Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA MAFIOSITA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia della mafia.
L'alfabeto delle mafie.
La Gogna.
Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
In cerca di “Iddu”.
SECONDA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
E’ Stato la Mafia.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa Nostra - Altare Maggiore.
La Stidda.
La ‘Ndrangheta.
La Mafia Lucana.
La Sacra Corona Unita.
La Mafia Foggiana.
Il Polpo: Salvatore Annacondia.
La Mafia Lucana.
La Camorra.
La Mafia Romana.
La Mafia abruzzese.
La Mafia Emiliano-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Milanese.
La Mafia Albanese.
La Mafia Russa-Ucraina.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Cinese.
QUINTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Antimafiosi.
Non era Mafia.
Il Caso Cavallari.
Il Caso Contrada.
Il Caso Lombardo.
Il Caso Cuffaro.
Il Caso Matacena.
Il Caso Roberto Rosso.
I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.
Il Business dello scioglimento dei Comuni.
Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
I tifosi.
Femmine ribelli.
Il Tesoro di Riina.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caporalato.
Il Caporalato Agricolo.
Gli schiavi dei Parlamentari.
Gli schiavi del tessile.
Dagli ai Magistrati Onorari!
Il Caporalato dei giornalisti.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Usuropoli.
Aste Truccate.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Nimby lobbisti.
La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby dei Giornalisti.
La Lobby dell’Editoria.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
Fuga dall’avvocatura.
La Lobby dei Tassisti.
La Lobby dei Farmacisti.
La lobby dei cacciatori.
La Lobby dei balneari.
Le furbate delle Assicurazioni.
SETTIMA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Onoranze funebri: Il "racket delle salme.
Spettacolo mafioso.
La Mafia Green.
Le Curve degli Stadi.
L’Occupazione delle case.
Il Contrabbando.
La Cupola.
LA MAFIOSITA’
TERZA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Scarpinato evoca i teoremi giudiziari contro la destra. Meloni: lei giudice intriso di ideologia. Redazione su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022.
Intervento durissimo del senatore M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, in Aula al Senato. Scarpinato punta l’indice contro la destra eversiva, evoca le stragi “neofasciste” e i depistaggi. Giudica insufficienti le parole di Giorgia Meloni sul fascismo. I conti col passato si chiuderanno “solo quando ci sarà verità sulle stragi del neofascismo e verranno esclusi dal vostro Pantheon taluni personaggi”.
Scarpinato preoccupato anche dal presidenzialismo
“Resta viva – va avanti Scarpinato – la preoccupazione sul vostro voler mettere mano alla Costituzione” con la riforma del “presidenzialismo che potrebbe rivelarsi una ritorsione autoritaria” che porterà “all’uomo solo al comando”.
Applausi ripetuti dai banchi del centrodestra durante la replica del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Prima, quando in modo pacato replica a Ilaria Cucchi, che aveva criticato gli interventi di ieri della Polizia a ‘La Sapienza’.
La replica di Meloni a Ilaria Cucchi
“Ho fatto tante manifestazioni, ma non ho mai impedito ad altri di manifestare”, afferma la premier. Poi quando in modo molto fermo ribatte alle affermazioni dell’ex magistrato Roberto Scarpinato, le cui parole dimostrano – ha detto – un modo di procedere per teoremi e ideologizzato da parte della magistratura.
Meloni a Scarpinato: da lei atteggiamento smaccatamente ideologico
Da lei – ha affermato Meloni rivolgendosi a Scarpinato – arriva un atteggiamento “così smaccatamente ideologico da chi doveva giudicare, che mi stupisce fino a un certo punto, il transfert tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è significativo, a cominciare dal depistaggio per la strage di via D’Amelio”.
Scarpinato sostenne l’accusa contro Andreotti. Bongiorno: mi ricordo bene…
Dopo Scarpinato aveva preso la parola Giulia Bongiorno, che aveva così esordito: “Mai avrei immaginato 20 anni dopo di prendere la parola dopo il dottor Scarpinato “, alludendo ai processi che li videro avversari in Aula. “Conosco bene l’efficacia delle sue requisitorie”, ha detto Bongiorno rivolgendosi all’ex pm. Il riferimento è a quando, anno 1999, in tribunale Scarpinato sostenne le tesi dell’accusa nel processo in cui Andreotti era accusato di associazione mafiosa.
Gasparri: da lui parole sconcertanti
Anche Maurizio Gasparri ha commentato l’intervento di Scarpinato: “Sconcertano le parole di Scarpinato al suo esordio in Senato”, risponde a stretto giro il senatore di Forza Italia. “Ed è motivo di riflessione il fatto che abbia ricoperto a lungo incarichi di vertice nella magistratura. Penso che sarà opportuno nel corso della legislatura ricordare in Aula circostanze riguardanti anche Scarpinato. L’Italia dovrà riflettere su vicende che alcuni ignorano, taluni accantonano, ma alcuni di noi conoscono e avranno modo di illustrare all’Aula e agli italiani”.
Il voto al Senato. Meloni e lo scontro con Scarpinato: “Con i suoi teoremi ha costruito processi fallimentari”. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Ottobre 2022
E il secondo giorno, quello della fiducia piena al suo governo, Giorgia Meloni ha messo da parte la “visione politica” seppure identitaria ma anche un po’ equilibrista ed è entrata nel merito. I vaccini “non sono un atto di fede ma devono avere una base scientifica”. Via libera al contante “perché la moneta elettronica penalizza i più poveri”. La polizia ha usato i manganelli sui manifestanti? “È stato necessario se quei manifestanti volevano impedire ad altri di manifestare ed esprimersi”.
Il carcere misura la civiltà di un paese e l’alto numeri dei suicidi ne misura quindi l’inciviltà. “Tutto vero, ma la soluzione non è la depenalizzazione bensì costruire e avere più carcere perché non si può pensare di garantire il bene se chi agisce nel male non paga mai”. E la pace, “non si fa in piazza con le bandiere tricolore, non si ottiene con la resa democratica ma sostenendo la democrazia”. Accusata, il giorno prima, quello dell’esordio alla Camera dei deputati, di non aver pronunciato alcune parole chiave di questo tempo – ad esempio vaccini e pace – di essere stata troppo “generalista” e anche un po’ “ambigua”, di aver certamente fatto un discorso politico, utile ad esaltare la sua leadership (innegabile) nel centrodestra ma di non essere entrata nel merito, ieri la presidente del Consiglio ha risposto nel merito per tre quarti d’ora seguendo decine di fogli di appunti presi in oltre cinque ore di dibattito generale. Risposte chiare, che non volevano piacere a tutti e che volevano essere molto chiare. Forse anche più di quello che poi sarà nei fatti.
La fiducia sarà piena e totale anche nella camera alta del Parlamento italiano. Le tensioni con gli alleati, arrivate a vere e proprie spaccature tematiche sulla politica estera e a rivendicazioni sulla stessa leadership dell’alleanza, sono magicamente scomparse. Tutto svanito. Tutto a posto. “Molte bene” ha detto Meloni dopo l’intervento di Silvio Berlusconi, un discorso intenso, da padre nobile del centrodestra che chiede gli venga riconosciuto che “tutto questo oggi è possibile grazie ad una sua intuizione di quasi trent’anni fa” e che rivendica “l’impronta liberale, europeista ed atlantista della coalizione”. C’era grande attesa e qualche timore che al Cavaliere potesse nuovamente scappare il freno. Che si potesse ripetere la scena thriller del giorno dell’elezione del Presidente del Senato quando Forza Italia decise di non votare la fiducia. Alla fine tutti in piedi e standing ovation.
L’intervento della senatrice Licia Ronzulli, un paio d’ore prima, aveva già allontanato dubbi e timori. La capogruppo è stata al centro di un braccio di ferro infinito nella fase di formazione del governo: Berlusconi la voleva ministro, Meloni no. Ha vinto la premier ma quel no è una ferita difficile da chiudere. “Ci hanno dipinto divise, ma oggi qui, da donne e da mamme possiamo dirlo, non è vero” ha detto Ronzulli. La premier l’ha degnata di una veloce occhiata e poi ho rimesso gli occhi sui fogli che andava scrivendo. Anche Salvini non ha creato ulteriori tensioni. Il vicepremier vuole fare, ha bisogno di risalire nei sondaggi, ha poco tempo. Meloni gli sta dando agio e gioco: il ministro dell’Interno Piantedosi ha già firmato una circolare per non fare entrare nei porti italiani le navi delle Ong; ci sarà una qualche forma di flat tax; si metterà mano “in modo sostenibile” alle pensioni. Ieri anche il via libera al contante su cui giusto in mattinata il vicepremier ha presentato un disegno di legge. Meloni-Salvini: si registra una straordinaria intesa sui temi (per ora). O sono d’accordo, oppure uno dei due insegue l’altro che per non farsi superare. Vedremo. Lo capiremo nelle prossime settimane.
Scoppiata la pace nella maggioranza, ieri si sono fatte vedere un po’ meglio le opposizioni. Simona Malpezzi (Pd) è rimasta sui temi, accusandola di essere stata “vaga e contraddittoria nelle linee programmatiche”. Matteo Renzi ha fatto un intervento politico, uno dei suoi quando in aula non vola una mosca. “Le faremo opposizione, a viso aperto, con la politica, non con il vocabolario. Perché mentre quelli che le siedono accanto (Lega, ndr) facevano Quota 100, noi facevano Industria 4.0, investivamo in cultura con cui è dimostrato che si mangia e firmavano le unioni civili che ancora mi tremano le mani per l’emozione. Quindi noi non vi regaliamo la parola identità. Le auguro – ha aggiunto – di vincere la sfida del governo sapendo che noi saremo da un’altra parte e anche che mai attaccheremo le famiglie degli avversari”. Da Renzi è arrivato un consiglio non richiesto ma sincero: “Si ricordi di essere felice, noi saremo leali cercando di dare una mano alla nostra democrazia, come devono fare le persone che riconoscono quelli che escono vincenti dalle elezioni”.
Durissimo lo scontro della premier Meloni con l’ex pm antimafia Roberto Scarpinato. Il senatore dei 5 Stelle in una sorta di requisitoria in difesa della storia e della memoria, ha incentrato il suo intervento sul “fascismo che è sopravvissuto come ideologia nel neofascismo”. Passando da Ordine nuovo e altre formazioni neofasciste, Scarpinato ha messo in fila, logica e storica, “il neofascismo, lo stragismo della destra per arrivare al presidenzialismo”, cioè al progetto di riforma costituzionale che è uno dei punti chiave del programma Meloni. È stato uno degli interventi seguiti con più attenzione, stupore e stizza dalla premier. Che nella replica ha liquidato così: “Senatore Scarpinato, per il tramite del presidente La Russa, vorrei dire che dovrebbe colpirmi che una persona che ha avuto la responsabilità di giudicare gli imputati nelle aule di tribunale emerga oggi un approccio così smaccatamente ideologico. Purtroppo, mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert, che lei ha fatto, tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico dei teoremi con cui parte della magistratura ha costruito processi fallimentari, a cominciare dal depistaggio nel primo giudizio per la strage di via D’Amelio. E questo è tutto quello che ho da dirle”.
Applausi e standing ovation. Non solo dai banchi del centrodestra. Un piccolo cameo che si ripeterà altre volte in questa aula. Subito dopo Scarpinato ha preso la parola la senatrice Giulia Bongiorno (Lega): “Mai avrei immaginato di prendere nuovamente la parola, vent’anni dopo, dal procuratore Scarpinato…”. Che fu la pubblica accusa nei processi a Giulio Andreotti di cui Bongiorno era la giovane e poi vincitrice avvocata. Ma torniamo ai punti del programma che ieri Meloni ha voluto specificare. “Non l’ho fatto ieri perché credo che prima di tutto si debba avere una visione di paese, che è quella che ho cercato di darvi ieri e che manca da anni all’Italia. Una volta capito dove vogliamo andare, poi entriamo nello specifico”.
Ragionamento di per sé impeccabile. Così come sulla visione di paese si può in generale essere d’accordo. Sono i contenuti che ha voluto specificare che invece apriranno il dibattito. Sui vaccini, ad esempio. Meloni ha voluto rispondere all’ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin che le ha chiesto una parola di chiarezza sulla “fiducia nella scienza”. La risposta è stata secca: “Non c’era evidenza scientifica nel somministrare i vaccini ai bambini sotto i 12 anni. Mentre c’era assoluta evidenza scientifica del danno che gli abbiamo fatto chiudendoli in casa invece che portarli a fare sport. Altra cosa che la scienza ci dice che avremmo dovuto fare”. Lorenzin poi ha giudicato “gravissime” le parole di Meloni. “La comunità scientifica riteneva indispensabile vaccinare i bambini per non farli ammalare e per proteggere gli adulti fragili. Portarli a fare sport, poi, avrebbe significato creare ulteriori focolai”.
Tranchant su manganelli, carceri e pace, Meloni ha voluto precisare anche cosa intende quando dice di voler procedere con gli aggiustamenti al Pnrr. “Dobbiamo attivare l’articolo 21 del Next Generation Eu come previsto quando ci sono modifiche di contesto. Come vogliamo chiamare il fatto che i materiali, causa inflazione, sono aumentati del 35%?. E che dire del fatto che nel 2022 dovevano spendere 42 miliardi e invece ne abbiamo spesi 31? E’ chiaro che dobbiamo apportare delle modifiche”. Peccato che attivare l’articolo 21 voglia dire ammettere di non rispettare il cronoprogramma, bloccare tutto e ottenere nuovamente il via libera di 26 paesi. Sarebbe un pessimo incipit per il governo Meloni.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Mattia Feltri per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.
Molto bello ieri il dibattito al Senato. Per esempio ho molto apprezzato il senatore Luigi Spagnolli del Pd, indisposto a concedere fiducia a Giorgia Meloni, colpevole di aver pensato a un ministero del Mare e non a uno della Montagna.
Per la natura di questa rubrica, non posso dilungarmi e mi concentro sull'accattivante intervento del senatore Roberto Scarpinato, riveritissimo e ormai pressoché mitologico magistrato antimafia ora eletto al Parlamento col Movimento Cinque Stelle.
Mi scuso in anticipo perché non sono sicurissimo di averlo capito a fondo, ma ha parlato di strategia della tensione, di neofascismo eversivo alleato della mafia, di autori di stragi condannati con sentenza definitiva, di Franco Freda, di Carlo Maria Maggi, di Giovanni Ventura, di Ordine nuovo, di formazioni politiche variamente denominate e dedite al sovvertimento della Costituzione del 1948, del generale Gianadelio Maletti, già condannato a diciotto mesi con sentenza passata in giudicato per favoreggiamento degli autori della strage di piazza Fontana, di depistaggi di indagini posti in essere, di fattispecie di reato, di mandanti ed esecutori, in particolare di mandanti eccellenti, di colletti bianchi, la mafia dei colletti bianchi, ovvero la corruzione, e il leader di uno dei partiti della maggioranza ha intrattenuto pluriennali rapporti con la cupola mafiosa, per cui Dell'Utri, condannato in via definitiva, tale reato, a seguito della sentenza, e insomma lo so, ho perso presto il filo del discorso, ma sono quasi certo che alla fine Scarpinato abbia chiesto quindici anni di reclusione per Giorgia Meloni.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 27 Ottobre 2022.
La grana del cervello di Roberto Scarpinato era piuttosto nota, ergo a essere responsabile di tutto il tempo che fa perdere è solo chi ha permesso che sedesse in un tempio sacrale come il Senato dopo che lui, per una vita, aveva giudicato sacrale ogni suo atto da magistrato.
Noi navigati della giudiziaria ci siamo pure abituati alle fumisterie dietrologiche di questo neoprodotto senile del grillismo: ma Giorgia Meloni magari no, quindi potrebbe anche essersi invero stupita, ieri, quando si è sentita additare come una che ha «eletto a figure di riferimento alcuni personaggi che sono stati protagonisti del neofascismo e tra i più strenui nemici della nostra Costituzione», con menzione per Pino Rauti che fondò Ordine Nuovo (1965) e relative azioni incubatrici di «idee messe in opera nella strategia della tensione», già sanzionate con «sentenze definitive» su stragi hanno «insanguinato il nostro Paese» eccetera.
Insomma, una requisitoria come tante delle sue, con citazioni dei soliti Franco Freda, Giovanni Ventura, Carlo Digilio, Carlo Maria Maggi e altra gente morta. Tralasciamo la citazione del defunto generale Gianadelio Maletti (a cui in Senato, in aprile, dedicò un convegno: scandalo) perché mettersi a seguire Scarpinato nei suoi percorsi porta alla labirintite.
Registriamo per mera cronaca che il presidente del Consiglio ha reagito così: «Un approccio così smaccatamente ideologico mi stupisce fino a un certo punto, perché l'effetto transfert che Lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d'Amelio. È tutto quello che ho da dire».
Ed è pure troppo, per Roberto Maria Ferdinando Scarpinato da Caltanissetta: un archetipo della toga della Trinacria più pura e dietrologica, malfidente, dietrologica, storicizzante e adesso-ti-spiego, un personaggio inquietante non solo per le sue barbe e le sembianze mefistofeliche.
Tutti a ricordarlo come ex fallimentare accusatore del fallimentare processo Andreotti (processualmente parlando) ma nessuno che sappia o ricordi che ora siede in Senato, appunto tempio della democrazia: e però da antimafioso professionista, nel 2003, fu autore di teorizzazioni arditissime e spiegò che alla democrazia, tutto sommato, si potrebbe anche rinunciare: «Bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale...
Nella nuova Costituzione europea bisogna pure porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri i cui vertici dovessero risultare in collegamento con la criminalità organizzata». Lo scrisse su Micromega.
Poi si meritò un procedimento disciplinare del Csm (sappiamo come finiscono) per una frase pronunciata proprio durante una commemorazione per la strage di via D'Amelio nel 2010: «Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra la negazione dei valori di giustizia e legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere».
Una frase come tante sue, ripetiamo, pronunciata da un personaggio che andrebbe raccontato: se ce ne fregasse sinceramente qualcosa. Ma, parlando in fin dei conti di una fiducia al Senato, non è chiaro quanto importi, ora, ricostruire le elaborazioni tra le più incredibili da lui sviluppate. Indimenticabile l'inchiesta «Sistemi criminali» in cui giunse a ipotizzare che tra il '91 ed il '93 Cosa Nostra avrebbe progettato di dividere il Meridione dal resto d'Italia grazie all'appoggio della massoneria deviata e dell'estrema destra, questo dopo essersi accordata in qualche modo con le leghe del Nord e prima di trovare un nuovo referente, alla fine del 1993, in Forza Italia. L'inchiesta - che strano - è stata archiviata. E ci sarebbe un sacco di altra roba da dire su Scarpinato. Ma è finita la voglia. È finito lo spazio. È finito il tempo: il suo.
Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2022.
Dopo il durissimo intervento di Roberto Scarpinato, ex toga antimafia ed ora esponente di punta del M5s, in cui dubitava che il governo Meloni fosse sorretto dalla «convinta e totale condivisione dei valori della Costituzione», vale la pena ricordare come venne nominato procuratore generale di Palermo.
La risposta è contenuta nel libro "Lobby & Logge" scritto da Alessandro Sallusti con Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati ed ex ras della spartizione delle nomine al Csm in barba ad ogni disposizione di legge.
«Nel 2012, per la Procura generale del capoluogo siciliano, oltre Scarpinato, magistrato molto quotato, era in corsa Guido Lo Forte, uno dei procuratori storici di Palermo, vicino a Gian Carlo Caselli.
Io e Pignatone (Giuseppe, ex procuratore di Roma, ndr), un sabato di metà dicembre, andiamo a casa di Riccardo Fuzio che all'epoca era membro del Csm e poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui decidiamo la strategia: io avrei dovuto convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio di un'assicurazione, garantita anche dalla corrente di sinistra, Magistratura democratica: avrebbe preso il posto di Francesco Messineo a capo della Procura della Repubblica di Palermo appena quel postosi fosse liberato».
Le correnti di sinistra volevano Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata, si legge ancora nel libro. Che prosegue: «Era necessario che la corrente moderata di Unicost, la mia, convergesse nella votazione su di lui, e che la corrente di sinistra ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione.
Da casa di Fuzio io chiamo Lo Forte e gli assicuro la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l'altro era suo amico. E, dopo averci parlato, gli passo nell'ordine prima Pignatone e poi il padrone di casa. Niente, in punta di logica e pure di diritto.
Ma il potere non ha confini, e Pignatone in quel momento era un pezzo forte del "Sistema", anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sta di fatto che Lo Forte revocherà quella domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo».
Fra. Gri. per “la Stampa” il 28 ottobre 2022.
È stato lo scambio polemico più rovente, al Senato, quello tra Giorgia Meloni e Roberto Scarpinato, ex magistrato palermitano, punta di diamante del nuovo corso grillino. Lei l'ha liquidato con toni sprezzanti, facendo riferimento ai «teoremi» che sarebbero stati alla base del suo intervento e prima della sua carriera di pubblico ministero. Lui, il giorno dopo, si sente ancora indignato. «Ho fatto riferimento ad alcuni fatti documentati in sentenze, le stragi neofasciste, le figure di Rauti e Maletti. Non è stata in grado di rispondermi».
Una cosa veniva fuori chiara, dal suo intervento: un filo nero attraversa la storia della Repubblica. «Mi sono attenuto alle sentenze passate in giudicato, niente di opinabile. Ho citato stragi accertate del neofascismo: piazza Fontana, Brescia, la bomba a mano alla questura di Milano, Peteano. Portano la firma di Ordine Nuovo. E Pino Rauti era l'ideologo di Ordine Nuovo. Perché non mi ha risposto sui fatti? Con una sola frase, poi, ha fatto un doppio errore: mi ha definito giudice quando sono sempre stato un pubblico ministero; mi ha addebitato il depistaggio su via D'Amelio, quando l'ho smascherato io. È disinformata.
Ma la cosa grave è che la maggioranza al Senato l'ha applaudita. Non leggono le sentenze, non conoscono nemmeno i fatti più elementari».
Riconoscerà che la verità giudiziaria non coincide sempre con la verità storica.
«Perché i testimoni vengono uccisi, i documenti spariscono. È già un miracolo fin dove la magistratura arriva». E ci è andato giù piatto.
«Perché vedevo una grave lacuna nel dibattito. Tutti parlano del fascismo, un fatto storico, finito nel 1945. Perché non parliamo del neofascismo che ha insanguinato l'Italia e gravemente deviato la storia repubblicana? Il neofascismo che è alle radici culturali del partito di Meloni. La strategia della tensione ha segnato la nostra storia. E non dimentico che Giovanni Falcone ha imboccato la via crucis quando cominciò a indagare sulla pista nera nel delitto Mattarella».
Perplesso sulla fermezza contro la mafia dei colletti bianchi? «Con la mafia, non si deve pensare soltanto ai brutti sporchi e cattivi, tipo Riina. L'asse portante è la borghesia mafiosa. Torno alle sentenze: parliamo dello stalliere Vittorio Mangano, dei soldi pagati da Fininvest alle cosche, di Marcello Dell'Utri che continua a dettare la linea in Sicilia? Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?».
Il presidenzialismo è così pericoloso? «Ne abbiamo viste anche troppe, di democrazie presidenziali che poi si trasformano in regimi illiberali. Per questo i padri costituenti immaginarono un sistema di robusti pesi e contrappesi. Hanno già cominciato con l'attacco alla magistratura». Intende i progetti del ministro Carlo Nordio? «Vorrebbe togliere le indagini ai magistrati per darle solo alla polizia. Fosse per lui, si tornerebbe a una giustizia di classe».
Il Pd e l’imbarazzo per gli applausi a Scarpinato, l’ex Pm della trattativa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
Il Partito Democratico è garantista nei convegni e troppo spesso giustizialista in aula. In tanti hanno rotto l’argine che Enrico Letta aveva alzato tra i dem e il Movimento, sbandando alla prima occasione. E sì che era un’occasione pubblica, di quelle solenni. L’esecutivo di Giorgia Meloni muove i primi passi all’indomani della fiducia ottenuta, dopo la Camera, anche dal Senato. Nell’aula di Palazzo Madama è andato in scena il primo intervento di Roberto Scarpinato, appesa la toga al chiodo, in veste di parlamentare.
Un gran debutto al primo giorno di scuola, tanto per puntare i piedi anche all’interno del gruppo 5S e far capire allo stesso Conte, neo deputato, chi è che comanda nel Movimento, nella camera alta. E Conte deve essersi sentito minacciato davvero se il giorno dopo dedica un tweet a sottolineare l’aderenza al pensiero dell’ex magistrato. “Proprio così”, scrive infatti su Twitter il presidente del Movimento cinque stelle, rimarcando quanto affermato del senatore Scarpinato. Cosa aveva detto? “Noi siamo le nostre scelte, presidente Meloni. E lei ha scelto da tempo da che parte stare. Non dalla parte degli ultimi, non dalla parte della Costituzione, non dalla parte dei martiri della Resistenza, di coloro che per la difesa della legalità costituzionale hanno sacrificato la propria vita”, le parole di Scarpinato.
Per poi abbandonarsi a una coda polemica, facendosi beffa delle regole sul tempo di parola assegnato, superato di oltre due minuti in barba al rispetto degli altri senatori e in spregio ai richiami del presidente La Russa: “Meloni, lei si dice contro la mafia. Bene, ma bisogna andare contro alla mafia dei colletti bianchi, contro la corruzione. E il suo governo si regge sull’accordo con una forza politica il cui leader ha intrattenuto rapporti pluriennali con la mafia ha avuto collusioni”. I senatori del M5S scattano in piedi per applaudire e trascinano nella foga diversi colleghi seduti sui banchi dem. Gli applausi a scena aperta rivelano per la prima volta, in questa diciannovesima legislatura, quanto deboli siano le resistenze dei riformisti in seno al Pd. Il garantismo di facciata nasconde una tentazione scivolosa: riappropriarsi di quel patto indecente siglato nel 1992 con certa magistratura e tornare a cavalcare la tigre contro gli avversari politici.
La saldatura tra i dem di oggi e quella deriva di allora rivive in aula, sotto gli occhi di chi può ben vedere chi si spella le mani per Scarpinato e chi no. “Io non ho certo applaudito”, rende noto il senatore Andrea Martella, segretario del Pd Veneto. “Non si possono fare le elezioni cavalcando i populismi e poi pensare di affrontare la fase di governo con le stesse idee”, dice Martella al Riformista. Vale per la maggioranza ma anche per il M5S. “Dobbiamo essere coerenti con la prevalenza di posizioni riformiste nel nostro partito”, indica sul piano della giustizia, mettendo in guardia i suoi colleghi di gruppo dalle libere uscite. “Pochi hanno applaudito Scarpinato”, ci dicono dal gruppo Pd. Si riconosce nei filmati Susanna Camusso. E Walter Verini, che però specifica: “Non ho condiviso tutto il suo intervento ma l’esigenza di tenere altissima l’attenzione e la lotta alle mafie l’ho condivisa molto. Per questo alcuni di noi (io tra questi) hanno applaudito”.
Prova a gettare acqua sul fuoco Anna Rossomando, che del Pd è Responsabile giustizia ed è vice presidente del Senato: “Francamente non mi pare rilevante chi ha applaudito o meno l’intervento del senatore Scarpinato. Piuttosto sulla Giustizia credo sia importante dare attuazione alle riforme Cartabia approvate durante la scorsa legislatura, a partire dall’organizzazione degli uffici e dalle risorse, perché il garantismo vive anche nell’attuazione delle norme. E aggiungo che la cultura delle garanzie non prevede che si possa parlare di carcere come se il problema fosse l’edilizia carceraria, come fa la destra. Su questi argomenti misureremo il grado di garantismo di tutti. E una verifica arriverà presto, sull’ergastolo ostativo, già approvato alla Camera pochi mesi fa con un accordo complessivo”. Prende le distanze da Scarpinato anche Andrea Orlando, uno dei nomi che la sinistra interna fa balenare in tema di primarie per il prossimo segretario.
“I magistrati – dice l’ex ministro del lavoro riferendosi a Scarpinato – dovrebbero smettere di fare i magistrati quando entrano in Parlamento e fare i parlamentari. Non c’è nesso tra repubblica presidenziale ed un’impostazione politica di origine neofascista. Esiste il rischio che ci possa essere una curvatura autoritaria, ma il momento di discuterne non è questo”. All’intemerata rivolta dall’ex giudice a Forza Italia risponde dal Salone della Giustizia un senatore azzurro dai toni sempre frizzanti: per Francesco Paolo Sisto, già sottosegretario di Draghi, l’intervento dell’ex magistrato Scarpinato è stato “un po’ vintage, tornare indietro alle conflittualità tra pubblici ministeri arrabbiati e politica e giudici… non c’è più tempo. L’Italia non si può più permettere guerre di religioni, abbiamo bisogno di riappacificare il cittadino con la giustizia”, che “non può di diventare un argomento divisivo”.
Il governo, in tema di Giustizia, accende i motori. Ieri mattina c’è stato il primo colloquio tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vicepresidente del Csm, David Ermini. All’incontro nella sede del Ministero, in via Arenula, hanno partecipato anche il nuovo capo di gabinetto, Alberto Rizzo, e il segretario generale del Csm, Alfredo Viola. I dossier sono tanti e urgenti.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
La porta in faccia presa al Senato. Roberto Scarpinato e i teoremi sgangherati: la mania dell’eversione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
“È tutto quello che ho da dire”. Mai era stato liquidato in questo modo, neanche il giorno in cui ha perso il processo della sua vita, la “Trattativa”, e poco dopo è andato in pensione da sconfitto, il procuratore Roberto Scarpinato. C’è voluta la fierezza di una giovane donna, da lui trattata come un’imputata, come l’erede non solo del fascismo, ma anche di tutte le stragi, comprese quelle di mafia, nella solennità dell’aula di Palazzo Madama, per mettere al suo posto il neo-senatore.
Giorgia Meloni, il (la) Presidente del Consiglio, aveva risposto con un certo garbo, sia alla Camera che al Senato, a ogni critica dei rappresentati dell’opposizione. Aveva replicato con sicurezza ma sempre mantenendo un tono rispettoso su ogni argomento, anche i più spinosi. Ma un’unica volta la sua voce si è fatta ispida e gli occhi hanno fiammeggiato. Ed è parso strano questo singolare trattamento nei confronti di una ex toga, da parte dell’esponente di un partito, Fratelli d’Italia, e di una storia, quella della destra italiana discendente dal Msi, che si è sempre posta al fianco delle forze dell’ordine e della magistratura. E questo nonostante i morti e i processi che in determinati anni hanno riguardato la destra tanto quanto la sinistra.
Ma Scarpinato l’ha fatta grossa. Ha costruito il solito teorema, forse pensando di essere ancora ai tempi dei fasti dell’antimafia. Le prove generali erano già andate in scena, ancor prima delle elezioni del 25 settembre. Ma forse Giorgia Meloni non l’aveva notato. C’era stata una domenica pomeriggio in cui l’ex procuratore era stato esibito come la ciliegina sulla torta a Cinque stelle da Giuseppe Conte in una trasmissione elettorale negli studi Rai di Lucia Annunziata. Era stato quel giorno che il vestito della militanza antifascista aveva preso il posto di quella antimafia. Se qualcuno aspettava da lui un forte programma di riforme sulla giustizia, la speranza è stata subito spenta. Il candidato del partito grillino aveva il problema di dimostrare il sangue neo-fascista ancora vivo nelle vene di Giorgia Meloni e di tutto il centro-destra, perché al Senato era stato presentato un libro storico che raccontava la vita del generale Maletti. Cioè di un uomo del Sid degli anni sessanta-settanta, morto centenario un anno fa a Johannesburg e condannato per favoreggiamento nel processo per la strage di Piazza Fontana. Preistoria.
Ma usata in campagna elettorale come antipasto della bomba che il senatore Scarpinato ha deciso di tirare (un po’ con la mano sinistra, visto lo scarso successo) al suo esordio da senatore. Perché si è così inferocita Giorgia Meloni? Perché Scarpinato ha cercato di buttare lei e tutta la coalizione che ha vinto le elezioni, fuori dall’ “Arco Costituzionale”. Era questa la denominazione con cui fino al 1994 e l’arrivo di Silvio Berlusconi, il Msi era sempre schiacciato fuori dal mondo civile. Quello in cui chi governava, la Dc e i partiti laici e riformisti, aveva sempre tenuto aperto il dialogo e spesso la complicità con il Pci, il più grande partito comunista d’Europa, ma mai con il partito che rappresentava la destra. I missini erano i paria e dovevano stare nascosti come la polvere sotto il tappeto. I comunisti erano i cugini spesso invitati a tavola con i padroni di casa. Scarpinato ha detto a Meloni che lei era seduta indegnamente sullo scranno più alto del governo perché era brutta sporca e cattiva. Come i suoi antenati, ma anche come i protagonisti della “strategia della tensione”, secondo un copione dell’antifascismo militante e complottardo degli anni settanta cui non crede più neppure qualche nostalgico stalinista del mondo che fu.
