrazione della giustizia». Le nomine degli amministratori giudiziari dei patrimoni sequestrati e confiscati a Cosa nostra avvenivano dunque in modo clientelare, in cambio di favori e regali.

Per anni, però, Saguto è stata considera un’icona antimafia: finita nel mirino dei clan di Gela per i sequestri antimafia, alla fine si sarebbe rivelata al vertice di quello che per l’accusa era un «sistema corruttivo permanente». Ed è proprio da Gela che è partita l’inchiesta che ha scoperchiato tale sistema, grazie ad una intercettazione tra il dipendente di una concessionaria d’auto di Gela e un finanziere. Il terremoto giudiziario scoppiò nel settembre del 2015 e portò alla radiazione dell’ex icona antimafia. A commentare la sentenza è Pietro Cavallotti, una delle “vittime” del sistema Saguto: la sua famiglia è stata accusata di mafia e si è vista portare via tutto, imprese e abitazioni. Sequestri che, dopo otto anni, si sono rivelati illegittimi. Ma troppo tardi: le aziende sono ormai ridotte in polvere.

«Vale la presunzione d’innocenza fino al terzo grado giudizio anche per lei – ha commentato Cavallotti -. Lei che ha tolto il patrimonio a persone che, diversamente da lei, sono state assolte con sentenza definitiva. Non c’è alcuna soddisfazione. Non si gioisce mai quando per qualcuno si cominciano a spalancare le porte del carcere, anche se quel qualcuno ha distrutto molte vite. Il processo Saguto è servito a salvare le apparenze, come se togliere di mezzo la Saguto (lo ricordo: considerata da tutti la punta di diamante del sistema delle misure di prevenzione) significasse avere risolto un problema che invece è generale e che va oltre gli episodi di miserabile corruzione dei quali la Saguto è accusata. Rimangono sulla carne viva delle persone i danni causati dalla Saguto e da tutti i suoi colleghi che hanno sequestrato interi patrimoni sulla base del nulla. Colleghi che, nel rispetto della legge, hanno liquidato compensi, attribuito incarichi facendo diventare ricchissimi amministratori giudiziari nominati per raccomandazione. Ma, soprattutto, rimane in piedi un sistema di regime – ha aggiunto -, illiberale che mette a repentaglio la libertà di tanti innocenti. Il caso Saguto, erroneamente definito tale dai media, non è servito a niente. Sarebbe stato doveroso parlare del cancro del sistema normativo delle misure di prevenzione. Per me la soluzione non è la giustizia penale nei tribunali. Non mi piace la giustizia penale. La soluzione è la riforma della legge in Parlamento. Bisogna intervenire per evitare altri disastri, per mettere un freno all’arbitrio dei magistrati. Per ridare agli innocenti ciò che i giudici gli hanno tolto. Questa sarebbe la vera giustizia. Il carcere della Saguto non serve a niente. Non serve a lei e non serve alla collettività».

Sceglieva suoi fedelissimi in cambio di favori e regali. La Corte d’Appello conferma il “sistema Saguto”, 8 anni e 10 mesi all’ex giudice ‘regina’ dei beni confiscati alla mafia. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Anche la Corte d’Appello di Caltanissetta conferma l’esistenza del cosiddetto ‘Sistema Saguto’. L’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, imputata di corruzione, concussione e abuso d’ufficio, è stata condannata a 8 anni e 10 mesi, aumentando di quattro mesi la pena inflitta al giudice in primo grado. Il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti aveva chiesto per la Saguto 10 anni di carcere.

Già radiata dalla magistratura, Saguto era sostanzialmente accusata di aver gestito illecitamente le nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati e confiscati alla mafia scegliendo solo professionisti a lei fedelissimi. In cambio avrebbe avuto da quest’ultimi regali e favori di vario tipo.

A processo con l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo c’erano anche le persone ritenute dalla Procura di Caltanissetta come appartenenti al “cerchio magico” della Saguto. Tra questi, ricorda l’Ansa ‘snocciolando le condanne inflitte in secondo grado, l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, considerato il “re” degli amministratori giudiziari, che è stato condannato a 7 anni e 7 mesi; il marito dell’ex giudice, l’ingegnere Lorenzo Caramma, condannato, come in primo grado, a 6 anni e due mesi, il figlio di Silvana Saguto, Emanuele Caramma, condannato a 4 mesi. Confermata la pena di 3 anni per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo e per il professore della Kore di Enna ed ex amministratore giudiziario Carmelo Provenzano, che in primo grado aveva avuto 6 anni e 10 mesi. Condannati anche a un anno e 4 mesi Walter Virga, figlio del giudice Tommaso Virga, processato separatamente e assolto col rito abbreviato, messo alla guida, questa la tesi dei pm, dell’impero sequestrato agli imprenditori Rappa, senza avere alcuna esperienza. A 4 anni e 2 mesi è stato condannato l’amministratore giudiziario Roberto Santangelo, a 2 e 8 mesi il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca, a un anno e dieci mesi il preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna Roberto Di Maria. Condanne a 2 anni e 8 mesi per Maria Ingrao, la moglie di Provenzano e Calogera Manta, la cognata.

Saguto dovrà inoltre risarcire il ministero della Giustizia, costituito parte civile, con7mila e 850 euro, mentre il marito della Saguto, Lorenzo Caramma, dovrà versarne 48mila e 300 euro.

Soddisfatto il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti dopo la lettura della sentenza: “In linea di massima l’impianto accusatorio è stato mantenuto tranne il depotenziamento di alcuni reati satellitari, secondari rispetto ai fatti principali. Quindi da questo punto di vista, a caldo, ci pare una sentenza per noi favorevole. Bisognerà leggere con attenzione il dispositivo perché è molto lungo e molto dettagliato”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Il caso dell’ex presidente della sezione misure di prevenzione. Perché Silvana Saguto è stata condannata, quali sono le accuse all’ex giudice. Angela Stella su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

La Corte d’Appello di Caltanissetta ha condannato a 8 anni e 10 mesi l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, imputata di corruzione, concussione e abuso d’ufficio. La giudice, che nel corso del processo è stata anche radiata dalla magistratura, era accusata di aver gestito illecitamente le nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati e confiscati alla mafia, scegliendo solo professionisti a lei fedelissimi. In cambio avrebbe ricevuto da loro denaro, favori e regali.

In primo grado aveva avuto 8 anni e 6 mesi. “Eravamo in tre a decidere, non ero sola”, aveva detto nell’aula bunker del carcere di Caltanissetta nel processo di primo grado. Il colpo di scena era arrivato quando dalla borsa aveva tirato fuori un’agendina blu iniziando a fare nomi e cognomi di coloro che le avrebbero segnalato nomine per le amministrazioni giudiziarie. “Ho ritrovato per caso – aveva affermato – l’agenda in cui mettevo i biglietti che ricevevo ogni giorno. Mi venivano segnalati gli amministratori giudiziari da nominare. Anche da parte di colleghi magistrati e avvocati. In questa agenda ci sono tutti. Perché tutti mi facevano segnalazioni. Io chiedevo solo che fossero persone qualificate”. Aveva anche sottolineato che grazie alla sua gestione i sequestri “sono aumentati del 400 per cento”.

La procura generale di Caltanissetta aveva chiesto alla Corte di condannare l’ex giudice a 10 anni di reclusione. La Corte ha imposto pure all’imputata di risarcire con 7mila 850 euro il ministero della Giustizia, costituito parte civile. Nel processo erano imputati a vario titolo anche personaggi ritenuti appartenenti al “cerchio magico” dell’ex presidente. Tra loro l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, considerato il “re” degli amministratori giudiziari, che è stato condannato a 7 anni e 7 mesi; il marito dell’ex giudice, l’ingegnere Lorenzo Caramma, condannato, come in primo grado, a 6 anni e due mesi, il figlio di Silvana Saguto, Emanuele Caramma, condannato a 4 mesi. Confermata la pena di 3 anni per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo e per il professore della Kore di Enna ed ex amministratore giudiziario Carmelo Provenzano, che in primo grado aveva avuto 6 anni e 10 mesi.

Il dispositivo della sentenza è stato letto dal presidente della Corte d’appello di Caltanissetta, Marco Sabella, dopo quattro ore di camera di consiglio. “Bisognerà leggere con attenzione le motivazioni. Il dispositivo è molto lungo e dettagliato. La sentenza conferma l’impianto che era già stato ritenuto dal giudice di primo grado”. Con queste parole il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti ha commentato la sentenza. “Non parlerei né di successi né di insuccessi – ha detto – In linea di massima l’impianto accusatorio è stato mantenuto, tranne il depotenziamento di alcuni reati satellitari secondari rispetto ai fatti principali. A caldo ci pare una sentenza favorevole, per noi soddisfattiva rispetto a quelle che erano le nostre aspettative”.

All’inizio della sua requisitoria, nel processo d’appello iniziato il 18 novembre dello scorso anno, nei confronti di 12 imputati, l’ex procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava, oggi Pg a Palermo, aveva sottolineato che “questo non è un processo all’antimafia. Vi assicuro che abbiamo maneggiato con cura il materiale probatorio. È stato un processo doloroso, molto doloroso anche per noi, non solo per gli imputati. Un dolore lancinante, un coltello senza manico. Ci siamo feriti anche noi. Niente suggestioni esterne. La genesi del processo non è nata dal servizio delle Iene o da un sollecito massmediatico, perché già indagavamo su questa vicenda. Non vi è stato nessun input giornalistico”. Angela Stella

Silvana Saguto, la zarina di Palermo precipita per sempre in un pozzo nero. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 20 luglio 2022

Finisce per sempre, almeno si spera, l'epoca d'oro dei beni confiscati alle mafie, patrimoni gestiti come un affare di famiglia dalla Saguto e da un ristrettissimo gruppo di amministratori giudiziari diventati ricchissimi in pochi anni.

Denaro che passava di mano in mano e di valigia in valigia, floride attività mandate in malora, una corte dei miracoli (parenti di magistrati, parenti di consulenti, parenti di commercialisti) che ne hanno abbondantemente approfittato senza che nessuno per molto tempo muovesse un dito.

L’inchiesta sulla Saguto parallela a quella su Montante. Indagini su mondi che si sentivano intoccabili grazie a complicità diffuse fra Palermo e Roma. 

DA UN’IDEA DI ATTILIO BOLZONI, CON L’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA.

La “zarina” di Palermo e il grande affare dei beni confiscati alle mafie. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 20 novembre 2021. 

Lo scandalo che ha travolto l'Antimafia siciliana, che ha scoperchiato una grande vergogna. La giudice Saguto, insieme ad avvocati, amministratori giudiziari, prefetti, consulenti, ufficiali della Guardia di Finanza, aveva messo su un'infernale macchina che divorava denaro e spolpava gli stessi beni sottratti ai boss

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari. 

Amministrava il più grande patrimonio da Roma in giù, era chiamata “la zarina di Palermo”. Ricchezze di mafia che passavano dalle sue mani, che venivano gestite come un affare di famiglia. Finita al centro di un'indagine, prima è stata radiata dalla magistratura e poi condannata a otto anni e mezzo di reclusione. È la storia di Silvana Saguto, presidente della speciale sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, quella che sequestra e confisca i beni di Cosa Nostra.

Uno scandalo che ha travolto l’Antimafia siciliana, che ha scoperchiato una grande vergogna. Perché la giudice Saguto, insieme ad avvocati, amministratori giudiziari, prefetti, consulenti, ufficiali della Guardia di Finanza, aveva messo su un’infernale macchina che divorava denaro e spolpava gli stessi beni sottratti ai boss.

Si legge nelle 1314 pagine delle motivazioni della sentenza che l’ha condannata: «Ciò che è emerso dalla pletora di fatti delittuosi contestati è il totale mercimonio della gestione dei beni sequestrati e l’approfittamento, a vari livelli, del ruolo istituzionale ricoperto, che ha portato alla commissione di una serie eterogenea di reati, posti in essere mediante una così grave distorsione - per tempi, modalità e protrazione delle condotte - delle funzioni giudiziarie da avere arrecato, oltre che danni patrimoniali ingentissimi all'erario e alle amministrazioni giudiziarie, anche un discredito gravissimo all'amministrazione della giustizia..».

L’inchiesta su Silvana Saguto è partita nel 2015 da Caltanissetta (procuratore aggiunto Gabriele Paci, sostituti procuratori Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti) e il processo di primo grado si è chiuso un anno fa. Da qualche giorno è cominciato quello d’Appello.

Le indagini hanno accertato scambi di favori e di soldi. Soprattutto tra Silvana Saguto e l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il “re” degli amministratori giudiziari. Il caso dei beni sequestrati alle mafie è stato sollevato per la prima volta dai servizi giornalistici di Pino Maniaci, il direttore di “Telejato” che ha condotto una vera e propria campagna contro il “metodo Saguto”.

Negli stessi mesi in cui denunciava le opacità della magistrata, il giornalista è stato accusato di tentata estorsione dai pubblici ministeri di Palermo, accusa dalla quale Maniaci è stato totalmente scagionato.

In questa serie del Blog Mafie ricostruiamo - attraverso ampi stralci degli atti del processo - quello che è stato definito «il lato oscuro dell'Antimafia». 

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto, i beni confiscati e “il lato oscuro dell’antimafia”. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 20 novembre 2021.

Il 14 maggio 2015 andava in onda il servizio televisivo "il lato oscuro dell'antimafia " de “Le Iene”, che segnalava una concentrazione di incarichi di amministratore giudiziario affidati all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara da parte della Sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta dalla dottoressa Silvana Saguto.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Il presente procedimento riguarda fatti di una certa complessità, verificatisi in un periodo temporale piuttosto esteso ed il cui accertamento ha richiesto una articolata istruttoria dibattimentale.

Prima di passare all'analisi, nel dettaglio, delle accuse che vengono mosse agli odierni inputati, pare opportuno ripercorrere l'incipit delle indagini, al fine di evidenziare gli elementi che hanno determinato gli inquirenti ad esercitare l'azione penale.

I testimoni sentiti nel corso dell'istruttoria dibattimentale, in particolare Gioacchino Natoli, Salvatore Di Vitale e Claudia Rosini, hanno consentito di ricostruire il contesto in cui è maturata l'indagine che ha condotto al presente processo.

Il 14 maggio 2015 andava in onda un servizio della trasmissione televisiva "Le Iene", intitolato "il lato oscuro dell'antimafia ", che descriveva il mondo delle misure di prevenzione disciplinato dal d.lgs. 159/2011, c.d. codice antimafia e, in particolare, segnalava una concentrazione di incarichi di amministratore giudiziario affidati all'Avv. Gaetano Cappellano Seminara da parte della Sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta dalla dott.ssa Silvana Saguto.

LA CAMPAGNA MEDIATICA 

La trasmissione televisiva, inoltre, indicava alcune circostanze sospette: l'esistenza di incarichi di coadiutore dell'amministratore giudiziario conferiti da Gaetano Cappellano Seminara a favore di Lorenzo Curamma, marito di Silvana Saguto, ed una situazione di conflitto di interessi di Gaetano Cappellano Seminara, proprietario di un hotel a Palermo e contestualmente amministratore giudiziario di un compendio aziendale comprendente anche un hotel della medesima città.

Gioacchino Natoli, insediatosi il 15 maggio 2015 quale nuovo presidente della Corte di Appello di Palermo, ha riferito che lo stesso giorno del suo insediamento era stato contattato dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione, che lo aveva informato del servizio giornalistico delle "Iene" del giorno precedente e gli aveva formalmente richiesto degli approfondimenti del caso, anche attraverso l'intervento del Presidente del Tribunale di Palermo.

Il Presidente del Tribunale di Palermo, dott. Salvatore Di Vitale, ricevuta la sollecitazione da parte del capo della Corte, aveva a sua volta richiesto notizie a Silvana Saguto, quale presidente della sezione delle Misure di Prevenzione, in merito ai fatti rappresentati dagli organi di stampa e concernenti l'affidamento degli incarichi di amministratore giudiziario.

Alla superiore richiesta i magistrati della Sezione delle Misure di Prevenzione di Palermo (Silvana Saguto, Fabio Licata, Lorenzo Chiaramonte e Claudia Rosini) avevano risposto con una nota, nella quale denunciavano l'esistenza, fin dal 2013, di una campagna stampa denigratoria avviata da Pino Maniaci, direttore della testata giornalistica Telejato, nell'ambito della quale veniva descritta una gestione superficiale ed illecita dei beni sottoposti a sequestro di prevenzione da parte di

pochi amministratori giudiziari con la compiacenza dei magistrati della sezione.

Il serrato attacco giornalistico di Pino Maniaci - secondo i giudici della sezione - aveva, in particolare, ad oggetto Gaetano Cappellano Seminara, indicato quale soggetto titolare di un numero spropositato di incarichi, che riceveva consistenti liquidazioni in cambio di favori alla presidente Saguto e ai suoi familiari.

I magistrati firmatari della nota dell’1 giugno 2015 prendendo atto della circostanza che la tesi di Pino Maniaci era stata ripresa anche dal programma “Le lene” del 14 maggio 2015 e dal giornale il “Fatto Quotidiano” del 31 maggio 2015 - rappresentavano al Presidente del Tribunale che, negli anni, il numero degli amministratori giudiziari coinvolti all'interno della sezione era cresciuto fino ad arrivare a 111 (rispetto a 302 amministrazioni giudiziarie in corso) e che veniva seguito nelle nomine il criterio della rotazione degli incarichi, temperato dalla necessità di affidare le procedure più complesse agli amministratori più attrezzati ed esperti.

GLI AMMINISTRATORI E GLI INCARICHI

Gli amministratori che avevano un maggior numero di incarichi erano: Alessandro Scirneca (13); Giuseppe Glorioso (10); Roberto Surdi (10); Antonino Galatolo (10); Andrea Aiello (9); Gaetano Cappellano Seminara (9); Luigi Turchio (8).

Il Presidente del Tribunale di Palermo trasmetteva la relazione dei magistrati della Sezione delle Misure di Prevenzione al Consiglio Superiore della Magistratura e chiedeva ulteriori notizie a

Silvana Saguto su quanto descritto dai giornalisti del Fatto Quotidiano (in particolare sulla misura di prevenzione denominata Buttitta, e sui rapporti professionali tra Gaetano Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma).

Silvana Saguto, con nota del 9 giugno 2015 rivolta al Presidente del Tribunale, chiariva che il marito Lorenzo Caramma non ricopriva alcuna carica nei procedimenti di prevenzione pendenti

nella sezione, ad eccezione della procedura Buttitta, che però era stata avviata nel 2007, periodo in cui ella era giudice componente dell'ufficio GIP.

Il 24 giugno 2015 il Presidente Di Vitale indirizzava una nota riservata a Silvana Saguto, invitandola a riflettere sulla prosecuzione dell'incarico del marito nella procedura Buttitta, gestita da Gaetano Cappellano Seminara.

Il 22 luglio 2015 Silvana Saguto scriveva al Presidente del Tribunale, comunicandogli che, a seguito della riorganizzazione della struttura delle cave gestite dall'amministrazione giudiziaria, era cessato l'incarico del marito all'interno della procedura Buttitta.

Nel corso del procedimento veniva escussa quale teste anche Claudia Rosini, magistrato all’epoca delle contestazioni in servizio presso la sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo.

Si tratta di una testimonianza particolarmente significativa, poiché proveniente da un giudice “interno” alla sezione coinvolta nell'indagine poi sfociata nel presente processo, ma non coinvolto personalmente nell'indagine.

A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LA ZARINA DI PALERMO. La Presidente delle misure di prevenzione e il suo cerchio magico. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 21 novembre 2021. 

Ecco la testimonianza del magistrato Claudia Rosini. Ha riferito che era stata in servizio presso la sezione delle Misure di Prevenzione dal maggio 2012 al 13 settembre 2015; a giugno aveva presentato domanda di trasferimento ad altra sezione, perché avvertiva un senso di disagio e di isolamento.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Le dichiarazioni di Claudia Rosini appaiono, quindi, in grado di descrivere efficacemente e, si ribadisce, dall’interno, il contesto venuto alla luce con le intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte nel presente procedimento.

Claudia Rosini ha riferito che: era stata in servizio presso la sezione delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo dal maggio 2012 al 13 settembre 2015; a giugno del 2015 aveva presentato domanda di trasferimento ad altra sezione, perché avvertiva un senso di disagio e di isolamento all'interno della sezione delle Misure di Prevenzione; con riferimento all'organizzazione interna della sezione, la testimone ha chiarito che non vi era un sistema automatico per l’assegnazione delle procedure ai magistrati o per la composizione dei collegi; nel tempo si era accorta che non veniva coinvolta nelle procedure di prevenzione più complesse, che venivano gestite dal collegio composto da Silvana Saguto, Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte, che erano magistrati assegnati in via esclusiva alla sezione delle Misure di Prevenzione.

SEMPRE GLI STESSI AMMINISTRATORI

Dal 2013 era iniziata una campagna mediatica molto pressante da parte di Pino Maniaci, direttore dell'emittente Telejato, nella quale si parlava di metodo mafioso nella gestione delle misure di prevenzione e della concentrazione degli incarichi più importanti nelle mani degli stessi amministratori giudiziari, con particolare riferimento a Gaetano Cappellano Seminara.

L’attacco mediatico aveva portato i giudici della sezione a parlare tra loro delle questioni sollevate da Pino Maniaci; nel momento in cui doveva essere nominato un amministratore giudiziario in una procedura di prevenzione, era il giudice delegato che solitamente proponeva un nome al collegio che, di norma, accoglieva la proposta; gli amministratori giudiziari venivano scelti in base alla tipologia di misura di prevenzione: nel caso di procedure consistenti o complesse si sceglievano soggetti che avevano maggiore esperienza nelle amministrazioni giudiziarie; la presidente Saguto proponeva per le procedure più complesse Gaetano Cappellano Seminara; Fabio Licata, invece, l'avvocato Andrea Aiello; per le procedure più semplici, invece, si nominavano anche gli amministratori meno esperti, seguendo un criterio di rotazione; sulla base dei criteri che si erano seguiti in sezione, le era sembrata una vistosa eccezione alla regola la nomina di Walter Virga, figlio del magistrato Tommaso Virga, nella procedura Rappa, che era di enorme complessità; Claudia Rosini aveva anche avanzato qualche perplessità parlando con Fabio Licata, questi tuttavia le aveva risposto che Walter Virga si era dimostrato capace nella procedura Giardina, quindi era stato nominato anche nella procedura Rappa. 

LA LETTERA AL CSM 

Nel gennaio 2014 aveva espresso dei dubbi sulla nomina di Cappellano Seminara quale amministratore giudiziario nella procedura Sbeglia, poiché vi era in atto la campagna mediatica contro la sezione, ma la presidente Saguto e i colleghi avevano ritenuto di nominare Cappellano Seminara, perché si trattava di un "seguito", cioè di una procedura collegata ad una precedente già gestita da Cappellano Seminara; aveva saputo dopo qualche mese dalla stampa che l'amministratore giudiziario si trovava, per la procedura Sbeglia, in conflitto di interessi poiché Cappellano Seminara era proprietario dell'hotel Brunaccini e la procedura Sbeglia aveva all'interno un hotel; aveva quindi rappresentato ai colleghi che lei non sapeva che Cappellano Seminara avesse un hotel e le era stato risposto che era una circostanza nota a tutti e, comunque, ciò avrebbe garantito una maggiore professionalità dell'amministratore giudiziario nella gestione dell'albergo in sequestro; ad ottobre del 2013 aveva aderito ad una richiesta di pratica a tutela avanzata dalla sezione al CSM per rispondere agli attacchi mediatici che provenivano soprattutto da Telejato; dopo la trasmissione delle lene, di maggio 2015, in cui si metteva sotto accusa l'operato della sezione e del suo Presidente, Claudia Rosini aveva trovato i colleghi riuniti in ufficio intenti a preparare una lettera per difendersi dalle accuse rivolte dalla trasmissione televisiva; aveva sottoscritto la lettera, ritenendola una sorta di commiato dalla sezione, dalla quale aveva ormai deciso di allontanarsi, non aveva invece firmato la nota predisposta dai colleghi in risposta a quella del presidente Di Vitale, il quale aveva chiesto dei chiarimenti in ordine ai fatti rappresentati dal servizio delle lene.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LA ZARINA DI PALERMO. Saguto, l’inizio dell’indagine che ha svelato interessi, legami e amici di amici. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 22 novembre 2021.

Nei primi mesi del 2015 veniva avviata dagli inquirenti un'attività di intercettazione telefonica ed ambientale, prima nei confronti di Walter Virga (amministratore giudiziario della procedura Rappa) e successivamente a carico di Silvana Saguto, Gaetano Cappellano Seminara, Carmelo Provenzano, Lorenzo Caramma, Rosolino Nasca ed altri ancora.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Nei primi mesi del 2015 veniva avviata dagli inquirenti un'attività di intercettazione telefonica ed ambientale, dapprima nei confronti di Walter Virga (amministratore giudiziario della procedura Rappa) e dei suoi collaboratori, successivamente a carico di Silvana Saguto (cellulare e ufficio), Gaetano Cappellano Seminara, Carmelo Provenzano, Lorenzo Caramma, Rosolino Nasca ed altri soggetti ancora.

Gli esiti delle attività tecnica di intercettazione hanno fornito, come di seguito ci si accinge ad esporre, una rappresentazione nitida dei rapporti esistenti fra gli odierni imputati, delle loro cointeressenze e dei loro legami.

Silvana Saguto, che nei primi mesi del 2015 stava attraversando un periodo di grande difficoltà economica, è apparsa, sin da subito, estremamente legata a Gaetano Cappellano Seminara, soggetto al quale faceva riferimento anche nei discorsi con i familiari per la risoluzione dei suoi problemi economici.

Evidente è apparso, sin da subito, il nesso esistente tra Silvana Saguto e Cappellano Seminara, per il tramite del marito del giudice, Lorenzo Caramrna, il quale rivestiva il ruolo di coadiutore in diverse amministrazioni giudiziarie gestite da Cappellano Seminara.

Come si vedrà nel prosieguo, molteplici sono le interlocuzioni di Silvana Saguto con Cappellano Seminara per ottenere il prima possibile i pagamenti per l'attività professionale del marito Lorenzo Caramma svolta a favore di Cappellano Seminara.

LE PRIME INTERCETTAZIONI 

Le intercettazioni consentivano contestualmente di fare emergere un'altra figura, quella di Carmelo Provenzano, che progressivamente assumeva una maggiore centralità nei rapporti con Silvana Saguto, ponendosi come alternativa a Gaetano Cappellano Seminara nella risoluzione di problematiche di natura familiare (redazione della tesi di laurea del figlio della Saguto, Emanuele Caramma) ed economico (pagamento del rinfresco di laurea di Emanuele Caramma, dazione di 15.000 euro nei confronti Silvana Saguto).

Gli esiti dell'attività tecnica di intercettazione facevano, inoltre, emergere subito le prime reazioni degli odierni imputati alle indiscrezioni sulla gestione della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che stavano cominciando a trapelare.

Alquanto significative appaiono, al riguardo, le conversazione in cui la dott.ssa Saguto e l' Avv.Cappellano Seminara, commentando a caldo la trasmissione delle Iene, mostravano tutta la loro preoccupazione in relazione ai fatti, denunciati dai giornalisti, riguardanti, da un lato, l'eccessivo numero di nomine ricevute da Cappellano Seminara e, dall'altro lato, gli incarichi conferiti all'ing. Lorenzo Caramma, marito della Saguto, dallo stesso Cappellano Seminara.

Questo lo stralcio della conversazione captata il 15.05.20 I 5 alle ore 8,49 del mattino:

TANINO – Silvana!

SILVANA – Ehi, Tanino!

TANINO – Ehi! Come va?

SILVANA – L’hai visto il servizio ieri sera?

TANINO – Sì.

SILVANA – lo no.

TANINO – Sì, sì! È un ... , niente. Tutto completamente tagliato, non e niente di trascendentale ma aver fatto la solita ... la solita "burinata"...

SILVANA – Lo stavo vedendo adesso, me l'ha mandato Provenzano.

TANINO – Eh!

SILVANA – Ma ...

TANINO – La solita “burinata”, che hanno tagliato tutto, non hanno detto tutti i dati scientifici e tecnici che io gli ho riferito..., praticamente è come se non parlassi ...

SILVANA – Sì.

TANINO – Mi fa delle domande, mi taglia tulle le risposte! Infatti, ora ho telefonato a Patrick Tranco per farmi mandare tutta la regi ..., per vedere se mi danno tutta la registrazione. E ... , avermi accostato con Pino .Maniaci che è stato sentito prima ...

SILVANA – Sì.

TANINO – ... questo cretino di avvocato che ...

SILVANA – Completamente ...

TANINO – ... dice sempre le stesse cose. un decelebrato preciso, dice sempre le stesse cose! Eh! lo ora andrò a parlare con Petralia oggi.,.

SILVANA – Ah!

TANINO – Ehi Perché ... , sì, sì, sì, andrò a parlare con Petralia perché francamente io mi sono stancato di essere ... , si sta usando la ... , proprio la tensione nei miei confronti. Hanno dato un pezzettino di registrazione di, di quell'altro, di Caruso, dove dice: "ah, la parcella ... , sì, io ho sentito di parcelle di sette milioni. Guadagnava X ... ». altre ... , che sono il supereroe, i supereroi possono mai esistere? Questo fatto delle aziende dove dice ... , prima dice che ho 93 aziende, poi dice che gli ho mandato un documento, loro l'hanno esaminato e invece ... , ti fa dire ... , furbacchioni, "ha otto misure ma sono venti le aziende". e poi alla fine ...

SILVANA – Ma dove sono?!

TANINO – fa vedere il certificato .... Che poi sono venti aziende ... , sono ... , che ti posso dire? Come quelle che ho con Fabio, di D'Anna, sono sei società ma in realtà è un unico patrimonio immobiliare.

SILVANA – Sì, lo so. Ma io queste le so, queste cose.

TANINO – Sono sei società, capito? Quindi, dico, ci sono ... , ci sono tutte queste cose qua. Poi: "che rapporti ha lei con il presidente?" ... , no, dice: "ma lei lo conosce il presidente?", "certo che lo conosco il presidente, è il mio presidente ... , poi uno dei giudici delegati", dice ... , e ... , "e che rapporti ha?", no ... , "la incontra?" e io dico ... , nella mia intervista, quella originale dico: "la incontro quotidianamente perché quotidianamente mi confronto con il giudice delegato e non solo con lei dei ... , dei provvedimenti che devono essere emanati in quanto noi abbiamo ordinaria amministrazione e ogni atto lo ... , lo facciamo autorizzare" Tutto questo non c'è! Ed è palesemente tagliato perché si vede ... , sai il fermo immagine? L'espressione che cambia. Che lui mi chiede ... , che ... , che ti vedo quotidianamente ... , "e che rapporti avete?".

SILVANA – Si ferma ...

TANINO – Allora ho detto ''cordiali", che dovevo dire? "Che rapporti avete?" "cordiali! (n.d.r.: ride) Che rapporti possiamo avere? Professionali e cordiali!", ed esce "quotidianamente" e "cordiali". E .. ,, poi che ti posso dire? Non dice ovviamente il nome di Lorenzo, dice: "ma il ... , il .... il ... il marito è nel suo consiglio.... è nel consiglio di amministrazione", _E. io confuto....e glielo spiego... , infatti c'è il mio dito che spiega che lui ha .. ,", anzi questo me lq fa dire...che è una competenza in un 'area tecnica. e tra le altre cose si capisce, ma non va tutta la.... tutta la registrazione, che io dico: "ma guardate che è un incarico del 2004 quando allora la dottoressa Saguto non era nemmeno nell'area delle 'Misure di Prevenzione', quindi. assolutamente estranea. Lo conosco da diverso tempo e quindi abbiamo avuto di .... modo di ..".

SILVANA – Anzi poco dicono

TANINO – Eh? No ...

SILVANA – Anzi poco dicono!

IL RUOLO DEL PROFESSORE PROVENZANO

Sempre il 15 maggio 2015, qualche minuto prima, la Saguto aveva commentato a telefono il servizio andato in onda la sera precedente alle lene anche con Carmelo Provenzano, il quale per nulla contento delle notizie diffuse dai giornalisti (... dimmi come è andata? .... Eh malissimo ...), segnalava alla Saguto che era pure emersa la questione dell'incarico conferito da Cappellano Serninara al marito (... gli dicono: ma lei perché ha dato questo incarico al marito...).

Provenzano manifestava alla Saguto la sua intenzione, al fine di contrastare l'eco mediatico delle lene, di organizzare un convegno con tanti giovani per la difesa dei magistrati, presentandola come una strategia per ridare credito ai giudici della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo dai quali lui riceveva incarichi.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LA ZARINA DI PALERMO. La giudice, il marito, la prefetta e l’avvocato acchiappatutto. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 23 novembre 2021.

Nel corso della conversazione telefonica Cappellano Seminara informava Silvana Saguto che era stata approvata la legge sui compensi agli amministratori giudiziari, da lui ritenuta un “fallimento”. Silvana Saguto assecondava e condivideva il disappunto espresso dal suo interlocutore ma lo rassicurava prospettando un escamotage per aggirare la legge

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

È sintomatico come i dubbi fino a quel momento insinuati dalla stampa sull'intreccio dei rapporti e sulle cointeressenze economiche tra la Saguto e Cappellano Seminara, con il coinvolgimento diretto di Lorenzo Caramma, abbiano trovato esatta conferma già sin dalle prime captazioni del mese di maggio 2015.

Ciò fa comprendere come tali rapporti e cointeressenze sicuramente preesistessero all'inizio delle operazioni tecniche di ascolto cd anzi fossero già da tempo consolidati e ben strutturati.

Nel corso della conversazione telefonica del 9 maggio 2015 Cappellano Seminara informava Silvana Saguto che era stata approvata la legge sui compensi agli amministratori giudiziari, da lui ritenuta un "fallimento” («niente, un fallimento, considera come amministratori giudiziari ci danno il 50 per cento in meno della tabella dei curatori fallimentari sostenendo che il nostro lavoro non è complesso»).

Cappellano Seminara si riferiva allo schema di regolamento, approvato in esame preliminare dal Consiglio dei Ministri, recante disposizioni in materia di modalità di calcolo e liquidazione dei compensi degli amministratori giudiziari iscritti all'albo.

AGGIRARE LA NUOVE LEGGE

Lo schema di decreto assumeva come modello di riferimento la disciplina regolamentare in materia di determinazione del compenso spettante al curatore fallimentare e al commissario giudiziale nella procedura di concordato preventivo, adattando i parametri di liquidazione previsti in sede fallimentare alle specificità proprie della disciplina in materia di misure di prevenzione.

Silvana Saguto assecondava e condivideva il disappunto espresso dal suo interlocutore in relazione alla riduzione dei compensi spettanti in sede di liquidazione agli amministratori giudiziari (“... ma sono pazzi...”) e rassicurava il suo interlocutore prospettando un escamotage per aggirare il nuovo limite (“ .. va beh, noi cercheremo il più possibile di compensare con le società chiaramente ...”), alludendo chiaramente alla possibilità di incrementare i compensi di amministratore giudiziario con quelli previsti per la carica di amministratore delle singole società sottoposte a sequestro.

I due interlocutori chiudevano la conversazione augurandosi che «la cosa di Francesca vada a buon fine».

Come si spiegherà meglio oltre "la cosa di Francesca" non era altro che l'interessamento del Prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, amica della Saguto, per "avvicinare" – mediante l'organizzazione di una cena presso l'Hotel Brunaccini di Cappellano Seminara - Giuseppe Barone, consigliere del Cga e membro del collegio che avrebbe dovuto decidere la controversia in appello riguardante la parcella di più di cinque milioni di curo liquidata dalla stessa Saguto a Cappellano Seminara nell'ambito della procedura di prevenzione "Sansone", parcella che Cappellano Seminara aveva difficoltà a riscuotere.

Si tratta indubbiamente di una conversazione fortemente indicativa dell'esistenza di cointeressenze tra i due imputati.

Non convince, in senso contrario, la spiegazione che Silvana Saguto ha cercato di dare al contenuto di questa conversazione, laddove, nel corso del suo esame, ha spiegato che temeva che la contrazione dei compensi degli amministratori giudiziari avrebbe portato alla difficoltà di reperire professionisti disponibili a svolgere detta funzione.

Anzi, la Saguto e Cappellano Seminara erano ben consapevoli che non mancavano amministratori giudiziari che svolgessero tale funzione per compensi più contenuti, come emerge dalla stessa conversazione, laddove i due interlocutori così si esprimevano:

Cappellano: sì, sì. Poi trovi uno come Piero che ti dà 1,000 euro ...

Saguto: Va beh, Piero è cosi comunque, difatti qua non è questione di masse e non masse.

Cappellano: Sì. Seniti ...

Saguto: Quello è ridicolo!

Cappellano: Si, si, assolutamente ridicolo, assolutamente ridicolo!

Saguto: Va beh, noi cercheremo il più possibile di compensare con le società chiaramente.

LE “SCARSE” PARCELLE TRAPANESI

In questa conversazione, Cappellano Seminara faceva riferimento a Piero Grillo, Presidente della sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che evidentemente era solito liquidare parcelle di molto inferiori a quelle cui lui era abituato.

Il 10 luglio 2015, poi, la Saguto aveva occasione di parlare in ufficio con Cappellano Seminara della questione relativa all'incarico del marito presso la procedura Butitta del Tribunale di Palermo, in relazione alla quale era stata sollecitata da Natoli e da Di Vitale, e gli suggeriva di trovare "un modo elegante" per risolvere il problema, ovvero quello di dire "che l'incarico finisce perché non

serve più questa figura professionale".

Cappellano Seminara conveniva con questa soluzione e rassicurava la Saguto che non avrebbe mai sostituito Lorenzo Caramma nell'incarico presso la procedura Buttitta, in maniera tale da rendere verosimile la soluzione prospettata dalla Saguto.

Questo lo stralcio della conversazione ambientale captata:

SILVANA - e allora ...

GAETANO - io ho mandato la lettera

S!L VANA - Intanto devi ... ieri abbiamo parlato con Natoli.

GAETANO - eh!

SILVANA - Lorenzo deve uscire dall'incarico.

GAETANO - sì?!

SILVANA - si, dobbiamo trovare un modo elegante, nel senso che bisognerà dire che l'incarico finisce perché non serve più questa figura professionale

GAETANO - è un casino

S!L VANA - quindi tu non lo sostituisci subito

GAETANO - non lo sostituisco completamente

SILVANA - lui ha finito, non serve più!

GAETANO - e nelle altre?

SILVANA - le altre non c'entra, p.s. Palermo non ne abbiamo neanche parlato e non si avvalla! Palermo ... , fuori Palermo ... , Pignatone stesso non c'entra niente... lo so pure io!

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. L’avvocato nominato “re” degli amministratori giudiziari. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 24 novembre 2021.

I rapporti personali tra la presidente Saguto e Gaetano Cappellano Seminara sono stati ben descritti dal teste Achille De Martino, assistente capo coordinatore della Polizia di Stato e componente del Reparto scorte della Questura di Palermo che si è occupato della protezione della dottoressa Saguto dall'ottobre 2004 al settembre 2016.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

I rapporti personali tra la presidente Saguto e Gaetano Cappellano Seminara sono stati ben descritti dal teste Achille De Martino, assistente capo coordinatore della Polizia di Stato e componente del Reparto scorte della Questura di Palermo che si è occupato della protezione della dottoressa Saguto dall'ottobre 2004 al settembre 2016.

All'udienza del 7.3.2018 il teste ha riferito che: «Da quando la dottoressa è ritornata alle misure di prevenzione, chiaramente veniva più spesso di mattina [Cappellano Seminara n.d.r.], perché per motivi di servizio veniva quasi ... almeno una volta a settimana era sicuro, se non di più. E poi diciamo che piano piano sono iniziati anche i rapporti diciamo al di fuori dell'ufficio, soprattutto quando la dottoressa andava presso l'albergo dell'avvocato al palazzo Brunaccini, dietro Ballarò. In questo ... andava o diciamo li con le amiche a prendere: un aperitivo, a serate, ad eventi, e poi ci sono state le cene di Elio che ha organizzato li a Palazzo Brunaccini».

LA VERGOGNA DEL POLIZIOTTO

Alla domanda del pubblico ministero tesa a chiarire se vi fosse una frequentazione maggiore di Silvana Saguto con Gaetano Cappellimo Seminara rispetto agli altri amministratori giudiziari il testimone ha risposto così: «lo a volte facevo fatica ad alzare gli occhi da terra perché alcune volte mi vergognavo. C 'erano avvocati, amministratori e tanta geme che si metteva a turno accanto a me, io seduto nella mia sediolina che aspettavo, a volte facevo finta di giocare con l'ipad, ma io non giocavo con l'ipad, io vedevo e sentivo tutto. Infatti qualcuno faceva la battuta "Stai con l'ipad", ma io ascoltavo tutto, soprattutto i commenti in particolar modo. C'erano persone in attesa da due ore pure, perché la dottoressa due volte a settimana faceva le udienze, e gli altri giorni li dedicava all'accoglienza degli amministratori, avvocati e quant'altro. Persone che stavano li due ore ad aspettare, arrivava l'avvocato Cappellano e puntualmente doveva entrare, la dottoressa usciva e dice "No, abbiamo una cosa urgente con l'avvocato Cappellano". Per l'amor di Dio, è una cosa urgente, e io non sto qui a giudicare o dare giudizi su quello che avveniva, ma sto dicendo, sto riferendo quello che dicevano gli altri. C'erano le battutine, c'erano le insinuazioni».

Ha aggiunto poi il teste che «[...] Tanti avvocati anche diciamo tra i presenti spesso si lamentavano del fatto che c 'era questa corsia preferenziale. Addirittura qualche volta l'avvocato Cappellano quando c'era proprio tanta gente, ma non perché lo diceva lui, cioè non era lui, perché a volte lui magari voleva fare il turno, ''No, no... non c'è bisogno", e praticamente, lei non so se conosce il nuovo Tribunale di Palermo, quello ... ha dei corridoi, i corridoi sono praticamente uniti da una sorta di cortiletto interno, l'avvocato Cappellano entrava nell'altro corridoio dove c'era la cancelleria della dottoressa e lo facevano entrare, uscire in questo cortiletto e la dottoressa apriva la porta vetraia del cortiletto ed entrava. Poi giustamente gli avvocati che erano li o gli amministratori giudiziari che erano lì presenti con me seduti sulla sediolina ad aspettare, quando lo vedevano uscire dice "E questo da dove è entralo?", questo, chiedo scusa all'Avvocato, era un modo ... era il loro modo di dire. C'era una lamentela spesso generale da parte di tutti su questa corsia preferenziale anche in questa in particolare che c'era, che l'avvocato Cappellano arrivava ed entrava».

Achille De Martino, inoltre, ha confermato di avere sentito Silvana Saguto lamentarsi dei propri problemi economici con Cappellano Seminara, mentre non era solita fare questi discorsi con gli altri amministratori giudiziari.

UN RAPPORTO MOLTO INTIMO

In conclusione della sua deposizione, il teste De Martino, per esprimere meglio il genere di legame tra la Saguto e Cappellano Seminara, cosi come lo aveva personalmente visto evolversi, ha utilizzato un esempio molto esplicito, paragonandolo al rapporto gerarchico intercorrente tra un maresciallo (Silvana Saguto) ed un colonnello (Gaetano Cappellano Seminara).

Cosi si è espresso testualmente il teste De Martino:

TESTIMONE, DE MARTINO A - Ho ricordato, ricordo di avere detto che, trovandomi di fronte a due tenenti colonnelli della Guardia di Finanza, gli dissi «Il rapporto che c'è tra la dottoressa e il dottore Cappellano e la dottoressa e il professore Provenzano è il rapporto che ci può essere tra lei e un colonnello e lei e un maresciallo». Cioè tra lei quindi e un suo superiore e ... perché io poi dopo ...

PUBBLICO MINISTERO - Il superiore chi sarebbe in questo caso?

TESTIMONE, DE MARTINO A - Cappellano. Io ... però era una mia... ripeto, io non so se posso rispondere, perché era una mia ... avevo questa impressione a volte.

PUBBLICO MINISTERO - Basata più cosa però? Basata su un fatto, su qualcosa che lei aveva riscontrato

TESTIMONE, DE MARTINO A - ... Si, sul fatto che la dottoressa a volte quando usciva dal Tribunale la prima cosa che faceva quando si metteva in macchina era chiamare l'avvocato Cappellano. Era la prima cosa che faceva certe volte. Sembrava che stesse riflettendo, non lo so, anche su fatti di altre amministrazioni, di altri amministratori.

PUBBLICO MINISTERO - Cioè gli faceva il resoconto della sua giornata?

TESTIMONE, DE MARTINO A - Non chiamiamolo proprio resoconto, ma gli raccontava fatti che lei ... Però devo dire anche una cosa. Io poi queste sono cose … A volte lo faceva anche con noi, cioè ci raccontava ... era proprio il sua modo di essere. Però all'avvocato Cappellano spesso la dottoressa gli raccontava ... Ripeto, un esempio è stato quello del dottore Scimeca, che quello si era andato a confidare che aveva paura perché aveva ricevuto una minaccia e la dottoressa l'aveva sbeffeggiato col dottore Cappellano. Quello è il... Dico, a volte lei usciva e chiamava «Ho fatto questo. È successo questo. Abbiamo fatto questo. È venuto quello. È venuto Tizio. Abbiamo parlato con Caio. Mi ha chiamato Tizio. Mi ha chiamato Caio...».

Con riferimento alla testimonianza di De Martino, va rilevato, sin da adesso, che non colgono nel segno le censure difensive sulla sua attendibilità, fondate sull'errore in cui lo stesso sarebbe incorso in relazione alla partecipazione di Cappellano Seminara ad uno dei compleanni di Silvana Saguto, circostanza che, invece, non ha trovato riscontro in dibattimento. Si tratta, invero, ad avviso del Tribunale, di un errore risibile in relazione alla coerenza complessiva del narrato del teste, che è apparso ricordare adeguatamente i fatti e la loro scansione temporale. Qualche imperfezione nei ricordi, peraltro comprensibile a distanza di qualche anno dei fatti, non inficia certamente il nucleo essenziale della testimonianza, in particolare a proposito di quanto da lui riferito sul rapporto privilegiato che Silvana Saguto aveva instaurato ormai con Cappellano Seminara.

E ciò tanto più che non sono emerse ragioni di astio dei teste nei confronti dell'imputata Saguto che potrebbero far pensare ad una qualche ricostruzione artificiosa del narrato da parte del De Martino.

A CURA DI ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. I conti in rosso della famiglia Saguto e un giro di versamenti sospetti. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 25 novembre 2021.

Dall'indagine patrimoniale è emersa la grave carenza di liquidità in cui si trovava Silvana Saguto e il suo nucleo familiare e anche che la principale fonte di reddito di Lorenzo Caramma, suo marito, era costituita dai compensi percepiti da Gaetano Cappellano Seminara come libero professionista e come amministratore giudiziario.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Dalla testimonianza di Roberto Sorino (maresciallo della Guardia di Finanza di Palermo) è emerso che il nucleo di Polizia Tributaria che ha eseguito le indagini, per verificare l'ipotesi accusatoria, ha, in primo luogo, compiuto degli accertamenti penetranti sui conti correnti bancari della famiglia Caramma-Saguto.

L'esito dell'indagine patrimoniale deve essere qui riportata poiché dimostra, da un lato, la grave carenza di liquidità in cui si trovava Silvana Saguto e il suo nucleo familiare nel periodo in contestazione e, dall'altro lato, come la principale fonte di reddito di Lorenzo Caramma risultava costituita dai compensi percepiti da Gaetano Cappellano Seminara come libero professionista e come amministratore giudiziario.

Gli accertamenti bancari hanno riguardato il periodo dal 1.1.2006 al 17.11.2015 ed hanno avuto ad oggetto i conti correnti dei coniugi Lorenzo Caramma e Silvana Saguto, dei loro tre figli e dei genitori di entrambi i coniugi.

L’INDAGINE DELLA GUARDIA DI FINANZA

[…] Nel complesso, secondo la ricostruzione compiuta dalla Guardia di Finanza, nel periodo preso in considerazione vi sono state entrate pari ad € 3.117.598,98 ed uscite pari ad€ 3.154.156, 17, con un saldo negativo pari ad € 36.557,19.

Dagli accertamenti di natura bancaria svolti è emerso, dunque, un costante differenziale negativo, derivante da tutta una serie di spese di varia natura non adeguatamente supportate dalle entrate.

Peraltro, come precisato dal maresciallo Sorino all'udienza del 17.10.2018, tra le entrate sono stati inseriti anche i finanziamenti contratti con gli istituti di credito: il 24 aprile 2007 è stato stipulato, con Banca Nuova, un mutuo di 15 anni dell'importo di 110 mila euro; nel 2009 è stato erogato dall'Unicredit un altro finanziamento per un importo di euro 29.619,65; nel 2010 un ulteriore finanziamento, erogato alla famiglia Saguto-Caramma da Prestinuova S.p.a., di euro 79.251,94; nel 2011 un ulteriore finanziamento, ancora da Prestinuova, dell'importo di euro 88.296, 67, nel 2012 è stato contratto un mutuo ipotecario di 20 anni, con Banca Nuova, dell'importo di 150 mila euro, in parte utilizzati per estinguere il mutuo contratto con Banca Nuova nel 2007, e infine, nel 2014, è stato erogato un altro finanziamento da Banca Nuova, dell'importo di 83 mila euro.

Nel medesimo periodo temporale sono pervenute sui conti correnti dei coniugi Caramma Saguto delle somme di denaro provenienti dai genitori di quest'ultimi (Vittorio Saguto, padre di Silvana, La Marca Maria, madre di Silvana Saguto e da Fortunata Lucchese, madre di Lorenzo Caramma), per un totale di 43.800 euro.

Sono stati accertati, inoltre, dei versamenti in contanti dal 2006 al 2015 (il primo versamento del 10 marzo 2006, l'ultimo del 5 agosto 2015) per un totale di 140.180 euro.

Segnatamente, il maresciallo Roberto Sorino ha precisato che nel 2006 sono stati versati in contanti sui conti correnti della famiglia Caramma-Saguto complessivamente euro 26.270 euro.

Dal 2007 al 2012 i versamenti in contanti si sono interrotti (solo tre operazioni nel 2009), per poi riprendere nel 2013, anno in cui sono stati versati in contanti 9.750 euro, mentre nel 2014 sono stati versati euro 57.800 e nel 2015, fino al mese di agosto, euro 38.600.

E' stato accertato, altresì, che Lorenzo Carnmma, ingegnere meccanico, nel periodo in contestazione, ha svolto l'attività di insegnante in un istituto scolastico di Palermo, ha effettuato consulenze per le autorità giudiziarie ed ha svolto l'attività di coadiutore in diverse amministrazioni giudiziarie gestite dall'avvocato Gaetano Cappellano Seminara.

I VERSAMENTI A FAVORE DEL MARITO

[…] Il maresciallo Sorino ha segnalato, inoltre, alcuni versamenti disposti dall'avvocato Cappellano Seminara nei confronti di Lorenzo Caramma e dei quali non erano state trovate le fatture corrispondenti. In particolare:

- il 4 marzo 2008, sul conto corrente numero *********, intestato a Caramma Lorenzo e a Saguto Silvana presso la Banca Nuova, è stato versato l'assegno bancario numero ***********, di euro 10 mila, emesso da Cappellano Seminara e tratto sul conto corrente acceso presso la Banca Monte dei Paschi di Siena.

- in data 20 agosto 2007, sul conto corrente numero **********, intestato a Caramma Lorenzo e a Saguto Silvana, presso l'Unicredit, è stato accreditato un bonifico bancario di euro 3 mila, disposto da Cappellano Scminara Gaetano, e avente come causale "acconto liquidazione Lombardoz".

Gli inquirenti collegavano il termine Lobardoz al procedimento penale a carico di Lombardozzi Cesare più altri in cui l'amministratore era Cappellano Seminara e, tra i coadiutori, vi era Caramma Lorenzo.

In quel procedimento penale il giudice aveva autorizzato la liquidazione per l'importo di 5.000 euro oltre IVA e contributi previdenziali e il 5.2.2011 Lorenzo Caramma aveva emesso la fattura n. 12 nei confronti di Cappellano Seminara per l'importo di euro 5.240 che veniva pagata mediante accredito sul conto corrente n. 300544582, intestato a Caramma Lorenzo e Saguto Silvana presso l'Unicredit il 9.2.20 l l. Nel pagamento non si era tenuto conto dell'acconto di 3.000 euro già corrisposto il 20.8.2007.

Le risultanze dell'attività di indagine bancaria della Gm1rdia di Finanza in ordine alla costante carenza di liquidità sui conti correnti dei coniugi Caramma Saguto hanno trovato sicuro riscontro negli esiti dell'attività di ascolto.

Le conversazioni telefoniche ed ambientali captate hanno, invero, offerto prove inequivocabili della situazione di crisi economica in cui versava il nucleo familiare Saguto/Caramma e del ruolo di Cappellano Seminara come fonte di approvvigionamento di denaro per far fronte alla crescente situazione di indebitamento.

In particolare, i colloqui intercettati, come meglio si esporrà in seguito, hanno consentito di ricostruire nel dettaglio l'episodio della consegna di denaro in contanti alla Saguto da parte di Cappellano Seminara il 30 giugno 2015, episodio che è indicativo del livello di confidenza che nel corso degli unni aveva raggiunto il rapporto tra i due imputati ed è, quindi, idoneo a fornire una chiave di lettura di tutti i fatti in contestazione […].

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto e quel bazar di incarichi e favori in nome della legge. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 26 novembre 2021.

Walter Virga, se non avesse inserito Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nello studio legale Pro.de.a, assicurandole il coinvolgimento nelle attività professionali e l'uso di una stanza (senza dover pagare affitto o partecipare alle spese), non avrebbe ottenuto più incarichi di amministrazione giudiziaria per sé e per i propri colleghi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Le risultanze delle verifiche dibattimentali - che verranno poi riprese nel dettaglio allorché si passerà all'esame delle singole contestazioni - hanno consentito di accertare come gli odierni imputati, avvalendosi delle rispettive qualifiche soggettive e dei ruoli istituzionali ricoperti nell'ambito di procedure di prevenzione e facendo perno sul sistema della gestione dei patrimoni in sequestro, abbiano posto in essere plurime condotte illecite, finalizzate, a vario titolo, allo scambio di utilità.

Ciò che in sintesi è emerso dalla pletora di fatti delittuosi contestati è il totale mercimonio della gestione dei beni sequestrati e l'approfittamento, a vari livelli, del ruolo istituzionale ricoperto, che ha portato alla commissione di una serie eterogenea di reati, posti in essere mediante una così grave distorsione - per tempi, modalità e protrazione delle condotte - delle funzioni giudiziarie da avere arrecato, oltre che danni patrimoniali ingentissimi all'erario ed alle amministrazioni giudiziarie, anche un discredito gravissimo all'amministrazione della giustizia, per di più in un settore delicatissimo, quale è quello della gestione dei beni sequestrati alla criminalità mafiosa.

La compiuta istruttoria dibattimentale ha consegnato un quadro di desolante strumentalizzazione della funzione giurisdizionale a favore di una gestione privatistica, caratterizzata da un intreccio di rapporti personali e di condotte fondate sul dato costante dell'assoluta marginalizzazione dell'interesse pubblico connesso alle funzioni giurisdizionali.

I fatti accertati in questo giudizio hanno dimostrato che la dott.ssa Saguto, considerando lo svolgimento del suo ruolo quale presupposto oggettivo per il conseguimento di utilità disparate, poteva contare sistematicamente sulla disponibilità di Cappellano Seminara prima e di Carmelo Provenzano poi, soggetti comprensibilmente inclini ad assecondarne le pretese, per conseguire vantaggi che non le sarebbero spettati.

IL CASO DI WALTER WIRGA

[…] Ritiene il Tribunale che la sussistenza della condotta induttiva di Silvana Saguto, sub specie di imposizione e di pressione morale su Walter Virga - il quale, se non avesse inserito Mariangela Pantò [fidanzata del figlio della Saguto, n.d.r.] nello studio legale Pro.de.a, assicurandole il coinvolgimento nelle attività professionali e l'uso di una stanza (senza la necessità di pagare un affitto o di partecipare altrimenti alle spese), non avrebbe ottenuto più incarichi di amministrazione giudiziaria per sé e per i propri colleghi - sia stata comprovata in giudizio, al di là di ogni ragionevole dubbio, proprio dalle affermazioni di Walter Virga, oggetto di captazione, che di seguito vengono nuovamente sottolineate [...] e sulla cui genuinità non vi è motivo di dubitare.

E' lo stesso Walter Virga, infatti, a commentare con Alessio Cordova che «così come [era] stata imposta» a loro dalla Saguto, cosi Mariangela Pantò sarebbe stata «imposta da qualche altra parte», utilizzando, quindi, delle parole che rendevano inconfutabile la circostanza che il coinvolgimento di Mariangela Pantò nel suo studio legale fosse stato determinato esclusivamente da un'imposizione della Saguto. Ed ancora, Virga aggiunge - così rendendo impossibile ogni diversa alternativa ricostruzione dei fatti - che «...mm è che lei è venuta da noi perché ci siamo trovati bene e le abbiamo affittato una stanza...».

Univoco significato va, altresì, attribuito ai commenti di Walter Virga, dapprima con Alessio Cordova e Marianne Sommatino e, in seguito, con Alessio Cordova e Dario Majuri, nella parte in cui lo stesso affermava che avere coinvolto Mariangela Pantò nello studio costituiva il "pizzo" che era stato "costretto a pagare" alla Saguto per potere lavorare, dato che, com'è noto, il "pizzo", sebbene Virga si esprimesse ovviamente con una metafora, è comunque ciò che si è costretti a concedere a seguito di una condotta costrittiva o quantomeno induttiva.

E' sempre Walter Virga, nel corso delle sue esternazioni, a legare la presenza di Mariangela all'interno dello studio alla figura della "suocera" Silvana Saguto quando affermava che avrebbe «mandato a fanculo a lei e alla suocera pure», o quando si sfogava dicendo che Mariangela gli «[stava] sulla minchia e appena la suocera se ne fosse andata, l'avrebbe presa a calci in culo», così legando la permanenza di Mariangela all'interno dello studio legale all'incarico di Presidente della sezione misure di prevenzione rivestito dalla Saguto.

Ed ancora, l'imposizione subita da Virga per ottenere incarichi dalla Saguto emerge chiaramente da altri dialoghi del Virga intercettati all'interno del suo studio legale, come quando egli affermava che avrebbero anche potuto «revocarlo domani», riferendosi al fatto che, se avesse rimproverato la Pantò per le sue mancanze, la Saguto avrebbe potuto risentirsi, sino a revocargli l'incarico di amministratore giudiziario o come quando dice alla moglie Giuliana Pipi di non avere buone notizie, dal momento che, per avere «trattato malissimo» Mariangela, rischiavano di restare «disoccupati», anche in questo caso riferendosi al fatto che avere «trattato malissimo» Mariangela avrebbe potuto indisporre la Saguto, che avrebbe potuto determinarsi a revocargli l'incarico o a non conferirgliene ulteriori.

D'altro canto, sono proprio le reazioni della Saguto, [...], ed i suoi propositi di non fare lavorare più Walter Virga in conseguenza della sua scelta di allontanare la Pantò a confermare l'ipotesi accusatoria secondo la quale il coinvolgimento di quest'ultima nello studio legale fosse stato il frutto di una imposizione, violata la quale venivano meno i presupposti per continuare la collaborazione con Walter Virga. L'attività tecnica di intercettazione e la deposizione testimoniale di Achille De Martino sopra richiamata hanno, infatti, permesso di accertare come la Saguto si sia ripromessa di «farla pagare» a Virga, nel senso che non avrebbe fatto più lavorare né lui né i suoi colleghi. Infine, è risultato dimostrato in giudizio, sempre sulla base delle conversazioni captate, come Walter Virga, pur disponendo di ampi margini decisori, abbia accettato di aderire alla richiesta della prestazione non dovuta nella prospettiva utilitaristica di perseguire un tornaconto personale, rappresentato dall'ottenimento di ulteriori incarichi di amministrazione giudiziaria per sé e per i propri colleghi, […].

E' sufficiente, al riguardo, ricordare le conversazioni durante le quali:

- Virga diceva al padre di avere speso mille euro per il pavimento della stanza di Mariangela Pantò nello studio di via Principe di Belmonte e, ridendo, gli diceva che però «era importante farlo», lasciando intendere che compiacere la ragazza avrebbe avuto un riverbero positivo sulla Saguto;

- Virga commentava con Cordova di non avere mai «stretto alcun tipo di rapporto» con la ragazza, «se non quello utilitaristico»;

- Virga si interrogava con Cordova e con la Sommatino sul perché Mariangela non si fosse mai chiesta il motivo per cui non avesse mai pagato l'affitto della stanza o le spese dello studio («...quindi questo lei non lo arriva a capire, è più forte ... poi indubbiamente, dal suo punto di vista, mi rendo conio che lei paga colpe non sue, da un altro punto di vista però, se noi la dobbiamo dire tutta è una persona non si chiede come sia possibile che qualcun altro se la mette in studio, l'assume, fa delle spese, gli dà del lavoro, gli gira dei soldi, e .... perché? Non li chiedi perché? Perché io penso che per nessun amico lo si farebbe ...»).

In conclusione, dunque, deve ritenersi provato che Walter Virga, nell'ambito di una dinamica intersoggettiva (sia pure asimmetrica, perché caratterizzata dalla posizione dominante della Saguto) di natura sostanzialmente negoziale, si sia determinato a coinvolgere Mariangela Puntò nell'attività professionale dello studio e nel metterle a disposizione una stanza dello studio senza furia contribuire alle spese solo in quanto indotto a farlo dalla Saguto e nella prospettiva di trarre un indebito vantaggio per sé.

Del resto, a ben vedere, la condotta dei due imputati delineata dalle conversazioni intercettate si inquadra perfettamente nel contesto più generale già descritto all'inizio di questa parte di motivazione.

Non sorprende, infatti, l'atteggiamento della Saguto, volto, anche in questa occasione, ad abusare della sua posizione di forza e di preminenza e ad approfittare della situazione di inferiorità psicologica nei suoi confronti di Walter Virga, il quale, pure essendo figlio di Tommaso Virga, era comunque per la Saguto «un ragazzino da niente», che aveva ricevuto un incarico (l'amministrazione giudiziaria Rappa) assolutamente al di sopra delle sue potenzialità professionali.

E, peraltro, proprio la presenza di Tommaso Virga alle spalle di Walter giustifica come quest'ultimo, seppure indotto dalla Saguto a coinvolgere nello studio la Pantò, poi, una volta divenuto per lui insopportabile il peso dell'esposizione mediatica, abbia comunque trovato la forza per determinarsi ad allontanare dal suo studio la Pantò.

LE “PRESSIONI” E I VANTAGGI DA CONSEGUIRE

D'altra parte, appare del tutto coerente - dal suo punto di vista – anche l'atteggiamento di Walter Virga, il quale, pur di fronte ad una pressione non irresistibile, ha accettato di aderire alla richiesta di prestazione non dovuta non perché coartato e vittima del malus nella sua espressione più forte, ma perché, pienamente consapevole di dover essere riconoscente per gli incarichi ricevuti, si è lasciato convincere nella prospettiva di trarre un indebito vantaggio per sé, salvo poi pentirsi successivamente di avere "risolto" il problema alla Saguto («l'errore strategico» [...]),

Le condotte dei due imputati sono state, quindi, correttamente assunte nella fattispecie di cui all'art.319 quater c.p. Non colgono nel segno, viceversa, le difese degli imputati, le cui argomentazioni non appaiono idonee a scalfire il quadro probatorio delineato, né ad incidere sull'inquadramento giuridico della fattispecie. […].

Ed invero, la tesi accusatoria, che ha trovato riscontro in dibattimento, non è quella secondo cui Virga ha ottenuto gli incarichi perché ha accolto la Pantò nel suo studio, ma quella secondo cui, dopo il conferimento degli incarichi di amministratore giudiziario, la Saguto ha indotto, mediante pressioni morali, Virga a coinvolgere la Pantò nella sua attività professionale e Virga si è determinato ad aderire alla richiesta nella prospettiva di un tornaconto personale, sicchè non vi è chi non veda come sia del tutto ininfluente il momento storico e l'occasione della conoscenza tra Walter Virga e Mariangela Pantò.

[…] La data del commesso delitto, così come correttamente individuato nel capo di imputazione, va collocata nel periodo che va dalla fine del 2013, data dell'inserimento di Mariangela Puntò nello studio legale Virga (come risulta dalle dichiarazioni di Filippo Lo Franco) al 5 giugno 2015 (data dell'allontanamento della Pantò dallo studio), ovvero nel periodo intermedio tra la prima e la seconda nomina ad amministratore giudiziario di Walter Virga. Le utilità prestate da quest'ultimo (e consistite nel coinvolgimento retribuito nelle attività dello studio e nella messa a disposizione di una stanza nello studio, seppure in via non esclusiva, senza contribuzione alle spese) assumono carattere continuativo, ma il reato non può considerarsi continuato, trattandosi piuttosto di una ipotesi di reato a consumazione prolungata, in cui le esecuzioni delle dazioni di utilità indebita alla Saguto sono tutte riconducibili all'unica condotta di induzione posta in essere da quest'ultima. […].

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto, i beni confiscati e il “pizzo” da pagare per sistemare i parenti. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 27 novembre 2021.

Intercettato, Walter Virga, figlio del giudice Tommaso, parlava di come funzionasse il sistema della Saguto: «...Noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico...».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Silvana Saguto esprimeva giudizi non certo lusinghieri nei confronti di Walter Virga.

[…] La conversazione intercorreva tra Silvana Saguto  e Rosolino Nasca e riguardava l'allontanamento della nuora Mariangela Pantò dallo studio di Walter Virga dopo le polemiche giornalistiche.

SILVANA - L'ha buttata fuori!

N. - Ma quant'è stronzo, guarda!

SILVANA - Lei si sta facendo sistemare lo studio.

N. - Mii poverina!

SILVANA - Guarda, distrutta Anche perché si trovava bene con Alessio e Walter. [...]. 

N. - Silvana, non ti preoccupare. Poi... Vediamo cosa posso fare.

SILVANA - No, va beh, ma può stare anche dov'è. Non ti preoccupare.

N. - Va beh, io te l'ho detto.

SILVANA - Non è questione di... era un modo per ... ormai aveva un altro tipo di rapporto.

N. - Ma guarda che stronzo! Guarda ...

SILVANA - Si spaventa se "Le lene" gli fanno un agguato per Mariangela.

N. - Ma per favore!

SILVANA - Ma se l'hanno attaccato per suo padre!

N. - Ma infatti!

SILVANA - Non l'hanno attaccato per Mariangela! Non l'hanno attaccato .... tieni che ti do un tovagliolino.

N. - No, non ti preoccupare. Mi sono pulito. Mi sono pulito. Ma quant'è stronzo, guarda

SILVANA - Pavido.

N. - Ma quanto ...

SILVANA - Dopo quello che abbiamo fatto per lui!

N.- Ma infatti! Ma 'sta mezza sega, guarda! lo ... io l'ho sempre detto, guarda

[...]

Silvana Saguto (S.) e Gaetano Cappellano Seminara (C.) discutevano dell'allontanamento della nuora Mariangela Pantò dallo studio di Walter Virga dopo le polemiche giornalistiche.

[...]

S. - Non l'avevano appiccicato a Walter. Ma Walter lo hanno attaccato per il padre ed è ovvio che lo attaccano per il padre, perché il padre .... I miei figli lavorano a Palermo? Non lavoravano a Palermo. Perché? Perché qualsiasi cosa viene data viene data per me. E lo stesso è Walter Virga con suo padre, che ha avuto due misure qua. Però Walter Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto, e questo è il ringraziamento! Mariangela ci ha ..., si sia sistemando lo studio a casa. Ma puoi capire comprensibilmente che significa per quella ragazza, che non è neanche mia nuora peraltro. Terra bruciata, secondo Walter, bisogna farle intorno, perché altrimenti la attribuiscono a me qualunque cosa pendeva su lei. Ci sono rimasta .[...].

[…] Intercettazione ambientale. La conversazione intercorreva tra Walter Virga (W) e Alessio Cordova (A.) e l'argomento era l'allontanamento di Mariangela Pantò dallo studio.

W.: quindi questo lei non lo arriva a capire, è più forte ... poi indubbiamente, dal suo punto di vista, mi rendo conto che lei paga colpe non sue. da un altro punto di vista però, se noi la dobbiamo dire tutta è ma una persona non si chiede come sia possibile che qualcun altro se la mette in studio, l'assume, fa delle spese, gli dà del lavoro, gli gira dei soldi, e

A.: si, vabbè

W: perché? Non ti chiedi perché? Perché io penso che per nessun amico lo si farebbe

A: no, si vabbè, è chiaro, è chiaro, no

W: quindi, in questo lei non è ingenua, lei non è ingenua, lei sa bene, lei fa parte di un sistema per cui da Acanto.. lavora l'archeologo, amico di Angelo (inc.) disoccupato, eh, io sono stato nominato in un periodo tale dove, è vero che non c'era il (inc.) ma parliamoci chiaro, ma secondo te io lavoro là e vi dico? Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole (inc) la nuora qua, perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Perché era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio, per il problema delle materie che si doveva passare, noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico, diverso sarebbe stato avere un motivo per ……].

LEGAMI ED AMICIZIE

Conversazione ambientale. La conversazione intercorreva tra Walter Virga (W) e Alessio Cordova (A.) e Dario Majuri (D) dall'altra e riguardava i rapporti tra Walter Virga e Silvana Saguto.

[ ...]

W: Ale, Ale, hai una visione troppo, consideri troppo scema la Saguto. La Saguto non ascolta né la troietta della nuora, e neppure...

A:no lo so

w. la Saguto è ancora là dov'è da delinquente

A: vabèh lo so

W: (inc.) ascolta solo le persone che deve ascoltare, e se oggi io ci vado, oggi e le dico «Silvana ho bisogno di un altro incarico» io domani esco con un incarico per me, nonostante tutto e Telejato. Perché lei oggi non può mettersi contro mio padre, non lo può fare, io fino a ieri ne ho parlato con mio padre ho detto «(inc.) in studio non arriverà più niente» la risposta di mio padre è stata «se vuoi glielo chiedo (inc.)» cioè lei non lo può fare, è troppo sola, è disperata.

L'errore, no l'errore che noi abbiamo fatto, la cosa che a me sta dando più fastidio in assoluto di tutto, dell'atteggiamento (inc) che a me mai mi ha dato fastidio dal punto di vista umano... e che secondo me lei è convinta di essere importante

[…] Orbene, il processo ha provato, in effetti, l'esistenza di stretti rapporti intercorrenti

tra Silvana Saguto e Tommaso Virga. Diverse sono, infatti, le fonti di prova che hanno dimostrato tale legame. […] Nella medesima conversazione ambientale del 17 luglio 2015 Silvana Saguto e Tommaso Virga parlavano di Walter Virga e della volontà di quest'ultimo di dimettersi dagli incarichi dell'amministrazione giudiziaria. Tommaso Virga spiegava all'imputata che il figlio era distrutto dagli attacchi mediatici e avrebbe voluto dedicarsi all'università. La Saguto gli rappresentava che occorreva pensare ad un disimpegno non immediato, poiché altrimenti le dimissioni sarebbero state collegate alle inchieste giornalistiche.

Achille De Martino, agente di scorta di Silvana Saguto, nel corso del suo esame testimoniale, reso all'udienza del 7.3.2018, ha dichiarato che: vi erano ottimi rapporti tra l'imputata e Tommaso Virga, con il quale Silvana Saguto parlava spesso al telefono; in occasione della procedura di nomina a Presidente di sezione del Tribunale di Palermo, il testimone aveva udito diverse volte Silvana Saguto affermare che Tommaso Virga si stava adoperando per sponsorizzare, all'interno del CSM, la sua nomina; Walter Virga, figlio di Tommaso, veniva spesso in tribunale, poiché era stato nominato amministratore giudiziario; dopo l'inizio degli attacchi mediatici dell'emittente televisiva Telejato, diretta dal giornalista Pino Maniaci, Silvana Saguto aveva cominciato a parlare in termini non lusinghieri di Walter Virga, dicendo che non era in grado di gestire il compendio aziendale del gruppo Rappa, che si pentiva di averlo nominato e che stava valutando la possibilità di sostituirlo; le lamentele nei confronti di Virga erano divenute più frequenti dal mese di marzo del 2015.

Appare evidente al collegio, dunque, che vi fossero legami consolidati tra Tommaso Virga e Silvana Saguto e che il primo, inoltre, fosse interessato alle vicende interne alla sezione delle misure di prevenzione per gli incarichi che il figlio Walter aveva ricevuto nelle misure Giardina e Rappa.

Tommaso Virga, infatti, nel momento di fibrillazione collocato nell'estate del 2015, in cui Silvana Saguto e la sua sezione erano sottoposti ad una critica serrata da parte di diverse testate giornalistiche (Telejato, Le lene, La Repubblica), costituiva un elemento di conforto e sostegno per Silvana Saguto e per i giudici della sezione [...].

Risulta provato, quindi, che vi fosse un particolare rapporto tra Silvana Saguto e Tommaso Virga, connotato anche da uno scambio reciproco di favori (garanzia di protezione assicurata da Virga e incarichi al figlio prima dello scandalo, uscita concordata e senza traumi del figlio dopo lo scandalo).

Che questi siano stati i rapporti tra i due magistrati lo si comprende anche dall'assenza di qualsiasi riferimento da parte di Silvana Saguto all'incapacità o inidoneità di Walter Virga nella gestione delle misure di prevenzione nei discorsi che intratteneva con Tommaso Virga.

E' emersa pertanto in maniera evidente la necessità della Saguto di mantenere buoni rapporti con il collega magistrato, che si stava attivando, o mostrava di farlo, sia presso il Ministero della Giustizia (incontro con Cosimo Ferri presso il Ministero) che presso il CSM (interlocuzione con Galoppi, riferita dalla Saguto, ma smentita dal teste Galoppi). [...]

A CURA ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. La giudice Saguto e le troppe “consulenze” del marito ingegnere. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 28 novembre 2021.

È evidente come la nomina di Cappellano Seminara ad amministratore giudiziario fosse funzionale a creare occasioni di guadagno al marito della Saguto all'interno delle misure di prevenzione, tanto che la stessa Saguto si preoccupava di procacciare incarichi a Cappellano Seminara contattando anche altri giudici, sfruttando i rapporti che aveva instaurato nel corso della sua carriera

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

La pubblica accusa individua, innanzitutto, quali atti contrari ai doveri d’ufficio posti in essere da Silvana Saguto, nella sua qualità di presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e giudice delegato delle procedure 99 e 100/1993 RMP Fratelli Sansone, 39/2004 RMP Aiello, 26012010 RMP Salvatore Sbeglia, 27212010 RMP Francesco Paolo Sbeglia, 202/2010 RMP Bordonaro, 124/2011 RMP Maranzano, 263/2011 RMP Spadaro, 123/2012 RMP Abbate, 20/2014 RMP Ponte, quindi pubblico ufficiale, i seguenti provvedimenti: la nomina di Gaetano Cappellano Seminara quale amministratore giudiziario nelle seguenti procedure, ove Silvana Saguto ricopriva la veste di Presidente del collegio e di Giudice delegato: 260/2010 RMP Salvatore Sbeglia, il 3 febbraio 2011; 272/2010 RMP Francesco Paolo Sbeglia, il 15 febbraio 2011 (quando veniva disposto il sequestro di beni e la sospensione dell'amministrazione di CEDAM srl) e il 6 febbraio 2012 (quando veniva disposto il sequestro di delle quote sociali e dei beni aziendali di CEDAM srl); 202/2010 RMP Bordonaro, il 15 febbraio 2011; 124/2011 RMP Maranzano, il 20 luglio 2011; 282 263/2011 RMP Spadaro, 18 marzo 2012 (quando veniva disposta l'amministrazione giudiziaria ai sensi dell'ari. 34 d.lvo 159/2011 delle società New Pori spa, Portitalia srl e TCP-Terminal containers Palermo srl) e il 26 febbraio 2013 (quando veniva disposto il sequestro delle quote sociali e dei beni aziendali delle società già in amministrazione giudiziaria); 123/2012 RMP Abbate, il 20 luglio 2012; 20/2014 RMP Ponte, il 21 gennaio 2014 (quando veniva disposta l'amministrazione giudiziaria ai sensi dell'art. 34 d.lvo 159/2011 della Delta finanziaria spa, della F. Ponte sp,1 e della Vigidas spa) e il 18 marzo 2015 (quando veniva disposto il sequestro delle quote sociali e dei beni aziendali delle società già in amministrazione giudiziaria e della Makelhl tour srl).

UN MECCANISMO COLLAUDATO

Ora, per come si rappresenterà più specificamente in seguito, già a partire dalla fine del 2010 - ovvero dal pagamento in eccesso di compensi illecitamente disposto da Cappellano Seminara in favore di Lorenzo Caramma nel mese di dicembre 2010 relativamente alla fattura 92/2010 nell'ambito della procedura Calcestruzzi – la dott.ssa Saguto, nella sua qualità di presidente della sezione delle misure di prevenzione di Palermo, riceveva sistematicamente da Cappellano Seminara costanti e cospicui pagamenti indebiti, per il tramite del marito Lorenzo Caramma, nell'ambito delle procedure di prevenzione in cui quest'ultimo veniva nominato coadiutore da Cappellano Seminara.

La dott.ssa Saguto, già a partire dalla fine del 2010, era quindi un pubblico ufficiale disposto ad acconsentire alle richieste del corruttore, un giudice condizionato che - ricevendo dazioni indebite - era a disposizione del privato corruttore.

In questo quadro, il rapporto di somministrazione corruttiva ha implicalo da parte della Presidente Saguto la commissione di atti contrari ai doveri di ufficio, quali sono le citate nomine di Cappellano Seminara ad amministratore giudiziario, intervallatesi nel periodo dal 3 febbraio 2011 (procedura Sbeglia) al 18 marzo 2015 (procedura Ponte).

L'antidoverosità di tali provvedimenti si correla al fatto che la nomina di Cappellano Seminara prescinde da ogni valutazione circa la convenienza e l'opportunità per la realizzazione dei fini propri della procedura e si inserisce nell'ambito del rapporto di scambio di utilità intercorso tra il magistrato ed il medesimo professionista.

Lo comprovano le risultanze delle indagini patrimoniali, che hanno dimostrato come la principale fonte di reddito di Caramma Lorenzo, coniuge del magistrato, negli anni dal 2006 al 2015 siano stati proprio i compensi corrisposto a lui dal Cappellano Seminara quale libero professionista e quale amministratore giudiziario.

Lo dimostrano anche gli esiti del servizio di ascolto, che danno conto, da un lato, di una contrazione, negli ultimi anni, degli incarichi conferiti dalla Saguto al Cappellano Seminara negli ultimi anni in ragione degli attacchi mediatici di Telejato e delle conseguenti richieste di spiegazioni formulate alla dott.ssa Saguto dai capi degli Uffici Giudiziari e, dall'altro lato, degli interventi spiegati dalla Saguto su altri colleghi (in particolare nei confronti del dott. Muntoni, Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Roma) successivamente agli attacchi mediatici di che trattasi, per assicurare al Cappellano il conferimento di ulteriori incarichi di amministrazione giudiziaria, in seno alle quali potesse svolgere attività di collaborazione e consulenza anche il marito.

Significativa, sotto il primo profilo, è la conversazione intercettata il 4 agosto 2015 nell'ufficio della Saguto, nella parte in cui Cappellano Seminara - dopo avere terminato la dettatura alla Saguto del suo provvedimento di rigetto dell'istanza dell'lng.Nicoletti e dopo avere chiesto una sistemazione lavorativa per sua cugina - si spingeva direttamente a chiedere alla Saguto nuovi incarichi («...ma su Palermo misure? Perché considera che noi lasciala gas natural...») e la Saguto rispondeva «ora vediamo, per ora non abbiamo niente».

Preso atto della risposta negativa della Saguto, Cappellano si lamentava del fatto che nella procedura Virga era stato nominato amministratore Giuseppe Rizzo («devo dire che a me questo Rizzo non mi fa impazzire...») e la Saguto si giustificava dicendo che Rizzo glielo aveva fatto nominare Nasca («senti qua, me l'ha fatto nominare Nasca...») e che comunque aveva nominato come coamministratore Provenzano [...].

Oltremodo chiare sono, sotto il secondo profilo, le conversazioni intercettate in data 11/6/2015 intercorse tra Saguto e Cappellano, tra Cappellano e Muntoni e tra Cappellano Seminara e la Saguto, dalle quali chiaramente si rileva come la nomina di Cappellano Seminara operata in data 18/6/2015 da parte del Tribunale misure di prevenzione di Roma fosse stata suggerita al Muntoni da Silvana Saguto, proprio al fine di ottenere, per suo tramite, il conferimento di incarichi di collaborazione al coniuge Caramma Lorenzo.

Invero, l' 11 giugno 2015 Silvana Saguto chiamava Cappellano Seminara, che si trovava in quel momento a Roma, per dirgli di contattare Gugliemo Muntoni, Presidente del Tribunale misure di prevenzione di Roma e i due restavano d'accordo che si sarebbero sentiti in seguito.

Seguiva, quindi, la telefonata di Cappellano Seminara a Guglielmo Muntoni, nel corso della quale questi proponeva a Cappellano Seminara di assumere l'incarico di amministratore giudiziario nell'ambito di un sequestro di prevenzione che sarebbe stato depositato di li a breve, e Cappellano Seminara si dimostrava disponibile («con grande piacere»).

Il 18 giugno 2015 Cappellano Seminara contattava Silvana Saguto e la informava di avere ottenuto un incarico da Guglielmo Muntoni, il quale aveva espresso l'intenzione di coinvolgere Lorenzo Caramma nell'amministrazione giudiziaria («... e quindi mi ha dello: "questo se lo veda. Se ne freghi di tutto..., sappiamo chi è lei, sappiamo chi è Silvana... ". E' stata ... è stato graziosissimo. Al suo collega gli disse: "guarda, considera che la collega che ha il marito ingegnere l'ingegnere non può più lavorare a Palermo. Quindi, se noi un ingegnere meccanico possiamo farlo lavorare a Roma lui ha diritto di vivere la sua vita professionale, non influenzato...»).

[...]E' evidente come la nomina di Cappellano Seminara ad amministratore giudiziario fosse funzionale a creare occasioni di guadagno al marito della Saguto all'interno delle misure di prevenzione, tanto che la stessa Saguto, chiaramente al di fuori del corretto esercizio delle funzioni giudiziarie svolte, nel cui unico interesse la stessa avrebbe dovuto operare, si preoccupa di procacciare incarichi a Cappellano Seminara pure da parte di altra Autorità Giudiziaria operante nel mondo delle misure di prevenzione, sfruttando evidentemente i collaudati rapporti che, nel corso della sua carriera, aveva instaurato con i suoi colleghi per "sponsorizzare" Cappellano Seminara e non perché professionista preparato ed organizzato, ma, come è evidente dalla successiva conversazione captata, esclusivamente per fare lavorare il marito.

Del tutto esplicito è, infatti, il tenore della conversazione captata in data 8/7/2015, intercorsa tra Saguto Silvana e Licata Fabio, laddove la dott.ssa Saguto, parlando con il collega, affermava  «a Lorenzo ... Muntoni gli ha dato un incarico a Cappellano apposta per fare lavorare Lorenzo .. . quello si spaventa a dargli l'incarico a Lorenzo... . e perciò ti dico, ma Muntoni aveva nominato per dargli l'incarico dice sì "lavorano assieme....».

TROVARE LAVORO PER IL MARITO

La finalità che sta alla base della segnalazione operata dalla Saguto al collega Muntoni - pur se la condotta, in sé, non può apprezzarsi sotto il profilo del rapporto corruttivo, non implicando la mera segnalazione il compimento di alcun atto di ufficio da parte della Saguto - certamente colora di valenza indiziante invece i provvedimenti che riguardano la nomina del Cappellano in altre procedure dinanzi a lei pendenti, che appaiono chiaramente adottati in funzione della stessa finalità (il conferimento di incarichi al coniuge) e perciò sono qualificabili quali atti contrari ai doveri di ufficio del medesimo magistrato.

E', del resto, dato di immediata percezione la contiguità temporale fra la nomina dell'avv. Cappellano Seminara, quale amministratore giudiziario, nelle procedure Salvatore Sbeglia, intervenuta in data 3/2/2011, Francesco Paolo Sbeglia, intervenuta il 15/2/2011 ed il 6/2/2012, Bordonaro intervenuta il 15/2/2011, Maranzano intervenuta il 20/7/2011, Spadaro intervenuta in data 8/3/2012, Abbate intervenuta il 20/7/2012 e le istanze presentate dal Cappellano Seminara per il conferimento di incarichi di coadiuzione o consulenza a Caramma Lorenzo nelle procedure Allegro in data 19/10/2011, Diego Agro in data 2/11/201 I, Ignazio Agro in data 11/11/2011, Padovani in data 18/1/2012, Leone in data 13/7/2012 e Di Bella in data 13/7/2012.

Contiguità che ancor di più consente di apprezzare la prospettiva del rapporto di scambio nel quale si inseriscono le reciproche prestazioni e le modalità peculiari attraverso cui si realizza il patto corruttivo, modalità ritenute con ogni probabilità dagli imputati assai tranquillizzanti, dal momento che gli incarichi al Caramma venivano conferiti con il "correttivo" di non radicarsi a Palermo, ma nell'ambito di procedure pendenti presso Tribunali diversi da quello di Palermo.

Ed allora, può ritenersi dimostrato in giudizio, ad avviso del Tribunale, come la causa giustificativa degli incarichi conferiti a Lorenzo Caramma fosse da rinvenire negli incarichi che la Saguto aveva conferito a Cappellano Seminara e, viceversa, come la Saguto, consapevole degli incarichi conferiti al proprio marito, scegliesse di nominare Cappellano Seminara proprio in forza di tale accordo corruttivo e ricevesse appunto, in cambio di tali nomine, gli incarichi professionali per il marito e la dazione di ulteriori utilità indebite.

Peraltro, le nomine conferite a Cappellano Seminara dalla Saguto non sono soltanto rilevanti nel numero, ma sono sicuramente le più importanti e le più remunerative tra quelle pendenti al Tribunale delle misure di prevenzione di Palermo.

Tale circostanza, oltre ad essere stata chiaramente riferita dal teste Claudia Rosini, giudice in servizio alla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo all'epoca dei fatti, è stata pure confermata dalla stessa Saguto nelle conversazioni intercettate.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto, gli incarichi d’oro dell’avvocato amico di famiglia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 29 novembre 2021.

Cappellano Seminara non riceveva lucrosi incarichi dalla Saguto per le sue indiscusse capacità professionali, quanto, invece, perché lo stesso poteva ricambiare attraverso il conferimento di incarichi al marito e attraverso le dazioni di utilità indebite.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

La Saguto aveva rilasciato in data 3 maggio 2014 un'intervista al Giornale di Sicilia, nel corso della quale aveva fatto la seguente dichiarazione: «Al presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi ed ad Alfano abbiamo detto come stanno le cose. Cappellano Seminara ha 11 incarichi attualmente. Il maggior numero di incarichi li ha Alessandro Scimeca, che ne ha 16».

In realtà, però, per come emerso chiaramente in dibattimento, che lo Scimeca non fosse "il re degli amministratori'' lo sapeva bene anche la Saguto.

Infatti, nella conversazione ambientale intercettata il 17.07.2015, la Saguto e Fabio Licata stavano parlando della opportunità di sostituire Walter Virga e discutevano, appunto, della tipologia di misure che ha Alessandro Scimeca; Fabio Licata diceva, «però, noi ti diamo uno, qui ci vuole .. prendiamo ad Aiello, qualcuno del genere, e ce lo mettiamo, per sostituire Walter Virga", Silvana Saguto diceva io penso che Scimeca abbia moltissima rilevanza", Fabio Licata rispondeva "Scimeca va benissimo", "che è da tanto tempo che non ha misure", e Silvana Saguto concludeva dicendo "ha misure...cretinissime».

Quindi Scimeca, definito il re degli amministratori nella citata intervista, forse aveva un numero di sequestri superiore anche a quelle di Cappellano Seminara, ma in realtà, secondo il giudizio della stessa Saguto, aveva solo misure "cretinissime” già da tempo e, peraltro, aveva ricevuto l'ultimo incarico dalle misure di prevenzione di Palermo nel 2012 (fatta eccezione per un incarico nel 2014 relativo ad un'estensione di un precedente sequestro, che in sede di sit durante le indagini preliminari lo Scimeca non aveva subito ricordato, perché di nessuna consistenza patrimoniale).

Il concetto era ribadito da Silvana Saguto nella ulteriore conversazione ambientale captata il 22 giugno 2015, allorquando, parlando delle amministrazi.oni giudiziarie di Cappellano Seminara, diceva «lui (Cappellano Seminarara) ne ha otto incarichi, sono pochi rispetto ad altri, pero lui ha quelle importanti».

Quindi, è da ritenere dato pacifico in giudizio che gli incarichi conferiti a Cappellano Seminara fossero i più importanti e, di conseguenza, i più remunerativi tra quelli affidati dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Non può, poi, assumere rilievo l'argomento, utilizzato dalle difese, secondo cui il reato non sussisterebbe in ragione della natura collegiale della decisione di conferire i singoli incarichi.

Invero, come è pacifico in giurisprudenza, la presenza all'interno cli un organo giurisdizionale collegiale di un componente privo del requisito dell'imparzialità - perché partecipe di un accordo corruttivo - inficia, nonostante l'estraneità degli altri componenti all'accordo corruttivo, la validità dell'intero "iter" decisionale, per sua natura dialettico e sinergico, e conseguentemente la validità del provvedimento giudiziario emanato, poiché il giudice corrotto è del tutto privo di legittimazione.

[…] La ponderazione degli opposti interessi in vista del perseguimento del bene pubblico non può, dunque, prescindere dall'apporto dialettico di ciascun membro del collegio. Si aggiunga che nel caso di specie, come già si è detto in precedenza la Saguto aveva un indubbio peso nell'ambito della decisione collegiale, oltre che per il ruolo di Presidente del Collegio e di giudice delegato delle procedure, anche per l'indiscusso carisma all'interno della sezione.

Ciò posto, l'elemento decisivo da cui si ricava l'antidoverosità degli atti di nomina di Cappellano Seminara è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge, […]. In altre parole, avendo la Saguto scelto di nominare Cappellano Seminara in forza del patto corruttivo in essere, l'interesse pubblico sottostante al potere discrezionale del Tribunale di nominare un amministratore giudiziario è stato in concreto condizionato dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore

Sotto questo profilo, è del tutto irrilevante il fatto, pacificamente emerso dalle risultanze dibattimentali, che, nel periodo in cui Silvana Saguto è divenuta presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo (ad ottobre 2010), Gaetano Cappellano Seminara era certamente uno degli amministratori giudiziari più esperti e meglio attrezzati dell'area palermitana ed uno dei soggetti maggiormente qualificati anche a livello nazionale.

LA PROFESSIONALITÀ DI CAPPELLANO SEMINARA

Sul punto, è stato dimostrato nel processo che lo studio professionale dell'imputato Cappellano Seminara era, in effetti, una struttura articolata, dotata al suo interno di diverse professionalità che divenivano utili allorquando occorreva procedere alla gestione di aziende complesse.

I diversi testimoni sentiti nel corso dell'istruttoria dibattimentale (dr. Testimonianze di Gioacchino Natoli, Claudia Rosini, Antonio Balsamo, Piero Grillo) hanno conformato la particolare preparazione ed esperienza, nel campo delle misure di prevenzione, di Cappellano Seminara. Del resto, il presente processo non ha avuto ad oggetto la professionalità di Cappellano Seminara, bensì i rapporti che lo stesso aveva instaurato con la presidente della Sezione delle misure di prevenzione e le reciproche ed indebite cointeressenze economiche che si erano create in funzione di tale rapporto.

Ma, come è stato dimostrato, Cappellano Seminara non riceveva lucrosi incarichi dalla Saguto per le sue indiscusse capacità professionali, quanto, invece, perché lo stesso poteva ricambiare attraverso il conferimento di incarichi al marito e attraverso le dazioni di utilità indebite. Proprio il percepimento di tali utilità indebite ha inciso in radice la possibilità di un corretto esercizio da parte della Saguto dei poteri che regolano l'esercizio del suo potere giurisdizionale, impedendole qualsiasi apprezzamento rispondente a criteri di correttezza e di discrezionalità tecnica od amministrativa [...].

Ciò che si richiedeva alla Saguto nell'esercizio delle sue funzioni di Presidente del Tribunale misure di prevenzione e giudice delegato alle procedure era di esprimere una valutazione autonoma ed imparziale in merito alla scelta del soggetto da nominare, di volta in volta, amministratore giudiziario dei beni in sequestro.

Invece, l'aspettativa di ricevere, secondo moduli ormai consolidati, da Cappellano Seminara denaro ed altre utilità ha inevitabilmente condizionato i procedimenti valutativi della Saguto, che ha quindi fatto uso del potere discrezionale prescindendo del tutto, per sua consapevole volontà, dall'osservanza del dovere istituzionale di effettuare una valutazione comparativa degli interessi pubblici da perseguire. Ed allora, l'antidoverosità delle nomine di Cappellano Seminara si concretizza nella violazione, da parte della Saguto, della regola "giusta" nel concreto operare della discrezionalità amministrativa.

Il concreto interesse pubblico sotteso all'esercizio della funzione della Saguto, che era quello di occuparsi della gestione dei compendi in sequestro, è stato certamente condizionato ed inquinato dall'esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l'accordo corruttivo.

Né l'interesse pubblico può ritenersi soddisfatto per il solo fatto che il privato corruttore sia una persona professionalmente capace.

Ed invero, non può revocarsi in dubbio che la scelta di Cappellano Seminara sia intervenuta a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi, non potendosi escludere che, in assenza del pactum sceleris, il Collegio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo avrebbe potuto nominare un diverso professionista, essendo il Cappellano Seminara in effetti uno dei più competenti, ma non certo l'unico soggetto ad avere i requisiti per la nomina.

Del resto, come si avrà modo di apprezzare in seguito esaminando gli altri capi di imputazione, nel processo è stata raggiunta la prova che il modus operandi che ha accompagnato nel tempo la condotta della Saguto era proprio quello di scegliere le persone cui affidare gli incarichi di amministratore giudiziario non in base alle loro capacità professionale, bensì in base alle utilità che da loro poteva ricevere.

Ne sono palese dimostrazione le nomine di Roberto Nicola Santangelo e la nomina di Giuseppe Rizzo, il primo nominato al fine di ottenere la disponibilità di Carmelo Provenzano per garantire il buon esito degli studi del figlio Emanuele e per prodigarsi per coinvolgerlo successivamente nel lavoro, il secondo in ragione delle promesse di utilità di Rosolino Nasca, rappresentate dal coinvolgimento lavorativo del marito Lorenzo Caramma nella medesima procedura, nonché del figlio Francesco Caramma e della fidanzata di quest'ultimo, Mariangela Pantò, nel contesto di altri incarichi che eventualmente Rizzo avesse ottenuto.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto, beni mafiosi e parcelle milionarie, storie di malagiustizia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 30 novembre 2021.

La condotta di Silvana Saguto nell'ambito della liquidazione Aiello è rivelatrice della strumentalizzazione delle sue prerogative per aver adottato specifici atti in violazione dei doveri di ufficio. Ha favorito gli interessi del corruttore (Cappellano Seminara, ndr.) a discapito di qualsiasi altra valutazione dell'interesse pubblico.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Secondo l'impianto accusatorio, il provvedimento di liquidazione depositato il 16 aprile 2012 con cui Silvana Saguto ha liquidato, nei confronti di Cappellano Seminara, consulente legale nella procedura 39/2004 RMP Aiello,€ 838.272,13 a carico di Villa Santa Teresa snc, € 123.799,94 a carico di A.T.M. s.r.l., € 15.439,53 a carico di Centro di medicina nucleare San Gaetano srl, 29.396,15 curo a carico di ATI Group srl e 45.240,90 euro a carico di ATI Group srl, Emar srl ed Ediltecnica srl, presenterebbe le caratteristiche di un atto contrario ai doveri di ufficio, poiché di un ammontare superiore di € 484.762,47 rispetto a quello ritenuto congruo da Andrea Dara, amministratore giudiziario della medesima procedura.

Parimenti antidoverosi sarebbero, poi, ad avviso del Pubblico Ministero, i successivi provvedimenti volti all'esecuzione della liquidazione e, segnatamente:

- il provvedimento del 23 ottobre 2012, avente il seguente contenuto: ''letti gli atti e sentito l'amministratore considerato che appare opportuno trovare una soluzione celere al contenzioso con l'Avv. Cappellano che [indecifrabile] è necessario reperire i fondi per il pagamento dallo stesso richiesto e liquidato dallo stesso GD, invita l'amministratore a predisporre un versamento (anche tramite dismissione dei titoli) di una congrua parte dell'onorario e versare il resto in dodici rate mensili, cercando all'uopo accordi con l'avvocato Cappellano[...];

- ed il successivo provvedimento del 5 novembre 2012 con il quale Silvana Saguto si è così determinata: "considerato che, obbiettivamente l'amministratore [sic] ha avuto liquidato il suo onorario già in data 12.4.2012, che con nota del 25.10.12 lo stesso ha formulato una proposta quasi coincidente con quanto indicato da questo GD; che comunque, onde evitare azioni esecutive da parte dello stesso, sicuramente foriere di ulteriori costi per l'amministrazione è opportuno accogliere la stessa; si invita il dott. Dara ad accogliere la proposta avanzata dall'Avv. Cappellano il 25.10.12 e a corrispondere allo si esso quanto dovuto".

Orbene, contrariamente all'assunto dei difensori, ritiene il tribunale che le condotte poste in essere da Silvana Saguto, nella qualità di giudice delegato della procedura Aiello, siano effettivamente atti contrari ai doveri di ufficio.

LA RICOSTRUZIONE DELLA VICENDA

Deve premettersi che nell'amministrazione giudiziaria del gruppo Aiello l'amministratore nominato dal tribunale era Andrea Dara, mentre Cappellano Seminara aveva assunto dal marzo all'ottobre del 2004 l'incarico di coadiutore dell'amministrazione, dall'ottobre 2004 all'ottobre 2009 l'incarico di consigliere del C.D.A. e consulente legale e dall'aprile 2004 al giugno 2012 unicamente il ruolo di consulente legale.

I provvedimenti emessi da Silvana Sltguto, oggetto del presente capo di imputazione, riguardano il pagamento delle prestazioni professionali, di tipo giudiziale ed extragiudiziale, rese da Cappellano Seminara in favore delle società sanitarie del c.d. gruppo Aiello dal 2004 al 2011 in qualità di libero professionista nominato consulente legale dell'amministrazione giudiziaria.

La produzione documentale in atti consente di ricostruire in maniera precisa l'evoluzione della vicenda in esame, che ha portato la Saguto all'adozione degli atti contrari ai doveri di ufficio.

Cappellano Seminara, come risulta dalle parcelle pro-forma inviate con quattro

missive datate 18 novembre 2011, aveva richiesto i seguenti compensi:

- 950.703,66 euro in relazione all'attività legale prestata in favore di Villa Teresa diagnostica per immagini e radioterapia srl;

- 75.988,27 euro in relazione all'attività legale prestata in favore dell'Ati Group e delle altre società del gruppo Aiello;

- 29.396, 15 euro in relazione all'attività legale prestata in favore di Ati Group srl;

- 15.439,53 euro in relazione all'attività legale prestata in favore del Centro medicina nucleare San Gaetano srl.

L'amministratore giudiziario del gruppo, dott. Andrea Dara, ritenendo eccessive, almeno in parte, le richieste di Cappellano Seminara, non aveva risposto, fino al febbraio 2012, alle richieste di pagamento avanzate da quest'ultimo.

A quel punto, Cappellano Seminara si era rivolto direttamente alla dott.ssa Saguto, giudice delegato della procedura, sollecitando formalmente un suo intervento per dirimere la controversia nascente tra lui, quale professionista incaricato nella procedura Aiello, e l'amministratore giudiziario dott. Dara.

Lo aveva fatto dapprima con la nota del 20 dicembre 2011, che non era indirizzata, neppure per conoscenza, all'amministratore Andrea Dara, il quale, come riferito nel corso della sua testimonianza, ne era stato verbalmente informato dalla Saguto, che lo aveva informalmente sollecitato ad occuparsi della questione e ad assicurare un riscontro.

Cappellano Seminara aveva, poi, inviato al giudice delegato dott.ssa Saguto una seconda nota, datata 10 febbraio 2012 e depositata il 14 febbraio 2012, lamentando che l'amministratore giudiziario dott. Dara persisteva a non riscontrare in alcun modo le sue richieste e prospettandole la sua intenzione di adire il Consiglio dell'Ordine per fare apporre la congruità sulle parcelle.

In calce a detto documento la Saguto, in data 14 febbraio 2012, aveva apposto un'annotazione manoscritta con la quale disponeva che la nota fosse trasmessa all'amministratore dott. Dara ed invitava quest'ultimo a corrispondere quanto richiesto da Cappellano Seminara.

Il 24 febbraio 2012 il dott.Dara depositava una nota interlocutoria in Tribunale, con la quale informava la Saguto che stava elaborando un provvedimento definitivo sulle spettanze di Cappellano Seminara ed il 2 marzo 2012, infatti, Dara depositava una dettagliata relazione, con b quale formulava una serie di rilievi alla richiesta di Cappellano Seminata per compensi nella misura di €1.070.000,00 e riduceva l'importo spettante a soli€ 441.562,00.

[…] In data 6 marzo 2012 la Saguto disponeva che la citata relazione di Dara venisse trasmessa a Cappellano Seminara, il quale, in data 3 aprile del 2012, depositava una ulteriore nota, con la quale prendeva posizione su tutte le critiche di Dara rispetto alle spettanze richieste.

Lo scambio di note e relazioni si concludeva, infine, con il provvedimento del 16 aprile 2012 (documento n. 171 ), oggetto del capo di imputazione in esame, con il quale Silvana Saguto, in qualità di giudice delegato e, dunque, in forma monocratica, provvedeva a liquidare in favore di Cappellano Seminara un importo praticamente corrispondente a quello da lui richiesto, fotta eccezione per minime riduzioni in relazione alle spettanze relative alle società edili del gruppo Aiello.

[…] A seguito del superiore provvedimento, Andrea Dara riuniva il Consiglio di Amministrazione di Villa Santa Teresa, che era la società su cui gravava in via prioritaria l'importo che la dott.ssa Saguto aveva liquidato ed il predetto Consiglio di Amministrazione, con l'astensione di Dara, decideva di non impugnare il provvedimento del giudice delegato e di procedere al pagamento dei compensi di Cappellano Scminara. Nei mesi seguenti si poneva il problema di eseguire effettivamente il pagamento nei confronti dell'imputato e l'amministrazione giudiziaria entrava nuovamente in contrasto con Cappellano Seminara sui tempi dell'adempimento.

[…] Il conflitto delle parti coinvolgeva nuovamente il giudice delegato, Silvana Saguto, la quale interveniva in due occasioni, con i provvedimenti del 23 ottobre 2012 e del 5 novembre 2012, riportati in imputazione e depositati nel corso del processo.

Con il primo provvedimento il giudice delegato statuiva che "poiché è necessario reperire i fondi per il pagamento dallo stesso [Cappellano Seminara] richiesto e liquidato dallo stesso GD, invita l'amministrazione a predisporre un versamento (anche tramite dismissione di titoli) di una congrua parte dell'onorario e versare il resto in dodici rate mensili"

Il 25 ottobre 2012 Cappellano Seminara indirizzava una nota al Giudice Delegato, nella quale diceva che sarebbe stato disposto ad accettare una rateizzazione fino a un massimo di sei rate con decorrenza dal mese di novembre 2012 e la Saguto girava anche questa nota all'amministratore giudiziario.

Il dott.Dara, dopo avere interloquito con il Giudice Delegato, informava Cappellano Seminara che le sue richieste non potevano essere accolte. Il 2 novembre 2012, quindi, Cappellano Seminara indirizzava una missiva al dott. Dara e per conoscenza anche al Giudice Delegato, in cui si dichiarava pronto ad adire le vie legali e, successivamente, il 5 novembre del 2012, la dott.ssa Saguto disponeva che venisse accolta la proposta di Cappellano Seminara, formulata il 25.10.2012, di avere attribuito le sue spettanze nei seguenti termini: metà in un'unica soluzione e metà in sei rate mensili di uguale importo da novembre 2012 e sino al mese di aprile 2013 sulla base della seguente motivazione "considerato che, obbiettivamente l'amministratore ha avuto liquidalo il suo onorario già in data 12.4.2012, che con noia del 25.10.12 lo stesso ha formulato una proposta quasi coincidente con quanto indicato da questo GD; che comunque, onde evitare azioni esecutive da parte dello stesso, sicuramente foriere di ulteriori costi per l'amministrazione è opportuno accogliere la stessa; si invita il dott. Dura ad accogliere la proposta avanzata dall'Avv. Cappellano il 25. 10.12 e a corrispondere allo stessso quanto dovuto".

LA SAGUTO E IL REATO COMMESSO

Tanto premesso, osserva il Collegio che non è stato dimostrato nel processo che il compenso richiesto da Cappellano Seminara fosse effettivamente superiore a quanto dovuto in relazione alle prestazioni professionali rese nei confronti della procedura Aiello.

[…] Ed invero, pur prescindendosi dal merito della quantificazione di tali compensi, ritiene il collegio che la condotta di Silvana Saguto nell'ambito della c.d. liquidazione Aiello sia, al di là di ogni ragionevole dubbio, rivelatrice dell'avere la stessa strumentalizzato le sue prerogative ed adottato specifici atti in violazione dei doveri di ufficio con una concreta presa in carico degli interessi del corruttore a discapito di qualsiasi altra valutazione dell'interesse pubblico.

A tale conclusione si giunge avuto riguardo ai poteri del giudice delegato previsti dalla normativa in materia di misure di prevenzione ratione temporis applicabile, ovvero la legge 575/1965. Orbene, secondo tale normativa il ruolo del giudice delegato nelle amministrazioni è quello di dirigere e controllare l'attività svolta dall'amministratore giudiziario, intervenendo nei termini disciplinati dalla legge per autorizzare taluni atti indicati dal legislatore.

Non ha il giudice delegato, come giudice monocratico, alcun potere di liquidare le spese ed i compensi sostenute dall'amministratore, dovendo essere tali pagamenti disposti con decreto del Tribunale collegiale, su relazione del giudice delegato. Tanto meno il giudice delegato ha il potere di liquidare il compenso ad uno dei creditori della procedura, spettando tale compito direttamente all'amministratore giudiziario, previa acquisizione dell'autorizzazione del giudice delegato.

[…] Così ricostruiti i limiti del potere di intervento del giudice delegato, è evidente che nel caso di specie - che vedeva un conflitto aperto ed insanabile tra l'amministratore giudiziario e un professionista incaricato dall'amministrazione e che aveva ad oggetto il quantum del compenso dovuto al secondo .... la dott.ssa Saguto non aveva il potere di disporre alcuna liquidazione in favore di Cappellano Seminara. […] L'avere, dunque, la Saguto - a fronte della ferma volontà (fondata o meno) dell'amministratore giudiziario di non pagare nella misura richiesta il credito della procedura nei confronti di Cappellano Seminara - provveduto, tanto più in forma monocratica, alla liquidazione delle spettanze, sostanzialmente sostituendosi all'amministratore giudiziario, significa, ad avviso del Tribunale, non solo avere fatto un uso distorto della discrezionalità amministrativa - che già questo basterebbe per qualificare l'atto come antidoveroso - quanto addirittura avere agito allo scopo di realizzare l'interesse del privato corruttore ed in totale assenza di una norma attributiva del potere e, quindi, con un provvedimento abnorme manifestamente in violazione della disciplina normativa cogente.

D'altra parte, anche tutta la condotta antecedente all'emissione del provvedimento di liquidazione del 16 aprile 2012 (e così pure quella susseguente, come si dirà oltre) è contraddistinta da anomalie sintomatiche dell'asservimento della funzione e dell'antidoverosità dell'atto compiuto.

Più volte Cappellano Seminara si è rivolto, con diverse missive. direttamente al giudice delegato, senza nemmeno inserire l'amministratore giudiziario in indirizzo per conoscenza, quando, invece, il consulente esterno di una amministrazione giudiziaria ha un rapporto diretto con il solo amministratore giudiziario che lo ha nominato e giammai con il giudice delegato.

Ancora più anomalo il il fatto che, nella vicenda in esame, in diverse occasioni la Saguto ha portato a conoscenza di Cappellano Seminara le relazioni e le note depositate in cancelleria dall'amministratore giudiziario dott.Dara.

Ora, dal 2009 Cappellano Seminara non aveva più incarichi né nell'amministrazione giudiziaria Aiello, né nei consigli di amministrazione delle società poste sotto sequestro e manteneva unicamente il rapporto di consulente esterno, ragione per cui lo stesso doveva essere considerato quale mero creditore della procedura e, in quanto tale, certamente non legittimato a venire a conoscenza delle vicende della gestione della misura di prevenzione. Ed invece la Saguto, senza porsi il problema, condivideva con Cappellano Seminara atti dell'amministrazione giudiziaria formalmente depositati in cancelleria, […] che quest'ultimo non aveva alcun titolo per conoscere.

Si tratta di elementi che, evidentemente, consentono di ricostruire un contesto di rapporti anomali tra il giudice delegato e un creditore della procedura e che restituiscono l'immagine di un magistrato che non operava secondo i parametri ordinari di prudenza, ponderazione ed approfondimento che sarebbero stati necessari in un'ipotesi in cui vi era un contrasto su una parcella milionaria.

Anche i successivi provvedimenti del 23 ottobre e del 5 novembre 2012 risultano chiaramente adottati da Silvana Saguto per favorire Cappellano Seminara.

[…] Non può certo dirsi che i predetti atti siano rispondenti ad un regolare esercizio della funzione propria del giudice delegato. […] Se poi si pensa che, come meglio emergerà oltre, già dalla fine del 2010 tra Silvana Saguto e Cappellano Seminara era in atto il sinallagma corruttivo, nell'ambito del quale gli incarichi di Cappellano Seminara venivano compensati con le utilità consistite nella nomine e nella retribuzione indebita di Lorenzo Caramma, non può che concludersi nel senso che la condotta tenuta dalla Saguto nella vicenda di cui al capo di imputazione in esame si colloca coerentemente all'interno di un alveo di rapporti, ormai consolidati, in cui il magistrato aveva completamente rinunciato alle sue prerogative ed era propenso ad adottare ogni provvedimento, tipico o meno, che potesse avvantaggiare Gaetano Cappellano Seminara.

E, vale la pena sottolinearlo, nella vicenda in esame il vantaggio derivante a Cappellano Seminara non era soltanto quello di ottenere per intero la liquidazione dei suoi compensi, [...], bensì anche e soprattutto quello, ancora più rilevante, di ottenere subito il pagamento (con dismissione dei titoli e con un numero di sole 6 rate mensili), così evitando il pericolo di dovere subire il ritardo e l'incertezza nella percezione delle spettanze che presumibilmente sarebbe derivato dalla ormai prossima confisca del patrimonio in sequestro (poi in effetti disposta nel mese di maggio 2013).

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. L’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, “un gradino poco sotto a Satana”. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it l’1 dicembre 2021.

Così il testimone Dott. Tona «...Io ho sentito dire cose di, di Cappellano poco, poco, poco sotto quello che può fare Satana in persona, nel 2005, ho fatto le mie verifiche, mi sono fatto gli accertamenti, ho saputo anche, delle cose che non sono bellissime, quelle di cui abbiamo parlato tante volte, ma che non appartengono diciamo...».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Nella procedura di prevenzione c.d. Maranzano n.124/2011 RMP la Saguto risulta avere autorizzato, con provvedimento del 23.04.2012, l'amministratore giudiziario Cappellano Seminara, "a servirsi della Legai Gest consu/ting srl, sedente in Palermo nella via Mariano Stabile 43 per l'attività amministrativa quotidiana, stante l'assenza di personale di segreteria, dietro corrispettivo mensile di 400 euro oltre IVA ponendo i relativi oneri a carico delle società in sequestro".

Orbene, attesa l'evidente posizione di conflitto di interessi in cui si trovava Cappellano Seminara, cui era riconducibile la società Legai Gest consulting srl (così come può ritenersi provato nel corso del processo ed ammesso dallo stesso imputato), ritiene il Tribunale che la Saguto si sia detem1inata ad emettere tale provvedimento al fine di procurare un indebito profitto a Cappellano Seminara, il cui compenso di amministratore giudiziario veniva così ad essere surrettiziamente aumentato, con aggravio di spese a carico delle società in sequestro.

Trattasi di una condotta rientrante, ad avviso del Tribunale, nell'alveo della c.d. discrezionalità non libera, che ormai caratterizzava l'operato di Silvana Saguto nei provvedimenti che riguardavano Cappellano Seminara e riconducibile, quindi, all'interno di un'ipotesi di corruzione propria.

Con l'adozione di tale atto la Saguto risulta in concreto avere preso in carico gli interessi del privato corruttore, atteso che, se pure la stessa veramente avesse ritenuto necessario dotare l'amministratore giudiziario di una struttura esterna per svolgere "attività amministrativa quotidiana" - e di tale circostanza si ha ragione di dubitare nella misura in cui in ogni amministrazione giudiziaria serve svolgere attività di segreteria, che ben può essere affidata anche ad un coadiutore – allora l'odierna imputata, nel rispetto delle regole di imparzialità che governano la funzione giurisdizionale, avrebbe dovuto chiedere all'amministratore di compiere una ricerca di mercato per trovare un soggetto o un'altra società che poteva offrire il servizio di segreteria e non certo nominare la società dello stesso Cappellano Seminara.

LA DIFESA DELL’AVVOCATO

[…] La difesa [...] ha, innanzi tutto, rilevato che il provvedimento della Saguto era giustificato dal fatto che le società in sequestro non avessero una loro dotazione di personale ed attrezzature idonea a svolgere il servizio di segreteria. Ha poi evidenziato come, comunque, Cappellano Seminara, melius re perpensa, "in considerazione della circostanza che di tale Legai Gest s.r.l. era il maggior quotista", abbia ritenuto più opportuno sopportare personalmente i costi, anziché porli - come stabilito nel provvedimento della Saguto - a carico delle stesse società in sequestro.

In conclusione, quindi, ad avviso della difesa, mancherebbe il profilo di antidoverosità del provvedimento di autorizzazione del giudice delegato del 23.04.2012, che sarebbe rimasto del tutto privo di esecuzione.

Le censure non colgono nel segno, essendo evidente che la contrarietà dell'atto ai doveri di ufficio deve essere valutata al momento dell'adozione dell'atto ed indipendentemente dall'evoluzione che ha poi avuto la collaborazione tra la procedura Maranzano e la Legai Gest consulting s.r.l.

In altre parole, il fatto che poi la Legai Gest consulting s.l.r. non abbia emesso alcuna fattura nei confronti delle società del gruppo Maranzano non esclude la contrarietà dell'atto ai doveri di ufficio da parte di Silvana Saguto per avere, nonostante la sua consapevolezza della riconducibilità a Cappellano Seminara della Legai Gest consulting s.r.l., autorizzato l'esborso di 400,00 euro mensili a favore della predetta società.

D'altra parte [...], in ordine alla medesima vicenda, l'incolpazione di Cappellano Seminara per l'abuso di ufficio commesso nella sua qualità di amministratore giudiziario della procedura Maranzano, l'avere ottenuto l'autorizzazione del giudice delegato a servirsi della Legai Gest consulting s.r.l., ha comportato per Cappellano Seminara un vantaggio tributario, avendo egli utilizzato le fatture emesse dalla Legai Gest nei suoi confronti, in relazione all'attività di segreteria svolta nell'ambito della procedura Maranzano, quali costi da detrarre nella dichiarazione dei redditi.

E' del tutto evidente, in conclusione, come la circostanza dell'assenza di costi sopportati dalla procedura di prevenzione Maranzano non faccia venire meno l'illiceità dell'atto di Silvana Saguto, la quale, con la sua condotta, nell'ambito del rapporto corruttivo in essere con Cappellano Seminara, ha inteso arrecare un vantaggio patrimoniale a quest'ultimo, con aggravio delle spese sulle società in sequestro, nella piena consapevolezza della posizione di conflitto di interessi di Cappellano Scminara con la Legai Gest Consulting s.r.l. Sotto quest'ultimo profilo, la Saguto non ha negato, nel corso del suo esame di essere a conoscenza della riconducibilità della società in questione a Cappellano Seminara.

E del resto, il processo ha dato dimostrazione di come tale riconducibilità fosse nota nell'ambiente delle misure di prevenzione.

Al teste dott.Giovanbattista Tona il PM, all'udienza del 12 giugno 2019, ha chiesto di spiegare una conversazione intercettata in cui lo stesso, interloquendo con Carmelo Provenzano, esprimeva questo giudizio nei confronti di Cappellano Seminara: «...io ho sentito dire cose di, di Cappellano poco, poco, poco sotto quello che può fare Satana in persona, nel 2005, ho fallo le mie verifiche, mi sono fatto gli accertamenti, ho saputo anche, delle cose che non sono bellissime, quelle di cui abbiamo parlato tante volte, ma che non appartengono diciamo...».

Il teste dott.Tona ha spiegato di avere utilizzato questa espressione ( "Cappellano può fare poco sotto quelle che può fare Satana") per dire di avere saputo come Cappellano Seminara utilizzasse degli artifici per fare lievitare i suoi compensi, in particolare mediante il conferimento di incarichi a una società a lui riconducibile, "Legai Gest Consulting s.r.l.", sicché bisognava stare particolarmente attenti nelle liquidazioni in suo favore ( cosi testualmente il teste nella sua deposizione: «la.. la cosa che avevo notato, e che mi aveva indotto ad essere particolarmente attento nelle liquidazioni, era questo, ed era questa, diciamo, la ... la ... la eventuale furbizia, che nemmeno sapeva considerare, e che poteva diventare, al più, una scorrettezza, salvo un adeguato controllo del Giudice. Il... l'Avvocato Cappellano aveva ... a lui erano riconducibili della società. Una di queste società - dirà poi il dott.Tona nel corso della sua deposizione trattarsi della Legai Gest Consulting sir - lavorava per lui, quindi, c'era il rischio ... io intravedevo il rischio e, in questo senso, cercavo di fare attenzione, anche se con lui non ne ho mai parlato, perché non mi sembrava il caso di evitare che, nelle liquidazioni, il suo compenso fosse ... al suo compenso si potessero aggiungere delle spese addebitabili ad una società a lui riconducibile».

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LA ZARINA DI PALERMO. Beni confiscati, come sistemare la cugina in un’amministrazione giudiziaria. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 2 dicembre 2021.

L'impegno a segnalare la cugina di Cappellano Seminara per farle ottenere un incarico di lavoro all'interno di qualche amministrazione giudiziaria conferma la condotta di messa a disposizione della Saguto, nell'ambito del rapporto caratterizzato da cointeressenze reciproche con Gaetano Cappellano Seminara

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Silvana Saguto si sarebbe impegnata il 4 e il 26 agosto 2015 a compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio consistente nell'autorizzazione o nella ratifica della nomina di Maria Farruggia, cugina di Cappellano Seminara, nell'ambito della procedura Virga, con l'avallo di Carmelo Provenzano, "coadiutore con poteri congiunti e disgiunti dall'amministratore".

A fondamento dell'impianto accusatorio ci sono due intercettazioni.

La prima del 4.8.2015, captata in Tribunale, durante la quale Gaetano Cappellano Seminara (C.) chiedeva a Silvana Saguto (S) di trovare un impiego per sua cugina (Maria Farruggia):

C: ah...si... poi ti volevo dire una cosa, ti volevo fare una (inc.) ... una preghiera e la preghiera sai cos'è? Mia cugina. "

S: ah! Si. si... si

C: mi sono fàtto portare (inc.)

S: stai tranquillo

C: un fatto, un fatto

S: stai tranquillo

C: peccato

S: lo troviamo

C: era, era stata... anche diploma di, aveva anche...

S: no, no ne abbiamo bisogno di lavoro non ti preoccupare

C. lei è in grado di fare veramente tutto (inc)

S: lei, se la cosa ne dobbiamo discutere, me la discuto

LA SECONDA CONVERSAZIONE 

26 agosto 2015. Silvana Saguto (Silvana) telefonava a Gaetano Cappellano Seminara (Tanino) per annunciargli che l'indomani avrebbe "parlato di quella cosa di (sua) cugina" con Provenzano, che era appena tornato a Palermo:

Tanino: Pronto?

Silvana: Tanino, ciao

Tanino: Ehiii! Silvana, ciao

Silvana: Senti, eh .. niente, ti volevo dire .., che domani parliamo di quella cosa di tua cugina

Tanino: Ah

Silvana: Va bene?

Tanino: Ecco, volevo ... perché mi era arrivata ... m'è arrivata un .. m'è arrivato un un messaggio proprio da lei, per ... per sapere ...

Silvana: Si, sì, e non c’è stato Provenzano...

Tanino: Eh. ho capito

Silvana: ... lo sai. È tornato oggi

Tanino: Mmh (n.d.t. annuisce).. Fammi sta cortesia

Silvana: Sì, sì, te lo ... ti volevo rassicurare perché poi magari non ti vedo

Tanino: Va bene

Silvana: E ... tu hai pensato a quello a cui dovevi pensare, se è sta ...

Tanino: Si, c'ho pensato

Silvana: ... se è stato fatto?

Tanino: Sì, si, ieri sera, ieri sera

Silvana: E poi ti dico ... ma io ti dovo vedere? Devi portarmi provvedimenti? Devi fare cose?

[...]

Valgono le stesse considerazioni poc'anzi riportate.

L'impegno a segnalare la cugina di Cappellano Seminara per farle ottenere un incarico di lavoro all'interno di qualche amministrazione giudiziaria, se da sé non è qualificabile come atto contrario ai doveri di ufficio, costituisce, tuttavia, ad avviso del Collegio, conferma della condotta di messa a disposizione della Saguto, nell'ambito del rapporto caratterizzato da cointeressenze reciproche con Gaetano Cappellano Seminara.

Silvana Saguto continuava, invero, a ricevere denaro tramite gli incarichi del marito e restava disponibile ad attivarsi per ogni esigenza di Cappellano Seminara, come quella di soddisfare un bisogno lavorativo della cugina.

Ancora una volta è dalle conversazioni captate che emerge in maniera evidente la prova del sinallagma corruttivo, caratterizzato da una serie di do ut des a tutto campo: nella telefonata del 26 agosto 2015 la Saguto, subito dopo avere, di sua iniziativa, ricordato a Cappellano Seminara che si stava muovendo per sua cugina ("Senti. eh.. niente, ti volevo dire... che domani parliamo con Provenzano di quella cosa di tua cugina .. ") poi si affrettava a richiedere a Cappellano Seminara,

con linguaggio criptico, qualcosa di cui i due non potevano parlare apertamente al telefono (Silvana: tu hai pensato a quello a cui dovevi pensare se e sta .. Tanino: Si, c'ho pensato. Silvana: ... se è stato fatto? ... Tanino: Sì, sì, ieri sera, ieri sera ...).

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto: debiti, l’affitto da pagare e la domestica senza stipendio. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 3 dicembre 2021.

Emerge anche l'esistenza di un codice di comunicazione conosciuto ai soli componenti della famiglia Saguto, secondo cui non bisognava mai parlare troppo esplicitamente al telefono delle questioni economiche, che poi venivano risolte in modo non lecito da parte di Cappellano Seminara.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

La dazione di denaro in contanti da parte di Gaetano Cappellano Seminara avvenuta il 30 giugno 2015 è stata, ad avviso del Tribunale, pienamente dimostrata nel corso del processo.

La cronologia dei contatti che si sono susseguiti tra Cappellano Seminara e la Saguto dall'8 al 30 giugno 2015, così come dettagliatamente verrà di seguito ricostruita attraverso le intercettazioni telefoniche ed ambientali, valutate unitamente alle dichiarazioni rese dal teste Caronia (nella parte in cui esse sono da ritenere attendibili), dimostrano che la visita effettuata da Cappellano Seminara presso l'abitazione della dottoressa Saguto la sera del 30 giugno 2015 alle ore 22,35 aveva come precipuo scopo la consegna del denaro ripetutamente richiestogli dalla Saguto nel corso delle conversazioni intercettate.

I dialoghi captati in quel periodo danno prova, infatti, della situazione di profonda crisi economica, caratterizzata da un elevato indebitamento bancario e da una carenza di liquidità, in cui versava il nucleo familiare nei mesi da maggio a luglio 2015 e delle pressanti richieste dalla Saguto, ripetutamente formulate al Cappellano, di fornirle dei "documenti", non meglio precisati, che, comunque, nel contesto del discorso apparivano come necessari per fronteggiare i gravi problemi economici.

Di seguito si riporta il fittissimo crescendo di conversazioni telefoniche ed ambientali, relative alle difficoltà economiche vissute dalla famiglia Saguto-Caramma e alle richieste di denaro, più o meno esplicite, formulate dalla Saguto all'indirizzo di Cappellano Seminara, e culminate, il 30 giugno 2015, con la visita di quest'ultimo a casa di Silvana Saguto, intorno alle 22,30.

L'8 giugno del 2015 la Saguto (D) parlava nel suo ufficio con Cappellano Seminara (UI):

[...]

D - Ma dico quindi ci sono problemi allora per queste cose?

UI -No, non ci dovrebbero essere problemi.

D - Perché sono ... sia quelli di Riesi poi ..

UI - No, no. Non ci dovrebbero essere.

D - ... sia di Riesi che di qua ... si potrebbero capitalizzare.

UI - No, Riesi è già fatto. Quello del rigetto è già fatto.

D - Del rigetto?

U1 - Certo.

D - Riesi e Caltanissetta.

Ul - Novemila e rotti euro. È stato fatto.

D - Quando?

Ul - La settimana scorsa, è da una settimana.

D - Forse allora non sono ..., non erano arrivati. Lunedì.

Ul - C'erano quelli ... , come si chiama ...

D - Delle cave.

UI - C'era il resto delle cave, che non so se è stato fatto o deve essere fatto.

Emerge chiaramente che la Saguto e Cappellano Seminara stavano discutendo dei compensi spettanti a Lorenzo Caramma per le collaborazioni quale coadiutore di Cappellano Seminara.

Più precisamente i due parlavano dei compensi di Riesi (ovvero della procedura di prevenzione pendente a quell'epoca a Caltanissetta), di quelli di Agrigento (cosi dovendo essere correttamente intesa la parola trascritta "rigetto" dai periti) e dei compensi delle cave (procedura Buttitta).

Nel corso del suo esame e nelle sue dichiarazioni spontanee la Saguto ha più volte affermato di non essersi mai interessata alle questioni professionali ed economiche del marito, ma tale affermazione è platealmente smentita proprio dalla superiore intercettazione, che ha invece restituito plasticamente l'immagine della Saguto mentre, all'interno del suo ufficio di Presidente della Sezione, è intenta a chiedere ad uno dei suoi amministratori giudiziari di liquidare quanto spettante a suo marito (“...si potrebbero capitalizzare..."), distinguendo, nel dettaglio, procedura per procedura e pure quantificando l'ammontare preciso dei compensi ("novemila euro...") e mostrando così di essere perfettamente a conoscenza del quantum debealur al marito.

L’AFFITTO DA PAGARE

Qualche giorno dopo aver saputo da Cappellano che aveva già provveduto a certi pagamenti, il 10 giugno 2015, la Saguto parlava a telefono con il marito […]. I due coniugi parlavano della loro difficile situazione economica, in particolare di un loro conto corrente in sofferenza, e la Saguto chiedeva al marito se gli erano arrivati i pagamenti di Cappellano «...Invece a te non è arrivato niente di Cappellano.. delle cave .. ?» e Caramma rispondeva: «No no, assolutamente no. Ho guardato e non c'è niente»,

L'11giugno 2015 la Saguto esortava il figlio Elio – che si lamentava perché non avrebbe potuto percepire lo stipendio fino a settembre “a fare qualche lavoretto" e "a tirare'' e gli diceva «speriamo che arrivino le cose che devono arrivare».

Di nuovo, 1'11 giugno 2015, la Saguto parlava con il figlio Elio: […]. I due stavano parlando dell'affitto della casa nella quale viveva Elio Caramma, il cui canone mensile andava pagato entro il giorno 5 del mese e la Saguto diceva al figlio di avere pazienza perché "..dovrebbero arrivare".

[…] Dalle conversazioni sopra riportate emerge, dunque, che alla data dell'11 giugno 2015 la situazione economica della famiglia Saguto-Caramma era problematica: il conto corrente era in sofferenza di €1.150,00, l'affitto di casa di Elio Caramma doveva essere pagato, Lisetta, la collaboratrice domestica, non aveva ricevuto ancora lo stipendio.

Di fronte a tali difficoltà, la Saguto, parlando con la madre, prospettava come soluzione che "dovrebbero arrivare dei soldi a Lorenzo".

Non può revocarsi in dubbio, quindi, che, nelle conversazioni sopra riassunte, l'allusione al fatto che dovesse arrivare qualcosa ("invece a te non è arrivato niente", "dovrebbero arrivare", "speriamo che arrivino le cose che devono arrivare") conteneva il riferimento al denaro. […] E certamente ancora di denaro parlava la Saguto anche nella successiva telefonata sempre dell'11 giugno 2015, quando diceva a Cappellano Seminara che "quei documenti non sono arrivati" e che "siamo un poco persi ...”[...].

Il 12 giugno 2015 Elio Caramma sollecitava ancora la madre per il pagamento dell'affitto di casa "ma hai parlato con papà?" e la Saguto rispondeva: "No, non ho niente da dire a papà. Già ci siamo ... abbiamo parlato. Elio ci sono alcune giornate che devono ... purtroppo io con altri devo parlare, non con papà. Non ho che cosa dire, non abbiamo ... Stai tranquillo, ci pensiamo noi, è un problema nostro. è un pensiero nostro. Non ti preoccupare. Non ho che fare”, alludendo cosi al fatto che la soluzione, almeno temporanea, dei loro problemi economici non poteva essere data dal marito, ma che avrebbe dovuto rivolgersi a qualcun altro, ossia - come sarà ancora più chiaro tra breve - a Gaetano Cappellano Seminara.

[…] Madre e figlio si sentivano di nuovo nel corso del 12 giugno 2015, precisamente alle ore 11.35, e la Saguto riferiva ad Elio che non sarebbe andata al mare quel giorno e che avrebbe cercato Cappellano ( ... poi con questa storia, ora vedo di vedere Cappellano che mi interessa di più'').

ALLA RICERCA DI DENARO

[…] Nonostante l'utilizzo di un linguaggio criptico, nel corso di quest'ultima telefonata Cappellano Seminara lasciava intendere alla Saguto - come poi sarà confermato dalla dazione di denaro del 30 giugno 2015 ..... che non sarebbe riuscito a "capitalizzare" denaro dalle società in sequestro nell'ambito delle quali Lorenzo Caramma rivestiva l'incarico di coadiutore e che avrebbe dovuto pensarci lui personalmente "devo intervenire."per forza io .. " e la Saguto prendeva atto che avrebbe dovuto ancora attendere "... sopravviverò ...". […]. Il 15 giugno 2015 aveva luogo, all'interno dell'ufficio della Saguto, una rilevante conversazione con Cappellano Seminara, nel corso della quale la Saguto rappresentava, stavolta in termini più drammatici, le sue difficoltà economiche: " .. lo pure, sono disperata. Non puoi capire. Non ce la posso..., devo trovare qualcos'altro. Non è che voglio.… .. distruggerti l'esistenza”.

[...] Emerge chiaramente la situazione di difficilissima difficoltà economica (“...quindi noi siamo rovinati. Significa che io potrei vendermi la casa...... la luce il 20 ce la tagliano ...”) della Saguto, che ne parlava con Cappellano Seminara, aspettandosi che fosse lui a trovare una soluzione, come si capisce chiaramente dal suo commento "Non è che voglio ...... distruggerli l'esistenza."

Dopo una serie di conversazioni, per lo più telefoniche, stavolta i due si trovavano l'uno di fronte all'altro e la Saguto era più esplicita, verosimilmente ritenendo impossibile un'intercettazione all'interno del proprio ufficio nel palazzo di Giustizia. La Saguto informava Cappellano Seminara che, anche se lui le avesse pagato 8500 euro "per il calcestruzzo" (evidentemente riferendosi alla procedura Buttitta o alla procedura Calcestruzzi), comunque non sarebbe stato sufficiente ("Anche se fa il calcestruzzo, tu mi fai poi.. 8.500 euro, poi banca. lo non ho più soldi ...”), lo portava a conoscenza del suo debito con il gestore della carta di credito American Express di circa diecimila euro e gli faceva presente che, nell'eventualità in cui il debito non fosse stato saldato entro il giorno 30, ciò avrebbe determinato il blocco della carta; ancora, gli riferiva di avere già speso tutto il denaro che le era stato corrisposto come risarcimento per l'incidente al ginocchio.

E' da notare come la Saguto riferiva direttamente a se stessa "... tu mi fai, tu mi fai 8500 euro banca. io non ho più soldi" il pagamento di somme che formalmente erano invece spettanze proprie del marito.

Si tratta di un'ulteriore conferma del sinallagrna corruttivo - tutt'altro che velato, tutt'altro che non esplicito, tutt'altro che evanescente come ha sostenuto la difesa - in atto in quel periodo con Cappellano Seminara e di una circostanza che smentisce totalmente anche la tesi difensiva della non ingerenza di Silvana Saguto nei rapporti professionali del madto Caramma.

Dalle predette captazioni emerge piuttosto il centralissimo ruolo ed il protagonismo del giudice corrotto non solo nella gestione degli incarichi dalla stessa conferiti a Cappellano Seminara come Presidente del Tribunale misure di prevenzione di Palermo, ma anche nei rapporti debito/credito in atto tra il marito e Cappellano Seminara rispetto a misure di prevenzione di competenza di altra autorità giudiziaria.

Dopo il dialogo intrattenuto con Cappellano Seminara sui problemi economici della famiglia, alle 15.42 dello stesso 15 giugno 2015 la Saguto parlava con il figlio Elio che le chiedeva «ma notizie del mio affitto? No, niente». E la Saguto rispondeva: «No, no, gioia, non ce ne sono notizie. Cioè dovremmo averne. Oggi ci ho parlato, però ora si vede». Elio Caramma, non domandandole nulla, dimostrava di avere capito con chi avesse parlato sua madre per risolvere il problema dell'affitto.

Risulta quindi evidente l'esistenza di un codice di comunicazione conosciuto dai componenti del nucleo familiare Saguto-Caramma, secondo cui non bisognava mai parlare troppo esplicitamente al telefono delle questioni economiche, che poi venivano risolte in modo non lecito da parte di Cappellano Seminara, rinviando eventualmente ad incontri di presenza i chiarimenti necessari.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. Silvana Saguto: i “documenti” urgenti per sistemare le finanze di famiglia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 4 dicembre 2021.

Le intercettazioni non lasciano dubbi anche se gli interlocutori utilizzano un linguaggio criptico. I "documenti" che Cappellano Seminara stava preparando, infatti, erano evidentemente denaro da consegnare a Silvana Saguto

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Sempre il 18 giugno 2020 Lorenzo Caramma continuava ad aggiornare la moglie sugli ultimi problemi economici dicendole che: il direttore della banca gli aveva detto che “soldi non ce ne soldi” e, quindi, commentava Caramma, «la cosa si mette particolarmente male», l'assicurazione del figlio Francesco gli aveva sollecitato il pagamento del premio perché avevano maturato un ritardo di venti giorni («mi ha telefonato quello dell'assicurazione di Francesco dicendo: non per farti premura, il giorno 25 devo consegnare le polizze, vedi se puoi, non l'ha mai fatto anche perché io l'ho pagato sempre entro 5-6 giorni, ormai sono 20 che dovevo pagare, sono 600 euro ... ma comunque»); era riuscito a pagare la bolletta della luce grazie al prestito di un amico («la luce me li ha prestati Carmelo e questa ce la siamo levata perché oggi era l'ultimo giorno»): […]. Il 21 giugno 2015, il servizio clienti American Express comunicava a Silvana Saguto, tramite messaggio di testo, che il saldo della carta [...] era pari a 13.886,45 euro al 20 giugno 2015.

A fronte degli ingravescenti problemi economici, il 22 giugno 2015, Silvana Saguto chiedeva a Cappellano Seminara se avesse “fatto” e “mandato i documenti”. Cappellano rispondeva di non averli “mandati” (“mandati è un parolone”), ma che li stava «preparando». È evidente in questa conversazione come il termine «documenti» sia utilizzato in senso figurato, atteso che, se si fosse trattato realmente di documenti di lavoro, non si capisce come i due interlocutori potessero comprender di quali documenti delle tante amministrazioni giudiziarie gestite da Cappellano Seminara si stesse parlando.

Sempre utilizzando il linguaggio in codice convenuto, Cappellano la rassicurava sulla serietà del suo impegno e che l'indomani ne avrebbero parlato di presenza («preparali, vabbè domani avremo modo di parlare, d'altronde tu i tuoi provvedimenti puoi farli tranquillamente perché sono sufficientemente supportati»). Infine, i due si salutavano dandosi appuntamento nell’ufficio della Saguto.

[…] È appena il caso di sottolineare come emerga con tutta evidenza dal tenore letterale della conversazione che il termine "documenti" sia utilizzato dagli interlocutori per riferirsi ad altro e non a documenti. L’unica interpretazione logica da attribuire all'espressione «i tuoi provvedimenti puoi farli tranquillamente, perché sono ... sufficientemente supportati. Va bene» è infatti la seguente: «Puoi effettuare le spese o i pagamenti necessari, perché le somme di denaro che sto preparando sono di entità sufficiente a coprire le tue necessità».

Di contro non ci si può formare al tenore letterale delle parole, perché altrimenti dovrebbe ritenersi che con quelle parole Cappellano Seminara volesse “autorizzare” il magistrato ad emettere provvedimenti di natura giurisdizionale.

Il 23 giugno 2015 Cappellano Seminara, come concordato il giorno precedente, faceva visita a Silvana Saguto in Tribunale e le diceva che «la documentazione era pronta», ma che doveva «solo andarla a ritirare», e le proponeva di consegnargliela sabato.

Siccome Silvana Saguto aveva programmato di andare a Siracusa nel weekend, i due restavano d'accordo che Cappellano avrebbe consegnato “i documenti” a suo marito. Cappellano Seminara sapeva, perché glielo aveva detto Silvana Saguto il 15 giugno 2015, che la stessa aveva bisogno di pagare il saldo della carta American Express entro il 30 giugno 2015, perché, diversamente, gliela avrebbero bloccata; quindi consegnare "i documenti" lunedì, ossia il 29 giugno, poteva essere troppo tardi.[...].

Diversamente dal 15 giugno 2015, quando i due interlocutori erano stati più espliciti, nel corso della conversazione del 23 giugno successivo, riprendendo le fila dei discorsi fatti anche al telefono, utilizzavano un linguaggio convenzionale, evidentemente per tutelarsi da eventuali ascolti indiscreti (infatti, come risulta dalla trascrizione completa della predetta intercettazione, la mattinata del 23 giugno era stata caratterizzata da una notevole afflusso di persone nell'ufficio di Silvana Saguto).

[…] Anche la superiore conversazione appare molto chiara, anche se gli interlocutori - in particolare Cappellano Seminara - utilizzano un linguaggio criptico. I “documenti” che Cappellano Seminara stava preparando, infatti, erano evidentemente denaro e lo si comprende agevolmente anche solo considerando che nella conversazione in questione manca qualsivoglia riferimento ad una procedura di prevenzione, ad un procedimento penale o ad una parte processuale, sicché la dott.ssa Saguto, se veramente si fosse trattato di documentazione dell’ufficio, certo non avrebbe potuto comprendere di quale, tra le tante, procedure si stesse parlando, considerato che Cappellano Seminara rivestiva l'incarico di amministratore giudiziario in plurime procedure.

D'altra parte, pure l'espressione finale adottata dalla Saguto («va bene., sono molto avvilita, molto») non sarebbe spiegabile se si stesse parlando di lavoro ed appare invece logicamente comprensibile solo se riferita alla preoccupante situazione economica in cui versava lei e la sua famiglia e che era il tema ricorrente delle conversazioni intrattenute da Silvana Saguto con i suoi familiari.

L’AMERICAN EXPRESS

Il 25 giugno 2015 un dipendente di Banca Nuova informava che quel giorno era in pagamento la carta di credito, per un saldo di «poco più di 10 mila euro», e che, quindi, «ne servirebbero 8050, proprio giusti giusti sul conto», Lorenzo Caramma cercava di prendere tempo, e diceva al suo interlocutore che non era in grado di provvedere nell'immediato […]. Questa conversazione va letta unitamente a quella già sopra richiamata, nel corso della quale Lorenzo Caramma aveva detto alla moglie che il conto in banca era in sofferenza per 1150 euro e con quella, nel corso della quale la Saguto aveva preannunciato a Cappellano Seminara che il saldo della sua American Express era di più di 10mila euro.

[…] La Saguto, dopo avere ricevuto il giorno prima, tramite il marito, la sollecitazione della banca al versamento di denaro per coprire la carta di credito, tornava a chiedere a Cappellano la consegna di "documenti" ed ancora una volta si intuisce chiaramente come non potesse trattarsi di veri documenti dell'ufficio della Saguto, peraltro inverosimilmente da consegnare al marito, anche per la successiva frase «daglieli perché poi li dobbiamo, queste cose devono andare comunque avanti..» che fa pensare al successivo deposito dei soldi in banca, o comunque, alla necessità di utilizzarli per pagare i debiti che in quel momento aveva la famiglia Saguto-Caramma.

[…] Sabato 27 giugno 2015 la Saguto chiamava nuovamente Cappellano Seminara per ricordagli "quel documento'', Cappellano Seminara la rassicurava e le chiedeva - utilizzando il solito linguaggio criptico («tu in ogni caso il provvedimento lo vuoi fare martedì stesso») - se martedì ( ossia il 30 giugno, data in cui le avrebbero bloccato la carta) fosse l'ultimo giorno utile per la consegna e, quindi, per il pagamento del debito con American Express; la Saguto rispondeva che il termine era lunedì ("lunedì... già simmo in ritardo .... sennò non ci arrivo più ..").

[…] Il 28 giugno 2015 la Saguto contattava il figlio Elio e, parlando delle difficoltà economiche della famiglia, gli diceva: "non contare su soldi immediati Elio ... .purtroppo non saranno tali.. non saranno immediati, perché sono tanti, non gliel'hanno accolta la cosa a Cappellano sai? ... a proposito di soldi tanti", cosi collegando le sorti economiche della propria famiglia a quelle di Cappellano Seminara e facendo riferimento alla causa pendente dinanzi al Cga di Palermo, per l'esito della quale - come già detto - lei ed il Prefetto Cannizzo avevano organizzato una cena a Palazzo Brunaccini, invitando a partecipare Giuseppe Barone, consigliere del Cga e membro del Collegio chiamato a decidere quel procedimento avente ad oggetto la parcella milionaria liquidata dalla stessa

Saguto nella procedura di prevenzione Sansone.

Peraltro, anche a volere ritenere comprensibile l’interesse della Saguto alle sorti dell’impugnativa di un provvedimento dalla stessa emesso, è incomprensibile che tale fatto potesse realmente interessare il figlio Elio, tanto da costituire il fulcro di una conversazione telefonica tra madre e figlio: è evidente, allora, che i due si stessero riferendo alla possibilità che Cappellano Seminara, ottenuto esito favorevole nel giudizio amministrativo, consegnasse del denaro alla famiglia Saguto-Caramma.

LE “CAMURRIE” DA RISOLVERE

Nel corso della medesima telefonata, la Saguto era ancora più esplicita sulla mancata consegna da parte di Cappellano Seminara: «Poi dovevano arrivare quei documenti Cappellano li doveva fare avere a papà, non glieli ha dati, quindi ora io avrò i provvedimenti che scadranno, magari se c'ero io ieri, forse chissà. invece cosi ora vediamo, domani mattina lui deve andare a Trapani quindi 'sti cosi non ce li darà e già è il 29, me li dà pomeriggio che non mi servono più (inc.) 30. insomma una camurria...».

La stessa mattina del 28 giugno 2015 la Saguto parlava anche con il figlio Emanuele, al quale pure rappresentava la sua preoccupazione: […].

Sempre il 28 giugno 2015, veniva registrata la seguente conversazione telefonica tra la Saguto ed il marito: […]. In sintesi, Caramma comunicava alla moglie che la banca aveva "pagato la caria", notizia che Silvana Saguto accoglieva come "un miracolo del cielo" e che la induceva a dire - anche se il marito le prospettava ulteriori problemi economici - che, proprio perché la carta di credito non era stata bloccata, non avrebbe avuto bisogno di andare a cercare "quello", ossia Cappellano Seminara, in giornata ("Cosi quello non .... io non ho bisogno di andarlo a cercare - diciamo - oggi").

In data 29.06.2015, all'interno dell'ufficio della Saguto, la donna parlava con Capellano Seminara, il quale ad un certo punto le diceva: «Più tardi, tra più tardi e domani ti completo tutto, quindi, vengo io, cosi porto i documenti ne discutiamo ... domani ... che dici? Mi sembra più logico, anziché, lasciarteli cosi e poi tu devi fare il provvedimento ne parliamo e se tu hai dubbi io...». Poi nel pomeriggio della stessa giornata, Silvana Saguto telefonava a Cappellano Seminara chiedendogli come ''fosse finita" e quando avrebbero potuto vedersi ("che mi dici, ci vediamo, quando ci vediamo ..").

Cappellano la rassicurava, dicendole di essere in procinto di andare a prendere i documenti e di non preoccuparsi perché poi l'avrebbe chiamata lui […]. Il 30 giugno 2015, alle ore 18.13, un dipendente di Banca Nuova contattava Lorenzo Caramma, il quale rispondeva: «Ma non me lo .... non l'ho dimenticato, sto cercando di provvedere ...», riferendosi ovviamente alla ricerca di disponibilità finanziaria per saldare la scopertura di conto corrente.

[…] Alle ore 18, 15 Caramma informava la moglie che aveva chiamato Banca Nuova e la Saguto gli diceva che avrebbe chiamato subito "ah si .. ora sto chiamando ... ciao". Un minuto dopo, alle ore 18,16, la Saguto contattava Cappellano Seminara: […]. Il 30 giugno 2015 Cappellano Seminara andava effettivamente a casa della Saguto, come risulta dall'attività di indagine espletata (attività di o.p.c.).

[…] L'indagine bancaria ha consentito, altresi, di accertare che sul conto corrente acceso presso Banca Nuova, cointestato a Saguto e Caramrna, venivano effettuati tre versamenti in contanti da sportello ATM nelle date del 1, 2 e 7 luglio, rispettivamente per 3000, 2000 e 3000 euro, ossia per un importo totale di 8000 euro (corrispondente alla sofferenza su quel conto) e sul conto corrente Unicredit intestato ai due coniugi il 7 luglio veniva effettuato, sempre da sportello ATM, un versamento di 1500 euro.

Come risulta dall'attività tecnica di intercettazione e come evidenziato dallo stesso teste Sorino, dopo l'incontro del 30 giugno 2015, Silvana Saguto non contattava più in maniera insistente Cappellano per chiedergli di incontrarsi e avere «la documentazione». Parallelamente, i dipendenti di Banca Nuova non contattavano più Caramma per chiedergli di effettuare versamenti sul conto in sofferenza.

Tutta la tensione dei giorni precedenti, che aveva raggiunto il suo culmine con le telefonate frenetiche del 30.6.2015 e poi con l’appuntamento serale presso l'abitazione della Saguto, si scioglieva del tutto nei giorni successivi.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA ZARINA DI PALERMO. Vestiti griffati, ristoranti costosi, tutti gli eccessi della giudice Saguto. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 5 dicembre 2021.

Achille De Martino, scorta della dottoressa Saguto, ha raccontato del tenore di vita della Saguto. Ha ricordato che frequentava, con cadenza settimanale, ristoranti molto costosi. Con frequenza mensile, negozi di abbigliamento importanti. E poi le spese sostenute per i figli, i cui desideri - dall'acquisto di macchine ai viaggi - andavano accontentati.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

La Saguto, da questo momento in poi, avvertiva, tuttavia, la necessità di una variazione del tenore di vita del suo nucleo familiare.

Il suo mutato atteggiamento («la situazione nostra economica è arrivata al limite totale..») emerge chiaramente dalla conversazione intrattenuta con il figlio Elio il 9.07.2015, nel corso della quale la Saguto (DI) così si esprimeva testualmente:

DI: Elio dobbiamo parlare perché la situazione nostra economica è arrivata al limite totale .. non è possibile più completamente non... non .. tu ... se sommiamo tutto quello che hai speso ogni giorno spendi almeno 100 euro .. e magari di più .. di acquisii di cose che servono ... possono servire..più quello che mangi più quello che ci vuole di benzina noi non ci arriviamo .. non ci arriviamo con quello che spendo io .. quello che spende Francesco non spende niente comunque .. Emanuele e tutto il resto non ci arriviamo più perché ormai non abbiamo da dove prendere i soldi quindi poi ti dirò quando vieni sono successe altre cose quindi .. dobbiamo fare proprio una parlata tutti

Elio: che è successo?

DI: per vedere cosa dobbiamo fare .. no poi quando vieni te lo racconto oggi sono stata dal Presidente Natoli le soluzioni..le situazioni si vanno evolvendo ..e insomma ci sono cose che si devono dire e si devono ..fare

Elio: si vanno evolvendo?

DI: Sì abbiamo parlato vediamo che cosa si deve fare .. ci sono sempre nuove cose che vanno sempre peggiorando per certi versi.. e poi non lo so se se ne creano soluzioni alternative .. quello che è ..per ora noi non possiamo .. voi non potete farmi spendere 12 13 14 mila euro al mese .. noi non li abbiamo questi introiti ... perciò siamo indebitati persi .. non è possibile .. cioè non si può fare .. non esiste stipendio che possa garantire queste cose

Elio: mmh (n.d.t.:annuisce)

DI: non può esistere .. quindi bisogna avere i soldi in mano e comprare quei soldi..in modo che una vede quando spende e si fa bastare non compra tulle le cose che compriamo .. ne compra di meno .. io levo i conti dai Macellai dalle dalle cose .. le carte si .. intanto si bloccano per adesso si bloccano per forza di cose .. quindi o le faccio bloccare io o si bloccano proprio .. è inutile

Elio: non ho capito sta cosa si vanno evolvendo

DI: e non te

Elio: (inc.)

DI: lo puoi capire mai..non lo puoi neanche inventare .. non lo puoi capire se non te lo dico

Elio: mi devo preoccupare?

DI: no Elio tutto si risolve .. niente di particolare però sono situazioni che certo a livello economico non ci avvantaggiano quindi ... bisogna prendere un provvedimento .. io ho pensato di parlare con [Forello] anche padre .. e di chiedere che intenzioni hanno .. concretamente.

LA TESTIMONIANZA DELLA SCORTA

Il teste Achille De Martino, assistente capo coordinatore della Polizia di Stato e componente del Reparto scorte della Questura di Palermo che si è occupato della protezione della dott.ssa Saguto dall’ottobre 2004 al settembre 2016, escusso all’udienza del 7 marzo 2018, ha confermato quale fosse il tenore di vita della Saguto prima e come fosse cambiato dopo lo scandalo del maggio del 2015.

Ha raccontato di aver avuto modo di constatare, occupandosi della tutela della Saguto, che il tenore di vita della Saguto era abbastanza elevato e, segnatamente, ha ricordato che la medesima frequentava, con cadenza settimanale, ristoranti molto costosi come il “Bye Bye Blues” a Palermo, “I pupi” di Bagheria e “L’Antica Filanda” nei pressi di Galati Mamertino.

Ancora, ha affermato che, con frequenza mensile, la Saguto era solita acquistare in negozi di abbigliamento importanti: negozio “Aricò”, in via Marchese Ugo; “Hermes”, ''Gucci”; “Louis Vuitton". Il teste ha continuato, poi, soffermandosi sulle spese sostenute dalla Saguto per i figli, i cui desideri - dall'acquisto di macchine ai viaggi – la Saguto era solita accontentare.

Nello specifico, il teste si è soffermato sulle spese sostenute dalla Saguto per il figlio Elio, il quale prima studiava a Varese dove gli era stata affittata una casa, poi si era trasferito a Roma, ivi abitando presso un importante residence con piscina e campo da tennis.

Ha continuato il teste raccontando che Elio rientrava spesso in aereo a Palermo, tanto che il di lui il fratello maggiore aveva detto come battuta «ma ad Elio gli sembra che ha l'autobus?».

Ad un certo punto Elio aveva smesso di studiare ed aveva partecipato a dei corsi di cuoco, tenendo anche degli eventi a Roma, Milano e Palermo; quindi era rientrato a Palermo, dove abitava in una villa a Mondello (Partanna Mondello ), presa in affitto dal figlio del dott. Natoli, all'interno di un residence abbastanza costoso.