“Signora presidente del consiglio”, ha esordito l’ex procuratore, e mai il richiamo all’appartenenza al genere femminile del(la) Premier è parso stonato. Perché la bomba è stata sganciata subito. Lei ha giurato sulla Costituzione, le ha buttato lì, ma “molti indici inducono a dubitare che tale giuramento sia stato sorretto da una convinta condivisione dei valori della Costituzione”. L’ex procuratore tratta Giorgia Meloni come aveva già fatto con Mario Mori nel “processo Trattativa”: due traditori dello Stato, alleati di coloro che intendono sabotare la Costituzione. “O peggio -aggiunge oggi- di stravolgerla instaurando una repubblica presidenziale..”. Non basta prendere le distanze dal fascismo, le dice. Non basta mai, si sa. Perché i furori dell’inquisizione prescindono da qualsiasi ragionamento. Lo abbiamo già visto. Diversamente non si sarebbe andati da “Sistemi criminali”, passando per il “papello” di Totò Riina fino al “Processo Trattativa”. E i carabinieri eroici che lottarono contro Cosa Nostra trattati come criminali. E trent’anni di processi costosi quanto fallimentari, fino alla sconfitta finale con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Così oggi, passando dalle aule giudiziarie a quella del Senato della repubblica, alla storia di chi ha vinto le elezioni vengono imputati come “figure di riferimento, alcuni protagonisti del neofascismo”. Riecco ancora il generale Maletti, cui viene aggiunto Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo il cui nome ormai per i più può solo ricordare il fatto che la figlia Isabella è un’esponente di rilievo di Fratelli D’Italia. E non è una neo-fascista né una terrorista delle stragi. Salti logici cui abbiamo assistito nelle aule di giustizia siciliane. Il principio è sempre quello della favoletta del lupo e l’agnello. “Non basta la sua presa di distanza dal fascismo storico”, cara Meloni, dice Scarpinato. Perché il fascismo è proseguito per via “occulta” con le stragi, e quindi, finché non ci sarà la verità su quelle, lei non è degna di governare. Poi, sempre nella logica del “se non sei stato tu a sporcarmi l’acqua sarà stato qualche tuo parente”, si chiama in causa il progetto di Repubblica presidenziale e del pericolo autoritario insito nella proposta. Vogliamo aggiungere un altro pizzico di sale dell’antifascismo militante d’un tempo? Eccolo: la “bibbia liberista” che avrebbe sostituito i valori costituzionali, insieme ai biechi “interessi del padronato”.
Eccoti servita, cara Meloni. Da parte di un ex magistrato che, nei giorni in cui aveva appena ricevuto la candidatura già strillava compiaciuto “ditemi voi se me ne potevo restare a casa”. Ma che già nel passato, a proposito di valori democratici, andava sostenendo che “bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale”. Lo diceva senza timore che le proprie parole potessero un po’ puzzare di eversione. Che è un po’ quello di cui lui è abituato a contestare agli altri. Si è messo sullo scranno del pubblico ministero, forte di quella che un tempo fu l’intangibilità del ruolo, e ha cercato di mettere Giorgia Meloni sul banco degli imputati. Del resto si è sempre vantato, quasi un programma elettorale, di aver inquisito i potenti e i Presidenti del consiglio. Ma non ha mai spiegato ai suoi ammiratori come sono andati a finire quei processi e quelle indagini, a partire dal processo Andreotti fino alle inchieste archiviate su Berlusconi.
Con Giorgia Meloni gli è andata male. anche perché è impossibile mettere fuori dall’”arco costituzionale” un(a) presidente del consiglio. Così lei è andata a muso duro, ed è stata l’unica volta nei due giorni del dibattito sulla fiducia al governo. “Un approccio così smaccatamente ideologico –ha sillabato- mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via D’Amelio. È tutto quello che ho da dire”. Ha fatto benissimo a ricordare la vergogna della vicenda Scarantino, anche se ha riguardato più Di Matteo che Scarpinato. La prossima volta basterà aggiungere la parola “trattativa”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L'anniversario del putsch di Mussolini. Il fascismo è ancora un pericolo: quali sono i rischi per il nostro Paese. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
Cent’anni fa ci fu la marcia su Roma. Il 28 ottobre del 1922. Era sabato. La marcia fu guidata da Benito Mussolini, capo di un piccolo partito, cioè il partito fascista, che alle elezioni dell’anno precedente aveva eletto 35 deputati su 535. Il partito di Mussolini era entrato in parlamento grazie all’alleanza con i liberali di Giolitti. La marcia avvenne dopo mesi di violenze, delitti, uccisioni di militanti antifascisti, roghi nelle prefetture, nelle camere del lavoro, nelle sedi socialiste.
Il re, in quel tragico giorno di autunno, cedette al panico e invece di firmare lo stato d’assedio che gli era stato chiesto dal primo ministro chiamò Mussolini e gli consegnò l’incarico di formare il nuovo governo. Come mai Mussolini, che controllava circa il 7 per cento del Parlamento, riuscì ad avere l’incarico dal re e poi la fiducia dalla Camera? Perché molti settori liberali, e anche in parte popolari, si convinsero che la cosa migliore da fare fosse piegarsi. Serviva a spegnere l’incendio. Non sapevano chi era Mussolini? Non conoscevano il torrente di violenze e delitti che avevano preceduto la marcia su Roma? Sapevano, conoscevano.
In politica molti hanno doti e molti hanno difetti. Il difetto più comune è la vigliaccheria. Da quel giorno, e per molti anni, l’Italia non fu più uno stato di diritto. Si tornò a votare con pluralità di liste solo una volta, nel 1924, ma furono elezioni sfregiate da una campagna elettorale nella quale la violenza fascista dominò tutto, e poi il voto fu inquinato dai brogli. Il successo di Mussolini fu clamoroso, prese più del 60 per cento dei voti. Il capo dei socialisti, Giacomo Matteotti, pronunciò un furioso discorso in parlamento per denunciare violenze e imbrogli. Qualche giorno dopo una squadraccia fascista lo aspettò sul Lungotevere, vicino a piazzale Flaminio, mentre usciva di casa e si dirigeva alla Camera, lo rapì poi lo uccise e gettò il suo corpo in un bosco. Mussolini fu travolto dallo scandalo. Il regime per almeno sei mesi rischiò di cadere.
Poi, il 3 gennaio del 1925 Mussolini andò in parlamento, rivendicò il delitto, minacciò di trasformare la Camera in un bivacco dei suoi manipoli. Rischiò e vinse. L’anno dopo varò leggi speciali, mise fuorilegge i partiti, ne fece arrestare i capi. Fu imprigionato anche Antonio Gramsci, sebbene fosse deputato e protetto dall’immunità. Sturzo, il capo dei popolari, Turati, il mito socialista, i fratelli Rosselli, Togliatti e moltissimi altri si rifugiarono all’estero. In Francia e in Russia. La democrazia tornò in Italia solo vent’anni più tardi, dopo una guerra terribile e dopo l’olocausto degli ebrei al quale il governo italiano partecipò. Tornò grazie alla guerra partigiana e alle armate americane e britanniche (ma anche di altri paesi, per esempio del Marocco francese, i cui soldati furono decisivi ed eroici nello sfondare le linee tedesche e prendere Cassino).
Cent’anni. Sono passati cent’anni dalla marcia su Roma. Non ci sono più, da almeno una decina d’anni, persone viventi che se ne ricordino. Oggi la domanda è questa: esiste ancora l’ombra, il rischio, la minaccia del fascismo? Io rispondo di no e di sì. Di quel fascismo, quello squadrista e assassino, no. L’ombra è svanita e non tornerà. La civiltà europea, che a metà del secolo scorso toccò il punto più basso rispetto a ogni civiltà precedente, è cresciuta enormemente in questi ottanta anni. Spinta dalla forza portentosa di ideologie e culture che si richiamavano – e ancora si richiamano, credo – al liberalismo, al socialismo, al cristianesimo democratico. C’è stata Bad Godesberg, che è il luogo fisico e dello spirito nel quale il marxismo europeo ha compiuto la scelta democratica. Non solo il socialismo tedesco. C’è stato il Concilio Vaticano II, che ci ha portato fino al “socialismo” montiniano e poi agli sviluppi clamorosi del bergoglismo.
C’è stata la grande modernizzazione e americanizzazione della cultura e del pensiero liberale, che oggi non è più figlia di Giolitti, ma della sua robusta fronda antifascista, amendoliana o radicale che dal fascismo era stata sbaragliata. E poi c’è l’Europa. Mettetela come vi pare con l’Europa, criticatela – e fate bene – disprezzatela anche, se volete – e forse fate bene – ma è una muraglia contro le dittature. Invalicabile. Poi però rispondo anche sì. Il fascismo, come ordine di pensiero, non è affatto morto. È vasto. Attraversa il popolo e i partiti. Entra nei vicoli delle città e dei paesi e si insinua dentro i luoghi del potere. Nel governo, nel sottogoverno, nell’opposizione e nella sotto-opposizione. Parlo del fascino intriso di intolleranza, di odio, di illiberalità, di repressione, di culto della punizione, di giustizialismo, di sospettissimo, di presunta eticità che oggi ha preso il sopravvento nello spirito pubblico.
Certamente questo fascismo nella destra è molto forte. Ed è di natura tradizionale. Lo si sente aleggiare nelle stesse parole di Giorgia Meloni, nel suo vocabolario. Merito, famiglia, patria, nazione. Avete notato o no che Giorgia Meloni ha abolito la parola “paese” e l’ha sostituita con la parola “nazione”? Nel linguaggio politico italiano – democristiano, socialista, comunista, liberale, repubblicano – dal 1945 ad oggi si è sempre usata la parola “paese” per indicare l’Italia. Perché? Perché la parola nazione contiene l’idea di nazionalismo, e il nazionalismo è una malattia dalla quale la politica italiana nata dopo la fine del fascismo era vaccinata. La politologia conosceva come un assioma il fatto che il nazionalismo è l’embrione del fascismo e dell’autoritarismo. Del resto neanche in America (che pure il fascismo non lo ha vissuto) non si usa la parola Nation. Si dice Country, cioè terra, paese. Da qualche giorno invece Giorgia Meloni sta imponendo la parola nazione a tutti. Lei usa solo quella parola. Altri la stanno imitando. Ha fatto questa scelta per caso? No, Giorgia Meloni è una politica navigatissima e anche sofisticata, nonostante il romanesco.
Sta cambiando il vocabolario, e imponendo il suo, per ragioni strettamente ideologiche. Meloni non è fascista ma pensa di avere bisogno di un continuo ammiccamento, di uno sguardo all’indietro, di un po’ di nostalgia. È il cemento della sua politica. È ideologia? Si, è l’ideologia vecchia vecchia, quella senza ideali. O con ideali inservibili: patria, nazione, famiglia, decoro, merito. E dietro questi ideali si nasconde la tipica intolleranza della destra. Punizione, giustizia, carceri, 41 bis, severità. Poi certo – e questa, è vero, è una garanzia per tutti – c’è l’ambiguità, la giravolta. Perciò sceglie Nordio alla giustizia, cioè l’opposto esatto del fascismo.
E qui si arriva all’altro pezzo del fascismo, che a volte amoreggia e spesso invece si scontra col fascismo di destra. Il grillismo, per capirci. Che ha sostituito tutte le ideologie precedenti col qualunquismo e il giustizialismo. Ha moltissimi punti in comuni con il vecchio fascismo, escluso, evidentemente, l’aspetto più truce del fascismo, cioè la violenza. Il grillismo è pacifico. Odia ma non picchia. Avete sentito Scarpinato l’altro giorno alla Camera? Ha detto più o meno questo: usando la legalità non ho ottenuto niente, non sono riuscito a portare nemmeno un grammo di valore alla battaglia contro la mafia. Allora ci provo col sospetto, con la politica, con la mia idea che certi partiti, che odio, vanno esclusi dal consesso civile.
Leggete bene il discorso di Scarpinato perché l’essenza del fascismo moderno è proprio lì. In quel pensiero, anche in quella idealità, in quel desiderio di purificazione, incoltamente dannunziano. La cosa che mi preoccupa di più è che quando ha parlato Scarpinato, un pezzo di Pd l’ha applaudito. Che vuol dire? Che l’antifascismo, nel senso vero e moderno del termine – tolleranza, garantismo, inclusione, accoglienza, indulgenza, uguaglianza – è diventato uno schieramento esilissimo. Anche un pezzo di sinistra è stata travolta dal nuovo fascismo. Scusate se uso termini forti, ma se non li usi è inutile, Non si capisce. Io dico solo questo. Cent’anni dopo la marcia su Roma il rischio di un nuovo fascismo è grandissimo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
L'ex magistrato, il depistaggio Scarantino e la casa all'imputato. Con Scarpinato il partito di Grillo è diventato garantista e berlusconiano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2022
Roberto Scarpinato, ex magistrato e oggi esponente di punta dei grillini, si è un po’ indignato per la risposta leggermente sprezzante che Giorgia Meloni ha dato, in sede di replica, al suo intervento al Senato (che per la verità era piuttosto sconclusionato). Dice Scarpinato – in una intervista alla Stampa – che Giorgia Meloni ha sbagliato due volte: nel definirlo giudice perché lui è stato sempre e solo Pm, e nell’accusarlo di essere responsabile del depistaggio (col falso pentito Scarantino) nelle indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Poi ha aggiunto di essere stato lui ad avere “smascherato il depistaggio”.
Ha ragione Scarpinato? Ha ragione nel dire che non è mai stato giudice e di non essere responsabile del depistaggio (ma Meloni non ha attribuito a lui quel depistaggio ma ad alcuni settori della magistratura palermitana. In effetti il depistaggio coinvolse il Procuratore Tinebra e anche il giovane Di Matteo, ma non Scarpinato). Che però sia stato lui a smascherarlo è del tutto falso. Fu la procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Lari, che si accorse nell’inguacchio e chiese alla Procura generale di Palermo di sospendere le pene alle persone innocenti vittime del depistaggio. La Procura generale (cioè Scarpinato) non poteva che dare seguito alla richiesta di Lari. Nessun ruolo di Scarpinato nello smascheramento. Nel seguito dell’intervista Scarpinato propone altre due tesi che meritano un breve commento. Chiede: “Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?” Stupisce il fatto che Scarpinato parli di Borsellino. Perché è stato proprio lui, poche ore dopo la morte di Borsellino, a chiedere l’archiviazione del dossier mafia-appalti, avviato da Falcone e sul quale Borsellino voleva indagare.
Vi sembra che chi ha archiviato quel dossier sia l’uomo giusto per onorare Borsellino? Le mancate indagini su quel dossier sono state un danno probabilmente irreparabile al lavoro di chi tentava in quegli anni di colpire la mafia. Tanto che oggi, finalmente, proprio la Procura di Caltanissetta (la stessa che smascherò Scarantino) ha aperto una indagine su quella dannata archiviazione. Vuole capire bene perché fu fatta e che danni provocò. Attenti, per carità, a usare la parola smascherare… Infine l’ultima battuta dell’intervista di Scarpinato è contro Nordio accusato di voler restituire alla polizia giudiziaria l’indipendenza che oggi non ha, rendendo in questo modo più libere ed equilibrate le indagini. Oggi la polizia giudiziaria è interamente nelle mani del Pm (che si sceglie gli uomini che dovranno indagare) ed è costretta ad obbedirgli, a seguire la strada che il Pm indica e a lavorare a favore delle sue tesi. Una follia, degna davvero degli Stati autoritari.
P.S. Ma Scarpinato, sebbene non sia stata smentita la notizia sull’acquisto, qualche anno fa, a un prezzo piuttosto alto, di un appartamento di cui era comproprietario, da parte di un suo ex imputato (assolto su sua richiesta) resta un esponente di punta dei 5 Stelle. Sebbene nessun articolo del codice penale proibisca a un magistrato di fare affari con i propri imputati, e dunque non c’è il reato, eravamo tutti convinti che il codice etico del partito di Grillo non considerasse accettabili simili comportamenti e dunque procedesse contro Scarpinato, allontanandolo dal gruppo parlamentare. Invece lo hanno fatto capogruppo. Forse, all’improvviso, sono diventati tutti garantisti e anche un po’ berlusconiani…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Quella trattativa Stato-mafia “a fin di bene” per salvare l’Italia. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 27 settembre 2022
In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d'Assise ma confermano che quella trattativa ci fu.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È stato il processo che ha violentemente diviso l’antimafia giudiziaria e non solo quella. Un processo che ha sfiorato alte cariche dello stato e persino un presidente della Repubblica, che ha portato sul banco degli imputati ministri, alti ufficiali dei carabinieri e capimafia tutti insieme.
La sentenza di primo grado, nell’aprile del 2018, è stata clamorosamente di condanna per il boss Leoluca Bagarella per il medico di Cosa Nostra Antonino Cinà, per il colonnello Giuseppe De Donno e per i generali Mario Mori e Antonino Subranni, per il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
La sentenza di appello è stata clamorosamente di assoluzione per tutti. Tranne che per i mafiosi.
E, ancora prima, assolto anche l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa di avere partecipato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Di più: di essere stato lui stesso l’origine del patto perché terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. Assolto «per non aver commesso il fatto».
In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d’Assise ma conferma
È una sentenza dove lo stato assolve sé stesso e che parla di «palesi aporie o forzature» nel primo grado, che sottolinea come nell’estate del ‘92 Cosa Nostra non giocasse in difesa ma in attacco: «L’obiettivo finale era costringere lo stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa Nostra».
Gli approcci di alti ufficiali dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino vengono definite "un'improvvida iniziativa“, la strage di via d’Amelio non fu un fattore di accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino ma nelle motivazioni viene rilanciata piuttosto la pista del dossier “mafia-appalti. Ipotesi molto azzardata e priva di un qualunque riscontro: questa comunque la convinzione dei giudici.
Un verdetto che capovolge il precedente e che ha aperto altre polemiche all'interno della magistratura, filosofie giudiziarie differenti che si scontrano ormai da quel lontano 1992.
A trentanni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, di sicuro c'è solo che Falcone e Borsellino sono saltati in aria e non si conoscono i “mandanti altri” che ne hanno ordinato la morte.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
I tanti misteri su quegli accordi tra il crimine e il potere. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 settembre 2022
Sullo sfondo la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli Anni Sessanta e i giorni nostri. Dai tentativi di golpe e dalle stragi dei primi Anni Settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Prima di esporre e poi esaminare nel merito i proposti gravami è opportuno, per una più agevole comprensione delle questioni da approfondire in relazione ai fatti di causa, ricapitolare nelle sue tappe salienti il percorso logico probatorio che ha condotto la Corte d’Assise di primo grado ad affermare la penale responsabilità degli imputati odierni appellanti.
L’imponente mole del materiale istruttorio accuratamente scrutinato dal primo giudice costringe, per economia di motivazione, a farvi solo dei cenni, rimandando per una più compiuta ricognizione delle fonti di prova e della loro valutazione alle pagine della sentenza qui impugnata che le illustrano.
E si cercherà, nell’esposizione che segue, di rispettare e rispecchiare per quanto possibile lo spartito motivazionale e la sua articolazione per capitoli separati, per non alterare la consequenzialità logica degli argomenti trattati. […].
Parimenti, ci si limiterà a qualche cenno per quelle vicende che solo marginalmente hanno incrociato i fatti di causa, e per le posizioni uscite di scena [...]; mentre più spazio dovrà riservarsi alla posizione di Massimo Ciancimino, sebbene questi sia stato assolto dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa - e anche in questo caso il pm non ha proposto appello — e condannato per il reato di calunnia in pregiudizio del dott. Giuseppe De Gennaro — e avverso tale pronuncia il pm ha proposto appello ma il relativo procedimento è stato stralciato, su richiesta della difesa e nulla opponendo le altre parti [...] — dovendosi conto delle ragioni per le quali il giudice di prime cure è attivato alla conclusione che nessun uso può farsi delle dichiarazioni del predetto Ciancimino, in quanto quello che era stato presentato dalla pubblica accusa come un teste chiave dell’intero processo si è rivelato essere una fonte inaffidabile.
In “Premessa” alla parte prima della sentenza in esame si segnala come il processo abbia ricostruito la storia recente dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e, più specificamente, quella che ha visto via via crescere l’influenza dei c.d. “corleonesi”, i quali, muovendo già da un nucleo importante e significativo formatosi sin dagli anni 40-50 (con Michele Navarra e successivamente con Luciano Leggio), avevano infine conquistato l’egemonia, prima nella provincia di Palermo ivi compreso il suo capoluogo (sino ad allora regno incontrastato di Michele Greco e Stefano Bontate) e poi nell’intera Sicilia, con la definitiva consacrazione, come suo capo assoluto, di Salvatore Rima.
L’istruzione dibattimentale ha, però, “fotografato” anche il declino e la sostanziale chiusura di quell’esperienza criminale, a decorrere proprio dal suo apice raggiunto nella stagione delle stragi e conclusosi, di fatto, con l’arresto di Bernardo Provenzano al punto da far dire, ai giudici della Corte d’Assise di primo grado, che: “La “mafia storica” è stata sconfitta dallo Stato, nonostante, verrebbe da dire, i comportamenti di molti esponenti istituzionali, i quali, non rendendosi conto — o in alcuni casi, pur essendo ben consapevoli — degli effetti dirompenti per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, hanno intrattenuto rapporti con esponenti mafiosi. ora per interessi elettorali, ora per agevolare carriere, ora per meri interessi economici personali o di gruppi ristretti».
E il punto di svolta del declino mafioso si è verificato, a parere della Corte, nel gennaio 1994 col fallimento del progettato attentato allo Stadio Olimpico di Roma e con l’arresto di Giuseppe Graviano (insieme a quello del fratello Filippo), che più si era impegnato per tale ulteriore strage, avendo la capacità economica e, soprattutto, l’intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva, che, invece, per fortuna di questo Paese, sarebbe, poi, mancata ai residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (stante il ruolo più defilato volontariamente assunto da Bernardo Provenzano, il quale, per portare avanti i suoi affari aveva necessità di una
sorta di patto di non belligeranza con lo Stato ): una strage che, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso i stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra,‘ndrangheta e mafia pugliese) e altri territori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano).
Il cedimento dello Stato, che, a parere della Corte di primo grado, era di fatto iniziato già dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti ed e proseguito con maggiore evidenza dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l‘impossibilità di fronteggiare quell'escalation criminale, senza pari nella storia del Paese in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di “mani pulite”, e di conseguente instabilità per l’affacciarsi anche di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a “cosa nostra”.
A riprova dell’immane sforzo che la Corte di primo grado rivendica di avere sostenuto, si citano i numeri più significativi dell’istruttoria dibattimentale (ben 228 udienze, oltre 1.250 ore di dibattimento, oltre 190 soggetti esaminati, tra i quali alcuni rappresentanti dei massimi vertici dello Stato, innumerevoli documenti in formato cartaceo e soprattutto informatico), unitamente alla considerazione che l’accertamento dei fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa specificamente contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri (dai tentativi di golpe e dalle stragi dei primi anni settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla Loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli. al sequestro Cirillo, alle stragi di mafia sin dalla c.d. “strage di viale Lazio” e, più in generale, alla interminabile sequela — senza pari nel mondo — di uomini delle Istituzioni uccisi in Sicilia, ai rapporti tra la “cosa nostra” siciliana e quella americana); senza dimenticare, sullo sfondo e quasi a fare da filo conduttore di molte vicende, l’ombra strutture occulte di natura massonica o paramassonica e di esponenti infedeli dei cd. servizi segreti.
Le chiacchiere di Massimo Ciancimino, un testimone inattendibile. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 28 settembre 2022
Sono pochi i documenti genuini. I più, o sono dei falsi, o sono frutto della manipolazione di documenti originari effettivamente riconducibili al padre Vito. Come accertato attraverso le accurate indagini di polizia scientifica. E ciò vale pure per il cosiddetto. “papello”, sebbene non siano emersi elementi certi di manipolazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
All’imputato Massimo Cianciminoo veniva contestato il reato di calunnia, per avere, in particolare, nel corso delle sue molteplici dichiarazioni rese alla A.g., accusato il dott. Giovanni De Gennaro, brillante funzionario della Polizia di Stato che, al culmine della sua carriera pubblica, ha ricoperto anche la carica di Capo della medesima Polizia di Stato, di avere intrattenuto, nella sua predetta qualità, “costanti e numerosi rapporti illeciti con esponenti dell'associazione mafiosa denominata “cosa nostra” e, quindi, in sostanza ed in concreto, il reato, se non di partecipazione, quanto meno di “concorso esterno” nel delitto di associazione mafiosa.
Si contestava, quindi, ancora più in particolare, al Ciancimino di avere, al fine di supportare la sua accusa, contraffatto un documento manoscritto, consegnato al P.M. il 15 giugno 2010, consistente in un elenco di funzionari dello Stato a vario titolo asseritamente collusi con la mafia nel quale, però, era stato trasposto il nome “De Gennaro” traendolo da un altro documento questa volta manoscritto in originale da Vito Ciancimino.
Il P.M. contestava, altresì, al Ciancimino la circostanza aggravante prevista dall’art. 368 comma 2 c.p. per avere incolpato il De Gennaro di un reato per il quale la legge stabilisce la pena superiore nel massimo a dieci anni, reato non espressamente indicato col suo articolo, ma che dalla descrizione dei fatti si individua agevolmente in quello previsto dall’art. 416 bis c.p.
Dal verbale del 15 giugno 2010 redatto dall’Ufficio della Procura della Repubblica di Palermo (prodotto dalla difesa della parte civile De Gennaro all’udienza del 26 settembre 2013 ed acquisito con ordinanza del 17ottobre 2013) si ricava che in quella occasione Massimo Ciancimino, dopo essere stato avvertito ai sensi dell’art. 64 c.p.p., ebbe, tra l’altro, a consegnare spontaneamente il documento indicato nel capo di imputazione sopra ricordato, dichiarando di averlo “recuperato” a Parigi da un soggetto di cui non rivelava le generalità per non coinvolgerlo, essendo, a suo dire, amico della moglie ed estraneo ai fatti rappresentati nei documenti che aveva custodito per suo conto.
Il Ciancimino, quindi, aggiungeva che il foglietto manoscritto che poi ha dato luogo all’odierna contestazione di reato era “certamente” già contenuto in una busta spedita nel 1990 dal padre da Roma alla sua abitazione di Palermo affinché fosse conservata dalla moglie in attesa di disposizioni.
Dal tenore delle dichiarazioni rese si evince che Massimo Ciancimino ebbe a consegnare il documento in questione con l’inequivoco intento di supportare le assente indicazioni del padre sul c,d. “quarto livello”, comprendente, a suo dire per quanto appreso dal padre, soggetti che, nell’ambito delle Istituzioni, intrattenevano rapporti con la mafia, e, nel contempo, ebbe ad asserire in modo altrettanto inequivoco che il padre, rispondendo ad una sua domanda sulla identità del “signor Franco” cerchiò il nome “F/C GROSS” e tracciò la linea che unisce tale cerchiatura al nome “De Gennaro” contestualmente scritto dal padre medesimo in sua presenza.
IL NOME DE GENNARO AGGIUNTO POI
Sennonché, è stato accertato dagli esperti della polizia scientifica di Roma che, in realtà, il nome “De Gennaro” è stato trasposto su quel documento mediante fotocopiatura di un altro scritto autografo di Vito Ciancimino.
In sostanza, nel documento classificato “1 PA” (appunto, il documento consegnato da Massimo Ciancimino il 15 giugno 2010 e già acquisito agli atti contenente sul fronte l’elencazione dei nomi E Restivo, A. Riffini. Santovito, Malpica, Gros, Parisi, Sica, De Francesco, Contrada, Narracci, Finocchiaro, Delfino, La Barbera e Finocchi, uno dei quali, Gros, cerchiato ed unito con una freccia al nome De Gennaro e sul retro la scritta “contatti Massimo”), oltre che l’elenco dei nomi ivi manoscritto a stampatello è attribuibile, con grado di probabilità, a Massimo Ciancimino, mentre soltanto la scritta sul retro è attribuibile con certezza a Vito Ciancimino.
Sebbene Massimo Cancimino per anni abbia dominato la scena, proponendosi come depositano di segreti inquietanti e inedite verità sulle collusioni tra esponenti istituzionali e dei Servizi ed esponenti mafiosi, la Corte d’Assise di primo grado, per le ragioni che saranno tra breve succintamente richiamate, è giunta alla conclusione che il suo contributo all’accertamento della verità dei fatti è inutilizzabile perché, come acclarato all’esito di una rigorosa verifica dibattimentale, è risultato inquinato sia dai reiterati mendaci delle sue copiose dichiarazioni, sia dalle manipolazioni e falsificazioni parimenti accertate nella mole di documenti prodotti dallo stesso Massimo, incluso quello che figura nella contestazione del reato di calunnia.
Solo pochi documenti sono risultati genuini. I più o sono dei falsi, o sono frutto della manipolazione di documenti originari effettivamente riconducibili al padre Vito, come accertato attraverso le accurate indagini di polizia scientifica cui sono stati sottoposti e su cui hanno riferito i testi escussi nel giudizio di primo grado (alle udienze del 10 e 11 novembre 2016 sono stati esaminati, congiuntamente, su richiesta e con l’accordo di tutte le parti, i testi Maria Vincenza Caria, Marco Pagano, Sara Falconi e Anna Maria Caputo, tutti appartenenti al Servizio di Polizia Scientifica di Romanelle).
E ciò vale pure per il c.d. “papello”, sebbene non siano emersi elementi certi di manipolazione. Non si può escludere, sulla scorta di altre convergenti risultanze probatorie, che esso sia materialmente esistito, ma è certo che o venne distrutto, prima di poter venire nella disponibilità di Massimo, o comunque questi non vi ebbe mai accesso, non essendovi prova, al di là di rassicurazioni dello stesso Massimo Ciancimino che il documento propinato come il famoso “papello” siano ascrivibile ai vertici mafiosi.
La Corte, nel ribadire di non poter tener conto a fini probatori delle dichiarazioni e delle produzioni documentali di M.C., tuttavia precisa che non ha ritenuto di fame uso né in favore ma neppure contro l’ipotesi accusatoria, per ciò che concerne l’accertamento dei fatti e delle responsabilità per il reato di minaccia a corpo dello Stato; nel senso che nel caso di divergenza o contrasto con altre fonti, le propalazioni di Massimo Ciancimino non possono addursi a prova contraria e non valgono
neppure a insinuare il dubbio sull’attendibilità di altri dichiaranti. Mentre tutte le volte che Massimo Ciancimino ha reso dichiarazioni che concordano con quelle di altre fonti, il suo narrato non vi aggiunge nulla e non può trarsene alcun effetto corroborativo, stante la propensione dello stesso Ciancimino al mendacio e la conseguente cronica impossibilità di discernere nelle sue propalazioni il vero dal falso.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Documenti falsi e calunnie contro il super-poliziotto Gianni De Gennaro. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 settembre 2022
Le dicerie e le menzogne nei riguardi di De Gennaro servivano anche a dare credibilità agli altri racconti creati dalla fervida fantasia di Ciancimino. Come già espresso dal giudizio conclusivo in primo grado, “è veramente ardito discernere nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino il vero dal falso”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza impugnata dedica pagine meditate e uno spazio congruo alla motivazione del giudizio con cui stronca l’attendibilità delle alluvionali propalazioni di Massimo Ciancimino, prendendo le mosse dalla peculiarità della sua figura come fonte dichiarativa.
E non ci si riferisce tanto al ruolo che il più giovane dei tigli di Vito Ciancimino si è auto-attribuito, quale fonte principale di rivelazione dei fatti alla base della vicenda poi divenuta nota come “trattativa Stato-mafia” (un aspetto che, tino alla conclusione del giudizio di primo grado la Pubblica Accusa , pur non nascondendo alcune criticità delle sue dichiarazioni, non ha del tutto rinnegato, non rinunciando a valorizzare talune sue dichiarazioni in chiave confermativa di quegli accadimenti).
In effetti, Massimo Ciancimino, oltre ad essere un “testimone” privilegiato della c.d. Trattativa che secondo la contestazione del P.M. Venne intavolata dagli altri imputati Mori e De Donno con i vertici mafiosi col tramite di Vito Ciancimino, era al contempo, imputato del reato del c.d. “concorso esterno” nell’associazione mafiosa Cosa Nostra in relazione al contestato ruolo di latore di messaggi scritti e
comunicazioni orali fra il padre Ciancimino Vito Calogero e Provenzano Bernardo ; e imputato del reato di calunnia aggravata, per avere ingiustamente incolpato il Dott. De Gennaro di avere intrattenuto rapporti illeciti con esponenti dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, peraltro, falsificando un documento nel quale in modo apocrifo aggiungeva proprio il nome del De Gennaro con una cerchiatura traendolo da uno scritto autografo del padre.
Nella stessa fonte dichiarativa si intrecciavano e si sovrapponevano quindi vesti processuali e angolazioni, anche sotto il profilo dell’approccio alla valutazione preliminare di attendibilità diverse e persino confliggenti, tanto più se si considera che le propalazioni calunniose nei riguardi del dot. De Gennaro servivano anche a dare credibilità alle altre sovrastrutture create dalla fervida fantasia del dichiarante. Sicché non può che convenirsi con il giudizio conclusivo del giudice di prime cure secondo cui è veramente ardito discernere nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino il vero dal falso, tanto più che quest'ultimo ha mostrato di avere una personalità caratterizzata da tratti di eclettismo ed istrionismo, con una spiccata tendenza a creare, pur muovendo da un nucleo di fatti certamente veri e che egli ha avuto modo di conoscere o direttamente in virtù della particolare vicinanza col padre in occasione delle traversie giudiziarie clic hanno riguardato quest'ultimo ovvero indirettamente attraverso possibili confidenze del padre medesimo o, probabilmente in maggior misura, esaminando documenti da quest'ultimo custoditi, sovrastrutture progressivamente sempre più complesse, ma spesso con fondamenta assolutamente fragili e, quindi, conseguentemente, destinate a crollare miseramente.
Lo sviluppo nel tempo della narrazione del giovane Ciancimino, come ricostruito già con l’esame da parte del P.M. e, poi, ancor più con l’incalzante controesame svolto dalla difesa della parte civile De Gennaro (ma anche con quello svolto dalle difese degli altri imputati controinteressati) rende evidente, a parere del primo giudice, come il dichiarante abbia cercato di sfruttare le poche conoscenze personali acquisite prestando i suoi servigi filiali a favore del padre negli anni sino al 1992, e alcune confidenze fattegli sempre dal padre negli anni più prossimi alla sua morte (dal 1999 al 2002) con la finalità di scrivere un libro di memorie; e come, successivamente, egli si sia servito anche e soprattutto di alcuni documenti dello stesso genitore per imbastire una storia, in parte effettivamente accaduta, ma nella quale assegna a sé un ruolo di quasi protagonista certamente incompatibile, soprattutto sotto il profilo conoscitivo, con il ruolo svolto in concreto che è stato quello di mero esecutore delle istruzioni e delle commissioni paterne, senza alcuna possibilità di interloquire nel merito o di avere dal burbero genitore, per sua stessa ammissione, spiegazioni e chiarimenti sugli incarichi materiali di volta in volta affidatigli.