Sulla base di tali circostanze, il teste De Martino ha affermato che le spese sostenute dalla dott.ssa Saguto erano molto elevate, ma che poi, nel periodo successivo allo scandalo, erano andate via via diminuendo. Ha, infatti, riferito De Martino che, ad esempio, se prima la Saguto, quando era invitata da amici portava i dolci della pasticceria più costosa di Palermo, dopo lo scandalo, portava una torta fatta in casa.

Il figlio Elio aveva lasciato la villa a Mondello per far ritorno nella casa della madre; la frequenza degli acquisti nei negozi importanti era calata notevolmente e la dott.ssa Saguto aveva anche cambiato parrucchiere, passando da uno rinomato ad un altro presso un centro commerciale,

Orbene, così ricostruito il contesto dei rapporti, l'incontro tra Cappellano Seminara e la Saguto, avvenuto la sera del 30 giugno 2015 alle ore 22,35, a giudizio del Tribunale non poteva che essere motivato dalla necessità di consegnare la più volta citata documentazione, che altro non era, come si è più volte detto, che il denaro di cui la Saguto aveva estremo bisogno per fronteggiare, con urgenza, le difficoltà economiche in cui versava la sua famiglia.

Le conversazioni telefoniche ed ambientali sopra riportate hanno, invero, offerto prove inequivocabili della situazione di crisi economica in cui versava il nucleo familiare Saguto/Cararnma e del ruolo di Cappellano Seminara come fonte di approvvigionamento indebitamento di denaro […].

E' emerso chiaramente come Silvana Saguto e Lorenzo Caramma (ed i loto figli), per la risoluzione della importante crisi di liquidità in cui versavano (nel mese di giugno la famiglia aveva raggiunto un deficit di 8.050 euro giusti giusti, richiamando l'espressione dell'impiegato di banca che telefonava a Lorenzo Caramma per sollecitare il rientro dall'indebitamento) non facevano affidamento sui redditi familiari, ma si rivolgevano a Cappellano Seminara quale soggetto che poteva offrire loro i necessari aiuti economici.

Significativo è, al riguardo, il riferimento a «soldi immediati, soldi tanti» utilizzato da Silvana Saguto quando, nella telefonata del 28.6.2015 con il figlio Elio, invitava lo stesso a non sperare in rapide e cospicue elargizioni, perché "non gliel'hanno accolta la cosa a Cappellano sai?" (la controversia pendente dinanzi al Cga di Palermo, ed avente ad oggetto la parcella milionaria liquidata dalla stessa Saguto nella procedura di prevenzione Sansone a favore di Cappellano Seminara).

E che si trattasse di richieste di corresponsione di somme di denaro prive di una causa lecita (e non, quindi, come sostiene la difesa, di pagamento per le attività rese da Lorenzo Caramma presso le varie aziende in sequestro) lo si ricava chiaramente proprio dal complessivo tenore delle conversazioni captate e dalle espressioni utilizzate.

Gli imputati sentono la necessità di utilizzare un linguaggio criptico per parlare del denaro (cfr. i termini documento, documenti, fascicolo, ecc.).

[…] Gli imputati Saguto e Caramma (esami resi all'udienza del 27.2.2019 da Silvana Saguto e a quella del 6.3.2019 da Lorenzo Cara1nma) hanno sostenuto che il denaro versato in contanti sui conti corrente deriverebbe dall'aiuto economico degli anziani genitori.

Si tratta di una tesi che non può essere accolta.

Le conversazioni intercettate, infatti, offrono un quadro chiaro della grave situazione economica della famiglia Saguto-Caramma nei mesi cli giugno e luglio 2015. I soggetti intercettati - Lorenzo Caramma, Silvana Saguto e i loro figli Elio ed Emanuele - mostravano un'elevata preoccupazione per la situazione finanziaria, che non gli stava consentendo neanche di pagare le spese correnti (bolletta della luce, stipendio della domestica Lisetta, affitto del figlio Elio, ecc.). […] Si tratta dell'ulteriore conferma che, almeno in quel periodo, non erano i genitori i soggetti a cui Silvana Saguto e Lorenzo Caramma intendevano rivolgersi per risolvere i loro problemi economici.

Anche le successive intercettazioni, che registrano una crescente tensione e preoccupazione dei componenti del nucleo familiare in vista dell'addebito sul conto del saldo della carta di credito, non contengono alcun riferimento ai genitori degli imputati.

[…] L’unico soggetto che veniva spasmodicamente cercato in quel periodo era Cappellano Seminara ed i familiari della Saguto risultavano interessati agli spostamenti di Cappellano Seminara (Trapani, Roma) ed alle vicissitudini giudiziarie dello stesso, tutte circostanze che si riverberavano sulla famiglia Saguto-Caramma.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Il patto corruttivo, così la Saguto era asservita a Cappellano Seminara. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 6 dicembre 2021.

Il patto corruttivo era caratterizzato dal fatto che, facendo seguito alle nomine che Silvana Saguto attribuiva a Gaetano Cappellano Seminara, quest'ultimo si impegnava a coinvolgere, appena possibile, Lorenzo Caramma nelle procedure di prevenzione che gli sarebbero state affidate da Tribunali diversi da quello palermitano

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

È stato, infatti, dimostrato in giudizio l'asservimento di Silvana Saguto agli interessi privati di Cappellano Seminara, cosi come il compimento di singoli atti contrari ai doveri di ufficio ed è stato, altresì, provato che tali atti sono stati remunerati dall'Avv.Cappellano Seminara sia con il versamento diretto di somme di denaro, destinate a fronteggiare le difficoltà economiche in cui versava la famiglia

Saguto-Caramma, sia con il conferimento di incarichi di coadiuzione o consulenza all’ing.Lorenzo Caramma, coniuge della dott.ssa Saguto.

Come è emerso dalle intercettazioni della primavera-estate 2015 e dagli accertamenti economico-finanziari della Guardia di Finanza, Cappellano Seminara era, in effetti, divenuto, nel tempo, la principale fonte di reddito del nucleo familiare Saguto/Caramma nell'ambito di un rapporto corruttivo che il PM, con valutazione che il Collegio condivide, ha plasticamente assimilato al contratto di somministrazione, ovvero ad un contratto di durata con il quale una parte, in questo caso il pubblico ufficiale, si impegna ad eseguire prestazioni collegate alla sua funzione a favore di un'altra parte in cambio di un prezzo, che può essere corrisposto secondo cadenze non necessariamente combacianti temporalmente con le prestazioni rese.

Più in particolare, le risultanze dell'attività di intercettazione telefonica ed ambientale effettuata dal maggio all’ottobre del 2015 banno messo in luce un rapporto trilaterale intercorrente tra Silvana Saguto, Gaetano Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma fondato sulla reciproca utilità.

Da un lato, Silvana Saguto, nella sua qualità di Presidente della sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nominava Gaetano Cappellano Seminara come amministratore giudiziario nelle più importanti e remunerative misure di prevenzione rientranti nella competenza territoriale del Tribunale di Palermo e, dall'altro lato, Gaetano Cappellano Seminara incaricava Lorenzo Caramma quale coadiutore o consulente nelle procedure di prevenzione nelle quali era nominato amministratore giudiziario da parte di Tribunali diversi da quello di Palermo.

La famiglia Saguto-Caramma, che nel periodo in cui erano in corso le intercettazioni attraversava un periodo di crisi economica (tanto da non avere il denaro in banca per il pagamento mensile dei saldi delle carte di credito), faceva affidamento su Gaetano Cappellano Seminara come colui che avrebbe potuto risolvere i problemi economici.

Tutti i componenti del nucleo familiare Saguto-Caramma erano pienamente a conoscenza di tale rapporto di scambio con Cappellano Seminara, arrivando anche a collegare bisogni di tipo familiare (pagamento dell'affitto o altre scadenze) con le vicende economiche di Cappellano Seminara (come, ad esempio, a proposito dell'esito negativo del ricorso giurisdizionale al C.G.A. avente ad oggetto la parcella di 5.100.000,00 euro della procedura Sansone).

Il rapporto professionale tra Lorenzo Caramma e Gaetano Cappellano Seminara si era dunque trasformato in un legame che prescindeva dalla reali prestazioni professionali rese dal Caramma ed era, invece, divenuto una mera occasione di retribuzione di Silvana Saguto quale prezzo della sua corruzione e per in generale protezione degli interessi di Cappellano Seminara che ella garantiva.

A tale conclusione si giunge pur condividendosi l'assunto difensivo secondo cui, avuto riguardo all'impianto normativo vigente all'epoca dei fatti, la nomina quale coadiutore giudiziario di Lorenzo Caramma non poteva essere ritenuta posta in essere in violazione della legge, ben potendo viceversa il congiunto di un magistrato lavorare in una amministrazione giudiziaria.

Ed invero, oggetto di accertamento nel presente processo non è la liceità in sé degli incarichi conferiti a Lorenzo Caramma da parte di Cappellano Seminata, quanto piuttosto il concreto significato che tali incarichi avevano assunto in ragione della posizione di Silvana Saguto e ciò che Gaetano Cappellano Seminara otteneva dal magistrato in cambio delle nomine del marito.

La natura illecita del legame esistente tra l'amministratore giudiziario, il magistrato e il coadiutore è stata chiaramente rivelata dalle conversazioni intercettate a partire dall'aprile 2015, le quali, fornendo ampia dimostrazione dell'esistenza di stabili e consolidati rapporti illeciti, hanno fornito una formidabile chiave di lettura di tutti i fatti in contestazione dei quali si è già riferito.

Già dal 2010 infatti - quindi sin dall'inizio dell'insediamento di Silvana Saguto quale presidente della sezione delle Misure di Prevenzione - nei rapporti finanziari tra Gaetano Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma sono state riscontrate, come si è visto in precedenza, una serie di anomalie (pagamenti in eccesso, duplicazioni di pagamenti, anticipi consistenti sulle competenze) che costituiscono, unitariamente considerate, prova dell'accordo corruttivo sin da quel periodo.

Va, al riguardo, richiamato il pagamento in eccesso effettuato nei confronti di Lorenzo Caramma nella procedura Calcestruzzi a dicembre del 2010, che dimostra l'esistenza, sin da allora, di un rapporto preferenziale – assente con gli altri coadiutori - nell'ambito del quale venivano più volte corrisposte da Cappellano Seminara indebite dazioni di denaro.

Più precisamente, la circostanza che il 28 dicembre 20 I O Cappellano Seminara avesse disposto il pagamento della fattura, integrante una duplicazione di importi già corrisposti dalla Calcestruzzi s.p.a., costituisce elemento probatorio per affermare che i rapporti tra Silvana Saguto e Gaetano Cappellano Seminara, mediati dall'intervento di Lorenzo Caramma, erano connotati da cointeressenze economiche e da illiceità già a quella data.

Numerosi sono, poi, come si è visto, gli elementi sintomatici che, globalmente apprezzati, consentono di inferire logicamente l'esistenza - sia pure non temporalmente precisata nel suo momento iniziale, ma comunque quantomeno contestuale alla suddetta dazione indebita del dicembre 2010 - di un risalente accordo corruttivo tra gli odierni imputati, nel quadro di una relazione di asservimento delle attribuzioni della Saguto, divenute ormai funzionali al soddisfacimento degli interessi privati, tanto che, quando nel 2015 vengono attivate le indagini a mezzo captazioni, quello in atto tra Cappellano Seminara e la Saguto è un rapporto ormai stabilizzato, maturo, in cui i reciproci ruoli illeciti sono ben delineati e che dimostra come un simile equilibrio nelle cointeressenze possa solo essere il frutto di una strutturazione in un lungo lasso di tempo.

Rispetto all'esposto articolato quadro probatorio, le argomentazioni difensive perdono di valenza.

UN LEGAME INDISSOLUBILE

Innanzi tutto, va osservato che, come si è già detto, la difesa di Cappellano Seminara non disconosce che siano stati, in effetti, disposti alcuni indebiti pagamenti in favore di Lorenzo Cammma, ma sostiene che essi non siano stati deliberatamente voluti da Cappellano Seminara.

[…] Gli assunti della difesa non convincono. Non convince anzitutto che le duplicazioni di pagamento siano imputabili all'asserito disordine contabile di Lorenzo Caramma.

La difesa ha più volte indugiato sulla perfetta struttura organizzativa dello studio Cappellilno Seminara, composta da diversi dipendenti e da numerosi professionisti, ed allora appare difficile immaginare che una organizzazione di lavoro così completa possa non essersi mai accorta che Lorenzo Caramma sbagliava ad emettere le sue fatture e tale considerazione tanto più vale ove si pensi che le presunte discrasie contabili di Lorenzo Caramma si riverberavano sempre negativamente nei confronti dello studio Cappellano Seminara.

Addirittura nel predetto studio era stata istituita una sorta di segregazione della contabilità, da una parte quella personale di Cappellano Seminara e dall'altra quella delle amministrazioni giudiziarie, ognuna delle quali affidate ad una segretaria amministrativa, e ciò rende ancora più difficile credere che Lorenzo Caramma sistematicamente emettesse fatture duplicate e che Cappellano Seminara, per di più con fondi propri, errasse nel pagarle senza che nessuno del suo studio si rendesse conto dell'errore.

La verità è, invece, che proprio la segregazione delle contabilità era lo strumento escogitato al fine di rendere possibile il meccanismo delle duplicazioni, dato che, come ha avuto modo di affermare il teste della difesa Giovanni Balsamo, collaboratore nello studio Cappellano Seminara, nessuno (se non lo stesso Cappellano Seminara) si poteva accorgere di eventuali duplicazioni di pagamento, nemmeno in sede di rendiconto finale, dato che in sede di rendiconto si esaminano i fatti economici della procedura, mentre le anticipazioni attenevano ai rapporti tra la persona fisica Cappellano Seminara ed il collaboratore (nella specie Lorenzo Caramma) al quale venivano erogate.

La difesa ha poi dimostrato mediante produzione documentale [...] che Lorenzo Caramma, non era l'unico dei collaboratori di Cappellano Seminara a godere delle anticipazioni di compensi.

Tale circostanza - che peraltro non è univoca nel presente processo, essendo viceversa emerso che altri coadiutori [...] erano pagati molto in ritardo da Cappellano Seminara e per questo addirittura avevano deciso di interrompere la loro collaborazione - non può in ogni caso essere letta a vantaggio della tesi difensiva, atteso che ciò che è illecito, in quanto prezzo di corruzione, non è il fatto in sé che Lorenzo Caramma abbia ricevuto delle anticipazioni da Cappellano Seminara (cosi come anche altri coadiutori), quanto invece il fatto che tali anticipazioni abbiano dato luogo a delle duplicazioni di pagamento non dovute.

E manca la prova (ed anche la semplice deduzione), che poteva essere fornita a discarico dall'imputato, che anche nei confronti di altri coadiutori si fossero realizzate analoghe duplicazioni, delle quali, peraltro, differentemente che nel caso del marito della Saguto, non si comprenderebbe le ragioni o le finalità. Infine, del tutto irrilevante è l'avvenuto pagamento da parte di Cappellano Seminara

mediante mezzi di pagamento tracciabili (bonifici cd assegni), cosi come il rilascio di fatture da parte di Lorenzo Caramma, dato che, anzi, è proprio grazie a questo sistema che si potevano giustificare, come compensi per attività svolte nell'amministrazione di compendi in sequestro, pagamenti che in realtà venivano corrisposti quali dazioni illecite, al solo fine di avvantaggiare il nucleo familiare Saguto-Caramma.

Né può sottacersi come proprio attraverso questo sistema di pagamento poteva realizzarsi anche un ulteriore risultato, assolutamente rilevante per il nucleo familiare della Saguto, ovvero quello di "ripulire" il denaro che Cappellano Seminara elargiva a titolo illecito, di modo che lo stesso potesse transitare nei conti correnti del pubblico ufficiale corrotto ed essere utilizzato attraverso gli ordinari strumenti di pagamento ad essi associati.

UN PATTO SPORCO INIZIATO DA TEMPO

[...] Ed invero, il patto corruttivo, cosi come ricostruito nel corso del processo, era caratterizzato dal fotto che, facendo seguito alle nomine che Silvana Saguto attribuiva a Gaetano Cappellano Seminara, quest'ultimo si impegnava a coinvolgere, appena possibile, Lorenzo Caramma nelle procedure di prevenzione che gli sarebbero state affidate da Tribunali diversi da quello palermitano.

Cappellano Seminara non poteva certamente sapere quando e da quale Tribunale sarebbe stato nominato al di fuori del circondario palermitano, ma, ciò nonostante, assicurava alla Saguto un costante e duraturo coinvolgimento del marito.

Così rappresentati i termini dell'accordo corruttivo, le nomine di Cappellano Seminara e gli incarichi di Lorenzo Caramma appaiono fondersi tra loro nel medesimo contesto temporale e in una prospettiva diacronica che si è sviluppata, per ciò che rileva in questa sede, quantomeno dal 2010 al 2015.

Un particolare rilievo dimostrativo assume il ritrovamento, nell'abitazione privata di Gaetano Cappellano Seminara, di un appunto riguardante i "pagamenti effettuati in favore dell'ing. Lorenzo Caramma", in cui erano elencati i pagamenti effettuati dall'8.9.2006 all' 11.8.2008 da Cappellano Seminara nei confronti del marito di Silvana Saguto.

Si tratta di un elemento indiziario emblematico, anche se riferito ad un precedente periodo temporale, poiché dimostra il particolare interesse che Cappellano Seminara aveva nei confronti delle sorti economiche della famiglia Saguto-Caramma, tanto da portare con sé nell'abitazione privata il superiore appunto (né sono stati ritrovati dagli inquirenti analoghi documenti riguardanti altri coadiutori o collaboratori di Cappellano Seminara).

Peraltro, il periodo cui sono riferiti i predetti documenti ((2006-2008) corrobora il convincimento secondo il quale il rapporto di scambio tra gli imputati del presente procedimento preesisteva, e di molto, all'epoca in cui viene collocato l'inizio del rapporto corruttivo in contestazione,

Dunque, deve concludersi che sicuramente lo scambio corruttivo tra Gaetano Cappellano Seminara e Silvana Sagnto, era vigente sin dalla fine del 2010 (sebbene siano emersi elementi per sostenere la natura illecita del loro rapporto addirittura da data antecedente all'assunzione delle funzioni di Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo da parte della Saguto) ed è andato avanti nel tempo come un rapporto a prestazioni plurime, secondo le cadenze di un contratto di somministrazione e, quindi, con periodicità si discontinua, ma, tuttavia, nel contesto di un rapporto saldamente unitario.

I termini dell'accordo corruttivo intercorso tra le due parti sono risultati ben definiti all'esito della lunga attività istruttoria: da un lato Cappellano Scminara si impegnava a remunerare la Saguto in tutte le forme possibili (incarichi al marito, pagamenti fatture non dovute o duplicate, dazioni di contanti) e, dall'altro lato, la Saguto lo nominava amministratore giudiziario nelle procedure più di rilievo della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nonché si adoperava al fine di agevolare Cappellano Seminara nell'esercizio della sua funzione di amministratore giudiziario con una serie (indeterminata) di atti, alcuni contrari ed altri conformi ai doveri di ufficio, finalizzati a realizzare una sorta di protezione globale degli interessi del corruttore Cappellano Seminara (si pensi, a titolo esemplificativo, ai vantaggi economici conseguiti nella liquidazione ottenute nella procedura Aiello).

Non può revocarsi in dubbio, alla luce delle risultanze dibattimentali, come la Saguto fosse pienamente consapevole di procurare il lavoro al marito attraverso il suo rapporto privilegiato con Cappellano Seminara e come, d'altra parte, Lorenzo Caramma fosse perfettamente a conoscenza di ricevere incarichi professionali da quest'ultimo esclusivamente in ragione della funzione svolta dalla moglie.

Nel tenere dette condotte la Saguto risultava certamente spinta dallo spasmodico desiderio di assicurare alla propria famiglia un tenore di vita molto più elevato delle proprie possibilità, mentre Cappellano Seminara agiva con la finalità di ricevere il maggior numero possibile di incarichi, lautamente retribuiti, nonché al fine di non subire alcuna limitazione di alcun genere nell'ambito della sua gestione, ottenendo di fatto un sostanziale annullamento del potere di controllo spettante al giudice delegato.

Peraltro, come si è già avuto modo di rilevare, gli incarichi conferiti a Cappellano Seminara dalla Saguto non erano soltanto quantitativamente numerosi, ma - ciò che più rileva - erano sicuramente anche i più importanti e i più remunerativi tra quelli affidati dal Tribunale delle misure di prevenzione di Palermo.

E tale circostanza è confermata dalla stessa Saguto, come ad esempio nella conversazione ambientale captata il 22 giugno 2015 […].

Dal punto di vista giuridico, il sinallagma tra Saguto e Cappellano Semimtra, durato diversi anni e riguardante il conferimento di diversi incarichi e la gestione di tutte le misure di prevenzione nelle quali quest'ultimo era stato nominato amministratore giudiziario, assume un significato difficilmente decifrabile circa l'inquadramento in una datio antecedente o susseguente.

Esso, piuttosto, si concretizza in un inscindibile intreccio tra provvedimenti di favore per Cappellano Seminara ed erogazioni di cospicue utilità alla Saguto e si inserisce, quindi, in una strumentalizzazione cd uso distorto dei poteri della Saguto finalizzato ad accondiscendere ai desiderata di Cappellano Seminara, in attuazione di un accordo pressoché generalizzato finalizzato ad elargire nomine e favori (atti conformi ed atti contrari ai doveri di ufficio) in cambio di utilità, frutto di sottintese, ma spesso anche esplicite, promesse, che, peraltro, si concretizzavano ed assumevano contorni meglio delineati a seconda delle contingenze e delle necessità del corruttore che nascevano nel corso del tempo.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Gli stratagemmi per aumentare lo stipendio al marito della giudice Saguto. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 7 dicembre 2021.

Il gruppo Buttitta è stato sottoposto a sequestro nel 2008. Amministratore giudiziario era Gaetano Cappellano Seminara, il quale aveva ifatto stanza affinché Lorenzo Caramma, il marito della Saguto venisse nominato coadiutore tecnico, “per coordinare l'attività di gestione delle problematiche tecniche connesse alla manutenzione e movimentazione degli impianti, dei mezzi e delle attrezzature di cava”.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Deve premettersi qualche considerazione preliminare sulla procedura di prevenzione Buttitta, pendente presso il Tribunale di Palermo ed iscritta al n.147/2007 Rmp.

E' emerso nel corso dell'istruttoria che il gruppo Buttitta - sottoposto a sequestro di prevenzione il 10 gennaio 2008 e il cui amministratore giudiziario era Gaetano Cappellano Seminara - era costituito da tre cave (Cava Consona, Cava Giardinello e Cava Valle Rena), una ditta individuale, una società di trasporti, una società immobiliare e un'azienda agricola; vi era infine la società Orima che si occupava di tutti i servizi, tra i quali quello di riparare i mezzi di tutte le società del gruppo.

Il 12 maggio 2008, Cappellano Seminara formulava istanza affinché Lorenzo Caramma venisse nominato coadiutore tecnico della procedura Buttitta, per coordinare l'attività di gestione delle problematiche tecniche connesse alla manutenzione e movimentazione degli impianti, dei mezzi e delle attrezzature di cava. La richiesta, formulata a maggio, indicava come decorrenza il mese di gennaio 2008.

Il I 5 maggio 2008 l'istanza veniva autorizzata dal giudice delegato. il compenso attribuito inizialmente a Lorenzo Caramma ammontava ad € 4.000,00 bimestrali, così suddiviso: 1.600,00 a carico di Cava Consona s.r.l.; € 600,00 a carico di ORIMA Service s.r.l.; € 400,00 euro a carico della ditta Buttitta Salvatore; € 600,00 a carico della ditta Valle Rena s.n.c., € 800,00 mensili a carico della ditta Cava Giardinello s.r.l.. I testimoni Fidel Carollo e Stefano Buscemi (il primo addetto ai pagamenti del gruppo Buttitta e il secondo consulente contabile dell'amministratore giudiziario, entrambi sentiti all'udienza del 26.3, 2018) hanno descritto le attività svolte da Lorenzo Caramma, nominato coadiutore giudiziario all'interno del gruppo Buttitta. L'imputato si occupava della manutenzione dei mezzi e del coordinamento dell'officina, dirigendo quindi gli operai e il responsabile degli acquisti. Il compenso di Caramma, che si aggirava inizialmente attorno ai duemila euro mensili, successivamente era stato aumentato. La variazione del compenso era stata determinata, secondo quanto aveva detto l'amministratore Cappellano Seminara a Fidel Carollo, dall'attribuzione ai coadiutori di procure speciali (c.d. procure datoriali), che avevano conferito loro maggiori responsabilità.

L'accusa di falso ideologico rivolta agli imputati Cappellano Seminara e Lorenzo Carnmma nel capo 14 dell'imputazione concerne proprio l'istanza del 29 marzo 2012, con la quale Cappellano Seminara, amministratore giudiziario della procedura, chiedeva l'aumento del compenso bimestrale nei confronti di Lorenzo Caramma, coadiutore della procedura e procuratore speciale della OR.IMA s.r.l., da € 4.000,00 a bimestre ad € 6.000,00 a bimestre, rilevando: che vi era stato un incremento nel numero dei mezzi d'opera ed attrezzature meccaniche che aveva determinato "una sempre maggiore responsabilità da parte del coadiutore tecnico, impegnato nel coordinare le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria"; che Lorenzo Caramma aveva assicurato una "presenza costante e presso le singole imprese"; che Lorenzo Caramma si era occupato anche della "selezione sul mercato dei ricambi più vantaggiosi dal punto di vista economico, allorquando si [era] avuta l'esigenza di procedere alla sostituzione di parti meccaniche".

L’ACCUSA DI FALSO IDEOLOGICO

Secondo l'accusa, invece, le ragioni addotte nell'istanza erano false, poiché (cosi come riportato nel capo 14 dell'imputazione): non vi era stato alcun incremento del numero dei mezzi d'opera e delle attrezzature meccaniche ma, semplicemente, alcuni mezzi vetusti erano stati sostituiti, […] Lorenzo Caramma si recava presso le singole imprese circa una volta alla settimana per non più di un 'ora, e talvolta ometteva persino di adempiere a questo minimo impegno, [...]

Lorenzo Caramma non si occupava della selezione sul mercato dei ricambi, e il suo contributo si limitava alla valutazione del prezzo indicato sui preventivi, che peraltro spesso erano unici, in quanto presentati dalle aziende costruttrici.

[…] Il 23.2.2012 erano poi stati ampliati i poteri conferiti a Lorenzo Caramma, con revoca dei precedenti limiti di spesa.

[...]Orbene, cosi ricostruite le posizioni delle parti, ritiene il collegio che le risultanze dibattimentali abbiano dimostrato la falsità ideologica dell'istanza di Cappellano Seminara del 29 marzo 2012 in relazione alle affermazioni ivi contenute. Con riferimento alla maggiore responsabilità del coadiutore Lorenzo Caramma anche per l'incremento del numero dei mezzi d'opera, i testimoni escussi nel corso del dibattimento (Fidel Carollo, Gandolfo Patti, Stefano Buscemi e Giuseppe Tagliareni, esaminati all'udienza del 26.3.2018) hanno concordemente affermato che, nel corso dell'amministrazione giudiziaria di Cappellano Seminara, durante la quale Lorenzo Caramma si occupava anche degli acquisti e delle sostituzioni dei mezzi meccanici, vi erano stati diversi acquisti di mezzi d'opera, ma molti di questi servivano a sostituire mezzi o attrezzature ormai non più utilizzati.

[…] Può, quindi, sul punto affermarsi, ad avviso del Collegio, che non vi sia stato un effettivo incremento dei mezzi d'opera utilizzati all'interno delle cave del gruppo Buttitta. Né a valutazioni diverse può giungersi sulla base delle conclusioni del consulente di parte ing. Pandolfo.

Invero, l'elenco dei mezzi acquistati nel corso dell'amministrazione giudiziaria riportato dal consulente Pandolfo non tiene conto delle dismissioni dei beni obsoleti che gli acquisti andavano a sostituire.

A fronte, infatti, di dichiarazioni testimoniali univoche, che affermano una sostanziale stabilità del numero complessivo dei mezzi del gruppo Buttitta, il mero elenco degli acquisti effettuati non dimostra un incremento del numero totale del parco mezzi, né la necessità di un aumento così cospicuo del compenso al coadiutore giudiziario. Invero, avuto riguardo, in maniera più specifica, alla consulenza redatta dall'lng. Pandolfo, risulta che gli acquisti sono quasi tutti successivi all'istanza per l'autorizzazione all'aumento dei compensi di Caramma e, dunque, non possono essere presi in considerazione, in quanto nell'istanza si afferma letteralmente “il crescente numero" dei mezzi d'opera "ha richiesto una sempre maggiore responsabilità da parte del coadiutore tecnico", facendo pertanto riferimento ad una circostanza già verificatasi al momento della presentazione dell'istanza ed agli acquisti già effettuati e non a quelli meramente programmati.

Gli unici acquisti antecedenti all'istanza sono, invece, talmente risalenti nel tempo da non poter essere presi in considerazione o sono, comunque, estremamente modesti o, in altri casi ancora, sono espressamente qualificati come funzionali alla sostituzione di mezzi divenuti obsoleti.

Del resto, anche un incremento di qualche unità del numero dei mezzi non avrebbe giustificato una così rilevante crescita del compenso del coadiutore Caramma, non essendo l'imputato ad occuparsi materialmente della manutenzione che avveniva all'interno dell'officina meccanica di Orima. Alla medesima conclusione, in punto di falsità, deve giungersi in relazione alla affermazione della "presenza costante in azienda" di Lorenzo Caramma. Dall'esame del maresciallo Sorino è emerso l'esito di un'attività di indagine che la Guardia di Finanza ha svolto con riferimento alle celle di aggancio dell'utenza 336******* in uso a Lorenzo Caramma.

QUASI MAI AL LAVORO

[…] Dall'analisi complessiva delle celle di aggancio, nonché dal riscontro proveniente dall'attività di intercettazione telefonica in atto sull'utenza di Lorenzo Caramma, emergeva che lo stesso si era dunque recato nel territorio di Bagheria (all'interno del quale si trovano le aziende del gruppo Buttitta) solo nei giorni di mercoledì 13 maggio, mercoledì 3 giugno, mercoledì 9 giugno, lunedì 15 giugno, lunedì 22 giugno, lunedì 29 giugno. Il superiore accertamento ha trovato pure conferma nelle prove testimoniali.

Gandolfo Patti ha riferito che Caramma era il suo referente, […] e che, nel corso della settimana, quest'ultimo si recava in officina "regolarmente una volta" e vi si tratteneva per "un 'oretta e mezza. Un 'ora, un'oretta e mezza", mentre gli risultava che i termini della sua presenza fossero stati costanti per tutta la durata della collaborazione, senza differenze di sorta tra prima e dopo il 2012.

[…] Dunque, è dimostrato in giudizio, ad avviso del Tribunale, che Lorenzo Caramma si recava mediamente una volta alla settimana presso le aziende del gruppo Buttitta e, come chiarito dai testimoni, vi si tratteneva per circa un'ora. L'aumento rilevante dei compensi, quindi, non poteva certo giustificarsi con una crescita della presenza nelle cave o nell'officina della Orima, avendo i testimoni chiarito che l'imputato aveva mantenuto immutata la cadenza temporale con cui garantiva la sua presenza in azienda.

[…] Ma, del resto, è anche emerso nel processo che Lornzo Caramma era quotidianamente impegnato nella sua attività di insegnante presso un istituto scolastico palermitano ed aveva un solo giorno libero la settimana. Peraltro, che l'attività lavorativa di Lorenzo Caramma all'interno del gruppo Buttitta, non fosse di grande rilievo (e tale da non giustificare un compenso mensile di tremila euro), è confermato anche dall'intercettazione n. 774 del 10.7.2015 intercorrente tra Silvana Saguto e Rosolino Nasca, in cui la prima dice al secondo che l'impegno del marito nella procedura Buttitta era "blando", poiché lo stesso, come dice la stessa Saguto, si recava una volta a settimana in azienda.

[…] Per le stesse ragioni, a nulla vale addurre che Caramma era, altresì, impegnato una volta a settimana nel comitato tecnico della procedura Buttitta, atteso che la falsità contestata afferisce alla dicitura "presenza costante presso le singole imprese", ed è pertanto irrilevante che Caramma partecipasse anche alle riunioni di coordinamento una volta la settimana.

[…] Non può non evidenziarsi, inoltre, come la procura datoriale sia stata conferita a Caramma solo per la società Orima Service s.r.l. e non anche in relazione alle altre società dei gruppo Buttitta, mentre l'aumento dei compensi, invece, è stato suddiviso tra Cava Consona, Orima Service s.r.l., impresa individuale Buttita Salvatore, Valle Rena s.n.c. e Cava Giardinello s.r.l.

Anche tale circostanza conferma che l'aumento dei compensi non era fondato sulle maggiori responsabilità di Lorenzo Caramma derivanti dalla procura datoriale ricevuta per la società Orima, bensì per attribuire allo stesso un immeritato benefit giustificato su false affermazioni.

[…] In definitiva, dunque, ritiene il Tribunale che Cappellano Seminara, in concorso con Lorenzo Caramma, beneficiario dei compensi, abbia alterato la realtà, costruendo un'istanza dal contenuto falso, al fine di creare un'apparenza tale da giustificare un forte aumento dei compensi (pari a 1.000,00 euro al mese), che non trovava una reale giustificazione in una crescita dell'impegno professionale di Lorenzo Caramma. Il delitto di falso ideologico contestato, pertanto, si è configurato in cupo agli imputati Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma tanto sotto il profilo materiale che sotto il profilo soggettivo, indubbia essendo la coscienza volontà degli stessi di rendere una rappresentazione della prestazione lavorativa resa dal Caramma nella procedura Buttitta così difforme dal vero.

L'istanza di aumento di compensi del 29 marzo 2012 si inserisce, del resto, nell'ambito del più ampio rapporto corruttivo esistente tra gli odierni imputati e dimostra, ancora una volta, come Cappellano Seminara tendesse in ogni modo a corrispondere denaro, quale prezzo della corruzione, al nucleo familiare Saguto-Caramma.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Così il bene sequestrato diventava il bancomat di famiglia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it l’8 dicembre 2021.

Gaetano Cappellano Seminara, Lorenzo Caramma e il reato di peculato. Le fatture “doppie” e l’appropriazione indebita di denaro riferibile alle società del gruppo Buttitta.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Al capo 16 dell'imputazione si contesta a Silvana Saguto, Lorenzo Caramma e Gaetano Cappellano Seminara un'ipotesi di peculato, per essersi appropriati della complessiva somma di €7.850,00 riferibile alle società del gruppo Buttitta, attraverso il pagamento delle seguenti fatture: […].

E' stato comprovato dalla documentazione acquisita (e non è oggetto di contestazione da parte della. difesa) che tali fatture sono state così pagate:

- la fattura 29/2010 attraverso il pagamento dell'importo netto di 2.500 euro, con assegno ******* dell'importo complessivo di 2.560,65 euro tratto dal conto della ditta Buttitta Giuseppe, sottoscritto da Cappellano Seminara (assegno poi versato, il 16 marzo 2010, sul conto corrente *******, intestato a Silvana Saguto e a Lorenzo Caramma presso Unicredit spa);

- la fattura 88/2010 con bonifico dell'importo complessivo di 2.560 euro disposto dal conto corrente di Cava Gi,lrdinello, accreditato il 30 novembre 2010 sul conto corrente ********** cointestato a Silvana Suguto e a Lorenzo Caramma presso Unicredit spa;

- le fatture 73 e 74 del 2012, dell'importo netto rispettivamente di 2.500,00 e 350 euro, con bonifico dell'importo complessivo di 3.019 euro disposto sul conto corrente di Cava Consona, accreditato il 23 novembre 2012 sul conto corrente ********** cointestato a Silvana Saguto e a Lorenzo Caramma presso Unicredit spa,

Secondo la prospettazione del PM, si tratterebbe di una illecita duplicazione di pagamenti, stante che l'attività indicata nell'oggetto delle predette fatture ("attività di valutazione e stima dei mezzi") rientrerebbe all'interno dei compiti già retribuiti a Lorenzo Caramma in relazione alla sua qualifica di coadiutore della procedura Buttitta, intervenuta con nomina del 15.5.2008.

L’ACCUSA DI PECULATO

L'impianto accusatorio, ad avviso del Tribunale, ha trovato conferma nell'istruttoria dibattimentale.

Lorenzo Caramma, come si è già rappresentato, è stato nominato coadiutore all'interno della procedura Buttitta, con l'incarico di "coordinatore delle attività di gestione delle problematiche tecniche connesse alla manutenzione e movimentazione degli impianti, mezzi e attrezzature di cava".

Ebbene, l'istanza di autorizzazione alla nomina testualmente prevedeva "ora, tra le figure professionali impegnate nel team costituito dallo scrivente vi è quella del coadiutore tecnico Ing. Lorenzo Caramma, che già in sede di immissione in possesso ha contribuito alla ricognizione e valutazione di numerosissimi mezzi d’opera di proprietà delle varie cave [...] lo scrivente ha chiesto al predetto professionista di presidiare l'area in questione al .fine di ottimizzarne l'efficienza.

Alla luce di quanto sopra esposto [ .. } appare utile provvedere a mantenere l'lng Caramma nell'organigramma aziendale e stante la diretta correlazione tra la sua attività ed il mantenimento dei livelli di efficienza degli impianti e della loro produttività prevederne il compenso ponendolo a carico delle aziende {..] Tenuto conio di quanto esposto in narrativa, si chiede di autorizzare l'Amministratore giudiziario a liquidare all'Ing. Lorenzo Caramma, per le attività professionali svolte [ .. .] quale coordinatore delle attività di gestione delle problematiche tecniche connesse alla manutenzione e movimentazione degli impianti, mezzi e attrezzature di cava, l'importo mensile di Euro 2000,00 [..] a far data dal mese di gennaio 2008".

Si evince chiaramente dal tenore di tale istanza che l'attività di cui alle fatture in questione (in relazione alla quale il Caramma ha peraltro elaborato le relazioni indicate ai numeri 8.1; 8.2; 8.3; 8.4 della sua produzione documentale) già rientrava in quelle mensilmente remunerate e non era suscettibile di autonoma valutazione.

Invero, nel richiedere l'autorizzazione alla somma a coadiutore giudiziario di Caramma ed al relativo pagamento (duemila euro al mese, poi aumentati a tremila euro al mese), Cappellano Seminara faceva espresso riferimento nella sua istanza a "quanto esposto in parte narrativa", ove precisava che Caramma si era, tra l'altro, occupato della "ricognizione e valutazione di numerosissimi mezzi d'opera di proprietà delle varie cave" e chiedeva di mantenere l'lng. Caramma all'interno dell'organizzazione aziendale, quindi affinché il medesimo svolgesse le mansioni sin lì effettuate.

Se ne deduce che l'attività di valutazione dei mezzi già svolta dal coadiutore nella fase iniziale del sequestro di prevenzione era un compito che sarebbe rimasto assegnato a Caramma anche nella fase successiva, proprio per garantire il presidio efficiente cui si faceva riferimento nell'istanza.

Il coadiutore Caramma era, dunque, il soggetto deputato alla valutazione dei mezzi d'opera nella procedura Buttitta già nelle fasi iniziali del sequestro di prevenzione ed era colui che, retribuito mensilmente dall'amministrazione giudiziaria, doveva evidentemente occuparsi anche delle altre valutazioni di cui si poteva avere bisogno nel corso della gestione.

Che l'attività di cui alle fatture in questione fosse già ricompresa tra i compiti di coadiutore giudiziario emerge anche da una ulteriore considerazione.

Se Caramma avesse effettivamente agito al di fuori dell'originario incarico ed in virtù di incarichi diversi conferiti dall'amministratore giudiziario, allora si sarebbero dovuti rinvenire specifici atti di autorizzazione alla nomina o, quantomeno (ove si volesse considerare Lorenzo Caramma quale consulente dell'A.G.) specifici atti di autorizzazione al pagamento delle sue spettanze, che non sono invece stati prodotti in giudizio.

La previsione di un esborso maggiore, a carico della amministrazione giudiziaria, rispetto al compenso già autorizzato, avrebbe dovuto infatti indurre Cappellano Seminara a rivolgere specifica istanza al giudice.

Non si vuole con questo sostenere che, in astratto, non sia ipotizzabile un incarico ulteriore affidato ad un soggetto cui sia già assegnata la funzione di coadiuzione, ma tuttavia deve trattarsi di compiti non rientranti nell'incarico di coadiutore (già autonomamente retribuito) che, stante il maggiore esborso per la procedura di prevenzione, devono essere preventivamente autorizzati dal giudice delegato.

Nel caso concreto, tali condizioni non sono state rispettate ed, anzi, l’assenza dell'istanza di autorizzazione alla nomina od al pagamento di Lorenzo Caramma, dimostra proprio la mala fede di Cappellano Seminara.

[…] In conclusione, il delitto di peculato si è perfezionato in ragione dell'indebita destinazione di denaro pubblico al soddisfacimento di interessi privati per mezzo delle disposte duplicazioni di pagamento, che hanno consentito l'appropriazione da parte degli imputati di un indebito importo complessivo di 7850 euro.

La condotta dell'imputato Lorenzo Caramma, coadiutore della procedura e pubblico ufficiale, si è realizzata attraverso l'emissione delle fatture in questione, pur nella consapevolezza che l'attività resa rientrava tra quella già retribuita. La condotta dell'imputato Cappellano Seminara, quale amministratore giudiziario e pubblico ufficiale che, in ragione del proprio ufficio, aveva la disponibilità del denaro delle società in sequestro, si è realizzata attraverso il pagamento, con il denaro dell'amministrazione giudiziaria, delle fatture in questione, pur nella piena consapevolezza che l'attività di valutazione mezzi e di valutazione del canone di locazione dei mezzi rientrasse già nell'incarico di coadiutore conferito a Lorenzo Caramma e fosse, quindi, già stata retribuita.

Entrambe le condotte si inseriscono nell'alveo del rapporto corruttivo ormai in corso tra Cappellano Seminara e Silvana Saguto, nell'ambito del quale, appena possibile, l'amministratore giudiziario trovava il modo per elargire somme di denaro in favore del nucleo familiare Saguto Caramma.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Una fattura sbagliata e un super stipendio intascato in silenzio. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 9 dicembre 2021.

Lorenzo Caramma, in qualità di coadiutore e pubblico ufficiale, ha emesso fatture, pur consapevole che l'importo esposto  fosse maggiore rispetto a quello autorizzato. Cappellano Seminara, in qualità di amministratore giudiziario e pubblico ufficiale ha pagato con il denaro dell'amministrazione giudiziaria, le fatture in questione, consapevole dell’importo superiore.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

A fondamento dei superiori capi di imputazione, contestati agli imputati Lorenzo Caramma, Silvana Saguto e Gaetano Cappellano Seminara ed aventi ad oggetto i delitti di peculato e di peculato mediante profitto dell'errore altrui, vi sono i pagamenti delle seguenti fatture:

- la fattura 8/2015 del 2 aprile 2015 per 3 .600 euro oltre iva e cp per le "attività prestate tra i mesi di luglio ad ottobre 2014 quale responsabile della manutenzione dei mezzi" (quando invece l'importo fatturato avrebbe dovuto essere di 1.800 euro, secondo quanto autorizzato dal Giudice delegato con il provvedimento del 30 marzo 2012);

- la fattura 15/2015 del 1 giugno 2015, per "attività prestale nel mese di Novembre Dicembre quale responsabile della manutenzione dei mezzi", dell'importo di 1.800 euro oltre iva e cp (quando invece l'importo fatturato avrebbe dovuto essere di 900 euro, secondo quanto autorizzato dal Giudice delegato con il provvedimento del 30 mano 2012);

- la fattura 23/2015 del 4 agosto 2015, per "attività prestate nel mese di Novembre Dicembre quale responsabile della manutenzione dei mezzi", dell'importo di 3.600 euro oltre iva e cp (prestazione già oggetto della fattura 15/2015 con un importo che, per due mesi, avrebbe dovuto essere, secondo quanto autorizzato dal Giudice delegato, pari a 900 euro);

- la fattura 24/2015 del 4 agosto 2015, per "attività prestate nel mese di gennaio giugno 2015 quale re.1ponsabile della manutenzione dei mezzi" dell'imporlo di 10.800 euro oltre iva e cp (quando invece l'importo fatturato avrebbe dovuto essere di 2.700 euro, secondo quanto autorizzato dal Giudice delegato con il provvedimento del 30 marzo 2012);

Dette fatture venivano pagate a Lorenzo Caramma da Fidel Carollo, su disposizione di Cappellano Seminara, nei seguenti termini:

- il 1 aprile 2015 veniva accreditato il bonifico in pagamento della fattura 8/2015;

- il 28 maggio 2015 veniva accreditato il bonifico in pagamento della fattura 15/2015;

- il 4 agosto 2015 veniva accreditato il bonifico disposto in pagamento della fattura 23/2015;

- il 10 agosto 2015, veniva accreditato il bonifico disposto in pagamento della 24/2015.

Dunque, veniva preso a base di calcolo il compenso mensile di 900 euro, mentre, secondo quanto autorizzato dal Giudice delegato con il provvedimento del 30 marzo 2012, il compenso mensile ammontava alla minore somma di 450 euro mensili.

Analizzando specificamente ogni singola fattura, emerge chiaramente la differenza tra quanto spettante al coadiutore giudiziario Lorenzo Caramma per la sua attività svolta nei confronti della Orima s.r.l. e quanto effettivamente percepito: […].

Complessivamente, dunque, Lorenzo Caramma ha ricevuto una somma non dovuta pari a 14.400,00 euro (come indicato nei due capi di imputazione 20 e 21: 7.200,00 euro x 2).

I fatti, cosi come contestati, hanno trovato puntuale riscontro nelle risultanze dibattimentali, mentre prive di pregio sono, ad avviso del Tribunale, le argomentazioni difensive.

In data 3 agosto 2015, Fidel Carollo inviava a Lorenzo Caramma, Cappellano Seminara e Stefano Buscemi una mail ove riepilogava i compensi spettanti al Caramma, quantificando il saldo dei mesi novembre e dicembre 2014 in € 3.847,68 e quelli dei mesi da gennaio a giungo 2015 in € 11.543,04.

Quando Caramma riceveva la mail in questione, contattava Carollo al quale riferiva di non aver compreso la mail, affermando che il conteggio fatto da Carollo non "appattava con i (...) precedenti",

Carollo, allora spiegava che, per Orima, aveva proceduto a moltiplicare il bimestre per tre. Caramma medesimo rilevava che la somma non faceva 11, ma "qualche sei". A quel punto, Carollo riferiva di aver utilizzato, come moltiplicatore "tremila e spiccioli", affermazione alla quale Caramma, che evidentemente aveva compreso l'errore nel quale era incorso Carollo, rispondeva semplicemente «Ho capito».

GLI ERRORI DEL DIPENDENTE

[…] Nella conversazione riportata si comprende che Lorenzo Caramma, dopo avere ricevuto la mail in cui veniva indicato un compenso pari a circa 11.000,00 euro, per il quale l'indomani, il 4.8.2015, avrebbe infatti emesso la fattura n. 24/15 per 10.800,00 euro oltre iva e cpa, ha contattato per chiarimenti Fidel Carollo. Come emerge dall'intercettazione, anche Lorenzo Caramma è sorpreso dell'importo, poiché dai suoi calcoli il compenso complessivo per sei mesi di attività nei confronti

della Orima s.r.l. doveva essere pari a "qualche sei", quindi pari a 5.400,00 euro risultante dalla moltiplicazione del compenso mensile di e 900,00 per sei mensilità.

Peraltro, il calcolo, effettuato da Caramma è a sua volta errato, poiché frutto dell'accordo illecito raggiunto con Cappellano Seminara, a seguito del quale Cappellano aveva disposto che Fidel Carollo pagasse le fatture con un importo mensile raddoppiato rappresentandogli una circostanza non vera, e cioè che Lorenzo Caramma avesse ottenuto un ulteriore e diverso aumento rispetto a quello già avuto il 30.3.2012.

Caramma, quindi, pienamente consapevole di percepire già ingiustamente 900,00 euro al mese per l'attività prestata nei confronti della Orima s.r.l., ha sfruttato anche il secondo errore in cui è incorso Fidel Carollo, raddoppiando ulteriormente il compenso di Caramma e, quindi, quadruplicando l'ammontare dovuto.

Caramma volutamente non ha evidenziato l'errore a Carollo e, il giorno dopo la superiore telefonata, ha emesso la fattura con l'importo palesemente errato, appropriandosi definitivamente dell'importo non dovuto.

Il 4 agosto 2015 Cappellano Seminara, che, al pari di Caramma, aveva ricevuto la mail con la quantificazione dei compensi spettanti a quest'ultimo, contattava Fidel Carollo, chiedendogli se avessero liquidazioni da fare e questi rispondeva che ''Le [aveva] fatte tutte, le [aveva] fatte tutte per come [lui gli] aveva detto" e cioè che "quelle che [avevano] la disponibilità le [aveva] portate fino a giugno, dell'ingegnere, per come ci eravamo detti”. Quando Cappellano Seminara chiedeva quale fosse la cifra

che era "venuta fuori" Carollo rispondeva "circa tredicimila" e Cappellano Seminara non faceva una piega.

[…] L'attività tecnica espletata ha fornito dunque la conferma dell'accordo sussistente tra Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma volto a consentire al secondo di appropriarsi di compensi non dovuti,

Di contro, non possono in alcun modo essere condivise le considerazioni spese dalla difesa di Cappellano Seminara.

In primo luogo, come si è già detto, benché sia effettivamente vero che fosse Carollo a comunicare a Lorenzo Caramma gli importi dei bonifici effettuati affinché questi emettesse la relativa fattura, ciò non inficia, in alcun modo, la ricostruzione operata dal testimone nel suo nucleo essenziale, ossia per ciò che riguarda le interlocuzioni con Cappellano Seminara, prodromiche all'erogazione di importi diversi da quelli normalmente corrisposti;

Tale circostanza trova, peraltro, conferma proprio nella mail del 31 dicembre 2015, prodotta dalla difesa di Lorenzo Caramma, il cui testo è letteralmente il seguente: "Come concordato con l'Amministratore resto in attesa di sua cortese fattura", circostanza che induce a ritenere che, contrariamente a quanto la difesa vorrebbe suggerire, l'impiegato amministrativo aveva eccome contatti diretti con l'amministratore, funzionali all'individuazione degli importi da erogare a Lorenzo Caramma.

In conclusione, il delitto di peculato di cui al capo di imputazione 20 può dirsi integrato in ragione dell'indebita destinazione di denaro pubblico al soddisfacimento di interessi privati per mezzo del disposto pagamento dei compensi a Lorenzo Caramma in misura superiore rispetto all'autorizzazione del giudice delegato.

LE FATTURE E I SILENZI

La condotta dell'imputato Lorenzo Caramma, coadiutore della procedura e pubblico ufficiale, si è realizzata attraverso l'emissione delle fatture in questione, pur consapevole che l'importo esposto in fattura fosse maggiore rispetto a quello autorizzato.

La condotta dell'imputato Cappellano Seminara, quale amministratore giudiziario e pubblico ufficiale che, in ragione del proprio ufficio, aveva la disponibilità del denaro delle società in sequestro, si è realizzata attraverso il pagamento, con il denaro dell'amministrazione giudiziaria, delle fatture in questione, e ancor prima nell'aver disposto che l'impiegato Fidel Carollo eseguisse i pagamenti nell'importo superiore rispetto a quanto autorizzato dal giudice delegato.

Entrambe le condotte si inseriscono nell'alveo del rapporto corruttivo ormai in corso tra Cappellano Seminura e Silvana Saguto, nell'ambito del quale, appena possibile, l'amministratore giudiziario trovava il modo per elargire somme di denaro in favore del nucleo familiare Saguto Carnmma.

[…] Si ritiene pertanto integrato, tanto sotto il profilo materiale che sotto quello psicologico, il delitto di peculato ascritto al capo 20 agli imputati Gaetano Cappellano Seminara e Lorenzo Caramma in concorso tra loro.

Lo stesso non può invece dirsi con riferimento alla posizione di Silvana Saguto, che si ritiene vada mandata assolta dal medesimo capo di imputazione per non aver commesso il fatto, non essendo emersa dalla espletata istruttoria dibattimentale alcuna condotta della stessa che possa essere collegata all'emissione e al pagamento delle fatture del marito nella procedura del gruppo Buttitta e non essendo sufficiente, al riguardo, il fatto, pure acclarato, che il conto corrente sul quale sono confluite le somme liquidate a Lorenzo Caramma da Cappellano Seminara fosse cointestato tra i coniugi.

Parimenti integrato deve ritenersi, nei confronti degli imputati Lorenzo Caramma e Gaetano Cappellano Seminara, il delitto di peculato mediante profitto dell'errore altrui di cui al capo 21 dell'imputazione con riferimento alle fatture duplicate o di importo quadruplicato (fatture 23/15 e 24/15).

Nella fattispecie descritta al capo 21 dell'imputazione, infatti, Lorenzo Caramma – in concorso con Cappellano Seminara, che aveva dato disposizioni in tal senso a Fidel Carollo - pur essendo evidentemente a conoscenza dell'errore commesso da Fidel Carollo, non avvertiva l'impiegato, trattenendo per sé le somme non dovute.

Peraltro, nella conversazione del 3.8.2015 emerge platealmente la consapevolezza di Caramma dell'errore commesso da Fide! Carollo: […]. Caramma, quindi, poneva in essere un timido tentativo di correggere l'errore di Fidel Carollo ma, a fronte della risposta di Carollo - palesemente errata perché stava liquidando un importo superiore di 8.100,00 euro - l'imputato decideva di non insistere più, emettendo il giorno dopo la fattura che gli consentiva di incassare l'importo non dovuto.

Anche in questo caso, nei confronti di Silvana Saguto, non sono emersi elementi di prova che possano collegarla all'emissione e al pagamento delle fatture del marito nei confronti delle società del gruppo Buttitta e, pertanto Silvana Saguto deve essere assolta per non avere commesso il fatto anche in relazione al capo 21 dell'imputazione.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTR

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Il sequestro Padovani e la ricca liquidazione per lavori mai fatti. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 10 dicembre 2021.

Lorenzo Caramma non ha mai prestato "supporto tecnico" agli addetti alla manutenzione delle macchine da gioco delle società del gruppo Padovani. Il marito della Saguto, semmai, si è limitato ad effettuare l'inventario dei beni, in alcuni casi accompagnato dai tecnici manutentori.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Cappellano Seminara, quale amministratore giudiziario della procedura 45/2011 RMP Padovani presso il Tribunale di Caltanissetta, e quindi pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni - in concorso con Lorenzo Caramma, coadiutore della medesima procedura, pubblico ufficiale anch'esso, il quale redigeva la relazione del 18 gennaio 2013 - recependo la relazione di Caramma come allegato, pur consapevole della falsità di quanto in essa contenuto, attestava falsamente nella relazione annuale e contestuale richiesta di acconto, depositata il 23 gennaio 2013 presso la cancelleria della Sezione Misure di prevenzione, fatti dei quali la relazione era destinata a provare la verità.

In particolare, secondo l'assunto accusatorio, l'istanza di liquidazione rivolta da Lorenzo Caramma all'amministratore giudiziario Cappellano Seminara il 18.01.2013 e da quest'ultimo recepita conterrebbe le affermazioni false secondo cui lo stesso Caramma: aveva prestato "supporlo tecnico alla sede di Modena"; aveva compiuto "visite mensili" presso la sede di Modena; aveva reso prestazioni di "supporto tecnico agli incaricati dell'assistenza tecnica''; aveva curato la "verifica della funzionalità delle macchine e attrezzature da gioco"

Le superiori affermazioni, secondo l'accusa, sarebbero smentite da diverse testimonianze da cui risulterebbe che invece Caramma: non avendone le competenze, non aveva mai prestato "supporto tecnico alla sede di Modena"; non aveva compiuto "visite mensili" presso la sede di Modena, ma vi ci si era recato solo un paio di volte, nella fase immediatamente successiva al sequestro; non aveva reso prestazioni di "supporto tecnico agli incaricati dell'assistenza tecnica" anche perché esistevano nell'ambito della Gari srl, società parte del compendio in sequestro, le figure professionali deputate alla manutenzione per le sale del nord, del centro e del sud Italia; non aveva curato la "verifica della funzionalità delle macchine e attrezzature da gioco", in quanto se ne erano occupati, a seconda dell'area territoriale di riferimento, i tecnici incaricati, i quali facevano riferimento a Luigi Miserendino, amministratore unico della Gari srl.

BENI CONFISCATI A MODENA

[…] Orbene, ad avviso ciel Collegio, dalle risultanze dibattimentali è emersa la prova della falsità dell'istanza formulata da Lorenzo Caramma e recepita da Cappellano Seminara, non avendo Caramma mai effettivamente compiuto le attività da lui indicate in eletta istanza, fatta eccezione per quelle di "verifiche della funzionalità delle macchine e attrezzature da gioco".

Le dichiarazioni di Luigi Miserendino ( che sono state confermate integralmente da quelle rese da Troina e Melluccio), hanno invero provato l'assoluta falsità delle affermazioni contenute nell'istanza rivolta all' amministratore giudiziario.

Non vi è stata, intanto, alcuna "visita mensile", termine che richiama una periodicità in un'attività che invece era stata occasionale, essendosi Caramma recato a Modena solo nella fase iniziale cli immissione in possesso, per un massimo di due volte.

Del resto, lo stesso imputato, nel corso del suo esame, ha ammesso cli essersi recato a Modena non più di due volte e che il c.d. supporto tecnico è consistito nella verifica della funzionalità delle macchine situate presso le sale del gruppo Padovani e nel loro inventario. Lorenzo Caramma non ha certamente mai prestato "supporto tecnico" agli addetti alla manutenzione delle macchine da gioco delle società ciel gruppo Padovani.

L'imputato, nel corso dell'immissione in possesso, si è limitato ad effettuare l'inventario dei beni, in alcuni casi accompagnato dai tecnici manutentori. Questi, tuttavia, hanno escluso che Caramma abbia mai prestato loro un supporto di natura tecnica, essendosi limitato a verificare la funzionalità delle macchine, nell'ambito delle sua attività di inventario dei beni in sequestro.

Non si ritiene di poter condividere, allora, l'argomento della difesa volto ad interpretare il "supporto tecnico all'incaricato all'assistenza tecnica" non come assistenza tecnica, bensì solo come mera verifica della funzionalità delle macchine da gioco. Ciò significherebbe attribuire un significato all' espressione che è contrario rispetto al tenore letterale delle parole analizzate.

[…] D'altra parte, accedendo alla tesi della difesa, non si comprenderebbe per quale

ragione, nella istanza di Caramma, vi sia una voce ulteriore specificamente rubricata "verifica della funzionalità delle attrezzature in uso".

Ad ogni buon conto, l'attività descritta dal teste Aurelio Melluccio e qualificata dalla difesa come "verifica della funzionalità" delle macchinette e "supporto tecnico", ossia quella consistita nel fare il giro delle sale, catalogare le macchinette, fare delle foto e acquisire i relativi certificati, contare le macchinette che funzionavano e quelle che non funzionavano, fatta, tra l'altro, una sola volta, rientrerebbe, al più in una attività di inventariazione per la quale era già prevista la voce "verifica delle

attrezzature in uso" o "verifica della corretta conservazione dei beni mobili in sequestro”.

E allora non può dubitarsi che "l'avere svolto supporlo tecnico" è evidentemente un'espressione falsa utilizzata da Lorenzo Caramma e poi recepita da Cappellano Seminara al fine di rappresentare un'attività talmente onerosa e specifica da potere giustificare la richiesta di liquidazione superiore ai 64.000 euro.

Non si possono, inoltre, condividere le considerazioni spese dalla difesa di Curamma nella parte in cui si sostiene che, a ben vedere, questi non avesse chiesto compensi in relazione alle voci per le quali è contestazione, con particolare riguardo a quelle inerenti l'attività prestata presso la sede di Modena.

Più precisamente, ad avviso della difesa, non vi sarebbe corrispondenza tra le attività che, nella propria istanza di liquidazione del 18 gennaio 2013, Caramma attestava come effettuate e quelle per le quali, poi, il medesimo chiedeva un compenso (ovvero, il coadiutore avrebbe descritto una sede di attività svolte, ma avrebbe chiesto il compenso solo per alcune di esse). La suggerita lettura del documento in esame non può, in alcun modo, essere condivisa.

IL REATO COMMESSO

[…] Per altro verso, va osservato che le attività elencate da Caramma nell'incipit dell'istanza del 18 gennaio 2013 sono quelle che egli avrebbe svolto "in relazione alle operazioni di immissione in possesso, le contestuali stime del patrimonio mobiliare, immobiliare e inventario fisico di tutti i beni esistenti oggetto di sequestro dislocati in tutto il territorio nazionale".

Orbene, questa è esattamente la identica dicitura in relazione alla quale Caramma, nella propria missiva del 29 febbraio 2012 chiedeva a Cappellano Seminara "[di riconoscergli] un rimborso forfettario omnia comprensivo di € 2.500,00 mensili, oltre al rimborso delle spese vive a far data dal Gennaio del corrente anno". E del tutto evidente, dunque, che Caramma, nell'istanza del 18 gennaio 2013, abbia richiesto eccome il pagamento di spettanze in relazione alle voci allegate in incipit, quantificandole all'ultimo punto delle proprie richieste in € 30.000,00 (ossia, appunto, 2.500,00 per i dodici mesi che vanno da gennaio a dicembre 2012).

Con riferimento, poi, alla posizione di Cappellano Seminara, non possono esservi dubbi di sorta in merito al fatto che l'allegazione dell'istanza del coadiutore alla sua relazione costituisca un richiamo del contenuto della stessa e, quindi, un pieno concorso con Lorenzo Caramma nel reato di falso.

[…] E' evidente che l'imputato, sottoscrivendo l'atto ed essendo l'unico soggetto responsabile della procedura, aveva piena consapevolezza di assumere su di sé la responsabilità di ogni istanza rivolta all'autorità giudiziaria. […].

In definitiva, i due imputati, con la relazione del 23.01.2013, hanno evidentemente rappresentato all'autorità giudiziaria una realtà che sapevano non essere corrispondente al vero.

Il delitto di falso ideologico contestato, pertanto, si è configurato in capo agli imputati Carnmma e Cappellano Seminara tanto sotto il profilo materiale che sotto il profilo soggettivo, […] finalizzata ad arricchire Lorenzo Caramma e, quindi, la moglie Silvana Saguto nell'ambito del rapporto corruttivo in quel periodo già in essere tra Cappellano Seminara e il magistrato.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. La giudice, il professore e i piani sui beni confiscati a Caltanissetta. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it l’11 dicembre 2021.

Intercettati, Silvana Saguto e Carmelo Provenzano, parlano di Calatanissetta e di "un bel triangolone", una sorta di area franca delle misure di prevenzione, dove l'esercizio delle funzioni giudiziarie ben si sarebbe potuto sposare con le cointeressenze privatistiche tese alla sistemazione di persone gradite e familiari dei magistrati

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Segnatamente, il 28 agosto 2015 a casa della Saguto veniva captata la seguente conversazione.

Carmelo Provenzano: io con lui ho parlato, con Giovanbattista. Ho detto ..., a parte sulla cosa di Caltanissetta per una proiezione futura. Perché secondo me se Giovanbattista però va a Caltanissetta invece di andarsene a Roma...

Silvana Saguto: ... sarebbe perfetto per noi...

Carmelo Provenzano: ... sarebbe perfetto.

Silvana Saguto: ... in questo momento per i ragazzi.

Carmelo Provenzano: Perché secondo me a Caltanissetta uno papabile era Fabio Licata, che aveva tutti i titoli per ...

Silvana Saguto: Non ci vuole andare.

Carmelo Provenzano: Ma infatti se n'è andato, ormai è andato.

Silvana Saguto: Se ne va fuori.

Carmelo Provcnzano: Cioè, lui .... cioè perché ... , cioè .... Ha un curriculum Fabio da presidente ormai.

Silvarnt Saguto: Certo! Ha già presieduto ma poi comunque ha fatto tante cose.

Carmelo Provenzano: Ha presieduto già una sezione?

Silvana Saguto: Collegio, no, sezione no. Facente funzioni, secondo collegio,

Carmelo Provenzano: Allora, andiamo per gradi così concretizziamo quello che ci siamo detti: primo punto ... ( ... omissis ... )

Carmelo Provenzano: Va bene, allora io questa te la risolvo di qua, ora tu mi hai dello questa cosa di Giovanbattista, io queste te la concretizzo.

Silvana Saguto: Si, è importante.

Ore 10:45:37

Carmelo Provenzano:... vedo io anche sui social, come sta tirando, questi giornali, tipo ...

Silvana Saguto: E quindi ...

Carmelo Provenzano: ... duemila ..., duemila persone...

Silvana Saguto: ... dico, se lui si mette a Caltanissetta, facciamo un triangolone con .. smuoviamo un poco a Grillo ...

Carmelo Provenzano: Sono d'accordo. 

Silvana Saguto: Facciamo tante cose, in generale, per tutti

Carmelo Provenzano: Sì, si, si, sono d'accordo.

Silvana Saguto: Perché Caltanissetta è una bella piazza quando si lavora.

Carmelo Provenzano: Sono d'accordo. Poi .. Allora io li ..., faccio una cosa invece: siccome io a Salvalore Falzone, che la mamma ... , che sono Falzone, suo papà è direttore di. .. , l'abbiamo avuto con noi nella co ... , io ho detto «guarda, io .. siccome operare a Caltanissetta mi viene difficile, ora insisterò tantissimo per un posto di amministratore tu là». A che lui è amministratore lì, mettiamo Francesco come coadiutore.

Silvana Saguto: Certo!

Carmelo Provenzano: O "ci siddìa" fare il coadiutore giudiziario a Francesco?

Silvana Saguto: Lui ci vuole andare, vuole farlo.

Carmelo Provenzano: Quindi vuole farlo il coadiutore? Sei sicura, no?

Silvana Saguto: Certo. Lui vuole fare il coadiutore proprio, dice: «così imparo...».

Carmelo Provenzano: Va bene.

Silvana Saguto: perché non le so fare queste cose, sennò mi dovrei portare a uno che mi fa da coadiutore a me, ma che in realtà è lui che agisce.

Carmelo Provenzano: Questa discussione è stata fatta ieri e l'altro ieri con i Falzone, che hanno uno studio grandissimo a Caltanissetta, solo che loro mi...

Silvana Saguto: E lo stesso vale per Mariangela ...

Carmelo Provenzano: ... e mi hanno chiesto la co ...

Silvana Saguto: ... se hanno bisogno di coadiutori in qualche altra procedura poi ..

Carmelo Provenzano: Mi hanno chie .... Mih! Tutte e due lì se ne vanno

Silvana Saguto: Hanno tutti e due fatto il corso, tra l'altro.

Carmelo Provenzano: Tutti e due lì se ne vanno. Si pigliano un apparta men...

Silvana Saguto: Sono tutti e due avvocati.

Carmelo Provcnzano: Al limite si pigliano un appartamentino di appoggio quando avvicinano là tutti e due, perché non tutti e due? Ci dissi: «te la faccio», così sono convinti. Perché Falzone me l'ha detto, fa: «l'importante però è che mi appoggi tu, che ci sei tu, perché noi non abbiamo mai fatto ste cose», ci dissi: «non vi preoccupale, come società di supporto, di back Offìce ...».

Silvana Saguto: Si, loro possono chiedere a te e vedere con 1e, perché poi sennò si annoia troppo ...

Carmelo Provenzano: ... la facciamo.

Silvana Saguto: Lui vuole fare ormai che si fa una traccia alla settimana, perché se il concorso dovesse andare male, così non è che si è dimenticalo tutto, se lo dovesse rifare alla prossima.

IL “TRIANGOLONE”

È evidente, a parere del Collegio, come la Saguto, nella predetta conversazione captata il 28 agosto 2015 nella sua abitazione, parli con Carmelo Provenzano della possibilità che, qualora il dott. Giovanbattista Tona, magistrato a Caltanissetta, avesse ottenuto l'incarico di presidente di sezione delle misure di prevenzione nel Tribunale nisseno, Silvana Saguto con Carmelo Provenzano, coinvolgendo anche il Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani, Dott. Piero Grillo, avrebbero potuto fare "un bel triangolone", ovvero una sorta di area franca delle misure di prevenzione, dove l'esercizio delle funzioni giudiziarie ben si sarebbe potuto sposare con le cointeressenze privatistiche tese alla sistemazione di persone gradite e familiari dei magistrati, come il figlio e la nuora della Saguto, Francesco Caramma e Mariangela Pantò.

Orbene, tali conversazioni intercettate, più che apparire come la riprova per il passato e per il presente dell'esistenza di una stabile organizzazione criminale nei termini delineati dal pubblico ministero nel capo di imputazione in disamina, sembrano essere piuttosto un anelito dei due interlocutori alla creazione di una zona di potere ed egemonia nella gestione delle misure di prevenzione unitamente ad altri soggetti cui si fa appunto riferimento durante i dialoghi, e che all'epoca rivestivano ruoli di primo piano nella magistratura che a tale materia si dedicava.

Peraltro, quella appena riportata è una conversazione che interviene solamente tra Silvana Saguto e Carmelo Provenzano e che cristallizza una loro aspirazione, una tensione finalistica futura e nella quale nessun ruolo - neppure futuro, è bene ribadirlo - sembra essere attribuito agli altri soggetti, [...].

Deve concludersi, dunque, che il tenore di tale dialogo rassegna la volontà della Saguto e di Provenzano di far emergere nuove figure e soggetti, piuttosto che portare avanti un programma delittuoso già delinealo e cristallizzato tra tre o più persone già individuate e consapevoli della loro appartenenza ad una già ben definita societas sceleris.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Per amministrare i beni confiscati, spunta anche un prestanome. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 12 dicembre 2021.

Un patto corruttivo per gestire i beni sequestrati ai mafiosi. La nomina di Roberto Nicola Santangelo e l'attribuzione di poteri gestori al professore Provenzano nelle medesime procedure nelle quali il primo ricopriva le funzioni di amministratore giudiziario era un atto riconducibile a Silvana Saguto.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

È stato provato attraverso la documentazione offerta in produzione dal pubblico ministero ed acquisita al fascicolo del dibattimento che l'imputato Roberto Nicola Santangelo: veniva nominato amministratore giudiziario con decreto del 20 aprile 2013 - emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e a firma di Silvana Saguto quale Presidente estensore del provvedimento - depositato in cancelleria il 22 aprile 2013 nel procedimento n. 256/2012 c.d. “Vetrano”; veniva nominato amministratore giudiziario con decreto del 8 gennaio 2013, emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e a firma di Silvana Saguto quale Presidente estensore del provvedimento, depositato in cancelleria il 9 gennaio 2014 nel procedimento n. 275/2013 c.d. "Dolce"; veniva nominato amministratore giudiziario con decreto del 6 febbraio 2014, emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e a firma di Silvana Saguto quale Presidente estensore del provvedimento, depositato in cancelleria il 6 febbraio 2014 nel procedimento n. 7/2014 c.d. “Ingrassia”; veniva nominato amministratore giudiziario con decreto del 11 novembre 2014, emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e a firma di Silvana Saguto quale Presidente estensore del provvedimento, depositato in cancelleria il 11 novembre 2014 nel procedimento n. 220/2014 c.d. "Raspanti"; veniva nominato amministratore giudiziario con decreto del 27 aprile 2015 emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo e a firma di Silvana Saguto quale Presidente estensore del provvedimento - depositata in cancelleria il 27 aprile 2015 nel procedimento n. 104/2015 c.d. “Acanto”.

Nelle medesime procedure Carmelo Provenzano veniva nominato coadiutore con funzioni di «consulenza strategica e direzionale», e precisamente: veniva nominato nella procedura “Vetrano”, giusta istanza del 22 gennaio 2014 a firma di Santangelo, quale coadiutore dell'amministrazione giudiziaria per l'intera procedura per l'espletamento dell'attività di consulenza direzionale e strategica e di analisi della struttura, dei comportamenti e delle performance delle imprese sottoposte ad amministrazione giudiziaria; veniva nominato nella procedura c.d. “Dolce”, giusta istanza del 22 gennaio 2014 a firma di Santangelo, quale coadiutore dell'amministrazione giudiziaria per l'intera procedura per l'espletamento dell'attività di consulenza strategica e di analisi del circuito economico mafioso e dei comportamenti opportunistici e fiduciari degli agenti economici che operano nel mercato influenzato dalla misura di prevenzione; veniva nominato nella procedura c.d. “Ingrassia”, giusta istanza del 10 febbraio 2014 a firma di Santangelo, quale coadiutore dell'amministrazione giudiziaria per l'intera procedura per l'espletamento dell'attività di consulenza strategica e direzionale e di analisi della struttura, della performance, delle relazioni economiche intra-aziendali ed inter-aziendali dei settori delle imprese sottoposte ad amministrazione giudiziaria; veniva nominato nella procedura “Acanto”, giusta istanza del 20 maggio 2015 a firma di Santangelo, quale coadiutore dell'amministrazione giudiziaria per l'intera procedura. Nella procedura Raspanti, invece, Carmelo Provenzano non veniva nominato coadiutore giudiziario per l'intera procedura, ma coadiutore solo per la fase di immissione in possesso.

Deve rilevarsi come tutte queste istanze venivano puntualmente esitate nella medesima data di deposito - solo per la procedura Acanto il giorno successivo – da Silvana Saguto con laconici e formalmente privi di motivazione provvedimenti autorizzatori scritti a penna in calce all'istanza stessa di volta in volta in esame, provvedimenti con i quali il giudice sembra aderisse pedissequamente alle ragioni ivi spiegate in ordine alla necessità dell'amministratore giudiziario di avvalersi dell'ausilio di tale figura, meglio descritta nei termini di "coadiutore strategico e direzionale” e peraltro, a memoria di chi scrive, inaudita non solo nella stretta materia delle misure di prevenzione, ma sinanco nell'intero panorama degli ausiliari del giudice finora sperimentati in qualsiasi settore e materia.

Ritiene il Collegio che la nomina ad amministratore giudiziario di Santangelo da parte della Saguto nelle predette procedure di prevenzione costituisse un mero schermo, una attribuzione di facciata di funzioni che, invece, dovevano considerarsi, nella sostanza, condivise con il Provenzano, vero amministratore giudiziario in pectore.

In altri termini, l'immagine che, conformemente alla impostazione dellaccusa, la impegnativa e spesso mistificata (per le ragioni che appresso si spiegheranno) istruttoria dibattimentale ha restituito non è quella, pure adombrata in alcuni passaggi delle discussioni dei difensori, della figura di Roberto Nicola Santangelo che si esaurisce e riduce in un grigio prestanome al soldo di Carmelo Provenzano, che lo gratifica procurandogli i compensi legati alla nomina di amministratore giudiziario, purché egli risponda in modo fedele e pedissequo alle sue direttive e disposizioni.

Affermare tale assioma, ovvero sostenere che Santangelo era un mero prestanome, significherebbe non poter dare spiegazione a tutta una serie di elementi di emersi nel corso del processo incompatibili con l'attribuzione di un mero ruolo soltanto formale del Santangelo.

Si tratta, non ne dubita il Collegio, del primo snodo problematico afferente la disamina del reato di corruzione a partecipazione trilatera contestato a Silvana Saguto, Carmelo Provenzano e Roberto Nicola Santangelo

Connessa a tale questione è poi quella della ricerca della ragione per la quale, nel torno di tempo di neanche due anni, Silvana Saguto si risolva a nominare in maniera sistematica il Santangelo - per lei perfetto sconosciuto e con credenziali in nulla differenti da quelle di tanti altri professionisti che proprio in quel tempo pure anelavano una nomina come quelle in disamina - quale amministratore giudiziario in procedure di prevenzione che, secondo la valutazione offerta dagli stessi imputati, erano caratterizzate da tale complessità di gestione da richiedere la nomina e l'intervento, sin dalle prime fasi dell'immissione in possesso, di una pletora di ausiliari e nuovi dipendenti e addirittura la costituzione di […] di una struttura di supporto all'operato dell'amministratore giudiziario, dedicata alla risoluzione delle immani problematiche che la gestione delle aziende in sequestro presentava quotidie.

Non può, poi, dubitarsi del fatto che, in via generale e secondo la disciplina normativa dedicata, la nomina dell’amministratore giudiziario contenuta nel decreto di sottoposizione alla misura di prevenzione è sicuramente un atto del Tribunale Sezione Misure Prevenzione in composizione collegiale, e non solo del Presidente del Collegio.

Tuttavia, con riferimento al caso di specie, il rispetto di tale regola è avvenuto solo da un punto di vista formale.