[…] Il giudice di prime cure tuttavia tiene a precisare che la “falsità” di tali documenti non significa che non siano mai esistiti i fatti che con essi si intendeva plasticamente documentare, come i costanti contatti tra Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino anche attraverso “pizzini”; o il fatto che quest’ultimo, dopo essersi prestato a fare da tramite per un dialogo tra Istituzioni e mafiosi, non sia stato effettivamente destinatario di una serie di richieste dei vertici mafiosi coincidenti, almeno in parte, quelle contenute nel “papello” esibito da Massimo Ciancimino e qui acquisito, poiché agli atti vi è prova inconfutabile sia dei primi che delle seconde.
Ma resta il fatto che Massimo Ciancimino, utilizzando conoscenze acquisite negli anni dal padre o promananti da altri soggetti le cui dichiarazioni erano da tempo note (come quelle rese Brusca Giovanni, che fin dal 1996 aveva iniziato a rendere dichiarazioni su quei fatti sin dal 1996; o le dichiarazioni rese da Mori e De Donno al processo di Firenze già nel 1998), per supportare le sovrastrutture narrative artificiosamente aggiunte a ciò di cui era a conoscenza, oltre a rendere false dichiarazioni ha altresì falsificato e consegnato alla A.G, alcuni documenti, rischiando cosi di inquinare irrimediabilmente le acquisizioni probatorie in ordine ai fatti oggetto del presente processo.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quegli “approcci” con don Vito confermati dal generale Mario Mori. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 settembre 2022.
Dai discorsi di Massimo Ciancimino può dirsi provato, dunque, solo ciò che uno dei principali protagonisti, l’imputato Mario Mori, non ha esitato a definire come “trattativa” e che venne intavolata con Vito Ciancimino quanto meno all’indomani della strage di Capaci, prima tramite De Donno e poi anche direttamente dallo stesso Mori.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Delle propalazioni di Massimo Ciancimino può dirsi provato, dunque, solo ciò che uno dei principali protagonisti, l’imputato Mario Mori, non ha esitato a definire come “trattativa” e che venne intavolata con Vito Ciancimino quanto meno all’indomani della strage di Capaci, prima tramite De Donno e poi anche direttamente dallo stesso Mori.
Così possono dirsi provati il primo approccio tramite De Donno e la richiesta di instaurare, tramite Vito Ciancimino, un contatto con i vertici di “cosa nostra”, finalizzato a raggiungere un’intesa per porre fine alle stragi. Ne ha riferito Massimo Ciancimino per conoscenza diretta (incontestata perché confermata, appunto, da De Donno e Mori); ma sono fatti che emergono da pur reticenti accenni dello stesso Vito Ciancimino, nonché dalle stesse ricostruzioni fatte dai predetti imputati Mori e De Donno sin da quando sono stati sentiti, in qualità di testimoni, nel processo per le stragi del continente svoltosi a Firenze; ed ancora, per quanto riguarda l’imputato Mori, anche nel memoriale consegnato alle Procure della Repubblica di Firenze e Caltanissetta rispettivamente l’1 agosto e il 23 settembre 1997 (doc. n. 41 della produzione del pm).
Analoghe considerazioni valgono per l’identificazione nella persona del dott. Antonino Cinà del canale allora individuato da Vito Ciancimino per contattare i vertici di Cosa Nostra e, specificamente, il suo allora incontrastato capo, Salvatore Riina
: anche in questo caso, il nome dell’odierno imputato Cinà, pure indicato da Massimo Ciancimino, era stato già fatto nelle dichiarazioni rese all’A.G. dal padre Vito suffragate sul punto dal racconto di Mario MORI (con la precisazione che questi avrebbe appreso l’identità del Cinà soltanto a vicenda conclusa).
E nonostante qualche difformità sulla sequenza degli incontri tra De Donno-Mori e Vito Ciancimino, emerge dalla ricostruzione dei primi due (e, specificamente, di Mori nei memoriale sopra richiamato) uno sviluppo della “trattativa” del tutto concordante con l’iter riferito da Massimo Ciancimino e, in particolare, laddove si evidenzia quel passaggio da una prima fase in cui l’intendimento di Mori-De Donno era quello di evitare nuove stragi ad una seconda fase mirata alla cattura del latitante Rima.
Sennonché, chiosa la sentenza, le propalazioni di Massimo Ciancimino a questo punto risultano addirittura superflue, perché altri elementi probatori consentono, ben al di là di quanto dichiarato dallo stesso Ciancimino, di dare per accertato che:
da un lato, Vito Ciancimino, tramite il Cinà, riuscì effettivamente a raggiungere i vertici dell’associazione mafiosa allora rappresentata soprattutto da Rima e Provenzano (sia pure quest’ultimo con una posizione più defilata e meno appariscente, ma pur sempre con un ruolo direttivo);
e, dall’altro, che i medesimi vertici mafiosi ebbero la consapevolezza di una disponibilità dello Stato ad intavolare una “trattativa” certamente già nel periodo ricompreso tra le stragi di Capaci e di via D ‘Amelio indipendentemente dalla collocazione temporale dei diretti colloqui intervenuti tra il Col. Mori e Vito Ciancimino per effetto dei primi approcci — pur eventualmente del solo De Dotino — certamente risalenti ai giorni successivi alla strage di Capaci.
COSTRUITE MENZOGNE SU UNA SOLA VERITÀ
Ma ecco che su quest’unico nucleo di verità, per asseverare il quale può benissimo farsi a meno delle propalazioni di Massimo Ciancimino, si innestano le sovrastrutture artificiosamente create da quest’ultimo e che vanno espunte dal compendio probatorio, a parere del primo giudice, perché prive di concreti riscontri o perché assolutamente inverosimili o, anzi, più probabilmente, frutto della fantasia del dichiarante.
La prima ditali sovrastrutture è costituita dalla ricostruzione dei contatti diretti tra Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. che, seppure certamente avvenuti, non possono essersi verificati, ad avviso del primo giudice, con le modalità ed i tempi indicati da Massimo Ciancimino, non essendovene comunque alcun riscontro.
È ben possibile, anche sulla scorta di quanto riferito al riguardo da altre fonti (come Lipari) che il Provenzano, negli anni settanta, quando non ancora assurto alla notorietà dei decenni successivi e pur essendo già latitante si muoveva più liberamente, si spingesse ad andare a trovare a casa Vito Ciancimino (sebbene una frequentazione nei termini riferiti da Massimo Ciancimino non ha trovato conforto nelle dichiarazioni degli altri familiari del Ciancimino neppure con riferimento al fantomatico “ingegnere Lo Verde”); ma è inverosimile, perché incompatibile con sicure acquisizioni probatorie sulle modalità e le cautele con cui lo stesso Bernardo Provenzano conduceva la sua latitanza già a partire dagli anni ‘80 (avvalendosi di una rete di favoreggiatori che gli ha permesso di preservare la sua latitanza per oltre quaranta anni grazie ad un sistema di protezione fondato su contatti segmentati e limitati a soggetti di volta in volta sostituiti ed ad un sistema di comunicazione sempre mediato e mai diretto), che, ancora negli anni novanta e successivamente addirittura sino al 2002, quando già massima era l’attenzione sulla sua persona, possa avere avuto i contatti diretti con Vito Ciancimino (peraltro, a sua volta, già coinvolto in vicende giudiziarie), sia a Palermo che a Roma, recandosi nelle abitazioni dello stesso.
E non meno inverosimile è, a parere del primo giudice, che possa avere avuto contatti diretti con Massimo Ciancimino, incontrandolo ripetutamente da solo più volte anche talvolta nello stesso giorno e nello stesso luogo, e ricevendo direttamente dalle mani dello stesso le lettere di Vito Ciancimino, o consegnando altrettanto direttamente a Massimo Ciancimino i “pizzini” destinati al padre di quest’ultimo, come nell’episodio dello scambio di messaggi che Massimo colloca all’indomani della strage di via D’Amelio, quando altissima era l’attenzione delle Forze dell’Ordine, ed era inutile, oltre che inverosimile, che il boss latitante si esponesse tanto, e solo per ricevere dalle sue mani una busta che poteva essergli recapitata attraverso la catena di favoreggiatori della sua latitanza.
Né a fugare perplessità che rendono del tutto incredibile la ricostruzione del giovane Ciancimino può bastare la spiegazione fornita da Massimo Ciancimino riguardo alle assicurazioni che i Carabinieri avrebbero fornito, per garantire la trattativa che lo stesso Massimo Ciancimino non sarebbe stato seguito. Non si vede infatti come in quella prima fase della “trattativa”, in cui le “parti” si stavano studiando reciprocamente per comprendere quali fossero le reali intenzioni o i possibili sbocchi dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri, il Provenzano potesse avere già acquisito una certezza di impunità tale da indurlo ad abbandonare le più elementari regole di prudenza ordinariamente seguite da un latitante, e a maggior ragione per un esponente di assoluto rilievo dell’organizzazione mafiosa che poteva servirsi di fedeli gregari o intermediari per un’attività meramente materiale come il ritiro di una busta o la consegna di un pizzino.
Ma anche ammesso che il Provenzano avesse deciso di fidarsi dei Carabinieri, osserva ancora la Corte, non si vede quale garanzia egli avesse che, invece, altre Forze di Polizia, all’oscuro di quella “trattativa” iniziata dai Carabinieri, non fossero sulle sue tracce e potessero, quindi, arrestano approfittando di quell’oggettivo abbassamento delle cautele abitualmente adottate nei movimenti dei grandi latitanti.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Quando una “trattativa” con il crimine organizzato può diventare lecita. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'01 ottobre 2022
Col termine “trattativa” si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l’accusa, già a decorrere dall’omicidio dell’onorevole Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata “Cosa nostra”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza si sofferma sui concetti generali che innervano la struttura motivazionale, a partire dalla nozione stessa di “trattativa”.
Col termine “trattativa” si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l’accusa, già a decorrere dall’omicidio dell’On. Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata Cosa nostra. In punto di fatto, è pacifico e incontestato che reiterati contatti tra rappresentanti delle Istituzioni ed esponenti mafiosi, mediati da emissari dei secondi, vi siano stati, e in frangenti diversi, e non solo temporalmente controversi sono:
l’identificazione e il ruolo degli intermediari;
l’esatta collocazione temporale del loro inizio, che secondo l’originaria prospettazione accusatoria risalirebbe all’epoca dell’omicidio Lima;
e, soprattutto, le vere ragioni e finalità ditali contatti.
La Corte d’Assise avverte subito del rischio che incombe, e che fin dall’inizio ha pesato su un sereno giudizio: quello della sovrapposizione di valutazioni etico-politiche rispetto a giudizi e valutazioni di tipo strettamente giuridico che sono i soli che possono trovare ingresso in un processo penale.
In avvio di motivazione, tuttavia, non rinunzia a prendere una posizione netta e perentoria in ordine alla vexata quaestio della liceità o meno di una trattativa che, pur mettendo in conto la possibilità di concedere benefici straordinari — e non previsti dalle leggi vigenti — agli autori di crimini efferati, e facenti parte di organizzazioni criminali particolarmente temibili per spietatezza ed efficienza, sia finalizzata a salvare vite umane e prevenire la perpetrazione di ulteriori e ancora più cruenti delitti.
A indurre questa preliminare riflessione è la sollecitazione che viene dal principale argomento sotteso alle difese degli imputati appartenenti alle istituzioni: la “trattativa”, se finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, giammai può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l’ulteriore commissione di così gravi crimini.
E la Corte, nell’enunciare il proprio convincimento, prende anzitutto le distanze da un’impostazione che tende a ricondurre i termini del dilemma ad una questione di discrezionalità politica.
Sarebbe infatti, secondo tale impostazione, una valutazione squisitamente politica e di opportunità quella posta alla base della scelta di adottare una linea di fermezza, che escluda qualunque possibilità di “trattativa” con gli autori di atti o/e attività criminali — o almeno qualunque trattativa che non sia finalizzata esclusivamente a negoziare le condizioni di una resa e di una consegna all’autorità costituita, in modo che sia salvaguardato l’obbiettivo prioritario della repressione del crimine e, nel caso di un’organizzazione criminale, la disarticolazione di essa — oppure, una linea alternativa di apertura alla trattativa, che contempli la possibilità per i responsabili di condotte criminali di sottrarsi alle proprie responsabilità e di conseguire benefici non consentiti, e quindi in violazione di norme di legge e delle disposizioni che vi diano attuazione (un dilemma che si è posto drammaticamente nella storia del nostro Paese e che ha registrato di fatto risposte diverse, come ammoniscono i casi Moro e Cirillo).
Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discrezionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali.
LA VIA MAESTRA
Secondo la Corte, la via maestra è quella indicata dalla disciplina varata nel 1991 sui collaboratori di giustizia, da cui già si ricaverebbe l’inammissibilità di una “trattativa” da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali, non, eventualmente, con singoli compartecipi di una associazione mafiosa e nei limiti delle “concessioni” che lo Stato può riconoscere in forza di disposizioni di legge dettate con finalità premiali della collaborazione con la Giustizia, bensì con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa e richiedano, nell’interesse di questa, benefici che
esulino dai perimetri normativi; ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva comportino un riconoscimento della stessa organizzazione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento.
Del resto, già in precedenza la linea della fermezza aveva avuto la sua consacrazione a livello legislativo con la rigorosa disciplina in terna di blocco dei beni delle vittime di sequestri a scopo di estorsione, nonostante in tali casi non si ponesse un problema di cedimento dello Stato o di riconoscimento di organizzazioni a questo dichiaratamente contrapposte.
(Nel caso Moro Lo Stato scelse la via dell’assoluta “fermezza”, sintetizzata, come meglio non si potrebbe, nelle parole pronunziate da uno dei più importanti leader politici dell’epoca, la cui elevatissima statura morale è ancor oggi unanimemente riconosciuta: “Io ritengo che la fermezza dello Stato, la sua ripulsa netta ad ogni ricatto e ad ogni cedimento sia anche la via che può consentire di salvare la vita di uno qualunque dei suoi cittadini”).
[…] La conclusione della Corte è quindi nel senso che non si può quindi equiparare o ricondurre una “trattativa” con una organizzazione criminale a una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e da considerarsi, quindi, sempre lecita anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni purché non si concretizzino anche nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione; e ciò argomentando dai limiti del sindacato del giudice penale in tema di discrezionalità amministrativa, come consacrati nel novellato art. 323 c.p..
Al contrario, una “trattativa” di singoli esponenti delle Istituzioni, quand’anche avallata dal potere esecutivo, non può giammai essere ritenuta “lecita” nell’Ordinamento se, come detto, priva di copertura legislativa; e tale è certamente una “trattativa” che conduca, secondo l’ipotesi accusatoria da verificarsi, ad esempio, ad omettere atti dovuti quali la ricerca e l’arresto di latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l’esclusione del trattamento penitenziario previsto dall’art. 41 bis Ord. Pen., non sulla base delle valutazioni che la legge impone (in primis, l’assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedimenti (con ciò realizzandosi, in fatto, una situazione giuridica non dissimile da quella estrema della liberazione di detenuti in cambio del rilascio dell’ostaggio che taluni ipotizzarono — senza seguito proprio per l’impercorribilità ditale soluzione senza violare le regole dell’Ordinamento democratico — in occasione del sequestro dell’on. Aldo Moro).
La concessione di benefici al di fuori delle regole normative, sia che avvenga per iniziativa unilaterale di organi statuali sia che avvenga perché sospinta dall’intervento o da specifiche richieste dell’organizzazione criminale esalta, nei fatti, la forza stessa dell’organizzazione mafiosa, che può permettersi, infatti, di piegare lo Stato sino a far sì che siano violate le leggi che il medesimo Stato si è dato, e, dunque, in conclusione rafforza l’associazione mafiosa nel suo complesso contribuendo al perpetuarsi del suo potere.
Nessuna attività, puntualizza ancora la Corte, che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi “lecita”, poiché costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitivamente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
La strategia di Totò Riina: «Fare la guerra per poi fare la pace». SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 02 ottobre 2022
Alla fine del 1991 fu varata una vera e propria strategia mafiosa di attacco allo Stato, che dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del cosidetto . “maxi processo”, avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza passa ad esaminare gli “antefatti” della vicenda che costituisce oggetto specifico dell’imputazione [...], a partire dal varo della strategia di contrapposizione frontale allo Stato decisa dai Corleonesi e dal suo primo atto realizzativo, l’omicidio Lima; con i conseguenti effetti intimidatori su quella parte della classe politica che aveva traditi i patti o aveva comunque deluso le aspettative di Cosa Nostra.
La Corte reputa provata con certezza anzitutto che alla fine del 1991 fu varata una vera e propria strategia mafiosa di attacco allo Stato, che dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del c.d. “maxi processo” (interrotta soltanto, nell’agosto del 1991, dall’omicidio Scopelliti, commesso, però, in Calabria al fine di evitare l’immediato diretto collegamento con “cosa nostra”), avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni delle Stato: e, più specificamente, contro rappresentanti di queste che o avevano tradito aspettative e promesse ovvero costituivano le punte di diamante dell’azione di contrasto a Cosa nostra.
E più esattamente, tale strategia fu varata a seguito di incontri e deliberazioni dei vertici dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra sfociati in almeno due riunioni dei suoi più alti consessi deliberativi, alla fine del 1991.
In particolare, si tennero una riunione della “commissione regionale” ed una riunione della “commissione provinciale di Palermo” di “cosa nostra”, entrambe convocate da Salvatore Rima, all’epoca, di fatto, capo assoluto ed incontrastato dell’organizzazione mafiosa.
Entrambe le riunioni, servirono a fare recepire e ratificare a quegli organismi collegiali la sua volontà di reagire. sferrando un violento attacco allo Stato e ponendo in essere punizioni esemplari ai danni di politici e uomini delle istituzioni che non avevano fatto quanto da loro l’organizzazione si attendeva, una volta acquisita la consapevolezza che il maxi processo, nonostante le rassicurazioni ricevute a più livelli, anche istituzionali o politici, da quanti avrebbero dovuto adoperarsi per favorirlo, non avrebbe avuto quell’esito nel quale tanti affiliati avevano riposto le proprie speranze.
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Delle predette riunioni hanno riferito alcuni collaboratori di giustizia di grande spessore e comprovata affidabilità per i tanti riscontri e le sentenze che ne attestano il percorso criminale, prima e poi quello collaborativo. E tra loro, anzitutto due dei soggetti che per il ruolo apicale ricoperto furono testimoni e partecipi delle deliberazioni che accompagnarono il varo di quella strategia.
La sentenza passa quindi in rassegna le dichiarazioni rese sul tema da Antonino Giuffré, a dire del quale a quella riunione della Commissione provinciale del dicembre 1991 tenutasi nella casa di Girolamo Guddo, e nella quale si deliberò (o più esattamente, tutti i capi mandamento riuniti accolsero la decisione comunicata da Riina con assoluto silenzio) di uccidere, da un lato, Lima ed altri politici («...Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico...»)
che avevano tradito le attese di “cosa nostra” e, dall’altro, alcuni magistrati che storicamente venivano considerati nemici di “cosa nostra”, non partecipò Provenzano, pur non essendovi alcun dubbio, per i presenti, che quest’ultimo, come di consueto, avesse già precedentemente condiviso l’iniziativa con Riina; e da Giovanni Brusca. Quest’ultimo ha rimarcato l’insoddisfazione che montava in Salvatore Rima per l’andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l’on. Lima sul quale il Rima aveva fatto affidamento per “aggiustare” il maxi processo.
La questione (del maxi processo) era stata oggetto di più riunioni della “commissione provinciale” tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell’evoluzione della vicenda sino a quell’intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell’esito infausto per l’associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato.
Anche Brusca ha riferito della riunione tenutasi (ma non a casa di Guddo per quello che è il suo ricordo, con il beneficio però del dubbio dato il tempo trascorso) in prossimità delle festività natalizie cui parteciparono quasi tutti i capi “mandamento” tra i quali anche Giuffré e nel corso della quale prese la parola Rima, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l’intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di “cosa nostra” ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito “cosa nostra”, tra i quali Lima e, forse, Mannino.
Nessuno dei due ebbe sentore, nel corso di quella riunione, dell’intenzione di Riina di accompagnare la commissione dei delitti progettati da rivendicazioni a nome della “Falange Aniiata”, come invece hanno riferito i collaboratori di giustizia che hanno parlato dell’altra riunione quella della Commissione regionale di Cosa Nostra tenutasi ad Enna tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92.
E tra loro, anzitutto, Filippo Malvagna (il cui racconto, a parere della Corte, “è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall'assenza di elementi idonei ad inficiare l'“attendibilità intrinseca del dichiarante”), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della “provincia” di Catania.
In quella riunione, secondo quanto poi raccontato al Malvagna, Riina avrebbe pronunciato una frase emblematica frase «qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace». E anche in quella riunione di Enna, ancora secondo quanto appreso e, quindi, riferito da Malvagna, Salvatore Riia si era lamentato delle promesse di politici non mantenute ed aveva prospettato che a quel punto occorreva muoversi “tipo libanesi, tipo i colombiani’ e cioè con una strategia di attacco frontale verso lo Stato e con azioni idonee a confondere la matrice mafiosa o terroristica dell’atto criminale. E fu proprio in tale contesto, Riina aveva invitato a rivendicare le azioni che sarebbero state compiute con la sigla Falange Armata, sino ad allora a tutti loro sconosciuta.
(Sul punto la sentenza annota che effettivamente tutti i principali fatti delittuosi che da li in poi sarebbero stati commessi da “cosa nostra” nel biennio 1992-93, ad iniziare dall’omicidio Lima, furono rivendicati con la predetta sigla).
Ma sono passate in rassegna anche le dichiarazioni di Avola Maurizio che ha fatto riferimento, oltre ad una riunione avente ad oggetto la strategia mafiosa tenutasi a Messina cui egli, senza parteciparvi, aveva accompagnato Marcello D’Agata, “consigliere” della “famiglia” catanese (riunione per la quale, comunque, non vi sono riscontri di sorta), anche ad una riunione con Riina tenutasi ad Enna di cui egli fu informato nei primi mesi del 1992 da Enzo Galea.
Non vi sono elementi certi che consentano di identificare la riunione di cui ha parlato Avola con quella della Commissione regionale riferita da Malvagna. Tuttavia, una conferma probante è venuta da un altro collaboratore di giustizia di comprovata attendibilità, Ciro Vara, il quale ha riferito di avere incontrato Piddu Madonia, “capo” della “provincia” mafiosa di Caltanissetta, il 23 dicembre 1991 e che il predetto in quell’occasione gli disse che, contrariamente a quanto di solito faceva nel periodo delle festività natalizie, non poteva allontanarsi dalla Sicilia perché a breve vi sarebbe
stata una riunione della “commissione regionale” di “cosa nostra” in vista della sentenza che da li a poco avrebbe pronunziato la Cassazione sul maxi processo.
Da altri esponenti mafiosi, poi, il Vara ebbe successivamente conferma che quella riunione si era effettivamente tenuta e che, nella stessa, erano state decise le stragi da compiersi da lì a poco.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Capaci, una strage spaventosa per lanciare un segnale “forte e chiaro”. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 03 ottobre 2022
La strage di Capaci non a caso fu voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia (nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove Giovanni Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), perché occorreva ricorrere ad una terrificante manifestazione di potenza...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Alla piena convergenza delle predette dichiarazioni si aggiunge l’accertamento consacrato con forza di giudicato dei processi celebrati sulla strage di Capaci le cui sentenze ormai divenute irrevocabili sono state qui acquisite.
In particolare, la stessa riunione della “commissione regionale” tenutasi tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 per deliberare (rectius, ratificare il volere di Salvatore Riina) riguardo alla nuova strategia di attacco alle Istituzioni, può ritenersi storicamente e processualmente accertata all’esito del processo sulla strage di Capaci, da cui emerge anche la condanna passata in cosa giudicata di Benedetto Santapaola per quel delitto, a riprova del coinvolgimento dell’intera “cosa nostra” siciliana nella deliberazione dalla quale scaturì (anche) la strage di Capaci.
Così come può ritenersi provato che l’originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all’esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del dott. Carnevale, dell’esito infausto che questo avrebbe avuto) e che Iii recepito senza alcuna opposizione all’interno dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici “storici” della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina.
E ulteriore e definitivo riscontro la Corte ritiene di poter ricavare dalle parole dello stesso Salvatore Riina, intercettate nel 2013 all’interno del carcere in cui il predetto era detenuto, [...].
Ma la Corte tiene a sottolineare, per la refluenza sull’accertamento dei fatti qui in contestazione che in quella prima fase — e, sino al giugno 1992 — non v’era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l’assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di “trattare” contropartite di sorta ovvero di subordinare l’inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato.
E tuttavia comincia a farsi strada l’idea che una manifestazione eclatante di potenza e ferocia distruttiva, avrebbe potuto indurre o costringere lo Stato a venire a più miti consigli, ovvero a ripiegare su un atteggiamento di non belligeranza, invece che di risoluto contrasto: come del resto era sempre stato, almeno prima che sulla scena irrompessero irriducibili antagonisti del potere mafioso (ovvero, magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e gli altrettanti validi investigatori che li affiancavano). Atteggiamento al quale, almeno nell’ottica mafiosa, poteva ricondursi l’esito di molti processi conclusasi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxiprocesso, con sentenze o che negavano addirittura l’esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell’assoluzione per insufficienza di prove.
UNA DUPLICE FINALITÀ STRATEGICA
Le condanne fioccate all’esito del primo maxi processo evidenziavano quindi un chiaro indebolimento dell’associazione mafiosa — ed, in primis, della leadership di Salvatore Riina — per non essere più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite, ad “aggiustare” quel processo e, conseguentemente, ad ottenere un risultato che in passato e sino ad allora era stato indice della potenza intimidatrice della mafia, ma anche — e forse soprattutto puntualizza ancora la Corte — della capacità di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e controinteressi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori).
Salvatore Riina non poteva subire, senza reagire a suo modo, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership: e opta per una reazione preventiva, senza attendere la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l’insoddisfazione del “popolo” di “cosa nostra” e il risentimento nei confronti del capo incontrastato che si era fatto garante di un risultato favorevole fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo.
Ma emerge anche l’interesse di Riina a coinvolgere i vertici di “cosa nostra” in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, segnando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che avessero approvato quella strategia a non poter più recedere da quella decisione; e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di “cosa nostra” in opposizione al “ridimensionato” Salvatore Riina.
Ecco perché già all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di “cosa nostra” e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l’esecuzione dell’omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992; seguito a breve distanza di tempo, prima dall’omicidio del M.llo Guazzelli (4 aprile) e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico, quella di Capaci (23 maggio): che non a caso fu voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia (nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), perché occorreva ricorrere ad una terrificante manifestazione di potenza, che incutendo terrore nella popolazione, e dimostrando la capacità di Cosa Nostra di colpire lo Stato nei suoi uomini-simbolo, valesse a rinsaldare e ricostituire la capacità d’intimidazione dell’organizzazione mafiosa e la forza del suo capo. E all’omicidio Lima e all’uccisione del Maresciallo Guazzelli la sentenza dedica una riflessione specifica per la loro refluenza sulla ricostruzione dei prodromi della vicenda che costituisce specifico oggetto del processo.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Gli indicibili segreti e quelle verità irraggiungibili per la giustizia. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 ottobre 2022
Autentici buchi neri della storia giudiziaria del terribile biennio 1992-93, come il suicidio di Antonino Gioè (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato), trovato cadavere e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sia consentito, in avvio di motivazione, svolgere alcune brevi considerazioni il cui senso potrà più compiutamente intendersi a esposizione completata.
Lo sforzo di dissecare i fatti sotto la spinta imperiosa del procedimento logico di verificazione delle prove d’accusa e della congruità dei ragionamenti posti a base della decisione impugnata ha prodotto, talvolta, un’involontaria parresia: che è sempre esercizio salutare per chi, senza bramarlo, accetti di essere prigioniero della verità, più che possederla.
E le vicende oggetto di questo processo lasciano intravedere una dimensione che va ben oltre i limiti accessibili ad una verità modesta qual è la verità processuale, la cui ricerca si snoda lungo un sentiero stretto, per ciò che concerne il giudizio d’appello in particolare, tra una prova di resistenza dell’apparato argomentativo che supporta le impugnate pronunce di condanna alla confutazione opposta dagli argomenti difensivi a sostegno dei proposti gravami e i limiti anche temporali di approfondimento imposti dal rispetto di regole processuali di utilizzabilità probatoria, o da regole di giudizio o di preclusioni che inevitabilmente imbrigliano il principio generale di ricerca della verità dei fatti, quando non anche quello del libero convincimento del giudice; e su tutti, naturalmente il limite del devolutum.
SOSPETTI MAI PROVATI
Sullo sfondo dei temi trattati in questo processo e di quelli che sono stati oggetto di una defatigante fase di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, si stagliano indagini, alcune già espletate, altre ancora in corso o che meriterebbero di essere riprese, molto più meritorie di quella che questa Corte non ha potuto o non è stata in grado di sviluppare nell’espletamento del compito demandatole.
Ci si riferisce all’indagine che ha portato alla luce la consuetudine inveterata di contatti o di legami tra organizzazioni criminali mafiose e esponenti dei Servizi segreti, che, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia calabresi, raccolte nel processo sulla c.d. “ndrangheta stragista” risalirebbe ai primi anni ‘70 e alla stagione dei lucrosi sequestri a scopo di estorsione. ma si sarebbero estesi anche a trarne eversive, in relazione a rapporti con personaggi al contempo intranei alla ‘ndrangheta e vicini a o membri di organizzazioni gravitanti nell’area dell’eversione neo fascista.
E all’indagine sulla Falange Armata, sigla con cui sono stati rivendicati numerosissimi episodi delittuosi ai danni, di uomini delle istituzioni e di soggetti che operavano in particolare nel settore carcerario, compresi quelli della campagna stragista varata dai corleonesi contro lo Stato e la politica (dall’omicidio Lima al gesto dimostrativo dell’obice di mortaio fatto trovare al Giardino dei Boboli a Firenze; e poi l’attentato di via Fauro a Roma, la strage di via dei Georgofili a Firenze, i successivi attentati di Roma e Milano nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993). E, ancora, alle indagini sui c.d. mandanti occulti delle stragi, sia quelle siciliane del ‘92 che le stragi in continente dell’anno successivo.
E alla vicenda della mancata strage allo Stadio Olimpico di Roma, prevista per il 23 gennaio 1994, che, nei propositi vagheggiati da Giuseppe Graviano, avrebbe dovuto coronare una strategia destabilizzante volta a ridurre lo Stato in ginocchio e cambiare per sempre il volto e le sorti del paese.
E ci riferiamo altresì ad autentici buchi neri della storia giudiziaria del terribile biennio 1992-93, come il suicidio di Antonino Gioè (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato in quel “covo” di via Ughetti dove si nascondeva, pur non essendo attinto da ordini di custodia cautelare insieme al suo sodale, Gioacchino La Barbera, arrestato qualche giorno dopo nel nord Italia: e in quello stesso stabile erano ubicati appartamenti in uso ai servizi), trovato cadavere, e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto; il duplice omicidio di Vincenzo Milazzo e della fidanzata, Antonella Bonomo che vide mobilitati in prima persona, nella deliberazione e poi nell’esecuzione del duplice delitto, lo stesso Salvatore Riina e alcuni dei capi corleonesi a lui più vicini, e che venne commesso nei giorni in cui fervevano i preparativi per la strage di via D’Amelio; il ruolo di Paolo Bellini (proveniente dalle fila dell’eversione nera, divenuto killer della ‘ndrangheta, sospettato dagli stessi mafiosi cui era in contatto, ma non solo da loro, di trescare con i Servizi e recentemente condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna), quale suggeritore dell’opportunità, per Cosa Nostra, di mutare target nella scelta degli obbiettivi degli attentati da realizzare, e che sarebbero stati lumeggiati già a partire dalla fine estate-autunno del ‘92. Sarebbero tutti temi meritevoli di approfondimento, mentre questa Corte non ha potuto dedicarvi nulla di più che qualche fugace cenno. SENTENZA CORTE D'APPELLO
Le accuse (cadute) contro i potenti ministri della Prima Repubblica. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 ottobre 2022
E sotto accusa la politica lo è stata in questo processo esplicitamente, e in persona di due suoi autorevoli esponenti, attinti dall’imputazione di avere concorso al reato di minaccia a corpo politico dello Stato: Marcello Dell’Utri e Calogero Mannino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Si staglia invece, sullo sfondo di quasi tutte le vicende che più specificamente ricadono nell’oggetto dell’imputazione per cui qui si procede, il ruolo della politica, come era inevitabile che fosse per il tenore stesso con cui è stato confezionato il capo d’accusa.
E sotto accusa la politica lo è stata in questo processo esplicitamente, e in persona di due suoi autorevoli esponenti, attinti dall’imputazione di avere concorso al reato di minaccia a sorpo politico dello stato.