E' infatti dato acquisito all'istruttoria dibattimentale quello secondo il quale, in concreto, la proposta della persona che avrebbe dovuto essere nominata amministratore giudiziario nelle singole procedure di prevenzione trattate dal Tribunale presieduto dall'imputata Silvana Saguto era rimessa, salvo gravi motivi ostativi, al giudice delegato e che in tale scelta il presidente Saguto aveva sistematicamente l'ultima parola.

IL PRESTANOME DEL PROFESSORE

[...] Non può dubitarsi, pertanto, del fatto che la nomina di Santangelo e l'attribuzione di poteri gestori a Provenzano nelle medesime procedure nelle quali il primo ricopriva le funzioni di amministratore giudiziario fosse un atto riconducibile a Silvana Saguto nell'esercizio di quel potere di scelta che la stessa si attribuiva in modo autoreferenziale e indiscusso, in quanto presidente della sezione e dei collegi, e che, peraltro, esercitava - come meglio si dirà in seguito - per ragioni sicuramente estranee alla funzione giurisdizionale e piuttosto riconducibili al soddisfacimento di interessi personali e familiari da parte del Provenzano.

Non può infatti revocarsi in dubbio - come si è già detto in precedenza - che, nel preciso momento in cui Silvana Saguto approfondisce la conoscenza con Carmelo Provenzano, visto come "volano" alla carriera universitaria del figlio, ormai da troppo tempo in stallo presso l'università G. Marconi di Roma, per il Tribunale di Palermo Sezione Misure di Prevenzione, l'amministratore giudiziario Roberto Nicola Santangelo era un illustre sconosciuto, nel senso che era liii soggetto con un'esperienza ancora limitata nel settore delle misure di prevenzione.

[…] È dunque evidente come il rapporto asseritamente fiduciario tra Silvana Saguto e Roberto Nicola. Santangelo non nasce in maniera autonoma e spontanea – come dovrebbe essere secondo tutte le norme che presiedono alla scelta tipicamente discrezionale dell'amministratore giudiziario da parte del Tribunale - ma è sin dall'inizio, nel suo snodo e fino alla cessazione, veicolato e connotato dalla costante presenza e intermediazione, ora esternata e resa pubblica attraverso l'attribuzione di incarichi di coadiuzione, ora non esternata formalmente, ma comunque tangibile, del professore Carmelo Provenzano.

Lo si desume dall'attribuzione e nomina di Carmelo Provenzano nelle procedure Vetrano, Dolce ed lngrassia […].

Invero, già le formule utilizzate per descrivere le competenze che individuano il ruolo di Carmelo Provenzano suscitano più di un dubbio sulla reale consistenza degli incarichi di coadiuzione, formule che appaiono piuttosto evocative di una figura di alter ego dell'amministratore giudiziario, ovvero proprio colui che, come qualsiasi altro amministratore di azienda, deve elaborare le strategia per la tenuta sul mercato dell'azienda amministrata, per il suo incremento, e per la tutela da infiltrazioni mafiose.

[...] L'assunto portato dal capo di imputazione e ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio da questo Tribunale a seguito della espletata istruttoria dibattimentale è quello di una condivisione dei poteri gestori da parte dell'asse "Provenzano - Santangelo", dove non a caso il nome di Provenzano è posto per primo, quasi a sottolineare la non neutrale circostanza secondo la quale è proprio questi ad influire sulle decisioni della Saguto e ad orientarne le determinazioni, offrendo al magistrato le utilità privatistiche descritte nel capo di imputazione in disamina e di cui si tratterà a breve.

E nel pensiero della Saguto, anche quando parla con terzi, è comunque Provenzano il suo referente nell'amministrazione delle procedure di prevenzione, quasi come se Santangelo non esistesse e potesse pure essere confinato nell'oblio, salvo poi rammentare che comunque questi, per i terzi, riveste una carica formale nelle amministrazioni giudiziarie.

[…] Ed ancora, non deve sottacersi come lo "schermo" di Santangelo ha consentito a Carmelo Provenzano anche una ulteriore utilità di cui non avrebbe goduto se fosse stato nominato direttamente amministratore giudiziario: ovvero quella di favorire la nomina dei familiari e amici del Provenzano attribuendo loro incarichi nelle amministrazioni giudiziarie che altrimenti sarebbe stata una condotta vietata dall'art. 35 dell'allora vigente codice antimafia.

Peraltro, non corrisponde al vero l'assunto, più volte propugnato dal Provenzano, secondo il quale lo stesso, ritenendosi maggiormente portato per lo studio e l'insegnamento, disdegnasse di ricoprire incarichi all'interno delle amministrazioni giudiziari, e lo facesse, attesa la sua insostituibile professionalità, solo per spirito di sacrificio e senso di abnegazione nella lotta alla criminalità organizzata. […].

IL PATTO CORRUTTIVO

E' dunque innegabile che il Provenzano, sulla scia dell'operato del precedente biennio, intendesse continuare ad operare nel mondo della misure di prevenzione, in cui aveva già avuto un ruolo di primissimo rilievo grazie al rapporto corruttivo che lo legava a Silvana Saguto e che sembra riduttivo, a parere di questo Collegio, ricondurre sotto la nominalistica egida della figura di coadiutore, fosse anche valorizzato dal! 'appellativo "strategico- direzionale".

E' evidente, in conclusione, come la accertata e comprovata - per tutte le ragioni anzidette – consapevole nomina da parte di Silvana Saguto ad amministratore giudiziario del Santungelo solo in funzione dei rapporti che questi aveva con Provenzano ed al quale vengono comunque attribuite funzioni di "consulenza strategica e direzionale", rappresenta un atto contrario ai doveri di ufficio atto ad integrare, [...], il reato di corruzione propria contestato.

E' indubbio, intatti, che lo stratagemma utilizzato dalla Saguto su richiesta di Provenzano e di Santangelo costituisce un esercizio del suo potere di Presidente della sezione misure di prevenzione e di magistrato condizionato dalla presa in carico dell'interesse dei due privati corruttori.

Nessuna ragione, infatti, avrebbe di certo avuto la Saguto per nominare Santangelo in condivisione di poteri con Provenzano attraverso il duplice schema amministratore giudiziario/coadiutore strategico direzionale, se non per soddisfare una esigenza del tutto estranea a quella preposta dalla legge alla nomina dell'amministratore giudiziario, giungendo sinanco, proprio al fine di soddisfare l'esigenza personale dei corruttori, ad avallare la creazione della innovativa, atipica e sostanzialmente inutile, figura del coadiutore strategico e direzionale, considerato pure che l'esigenza di attribuire i poteri propri dell'amministratore giudiziario, anziché ad una sola persona, ad una pluralità di persone, al fine di dotare l'organo gestorio del crisma della collegialità, è eventualità percorribile nelle misure di prevenzione ed anzi dovuta, ove tale scelta sia giustificata e richiesta dalla complessità di gestione dei beni in sequestro.

Ne consegue che, attraverso la descritta condotta, Silvana Saguto, non solo ha negletto e mortificato gli interessi pubblici che presiedono alla scelta della figura dell'amministratore giudiziario, ma con questa sostanziale duplicazione di funzioni ha altresì violato la normativa dettata in materia di scelta e nomina dell'amministratore giudiziario codificata nella legislazione antimafia, peraltro generando una duplicazione di compensi inutile ed ingiustificata.

A tal proposito, non è privo di rilievo evidenziare sin da adesso che, dal mese di agosto 2013 al mese di agosto 20 I 5, Roberto Nicola Santangelo e la moglie Angela Nastasi avevano ricevuto compensi lordi per 696.000,64 euro; mentre Carmelo Provenzano, la moglie Maria lngrao e la cognata Calogera Manta avevano ricevuto compensi lordi per 671,465.44 euro, in forza di decreti di liquidazione del Tribunale di Palermo, sottoscritti dalla Presidente Saguto.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Così il professor Provenzano ha sistemato moglie, nipoti cugini e cognati. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 13 dicembre 2021.

Approfittando dell’amicizia con la giudice Silvana Saguto, il professore Carmelo Provenzano ha potuto trovare lavoro – nell’amministrazione giudiziaria per la gfestione dei beni confiscati – a molti parenti. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

La moglie di Carmelo Provenzano, Maria lngrao, è dottore in psicologia con qualifica di psicoterapeuta della famiglia di indirizzo sistemico-relazionale e qualifica di esperta in marketing strategico in telecomunicazioni e Informatica.

La stessa, in un arco temporale ricompreso tra il 14 giugno 2013 ed il 21 maggio 2015, ha ricevuto ben cinque incarichi di coadiutore giudiziario in amministrazioni giudiziarie in cui Roberto Nicola Santangelo ha rivestito la qualifica di amministratore giudiziario.

La Ingrao nella procedura VETRANO è stata nominata come coadiutrice per l'intera procedura con compiti di rappresentare l'amministratore in caso di assenza e impossibilità a svolgere le normali attività di amministratore, con particolare riferimento ai rapporti bancari in essere di tutte le società e della ditta individuale in sequestro, a seguito dell'istanza del!' amministratore giudiziario Santangelo del 10 giugno 2013 e conseguente provvedimento di autorizzazione di Silvana Saguto del 14 giugno 2013 apposto a penna nella medesima istanza depositata.

È stata nominata nella procedura DOLCE come coadiutrice per l'immissione in possesso, a seguito dell'istanza proposta dall'amministratore giudiziario Santangelo il 22 gennaio 2014 e conseguente provvedimento di autorizzazione di Silvana Saguto reso nella stessa data ed apposto a penna nella medesima istanza depositata.

È stata nominata nella procedura INGRASSIA come coadiutrice per l'intera procedura per rappresentare l'amministratore nei casi di assenza e impossibilità a svolgere normali attività di amministratore con particolare riferimento ai rapporti con il personale aziendale e l'intera organizzazione aziendale ai rapporti bancari in essere di tutte le società e ditta individuale in sequestro, a seguito dell'istanza proposta dall'amministratore giudiziario Santangelo il 10 febbraio 2014 e conseguente provvedimento di autorizzazione di Silvana Saguto reso nella stessa data ed apposto a penna nella medesima istanza depositata.

È stata nominata nella procedura RASPANTI come coadiutrice per l'intera procedura a seguito dell'istanza proposta dall'amministratore giudiziario Santangelo il 16 gennaio 2015 e conseguente provvedimento di autorizzazione di Silvana Saguto reso il successivo 19 gennaio cd apposto a penna nella medesima istanza depositata.

È stata inoltre nominata nella procedura ACANTO come coadiutrice per l'intera procedura a seguito dell'istanza proposta dall'amministratore giudiziario Santangelo il 20 maggio 2015 e conseguente provvedimento di autorizzazione di Silvana Saguto reso il successivo 21 maggio 2015 ed apposto a penna nella medesima istanza depositata .

Ritiene il Collegio che la nomina di Maria lngrao nelle suddette procedure rispondesse solo ed esclusivamente alla volontà e determinazione degli imputati tutti - di Roberto Nicola Santangelo che da a1uministratore giudiziario si prestava a richiederne l'autorizzazione alla nomina al giudice delegato quale proprio ausiliario, di Silvana Saguto quale giudice delegato che autorizzava la detta nomina da parte dell'amministratore giudiziario, nonché principalmente di Carmelo Provenzano

quale promotore della nomina e al contempo anche beneficiario dei proventi ad essa conseguenti - di procurare un profitto alla stessa, in quanto coniuge di Carmelo Provenzano, profitto consistente nelle somme di denaro accreditate sul conto corrente acceso presso UniCredit e cointestato ad entrambi i coniugi Provenzano. Che la Ingrao sia stata nominata da parte dell'imputata Silvana Saguto solo ed esclusivamente in ragione del fatto di essere il coniuge di Carmelo Provenzano è circostanza di cui non si può dubitare alla luce di una serie di elementi fattuali, la cui congiunta valutazione non può che condurre a siffatta conclusione, non potendosi dare a tale nomina una spiegazione alternativa rispetto a quella prospettata dall'accusa ed a cui ha aderito il Tribunale.

In primo luogo, deve rilevarsi che, nei confronti dell'amministrazione a partecipazione dualistica Provenzano/Santangelo, il Presidente della Sezione Misure Prevenzione di Palermo dimostrava un'assoluta adesione fideistica ad ogni scelta tesa all'inserimento di parenti ed amici all'interno dell'organigramma delle aziende sottoposte a misura di prevenzione.

Si tratta di una circostanza di carattere generale che, sebbene non inerisca direttamente alla nomina di Maria lngrao quale coadiutore giudiziario, tuttavia dà contezza e ragione di quale fosse il modulo di gestione dell'amministrazione giudiziaria nelle procedure interessate: un modulo che correttamente il pubblico ministero nel corso della sua requisitoria ha definito "la gestione famlistica",

Tale espressione rende, in effetti, l'idea di come l'inserimento lavorativo di persone a sé gradite fosse per Carmelo Provenzano e Roberto Nicola Santangdo il fine ultimo dell'incarico, il vero punto di forza nella creazione di un proprio centro di potere che dispensava nomine e posti di lavoro nelle aziende poste sotto sequestro, ricevendone, di contro, indirettamente, da un lato, lauti guadagni (si pensi al collocamento diretto della Ingrao e della Nastasi, quest'ultima coniuge di Santangelo), dall'altro, la soddisfazione di interessi occupazionali di prossimi congiunti e dall'altro ancora - dato ancor più preoccupante - riconoscenza e fidelizzazione di terzi, che in alcuni casi sono rimasti si imperiture da spingerli sinanco al mendacio ove escussi come testi nel presente processo (v. in particolare la deposizione del teste Bonanno, amico dei coniugi Provenzano, che lavorava a Milano e che è riuscito grazie agli incarichi ricevuti a ricongiungersi con la famiglia rimasta a Palermo [...].

TUTTI I PARENTI SISTEMATI

È fatto provato dalla documentazione acquisita al fascicolo del dibattimento su richiesta del pubblico ministero - oltre, peraltro, ad essere fatto non contestato - che:

- Angela Nastasi, moglie dell'imputato Santangelo è stata nominata coadiutore per l'intera procedura nell'amministrazione giudiziaria Vetrano, su istanza di Santangelo depositata da Carmelo Provenzano in data 8 maggio_ 2013, autorizzata da Silvana Saguto 1'8 maggio 2013; è stata nominata collaboratore per un giorno nell'amministrazione giudiziaria Acanto, su istanza di Santangelo del 20 maggio 2015, ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015;

- Carmelo Canalella, nipote di Carmelo Provenzano, è stato nominato nella misura Vetrano, come coadiutore per l'intera procedura su istanza di Santangelo, depositata da Carmelo Provenzano in data 8 maggio 2013, autorizzata da Silvana Saguto 1'8 maggio 2013; come coadiutore per l'intera procedura con compiti di segreteria con istanza depositata da Santangelo il 31 maggio 2013, autorizzata da Silvana Saguto il 3 giugno 2013; nella misura Dolce, come coadiutore per un mese su istanza di Santangelo del 22 gennaio 2014, autorizzuta da Silvana Saguto nella stessa data; nella misura Ingrassia, come coadiutore per l'intera procedura "per espletamento di attività di segreteria e disbrigo pratiche dell'AG", su istanza di Santangelo del 10 febbraio 2014, autorizzata da Silvana Saguto nella stessa data; come collaboratore su istanza di Santangelo del 30 settembre 2014, ratificata nella stessa data da Silvana Saguto; nella misura Raspanti, come coadiutore giudiziario per la procedura, su istanza di Santangelo del 16 gennaio 2015, ratificata da Silvana Saguto il 19 gennaio 2015; nella misura Acanto, come coadiutore per l'intera procedura su istanza di Santangelo del 20 maggio 20 I 5, ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015;

- Antonio Canalella, nipote di Carmelo Provenzano è stato assunto nella procedura Vetrano quale "conduttore di carrelli elevatori semoventi" nella Veli srl, su istanza di Santangelo del 29 maggio 2013, autorizzata da Silvana Saguto il 3 giugno 2014; è stato nominato collaboratore per singolo incarico su istanza di Santangelo del 30 settembre 2014, ratificata nella stessa data; è stato nominato nella procedura Acanto come collaboratore per una settimana, su istanza di Santangelo del 20 maggio 2015, ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015;

- Giovanni Canalella, cognato di Carmelo Provenzano è stato assunto presso la Veli srl, parte del compendio in sequestro Vetrano, su istanza di Santangelo del 10 giugno 2013, autorizzata da Silvana Saguto il 14 giugno 2013; è stato assunto a tempo indeterminato come addetto ai lavori di manovalanza, presso la Veli srl, su istanza di Santangelo del 28 giugno 2013, autorizzata da Silvana Saguto il 28 giugno 2013; è stato nominato per singolo incarico nella procedura Raspanti, su istanza di Santangclo del 16 gennaio 2015, ratificata da Silvana Saguto del 19 gennaio 2015; è stato nominato come collaboratore per una settimana nella procedura Acanto, su istanza di Santangelo del 20 maggio 2015, ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015;

- Giuseppe Ingrao, cugino della moglie di Carmelo Provenzano, nella procedura Vetrano, è stato assunto a tempo indeterminato come cassiere nella Veli srl, su istanza di Santangelo del 31 maggio 2013, autorizzata da Silvana Saguto il 3 giugno 2013; è stati nominato coadiutore giudiziario per l'intera procedura su istanza di Santangelo del 5 settembre 2014, autorizzata da Silvana Saguto l'l l settembre 2014 ; è stato nominato collaboratore per singolo incarico su istanza di Santangelo del 30 settembre 2014, ratificata da Silvana Saguto nella stessa data; è stato nominato per singolo incarico nella procedura lngrassia, su istanza di Santangelo del 30 settembre 2014, ratificata da Silvana Saguto nella stessa data ; è stato nominato per singolo incarico nella procedura Raspanti, su istanza di Santangelo del 16 gennaio 2015 (ratificata da Silvana Saguto il 19 gennaio 2015); è stato nominato come coadiutore per tre mesi nella procedura Acanto, su istanza di Santangelo del 20 maggio 2015, con provvedimento di ratifica di Silvana Saguto del 21 maggio 2015;

- Maria Lia Mantione, moglie di Giuseppe lngrao, cognata di Provenzano è stata nominata nella procedura Acanto come collaboratore per tre mesi, su istanza di Santangelo del 20 maggio 2015, ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015;

- Giuseppe Mattina, cugino di Carmelo Provenzano è stato nominato collaboratore per tre mesi nella procedura Acanto su istanza di Santangelo del 20 maggio 2015, ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015; è stato assunto, con uno stipendio mensile di 1.400 euro, presso la SV srl, parte del compendio in sequestro Vetrano.

Non può inoltre sottacersi come la moglie del fratello di Carmelo Provenzano, Calogera Manta è stata anch'ella nominata: nella misura Vetrario, come coadiutrice della procedura con compiti di "redazione relazioni dell'amministrazione giudiziaria, cura dei rapporti con l'esterno e con i media, attività di segreteria e controllo corrispondenza" con istanza-di Santangelo del 9 agosto 2013 autorizzata da Silvana Saguto il 12 agosto 2013; nella misura Dolce, come coadiutrice per l'immissione in possesso con istanza di Santangelo del 22 gennaio 2014, autorizzata da Silvana Saguto nella stessa data; nella misura lngrassia, come coadiutrice per l'intera procedura "per l'espletamento di attività di redazione relazioni dell'amministratore giudiziario, cura dei rapporti con l'esterno e con i media da parte dell'amministratore giudiziario, nonché ogni altra attività di segreteria e controllo corrispondenza" con istanza di Santangelo del 10 febbraio 2014, autorizzata da Silvana Saguto nella stessa data; nella misura Raspanti, come coadiutrice per la procedura su istanza di Santangeio del 16 gennaio 2015 ratificata da Silvana Saguto il 16 gennaio 2015; nella misura Acanto, come coadiutrice per l'intera procedura, con istanza di Santangelo del 20 maggio 2015 ratificata da Silvana Saguto il 21 maggio 2015.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Nomine di comodo per una “gestione familistica” dei beni tolti alla mafia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 14 dicembre 2021.

Silvana Saguto era ben consapevole di come la nomina della moglie di Provenzano, Maria Ingrao, fosse solo uno strumento per consentire ai coniugi di lucrare a titolo personale sui compendi patrimoniali in sequestro.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Orbene, alla luce di tali dati, è evidente che la nomina di Maria lngrao, al di là delle sue specifiche competenze e abilità a ricoprire gli incarichi di cui è stata beneficiata, non costituisce assolutamente un fatto isolato, ma è evidentemente un segmento di un più ampio disegno volto ad attribuire utilità agli imputati: sarebbe illogico, infatti, sostenere che la collaudata prassi -dimostrata dalla lunga serie di nomine in tale senso di cui si e detto - volta all'inserimento di persone gradite all'interno delle amministrazioni giudiziarie si arrestasse e cedesse il passo al perseguimento del mero interesse aziendale proprio allorquando a venire nominata coadiutrice è la moglie di Carmelo Provenzano.

Si è già detto, inoltre, e qui si ripete a sostegno della bontà della tesi propugnata dal pubblico ministero, di come la nomina di Santangelo ad amministratore giudiziario rispondesse anche ad un'ulteriore esigenza del Provenzano, ovvero quella di inserire la moglie come coadiutrice nelle procedure di prevenzione, risultato che non si sarebbe potuto conseguire se invece fosse stato Provenzano ad essere nominato direttamente amministratore giudiziario, atteso l'espresso divieto di legge presente nel codice antimafia.

Il che ben fa comprendere come proprio l'individuazione della persona di Maria lngrao quale ausiliario dell'amministratore giudiziario si connoti per una valenza utilitaristica di pertinenza della famiglia Provenzano al di fuori di ogni logica di perseguimento dell'interesse teso ad una corretta gestione dei beni in sequestro, che, invece, dovrebbe presiedere alla funzione di scelta degli ausiliari

dell'amministratore giudiziario e di controllo di tale scelta da parte del giudice delegato.

In altri termini, sebbene la scelta del coadiutore lngrao resti atto formalmente riferibile all'amministratore giudiziario Santangelo, essa promanava certamente - sotto un profilo sostanziale - da Provenzano, che con Santangelo condivideva i poteri gestori dei compendi in sequestro.

Ne consegue - proprio perché tale valutazione è confortata dallo stesso modus operandi e dalla prassi invalsa nella gestione ed amministrazione dei compendi in sequestro da parte di Provenzano e Santangelo - che l'inserimento della propria moglie da parte del Provenzano, con la ratifica di Santangelo e l'autorizzazione all'uopo concessa senza ulteriore scrutinio e controllo da parte della Saguto, lungi dall'essere un riconoscimento della professionalità della lngrao e della necessità di acquisire quella stessa professionalità nell'organigramma dell'amministrazione giudiziaria ai fini del suo buon andamento, costituisse piuttosto un modo di compiacere e ricompensare Cannelo Pwvenz,ano per le utilità che lo stesso procurava alla Presidente della Sezione Misure di Prevenzione di Palermo e delle quali si tratterà di qui a breve.

E rappresentava, anche, dal punto di vista dell'imputato Santangelo, un tributo da parte di quest'ultimo a colui - Carmelo Provenzano - che era il vero artefice delle proprie nomine ad amministratore giudiziario e che, con la Saguto, si preoccupava di intessere e intrattenere i rapporti, secondo un meccanismo di scambio e di ripartizione di utilità tipico di tutti gli schemi corruttivi che vedono la compartecipazione di più corruttori.

Né si può dubitare del fatto che Silvana Saguto fosse ben consapevole di come la nomina della moglie di Provenzano fosse solo uno strumento per consentire ai coniugi di lucrare a titolo personale sui compendi patrimoniali in sequestro,[...].

Già la mera conoscenza, al momento della prima nomina, della decantata qualifica di dottore in psicologia con qualifica di psicoterapeuta della famiglia di indirizzo sistemico-relazionale e della qualifica di esperta in marketing strategico in telecomunicazioni e informatica (riferite alla Ingrao dal proponente amministratore giudiziario Santangelo nella prima istanza di nomina come coadiutore giudiziario della stessa nella procedura Vetrano di cui al doc. n. 8 della produzione del pubblico ministero depositata in cancelleria il 20 dicembre 2019) avrebbe dovuto indurre Silvana Saguto, giudice esperto e navigato in materia di sequestri di aziende e di misure di prevenzione, ad un approfondimento, in concreto, del contributo che la Ingrao avrebbe potuto offrire per il buon andamento dell'amministrazione giudiziaria.

Né, tantomeno, l'intento programmatico, contenuto nella medesima istanza, di assegnare alla Ingrao "compiti di rappresentare l'amministratore in caso di assenza e impossibilità a svolgere le normali attività di amministratore, con particolare riferimento ai rapporti bancari in essere di tutte le società e della ditta individua/e in sequestro" può ritenersi indicazione esaustiva a soddisfare quel dovere di approfondimento e controllo dell'attività dell'amministratore giudiziario, propriamente devoluto all'autorità giudiziaria.

IL COMPORTAMENTO DELLA SAGUTO

[…] Ed allora, se quella della lngrao non fosse stata una nomina di comodo, avallata e autorizzata dalla Saguto in favore della moglie del munifico sostenitore della carriera universitaria del figlio, quest'ultima istanza, volta ad estendere ad altri soggetti l'operatività bancaria, avrebbe dovuto indurre l'allora Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo già nel luglio del 2013 o ad un ripensamento in ordine all'autorizzazione concessa pochi mesi prima in favore della lngrao oppure ad un diniego alla concessione dell'autorizzazione all'uso bancario da parte di cosi tante persone.

In ogni caso, avrebbe dovuto indurre Silvana Saguto a meglio valutare le richieste di autorizzazione alla nomina di Maria Ingrao come coadiutrice, che si sono succedute da patte di Santangelo fino ancora al 2015.

E' evidente, invece, come nessun tipo di controllo sulla nomina a coadiutore di Maria Ingrao del 14 giugno 2013, né tampoco su quelle che sono succedute, è stato volutamente esercitato da Silvana Saguto.

Né, d'altronde, considerato il coacervo di rapporti che si erano già intessuti sin dalla primavera del 2013 tra Silvana Saguto e Carmelo Provenzano, soprattutto con riferimento al percorso universitario del figlio Emanuele, può comunque ritenersi che tali nomine siano state il frutto di una scelta condotta nel mero interesse delle amministrazioni giudiziarie.

E' piuttosto vero che la Saguto, sapendo che Provenzano era amministratore giudiziario di fatto e che gestiva le procedure insieme a Santangelo, al fine di far lucrare maggiori compensi ai coniugi Provenzano/lngrao, autorizzava o ratificava le nomme della Ingrao a coadiutore nelle procedure Vetrano, lngrassia, Raspanti, Acanto, nei termini descritti nel capo di imputazione.

Ed è anche vero che nella mancanza di scrutinio da parte della Saguto (che troppo spesso si traduce in laconici provvedimenti di mera autorizzazione, scritti a penna) sulle scelte adottate, in una ottica familistica, da parte del binomio Provenzano Santangelo deve leggersi un volontario snaturamento della funzione giudiziaria, una abdicazione ai propri doveri di controllo delle scelte dell'amministrazione giudiziario, poteri che - è bene ricordarlo - sono posti a tutela della legalità

dell'azione amministrativa dei compendi in giudiziale sequestro, al solo deliberato fine di compiacere il Profossore Provenzano di riflesso, ma con diretta incidenza nel di lui reddito familiare.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. L’azienda è sotto sequestro e tutti i dipendenti vengono licenziati. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 15 dicembre 2021.

Il giorno in cui i dipendenti della Elgas sono stati licenziati si erano recati nello studio dell’amministratore giudiziario Roberto Nicola Santangelo. Lì avevano parlato prima con Santangelo, poi era intervenuto Carmelo Provenzano che, non gradendo la rimostranze dei lavoratori di rivolgersi all'emittente televisiva Telejato, con fare arrogante e atteggiamento di chi realmente comandava, aveva intimato loro di stare zitti

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Il 17 luglio 2015, in violazione dell'art. 2484 cc che indica i presupposti per la messa in liquidazione delle società, emetteva in calce all'istanza depositata il 15 luglio 2015, il provvedi memo autorizzativo in relazione alla messa in liquidazione della Elgas srl, società parte del compendio in sequestro nel proc. 104/2015 Acanto, e al licenziamento di tutti i dipendenti.

É stato provato, attraverso la documentazione acquisita al fascicolo del dibattimento, che nell'istanza depositata il 15 luglio 2015 presso la Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Roberto Nicola Santangelo rappresentava al Giudice delegato la sussistenza di “prassi illegali” e di “plurime e diffuse criticità” in ordine al rispetto della sicurezza sui luoghi di lavoro presso la società in sequestro Elgas s.r.l. e la circostanza che “il puntuale rispetto della disciplina legislativa” a seguito dell'immissione in possesso dell'amministrazione giudiziaria aveva condotto ad una diminuzione dei ricavi della Elgas srl e chiedeva la liquidazione della società 617 “per insussistenza di concrete possibilità di prosecuzione dell'attività aziendale, tenuto conto della natura dell'attività esercitata, dell’ambiente in cui essa viene svolta, della capacità produttiva e del mercato di riferimento”, oltre alla sua nomina quale liquidatore della società ed il licenziamento di tutti i dipendenti come conseguenza della liquidazione.

Silvana Saguto, giudice delegato della procedura, il 17 luglio 2015, emetteva il provvedimento autorizzativo della messa in liquidazione della società e del licenziamento di tutti i dipendenti. Con lettera del 6 agosto 2015 Santangelo nella qualità di amministratore giudiziario della Elgas s.r.l. disponeva il licenziamento dei dipendenti della predetta società per giustificato motivo oggettivo.

Il teste Arduino Gioacchino, escusso all'udienza dibattimentale del 23 maggio 2018, ha riferito di aver lavorato per la società Elgas come imbottigliatore di bombole e che il 5 maggio 2015 la società era stata posta sotto sequestro e si era insediato l'amministratore giudiziario; che da quel momento era stata abbandonata la vecchia prassi secondo la quale i clienti andavano allo stabilimento portando bombole vuote - appartenenti anche ad altre ditte - e ricevevano bombole riempite di gas di proprietà della Elgas; che le bombole di altre ditte venivano ritirate dalla Elgas, accantonate e poi scambiate vuote con gli altri operatori del mercato del gas del territorio; che l'abbandono di tale prassi diffusa tra gli operatori del settore da parte della Elgas aveva cagionato una perdita della clientela (da 35 bombole vendute al giorno a 4); che i provvedimenti assunti dall'amministrazione giudiziaria con i quali era stato disposto l'ingiustificato abbassamento del prezzo del gas e la riduzione dell'orario di apertura al pubblico avevano portato l'azienda al collasso; che il giorno in cui i dipendenti della Elgas erano stati licenziati si erano recati nello studio di Santangelo di via Don Orione, lì avevano parlato prima con Santangelo stesso che il teste vedeva per la prima volta in quell'occasione, poi era intervenuto Carmelo Provenzano che, non gradendo la rimostranze dei lavoratori di rivolgersi all’emittente televisiva Telejato, con fare arrogante e atteggiamento di chi realmente comandava, aveva intimato loro di stare zitti e aveva preannunciato che anche loro avrebbero iniziato una campagna mediatica.

LE FALSE DICHIARAZIONI DELL’AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO

Le dichiarazioni rese dal teste Arduino sono state confermate anche da un altro lavoratore della Elgas, D'Agostino Andrea, escusso quale teste alla medesima udienza del 23 maggio 2018.

Ciò posto, considerato che anche i testi Arduino e D'Agostino hanno dichiarato che le bombole di altre ditte non venivano riempite, ma solo stoccate vuote in magazzino e poi scambiate tra gli operatori del settore, deve ritenersi che, con l'istanza del 15 luglio 2015, l'amministratore giudiziario Santangelo abbia operato una rappresentazione non corrispondente alla verità e ciò al solo fine di vedersi autorizzato dal Giudice Delegato allo scioglimento e alla liquidazione della società e al licenziamento dei dipendenti.

Tale mistificazione della realtà dei fatti da parte dell'amministratore giudiziario è ravvisabile nella dichiarazione contenuta nel corpo dell'istanza del 15 luglio 20 I 5, secondo la quale «è diffusa è illegale la prassi che le bombole di GPL in genere vengono riempile e commercializzate da parte di altri stabilimenti non solo senza la preventiva autorizzazione al riempimento, ma anche senza il preventivo controllo della scadenza dei collaudi, abbattendo così i costi di manutenzione ordinaria, mettendo di fatto sul mercato prodotti altamente pericolosi a rischio esplosione degli impianti di imbottigliamento di gas».

È dunque evidente come, a fronte della accertata esistenza di una prassi dello scambio di vuoto contro pieno praticata dalla Elgas - e rispetto alla quale nessuna ragione di divieto è comunque contenuta nel testo del D.lgs 128/2006 [...], nell'istanza di autorizzazione alla messa in liquidazione oggetto dell'imputazione, invece, l'amministratore giudiziario Santangelo rappresentava al Giudice Delegato un abusivo riempimento di bombole per nulla comprovato, anzi smentito dalle risultanze della istruttoria dibattimentale.

Lo stesso Santangelo attestava pure la indimostrata circostanza secondo la quale i cosiddetti "vuoti" venivano recuperati in giro per la Sicilia da soggetti privi dei requisiti richiesti dalla normativa vigente in materia per il trasporto di tali materiali, peraltro senza regolare contratto di lavoro e riconsegnati alle varie aziende dietro il pagamento di un corrispettivo.

È dunque evidente come il Santangelo abbia rappresentato al Giudice delegato Silvana Saguto false ragioni inerenti un preteso ripristino dell'osservanza della normativa di settore a sostegno dello stato di decozione della Elgas, presupposto della richiesta di scioglimento della società stessa.

Ciò posto sotto il profilo della condotta posta in essere dal Santangelo, deve pure dirsi che, se da un lato è rimasto accertato che la conoscenza di una differente situazione rispetto a quella rappresentata nell'istanza fosse certamente di dominio dell'amministratore giudiziario, lo stesso però non può dirsi rispetto al Giudice delegato Saguto.

Invero, nessuna prova è stata acquisita dall'istruttoria dibattimentale che l'imputata sapesse che quella richiesta di liquidazione e di licenziamento di tutti i dipendenti della Elgas s.r.l. depositata in cancelleria affinché lei la autorizzasse, celasse, invece di uno stato di decozione per vicende dovute al doveroso rispetto delle norme vigenti in materia di riempimento e trasporto della bombole del gas, piuttosto l'assoluta incapacità gestoria dell'amministratore giudiziario e dei suoi coadiutori.

Ne consegue che non può dirsi che Silvana Saguto nell’emettere il provvedimento autorizzativo del 17 luglio 2015 abbia consapevolmente posto in essere un atto contrario ai doveri d'ufficio attraverso la violazione del disposto dell'Art. 2484 e.e., ovvero di quella norma che disciplina lo scioglimento della società e che individua tra le ipotesi ivi contemplate la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, che nel caso di specie era appunto la commercializzazione del gas nel rispetto della normativa di settore.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. I patti illegali, le “utilità” e le trattative all’ombra dell’antimafia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 16 dicembre 2021.

Nello schema corruttivo si innestano una serie di utilità che Silvana Saguto ritrae a titolo di controprestazione per l'esercizio distorto del proprio potere. I protagonisti di questa vicenda sono, oltre la Presidente del Tribunale delle Misure di Prevenzione, Carmelo Provenzano e Roberto Santangelo.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Nello schema corruttivo in contestazione si innestano una serie di utilità che Silvana Saguto ritrae a titolo di controprestazione per l'esercizio distorto del proprio potere nelle forme di manifestazione che si sono dinanzi esaminate. Deve, peraltro, premettersi come tra i vantaggi che il presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo riceve e che le vengono assicurati quale prezzo della corruzione ve ne sono alcuni che si caratterizzano per essere l'origine, la causa, il motivo dell'intessersi del rapporto corruttivo in disamina.

Si tratta segnatamente dell'utilità volta a soddisfare la spasmodica aspirazione della Saguto a che il figlio potesse portare a compimento il già intrapreso e fino a quel momento fallimentare percorso universitario e conseguisse l’agognata laurea. Ragionare in altri termini significherebbe, secondo quanto è emerso dalla istruttoria dibattimentale espletata, non riuscire a spiegare perché Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, stimata esperta della materia che quotidianamente trattava, già legata a doppio filo dal reato corruttivo di cui sì è trattato con Gaetano Cappellano Seminara, personaggio a sua volta unanimemente riconosciuto come il più capace, il più organizzato, il più efficiente degli 635 amministratori giudiziari di tutta la penisola, nel 2013 (e l’anno non è casuale) avesse la necessità ed il bisogno di rivolgere la propria attenzione a Carmelo Provenzano, fino a quel momento sconosciuto assistente di economia dell'Università Koré di Enna, consentendogli di diventare, nel torno di pochi anni, una figura cardine del mondo delle misure di prevenzione di Palermo.

OLTRE CAPPELLANO SEMINARA

Ed è bene rilevare come il rapporto corruttivo tra Silvana Saguto, Carmelo Provenzano e - a causa delle esigenze di quest'ultimo che si sono già spiegate - Roberto Nicola Santangelo sorge nel 2013, cioè in un periodo in cui il giudice non era attanagliato né da problemi economici - considerato che il suo elevatissimo tenore di vita era assicurato da quelle provvidenze economiche che a vario titolo Cappellano Seminara le garantiva e di cui si è detto nell'analisi del rapporto corruttivo con il medesimo - né da quell'annoso problema della tensione mediatica sulle nomine degli amministratori giudiziari nelle procedure di prevenzione di Palermo sollevata dall'emittente televisiva Telejato e da Pino Maniaci.

Ecco, dunque, che, se una ragione giustificativa all'origine della corruzione Saguto, Provenzano-Santangelo deve ricercarsi, non la si può rinvenire né nelle particolari abilità nell'amministrazione giudiziaria dei due gestori Provenzano e Santangelo, abilità che non si vogliono in questa sede sminuire né tampoco misconoscere, ma che comunque non sono minimamente paragonabili all'esperienza e all'organizzazione maturata nel settore da Gaetano Cappellano Seminara, né nell'astratta possibilità di ricavare incarichi e provvidenze legate alla gestione dei compendi in sequestro, vantaggio che un qualsiasi altro amministratore giudiziario disposto al compromesso avrebbe potuto assicurare a Silvana Saguto.

La ragione giustificativa della nascita del rapporto corruttivo in disamina deve piuttosto essere ricercata nel carattere di infungibilità della controprestazione all'attribuzione di incarichi che solo Carmelo Provenzano poteva assicurare a Silvana Saguto, una intangibilità legata proprio all'inserimento del professore di economia nel mondo accademico ennese e alla possibilità, ostentatamente offerta alla donna (per come in prosieguo si dirà), di "spianare" il percorso universitario del figlio Emanuele Caramma ed aiutarlo a raggiungere l'agognato traguardo della laurea.

Una riprova della correttezza di tale impostazione la si coglie nelle stesse parole "i figli sono la mia debolezza ... " pronunciate da Silvana Saguto e rivolte a Carmelo Provenzano, che il 17 luglio 2015 le rimproverava di aver consentito al giovane Emanuele di partire per Ustica a pochi giorni dalla laurea, quando avrebbe dovuto sostenere una prova orale di discussione della tesi davanti ad una commissione e ad un pubblico.

E non vi è chi non veda come questa frase, di per sé apparentemente neutra, quasi naturale esprimendo un sentimento comune alla maggior parte dei genitori, assuma un significato sicuramente diverso se indirizzata ad un "coadiutore strategico e direzionale" da lei nominato in vari compendi in sequestro, il quale si era tanto prodigato per far laureare il figlio del giudice.

E come si è visto e come si dirà, l’aspirazione della Saguto a garantire un elevato tenore di vita ai propri figli e a consentire loro il migliore cursus honorum fino all'inserimento nel mondo lavorativo non si risolve solo in una debolezza che si sostanzia nel proprio personale impegno e sacrificio, ma si connota per essere piuttosto una facilità al compromesso e all'accettazione di indebiti vantaggi a fronte dell'esercizio legittimo o meno dei propri poteri di giudice.

Ed ecco perché, nella trattazione delle utilità corrisposte alla Saguto dai corruttori bisogna principiare, per dare coerenza e logicità alla trattazione, proprio da quelle connesse al percorso universitario ed alla laurea di Emanuele Caramma, pur nella consapevolezza che queste non costituiscono l'unico beneficio ritratto dalla Saguto in questo illecito rapporto sinallagmatico e nella coeva consapevolezza che le altre utilità contestate - e così pure la dazione della somma di denaro di € 15.000,00 o la fornitura costante di beni di consumo - altro non sono che un quid pluris che serve solo ad ulteriormente connotare in termini di gravità la corruzione contestata, ma che non consentono comunque di spiegare la scelta di Provenzano e Santangelo operata per la instaurazione di un illecito rapporto.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Silvana Saguto, una mamma ansiosa di vedere il figlio laureato. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 17 dicembre 2021.

Quello della laurea del figlio rappresentava un problema per la Saguto, del quale lei stessa voleva liberarsi «perché doveva essere lei ad aiutarlo e cercava lei proprio qualcuno che aiutasse Emanuele a studiare».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

È emerso dalla documentazione acquisita al fascicolo del dibattimento che il figlio terzogenito di Silvana Saguto, Emanuele Caramma, si è immatricolato all’università Kore di Enna nell'anno accademico 2012-2013.

Precedentemente lo stesso era iscritto alla facoltà di giurisprudenza, corso di laurea magistrale in giurisprudenza, dell’università G. Marconi, un ateneo telematico con sede a Roma; presso tale ateneo aveva sostenuto con profitto, in un arco temporale compreso tra il 21 giugno 2006 ed il 26 novembre 2012, gli esami nelle seguenti materie: lingua inglese, istituzioni di diritto privato A, conoscenze informatiche, istituzioni di diritto privato 8, diritto costituzionale, filosofia del diritto, introduzione allo studio dell'ordinamento dei paesi arabi, storia del pensiero 638 giuridico, economia politica, istituzioni di diritto pubblico, diritto del lavoro, diritto commerciale, informatica giuridica.

Già dalla mera disamina del numero di esami sostenuti alla data del 26 novembre 2012 dal figlio dell'imputata Saguto è facile comprendere come lo stesso, fino a quel momento, non avesse di certo avuto un percorso universitario brillante e spedito e come l'esame di laurea fosse tutt’altro che prossimo.

Non può dunque revocarsi in dubbio [...] che la carriera universitaria del figlio fosse una preoccupazione sempre più pressante per Silvana Saguto già tra la fine del 2012 ed i primi mesi del 2013. Orbene, l’imputato Carmelo Provenzano rivestiva all'epoca dei fatti in contestazione la qualità di "Assistent Professor" presso l’Università degli Studi Kore di Enna, già a far data dal 27 maggio 2010. Come la necessità di Silvana Saguto di far laureare il figlio e l'opportunità rappresentata da Carmelo Provenzano per la stessa Saguto a tal fine (considerato, appunto, il ruolo che il Provenzano rivestiva all'interno dell'ateneo ennese, nonché lo svolgimento da parte dello stesso, in parallelo alla carriera universitaria, di un'attività privata di "tutoring, mentoring e coaching" - come dallo stesso definita in sede di dichiarazioni spontanee rese all'udienza del 10 aprile 2019) abbiano trovato il loro momento compositivo si coglie dalle dichiarazioni rese dal teste Achille De Martino all'udienza dibattimentale del 7 marzo 2018.

Achille De Martino, come già detto, era all’epoca dei fatti in contestazione preposto al dispositivo di protezione di Silvana Saguto e, proprio perché ciò è connaturato alla funzione che svolge, seguiva l'imputata praticamente ovunque, luoghi pubblici e privati, fin sull'uscio di casa dove cessava l'esigenza di tutela della stessa.

Ha dichiarato il De Martino che un giorno Silvana Saguto gli aveva riferito che il figlio Emanuele aveva trovato un bravo professore che lo avrebbe fatto studiare; in effetti, sempre secondo le dichiarazioni del teste, qualche tempo prima che il figlio della Saguto facesse il cambio di Università (che, è bene ribadire, è fatto avvenuto alla precisa data del 24 maggio 2013) e quindi senza dubbio nella primavera del 2013, ella si era recata nell'abitazione di Carmelo Provenzano, sita a largo Villaura a Palermo, per parlare del percorso universitario del figlio e della possibilità di cambiare la sede dell'università dalla Marconi di Roma alla Kore di Enna, dove la stessa sapeva che il Provenzano insegnava. Ha precisato il De Martino che era stata la stessa Saguto a riferirgli tali dettagli prima dell'incontro a Largo Villaura.

È evidente che, già al momento del primo incontro tra la Saguto e Provenzano a largo Villaura, la prima era a conoscenza del molo rivestito dal secondo all'interno dell’università ennese quale professore, e ciò consegue alle dichiarazioni del teste De Martino che ha asserito di averlo appreso dalla Saguto stessa prima ancora dell’incontro.

De Martino in proposito ha infatti dichiarato “il motivo di questa visita, da quello che disse la dottoressa era perché finalmente avevamo trovato una persona che faceva studiare Emanuele […] probabilmente gli faccio cambiare pure facoltà e lo mando ad Enna, che c'è l’università dove insegna questo professore Provenzano, così Emanuele finalmente si prende la laurea”.

FATTI

La “zarina” di Palermo e il grande affare dei beni confiscati alle mafie. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 17 dicembre 2021. 

Non può misconoscersi, pertanto, come proprio nella stessa ideazione della Saguto, manifestata al De Martino già prima dell'incontro con Provenzano a largo Villaura, la laurea del figlio non dipendeva solo ed esclusivamente dalle capacità spese da questi nello studio delle materie universitarie, anche eventualmente con l’ausilio delle lezioni private impartite dal Provenzano presso la abitazione studio di quest'ultimo, ma anche dalla spinta propulsiva che avrebbe avuto il percorso universitario dopo il trasferimento presso l’ateneo ennese, dove il Provenzano svolgeva la sua attività di professore a contratto, Deve precisarsi, all'uopo, che il Provenzano - come emerge dalla documentazione testè richiamata - era Assistant Professor nel settore scientifico di economia applicata dell’università di Enna, mentre Emanuele Caramma si era iscritto al corso di laurea in giurisprudenza: la circostanza del diverso settore scientifico di riferimento, purtuttavia, non ha impedito al primo - come a breve si dirà - di incidere favorevolmente sul percorso universitario del secondo.

Ha spiegato il De Martino che quello della laurea del figlio rappresentava un problema per la Saguto, del quale la stessa voleva “liberarsi” “perché doveva essere lei ad aiutarlo e cercava lei proprio qualcuno che aiutasse Emanuele a studiare”.

Ha narrato il De Martino che quel giorno a Largo Villaura lui era rimasto nella stanza dove vi erano alcuni ragazzi che studiavano, mentre Silvana Saguto era entrata nello studio del Provenzano; il teste ha specificato che a quell'incontro aveva partecipato anche Roberto Nicola Santangelo, persona che dopo qualche tempo il De Martino aveva rivisto presso la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e, un’altra persona della quale, però, non ha saputo indicare il nome, mentre Emanuele Caramma entrava ed usciva dallo studio del Provenzano perché in quell'occasione si trovava li anche per studiare. [...] Un giorno, sempre secondo la narrazione del teste De Martino, dopo qualche mese dall'incontro di Largo Villaura, aveva accompagnato Silvana Saguto ed il figlio Emanuele Caramma presso la sede dell'università Kore di Enna dove, una volta giunti, erano stati accolti da Carmelo Provenzano e da un'altra professoressa, di cui non ha saputo ricordare il nome, ed erano andati dal "Rettore"; avevano visitato l'università, le aule multimediali, poi il gruppo si era recato a pranzare presso il bar all'interno dell'università stessa, dopodiché avevano fatto ritorno a Palermo.

È emerso dalla istruttoria dibattimentale espletata che in realtà quel giorno l'incontro ebbe luogo non con il rettore dell'università, ma con il preside della facoltà di giurisprudenza: si tratta di un errore del dichiarante che tuttavia non appare al tribunale idoneo ad inficiare la credibilità del teste, atteso che è ben possibile che per Achille De Martino, persona estranea al sistema universitario le due figure fossero sovrapponibili e non caratterizzate in modo eia riuscire a distinguerle.

IL TRASFERIMENTO AD ENNA

Da quel momento in poi, ovvero dal giorno di quella visita, Di Martino sentiva spesso la Saguto dire che il figlio Emanuele frequentava l’università di Enna e contemporaneamente si erano intensificati i rapporti tra l'imputata e Carmelo Provenzano.

Le dichiarazioni rese dal teste Achille De Martino, sulla cui attendibilità non sono emerse ragioni per dubitare, consentono di collocare l'inizio dei rapporti tra Silvana Saguto e Carmelo Provenzano, nonché la conoscenza e presentazione del Santangelo alla Saguto stessa, con certezza nella primavera del 2013, allorché l’allora Presidente della sezione misure prevenzione del tribunale di Palermo si era recata nello studio di largo Villaura per parlare del percorso universitario del figlio Emanuele.

E consentono anche di collocare tale incontro a Largo Villaura e la successiva visita all'ateneo ennese già in data antecedente all'immatricolazione dello studente presso l’università Kore di Enna. Di come, peraltro, tale immatricolazione sia stata il frutto dell'operato di Carmelo Provenzano e della sua abilità di coinvolgere il ragazzo in un ambiente universitario a sè familiare è fatto che risulta dalle stesse parole di Silvana Saguto nel corso di una conversazione intrattenuta qualche tempo dopo – ovvero il 2 luglio 2015 – con un amico, Buccellato Giuseppe, al quale la donna narra di come il professore Provenzano avesse fatto mutare il corso di studi della laurea del figlio da triennale a quinquennale, sebbene Emanuele fosse atterrito e convinto che non avrebbe conseguito nemmeno la laurea triennale e invece poi ce l’aveva fatta grazie a Provenzano che non lo aveva mollato nemmeno un minuto.

[…] È evidente come, secondo Silvana Saguto, è indubbiamente Carmelo Provenzano a determinare Emanuele Caramma non solo a rendere effettivo il trasferimento dall'università romana a quella ennese, ma anche a fargli cambiare il piano di studi da triennale a quinquennale, scelte che ovviamente non possono che collocarsi prima dell'iscrizione. Ma vi è di più.

Non solo la “presa in carico” di Emanuele Caramma da parte di Carmelo Provenzano precede l’iscrizione del ragazzo all'Università Kore di Enna, avvenuta nel maggio del 2013, ma precede addirittura lo stesso ingresso di Carmelo Provenzano e Roberto Nicola Santangelo nel mondo delle misure di prevenzione avvenuta, come è noto, con la nomina del secondo quale amministratore giudiziario nella procedura Vetrano del 20 aprile 2013.

IL “PIZZO” DA PAGARE

[…] In ogni caso deve dirsi - e si tratta di un dato oggettivo, riscontrato dalla documentazione acquisita al fascicolo del dibattimento - che dopo che Emanuele Caramma effettua il trasferimento dall'Università Marconi di Roma all’università Kore di Enna, il suo percorso universitario registra una evidente accelerazione, tanto da giungere in poco più di due anni pure all'agognato esame di laurea.

In effetti, ponendo a raffronto la prima carriera universitaria di Emanuele Caramma con la seconda, si evince, quanto alla prima, che in sei anni (ovvero dalla prima materia inglese il cui esame è stato affrontato il 21 giugno 2006 con una valutazione di idoneità, all'esame di diritto commerciale del 26 novembre 2012) lo studente ha superato l'esame di undici materie, con una media del 22 e ha conseguito due idoneità […] mentre presso l’università Kore di Enna ha superato in tempi ristrettissimi, ovvero in poco più di due anni, n. 21 esami universitari […].

Deve pure rilevarsi che la circostanza che l'intensificarsi dei rapporti tra Provenzano e la Saguto fosse un fatto strettamente connesso all’esigenza della seconda di far laureare il figlio era un dato risaputo negli ambienti palermitani delle amministrazioni giudiziarie, in cui i due erano persone conosciute.

E così un altro amministratore giudiziario, Walter Virga, nel corso di una conversazione del 9 giugno 2015 con suoi colleghi di studio, commentando il proprio distorto rapporto con il presidente della sezione misure di prevenzione, esternava il proprio disappunto per analoga sorte spettata al Provenzano, anche lui soggetto inserito nella amministrazioni giudiziarie, alter ego del nominato amministratore giudiziario […] il quale come contropartita per incarichi durevoli nel tempo, aveva dovuto assicurare la laurea al figlio della Saguto. Illuminanti, a tal uopo, sono le parole utilizzate dal Virga, il quale nel contesto della conversazione non stenta a definire “pizzo” il prezzo pagato a Provenzano con gli incarichi attribuitigli affinché facesse laureare il figlio di Silvana Saguto.

Per una maggiore comprensione della vicenda oggetto del dialogo, deve rammentarsi in questa sede che Walter Virga aveva accolto e inserito all’interno del proprio studio professionale la fidanzata di un altro figlio di Silvana Saguto, Mariangelà Panto, avvocato, che secondo l'opinione del Virga stesso non si era distinta per particolari capacità o competenze.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI.  Il professore che scrive la tesi di laurea per il figlio della giudice Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 18 dicembre 2021.

La tesi di laurea è stata redatta da Carmelo Provenzano che si è avvalso, sempre sotto la sua supervisione e direzione, del supporto della segretaria e collaboratrice Laura Greca. Nessun effettivo contributo nella sua redazione è stato dato da Emanuele Caramma, figlio di Silvana Saguto

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Ma, ritornando allo schema corruttivo in disamina, deve qui piuttosto sottolinearsi come lo strumento della captatio benevolentiae della Saguto sia Carmelo Provenzano, soggetto in grado di garantire uno stabile collegamento con i vertici dell'ateneo ennese e procurare, proprio attraverso questo stabile collegamento, l'utilità del massimo riconoscimento di crediti formativi in considerazione della precedente carriera universitaria allo studente Emanuele Caramma.

È lo stesso Emanuele Caramma che, nell'inviare al preside della facoltà la mail cui allega il piano di studi per il riconoscimento dei crediti formativi, laconicamente afferma di inviare la stessa su suggerimento del. professore Provenzano. Tale indicazione è già di per sé bastevole a far comprendere il ruolo del Provenzano quale diretto procuratore della utilità in questione.

E se, come è stato sostenuto dai difensori, era tatto usuale che gli studenti inviassero mail al preside della facoltà di giurisprudenza della Kore di Enna per concordare il riconoscimento dei crediti formativi - fatto di cui si dubita fortemente, quantomeno per la riflessione che non si ritiene si tratti di una attività concordata o da concordare anticipatamente per le vie brevi, quanto piuttosto di una attività amministrativa in cui ad una domanda presentata attraverso apposita modulistica (come pure è avvenuto nel caso di Emanuele Caramma) segue una delibera di convalida/riconoscimento di crediti formativi - non si comprende allora perché tale prassi nel caso di Emanuele Caramma dovesse essere mediata proprio dal "Professore Provenzano".

Invece, è da ritenere che il fatto che per il professore di diritto costituzionale dovesse essere proprio Carmelo Provcnzano a testare quel "gradimento" cui si riferiva nella mail, dà la misura di quale fosse il ruolo del Provenzano stesso, [...]. E' alla luce di queste riflessioni che si deve concludere che il riconoscimento del maggior numero di crediti formativi possibile, [...], altro non sia che il frutto di una intermediazione di Carmelo Provenzano volta ad attribuire una utilità a Silvana Saguto, attraverso il soddisfacimento di una fondamentale esigenza del figlio.

[…] Ciò che consente di comprendere quale sia stato il reale ruolo di Carmelo Provenzano nell'intero percorso finalizzato alla laurea di Emanuele Caramma è non solo lo straordinario numero di esami sostenuti tra il 2013 ed il 2015 da quest'ultimo presso l'ateneo ennese con una media di voti brillante, ma il fatto che, già dai primi mesi di maggio del 2015, ovvero proprio nel periodo in cui vengono autorizzate e attivate le captazioni di conversazioni intrattenute tra gli indagati, si disvela come Carmelo Provenzano si interessasse, in maniera straordinariamente partecipativa, al superamento con profitto degli esami dello studente e al superamento dell'esame di laurea.

LA BUONA RIUSCITA DELLA CARRIERA UNIVERSITARIA

[…] Il 20 maggio 2015 Provenzano dimostra di essere certo della buona riuscita del percorso di laurea del Caramma indipendentemente dallo sforzo profuso dal ragazzo nello studio della materia il cui esame si accingeva a sostenere, tanto da rassicurare - liquidandola con un quanto mai significativo ''futtitinni" - Silvana Saguto del fatto che sostenere un esame universitario non doveva costituire una preoccupazione per nessuno, indipendentemente dal fatto che il figlio avesse o meno finito di ripetere gli argomenti della materia. Con fare spavaldo e connotato da una sorprendente sicumera, l'unico problema che Carmelo Provenzano sembra voler attenzionare alla Saguto è quello che il ragazzo si alzi presto per poterlo accompagnare lui stesso ad Enna per sostenere l'esame.

[…] Deve rammentarsi che il 23 giugno Emanuele Caramma aveva sostenuto l'esame di diritto privato comparato, penultima materia propedeutica alla laurea; l'ultima era proprio diritto romano con il professore Cristaldi Salvatore: tale fatto spiega anche la successiva condotta del Provenzano che, appresa la notizia che l'ultimo sbarramento alla laurea di Emanuele per la sessione di luglio era rappresentato dal superamento dell'esame di diritto romano, si attivava in modo spasmodico, “insomma alla Provenzano” per assicurarsi la benevolenza del docente, non esitando a coinvolgere in tale operazione - come era già avvenuto peraltro con riferimento alla vicenda dei crediti formativi di cui si e già detto - la sua longa manus interna alla facoltà di giurisprudenza, ovvero il preside della facoltà e professore di diritto costituzionale Roberto Di Maria, al quale pure comunicava il programma di far laureare il figlio della Saguto nella sessione di luglio ("bene, innanzitutto. e 'è massima disponibilità per luglio, poi fammi sapere tu qual data, poi"). I due pianificano addirittura di organizzare la commissione di laurea di Emanuele Caramma.

[…] Provenzano chiamava Cristaldi con il quale voleva evidentemente parlare di persona nonostante le rassicurazioni ricevute dal Di Maria […]. Nel tono scherzoso della conversazione sopra riportata è comunque evidente come il Provenzano, pur facendo eonfessione del fatto che il Caramma non era preparato come quando aveva sostenuto la prima parte dell'esame di diritto romano, cercasse il sostegno del Cristaldi attraverso il riferimento al fatto che lui stesso avrebbe pure studiato quel giorno diritto romano per farsi interrogare dal collega, Emerge come Carmelo Provenzano non potesse ragionevolmente immaginare di riuscire a far colmare ad Emanuele Caramma le lacune nella materia romanistica che proprio l'indomani si accingeva a sostenere anche in considerazione del fatto che il tempo a disposizione non era neppure di ventiquattro ore ed il giovane avrebbe dovuto ancora studiare ben duecento pagine della materia.

Tenta allora l'approccio scherzoso con il professore Cristaldi al quale, con ogni evidenza, si premura di raccomandare lo studente, facendogli intendere che per lui il superamento di quell'esame era tanto importante come se a sostenerlo fosse lui stesso. Dunque alla fine Provenzano, comprendendo l'importanza ai propri utilitaristici fini, del passo che il figlio della Saguto si accingeva a compiere proprio nell'ottica dei complessivi rapporti di natura illecita con il giudice, decideva di recarsi personalmente a Enna per controllare l'andamento dell'esame.

Lo si coglie dal tenore della seguente conversazione captata alle 10.00 circa del 25 giugno 2015 tra Silvana Saguto e sua madre, nel corso della quale la prima raccontava alla seconda che il figlio era stato accompagnato a sostenere l'esame dcli 'ultima materia dal professore […]. Successivamente Emanuele Caramma chiamava la madre e le comunicava di aver superato l'esame di diritto romano con la votazione di 20. […].

UNA TESI DA SCRIVERE

Tuttavia, l'operato di Provenzano alla data del 25 giugno 2015 non può dirsi completo, mancando infatti il superamento dello scoglio finale costituito dalla redazione della tesi e dall'esame di laurea, ulteriori utilità che il professore di economia tributa a Silvana Suguto come prezzo della corruzione.

Per quanto riguarda la tesi di laurea, è rimasto provato che essa è stata redatta da Carmelo Provenzano che si è avvalso, sempre sotto la sua supervisione e direzione, del supporto della segretaria e collaboratrice Laura Greca e che nessun effettivo contributo ha avuto nella sua redazione lo studente. In questo senso convergono molteplici elementi di prova, talmente granitici da non potersi ritenere neppure minimamente scalfiti dalle deduzioni difensive portate all'attenzione del Collegio.

Il 25 maggio 2015 Silvana Suguto parlava con il figlio Emanuele, il quale le rappresentava di aver pagato le tasse per laurearsi nel prossimo mese di luglio. Silvana Saguto si mostrava allora perplessa e si chiedeva come avrebbe mai potuto fare Carmelo Provenzano a raggiungere un simile risultato, ma Emanuele la rassicurava: Provenzano aveva deciso così e lui e Di Maria avevano già stabilito l'argomento della tesi, un argomento inerente le misure di prevenzione.

Emanuele Caramma aggiungeva in maniera secca e convinta riferendosi alla tesi "dice che la scrive in quattro giorni Carmelo" e la madre gli rispondeva "Carmelo scrive bene veramente". Ciò che colpisce della conversazione in disamina è l'atteggiamento dei due interlocutori che, in maniera disinvolta, quasi che si trattasse di un fatto scontato, asserivano che la tesi del ragazzo sarebbe stata redatta da Carmelo Provenzano nel giro di pochi giorni, Provenzano che, tra l'altro, secondo la Saguto scriveva veramente bene. Se ne deduce che le preoccupazioni dei due interlocutori sulla realizzazione del progetto del ragazzo di laurearsi nella sessione di luglio non riguardavano affatto la redazione della tesi, della quale, peraltro, già nel mese maggio Emanuele Caramma mostrava di disinteressarsi a tal punto da non interferire né sulla scelta dell'argomento, ne tantomeno sul titolo, entrambi interamente rimessi alla decisione di Carmelo Provenzano e di Roberto Di Maria.

Le preoccupazioni per la buona riuscita del progetto, tali da indune Silvana Saguto più volte a formulare delle riserve e a manifestare comunque auspici di una riuscita rispetto alla quale si mostra incerta, riguardano soltanto il superamento degli esami che il figlio doveva ancora sostenere prima di accedere alla seduta di laurea. Deve concludersi, dunque, che già alla data del 25 maggio 2015 Silvana Saguto veniva messa al corrente del fatto che la tesi del figlio sarebbe stata scritta da Carmelo Provenzano e di fronte alla profforta di tale illecita utilità non batteva ciglio.

[…] Il 30 giugno 2015, in tarda mattinata, Carmelo Provenzano contattava Roberto Di Maria, preside della fo.coltà ove era iscritto Emanuele Caramma e relatore della tesi di laurea del ragazzo, dicendogli, evidentemente mentendo, (considerato che nessuna conversazione è stata registrata tra i due e che fino al giorno prima Provenzano, nel più totale disinteresse all'argomento di Emanuele Caramma, rassicurava la Saguto di voler terminare "quella cosa" prima della sua partenza, programmata per il 2 luglio), di aver parlato con Emanuele, il cui elaborato constava di circa 60, 70 pagine e gli chiedeva rassicurazioni sulla sufficienza dello scritto.

Il Di Maria, tuttavia, mostrava la propria perplessità rispondendogli che gli sembrava poco e che sarebbe stato opportuno arrivare ad un centinaio di pagine o, comunque, almeno ad 80, 85 pagine, eventualmente anche potenziando la bibliografia, quantomeno per una questione di "immagine". Carmelo Provenzano si mostrava d'accordo con il collega e gli rispondeva rassicurandolo "proviamo un attimo e ci riusciamo", Sebbene Carmelo Provenzano non facesse, nella superiore conversazione, professione di essere l'autore della tesi, ciò che occorre rimarcare è il fatto che lo stesso, pur non avendo avuto nei giorni precedenti alcun contatto con Emanuele Caramma (che ancora il 28 giugno palesava alla madre le proprie perplessità sulla redazione in tempo della sua tesi) è perfettamente a conoscenza tanto della consistenza dell'elaborato, del suo carattere, della sua forma, quanto del fatto che è ancora priva di bibliografia e, peraltro, fornisce pure rassicurazioni della sua sistemazione al professore Di Maria.

È evidente che si tratta di una dialogo che si spiega solo affermando che Carmelo Provenzano stava redigendo la tesi di Emanuele Caramma e interrogava il professore relatore della stessa nella seduta di laurea che si sarebbe tenuta di lì a breve, per ottenerne suggerimenti per la sua corretta elaborazione, fingendo di interessarsi al posto dello studente.

[…] Dunque Carmelo Provenzano, appreso dal professore Di Maria che occorreva aggiungere qualche parte alla tesi da lui redatta, si avvaleva della collaborazione della segretaria Laura Greca. La Greca lo rassicurava che si sarebbe subita messa al lavoro.

Deve rilevarsi come dall'ascolto del file audio della conversazione captata effettuato in camera di consiglio, il Collegio ha potuto udire chiaramente la voce di Carmelo Provenzano che testualmente diceva “sei sicura che appena arriva questa cosa del fallimento riesci a farla?”, […]. Poco dopo Carmelo Provenzano ricontattava il professore Di Maria al quale comunicava che la tesi aveva raggiunto il numero di 80 pagine e che probabilmente sarebbe constata di almeno 90 pagine e prendeva appuntamento con lo stesso per il giorno dopo, affinché la potesse firmare come relatore. Tutto ciò senza neanche una interlocuzione con Emanuele Caramma.

[…]. Provenzano suggeriva anche alla Greca dove doveva inserire i paragrafi e le chiedeva di fargli sapere il numero delle pagine finali. La Greca lo metteva a partito di aver inserito anche le note e di voler implementare la bibliografia. Carmelo Provenzano aggiungeva che l’indomani mattina avrebbe aggiunto la parte già da lui redatta, munita di bibliografia, e riferendosi a Emanuele Caramma diceva “se la viene o prendere, che è tutto sfrontato".

È evidente che dal tenore delle conversazioni nessuna partecipazione alla redazione della tesi è attribuibile ad Emanuele Caramma, se non l'incombenza di andarla a prendere perché già pronta. Laura Greca, sicuramente più scrupolosa dello studente Caramma, di propria iniziativa offriva la propria disponibilità a dare un'ultima lettura all’elaborato prima di stamparlo.

[…] Il giorno seguente, nella prima mattinata, Carmelo Provenzano contattava Emanuele Caramma per recarsi in tipografia a ritirare la tesi stampata e chiedeva all'ignaro ragazzo a chi intendesse dedicare la tesi e questi rispondeva in modo sincero: “a nessuno ancora, non ho scritto niente”.

[…] La stessa sera Emanuele Caramma chiamava Carmelo Provenzano perché c'era stato un intoppo con la tesi, perché era richiesta anche la traduzione in inglese del suo titolo e aggiungendo di averlo copiato in italiano dal foglio che Provenzano gli aveva consegnato si apprestava ad inviarglielo via whatsapp, affinché il Provenzano ne curasse anche la traduzione in inglese.

Ciò dimostra come il ragazzo sconoscesse sinanco il titolo esatto della propria tesi di laurea e che ne fosse a conoscenza solo per averlo copiato dal figlio che Carmelo Provenzano gli aveva consegnato.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Il figlio della giudice Saguto si laurea in beni confiscati. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 19 dicembre 2021.

Il 22 luglio 2015 Emanuele Caramma si laureava in giurisprudenza presso l'università Kore di Enna discutendo una tesi dal titolo "I beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del marcato e garanzia della legalità" con il voto di 94/11O.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Sempre nella giornata del primo luglio 2015, intanto, Silvana Saguto comunicava al figlio Elio che Emanuele aveva consegnato la tesi: i due, con fare ironico, parlavano del fatto che sarebbe giunta l'ora che questa tesi venisse letta, facendo riferimento proprio al tesista, tanto che Elio Caramma aggiungeva sardonico ed evidentemente ben consapevole dell'indole noncurante del fratello minore "quello è capace che si riduce agli ultimi giorni''; ma subito Silvana Saguto replicava di piglio "Nooooo, lo faccio correre io, penso che ci terrà a non fare magra figura". È indubbio che lo stesso giorno della consegna della tesi i familiari di Emanuele Caramma convenivano sul fatto che il ragazzo la tesi non l'aveva ancora neppure letta. […] Il 2 luglio 2015 Silvana Saguto, conversando con un caro amico, Buccellato Giuseppe, gli confessava che «praticamente" la tesi del figlio l'aveva fatta il professore Carmelo Provenzano, perché il figlio da solo non ci sarebbe arrivato mai e lei non se la sarebbe sentita di aiutarlo come aveva fatto per l'altro figlio Francesco»[…].

Secondo l'impostazione accusatoria inoltre Carmelo Provenzano avrebbe assicurato a Silvana Saguto - considerato che Roberto Di Maria, relatore della tesi e Presidente della Commissione di laurea, era consapevole del ruolo di Provenzano - che il figlio avrebbe conseguito il titolo, come in effetti avveniva, il 22 luglio 2015. Il 22 luglio 2015 Emanuele Cararnma si laureava in giurisprudenza presso l'università Kore di Enna discutendo, relatore il professore Di Maria, una tesi dal titolo "I beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del marcato e garanzia della legalità" con il voto di 94/11O. La commissione di laurea quel giorno era costituita dal Presidente Roberto Di Maria e dai membri Alice Anselmo, Giuseppina Barcellona, Fausto Caggia, Agata Ciavola, Salvatore Cristaldi, Andrea Di Landro, Alessia Gabriele, Giacomo Gargano, Filippo Romeo, Vera Sciarrino ed Andrea Vincenti.

I PROFESSORI DELLA COMMISSIONE

Agata Maria Ciavola, professore di procedura penale dell'università Kore di Enna, escussa quale teste all'udienza del 11 luglio 2018, ha dichiarato di conoscere Emanuele Caramma per quello che è successo dopo la laurea e che ha portato all'instaurazione del presente procedimento; di non ricordare nulla del percorso di studi dello stesso, di aver partecipato alla seduta di laurea in questione in cui aveva svolto le funzioni di relatore il professore Roberto Di Maria; che il ragazzo aveva avuto qualche tentennamento nell'esposizione e che vi era stato qualcuno dei membri della commissione che aveva proposto un punteggio più alto di quello che era stato poi assegnato, ma che il relatore - che normalmente nella camera di consiglio ha un ruolo preponderante, affidandosi spesso gli altri componenti alla correttezza della sua valutazione - aveva declinato tale proposta; di non aver udito l'espressione "relatore ombra" nel corso della camera di consiglio, considerato peraltro che era intenta a verbalizzare e qualcosa poteva esserle sfuggito e che la figura del correlatore esiste e di solito è un altro docente che segue il tesista insieme al relatore principale, senza alcuna necessità che l'istituto della "correlazione" venga formalizzato e ben potendo rimanere un fatto interno con il relatore.

Vera Sciarrino, avvocato e ricercatrice dell'Università Kore di Enna, escussa quale teste all'udienza dell'11 luglio 2018, anch'ella membro della commissione dell'esame di laurea di Emanuele Caramma quel 22 luglio 2015, ha riferito che il proprio padre, avvocato anch'egli, è stato incaricato dall'amministratore giudiziario Santangelo, su segnalazione di Carmelo Provenzano, di una attività di collaborazione nella materia legale nella procedura Vetrano già dal 2013-2014 e che lei stessa aveva ricevuto un incarico di coadiutore giudiziario per la fase di immissione in possesso nella procedura di prevenzione Motoroil, oltre che un incarico professionale di patrocinio dinanzi al Tribunale delle Imprese.

Ha riferito di aver conosciuto Emanuele Caramma, figlio di Silvana Saguto, in occasione di uno degli incontri di studio del Club [...] in materia di criminalità organizzata cui partecipavano vari esperti della materia. Con riferimento alla camera di consiglio che era seguita all'esame di laurea del Cararmma ha riferito che non vi era mai stata una discussione accesa sull'attribuzione del voto; che nessuno dei componenti della commissione di norma conosce le tesi redatte dagli studenti e quindi il relatore si assume la responsabilità principale della sua valutazione; che per Emanuele Caramma il relatore, professore Di Maria, aveva proposto il punteggio di 8 e non ci era stata alcuna discussione.

Ha aggiunto che il candidato era sembrato un po’ esitante durante la discussione orale, ma tali esitazioni erano state ricollegate più all'emozione che ad una impreparazione; Di Maria aveva fatto riferimento ad una figura di "relatore ombra", quasi un correlatore che doveva individuarsi in Carmelo Provenzano e si era preso atto di questa circostanza. Ha poi aggiunto di aver avuto una conversazione telefonica con Carmelo Provenzano dopo la laurea del Caramma di cui lo stesso già conosceva l'esito, ma di non aver mai parlato con lo stesso del suo contributo nella laurea del ragazzo e di essersi recata quel giorno al bar vicino l'Università per pranzare dove aveva incontrato Emanuele Caramma e i suoi parenti e si era fermata con loro per brindare.

Dall'esame congiunto delle deposizioni rese dai testi Ciavola e Sciarrino non e possibile trarre alcun elemento concreto a sostegno della tesi - invero suggestiva - che attraverso l'apodittico riferimento alla figura del "relatore ombra" impersonata da Carmelo Provenzano, Roberto Di Maria avesse in quella sede in qualche modo esercitato una pressione sugli altri commissari per stravolgere gli eventi e attribuire al Caramma un esito immeritato, solo al fine di gratificare il professore Provenzano.

E VENNE IL GIORNO DI DISCUTERE LA TESI

Invero, non è emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale alcun elemento che faccia ritenere una consapevolezza propria del Di Maria che Carmelo Provenzano avesse redatto la tesi dello studente, né tantomeno è emerso che il Di Maria abbia esercitato pressioni per attribuire al Caramma un voto immeritato. Sono, peraltro, state portate all'attenzione del Tribunale alcune conversazione captate che si vanno ora ad analizzare. La stessa sera della laurea Silvana Saguto contattava Carmelo Provenzano per ringraziarlo.

[…] Dal fatto che Carmelo Provenzano aveva magnificato l'operato del profosso re Di Maria che era stato, a suo dire "il massimo" e che "gli aveva fatto prendere otto punti" non si può univocamente inferire che tale risultato fosse stato raggiunto consapevolmente dal Di Maria, concedendolo a Provenzano, relatore ombra, per attribuire una utilità a Silvana Saguto, Né tantomeno tutte le ulteriori conversazioni captate giovano in alcun modo a tale tesi. Lo stesso giorno della laurea Carmelo Provenzano parlava al telefono con Mercadante Giorgio, un amico di Emanuele Caramma che era presente ali' esame di laurea; il ragazzo gli raccontava l'esame e sosteneva che il suo amico avrebbe dovuto prendere per l'esposizione ("ripetizione") il voto di cinque o sei, mentre il professore Di Maria "era tranquillo, l'ha aiutato, all'inizio gli ha fatto una bella introduzione e ti ha pure menzionato, l'ho registrata, se vuoi te la faccio vedere dopo", "e ha pure menzionato il correlatore ombra "facendo il nome di Carmelo Provenzano”.

Provenzano, nel sentire queste parole, si stupiva. […] Emerge inoltre da questa conversazione che anche nel corso della seduta del!' esame di laurea pubblico nessuna remora aveva avuto Di Maria a menzionare la figura del "correlatore ombra Provenzano", dal che si deve dedurre che tale affiancamento non doveva essere visto dallo stesso come qualcosa da celare, perché implicante connotati illeciti, altrimenti l'accorto professore avrebbe ben evitato di parlarne in pubblico.

[…] Poco dopo Carmelo Provenzano chiamava Vera Sciarrino per dirle di recarsi al bar insieme a Di Maria, perché Silvana Saguto li stava aspettando per brindare; la Sciarrino rispondeva che stavano posando le toghe.

[…] Carmelo Provenzano lo stesso pomeriggio tornava a contattare la Sciarrino, non riuscendo bene a capire cosa fosse successo nel corso della seduta di laurea. La donna però aveva evidentemente fretta e anticipava al Provenzano che c'era stata una componente della commissione, che indicava come "quella", che aveva osservato come otto punti si dessero agli studenti che avevano redatto una bellissima tesi; mentre il Di Landro aveva sottolineato come nelle ultime materie il Caramma non fosse stato brillantissimo.

Dall'esame della superiore conversazione non si può tuttavia desumere che vi fossero state particolari discussioni sull'attribuzione del voto, se non fulminee frecciatine o comunque valutazioni che ben potevano rientrare in quella dialettica tipica delle camere di consiglio, in cui si è, per forza di cose, portati ad effettuare un bilanciamento di tutti i contrapposti elementi che al giudizio devono comunque condurre.