E precisamente, l’uno (Dell’Utri) come intermediario, che si sarebbe proposto inizialmente (in epoca successiva all’omicidio Lima) ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore dei vertici di Cosa Nostra per mediarne la pretesa di ottenere i benefici pretesi come condizione per la cessazione delle stragi: un’accusa che però è caduta già all’esito del giudizio di primo grado; e poi, rinnovando tale interlocuzione, dopo gli arresti di Vito Ciancimino e di Salvatore Riina, così agevolando il progredire della “trattativa” stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista; e segnatamente, agevolando materialmente la ricezione ditale minaccia presso alcuni destinatari che la stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come Capo del Governo: accusa che, come si vedrà, sconta un’insuperabile carenza di prova dell’ultimo passaggio (una sorta di “ultimo miglio” del percorso probatorio d’accusa) della sequenza fattuale necessaria per poter validare l’ipotesi accusatoria secondo cui Dell'Utri, dopo avere intrattenuto reiterati contatti con l’emissario di Cosa Nostra, identificato nella persona di Mangano Vittorio, avrebbe veicolato la minaccia di cui questi era latore fino al Presidente del Consiglio e quindi al Governo in carica. Una carenza che non può essere compensata dal rifiuto opposto da Silvio Berlusconi - avvalendosi (su consiglio dei suoi legali) della facoltà di non rispondere che la legge gli riconosceva [...] di sottoporsi all’esame testimoniale che era stato disposto da questa Corte su specifica richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (tale richiesta era stata avanzata dalla difesa dell’imputato Dell'Utri, rivendicando il proprio diritto a fare esaminare un teste a discarico la cui versione dei fatti, alla luce della pronuncia di condanna e del percorso logico probatorio su cui la Corte di primo grado aveva ritenuto di fondare quella pronuncia, aveva assunto una rilevanza potenzialmente decisiva dal punto di vista della difesa, per smentire la prospettazione accusatoria).
Il rifiuto predetto, come si vedrà, è processualmente un dato neutro per la molteplicità delle ragioni che possono stare alla base di quella scelta. E quindi non se ne possono trarre implicazioni significative a supporto dell’accusa (argomentando a contrariis dal fatto che Berlusconi abbia deluso l’aspettativa difensiva di una secca smentita dell’avere egli, nella qualità di presidente del Consiglio e quindi capo del Governo in carica, ricevuto minacce di qualsiasi genere attraverso interlocuzioni con il Dell’Utri). In particolare, che il teste assistito (ma sentito [...] essendosi accertato che era iscritto nel registro degli indagati per reati connessi-collegati a quello per cui qui si procede, e segnatamente le stragi del 93/94) si sia rifiutato di rispondere per non incorrere in un’incriminazione per falsa testimonianza, se avesse smentito di avere ricevuto la minaccia assenta dall’accusa, è solo una, e neppure la più probabile, delle letture possibili di quel silenzio, considerato il prevedibile sviluppo del tracciato di prova, soprattutto nel contro-esame del p.g.
LE ACCUSE CONTRO MANNINO
L’altro esponente politico di rilievo a sedere sul banco degli imputati, Calogero Mannino, era accusato di essere stato addirittura l’autore della condotta che avrebbe innescato la trattativa con i vertici dell’organizzazione mafiosa, istigando per cosi dire gli istigatori (Mori, De Donno e Subranni) ad aprire un canale di comunicazione con i predetti vertici, condotta finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra per fare cessare la programmata strategia omicidiaria
stragista, già avviata con l'omicidio dell'on. Salvato Lima, e che aveva inizialmente previsto l'eliminazione, tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra cui egli stesso Mannino; ed accusato poi di avere esercitato indebite pressioni per fare ottenere ai detenuti mafiosi provvedimenti favorevoli in ordine all’applicazione del 41 bis (che era una delle principali richieste avanzate da Cosa nostra nel quadro di un’azione più complessiva di ricatto allo Stato).
La posizione del Mannino è stata stralciata, e il separato procedimento a suo carico è stato definito con sentenza del 4.11.2015 del gup presso il Tribunale di Palermo che lo ha assolto con la formula «per non aver commesso il fatto come ascrittogli»; assoluzione che è stata confermata in appello (con sentenza n. 3920/2019 deI 22.07.2019) ed è passata in cosa giudicata avendo la Corte di Cassazione, come si vedrà, dichiarato inammissibile il ricorso proposto al p.g. (v. sentenza n. 1156 dell’11.12.2010).
Ma ampio spazio è stato dedicato nella motivazione della decisione impugnata alla prima delle due condotte contestate, per il ruolo decisivo che essa avrebbe avuto nello sviluppo della vicenda, pur ritenendo il giudice di prime cure di dover derubricare quella condotta a mero antecedente causale del successivo iter realizzativo del reato per cui si procede.
Il tentativo del P.G in questa sede di rilanciare l’ipotesi accusatoria che attribuiva al Mannino un ruolo propulsivo dell’intera vicenda non ha trovato conforto adeguato, ad avviso di questa Corte, nelle risultanze acquisite.
Detto questo, gli esiti dell’accusa nei riguardi di influenti esponenti del mondo della politica e dell’imprenditoria votatasi anche alla politica sono forse meno troncanti di quanto non dica il responso processuale finale nei riguardi dei due imputati menzionati. E sono tutto sommati coerenti alla storia dei tormentati rapporti tra mafia e politica, addicendosi loro la tonalità del grigio.
MANCINO, SOSPETTATO DI ESSERE IL TERMINALE DELLA TRATTATIVA
E un terzo non meno autorevole uomo politico, il Senatore Nicola Mancino, Ministro dell’Interno all’epoca dei fatti di causa, è stato attinto dal sospetto di essere stato il terminale della trattativa avviata da Mori e De Donno con Vito Ciancimino e autorizzata da Riina. Un sospetto ingenerato dalle propalazioni improbabili di Massimo Ciancimino che si riportava ad assente elucubrazioni del
padre e a indicazioni desunte dai sui scritti, nonché a tardive propalazioni di Giovanni Brusca, che per la prima volta nel 2001- quando già era edotto delle testimonianze rese da Mori e De Donno al processo di Firenze — fece il nome di Mancino come terminale della trattativa, asserendo che come tale gli fosse stato indicato da Salvatore Riina la seconda volta che ebbe a parlargli della vicenda del c.d. “papello”.
Un sospetto che è sfociato “solo” nell’imputazione elevata nei riguardi del Senatore Mancino per il reato di falsa testimonianza (per avere negato, deponendo al processo a carico di Mori e Obinu, di avere mai saputo dei contatti intrapresi dai Carabinieri del R.O.S. con Vito Ciancimino; e delle lagnanze espresse al riguardo dal Ministro Martelli; e ancora per avere negato di avere saputo nulla delle recondite motivazioni che avrebbero portato alla sua designazione per la carica di Ministro dell’interno del Governo Amato in luogo del Ministro uscente, Vincenzo Scotti), da cui è stato assolto con ampia formula.
Ma il ruolo e i volti della politica evocati in questo processo erano anche altri, come poteva evincersi già da ammiccamenti del costrutto accusatorio (come quelli che dietro l’accusa di avere concorso al reato, rivolta a uomini delle istituzioni come il Capo della Polizia Vincenzo Parisi e al vice direttore generale del Dap, Francesco Di Maggio, entrambi deceduti, in relazione a vicende come l’avvicendamento dei vertici del Dap, con la cacciata del Direttore Nicolò Amato e la sostituzione anche del suo vice con il predetto Di Maggio), inevitabilmente chiamavano in causa le più alte cariche dello stato, nel tessere l’ordito probatorio che avrebbe dovuto sostenere l’accusa: che poi era, in definitiva, quella di avere assecondato scelte che, per quanto valutazione e scelte di opportunità politica, e tanto meno fame materia di imputazione per specifiche fattispecie di reato, come quella per cui qui si procede.
Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il Ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso “oggettivo” alla realizzazione del reato, o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’avere ignorato i retroscena più inquietanti) è, a parere di questa Corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, frutto di un errore di sintassi giuridica. SENTENZA CORTE D'APPELLO
L’“improvvida iniziativa” dei carabinieri mai autorizzata dall’alto. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 ottobre 2022
I Carabinieri non ebbero alcuna autorizzazione da parte di esponenti di governo ad esplorare la possibilità di un negoziato con Cosa Nostra. L’improvvida iniziativa dei carabinieri fece sì che prendesse corpo e poi si rafforzasse il proposito non più di una generica intimidazione ma di un vero e proprio ricatto allo stato
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La trattativa, qualsiasi trattativa che non si discosti dall’accezione comune con cui è intesa tale locuzione, postula un'interlocuzione tra due o più parti finalizzata a giungere ad un accordo che si sostanzi in reciproche rinunce e concessioni.
Essa prefigura quindi uno scenario incompatibile con il reato di minaccia qualificato che riproduce lo schema del reato di ricatto previsto dal Codice Zanardelli non essendo necessario che il soggetto agente consegua il risultato cui è preordinata la minaccia.
È infatti un atto unilaterale di coartazione della volontà altrui, perpetrato nei confronti di uno o più soggetti predeterminati e volto non già a realizzare un assetto di reciproco contemperamento degli opposti interessi, bensì ad imporre la propria volontà alla controparte, coartandone la volontà per evitare di subire un danno ingiusto che si prospetta alla vittima, ove non dovesse cedere alle pretese dell’autore della minaccia.
Se dunque fosse vero che il governo o un’autorità rappresentativa dello stato è stata parte di una trattativa, in ipotesi con i vertici dell’organizzazione mafiosa, ovvero di una negoziazione basata su uno scambio di reciproche concessioni e rinunce, allora esso non potrebbe al contempo considerarsi vittima del reato di minaccia a corpo politico dello stato poiché nell’ambito di un accordo “negoziale”, lo stesso governo non potrebbe considerarsi come coartato nelle sue scelte e nella volontà di addivenire a un accordo. E quindi se vi fu trattativa, non ci sarebbe alcun reato.
Se invece fosse vero che non v’è stata alcuna negoziazione, ma solo un’imposizione unilaterale di richieste accompagnate dalla prospettazione di ritorsioni violente nel caso di mancato accoglimento, occorrerebbe dimostrare che i carabinieri, che si erano in ipotesi attivati per favorire l’apertura di un dialogo al fine di giungere ad un intesa — cioè una vera e propria trattativa tra lo Stato e la mafia — si siano prestati a veicolare al governo non più una proposta, o l’accettazione della proposta di avviare un negoziato, ma la minaccia tout court di ulteriori stragi se non fossero state accolte le richieste di Cosa nostra.
Nella prospettazione comune agli atti d’appello delle difese dei tre ex ufficiali del Ros queste preliminari considerazioni metterebbero già in evidenza vizi genetici e insuperabili del costrutto accusatorio.
LA MANCATA PROVA DEL RUOLO DI MANNINO
Si vedrà però come la mancata prova del ruolo propulsivo di Calogero Mannino, unita alla certezza che i carabinieri non ebbero alcuna autorizzazione da parte di esponenti di governo ad esplorare la possibilità di un negoziato con Cosa nostra, imponga si un ripensamento dell’originaria prospettazione accusatoria, ma senza per questo pregiudicare la validazione sul piano probatorio dell’assunto secondo cui il reato è configurabile e si è perfezionato.
Resta infatti accertato, sul piano oggettivo, l’apporto che l’improvvida iniziativa dei carabinieri, attraverso la sollecitazione a trovare un intesa, trasmessa da Vito Ciancimino - per il tramite di Cinà - ai vertici mafiosi e la conseguente aperture, agli occhi dei medesimi vertici, di un canale di comunicazione con un’autorità di governo sovraordinata a quelli che essi ritenevano suoi emissari ebbe nel far sì che prendesse corpo e poi si rafforzasse, con il progredire dell’interlocuzione tra gli ufficiali del Ros e il Ciancimino, il proposito non più di una generica intimidazione, qual era quella che poteva rinvenirsi nei primi eclatanti delitti che scandirono lo sviluppo della strategia di contrapposizione frontale allo stato iniziata con l’omicidio Lima, ma di un vero e proprio ricatto allo stato.
Un rafforzamento che ulteriore alimento avrebbe tratto persino dal “congelamento” della trattativa (e più esattamente della prima fase della trattativa che certamente vi fu tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros), creando le premesse per il protrarsi e il rinnovarsi della condotta di minaccia, sino alla sua effettiva consumazione (almeno in danno in particolare del governo Ciampi).
LA MINACCIA “CONSUMATA”
Su quest’ultimo punto, per le ragioni che saranno esposte in prosieguo, questa Corte condivide la conclusione cui è pervenuto il giudice di prime cure secondo cui il reato può dirsi consumato in ragione della ricezione della minaccia da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso.
E la prova ditale ricezione non si ricava solo e tanto dalla decisione di non prorogare i decreti applicativi del 41 bis che andavano a scadere nel mese di novembre del ‘93, un certo numero dei quali interessavano affiliati a Cosa nostra e ad altre organizzazioni criminali di stampo mafioso (una decisione che andava incontro alle pretese estorsive di Cosa nostra, ma che di per sé non sarebbe stata necessaria ai fini del perfezionamento del reato che, essendo configurato come reato di pericolo, non richiede il conseguimento del risultato cui è preordinata la minaccia); ma si evince anche e soprattutto dalle ragioni poste a fondamento di quella decisione: il cui significato effettivo, però, non può intendersi senza considerare che ad essa fece seguito, due mesi dopo, una decisione esattamente speculare del ministro, nel senso di rinnovare in blocco i decreti applicativi del 4 bis che concernevano gli esponenti presumibilmente più pericolosi e di maggiore spicco delle medesime organizzazioni criminali.
Sono le ragioni giustificative di quella scelta a postulare che una fonte avveduta e bene informata delle dinamiche criminali in atto all’interno dell’organizzazione mafiosa più temibile e artefice degli ultimi attentati che avevano insanguinato le strade delle principali città italiane, avesse rappresentato l’opportunità di un gesto di distensione che valesse a far decantare la tensione, nonostante il rischio che venisse interpretato come un segno di debolezza dello Stato e un cedimento al ricatto sotteso alle bombe di Firenze, di Milano e di Roma.
Le difese ravvisano una contraddizione nel ragionamento della Corte di primo grado che, da un lato, afferma di non avere motivo di dubitare della sincerità del Ministro Conso quando ha sostenuto dinanzi alla commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal Sentore Pisanu, di non avere mai saputo nulla di trattative con Cosa nostra; dall’altro, afferma che la mancata proroga dei decreti di novembre tradisce una precisa volontà del ministro di compiere un gesto di distensione che favorisse il raggiungimento di un’intesa per la cessazione delle stragi, che era precisamente la finalità della presunta trattativa.
In realtà, per le ragioni già sommariamente anticipate, ma che saranno meglio illustrate in prosieguo, non era affatto necessario che il ministro venisse edotto che vi fossero state già delle interlocuzioni tra esponenti istituzionali ed esponenti mafiosi per giungere ad un accordo fatto di reciproche concessioni e rinunce.
Ma era sufficiente, per poter affermare che gli fu veicolata la minaccia qualificata per cui qui si procede, che un intermediario previamente edotto delle principali rivendicazioni di Cosa nostra — intermediario che le risultanze probatorie conducono a identificare nella persona del Vice direttore generale de dap Francesco Di Maggio, e che a sua volta poteva anche essere ignaro di pregresse interlocuzioni sul tema — gli avesse illustrato la sussistenza di uno specifico collegamento tra gli ultimi attentati e la pretesa dell’organizzazione mafiosa di ottenere un allentamento della stretta carceraria.
MORI E IL CAPO DEL DAP DI MAGGIO
Le risultanze acquisite rendono poi più che probabile, e suffragata da un alto grado di credibilità razionale, l’ipotesi che sia stato proprio Mario Mori – che nel curare personalmente i contatti e i rapporti con il Dap si relazionava con il dott. Di Maggio, e con lo stesso ebbe un incontro il 22 ottobre 1993, pochi giorni prima che venisse a scadere la prima tranche dei decreti non prorogati – a rendere edotto il Di Maggio non solo di quel collegamento, ma della necessità/opportunità di operare determinate scelte in relazione a quel collegamento (scelte che però come già anticipato sono molto più complesse e diverse dal mero intento di lanciare un segnale di distensione che mostrasse la disponibilità del governo ad accogliere almeno alcune delle richieste di Cosa nostra).
È vero che la sentenza di primo grado non specifica il modo in cui Mori avrebbe trasmesso la minaccia, affidandosi alla presunzione che ciò sia avvenuto attraverso rapporti instaurati dallo stesso Mori con il dott. Di Maggio — o più esattamente, ripresi dopo che quest’ultimo era stato nominato vice direttore del Dap, con il contributo, secondo il giudice di prime cure, anche di Mori - e i contatti che ebbero sulle problematiche dei detenuti mafiosi (e quindi sul 41 bis).
Non si può quindi del tutto escludere che le richieste estorsive di Cosa nostra abbiano raggiunto il governo in carica, naturale destinatario della minaccia ex an. 338 c.p., nella persona del ministro competente per materia, per una via diversa e autonoma rispetto all’interlocuzione iniziale, incentrata sull’intermediazione di Ciancimino e di Cinà.
E cioè con l’intervento di un fantomatico suggeritore del Di Maggio, diverso da Mori; o direttamente, attraverso il messaggio intimidatorio contenuto negli attentati di Milano e di Roma del 27-28 luglio che si saldavano alla strage di via dei Georgofili in un disegno unitario, condensato nell’espressione coniata da Luciano Violante di “bombe del dialogo”: che, nelle intenzioni dei vertici mafiosi, volevano essere una rinnovazione della minaccia che essi ritenevano essere già pervenuta al governo attraverso il canale di comunicazione aperto con la mediazione di Vito Ciancimino (mentre così non fu).
Un messaggio che però sarà decodificato, non senza contrasti e dissensi almeno inizialmente, dai migliori analisti degli apparati investigativi e di intelligence dell’epoca già a partire da agosto del ‘93, ma che non risulta abbia mai dato luogo a prese di posizioni specifiche e ufficiali del governo, da cui possa desumersi che se ne fosse discusso e che il governo nella sua totalità fosse edotto della minaccia. Sicché la prima prova certa che ciò sia avvenuta risale proprio alle decisioni adottate al ministro Conso.
Ma anche se, come diversi indicatori fattuali convergono a far ritenere, fosse provato invece che fu Mori a informare Di Maggio e convincerlo dell’opportunità di lanciare certi segnali e quindi di adoperarsi a sua volta nei riguardi del ministro Conso per orientarne le scelte (a partire da quella di non prorogare i decreti che scadevano a novembre), coltivando sempre il disegno che aveva intrapreso già nell’estate del ‘92 (e che però, come si vedrà, non fu affatto quello che il primo giudice gli attribuisce), sarebbe comunque provato che la minaccia si consumò in tempi, e con modalità e attraverso vie che non erano quella originariamente divisata dai vertici mafiosi.
Si obbietta quindi che sarebbe intervenuta una serie causale autonoma, idonea a produrre l’evento finale (ovvero l’intimidazione nei riguardi della vittima resa edotta della minaccia) in modo indipendente dall’asserito apporto causale dei carabinieri, che si fa risalire alla sollecitazione al dialogo rivolta a Riina attraverso la mediazione di Ciancimino.
Ma è agevole replicare che ciò farebbe venire meno, a tutto concedere, il nesso causale tra la realizzazione del reato e l’apporto materiale sostanziatosi nell’apertura di un canale di comunicazione attraverso cui veicolare la minaccia (nel senso che non è attraverso quel canale che la minaccia avrebbe raggiunto il suo destinatario). Ma lascerebbe comunque intatto — restando però impregiudicata la questione della sussistenza del dolo di concorso nella minaccia, che schiude un altro capitolo di riflessione e di verifica probatoria – l’apporto di tipo squisitamente istigatorio, ripetutamente evidenziato dal giudice di prime cure.
Per gli autori in senso stretto della minaccia si profilerebbe una sorta di aberratio causae, perché l’evento voluto, e cioè che la minaccia con il correlato effetto intimidatorio pervenisse al governo, si realizzò, ma non nel modo in cui essi lo avevano prefigurato e che ritenevano (errando) si fosse già realizzato, bensì con delle condotte successive che si tradussero, da parte dei mafiosi, in ulteriori atti di violenza stragista mirati, nelle intenzioni dei (nuovi) vertici di Cosa nostra, a rinnovare la minaccia che essi credevano essersi già perfezionatasi, per indurre le autorità di governo a scendere a patti con l’organizzazione mafiosa, riprendendo il filo del dialogo che si era interrotto nell’autunno del’92, quando a Salvatore Riina fu comunicato che la trattativa doveva intendersi sospesa perché le sue richieste erano state ritenute eccessive.
Ma la nuova serie causale, contrariamente all’assunto delle difese, non costituirebbe una causa sopravvenuta e idonea a spezzare il nesso causale con la pregressa condotta dei carabinieri, perché si legherebbe sul piano logico fattuale a quella condotta che aveva suscitato il convincimento che lo stato fosse disponibile a trattare — dopo le prove di terrificante potenza distruttiva che Cosa nostra aveva dato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio — e che quella strategia, a suon di bombe e attentati eclatanti, fosse la via più efficace per costringere lo stato a venire a patti o a cedere alle richieste estorsive dei mafiosi.
E come insegna una costante e pacifica giurisprudenza di legittimità, «Sono cause sopravvenute o preesistenti, da sole sufficienti a determinare l’evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta dell’imputato. Ne consegue che non possono essere considerate tali quelle che abbiano causato l’evento in sinergia con la condotta dell’imputato, atteso che venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato». [...]. SENTENZA CORTE D'APPELLO
Un’attività di “intelligence” per disinnescare la miccia delle stragi. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 ottobre 2022
L’insieme delle risultanze acquisite conduce a ipotizzare che quella ideata ed orchestrata da Mori, con l’iniziale avallo di Subranni e l’apporto di De Donno, non fu una mera iniziativa di polizia giudiziaria, ancorché spregiudicata, ma un’operazione molto più complessa e ambiziosa, più di intelligence che non di polizia, con l’obbiettivo di disinnescare la minaccia stragista
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
[...] Il vero problema è che una trattativa può essere, e lo è stato nel caso di specie, una sorta di telaio nel quale si tessono e si ricamano le trame più disparate, originate da soggetti che a vario titolo vi intervengono, perseguendo ciascuno i propri interessi e un proprio disegno.
Con la conseguenza che, nel dare corso al proprio intervento, ciascuno degli attori in campo disegna traiettorie che a volte convergono con quelle degli altri, a volte si intersecano solo per alcuni tratti; altre volte, invece, si sviluppano asintoticamente le une alle altre.
Allora, il punto che rileva ai fini del presente giudizio - e della verità processuale cui si può approdare con tutti limiti sopra richiamati cui può aggiungersi quello di un accertamento giudiziale che si addentra in vicende di rilievo storico e che rimandano anche a dinamiche e strategie di natura politica - sta nel verificare se, nella trattativa che si è accertato essere avvenuta, anzitutto, tra il Rosdiretto da Mario Mori e Vito Ciancimino, ovvero tra le sue pieghe e in alcune fasi del suo svolgimento, e poi nei successivi sviluppi cui essa diede luogo, non si annidino condotte penalmente rilevanti.
È chiaro che se si ritenesse che il fatto che Ufficiali di polizia giudiziaria ed alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri o esponenti di istituzioni dello Stato abbiano avuto contatti con esponenti mafiosi per trovare un accordo al fine di porre fine alla violenza stragista, sia per ciò stesso un atto di “intelligenza con il nemico” o di induzione a un cedimento dello Stato a intollerabili pretese di natura estorsiva, sarebbe difficile negare l’intrinseca illiceità penale di una trattativa così concepita.
In realtà, la trattativa è un contenitore nel quale possono innestarsi le condotte più disparate; e per stabilire se ve ne siano di penalmente rilevanti, occorre accertare chi tratti e con clii; e con quali finalità, e quale ne sia l’oggetto; e le circostanze e le modalità che ne connotano genesi e svolgimento.
Contattare dei mafiosi per averne un aiuto ad attuare un disegno preordinato può assumere connotati completamente diversi, a seconda delle finalità che si perseguono ma anche dei costi che si è disposti a sopportare e dei mezzi impiegati per realizzarlo.
Non si può pensare che a soggetti vicini od organici alle consorterie mafiose possa venire una collaborazione spontanea e disinteressata; e quindi sollecitare un accordo, quando non tradisca una sostanziale collusione da parte di infedeli servitori dello stato - ma non è questo il caso di specie - implica pur sempre la disponibilità a offrire qualcosa in cambio. E in questo senso è vero che non vi può essere trattativa senza uno scambio di favori o di vantaggi reciproci.
Ed è altrettanto vero che se lo scambio consiste nella rinunzia anche parziale all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato a vantaggio di un’organizzazione criminale che in cambio desista dal proposito di continuare a commettere delitti, stragi, attentati, seminando morte e terrore nella collettività, allora sembra difficile sfuggire alla conclusione che uno scambio in questi termini altro non sia che propiziare, da parte degli esponenti istituzionali in ipotesi fautori dell’accordo, un vero e proprio cedimento dello Stato a pretese estorsive di inaudita violenza e tracotanza, e comunque un adoperarsi per influenzare le scelte del governo in senso conforme alle aspettative e pretese dei mafiosi.
LE FINALITÀ DELLA “TRATTATIVA”
In realtà, anche in questi termini, più consentanei alla prospettazione accusatoria per ciò che concerne la ritenuta rilevanza penale, e in chiave concorsuale, della condotta dei carabinieri, non è irrilevante stabilire se le finalità ultime siano state quelle di arrestare l’escalation di violenza mafiosa, foriera di ulteriori spargimenti di sangue dopo le due terribili stragi che avevano funestato l’estate del ‘92, o, principalmente, di salvare la vita a singoli esponenti politici, condannati a morte dal “tribunale” di Cosa nostra o probabile bersaglio della sua furia ritorsiva, e con i quali intercorrevano relazioni di interesse e non solo conoscenze e contatti occasionati dai rispettivi impegni istituzionali.
E soprattutto, ma su questo già la sentenza di primo grado ha posto un punto fermo, deve essere chiaro che compete(va) alla politica, o meglio alle istituzioni di governo della Repubblica, di stabilire se accettare o no di venire a patti anche con le più scellerate organizzazioni criminali, se ciò potesse servire a salvare vite umane e arrestare un’ondata di violenza destabilizzante per l’intero Paese e per la tenuta delle stesse Istituzioni (purché, chiosa il giudice di prime cure, tutto avvenga entro il perimetro della legalità e del rispetto delle leggi e delle norme vigenti).
La scelta, per contro, della linea della fermezza è un’opzione che può pure ritenersi condivisibile o auspicabile o doverosa anche in situazioni estreme, ma resta un atto di discrezionalità politica come lo sarebbe l’opzione contraria, favorevole a trovare un accordo (con la controparte mafiosa).
E una scelta tra le due opposte opzioni è un atto insindacabile, comunque sottratto a qualsiasi sindacato giudiziale, se posto in essere nell’esercizio di quella discrezionalità e con la conseguente assunzione di responsabilità politica.
Non compete però ad altri, e tanto meno a organi di polizia giudiziaria, sia pure per le medesime e commendevoli finalità, adoperarsi per condizionare, orientare, influenzare con proprie iniziative scelte che sono di esclusiva competenza della politica e delle autorità di Governo.
Sotto questo profilo, un’iniziativa tutta protesa a favorire l’opzione di trattare per venire a patti con i vertici mafiosi per giungere ad uno scambio fatto di reciproche concessioni e rinunce (ove fosse provato che le cose andarono così), sarebbe invece sindacabile e censurabile perché posto in essere in assoluto contrasto con e in spregio ai propri doveri istituzionali che impongono, ad un ufficiale dell’Arma e tanto più se organo di polizia giudiziaria, in primo luogo di combattere senza tregua e senza ambiguità un’organizzazione criminale che minacciava la sicurezza dell’intera collettività nazionale e pretendeva di intimidire e mettere sotto ricatto lo Stato; e, in secondo luogo, di rimettersi alle determinazioni dell’Autorità politica senza proporsi di orientarne e influenzarne in alcun modo le scelte (ragioni per le quali, come si vedrà, se una simile prospettazione fosse provata di punto di fatto, e ne fosse certa altresì la rilevanza penale ex art. 338 c.p., non potrebbe riconoscersi a beneficio dei tre ex ufficiali del Ros la sussistenza della scriminante o dell’esimente dell’avere agito in stato di necessità).
Ma proprio per gli eventuali profili di rilevanza penale, non è così scontato che sia del tutto indifferente che i carabinieri abbiano agito perché collusi con la mafia - ciò che la sentenza esclude categoricamente e mai l’accusa l’ha sostenuto – o su sollecitazione esterna per tutelare l’incolumità di singoli esponenti politici – ciò che la sentenza impugnata assume come verosimilmente accaduto, senza però farne un presupposto indispensabile per poter giungere all’affermazione della penale responsabilità dei tre ex ufficiali del Ros – o che invece abbiano agito avendo di mira esclusivamente l’obbiettivo di fermare le stragi.
OBIETTIVO: FERMARE LE STRAGI
In altri termini, pur dovendosi escludersi la possibilità di ravvisare l’esimente dello stato di necessità, resta comunque opinabile che sia declinabile nei riguardi dei medesimi ufficiali il dolo di minaccia se la loro iniziativa, che nella prospettazione accusatoria fatta propria dal giudice di prime cure avrebbe prodotto l’effetto acclarato di rafforzare nei vertici mafiosi il proposito di perpetuare un vero e proprio ricatto allo Stato, fu intrapresa esclusivamente al fine di arrestare la spirale della violenza mafiosa e quindi prevenire nuove stragi e nuovi spargimenti di sangue.
Mancherebbe, invero, in radice, e si anticipa qui una delle conclusioni cui questa Corte è pervenuta, il dolo di minaccia, e più esattamente il dolo di concorso nella minaccia a Corpo politico dello stato, perché i carabinieri non vollero (rafforzare) la minaccia mafiosa allo Stato, come mezzo per strappare al governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, a tutto concedere, avrebbero voluto semmai tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto. E quindi mancherebbe una convergenza e comunione di intenti tra concorrenti e autori del reato di minaccia.
Sarà poi esaminata (e respinta) l’obiezione che dal punto di vista accusatorio si può muovere a tale conclusione sotto il profilo che i carabinieri, pur volendo propiziare concessioni a Cosa nostra al solo fine di evitare ulteriori spargimenti di sangue, nella convinzione che quelle concessioni fossero necessarie o utili per indurre Cosa nostra a desistere dalla strategia stragista, essi avrebbero comunque voluto l’effetto di convertire una minaccia cieca e indiscriminata in minaccia qualificata e mirata all’accoglimento di specifiche richieste, e l’avrebbero poi corroborata con il loro comportamento successivo, in quanto mezzo necessario per strappare concessioni che altrimenti il governo, senza la pressione di una minaccia cogente, seria e temibile, non avrebbe accettato di fare.
Ma si vedrà come l’intera problematica della sussistenza del dolo di minaccia deve essere ripensata a partire dalla messa a fuoco dei contorni e dei connotati salienti dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti instaurati con Vito Ciancimino in quell’infuocata estate del ‘92; poiché per sceverarne le reali finalità, occorre attenersi allo svolgimento dei fatti come accertati e nei limiti in cui è stato possibile accettarli.
E si dovrà allora constatare che una valutazione d’insieme delle risultanze acquisite conduce ad asseverare con altro grado di credibilità razionale l’ipotesi che quella ideata ed orchestrata da Mori, con l’iniziale avallo di Subranni, e l’apporto fattivo di De Donno, non fu una mera iniziativa di polizia giudiziaria, ancorché spregiudicata, ma un’operazione molto più complessa e ambiziosa, come comprovato dai contatti intrapresi da Mori e De Donno con esponenti di vertice delle Istituzioni in una fase ancora embrionale ditale iniziativa per assicurarsi la “copertura” politica che avrebbe potuto rendersi necessaria in base ai suoi sviluppi.
E comunque fu un’operazione più di intelligence che non di polizia, e con l’obbiettivo in effetti di disinnescare la minaccia stragista incuneandosi con proposte e iniziative fortemente divisive all’interno di spaccature già esistenti in Cosa Nostra e persino all’interno dello schieramento egemone (quello dei corleonesi).
Ma detto questo, neppure si può accedere alla ricostruzione fattuale sposata dal giudice di prime cure secondo cui i Carabinieri agirono su input di esponenti politici e comunque con l’intento di favorire un dialogo con gli stessi vertici mafiosi che erano responsabili e fautori dello stragismo per giungere con quegli stessi vertici ad un accordo di pacificazione. SENTENZA CORTE D'APPELLO
Accuse mai provate, Calogero Mannino e quelle “sollecitazioni” al Ros. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'08 ottobre 2022
Secondo l’accusa, l’antefatto della cosiddetta “trattativa” risiederebbe nel timore, più che fondato, nutrito da Calogero Mannino a cavallo dell’omicidio Lima di essere ucciso da Cosa Nostra. Un timore lievitato nelle settimane e nei mesi successivi in corrispondenza di un crescendo di minacce nei suoi confronti
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il pg ha dedicato una congrua parte della sua requisitoria finale, corredandola anche di una cospicua memoria, allo sforzo di rilanciare la tesi della colpevolezza di Calogero Mannino in ordine al medesimo reato per cui qui si procede nei riguardi dei suoi presunti correi; o meglio, la tesi di un pieno, attivo e consapevole coinvolgimento del Mannino nella vicenda che ci occupa anche in questa sede, per avere posto in essere entrambe le condotte che gli venivano contestate, [...].
E non lo ha fatto perché insegue un’impossibile e inutile rivalsa rispetto all’esito del separato procedimento definito nei riguardi dello stesso Mannino - che aveva optato per il rito abbreviato - con sentenza emessa dalla I Sezione di questa Corte d’Appello in data 22.07.2019, che ha confermato la sentenza di assoluzione del gup del Tribunale di Palermo ed è divenuta irrevocabile, avendo la Suprema Corte di Cassazione dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal pg avverso la decisione della Corte territoriale (tutte le sentenze del processo stralcio sono state acquisite agli atti del presente giudizio d’appello).
La ragione dell’apparente accanimento processuale risiede piuttosto nella consapevolezza, da parte dell’Ufficio requirente, che il ruolo di Calogero Mannino nella vicenda della c.d. trattativa stato-mafia è un pilastro irrinunciabile dell’intero impianto accusatorio, anche per gli ex ufficiali del Ros suoi originari coimputati e qui giudicati, e non soltanto per loro. E la soluzione “minimalistica” adottata dal giudice di prime cure — quando era ancora pendente il separato giudizio d’appello nei riguardi del Mannino — non è del tutto rassicurante e appagante, per la pubblica accusa.
La Corte d’Assise di primo grado ha preso in considerazione, delle due condotte che si contestavano al Mannino, soltanto la prima, ritenendo di non doversi occupare della seconda condotta perché quest’ultima riguardava specificamente ed esclusivamente la posizione del Mannino, stralciata dal presente procedimento, senza alcuna apprezzabile refluenza sulla posizione dei suoi originari coimputati.
LE ACCUSE A MANNINO
Quanto alla prima condotta, consistita nell’avere creato le premesse causali e motivazionali dell’iniziativa sviluppata dai carabinieri del R.O.S. attraverso i contatti intrapresi con Vito Ciancimino, che diede il via ad un’infausta trattativa con i vertici corleonesi di Cosa Nostra, essa non avrebbe in sé alcuna rilevanza penale, degradando a mero antecedente causale delle successive condotte poste in essere dagli imputati, che avrebbero concorso al reato nella veste di intermediari istituzionali. Per inciso, la separazione chirurgica effettuata dal primo giudice tra le due condotte che si contestavano al Mannino lascia intravedere già una crepa nell’apparto argomentativo della sentenza. Non si comprende infatti come sia possibile che, dopo avere concertato l’avvio di una complessa operazione mirata ad avviare un negoziato con i vertici di Cosa nostra, e quindi ad influenzare le scelte del governo nel senso della disponibilità a fare concessioni in cambio della cessazione delle stragi, sia il Ros, nella persona del generale Mori, sia lo stesso Mannino, in ipotesi mentore di quell’operazione, si sarebbero adoperati per esercitare pressioni sullo stesso soggetto, il dott. Francesco Di Maggio, vice Direttore del ap., affinché questi a sua volta orientasse nel senso da loro auspicato le scelte del Ministro della Giustizia Conso. E lo avrebbero fatto agendo per così dire all’insaputa l’uno dell’altro, o comunque senza curarsi di raccordarsi tra loro, di coordinare le rispettive mosse, con il rischio di intralciarsi a vicenda o di provocare effetti controproducenti come un irrigidimento, o l’irritazione del Di Maggio (che peraltro non risulta avesse alcun tipo di rapporto con il Mannino, al di là del fatto che fossero entrambi siciliani).
Ma anche al netto di simili perplessità, la soluzione chirurgica non basta a preservare l’esito del giudizio di primo grado dalle confutazioni difensive che possono ora avvalersi della ricostruzione fattuale consacrata nel giudicato assolutorio del processo stralcio a carico di Calogero Mannno. Una ricostruzione che nega che il politico siciliano abbia avuto un qualsiasi ruolo nella vicenda che ci occupa; e che quindi esclude anche quel ruolo propulsivo che la Corte d’Assise di primo grado gli ha invece riconosciuto, pur premurandosi di rimarcare come la condotta in cui tale ruolo si sarebbe sostanziato non ha in sé alcuna rilevanza penale e quindi lascia impregiudicata — e a sua volta non ne viene pregiudicata — la questione della penale responsabilità dell’imputato separatamente giudicato in ordine al reato per cui qui si procede.
D’altra parte, la conclusione cui è pervenuto il primo giudice di questo processo in ordine alla condotta del Mannino quale ispiratore dell’iniziativa poi concretamente intrapresa dai carabinieri del Ros è, nei suoi risvolti fattuali, piuttosto nebulosa e quindi già fragile in sé, a prescindere dalla forza d’urto di un giudicato che si pone in netto contrasto con la ricostruzione sposata dalla sentenza qui appellata. Ivi si assume come provato non già quello specifico ed esplicito mandato ipotizzato dall’accusa, secondo quanto recitava il capo d’imputazione, ma solo una non meglio precisata “sollecitazione” che, non è dato sapere in che modo e in che termini il Mannino avrebbe rivolto al Subranni - che a sua volta avrebbe girato tale sollecitazione agli ufficiali a lui direttamente sottoposti, e cioè Mori e De Donno - una sollecitazione volta anche solo “implicitamente” ad adoperarsi per verificare la disponibilità dei vertici mafiosi a trattare.
Nell’originaria prospettazione accusatoria, l’antefatto della vicenda che qui ci occupa risiederebbe nel timore, più che fondato, nutrito da Calogero Mannino a cavallo dell’omicidio Lima di essere ucciso da Cosa Nostra. Un timore lievitato nelle settimane e nei mesi successivi in corrispondenza di un crescendo di minacce nei suoi confronti e per essere stato avvicinato da emissari mafiosi, vuoi per indurlo ad adoperarsi in favore di Cosa Nostra, all’indomani del disastroso (per gli interessi mafiosi) esito del maxi processo, che gli presentava così il conto di pregressi e accertati rapporti di vicinanza su cui aveva costruito buona parte delle sue fortune sia politico-elettorali che affaristiche; vuoi per chiedergli conto del suo operato.
L’omicidio del maresciallo Guazzelli, un avvertimento o una vendetta? SENTENZA CORTE D'APPELLO Il Domani il 09 ottobre 2022
Mannino era nella lista dei politici condannati a morte, ed egli era ben consapevole di quanto la sua posizione fosse assimilabile a quella di Salvo Lima, e ne aveva parlato, confidando loro i propri timori, con il maresciallo Guazzelli, fino al giorno prima che questi venisse assassinato...
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Mannino, infatti avrebbe voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, al pari di altri uomini politici che in passato avevano come lui trescato con le cosche o con singoli esponenti mafiosi, in un momento per essa di particolare difficoltà, non avendo fatto nulla per propiziare un più favorevole esito del maxi processo, ed avendo, di contro, fatto parte di governi che avevano varato una serie cospicua di misure particolarmente incisive nella repressione del fenomeno mafioso.
In effetti, si è accertato che già alla fine del 1991, quando era alle viste che il maxi processo si sarebbe concluso con le conferme delle condanne anche per i principali boss della c.d. mafia vincente, la commissione provinciale di Cosa nostra aveva ratificato la decisione di Riina di mettere a morte i nemici storici di Cosa nostra (come i giudici Falcone e Borsellino, ma anche altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine) e di politici ritenuti traditori.
Il disegno di vendetta inscritto in una più ampia strategia di attacco frontale allo stato, per indurlo a più miti consigli dimostrando che Cosa nostra avrebbe reagito da par suo a quella che sembrava essere una rottura definitiva del patto di coabitazione con lo stato, suggellata dall’esito del maxi processo, fu messo in esecuzione nelle settimane successive alla conclusione del maxi processo. E l’omicidio Lima doveva essere il primo di una serie di attentati eclatanti e delitti “eccellenti”, destinati a seminare sgomento e sfiducia nel mondo della politica e delle istituzioni, tino a ridurre lo Stato in ginocchio.
Mannino era nella lista dei politici condannati a morte, ed egli era ben consapevole di quanto la sua posizione fosse assimilabile a quella di Salvo Lima, e ne aveva parlato, confidando loro i propri timori, con il M.llo Guazzelli, fino al giorno prima che questi venisse assassinato; con il collega Mancino, che dal 28 giugno sarebbe subentrato a Vincenzo Scotti nella carica di Ministro dell’interno; e con il giornalista Antonio Padellaro, cui fece una serie di rivelazioni confidenziali, con l’intesa che non sarebbero state pubblicate a suo nome.
Dopo l’omicidio Lima, il Mannino si era rivolto, per fronteggiare la condanna a morte che sentiva incombere sul suo capo, non al Ministro dell’interno o alle autorità di polizia dell’epoca, bensì al maresciallo Guazzelli, cui lo legavano sinceri rapporti di amicizia e frequentazione, ma che all’epoca svolgeva solo le funzioni di responsabile della Sezione di polizia giudiziaria della procura della repubblica di Agrigento; e, per suo tramite, al generale Subranni, comandante del Ros (nonché a Bruno Contrada, alto dirigente del Servizio segreto civile: all’epoca, Slsde).
L’omicidio Guazzelli venne interpretato dal generale Subranni — come emerge dalla testimonianza del colonnello Riccio confortata sul punto da un’annotazione autografa su una delle sue agende - come un chiaro messaggio rivolto al Mannino e agli stessi carabinieri del Ros che in quei giorni si stavano facendo carico del problema della sua incolumità. Lo stesso Riccio ha dichiarato peraltro che il mafioso Luigi Ilardo, suo confidente e ucciso il 10 maggio 1996, poco prima che venisse formalizzata la sua collaborazione con la giustizia, gli aveva rivelato che l’omicidio Guazzelli era una vicenda molto più grave di come poteva apparire.
Nelle settimane successive il Mannino s’era incontrato (più volte) a Roma con il generale Subranni e, almeno una volta, con il Subranni e Bruno Contrada insieme: per parlare con loro riservatamente della minaccia mafiosa da cui era attinto, ma anche dell’anonimo denominato Corvo 2 che era stato indirizzato a varie autorità e direttori di giornali nella seconda metà di giugno ‘92 e che, tra altre confuse e non facilmente decifrabili accuse o insinuazioni e allusioni, segnalava l’avvio di un’interlocuzione tra Cosa Nostra, nella persona del suo capo Salvatore Riina, ed il ministro Calogero Mannino.
E non è irrilevante, a parere della pubblica accusa, che il Mannino si fosse rivolto a personaggi dal profilo opaco, come sarebbe attestato dalle rispettive vicissitudini giudiziarie che li hanno visti, uno, il Subranni, indagato per il reato di associazione mafiosa (procedimento poi archiviato nel 2012); e l’altro, il Contrada, addirittura condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi, peraltro, si attivarono per rispondere alla chiamata del ministro, ma senza verbalizzare le dichiarazioni o documentarne con apposite relazioni gli incontri, e senza riferirne, in particolare il Subranni, all’ag.
A riprova del rapporto di subalternità e compiacenza del generale Subranni nei riguardi del Mannino, la Pubblica Accusa evidenziava anche che lo stesso Subranni, invece che adoperarsi per evadere la delega d’indagine che gli era stata conferita dal dott. Borsellino (titolare del procedimento aperto a seguito dell’anonimo predetto), prima ispirava un comunicato immediato del comando generale dell’Arma che liquidava l’anonimo come un tentativo di delegittimazione delle istituzioni e un cumulo di menzogne e calunnie e si compiaceva di indirizzarlo al procuratore della repubblica di Palermo con un bigliettino personale dal tono confidenziale e affettuoso; poi redigeva un’informativa di analogo tenore; e infine parlava dell’esposto anonimo direttamente con il Mannino, ossia con uno dei soggetti sui quali avrebbe dovuto svolgere accertamenti in quanto destinatario delle accuse più pesanti in esso contenute.
Nella medesima prospettiva rileverebbe la vicenda investigativa nota come mafia e appalti (dall’oggetto del primo e cospicuo rapporto informativo redatto dai carabinieri del Ros che ne compendiava le risultanze acquisite alla data del 16 febbraio 1991).
Infatti, a parere della pubblica accusa, e contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del Mannino nel separato procedimento a suo carico e dalle difese degli ufficiali del Ros qui imputati, quella vicenda non dimostra che i Ros di Subranni denunciarono il Mannino, circostanza incompatibile con la ricostruzione dell'Accusa, ma al contrario omisero per diciannove mesi di riferire all’Autorità giudiziaria i gravi elementi acquisiti nel corso delle indagini a carico del Mannino medesimo.
Il Ros, Ciancimino e quel tentativo di “dialogo” con la Cupola. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 10 ottobre 2022
Qualcosa era quindi successo, tra Capaci e via D’Amelio, che aveva indotto Riina a decidere l’accelerazione dell’attentato anch’esso già deciso ai danni del dottor Borsellino, e, al contempo, a sospendere l’esecuzione che era già in corso del piano per uccidere Mannino.
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Nel frattempo, Salvatore Riina aveva, dato incarico a Giovanni Brusca di dare corso al già deliberato omicidio del Ministro Mannino, per poi revocargli improvvisamente l’incarico: e ciò sarebbe avvenuto, a dire dello stesso Brusca, dopo la strage di Capaci ma prima di quella di via D’Amelio, mentre per il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera ciò sarebbe avvenuto nel mese di ottobre. Ma un altro collaboratore di giustizia, a parere della pubblica accusa avrebbe dato ragione a Brusca.
Infatti, Angelo Siino ha dichiarato di essere venuto a conoscenza che era in itinere un progetto per uccidere Mannino; una conoscenza appresa mentre lo stesso Siino si trovava al carcere di Termini Imerese, già all’inizio del mese di settembre del ‘92.
Qualcosa era quindi successo, tra Capaci e via D’Amelio, che aveva indotto Riina a decidere l’accelerazione dell’attentato anch’esso già deciso ai danni del dott. Borsellino, e, al contempo, a sospendere l’esecuzione che era già in corso del piano per uccidere Mannino.
E cosa fosse successo, la pubblica accusa ritiene di poterlo desumere dalla concatenazione di una serie di eventi che s’assumono provati.
In particolare, dopo e a seguito dell’interlocuzione del Mannino con il Generale Subranni vertente sulle minacce di morte che il politico siciliano aveva ricevuto (o subodorato), Mario Mori e Giuseppe De Donno, ufficiali del Ros al comando di Subranni, si rivolsero a Vito Ciancimino affinché questi inoltrasse ai vertici di Cosa nostra l’invito ad allacciare un dialogo che portasse al superamento di quella situazione di scontro frontale con lo Stato (una proposta ben sintetizzate nelle parole con cui lo stesso Mori ebbe a rappresentarla nelle dichiarazioni rese alla corte d’Assise di Firenze: «Signor Ciancimino, non si può parlare con questa gente, deve ancora continuare questa contrapposizione muro contro muro?»).
E contestualmente o in epoca immediatamente successiva (cfr. pag. 8 della memoria “Mannino”), Totò Riina manifestò ai capi corleonesi a lui più vicini tutto il suo compiacimento per il fatto che esponenti delle istituzioni si erano fatti sotto (per trattare) e lui aveva fatto avere un papello così di richieste, nell’interesse di Cosa nostra.
Il ruolo del Mannino sarebbe stato anzitutto quello di sollecitatore e ispiratore della proposta veicolata dai carabinieri attraverso il canale Ciancimino fino ai vertici corleonesi di Cosa Nostra di ripristinare un rapporto di confronto dialogante, in luogo dello scontro frontale degli ultimi tempi, in vista del raggiungimento di una rinnovata intesa (per una pacifica coabitazione) e con nuovi garanti.
Ma questa proposta di dialogo avrebbe determinato come effetto diretto e immediato non già la cessazione delle stragi, che proseguirono in modo ancora più cruento se possibile per altri diciotto mesi; bensì la sospensione della programmata eliminazione dei politici traditori, il primo dei quali era proprio Calogero Mannino che quindi più di ogni altro avrebbe beneficiato di quella moratoria.
E ulteriore effetto di quella sciagurata iniziativa sarebbe stato quello di rafforzare nei vertici di Cosa nostra il convincimento che la politica della minaccia a forza di tritolo era lo strumento più efficace per trattare con i rappresentanti dello stato, vincendo le resistenza di quanti non fossero disponibili a negoziare con un contropotere criminale.
Sosteneva - e sostiene - ancora la pubblica accusa che il ruolo del Mannino si sostanziò, oltre che nell’istigare la condotta poi da altri in concreto realizzata, nell’esercitare pressioni sul dott. Francesco Di Maggio, all’epoca vice capo del Dap (che lo stesso Mannino ha ammesso, nelle dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 26.03.2015 del giudizio di primo grado, di avere incontrato occasionalmente in aeroporto, mentre nel parallelo giudizio d’appello ha negato di averlo mai conosciuto) affinché si adoperasse per un allentamento della stretta carceraria, con specifico riferimento all’applicazione del regime speciale del 41 bis.
Il “ruolo” di Mannino
Ebbene, il giudice di prime cure di questo processo, come s’è visto, ha fatto propria buona parte della ricostruzione offerta dalla pubblica accusa, salvo astenersi, per le ragioni già evidenziate, dall’approfondire e valutare gli aspetti che concernono la condotta contestata al Mannino in relazione alle pressioni che avrebbe esercitato sul dott. Di Maggio.
Ma tale soluzione, sebbene lasci di per sé impregiudicata la questione della penale responsabilità del Mannino, deve ora fare i conti con un giudicato assolutorio che esclude che l’ex Ministro abbia posto in essere le condotte che gli venivano contestate, inclusa quella di avere innescato e ispirato l’iniziativa dei carabinieri del Ros.
Ciò premesso, la prima preoccupazione del p.g. è stata — e non poteva che essere — quella di disinnescare sul piano argomentativo l’efficacia di quel giudicato (“ostile” all’accusa), ossia di neutralizzare le argomentazioni poste a base della pronuncia giudiziale che ha assolto definitivamente il Mannino.
Ecco perché il p.g. ha così puntigliosamente sottoposto ad una rigorosa revisione critica la sentenza della corte d’Appello.
In via preliminare deve convenirsi, con l’ufficio requirente, che il giudicato assolutorio del processo Mannino non è vincolante nel presente giudizio per ciò che concerne la prova dei fatti in esso accertati, nonostante che l’accertamento ivi consacrato sia sostenuto dall’autorità di una decisione divenuta irrevocabile.
Infatti, l’unica preclusione che ne discende è quella sancita dalla regola inderogabile dettata dall’art. 649 c.p.p. che vieta di sottoporre a un nuovo giudizio, e per il medesimo fatto, l’imputato che sa stato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile. Ma nulla vieta di rivalutare i fatti accertati nel pregresso giudicato, e di potere anche pervenire a conclusioni diverse nel separato giudizio a carico di altri soggetti, ancorché imputati del medesimo reato oggetto di quel giudicato.
[…] Resta tuttavia fermo il principio che nessuna preclusione ne discende in ordine all’accertamento dei fatti che interessano ai fini del presente giudizio; e tuttavia diviene particolarmente gravoso l’onere di fornire prove sufficienti ad affermare ciò che una decisione precedente abbia escluso con tutta l’autorevolezza che le deriva dall’essere assistita dalla forza del giudicato; mentre chi abbia interesse ad avvalersene, può confidare nella presunzione di non colpevolezza, suggellata dalla doppia assoluzione.
Anche se, sotto quest’ultimo profilo, la soluzione del giudice di prime cure consentirebbe di bypassare la presunzione di non colpevolezza, assumendo che la prima delle due condotte in ipotesi ascrivibili al Mannino non era e non sarebbe comunque costitutiva di alcuna penale responsabilità, e quindi uscirebbe fuori dal cono protettivo della presunzione di innocenza. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Trattare con la mafia per fermare le stragi o salvare gli uomini politici? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'11 ottobre 2022
Ha una rilevanza decisiva stabilire se il fine fosse quello di far cessare le stragi oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici, come in ipotesi Calogero Mannino, oppure ancora entrambe le finalità...
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Detto questo, non intende questa corte seguire il percorso del p.g. nel fare le bucce alla sentenza d’appello del processo stralcio a carico di Calogero Mannino, poiché non interessa stabilire se ed eventualmente in cosa quei giudici abbiano errato nel pervenire alla decisione di confermare l’assoluzione dell’imputato.
Ciò che qui interessa è, piuttosto, accertare se le ragioni che giustificano quell’assoluzione, poco importa se corrispondenti o meno a quelle poste dalla stessa corte d’Appello a fondamento della sua decisione, siano valide. Perché se Calogero Mannino è estraneo alla vicenda che qui ci occupa, o meglio se egli non ha avuto il ruolo propulsivo che la pubblica accusa, ma anche il giudice di prime cure di questo processo gli attribuiscono, allora cade il principale argomento che confuterebbe l’assunto secondo cui gli ex ufficiali del Ros, odierni imputati, ed in particolare di Mori e De Donno, si mossero, nell’intraprendere i contatti con Vito Ciancimino, senza avere di mira altro risultato che quello di arginare l’escalation di violenza mafiosa e fermare le stragi: con implicazioni che a parere di questa corte sarebbero dirimenti per escludere il dolo di concorso nel reato loro ascritto, anche se dovesse pervenirsi alla conclusione che l’iniziativa dei carabinieri non fu, come le difese insistono a sostenere, una mera operazione di polizia giudiziaria sia pure con una marcata connotazione info-investigativa.
E per riportare la questione nei suoi giusti binari, che sono quelli di una doverosa aderenza all’oggetto specifico del presente giudizio d’appello e ai limiti del devolutum, è indispensabile partire dal modo in cui il giudice di prime cure ha accertato e valutato il ruolo ascrivibile al Mannino.
Sotto questo aspetto, va detto subito che il primo giudice si discosta sensibilmente dall’originaria prospettazione accusatoria, senza per questo rinunciare a riconoscere al Mannino un ruolo propulsivo, per avere comunque innescato l’iniziativa dei carabinieri del Ros, ma anche per averla in qualche modo “ispirata”.
Secondo la ricostruzione fattuale sposata dalla sentenza, infatti, il Mannino non si sarebbe limitato a investire i carabinieri, nella persona dell’allora comandante del Ros, della problematica relativa alla sua incolumità, essendo proprio lui, dopo l’omicidio Lima, in cima alla lista dei politici che Cosa nostra minacciava di uccidere.
Egli avrebbe fatto molto di più, indicando o anche solo lasciando intravedere che l’unico modo per venire a capo del problema era quello di sondare la disponibilità dei vertici mafiosi ad allacciare un dialogo propedeutico all’avvio di un negoziato che portasse l’organizzazione mafiosa a desistere dalla sua furia omicida, facendo così cessare la minaccia, una minaccia incombente anche nei suoi confronti.
E tuttavia tale condotta in sé non avrebbe alcuna rilevanza penale, poiché se già quella ascritta agli ufficiali del Ros come concorrenti nel reato è una condotta di istigazione e/o agevolazione della realizzazione del reato, nel caso del Mannino per la prima delle due condotte che gli venivano contestate si potrebbe parlare al più di una sorta di istigazione all’istigazione.
Ed anzi, neppure questa.
COSA PREVEDE LA LEGGE
La sollecitazione del Mannino sarebbe stata infatti solo quella di verificare la disponibilità dei vertici mafiosi ad allacciare il filo di un possibile dialogo: ma la trattativa in sé non è un reato.
Ed è soprattutto dirimente la considerazione che quella condotta si sarebbe dispiegata in un momento e in un contesto in cui non si profilava neppure l’inizio del complesso iter attuativo del reato per cui si procede, potendo quell’input iniziale condurre agli scenari e agli esiti più disparati.
La minaccia a corpo politico dello stato, infatti, comincerà a profilarsi e a prendere corpo solo nel momento in cui Riina, informato che rappresentanti delle istituzioni si erano fatti sotto per trattare, deciderà di accogliere quella sollecitazione e avanzerà specifiche richieste, con la minaccia implicita, che solo allora si sarebbe concretamente delineata in termini riconducibili al paradigma dell’artt. 338 c.p., che la violenza stragista sarebbe proseguita (o sarebbe ripresa) se le sue richieste non fossero state accolte.
In altri termini, agli intermediari istituzionali si contestava — e si contesta - di avere concorso alla realizzazione del reato mediante condotte a-tipiche, diverse da quelle costitutive del reato che avrebbero concorso a realizzare, ma suscettibili di agevolarne la compiuta realizzazione o di renderla possibile: ciò che sarebbe avvenuto attraverso plurimi apporti consistiti nel veicolare la minaccia in modo che giungesse al suo naturale destinatario — passaggio indefettibile per la consumazione del reato — o addirittura suscitando o rafforzando negli autori del reato il proposito di commetterlo.
Ora, l’eventuale instaurazione di una trattativa, argomenta il primo giudice, era aperta agli scenari e agli esiti più disparati, non potendosi escludere che i vertici mafiosi si accontentassero di quella sorta di legittimazione indiretta che veniva loro dal riconoscimento della loro veste di interlocutori (con il conseguente effetto di rafforzamento del loro prestigio e della leadership all’interno dell’organizzazione mafiosa); ma comunque l’apertura della trattativa non poteva segnare e non segnò il momento iniziale dell’iter attuativo del reato ex art. 338, che prenderà corpo solo nel momento in cui, rispondendo a quella sollecitazione, Riina farà conoscere le sue richieste, implicitamente ponendole come condizione per la cessazione delle stragi e quindi come condizioni di quel ricatto allo Stato in cui si sostanzierebbe, con tutte le peculiarità del caso di specie la condotta costitutiva del reato per cui si procede.
La prima delle due condotte specifiche contestate al Mannino, consistita nell’avere istigato gli istigatori, non integrerebbe quindi un apporto concorsuale alla realizzazione del reato, neppure sotto il profilo del concorso morale, a meno di non voler dare rilevanza penale ad una condotta di istigazione indiretta che solo eccezionalmente e in forza di una specifica previsione di legge può assurgere a fattispecie di reato autonoma (come nel caso dell’apologia di reato).
Pertanto, la condotta del Mannino di sollecitare i carabinieri ad intraprendere iniziative in proprio favore che non andassero tanto in direzione di un rafforzamento delle misure di protezione dalla minaccia mafiosa nei sui riguardi, ma in direzione semmai di un affievolimento di tale minaccia grazie all’instaurazione di un dialogo con chi aveva decretato la sua morte, nella ricostruzione operata dalla corte d’Assise di primo grado degrada a mero antecedente causale della condotta criminosa, per averne creato le premesse, innescando l’iniziativa dei carabinieri che avrebbe suscitato, prima, e rafforzato poi negli autori del reato il proposito di commetterlo.
E nell’economia della decisione che ha affermato la penale responsabilità degli ex ufficiali del Ros, il ruolo così attribuito al Mannino avrebbe comunque una portata ridona.
IL FINE DELLA “TRATTATIVA”
Infatti, nella valutazione operata dal giudice di prime cure, non è decisivo stabilire se i carabinieri si fossero attivati per input di un politico influente, e al fine esclusivo o principale di salvargli la vita, per sviluppare un’iniziativa che abbandonasse la linea della fermezza nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Ciò che conta è che consapevolmente e deliberatamente essi abbiano concorso, con la loro improvvida iniziativa, e cioè sollecitando i vertici di Cosa nostra a far sapere cosa chiedessero per far cessare le stragi, a rafforzare, se non addirittura a suscitare negli autori del reato il proposito di realizzarlo (con l’ulteriore apporto di averne agevolato o reso possibile l’effettiva consumazione favorendo la veicolazione della minaccia fino al suo naturale destinatario, che era il governo della Repubblica). Poco importa allora che loro fine precipuo fosse proprio quello di prevenire l’ulteriore escalation della violenza mafiosa, nell’interesse generale della collettività, o il meno nobile fine di salvare la pelle a questo o quel politico influente.
Ad avviso di questa corte, invece, non è affatto ininfluente stabilire quali fossero le reali finalità perseguite dai carabinieri del Ros con la loro iniziativa.
Al contrario, ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine – o il fine precipuo – fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti, come in ipotesi Calogero Mannino, oppure ancora entrambe le finalità in quanto inscindibilmente connesse: far cessare le stragi come unico modo per salvare la vita a Mannino; ovvero, prefiggersi di arginare l’escalation mafiosa nella consapevolezza che ciò avrebbe giovato alla soluzione del problema — preservare l’incolumità di Mannino, minacciato di morte da Cosa nostra — di cui gli stessi carabinieri erano stati investiti.
Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Vito Ciancimino anche sul piano fattuale, avuto riguardo ai reali termini della proposta che fu rivolta allo stesso Ciancimino.
L’avvicendamento tra Scotti e Mancino al ministero degli Interni. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 12 ottobre 2022
Secondo l’accusa, Mannino aveva espressamente conferito al Subranni il mandato — poi da questi girato ai suoi sottoposti, Mori e De Donno — di avviare contatti per giungere ad un’intesa con Cosa nostra in cambio della concessione di benefici di varia natura e consistenza a favore dei mafiosi...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Come già anticipato, il giudice di prime cure nella sua ricostruzione dei fatti, si è discostato dalla prospettazione accusatoria per ciò che concerne il ruolo ascrivibile a Calogero Mannino nella cosiddetta trattativa tra lo stato e Cosa nostra, che derubrica a mero antecedente fattuale dell’intera vicenda, privo, come tale, di rilevanza penale.
L’assunto conclusivo del giudice di primo grado è infatti che il Mannino abbia innescato l’avvio della trattativa intrapresa dagli ufficiali del Ros attraverso i contatti con Vito Ciancimino, investendo il generale Subranni della problematica relativa alla sua sicurezza personale, dopo le minacce gli avvertimenti e infine la conferma acquisita di essere a rischio di imminente attentato, perché Cosa nostra aveva decretato la sua morte, come egli aveva iniziato a temere già a cavallo dell’omicidio Lima.
Il Mannino però non si sarebbe limitato a rivolgersi ai carabinieri affinché adottassero opportune iniziative a tutela della sua incolumità. Egli avrebbe altresì, anche solo implicitamente, ad avviso della corte d’Assise di primo grado, tracciato il percorso da seguire per un intervento efficace, nel senso di provare a stabilire contatti che permettessero di allacciare un dialogo con i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Ebbene, l’ipotesi accusatoria, che nella sua formulazione originaria postulava che il Mannino avesse espressamente conferito al Subranni il mandato — poi da questi girato ai suoi sottoposti, Mori e De Donno — di avviare contatti per giungere ad un’intesa che contemplasse di far tacere le armi ottenendo che Cosa Nostra rinunciasse a mettere in atto gli ulteriori omicidi di politici e le ulteriori strage già programmate, in cambio della concessione di benefici di varia natura e consistenza a favore dei mafiosi, nel quadro di un più complessivo affievolimento dell’azione repressiva dello Stato, scontava fin dall’inizio alcune incongruenze di fondo.
Premessa, invero, la necessità che l’operazione Ciancimino, per il suo buon esito, potesse contare su un’adeguata “copertura politica”, ed in particolare sul sostegno del ministro della Giustizia, era lecito chiedersi per quale ragione il Mannino, ancora ministro, sia pure nell’ambito di un governo dimissionario, e nelle more della formazione di un nuovo governo, avesse per così dire mandato alla sbaraglio alcuni alti ufficiali dei carabinieri, inducendoli ad avventurarsi su un terreno a loro poco congeniale, quello di prendere contatto con vari esponenti politici e istituzionali, e segnatamente con quelli che occupavano ruoli di vertice o strategici nella prospettiva di una trattativa da avviare, ovviamente in assoluta segretezza.
[…] Ma soprattutto, se, per aver salva la vita, egli aveva intrapreso un percorso così impervio qual si prospettava quello di una assai problematica “trattativa” […] ,non si comprende per quale ragione non avesse neppure tentato di entrare a far parte del nuovo Governo, rinunciando a qualsiasi incarico ministeriale, lui che era Ministro uscente, e da anni era al vertice della politica nazionale anche per avere sempre ricoperto incarichi ministeriali nei governi che s’erano succeduti negli ultimi cinque anni.
Piuttosto che uscire di scena, se avesse voluto giocare il molo di artefice della trattativa e garantirne un positivo sviluppo, sarebbe stato più proficuo stare dentro e non fuori dalle stanze del potere governativo.
Di contro, la rinuncia a ricoprire incarichi di governo ben si conciliava con l’intento di sottrarsi a pressioni e ricatti, sia per non sottostarvi, sia per fare in qualche modo risaltare, proprio con una sua uscita di scena dall’agone della politica attiva e con lo spogliarsi di qualsiasi attribuzione o incarico istituzionale, che sarebbe stato ormai inutile dare corso ad atti di violenza o di ulteriore intimidazione nei suoi confronti.
Ebbene, a simili incongruenze intendeva rimediare la lettura che la pubblica «ccusa aveva offerto della vicenda della sostituzione di Vicenzo Scotti con Nicola Mancino al vertice del dicastero degli Interni, cui è dedicato un intero capitolo della motivazione della sentenza di primo grado.
UNA CAMPAGNA DI DELEGITTIMAZIONE
Secondo la prospettazione accusatoria l’avvicendamento sarebbe stato l’epilogo non casuale ma voluto e preordinato di una campagna di delegittimazione del ministro in carica, che si era particolarmente distinto, insieme al collega ministro della Giustizia Claudio Martelli, nel portare avanti una linea di assoluta intransigenza del governo Andreotti nella lotta alla mafia.
Questa campagna di delegittimazione, alimentata anche in buona fede da chi accusava il ministro degli Interni di avere inutilmente drammatizzato il clima di tensione nel paese di e preoccupazione per le sorti delle istituzione, dando credito a falsi allarmi e false soffiate non solo su imminenti attentati, ma anche sull’esistenza di un vero e proprio disegno di destabilizzazione, avrebbe portato ad un appannamento dell’immagine del ministro Scotti, e ad un suo progressivo isolamento all’interno del suo stesso partito, in cui crescevano, come lui stesso ebbe a denunciare in una clamorosa intervista rilanciata al giornalista Giuseppe D’Avanzo del quotidiano La Repubblica pubblicata il 21 giugno 1992, le voci di dissenso e insofferenza per la linea dura da Scotti portata avanti nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
A tale campagna di delegittimazione e progressivo isolamento del ministro Scotti o comunque al suo epilogo, consistito nella mancata conferma al vertice dei dicastero degli Interni, sia pure “promuovendolo” al prestigioso incarico di ministro degli Esteri, non sarebbe stato estraneo l’on. Mannino, il quale si sarebbe adoperato presso i maggiorenti del suo partito, e segnatamente nei riguardi dell’on. Ciriaco De Mita cui faceva capo la corrente della sinistra democristiana della quale faceva parte lo stesso Mannino, per sollecitare la sostituzione di Scotti. E lo avrebbe fatto con il fine, poco importa se dichiarato (allo stesso De Mita) o recondito, di favorire un mutamento dell’azione di governo sul versante della lotta alla criminalità mafiosa, nel senso di un ammorbidimento di quella linea dura e di intransigente contrasto di cui il ministro uscente, Vincenzo Scotti, unitamente al collega ministro della Giustizia Martelli, era stato il più convinto e attivo fautore.
L’intento era di creare, così agendo, un clima politico più favorevole allo sviluppo della trattativa, o del tentativo di avviare un negoziato con l’organizzazione mafiosa che aveva decretato la morte di Mannino, ma anche di altri esponenti del suo partito e non soltanto del suo partito.