Deve comunque rilevarsi che la stessa Sciarrino in sede di esame testimoniale ha tenuto a precisare che, sebbene non ci fossero state discussioni sull'attribuzione del voto, vi erano comunque stati commenti su di esso, fornendo così una versione perfettamente sovrapponibile al contenuto delle parole dalla stessa pronunciate nel corso della conversazione captata in disamina.

Dal ché non si ritiene, contrariamente a quanto sostenuto dal pubblico ministero, che il teste Vera Sciarrino abbia dichiarato il falso nel presente giudizio e non si ritiene di dover dar corso alla sollecitazione, pure formulata dall'accusa, di trasmettere gli atti al Procuratore della Repubblica per le determinazioni di competenza in merito. La Sciarrino, inoltre, nella telefonata riferiva a Carmelo Provenzano che Di Maria, aveva parlato di lui definendolo “correlatore ombra”.

[…] Carmelo Provenzano, quindi, chiamava al telefono Roberto Di Maria e ironizzava sul fatto che questi aveva comunque fatto un miracolo con Emanuele Caramma, paragonandolo a "Gesù Cristo"; Di Maria, senza alcuna remora, gli raccontava di averlo citato nella presentazione della tesi e Provenzano gli rispondeva di aver già saputo del "correlatore ombra"; quindi Di Maria riferiva al Provenzano delle frecciatine che vi erano state e che, comunque, non vi erano state discussioni nella camera di consiglio, sminuendo così l'idea propugnata dal Provenzano che si fosse verificato "un miracolo" quel giorno.

Occorre sottolineare che Carmelo Provenzano non chiama Di Maria per ringraziarlo dell'eventuale favore che gli avrebbe fatto, ma solo per informarsi di quanto era accaduto e di come si era svolto il rinfresco al bar dopo la laurea.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Il prof tuttofare offre il rinfresco di laurea al figlio “illustre”. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 20 dicembre 2021.

Il pagamento del rinfresco di laurea di Emanuela Caramma da parte del prof Provenzano ha anche un valore altamente simbolico. Carmelo Provenzano dal 2013 diventa lo strumento, la buona occasione per Caramma di laurearsi ed ecco che, proprio a conclusione del suo percorso di laurea, il rinfresco in cui si gioisce del risultato "pilotato” viene offerto proprio da colui che quel risultato ha procurato.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari. L'utilità rappresentata dall'organizzazione e dal pagamento, tra il 14 e il 21 luglio 2015, del rinfresco in occasione della laurea del figlio Emanuele Caramma, il 22 luglio 2015, presso il Sixty Four Rooms di Enna bassa, costato 450 euro oltre 50 euro per la torta gelato.

Tale utilità si ritiene, invece, provata e si giustifica nel generale schema del rapporto corruttivo tra gli odierni imputati. Non ignora il Collegio, infatti, che non si tratta di certo di una controprestazione tale da giustificare le plurime nomine di cui si è parlato e tutti gli altri atti contrari ai doveri di ufficio posti in essere da Silvana Saguto, purtuttavia è innegabile che si tratta di un beneficio di valore apprezzabile e che si aggiunge, a connotare il rapporto illecito, a tutti gli altri vantaggi attribuiti a Silvana Saguto. Sembra inoltre opportuno dare il giusto risalto a tale attribuzione: il pagamento del rinfresco di laurea del Caramma da parte del Provenzano non ha solo una valenza economica, ma anche un valore altamente simbolico.

Carmelo Provenzano dal 2013 diventa lo strumento, la buona occasione per Emanuele Caramma di laurearsi ed ecco che, proprio a conclusione del suo percorso di laurea, l'ultimo atto, quello conclusivo, quello in cui finalmente si gioisce del risultato "pilotato" allo studente piuttosto che "raggiunto" dallo stesso, viene offerto proprio da colui che quel risultato ha procurato.

Ciò spiega l'estrema enfasi che il Provenzano mostra nel sottolineare la circostanza, nel rimarcare di essere stato lui ad offrire il rinfresco, nel compiacersi che il brindisi è stato gradito dalla sua ospite e dagli ospiti di questa. Segue la telefonata di ringraziamento di Silvana Saguto, che si riporta anche qui per la inerenza con il tema in disamina:

U1: pronto? Comu fìniu? (Com'è fìnita?) Siete stati accolti?

Silvana: ohi Allora, tutto benissimo, (inc.) sono stati bravissimi

U1: sei stata accolta come una regina? Il principe l'avevamo, ma la regina è stata accolta?

Silvana: si, guarda troppo bene, ma sono bravissimi

U1: ottimo

Silvana: sono andati benissimo, la torta era spettacolare

U1: ma anche Roberto Di Maria

Silvana: tutto buonissimo

U1: Roberto Di Maria è stato il massimo

Silvana: si, è stato con noi, ha parlato tutto il te#

U1: otto punti

Silvana: è staio bravo a parlare e a introdurre

U1: gli ho fatto prendere otto punti

Silvana: Emanuele, comunque, te l'ho detto ha risposto benino

U1: si! l'argomento era un bell'argomento

Silvana: all'inizio era un pochino, tremava un poco, ma poi subito si è messo bene, soprattutto col caso concreto era molto preciso, molto cosi, lui gli ha fatto un sacco di complimenti, ha avuto 94, quindi? Era contento Emanuele sai?

U1: otto punti ha preso

Silvana: ho saputo, otto punti

Silvana: si,si ... era veramente molto contento Emanuele

U1: bravi!

Silvana: veramente molto contento

U1: bravi! Ora fallo arriposare però

Silvana: tutti i suoi amici più intimi erano qua, inclusa quella scimmia

U1: arrivò? (È arrivata?) È venuta?

Silvana: si, la scimmietta! È venuta

U1: ahi! Ahi!

Silvana: e comunque lui, comunque non è stato là si è divertito per i fatti suoi

U1: ma lui è contento con loro?

Silvana: si, è stato contento con gli altri, l'ha lasciata perdere a lei, non, non era vicino o altro, è venuta [...]

LE CONFERME DEI TESTIMONI

Il teste Vanessa Lilla, legale rappresentante della società che gestiva il bar Sixty Four Rooms di Enna, escussa all'udienza del 29 giugno 2018, ha riferito di aver saputo dalla propria cugina, con la quale gestisce l'attività, che Carmelo Provenzano aveva lasciato al bar il suo numero di telefono al fine di essere ricontattato per organizzare la festa di laurea del figlio di un magistrato; che tale prenotazione era stata gestita dalla propria cugina e che lei aveva avviato solo un contatto con il Provenzano per quanto riguarda la torta che però non era stata preparata dal loro esercizio commerciale, ma solo da loro procurata presso terzi; ha aggiunto che il rinfresco era stato organizzato per una trentina di invitati e che il Provenzano aveva pagato loro anticipatamente la somma di € 450,00 per il rinfresco, oltre € 50,00 per l'acquisto della torta; di aver saputo solo dopo tempo, da un articolo di stampa, che il festeggiato in questione era il figlio di Silvana Saguto.

Il teste Laura Lilla, escussa all'udienza del 29 giugno 2018, ha confermato quanto dichiarato dalla cugina in ordine alla organizzazione del rinfresco per la laurea di Emauele Caramma da parte del Provenzano. Tali granitiche risultanze istruttorie sono pure confermate da ulteriori elementi di giudizio. In particolare, deve segnalarsi la conversazione captata il 14 luglio 2015, allorché Laura Lilla contattava Carmelo Provenzano per concordare i dettagli del rinfresco e Provenzano diceva alla donna di voler organizzare un "aperitivo rinforzato" per trenta persone; la Lilla gli comunicava il prezzo di€ 15,00 a persona e Provenzano le rispondeva che il giorno successivo si sarebbe recato da lei per portarle un acconto. […].

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Frutta e verdura, i piccoli doni per ricompensare giudici e prefetti. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 21 dicembre 2021.

Carmelo Provenzano inviava un sms al Prefetto Cannizzo del seguente tenore: «Questa mattina passa uno dei miei ragazzi da Villa Pajno. Non arrestatelo vuole solo consegnare un piccolissimo dono ortofrutticolo»

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Nel capo di imputazione sono riportate le seguenti utilità:

prestazioni di beni di consumo, quali consegne di cassette di frutta e verdura provenienti dal mercato ortofrutticolo, in particolare dalla cooperativa La Rinascente parte dell'amministrazione Ingrassia, nella quale Provenzano rivestiva l'incarico di coadiutore, all'indirizzo della famiglia, in via De Cosmi 37, anche su richiesta di Elio ed Emanuele Cammma;

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistila nella consegna di verdura, prima dell'estate 2015

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistita nella consegna, il 9 maggio 2015, di cassette di frutta, come esplicitamente da lei richiesto;

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistita nella consegna, il 9 giugno 2015, di alcune cassette di frutta e verdura;

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistita nella consegna, da parte di Provenzano, l'11 giugno 2015, di cassette di frutta;

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistila nella consegna, il 20 luglio 2015, di cassette di frutta come esplicitamente da lei richiesto;

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistita nella consegna, il 1 agosto 2015, di varie cassette di frutta, su richiesta di Emanuele Caramma;

l'utilità rappresentata da una prestazione di beni di consumo, consistita nella consegna, il 7 agosto 2015, di frutta.

FRUTTA E VERDURA ANCHE PER IL PREFETTO

Anche queste, seppure di minore rilevanza, costituiscono indubbiamente utilità che si innestano nel rapporto corruttivo in disamina e vengono elargite da Carmelo Provenzano per gratificare il presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo. Ed è proprio la circostanza della abitualità e sistematicità della dazione che ha indotto il Collegio a valutarle diversamente che nei meri termini di una regalia di modico valore.

È emersa, invece, una deprecabile abitudine di Silvana Saguto e di alcuni suoi familiari a richiedere insistentemente al Provenzano quantità di frutta, peraltro di tipologia facilmente reperibile sul mercato, che, considerate anche le quantità richieste ed accettate, non si può dire essere beni di modico valore.

È poi del tutto irrilevante, ai presenti fini, il fatto che Camelo Provenzano le avesse pagate o meno con soldi propri consegnati allo stand del mercato ortofrutticolo facente parte del sequestro Ingrassia: il reato oggi in disamina non è l'illecita appropriazione di altrui beni, ma solo la valutazione di una dazione gratuita di beni di consumo, di cui il Provenzano aveva evidentemente la disponibilità, fatta in maniera sistematica dal corruttore al pubblico ufficiale corrotto.

Ed è innegabile che Silvana Saguto fosse una persona avvezza a ricercare l'approvvigionamento gratuito di generi alimentari, fatto che è emerso anche dalla vicenda riguardante i suoi rapporti con Alessandro Scimeca amministratore giudiziario del supermercato Sgroi, dove l'imputata si riforniva abitualmente, facendo lievitare in maniera spropositata il conto aperto e tentando in tutti i modi di non corrispondere il saldo allorquando le era stata richiesto. Le utilità in disamina sono comprovate da una serie di conversazioni captate.

Segnatamente, 18 maggio 2015 Silvana Saguto contattava Carmelo Provenzano chiedendogli di procurarle un'altra cassetta di arance ed una cassetta piccolina di fragole. Provenzano la rassicurava che gliele avrebbe fatte avere l'indomani; il giorno successivo la Saguto chiamava Provenzano per ringraziarlo e questi - come è usuale in un rapporto di tipo corruttivo - la avvertiva che avrebbe presentato un'istanza sulla quale avrebbero avuto modo di discutere. Dalla conversazione emerge anche che, già in precedenza, Silvana Saguto aveva beneficiato della consegna da parte di Provenzano di frutta, infatti l'imputata fa espresso riferimento ad un'altra cassetta di arance di cui aveva beneficiato.

[…] La consegna di frutta datata 20 luglio 2015 è emblematica di come questo tipo di elargizioni fosse divenuto una vera e propria abitudine non solo per il pubblico ufficiale corrotto, ma per la sua intera famiglia, tanto che poteva anche accadere che fosse il di lei figlio, Elio Caramma, come si evince dalla seguente conversazione captata, a sollecitare alla madre la consegna da parte di Carmelo Provenzano di frutta, nel caso di specie lamponi.

[…] Dalla superiore conversazione emerge pure come le consegne fatte a casa della dottoressa Saguto da parte del corruttore Provenzano fossero tutt'altro che di modico valore, atteso il prezzo del lime al cartone - di circa 30 euro - tanto che i due interlocutori concordavano di contattare un altro fornitore per reperirli ad un prezzo migliore, Irrilevante, peraltro, a parere del Collegio, il fatto che a richiedere intere cassette di frutta fossero i figli della Saguto, essendo oltremodo evidente come Provenzano si adoperasse ad accondiscendere ai desideri dei due giovani Caramma solo per gratificare il Presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo.

Quindi Carmelo Provenzano contattava Emanuele Camma e gli riferiva di avere trovato tutto quanto richiesto, ed "anche le ciliegie", evidentemente oggetto del primo ordinativo a cui il ragazzo aveva chiesto di inserire anche menta e lime. […] L'ingordigia e la spregiudicatezza della famiglia Caramma pretendere prodotti ortofrutticoli senza pagarne il corrispettivo e financo consegnati comodamente a domicilio era tale che il figlio Emanuele, quello stesso giorno, non lesinava di lamentarsi della mancata consegna delle angurie. […] Il 6 agosto 2015 Carmelo Provenzano contattava Alessandro Bonanno chiedendogli di consegnare due angurie e due ananas "spettacolari" al Prefetto Cannizzo e a Silvana Saguto. […] La mattina del 7 agosto 2015 Carmelo Provenzano inviava al Prefetto Cannizzo un sms del seguente tenore «questa mattina passa uno dei miei ragazzi da Villa Pajino. Non arrestatelo vuole solo consegnare un piccolissimo dono ortofrutticolo». Poco dopo il Prefetto gli rispondeva «Grazie e troppo! Sei sempre affettuosissimo».

Atteso il chiaro delle conversazioni captate sin qui segnalate e considerato che nessuna contestazione è stata mossa sul fatto che tali consegne siano realmente avvenute, può ritenersi che le consegne di frutta, addebitate dal pubblico ministero quale utilità della corruzione, devono ritenersi provate.

Inoltre, lo stesso teste Alessandro Bonanno, escusso all'udienza dibattimentale del 13 giugno 2018, ha ammesso le consegne effettuate tanto presso la dimora palermitana del Prefetto Cannizzo, quanto presso l'abitazione di Silvana Saguto precisando, purtuttavia il teste, che tali consegne avvenivano su esplicita richiesta di Carmelo Provenzano che provvedeva anche a corrisponderne il prezzo indicato nel relativo documento fiscale.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Meglio stare a casa che guadagnare “solo” 1300 euro al mese. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 22 dicembre 2021.

Emanuele contattava la madre e i due parlavano dell'offerta fatta da Carmelo Provenzano di procacciargli un lavoro retribuito con circa € 1.300,00 di stipendio mensile. Dalla telefonata emergeva l'incredibile sdegno mostrato dal giovane dinanzi ad una simile offerta, ritenuta inadeguata rispetto alle proprie capacità e possibilità, preferendo rimanere in casa.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Si legge nel capo di imputazione la seguente ulteriore utilità o promessa di utilità: l'utilità rappresentata da un'offerta di lavoro retribuito 1.300 euro al mese per suo figlio Emanuele, formulata il 27 luglio 2015, e la promessa di utilità formulata in data anteriore al 18 agosto 2015, che, comunque, "dal primo ottobre avrebbe trovato [ad Emanuele] qualcosa da fare".

Le utilità che Carmelo Provenzano elargisce al giudice corrotto, particolarmente sensibile, come si è già detto, alla sistemazione del figlio minore Emanuele Caramma, non si esauriscono nell'aver procurato al giovane una laurea in tempi rapidissimi e nonostante le evidenti difficoltà che questi incontrava nello studio, ma vanno ben oltre la conclusione del percorso universitario dello stesso e nel luglio del 2015 si manifestano nella forma di una promessa fatta dal corruttore di reperirgli una occupazione lavorativa.

Peraltro, tale promessa viene fatta alla madre del ragazzo, la quale come emergerà dai dialoghi che di seguito verranno analizzati, non solo in un primo momento la accetta di buon grado, ma addirittura la caldeggia, la auspica anche conversando con soggetti terzi, evidentemente consapevole dei limiti dello svogliato figlio che ritiene inadeguata a sé la retribuzione netta mensile di 1300,00 e non è disponibile a rimanere seduto dietro una scrivania per quella cifra neppur per due ore al giorno.

Le conversazioni rilevanti sono quelle del 27 luglio 2015, intrattenute, quindi, poco tempo dopo il conseguimento della laurea da parte del Caramma; quel giorno quest'ultimo contattava il Provenzano e gli rappresentava di volerlo incontrare, e che anche la madre avrebbe voluto parlargli. Alle successive ore 17:39:42, Caramma Emanuele che si trovava a casa, contattava il Provenzano chiedendogli dove si trovasse e Provenzano rispondeva "in questo momento, 5 minuti ed arrivo, sto salendo sulla vespa"; Alle successive ore 17:42:18, tale zia Mirella contattava il giovane per congratularsi della laurea e alla donna, che chiedeva se avesse già cominciato a lavorare presso "quel professore", Emanuele Caramma rispondeva con "ehhh, ancora no, ora a settembre".

Sembra evidente come il progetto del Provenzano di trovare una occupazione lavorativa ad Emanuele Caramma, non fosse poi un segreto, tanto che pure gli amici della famiglia, proprio come la "zia Mirella" ne erano a conoscenza. Alle successive ore 18:38:00, Caramma Emanuele contattava la madre e i due parlavano delle prospettive lavorative del primo, dell'offerta fatta da Carmelo Provenzano di procacciargli un lavoro retribuito con circa € 1.300,00 di stipendio mensile. Dalla telefonata emergeva l'incredibile sdegno mostrato dal giovane dinanzi ad una simile offerta, ritenuta evidentemente inadeguata rispetto alle proprie capacità e possibilità, preferendo per tale somma rimanere in casa.

L’INTERCETTAZIONE TRA MADRE E FIGLIO

[Di: Silvana Saguto; U: Emanuele Caramma]

Di: Sta chiamando! (n.d.r: parlando al telefonino) Pronto, Emanuele!

U: Come vedi sempre ... , se una cosa può andare storta va sempre storta!

Di: Ancora non è andato niente!

U: No, appunto! Non è andato niente. […]

Di: Tu non hai appunto premure.. quindi con calma scegli quello che vuoi fare..

U: Sì, sì...

Di: Per adesso non ti piace non la fai

U: No. questo è il modo di dire .... "io le l'ho trovata una cosa, tu non l'hai voluta!"

Di: Cosa?

U: Questo è il modo di dire.... "io Te l'ho trovata una cosa, tu non l'hai voluta!". La stessa cosa come ... , si, per me è questo! E ha ragione! Ha ragione! Va beh!

Di: lo non so se non ti piace veramente o ti potrebbe anche interessare ...

U: Ma che cazzo dici? Otto ...

Di:... come cosa ...

U:... otto ore chiuso in un ufficio io! Ma va .... va .... veramente! Ma come cazzo si fa a dire ... , a chiedermi a me di stare chiuso otto ore in un ufficio a fare ... , a inserire contratti? Ma porco cane! Di: No inserire, parlare, parlare, contratti farli ..., io non ho capito bene che cosa dovresti fare. Ma perché, se fossero sei le ore sarebbe diverso?

U: Neanche ammazzato! Neanche due ore per fare questo lavoro lo farei!

Di: Va bene.

U: Per i 300 euro, ma che cazzo mi cambiano la vita 1300 euro?

Di: No, non te la cambiano la vita 1300 euro! +

U: No, non me la cambiano. non sono fuori di casa. Se mi vuoi buttare di casa mi prendo questo lavoro.

Di: Ma che fa, scherzi? Tu per me puoi rimanere tutta la vita con me, mia e tua, fìgurati! Ma ci mancherebbe altro! Non abbiamo premura.

U: No, va beh., tranquilla ... , ma io non ho premura, appunto, non ne ho, no! Va bene mamma, ti saluto.

Nel corso di una conversazione del 18 agosto 2015 Silvana Saguto raccontava ad una sua amica che Provenzano avrebbe iniziato a far lavorare il figlio Emanuele dal primo ottobre. Il 31 agosto 2015 poi Silvana Saguto rappresentava all'avvocato Aulo Gigante, e anche al padre le possibilità lavorative offerte al figlio Emanuele dal Provenzano. Non può revocarsi in dubbio, in conclusione, alla luce delle predette risultanze della istruttoria dibattimentale espletata, che Carmelo Provenzano abbia promesso a Silvana Saguto, quale prezzo della corruzione, un lavoro retribuito per uno stipendio di 1300 euro al mese per suo figlio Emanuele o, comunque, la promessa che "dal primo ottobre gli avrebbe trovato "qualcosa da fare".

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. La promessa di una “sedia regale” per la zarina di Palermo. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 23 dicembre 2021.

Si tratta di una promessa che emerge da una conversazione captata e che spiega i contorni del rapporto illecito tra Silvana Saguto e Carmelo Provenzano come un rapporto in cui il giudice andava comunque omaggiata e gratificata con qualsiasi mezzo fosse nella disponibilità dei corruttori.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Si tratta di una promessa che emerge da una conversazione captata e che si connota non tanto per la sua capacità ad assurgere in via autonoma a prezzo/corrispettivo della corruzione, ma piuttosto che spiega i contorni del rapporto illecito, sin qui delineato, sussistente tra Silvana Saguto e l'asse Provenzano - Santangelo, come un rapporto in cui il giudice andava comunque omaggiata e gratificata con qualsiasi mezzo fosse nella disponibilità dei corruttori.

Poco rileva che la promessa in disamina, come nella maggior parte dei casi, promani da Carmelo Provenzano; è infatti il Provenzano il soggetto delegato a tenere i rapporti con Silvana Saguto cbe, d'altronde, per come già detto, accetta di nominare il Santangelo amministratore giudiziario, proprio perché il suo corruttore ha la necessità di frapporre uno schermo formale nella gestione dei compendi m sequestro.

Santangelo è, comunque, colui che, sin dal primo momento, non solo accetta la cogestione di Carmelo Provenzano nell'amministrazione dei beni in sequestro sintomo inequivocabile della consapevolezza che gli incarichi da lui ricevuti da Silvana Saguto derivavano dal "credito" vantato dal Provenzano nei confronti del giudice - ma è presente sin dal primo riconoscimento di utilità alla corrotta Silvana Saguto, ovvero proprio quel giorno in cui la donna si era recata insieme al figlio a largo Villaura a Palermo per conoscere il Professore Provenzano e concordare con lui i termini del trasferimento all'università Kore di Enna del figlio per farlo laureare nel più breve tempo possibile.

D - Che ci fa se io mi compro una sedia e me la porto qua ? Se la rubano? Sto diventando pazza

UI - Pp.i ..

D - No , è scomoda, non ruotano le ruote!

UI - Che signifìca pp.i.? Vuoi una sedi ancora più comoda?

D - lo voglio una sedia comoda!

UI - Pp.i.

D - Non la sopporto più' Perché mi faccio male il braccio, non lo posso più tirare. Vedi se veniva Santangelo, io me la leggevo, sei venuto tu e non me la leggo!

UI - (Nd.t.: parlando verosimilmente al telefonino) Patrizia! Allora, voglio una sedia di rappresentanza regale per la donna più importante che ho, tipo mia moglie, mezza parola, deve essere la sedia più bella che c'è! Comoda, deve essere proprio di rappresentanza, come se fosse un presidente o una presidentessa ! (N.d.i.: incomprensibile la voce dell'interlocutore) Alta, con le ruote, deve essere regale […].

Nessun dubbio nutre il collegio sul fatto che la promessa di tale sedia al presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che assisteva in diretta al suo ordinativo per telefono senza nulla obiettare, sia stata accettata dall'imputata e, ben potendosi configurare l'utilità del reato di corruzione anche attraverso la mera promessa accettata dal pubblico ufficiale corrotto di una determinata utilità - come difatti è avvenuto nel caso di specie -, è del tutto irrilevante, ai presenti fini, la circostanza meramente dedotta a fini difensivi, che la sedia ordinata sia stata successivamente destinata alla moglie del Provenzano.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. La Saguto, la prefetta di Palermo e il nipote dell’amico che cerca lavoro. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 24 dicembre 2021.

Ammesso dalla stessa Saguto, il Prefetto Francesca Cannizzo le aveva segnalato Richard Scammacca, nipote del suo amico Stefano. Richard, già assunto nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria, non aveva ricevuto lo stipendio in modo regolare. Allora la Cannizzo aveva chiesto all'amica Saguto un nuovo e più remunerativo impiego per lo Scammacca e, stavolta, aveva pure concordato con la Saguto la misura della retribuzione

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Il materiale probatorio acquisito in dibattimento, avuto riguardo soprattutto alle conversazioni captate, nonché all'esame testimoniale di Scimeca, consente di giungere ad una sicura ricostruzione dei fatti di cui al capo di imputazione in esame. Segnatamente, sono gli esiti delle conversazioni intercettate e la testimonianza di Alessandro Scimeca a chiarire come siano veramente andate le vicende che qui interessano.

È pacifico in giudizio, in quanto ammesso dalla stessa Saguto, che la Cannizzo le aveva segnalato, per una sistemazione lavorativa, Richard Scammacca, nipote del suo amico Stefano Scammacca.

Richard Scammacca era già stato assunto nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria (presso il Ristorante Parco dei Principi), ma tale amministrazione era in chiusura e, peraltro, lo Scammacca non aveva ricevuto lo stipendio in modo regolare. Allora la Cannizzo aveva chiesto all'amica Saguto un nuovo e più remunerativo impiego per lo Scammacca e, stavolta, aveva pure concordato con la Saguto la misura della retribuzione (2500 euro mensili).

La Saguto si era mostrata subito disponibile alla richiesta e ciò conferma ancora una volta l'uso distorto dell'ufficio da parte del magistrato, che si adopera, utilizzando la sua posizione di Presidente della Sezione Misure di Prevenzione, per trovare una collocazione lavorativa nell'ambito delle Amministrazioni Giudiziarie alle persone che le interessano, senza verificare la effettiva necessità di nuove assunzioni funzionali al buon andamento della gestione delle amministrazioni giudiziarie, e senza verificare la tipologia di mansioni necessarie o la disponibilità finanziaria dell'azienda in sequestro per attribuire una certa misura di retribuzione. Si comprende chiaramente, grazie agli esiti delle intercettazioni, quali fossero gli accordi tra la Saguto e la Cannizzo.

Da un lato, la Cannizzo, evidentemente legata da rapporti di amicizia con Stefano Scammacca, aveva interesse ad una sistemazione lavorativa di Richard Scammacca con una retribuzione elevata, dall'altro la Saguto, approfittando della conoscenza di Stefano Scamacca da parte della Cannizzo, voleva "avvicinare" Giuseppe Barone, consigliere del Cga, perché interessata alla definizione della causa di appello riguardante la parcella milionaria di Cappellano Seminara (da lei liquidata) e ciò, oltre che per favorire Cappellano Seminara, anche e soprattutto per il suo interesse personale, legato alla dazione dei soldi promessi da Cappellano Seminara dopo la riscossione della parcella.

Nell'intenzione della Saguto, quindi, assicurando una buona posizione lavorativa a Richard Scammacca prima della cena del 16 giugno, Stefano Scammacca avrebbe poi, per gratitudine, potuto intercedere con Giuseppe Barone per l'esito della controversia, che così tanta importanza aveva per Cappellano Seminata e, indirettamente, anche per la situazione finanziaria della famiglia Saguto/Caramma, che in quel momento era in crisi di liquidità.

L'obiettivo della Saguto - che, si ribadisce, è quello di ben disporre Stefano Scammacca, amico di lunga data del consigliere del Consiglio Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, Giuseppe Barone - è ben conosciuto e condiviso dalla Cannizzo, come dimostrato inequivocabilmente dalle conversazioni telefoniche sopra nel dettaglio riportate.

Ulteriore conferma di quale fosse stata la finalità della cena a palazzo Brunaccini si ricava dalla intercettazione del 26 giugno 2015, durante la quale Cappellano Seminara informava la Saguto di avere perso la causa al Cga e la Saguto chiedeva se era la causa che "doveva decidere quel tizio", (ovvero Giuseppe Barone), Nella stessa telefonata, la Saguto, evidentemente preoccupata per il fatto che Cappellano non avrebbe ricevuto a breve i soldi di quella parcella, raccomandava allo stesso di vedersi "comunque" rispondeva "gli do i documenti" con suo marito Lorenzo e Cappellano.

Da questa conversazione si evince chiaramente, tenuto conto di quanto già scritto nei capitoli precedenti in ordine all'esistenza di un patto corruttivo tra i due, come la Saguto avesse ottenuto la promessa di una dazione di denaro da Cappellano Seminara e come tale dazione, che poi risulta essere avvenuta il 30 giugno 2015, fosse in qualche modo connessa al recupero degli onorari della parcella milionaria Sansone da parte del Cappellano.

Tanto è corretta questa conclusione che, qualche giorno dopo la sentenza di rigetto del CGA, la Saguto diceva ad Elio, il quale aveva urgente bisogno di denaro, di "non contare su soldi immediati" perché «non gliel'hanno accolta la cosa a Cappellano sai? ... a proposito di soldi tanti».

Elio si dimostrava anche lui interessato all'esito della causa riguardante Cappellano Seminara e il dato, di per sé alquanto strano, si spiega invece facilmente nella misura in cui anche Elio era perfettamente a conoscenza che i soldi alla famiglia Saguto Caramma arrivavano da Cappellano Seminara; Elio chiedeva, quindi, a sua madre spiegazioni su come mai la controversia fosse finita in quel modo e la Saguto spiegava a suo figlio che Cappellano «deve ricominciare la causa e che l'udienza è fissata nel 2016».

UNA CENA MOLTO IMPORTANTE

Gli elementi probatori fin qui riportati smentiscono del tutto la tesi difensiva della Saguto, come anche quella della Cannizzo. È fin troppo evidente, dopo la lettura delle conversazioni intercettate, che le cose sono affatto andate come riferito dalla Saguto, la quale, in coerenza con la sua linea difensiva ed al fine di celare la sua condotta illecita, ha dichiarato di avere cercato di fare assumere Richard Scammacca solo perché vi era effettivo bisogno di una nuova figura professionale all'Abbazia Santa Anastasia e di avere, quindi, proposto lo Scammacca solo perché era una persona per bene e di fiducia, segnalatale dalla Cannizzo.

Contraddette dalle emergenze probatorie sono anche le dichiarazioni rese dall'imputata Cannizzo nella parte in cui la stessa ha affermato di non avere alcun interesse personale all'assunzione, ma di essersi limitata ad indicare Richard Scammacca alla Saguto, solo perché la stessa le aveva chiesto un nominativo di una persona da assumere e perché lei a Palermo conosceva unicamente lo Scammacca quale persona da poter segnalare.

Anche sulla vicenda relativa all'organizzazione della cena del 16 giugno 2015 le affermazioni della Cannizzo non collimano con le risultanze delle intercettazioni, atteso che la Cannizzo sostiene di essersi limitata a scegliere Palazzo Brunaccini perché era un locale che aveva buone referenze, quando invece la stessa Cannizzo è stata intercettata mentre propone alla Saguto: «Se tu fossi d'accordo, se tu pensi, potremmo andare a Palazzo Brunaccini, dove eventualmente - come dire? - un saluto ... , passa, ci si saluta, la cosa si chiude li».

E' evidente, quindi, che la scelta, da parte della Cannizzo, del Palazzo Brunaccini di Cappellano Seminara è avvenuta non certo perché fosse un ristorante "frequentabile" di Palermo, ma perché invece l'incontro aveva come obiettivo proprio quello di ottenere informazioni da Giuseppe Barone e, se possibile, anche un "aiuto" dallo stesso, a proposito della controversia di appello pendente al CGA relativa alla milionaria parcella di Cappellano Seminara, E tanto la Cannizzo è a piena conoscenza di questo obiettivo che è lei stessa (e non la Saguto) a suggerire a Cappellano Seminata di limitarsi a passare per un saluto, dato che la sua presenza per tutta la cena avrebbe potuto "mettere in imbarazzo qualcuno".

Contraddittorie sono pure le dichiarazioni rese dai testimoni Giuseppe Barone e Stefano Scammacca, i quali hanno riferito sulla cena a Palazzo Brunaccini circostanze non corrispondenti al vero. Stefano Scammacca, a proposito della sua conoscenza con la Saguto, ha anzitutto falsamente dichiarato (evidentemente per non avvalorare la tesi di accusa sulla raccomandazione lavorativa) di averla incontrata solo a Palermo, presso la residenza del Prefetto Cannizzo e due volte a cena, mentre invece i due si erano già conosciuti a Catania.

È infatti emerso dalla testimonianza di Achille De Martino che il 4 luglio 2014 la Saguto aveva già incontrato a Catania Stefano Scammacca, il quale in quell'occasione la aveva accompagnata presso lo studio medico di un ortopedico; poi avevano pranzato insieme, unitamente a tale Maurizio Cassarino. Nel mese di settembre 2014, inoltre, come riferito dal teste Di Martino, Stefano Scammacca si era recato presso l'ufficio della Saguto insieme a tale Maurizio Cassarino ed a Richard Scammacca (circostanza quest'ultima totalmente pretermessa dal teste Scammacca).

Lo Scammacca ha poi riferito di essere stato lui il promotore dell'iniziativa della cena e di avere solo demandato alla Cannizzo la scelta del ristorante, quando, invece, il teste Barone ha affermato che l'iniziativa della cena proveniva direttamente dal Prefetto Cannizzo, tesi questa da considerare molto più verosimile alla luce di quanto sin qui riportato in ordine alla finalità perseguita dalla Saguto e dalla Cannizzo nell'organizzare quest'incontro e ciò senza dire che il tenore delle conversazioni intercettate è chiaro nel dimostrare che sia stata effettivamente la Cannizzo a prendersi cura dell'organizzazione della cena.

In ordine alla testimonianza resa da Barone Giuseppe, consigliere del CGA Sicilia giova fare una premessa. Il PM ha prodotto all'udienza del 16.05.2018 copia della sentenza del Consiglio di Giustizia amministrativa del 23 giugno 2015, presa in decisione all'udienza del 18 marzo 2015 dal Collegio presieduto da Raffaele Maria De Lipsis e di cui faceva parte, quale consigliere, Giuseppe Barone. Trattasi proprio dell'appello proposto dal Ministero della Giustizia nei confronti di Gaetano Cappellano Seminara per la riforma della sentenza del Tar Palermo n.01874/2014, concernente la chiesta ottemperanza al decreto del Tribunale di Palermo sezione misure di prevenzione di liquidazione del compenso finale di €5.100.000,00 per l'attività di amministratore giudiziario di beni nel sequestro Sansone.

Con la sentenza di primo grado il TAR aveva accolto il ricorso di Cappellano Seminara per ottenere l'ottemperanza al predetto decreto di liquidazione. Il Cga, con la suddetta sentenza, ha invece accolto l'appello del Ministero della Giustizia, dichiarando l'inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio non avendo il decreto in ottemperanza il carattere della definitività, che è il presupposto per l'azione di ottemperanza.

Orbene, la sentenza in questione è quella di cui si parla nella cena a Palazzo Brunaccini. Al riguardo, sono almeno due le circostanze non rispondenti al vero riferite da Barone Giuseppe. Inizialmente il teste Barone ha affermato che quella sera a cena non aveva saputo quale fosse l'oggetto della controversi,1 di cui gli aveva parlato la Saguto, chiedendogli se poteva controllare lo stato della causa.

Addirittura il teste Barone, in maniera veramente risibile, ha affermato che non sapeva chi fosse quella "signora" seduta a cena con lui, come se si potesse credere, date le circostanze, che Barone non fosse stato informato dall'amico Scammacca che quella sera, insieme al Prefetto di Palermo, sarebbe stata presente uno dei magistrati in quel momento più noto di Palermo e come se si potesse dubitare che tutte le quattro persone sedute quella sera al tavolo dell'Hotel Brunaccini sapessero perfettamente quale era lo scopo di quell'incontro. Il teste Barone ha spiegato che aveva dato la sua disponibilità alla Saguto solo per ragioni di cortesia, dato che in effetti lo stato delle pubblicazioni delle sentenze si poteva controllare anche sul sito internet.

Poi ha aggiunto che comunque la richiesta gli era sembrata strana, dato che il Prefetto avrebbe potuto chiedere direttamente all'Avvocatura dello Stato: […]. Quindi, il teste Barone si è contraddetto clamorosamente, perché se era a conoscenza che l'appellante nella controversia della quale si stava discutendo era il Ministero, allora non è vero, come da lui precedentemente affermato, che durante la cena non sapeva quale fosse l'oggetto della causa. Da ciò può desumersi, quindi, che la Saguto non ha dato al Barone solo il numero del procedimento, ma che sicuramente gli ha anche spiegato chi fossero le parti e quale fosse l'oggetto del contenzioso.

Altrettanto non verosimile è la deposizione del teste Barone allorquando ha affermato che durante la cena aveva avuto la sensazione che la Saguto e la Cannizzo volevano che egli influenzasse la decisione della sentenza, ma che comprendeva le ragioni, considerato che sì stava discutendo di una decisione già assunta e di un mero ritardo nella pubblicazione.

Nel processo amministrativo, invero, la sentenza può essere conosciuta dalle parti solo alla data di pubblicazione delle motivazioni della sentenza. Solo nei c.d. riti abbreviati (ma non è il caso in esame) previsti dall'art.119 del codice amministrativo può aversi la previa pubblicazione del dispositivo in forza dell'art.199 quinto comma [...]. La dichiarazione della parte è attestata nel verbale d'udienza.

Nel caso di specie, dunque, non può dirsi che la causa riguardante Cappellano Seminara fosse già decisa alla data della cena del 16 giugno 2015 (come falsamente affermato dal Barone), ove si consideri che la causa è andata in decisione (ossia è stata presa in riserva) il 18 marzo 2015 e le motivazioni sono state depositate il 23 giugno 2015 (quindi solo dopo la cena del 16 giugno) e non è dato sapere quando si è svolta la relativa camera di consiglio. Neppure può ritenersi esatta l'affermazione del Barone, secondo cui l'esito della sentenza poteva essere conosciuto consultando il sito del CGA, in quanto ciò vale solo per le sentenze le cui motivazioni sono già state depositate e, come già detto, non era questo il caso della sentenza che riguardava Cappellano Seminara.

Spiegata la rilevanza, decisiva ai fini della comprensione dei fatti di reato contestati nel capo di imputazione in esame, della cena a Palazzo Brunaccini e tornando a parlare più specificamente della assunzione di Richard Scammacca, è emerso che la Saguto inizialmente aveva chiesto a Cappellano Seminara di assumerlo in un'amministrazione giudiziaria. Tuttavia, come chiaramente evincibile dall'attività Scammacca nei vari colloqui di lavoro sostenuti si era dimostrato del tutto inadeguato a svolgere un impiego lavorativo di un certo rilievo, quale quello di direttore di albergo, per di più con una retribuzione mensile di €3500,00.

IL FIGLIO DELL’AMICO DEL PREFETTO

Ed allora Cappellano Seminara, che di certo non può dirsi che si trovasse in una posizione di soggezione nei confronti della Saguto, aveva rifiutato di assumere lo Scammacca presso una delle sue amministrazioni giudiziarie (e ciò può desumersi abbia fatto non certo perché non avesse la possibilità di piazzarlo presso una delle sue amministrazioni giudiziarie, ma piuttosto per evitare ogni possibile connessione diretta con il suo interesse finale, che riguardava la controversia pendente innanzi al CGA). Cappellano Seminara era parecchio interessato alla vicenda, per le ragioni che si sono spiegate, e aveva dunque continuato il prodigarsi per l'assunzione di Richard Scammacca, ne aveva parlato a più riprese con la Saguto, anche nel suo ufficio, aveva chiamato Gobetti, coadiutore di Scimeca nella misura Lena, e chiesto spiegazioni circa l'offerta, ritenuta insoddisfacente, di €1500,00 al mese a Scammacca.

A quel punto la Saguto, su suggerimento dello stesso Cappellano, aveva chiesto a Scimeca di assumere Scammacca per l'Abbazia di S.Anastasia, dove sapeva mancare una figura professionale di direttore di albergo. Più precisamente, come emerge dalla testimonianza di Scimeca, della cui attendibilità non vi è motivo di dubitare, la Saguto aveva segnalato Richard Scammacca a Scimeca quale ''fìglioccio del prefetto Cannizzo".

Inizialmente la Saguto gli aveva posto la richiesta solo in termini possibilistici. Tuttavia, i colloqui di lavoro sostenuti dallo Scammacca (dapprima con Di Mariano e poi direttamente con Scimeca) non erano andati per niente bene e non si era provveduto all'assunzione. Indi, la Saguto era divenuta "via via più insistente" ed un giorno, il 12 giugno 2015, aveva convocato a casa sua Scimeca per dirgli, con toni bruschi e decisi, che "dovevano assumerlo".

L'intenzione della Saguto con riferimento all'assunzione dello Scamacca è emersa testualmente dalla conversazione intercettata del 12 giugno 2015 alle ore 11.36, già sopra nel dettaglio riportata ed il cui contenuto è qui opportuno richiamare. Alle affermazioni di Cappellano su Scimeca, "Alessandro sempre quella testa ha avuto" e che "se ci deve far fare mala figura, è preferibile non fare niente", la Saguto rispondeva, in maniera netta, di non volere lasciare "chance" a qualcuno (che, evidentemente deve intendersi essere lo Scimeca) dato che era "una cosa" (l'assunzione di Scammacca con lo stipendio voluto) che non avrebbe inciso eccessivamente sull'economia generale (della misura di prevenzione). Subito dopo questa telefonata, sempre il 12 giugno 2015 (che è la data del commesso reato nel capo di imputazione) la Saguto chiamava Scimeca, convocandolo presso la sua abitazione in via ********, e ribadendogli che "doveva prendersi il figlioccio del Prefetto". Ciò si desume dal fatto che lo stesso 12 giugno 2015 alle ore 14,02 la Saguto chiamava ancora Cappellano e lo informava di avere parlato con Scimeca, il quale, dice la Saguto, «farà quello che chiedeva il Prefetto».

Evidentemente i due si riferiscono sempre all'assunzione di Richard Scammacca. Poi, alle ore 14.46 del 12.06.2015 la Cannizzo chiamava la Saguto e le chiedeva scusa per non avere potuto rispondere alla sua precedente chiamata, la Saguto le diceva (e sicuramente la aveva chiamata per dirle questo) che "con Scimeca abbiamo risolto", evidentemente riferendosi all'assunzione di Scammacca. Aggiungeva ''poi ti conto meglio" e poi diceva "così deve essere.

È stato così stabilito .. E così fu" e la Cannizzo rispondeva "e così fu". La Saguto, come riferito dallo Scimeca, aveva avanzato la sua richiesta con un tono molto deciso: "I toni della dottoressa Saguto erano sempre molto decisi, ti lasciava... non ti lasciava molto spazio per dire no. Quindi questa era una richiesta che, siccome interessava al Prefetto, doveva essere... doveva essere fatta".

Tuttavia, lo Scimeca, nel corso della sua deposizione e rispondendo a domanda specifica del Tribunale, ha dichiarato di non avere mai preso impegni con la Saguto circa l'assunzione dello Scammacca, ma di essere stato sempre evasivo nelle risposte: ''Cioè, io non ho mai dello: "Sì". Non sono mai uscito o da casa o dalla stanza della dottoressa Saguto o in una telefonata della dottoressa Saguto, non si è mai conclusa con me: «Sì, te l'assumo». È: «Sì, va be'! Ora vediamo», ma le ho detto pure: «Guarda, da Abbazia non può essere ... Vediamo che cosa si può fare». Infine, Scimeca non ha escluso di essersi impegnato a collocare Scammacca diversamente «Si, posso averle sicuramente detto: «Va bene Vediamo se c'è qualche altra amministrazione dove si può piazzare», ma sempre al solito: compatibilmente con le sue capacità professionali e compatibilmente con le sue richieste economiche», ma poi il 27 agosto 2015 era riuscito a chiudere l'argomento: «No, no. Basta!», la cosa poi finì lì. Poi iniziò la summer school e poi non ci siamo visti più».

Quest'ultima circostanza ha trovato preciso riscontro nella intercettazione ambientale del 28 agosto 2015 nella stanza della dott.ssa Saguto, il cui testo integrale è già stato riportato nelle pagine precedenti. La Saguto insisteva nel chiedere a Scimeca "il favore" di assumere "quello" per il Prefetto e Scimeca rispondeva che lo Scammacca era totalmente inadeguato per quel ruolo e che di questo si sarebbero accorti tutti (in questo senso deve intendersi l'affermazione "ma non ci facciamo sparare perché sparano").

La Saguto, tuttavia, insisteva con pervicacia «a me non me ne frega niente, è il Prefetto!!», e Scimeca provava a reagire "io al Prefetto l'aiuto pure ma non con quella mansione e non con quella qualifica ...", "posiamo trovargli una cosa più modesta ... molto più modesta".

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LO SCANDALO DEI BENI CONFISCATI. Storia di una tabaccheria, 40 mila euro spariti e nessuno denuncia. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 25 dicembre 2021.

La tabaccheria di Sferracavallo viene messa sotto sequestro. È intestata a Rizzo Paola, sospettata di essere prestanome dei Lo Piccolo. L’amministratore giudiziario Antonino Galatolo cerca collaboratori per gestirla. Si rivolge a Tea Morvillo, cancelliere al Tribunale di Palermo e amica della Saguto.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla vicenda di Silvana Saguto, la giudice del Tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati alla mafia finita al centro di un’indagine partita nel 2015 dalla procura di Caltanissetta. Nella condanna di primo grado i magistrati hanno accertato scambi di favori e di soldi tra la Saguto, avvocati e amministratori giudiziari.

Silvana Saguto è accusata al capo 68 del delitto di cui all'art. 378, co. 1 - 61, n. 9 cp, perché, dopo che Antonino Galatolo, amministratore giudiziario della procedura 9/2014 RMP Lo Piccolo, le aveva denunciato che nella cassa della rivendita tabacchi Rizzo Paola, parte del compendio in sequestro Lo Piccolo, erano stati riscontrati ammanchi per circa 26.000 euro e, quindi, fatti di peculato o di appropriazione indebita, la cui responsabilità poteva essere riferita al coadiutore addetto all'amministrazione giudiziaria, Sandro Morvillo, o ai dipendenti Andrea Ceresia, Maria Teresi e Salvatore Patti, non soltanto evitava di dar seguito alla denuncia, ma si attivava affinchè Sandro Morvillo e Andrea Ceresia - rispettivamente fratello e figlio della sua amica Dorotea Morvillo, cancelliera presso il Tribunale di Palermo - si dimettessero volontariamente dall'ufficio ricoperto, al fine di poterli poi ricollocare, senza alcuna conseguenza pregiudizievole, 111 una diversa amministrazione, in questo modo prestando loro aiuto ad eludere le investigazioni dcli' Autorità giudiziaria che, anzi, Silvana Saguto si proponeva di impedire.

Con l'aggravante di avere agito in violazione dei propri doveri funzionali di pubblico ufficiale, in quanto Presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che aveva disposto il sequestro con provvedimento depositato il 4 settembre 2014 e Giudice delegato della procedura. Fatto commesso in Palermo, dal 27 luglio 2015 al 31 agosto 2015.

I fatti, così come contestati, hanno trovato puntuale riscontro nelle risultanze dibattimentali. In particolare, la chiarezza dei dialoghi captati nella stanza della dott.ssa Saguto non consente di dubitare circa la sussistenza dei fatti come contestati al capo di imputazione 68. Galatolo Antonino è stato nominato dal Tribunale di Palermo amministratore giudiziario nella procedura di prevenzione 9/2014 R.M.P. Lo Piccolo (cfr. decreto di sequestro del 19 luglio/4 settembre 2014 del Tribunale di Palermo, Presidente e giudice delegato dott.ssa Suguto, allegato I alla produzione del Pm del I O. I 0.2018).

Il sequestro aveva ad oggetto fondamentalmente una tabaccheria con sede in Sferracavallo, intestata a Rizzo Paola, sospettitta di essere prestanome di Lo Piccolo Giovanni Salvatore, detenuto al 41 bis e figlio di Lo Piccolo Salvatore, capo mafia di Resuttana; la tabaccheria. aveva un giro di affari molto alto, pari a circa 38.000 euro a settimana durante il periodo estivo, m cui il paese di Sferracavallo è frequentato da molti turisti.

L'immissione in possesso è avvenuta 1'11 settembre 2014.

LA TABACCHERRIA A SFERRACAVALLO

Il teste Galatolo è stato sentito all'udienza del 10.10.2018 e della sua attendibilità non si può dubitare, soprattutto considerato che le sue dichiarazioni hanno trovato specifica conferma negli esiti delle conversazioni ambientali captate presso l'ufficio della dott.ssa Saguto.

Ha riferito il teste Galatolo che, dopo l'immissione in possesso, si era subito reso conto che aveva bisogno di personale, soprattutto per occuparsi della cassa della tabaccheria. Su autorizzazione del Tribunale di Palermo, aveva chiamato tale Patti Salvatore, che aveva in precedenza svolto il lavoro di cassiere nella misura di prevenzione Di Salvo e Arena.

Poi si era rivolto a suo cugino acquisito, Fabio Antonucci, da oltre 25 anni in Polizia nonché autista del Prefetto e questi gli aveva consigliato una sua lontana cugina, Teresi Maria, che pure aveva già lavorato nella misura Di Salvo.

Avendo ancora bisogno di personale, dato che la tabaccheria lavorava dal lunedì alla domenica dal mattino fino alle 22,00, si era poi rivolto alla dott.ssa Tea Morvillo, cancelliere del Tribunale di Palermo (e tra l'altro parente del Procuratore di Termini Imerese Alfredo Morvillo), che conosceva già dal 1994 e con la quale, peraltro, aveva lavorato dal 2006 al 2014, allorquando lui aveva svolto le funzioni di giudice di pace a Monreale e la Morvillo era stata assegnata a detto ufficio come cancelliere, ed insieme alla quale aveva pure fatto il corso D.E.M.S.

La Morvillo gli aveva dato la disponibilità del figlio, Andrea Ceresia, che aveva da poco finito la scuola superiore, e, pertanto, Galatolo aveva iniziato la gestione della tabaccheria con l'ausilio di tre soggetti: Patti, Teresi e Ceresia. Subito dopo si era reso conto che serviva un'altra persona e, sempre su consiglio della Morvillo, aveva inserito nell'amministrazione anche il di lei fratello Sandro Morvillo, che era titolare di un'impresa edile che non era più attiva. Tutti erano stati inseriti inizialmente come coadiutori, poi erano stati trasformati in lavoratori dipendenti ad eccezione del Morvillo, che era rimasto coadiutore. Aveva assegnato l'incarico di commercialista a Talluto Antonio, che lavorava presso lo studio Dara, nei riguardi del quale Galatolo aveva molta fiducia.

In ordine alla situazione finanziaria della tabaccheria, Galatolo ha riferito che, secondo la sua impressione, Rizzo Paola, avendo intuito l'imminente sequestro, aveva fatto in modo di non fare trovare soldi; il giorno dell'immissione in possesso, anche a seguito dell'addebito dell'importo dovuto per l'ultimo acquisto di sigarette, il conto aveva un saldo negativo di €15.000,00.

Nel mese di marzo 2015 poi, Galatolo si era reso conto di avere bisogno di un altro collaboratore e si era nuovamente rivolto al cugino Antonucci, il quale, probabilmente su suggerimento dello stesso Prefetto Cannizzo, gli aveva indicato Massimo Lo Iacono, che era il marito della donna che faceva le pulizie a casa del Prefetto e che era rimasto senza lavoro.

Il Lo Iacono veniva quindi inserito nell'amministrazione giudiziaria e nei primi giorni di maggio aveva informato telefonicamente Galatolo di un fatto che si era verificato in tabaccheria: lui stesso aveva ritrovato una banconota di 50 euro in uno scaffale sotto una stecca di sigarette. Galatolo si era stupito di questo ritrovamento, ritenendo non giustificata la presenza di quella banconota.

Lo Iacono aveva poi raccontalo a Galatolo altre anomalie di gestione: Sandro Morvillo e Andrea Ceresia utilizzavano per i pagamenti della tabaccheria alcune carte postepay, a loro intestate, che ricaricavano utilizzando il sistema della tabaccheria con gli stessi soldi della cassa, rimettendo poi i soldi in cassa dopo che le sigarette venivano vendute; vi erano anche dei fuori cassa, ossia più soldi in cassa rispetto a quelli che dovevano essere presenti in relazione alla merce venduta; inoltre, le sigarette da vendere venivano comprate direttamente da altre tabaccherie (e così venivano persi gli aggi).

Galatolo aveva raccontato a Morvillo di avere lui stesso ritrovato la banconota da 50 euro, ma Morvillo aveva replicato che non era vero e che era stato invece Lo lacono a ritrovarla, come testimoniato dalle telecamere che quel giorno non avevano ripreso la presenza di Galatolo in tabaccheria. Galatolo, quindi, era preoccupato per l'andamento della tabaccheria e, dopo avere, su autorizzazione del Tribunale, cambiato il commercialista con revoca dell'incarico a Talluto e nomina di Fabrizio Guarino, aveva conferito il 27 maggio 2015 a quest'ultimo il compito di fare una revisione contabile per tutto il periodo del sequestro (dalla data di immissione del settembre 2014 ali' 11 giugno 2015).

Dopo avere appreso dal commercialista Guarino dei primi dati allarmanti, Galatolo aveva deciso di estromettere Morvillo dalla gestione e di nominare responsabile il Lo Iacono, facendosi peraltro restituire da Morvillo la carta con cui faceva i versamenti e revocandogli la delega in banca.

Ciò aveva creato dei forti malumori sia contro Galatolo che contro il Lo Iacono, cui gli a.Itri dipendenti facevano fare sempre i turni più pesanti. Ceresia si era recato con sua madre Tea Morvillo allo studio del Galatolo per lamentarsi della gestione, accusando il Galatolo di avere una predilezione per il Lo Iacono. Per rispondere alle lamentele degli altri dipendenti, che volevano l'allontanamento del Lo Iacono, Galatolo aveva fatto presente, pur non essendo vero, che aveva ricevuto pressioni dalla Prefettura per mantenerlo in servizio.

Ha poi riferito il teste Galatolo che il Lo Iacono il 21 giugno 2015 aveva subito una brutta rapina dopo la chiusura della tabaccheria e che lo stesso Lo Iacono gli aveva riferito che una sera aveva rischiato con la sua macchina, perché una ruota si era quasi staccata e sospettava che qualcuno l'avesse allentata. La situazione era in quel momento molto tesa, cominciavano ad arrivare i primi risultati della revisione contabile c cominciavano a vedersi i primi ammanchi.

L’AMMANCO IN TABACCHERIA

A fine luglio 2015, il commercialista Guarino aveva completato la sua relazione ed era risultato un ammanco di 40 mila euro in nove mesi di gestione. A quel punto, Galatolo aveva chiamato la dott.ssa Saguto e le aveva chiesto di volerla incontrare riservatamente, dovendole parlare del figlio e del fratello della dott.ssa Morvillo e temendo di potere incontrare quest'ultima in Tribunale.

La Saguto lo aveva invece invitato a recarsi quella stessa mattina nel suo ufficio; Galatolo si era presentato ed aveva informato la Saguto che, secondo la relazione contabile che gli stavano consegnando, vi era un ammanco di 40 mila euro, ed aveva esposto il problema nei termini seguenti: «... la informo che sono diciamo ... perché io non ho ... io non ho contezza ... cioè, c'è l'ammanco, ma non ho contezza se questi soldi sono stati sottratti da Patti, piuttosto che da Teresi, cioè, io non so chi, o da tutti, non lo so, però dico c'è l'ammanco, è un dato oggettivo, ... » Galatolo aveva aggiunto di essere mortificato per l'accaduto e di essere pronto a dimettersi, ma la Saguto aveva risposto che non c'era sua responsabilità, ma dei soggetti che lavoravano alla cassa'',[...] ed aveva aggiunto che se la cosa veniva confermata, i soggetti responsabili andavano spostati ad altra misura, dove non vi era maneggio di denaro […].

L'epilogo della vicenda della tabaccheria dell'amministrazione Lo Piccolo è pure significativo perché, in presenza del rischio di licenziamento di Sandro Morvillo e Andrea Ceresia, la Saguto proponeva a Tea Morvillo di attendere il rientro di Carmelo Provenzano, il 25 agosto, in vista di un inserimento del figlio e del fratello nell'amministrazione Virga. Il dialogo tra la Saguto e la Morvillo rivela la natura dei rapporti, già ampiamente scandagliati nelle pagine precedenti, tra Silvana Saguto e Carmelo Provenzano e dimostra l'esistenza di una gestione clientelare così rodata tra i due che la Saguto poteva permettersi di promettere incarichi senza nemmeno essersi prima consultata con Provenzano.

Ancora nel corso della sua deposizione il teste Galatolo ha riferito che, con provvedimento del 27 agosto 2015 apposto in calce alla relazione del Galatolo datata 18 agosto 2015, la Saguto aveva statuito "non luogo a deliberare" sulla richiesta di licenziamento, avendo le persone in questione già rassegnato le loro dimissioni, ed aveva autorizzato la nomina dei nuovi soggetti. Di queste dimissioni il Galatolo non aveva saputo niente, essendo state presentate direttamente in cancelleria e, quando aveva chiesto spiegazioni alla Saguto, questa le aveva risposto che glielo aveva suggerito lei.

Galatolo aveva chiesto alla Saguto se era il caso di inviare gli atti in Procura, ma la Saguto aveva risposto che la sua doveva essere intesa quale relazione di parte e che, semmai, occorreva fare prima una perizia per appurare l'effettivo ammanco; aveva poi ribadito, con riferimento a Ceresia e Morvillo, la sua volontà di spostarli in altre misure di prevenzione. Galatolo, pur non essendo affatto convinto di tale risposta, si era tuttavia attenuto a quanto indicatogli dalla Saguto, in considerazione della carica di lei di Presidente della Sezione Misure di Prevenzione che aveva in materia una larga esperienza.

Ha poi precisato il teste che, a sua conoscenza, la perizia di cui aveva parlato la Saguto non era stata mai espletata. Infine, ha riferito che, dopo la sostituzione della Saguto con il Presidente Fontana nella sezione delle Misure di Prevenzione, aveva subito informato quest'ultimo della situazione cd il Presidente Fontana gli aveva risposto che doveva nominare il giudice delegato, ma che gli atti dovevano essere trasmessi immediatamente in Procura.

Era stato poi nominato quale giudice delegato il dottor Petrucci, il quale subito aveva dato disposizioni per inviare gli atti in Procura. Ha aggiunto poi che, dopo la sostituzione dei predetti collaboratori, la situazione finanziaria della tabaccheria era subito migliorata ed infatti, già in data 9 settembre 2015, il conto in banca era risalito di 15 mila euro.

A giudizio del teste, se egli avesse continuato con i vecchi dipendenti la tabaccheria avrebbe presto chiuso, mentre invece con la nuova gestione, al momento della restituzione al proposto della tabaccheria, si era realizzato un piccolo utile, essendo il saldo passato da meno quindicimila euro a meno dodicimila euro.

Con riguardo agli stipendi dei collaboratori, Galatolo ha riferito che restavano da pagare circa 10 mila curo a quelli sostituiti e che, nelle more dell'allontanamento, il Tribunale aveva disposto una parziale liquidazione per l'attività resa per l'immissione in possesso e la Saguto aveva disposto di procedere al pagamento.

Con provvedimento dell'8 giugno/27 settembre 2017 il Tribunale di Palermo (Presidente Malizia, relatore Petrucci) aveva approvato il conto di gestione dei beni sequestrati nel procedimento a Lo Piccolo presentato dall'A.G. Galatolo. In tale provvedimento si dava atto, tra l'altro, che l'avente diritto alla restituzione dei beni Rizzo Paola aveva lamentato «l'esistenza di un ammanco di cassa pari ad € 42.000,00 ed oltre in corso di quantificazione».

Il Tribunale prendeva atto che, alla luce delle relazioni depositate, l'ammanco di cassa era stato determinato dal fatto doloso dei collaboratori assunti dall' A.G. e concludeva quindi che, "non si tratta di una posta del conto di gestione che possa essere corretta e rispetto alla quale sussiste l'obbligo del rendiconto e dell'eventuale rimborso delle somme mancanti".

L’OMESSA DENUNCIA

[…] Ciò posto, è risultato provato in giudizio che Antonino Galatolo, amministratore giudiziario della procedura 9/2014 RMP Lo Piccolo, ha tempestivamente denunciato alla Saguto che nella cassa della rivendita tabacchi Rizzo Paola, parte del compendio in sequestro Lo Piccolo, erano stati riscontrati ammanchi per circa 26.000 euro e, quindi, fatti di peculato o di appropriazione indebita, la cui responsabilità poteva essere riferita al coadiutore addetto all'amministrazione della ditta Rizzo Paola, Sandro Morvillo, o ai dipendenti Andrea Ceresia, Maria Teresi e Salvatore Patti.

Appresa tale notizia, la Saguto, nella sua qualità di Presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che aveva disposto il sequestro e Giudice delegato della procedura, non soltanto ha evitato di dar seguito alla denuncia, ma si è anche attivata affinché Sandro Morvillo e Andrea Ceresia - rispettivamente fratello e figlio della sua amica Dorotea Morvillo, cancelliera presso il Tribunale di Palermo - si dimettessero volontariamente dall'ufficio ricoperto, al fine di poterli poi ricollocare, senza alcuna conseguenza pregiudizievole, in una diversa amministrazione.

Con questa condotta la Saguto, che, in quanto pubblico ufficiale, aveva l'obbligo giuridico di inoltrare la denuncia, ha agito in modo tale da prestare aiuto ai predetti soggetti ad eludere o quantomeno a ritardare le investigazioni dell'Autorità giudiziaria o addirittura ad impedirle del tutto.

[…] Sul piano materiale, certamente la omessa denuncia da parte della Saguto ha di fatto ostacolato, anche sotto il profilo probatorio, l'inizio delle indagini, poi avvenuto solo a seguito dell'invio degli atti in Procura da parte del giudice delegato subentrato alla Saguto, ma quando ormai non era più possibile espletare un'attività di indagine (si pensi ad una possibile attività tecnica di intercettazione ambientale), essendo stati sostituiti gli addetti alla tabaccheria sospettati dell'appropriazione di denaro. […] Sussistente è, infine, pure la contestata aggravante di avere agito in violazione dei propri doveri funzionali di pubblico ufficiale, per essere la Saguto Presidente della Sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che aveva disposto il sequestro con provvedimento depositato il 4 settembre 2014 e Giudice delegato della procedura.

A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA.

Sentenza Saguto, chi la fa l’aspetti: le condanne in soldoni. Salvo Vitale il 16 Novembre 2021 su telejato.it.

Tutte le sanzioni economiche comminate all’ex giudice Saguto e ai membri del suo cerchio magico

I giornali non hanno fatto molto caso alle sanzioni economiche comminate dal tribunale di Caltanissetta, in primo grado, a tutta la “banda Saguto”. Si tratta di somme stratosferiche, alle quali è seguito anche il sequestro dei beni e una provvisionale, concessa dal tribunale alle parti lese. La sentenza circostanzia le somme:

Al Ministero degli Interni:

Silvana Saguto, per vari capi d’imputazione, un totale di € 126.206

Cappellano Seminara, € 115.706

Nicola Santangelo, € 132.800

Lorenzo Caramma, € 108.556

Calogera Manta, € 58.000

Maria Ingrao, € 58.000

Carmelo Provenzano, € 15.000

Roberto Di Maria, € 1.800

Segue la condanna di Silvana Saguto, Gaetano Cappellano Seminara, Carmelo Provenzano, Lorenzo Caramma, Walter Virga, Roberto Nicola Santangelo, Francesca Cannizzo, Rosolino Nasca, Calogera Manta, Maria Ingrao e Roberto Di Maria al risarcimento dei danni patrimoniali, da liquidarsi in separata sede in relazione ai capi per i quali vi è la condanna penale, nei confronti delle parti civili, che sono il Ministero della giustizia, l’agenzia Nazionale per la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, le amministrazioni giudiziarie cava Buttitta, Acanto Giuseppe, Ingrassia Giuseppe, Vetrano Salvatore.

Inoltre Saguto, Provenzano e Santangelo liquideranno in separata sede i danni provocati alla Elgas, ad Anna Rita Pedone, a Francesco Raspanti, alla Rebuc srl, alla Motoroil: a costoro viene assegnata una provvisionale di 30 mila euro

Ancor più pesante il risarcimento dei danni patrimoniali, in separata sede:

in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri:

Silvana Saguto, € 500.000,

Gaetano Cappellano Seminara, € 400.000,

Carmelo Provenzano, € 250.000,

Lorenzo Caramma e Roberto Nicola Santangelo, 200.000 ciascuno;

Francesca Cannizzo e Rosolino Nasca, € 150.000 ciascuno;

Calogera Manta e Maria Ingrao, € 100.000 ciascuno;

Walter Virga e Roberto Di Maria, € 50.000 ciascuno;

in favore della Regione Siciliana, per i capi di imputazione per cui vi è condanna:

Silvana Saguto, € 50.000,

Gaetano Cappellano Seminara, € 40.000,

Carmelo Provenzano, € 25.000,

Lorenzo Caramma e Roberto Nìcola Santangelo, € 15.000 ciascuno;

Francesca Cannizzo e Rosolino Nasca, € 7.500 ciascuno;

Calogera Manta e Maria lngrao, € 5.000 ciascuno;

Walter Virga e Roberto Di Maria, € 2.500 ciascuno;

in favore del Comune di Palermo:

Silvana Saguto, € 30.000;

Gaetano Cappellano Seminara, € 20.000;

Carmelo Provenzano, € 15.000;

Lorenzo Caramma e Roberto Santangelo, € 10.000 ciascuno;

Francesca Cannizzo e Rosolino Nasca, € 7.500.00 ciascuno;

Calogera Manta e Maria lngrao, € 2.500,00 ciascuno;

Walter Virga e Roberto Di Maria, € 1.500,00 ciascuno;

in favore della Libera Università degli Studi di Enna Kore:

Silvana Saguto, € 30.000;

Carmelo Provenzano, € 30.000;

Emanuele Caramma, € 5.000;

– Silvana Saguto in favore di Rappa Filippo, di Rappa Gabriele, di Rappa Vincenzo Corrado, 25.000 euro ciascuno

Nella condanna è previsto il pagamento, da parte degli imputati, delle provvisionali e degli interessi compensativi a decorrere dalla data di consumazione dei singoli reati. La condanna si estende al risarcimento delle spese processuali sostenute dalle parti civili per 16.344 euro, oltre il rimborso forfettario per spese generali, al 15%: al Comune di Palermo vengono liquidati 6.810 euro, alle imprese del gruppo Rappa 17.706, più una serie di pagamenti di spese processuali di 6.810 alle altre parti civili.

Nella sentenza sono anche elencate queste confische:

Silvana Saguto: confisca dell’unità immobiliare sita a Palermo in via De Cosmi n. 37 per un valore di € 328.363, e di ulteriori beni nella sua disponibilità per un valore di € 495.262;

Cappellano Seminara: 7.850, più confisca dell’immobile di sua proprietà sito a Palermo in via Roma 411, per un valore di € 256.718, le quote sociali della società Legal Gest Consulting, con sede legale in via Mariano Stabile 43 e di ulteriori beni nella sua disponibilità per un valore complessivo di € 467.962;

Carmelo Provenzano e Maria Ingrao, confisca cc. € 11.800;

Roberto Nicola Santangelo confisca cc. € 66.000.

Facendo una sommaria addizione di tutte le somme la Saguto dovrebbe risarcire circa 1.340.000 euro, alle quali sono da aggiungere le spese processuali, e 333 mila euro il marito Lorenzo Caramma, per una stima complessiva di circa 2 milioni di euro; Cappellano Seminara riceve un danno complessivo di 1.308.000 euro, più le spese processuali, il prof. Provenzano dovrebbe sborsare 302 mila euro, alle quali si aggiungono le 165 mila della moglie Maria Ingrao, per un totale di 467 mila euro, oltre le spese processuali. Non meno pesanti i pagamenti da parte dell’amministratore Nicola Santangelo, che in questa vicenda risulta uno dei più penalizzati e che pagherà 291 mila euro, più le spese processuali, e quelli dell’ex prefetto Francesca Cannizzo, che si ferma a 165 mila euro.

Se fosse vero si potrebbe davvero dire che tutta questa gente, che si è divertita ad aggredire i patrimoni degli altri e sguazzarci dentro in nome dello stato, viene colpita al cuore nei propri interessi economici, così come aveva fatto con le sue vittime.

Pubblicato su antimafiaduemila.com

A Partinico si discute sulle misure di prevenzione e sulla gestione dei beni sequestrati. Redazione il 18 ottobre 2021 su telejato.it.

Presentato il libro di Salvo Vitale “In nome dell’antimafia”.

È stato un interessante sabato pomeriggio. La sala Gianì era piena di gente venuta ad assistere alla presentazione del libro di Salvo Vitale “In nome dell’antimafia” – Cronache da Telejato – misure di prevenzione e gestione dei beni sequestrati. Ha aperto gli interventi Pino Maniaci, che ha fatto da coordinatore, ripercorrendo il lungo cammino dell’inchiesta cui è dedicato il libro, cominciato nel 2013, con una serie di persone colpite dalle misure di prevenzione e con i beni sequestrati, che sentivano il bisogno di rendere note le ingiustizie di cui erano rimaste vittime. Tutti erano incappati nelle grinfie della Saguto, che non aveva esitato a sistemare all’interno delle aziende sequestrate i suoi amici amministratori giudiziari con le loro parentele. Da allora si era aperto uno squarcio nel blindato sistema giudiziario, amplificato, contemporaneamente dalle denunce alla Commissione Antimafia dell’ex prefetto Caruso, alla guida dell’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità mafiosa, recentemente scomparso. L’opera di Telejato, attraverso gli articoli dell’autore, è stata quella di aprire squarci nel sistema, di denunciare le storture causate sia dalla legge, sia dalla cattiva gestione che di essa si faceva. Tutto questo portava all’incriminazione e poi alla condanna di una parte dei personaggi del cerchio magico della Saguto, ma anche, per una sorta di effetto di ritorno, alle vicende giudiziarie di Pino Maniaci e di Salvo Vitale, che avevano il sapore di una rivalsa, quasi a dimostrare, come ebbe a dire il procuratore Teresi: “non abbiamo bisogno dell’antimafia di Pino Maniaci”.

L’avvocato Bartolomeo Parrino ha fatto una sintesi storica delle misure di prevenzione, a cominciare da quelle introdotte dal Fascismo contro i dissidenti politici, per fermarsi alla legge Rognoni La Torre, che aggrediva i patrimoni dei mafiosi, ma consentiva di mettere le mani anche sui beni di presunti mafiosi, la cui presunzione di colpevolezza era affidata all’arbitrio del magistrato. Parrino ha cercato anche di tracciare il confine che divide la verità processuale che è una ricostruzione giudiziaria dei fatti, alla verità storica e realtà e la differenza tra il procedimento penale e quello di prevenzione, per arrivare all’assurdo che chi è assolto penalmente, spesso si vede confiscare tutti i beni “preventivamente”.

L’avvocato Dell’Aira ha citato una serie di casi di cui si è occupato, per sostenere alla fine che, a suo parere le misure di prevenzione sono necessarie, ma hanno bisogno di una profonda revisione della legge: le ha paragonate al possesso di una pistola senza sicura. Singolare il caso dei Virga, di cui si parla nel libro, che avevano denunciato i loro estorsori, poi assolti, che avevano subito un centinaio di attentati ai propri mezzi di lavoro, che alla fine avevano avuto anche un risarcimento dello stato, chiesto dai magistrati Teresi e Agueci, e che un mese dopo si sono visti sequestrare tutti i loro beni, che, dopo anni di vicende giudiziarie, alla fine sono stati loro restituiti, ma privi di valore.

Non previsto in programma l’intervento di Pietro Cavallotti, che ha animatamente esposto le critiche a una legge che ha distrutto i beni della sua famiglia e le proposte presentate in Parlamento dall’associazione “Nessuno fermi Caino“, di cui fa parte, per una modifica della normativa vigente

Salvo Vitale ha concluso parlando della struttura del libro, che pone lo sguardo su un patrimonio di circa 50 miliardi, spesso destinato al disfacimento, sia per cattiva amministrazione, sia perché intercorre troppo tempo dal momento del sequestro alla confisca, all’assegnazione del bene ai comuni, alla sua destinazione finale e alla sua eventuale ristrutturazione, per la quale occorrono finanziamenti. Ha parlato poi dell’operato degli amministratori giudiziari, per i quali è più semplice mettere in liquidazione il bene affidato, che continuare a renderlo produttivo, ha evidenziato che costoro non dovrebbero essere pagati dall’azienda, ma dallo Stato e nominati non sulla fiducia, ma secondo una graduatoria. Ha citato poi alcuni dei cinquanta casi giudiziari di cui si occupa nel libro, cui sono stati restituiti i beni, unitamente, nei capitoli finali, alle vicende processuali di Maniaci, della Saguto e dei suoi complici, concludendo che la riforma della legge è una priorità, ma non viene ritenuta tale dal governo, e che la Sicilia, che ha il primo posto in Europa per numero di sequestri, si trova a dover fare i conti anche con le strozzature alla sua già debole economia, causate dalle discrasie, dagli arbitri, e dalle disfunzioni di questa legge.

La Commissione Regionale Antimafia alza il velo sui beni confiscati e subito c’è chi si ribella. Salvo Vitale il 2 marzo 2021 su telejato.it.

Beni sequestrati, confiscati, spolpati, liquidati in un’inchiesta della Commissione Regionale Antimafia

C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine il nodo è venuto al pettine. Per la verità a Telejato se ne sono occupati sin dal 2013, cioè già da otto anni, mettendo in vetrina la criminale gestione dei beni sequestrati fatta dall’ufficio misure di prevenzione di Palermo, allora in mano a Silvana Saguto e a tutto il suo cerchio magico fatto di magistrati, avvocati, commercialisti, cancellieri, generali, forze dell’ordine, politici, docenti universitari, medici, imprenditori e alte cariche dello stato. Ne è emerso un verminaio di affari camuffato da antimafia e consumato scientificamente sulla pelle di persone sospettate di contiguità con la mafia, ma non condannate, alle quali, proprio a causa di quel sospetto, era stato tolto tutto e affidato a vampiri che, in nome dello stato puntavano al fallimento e allo svuotamento di quanto loro affidato.

A pochi mesi dalle condanne che i giudici di Caltanissetta hanno comminato alla Saguto e a una parte dei suoi amici, il 16 febbraio 2021 la Commissione Regionale Antimafia, presieduta da Claudio Fava, ha depositato i risultati della sua inchiesta sui beni sequestrati e confiscati in Sicilia. Sei mesi di lavoro e una serie di audizioni qualificate. Così anche la politica, dopo anni di silenzi, di occultamenti, di colpevoli trascuranze, comincia a dare uno sguardo a un settore che alle sue spalle lascia una serie impressionante di macerie e di problematicità irrisolte, con il timbro di fallimento dello Stato. La relazione non entra in merito alle discrasie della legge, ma esamina, qualche volta in maniera radiografica, altre volte meno, le conseguenze prodotte dalla cattiva applicazione di questa legge, in particolare a causa dei mancati interventi, dei ritardi e delle scarse competenze, assieme alla mancanza di personale imputabili all’ANBSC, sia in sede nazionale che regionale. Giuseppe Di Natale, portavoce Forum del Terzo Settore della Sicilia, ha dichiarato che “i rapporti con l’Agenzia nazionale dei beni confiscati sono del tutto inesistenti, non fosse altro che, ogni volta che ci si rivolge agli uffici siciliani dell’Agenzia per richiedere un minimo di informazioni, rispondono sempre che hanno bisogno dell’autorizzazione dell’Agenzia nazionale”. L’ultima versione del Codice antimafia ha infatti previsto per la Sicilia due sedi, una a Reggio Calabria con riguardo alle province di Caltanissetta, Catania, Enna, Messina, Ragusa e Siracusa, l’altra a Palermo per le restanti province di Agrigento, Palermo e Trapani. “Una ripartizione – scrive la Commissione – che suggerisce più d’una perplessità, non da ultimo in un’ottica di economia organizzativa e tenuto conto del contesto criminologico siciliano. Elementi che, già da soli, avrebbero dovuto indurre ad una gestione unitaria”. Nella relazione si esaminano alcune norme disattese del nuovo Codice Antimafia, il ruolo dell’ANBSC, le cifre di sequestri e confische, le problematicità delle amministrazioni giudiziarie, con riguardo ai casi di Collovà e Lipani, i risvolti del caso Saguto, le ragioni dei fallimenti e le tormentate vicende dei sequestri Geotrans, Riela, Calcestruzzi Belice, Calcestruzzi ericina, La.Ra, San Paolo hotel e Sigonella. L’inchiesta si chiude con alcune proposte da avanzare per la legislazione regionale, riguardanti soprattutto i tempi del sequestro, le competenze di coloro cui sono affidati i beni e le “sinergie”, cioè un giro di collaborazioni che renda l’amministrazione del bene un affare che interessi tutta la collettività.