Sennonché tutti gli elementi raccolti e debitamente scrutinati dal giudice di prime cure di questo processo convergono ad asseverare la conclusione che l’avvicendamento di Scotti con Mancino sia stato piuttosto il precipitato e il portato di manovre e trame politico partitiche, ma interne soprattutto al partito di maggioranza relativa dell’epoca, volte a raggiungere un accordo per la spartizione di poltrone ministeriali e relativi incarichi anche di sottogoverno, che rispecchiasse e soddisfacesse la necessità di trovare un equilibrio tra le varie correnti e le ambizioni o gli appetiti dei loro principali esponenti.
E non è certo un dettaglio secondario il fatto che nessuno dei diretti protagonisti o testimoni (come Ciriaco De Mita, Forlani, Gargani, ma anche Giuliano Amato, all’epoca dei fatti presidente incaricato della formazione del nuovo governo che fu poi da lui presieduto e lo stesso presidente Scalfaro, nonché Claudio Martelli e Cirino Pomicino) delle manovre e degli accordi sfociati nella
contestuale designazione di Nicola Mancino come ministro degli Interni in sostituzione di Scotti, e dello stesso Scotti come ministro degli esteri del nuovo governo abbia fatto il minimo cenno all’eventualità che il Mannino abbia avuto un qualsiasi ruolo nelle trattative per la formazione del nuovo governo.
Né si può compensare questo vuoto probatorio, come sembra azzardare la sentenza qui appellata, tacciando di reticenza la deposizione, in particolare, di Ciriaco De Mita; o imputando alle testimonianze spesso lacunose e contraddittorie (dei politici escussi) la causa del mancato conseguimento della prova certa che l’avvicendamento di Scotti con Mancino sia stato frutto del desiderio di Mannino di ammorbidire la linea d’azione nella lotta alla mafia per favorire un negoziato o la ricerca di una tregua con la più sanguinosa organizzazione criminale operante; ovvero, la causa dell’impossibilità come si legge testualmente in sentenza, di «acquisire sufficienti elementi a sostegno della tesi dell’accusa secondo cui il ministro dell’Interno Scotti venne deliberatamente sostituito per volere di coloro che all’interno della Democrazia cristiana (....) auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso sino ad allora dal predetto ministro propugnata al fine di evitare ulteriori aggressioni da parte delle organizzazioni mafiose allo stato e (forse ancor più) l’uccisione di taluni di essi (come era già avvenuto per l’On. Lima e si temeva per altri, tra i quali, innanzitutto, lo stesso On. Mannino).
IL CAMBIO AL VIMINALE
In realtà, il primo giudice di questo processo si esprime con prudenza forse eccessiva circa il mancato raggiungimento della prova predetta.
Come si vedrà meglio tra breve, la sentenza non esclude affatto, ed anzi ritiene provato, che Calogero Mannino si sia adoperato per quell’epilogo e con quel preciso intento, non potendosi però escludere che l’avvicendamento in questione sia stato alla fine prodotto dal concorso di concause prevalenti sulle trame dello stesso Mannino e riconducibili a dinamiche di potere e a giochi e accordi di corrente tutti interni al suo partito (ciò che peraltro spiegherebbe una certa reticenza o la vaghezza e lacunosità delle spiegazioni offerte da quasi tutti i testi escussi, essendo comprensibile il disagio nel dover ammettere di essere stati mossi da interessi e fini assai prosaici, a fronte delle gravi emergenze che affliggevano il paese).
Un coacervo di fattori, è bene rammentarlo, cui non furono affatto estranei l’atteggiamento ondivago dello stesso Scotti, e le sue scelte a dir poco ambigue e contraddittorie, fino all’epilogo delle dimissioni da ministro degli Esteri, rassegnate esattamente un mese dopo aver ricevuto la nomina a tale prestigioso incarico.
Poiché è altamente probabile che qualsiasi ipotetica manovra o trama avrebbe potuto essere sventata, ammesso che ve ne fossero, se solo egli avesse fatto — o minacciato di fare — ciò che il ministro Martelli fece (e rimproverò al suo ex collega di governo di non avere fatto): e cioè porre come condizione della sua partecipazione al nuovo governo la conferma nell’incarico di ministro degli Interni, magari rassegnando nelle istanze decisionali del suo partito (ufficio politico e direzione) le ragioni che rendevano quanto mai opportuna tale conferma.
Cosa che non risulta sia avvenuto, come si evince raffrontando le dichiarazioni (anche queste ondivaghe) di Scotti con le deposizioni di Claudio Martelli, di Giuliano Amato e di Arnaldo Forlani, nonché con le testimonianze sul punto del tutto concordanti degli altri esponenti politici del partito di maggioranza relativa dell’epoca, che, per gli incarichi ricoperti [...] o per essere stati interessati alla vicenda come potenziali candidati ad entrare nel nuovo Governo [...], sono fonti qualificate al fine di fornire elementi utili a ricostruire i fatti.
Mentre è certo che Vincenzo Scotti era sì contrario in linea di principio alla regola dell’incompatibilità tra incarichi di governo e status di parlamentare; ma il vero e unico punto che egli poneva come irrinunciabile era che, nei riguardi di chiunque avesse ricoperto l’incarico di ministro degli Interni, non poteva pretendersi che sottostesse a quella regola, essendo lo status di parlamentare (per via della connessa immunità all’epoca ancora vigente) un usbergo indispensabile per quella carica. […].
In sostanza, Scotti non aveva rinunziato alla speranza che nei suoi riguardi si facesse eccezione alla regola dell’incompatibilità, come è provato dal fatto che, nel frattempo, aveva sollecitato il segretario Forlani a un ripensamento al riguardo. Ma con lettera datata 28 luglio, il Segretario predetto ribadì il suo niet; ed allora, a stretto giro di posta, Scotti si dimise dall’incarico di ministro degli Esteri — suscitando l’ira di Scalfaro — e contestualmente informò la Camera che era venuta meno la ragione per le dimissioni da parlamentare (anche perché Scalfaro, nonostante il parere contrario di Giuliano Amato, aveva deciso di accettare subito le dimissioni).
Questi sono i fatti che possono dirsi accertati anche nella loro sequenza cronologica e concatenazione causale. Senza trascurare che, [...]: la delegazione democristiana al nuovo governo fu interamente rinnovata, nella sua composizione, rispetto alla precedente compagine, in conformità ad una precisa indicazione strategica (vennero confermati, dei ministri uscenti, sia pure per essere destinati a incarichi diversi, Maria Rosa Russo Jervolino e, appunto, Vincenzo Scotti), [...]tutti i componenti della delegazione democristiana, compreso Vincenzo Scotti, si dimisero da parlamentari, subito dopo la nomina a ministri, o, nel caso di Scotti, dopo qualche giorno (undici, per l’esattezza: salvo dimettersi alla fine dei mese di luglio da ministro, contestualmente ritirando di fatto le dimissioni da deputato che aveva già presentato alla Camera il 9 luglio); [...].
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Una giornalista attendibile e le fandonie del piccolo Ciancimino. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 13 ottobre 2022
Per il giudice di primo grado la testimonianza dell’Amurri è una fonte idonea a comprovare che il Mannino effettivamente si adoperò per sollecitare la sostituzione di Scotti al vertice del dicastero degli Interni ma...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Tutti gli elementi rassegnati convergono dunque ad asseverare la conclusione di cui si diceva, tranne uno: la testimonianza di Sandra Amurri, nota e stimata giornalista de Il Fatto Quotidiano, sul colloquio da lei accidentalmente captato il 21 dicembre 2011 - mentre si trovava al bar Giolitti di Roma [...]. Nella valutazione del giudice di primo grado, invero, la testimonianza dell’Amurri, letta alla luce dei molteplici e puntuali riscontri acquisiti anche sul contesto in cui si collocavano il colloquio di Mannino con l’on. Gargani e le preoccupazioni espresse dal primo al secondo, è una fonte idonea a comprovare, unitamente agli elementi che ne corroborano l’attendibilità, che il Mannino effettivamente si adoperò per sollecitare la sostituzione di Scotti al vertice del dicastero degli Interni; e che lo fece proprio per creare le premesse necessarie o comunque uno scenario politico più favorevole allo sviluppo della cosiddetta “trattativa”.
[…] Il suo allontanamento da tale ruolo costituiva quindi, nella prospettazione accusatoria, che per questa parte il giudice di prime cure mostra di condividere, un passaggio non ancora sufficiente ma certamente necessario e ineludibile per il buon esito del tentativo, che si assume orchestrato o ispirato dal Mannino, di allacciare un dialogo sotterraneo con Cosa nostra, oltre a lanciare un segnale di discontinuità nell’azione di governo, sul versante della lotta alla mafia: nel senso che l’avvicendamento di Scotti, all’indomani della strage di Capaci, ben poteva leggersi all’esterno come una tacita sconfessione dell’operato del ministro uscente, sintomatica del proposito del nuovo governo di abbandonare o di ammorbidire la linea di politica criminale in precedenza portata avanti soprattutto per impulso dello stesso Scotti (e così fu inteso, secondo la corte d’Assise di primo grado, tanto da potersi valutare come uno dei fattori che concorsero a rafforzare nei vertici di Cosa nostra la convinzione che la strategia stragista fosse l’unica che poteva costringere lo Stato a trattare).
Ebbene, la testimonianza della giornalista de Il Fatto Quotidiano validerebbe, ad avviso del primo giudice, tale ipotesi ricostruttiva (fermo restando che le contraddittorie risultanze o la reticenza e la lacunosità delle testimonianze dei politici escussi non consente comunque di pervenire ad analoga certezza circa il fatto che l’avvicendamento di Scotti sia stata determinata da una condivisione da parte del gruppo dirigente democristiano e dello stesso presidente Scalfaro dell’inconfessabile finalità che avrebbe animato il Mannino nel sollecitare quella scelta, e non piuttosto dal combinato disposto di ambizioni - e timori - personali e giochi di corrente o dinamiche di potere interni al partito di maggioranza relativa).
LE DUE INTERPRETAZIONI DEI GIUDICI
È una conclusione che questa Corte non ritiene di poter sottoscrivere. Ma ciò, va detto subito, per ragioni che non mettono affatto in discussione il positivo apprezzamento già espresso dai giudici di primo grado in ordine all’attendibilità della testimonianza della Amurri.
[...] Non v’è stata alcuna suggestione o travisamento degli elementi più significativi che l’Amurri ebbe a cogliere nel colloquio captato a insaputa dei due interlocutori. Elementi in sé troppo scarni e frammentari o allusivi o pieni di rimandi e sottintesi per poter essere decifrati, se avulsi dal contesto della vicenda cui i due si riferivano; e che la giornalista del “Fatto” ha posto a disposizione dell’a.g. Negli esatti termini e nei limiti in cui le era occorso di raccoglierli, ovvero in circostanze del tutto fortuite, e che hanno trovato conferma nella testimonianza dell’on. Di Biagio.
Al riguardo non può che rimandarsi alle persuasive considerazioni spese nella sentenza impugnata che questa corte ritiene di dovere integralmente sottoscrivere.
[…] Già non è difficile credere che l'Amurri abbia istintivamente - ovvero, per deformazione professionale - aguzzato le orecchie, trovandosi nella condizione di poter ascoltare “in diretta”, e all’insaputa degli interlocutori (solo alla fine, a suo dire, Mannino si sarebbe accorto della sua presenza, e avrebbe detto qualcosa al suo interlocutore) un discorso confidenziale di un noto politico, qual certamente era il Mannino, tanto più se pronunciato con tono molto concitato e preoccupato.
E poi è comprensibile che le frasi più significative (e, in particolare: «Lui è stato chiamato e deve dire, deve confermare le nostre versioni, perché questa volta ci fottono»; “quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Perché tu lo Sai, no? Il padre, il padre di noi insomma sapeva tutto»; «a Palermo hanno capito tutto, questa volta ci incastrano, questa volta ci fottono»; «Sì, lo so che hai capito, ma io te lo ripeto, tu devi dire a De Mita che deve assolutamente dire le stesse cose nostre, assolutamente, assolutamente») le siano rimaste scolpite nella memoria proprio a causa del turbamento che le suscitarono sul momento […]. Ma soprattutto, come la stessa Amurri ha dichiarato, ella non mancò di appuntarsi per iscritto quelle frasi, o i passaggi che più l’avevano colpita del colloquio, approfittando del fatto che era seduta ad un tavolino mentre Mannino e il suo interlocutore discorrevano a pochissima distanza da lei [...].
[…] Non v’è dubbio quindi che, sapendo che De Mita era stato citato a comparire dinanzi alla procura di Palermo, e che la citazione nasceva dalle dichiarazioni rese da Vincenzo Scotti nell’ambito dell’indagine “Trattativa”, il Mannino era davvero preoccupato di ciò che l’ex presidente della D.C. avrebbe potuto riferire ai magistrati; e rassegnò al Gargani l’assoluta necessità che rendesse dichiarazioni in linea con la loro versione dei fatti: cioè con la verità “ufficiale” che voleva l’avvicendamento di Scotti con Mancino determinata solo dal rifiuto del primo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, senza altri fini reconditi.
I SOSPETTI DELLA PROCURA
In sostanza, la preoccupazione di Mannino era che se le dichiarazioni di De Mita non si fossero allineate ad una concorde versione sulle ragioni della mancata conferma di Scotti, ne potessero uscire corroborati dubbi e sospetti sulle vere finalità di quella manovra. Quei dubbi e sospetti che evidentemente la procura di Palermo già nutriva, poiché altrimenti non avrebbe avvertito l’esigenza di sentire De Mita (e anche Forlani, come giustamente rammenta il teste Gargano: segno che voleva vederci chiaro su quella vicenda.
La frase poi che l’Amurri attribuisce a Mannino circa il fatto che a Palermo avessero capito tutto, e che il Ciancimino, che aveva fino a quel momento raccontato un cumulo di sciocchezze e menzogne, stavolta aveva detto la verità su di loro, lascerebbe intendere che quei sospetti erano fondati. E, in particolare, che le vere ragioni avessero a che vedere con l’ipotizzata trattativa segreta (già in corso), ovvero che l’avvicendamento di Scotti con Mancino ne fosse parte integrante, perché avrebbe creato le premesse politiche per l’abbandono o l’ammorbidimento della linea d’azione del governo nel contrasto alla criminalità mafiosa e l’adozione di una linea propensa a esplorare la possibilità di un negoziato con l’organizzazione mafiosa per far tacere le armi ed evitare ulteriori delitti in particolare ai danni di esponenti politici del partito che sembrava essere più di altri bersaglio della violenza.
D’altra parte, è vero che Massimo Ciancimino non aveva formulato accuse nei riguardi di Mannino né fornito indicazioni circa un suo possibile coinvolgimento nella vicenda della trattativa condotta attraverso l’intermediazione di suo padre e dei carabinieri del Ros.
Ma ai difensori come ai giudici del processo Mori/Obinu — in cui pure il tema dell’avvicendamento di Scotti con Mancino era stato lumeggiato — e del processo-stralcio a carico di Calogero Mannino è sfuggito un punto che è stato invece evidenziato dai giudici della corte d’Assise di primo grado del presente processo: tra le tante dichiarazioni rese, il Ciancimino (figlio) aveva detto di aver saputo da suo padre, e in anticipo rispetto a quanto poi era avvenuto, che Scotti, con il quale Vito Ciancimino riteneva non sarebbe stato possibile alcun “dialogo”, non sarebbe stato confermato nell’incarico, per essere sostituito da Mancino (che sarebbe stato poi il terminale politico-istituzionale della trattativa).
In altri termini, lo stato maggiore del partito di maggioranza relativa avrebbe deciso fin dall’inizio delle trattative per la formazione del nuovo governo di escludere Scotti per fare posto a Mancino; e in questo senso il Mannino avrebbe confidato al Gargani che il giovane Ciancimino una volta tanto aveva detto la verità, attingendo quell’informazione a una fonte, suo padre, che sapeva tutto dei suoi ex colleghi di partito e delle dinamiche interne alle correnti.
Ma il condizionale è d’obbligo perché proprio su questo punto specifico, come s’è visto, l’on. Gargani ha tenuto botta, smentendo categoricamente la versione di Sandra Amurri e insistendo nell’affermare che, al contrario, Mannino era stupito del fatto che i magistrati di Palermo potessero credere alle fandonie di Ciancimino (figlio).
Ma a parte l’incertezza derivante dalla persistenza del contrasto tra le due versioni (anche la frase che l'Amurri attribuisce a Mannino, secondo cui a Palermo avevano capito tutto, giusta la versione del teste Gargani potrebbe piuttosto interpretarsi nel senso che i magistrati di Palermo, prestando fede alle propalazioni di un menzognero come Massimo Ciancimino, erano convinti di avere capito tutto, ovvero si erano affezionati a un teorema), ritiene questa Corte che non si possa comunque condividere la lettura in chiave accusatoria delle preoccupazioni espresse dal Mannino nel corso del suo colloquio con l’on. Gargani, come sposata dal giudice di prime cure.
Ed invero, tale lettura è all’evidenza smentita, anzitutto, dal fatto che, anche prestando fede alla testimonianza di Sandra Amurri nella parte in cui riporta le parole e le frasi che il Mannino avrebbe pronunciato nel corso del colloquio con l’amico e collega di partito Giuseppe Gargani, il Mannino ha declinato sempre e solo al plurale il soggetto che avrebbe avuto motivo di temere qualcosa dalla prevista e imminente escussione di Ciriaco De Mita sulla vicenda della mancata conferma di Scotti a ministro degli Interni e contestuale designazione al suo posto del senatore Mancino.
Orbene, se fosse corretta la lettura sposata in sentenza, e considerato che tale sostituzione fu decisa all’unanimità dall’ufficio politico della Dc nella sua massima collegialità (e cioè nella composizione allargata alla partecipazione anche dei due vice-segretari, che all’epoca erano l’on. Silvio Lega e l’on. Sergio Mattarella, se ne dovrebbe inferire che l’intero gruppo dirigente della Democrazia cristiana, all’epoca ancora partito di maggioranza relativa e con un peso corrispondente nella coalizione politica che sostenne il nascente governo Amato, o quanto meno i vertici della corrente della sinistra democristiana [...] non soltanto avrebbero condiviso con Mannino la decisione di sostituire Scotti al vertice del Viminale, ma soprattutto avrebbero pienamente condiviso la vera ragione ditale decisione, che si vorrebbe far consistere in un mutamento di linea politica del Governo, nell’azione concreta di contrasto al fenomeno mafioso, tale da propiziare lo sviluppo della presunta trattativa con Cosa nostra.
LA QUESTIONE DEL VIMINALE
Insomma, a voler assecondare tale lettura, le preoccupazioni di Mannino tradirebbero, nei riguardi dell’intero gruppo dirigente della Dc che all’epoca optò per l’avvicendamento di Scotti con Mancino, una sorta di chiamata in correità, almeno sotto il profilo della (cor)responsabilità di una precisa e grave scelta politica — quale sarebbe stata, in ipotesi, quella di negoziare con Cosa nostra per ottenere la cessazione delle stragi o comunque degli ulteriori spargimenti di sangue paventati nel quadro di un escalation di violenza mafiosa che sembrava avere assunto gli esponenti democristiani a bersaglio principale -, ancorché priva in sé di rilievo penale (giacché la scelta di negoziare. sia pure con un’organizzazione criminale, in sé considerata non integrerebbe comunque alcuna ipotesi di reato). [...] è certo che non si verificò alcun mutamento nella linea d’azione del governo sul versante della lotta alla mafia, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del governo Amato; né, per quanto può evincersi al riguardo dalle deposizioni degli esponenti democristiani escussi nel giudizio di primo grado, una simile eventualità si profilò, anche solo come opzione da valutarsi, quando si decise l’avvicendamento di Scotti con Mancino.
E gli atti parlamentari relativi all’iter di conversione del Di. 306/1992 (“modifiche urgenti al codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”), danno ragione a tale assunto perché dimostrano la compattezza dei gruppi parlamentari della Dc nel sostenere il disegno di legge di conversione del decreto legge predetto, nonché la necessità, dopo la strage di via D’Amelio, di approvarlo in tempi rapidi (con le modifiche di cui al max-emendamento presentato dal Governo, proponenti i ministri Mancino e Martelli), così da evitare la decadenza delle disposizioni più incisive.
Sospetti e confidenze. Mannino si rivolse a Subranni per salvarsi la vita? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su il Domani il 14 ottobre 2022
In ogni caso, nella valutazione del giudice di primo grado, il dato che conta è che Mannino non si rivolse a chi aveva la competenza per provvedere alla sua protezione (magari perché riteneva le forze di polizia incapaci di assicurarla), e preferì investire del problema il generale Subranni, suo conterraneo, e al quale era legato da un rapporto di risalente conoscenza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
S’è visto come l’attribuzione a Calogero Mannino di un ruolo decisivo, ancorché derubricato a mero antecedente fattuale, per avere deliberatamente innescato l’iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti con Vito Ciancimino resta un tassello fondamentale della ricostruzione sposata dal giudice di prime cure, per le sue ricadute sull’elemento soggettivo del reato per cui si procede. Ma il primo pilastro su cui poggiava questo tassello si è rivelato assolutamente inconsistente.
Altro caposaldo ditale ricostruzione, su cui ha insistito il p.g. nella sua requisitoria finale, è la triangolazione di contatti, incontri e riunioni che si sarebbero susseguiti tra Mannino, Subranni e Contrada contestualmente ai contatti instaurati da Mori e De Donno con Vito Ciancimino. Sarebbe stato infatti la triangolazione predetta a offrire l’occasione e la sede, nonché il momento, anzi i diversi momenti in cui prese corpo l’incarico che poi Subranni avrebbe girato ai suoi sottoposti.
E soprattutto quella triangolazione offrirebbe la prova logica che quella sollecitazione vi fu, anche se, come ammette la sentenza impugnata, non si è in grado di dire come, in che termini, e in quali circostanze concrete, sia stata veicolata al generale Subranni e da questi agli ufficiali alle sue dirette dipendenze.
Il primo giudice non insiste più di tanto sul tema delle presunte triangolazioni, desumendo anche da altre fonti di prova la certezza che Mannino abbia incontrato anche privatamente Subranni per parargli delle minacce ricevute, ricevendone a sua volta informazioni su progetti di attentati ai suoi danni e consigli sul da farsi.
Lo proverebbero la testimonianza e i reperti scritti del giornalista Antonio Padellaro, all’epoca vicedirettore del settimanale L’Espresso, che annotò scrupolosamente e quasi in tempo reale i passaggi salienti della mancata intervista, cioè delle rivelazioni “confidenziali” che off records il Mannino gli fece l’8 luglio 1992 (a condizione che non pubblicasse l’intervista né gli attribuisse le affermazioni e gli apprezzamenti esternati in occasione di quel colloquio che doveva rimanere strettamente confidenziale).
Lo proverebbe la nota a firma del generale Subranni in datata 19 luglio, che indica l’on. Mannino tra le personalità a rischio di possibili e imminenti attentati mafiosi, in quanto non potrebbe l’informazione acquisita dai carabinieri risalire alle rivelazioni fatte dal confidente del maresciallo Lombardo, in occasione della visita che lo stesso sottufficiale gli fece insieme al capitano Sinico al carcere di Fossombrone (e ciò in quanto lo stesso Sinico ha dichiarato che all’esito del colloquio con la sua fonte, il maresciallo Lombardo fece solo il nome del dott. Borsellino come possibile bersaglio di un attentato che si assumeva essere in itinere. Tant’è che lo stesso Sinico si precipitò ad informarne il procuratore, il giorno dopo a Palermo).
Lo proverebbe altresì la circostanza che già nel mese di marzo i comandi delle forze di polizia, compresa l’Arma, e i vertici degli apparati investigativi erano stati allertati da due allarmanti note a firma del capo della polizia e del ministro dell’interno che segnalavano il rischio concreto di attentati eclatanti, e annoverava il ministro Mannino insieme ad altri esponenti politici di rilievo tra i probabili bersagli dei segnalati attentati. E se si considera che il generale Subranni conosceva da tempo personalmente il ministro Mannino e in precedenza lo aveva incontrato più volte (come s’evince dalle dichiarazioni del generale Tavormina, anche non volendo considerare, per non avere trovato ingresso in questa sede i relativi verbali di prova dichiarativa, le ammissioni fatte dallo stesso Subranni in altre sedi processuali, come il procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa), non ci vuole molto a inferire che lo stesso Subranni debba avere parlato con il diretto interessato di quei pericoli per la sua incolumità dei quali cui aveva appreso attraverso canali interni agli apparati di polizia.
E lo proverebbe infine la testimonianza del generale Tavormina, che, sia pure tra tante riserve e residue reticenze ha finito per ammettere di avere lui stesso parlato con Mannino delle minacce che aveva ricevuto, e di averne parlato anche con Subranni, che a sua volta avrebbe incontrato Mannino sullo stesso tema e si sarebbe fatto carico, come Ros, del problema della sua sicurezza.
Ciò posto, a parere del primo giudice, «non è certo dubitabile che il gen. Subranni, incontrando a più riprese l’on. Mannino anche privatamente, non avesse già avuto modo di parlare col predetto del pericolo, che, secondo l’opinione delle più alte autorità addette alla sicurezza del paese. incombeva sullo stesso. Semmai va evidenziato che appare certamente anomalo che l’on. Mannino consapevole dell'elevato pericolo personale che correva, non si sia rivolto, innanzitutto, a funzionari della polizia di stato cui ufficialmente era affidata la sua tutela (...) ed addirittura, abbia, ad un certo momento, dopo la strage di Capaci rinunziato alla scorta...».
Per la verità i fatti danno torto a quest’ultima ricostruzione, o, almeno, sfumano di molto l’anomalia che il primo giudice ha ritenuto di potervi cogliere. La scorta a Mannino, infatti, non fu revocata, anzi, secondo quanto recitava il comunicato emesso dal ministero dell’interno e citato dallo stesso Scotti nel rievocare l’articolo pubblicato su la Gazzetta del Mezzogiorno del 1° giugno 1992 che riportava la notizia che Mannino intendeva rinunziare alla scorta, tale servizio venne rafforzato (o comunque il ministro Mannino fu invitato ad accettare che venisse rafforzato).
Quanto alla dichiarazione dello stesso Mannino di voler rinunziare alla scorta, essa non era sintomatica di indifferenza al pericolo di allentati alla sua persona — già segnalato con le richiamate note del capo della polizia e del ministro Scotti — ma neppure di una sua recondita intenzione di cercare vie traverse, e più efficaci di quelle ufficiali.
L’annuncio, lungi da costituire una manifestazione di spavalderia, poteva essere letto anche come una provocazione, volta a richiamare l’attenzione anche sul suo caso e sull’insufficienza dei mezzi apprestati per la tutela delle personalità a rischio; o più semplicemente era frutto dell’amara constatazione di quanto fosse inadeguata al livello di effettivo pericolo la tutela che poteva essergli assicurata dalla polizia di stato, alla luce di quanto confessatogli dallo stesso questore di Palermo e delle polemiche che proprio in quei giorni, e a seguito del clamore suscita sul tema anche dalla strage di Capaci, infuriavano sull’insufficienza di uomini e mezzi impegnati nella lotta alla criminalità organizzata e nei servizi di protezione.
Stando infatti alle confidenze falle ad Antonio Padellaro, il Mannino aveva parlato del problema con il questore – e dunque non risponde a verità che egli non si fosse rivolto alle autorità competenti a provvedere alla sua tutela –, ma questi aveva candidamente riconosciuto di non avere né il personale né i mezzi che sarebbero stati necessari per assicurargli un’adeguata protezione. E soprattutto lamentò che le forze di polizia non avessero il bagaglio minimo di conoscenze utili a fronteggiare il pericolo proveniente dalle organizzazioni mafiose.
PADELLARO E MANNINO
Inoltre, lo stesso Mannino, sempre a dire del giornalista Padellaro, appariva sinceramente preoccupato per la sorte dei ragazzi che gli facevano da scorta, e non voleva che per causa sua succedesse toro qualcosa di grave (lui era preoccupato per la sua scorta, mi disse, mi parlò molto bene di questi ragazzi che lo seguivano e mi disse: io vorrei evitare che se mi dovesse succedere qualcosa. fossero coinvolti essi stessi).
La sentenza eleva a sospetto pure la circostanza che delle minacce ricevute il Ministro Mannino avesse parlato, anche privatamente, con il generale Subranni, o comunque con i carabinieri e non ne avesse parlato invece con il ministro dell’Interno, che peraltro era suo collega di partito [«Non risulta, invece, che il Mannino avesse riferito di avere ricevuto le predette minacce e pressioni direttamente al ministro dell’interno, tanto da raccontare al Padellaro che, appunto, il ministro dell’interno in carica sino a pochi giorni prima, l’on. Scotti, non lo aveva mai contattato, dopo l'omicidio Lima, neppure con una telefonata (“Sono rimasto solo. Neanche una telefonata di Scotti”)»].
Anche su questo punto la lettura delle risultanze processuali proposta dal primo giudice è assai opinabile perché dalla testimonianza di Antonio Padellaro sembrerebbe piuttosto evincersi che Mannino si dolesse del silenzio di Scotti, cioè del fatto che, pur essendo il ministro dell’Interno “uscente” perfettamente al corrente della sua situazione, sotto il profilo del pericolo concreto e attuale pendente sulla sua incolumità (perché era il Ministro in carica quando era stata diramata la nota del Ros e perché erano stato, tre mesi prima, lo stesso Scotti e il capo della polizia Parisi a indicare Mannino tra le personalità a rischio di attentato; per non parlare del comunicato che ribadiva la necessità del servizio di scorta per Mannino), non gli avesse fatto neppure una telefonata per manifestargli la sua vicinanza e la sua solidarietà. E se l’iniziativa di contattare Vito Ciancimino — con tutto quel che ne seguì — fu intrapresa dai carabinieri su invito od ordine del generale Subranni e a seguito delle sollecitazioni rivoltegli dal Mannino.
Tali sollecitazioni risalirebbero all’epoca in cui era ancora Scotti il ministro in carica. In altri termini, non si potrebbe addebitare a Mannino, o elevare a sospetto il suo comportamento, per non essersi rivolto a Nicola Mancino, che sarà nominato Ministro dell’interno solo il 28 giugno, quando l’iniziativa in questione era già avviata.
In ogni caso, nella valutazione del giudice di prime cure, il dato che conta è che Mannino non si rivolse a chi aveva la competenza per provvedere alla sua protezione (magari perché riteneva le forze di polizia incapaci di assicurarla), e preferì investire del problema il generale Subranni, suo conterraneo, e al quale era legato da un rapporto di risalente conoscenza.
Ma il generale Subranni, allora a capo del Ros, non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare l’on. Mannino da eventuali attentati; né risulta che si sia adoperato, direttamente e quale comandante del Ros, o indirettamente, e cioè intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per l’on. Mannino: «Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l’intendimento dell’On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che d’altra parte come detto, nel suo pensiero non lo avrebbero comunque “salvato”), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info investigativa potesse si acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di cosa nostra”, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla polizia di stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato».
L’esame delle fonti compulsate porterebbe quindi, sempre a parere del primo giudice, alla conclusione che il ministro Mannino, consapevole che Cosa nostra volesse fargli pagare di non essersi adoperato per assicurare il buon esito del maxi processo (poco importa se per non averlo voluto fare o per non esserne stato capace), fece molto di più che non limitarsi a investire i carabinieri della problematica relativa alla sua sicurezza, messa repentaglio dalle minacce mafiose. Egli tracciò per così dire ai carabinieri l’unica possibile exit strategy.
I ricordi del generale Tavormina sugli incontri tra Mannino e Subranni. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 15 ottobre 2022
Il generale è a conoscenza di incontri personali tra i due, ma ne ricorda uno solo, che risale a quando ebbero notizia di un attentato progettato ai danni dell’on Mannino. Allora ebbe modo di parlarne con Subranni, che aveva una sede del Ros già operativa a Palermo, affinché avvisasse l’on. Mannino del pericolo e comunque attivasse la sede di Palermo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Disponiamo invero del repertorio completo delle dichiarazioni del Tavormina sui suoi rapporti con Antonio Subranni e con Calogero Mannino, e, più specificamente, sul tema degli incontri (con il Mannino o con il Subranni, o con entrambi) vertenti sul tema delle minacce al Ministro Mannino, o dei timori che questi ebbe ad esprimere per la sua incolumità (non così per le dichiarazioni rese sui medesimi temi dal generale Subranni e dal Contrada nel procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; e dallo stesso Mannino in sede di interrogatorio di garanzia nell’ambito del medesimo procedimento: i difensori degli ex ufficiali del Ros, odierni imputati, si sono infatti opposti all’acquisizione che nel presente giudizio d’appello era stato chiesto dal p.g.).
Ed è dalle risultanze di quest’ultima fonte di prova dichiarativa, a partire dalla deposizione che il generale Tavormina ha reso nel giudizio di primo grado (udienza 9.01.2015), che occorre prendere le mosse.
[…] è stato dunque il primo direttore generale della Dia, dal gennaio 1992 fino a marzo del ‘93, quando andrà a ricoprire l’incarico di segretario del Cesis, fino al “rimpasto” con il cambio dei vertici di tutti gli apparati di sicurezza, conseguente all’insediamento del governo Berlusconi (maggio ‘94). Vanta un rapporto di grande stima con Ciampi, che prima lo vuole al Ministero del Tesoro; e poi come consigliere del Presidente, sino alla fine del suo settennato.
Originario di Ribera, studia a Sciacca (liceo classico); ma conosce il ministro Mannino a Torino, quando dirigeva la Scuola Allievi (1983-1984): un giorno lo chiama il generale Sateriale, che comandava la Brigata di Torino e lo invita a casa sua per presentargli un conterraneo di Sciacca, appunto l’on. Mannino: solo un incontro di presentazione, tra conterranei.
Successivamente, e anche prima di andare a dirigere la Dia, gli capitò di incontrare più volte l’on. Mannino dopo che egli era tornato a Roma con incarico di rilievo e Mannino, a sua volta, era divenuto ministro dell’Agricoltura o a capo di qualche altro dicastero. Ammette di avere avuto contatti personali, al di fuori di incontri ufficiali o per finalità istituzionali, in forza proprio della pregressa conoscenza.