La relazione è stata positivamente accolta da tutti gli addetti ai lavori, eccetto che dal Rettore dell’università di Palermo Fabrizio Micari, dal prof Costantino Visconti e da tal prof. Schiavello. Micari si è lamentato del giudizio dato sugli amministratori giudiziari e ha rivendicato la bontà dei corsi di amministratore giudiziario fatti dall’ateneo palermitano ma ha dimostrato di non avere letto attentamente il testo, poiché i corsi cui “tal Cavallotti”, interpellato dalla Commissione, fa riferimento erano quelli organizzati dal clan Saguto presso l’Abbazia Sant’Anastasia. Visconti, che a questi corsi è stato relatore, non ha gradito invece che gli si ricordassero i suoi stretti rapporti con la Saguto e i suoi contatti con Montante. Il “tal Cavallotti” è un’espressione del prof. Schiavello, presidente della Commissione che ha laureato Pietro Cavallotti con una tesi proprio sulle criticità della legge che si occupa dei sequestri di prevenzione. E comunque Micari non ha tenuto conto o ignora i risultati degli amministratori giudiziari palermitani, che hanno prodotto una scia impressionante di fallimenti e il severo giudizio dato sul loro operato da eminenti studiosi e magistrati interpellati. Il rettore ha minacciato addirittura di sottoporre all’esame di un gruppo di studenti l’operato della Commissione, cioè vorrebbe indurre alcuni studenti a studiare la relazione e a individuare in essa non gli elementi positivi, ma i passaggi a suo parere critici: come avesse a sua disposizione dei burattini.

Fava ha replicato, in un’intervista a Live Sicilia del 28/02/2021: 

“Dell’intervento del rettore resta solo l’estremo sgarbo delle sue parole. In quelle di Visconti si riconoscono invece i tratti di una borghesia intellettuale furba e accidiosa. Per cui ‘avversario’ non è chi ha consentito in questi anni dai banchi dei governi il quotidiano tracimare di interessi privati nel condizionare la spesa pubblica, esempio tra tutti quello dei rifiuti; avversario è semmai una commissione Antimafia che questa vischiosità di interessi la analizza e la denunzia. Si resta in silenzio davanti al saccheggio perpetrato da certa politica e si alza la voce contro chi questo saccheggio prova a denunciarlo. Significativo”.

Continuando, Fava sostiene che “come per il sistema Montante, il sistema Saguto non era solo quello di una zarina con una corte di vassalli che usavano obbedir tacendo. Era un sistema di interessi reciproci. Piccoli e lucrosi ambiti di potere che si sono difesi e accompagnati a vicenda”… e conclude con un atto di autocritica:

“La mia generazione ha un peccato originale: avere preteso di affermare un crisma fideistico di infallibilità dei magistrati dopo la stagione delle stragi. Io e tanti altri, scossi emotivamente, abbiamo creduto di dover difendere sempre e comunque la magistratura. Sbagliato. È come se io dovessi difendere i giornalisti a prescindere, per il prezzo che taluni di loro hanno pagato. Il debito morale verso i magistrati uccisi noi lo abbiamo trasformato in una certezza di infallibilità per tutti. Generalizzando e assolvendo a prescindere, abbiamo reso un cattivo servizio ai molti magistrati che fanno un lavoro degno, faticoso e rischioso. Pensare che solo Palamara, o la Saguto come Montante, siano il male mentre gli altri avrebbero solo subito e taciuto: ecco, è molto comodo. Ma è falso”.

Fava, dopo avere criticato l’atteggiamento del “ma come ti permetti”, adottato da magistrati, giuristi e presunti esperti, ritiene necessario un ritorno alla normalità:

“Posiamo definitivamente quest’antimafia manettara, vittimista, lamentosa ed esibizionista. Per andare verso un’idea civile, utile, laica. Basta col circo mediatico che serve solo a portare in processione Sant’Agata e Santa Rosalia. Non ci servono santi né martiri. Alla mafia fa male la rigorosa normalità dei nostri gesti e delle nostre parole”.

Fin qui tutto bene. Nessuna parola invece sulla costituzionalità della legge sui sequestri, sulla cultura del sospetto, che li favorisce, sulla possibilità della confisca, anche in presenza di un’assoluzione penale e sulla eventuale responsabilità penale di amministratori giudiziari e giudici che ne hanno avallato l’operato.

Pubblicato su antimafiaduemila.com il 28 febbraio 2021

·        Il Business del Proibizionismo.

Franco Zantonelli per repubblica.it il 21 dicembre 2022.

Le grosse navi portacontainer che solcano gli oceani vengono utilizzate, dalla mafia balcanica, anche per il trasporto di droga. Protagonista di una spiacevole vicenda del genere è stata la MSC, che ha sede a Ginevra, ed è di proprietà della famiglia Aponte, di origine napoletana, e che è il maggiore vettore di container marittimi del pianeta. 

Il traffico di 20 tonnellate di cocaina

La vicenda con al centro un traffico di 20 tonnellate di cocaina, per un valore di 1,3 miliardi di dollari, è stata rivelata da Bloomberg Businessweek. Una vicenda che risale al giugno del 2019, quando nel porto di Filadelfia la dogana statunitense, ispezionando la portacontainer MSC Gayane, un gigante dei mari lungo 314 metri e largo 48, in viaggio dal Sudamerica verso l’Europa, scoprì e sequesrò, a bordo, il grosso quantitativo di cocaina.

La droga era nascosta in sacchi di iuta, contenenti anche della frutta. Ora la MSC rischia di pagare una multa di 700 milioni di dollari. 

Da quanto hanno accertato gli inquirenti americani a portare la cocaina a bordo della MSC Gayane sarebbero stati dei marinai montenegrini, dietro un compenso di 50 mila dollari. Una brutta grana per l’82 enne Gianluigi Aponte, leader indiscusso del gruppo MSC, che con una fortuna stimata dal mensile economico svizzero Bilanz in 20 miliardi di franchi, circa l’equivalente in euro, è uno degli uomini più ricchi della Svizzera. L’anno scorso avrebbe incrementato la sua fortuna di ben 8 miliardi. 

Il precedente di Rotterdam e i ricatti ai marinai

Eppure la sua flotta, composta anche da navi da crociera e che impiega 150 mila persone, non è la prima volta, forse per le dimensioni, che finisce nel mirino dell’antidroga. Tre anni prima del sequestro a Filadelfia della Gayane, MSC ricevette una messa in guardia dalla polizia portuale di Rotterdam. “Gli abbiamo detto- scrive il quotidiano elvetico Handelszeitung, citando Jan Janse, responsabile della polizia portuale di Rotterdam -che avevamo sorpreso dei marinai scaricare droga dalle sue navi, per caricarle su barche più piccole e portarle a riva”.

A quanto appreso dalle autorità di Filadelfia, i marinai montenegrini della MSC agirebbero sotto ricatto. È vero che ricevono 50 mila dollari per trasportare la cocaina, ma è anche vero che, se si rifiutassero, ci sarebbero delle pesanti conseguenze da parte dei gestori del narcotraffico, sui loro famigliari. 

Gli Aponte e la loro MSC, che dispongono di grande liquidità, fino a poco tempo fa erano tra i competitor nella corsa a ITA Airways, ma in novembre hanno rinunciato. Abbandonato il progetto di inserirsi nel trasporto aereo, rimane quello per il trasporto ferroviario. Gianluigi Aponte avrebbe, infatti, messo gli occhi sui treni ad alta velocità Italo, di cui sarebbe disposto a rilevare il 50% dagli attuali proprietari. 

Theron Mohamed it.businessinsider.com il 21 dicembre 2022.

Una nave da carico il cui acquisto è stato finanziato da JPMorgan è stata sequestrata da alcuni funzionari doganali statunitensi questa settimana, dopo che le autorità hanno trovato al suo interno quasi 18 tonnellate di cocaina con un valore di mercato di 1,3 miliardi di dollari in base alle stime. Il ritrovamento della droga sulla Msc Gayane è sorprendente per diversi motivi, che spieghiamo di seguito. 

L’enorme quantità di cocaina

Le circa 17,9 tonnellate di cocaina trovate a bordo della Msc Gayane – un peso più o meno equivalente a quello di tre elefanti africani maschi — pesano più dell’intera quantità di quella sostanza passata attraverso l’Africa occidentale in tutto il 2013, e quanto l’intera quantità sequestrata in tutto il continente africano dal 2013 a 2016, secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc).

Questo enorme quantitativo potrebbe riflettere un surplus sul versante dell’offerta. La produzione globale di cocaina è aumentata di un quarto nel 2016, raggiungendo quota 1410 tonnellate, in base al World Drug Report del 2018. L’epicentro di questo boom produttivo è situato in Colombia, dove la coltivazione della pianta di coca è aumentata del 17% nel 2017 arrivando a coprire una superficie di 171 mila ettari, secondo l’Unodc.

Il legame con JPMorgan

È probabile che il legame fra la Msc Gayane e JPMorgan sia l’aspetto più sorprendente di questo ritrovamento. La nave è gestita dalla società svizzera Mediterranean Shipping Co. (Msc) dell’armatore campano Gianluigi Aponte, ma JPMorgan ha contribuito a finanziarne l’acquisto da parte di Msc. Le due aziende secondo alcune fonti hanno strutturato l’acquisto in modo che la proprietà della nave fosse acquisita mediante l’investimento di capitali dei clienti nell’ambito di una strategia incentrata sui trasporti offerta dalla divisione asset management di JPMorgan. 

JPMorgan non ha ancora rilasciato dichiarazioni pubbliche sul suo legame con l’imbarcazione, e non ha voluto rilasciare commenti a Markets Insider. 

Il collegamento con la Liberia

La Msc Gayane batteva bandiera della Liberia, un Paese dell’Africa occidentale. Questa regione costituisce una zona di passaggio molto frequentata dai contrabbandieri tra il Sudamerica e l’Europa per la porosità dei confini, la debolezza dello Stato di diritto, la prevalente assenza di monitoraggio delle coste e la presenza di infrastrutture e risorse limitate.

La percentuale dei sequestri nella regione occidentale dell’Africa rispetto a quelli avvenuti nell’intero continente è salita al 78% nel 2016, “il che riflette il rapido aumento dell’importanza dell’Africa occidentale come zona di passaggio” ha osservato l’Unodc.

Sembra però che il traffico di droga dall’Africa occidentale agli Stati Uniti sia limitato, il che rende il ritrovamento della cocaina sulla Msc Gayane molto insolito. Dati i prezzi di strada superiori e il minor rischio di essere colti in fallo, l’Europa è un mercato più redditizio e allettante degli Stati Uniti, ha spiegato al Guardian nel 2015 il contrabbandiere nigeriano di stupefacenti Chigbo Umeh.

La relazione con il boom del traffico di droga attraverso l’Africa occidentale

Il ritrovamento della droga su questa imbarcazione con bandiera liberiana è stato l’ultimo di una serie di ingenti sequestri legati a Paesi dell’Africa occidentale quest’anno. 

Già nel maggio 2018 alcuni funzionari algerini avevano sequestrato oltre 6,8 quintali di cocaina su una nave di carico registrata in Liberia che trasportava carne congelata dal Brasile, come ha riportato la Bbc. Nel febbraio di quest’anno un team di funzionari di Capo Verde ha trovato più di 95 quintali di cocaina, con un valore di mercato superiore a 700 milioni di dollari, su un’imbarcazione che batteva bandiera di Panama.

Un mese dopo le autorità della Guinea-Bissau hanno messo a segno il più grande ritrovamento di cocaina nella loro storia — il primo nel Paese da un decennio — quando ne hanno trovati quasi 8 quintali nascosti nel doppio fondo di un camion carico di pesce.

“C’erano dei dubbi sul fatto che l’Africa occidentale fosse ancora usata come importante zona di passaggio, ma questi sequestri sembrano suggerire che sia in atto un ritorno alla zona” ha detto Mark Shaw, direttore della Global Initiative against Transnational Organized Crime, in un’intervista a Bloomberg. “È un fatto sorprendente e molto significativo.”

Clemente Pistilli per “la Repubblica – Edizione Roma” il 17 dicembre 2022. 

Bloccato il carico di droga per i sikh. I carabinieri hanno fermato sulla Pontina un taxi con a bordo 53 chili di bulbi essiccati di papavero da oppio, la sostanza stupefacente che i braccianti di nazionalità indiana utilizzano per sopportare la fatica del lavoro nei campi dell'agro pontino, dove troppo spesso sono costretti a subire forme di schiavismo. La Procura di Latina ha aperto un'inchiesta e il sospetto è che quella droga, sigillata in singole confezioni da circa 110 grammi, servisse a rifornire la comunità straniera durante le festività natalizie.

A insospettire i carabinieri, impegnati il 12 dicembre scorso in un posto di blocco sulla Pontina, al confine tra San Felice Circeo e Terracina, è stato il particolare che sul taxi partito da Roma il passeggero viaggiava a fianco del conducente anziché sul sedile posteriore. I militari hanno quindi intimato l'alt al mezzo e a quel punto, mentre il taxi stava rallentando, il passeggero ha aperto lo sportello ed è saltato fuori, dandosi alla fuga nei campi e facendo perdere le sue tracce. Era buio e rintracciarlo è stato impossibile. 

Perquisito il taxi, i carabinieri della stazione di San Felice e della compagnia di Terracina hanno quindi recuperato i 53 chili di oppio. Il tassista, un romano di 73 anni, residente nel quadrante sud-est della capitale, è stato ritenuto complice del fuggitivo ed è stato arrestato con l'accusa di concorso in detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente. L'anziano, già noto alle forze dell'ordine, dopo essere stato interrogato dal gip è stato poi messo ai domiciliari. 

Gli investigatori sospettano che il passeggero del taxi fuggito fosse un cittadino di nazionalità indiana, uno di quelli che fanno affari con la droga utilizzata dai connazionali per tirare avanti dopo ore e ore di lavoro, e che avesse scelto un taxi per spostarsi sperando di dare meno nell'occhio. L'autista un 73enne romano trasportava sulla sua auto un carico di 53 chili di bulbi di papavero k Nei campi Il sospetto degli investigatori è che l'oppio fosse destinato ai lavoratori indiani che faticano nei campi del pontino.

Estratto dell’articolo di Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 17 dicembre 2022.

L'ombra della cocaina si allunga sopra Downing Street. […] Tracce di una sostanza illecita di classe A, eufemismo per indicare in questo caso la coca, sono state rinvenute negli uffici di Downing Street, proprio dopo due feste durante il governo di Boris Johnson. Cocaina è stata trovata più volte anche a Chevening House, una residenza governativa nella contea del Kent, usata l'estate scorsa dalla ministra degli Esteri Liz Truss nei giorni precedenti la sua vittoria nelle primarie del partito conservatore per diventare premier.

È il Guardian a rivelare in esclusiva la presenza di droga nelle due residenze ufficiali del governo, citando fonti anonime dello staff dell'allora premier Johnson e dell'allora ministra in procinto di succedergli Truss. In particolare, le rivelazioni affermano che tracce di coca sono state rinvenute dai collaboratori di Truss  […] su un tavolino vicino a un tavolo da biliardo, dopo alcune notti in cui la ministra degli Esteri e candidata premier aveva intrattenuto ospiti nella storica residenza di campagna del XVII secolo nel fine settimana del 19-21 agosto. 

[…] Lo scoop del Guardian non contiene accuse che Liz Truss abbia fatto personalmente uso della droga in questione o fosse a conoscenza dell'uso di droga da parte di membri dello staff o degli ospiti. Quanto ai party a Downing Street, secondo le fonti del quotidiano britannico, Boris Johnson non era alle feste in cui è stata usata cocaina, una delle quali è avvenuta alla vigilia del 17 aprile 2021, il giorno del funerale del principe Filippo, il marito della regina Elisabetta. Gli addetti alle pulizie avrebbero trovato tracce di coca nei bagni e su un tavolo di un ufficio della residenza del premier.

[…]Prove di uso di cocaina nelle toilette vicine all'ufficio di Johnson in parlamento erano già emerse lo scorso anno.  Una fonte bene informata citata dal Guardian afferma che la cocaina era usata indiscriminatamente a Whitehall, il complesso dei palazzi del governo britannico che include Downing Street, e nella residenza di campagna assegnata al ministro degli Esteri, incarico che anche Johnson ha rivestito prima di diventare primo ministro.

4,6 tonnellate di cocaina sequestrate in Francia. Stefano Piazza il 14 Dicembre 2022 su Panorama

Francia maxi sequestro di cocaina Europol ha reso noto che lo scorso 30 novembre, una nave brasiliana che trasportava oltre 4,6 tonnellate di cocaina è stata  intercettata dalla Marina francese a seguito di attività di intelligence in corso tra Europol, MAOC-N e le autorità di Brasile, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Diretta verso l'Europa, la nave, lunga 21 metri, è stata intercettata in acque internazionali al largo della Sierra Leone. Si ritiene che la sua spedizione illegale abbia un valore superiore a 150 milioni di euro. È ancora in corso un'indagine per identificare i gruppi criminali coinvolti su entrambe le sponde dell'Oceano Atlantico. Svizzera Tariq Ramadan alla sbarra La giustizia svizzera si è dimostrata molto più rapida di quella francese. Tariq Ramadan non andrà in assise ma davanti ad un tribunale penale, il 15 e 16 maggio 2023. L'ex predicatore musulmano rischia ancora fino a dieci anni di carcere. In tutto sei donne, cinque in Francia e una in Svizzera, lo accusano di stupro e coercizione sessuale. Qualche giorno fa, Tariq Ramadan ha attaccato violentemente sui social network i suoi accusatori – cinque in Francia e uno in Svizzera – accusandoli di essere « barcollanti che tradiscono la causa delle donne e si alleano con ideologi della peggior specie». Quanto a tutti coloro che osano criticarlo, sono solo « intellettuali così sionisti che le vite dei palestinesi non valgono per loro più di quelle dei topi che devono essere liquidati». Strasburgo attentato sventato Sette giovani radicalizzati stavano preparando un'azione violenta in Francia: arrestati dalla DGSI, la Direzione generale della sicurezza interna (DGSI) ha arrestato, a Strasburgo, nel BasRhin, sette giovani radicalizzati sospettati di preparare un'azione violenta in Francia. Si tratta di cinque individui già noti della DGSI e altri due recentemente entrati nel territorio nazionale, secondo una fonte vicina ai nostri colleghi. Sono di nazionalità russe e tagike, e sono radicalizzati. Indonesia rilasciata la mente degli attentati di Bali del 2002 Un militante islamico condannato per aver realizzato gli esplosivi utilizzati negli attentati di Bali del 2002 che hanno ucciso oltre PUBBLICITÀ 16/12/22, 08:46 4,6 tonnellate di cocaina sequestrate in Francia - Panorama https://www.panorama.it/news/dal-mondo/46-tonnellate-di-cocaina-sequestrate-in-francia 4/8 200 persone è stato rilasciato in libertà vigilata dopo aver scontato circa la metà della sua condanna originale di 20 anni di carcere nonostante le proteste dell'Australia, che ha perso decine di cittadini negli attacchi indonesiani. Hisyam bin Alizein, noto anche con il suo alias Umar Patek, era un membro di spicco della rete collegata ad al-Qaeda Jemaah Islamiyah, accusata anche delle esplosioni in due discoteche a Kuta Beach. Patek è stato anche riconosciuto colpevole dal tribunale distrettuale di West Jakarta di aver aiutato a costruire un'autobomba che è stata fatta esplodere da un'altra persona fuori dal Sari Club di Kuta la notte del 12 ottobre 2002. Pochi istanti prima, una bomba più piccola in uno zaino era stata fatta esplodere da un attentatore suicida nella vicina discoteca Paddy's Pub. Gli attacchi hanno ucciso 202 persone, per lo più turisti stranieri, tra cui 88 australiani. Maria Vittoria Prest per blitzquotidiano.it il 13 dicembre 2022.

Cocaina dal tabacco, è l’ultima invenzione cinese. Dalla pianta del tabacco alla cocaina: un team di scienziati in Cina ha modificato una pianta parente del tabacco per produrre due enzimi che generano cocaina quando le sue foglie vengono essiccate.Il team fa parte dell’Istituto di Botanica di Kunming, in Cina, e la pianta è la N. benthamiana.

La cocaina viene prodotta naturalmente nelle foglie della pianta di coca Erythroxylum ma la possibilità di riprodurla in laboratorio sarebbe una scoperta importante che aiuterebbe a produrre composti chimicamente simili per scopi medici. 

Il dottor Sheng-Xiong Huang, lo scienziato che più di altri si dedica a questa ricerca, ha parlato dell’importanza della sperimentazione per la produzione di farmici ed afferma che solo la curiosità scientifica può aiutare a risolvere il problema della biosintesi della cocaina. Tuttavia, non sappiamo se si possono ottenere stimolanti con proprietà psicoattive ridotte.

La cocaina è un cosiddetto “alcaloide tropanico” che ha forti effetti psicoattivi nella sua forma cristallina. Una droga, dunque, che crea forte dipendenza ed agisce come stimolante del sistema nervoso centrale ed anestetico locale di breve durata. Estratta dalle foglie di piante di coca essiccate, viene normalmente assunta attraverso l’aspirazione nasale. 

La cocaina è una droga illegale ma viene anche utilizzata in campo medico come anestetico locale o per restringere i vasi sanguigni per arginare le emorragie.

Le aziende farmaceutiche non possono produrre cocaina liberamente. Le fasi chiave della sua biosintesi sono un mistero.

Finora gli scienziati non sapevano come il precursore chimico MPOA venisse convertito in una sezione della molecola della cocaina, il metilecgonone.

Nel loro lavoro, pubblicato sul Journal of the American Chemical Society, hanno finalmente scoperto cosa mancava: EnCYP81AN15 e EnMT4, due enzimi essenziali per questa reazione di conversione che forma il metilecgonone.

I ricercatori, utilizzando la pianta del tabacco, le cui foglie contengono una sostanza chiamata omitina, chimicamente simile all’MPOA e anch’essa convertita dai due enzimi, sono stati in grado di alterare la pianta di N. benthamiana per farle produrre da sola gli enzimi in questione.

Questa modifica ha portato la pianta di tabacco a produrre metilecgonone, ovvero la spina dorsale della cocaina, direttamente nelle sue foglie.

La sperimentazione ha dimostrato che la foglia di tabacco è in grado di produrre circa 400 nanogrammi di cocaina per milligrammo di foglia essiccata.

Si tratta, però, di una quantità notevolmente inferiore rispetto alla pianta di coca e, dunque, i numeri testimoniano l’impossibilità di utilizzo di questo metodo per la produzione di cocaina su larga scala, come sottolineato da Sheng-Xiong Huang, coautore dello studio, al New Scientist.

Tuttavia, gli scienziati sono fiduciosi che la ricerca possa portare alla modifica di altri organismi in grado di produrla su scala più ampia, come i batteri. Tutto ciò ovviamente sempre per scopi medici.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 9 dicembre 2022.

Fino a che quantità la cessione di droga può essere considerata «fatto di lieve entità»? È una delle domande che ai giudici capita di doversi fare più spesso, perché nelle sentenze fa una enorme differenza in termini di pena per i condannati: se infatti viene riconosciuto il quinto comma dell'articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti, che non distingue tra droghe leggere e droghe pesanti, la legge prevede che il giudice possa condannare a una pena compresa tra un minimo di 6 mesi e un massimo di 4 anni, mentre altrimenti la pena parte già da un minimo di ben 6 anni e arriva sino a un massimo di 20. 

E storicamente l'incertezza applicativa (al pari quindi della imprevedibilità) è notevole, perché, nel silenzio della legge sul concetto di «lieve entità», i giudici nel decidere risentono di forti disomogeneità, determinate non solo dalla propria sensibilità culturale ma anche dal contesto locale nel quale operano (in una grande città o in un piccolo centro non è raro vedere la medesima quantità giudicata in maniera opposta), nonché dalle proprie esperienze professionali. Ed è un tema gigantesco anche dal punto di vista penitenziario, in quanto quasi un terzo dei detenuti sono in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti, e un quarto sono tossicodipendenti.

Ecco allora che adesso una sezione della Cassazione, la VI, trovandosi a dover valutare il ricorso di un condannato (per 100 grammi lordi di hashish al 34% di purezza) al quale la Corte d'Appello non aveva riconosciuto la lieve entità, ha pensato «necessario tentare di compiere una verifica statistica della rilevanza che la giurisprudenza ha dato al quantitativo»: e a questo scopo (sulla vaga scia di quello che accadde nel 2012 con un monitoraggio del Massimario in vista di una sentenza delle Sezioni Unite), ha fatto studiare il tema sull'ultimo triennio al proprio «Ufficio per il Processo», introdotto dalla legge Cartabia nei vari uffici giudicanti per farli assistere nei compiti di studio da uno staff di giovani giuristi.

Arianna Lancia e Flavia Pacella hanno così trovato e spulciato ben 398 sentenze di Cassazione sull'argomento tra il 2020 e il 2022, e il primo dato che balza all'occhio è la davvero curiosa variabilità, posto che ci sono sentenze che hanno fatto rientrare nel concetto di «lieve entità» appena 0,97 grammi di hashish oppure anche 386 grammi dello stesso stupefacente, e persino un etto e mezzo di cocaina o un etto di eroina. 

Lo studio ha allora statisticamente raggruppato il numero di sentenze più significativo attorno a una soglia mediana di riconoscimento della «lieve entità», e si è visto che questo parametro di massima (considerato in rapporto ovviamente alla media del principio attivo riscontrato dai verdetti) si attesta nella giurisprudenza maggioritaria della Suprema Corte intorno ai 25 grammi lordi di cocaina per una purezza media del 68% che fan 17 grammi di principio attivo; ai 30 grammi lordi di eroina che a una purezza media del 17% fa 5,1 grammi di principio attivo; ai 110 grammi lordi di marijuana che al 12% di purezza fa 12,1 grammi di principio attivo; e ai 102 grammi lordi di hashish che alla purezza media del 25% fa 25,5 grammi di principio attivo.

Ed è questa ricorrenza statistica che la VI sezione della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, propone come possibile parametro: soglia del tutto indicativa non solo perché non può avere alcun effetto vincolante, ma anche perché la quantità è un elemento sempre importante ma a volte non l'unico in gioco, dovendosi considerare altre circostanze quali il grado di purezza della sostanza, il ritrovamento di bilancini o contabilità, l'incongruità del reddito a fronte di contanti sequestrati, la suddivisione in dosi.

E così nel processo in questione, «applicando il principio al caso», il collegio presieduto da Pierluigi Di Stefano, con relatore Paolo Di Geronimo, valuta che «il quantitativo in sequestro, 100 grammi di hashish, rientri appieno in quel valore di soglia che, per giurisprudenza prevalente di questa Corte, è stato ricondotto all'ambito del fatto lieve». Sentenza annullata. E rinvio a un nuovo Appello che ridetermini la pena.

Estratto dell’articolo di Romina Marceca per "la Repubblica – ed. Roma" il 2 dicembre 2022.

L'ultima immagine che popola i suoi ricordi sono i corpi intrecciati di almeno una decina di uomini in una grande sala nell'appartamento di un facoltoso romano. Sesso, droga e alcol. «Come vedere la prima scena di Suburra. Un chill è durato tre giorni e alla fine sembravo uno zombie. Non si dorme, si mangia pochissimo». È il racconto di Federico, uno degli indagati della maxi inchiesta della Polaria sul Gbl e i chemsex party a Roma e in altre città d'Italia.

Federico oggi ha 30 anni, è stato bloccato all'aeroporto di Fiumicino dalla polizia di frontiera con 40 grammi di mefedrone dentro la valigia. È finito nella stessa indagine che ha coinvolto dal neurologo del San Camillo a Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti.

Com' è iniziata la sua frequentazione dei chill?

«Quattro anni fa sono stato invitato da un amico a una festa a Trastevere. Mi ero sempre scostato da questo tipo di eventi dove si consumano rapporti sessuali occasionali. Quella sera davanti a me, invece, c'erano una decina di persone strafatte di Gbl. Io ero una nota stonata».

Lei assumeva droghe?

«No, non ne avevo mai fatto uso. Uno dei partecipanti è stato convincente e ho preso il Gbl. "Non ti farà nulla", mi ha detto e ha aggiunto che la sensazione, la prima volta, è meravigliosa. Ho bevuto 1,2 ml in un bicchiere di Coca Cola. La sensazione è stata di essere particolarmente brillo.

Qualsiasi cosa vedessi attorno a me era un richiamo sessuale forte che facevo fatica a gestire. Il buonsenso è caduto, avevo desideri perversi».

Poi cosa è successo?

«Mi sono lasciato andare alle avance di diverse persone. Dopo un'ora mi sono risvegliato e ho ripreso di nuovo il Gbl. In quasi un giorno ho avuto almeno cinque rapporti. Ero in un girone della perversione. Ha presente la scena iniziale di Suburra? La stessa cosa».

[…] Nel giro di qualche settimana sono stato invitato una seconda volta. Non si pagava nulla, la droga veniva offerta in cambio dei rapporti sessuali. Era il periodo pre-pandemia, nel 2019.

Le case messe a disposizione erano di chi spacciava. Si tratta di personaggi molto facoltosi: architetti, politici di cui non conosco i nomi, avvocati e anche il parroco di una chiesa, giornalisti, portaborse di parlamentari e tantissimi medici.

C'erano anche forze dell'ordine. [...] Non ho saputo dire di no perché era un'esperienza opposta alla mia routine e in quel periodo ero sotto shock. Mio padre mi aveva rivelato che ero un figlio illegittimo. Mi sono lasciato andare al fascino del male.

Sono diventato tossicodipendente ma ero un sovversivo. Darmi per drogarmi non mi faceva stare bene, ho conservato un po' del mio pudore. I chill erano il pretesto per farsi in cambio di sesso e non il contrario».

[…] «Ho conosciuto chi forniva le sostanze stupefacenti a prezzo di stock. È il segreto che non si deve rivelare altrimenti finisce che spacciano tutti. E dal quel momento mi sono attivato. A Barcellona ho conosciuto i fornitori. Facevo trasferte tra Olanda e Spagna con cadenza trimestrale. Da Rotterdam imbarcavo il Gbl».

Lei è accusato di spaccio.

«Gina (il Gbl, ndr) non è mai da sola, si dice negli ambienti. Il Gbl ti butta giù, il mefedrone ti tira su perché è uno stimolante. Io sono stato trovato con il mefedrone ma in grossa quantità. Mi hanno dato spaccio ma quella droga era per me».

L'arresto è stato il momento in cui ha smesso?

«Praticamente sì. Devo dire grazie alla polizia. Ho incontrato persone molto umane. I primi due mesi sono stati terribili per le crisi di astinenza. I miei genitori hanno scoperto con l'arresto tutto quello schifo dove ero finito. Da un anno non prendo più niente. Ero arrivato a mischiare Gbl e mefedrone, non potevo più farne a meno». […]

(ANSA-AFP il 29 novembre 2022) - BANGKOK- Un tempio buddista della Thailandia centrale è stato costretto a chiudere dopo che tutti i suoi monaci sono risultati positivi ai test antidroga e sono stati radiati: lo ha reso noto un funzionario locale. Quattro monaci, tra cui un abate, di un tempio nel distretto di Bung Sam Phan, nella provincia di Phetchabun, sono risultati positivi ai test anti metanfetamina, ha riferito il funzionario distrettuale, Boonlert Thintapthai.

I monaci sono stati inviati in una clinica specializzata, ha aggiunto il funzionario. "Il tempio è ora vuoto e gli abitanti dei villaggi vicini sono preoccupati di non poter fare alcuna cerimonia", ha detto Thintapthai assicurando che saranno inviati altri monaci per consentire agli abitanti del villaggio di assolvere i loro obblighi religiosi. Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, la Thailandia è un importante Paese di transito per la metanfetamina che arriva dallo Stato birmano di Shan attraverso il Laos. Le pillole di metanfetamina vengono vendute nelle strade della Thailandia a meno di 20 baht (circa 50 centesimi).

DAGONEWS il 30 novembre 2022.

Secondo un’importante ricerca, la marijuana ed il CBD non hanno alcun effetto sul dolore.

Nonostante il dolore sia una delle ragioni più popolari per l'uso della cannabis, i ricercatori hanno scoperto che i prodotti non sono più efficaci di un placebo.

La ricerca ha preso in esame più di una dozzina di studi in 11 Paesi che hanno coinvolto 1.459 persone dall'inizio del 2000 al settembre 2021.

«Il nostro team non ha osservato alcuna differenza significativa tra la cannabis e un placebo per ridurre il dolore» sostengono i ricercatori. 

I dati ufficiali mostrano che circa un quinto dei consumatori di marijuana negli Stati Uniti riceve una prescrizione medica di cannabis. Le stime indicano che un quarto di tutti gli americani usa l'olio di CBD, e la ragione principale è il dolore (64%).

La notizia arriva nel mezzo di una rivoluzione della cannabis negli Stati Uniti, con più della metà degli Stati che hanno legalizzato la droga per motivi medici, compreso il trattamento del dolore. Un totale di 21 Stati ne ha permesso l'uso a scopo ricreativo.

I ricercatori del Karolinska Institute in Svezia hanno esaminato 20 studi. La maggior parte dei partecipanti era di sesso femminile e di età compresa tra i 33 e i 62 anni.

Sono state incluse diverse condizioni di dolore, come danni ai nervi e sclerosi multipla, e una serie di prodotti a base di cannabis, THC, CBD e cannabis sintetica, assunti tramite pillole, spray, oli e fumo.

I risultati hanno mostrato che l'intensità del dolore si riduceva significativamente in risposta a un placebo, così come la cannabis.

Sintesi dell'articolo di Gianpaolo Sarti per il "Messaggero Veneto" pubblicato da "la Verità" il 30 novembre 2022.

Ha comprato al supermercato una confezione di semi di papavero per la moglie che voleva preparare una torta e poi ha gettato i semi rimanenti nel giardino di casa assieme ai rifiuti organici. Dopo qualche mese sono spuntate un centinaio di piantine. Un vicino se n'è accorto e ha allertato le forze dell'ordine. Così un settantenne triestino residente a Duino si è trovato con tre pattuglie della guardia di finanza in casa: le fiamme gialle hanno contato 54 piante medio piccole di papaver somniferum (quello da oppio) con tanto di fiori, alte tra 90 e 110 centimetri, e altre 43 più grandi.

Ed è scattato l'avviso di garanzia per coltivazione di sostanze stupefacenti, con relativo sequestro di piante e fiori. Il pm ha trascinato l'anziano in tribunale chiedendone la condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione con la condizionale, ma il gup ha pronunciato una sentenza di assoluzione accettando la tesi difensiva che si trattava di una crescita casuale senza intenzioni illegali.

Le Iene presentano Inside, stasera dalle 20.30: "Droga". Le Iene News il 26 novembre 2022

Quinta puntata del programma "Le Iene presentano Inside" con Luigi Pelazza stasera dalle 20.30 su Italia1

Stasera dalle 20.30 su Italia1 va in onda il quinto appuntamento con “Le Iene presentano Inside”. “Droga” è un reportage di Luigi Pelazza e Andrea Bempensante, interamente dedicato all’industria delle sostanze stupefacenti, dall’utilizzo ai costi, dagli effetti ai pericoli dell’assunzione. Al suo interno ci saranno testimonianze dirette di consumatori che spiegano il perché della loro scelta, interventi delle forze dell’ordine impegnate costantemente per ridurre lo spaccio e il consumo, nonché contributi di medici e scienziati che descrivono gli stupefacenti dal punto di vista tecnico e le conseguenze che hanno nei soggetti tossicodipendenti.

A commentare i filmati e raccontarsi in prima persona quattro personaggi noti scelti in quanto conoscitori del mondo delle dipendenze nell’accezione più larga del termine. Con Marco Cappato si parlerà di legalizzazione a fini terapeutici. In materia di droghe, l’attivista ha infatti realizzato azioni di disobbedienza civile, che lo hanno portato anche ad affrontare procedimenti penali. Con Fabrizio Corona si scenderà nel dettaglio dell’uso degli psicofarmaci, abusati, come lui stesso ha ammesso, “per superare gli strascichi della vita in galera che sente ancora addosso”. Fernanda Lessa racconterà invece degli eccessi nel consumo di alcol e delle difficoltà che si incontrano per uscire da questa dipendenza, ma affronterà anche le possibili ricadute, come è accaduto a lei stessa. Infine, con J-Ax un discorso sulla cannabis in cui il rapper descrive soprattutto gli effetti collaterali, motivo per cui dichiara di non farne più uso.

La trasmissione scatta una fotografia sovrapponibile alle statistiche ufficiali che mostrano come oggi esista sia una grande varietà di sostanze e tecniche di assunzione, sia un numero di tossicodipendenti maggiore rispetto al passato. Tanto che, secondo i dati, una persona su due farebbe uso di droghe. Questa proporzione è stata confermata anche da tutti gli esperimenti compiuti dalla trasmissione di Italia1 nel corso degli anni, investigando sugli effetti prodotti da ogni tipo di droga, dalle più conosciute alle meno note, come l’ayahuasca, il krokodile e lo shaboo. Nella puntata saranno ripercorse tutte le inchieste realizzate in proposito.  

Per i test antidroga effettuati nelle discoteche, per esempio, era risultato che la maggior parte degli avventori faceva uso di sostanze. Gli alcol test fuori dai ristoranti, fatti su chi stava per mettersi alla guida, hanno evidenziato invece che anche insospettabili padri e madri di famiglia erano oltre il limite di legge, così come è accaduto anche per molti sciatori sulle piste. Ci sono stati poi quelli eseguiti tra i giovani studenti di un liceo allo scopo di capire quale fosse la percentuale di consumo nella loro fascia di età. Tuttavia, l’esperimento che più di ogni altro ha fatto discutere e suscitato il maggior clamore mediatico, è stato il “drug wipe” in Parlamento. Nell’ottobre 2006 “Le Iene” si sono interrogate su quanto potesse essere diffuso il consumo di droga tra i parlamentari italiani e hanno sottoposto - a loro insaputa – cinquanta onorevoli a un test per rilevarne l’eventuale consumo. Il risultato rivelò che “un deputato su tre utilizzava droghe”. La vicenda fece il giro del mondo e tutte le testate, dall’America al Giappone, riportarono la notizia. Il servizio nella sua forma originale non andò mai in onda e tutti materiali usati per farlo vennero confiscati a poche ore dallo scoop. Chi realizzò concretamente il servizio venne condannato, ciononostante, la trasmissione riuscì a pubblicare i risultati scatenando un vero e proprio putiferio nel mondo politico.

Le informazioni sulla diffusione delle droghe sono passate anche attraverso tutte le interviste singole, doppie, triple e quadruple - in onda nella puntata - realizzate nel corso dei 25 anni di tv, dove a tutti è stato chiesto: “Hai mai fatto uso di sostanze stupefacenti?”.

L’Alleanza per legalizzare la droga. Paolo Manzo su Panorama l’11 Novembre 2022.

In Sudamerica c’è chi vuole liberalizzare la «roba» come una merce tra le tante e il giornale inglese The Economist propone di equiparare cocaina e sigarette... Così i «cartelli» si possono arricchire sempre di più e il numero delle vittime aumenta. Legalizzate le droghe, cominciando con la cocaina, e imponete un monopolio statale come con le sigarette». No, a parlare non è Pablo Escobar, il defunto boss del cartello colombiano di Medellín, bensì la politicamente corretta rivista settimanale The Economist. La consorella di La Stampa, Repubblica e Secolo XIX (tutti di proprietà della holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia Agnelli, il cui a.d. è John Elkann), mercoledì 12 ottobre se n’è uscita con un dettagliato articolo in difesa della totale legalizzazione della cocaina, dal consumo alla produzione finanche alla commercializzazione, perché «il proibizionismo non funziona, e questo lo si vede in modo chiarissimo». La «bibbia» britannica del capitalismo critica anche Biden che ha concesso la grazia federale ai condannati in possesso di marijuana, perché la sua decisione sarebbe «ancora troppo timida». Per la rivista la vera risposta va anche oltre gli sproloqui del neo presidente della Colombia Gustavo Petro, che alle Nazioni Unite, il settembre scorso, ha denunciato che il riscaldamento climatico a suo dire è causato non solo dal petrolio ma pure dalla guerra contro la droga, difendendo una «legalizzazione sperimentale». Ne abbiamo scritto su Panorama un mese fa, e che Petro ci tenga molto lo dimostra che su Twitter il suo discorso all’Onu sia fissato in cima, affinché tutti lo possano ascoltare, in primis Mariana Mazzucato, l’economista italo-statunitense di riferimento sua e di Papa Francesco. The Economist, tuttavia, va oltre e difende a spada tratta «la piena legalizzazione, che consentirebbe ai non criminali di fornire un prodotto rigorosamente regolamentato e tassato, proprio come fanno i produttori di whisky e di sigarette». A dire dell’«Ecommunist», come hanno ribattezzato la rivista molti brasiliani visto l’appoggio sfegatato che ha dato al rientro al potere dell’ex condannato per corruzione e riciclaggio Luiz Inácio Lula da Silva, la «cocaina legale è meno pericolosa, dal momento che i produttori legittimi non la adultererebbero con altre sostanze e il dosaggio sarebbe chiaramente etichettato, come sulle bottiglie di whisky». Una posizione a dir poco allucinante, anzi allucinogena, basti guardare all’esperimento di legalizzazione statale della cannabis in Uruguay. Nelle parole dell’ex presidente ed ex guerrigliero tupamaro José «Pepe» Mujica, doveva servire a ridurre il crimine e la violenza. A quasi 10 anni da quella decisione presentata come «storica» dai media progressisti e appoggiata da George Soros e David Rockefeller, che Mujica incontrò per un paio di giorni a New York nel settembre 2013 per discutere della legalizzazione sostenuta dai due magnati, il risultato concreto è il disastro, anche se nessuno oggi ne scrive. La violenza, il riciclaggio e i crimini dei narcos sono ai massimi livelli e in Uruguay il mercato legale della cannabis non è riuscito a fermare quello illegale. Al contrario, il mercato criminale è decuplicato perché i consumatori chiedono una cannabis con THC, il principio attivo, più alto di quello consentito dalla cannabis di Stato. E poi perché l’offerta pubblica non è sufficiente, come dimostrano i dati: solo il 27 per cento dei consumatori uruguaiani si è rifornito sul mercato legale nel 2021. Il paradosso è che il governo prevede di aumentare il livello di THC e la varietà di cannabis offerta nelle farmacie autorizzate entro fine 2022. Infine c’è un ultimo ostacolo che rema contro la legalizzazione: la registrazione obbligatoria che molti consumatori vogliono evitare, anche se il governo assicura che i dati raccolti vengono usati solo per «studi sugli utilizzatori». Di tutto questo tace The Economist. Così come dei tanti anni di lotta a narcotraffico e mafie e il sangue che molti magistrati nel mondo hanno pagato per contrastarlo. In compenso la rivista offre sponda ai narcos che non aspettano altro per potersi proporre a prezzi concorrenziali con principi attivi fortissimi. Come già successo in California, la legalizzazione della marijuana non solo non ha eliminato il mercato narcos ma lo ha potenziato perché i cartelli vendono a un costo più basso, e anche ai minorenni, una sostanza psicotropa sempre più concentrata e pericolosa. Con la legalizzazione della coca negli Stati Uniti crescerebbero i morti, aggiungendosi alla strage silenziosa che sta uccidendo una generazione, provocata dell’oppiaceo sintetico fentanyl, spesso accoppiato alle dosi di cocaina e cannabis. E sui social si è aperto un dibattito, per fortuna ancora non ufficiale, sul rendere libero anche il fentanyl, che solo nel 2021 ha ucciso per overdose oltre 70 mila americani. Dopo gli Stati Uniti, il Brasile è oggi il secondo Paese al mondo per consumo di cocaina mentre Perú, Colombia e Bolivia continuano a produrne in enorme quantità. Nel 2021 in Colombia ne sono state sequestrate oltre 500 tonnellate, in Perù si è raggiunto il record di coltivazioni, 88 mila ettari, in Bolivia il boom ha superato i 40 mila ettari. Solo di cocaina, da questi tre Paesi e transitando anche via Brasile, Messico, Ecuador, Argentina, Uruguay e Centro America, membri dell’intelligence antinarcotici statunitense stimano siano arrivate circa mille tonnellate nell’Unione europea, per restare all’ultimo anno. Senza parlare del nuovo business della marijuana sintetica, soprattutto a New York, dove l’acquisto per strada di quello che noi italiani possiamo pensare essere semplice «fumo» sta causando morti per overdose. Disastrosa la situazione anche a Rosario, in Argentina, dove la violenza legata al traffico di droga controllato da quattro fazioni contrapposte del cartello de Los Monos ha fatto precipitare la città nel caos. Risulta emblematica la domanda fatta a fine ottobre da Papa Francesco all’arcivescovo della città, Eduardo Martín, responsabile della diocesi: «È sopravvissuto a Rosario?». Al di là delle freddure il tema è molto serio, come dettaglia a Panorama uno dei massimi esperti degli effetti delle droghe in Brasile, Matheus Cheibub, psichiatra che guida il Centro per l’alcol e le droghe dell’Ospedale Siro-libanese, il migliore dell’America latina. «La legalizzazione può portare a un aumento della trasmissione di malattie come Aids ed epatite C, co-patologie comuni tra i consumatori di cocaina per via parenterale, oltre che a un aumento dell’incidenza di disturbi psichiatrici, suicidi e ricoveri». Per Matheus, che gestisce con i colleghi il Programma di recupero tossicodipendenze del comune di San Paolo, «secondo il World drug report 2022 dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, l’Unodc, la legalizzazione della cannabis in alcune parti del mondo tende a indicare un aumento del consumo e dei relativi impatti sulla salute». Inoltre «il rapporto denuncia anche un incremento record della produzione globale di cocaina, l’espansione delle droghe sintetiche in nuovi mercati e le crescenti lacune nella disponibilità di cure per i tossicodipendenti, soprattutto per le donne e i più giovani». Unico dato positivo, a suo avviso, è che «la legalizzazione della cannabis in America del Nord ha aumentato le entrate fiscali federali e, in generale, ha ridotto i tassi di arresto per il possesso della sostanza psicotropa». In Brasile, continua Matheus che collabora anche con il Gruppo di studi sull’alcol e le altre droghe dell’Ospedale das Clínicas e della Facoltà di medicina dell’USP, l’Università di San Paolo, «la questione della legalizzazione è complessa, poiché non esiste una rete sociale né un’infrastruttura adeguata per gestire i casi gravi, come avviene nei Paesi sviluppati, dove c’è un’alta prevalenza di consumo di oppioidi, come eroina e droghe sintetiche. Il trattamento delle malattie derivanti dall’uso di tali sostanze richiede l’introduzione di farmaci analoghi con effetti simili alla droga ma con maggiore sicurezza, assistiti da un professionista sanitario. In seguito, il farmaco viene completamente ritirato, non appena passa l’astinenza». Il principale problema del Brasile è che «qui la droga più diffusa è il crack, che invece non ha un farmaco con cui sostituirlo» conclude Matheus, aggiungendo un dato inquietante: «Le droghe sintetiche sono in crescita, soprattutto tra i giovani e gli studenti universitari, e purtroppo sono associate a un’elevata mortalità in questa fascia di popolazione

Il boom della droga da stupro (e di altre duecento nuove): come potersi difendere. Chiara Daina su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

I sequestri di Gbl triplicati in un anno, overdose cresciute del 500%. E si moltiplicano gli psicoattivi sintetici, costano poco e sono online. «In caso di emergenza niente aiuto da sconosciuti, chiamare il 118» 

«Non accettare drink dagli sconosciuti». È il caso di dirlo non a caso. In questi tempi di pandemia nella moda delle droghe sintetiche è entrato a tutti gli effetti il Gbl, acronimo di acido gamma-butirrolattone, più noto come «droga dello stupro». I sequestri di Gbl da parte della Polizia in un solo anno, dal 2020 al 2021, sono cresciuti del 300 per cento (da 14, per un totale di 9,2 chili sequestrati, a 56, per 12,9 chili). E «i casi di intossicazione da questa sostanza arrivati in pronto soccorso sono stati il 500 per cento in più», dichiara Francesco Busardò, professore di medicina legale e tossicologia forense dell’Università Politecnica delle Marche e tra i componenti dell’unità di coordinamento del Sistema nazionale di allerta precoce, la cui azione è quella di individuare le nuove sostanze psicoattive circolanti in Italia, le modalità di consumo e i rischi per la salute e renderli noti a forze di polizia, ospedali e Regioni.

Chemsex

«I due principali contesti di consumo del Gbl sono i festini privati a base di chemsex, dopo aver usato sostanze psicoattive, e i locali notturni, dove l’aggressore addiziona la bevanda della vittima per abusare sessualmente di lei», spiega Busardò. «Durante i festini il Gbl viene usato in combinazione con altre sostanze, fino a otto, come cocaina, viagra, metanfetamina in cristalli, catinoni sintetici. Il Gbl rilassa la muscolatura dei genitali stimolando la libido e facilitando il rapporto sessuale. A volte la persona lo assume consapevolmente, altre volte a sua insaputa. Party di quel tipo sono sempre situazioni a rischio», avverte Simona Pichini, direttrice dell’unità di farmacotossicologia del Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto superiore di sanità, nel coordinamento del Sistema nazionale di allerta precoce.

Inodore. Incolore. Facilmente diluibile in un bicchiere di acqua, in un cocktail o bevanda qualsiasi. Senza che chi lo beve se ne accorga. «Anche se ha un sapore leggermente amaro - precisa Busardò - non si avverte se mescolato con alcol, succhi di frutta e altri ingredienti». Il Gbl è il precursore metabolico del Ghb (una volta ingerito cioè viene convertito dal nostro organismo in Ghb), che sta per acido gamma-idrossibutirrico, una sostanza stupefacente e quindi illegale e più difficile da commerciare. Mentre «il Gbl è più facile da reperire essendo impiegato come solvente industriale, nella produzione di plastica, pesticidi, vernici, detergenti per auto.

Si può comprare online, sul dark web o da chi ha la licenza di acquisto per l’attività lavorativa e lo rivende in modo illecito», continua Busardò. Ed è economico: «Costa dieci volte in meno della cocaina». Il Gbl comincia a fare effetto dopo cinque-dieci minuti dall’ingestione per una durata da una a tre ore più o meno. E Pichini riprende: «Si comporta come l’alcol, a basse dosi crea euforia, disinibisce e rende incapace di opporsi, ad alte concentrazioni invece provoca una forte sonnolenza, intontimento, perdita di coscienza, vuoti di memoria, fino a coma, problemi respiratori e morte». Cosa fare se si pensa di essere stati vittima di questa sostanza?

Busardò raccomanda: «Recarsi subito al pronto soccorso o chiamare un’ambulanza per farsi assistere e fare un prelievo per accertare la presenza nel sangue di Gbl. Dopo circa otto ore infatti non se ne trovano più tracce. È possibile anche effettuare un esame del capello a un mese dall’episodio per rilevare l’eventuale esposizione pregressa». Altro avvertimento nell’epoca del boom delle app di incontri: «Mai allontanarsi con uno sconosciuto fuori dal locale quando si ha il sospetto di avere in corso un’alterazione psicofisica dopo un drink. Non farsi accompagnare fuori neanche per una boccata d’aria ma chiamare immediatamente le forze dell’ordine e i soccorsi sanitari - mette in guardia il medico - prima che sia troppo tardi e si rischi di cadere nell’amnesia. Arrivano in pronto soccorso ragazze con lesioni vaginali o anali, vestiti strappati e non ricordano cosa sia successo». Attenzione, infine, ai profili degli utenti sulle app. «Ci sono utenti - spiega Busardò - che già nel profilo di presentazione promuovono appuntamenti a base di Gbl».

Dopo lo scoppio del Covid i consumi di droga sono cambiati. Non solo per l’ingresso massiccio del Gbl. «Abbiamo scoperto oltre 200 nuove sostanze psicoattive - racconta Pichini - dopo un maxi sequestro avvenuto lo scorso anno in Sardegna. Magari consegnate direttamente a domicilio tramite il corriere, come la spesa. Cannabinoidi e catinoni sintetici di ultima generazione, triptamine, nuovi oppioidi sintetici, analoghi a fentanil e nitazene, con una potenza da 100 a 1000 volte maggiore dell’eroina e un prezzo inferiore. Poi - conclude - c’è stato un aumento dell’uso di benzodiazepine, gli psicofarmaci che normalmente vengono distribuiti dietro prescrizione medica in farmacia, con proprietà ansiolitiche e sedative».

Prendendo l’ultima Relazione europea sulla droga (pubblicata a giugno 2022 sui dati del 2021), la cannabis resta la droga più usata in assoluto (il suo consumo è circa cinque volte superiore a quello delle altre sostanze) nei 27 Paesi dell’Unione più Norvegia e Turchia, seguita da cocaina, mdma (ecstasy), amfetamine, eroina e altri oppiacei.

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2022.

Osservate la scena. Come? Non notate niente? Comprensibile. No, non concentratevi sui due ragazzotti che fumano, tralasciate il rider con la sacca di Glovo, e lasciate perdere quei due uomini con la cravatta slacciata. Lasciatela scorrere, questa vita cittadina che non potrebbe essere più normale, alle 19 di un lunedì, nel più tipico quartiere di media borghesia di Milano: via Piero della Francesca, davanti alla parrocchia San Giuseppe della Pace, zona Sempione, vicino alla sede Rai. 

Negozi, uffici. L'ora in cui le famiglie stanno andando verso casa per la cena. Ecco, in questo scenario del tutto ordinario, guardate quell'auto: Mercedes Classe A, nera, ferma con le quattro frecce, proprio davanti alla parrocchia. Un uomo sulla cinquantina al volante. Anonimo. E ora quel tizio altrettanto anonimo, più giovane, pantaloncini e maglietta nera, che esce da un ottico, attraversa la strada e sale in macchina. Partono.

Niente di strano, vero? Vero. Ma fidatevi di chi ha l'occhio: e ipotizza, dubita. Fiuta. «Seguiamola». (Siamo su un furgone. Abbiamo un'altra auto. E tre motorini. Sette uomini. Poliziotti, artisti del mimetismo urbano, capaci di affollare all'improvviso un quadrante cittadino di 50 metri quadrati senza che nessuno se ne accorga; Angelo, Totò, Ale, Paolo, Enzo, Antonio, Massimiliano; Squadra mobile, sesta sezione, «Contrasto criminalità diffusa», che in buona parte vuol dire anti-spaccio).

Bene, adesso tornate a fissare la Mercedes. Ora sapete che lo sciame invisibile dei poliziotti gli ronza intorno. L'auto nera La macchina parte. Svolta. Via Bullona. Palazzine basse. Balconcini fioriti. Giardinetti alberati. Milano curata, e riservata. Piazza Caneva. C'è traffico. «Stai vicino» (è Angelo che parla al collega che guida, gli altri sono connessi in una telefonata in vivavoce). Attraversiamo Mac Mahon. Quartiere appena più popolare. 

 La Mercedes entra in via Delfico. Paninoteca, bar, panificio. All'improvviso: una traversa a destra, strada chiusa. «Hanno svoltato. Noi col furgone dobbiamo toglierci dalla vista. Ale, guarda tu». Col furgone, avanziamo: sosta davanti al Conad, poco più avanti. Ale resta lì, sul motorino. Telefonata in diretta: «Il passeggero è sceso ed è entrato in un palazzo». «Aspettiamo». Passano quattro minuti. «È uscito. Risale in macchina. Partono».

Il gruppo riaggancia la macchina in movimento. Momento di dubbio. «Non abbiamo visto scambi, così non abbiamo niente». «Ma 'sti movimenti sono strani. Secondo me gli ha portato giù qualcosa». «Può essere». Nel frattempo la Mercedes torna verso il centro. Sfila lenta su corso Sempione. Poi via Melzi d'Eril, via Canova, via Pagano. Qui Milano diventa nobile, elegante, napoleonica.

«Ecco, si ferma». Il passeggero scende. Resta alla fermata del tram. La Mercedes si allontana. Ora sono due obiettivi separati. Anche lo sciame si smembra. Ultime perplessità, sempre in chiamata multipla: «Che facciamo?». Attesa. Poi, Angelo: «Basta. Li fermiamo e vediamo». La Mercedes viene bloccata in piazza VI Febbraio, sotto i grattacieli di Citylife. «Tranquillo, siamo la polizia, scendi». «Ma che succede?». 

«Non preoccuparti. Hai qualcosa in macchina?». «No, ma che scherzate?». I clacson degli altri automobilisti scandiscono una ventina di secondi. Totò fruga nel porta oggetti dello sportello della Mercedes. Tira su la testa. Si gira. Alza la mano con un sacchetto: «E questa?». «Ah, cazzo». Silenzio. Resoconto del servizio. Guidatore della Mercedes (spacciatore): 48 anni, disoccupato, incensurato, ex barista, residente in zona, 39 palline di cocaina, totale 18,8 grammi.

Passeggero (spacciatore/piccolo fornitore): 32 anni, operaio in una nota azienda pubblica, 480 euro in tasca. Perquisizione in casa, un'oretta dopo: busta trasparente identica all'altra, 31 palline di cocaina (15,1 grammi), più altri 35,5 grammi ancora da confezionare, due bilancini. In questura, entrambi racconteranno la balla di non essersi scambiati quella droga. Interessa molto di più quel che spiegheranno tra poco.

L'assegnato per questo articolo era: raccontare una serata/nottata in una «piazza di spaccio». Ma se qui a Milano le palline di cocaina ruzzolano di mano in mano già a metà pomeriggio, già il lunedì, tra bambini che escono da scuola e impiegati che entrano nei supermercati, allora bisogna allargare l'obiettivo. Che senso ha parlare di «piazza», di un luogo delimitato, magari un quartiere, o un caseggiato di radicata malavita, se l'intera città è una piattaforma ansiosa di un paio di righe?

E così non serve neanche andare a cercare di notte, non bisogna guardare alle fameliche feste high society coi vassoi pieni, o alla ciurma sfatta delle discoteche frequentate da mezzi vip, o (all'opposto) alle periferie dove i pusher di strada sono spesso maghrebini e gli acquirenti un po' balordi, perché tutti questi mondi (che pure esistono, e col naso continuamente spolverano) sono in qualche modo stereotipi: buoni per dire che lo stupefacente sta da un'altra parte, nelle piazze di spaccio appunto, ai margini della città «normale». Invece la piazza non esiste. 

O meglio: ogni strada è piazza. L'intera città è agorà. E il consumo non è eccezione, ma banalità. La pallina di coca recapitata a casa per 40 euro alle 20 del lunedì, prima di sedersi a cena. Normalità. Ve la possono raccontare loro, i due della Mercedes. Meglio di chiunque altro. Anche se adesso hanno le manette ai polsi (è Angelo che dialoga con loro, perché non vuole solo arrestare, vuole anche capire, il suo lavoro lo fa così da sempre). 

Guidatore: «Stavo iniziando a fare il giro. Mi chiamano sul telefono "del lavoro". O mi mandano un WhatsApp. Ogni pallina la prendo a 30 e la vendo a 40. Sono amici. Di base impiegati, lavorano in ufficio, gente normale. Tutti tra i 40 e i 50 anni. Scendono, salgono un attimo in macchina, pagano, prendono e ciao. Tutto molto tranquillo. Il mondo è marcio. È inutile dire alla gente di non drogarsi. Te lo posso dire io che ho la tachicardia, che ci sto annegando dentro. Sono tre anni che vendo. No, non mi avete mai beccato. 

Quanto ci metto a dar via quaranta palline? Boo, dipende, magari una settimana. Avete preso uno spacciatore anomalo (qui c'è da credergli, l'uomo mostra schiettezza e una certa sensibilità, ndr ). Sono depresso, da quando ho perso il lavoro. La depressione è proprio una cosa brutta. Vendo per usare. La cocaina non è una droga che mi interessa. Per me è un anti depressivo.

Quanta ne faccio? Mah, un grammo e mezzo, due al giorno. La prima riga al mattino. Se andate a casa mia trovate solo lo specchietto su cui stendo. Tranne un po' di spese, di base tutto quello che guadagno me lo pippo». «È normale» Altra stanza, altro arrestato, altra voce (tenta di far credere che la cocaina gli sia caduta in casa dal cielo): «Uso? Sì, ogni tanto. Quando sono in giro, nei locali, magari in Sempione. Esci, fai due bicchieri, ci sono gli amici e fai anche una riga. Secondo me è così in tutta Milano. O almeno, quella che conosco io è così, e io giro abbastanza. Posso smettere? Sì, certo. Però forse no. Se esci la sera, poi capita». 

Due voci, due facce, due impieghi della sostanza. Cocaina anti depressiva, cocaina ricreativa. Confini labili. Palline per alleviare il nero della città, palline per accentuarne la socialità. Anche per questo forse l'attenzione sociale è nulla. Mal comune, nessun allarme. Per dire, qualche sera prima di questi arresti, nella stessa zona, una signora è scesa in vestaglia a comprare da un pusher albanese. L'ultima frase è ancora dello «spacciatore anomalo»: «Quando ho iniziato? Tanti anni fa. Lavoravo in un locale. Sai come va... Giustamente ci cadi dentro». Pausa. Si corregge. In realtà, non intendeva dire che sia giusto: ma che è «normale».

Da ansa.it il 26 ottobre 2022.

Il gabinetto tedesco ha approvato un documento con le linee guida della legge sulla liberalizzazione della cannabis in Germania: questa prevede che si possa essere in possesso di una quantità della sostanza ad uso personale ricreativo entro i 30 grammi. "La politica sulle droghe va cambiata", ha affermato il ministro della Salute, Karl Lauterbach, in conferenza stampa a Berlino.

Il governo tedesco vuole regolare il consumo e la produzione della cannabis, per depenalizzarla e proteggere meglio anche la salute dei giovani, ha spiegato. "Il consumo della cannabis è aumentato. L'anno scorso 4 milioni di persone hanno fatto uso di cannabis in Germania. Nella fascia di età fra i 18 e i 24 anni a farne uso è il 25%". 

Il documento con le linee guida andrà adesso sottoposto alla Commissione europea e ad altri organismi di diritto internazionale, ha spiegato il ministro. Solo successivamente si potrà andare avanti nel processo normativo e una legge sulla depenalizzazione della cannabis per gli adulti potrebbe arrivare l'anno prossimo. È inoltre ancora oggetto di verifiche se si debba prevedere una soglia limite di Thc sotto i 21 anni.

Lauterbach ha spiegato di essersi a lungo occupato del legame fra uso continuativo della cannabis e il possibile insorgere di malattie come schizofrenia e psicosi, affermando di essere bene a conoscenza dell'ampia letteratura scientifica a riguardo. "Anche per questo sono stato sempre contrario in passato alla depenalizzazione, ho cambiato idea solo nell'ultimo anno e mezzo", ha detto rispondendo a una domanda in proposito di un giornalista.

"Ma questa politica non ha avuto successo in Germania e proseguendo così non andiamo da nessuna parte", ha affermato. "Il consumo della cannabis è aumentato anche fra gli adulti e la tendenza va nella direzione sbagliata", ha aggiunto. La legalizzazione dell'uso personale della cannabis a scopo ricreativo potrebbe andare di pari passo con una maggiore informazione anche sugli effetti collaterali, "per proteggere meglio al salute soprattutto dei giovani". 

Cannabis, dagli Usa di Biden un nuovo modello contro il proibizionismo. Il presidente americano cancella le condanne per possesso. E se l’Italia seguisse questo esempio di pragmatico garantismo? GIULIA CRIVELLINI, TESORIERA RADICALI ITALIANI, e FEDERICA VALCAUDA, MEMBRO DI DIREZIONE RADICALI ITALIANI, su Il Dubbio il 25 ottobre 2022.

Il nuovo governo si è formato, con la scelta dei ministeri che non commenteremo in questa sede ma con la certezza che non saranno anni facili per i diritti in questo Paese. Se c’è una realtà oggi nuova è che l’America che inventò il proibizionismo lo sta smantellando pezzo dopo pezzo. L’ultimo importante segnale, prima dei referendum sulla cannabis dell’ 8 novembre che vedranno coinvolti cinque Stati nordamericani, l’ha dato il presidente degli Stati Uniti d’America. Il 7 ottobre, con una proclamazione presidenziale, Joe Biden ha cancellato tutte le condanne federali per possesso di cannabis, sostenendo l’illogicità della reclusione per persone trovate in possesso di questa sostanza.

Negli Stati Uniti, così come in Italia, i detenuti a causa di reati relativi a sostanze stupefacenti sono la maggioranza e la cannabis è la sostanza più perseguita, nonostante ormai sia legale in molti Stati, creando sovraffollamento carcerario e quindi condizioni di detenzione che contrastano con i più basilari diritti della persona.

Alla proclamazione di Biden sono seguite le parole della vicepresidente Kamala Harris, che ha parlato di un cambio di approccio verso il sistema giudiziario, partendo proprio dal cambiamento delle politiche sulla cannabis. Anche il Paese che ha inventato la “war on drugs” prende dunque coscienza dei costi che gravano sulla vita delle persone: i precedenti penali portano barriere relative al lavoro, stigma sociale e iniquità.

Sappiamo che da noi il nuovo governo Meloni difficilmente si avventurerà in azioni di amnistia verso chi ha compiuto reati relativi alla cannabis, ma ricorderemo oggi e nel futuro le parole del nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che proprio in questi giorni ha detto: «Serve una riduzione dei reati. Va eliminato il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali».

Se questa affermazione vale, diventa ancora più consistente per quelli che oggi sono reati senza vittima e che non possono essere trattati al pari di altri. Senza dimenticare l’elevato numero di detenuti tossicodipendenti (circa il 30%) che non dovrebbero stare in carcere ma essere avviati a percorsi di sostegno. I prossimi mesi saranno allora cruciali, perché ci diranno se l’esempio che arriva dall’America, anche dopo i referendum delle mid- term, potrà aprire uno spiraglio di pragmatico garantismo in questo nuovo Governo.

Il processo di revisione sul nostro paese. Sulle droghe l’Onu bacchetta l’Italia: “Approccio punitivo, leggi da rivedere”. Leonardo Fiorentini su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

Lunedì sera il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’ONU (CESCR) ha pubblicato le proprie osservazioni finali sull’Italia, al termine di un processo di revisione periodico sul nostro paese aperto nel 2019. I 18 esperti indipendenti che monitorano l’attuazione da parte degli Stati membri della omonima Convenzione hanno espresso “preoccupazione per l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione e del danno” e quindi raccomandato “che lo Stato riveda le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme internazionali sui diritti umani e alle migliori pratiche, e che migliori la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno”.

Si tratta di un’autorevole conferma di quanto la società civile italiana ha denunciato da anni nel Libro Bianco sulle droghe, e una diretta risposta alle note inviate al CESCR da Forum Droghe e Harm Reduction International, insieme a LILA, la Società della Ragione e Itanpud. Le osservazioni si concentravano proprio sulla criminalizzazione e stigmatizzazione del consumo e sulla negazione in gran parte del territorio nazionale – carceri comprese – delle politiche di riduzione del danno (RdD). La Riduzione del Danno, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sino alle varie agenzie ONU, da ormai molti anni è riconosciuta come componente fondamentale del diritto alla salute. Purtroppo in Italia è garantita nominalmente come Livello Essenziale di Assistenza (LEA), ma senza un atto di indirizzo che obblighi le Regioni ad attivare servizi specifici. Il nuovo Piano d’azione sulle droghe, in cui è inclusa, a leggere le prime dichiarazioni della nuova maggioranza di governo non sembra aver un grande futuro. O almeno un futuro coerente con quanto emerso durante la Conferenza di Genova, in particolare per quanto riguarda decriminalizzazione e RdD.

Il quadro italiano è desolante. Solo 5 regioni hanno una solida implementazione di politiche di RdD. Da una ricerca condotta dalle ONG, solo un terzo circa di tutti i servizi RdD è considerato “stabile”, il resto è esternalizzato al privato sociale e soggetto a rinnovi, spesso incerti e di breve durata. Ci sono ben 6 regioni in cui questi servizi sono totalmente assenti, altre in cui sono presenti solo in pochi luoghi. Anche nelle regioni in cui sono più diffusi, non tutti i servizi sono disponibili e accessibili in tutte le città. Solo 9 regioni hanno programmi di scambio-siringhe mentre la strategia della consegna del naloxone è garantita solo in 7. Il drug checking, pur divenuto servizio stabile, legale e pubblico, fa parte del pacchetto di interventi in solo 4 regioni.

Preoccupanti anche i dati rispetto ai dati degli screening: solo il 28% delle persone assistite dai servizi pubblici è stato sottoposto al test dell’HIV, ancor meno (22%) a quelli per HBV e HCV. Alla terapia sostitutiva degli oppioidi accede solo il 30% della popolazione potenziale. In carcere è l’unico servizio disponibile per i detenuti, ma la continuità delle cure non è spesso garantita. Tutti gli altri non sono consentiti, perché l’uso di droghe in carcere è illegale e quindi ufficialmente “negato”. Sul piano della repressione il quadro non è certo migliore. Il 36% di coloro che entrano in carcere sono definiti “tossicodipendenti”. Il 35% dei detenuti in Italia è invece in carcere per reati legati alla legge sulle droghe. Il doppio della media europea e molto di più della media mondiale. Sette su dieci sono in carcere per reati minori. Anche se grazie al referendum del 1993 il consumo non è più punibile con il carcere, è rimasta la struttura repressiva della Jervolino-Vassalli.

La distinzione stessa tra uso personale e spaccio è molto sottile. Sia a causa dei bassi limiti di detenzione, indeterminabili per i consumatori, che per gli indizi di spaccio, comunemente reperibili in qualunque casa italiana. Finisce spesso che siano gli imputati che devono dimostrare il consumo personale, con un’inversione dell’onere della prova a volte insuperabile per chi non si può permettere una difesa adeguata. Così, i più deboli finiscono per affollare le carceri. Le leggi sulle droghe, e lo stigma verso le persone che le usano, sono legate a doppio filo con numerosi decessi a seguito di fermi, arresto e detenzioni: si pensi ai casi noti, come Cucchi, Bianzino, Aldrovandi e Magherini.

Anche quando è acclarata la detenzione per uso personale e la sanzione è solo amministrativa, la repressione colpisce duro. Non si tratta di una multa, ma di pesanti misure punitive ed emarginanti, come la revoca della patente e del passaporto, anche senza che la persona abbia tenuto una condotta pericolosa. La loro perdita in molti casi pregiudica il diritto al lavoro e allo studio, così come la possibilità di muoversi liberamente. Dal ‘90 ad oggi circa un milione e mezzo di italiani sono stati segnalati per questi provvedimenti, un milione per possesso di cannabis. Spesso alla perquisizione in strada ne segue una a casa. Con lo stigma che ne consegue, in famiglia e nel quartiere. Sono purtroppo ben noti diversi casi di suicidio legati alla repressione del consumo.

La legge è talmente spietata che anche malati bloccati a letto, come Walter de Benedetto, finiscono sotto processo penale per coltivazione di cannabis. La loro colpa è quella esser stati costretti ad autocoltivarsi la pianta perché l’Italia non è in grado di garantire loro la continuità terapeutica, a causa di una inspiegabile incapacità di assicurare la quantità effettivamente richiesta di cannabis medica. Il CESCR ha deciso anche di iniziare il lavoro su un commento generale sull’”impatto delle politiche sulla droga sui diritti economici, sociali e culturali”. Un ulteriore passo avanti verso un approccio complessivo alla questione droghe, troppo spesso relegata a fatto criminale o – quando va bene – sanitario, senza mai indagare invece le sue dimensioni sociali, economiche e culturali.

Leonardo Fiorentini

Cristina Giongo per “Avvenire” il 13 ottobre 2022.

La sindaca di Amsterdam, Femke Halsema, durante un congresso sulla droga organizzato dal ministro della Giustizia Dilan Yesilgöz tenutosi nella città alla presenza di parecchi ministri europei (di Belgio, Francia, Germania, Italia e Spagna) ha lanciato una proposta a dir poco preoccupante: «Nel nostro Paese si deve legalizzare la cocaina. In questo modo si aiuterebbero i quartieri più a rischio ad uscire dal circuito criminale che li domina. Guardiamo la situazione in faccia, i fatti parlano chiaro: il suo commercio ed utilizzo cresce in maniera esponenziale. Ogni intervento del passato è servito a poco. Bisogna cercare un'altra strada».

Halsema è da tempo una sostenitrice della liberalizzazione della cocaina, «con regole precise sui canali di vendita ed il suo uso», ha precisato questa volta. Una posizione che appare isolata. Al contrario, il sindaco di Rotterdam, Ahmed Aboutaleb, da anni si batte contro gli stupefacenti e il violento monopolio della criminalità organizzata domandando pene più severe ed interventi anche con l'impiego di forze militari.

Sua, infatti, la dichiarazione: «Dobbiamo convincere chi ne fa uso che c'è sangue nella cocaina che consuma». Alcuni mesi fa era andato in Colombia, con il collega di Anversa Bart De Wever, per chiedere la collaborazione della polizia per bloccare i carichi di cocaina diretti in questi due grandi porti europei. Si tratta di 40 tonnellate sequestrate solo nel 2020, salite l'anno scorso a 74 .

Non solo: di recente i ministri della Difesa e della Giustizia olandesi si sono recati a Roma, ricevuti dal ministro degli Interni Lamorgese, esprimendole la loro «ammirazione» per come l'Italia ha affrontato, «attivamente e duramente la delinquenza gestita dalla mafia che gravita attorno al mondo della droga». 

Sperando di trarne un insegnamento. Ma Halsema la pensa diversamente, senza valutare il pericolo a livello di salute pubblica e di allargamento dell'uso dei consumatori per l'abbassamento del prezzo di acquisto. E, secondo una statistica del Trimbos Instituut, in media in Europa vengono «sniffate 60 strisce di cocaina al secondo».

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 13 ottobre 2022.

Già la sua nomina, a inizio settembre, aveva suscitato qualche perplessità: una ministra della Salute amante dei sigari, delle bevute e decisamente con qualche chilo di troppo. E lei stessa, Thérèse Coffey, aveva ammesso di «non essere un modello»: ma tant' è, lei è amica di vecchia data della premier Liz Truss, che se la tiene stretta al fianco e le ha dato pure il rango di vicepremier. 

Ma adesso l'improbabile ministra è finita nel mirino delle critiche non per le sue scelte di vita personali, bensì per le decisioni politiche sulla salute di tutti: ha mandato in soffitta la campagna anti-fumo del governo britannico, rifiutandosi di raccomandare l'innalzamento dell'età per acquistare tabacco di un anno ogni anno e di stanziare altri 125 milioni di sterline (poco meno di 150 milioni di euro) per incoraggiare la gente a smettere di fumare.

Interrogata alla radio sui progressi verso l'obiettivo governativo di rendere la Gran Bretagna un Paese «no smoking» entro il 2030 (ossia di scendere sotto il 5% di fumatori), la Coffey ha risposto di non saperne nulla «perché non mi sono occupata di questa specifica politica di prevenzione»: e ha aggiunto che le sue priorità sono piuttosto le ambulanze e le liste d'attesa che affliggono il sistema sanitario nazionale. 

Ma in realtà, al di là dei toni evasivi, si sa benissimo dove batte il suo cuore: in passato l'attuale ministra della Salute ha votato contro il bando al fumo nei luoghi chiusi, contro l'obbligo di vendere sigarette in pacchetti anonimi e perfino contro la messa fuorilegge del fumo nelle macchine quando ci sono bambini.

In quest' ultimo caso, ha spiegato ieri di non pensare che la cosa giusta da fare sia «dire ai genitori come gestire la situazione»: a suo avviso, non si tratta di imporre misure di salute pubblica «prescrittive», ma piuttosto di preferire «un programma positivo di prevenzione». 

Sono posizioni radicate in un credo libertario condiviso da Liz Truss, che nel suo recente discorso al congresso conservatore ha affermato che non è compito del governo «dire alla gente come condurre la loro vita». E infatti anche la premier, quando era una semplice parlamentare, aveva votato contro le misure antifumo e a favore di un allentamento dei divieti nei pub.

È un atteggiamento che va contro le stesse politiche perseguite dai governi conservatori negli ultimi dieci anni, che tramite aumenti delle tasse e restrizioni alla pubblicità sono riusciti a far scendere i fumatori al 14% della popolazione. Un piano di lungo termine di riduzione dell'uso del tabacco che non solo allenta la pressione sul servizio sanitario, ma contribuisce a raggiungere l'obiettivo governativo di allungare di 5 anni l'aspettativa di vita entro il 2035: il fumo è infatti considerato responsabile di 78 mila decessi l'anno in Gran Bretagna.

Il problema in più è che il lockdown ha indotto molte persone a rimettere mano alle sigarette: ed è anche per questo che, in un editoriale, il Times ha bollato l'atteggiamento di Thérèse Coffey come «deludente e sbagliato». Perché, fa notare, nel caso del fumo la discussione è andata oltre la tensione fra libertà personale e salute pubblica.

Marta Signori per “la Repubblica” il 30 settembre 2022.  

Si chiama binge drinking ed è il fenomeno che preoccupa di più quando si discute del consumo di bevande alcoliche tra minorenni, e si può definire così: il consumo di cinque-sei drink nell'arco di circa due ore. Il fenomeno dell'abbuffata alcolica non è sempre esistito, per lo meno non nella cultura mediterranea, dove l'alcol ha sempre trovato posto regolarmente, ma in esigue quantità. Nel classico bicchiere di vino o birra a pasto, degustato in una situazione familiare.

«Il binge drinking è un'abitudine nata nei paesi nordici-anglosassoni - chiosa Michele Contel, segretario generale dell'Osservatorio permanente sui giovani e l'alcol - dove in settimana tradizionalmente non si beve, mentre nel weekend si esagera. Con l'attenuazione delle differenze culturali, la prossimità degli stili alimentari e la disponibilità a viaggiare, da circa trent' anni si parla di binge drinking anche nelle culture latine come Italia, Spagna, Francia, e ha coinvolto prima di tutti i giovani e gli universitari». I dati del 2019 dell'European School Survey Project on Alcohol and other Drugs dicono che il fenomeno, tra i giovani italiani, si attesta intorno al 29%.

«È una percentuale piuttosto allarmante, perché è un'abitudine che può causare gravi danni alla salute», sottolinea Contel: «Anche se il binge drinking non va considerato un tratto di alcolismo, perché in Italia, dopo i 25-30 anni, i consumi in genere tornano nella media». Cosa che, invece, non accade in paesi come gli Stati Uniti, dove c'è un divieto molto severo nei confronti dell'alcol fino ai 21 anni, «con la conseguenza frequente che anche in età adulta si consolidano consumi molto più alti rispetto ai nostri» osserva l'esperto.

L'iniziazione all'alcol familiare, che spesso caratterizza le tavole degli italiani, da una parte ha dei difetti, perché porta a bere prematuramente, ma dall'altra sembra fornire una conoscenza precoce della sostanza, che a sua volta genera una buona capacità di difesa negli anni successivi e poi da grandi. «Ricerche scientifiche mostrano che i giovani che iniziano a bere sotto il controllo genitoriale, in un contesto non esasperato di reiterazione del comportamento, riescono a evolvere in consumatori moderati» fa sapere Contel: «Dall'altra parte, ci sono casi in cui l'iniziazione precoce in contesti critici porta a un uso consolidato e a un abuso: si stima che poco meno dell'1% dei 13-14enni che beve sviluppa una dipendenza da alcol e danni importanti alla salute».

In età adolescenziale, infatti, l'alcol è più tossico che mai. Non solo perché non viene metabolizzato per l'assenza dell'enzima alcol deidrogenasi, ma anche perché ostacola il naturale sviluppo cerebrale. «Durante l'adolescenza il cervello è in piena fase di maturazione. Il sistema limbico, deputato alla percezione delle emozioni, matura prima rispetto alla corteccia prefrontale, deputata al giudizio e alla limitazione dell'impulsività - spiega Maria Pontillo, psicologa della Unità di Neuropsihiatria dell'infanzia e dell'adolescenza del Bambino Gesù di Roma - .

Questo fa sì che da una parte l'adolescente, sotto la spinta della propria emotività, ricerchi sensazioni sempre nuove con l'alcol, che può essere uno strumento di sperimentazione ed evasione; ma dall'altra che l'etanolo interferisca con il suo sviluppo cerebrale, ostacolando, se assunto in eccesso, la corretta maturazione». Gli adolescenti che abusano spesso di alcol (cioè vanno oltre l'una o le due assunzioni settimanali) avranno presto problemi di memoria, concentrazione, attenzione. Saranno anche più impulsivi e, a volte, più aggressivi.

«La gravità degli effetti - aggiunge la specialista - tende a essere direttamente proporzionale alle quantità che si assumono, ma anche gli adolescenti che non abusano di alcolici possono risentirne. Per esempio con alterazioni del ritmo sonno-veglia, una minore capacità di attenzione sostenuta e un aumento dei livelli di irritabilità». Acclarato che bere durante lo sviluppo è dannoso e andrebbe evitato, Contel sottolinea quanto sia impossibile che non accada, specie nelle culture occidentali: «Se vogliamo portare i ragazzi a scegliere la salute, è basilare fare dei discorsi responsabilizzanti stimolando in loro un atteggiamento critico.

Insegnare il senso della moderazione è uno degli strumenti per farlo». 1 lattina di birra (330 ml a 4,5°) 1 bicchierino di superalcolico (40 ml a 40°) 1 aperitivo (80 ml a 38°) è di 12 grammi di alcol ed equivale a: genoma. Come dalla nostra età: i giovani devono astenersi. Eppure, ne consumano troppo. E le conseguenze sulla salute sono direttamente proporzionali ai drink Circa il 29% dei ragazzi italiani ne soffre. È un'abitudine nata nei paesi anglosassoni.

INCHIESTA SULLE DROGHE. I sommersi e i salvati: storia delle terapie per la tossicodipendenza. VANESSA ROGHI su Il Domani il 24 settembre 2022

Dall’approccio fondato sul carcere e gli ospedali psichiatrici ai centri di riabilitazione: l’evoluzione incerta delle cure 

Negli Cinquanta e Sessanta l’approccio prevalente è quello di trattare il drogato come un criminale o un malato psichiatrico, la dipendenza è vista come un problema di debolezza psicologica o inclinazione a delinquere. 

Poi nascono i primi centri di riabilitazione, ma con molte contraddizioni: il drogato deve espiare la sua colpa, più che trovare le forze e gli strumenti per uscire da una situazione di cui ha perso il controllo. 

Negli anni Settanta e Ottanta si afferma l’idea che dalla droga bisogna uscire da soli, anche il metadone viene somministrato in dosi basse per timore che si sostituisca l’eroina con una “droga di stato”, ma così l’intervento risulta meno efficace. 

VANESSA ROGHI. È una storica, autrice di documentari per la Rai. Ha scritto Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza 2018).

Niccolò Dainelli per leggo.it il 23 settembre 2022.

«Conoscete questa bomboletta?». Inizia così l'allarme social di una mamma spaventata, lanciato su Facebook qualche giorno fa. Dall'inizio dell'estate, secondo quanto riportato da “Il Messaggero”, il parco è pieno di questi piccoli oggetti color argento. I contenitori contengono monossido di diazoto, conosciuto a tutti come gas esilarante. Una droga che tra i giovanissimi sta spopolando.

L'allarme è stato lanciato da una mamma sui social qualche giorno fa: «Cosa sono queste bombolette? Ne ho trovate tantissime vicino alla scuola di mia figlia». La scuola in questione è la Casa dei bambini che confina con il parco di Forte Antenne. Secondo molti residenti, il parco è pieno di recipienti vuoti. Solitamente sono utilizzati per le camere d'aria delle biciclette o per la panna montata. Ma ultimamente hanno assunto una funzione molto più pericolosa: dosi di vera e propria droga, per lo sballo dei giovanissimi.

Una moda che nasce a Londra e sta conquistando le generazioni di molte città europee. Il gas esilarante conquista il mercato della droga, diventando il terzo stupefacente più utilizzato dopo la cannabis e l'Mdma, nei ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Una moda che sta approdando con velocità sorprendente anche in Italia e, appunto, a Roma. Le cartucce del gas sono vendute nei supermercati o su internet e, per questo, hanno conquistato i più giovani.

Una bomboletta da 8 grammi costa circa un euro e, se aspirata, assicura due minuti di euforia, ma anche e soprattutto una dipendenza pericolosa. Il suo effetto, una volta terminato, provoca malori e giramenti di testa che porta chi ne fa uso al bisogno di farne altre inalazioni. Il parco di Roma ne è pieno... ma nessuno, finora, sembra essersene preoccupato.

Nel 2018 alcuni giocatori dell’Arsenal finirono in prima pagina per un festino a base di gas esilarante dopo che anche la stella del Manchester City, Raheem Sterling, era finito sotto i riflettori per lo stesso motivo. Nel 2010 venne fuori che persino il principe Harry si era fatto qualche palloncino di ossido di diazoto. Adesso, però, il gas esilarante ha conquistato anche i giovanissimi. Complica la facilità con cui è reperibile e un costo davvero alla portata di tutti, il gas esilarante entra di prepotenza nel giro delle droghe da inalazione e spaventa i genitori.

Da corriere.it il 17 ottobre 2022.

Le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato non aiutano i fumatori a smettere di fumare ma anzi spingono verso la dipendenza. Lo dice uno studio prospettico italiano, il primo del suo genere in Europa, coordinato dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Bergamo in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, l’Università di Pavia e l’ISPRO di Firenze.

Secondo lo studio le sigarette elettroniche portano i non-fumatori, soprattutto i più giovani, a iniziare a fumare sigarette tradizionali e gli ex-fumatori a ricadere nella dipendenza da tabacco. I risultati di questa ricerca, realizzata grazie a un importante finanziamento dell’AIRC, sono stati pubblicati sull’autorevole rivista Tobacco Control. «Il sospetto che questi nuovi prodotti non aiutassero a ridurre la dipendenza da tabacco era già diffuso – spiega Alessandra Lugo dell’Istituto Mario Negri –, tuttavia mancavano le conferme di studi prospettici, ovvero studi in grado di indagare gli effetti di questi dispositivi nel tempo. Lo studio appena pubblicato ha proprio questa caratteristica, e ci ha permesso di rilevare come sono cambiati i comportamenti di oltre 3.000 italiani nell’arco di sette mesi».

«Tra coloro che non fumavano sigarette tradizionali alla prima intervista – continua Roberta Pacifici dell’Istituto Superiore di Sanità - la proporzione di soggetti che ha iniziato a fumarle era 9 volte superiore tra gli utilizzatori di sigarette elettroniche e 6 volte superiore tra gli utilizzatori di prodotti a tabacco riscaldato, rispetto a chi non li usava affatto. Inoltre, tra coloro che si definivano ex-fumatori alla prima intervista, la percentuale di soggetti che ha ricominciato a fumare sigarette era 4 volte superiore tra chi usava sigarette elettroniche e 3 volte superiore tra chi usava prodotti a tabacco riscaldato. Non solo, chi è riuscito a smettere di fumare era soprattutto chi non faceva uso dei due prodotti».

«Non è giusto – commenta Silvano Gallus dell’Istituto Mario Negri, responsabile del progetto – che questi dispositivi godano di benefici fiscali e regolatori rispetto alle sigarette tradizionali, quando è chiaro che non aiutano a ridurre il numero di fumatori. Se sotto controllo medico, infatti, alcune sigarette elettroniche potrebbero anche aiutare a smettere di fumare, l’ampia accessibilità a tutti, anche ai più giovani, è un ostacolo al controllo del tabagismo e una minaccia per la salute della popolazione». La ricerca è stata resa possibile grazie a fondi ottenuti tramite bandi competitivi e presenta nuove evidenze nella letteratura scientifica, già «contaminata» da risultati fuorvianti che derivano da studi con conflitti di interesse con l’industria del tabacco spesso non dichiarati.

Così le sigarette elettroniche possono danneggiare i polmoni. Gli adolescenti che "svapano" sono più soggetti a bronchiti croniche e a respiri sibilanti. L'appello ai politici: informate i giovani e le famiglie, potrebbero esserci anche rischi cardiovascolari. Gioia Locati su Il Giornale l'1 Settembre 2022

Sono entrate in commercio nel 2007 con il proposito di distogliere i fumatori più accaniti dal vizio del fumo, e ora, dopo 15 anni, ci si accorge che le sigarette elettroniche, seppur senza nicotina, danneggiano il sistema respiratorio e, nelle cavie, anche quello cardiovascolare. Alcuni studi di evidence based medicine (la cui traduzione è "medicina basata sulle prove di efficacia" e non sulle evidenze, poiché l’evidenza non ha bisogno di prove) hanno trovato legami tra l'uso di sigarette elettroniche contenenti liquidi aromatizzati e asma, respiro sibilante o sintomi correlabili a bronchiti croniche, come tosse persistente e catarro, tra gli adolescenti.

Da qui la preoccupazione dell'American Heart Association (AHA), pubblicata sulla rivista Circulation Research e ripresa anche dalla rivista Jama.

Negli Stati Uniti, dal 2019, il limite di età per svapare è stato alzato dai 18 ai 21 anni; in Italia basta essere maggiorenni (i divieti si riferiscono all’acquisto dei prodotti).

Si legge su Circulation

“Al di là del contenuto di nicotina e del rapporto tra glicerina vegetale (VG) e glicole propilenico (PG), la composizione dei liquidi all'interno di questi dispositivi (comunemente chiamati liquidi elettronici) non è pubblicamente nota, il che rende difficile prevedere gli effetti sulla salute, compresi gli effetti sui polmoni e sul cuore”.

Quindi: “A causa della novità di questi prodotti, non sono disponibili studi epidemiologici a lungo termine. La personalizzazione delle sigarette elettroniche, inclusi i livelli di potenza, il contenuto di liquidi elettronici e l'abbondanza di aromi, rende difficile la regolamentazione dei prodotti”.

Gli autori proseguono: “È diventato sempre più evidente che i sistemi elettronici di somministrazione della nicotina sono in continua evoluzione. Pertanto, la comprensione dei loro effetti sulla salute è fondamentale […]”.

In sintesi

Le sigarette elettroniche sono state anche commercializzate come ausili per smettere di fumare; sebbene la Food and Drug Administration (FDA) statunitense non abbia approvato le sigarette elettroniche come aiuto alla cessazione, l'industria a volte ha posizionato i propri prodotti in quel modo.

Rispetto al cerotto la loro efficacia nel ridurre il consumo di nicotina è assente. Anzi si è osservato che gli adolescenti che iniziano a svapare sono più propensi poi a diventare dipendenti dalle sigarette.

La tossicità del vapore di sigaretta elettronica rimane poco conosciuta, con alcuni piccoli studi che suggeriscono una potenziale tossicità cardiopolmonare. Con l'eccezione della nicotina, la maggior parte dei componenti di e-liquid elencati sono nell'elenco della FDA è generalmente considerato sicuro (GRAS). Tuttavia, è importante sottolineare che la maggior parte delle sostanze chimiche nell'elenco GRAS erano intese come componenti alimentari e un aspetto chiave dell'atto GRAS è che "la sostanza deve essere 'generalmente riconosciuta' come sicura alle condizioni della sua destinazione d'uso”.

Molti componenti del GRAS non sono stati testati per la tossicologia per inalazione e il loro impatto sul sistema polmonare è sconosciuto.

Numerosi studi hanno scoperto che acetaldeide, acroleina, diacetile e formaldeide si formano dopo lo svapo. L'acroleina e la formaldeide sono potenti irritanti e noti cancerogeni.

Le raccomandazioni ai politici

In sintesi ecco l'appello che gli studiosi rivolgono ai responsabili politici di ogni nazione:

· Adottare misure per ridurre l'accesso dei giovani alle sigarette elettroniche, inclusa la rimozione di tutte le sigarette elettroniche aromatizzate

· Limitare la commercializzazione di sigarette elettroniche ai giovani nelle piattaforme online

· Offrire programmi atti a smettere di fumare per i giovani che comprendano anche le e-cig

· Includere nella formazione dei medici anche programmi sui rischi a breve e lungo termine dello svapo

· Incorporare anche le sigarette elettroniche nelle leggi che regolano il fumo nei luoghi chiusi.

Conclusioni

"Gli adolescenti che iniziano a svapare possono restare dipendenti per tutta la vita e, al momento, non si sa quali malattie potrebbero sviluppare nel corso della loro vita; i medici possono aiutare a educare genitori e bambini sui pericoli dello svapo, oltre a promuovere leggi più severe per vietare la vendita e la commercializzazione di sigarette elettroniche agli adolescenti", hanno concluso gli autori.

Casaleggio a libro paga della Philip Morris, tutti i dettagli della maxi consulenza. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Novembre 2020 

Casaleggio Associati srl – che ha manifestamente operato fino a oggi come società di servizi per il Movimento Cinque Stelle – ha incassato da Philip Morris Italia la maxi somma di 1.950.166 euro e 74 centesimi, al netto dell’Iva. Quasi due milioni di euro tondi, che con l’Iva arrivano a 2.379.203 euro. Una cifra impressionante, riferita ad un periodo di fatturazione, da noi analizzato, compreso tra il settembre 2017 e lo scorso mese di ottobre 2020. Il rapporto di consulenza tra il gigante mondiale dell’industria del tabacco e la Casaleggio Associati riveste carattere di continuità: le fatture non sono relative ad un evento specifico ma regolarmente cadenzate nel tempo.

Quelle che abbiamo avuto modo di verificare riguardano 49 pagamenti, molti dei quali da 50.000 euro tondi, alcuni minori ed altri, in particolare la fattura di fine anno, staccata a fine novembre, di 140.000 euro. La media dei bonifici partiti da Philip Morris e ricevuti dalla società di Davide Casaleggio è stata nel tempo di 40.000 euro al mese nel periodo esaminato. Rispetto all’arco di tempo tra il 2017 e il febbraio 2018 si nota un incremento nelle cifre versate a partire dal marzo 2018, quando il Movimento Cinque Stelle va al governo con la Lega. Sarà un caso, ma quando la settimana scorsa è esploso il caso dell’europarlamentare Dino Giarrusso, lo stesso s’è abbandonato a uno sfogo dal sen fuggito: «Ho ricevuto un contributo come tutti i parlamentari del Movimento. Io odio il fumo, non ho nulla a che fare con la lobby del tabacco. Ho pensato solo: se hanno finanziato tutti gli eletti alle politiche del 2018, potranno finanziare anche me».

Corroborati dall’ammissione inequivocabile dell’ex Iena, abbiamo focalizzato la lettura degli interventi normativi mirati. Siamo andati a spulciare i conti. A verificare le transazioni. E soprattutto, abbiamo ricollegato quella gigantesca e continua operazione di sostegno finanziario ai servigi resi. Ne risulta che l’industria del tabacco, e Philip Morris in modo particolare, ha beneficiato di un trattamento di favore relativo soprattutto al regime di tassazione agevolata che riguarda il tabacco bruciato. Le sigarette elettroniche. I prodotti innovativi come Iqos, per intenderci. Su di loro è stata applicata, in via fiduciaria, dando per buona l’asserita minore nocività sulla salute, una riduzione importante sull’applicazione dell’accise. La tassa che lo Stato esige sui prodotti del tabacco è stata ridotta negli anni.

Nel 2014, quando il primo prodotto da tabacco bruciato compare sul mercato italiano, la riduzione è del 50%. Quando il Movimento Cinque Stelle vince le elezioni del 4 marzo 2018 e dà vita al primo governo Conte, ecco che lo sconto sulle accise si riduce di un ulteriore 25%, diventando così del 75%. A dispetto della valutazione delle autorità sanitarie, che nello stesso periodo chiedono alle case produttrici di approfondire test ed esami clinici, la liquidità che viene garantita dal minor gettito si fa gigantesca. Per intenderci: se un pacchetto di sigarette tradizionali costa 5 euro, 4 sono quelli che vanno all’erario, tra accise ed Iva. 50 centesimi vanno al tabaccaio, come agio. Il margine per il produttore è di 50 centesimi a pacchetto venduto. Per i prodotti da tabacco riscaldato, no: il pacchetto costa 4,50 euro in media. Al tabaccaio vanno anche in questo caso 50 centesimi. Ma all’erario va meno. Diciamo 1,50 euro. Il margine per Philip Morris è di 2,50 euro per ciascun pacchetto venduto; non a caso il marketing delle grandi aziende di tabacco è così fortemente orientato su quei prodotti.

Per capirci: in Italia sono stati venduti in quattro anni 13 milioni di Iqos, per ognuno dei quali devono essere acquistate le ricariche, continuamente. Il margine realizzato raggiunge cifre stratosferiche. Tanto che alla voce “investimenti” figurano società di lobbying e realtà ibride in grado di dialogare con la politica. Di incidere sulla sfera pubblica e sui decisori. Siamo nell’ambito dell’illecito? Non sta a noi dirlo.

Siamo però in un campo minato, dove dietro a ogni piantina di tabacco possono nascondersi grandi insidie. Perché una industria così potente in Italia sembra aver messo tramite i lobbisti i propri artigli sui parlamentari del primo partito politico, perno del governo del Paese da due anni. Forti di un gettito di 14 miliardi di euro, le industrie del tabacco sembrano essere riuscite a influenzare direttamente le decisioni che le riguardavano, realizzando profitti a scapito dell’erario pubblico. Aiuto di Stato, potremmo definirlo, e non sapremmo dire come la prenderebbe l’Europa. Minor introiti per finanziare scuola, ricerca, sanità e trasporto pubblico in un momento di grave crisi per il Paese, certamente.

Di nuovo regime fiscale si è iniziato a parlare qualche settimana fa, quando il Direttore dell’Agenzia delle Dogane, l’economista Marcello Minenna, ha preparato un intervento specifico da sottoporre al governo, per il collegato alla manovra di bilancio. Minenna prevedeva un nuovo regime fiscale con il superamento dell’equivalenza e l’introduzione di un prelievo calcolato sul prezzo di vendita al pubblico dichiarato dal produttore, obbligo del bollino dei Monopoli e vendita solo dopo il via libera dell’Agenzia delle dogane per le sigarette elettroniche e i liquidi utilizzati per lo svapo, chiedendo alla maggioranza di introdurli nella nuova legge di Bilancio in preparazione. Poi però è arrivata – anche quest’anno – una manina. Invisibile, come avvolta in una nube di fumo. E ha cancellato tutto.

«Niente più rincari per le sigarette elettroniche – attesta Ansa il 15 scorso – nell’ultima bozza della manovra salta, infatti, la previsione di una accisa del 25% del prezzo di vendita sui prodotti derivati dal tabacco, i tabacchi da inalazione senza combustione, le sigarette elettroniche e i prodotti accessori che sarebbe scattata dal primo gennaio». Quando si indaga è importante trovare la pistola fumante. Noi abbiamo trovato un Iqos.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste. 

Il Parlamento italiano fa un altro regalo alle multinazionali del tabacco. L'Indipendente il 23 febbraio 2022.

Il cosiddetto decreto legge Milleproroghe, dopo la fiducia accordata dalla Camera il 21 febbraio ed il voto finale del giorno seguente, dovrà ora essere approvato definitivamente dal Senato: al testo, però, sono state apportate alcune modifiche passate in sordina ma estremamente rilevanti, in quanto costituirebbero un vero e proprio regalo per le multinazionali del tabacco. Al suo interno, infatti, è stato inserito l’articolo 3-novies, che prevede il congelamento del previsto aumento del 5% delle accise sulle sigarette elettroniche nonché l’arrivo sul mercato di un nuovo prodotto: le “nicotine pouches”, ovvero bustine di nicotina da inserire tra il labbro superiore e la gengiva che permettono di assorbire la sostanza senza alcuna combustione. Non si tratta comunque della prima volta che in Italia ci si muove a favore delle aziende del tabacco: basterà ricordare l’emendamento alla finanziaria, presentato nel dicembre scorso da quattro parlamentari leghisti, atto ad eliminare l’incremento progressivo dell’incidenza fiscale per il 2022 e il 2023 applicata al tabacco riscaldato, un settore nel quale la Philip Morris International (PMI) gioca il ruolo di leader mondiale.

Per quanto riguarda il congelamento dell’aumento delle accise, nello specifico, quella per i prodotti succedanei dei prodotti da fumo viene prorogata “al 20 e al 15 per cento dal 1° gennaio 2022 al 31 marzo 2022”, mentre poi viene abbassata “al 15 e al 10 per cento dal 1°aprile 2022 fino al 31 dicembre 2022”. Tutto ciò si tradurrebbe dunque in introiti aggiuntivi per 7 milioni e 200 mila euro per le multinazionali del tabacco, essendo questa la cifra che viene indicata come “oneri derivanti dal comma 1”, ossia quello che ha introdotto le disposizioni sulle accise appena citate. Un importo a cui lo Stato italiano farà fronte tramite risorse che arrivano da fondi Mef (Ministero dell’economia e delle finanze) e, per circa 1 milione, dalle nuove imposte: le “nicotine pouches”, infatti, saranno soggette ad “imposta di consumo pari a 22 euro per chilogrammo”.

Di conseguenza, probabilmente con la motivazione di coprire le spese, è stato dato il via libera a questo nuovo prodotto, che però non solo a sua volta beneficerà delle accise più basse, ma sembrerebbe fare felici i colossi del tabacco. In particolare, potrebbe ritenersi soddisfatta la British American Tobacco (BAT), ovverosia la seconda più grande azienda mondiale produttrice di sigarette. Quest’ultima, infatti, starebbe pensando di avviare la produzione delle nicotine pouches nello stabilimento che aprirà a Trieste, per il quale saranno investiti fino a 500 milioni di euro nell’arco di 5 anni.

Detto ciò, merita menzione anche il modo in cui si è arrivati ad introdurre nel testo quanto detto finora. La modifica, infatti, è stata approvata a larga maggioranza: ad opporsi sono stati in pochissimi, tra cui il deputato di Alternativa ed ex membro del Movimento 5 Stelle Raffaele Trano che, tramite delle dichiarazioni rilasciate al giornale Tag43, ha denunciato non solo il fatto che «queste norme-riforma entrino con emendamenti notturni» ma altresì che siano appunto supportate da «partiti come il Movimento 5 stelle, che un tempo le denunciava mentre oggi nemmeno si astiene». Anche Forza Italia però ha votato contro, con il vicecapogruppo a Montecitorio Raffaele Nevi che ha affermato: «È impensabile inviare un emendamento così complesso, che regolamenta di fatto un intero settore, poco prima di metterlo in votazione e senza discuterne in maggioranza».

[di Raffaele De Luca]

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L'inchiesta sulla Fondazione Open. I Pm e le ‘indagini creative’ su Renzi, ma su Philip Morris chiudono gli occhi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Novembre 2021 

Il ministro degli Esteri Di Maio, intervenendo a un convegno nell’ambito di Expo 2020, si è detto soddisfatto per gli investimenti che Philip Morris sta realizzando in Italia. Già. E così mi è venuta in mente tutta la vicenda dei rapporti stretti tra i 5 Stelle e Philip Morris della quale in realtà ha parlato quasi solo il nostro giornale ma è una vicenda bella grossa. Mi è venuta in mente anche per un’altra ragione. Ho messo mentalmente a confronto il rumor di grancassa intorno all’inchiesta dei Pm fiorentini su “Open” e il silenzio ovattato intorno a questa vicenda di Philip Morris. Vediamolo bene questo confronto.

“Open” è una Fondazione che è stata finanziata in maniera volontaria e con somme relativamente modeste da alcune centinaia di sostenitori. Non sottobanco. Ogni euro versato è stato bonificato, registrato, dichiarato e segnalato. Non c’era niente di illegale né di losco. I Pm di Firenze hanno deciso di mettere sotto indagine “Open” per due ragioni. Una evidentemente vera, l’altra evidentemente pretestuosa. La ragione vera è che “Open “è roba di Matteo Renzi, e un pezzo di magistratura e di informazione (entità talvolta quasi coincidenti) da tempo hanno messo Renzi nel mirino. Se non si trovano reati a suo carico resta solo la possibilità dell’”indagine creativa” che invece di fondarsi sul codice penale si fonda sulla capacità di inventiva degli inquirenti.

L’inventiva, a pensarci bene, è una qualità, non un difetto. E così i Pm hanno deciso che siccome finanziare una Fondazione non è reato, neppure un pochino, basta però stabilire che “Open” non è una Fondazione ma un partito e il finanziamento (almeno una parte del finanziamento) anche se dichiarato e trasparente diventa reato, sulla base di una legge recente che equipara il finanziamento dei partiti politici a quello delle associazioni a delinquere. Ok. Ma come si fa a stabilire che “Open” non è una fondazione ma un partito? I Pm hanno deciso che per fare questo è sufficiente la loro parola. Se loro dicono che è un partito, è un partito. E allora hanno detto: è un partito. La parola dell’inquirente diventa prova. Anche questo è diritto creativo, uno degli aspetti più originali della modernità.

La faccenda Philip Morris invece è molto più semplice. L’abbiamo denunciata con scarsi risultati circa un anno fa. Cosa era successo? La Philip Morris aveva finanziato con circa 2 milioni di euro la Casaleggio. E – ovviamente in modo del tutto casuale – i 5 Stelle – che all’epoca erano molto legati a Casaleggio – in Parlamento avevano ottenuto un clamoroso sconto fiscale a vantaggio dei prodotti della Philip Morris.

Abbiamo calcolato che questo sconto produceva una riduzione delle tasse di circa 500 milioni all’anno per la Philip Morris. E, di conseguenza, produceva mancate entrate all’erario per mezzo miliardo. Una quantità di denaro clamorosa, se pensate che la maxitangente Enimont – quella che nel ‘92 provocò la caduta della Prima repubblica, centinaia di arresti tra i politici, la fine e poi la morte in esilio di Bettino Craxi – era una tangente di circa 60 milioni di euro. Noi del Riformista, quando fummo informati di questa storia, cercammo di parlarne sul nostro giornale e di farci notare. Ottenemmo che nella legge di bilancio del 2021 lo sconto fiscale fosse ridotto un pochino, ma non troppo. Però questa modesta riduzione, scritta nella legge mandata alle Camera, nella notte fu ritoccata con un ulteriore piccolo favore a Philip Morris (anche in questo caso, lo so benissimo, i fatti furono del tutto casuali e privi in ogni caso di dolo).

Ora non credo che ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni per capire che i due casi – “Open” e Philip Morris – sono molto diversi. Nel primo caso non c’è l’ombra né di reati né di scambio tra finanziamenti e favori. Nel secondo caso sicuramente ci sono stati sia i finanziamenti (molto cospicui) sia i favori (clamorosamente cospicui) anche se niente ci autorizza e credere che tra favori e finanziamenti ci fosse una relazione. In genere, a essere onesti, i Pm non sottilizzano molto, in questi casi, e se vedono un finanziamento e subito dopo un favore, anche piccolino, stangano. C’è gente che ha avuto la vita rovinata per 10 mila euro, non per due milioni. Stavolta, per fortuna, sembra che i Pm vogliano comportarsi in modo parecchio più cauto. E questa è una cosa buona. Che noi apprezziamo molto. Sarebbe ancora migliore se qualche cautela la dimostrassero anche i Pm fiorentini. Ma forse è chiedere troppo.

Così come è una domanda veramente stronza quella di chi vorrebbe sapere dai grandi giornali come mai si sono entusiasmati per “Open “e se ne fregano del tabacco. Proprio stronza: noi ci guardiamo bene dal porre questa domanda.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le buone pratiche per il lavoro in Philip Morris. Luca Romano su Il Giornale il 30 Agosto 2022

Philip Morris International, azienda leader nel mercato del tabacco, da anni sta vivendo una profonda trasformazione riguardante la sua visione aziendale

Un ambiente di lavoro inclusivo, che garantisce pari opportunità e trattamento a tutti i dipendenti, con un’attenzione particolare nei confronti della valorizzazione del talento femminile e nell’eliminazione delle differenze di trattamento tra uomini e donne. Sono questi alcuni dei pilastri fondamentali sui quali poggiano le buone pratiche per il lavoro in Philip Morris International, azienda leader nel mercato del tabacco, da anni al centro di una profonda trasformazione riguardante la sua visione aziendale.

Obiettivo Gender Equality

Con oltre 69,600 dipendenti provenienti da ogni angolo del mondo, operante in più di 180 mercati e dotata di 39 strutture produttive, Philip Morris International (PMI) ha intenzione di costruire un futuro senza fumo. Si tratta di un obiettivo ambizioso, che ha spinto l’azienda ad attuare una profonda trasformazione, tanto per quanto concerne il modello di business – che necessita nuove competenze - quanto per l’organizzazione.

Tutto questo va di pari passo con altri obiettivi lavorativi. Da anni, ad esempio, Philip Morris si è impegnata a contribuire al raggiungimento del SDG n. 5, Gender Equality, volto ad attuare pienamente la parità di genere nel lavoro. Philip Morris Italia e Philip Morris Manufacturing & Technology Bologna, le due affiliate dell’azienda presenti in Italia, sono le prime tra le realtà aziendali del nostro Paese ad aver ottenuto l’EQUAL-SALARY Certification, che attesta la parità di retribuzione a parità di mansione svolta tra uomini e donne.

Più in generale, nel 2019 PMI è stata la prima multinazionale al mondo a certificare tutte le affiliate, diventando il primo gruppo mondiale certificato EQUAL-SALARY, a conferma dell’impegno concreto per combattere il gender gap a conferma dell’impegno per garantire la parità nella retribuzione a parità di mansione tra uomo e donna.

Il valore della forza lavoro femminile

Un altro aspetto focale riguarda la forza lavoro femminile in azienda. In PMI, infatti, molte posizioni manageriali sono ricoperte da forza lavoro femminile. A questo proposito, un altro obiettivo consiste nell’incrementarle ulteriormente, valorizzando, appunto, le competenze e i talenti di ciascuno. Le affiliate italiane sostengono non a caso Valore D, ovvero la prima associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva per la crescita delle aziende e del Paese.

Non solo: l’azienda è entrata a far parte anche della Rete CapoD, la Comunità di aziende per le Pari Opportunità nata sul territorio bolognese in stretta collaborazione con le istituzioni pubbliche locali e alla quale hanno aderito, oltre a Philips Morris Manufacturing & Technology Bologna, altre grandi realtà aziendali da sempre sensibili alle pari opportunità sul lavoro.

Inclusività e valorizzazione della diversità

L’impegno di PMI di creare un ambiente lavorativo in cui coniugare il benessere e la qualità di vita delle persone, nel segno dell’inclusività e della valorizzazione della diversità, trova conferma nelle numerose iniziative sostenute dal gruppo. Prendiamo il Global Parental Leave (GPL), un programma globale introdotto dal novembre 2021 per riconoscere la necessità di un equilibrio tra genitorialità e carriera. Il GPL consente ai futuri genitori di concentrarsi sulla cura del/la figlio/a nel periodo successivo alla nascita o all'adozione, garantendo un periodo minimo retribuito al 100% per entrambi i genitori, ad integrazione di quanto già previsto dalla normativa nazionale e dal contratto integrativo aziendale.

Sempre in merito alla parità di genere, le due affiliate in Italia di PMI hanno lanciato varie iniziative per sensibilizzare e favorire l’avvicinamento delle donne alle discipline STEM, ovvero alle discipline scientifico-tecnologiche e ai relativi corsi di studio. In questo ambito è importante consolidare la presenza femminile.

Il benessere dei dipendenti al primo posto

Philip Morris ha inoltre garantito il regime di lavoro agile smart working per tutta la durata dello stato di emergenza Covid. Al termine di questo periodo ai dipendenti è stata data la possibilità di sottoscrivere un accordo innovativo individuale per il lavoro agile, sempre nell’ottica di favorire un maggiore equilibrio di vita e lavoro per tutte e tutti.

Assistenza e benefit

PMI mette a disposizione dei dipendenti anche Employee Assistance Program (EAP). Si tratta di un programma di assistenza totalmente confidenziale, rivolto anche alle famiglie, per garantire supporto nell’affrontare specifiche situazioni in ambito psicologico, legale e finanziario. Con EAP è possibile, in sostanza, consultare consulenti certificati, specialisti e materiale online per ricevere supporto in maniera del tutto gratuita per affrontare situazioni di stress, ansia e depressione e, più generale, risolvere molteplici problemi.

Vale infine la pena concentrarsi su un particolare molto importante ma troppo spesso trascurato. Per favorire giornate di lavoro in cui i dipendenti non siano costretti a meeting continui senza pause e soluzione di continuità, PMI ha introdotto una pausa di cinque minuti per le riunioni più brevi e di dieci per quelle più lunghe. Un modo per venire incontro, anche da lontano, alla necessità di piccoli break tra una riunione e l’altra.

Estratto dell’articolo di Luca Monaco per “la Repubblica – Edizione Roma” il 21 agosto 2022.

Le hanno dato un colore tendente al blu, una forma attrattiva almeno quando il nome: la "Blu punisher", la nuova droga sintetica più pericolosa in commercio, con una percentuale di principio attivo cinque volte più forte di una comune pastiglia di Mdma, è sbarcata a Roma. I primi sequestri risalgono all'anno scorso, non in Italia, ma dalle parti di Manchester, in Inghilterra. 

[…] I militari, in servizio al Pigneto, hanno fermato in strada un 25enne del Gambia: l'uomo aveva nelle tasche 18 grammi di hashish, 14 di marijuana, tre grammi di cocaina e sette grammi della potentissima "Blue Punisher". […] Per la prima volta è stata trovata a Roma la pasticca triangolare con il calco del teschio dell'antieroe Marvel The Punisher. […]

L'Mdma è una sostanza che facilita la rimozione delle barriere comunicative, l'uso della parola e fa si che chi la assume riesca a ballare per ore senza avvertire fame o stanchezza. Assunta in dosi eccessive provoca una lunga serie di controindicazioni, dalla contrazione della mascella alle difficoltà respiratorie, l'aumento della sudorazione, dolori di stomaco. 

Il fatto che sia stata rintracciata indosso a un pusher al Pigneto induce a pensare che anche la " Blu punisher” […] possa essere ricercata dai frequentatori dei festini a base di chem sex […]

Estratto dell’articolo di Karen Leonardi per “il Messaggero” il 21 agosto 2022.  

È considerata la pasticca più forte al mondo, la più pericolosa in assoluto e si sta facendo largo tra i più giovani, con effetti devastanti. Ora è arrivata anche a Roma. L'allarme sulle pillole più potenti, chiamate Blu Punisher, in considerazione del colore e del logo impresso, il teschio del protagonista del mondo Marvel, l'antieroe The Punisher (il Vendicatore), circola da mesi in Europa. Anche mezza compressa della droga blu viene ritenuta potenzialmente letale. 

[…] La droga, testata per ben due volte presso la Manchester Metropolitan University, è risultata contenere 477 mg di Mdma, fino a 5 volte di più del principio attivo dell'ecstasy - una quantità in grado di causare danni gravissimi a livello neurologico.

GLI EFFETTI Una droga che elimina qualsiasi freno psicologico o emotivo, spiegano gli esperti, ma ci sono dei costi in termini di salute e di rischio e sono molto alti. Infatti se esistono fondati motivi di credere che, a lungo termine, l'uso di ecstasy possa condurre non solo a patologie neuropsichiatriche correlate alla deplezione di serotonina ma anche quelle correlate alla deficienza di dopamina quali, ad esempio, il morbo di Parkinson, non possiamo immaginare quanto un dosaggio di md-ma come quello contenuto nelle Blue Punisher' possa essere devastante, anche a breve termine. […] 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 28 giugno 2022.  

La lista delle cose che ci si vergogna di fare in pubblico si è ulteriormente ristretta di un’unità: sniffare cocaina su un vagone affollato della metro. 

I due ragazzi in pantaloni corti, filmati da un passeggero della linea 1 di Milano mentre stendono e tirano su col naso la polverina bianca, non mostrano il minimo segno di imbarazzo o di sfida. I loro gesti non sono né furtivi né ostentati. Comodamente seduti, sniffano coca come se stessero mangiando un gelato.

Magari mi sbaglio, però in quei movimenti sciolti, consuetudinari, non ravviso delirio di onnipotenza o volontà di provocare, ma qualcosa che forse è anche peggio: il menefreghismo di chi non pensa di stare facendo nulla di disdicevole. Come se fosse scomparso il senso del proibito che spingeva alla ricerca di intimità e induceva a consumare le trasgressioni in luoghi appartati, per esempio i bagni delle discoteche. 

Uno spera ancora di trovarsi davanti a un’eccezione, perché l’alternativa è che si tratti invece di una nuova normalità: un individualismo indifferente agli sguardi altrui «in presenza» che i mesi dell’isolamento pandemico hanno accentuato. 

Ma quali sguardi, poi? Quelli dei passeggeri sono abbassati sui rispettivi schermi. Il vagone è un assembramento di solitudini dove nessuno parla, l’unica voce che buca il silenzio è l’altoparlante che annuncia la prossima fermata e l’unico segnale di attenzione verso il mondo esterno è il telefono che riprende la scena.

(ANSA il 23 giugno 2022) - Sono triplicati nel 2021, rispetto all'anno precedente, i sequestri di Gbl (90 litri) e quelli di Ghb (5 litri), i due potenti sedativi noti anche come "droga dello stupro", spacciata spesso attraverso siti di vendita on line. 

È quanto emerge dalla relazione annuale della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, secondo cui sono state anche intercettate 32 nuove sostanze psicoattive, di cui cinque mai individuate prima in Italia, prodotte con l'obiettivo di eludere i controlli perché non ricomprese nelle tabelle internazionali: in America sono responsabili di decine di migliaia di decessi per overdose.

(ANSA il 23 giugno 2022) - Record storico di sequestri di cocaina nel 2021, con 20,07 tonnellate sottratte dalle forze di polizia al mercato criminale. L'incremento percentuale rispetto all'anno precedente è del 47,66% e l'andamento dei primi mesi del 2022 sembra confermare il rilevante aumento dei volumi sottratti al mercato illecito.

È quanto emerge dalla relazione annuale della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga. Aumentano in generale i sequestri di droga: dalle 59 tonnellate nel 2020, si è saliti alle 91 tonnellate del 2021, con un incremento percentuale del 54,04%, che, per effetto di una sensibile crescita dei sequestri di cocaina e dei derivati della cannabis, è il quarto risultato più alto dal 2000.

F.Giu. per “la Stampa” il 26 giugno 2022.  

Cambia il panorama tossico della società italiana, sempre più segnato dalla cocaina ma soprattutto dal crack, che della coca è il parente più stretto, più povero e più insidioso, finora non molto usato nel nostro Paese, ultimamente in fase di decollo.

L'osservatorio sulle dipendenze di San Patrignano, in base agli ingressi dell'ultimo anno, segnala mutamenti profondi anche nelle modalità di assunzione: declina la siringa, oggi utilizzata solo dal 22% dei ragazzi entrati di recente a "SanPa", rispetto al dominio totale dell'eroina negli Anni-70-80, con gli aghi conficcati negli alberi in scenari da incubo metropolitano.  

Le usanze attuali sono molto meno invasive ma altrettanto pericolose: dal fumo sulla carta stagnola al classico sniffo, via inalazione. Dalla sua base sui colli di Rimini, la comunità di recupero più grande d'Europa coi suoi 800 ospiti funziona pure da termometro dei disagi giovanili che lockdown e isolamento hanno alimentato, se fra maggio 2021 e aprile scorso sono entrati 327 ragazzi contro i 241 dell'anno precedente. 

Segnando un ribaltamento radicale rispetto al passato, quando tutti gli ospiti venivano dall'eroina, oggi la prima droga è la coca: «Sono colpito dal fatto che la cocaina inalata è sempre meno rispetto al crack (composto da cristalli di coca, ndr) che viene invece fumato. Inoltre chi usa crack lo fa in solitudine e tende ad alternarlo con l'eroina, mentre chi inala coca lo fa alle feste, in compagnia, e lo associa all'alcol», spiega il responsabile terapeutico di San Patrignano Antonio Boschini.

Della cocaina il crack è un cugino più miserabile ma persino più pericoloso: cominciò a infestare i ghetti neri delle città americane già negli Anni 90 grazie alla sua capacità di generare una fortissima dipendenza fin dalla prima assunzione e al prezzo, più basso di quello della coca. Oggi che anche la polvere bianca viene venduta a buon mercato - fino a venti-trenta euro a dose - le due sostanze figurano al primo posto fra le droghe più utilizzate dai nuovi arrivati in comunità: ne erano dipendenti quasi il 95% dei ragazzi. 

Chi si fa, tuttavia, molto di rado si limita a una sostanza sola. Posto che l'89% di chi si è rivolto a SanPa nell'ultimo anno aveva fatto uso di cannabis, il che dimostra anche il sorpasso di coca e crack sul "fumo", c'è comunque un 42% che continuava a prendere eroina e un 44% dedito all'ecstasy.

Fra le sostanze chimiche, le anfetamine interessano il 26,6% dei nuovi arrivati, la ketamina - un anestetico per animali - il 25,7% e gli allucinogeni quasi il 27%. Il termine tecnico per definire la stragrande maggioranza dei tossici è poliassuntore, espressione che si concretizza nella percentuale registrata a San Patrignano, un altissimo 85,7%. 

E siccome da una parte esistono droghe proibite dalla legge, ma dall'altra circolano in gran quantità, liberamente e ben pubblicizzati, alcolici di ogni tipo, i giovani accolti in comunità denunciano anche una confidenza eccessiva con l'alcol: l'uso patologico riguarda il 35,5%, ma il 33% prima di approdare in comunità aveva pure pratica di "binge drinking", cioè le bevute smodate compiute all'unico scopo di ubriacarsi: «Noi riteniamo che questo modo di bere sia un viatico verso l'utilizzo di altre sostanze stupefacenti», commenta Boschini. Un quadro complesso che comprende anche gli adolescenti: sono in 33, il 10% dei nuovi ingressi in comunità nell'ultimo anno, 18 maschi e 15 femmine.

Fra loro anche un dodicenne, preso in carico per disagi comportamentali da uno dei due centri minorenni di San Patrignano. Il tossicomane più giovane ha solo 14 anni, abbastanza per richiederne il ricovero in comunità di recupero. Non siamo più ai tempi dei giovani in attesa di essere accolti nella casa sulla collina di Vincenzo Muccioli, lunghe notti trascorse in una tenda montata davanti ai cancelli della comunità, ma ciò non vuol dire che il fenomeno sia in calo. 

Perché oltre ai tossici conclamati ci sono quelli non dichiarati, dai cocainomani conviventi con la loro dipendenza senza che la loro vita sociale ne venga apparentemente intaccata, per finire coi ragazzini dei rave dove abbondano le droghe chimiche. Un esercito nascosto, dove ogni tanto qualcuno muore in silenzio.  

La cocaina invade le piazze italiane, sequestri record nel 2021: nuove rotte e canali di spaccio. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 23 giugno 2022.  

La relazione annuale della Direzione centrale dei servizi antidroga: "Le organizzazioni di trafficanti stanno immettendo sul mercato lo stupefacente rimasto fermo durante la pandemia". Cresce la diffusione di cannabis e droga dello stupro. Piazze virtuali di spaccio sul web e consegne a domicilio.

Le piazze italiane sono invase dalla cocaina. I trafficanti di stupefacenti sono riusciti a riorganizzarsi e a ripartire a pandemia ancora in corso diversificando i metodi di trasferimento della droga e adattando rotte e vettori alle restrizioni a fisarmonica decise dagli Stati di tutto il mondo. E adesso che le barriere sono praticamente cadute ovunque, anche lo stupefacente che era rimasto in attesa nei centri di stoccaggio si sta muovendo alla svelta.

L’Italia ora è il crocevia della cocaina in Europa: «Mai così tanti sequestri negli ultimi dieci anni».  Antonio Fraschilla su L'Espresso il 24 giugno 2022.    

I numeri della Direzione centrale antidroga del ministero fotografano un fenomeno in crescita: «Il nostro Paese è il più grande hub tra Sud America e Balcani, ma cresce anche il consumo interno»

I numeri sono impressionanti e li ha messi in fila la Direzione centrale dei servizi antidroga del ministero dell’Interno. Un fiume di cocaina sta invadendo il nostro Paese come mai era capitato negli ultimi dieci anni: sia per consumo interno ma soprattutto perché l’Italia è diventata un hub tra Europa, Sud America e Balcani. Certo, il dato è influenzato dalla pandemia e anche dall’ottimo lavoro della polizia e delle forze dell’ordine tutte che hanno incrementato le attività. Ma resta il fatto che dal 2012 a oggi non si era arrivati a queste cifre di sequestri: e considerando che di solito quello che si scopre in questi casi oscilla tra il 10 e il 20 per cento del reale traffico, ecco che l’Italia si dimostra essere crocevia e grande paese consumatore della polvere bianca che arriva, in gran parte, dal Sud America e dai Balcani, ma non solo.

Dicono dalla Direzione antidroga del ministero, che ha appena fatto il punto sull’attività del 2021 con il generale Antonino Maggiore e il vice capo della Polizia Vittorio Rizzi: «Il dettaglio degli incrementi segnala un ulteriore record nei sequestri di cocaina, che, dopo l'exploit del 2020, in cui i volumi erano arrivati a 13,6 tonnellate, raggiungono la quota di 20,07 tonnellate, traguardo assoluto senza precedenti nel passato. L’incremento percentuale rispetto all’anno precedente, che già aveva segnato un considerevole aumento rispetto al 2019 (+64,25%) e al 2018 (+127,76%), è del 47,66%. L’andamento dei primi mesi dell’anno in corso sembra confermare il rilevante aumento dei volumi sottratti al mercato illecito. Si tratta di una crescita costante e dall'andamento esponenziale: dalle 3,6 tonnellate del 2018, grosso modo duplicandosi ogni anno, si è vertiginosamente passati alle 8,2 del 2019, alle 13,5 del 2020 e, infine, alle 20,07 del 2021. Sembra prospettarsi un fattore consolidato, che induce qualche considerazione».

È chiaro che il dato è frutto, come detto, del miglioramento costante dell’attività di indagine e controllo: «Si ritiene plausibile che le Forze di Polizia abbiano sviluppato efficaci strategie per l'individuazione dei carichi che giungono nel nostro Paese, attraverso una sempre più evoluta ed incisiva analisi di rischio applicata sui movimenti e sulla circolazione dei container commerciali. Nell'anno di riferimento, non a caso, i sequestri frontalieri di cocaina hanno rappresentato il 69,13% del totale intercettato in Italia (il 98,7% considerando gli ingressi marittimi), raggiungendo 13,8 tonnellate sulle 20,07 complessive. Questo dato, che appare assai significativo, consente anche una seconda riflessione; già nel 2020, in sede di consuntivo, era stata ipotizzata l’eventualità di una "nuova" rotta mediterranea che, dopo aver fatto tappa negli scali nazionali (Gioia Tauro, innanzitutto), consentisse a compagini criminali etniche, in particolare albanesi e serbo-montenegrine, di trasferire lo stupefacente nei porti dell'area balcanica, del Mar Egeo e del Mar Nero».

Il nostro Paese è quindi «il punto di snodo e di passaggio verso altri mercati di consumo dello stupefacente e il consolidamento sulla scena criminale delle organizzazioni criminali balcaniche, ormai in grado di instaurare rapporti di stretta collaborazione sia con i cartelli criminali dei produttori, che con i sodalizi più strutturati della criminalità autoctona».

Ma c’è un terzo elemento di “interpretazione” di questo vertiginoso trend può essere verosimilmente individuato nella ripresa dei traffici nel secondo anno della crisi sanitaria dovuta al COVID-19: «Come è stato accennato, dopo il rallentamento dei primi mesi del 2020, è subentrata una decisa ripresa delle importazioni di stupefacente provenienti dal Sudamerica, dove i cartelli del narcotraffico stanno immettendo nei flussi di traffico il surplus di prodotto stoccato durante le fasi più aggressive della pandemia. È ipotizzabile che questo fenomeno condizionerà nel medio periodo le importazioni di cocaina verso i mercati di consumo europei».

Impatta su 6mln di italiani, una priorità per la campagna elettorale. Cannabis, così il proibizionismo colpisce le minoranze: va legalizzata. Leonardo Fiorentini su Il Riformista il 7 Agosto 2022 

La fine anticipata della legislatura ha interrotto la strada dei provvedimenti, dalla cittadinanza alla cannabis, che volevano portare al centro del dibattito parlamentare i diritti. A onore del vero si trattava di una strada molto in salita, se non addirittura sbarrata dai tempi e dai numeri del Senato. Al di là di questo, si trattava di questioni e istanze che viste da vicino possono sembrare lontane, ma che allargando lo sguardo rivelano tutta la loro interconnessione. La cannabis poi, svela tutto l’impatto pervasivo e intersezionale del proibizionismo, una pervasività tale da rendere la sua regolamentazione legale un tema urgente e prioritario per questa campagna elettorale. Provo a spiegare perché.

La cannabis è la sostanza illegale più usata. Più di un terzo della popolazione l’ha incontrata e usata nella vita. Dal 1990 più di un milione di persone è stato segnalato ai Prefetti per il suo uso. Oltre un decimo del corpo elettorale ne subisce ogni giorno la sistematica repressione e stigmatizzazione. Il proibizionismo impatta quindi sulla salute di almeno 6 milioni di concittadini, messa a rischio più dalle leggi, che impediscono di verificare cosa si usa, favoriscono marginalizzazione e stigma e ostacolano l’accesso ai servizi, che dalla pericolosità della sostanza stessa. Interessa indirettamente la salute di tutti, sia per i costi sanitari dell’incapacità di prevenire gli usi problematici che per l’ostracismo ancora diffuso alle azioni di riduzione del danno.

Chi usa cannabis in Italia viene costretto a entrare in contatto con le narcomafie, che oggi governano quel mercato. Paradossalmente si rischia meno a finanziare il crimine che a coltivarsela in casa. Non solo. A rischio è la sicurezza di tutti: le piazze di spaccio sono abbandonate alle organizzazioni criminali che le governano con il mezzo che gli è proprio, la violenza. Quando serve anche lo “Stato” viene infiltrato e corrotto, come purtroppo ci riportano le cronache quotidiane.

Il proibizionismo pesa sul bilancio pubblico che sperpera almeno un paio di miliardi di euro l’anno per svuotare il mare con il cucchiaino, senza alcun risultato su domanda e offerta delle droghe. E molti di più, almeno 6 miliardi, sono regalati esentasse alle casse delle narcomafie. Il nostro sistema economico è drogato dal fiume di denaro riciclato dalle mafie. Aziende che vivono solo per “lavare” il denaro proveniente dal narcotraffico, concorrono slealmente con l’imprenditoria sana del paese. Proprio quel tessuto imprenditoriale sempre vezzeggiato dalla retorica politica, mai protetto dal dumping finanziario reso possibile dal riciclaggio.

È anche una questione di genere, per come la violenza dell’illegalità e della repressione colpisce globalmente le donne (nel latinoamerica la detenzione femminile è rappresentata per l’80% da violazioni sulle droghe) e per come queste ovunque siano oggetto di particolare stigma per l’uso di sostanze.

La proibizione è devastante per il sistema della giustizia e delle carceri: non ci sarebbe alcun sovraffollamento carcerario senza detenuti per semplice spaccio o senza detenuti che usano sostanze. Nei tribunali ci sono oltre 240.000 fascicoli pendenti per droghe, quasi la metà – si stima – per cannabis.

A causa della tenaglia di due leggi criminogene come la Jervolino-Vassalli e la Bossi-Fini i migranti vivono sotto il ricatto della tratta da una parte e della repressione dall’altra. Così il 34% degli stranieri è in carcere per reati di droga, un dato che ha fatto segnalare l’Italia nell’ultimo report del gruppo di lavoro dell’ONU sulle detenzioni arbitrarie. La proibizione riguarda chi arriva qui, attraverso tratte che sono integrate, finanziariamente e strutturalmente, con il traffico di droghe. Riguarda anche le seconde generazioni. Non c’era bisogno dei casi di Babayoko e Blair per scoprire come il profiling faccia in modo che sia nell’esperienza comune degli italiani senza cittadinanza l’essere fermati anche due volte in un giorno dalle forze dell’ordine. Succede in qualsiasi città italiana, senza particolare motivo, se non il fatto di essere di carnagione diversa. Attenzione. Questo legame fra profiling, leggi criminogene e sistema repressivo è letale: non c’è bisogno di mandato per perquisire in caso di sospetto di possesso di droghe; basta la detenzione – ricordiamolo, quasi un italiano su sei usa droghe – per rischiare patente e passaporto; è sufficiente una quantità un po’ superiore al minimo e magari non essere un maschio bianco benestante, per andare davanti ad un giudice; con l’inversione di fatto dell’onere della prova basta qualche contante, un rotolo di pellicola trasparente e una bilancia da cucina per essere condannati. Così mentre il rapporto processi-condannati per i reati contro la persona o le cose è di 10 a 1, quando va bene 2, quelli per droghe trovano ogni 10 processi ben 7 condannati.

È innegabile che sia proprio la cannabis al centro di questo sistema repressivo, che usa le leggi sulle droghe per marginalizzare e colpire le giovani generazioni e le minoranze, in Italia come in tutto il mondo. La retorica proibizionista non lo dice: il vero obiettivo del divieto non è limitare i consumi di droghe, cosa peraltro che gli riesce malissimo, ma avere uno strumento di controllo penale e di stigma sociale. Ed in questo, è invece efficacissimo. Per questo va sradicato.

Ecco, lo stigma, ben conosciuto dalla comunità LGBTQ+. Il tabù della droga è riuscito a impregnare così in profondità il tessuto della società civile italiana, che ancor oggi chi la usa, quando non è un “tossico”, è un disadattato. Nella percezione comune, tre ragazzi che si ubriacano alla festa del patrono del paese, hanno alzato un po’ troppo il gomito e lo raccontano divertiti il giorno dopo al bar. Gli altri tre, che si fumano una canna sulla panchina del giardino, sono tre giovani da salvare dall’autodistruzione. Nel discorso mainstream non è contemplato che una persona perfettamente inserita socialmente, stimata e con un lavoro stabile, consumi cannabis senza averne particolari problemi. Come accade con il caffè alla mattina o la birra con gli amici la sera. Eppure, è quello che succede nella stragrande maggioranza dei casi. La distinzione fra sostanze illegali e legali, che è figlia solo della legge penale, fa perdere il lume della ragione e della comprensione dei fenomeni.

Se è stato un errore nel passato non riuscire ad avere una visione ampia, relegando la questione antiproibizionista al mero interesse diretto di chi usa sostanze, oggi non si può far finta di vedere come le politiche sulle droghe interessino i diritti umani a tutto tondo. I diritti di tutti, che non sono alternativi ma complementari. L’uno integra l’altro, nessuno limita gli altri. La battaglia dell’uno dev’essere quella dell’altro, mentre le risposte della politica non devono dividere, ma unire.

Per fortuna qualcosa sta cambiando. Lo abbiamo visto con la campagna sul referendum cannabis: oggi abbiamo una forte maggioranza di cittadini consapevoli che non si può andare avanti così. Sono tanti e sono soprattutto giovani. Forze politiche che non abdicano al proprio ruolo devono sapere dare loro risposte, chiare ed urgenti. A partire dalla regolamentazione legale della cannabis.

Leonardo Fiorentini, Segretario di Forum Droghe

Cannabis, la sostanza illegale più utilizzata. Luigi Manconi su La Repubblica il 21 Luglio 2022.

E' stata diffusa la relazione annuale sulle tossicodipendenze, nella quale il governo - ora al capolinea - chiede di favorire la depenalizzazione.

Alcune settimane fa è stata resa nota la relazione annuale sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Si tratta di un documento tecnico realizzato dal Dipartimento per le politiche antidroga per conto del Governo e presentata al Parlamento. Contiene le conclusioni elaborate durante la VI Conferenza nazionale sulle dipendenze, voluta dalla ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone e tenutasi a Genova nel novembre scorso. Un appuntamento che non veniva organizzato da oltre dodici anni e che vorrebbe dimostrare l’impegno da parte del Governo ad affrontare temi cruciali come quello delle tossicodipendenze e a immaginare nuovi interventi per contrastare la diffusione delle sostanze stupefacenti.

E qui – oh, sorpresa! – sbuca fuori qualcosa di decisamente imprevisto. Al punto 4 delle iniziative da promuovere è espressa chiaramente l’opportunità di «favorire la depenalizzazione, intesa come necessità di rivedere le norme che prevedono sanzioni penali e amministrative a carico di persone che usano droghe». Si aggiunge che, dunque, è il caso di «rivedere la legge attuale passando dal modello repressivo a un modello di governo e regolazione sociale del fenomeno, al fine di sottrarre all’azione penale alcune condotte illecite, contemplate dall’art. 73, rivedendo, contestualmente l’impianto sanzionatorio ed escludendo l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza». Si deve, pertanto, intervenire sull’art. 73 relativo alla produzione, alla detenzione e al traffico illecito delle sostanze stupefacenti, così da sottrarre all’azione penale sia la coltivazione di cannabis a uso domestico, sia la cessione di modeste quantità per uso di gruppo laddove non sia presente la finalità di profitto.

In effetti qualcosa di non troppo diverso da quanto contenuto nella proposta di legge relativa alla coltivazione domestica di cannabis, giunta alla discussione in Aula alla Camera dei deputati qualche settimana fa.

Depenalizzare il consumo di questa sostanza significherebbe, tra le altre cose, accettare la realtà di un fenomeno non più reversibile: la cannabis è la sostanza illegale più utilizzata. In Italia, le stime più attendibili parlano di oltre sei milioni di consumatori, presenti in tutte le fasce sociali e in tutte le classi di età. E per affidarsi ai dati più recenti, basta leggere quelli riportati dalla stessa Relazione del Dipartimento per le politiche antidroga. Il 18% degli studenti italiani ha fatto uso di cannabis almeno una volta nel corso del 2021 e il 2,5% dichiara di farne un uso quasi quotidiano.

Oltre la metà dei consumatori ha avuto il primo contatto con questa sostanza fra i 15 e i 16 anni. E ancora, a proposito dell’utilizzo diffuso, il 72,8% delle sostanze menzionate nelle segnalazioni per violazione dell’art. 75 riguarda cannabis e derivati. E tra i giovanissimi fino ai 19 anni di età, senza distinzione di genere, la quasi totalità delle sostanze consumate è rappresentata dai cannabinoidi, così come oltre il 50% di quelle usate tra le persone fino ai 34 anni. Infine, il dato più significativo e per certi versi dirompente: tra quei consumatori, il 91% fa ricorso esclusivamente a derivati della cannabis. In altre parole, la cannabis è pressoché l’unica sostanza illegale utilizzata.

Un dato che, d’un colpo solo, fa giustizia di tutte le amenità che si continuano a sentire a proposito dell’automatismo del passaggio “dalle canne alla coca”: e della consequenzialità tra il consumo delle prime e il consumo della seconda. Ce lo dice il Governo.

Un detenuto su tre è in carcere per droga, “serve depenalizzazione”. Angela Stella su Il Riformista il 24 Giugno 2022. 

Un terzo dei detenuti è in carcere per droga, più di un detenuto su quattro è tossicodipendente: per questo le celle sono sovraffollate e i tribunali sono ingolfati. Questa la sintesi concettuale della tredicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe dal titolo “La sfida democratica”, presentata ieri alla Camera dei Deputati. Si tratta di un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (Dpr 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD e ITANPUD. Vediamo i dati più significativi.

Il 30% dei detenuti entra in carcere per detenzione o piccolo spaccio. Precisamente 10.350 dei 36.539 ingressi in carcere nel 2021 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Inoltre il 35% dei detenuti presenti nei nostri istituti di pena è dentro sempre per reati connessi alla droga. In particolare sui 54.134 detenuti in carcere al 31 dicembre 2021 si registra un leggero calo dei presenti a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio): sono 11.885. In aumento quelli in associazione con l’art. 74 (associazione per traffico illecito di droghe) 5.971. Aumentano anche i detenuti esclusivamente per l’art. 74, che superano per la prima volta quota mille: sono 1.028. Secondo il rapporto si confermano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti tossicodipendenti: lo sono il 35,85% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31 dicembre 2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti “certificati”, il 28,16% del totale, più di 1000 in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del record percentuale, oltre i livelli della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), alimentato dall’aumento degli ingressi in carcere di persone che usano sostanze.

Tutto ciò ha dirette conseguenze ovviamente anche sulla giustizia e l’esecuzione penale: le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione degli articoli 73 e 74 sono rispettivamente 186.517 e 45.142. In totale 231.659 fascicoli per droghe intasano i tribunali italiani. E inoltre basti pensare che senza detenuti per art. 73 (spaccio) o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane. Per fare un confronto tra Italia e resto del mondo nel Libro Bianco viene ricordato anche un rapporto Onu del 2021 secondo il quale la media mondiale di detenuti per reati di droga è del 21,65%; in Italia, al 30 giugno 2021, la percentuale era del 35,91%, corrispondente al doppio della media europea (18%) e molto più di Messico (9,7%), Usa (20%), Colombia (20,7%), Marocco (25%), Albania (26%), Russia (28,6%) e Algeria (34,5%).

Ma quali riflessioni possono ancora farsi a partire da tutti questi numeri? Come scrivono Stefano Anastasia e Franco Corleone nell’introduzione «l’esperienza di questi anni conferma gli studi sul net widening: la messa alla prova, le sanzioni di comunità comminate in sentenza e le misure alternative in esecuzione non fanno diminuire il peso sul carcere se non sono accompagnate da una chiara politica di depenalizzazione. In questi anni l’enorme crescita delle misure di comunità si è affiancata all’universo della detenzione senza scalfirlo, con la conseguenza di produrre una sorta di doppio binario classista, che divide coloro che per status sociale ed economico (prima che giuridico) possono ambire alle misure di comunità e quelli che sono destinati al carcere con sempre più rare opportunità di uscirne prima del fine pena».

Mentre nelle conclusioni Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, denuncia come «la normativa sulle droghe non ha alcuna efficacia preventiva, speciale o generale. I numeri dei consumi e della repressione ci dicono che le scelte del singolo o della generalità dei consociati non sono state minimamente condizionate dalla severità della reazione penale. Dunque le pene alte e il proibizionismo si spiegano alla luce di una sotto-cultura penale meramente retributiva e afflittiva, con venature moralistiche. La legge Fini-Giovanardi è un manifesto di cultura illiberale. E ciò accade nel Paese dove è nato Cesare Beccaria».

Durante la conferenza di presentazione del Libro Bianco è intervenuto anche Riccardo Magi, deputato e Presidente di +Europa, primo firmatario della proposta sulla depenalizzazione della coltivazione domestica di cannabis per uso personale e sulla riduzione delle pene per i reati di lieve entità: «Il Testo Unico sugli Stupefacenti si conferma causa di sovraffollamento carcerario e di soffocamento dei tribunali, con effetti sociali devastanti e che non intaccano minimamente la diffusione delle sostanze. L’approdo in Aula alla Camera entro la fine del mese della proposta di legge a mia prima firma sull’autocoltivazione di cannabis è un’occasione importante per aprire un dibattito urgente nel Paese e nelle istituzioni. Purtroppo sta succedendo di tutto – ha spiegato il parlamentare – per impedire che la discussione approdi in Aula. Ieri (mercoledì, ndr) in Commissione Giustizia è terminata la votazione su tutti gli emendamenti e si sarebbe dovuto votare il mandato al relatore. Ma non è stato fatto, con la scusa delle scissioni dei gruppi parlamentari. Tutto è rimandato a lunedì. Al di là degli aspetti procedurali e tecnici, c’è molta resistenza contro una legge all’interno della quale c’è scritto che è lecita qualche cosa che ha a che fare con la cannabis. Voglio ricordare che questa proposta di legge è nata come risposta all’iniziativa sciagurata della lega che avrebbe voluto aumentare invece tutte le sanzioni penali. Noi abbiamo contrastato questo pericolo, mentre le altre forze politiche non avevano sentito questa urgenza».

Infine, secondo Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni e Presidente del Comitato Referendum Cannabis «salvo sorprese dell’ultima ora, questa legislatura non verrà ricordata per riforme sulle “droghe” anzi, grazie al Ministro Speranza son stati creati irragionevoli ostacoli alla cannabis con CBD ed è stata proibita l’Ayahuasca. Spudorata invece la decisione della Consulta con l’inammissibilità del Referendum, che ha proibito al voto la riforma necessaria sulla cannabis: toglierla dalle maglie del diritto penale. Nel Libro Bianco viene pubblicata per la prima volta come contributo al dibattito la memoria presentata dal Comitato Promotore del Referendum Cannabis Legale insieme alla sentenza di inammissibilità 51/2022. Oltre a queste è pubblicata la trascrizione integrale della conferenza stampa del Presidente Amato sul referendum cannabis che tanto scalpore ha fatto per metodo, toni e merito insieme a commenti precedenti e successivi il giudizio della Corte, a supporto dell’ammissibilità del quesito. Oltre 600.000 cittadini si sono visti privare dei propri diritti costituzionali per una interpretazione discutibile e certamente fuori dal tempo sia della Costituzione che delle convenzioni internazionali». Angela Stella

Daniele Autieri per “la Repubblica - Edizione Roma” il 18 luglio 2022.

Roma capitale dell'eroina e delle droghe sintetiche. Tra le tante verità fotografate dalla relazione annuale della direzione centrale per i servizi antidroga del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, ce ne è una che preoccupa più di altre: nel corso del 2021 nella capitale è stato sequestrato il 50,4% delle droghe sintetiche e il 24,73% di tutta l'eroina sequestrate in Italia, ovvero un quarto dei " pezzi" e la metà delle pasticche che le forze di polizia hanno tolto dalle strade del paese viaggiavano sui marciapiedi di Roma. 

Dai party privati a base di droga dello stupro fino agli allarmi lanciati dal presidio di villa Maraini a due passi dalla grotta del buco di Tor Bella Monaca, dove decine di giovani si accalcano ogni giorno per chiedere siringhe e acqua, pasticche e ero sono per la capitale una realtà così granitica da essere cristallizzata nei numeri.

Nel 2021 sono state sequestrate poco meno di 8mila dosi di droghe sintetiche contro le 428 di Milano, e 140 kg di eroina, quasi il doppio degli 84 del capoluogo lombardo. Roma città delle droghe, quindi, oltre che territorio a maggior densità di arresti e fermi per reati legati al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti. 

Nel 2021 in Italia sono state segnalate all'autorità giudiziaria per reati in materia di stupefacenti quasi 14mila persone. Di queste 3.947 a Roma, 2.057 a Milano e 1.735 a Napoli. Un esercito guidato da capi spietati che porta il ministero a parlare di " criminalità romana" e a definire la città «un raccordo strategico per gli scambi illegali, favoriti dalla sua centralità geografica».

«Nella capitale - si legge ancora nella relazione - si evidenzia da tempo l'operatività di sodalizi criminali ben strutturati» attivi soprattutto nel traffico degli stupefacenti. Sodalizi autoctoni o stranieri come quello costituito da due organizzazioni nigeriane, i Black Cats e i Eiye, che avevano trasformato la stazione Tiburtina in un hub di spaccio e smistamento di carichi di marijuana, molti dei quali provenienti dall'Albania. Carichi che venivano inviati in altre città italiane o europee attraverso gli autobus delle società private che partono proprio da Tiburtina. 

La fotografia scattata dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza riguarda l'intera area metropolitana della capitale, dove si sono concentrate alcune delle più significative operazioni di polizia, oltre naturalmente ai reati consumati sul web.

Proprio seguendo la pista degli ordini online nell'ottobre del 2021 il reparto operativo dei Carabinieri per la Tutela della Salute hanno arrestato 39 persone accusate di aver messo in piedi un centro di importazione italiano di GHB (la droga dello stupro) con base a Roma. «Calcola che quando ci stava il Festival del Cinema - si vantava la zarina delle droghe sintetiche Clarissa Capone, intercettata dai carabinieri - ci andavo con lo zainetto pieno cioè ci stavano i giornalisti, ci stava di tutto». 

Giornalisti, politici, professionisti, attori: centinaia i clienti individuati dall'inchiesta che oggi, alla luce dei dati raccolti, permette di intravedere appena uno spiraglio di un mondo sommerso e pericoloso, e contribuisce a spiegare perché Roma sia diventata la capitale delle droghe.

La proposta di legge. Cannabis legale, ora è il momento di farsi sentire. Antonella Soldo su Il Riformista il 23 Giugno 2022. 

È arrivato il via libera dalla commissione Giustizia sul disegno di legge che depenalizza la coltivazione domestica di 4 piantine di cannabis. Nella seduta di ieri i membri della Commissione hanno terminato la fase di votazione degli emendamenti – ne erano stati presentati circa 600, perlopiù ostruzionistici – permettendo così al testo di approdare alla Camera dove nei prossimi giorni verrà esaminato e discusso.

Ci sono voluti più di due anni da quando il deputato Riccardo Magi, primo firmatario, ha depositato il disegno di legge e ha dato il via al giro di audizioni in cui decine e decine di auditi si sono espressi a favore del testo della legge per numerose motivazioni: per la lotta alle mafie, per evitare che milioni di consumatori siano costretti a rivolgersi nelle piazze di spaccio quando potrebbero coltivare cannabis nella propria abitazione; per la giustizia, per liberare il sistema giudiziario da inutili processi di una guerra alla droga che riempie le carceri di consumatori, pazienti e piccoli spacciatori; e per la salute, per assicurare la continuità delle terapie per i pazienti che fanno uso di cannabis regolarmente, colmando l’insufficienza della produzione italiana.

È previsto per venerdì l’arrivo in Aula del testo che se approvato recepirebbe le indicazioni delle Corti italiane, in particolare delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno stabilito come non possa essere considerato reato, e quindi punibile con il carcere, la coltivazione domestica di piante di cannabis per uso personale. Inoltre, il testo seguirebbe persino le indicazioni dettate dalla Conferenza nazionale sulle dipendenze tenutasi lo scorso novembre quando il Governo ha approvato tra le principali linee guida la decriminalizzazione dei reati di lieve entità legati alla cannabis. Adesso, quindi, tocca al Parlamento e per mantenere viva l’attenzione sui lavori parlamentari, abbiamo organizzato per oggi 23 giugno “Un giorno legale”, un evento interamente dedicato alla legalizzazione della cannabis al Monk di Roma con ben oltre 80 ospiti che si susseguiranno in dibattiti, workshops e confronti.

L’obiettivo infatti sarà proprio chiamare a raccolta tutte le realtà e le associazioni antiproibizioniste che hanno promosso il Referendum Cannabis per far sentire alle istituzioni la necessità e l’urgenza di questa battaglia. E proprio per ricordare chi ci ha messo animo, passione e impegno, inizieremo la giornata con l’inaugurazione di un murale a Walter De Benedetto, come tributo e ringraziamento del suo instancabile coraggio. L’ultimo disegno di legge sulla cannabis arrivato in aula alla Camera risale all’estate del 2017. In quell’occasione i parlamentari ebbero, appunto, poco coraggio e decisero di rimandarlo in commissione, decretando la sua fine. Con Meglio Legale e con tutto il mondo antiproibizionista, faremo in modo che adesso questo non accada e ci batteremo per far approvare alla Camera un testo che toglierebbe alle mafie una larga fetta di mercato nero. Per Walter, per i milioni di consumatori, per la legalità di questo Paese.

Antonella Soldo

La valanga di fake news che la destra ha detto sulla Cannabis in Parlamento. Durante la discussione della legge per la legalizzazione e depenalizzazione della droga leggera (poi posticipata a metà luglio), meloniani e leghisti hanno usato il solito copione di allarmismi e balle smentite da anni. Ricostruiamole una a una. Rita Rapisardi su L'Espresso l'1 luglio 2022.

Un solo pomeriggio di discussione è stato sufficiente per fare un elenco completo di tutte le fake news che circolano sulla cannabis. Aula di Montecitorio, dal 29 giugno si discute la proposta di legge per consentire la coltivazione domestica di cannabis, per uso personale e la diminuzione delle pene per i reati di lieve entità: destra ed estrema destra contrarie al provvedimento, sfilano in aula con una serie di interventi che alimentano leggende metropolitane e credenze ampiamente superate dalla scienza e dagli studi degli ultimi anni. C’è anche confusione sull’argomento stesso del ddl: molti parlano di liberalizzazione, ma il tema è la legalizzazione (e depenalizzazione).

Cannabis droga di passaggio

Una delle leggende più dure a morire è quella sulla cannabis droga di passaggio. In pratica fumare una canna sarebbe l’anticamera dell'utilizzo di droghe pesanti come cocaina ed eroina. Ciro Maschio, parlamentare di Fratelli d’Italia, parla di “primo step”.

È il ragionamento per cui visto che “oltre il 90 per cento delle persone tossicodipendenti da eroina hanno iniziato con la cannabis”, la cannabis sarebbe la causa. Ma perché non un bicchiere di vino o una sigaretta? Questa tesi non ha alcun riscontro, basterebbe pensare che ci sono circa sei milioni di consumatori di cannabis (stime al ribasso), a cui vanno aggiunti quanti la provano e smettono: dovremmo quindi avere una presenza di tossicomani da eroina in milioni. Dire che “tutti” gli eroinomani hanno fumato cannabis è una correlazione spuria, cioè due eventi sconnessi che avendo lo stesso trend (in realtà l’uso di eroina è in costante diminuzione, mentre quello di cannabis in aumento) si associano. Si potrebbe fare lo stesso ragionamento con le sigarette o con l’alcool.