Se il ministro lo chiamava per incontrano, come è certamente avvenuto, non aveva alcuna remora ad accogliere il suo invito, trattandosi comunque di una personalità di rango istituzionale, sicché lo si poteva considerare, all’epoca, un obbligo e non aveva scuse per sottrarvisi (insomma, una questione di galateo istituzionale); mentre non è mai accaduto il contrario, perché non ha mai avuto bisogno di incontrano per rappresentargli esigenze personali.
Nulla sa precisare in ordine all’oggetto di quegli incontri e a eventuali richieste. Deve però ammettere che in ragione degli incarichi ricoperti in quegli anni (tra il 1983-84 e il 1992, quando va a dirigere la Dia) non aveva alcuna “giurisdizione” sul territorio siciliano né aveva titolo per interessarsi a fatti che fossero accaduti al Mannino in Sicilia.
Peraltro, i carabinieri possono ricoprire la veste di ufficiali di polizia giudiziaria soltanto fino al grado di colonnello e quindi lui non era più ufficiale di polizia giudiziaria da quando era stato promosso al grado di generale: una precisazione spontanea, che sembra tradire la consapevolezza che le domande andassero a parare ad un suo eventuale interessamento a vicende giudiziarie del Mannino.
Conosce Subranni da anni: da quando era Capo di stato maggiore dell’Arma e lui - Subranni - andava al Comando generale a trovare un collega (il Generale Pisani, che poi diventò a sua volta Capo di stato maggiore dell’arma). Lo ha incontrato più volte, ma non hanno mai avuto rapporti per ragioni di servizio, fino a quando ha prestato servizio nell’Arma. In effetti, quando è andato a dirigere la Dia, più volte Subranni, che all’epoca era a capo del Ros, è andato a trovarlo, ma non per ragioni operative.
Erano incontri che potevano inquadrarsi in quel genere di rapporti “che si intrattengono tra Ufficiali quando ci si è conosciuti in precedenza”.
SUGLI INCONTRI TRA SUBRANNI E MANNINO
È a conoscenza di incontri personali tra i due, ma ne ricorda uno solo, che risale a quando ebbero notizia di un attentato progettato ai danni dell’on. Mannino. Allora ebbe modo di parlarne con Subranni, che aveva una sede del Ros già operativa a Palermo, affinché avvisasse l’on. Mannino del pericolo e comunque attivasse la sede di Palermo (la Dia non aveva le necessarie capacità operative, perché ancora in fase di allestimento).
Precedenti incontri presso la segreteria politica del Mannino in Roma, via Borgognone: insieme a Subranni lo esclude. Lui invece può esserci andato e deve essere successo a cavallo del suo passaggio alla Dia (o poco prima o poco dopo).
Poi però precisa che in effetti una volta ricorda di essere andato a trovare Mannino a Roma insieme a Subranni, ma presso una sede diversa da via Borgognone; e fu prima dell’episodio delle minacce al Ministro. Non ricorda però il motivo della visita. Ma forse fu solo perché Mannino desiderava conoscere Subranni o vice versa e lui li presentò.
Quando gli viene contestato dal p.m. che, testimoniando al processo a carico dell’on. Mannino (verbale d’udienza dell’8 novembre 1995), il generale Subranni aveva parlato di più incontri avvenuti presso lo studio di via Borgognone con il Mannino alla presenza anche del Generale Tavormina. Questi dice di non averne alcun ricordo, anzi di apprendere solo adesso che Subranni avesse reso quelle dichiarazioni.
Tanto meno ricorda e anzi gli giunge del tutto nuova la circostanza che, secondo quanto dichiarato sempre dal generale Subranni nel processo Mannino, in occasione di quegli incontri a tre, il Mannino avrebbe chiesto loro una mano per dimostrare l’infondatezza delle accuse rivoltegli dal pentito Spatola: neppure questo nome gli dice niente.
Tornando all’incontro di cui ha un ricordo più preciso, è probabile che sia stato Tavormina a sollecitarlo, perché forse Mannino gli aveva rappresentato le sue preoccupazioni su Palermo e allora Tavormina, non avendo una struttura di riferimento in loco cui poterlo indirizzare (per l’aiuto che chiedeva),pensò di rivolgersi a Subranni, chiedendogli di mettersi in contatto con Mannino (ndr. e qui sembrerebbe alludere al fatto che ne sia seguito un incontro tra Subranni e Mannino, avendo lui fatto solo da ponte per metterli in contatto).
Cosa gli avesse detto Mannino, di preciso non lo ricorda; ma è certo che gli aveva espresso tutta la sua preoccupazione per il fatto che evidentemente gli erano arrivate delle notizie, dei segnali in virtù dei quali riteneva che potessero esserci rischi personali, soprattutto quando lasciava Roma per tornare a Palermo.
L'OGGETTO DEGLI INCONTRI E LE MINACCE A MANNINO
È stato lo stesso Tavormina spontaneamente — come se continuando a parlarne, sgorgassero senza bisogno di alcuna sollecitazione ricordi più nitidi e dichiarazioni meno reticenti - a dire che questi incontri non è che furono numerosi, il che vai quanto dire che comunque furono anche più d’uno; sebbene lui ne ricordi uno in particolare in cui si accorse che Mannino era piuttosto preoccupato; e ne ricorda altresì un altro, e cioè l’episodio in cui fu lui, Tavormina, a preoccuparsi perché alla Dia era arrivata la notizia di un possibile — e imminente — attentato (perché da Palerno doveva recarsi ad Agrigento per il fine settimana, o qualcosa del genere): anche se non sa precisare se questo episodio avvenne prima o dopo l’incontro in cui era stato lo stesso Mannino a esprimergli la sua preoccupazione.
Propende però a ritenere, come in effetti è più plausibile, che la sua preoccupazione alla notizia del possibile attentato fosse acuita proprio dal fatto che era stato messo in preallarme per così dire dall’avere in precedenza raccolto le preoccupazioni esternate da Mannino.
Anzi, è plausibile che siano state proprio quelle esternazioni a indurre Tavormina ad attivare ogni possibile fonte per saperne di più: e ciò spiegherebbe come sia giunta alla Dia la notizia di un attentato che veniva dato per imminente o comunque già in fase avanzata di preparazione.
Stabilito l’ordine di successione tra i due episodi, il teste ritiene di potere con buona approssimazione collocare il primo episodio, quello in cui Mannino ebbe a esternargli le sue preoccupazioni, nei primi mesi del 1992, e comunque in epoca successiva non solo alla conclusione del maxi-processo, ma anche all’omicidio Lima. Quelle preoccupazioni, infatti, scaturivano da una riflessione, condivisa negli organismi investigativi dell’epoca e comunque nella Dia che riconduceva la causale dell’omicidio Lima all’esito del maxi-processo.
Non ricorda se Mannino ebbe a parlargli di specifici atti di intimidazione (del tipo di quelle di cui diedero notizia i giornali dell’epoca): non può escluderlo né confermarlo. Ma poi conferma quanto aveva dichiarato in precedenza, e precisamente all’udienza del 19 luglio 2000, al processo Mannino, quando certamente i suoi ricordi erano più freschi: in effetti, il Mannino gli “rappresentò delle grosse preoccupazioni.
A questo proposito, sentendosi appunto vittima di minacce che venivano indirizzate nei suoi confronti per l’attività politica che svolgeva a livello diciamo di evidenza in quel periodo. Quindi lui attribuiva il fatto di vivere in Sicilia e di esercitare queste sue funzioni politiche e governative a livelli così elevati, attribuiva a tutto questo. va bene, una serie di iniziative a carattere intimidatorio che venivano portate nei suoi confronti e la cosa lo preoccupava”.
Ma esclude che alla Dia fossero pervenute formali denunce di atti intimidatori; né si premurò di invitare lo stesso Mannino sporgere formale denuncia. Piuttosto, scelse di rivolgersi a Subranni, contando sulla maggiore efficienza operativa del Ros.
E al riguardo deve convenirsi che neppure Subranni o il Ros furono destinatari di una formale denuncia, né trasmisero alcun rapporto-denuncia all’a.g. (a carico di ignoti). Sicché quella che attraverso gli sforzi combinati dei comandanti di due dei principali servizi centrali di polizia giudiziaria cominciò a tessersi sarebbe stata, nella lettura che ne dà la pubblica accusa, fatta propria per questo aspetto dal primo giudice, una sorta di rete di protezione privata, ma realizzata da apparati dello stato.
Il generale Tavormina ha detto di non sapere quali iniziative abbia poi intrapreso il Ros; ma se mal non ricorda, la notizia di un possibile e imminente attentato mise i carabinieri nelle condizioni di attivarsi per verificare la notizia che in effetti poi si rivelò infondata, o meglio successivi accertamenti non diedero alcun riscontro.
Ha poi confermato che la notizia di un imminente attentato a Mannino gli giunse quando già era a capo della Dia, nella seconda metà del 1992 e faceva riferimento ad un attentato da commettere lungo il tragitto che il ministro abitualmente percorreva per recarsi da Palermo ad Agrigento. Parlandone al processo Mannino, però, in un
primo momento aveva fatto risalire l’episodio ad epoca successiva alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Adesso non è più sicuro che quel riferimento temporale sia corretto. E in effetti, deve convenirsi che già nel corso della deposizione resa al processo Mannino, aveva rettificato la sua prima dichiarazione, precisando di non poter affatto escludere che la notizia di un possibile e imminente attentato a Mannino fosse pervenuta alla Dia già nel giugno del ‘92, ossia prima della strage di via D’Amelio.
D’altra parte, aveva sbagliato anche nel datare il suo incontro con Guazzelli [...]. In sede di riesame, ha poi confermato che gli incontri sollecitati da Mannino sul problema della sua sicurezza personale in relazione ad episodi di minacce ed intimidazione si collocano in un periodo in cui lo stesso Mannino era ministro. E questo esclude che siano avvenuti dopo la strage di via D’Amelio (“Ma verosimilmente si, guardi”).
È possibile quindi che la sicurezza che sarà ostentato dallo stesso Mannino in occasione di un intervista rilasciata mesi dopo sul Corsera (il 28 maggio 1993), nascesse dall’esito di quegli accertamenti, unito al tempo trascorso dalla notizia di un imminente attentato senza che ne fosse seguito alcun ulteriore atto intimidatorio.
Ma il 19.07.2000, sempre al processo Mannino aveva dichiarato che la notizia di minacce e di un possibile attentato aveva costretto il Ros ad adottare una serie di iniziative a tutela della personalità minacciata. Più precisamente, quanto era pervenuta alla Dia la notizia che era in preparazione un attentato ai danni di Mannino, ne aveva parlato con Subranni perché anche il Ros era stato interessato al problema della tutela del Ministro. E anche Subranni conveniva sul fatto che le minacce dovessero ricollegarsi all’attività politica del Mannino. Ammette che delle iniziative intraprese ebbe modo di parlare con il Generale Subranni. Non ricorda però di quali iniziative si sia trattato, sebbene sappia benissimo che tra i compiti d’istituto del Ros non figurano servizi di scorta a magistrati o politici o personalità attinte da minacce; e che il servizio di scorta al Ministro Mannino era affidato alla polizia di stato.
Si può obbiettare che sarebbe stato inutile potenziare il servizio di scorta. Ma, a parte che questa era una valutazione da lasciare all’organo competente, ci si deve chiedere piuttosto che cosa il Ros potesse fare, e che cosa Mannino poteva aspettarsi o chiedere che facesse, di diverso e più efficace rispetto agli strumenti operativi azionabili dalla polizia di Stato.
Tavormina al riguardo può solo ribadire che, come Dia, non avevano né gli strumenti né la competenza per portare avanti una qualsiasi iniziativa di protezione del Mannino; ma non esclude di averne parlato anche con De Gennaro che, in quanto vice-direttore della Dia, era a capo della struttura operativa. E presume di averne parlato anche a capo della polizia, il prefetto Parisi che del resto si raccordava direttamente al Prefetto De Gennaro; sicché, avendone Tavormina parlato con De Gennaro, il capo della polizia ne sarà stato informato a sua volta (Non ricorda i particolari, ma finisce per ammettere di averne parlato con De Gennaro: [...]).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quei contatti fra il ministro, Bruno Contrada e il capo della Dia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 16 ottobre 2022
Ma non c’è prova di incontri tra Mannino e Subranni nel periodo di tempo compreso tra la strage di Capaci e la prima presa di contatto di De Donno con Ciancimino. L’unico che si può desumere dalle pur evasive o reticenti dichiarazioni dell’ex capo della Dia è quello seguito alla notizia di un imminente attentato a Mannino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Orbene, va detto subito che non si può trarre dalla testimonianza del Tavormina alcun elemento certo in ordine al fatto che Mannino e Subranni si siano incontrati più volte per parlare dei problemi di sicurezza del ministro e delle iniziative intraprese dal Ros a sua tutela, nel medesimo periodo di tempo in cui si dipanò la vicenda dei contatti di Mori e De Donno con Ciancimino.
L’unico incontro che si può desumere dalle pur evasive o reticenti dichiarazioni dell’ex capo della Dia è quello seguito alla notizia di un imminente attentato a Mannino: notizia che, verosimilmente, precede la nota del 19 giugno 1992 a firma Subranni diffusa a vari corpi di polizia organismi investigativi circa il pericolo di attentati a varie personalità tra le quali anche due uomini politici identificati nelle persone di Mannino e Andò.
Ma a quella data il progetto di agganciare Ciancimino era già in opera, nel senso che, se non v’era stato già un primo incontro a quattr’occhi tra De Donno e Ciancimino, quanto meno il primo era in attesa di una risposta alla sua richiesta di incontrarsi (fatta avere, al secondo, per il tramite del figlio Massimo).
Quanto agli incontri — di Mannino con Subranni - desumibili dalle agende Contrada, uno non fa testo perché è databile al 13 ottobre, ossia in una fase più che avanzata della trattativa con Ciancimino e a cinque giorni dalla sua apparente rottura.
L’altra risale all’8 luglio, ma il dato non è sicuro perché l’annotazione in agenda è interlocutoria (Subranni era atteso, per andare insieme a Contrada dal ministro, ma non è detto che sia poi giunto); e comunque valgono le considerazioni precedenti, con l’aggiunta che a quella data era già iniziata, con tutta probabilità, la sequenza degli incontri preliminari tra il capitano De Donno e Vito Ciancimino.
Detto questo, non si può presumere che vi siano stati altri incontri solo perché ciò tornerebbe utile a far quadrare l’ipotesi accusatoria; e tanto meno si possono colmare i vuoti della deposizione di Tavormina, costellata di reticenze e amnesie, e la mancata acquisizione di ulteriori dati, imputabili alla scelta difensiva di non dare ingresso alla produzione da parte del pm dei verbali delle dichiarazioni rese dal generale Subranni al processo Mannino, dando per provato ciò che nessuno dei partecipanti a quegli incontri triangolari — per quanto possa desumersi dalle risultanze dei processo Mannino e Contrada e dalla motivazione delle stesse richieste di acquisizione di quei verbali — ha mai dichiarato o lasciato intendere: e cioè che Mannino abbia dato incarico a Subranni, che a sua volta avrebbe girato l’incarico ai suoi sottoposti, di tentare un approccio con i vertici di Cosa nostra; o che una simile iniziativa sia stata concertata tra Subranni e Mannino in occasione di uno o più di quegli incontri.
Resta, è vero, l’incertezza sulle iniziative che, a dire dello stesso Tavormina, furono effettivamente intraprese dagli uomini del Ros a tutela dell’influente uomo politico; e l’imbarazzo del dichiarante nel non riuscire a mettere a fuoco i propri ricordi sul punto, pur avendo finito per ammettere che di quelle iniziative ebbe a parlare con Subranni.
Ma non si può da ciò ricavarne che esse si concretizzarono proprio in un tentativo diretto ad intavolare una trattativa con Cosa nostra, giacché non si può escludere che si siano limitati ad attivare i canali e terminali della propria rete info-investigativa (e in tale ottica si spiegherebbe la visita del capitano Sinico, insieme al maresciallo Lombardo, per compulsare una fonte di quest’ultimo, Girolamo D’anna, al carcere di Fossombrone il 15 giugno 1992, quattro giorni prima che venisse diramata l’allarmata e allarmante nota a firma del C.te del Ros circa possibili e imminenti attentati ad alcune personalità, tra le quali anche il ministro Mannino) o abbiano condotto specifici accertamenti per verificare la fondatezza della notizia di un imminente attentato (accertamenti che poi, a dire dello stesso Tavormina, non diedero esito).
Quanto alla suggestione derivante dalla coincidenza temporale, ovvero il fatto che nello stesso torno di tempo si andava dipanando la vicenda dei contatti con Vito Ciancimino finalizzati, nelle dichiarate intenzione dei diretti protagonisti, a fermare le stragi, si può concedere al più che Subranni ne abbia informato Mannino, condividendone l’utilità anche ai fini della problematica legata alle preoccupazioni del ministro per la propria incolumità: ma senza per ciò stesso inferirne che quell’iniziativa sia nata e sia stata tra loro concertata per quella specifica finalità, dal momento che nulla smentisce l’assunto che l’idea originaria sia stata concepita da Mori e De Donno (quest’ultimo raccogliendo un input del suo comandante a ricercare fonti di livello superiore alle schiere di confidenti, che fossero utili ad acquisire conoscenze e informazioni sulle dinamiche criminali in atto).
Come non v’è prova di incontri tra Mannino e Subranni nel periodo di tempo compreso tra la strage di Capaci e la prima presa di contatto di De Donno con Massimo Ciancimino.
ALCUNE AMMISSIONI
È forse per sopperire a questa rarefazione probatoria, e poter dimostrare l‘esistenza, l’oggetto e la collocazione temporale degli assenti incontri di Subranni con Mannino, ed anche con Contrada, sul problema delle minacce allo stesso Mannino e delle iniziative da intraprendere per la sua protezione, che il p.g. Aveva prodotto, chiedendone l’acquisizione, il verbale delle dichiarazioni rese dal generale Subranni al pm l’8 settembre 1995 nell’ambito del procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; il verbale dell’interrogatorio di garanzia reso dallo stesso Mannino in data 15 febbraio 1995; i verbali delle deposizioni testimoniali rese all’udienza del 19.07.2000 dallo stesso Subranni e dal dirigente del Sisde Bruno Contrada, sempre nel procedimento a carico del Mannino: atti dai quali emergerebbe che Mannino ebbe ad incontrare sia Subranni che Contrada, tra i mesi di giugno e ottobre del ‘92, anche per parlare con loro delle minacce ricevute e delle preoccupazioni per la sua incolumità.
I difensori di Subranni, ma anche i difensori dei coimputati Mori e De Donno, si sono opposti alla richiesta di acquisizione dei verbali predetti che quindi non hanno avuto ingresso nel materiale probatorio utilizzabile da questa corte.
Una scelta processuale del tutto legittima e insindacabile, da cui non possono ricavarsi indizi a carico del Subranni — e di riflesso anche nei riguardi degli altri due coimputati — per avere sbarrato l’ingresso a materiali di prova compromettenti per la propria posizione.
[…] Ne segue che il tema delle triangolazioni (Mannino-Subranni; Mannino-Contrada; Mannino con Subranni e Contrada insieme) è stato sviscerato nel giudizio d’appello del processo-stralcio a carico di Calogero Mannino assai più di quanto non sia stato possibile fare in questa sede, proprio perché in quel giudizio avevano trovato ingresso e sono stati utilizzati anche i verbali di prova di altro procedimento che invece qui non sono stati acquisiti, non avendo i difensori degli imputati prestato il necessario consenso ex art. 238 c.p.. Ma gli esiti, nel separato giudizio d’appello, non sono stati meno deludenti per le aspettative che la pubblica accusa riponeva in quelle allegazioni probatorie.
Infatti, i giudici d’appello del processo stralcio a carico del Mannino danno atto della sostanziale convergenza che si registra tra le dichiarazioni ammissive di Mannino, di Contrada e dello stesso Subranni circa il fatto che, nel periodo compreso tra giugno e ottobre del ‘92 vi furono tra loro diversi incontri vertenti sia sul problema delle minacce ricevute dal ministro Mannino che sull’esposto anonimo denominato Corvo2 e sulle relative indagini.
A tale convergenza si sottrae solo il rifiuto di Subranni di ammettere di avere incontrato Mannino insieme a Contrada, rifiuto reiterato anche dopo che, secondo quanto si legge nella sentenza di assoluzione del Mannino, gli fu contestato che tale circostanza era stata ammessa dagli altri due soggetti chiamati in causa. Ma per il resto, i tre dichiaranti confermano che vi furono diversi incontri «tra il ministro, il capo del Ros ed il capo del Sisde aventi ad oggetto la sicurezza personale dell’uomo di governo e le accuse contenute nell’anonimo ‘Corvo 2’ vi è più sfociate anche in una riunione istituzionale a cui avevano partecipato la Criminalpol, la Dia, il Ros, il Sismi, il Sisde».
Gli stessi giudici pervengono però alla conclusione che, su entrambi i temi che furono oggetto di quegli incontri, «gli interessi in gioco in quel periodo, quando già era avvenuta la strage di Capaci, non solo per la sicurezza della vita degli uomini di governo, ma anche per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, rendessero assolutamente plausibile la mobilitazione, nell’interesse del ministro Mannino, come di altre alte istituzioni dello stato, di tutte le forze di polizia, militari e d’intelligence dello stato italiano».
In altri termini, non vi sarebbero stato, nelle acclarate triangolazioni, tenuto conto del contesto in cui avvennero e delle prerogative e competenze dei soggetti che vi parteciparono, nulla di anomalo o non ortodosso. Ebbene, ritiene questa corte di dover pervenire ad analoghe conclusioni, con le precisazioni che seguono.
Anzitutto, deve convenirsi che, [...] la circostanza di una sequenza di incontri tra i medesimi soggetti, ma anche quella di analoghe e più o meno contestuali triangolazioni Mannino-Subranni e Mannino-Tavormina, Tavormina-Guazzelli-Subranni, sempre sul tema delle minacce al ministro Mannino e delle possibili iniziative da intraprendere a tutela della sua incolumità, è un dato che può considerarsi pacificamente acquisito in almeno due processi definiti ormai con sentenze parimenti irrevocabili. Sul punto, nella memoria depositata il 5 luglio 2021 nella fase della discussione finale del presente giudizio d’appello, le difese di Mori e De Donno non si sottraggono al confronto con l’argomento su cui ha insistito il p.g. nella sua requisitoria; ma si limitano ad ammettere ciò che può evincersi dalle annotazioni contenute nelle agende del Contrada, che fanno parte del compendio dibattimentale.
Si ammette dunque che Mannino abbia incontrato Contrada il 25 giugno, ma da solo e non insieme a Subranni, e comunque dopo che era stata diramata (il 19 giugno ‘92) l’allarmata e allarmante nota del Ros, a firma del Generale Subranni, che segnalava il pericolo concreto di attentati ai danni di cinque personalità, tra cui il Ministro Calogero Mannino.
Ed ancora si ammette che Mannino abbia incontrato Subranni e Contrada insieme: ma una sola volta, e cioè il 13 ottobre ‘92 [...] ossia appena cinque giorni prima dell’ultimo di una serie (iniziata mesi prima) di molteplici incontri che De Donno, prima, e poi lo stesso De Donno insieme al Colonnello Mori, avevano avuto con Vito Ciancimino.
Mentre per la giornata dell’8 luglio risultano annotati sia un incontro con il Generale Subranni che un appuntamento in via Borgognone 47, presso lo studio dell’on. Mannino, ma sembrerebbe trattarsi di annotazioni separate. Quanto alla suggestione derivante dalla coincidenza temporale, ovvero il fatto che nello stesso torno di tempo si andava dipanando la vicenda dei contatti con Vito Ciancimino finalizzati, nelle dichiarate intenzione dei diretti protagonisti, a fermare le stragi, si può concedere al più che Subranni ne abbia informato Mannino, condividendone l’utilità anche ai fini della problematica legata alle preoccupazioni del ministro per la propria incolumità: ma senza per ciò stesso inferirne che quell’iniziativa sia nata e sia stata tra loro concertata per quella specifica finalità, dal momento che nulla smentisce l’assunto che l’idea originaria sia stata concepita da Mori e De Donno (quest’ultimo raccogliendo un input del suo comandante a ricercare fonti di livello superiore alle schiere di confidenti, che fossero utili ad acquisire conoscenze e informazioni sulle dinamiche criminali in atto).
Come non v’è prova di incontri tra Mannino e Subranni nel periodo di tempo compreso tra la strage di Capaci e la prima presa di contatto di De Donno con Massimo Ciancimino.
L’unico che si può desumere dalle pur evasive o reticenti dichiarazioni dell’ex capo della Dia, come già detto, è quello seguito alla notizia di un imminente attentato a Mannino: […]. Non sarebbe provato quindi, a tutto concedere, che Subranni si sia incontrato con Mannino in tempi compatibili con l’ipotesi che la presunta Trattativa Stato-mafia possa essere scaturita da un input di Mannino a Subranni, o addirittura da un apposito incarico conferito dall’ancora influente uomo politico al Comandante del Ros.
La difesa glissa sull’altra triangolazione, quella facente capo al Generale Tavormina (Mannino-Guazzelli, Guazzelli-Tavormina-Subranni), e che si sarebbe dipanata a cavallo dell’omicidio Guazzelli (4 aprile 1992). Ma è anche vero che questa ulteriore triangolazione, che in parte precede e in parte s’intreccia all’altra, risale ad almeno due mesi prima che venisse concepito e messo in atto il progetto di contattare Vito Ciancimino, che prenderà forma solo dopo la strage di Capaci.
Ciò posto, a rivelarsi fallace è la premessa su cui si fonda l’intero ragionamento che ha condotto il giudice di prime cure a riconoscere al Mannino un ruolo fondamentale per avere innescato e, in qualche modo, “ispirato” quel progetto.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Dopo la sentenza del maxi processo, minacce e un’intervista fantasma. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 17 ottobre 2022
«I rapporti di polizia parlano di pressioni fortissime esercitate su quegli esponenti politici che, secondo la mafia, non hanno voluto contrastare gli inasprimenti governativi o che non fanno nulla per cambiare le cose nel senso voluto dalla piovra»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Inoltre, Mannino aveva parlato anche pubblicamente delle minacce ricevute: il 15 ottobre 1991, intervista ad Enzo Biagi pubblicato su Corsera con un articolo dal titolo “Sicilia che uccide, anche con le parole”, in cui si parla dei tre mazzi di crisantemi davanti alla porta della sua abitazione; il 1° aprile 1992, articolo sul GdS: “Mannino, bomba nel comitato elettorale”, con riferimento all’attentato di Misilmeri a proposito del quale il Ministro esprime il convincimento che si trattasse di un attentato mafioso diretto contro la DC; il 5 aprile 1992, articolo pubblicato su La Sicilia, dal titolo eloquente: “L’onorevole nel mirino”; il 25 luglio 1992, articolo pubblicato su La Stampa, dal titolo: “Anche Mannino protetto in un luogo super segreto”, in cui si dà notizia che Mannino era stato trasferito in un luogo protetto fuori della Sicilia, perché, al pari di altri politici siciliani, ritenuto bersaglio di possibili e imminenti attentati, tanto da indurlo ad entrare nel nuovo governo (l’epoca è quella della pubblicazione dell’articolo di Padellaro che riporta sostanzialmente il contenuto dell’intervista ombra rilasciatagli da Mannino l’8 luglio); il 3 agosto 1992, articolo pubblicato su Il Giornale, dal titolo “La mafia minaccia Mannino” dà notizia che un rapporto del Ros aveva individuato, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, come possibili bersagli di nuovi attentati, alcuni politici siciliani e in primis Mannino, e cinque magistrati siciliani di cui si facevano i nomi; il 25 ottobre 1992: articolo pubblicato su Il Giornale dal titolo: “L’autobomba...allarme a Roma” in cui si parla di un probabile attentato a Roma con il tritolo ai danni del giudice Ayala o dell’ex ministro Mannino, indicato come leader dello Scudo crociato in Sicilia.
La sentenza d’appello del processo stralcio ne inferisce, con logica deduzione, che minacce e intimidazioni indirizzate al Mannino erano state puntualmente denunciate dall’interessato o dai suoi più stretti collaboratori (o dal personale di polizia addetto alla sua tutela); e soprattutto avevano avuto risalto mediatico anche grazie alle interviste rilasciate dallo stesso Mannino all’epoca dei fatti.
L’INTERVISTA “ANONIMA” A PADELLARO
Non sembra che dalla testimonianza Padellaro o dalle dichiarazioni de relato di Francesco Onorato siano emerse risultanze di segno contrario, e tali da inficiare la conclusione predetta.
Mannino ha riferito al giornalista Padellaro di un possibile e imminente attentato di cui gli avevano parlato, con dovizia di particolari, i carabinieri. Ma tale notizia con tutta probabilità si riferiva a quella segnalazione, pervenuta alla Dia e girata “per competenza operativa” al Ros, di cui ha parlato il generale Tavormina.
Mannino però rivelò a Padellaro anche di essere stato avvicinato da soggetti - di cui non fece nomi né indicò elementi che aiutassero a identificarli - che avrebbero fatto pressione per indurlo ad adoperarsi a favore dell’organizzazione mafiosa, spendendo la sua intelligenza e capacità d’influenza politica per procacciare concreti vantaggi e benefici ai mafiosi.
Onorato dal canto suo si è limitato a riferire di avere appreso da Salvatore Biondino che anche Mannino, così come Lima e altri esponenti politici accusati di avere voltato le spalle a Cosa nostra o di averne deluso le aspettative, era stato convocato al cospetto dei capi dell’organizzazione per rendere conto del suo comportamento.
Il collaboratore predetto non ha saputo precisare se Mannino rispose alla convocazione, o disertò l’appuntamento come Lima; ma è certo che ne era stata decretata la condanna a morte, mentre non gli risulta che tale condanna fosse stata revocata. Anzi, per la precisione, Onorato ha detto che, per quanto a sua conoscenza, non sopraggiunse alcun ordine di fermarsi: tutti coloro che erano iscritti nella black list detenuta da Salvatore Biondino delle persone da eliminare, e in particolare dei politici, dovevano essere ammazzati. E in quella lista è certo che c’era il nominativo di Mannino.
Ora non è qui in discussione l’attendibilità della “testimonianza” di Onorato con tutti i limiti derivanti dal fatto che riferisce fatti di cui non ha avuto conoscenza diretta; ma la fonte di riferimento era certamente qualificato e in grado di parlarne con cognizione di causa. Resta però il fatto che Onorato non sa se Mannino si presentò all’appuntamento, né è chiaro se tale appuntamento gli era stato dato per concedergli un’ultima chance di salvezza, o per mettere in esecuzione un verdetto irrevocabile già emesso dal tribunale di Cosa nostra. [...] L’unico elemento che può in qualche modo tornare a riscontro delle dichiarazioni de relato di Onorato è la confessione fatta dallo stesso Mannino a Padellaro di essere stato fatto segno ad avvertimenti minacciosi, sia pure sotto forma di amichevoli suggerimenti: e di tali avvertimenti si era guardato bene dal riferirne all’A.g. o ad organi di polizia.
Ma da ciò non può inferirsi addirittura la prova di una circostanza di cui neppure lo stesso Onorato può essere certo (e cioè che Mannino abbia risposto alla chiamata, e si sia messo a disposizione, nel senso di assumere l’impegno di adoperarsi per propiziare sviluppi favorevoli agli interessi di Cosa nostra), perché Biondino si limitò a dirgli che Lima aveva dato buca, cioè non si era presentato all’appuntamento, e quindi era divenuto urgente procedere alla sua eliminazione (e allora questo era diventato pericoloso, questa cosa che lui non si è presentato, ecco perché c'era la fretta di uccidere Salvo Lima. Perché quando una persona, se ci dai un appuntamento e non si presenta, si ci va subito a sparare, anche in Cosa nostra tra uomini d’onore era così, perché certamente se non si presenta vuol dire che ha capito qualcosa). Nulla gli disse degli altri politici che erano stati convocati (a me mi ha detto che l’appuntamento era stato dato a Lima con altri politici, però mi ha detto di Lima).
Ma è anche vero che nel corso della medesima disposizione, nel passaggio immediatamente precedente, aveva detto che nessuno degli altri politici convocati come Lima all’Hotel Perla del Golfo (di proprietà di un avvocato con cui Lima aveva rapporti d’affari) si era presentato («dopo la sentenza del maxi-processo c’è stato subito che avevano dato mi diceva Salvatore Biondino che avevano dato l’appuntamento a Salvo Lima e che liti aveva fatto buca, non si era presentato. Ma non solo Salvo Lima, anche queste persone che io ho parlato... di politici, di politici, tanti politici che sono stati fissati degli appuntamenti e non si sono neanche presentati»).
E tra i politici che aveva prima menzionato come obbiettivi da colpire, aveva fatto (ripetutamente) il nome di Calogero Mannino, così come quello del ministro Calogero Vizzini (lo chiama ripetutamente Calogero, ma è evidente che si tratta di un lapsus, che non dà però adito ad alcun dubbio di confusione con il ministro Calogero Mannino perché a specifica domanda, il collaboratore di giustizia ha precisato che si trattava di due diversi esponenti politici, entrambi condannati a morte da Cosa nostra).
D’altra parte, la convocazione di cui parla l'Onorato risalirebbe a febbraio del ‘92, poiché la mancata presentazione di Lima indusse a rompere gli indugi e procedere alle attività propedeutiche all’esecuzione del delitto che poi avvenne il 12 marzo.