E c’è chi si lascia andare a dati senza citare fonti, come Luca Paolini, Lega: «Se si drogano in 100 in modo leggero, probabilmente, saranno in 20 a passare alle droghe pesanti. Se sono 1000, saranno 200. È statistica non è un’opinione più o meno vaga», il quale ha citato anche la cannabis allo 0,2% di thc non sapendo che è già legale in Italia, la cosiddetta “cannabis light”.

La “cannabis geneticamente modificata”

C’è anche un’altra credenza che ha le gambe lunghe, tanto da guadagnarsi una pagina su Wikipedia, è quella della “cannabis geneticamente modificata”. In pratica la cannabis presente sul mercato è modificata e altamente tossica, coltivata con tecniche violente, arriva a un principio attivo di thc anche del 55%, molto più forte di quella di un tempo che invece non andava oltre il 5% di concentrazione. Questa supposizione senza fondamento si chiama teoria del 16%, nata tra gli anni ottanta e novanta, ha diffuso i concetti di "supermarijuana", "marijuana OGM" o “modificata geneticamente”. Una teoria finta perché non abbiamo analisi sulla percentuale di thc della cannabis non moderna.

Questo non sembra interessare però i parlamentari che si lasciano andare a tesi un po’ strampalate: «La cannabis geneticamente modificata va da 0 a 15 capacità produttiva di thc, quindi quattro piante modificate possono produrre l’equivalente di 40 o 60 piante naturali non modificate», spiega Paolini, avvocato, che dice anche di aver «avuto a che fare con piante di cannabis, non come consumatore, ma come difensore».

Cannabis, la droga più pericolosa

Il sottotesto dietro a molti interventi è quello per cui la cannabis non andrebbe legalizzata perché fa male. Nessuno, però, tra i contrari si sofferma sulle droghe attualmente legali - assai più pericolose e tossiche della cannabis - e rese tali proprio per avere un maggiore controllo qualitativo su esse.

Candidamente Roberto Bagnasco, Forza Italia, non si accorge che proprio una delle sue argomentazioni spinge in questa direzione: «Alcool e tabacco sono soggetti a limiti di età, ma l’effetto nocivo avviene per dosi progressivamente crescenti di alcool e in un tempo molto più lungo». Il pregio dell’alcool sarebbe quindi che uccide lentamente? E aggiunge: «Lo smaltimento fisico di una canna è molto più lento, dura dai quindici ai venti giorni rispetto a una sbronza, tanto per capirci bene», facendo confusione sul persistere nel sangue della sostanza del principio attivo ed effetto. Bagnasco tra l’altro è farmacista e dimentica che in Italia le terapie a base di cannabinoidi sono difficili da ottenere non per la mancanza di medicinali, ma perché i medici, mossi dallo stigma verso la pianta, non la prescrivono facilmente. Nonostante una legge che da 15 anni riconosce la cannabis terapeutica, quella sì al 22% di thc, ai pazienti, al momento il 71 per cento di essi deve interrompere la terapia, come denuncia l’associazione Pazienti cannabis.

Dipendenza e pericolosità

«Le sostanze psicotrope cosiddette leggere provocano gravi danni alla salute, dipendenza fisica e psicologica pari e superiore su alcuni elementi del fumo delle sigarette normali o dell’alcool», dice ancora Maschio, affermando una falsità visto che nel 2020 la Commissione delle Nazioni Unite sugli Stupefacenti ha votato una serie di misure proposte dall'Organizzazione mondiale della sanità sulla riforma internazionale della cannabis: la più importante di queste è la cannabis è stata declassificata come sostanza non pericolosa, prima messa accanto a cocaina ed eroina, e il suo uso medico è riconosciuto in sempre più patologie.

Sulla dipendenza da cannabis poi (calcolata tra il 4-9%) ci sarebbe tanto da dire. Banalmente altre sostanze legali e ampiamente accettate dalla società, hanno un tasso di dipendenza molto più alto di quello della cannabis, per cui è il tabacco ha giocare un ruolo chiave visto che lo si utilizza per assumerla. Caffé - che è una droga visto che la caffeina è una sostanza psicoattiva - o zuccheri per esempio, ma anche energy drink o coca cola. Questi ragionamenti proibizionisti se fossero applicati all’alcool, droga assai più pericolosa, porterebbero presto alla sua proibizione, a danno dei consumatori e a favore del mercato nero.

Le legalizzazione non combatte le mafie

Che la legalizzazione della cannabis possa aiutare la guerra contro le mafie è una certezza che arriva da vari richiami della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, che già nel 2016 ha espresso parere positivo su tutte le leggi per legalizzazione e coltivazione domestica, anche per liberare le numerose forze dell’ordine impegnate nella guerra alla cannabis (la cannabis da sola rappresenta quasi il 50% di tutti i sequestri annuali di stupefacenti, per un valore di 7 miliardi su 16 totali).

Gianni Tonelli, Lega, però dice di non aver mai sentito l’ex procuratore Cafiero de Raho su questo. Eppure l’ultimo intervento, in ordine di tempo, del magistrato è avvenuto sulle pagine di Repubblica il 30 giugno: «Le tonnellate di droga sequestrate dimostrano l'interesse delle mafie verso questa sostanza. Resto contrario a qualsiasi autorizzazione al consumo illimitato di stupefacenti, ma ben venga questa legge, se può contribuire a tenere lontani tanti giovani da spacciatori senza scrupoli, impoverendo così le organizzazioni criminali e consentendo, alle forze dell'ordine di concentrare sforzi e risorse sui grandi traffici», ha detto de Raho. In compenso però Tonelli fa uno strano parallelismo con la cicala e la formica, per cui legalizzare renderebbe i giovani come le cicale della fiaba: senza speranze e dediti alla «cultura dello sballo e del carpe diem».

Parlare di droghe abbracciandone la complessità. VANESSA ROGHI su Il Domani il 10 giugno 2022.

La narrazione sulle droghe in Italia continua a essere in un certo modo: è opinione diffusa che parlare di qualcosa significhi contribuire a diffonderla, quindi meglio parlarne poco o in modo circospetto, con la difficoltà di riconoscere e chiamare le cose con il proprio nome

Secondo stime recenti nei paesi dell’Unione europea circa 83 milioni di persone adulte, di età compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno assunto sostanze psicoattive illegali almeno una volta nella vita.

Il volume Le droghe, in sostanza del Post apre con un vero e proprio glossario, dalla A di Alcol alla S di Spice, nel quale si descrivono proprietà ed effetti di ogni sostanza. Uscendo dai contesti specialistici, la rivista prova ad abbracciare la complessità del tema.

Nel marzo del 2020, quando in molte carceri ci fu una rivolta per protestare contro le sospensioni delle visite decise per contrastare i contagi da coronavirus e contro la condizione carceraria che rendeva impossibile il distanziamento fisico, nel penitenziario di Modena morirono nove detenuti nel giro di sessanta ore, per overdose da metadone e psicofarmaci.

Luca Sofri, direttore del Post, racconta di come l’idea di questo terzo volume di approfondimento di Cose spiegate bene su Le droghe, in sostanza, gli sia venuta lo scorso febbraio guardando il Tg1. L’occasione: un servizio sulla sofferenza psichica post Covid per la quale si suggeriva, addirittura, la possibilità di usare alcune sostanze psichedeliche. Di fronte a questa “proposta” Sofri, scrive, «ha trasecolato». Il Tg1 che parlava di sostanze psichedeliche come di una «“nuova frontiera delle droghe”. Una rivoluzione. Senonché “nel servizio si è scandita la parola ‘psi- che-de-li-che’” con la circospezione stupefatta con cui si raccoglierebbe un’arma carica trovata su un marciapiede».

Parlare di droghe sì, ma con «circospezione stupefatta». Nessuna espressione potrebbe descrivere meglio quello che è sotto gli occhi di tutti: se in apparenza viviamo circondati da un ecosistema mediatico nel quale sembra possibile parlare di tutto, di droghe, comunque, si continua a farlo soltanto in un certo modo.

Con circospezione: perché non si sa mai chi potrebbe trovarsi di fronte a un servizio sugli stupefacenti ed è opinione, purtroppo, largamente diffusa, che parlare di qualcosa significhi contribuire a diffonderla, quindi meglio parlarne poco o in modo circospetto, appunto. Stupefatta perché, ancora oggi, nel 2022, per molti le droghe sono un oggetto misterioso, spaventoso, esotico. Caffè, alcool, tabacco, benzodiazepine, del resto, sono per la maggior parte delle persone tutto, fuorché droghe. E viene in mente, al riguardo, un bellissimo articolo pubblicato nel 1979 dalla rivista della Cisl Ombre bianche dove si raccontava di come, in Veneto, la campagna contro l’alcolismo avesse ottenuto un gran successo di pubblico al punto che il sindaco di non so quale paese aveva invitato i giovani a non bere l’alcool che fa male. Piuttosto la grappa locale, tanto più sana.

Perché, come ci suggerisce Sofri e con lui tutti gli autori del volume, il punto sembra proprio questo: esiste una difficoltà oggettiva di riconoscere e chiamare le cose con il loro nome. In fin dei conti di affrontarle per quello che sono. E, complice il fatto che in italiano fra farmaci e droghe esiste una distinzione lessicale che in inglese, per esempio, non c’è, è stato molto più semplice nel corso del Novecento separare sostanze “buone” da sostanze “cattive”, droghe da farmaci appunto.

DROGHE E FARMACI

Così, secondo questa distinzione, i farmaci curano e sono legali. Quando non sono legali si chiamano droghe fanno male, e il loro uso è voluttuario. Punto. Ma anche questa distinzione alla lunga non regge. Frequente l’uso di farmaci perfettamente legali a fini voluttuari. Altrettanto frequente, anche se illegale, l’uso di sostanze a fini terapeutici (penso allo scandalo del divieto di usare la cannabis per le persone sofferenti o malate). «L’uso del peyote è centrale per la Chiesa nativa americana. Una sostanza illegale per la stragrande maggioranza della società è quindi considerata e riconosciuta come elemento fondamentale di un rito rispettabile per una minoranza di persone».

Del resto, persino l’eroina, che per molti rappresenta la droga per eccellenza, quando è stata inventata dalla Bayer nel 1897 era nient’altro che un analgesico. La coca è stata per decenni la base di sciroppi contro la tosse. Così molti psicofarmaci sono stati tolti dal commercio dopo essere stati prescritti e usati per decenni. E così via. Ma allora come parlare di droghe?

SPIEGARE BENE

Innanzitutto, abbracciandone la complessità e iniziando ad accettare il fatto che l’uomo ha sempre cercato, fin dall’antichità, sostanza per lenire il dolore, euforizzarsi, dimenticare, socializzare. Un discorso non semplice da fare. Anche per questo il volume del Post è così importante, perché uscendo dai contesti specialistici, ci prova. Vediamo come.

Innanzitutto, si parte dai numeri. Il numero di persone che in modo diverso fanno uso di sostanze è larghissimo: secondo stime recenti nei paesi dell’Unione europea circa 83 milioni di persone adulte, di età compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno assunto sostanze psicoattive illegali almeno una volta nella vita. Rappresentano quasi un terzo di tutta la popolazione europea, un dato che negli ultimi anni ha avuto un andamento stabile.

«Hanno usato droghe almeno una volta nella vita più maschi, 50,6 milioni, che femmine, 32,8 milioni. Un altro indicatore interessante è il “consumo di droga nell’ultimo anno”, che misura il consumo recente, ed è prevalentemente concentrato tra le persone giovani: nell’ultimo anno 17,4 milioni di persone tra i 15 e i 34 anni hanno fatto uso di droghe, il 17 per cento della popolazione europea». Questo significa che viviamo circondati da tossicodipendenti? Ovviamente no.

Consumo occasionale, consumo abituale e tossicodipendenza non sono gradazioni diverse dello stesso fenomeno: lo dimostrano numerosi studi, nonché l’esperienza di gran parte di noi che nella vita ha provato una sostanza senza farla diventare oggetto di un’abitudine né tantomeno di una dipendenza. Per questo il volume del Post apre con un vero e proprio glossario, dalla A di Alcol alla S di Spice, nel quale si descrivono proprietà ed effetti di ogni sostanza.

Ad alcune sono dedicati degli approfondimenti: particolarmente interessante quello di Agnese Codignola sul cosiddetto rinascimento psichedelico, la ripresa di studi sugli effetti positivi sulla mente della psilobicina, o dell’Lsd, oggi al centro di un business mondiale che rischia di inficiare il paziente lavoro dei ricercatori venendo, come già era successo nei tardi anni Sessanta, pacchetti di “benessere immediato” a persone per niente consapevoli di quello che stanno assumendo.

Data la grande diffusione di cannabinoidi, particolarmente importanti sono le pagine dedicate a questa sostanza, pagine che cercano di rispondere alla domanda: cosa ci fa la cannabis. La risposta sfata una serie di luoghi comuni allarmistici e consente di fare chiarezza, su alcune questioni a prima vista banali come il fatto che fumando la cannabis non si muore. Anche la questione della dipendenza è affrontata anche se forse con non altrettanta chiarezza. Infatti bisognerebbe dirlo meglio che l’effetto sulla dipendenza sembra comunque essere moderato se confrontato con quello indotto da altre sostanze: le stime variano, ma «secondo alcuni studi il 16 per cento dei consumatori di alcolici diventa alcolista e il 32 per cento di chi prova a fumare tabacco diventa poi un fumatore abituale».

IN EUROPA

Così come molto importante è l’attenzione che il volume dedica all’eroina e ai progetti di somministrazione controllata dell’eroina come quello messo in atto in Svizzera dal 1994. Un fenomeno che normalmente i nostri giornalisti derubricano con un certo schifo sotto la definizione di  “droga di Stato”, e che invece il Post prende giustamente sul serio: in Svizzera ci sono 22 centri sanitari che offrono questa terapia che consente a persone dipendenti di vivere dignitosamente, in modo sicuro, e seguiti. «Grazie a questa e ad altre iniziative di prevenzione, cura e riduzione del danno, la Svizzera è passata da 376 morti per droghe (in maggioranza oppioidi) nel 1995 a 141 nel 2019, e da un tasso di positività all’Hiv del 50 per cento tra i consumatori di eroina a meno del 10 per cento».

Un altro caso interessante è quello del Portogallo dove, dal 2001, il consumo di ogni “droga” è stato depenalizzato: alla fine degli anni Novanta, tra gli allora 15 paesi dell’Unione europea, il Portogallo era quello con le stime più alte di consumo problematico di stupefacenti (perlopiù eroina), insieme all’Italia e al Regno Unito. Con la Spagna, era quello con la maggiore diffusione dell’Hiv.

Non si può dire che tutti i problemi siano stati risolti, ma da allora il numero di dipendenti problematici e malati si è nei fatti dimezzato. Così come si è ridotto in modo drastico il numero delle persone incarcerate per problemi correlati alla droga. 

LA “WAR ON DRUGS”

Un dato che fa riflettere visto che in Italia, secondo il Libro bianco sulle droghe di Forum Droghe, il 35 per cento della popolazione carceraria sta “dentro” in conseguenza delle leggi punitive che vigono nel nostro paese a partire dagli anni Novanta. Furono allora queste leggi, una pallida, ma feroce imitazione della war on drugs, ovvero la guerra contro la droga, dichiarata da George Bush Senior. Una guerra persa su tutti i fronti, che è costata, oltreché ingenti risorse economiche, un contributo enorme in termini di vite umane di cittadini incarcerati e a volte uccisi per la detenzione di sostanze.

Fa bene dunque il Post ricordare come «nel marzo del 2020, quando in molte carceri ci fu una rivolta per protestare contro le sospensioni delle visite decise per contrastare i contagi da coronavirus e contro la condizione carceraria che rendeva impossibile il distanziamento fisico, nel penitenziario di Modena morirono nove detenuti nel giro di sessanta ore.

Secondo quanto emerso dalla successiva inchiesta della magistratura, morirono tutti per overdose da metadone e psicofarmaci, presi nella farmacia dell’istituto, assaltata durante la rivolta. Gli avvocati delle famiglie delle vittime hanno però contestato in parte questa ricostruzione, sostenendo che i detenuti in overdose non siano stati assistiti come avrebbero dovuto, tra mancanze, ritardi e anche violenze. Anche in altri istituti avvennero simili assalti alle farmacie, anche se con conseguenze meno tragiche: nel corso di quelle rivolte, le infermerie e soprattutto gli armadi contenenti gli psicofarmaci furono, per molti detenuti, l’obiettivo primario da raggiungere».

Su questo episodio vale la pena riportare quanto scritto da Hassan Bassi nel XVI rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione: «È difficile immaginare che persone “esperte” abbiano talmente perso il controllo da suicidarsi ingerendo quantitativi letali di sostanze che conoscevano bene. È invece possibile che fra di loro ci fossero persone che non avevano esperienze assidue di consumo e che siano morte per overdose perché avevano una bassa tolleranza. I risultati delle autopsie renderanno chiare le cause di morte e insieme alla ricostruzione della successione degli eventi potranno forse spiegare perché nessuno si sia accorto per tempo del loro stato di grave malessere, attivando i soccorsi, come invece è successo in altri casi. Il naloxone, farmaco salvavita per overdose da oppiacei è infatti presente in quasi tutti gli istituti».

PER PREVENIRE

Si sente che Le droghe in sostanza è stato sottoposto alla lettura di Paolo Nencini, farmacologo e storico della medicina, autore di fondamentali saggi sull’argomento. La capacità di approfondire e divulgare è merce rara, soprattutto quando in gioco ci sono argomenti in grado di scatenare “panico morale” come le droghe. Questo volume riesce a farlo.

Leggetelo, regalato, distribuitelo nelle scuole, fra gli adolescenti nei bar, all’ora dell’happy hour (magari insieme al “Libro bianco sulle droghe” che comunque è scaricabile online gratuitamente). Sarebbe una cosa buona e giusta per ridurre i danni che produce un uso inconsapevole di sostanze. Per prevenire. Per ragionare, finalmente, con serietà e non con «circospezione stupefatta» di un tema che, alla fine, riguarda tutti noi. 

VANESSA ROGHI.  È una storica, autrice di documentari per la Rai. Ha scritto Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza 2018).

Centomila morti di overdose legalizzare o proibire? Gli oppioidi anti dolore lacerano l’America. Danilo Taino su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.

Dal 1995 l’OxyContin, prodotto dalla Purdue Pharma della famiglia Sackler, è stato al centro di una grande operazione di lobbyng e quindi prescritto massicciamente: il farmaco, per molti analisti, è all’origine dell’ondata record di decessi (causati da fentanyl e altre droghe sintetiche). I Sackler con il loro “Impero del Dolore” sono ora in disgrazia. E torna l’interrogativo sulle strategie

L’ Impero del Dolore aveva il suo monumento nell’ala Nord del Metropolitan Museum of Art di New York. Un’immensa sala e un’immensa vetrata per contenere il Tempio di Dendur, costruito duemila anni fa sulle rive del Nilo e regalato dall’Egitto agli Stati Uniti nel 1965. Era la Sackler Wing, in onore della famiglia grande benefattrice delle arti ma non necessariamente della società americana. Lo scorso dicembre, il Met ha cancellato il nome Sackler, dopo che l’impero farmaceutico costruito dalla famiglia in sette decenni è crollato nel disonore e nei tribunali. Ora, mantenerne la gloria fa male alla reputazione: anche il Louvre ha rimosso il nome da alcune sale e la Serpentine Gallery di Londra ha rifiutato il denaro della famiglia. I musei, in fondo, se la cavano in fretta. Altrove, le onde sono invece più alte: la caduta dei Sackler ha aperto un’introspezione americana: proibizionismo o legalizzazione nella lotta alla crisi da oppioidi e alle morti da overdose?

SECONDO I DATI DELL’AGENZIA GOVERNATIVA CENTERS FOR DISEASE CONTROL AND PREVENTION, SONO 108 MILA I MORTI PER OVERDOSE DA DROGHE NEGLI STATI UNITI, NEL 2021

La domanda, che non sembra avere una risposta univoca, è salita nella scala degli interrogativi che si pongono gli americani da quando, questo maggio, l’agenzia governativa Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) ha pubblicato i dati sulle morti per overdose da droghe riferiti al 2021: 108 mila, secondo dati preliminari. Il tetto psicologico delle centomila vittime all’anno è stato frantumato. La pandemia e i lockdown sono le cause dell’impennata dei decessi degli scorsi due anni, aumentati del 30% nel 2020 e del 15% nel 2021; l’anno scorso, pari a quasi un quarto dei morti americani per Covid. Ma la tendenza viene da lontano: il numero delle vittime da overdose è aumentato regolarmente dal 2000, con la sola eccezione del 2018. La crisi da oppioidi è oggi uno dei principali motivi di decesso negli Stati Uniti, più dell’Aids, più delle armi, più degli incidenti stradali. Se si considerano le morti degli scorsi vent’anni, il dilemma proibizionismo vs legalizzazione, che sembrava pendere a favore della seconda, si complica.

Gli spacciatori di fentanyl, killer di massa

Le droghe illegali responsabili delle overdosi sono in gran parte oppioidi sintetici, in particolare il fentanyl (71 mila vittime l’anno scorso), e stimolanti come le metanfetamine (33 mila vittime), spesso mixati. In particolare, l’oppioide fentanyl, nato per lenire il dolore, nelle mani degli spacciatori è diventato un killer di massa. È poco costoso, viene realizzato per lo più in laboratori in Messico, con componenti di base cinesi, e poi fatto entrare clandestinamente negli Stati Uniti. È cinquanta volte più potente dell’eroina e cento volte più della morfina. Prima di venderlo ai consumatori, le gang lo mischiano con altre droghe e altri stimolanti, addirittura contraffanno pillole alle quali poi danno nomi di farmaci, per esempio lo Xanax. Chi compra questi prodotti, nelle strade della California o dell’Ohio, spesso non sa che contengono fentanyl o in quale quantità: il rischio di overdose è alto.

PRODOTTI MORTALI SUL MERCATO NERO. LE OVERDOSI CAUSATE DAGLI OPPIOIDI SONO AUMENTATE DEL 15% NEL 2021, DOPO ESSERE CRESCIUTE DEL 30% NEL 2020. SONO PARI A QUASI UN QUARTO DEI MORTI AMERICANI PER COVID

Un pezzo di America continua a ritenere che il Paese debba essere drugfree, cioè debba condurre una guerra senza tregua all’uso di droghe, a chi le commercia e, secondo alcuni, anche a chi le consuma. Un altro pezzo si domanda se non sia meglio legalizzarne in qualche forma il commercio in modo da abbassare il rischio di trovare prodotti mortali sul mercato illegale. Un dilemma non risolto da anni, diventato ora dirimente nel pieno della opioid-crisis . Lo scarso successo della politica di zero-droghe fa propendere per l’abbandono del proibizionismo totale e per la legalizzazione regolamentata. Ma è qui che a confondere le cose entrano in campo i Sackler e il loro “Impero del dolore”, come l’ha chiamato Patrick Radden Keefe nel suo libro Empire of Pain. Perché sono proprio certe droghe legali e regolate all’origine della opioid-crisis di oggi, secondo la grande maggioranza degli esperti.

Gli errori della famiglia Sackler

Tutto comincia nel 1995, quando la Food and Drug Administration permette la commercializzazione dell’OxyContin prodotto dalla Purdue Pharma, gruppo posseduto dalla famiglia Sackler. L’OxyContin è un oppioide semisintetico per il trattamento dei dolori. Nei primi anni di commercializzazione, tutto procede con una certa regolarità. Nel 2001, succede però che la Joint Commission - un’organizzazione non-profit di enorme rilevanza nel sistema sanitario degli Stati Uniti - indica ai fornitori di servizi medici di chiedere ai pazienti se sentono un “dolore”, dal momento che lo ritiene un sintomo di malessere poco indagato. Da allora, il dolore inizia a essere considerato il “quinto parametro vitale” per iniziare a stabilire lo stato di salute di una persona, dopo la temperatura, la pressione del sangue, la capacità respiratoria e il battito cardiaco.

RISALE AL 1995 IL VIA LIBERA DELLA F&D ALLO OXYCONTIN, PERMETTENDONE LA COMMERCIALIZZAZIONE DELL’OPPIOIDE SEMISINTETICO PER IL TRATTAMENTO DEI DOLORI PRODOTTO DALLA PURDUE PHARMA. IL BOOM DELLE PRESCRIZIONI PERICOLOSE

Molti medici ritengono che in realtà il dolore sia un sintomo, non un segnale, fatto sta che da allora le prescrizioni di oppioidi contro il dolore iniziano a crescere. Purdue Pharma vede l’opportunità e inizia una politica di lobbying, di pubbliche relazioni, di coinvolgimento di medici, di convegni per sostenere l’efficacia e la sicurezza, non provata, dell’OxyContin. E organizza una forza di vendite e di marketing che rende il farmaco dominante sul mercato. Altre case farmaceutiche realizzano prodotti del genere ma l’OxyContin batte tutti: dal 1996, ha portato nelle casse di Purdue 35 miliardi di dollari, dicono le stime. Gli Slacker si arricchiscono ulteriormente fino a quando non scoppia lo scandalo delle pratiche scorrette dell’azienda e tutto finisce nei tribunali con un rosario di cause molto serie. E con la convinzione generalizzata che la opioid-crisis sia iniziata così, con un oppioide legale “pompato” sul mercato e tra i medici che ha aperto la strada al fentalyn e simili illegali.

I filantropi che fanno soldi sul dolore

La famiglia, fino a quel momento apprezzata come un esempio di generosità filantropica, crolla nella reputazione e deve affrontare corti e avvocati. Lo scorso marzo, ha raggiunto un accordo da sei miliardi di dollari per aiutare le comunità a mitigare la crisi da oppioidi. Un altro miliardo e mezzo lo sborserà la Purdue. E la McKinsey ha trovato un accordo per il quale verserà quasi 600 milioni a 47 Stati americani per avere contribuito, con le sue consulenze, alle turbo-vendite della Purdue. Anche la legalizzazione regolamentata, insomma, si porta dietro dei rischi. Il Proibizionismo americano sul commercio di alcol, dal 1920 al 1933, non eliminò gli speakeasy , il contrabbando dei Roaring Twenties e nemmeno le gang criminali. E la guerra alla droga dei decenni scorsi non si può definire di successo.

Dipendenze e spaccio nelle strade e nei parchi

Dall’altra parte, il caso dei farmaci legali che hanno indotto l’epidemia da oppioidi in corso negli Stati Uniti racconta che i rischi di diffusione sono alti comunque. Con ogni probabilità, la legalizzazione toglierebbe una parte di business ai cartelli criminali ma difficilmente li smantellerebbe: forse i casi di overdose si ridurrebbero ma molte vittime della dipendenza, soprattutto le più povere, continuerebbero a rifornirsi nelle strade e nei parchi, è l’opinione di gran parte degli esperti. La questione resta non risolta. D’altra parte, anche sciogliere il dilemma non sarebbe forse risolutivo. La droga non è solo un problema di offerta: c’è anche la domanda che sale dalla solitudine e da una società disorientata. Quella società che aveva fatto grande l’Impero del Dolore.

Il tragico legame tra droga e guerra. Andrea Muratore il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dalle droghe come movente e obiettivo da eradicare in conflitto a quelle usate per motivare e disinibire i soldati. Peter Andreas, politologo e docente presso la Brown University, nel libro "Killer High. Storia della guerra in sei droghe" spiega il legame tra mondo bellico e sostanze psicotrope.

Quello tra guerra e droghe è un rapporto antico, complesso, osmotico. Il conflitto è essenza stessa delle relazioni tra le comunità umane, fin dall'inizio della storia, e ogni civiltà umana ha costruito attorno alla possibilità di combattere sistemi valoriali, politici, sociali. Dalla ritualizzazione delle guerre nell'America precolombiana allo ius ad bellum romano, per arrivare fino ai sistemi più moderni, l'uomo ha cercato di creare una serie di convenzioni per governare ciò che nella storia si è reso spesso inevitabile: lo scoppio di conflitti in cui ciò che è tabù nella convivenza civile, cioè uccidere i propri rivali, diventa programma.

In questo contesto, le droghe hanno accompagnato ovunque la discesa in campo di eserciti e condottieri. In una corrispondenza quasi biunivoca: dove c'è guerra, ci sono droghe di ogni tipo. Intese in questo senso come sostanze inibenti a cui soldati e membri delle armate di ogni tempo sono stati assuefatti per compeire quello che nel consesso "civile" non riuscirebbero probabilmente a fare.

Peter Andreas, politologo e docente presso la Brown University, nel libro Killer High. Storia della guerra in sei droghe, pubblicato in Italia da Meltemi, ci conduce in un viaggio storico per comprendere il rapporto che, fin dall’antichità, lega le guerre a tabacco, alcool e altre sostanze psicotrope ed eccitanti. Così come Margaret MacMillan ha sostenuto in War - Come la guerra ha plasmato gli uomini che le società siano indissolubilmente legate nel loro sviluppo all'esistenza dei conflitti, Andreas aggiunge che le droghe o la trasformazione di diverse sostanze in droghe abbiano giocato un ruolo nel loro sviluppo concreto. E non solo per l'utilizzo che generali e comandanti ne hanno fatto per rendere più pronti al combattimento i soldati.

Da un lato, con l'enorme sviluppo del narcotraffico come fattore di finanziamento di conflitti ed instabilità. Pensiamo al Captagon, la droga utilizzata come fonte di finanziamento in Siria da diverse parti del conflitto; oppure ai grandi proventi che il traffico di stupefacenti consentiva di ottenere ai signori della guerra afghani; oppure al ruolo delle mafie balcaniche vicine alle fazioni in lotta negli Anni Novanta coinvolte nel traffico internazionale di cocaina e altre sostanze.

Dall'altro, perché le droghe sono diventate, direttamente o meno, il bersaglio di vere e proprie campagne militari. Le polizie dedite al contrasto al narcotraffico appaiono, come nota Andreas, sempre più militarizzate. In Messico i governi hanno dovuto affrontare cartelli armati e capaci di arrivare al controllo di veri e propri territori, così come in Colombia è accaduto che la guerriglia delle Farc si saldasse al narcotraffico, in un legame di alcune frange anche con il regime venezuelano e di Hezbollah. Diverso il caso di Paesi come le Filippine e gli Usa, dove la "guerra alla droga" è un'espressione dominante ma non intesa come il varo di operazioni militari contro gruppi strutturati. Notare che anche nella propaganda bellica russa, più di recente, il governo ucraino di Volodymyr Zelensky sia stato definito come costituito, oltre che da neonazisti, da "drogati" per giustificare la presunta irrazionalità delle sue mosse.

"Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe e non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra", sottolinea Andreas. L'autore studia la continuità tra la “guerra sotto effetto di droga”, dagli Incas alle anfetamine della Wehrmacht, la “guerra grazie alla droga”, con i casi precedentemente citati, la “guerra per la droga”, la “guerra contro la droga” a cui si aggiunge la “droga dopo la guerra”, cioè il consumo e l'abuso di alcool, tabacco e antidepressivi da parte dei soldati per sostenere lo stress causato dagli scontri bellici. Una pratia che, nota Andreas, si è ampiamente moltiplicata nel XX e XXI secolo. Il caso degli Stati Uniti e degli enormi problemi sociali dei veterani lo testimonia. Assuefatti all'orrore del conflitto, all'idea di dover scegliere tra uccidere e essere uccisi, i combattenti occidentali hanno negli ultimi decenni subito particolari casi di shock di questo tipo.

Cambiano le società, cambia la realtà dei fatti, cambia la narrazione ma la guerra resta in sostanza ciò che era all'inizio della storia umana: la negazione della regola aurea della civiltà umana, il divieto di uccidere il prossimo. Nel saggio Toward Post-Heroic Warfare, apparso su Foreign Affairs nel 1995, Edward Luttwak aveva descritto un cambiamento nelle modalità occidentali di affrontare i conflitti e di essere sempre meno capaci di accettare perdite nelle file dei propri eserciti. Questo vale anche per i combattenti dotati di dispositivi iper-tecnologici a cui si vende, spesso, l'illusione di una sicurezza che fa venire meno la legge-base della guerra nella percezione di militari e soldati di vario rango. Da qui, nei nostri tempi, l'epidemia di casi di stress post-traumatico, malattie legate ai traumi da combattimento, dipendenze. Esplose negli Usa con un contributo fondamentale dei veterani al computo delle vittime del silenzioso massacro dell'emergenza oppiacei. Droghe e guerra sono legate più che mai. E probabilmente resteranno tali finché esisterà lo strumento bellico.

Bacco e tabacco. In Italia sono i più poveri che fumano, mentre i laureati bevono. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 12 Maggio 2022.

Nonostante la pandemia, lo stile di vita generale non è migliorato. La percentuale dei tabagisti negli ultimi otto anni non è diminuita, anzi. Mentre il consumo di alcol cresce tra chi è più istruito.

Gli italiani hanno cominciato ad avere uno stile di vita più sano dopo la pandemia? Il Covid ha aumentato la consapevolezza del valore della salute? A guardare i dati Istat più recenti sembra di no. Soprattutto quelli che riguardano il pericolo più importante, il fumo. La percentuale dei tabagisti non è diminuita negli ultimi 8 anni. Anzi, è leggermente risalita, passando dal 18,4% del 2019 al 19% del 2021. E dire che la proporzione dei fumatori era scesa di circa 9 punti in meno di 20 anni, mentre tra le donne vi erano stati pochi cambiamenti. 

Gli uomini rimangono i fumatori più accaniti, soprattutto se hanno una bassa istruzione: tra quelli che si sono fermati alla licenza media a fumare è il 29,1%. Invece i laureati sono quelli meno dipendenti dalla nicotina: il 52,4% che non ha mai toccato una sigaretta, percentuale che sale al 63,3% tra le donne. Tra queste ultime, in realtà, le non fumatrici arrivano al 76% tra coloro che non sono andate oltre le scuole elementari, ma si tratta di poche anziane.

A proposito di età, nella popolazione attiva, quella con meno di 65 anni, le differenze in base all’istruzione sono nettissime, in entrambi i generi. Fra gli uomini tra i 25 e i 34 anni con la licenza media i tabagisti sfiorano il 40%, mentre scendono al 20,8% tra i coetanei con una laurea o un dottorato. E al 12,7% tra le donne tra i 45 e i 64 anni con un titolo universitario.

Che gli anni di studio rappresentino un parametro di grande rilevanza è evidente anche in un altro ambito, quello dell’obesità e del sovrappeso, che pure tende a influenzare l’aspettativa di vita, a favorire malattie e a pesare in modo importante sul sistema sanitario. Anche qui sembra che chi ha un livello di istruzione minore sia più soggetto a superare il peso consigliato. Sono fuori forma il 67,2% degli uomini con licenza elementare, e solo il 16,9% delle donne laureate tra i 25 e i 44 anni.

Al divario per titolo di studio qui si somma anche quello per genere, ma il primo sembra essere comunque più importante.

Le cose tra l’altro sono peggiorate nel corso degli anni, in modo lento ma costante. Nel 2020 per la prima volta i normopeso sono scesi sotto il 50%, mentre erano il 54,7% a inizio secolo.

Non solo, vi anche è una netta differenza geografica: i cittadini obesi e sovrappeso raggiungono la concentrazione massima nel Mezzogiorno, arrivano al 56,3% in Basilicata, al 54,4% in Campania, mentre sono solo il 41,3% in Piemonte e una percentuale molto simile in Lombardia, Trentino Alto Adige e Liguria. Gli italiani poi risultano essere molto più in forma nei capoluoghi delle Città Metropolitane che nei piccoli paesi. Nel primo caso chi è nei limiti del peso consigliato è il 54,8%, nel secondo solo il 47,1%.

Questi dati smentiscono un po’ di luoghi comuni sul fatto che in città si vive meglio che in campagna, che nel Sud e nelle Isole la dieta mediterranea consente una migliore alimentazione, che il contadino non istruito che vive in un piccolo cento sta meglio, fisicamente, del manager della metropoli.

A fare parzialmente eccezione sono le statistiche sul consumo di alcol, che è più comune, invece, tra chi si è laureato: ad avere bevuto un drink almeno una volta nell’ultimo anno è stato l’80,4% di chi ha completato gli studi universitari e il 66,5% di chi ha la licenza media. E questo gap è presente a qualsiasi età, forse perché assumere vino, birra o altro è sempre più un fenomeno sociale, ed esce di più chi ha maggiori possibilità economiche, solitamente chi ha un’istruzione più alta.

Il dato è piuttosto preoccupante perché in generale ad avere comportamenti a rischio per la propria salute sono proprio coloro che hanno minori possibilità di accedere ai servizi sanitari migliori (che ormai sono quelli almeno parzialmente a pagamento), coloro che sono in una situazione economica più precaria, che abitano laddove vi sono meno servizi.

I dati sui ragazzi fino ai 24 anni sono particolarmente eloquenti: chi proviene da famiglie con risorse finanziarie inadeguate e ha genitori meno istruiti fuma di più, tende ad avere un maggiore eccesso di peso e non fa attività fisica. Solo nell’eccesso di alcol, di nuovo, questa tendenza si inverte, ma in modo lieve.

A dispetto di quello che piace pensare ai più, non è solo una questione di mentalità o di volontà. Vi è uno strettissimo legame, invece, con l’istruzione, una variabile in cui l’Italia da sempre rappresenta una delle ultime ruote del carro in Europa.

Avere una percentuale inferiore di fumatori o di obesi non dipende solo dalla capacità di mandare i messaggi giusti, di fare campagne azzeccate, ma dalla possibilità di fornire un’educazione che possa dare gli strumenti e gli stimoli giusti. Al posto di predicozzi e appelli più o meno paternalistici sarebbe molto più efficace innalzare la percentuale di quanti riescono a raggiungere un diploma e una laurea, e diminuire quella di chi si ritrova ad abbandonare gli studi. E sono ancora tanti. Ma è certamente meno facile.

Così l’ayahuasca ha messo in discussione me e la mia percezione del mondo». Sebastiano Mauri su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

Lo scrittore Sebastiano Mauri: «Non avevo idea a cosa andassi incontro il giorno in cui sono atterrato nell’Amazzonia peruviana». Un’esperienza, fra due mondi, con le sostanze psicotrope: per scoprire dietro la maschera il nostro ritratto di Dorian Gray.

Non avevo idea a cosa andassi incontro il giorno che atterrai a Iquitos, nel cuore della foresta amazzonica peruviana, ma di certo non sospettavo che avrei aperto una porta impossibile da richiudere. Le cerimonie di ayahuasca sono spesso paragonate a una decina d’anni di terapia concentrate in una notte. Quanto sono vaste le potenzialità curative di questo decotto psicotropo vegetale che si assume sotto la guida di un curandero, tanto devono essere necessariamente esperte le mani che lo offrono. Si potrebbe dire la stessa cosa della psicanalisi, con la differenza che il DMT permette di andare molto a fondo, molto in fretta. È forse questa la ragione che ha recentemente spinto il ministero della Salute a includere il principio attivo dell’ ayahuasca , il DMT, tra le sostanze stupefacenti, nonostante si tratti di un alcaloide endogeno che la ghiandola pineale fa circolare nel corpo umano in dosi massicce al nostro primo e ultimo respiro e in quantità ridotte durante la fase REM dei sogni. (continua a leggere dopo la foto e i link)

Sono due le piante da cui viene l’Ayahuascva: Banisteriopsis caapi e Psychotria viridis. Se ne ricava la dimetiltriptammina, la medesima sostanza psichedelica prodotta nel cervello umano dalla ghiandola pineale ogni notte, durante la fase REM del sonno, dalla nascita fino a 24 ore dopo il decesso. Mentre in Usa e Canada le sostanze psichedeliche stanno cominciando ad entrare nella farmacopea ufficiale, il ministero italiano della Salute ha inserito l’Ayahuasca - con il decreto ministeriale 23 febbraio 2022, pubblicato il 14 marzo in Gazzetta Ufficiale - nella tabella I delle sostanze stupefacenti del Testo Unico sulle droghe.

Niente assuefazione né danni all’organismo

Non crea danni all’organismo, assuefazione o dipendenza e in Amazzonia è considerata una medicina, oltre che una pianta sacra, ma è rischioso rimuoverne la sacralità, magari per soddisfare un pubblico occidentale o per ottenere facili guadagni. Durante gli stati alternativi di coscienza cui l’ ayahuasca permette di accedere, i mondi materiale, onirico e spirituale s’intrecciano senza soluzione di continuità. Per un occidentale, partecipare a queste cerimonie, oltre a scandagliare il proprio subconscio e rimarginare ferite, significa mettere in discussione la nostra intera concezione del mondo e forse è anche questo che spaventa. Aprirsi agli insegnamenti dell’ ayahuasca e dei popoli originari è una lezione di umiltà. Le due esperienze non devono essere mai scisse, perché la cura che la loro medicina della foresta innesca in noi non può prescindere dall’ascolto delle loro voci.

Consumi e progresso: minacce al Pianeta

Non è un caso che le cerimonie amazzoniche abbiano varcato i confini della giungla, lì sanno bene che se non si curano le persone, è impossibile curare le società che esse formano. Sanno anche che il costante aumento dei consumi che chiamiamo progresso minaccia la nostra stessa sopravvivenza. Quello che noi dimentichiamo, invece, è che sono questi popoli a garantire la biodiversità del pianeta, a saper ancora (con) vivere in modo sostenibile e a combattere in prima linea per la difesa dell’ambiente.

Lungi da incarnare uno stile di vita passé e congelato nel tempo, errore prospettico che noi occidentali spesso commettiamo, rappresentano, al contrario, un esempio vivo di un futuro potenzialmente prospero. Persone come Nemonte Nenquimo, Davi Kopenawa e Helena Gualinga sono i veri leader climatici, le voci che dovremmo ascoltare per prime. Come insegna Manari Ushigua, un leader Sapara dell’Ecuador, il mondo dei sogni e degli spiriti, chiamato makihaunu, è da dove veniamo, dove siamo diretti e dove accediamo attraverso la tecnologia pulita dei sogni, grazie al DMT, con o senza l’assunzione di una sostanza esterna.

«L’uomo è il sogno delle piante»

In Amazzonia dicono che l’uomo sia il sogno delle piante. Un sogno iniziato milioni di anni fa, quando un’alga si staccò dal suolo marino, provvista di due minuscole pinne vegetali, per inaugurare la prima nuotata della Storia. Oggi, come nei racconti distopici che noi tanto amiamo creare sull’intelligenza artificiale, sembra che questo sogno sia loro sfuggito di mano. L’animale umano da loro sognato ha dimenticato la sua eco-dipendenza, illudendosi di poter sfruttare Madre Terra senza badare alle conseguenze. La porta che l’ ayahuasca permette di aprire mostra quello che potremmo chiamare il nostro personale ritratto di Dorian Gray, la realtà che si cela dietro la maschera. Quella maschera che, come individui e società, dobbiamo strapparci prima che diventi la smorfia in cui verremo per sempre immortalati.

Dagotraduzione da Study Finds il 23 marzo 2022.

La marijuana medica non riesce a migliorare dolore, ansia e depressione - mentre aumenta il rischio che i pazienti sviluppino una dipendenza dalla cannabis. Lo sostiene un nuovo studio del Massachusetts General Hospital, secondo cui fino a un consumatore su cinque può sviluppare il disturbo da uso di cannabis (CUD). 

I risultati provengono da una revisione dei titolari di autorizzazioni per la marijuana medica negli Stati Uniti. Un numero crescente di stati ora consente l'uso e la vendita di marijuana medica per alleviare i sintomi di condizioni tra cui l'epilessia, la sclerosi multipla e gli effetti collaterali della chemioterapia.

«Ci sono state molte affermazioni sui benefici della marijuana medica per il trattamento del dolore, dell'insonnia, dell'ansia e della depressione, senza solide prove scientifiche a sostegno», afferma il professor Jodi Gilman in un comunicato stampa. 

«In questo primo studio su pazienti randomizzati che volevano ottenere tessere dper l'uso della marijuana medica, abbiamo appreso che possono esserci conseguenze negative nell'uso della cannabis per scopi medici. Le persone con sintomi di dolore, ansia o depressione non hanno segnalato alcun miglioramento, anche se chi soffriva insonnia ha sperimentato un miglioramento».

Chi soffriva di ansia o depressione era più vulnerabile alla CUD, una scoperta che il Prof. Gilman descrive come «particolarmente inquietante», considerato che sono le due patologie per cui i pazienti chiedono più spesso una prescrizione medica per l’uso di cannabis. 

Il sistema di prescrizione della marijuana medica ha bisogno di una revisione?

I risultati suggeriscono la necessità di garanzie più forti sulla distribuzione e il monitoraggio dei pazienti, afferma il team di MGH. Negli Stati Uniti, le autorizzazioni per la cannabis medica richiedono l'approvazione scritta di un medico che in genere non è il fornitore di cure primarie del paziente. Possono fornire l'autorizzazione solo con un esame superficiale, senza raccomandazioni per trattamenti alternativi e senza follow-up. In effetti, l'industria funziona al di fuori degli standard normativi che si applicano alla maggior parte dei campi della medicina.

Nello studio, il Prof. Gilman e colleghi hanno reclutato 269 adulti di Boston. Gli autori dello studio hanno diviso i partecipanti in due gruppi: il primo aveva accesso immediato alla marijuana, il secondo funzionava da gruppo di controllo. Nelle successive 12 settimane, il rischio di sviluppare CUD è quasi raddoppiato tra le persone che hanno avuto accesso immediato alla marijuana medica. 

Alla fine del processo, i medici hanno diagnosticato una dipendenza ogni 10. Quel numero è salito al 20% tra i partecipanti che cercavano una soluzione per l'ansia o la depressione.

«Il nostro studio sottolinea la necessità di un migliore processo decisionale sull'opportunità di iniziare a usare la cannabis per specifici disturbi medici, in particolare disturbi dell'umore e d'ansia, che sono associati a un aumentato rischio di disturbo da uso di cannabis», afferma il prof. Gilman. 

«Deve esserci una guida migliore per i pazienti attorno a un sistema che attualmente consente loro di scegliere i propri prodotti, decidere il proprio dosaggio e che spesso non ricevono cure professionali di follow-up».

I risultati dello studio sono pubblicati su JAMA Network Open.

Just Mary. A Milano il business della canapa va più veloce del perbenismo. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 23 Marzo 2022.

In città ci sono oltre 40 cannabis store dedicati e l’app di delivery raccoglie qui la metà dei suoi ordini nazionali. La domanda è molto alta e la sensazione è che il “no” della Corte costituzionale al referendum sia solo un contrattempo per un settore in crescita esponenziale.

«Una città che corre come Milano avrebbe davvero bisogno di rilassarsi. A questo serve la cannabis». A raccontarlo a Linkiesta è Raffaello D’Ambrosio, originario di Casamassima in provincia di Bari ma cittadino milanese da 16 anni, che nel 2018 ha fondato in zona Affori “The Hemp Club”, una piccola associazione che aiuta chi vuole consumare dosi di cannabis oltre il consentito a farlo in modo lecito.

La sua storia, come quella degli oltre 40 cannabis store presenti in città e del servizio di delivery Just Mary, dice molto di quello che è oggi il rapporto tra Milano e la canapa.

Non è un caso se proprio il Consiglio comunale di Milano abbia approvato un ordine del giorno che chiede al governo di colmare la lacuna in materia, dopo il no della Corte costituzionale all’indizione di un referendum sul quesito proposto dai radicali, reinvestendo i proventi «derivanti dalla legalizzazione della cannabis in politiche di formazione, prevenzione e riduzione del danno, come in altri Paesi dove è già legalizzata».

A consumare cannabis oggi sono soprattutto coloro che rientrano nella fascia 20-24 anni e sopra i 40, rispettivamente al 25,3% e 19,92% secondo un rapporto del Ministero dell’Interno del luglio 2020.

Maggiorenni e adulti che sanno ciò che cercano, più che minorenni che setacciano l’ultimo stupefacente in grado di procurare loro emozioni forti, che perciò hanno vissuto il no della Consulta come un ulteriore segno di ostracismo.

«È certamente un peccato, perché è evidente come sulla cannabis ci sia ancora una sorta di bigottismo da parte di tante persone: un referendum avrebbe garantito almeno un dibattito e un modo per parlare della questione in modo coscienzioso», sottolinea a Linkiesta Matteo Moretti, fondatore e ceo di Just Mary, il “Just Eat” della cannabis, che è partito da Milano nel 2018 e si è poi rapidamente allargato in tutta Italia, arrivando oggi a superare il milione di euro di fatturato.

Gli affari e i problemi

Il business della canapa è infatti in crescita costante da anni. È infatti consentita la vendita per tutti i prodotti contenenti Cbd e per quelli con una base di Thc che si aggira tra lo 0,2% e lo 0,6%, perciò incapaci di procurare alcuno “sballo”.

Nella sola Milano sono presenti oltre 40 attività che, oltre alle infiorescenze dell’erba, perfettamente legali e dall’odore facilmente riconoscibile, spesso vendono anche prodotti come bonghi, oli, cartine e in alcuni casi anche altri prodotti di merchandising. È il caso di Honest Cannabis Store, negozio nascosto in un vicolo vicino la Darsena. Qui, oltre ai prodotti per i consumatori, sono presenti anche felpe e magliette brandizzate dalla casa discografica di Salmo, che ha investito nell’apertura di un centro a Milano e due nel bresciano.

«Siamo aperti da soli 6 mesi ma stiamo cominciando a prendere piede: i nostri consumatori sono soprattutto adulti sulla trentina, prima ancora che ragazzi», conferma il commesso, che in modo molto gentile illustra tutti i prodotti della collezione.

Ovviamente non mancano i controlli: la crescita esponenziale di questi esercizi commerciali, che ogni sera possono arrivare a raccogliere anche migliaia di euro in cassa, porta con sé anche un maggiore controllo da parte delle autorità. L’ultima maxi-retata risale allo scorso settembre, quando i finanzieri del comando provinciale di Milano hanno sequestrato prodotti con Thc superiore al consentito in 27 esercizi commerciali della città. Un segnale che l’attenzione sul fenomeno resta molto alta.

«Giusto così, visto che la criminalità organizzata ha da sempre nel mirino settori come questo. Per questo io per primo mi sono dato una regola: non superare i 500 iscritti per il club, in modo da non renderlo appetibile per certi giri», sottolinea D’Ambrosio.

A oggi “The Hemp Club” conta 312 persone iscritte, un numero cresciuto in maniera importante negli ultimi anni. «Oggi la cannabis può essere prescritta praticamente a tutti ma il problema è l’offerta: pensa che per soddisfare alcuni ordini siamo stati costretti ad andare fino a Varese e a spedirla noi, visto che le farmacie non possono farlo. Un controsenso, visto che possono addirittura mandare il metadone», rimarca D’Ambrosio.

La questione delle spedizioni è un tasto dolente anche per una start up come Just Mary, che però deve affrontare anche altre criticità. «Ci sono tanti aspetti che forse il referendum non ci avrebbe permesso di superare. Uno di questi è il bigottismo della gente, motivo per il quale la consegna del prodotto al nostro cliente avviene in modo totalmente anonimo. Oppure i problemi che spesso ci causano le banche e i circuiti di pagamento, che rifiutano di finanziarci o di permettere il pagamento ai nostri clienti soltanto perché commercializziamo la cannabis. Oppure gli stessi social media, come Facebook e Instagram, che alla prima occasione ci bannano», dichiara Moretti.

Eppure, i motivi per sorridere non mancano. «Nonostante le difficoltà siamo una realtà piccola ma che si è già fatta le ossa, specie a Milano: da qui arrivano la metà dei 150 ordini a sera che raccogliamo in giro per l’Italia. È una bella iniezione di fiducia soprattutto per la nostra filiera, dagli agricoltori ai rider sino ai nostri dipendenti, che nei periodi di maggiore richiesta arrivano a essere circa 25», sottolinea Moretti.

E una grossa spinta l’ha data proprio la pandemia. «Certo, e lo dimostra il salto che ha avuto il nostro fatturato: siamo infatti passati dai 220mila euro del 2019 a 1 milione e 620mila del 2020, per poi attestarci a poco più di un milione nel 2021. Un segno che abbiamo consolidato la nostra clientela: a consumarla sono soprattutto adulti in cerca di prodotti per alleviare i propri dolori o per dormire, di certo non i ragazzini», evidenzia sicuro Moretti.

Gli utenti

A beneficiare della cannabis non sono solo pazienti affetti da patologie gravi. «Il nostro lavoro consiste nel trovare un modo per soddisfare la domanda di cannabis: noi mettiamo in contatto coloro che la vogliono consumare con Cannabis service, una rete di medici di cui facciamo parte, che la prescrive per i disturbi più diversi, dall’insonnia all’ansia fino ai crampi mestruali, oltre ai casi già conosciuti di malattie neurodegenerative», sostiene D’Ambrosio.

Un’intermediazione perfettamente legale, grazie alla legge del 2016 che ha difatti permesso di prescriverla per qualsiasi disturbo. «Ciò che manca sono gli informatori, come per i farmaci, e spesso sono gli stessi pazienti che devono andare dai medici a implorarli di prescriverla», evidenzia sempre il presidente di The Hemp Club.

Uno stallo che non aiuta anche chi soffre. «I social media ce li hanno bloccati ma abbiamo ricevuto quasi 300 messaggi da parte di persone che ogni giorno combattono con la loro malattia che ci ringraziano per aver in qualche modo alleviato le loro sofferenze», ricorda Moretti. Per loro come per gli altri il problema è uno: l’acquisto a caro prezzo. Come dice D’Ambrosio, «noi siamo costretti a comprarla a 12 euro al grammo perché lo Stato italiano si è fatto fregare acquistandola a sua volta a 5 euro al grammo, mentre in altri Paesi costa molto meno. In questo contesto ovviamente il mercato nero ha vita facile offrendola a meno, con però tutti i rischi del caso».

I progetti futuri

Il no della Corte al referendum ha in parte modificato i piani di queste realtà. «Già da tempo pensavamo di allestire un luogo nel nostro club per le piante ma abbiamo atteso il pronunciamento della Corte. Adesso lo faremo sicuramente e sarà una sorta di “disobbedienza civile”: chiederemo ai nostri iscritti se vorranno prendersi carico della proprietà di un paio di piante di canapa, che terremo nel nostro centro. In questo modo eviteremo eventuali accuse di spaccio», dichiara D’Ambrosio che ha un sogno: «Mi piacerebbe vedere altri centri come il mio in giro per Milano: se pensiamo che intorno all’area metropolitana gravitano quasi un milione di persone e circa il 10% fa uso di cannabinoidi, è chiaro che c’è spazio per altri centri. Sarebbe bello vederne un po’ in giro per la città».

Più semplice il sogno di Moretti. «Mi piacerebbe semplicemente vedere riconosciuto il valore della cannabis, senza quella punta di bigottismo che spesso la circonda. Sarebbe meglio per tutti, anche per Milano».

Estratto dell'articolo di Michele Bocci per "la Repubblica" il 28 febbraio 2022.

La crescita del consumo prosegue anche nel 2021, non è stata scalfita nemmeno dalla pandemia. I medici italiani prescrivono sempre più cannabis terapeutica a sempre più pazienti e diventa ormai urgente avere una produzione nazionale più importante della attuale, che riduca le spese e che cancelli anche i rischi di blocchi nelle consegne, avvenuti anche di recente.

In una parola bisogna puntare all'autonomia. I dati sulla distribuzione della cannabis per uso medico nel 2021 sono appena arrivati. Ebbene, in quattro anni il consumo è quasi quadruplicato.

Nel 2017 i chili erano 351, l'anno scorso sono stati 1.271, che significa oltre 5 milioni e mezzo di dosi da 0,25 grammi. La prospettiva per quest'anno è ovviamente di aumentare ancora e arrivare a circa una tonnellata e mezzo di fiori di marijuana consumati.

«Si tratta di una stima troppo bassa - dice Santa Sarta, del Comitato pazienti cannabis medica -. Già adesso secondo i nostri calcoli servirebbero tre tonnellate. E infatti in molte zone del Paese il farmaco manca».

In Italia la produzione di marijuana terapeutica è affidata all'Istituto farmaceutico militare di Firenze, che però non riesce a sostenere la crescita della domanda.

L'anno scorso ha prodotto circa 150 chili e grazie anche ai finanziamenti di ministero alla Salute e alla Difesa quest'anno riorganizzerà il sistema di coltivazione per arrivare a 300 chili. Ancora troppo pochi. 

L'Italia infatti è costretta ad importare i fiori della canapa, soprattutto dall'Olanda a 5 e 10 euro al grammo. Il ministro alla Salute Roberto Speranza ha detto che bisogna rimediare alle carenze anche cercando altri produttori.

L'idea è quella di coinvolgere privati italiani, che coltiverebbero la marijuana terapeutica per poi inviarla a Farmaceutico fiorentino per le lavorazioni finali. Visto che si tratta di un medicinale deve essere standardizzato, cioè sempre uguale a se stesso, al di là dove è stato coltivato. 

«Entro aprile faremo i bandi per trovare i privati con i quali collaborare», spiega il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. I candidati non mancheranno. Tra questi potrebbe esserci il Consorzio agricolo Bio Hemp Farming di Cerignola (Foggia).

MILIONI DI FIRME PERSE. Quesiti con troppe ambiguità. E i referendum si sono fermati. SONIA RICCI su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il presidente Amato in conferenza stampa, parlando del referendum sulla cannabis, ha fatto riferimento ad alcuni errori di forma presenti nel quesito referendario.

In realtà i riferimenti sono corretti. Il problema, però, è che le tabelle citate dall’articolo che i promotori avrebbero voluto cancellare contengono sia le droghe pesanti sia quelle leggere. 

È stato presentato come referendum sulla cannabis ma in realtà il quesito aveva una portata molto più ampia, con un contenuto eterogeneo. 

SONIA RICCI. Nata a Foligno nel 1987, è redattrice di Domani. Ha lavorato per quasi dieci anni per l'agenzia stampa Public Policy come giornalista parlamentare. Ha scritto per Repubblica e Il Messaggero. Si occupa di politica ed enogastronomia. È coautrice de "L'Italia di vino in vino" edito da Altreconomia.

ORA TOCCA AL PARLAMENTO. Cannabis, le leggi ci sono, ma nessuno vuole davvero discuterle. RITA RAPISARDI su Il Domani il 19 febbraio 2022

La storia della politica con la cannabis non è mai iniziata in realtà. Negli anni si sono accumulati ventiquattro testi di legge, depositati e mai discussi.

I disegni di legge che hanno attirato maggiore attenzione sono due, i più recenti sono quelli a firma Perantoni e Magi. Entrambi bloccati in commissione giustizia alla Camera, rischiano di rimanerci un bel po’.

Gli elettori democratici – la cui base è largamente favorevole alle istanze che il referendum portava – da tempo chiedono al segretario Enrico Letta un appoggio, ma la scarsa simpatia del leader del Pd per queste tematiche è nota. RITA RAPISARDI.

Il presidente della Corte Costituzionale in tv. “I quesiti su cannabis ed eutanasia scritti male”, Amato dice il falso e i giornalisti si inchinano. Franco Corleone su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

Dopo Papa Bergoglio da Fazio, non poteva mancare Giuliano Amato da Floris. Non c’è più religione, si potrebbe dire. Occupiamoci della religione laica e il Presidente della Corte Costituzionale si è richiamato al Vangelo della democrazia come centro della convivenza. Non è la sede per commentare le suggestioni espresse sulla pace e sulla guerra, sul ruolo e sulla crisi delle democrazie occidentali, sulla pandemia, sulla scienza e sulla violenza diffusa. Mi limito a commentare le questioni relative ai referendum e alle decisioni sulla ammissibilità.

Rispetto alle polemiche suscitate dalla conferenza stampa subito dopo la lunga Camera di consiglio concentrata soprattutto sulla bocciatura dei due referendum su cui sono state raccolte tante firme che testimoniavano l’interesse e l’urgenza dei temi legati alla vita delle persone, Amato ha argomentato che è tempo che l’Italia si abitui alla novità che è utile che le sentenze della Consulta vengano spiegate per essere poi oggetto di condivisione o di critica. Floris ha però sottolineato che i cittadini si sentono frustrati per essere espropriati dell’esercizio della sovranità popolare e della decisione su temi che il Parlamento trascura da troppo tempo. Amato ha aggiunto che i limiti ai quesiti sono definiti dall’art. 75 della Costituzione e che occorrerà leggere le sentenze, evitando polemiche preventive che non servono. Sarà davvero ineludibile una discussione sulle novità che la Corte negli ultimi anni si è data.

Per quanto riguarda l’ammissibilità dei referendum è invece da molto tempo che sono state abbattute le norme precise fissate dalla Carta relative alle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Infatti è invalso il giudizio sulla omogeneità e chiarezza dei quesiti, con un atteggiamento paternalistico verso i cittadini incapaci di capire la domanda, e cosa ancora più grave una valutazione della legge risultante dal referendum con un arbitrario giudizio preventivo di legittimità costituzionale. Risibile poi il riferimento al rispetto di Convenzioni e trattati internazionali che non sono coperti dall’art. 75 che si riferisce a una legge, quella di autorizzazione alla ratifica, che ha cessato i suoi effetti. Torniamo alla conferenza stampa, che non rappresentava l’illustrazione di una sentenza e delle motivazioni, ma una anticipazione che spiegava la decisione.

Una prevalenza delle ragioni politiche rispetto a quelle giuridiche. Il titolo del referendum sulle sostanze stupefacenti come deciso dalla Cassazione e condiviso dal Comitato promotore non dava adito a ambiguità, prevedendo tre interventi puntuali, infatti eliminava dall’elenco incredibile di diciassette condotte incriminatrici la coltivazione, cancellava la pena della detenzione, conservando la sanzione penale della multa, per le violazioni relative alle cosiddette droghe leggere, cannabis in particolare e l’eliminazione dalle sanzioni amministrative del ritiro della patente per i soggetti individuati e colpiti per il semplice consumo. Va sottolineato che dal 1990 oltre 1.300.000 giovani sono stati segnalati ai prefetti (quella figura che Garibaldi, Einaudi e Ernesto Rossi volevano abolire) per essere stigmatizzati e sottoposti a varie sanzioni amministrative (la più odiosa quella che abrogavamo) e di questi un milione per aver fumato uno spinello.

Il Dpr 309/90, la legge voluta da Bettino Craxi al termine di una campagna dai toni moralistici in nome della guerra alla droga e che cancellò i valori laici e libertari della tradizione socialista di Loris Fortuna, ha provocato in più di trent’anni gravi guasti nei tribunali intasandoli di cause e reati senza vittime e ha determinato il sovraffollamento nelle carceri che per il 30% ospitano detenuti per violazione della legge antidroga, quasi sempre per detenzione e piccolo spaccio. Non mi risulta che Amato si oppose a questa torsione proibizionista e invece è agli atti la sua polemica contro Umberto Veronesi, ministro della Sanità che alla Conferenza sulle droghe a Genova nel 2000 si espresse a favore della legalizzazione della canapa e delle droghe leggere. Quella legge è ignobile e nel 1993 un referendum riuscì a cancellare le norme più ideologiche e repressive, ma il Parlamento si guardò bene da operare una riforma complessiva. Addirittura nel 2006 fu approvato un decreto arbitrario, noto come Fini-Giovanardi, che aggravava la scelta repressiva e che fu cancellato solo nel 2014 dalla Corte Costituzionale.

Bene, la legge è anche scritta male. Le diciassette condotte elencate nel primo comma dell’art. 73 riguardano tutte le tabelle delle sostanze stupefacenti (la Fini-Giovanardi sulla base dell’assioma che “la droga è droga” aveva accorpato tutte le sostanze in una unica tabella con la detenzione da otto a venti anni) e non, come ha sostenuto il prof. Amato solo le tabelle I e III. Solo che la pena per le droghe pesanti è scritta nel primo comma, mentre la pena per le tabelle II e IV, da due a sei anni di carcere, è prevista nel comma 4, richiamando le condotto dei commi 1,2 e 3. Un errore incredibile e imperdonabile. Eppure nella memoria che illustrava il quesito, tutto era spiegato con limpidità e senza sotterfugi.

Sconcerta che molti giornalisti, soggiogati dalla autorevolezza del Presidente Amato, si siano inchinati e abbiano accreditato il falso, cioè che fosse stato il Comitato promotore a compiere un errore. Io mi occupo di politica delle droghe e di leggi relative dal 1975 e sono pronto a un confronto aperto con Giuliano Amato che era Presidente del Consiglio quando io ero sottosegretario alla Giustizia, nel nome di Giancarlo Arnao, protagonista radicale della battaglia antiproibizionista. Credo che nella sentenza non sarà scritto il punto che è però stato alla base della inammissibilità proclamata con sicumera nella conferenza stampa. Valuteremo che fare e come ristabilire verità e diritto. Non ci arrendiamo alle ragioni della forza e del potere. Sarebbe ora che il Parlamento rispondesse alle tante supplenze, con una iniziativa adeguata ai tempi. Molti paesi, dall’Uruguay al Canada, ai tanti Stati degli Usa hanno legalizzato la canapa e in Italia continuiamo a combattere una guerra perduta, fortunatamente. Franco Corleone

Cannabis, sconcerto tra i promotori del referendum, Cappato: "Amato dice il falso".  Francesco Giovannetti su L'Espresso il 17 Febbraio 2022.  

È grande lo sconforto tra i membri del comitato promotore del referendum sulla depenalizzazione della coltivazione domestica della cannabis, dopo che la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito referendario a causa di alcuni presunti errori materiali nella formulazione dello stesso. "Il clamoroso errore è di Giuliano Amato. Non ha letto correttamente il combinato disposto dei commi della legge. Quella che ha dato è una notizia falsa", ha attaccato Marco Cappato. "Noi rivendichiamo il percorso fatto, non potevamo fare altro che così - ha aggiunto Antonella Soldo di Meglio Legale -. Le modalità scelte da Amato ci hanno sorpresi e feriti. Ha usato parole dure e fuorvianti. Non è vero quello che ha affermato".

Estratto dell'articolo di Viola Giannoli per repubblica.it il 17 febbraio 2022.

"Nessun errore, il quesito era corretto e non lasciava spazio alla coltivazione a fini di spaccio di droghe pesanti". Leonardo Fiorentini è il segretario del Forum Droghe, membro del Comitato promotore del referendum: con un pool di attivisti e avvocati ha scritto il quesito inammissibile per la Consulta.

Amato ha detto che il referendum non era sulla cannabis, ma sulle sostanze stupefacenti. Avete sbagliato a scriverlo?

"No, non abbiamo sbagliato. È la legge sulle droghe a essere scritta malissimo e abbiamo dovuto anche fare i conti con precedenti decisioni della Corte costituzionale che aveva già bocciato quesiti per la legalizzazione della cannabis, il nostro obiettivo finale".

[…] 

Ma se fosse passato avremmo potuto coltivare coca oppure oppio sul balcone?

"Le piante di coca, per questioni climatiche, non crescono in Italia e non risultano sequestri. Cosa che invece accade per il papavero. Entrambe però, come è ben noto e al contrario della marijuana che è pronta per il consumo, necessitano di complicati processi di raffinazione per diventare eroina e cocaina".

Simona Buscaglia per "la Stampa" il 17 febbraio 2022.

«Sono contento che non sia passato il referendum perché sono convinto che avrebbe prodotto delle conseguenze ancora più dannose di quelle che già viviamo». A parlare, subito dopo la dichiarazione di inammissibilità della Consulta al referendum per la cannabis, è Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo, storico fondatore della comunità di San Patrignano, oggi mediatore culturale e consulente per associazioni che si occupano del tema delle dipendenze da stupefacenti. 

Il comitato promotore sostiene che, con la bocciatura del referendum, a vincere è il monopolio della cannabis nelle mani delle mafie, che ne pensa?

«Dove è stata sperimentata la legalizzazione delle droghe non si sono frenati i consumi e non è stato fermato il mercato nero. Negli Stati Uniti dal 2012/2014 una famiglia intera di oppiodi sintetici, come l'ossicodone, è stata prodotta in maniera autorizzata da alcune delle più grosse industrie farmaceutiche del mondo.

La massiccia tendenza alla somministrazione di questi farmaci oppioidi come antidolorifici ha causato 200 mila morti di overdose per queste droghe legali. Tutto questo non ha per nulla interrotto il narcotraffico, anzi lo ha alimentato. La produzione illegale di queste sostanze, prodotte ad esempio in Cina e in Messico, ha completamente invaso il mercato nero. Succederebbe la stessa cosa con qualsiasi altra droga, compresa la marijuana». 

Secondo lei quindi il tema non è affrontato nel modo corretto?

«Assolutamente. Il tema della legalizzazione delle droghe viene costantemente strumentalizzato da una parte e dall'altra della politica, che pensa di farne un veicolo di promozione e raccolta di voti. Fra quelle 600mila firme sicuramente ci sono delle persone in buona fede, questo però non vuol dire che siano ben informate. Nell'opinione pubblica c'è una scarsa consapevolezza sul fatto che la marijuana continua a essere una specie di cancello di ingresso nel mondo delle droghe»

I promotori partivano anche dal presupposto che l'abuso di cannabis non producesse effetti più nocivi dell'abuso di sostanze legali come l'alcol

«Altro argomento modesto dal punto di vista scientifico. Io posso decidere di bere una birra non alterando le mie capacità psichiche. Non cerco per forza un effetto psicotropo, mentre fumarsi una canna quelle capacità le altera a prescindere. 

Questa è la sostanziale differenza. Detto questo, c'è una tolleranza nel marketing dell'alcol che invita i giovani al consumo che andrebbe limitato assolutamente. Servono delle politiche educative serie che stimolino i giovani a crearsi degli strumenti di divertimento senza doversi sballare».

Stessa posizione anche per la cannabis terapeutica?

«Se si vuole davvero intervenire in merito serve una legge che preveda l'utilizzo della marijuana terapeutica con un Thc molto basso. In questo modo le proprietà benefiche vengono mantenute senza provocare lo "sballo". Il contesto però non è mai stato questo, è sempre stato un grimaldello per sfondare la porta della proibizione. 

La produzione degli ultimi 20 anni della marijuana non è andata verso un abbassamento del principio attivo, si è spinta ben oltre, creando, anche attraverso le biotecnologie, delle piante di marijuana che contenessero al loro interno un Thc molto alto, con degli effetti paragonabili alla droga pesante. Studi hanno dimostrato come l'uso abituale di questa marijuana rinforzata possa produrre nel tempo anche problemi psichiatrici seri». 

Matteo Sacchi per "il Giornale" il 7 gennaio 2022. La guerra è di per se stessa una droga. Basta aver letto una volta i versi di Bertran de Born per rendersene conto: «Baroni, date a pegno castelli, borgate e città, piuttosto che cessar di guerreggiare l'un l'altro». Dà assuefazione nel suo orrore, è difficile disintossicarsi. Eppure non esiste guerra senza aggiunta di droghe. Da quando combattono gli esseri umani ricorrono a sostanze dopanti. Per essere più feroci in battaglia, per sopportare meglio la fatica e il dolore. E per scordarsi dopo, come l'equipaggio di Ulisse nel Paese dei lotofagi, gli orrori a cui hanno preso parte.

Nel corso dei secoli i soldati hanno annegato la loro paura nel vino e nella birra, cercato l'oblio nell'oppio o ucciso per procurarselo, vegliato di guardia grazie al caffè, ucciso per difendere le piantagioni di coca o distruggerle, fumato tabacco per calmare i nervi o abbordato navi in nome del tè o ubriachi di rum. Eppure il rapporto tra droga e conflitti è stato poco esplorato e mai in maniera complessiva. Ci ha provato il politologo e storico Peter Andreas della Brown University con il suo Killer High. Storia della guerra in sei droghe (Meltemi, pagg. 364, euro 20). 

Il saggio è un viaggio, lisergico, nella complessa storia della violenza organizzata. Violenza che per essere organizzata deve muoversi su uno scivoloso crinale: bisogna ottundere la mente del soldato per non fargli avere paura ma non bisogna mai ottunderla troppo. Ecco perché l'alcol, forse la prima droga comparsa in forma massiva sui campi di battaglia, ha creato imperi e li ha abbattuti. I legionari romani combattevano solo se la loro razione di vino arrivava regolare.

La marina inglese (dal 1740 in poi) ha prosperato sul grog, un miscuglio di rum, limone e acqua capace di calmare i nervi e proteggere dallo scorbuto. Ma l'esercito russo spesso è annegato in un mare di vodka che ne ha inibito la capacità combattiva, come nella Guerra russo giapponese del 1904. Gli Zar erano finiti in un circolo vizioso: gran parte delle entrate che potevano utilizzare per la guerra provenivano dalla tassazione sugli alcolici ma gli alcolici erano anche il passatempo che rendeva le truppe a bassissima efficienza.

È finita decisamente meglio con l'uso massiccio della caffeina e del tabacco, anche se, all'inizio, persino un generale esperto come Federico il grande di Prussia non vedeva di buon occhio il fatto che i suoi soldati andassero a caffè: «Sua maestà è stato allevato a birra... Molte battaglie sono state combattute e vinte da soldati nutriti di birra, e il re non ritiene di poter confidare nel fatto che soldati che bevono caffè siano in grado di sopportare le difficoltà delle guerra o di sconfiggere i suoi nemici...». Così scriveva il 13 gennaio del 1777 molto preoccupato. Aveva torto e per rendersene conto basta arrivare sino alla guerra di Secessione americana (1861-1865). Uno dei maggiori vantaggi delle truppe unioniste era di poter di sporre anche di litri e litri di caffè per mantenersi vigili e baldanzosi.

Il futuro presidente degli Usa, William McKinley, divenne praticamente un eroe perché sfidò il fuoco nemico per portare mastelli di caffè fumante a dei soldati in difficoltà. L'ufficiale in comando descrisse così l'effetto magico della bevanda: «fu come schierare in battaglia un nuovo reggimento». Nella Prima guerra mondiale il caffè era diventato solubile, l'Inghilterra aveva un tea bureau perché era ritenuto impensabile mandare a combattere i soldati senza. Nella Seconda la caffeina arrivò anche sotto forma di Coca-cola che ci si preoccupò di non far mancare nemmeno durante lo sbarco in Normandia. Ma la caffeina i conflitti può anche provocarli.

Dalla fine del Settecento la Gran Bretagna ormai marciava a tè, che aveva anche effetti salutari sui sudditi, in quanto rendeva l'acqua molto meno patogena. Il principale fornitore delle preziose foglie era la Cina, che gli inglesi dovevano pagare in argento. Un esborso insostenibile sino a che la Compagnia delle indie non iniziò a esportare in Cina oppio indiano. Ci volle poco perché la Cina si riempisse di tossicomani e l'Inghilterra potesse bere il suo tè ad un costo più che accettabile, anzi, guadagnandoci. Quando l'impero cinese provò a reagire, a quello che è stato il più violento e sleale narcotraffico di Stato della Storia, ne nacquero due guerre (la prima dal 1839 al 1842, la seconda dal 1856 al 1860) che gli occidentali vinsero grazie al loro grande vantaggio tecnologico e anche grazie allo stato pietoso in cui l'oppio aveva ridotto buona parte degli alti gradi, militari e civili, cinesi.

Quindi un esempio di guerra per fermare una droga (letale) venduta per comprare un'altra droga (al momento quasi solo benefica). Più complessa ancora la vicenda della nicotina che Peter Andreas racconta nel dettaglio. Gli effetti della dipendenza del fumo li vediamo tutti. Eppure la nicotina alleviava la fame, lo stress da combattimento e manteneva lucidi a differenza dell'alcol. Decine e decine di generali si sono preoccupati di diffondere il fumo tra i propri soldati. I danni si sarebbero visti solo a decenni di distanza mentre al fronte, parola del maggior generale Grayson M. P. Murphy: «una sigaretta può fare la differenza fra un eroe e un lavativo».

Aveva ragione? Hitler, che era un salutista, cercò di vietare le sigarette ai soldati tedeschi. Si ritrovò con le SS che avevano addirittura una marca di sigarette tutta loro, le "Sturmzigaretten". Dopodiché la Germania nazista fu il primo Paese a inondare le proprie truppe di anfetamine. Il famoso Pervitin che i soldati consumavano continuamente, anche direttamente mischiato alla cioccolata. Molti reduci della Seconda guerra mondiale ne rimasero dipendenti a vita. E queste sono solo alcune delle storie incredibili che racconta Peter Andreas. Ne nasce un affresco molto particolare dei conflitti e della dipendenza che l'uomo ha verso la guerra. Una dipendenza, diretta o indiretta, che ci ha portato spessissimo in overdose.