[…] E in effetti, tra le pieghe della deposizione di Francesco Onorato si rinviene un episodio minore che confermerebbe questi esiti interpretativi. Il collaboratore di giustizia ha infatti confermato quanto aveva riferito già al Borsellino Ter: circa 20 giorni dopo l’uccisione di Lima, egli si stava preparando a porre in esecuzione anche l’omicidio già programmato del figlio di Lima (Marcello). Ma il Biondino lo stoppò, dicendogli che c’erano obbiettivi più importanti a cui lavorare, e gli disse che «dovevano rompere le corna a Falcone e al dr. Borsellino e sì, a tutti quelli, c'era anche Vizzini, c’erano tutti quelli che ho detto». (Non ha qui menzionato espressamente il ministro Mannino, ma ne aveva fatto il nome poco prima insieme agli altri politici da eliminare).
In entrambe le ipotesi sopra delineate, comunque, la testimonianza de relato di Onorato non è di alcun ausilio alla ricostruzione che vorrebbe Calogero Mannino partecipe di un accordo raggiunto con i vertici mafiosi che contemplasse il suo impegno ad avviare o gettare le basi di un negoziato tra Io Stato e Cosa Nostra (in cambio della sospensione o della revoca della sua condanna a morte).
Nella prospettazione accusatoria ribadita dal p.g. nella sua requisitoria, tale ipotesi ricostruttiva viene rilanciata — non avendo la pubblica accusa rinunciato all’assunto di un ruolo decisivo del Mannino nella vicenda che qui ci occupa, ad onta della sua definitiva assoluzione nel separato procedimento a suo carico — proprio sulla scorta della testimonianza di Giovanni Brusca, che ha parlato di un improvviso stop intimatogli da Biondino quando era ormai pronto a mettere in atto il piano per uccidere Mannino.
Ma, almeno per quanto concerne il contributo testimoniale di Onorato, deve ribadirsi che, pur valutato in combinato disposto con la testimonianza del giornalista Antonio Padellaro sulla cripto intervista a Mannino, il massimo risultato che se ne può trarre è nel senso di una conferma della circostanza che, già a cavallo dell’omicidio Lima, il ministro era stato fatto segno a tentativi di avvicinamento, e ad avvertimenti minacciosi e dal tenore inequivocabile, che lo ammonivano ad adoperarsi per promuovere l’adozione di misure a favore dell’organizzazione mafiosa, come lo stesso Mannino ebbe a confidare al Padellaro.
AVVERTIMENTI E MINACCE
E del resto, ulteriori riscontri fattuali alla validità di tal ricostruzione si ricavano dall’evidente intensificazione di minacce e atti di intimidazione subiti dal Ministro Mannino nel 1992, e anche dopo l’omicidio Lima, e dalla loro sequenza cronologica. Si spiega perfettamente che il risentimento e i propositi bellicosi contro Mannino da parte di Cosa nostra montino a partire dal 1991: egli era stato ministro del governo che aveva approvato alcuni dei provvedimenti più incisivi a supporto dell’azione repressiva del fenomeno mafioso.
Il link con la conclusione sfavorevole del maxi processo è indiretto: già prima che venisse emanata la sentenza, viene deliberata, prevedendo quell’esito, la strategia di attacco frontale allo Stato che contemplava l’eliminazione dei rami secchi della politica, ossia l’uccisione dei politici rivelatisi inaffidabili; e Mannino era divenuto inaffidabile, agli occhi degli affiliati a Cosa nostra, anche a prescindere dal non avere fatto nulla per favorire un esito propizio del maxi processo, al pari di Lima, o, come da ultimo sostenuto da Brusca, per non essersi interessato per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del Capitano Basile — o almeno per non avere fatto quel che Riina voleva che egli facesse per favorire una decisione favorevole — o per essere divenuto inviso alle cosche agrigentine, già solo per aver fatto parte di una compagine di governo che aveva varato un pacchetto di misure antimafia, senza che egli avesse mosso un dito per contrastarle.
E tuttavia, solo quando il verdetto emesso consacrò un esito che veniva ornai dato per scontato, si decise di passare alla fase esecutiva: per Mannino come per Lima e per gli altri politici che avevano voltato le spalle a Cosa nostra (o almeno questa era la narrazione corrente tra le fila dell’organizzazione mafiosa, per quanto fu dato conoscere ai collaboratori di giustizia che ne hanno riferito) facendo infuriare Riina.
Ma se è vero che Lima era solo il primo di una nutrita lista di uomini politici da eliminare perché avevano voltato le spalle a Cosa nostra (insieme a magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine che invece dovevano essere uccisi per avere strenuamente ed efficacemente combattuto l’organizzazione mafiosa), e in quella lista figurava tra gli altri il nominativo del Ministro Mannino, che senso avrebbe avuto rinnovare ancora fino a luglio e anche dopo la strage di via D’Amelio, minacce e intimidazioni?
È evidente quelle intimidazioni potevano ritenersi di matrice mafiosa solo ammettendo che l’intento fosse quello di concedere a Mannino un’ultima chance, e cioè, come lui stesso del resto ebbe a confidare al giornalista Padellaro, adoperarsi per salvaguardare gli interessi di Cosa nostra.
Ora, è vero che, a differenza degli atti di intimidazione oggetto di formali denunce o segnalazioni alle autorità di polizia (da parte dello stesso Mannino o di suoi stretti collaboratori), egli non fece altrettanto per le pressioni e gli avvertimenti minacciosi, magari paludati da amichevoli consigli, di cui riferì al Padellaro.
Ma è assolutamente comprensibile che non volesse renderle pubbliche, perché ciò lo avrebbe messo in grave imbarazzo, vuoi per l’identità dei soggetti da cui promanavano, vuoi perché sarebbe stato arduo farne materia di denuncia, non consistendo in minacce esplicite. Un’eventuale segnalazione non avrebbe sortito altro effetto che quello di accrescere la sua esposizione al pericolo. E tuttavia, non possiamo prenderci in giro.
Se l’ex ministro ne fece materia di rivelazioni confidenziali e off records ad un noto giornalista come Antonio Padellaro, e sapendo che egli stava curando un reportage sugli accadimenti siciliani, fu perché voleva che la notizia trapelasse all’esterno, sia pure con modalità che non lo esponessero più di tanto.
Pretese infatti che nell’eventuale articolo che il Padellaro avesse pubblicato, traendo contenuti e notizie dal loro colloquio confidenziale, non facesse il suo nome, né gli attribuisse alcun virgolettato, di tal che egli potesse in qualsiasi momento negare la paternità del dichiarato.
Ma al contempo, non si dolse, dopo la pubblicazione su L’Espresso dell’articolo “Con la morte addosso” (quello pubblicato il 26 luglio 1992, per intenderci), del fatto che esso contenesse elementi che consentivano di ricondurre proprio a lui l’innominato deputato democristiano siciliano ed ex ministro indicato dall’Arma come a rischio di attentati, nonché fatto segno a minacciose pressioni (“Dice di sé: cammino con la morte addosso. Se il deputato democristiano in cima alla lista di Cosa Nostra si attiene ai consigli dell’Arma...”; “I rapporti di polizia parlano di pressioni fortissime esercitate su quegli esponenti politici che, secondo la mafia, non hanno voluto contrastare gli inasprimenti governativi o che non fanno nulla per cambiare le cose nel senso voluto dalla piovra”. Ed ancora: “Ai parlamentari ed a ministri sotto tiro, non resterebbe quindi molta scelta: tenere duro o piegarsi...”); né avanzò nei riguardi del Padellaro alcuna rimostranza, neppure privatamente.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Niente di “disdicevole” nei rapporti tra politici e generali. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 18 ottobre 2022
Mannino si rivolse ai vertici dei maggiori apparati investigativi e di intelligence dell’epoca; o almeno a quelli cui più facilmente poteva accedere sfruttando le proprie relazioni e i propri apparati di conoscenza anche personali. Rapporti che ovviamente gli offrivano opportunità di accesso e di ascolto — e di essere ascoltato — che restavano preclusi a un comune cittadino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Insomma, la lettura più ragionevole della decisione di Mannino di rilasciare quella sorta di intervista-confessione “fantasma” è che egli abbia sfruttato l’interesse del giornalista a raccogliere in esclusiva quelle confidenze per fare trapelare all’esterno, fra l’altro, la circostanza che egli era vittima anche di insidiosi avvertimenti, e che cosa si pretendeva da lui.
Che poi era un modo intelligente per tenere desta l’attenzione sul suo caso, accreditando di sé l’immagine di politico che non si era piegato al ricatto mafioso, ma al contempo (per) non essere lasciato solo a dover fronteggiare quelle pressioni, facendo chiaramente intendere (almeno a chi doveva intenderlo) quale fosse la posta in palio: o tenere duro, o piegarsi.
Si può persino intravedere, in una simile prospettazione, anche un appello accorato a che la Politica si assumesse le proprie responsabilità, e non fossero i singoli a dover fare quella scelta. Ma deve convenirsi che in ogni caso le esternazioni di Mannino, cui dare pubblico risalto per interposta persona e senza scoprirsi in modo esplicito, contrastano con l’ipotesi che lo prefigura quale ispiratore di trarne sotterranee volte ad avviare un dialogo con Cosa nostra.
È certo infatti che un’eventuale trattativa tra lo stato e Cosa nostra, per avere chance di successo, doveva svilupparsi sottotraccia e nel più assoluto riserbo, senza dare pubblicità ai termini della questione e alla posta in palio. E se stiamo alle risultanze acquisite, non si può dire che Calogero Mannino avesse fatto di tutto per occultare o mettere la sordina alle minacce ricevute e alla condizione di ricatto in cui lui stesso versava. Né può trarsi argomento di segno contrario dal riserbo con cui si svolsero — o si sarebbero svolti — gli incontri con Subranni, vertenti sul problema della sicurezza personale del ministro (o dell’onorevole) Mannino. Ed invero, alla luce delle risultanze emerse sul tenore dei rapporti tra Manino e Guazzelli, tra Mannino e Subranni e tra Subranni e Guazzelli non può escludersi in effetti che in epoca anteriore e prossima all’uccisione del maresciallo Guazzelli – e in un contesto di crescente emergenza legata alla sequela di attentati e omicidi – questi abbia incontrato Mannino per parlare delle problematiche relative alla sua sicurezza, come già era avvenuto in precedenza; e che di tali argomenti a sua volta Subranni abbia parlato con Guazzelli, sempre poco prima della sua morte, sollecitandone un abboccamento con Mannino: ciò che sarebbe avvenuto anche il giorno prima che venisse ucciso, quando Guazzelli rientrò in Sicilia reduce dalla trasferta romana [...].
Ma, al netto del riguardo e della sollecitudine usata (da Tavormina come da Subranni, come dal povero Guazzelli) anche in ragione di pregressi rapporti di conoscenza personale, o per ingraziarsi i favori di un potente uomo politico, non vi sarebbe nulla di disdicevole, o di inappropriato rispetto ai doveri istituzionali nel fatto che la sicurezza del Ministro fosse oggetto di particolare attenzione da parte dell’Arma, sia nella persona di uno dei sottufficiali più impegnati ed esperti di indagini antimafia nel territorio di provenienza del Ministro, sia nella persona degli alti Ufficiali che ricoprivano ruoli apicali negli organismi ed apparati di intelligence a livello nazionale [...].
Il Ros aveva particolari competenze e conoscenze per porre in essere una tutela “preventiva” dell’incolumità del ministro, attivando la propria rete di fonti info-investigative, ma anche predisponendo all’occorrenza sevizi particolari di protezione (in occasione di spostamenti della personalità a rischio o di particolari situazioni di pericolo) o rafforzando quelli ordinari (come sarebbe avvenuto proprio nell’estate del ‘92, secondo quanto il generale Tavormina aveva riferito all’udienza de 19.07.2000, nell’ambito del processo a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa — v. supra — salvo non serbarne memoria quando ha deposto, quasi 15 anni dopo, nel primo grado del presente giudizio).
Lo stesso poteva dirsi della Dia, almeno stando alle competenze previste dalla legge istitutiva, che ne faceva addirittura l’organo verso il quale avrebbero dovuto confluire tutte le informazioni raccolte su vicende e indagini in materia di criminalità mafiose da parte degli altri organismi investigativi. E peraltro tra i suoi primi compiti operativi, come ben rammenta il generale Tavormina, vi fu proprio la gestione di alcuni nuovi pentiti del calibro di Mutolo, Messina e, da settembre del ‘92, anche Marchese Giuseppe (anche se la sua collaborazione con la giustizia verrà formalizzata solo a novembre).
Mentre il fatto che della sua tutela fosse incaricata, come servizio di scorta, la polizia di stato nulla toglieva alla possibilità che altri organismi di polizia o di intelligence venissero mobilitati per la tutela di un’alta carica dello stato (Mannino all’epoca era ancora ministro in carica), disponendo dei mezzi e delle conoscenze e delle competenze necessarie per sventare attentati.
Così pure i (successivi) contatti tra Mannino e Subranni e tra Mannino e Contrada si sarebbero svolti con modalità sì riservate, ma rientravano nell’ambito delle rispettive competenze e non avevano in sé nulla di clandestino o occulto. Né il riserbo doveroso su quegli incontri, proprio per la delicatezza del loro oggetto e delle eventuali informazioni e valutazioni che i partecipanti si fossero scambiati, poteva di per sé far pensare a interessi reconditi e inconfessabili che esulassero da finalità istituzionali.
“SOLLECITAZIONI” ANCHE ALLA DIA E AL SISDE
Insomma, il giudice di prime cure, a parere di questa Corte, ha omesso di considerare il dato più significativo che emerge dalle triangolazioni di incontri sopra ricordate [...], precedute da altre triangolazioni, avvenute queste a cavallo dell’omicidio Lima, di cui aveva fatto parte il povero maresciallo Guazzelli e pure vertenti sul problema della sicurezza del ministro. E il dato più significativo è che il Mannino non rivolse soltanto ai carabinieri, rectius, al generale Subranni quale Comandante del Ros, la sollecitazione a intervenire in suo favore, contro il pericolo da cui si sentiva sovrastato; ma analoga sollecitazione rivolse al capo della Dia, nella persona del Generale Tavormina, e al nr. 2 o nr. 3 del Sisde, dott. Bruno Contrada.
In pratica, egli si rivolse ai vertici dei maggiori apparati investigativi e di intelligence dell’epoca; o almeno a quelli cui più facilmente poteva accedere sfruttando le proprie relazioni e i propri apparati di conoscenza anche personali. Rapporti che ovviamente gli offrivano opportunità di accesso e di ascolto — e di essere ascoltato — che restavano preclusi a un comune cittadino o anche ad un uomo politico che non disponesse delle sue entrature e relazioni.
E non si può certo dire che avesse bussato alle porte sbagliate, per non avere, gli interlocutori prescelti, alcuna competenza a provvedere sulla protezione delle personalità a rischio.
Va ribadito infatti che essi erano a capo, o ai vertici, di organismi investigativi di rilievo nazionale, altamente specializzati in attività info-investigative; ed era di loro specifica competenza Io svolgimento di indagini in materia di criminalità organizzata e mirate, tra l’altro, anche a sventare o prevenire il pericolo di eventuali attentati, o a individuarne e arrestarne i responsabili, o a catturare o favorire la cattura di pericolosi latitanti, e persino infiltrare le organizzazioni mafiose: tutti obbiettivi che potevano tornare utili a risolvere il problema della sicurezza personale del ministro Mannino, o almeno a rispondere al suo bisogno di protezione molto più efficacemente dei tradizionali servizi di scorta o di vigilanza fissa o dinamica.
Ma, al contempo, erano obbiettivi assolutamente fuori della portata del personale e degli organi preposti istituzionalmente ai servizi ordinari di tutela e scorta delle personalità a rischio.
E l’altro dato da considerare è che, […] attraverso l’intervento dei Carabinieri, egli si aspettava di ottenere risultati non diversi da quelli per i quali aveva contestualmente sollecitato l’intervento della Dia e Sisde. Né si può dire che Mannino si sentisse autorizzato a lasciarsi andare con il generale Subranni a sollecitazioni o inviti e richieste che non avrebbe potuto rivolgere agli altri qualificati interlocutori sul tema della sua protezione personale.
Sorvolando sulle ammissioni da parte di Contrada circa l’esistenza di una frequentazione e di incontri avvenuti in quel periodo anche per motivi squisitamente personali (ne dà conto la sentenza d’appello del processo stralcio, pur non avendo avuto ingresso in questa sede i verbali delle dichiarazioni rese dal Contrada e dallo stesso Mannino), è certo che il generale Tavormina, come lui stesso ha ammesso, aveva con il Mannino un rapporto di conoscenza e frequentazione e persino di (dichiarata) amicizia personale assai più profondo e risalente (si erano conosciuti nel 1982), considerato che Subranni avrebbe fatto la conoscenza di Mannino solo nel 1991, e che era stato proprio il generale Tavormina a presentarli l’uno all’altro.
Non v’è dunque ragione di escludere, e deve anzi ritenersi più che probabile, che la sollecitazione che Mannino trasmise ai carabinieri del Ros come pure alla Dia e al Sisde fu nel senso di attivare i rispettivi canali info-investigativi e di impiegare le proprie risorse per sviluppare le indagini mirate ad individuare la fonte delle minacce e neutralizzare il pericolo concreto di eventuali attentati.
Del resto, la nota a firma proprio del Generale Subranni del 19 giugno 1992, che allertava il comando generale dell’Arma perché si facesse carico di informarne le autorità centrali (e quindi a cascata tutti gli organi di polizia e le forze dell’ordine) e intraprendere le iniziative necessarie contro il pericolo di imminenti attentati alle cinque personalità ivi indicate, tra cui gli on. Calogero Mannino e Salvo Andò, sembra proprio rispecchiare il tenore più probabile di quei colloqui. Alcuni passaggi, in particolare, che assemblano le informazioni attinte da fonti fiduciarie con le indicazioni degli analisti dell’Arma sulla matrice delle minacce e sulle loro probabili finalità, soprattutto nella parte in cui si riferiscono al rischio di attentati ai due esponenti politici menzionati s’incrociano perfettamente con le preoccupazioni espresse dall’on. Mannino al Padellaro e con l’analisi della situazione in atto e dei recenti fatti di sangue in Sicilia dallo stesso uomo politico rassegnata al giornalista. Naturalmente, nella logica propria dei teoremi accusatori che non si curino di cimentarsi sul non facile terreno della verifica probatoria, si può sempre sostenere che quella nitidamente sintetizzata nel documento citato era la posizione “ufficiale” del Ros e del suo comandante (oltre che dell’Arma tutta).
Ma non esclude che sotto sotto il generale Subranni, in combutta con l’on. Mannino, brigasse in tutt’altra direzione. Ma di questo passo, non vi sarebbe ragione di escludere dalla trama occulta di un disegno volto ad avviare un negoziato con Cosa nostra anche le figure apicali della Dia e del Sisde che furono parimenti investite del problema loro segnalato dal Mannino.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quei pezzi grossi dello stato un po’ troppo vicini ai don di Palermo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 19 ottobre 2022
Tra il generale Subranni e Vito Ciancimino c’era una conoscenza reciproca, comprovato dai due bigliettini da visita a firma del Subranni rinvenuti durante la perquisizione dell’abitazione di Ciancimino nel 1984. In uno dei due il generale Subranni ringrazia per le felicitazioni fattegli pervenire dal Ciancimino, quando venne promosso a tenente colonnello
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ora, non v’è chi non veda come siano elementi di mera suggestione quelli che fanno riferimento ai profili personologici di due dei tre personaggi al vertice di altrettanti organismi investigativi e di intelligence che interloquirono con Mannino sul tema della sua sicurezza, e delle iniziative possibili per scongiurare il rischio di un attentato ai suoi danni.
Così per Bruno Contrada. Il 24 dicembre del 1992, e quindi appena due mesi dopo l’ultimo incontro, con l’on Mannino — e con il Generale Subranni — documentato dalle sue agende, egli veniva arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
[…] Quel che importa rilevare è che la decisione della Cedu nel caso Contrada non entra minimamente nel merito della contestazione, né mette in discussione le prove a carico o la loro sufficienza a supportare una pronunzia di condanna, o la circostanza che i fatti contestati siano stati provati e quindi accertati; e neppure, a ben vedere, mette in discussione la loro idoneità ad integrare gli estremi del reato di concorso esterno in associazione mafiosa come messo a fuoco nei suoi tratti salienti dalla giurisprudenza affermatasi e consolidatasi a partire — nella valutazione della stessa Cedu — [...]: nulla di tutto ciò.
Sicché, pur essendo venuto meno il titolo di condanna, i fatti comprovanti non l’intraneità, ma la contiguità e la collusione con talune cosche mafiose palermitane o singoli esponenti di spicco delle stesse (da Stefano Bontate a Salvatore Inzerillo a Rosario Riccobono, ma anche Filippo Marchese e lo stesso Michele Greco, secondo le convergenti propalazioni dei collaboratori di giustizia che lo accusavano) restano sostanzialmente accertati.
Ora, al di là del dato temporale che confina le condotte concorsuali in un arco di tempo di circa un decennio, ma assai risalente e largamente anteriore all’estate del ‘92, oltre che legate a contatti e frequentazioni con esponenti mafiosi quasi tutti uccisi nel corso della c.d. seconda guerra di mafia o da anni detenuti e condannati anche all’ergastolo, non si può certo inferirne che l’on. Mannino si fosse rivolto, tra gli altri anche al Contrada perché sapeva di poter contare sulle sue entrature mafiose e quindi di poterlo coinvolgere in iniziative non ortodosse ed anzi stridenti con le finalità istituzionali di un appartenente di un apparato di sicurezza dello stato.
A tanto non arriva neppure la pubblica accusa poiché non risulta che il Contrada sia mai stato indagato per concorso nel medesimo reato di minaccia a corpo politico dello stato per cui si è (separatamente) proceduto a carico del Mannino.
Di contro è certo che all’epoca delle triangolazioni con lo stesso (ex)ministro e con il Generale Subranni — anche sulla vicenda del Corvo – Bruno Contrada, benché già attinto da propalazioni ancora segrete, come le rivelazioni sulla sua collusione anticipate da Mutolo, già nel corso del suo primo interrogatorio al dott. Borsellino, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze dell’amico e collega Giovanni Falcone circa i suoi sospetti sulla “infedeltà” dell’ex capo della mobile di Palermo, era ancora saldamente insediato in una posizione ai vertici di uno dei due servizi di intelligence; godeva di massima stima e piena fiducia da parte del capo della Polizia, Vincenzo Parisi (il quale, dopo il sorprendete arresto, farà il diavolo a quattro, protestando contro quello che riteneva essere un clamoroso errore giudiziario [...]), e aveva un ruolo ed una reputazione che gli permettevano di avere interlocuzioni frequenti con eminenti personalità della politica e delle istituzioni, e contatto o incontri, ancora tino a poche settimane dall’arresto, con lo stesso ministro dell’Interno.
Quest’ultimo, infatti, sarà a sua volta bersaglio di polemiche sulla stampa, e persino di interrogazioni parlamentari di cui v’è traccia anche nell’intervento di Nicola Mancino dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia in occasione della seduta del 15 gennaio 1993, per non avere con decisione e chiarezza, immediatamente dopo l’arresto del Contrada, preso le distanze da un servitore dello stato sul cui capo pendeva un'accusa così infamante.
E ritenere che, invece, Calogero Mannino fosse, all’epoca, già perfettamente edotto delle contiguità o frequentazioni mafiose di Bruno Contrada sarebbe ancora una volta aggrapparsi ad un assioma indimostrato.
I “CONTATTI” DI SUBRANNI
Ebbene considerazioni non dissimili valgono, a fortiori, per i presunti contatti e incontri con il generale Subranni. Con una differenza sostanziale e non di poco conto. Anche il generale Subranni è stato sottoposto a procedimento penale — molti anni dopo i fatti di causa - con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa; ma tale procedimento si è concluso con un decreto congruamente motivato ed emesso dal gip del tribunale di Caltanissetta su conforme richiesta della procura nissena in data 10 aprile 2012.
Ivi si dava atto come fosse rimasta isolata e priva di riscontri la rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, aveva attribuito al marito, che pochi giorni prima di essere ucciso — e precisamente il 15 luglio 1992, data alla quale fu possibile risalire in quanto la signora collocava con certezza tale rivelazione alla vigilia dell’ultima partenza del marito per Roma, avvenuta il 16 luglio — le aveva confidato che qualcuno, di cui non le disse il nome, gli aveva riferito che il generale Subranni, con il quale egli aveva un rapporto di stima e frequentazione per ragioni professionali, era “punciutu”.
In particolare, erano stati esaminati i collaboratori di giustizia che, all’epoca della rivelazione predetta, il dott. Borsellino aveva già iniziato ad interrogare (Mutolo, Schembri e Messina Leonardo), ma nessuno di loro aveva saputo riferire alcunché in ordine a eventuali rapporti collusivi del Subranni con esponenti mafiosi. E neppure scavando nel bagaglio di conoscenze di nuovo collaboratori di giustizia di acclarato spessore, come Giovanni Brusca era emerso nulla al riguardo, non avendo in particolare il Brusca riferito alcunché in merito al ruolo giocato da eventuali appartenenti all’Arma dei Carabinieri (e segnatamente in merito al Subranni) nella trattativa di cui gli aveva parlato Totò Riina.
Mentre doveva escludersi che il misterioso amico che avrebbe tradito il dott. Borsellino, come dallo stesso confidato alla dott.ssa Alessandra Camassa e al dott. Massimo Russo durante uno sfogo accorato cui s’era lasciato andare in occasione di una visita fattagli dai due giovani colleghi presso il suo ufficio alla Procura di Palermo nel giugno del ‘92, potesse identificarsi nella persona del Generale Subranni: sia perché con quest’ultimo non intercorrevano rapporti di amicizia personale, ma solo di frequentazione per ragioni d’ufficio; sia, e soprattutto, perché, per quanto fosse problematico datare l’episodio riferito concordemente dai dott.ri Camassa e Russo, esso non poteva che essere avvenuto a giugno e comunque prima del 4 luglio 1992, data della cerimonia di saluto dello stesso Borsellino ai colleghi di Marsala che fu anche l’ultima occasione in cui la dott.ssa Camassa lo vide. (E quindi l’episodio in questione doveva certamente essere occorso prima di quella cerimonia).
Di contro, si è accertato che il dott. Borsellino, al rientro dalla trasferta in Germania dove si era recato per andare a sentite alcuni nuovi pentiti, si era trattenuto a Roma per tutta la giornata del 10 luglio e aveva partecipato ad una cena, insieme a Mori e Subranni e altri Ufficiali dell’Arma, trascorrendo poi la giornata seguente in compagnia del generale Subranni, e accettando il passaggio da questi offerto in elicottero per raggiungere Salerno, dove la mattina del 12 luglio il dott. Borsellino partecipò alla festa per il battesimo del figlio del collega Diego Cavaliero. Sicché almeno fino a quel momento, i rapporti con lo stesso Subranni sembravano essere rimasti immutati e improntati a massima cordialità.
Ebbene, la sentenza qui appellata, all’esito di un esame scrupoloso di un compendio istruttorio ancora più vasto di quello vagliato dall’a.g. nissena (perché integrato dalle propalazioni di Di Carlo e Siino, nonché dalla testimonianza de relato del Generale Gebbia sui rapporti con i cugini Salvo, sull’interessamento alle indagini sul sequestro Corleo e sulle iniziative intraprese per il recupero del cadavere del rapito, nonché sull’omissione di atti dovuti in relazione al mancato sequestro di armi da fuoco presenti in immobile di pertinenza dei Salvo), perviene alla conclusione dall’insieme delle risultanze acquisite, tra le quali è meritevole di apprezzamento la testimonianza di Luigi Li Gotti su episodi e circostanze apprese da confidenze fattegli dall’amico e collega avv. Ascari, residuano soltanto elementi idonei a comprovare l’esistenza di rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo, con Vito Ciancimino e con Andreotti.
Ma per quanto concerne i primi, le esigenze correlate alle indagini sul sequestro Corleo giustificavano ampiamente che il Generale Subranni, come peraltro da lui stesso ammesso, si trovasse ad incrociare in particolare Nino Salvo, personalmente interessato ad avere notizie dei suocero rapito (e successivamente a tentare di recuperarne almeno il corpo); e comunque il ruolo pubblico per anni ricoperto dai potenti esattori di Salemi, le generiche notizie su un rapporto di reciproca conoscenza non avrebbero alcuna valenza indiziante.
I RAPPORTI CON CIANCIMINO
Quanto a Vito Ciancimino, non hanno trovato il minimo riscontro le propalazioni del Di Carlo, peraltro generiche e indeterminate, oltre che a dir poco tardive, sul fatto che il generale Subranni si sarebbe interessato per non meglio precisati favori a esponenti mafiosi segnalatigli dal Ciancimino.
E quindi residua solo il dato della conoscenza reciproca, comprovato dai due bigliettini da visita a firma del Subranni rinvenuti durante la perquisizione dell’abitazione di Vito Ciancimino in occasione del suo arresto nel novembre del 1984.
In uno dei due il generale Subranni ringrazia per le felicitazioni fattegli pervenire dal Ciancimino, ed è verosimilmente databile alla fine di aprile del 1978, quando il maggiore Subranni venne promosso a tenente colonnello e andò a comandare il Reparto operativo dei carabinieri di Palermo: molti anni dopo che si era conclusa l’esperienza di Ciancimino quale sindaco di Palermo, e in un’epoca in cui egli era già assai discusso non solo per la sua disinvoltura nel mescolare rapporti politici e di affari — che gli sarebbero costati in seguiti la sottoposizione a diversi procedimenti penale per reati contro la p.a due dei quali sfociati in condanne definitive — ma anche per presunti rapporti con esponenti mafiosi, per i quali era stato attenzionato dalla Commissione parlamentare antimafia.
Del resto, l’esistenza di rapporti cordiali tra i due, esplicitamente dichiarata dal Ciancimino in occasione dell’interrogatorio reso al g.i dott. Giovanni Falcone dopo il suo arresto nel novembre del 1984 emerge anche dalla narrazione che il Generale Mori ha fatto dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino, se è vero che in occasione di uno dei loro primi incontri (insieme al capitano De Donno), lo stesso Ciancimino gli disse che aveva conosciuto diversi ufficiali dell’Arma tra i quali proprio il Generale Subranni, quando comandava il Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo; e si raccomandò di fargli avere i suoi saluti.
Può apparire, ed è poco commendevole la condotta di un alto ufficiale dei Carabinieri che non si peritava di continuare ad avere contatti o rapporti cordiali con un personaggio così chiacchierato, e sul conto del quale si erano accumulati atti e rapporti giudiziari fin dai primi anni settanta. Ma ciò, come riconosce il giudice di prime cure, in assenza di diverse risultanze può avere un rilievo soltanto “etico” (cfr. pag. 4959).
Né si può trascurare che, sebbene in declino per l’accumularsi di accuse sospetti e rapporti giudiziari su suo conto Ciancimino, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 era un personaggio influente nella vita pubblica e nella realtà politica locale, capace ancora di inserirsi nelle dinamiche di potere e nella competizione tra le correnti interne al partito di maggioranza relativa, anche a livello nazionale.
Inoltre, si registra una singolare assonanza tra le propalazioni del Siino e quelle del Riccio a proposito dell’ambiguo tenore dei rapporti che il generale Subranni non disdegnava di coltivare con personaggi in odor di mafia, come usa dirsi o decisamente intranei all’organizzazione mafiosa.
Siino, che peraltro si è contraddetto sulle circostanze in cui avrebbe fatto la conoscenza di Subranni, ha fatto riferimento ad un approccio o un tentativo di approccio nei suoi confronti per avere informazioni sull’omicidio del colonnello Russo (salvo scoprire che ne sapeva, il Subranni, più di lui). E ad un raffreddamento dei loro rapporti quando Subranni non ricambiò il favore, come invece lui si attendeva, rifiutandosi di dargli notizie sull'indagine cui era interessato per i fatti di Baucina.
A dire di Michele Riccio, all’esito dell’incontro avuto a Roma con i procuratori di Palermo e Caltanissetta otto giorni prima di essere ucciso, Ilardo ebbe a confidargli che Subranni era uno dei suoi superiori di cui avrebbe dovuto diffidare. Ma lo stesso Riccio rammenta altresì che all’epoca dell’istituzione del Ros (3 dicembre 1990) si discuteva del modo in cui dovessero essere impostate le indagini sulla criminalità mafiosa in Sicilia.
E in occasione di una di queste discussioni, Mori confidò a Riccio che Subranni aveva stretti rapporti con Vito Ciancimino, ma senza specificare o aggiungere altro. E tuttavia il discorso verteva sul modo in cui impostare le indagini di mafia in Sicilia e il metodo e gli strumenti e le risorse da impiegare in tale contesto, sicché quel riferimento buttato lì da Mori sembrava alludere alla possibilità di utilizzare Vito Ciancimino, grazie ai suoi pregressi rapporti con il comandante Subranni, come potenziale interlocutore o fonte di informazioni, se non proprio come fonte confidenziale nell’accezione comune del termine.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Encomi e benemerenze, l’accorata difesa del generale Subranni. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 20 ottobre 2022
La cospicua documentazione prodotta a riprova di una condotta integerrima ed esemplare, una nutrita serie di benemerenze e titolo acquisiti nel corso della sua lunga e brillante carriera, impreziosita da encomi solenni come quello tributatogli dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
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Analogamente per quanto concerne i rapporti con il senatore Andreotti. Deve convenirsi con la valutazione espressa dal giudice di prime cure secondo cui non v’è ragione di dubitare della genuinità della testimonianza dell’avv. Li Gotti, soprattutto nelle parti che si riferiscono a fatti da lui vissuti in prima persona.
E alcune apparenti incongruenze — come l’essere il Generale Subranni già in pensione quando si sarebbe interessato, su input del senatore Andreotti ad una vicenda che coinvolgeva il fratello del giornalista Minoli — oppure alcune imprecisioni — come l’avere smentito Claudio Martelli di avere mai acquistato una villa sulla via Appia, dove però aveva avuto nella propria disponibilità una villa in affitto per la quale altri si sobbarcavano l’onere di pagare per lui un ingente canone di locazione— non valgono a inficiarne l’attendibilità complessiva.
Ma, come per i cugini Salvo, la genesi dei rapporti con il sette volte presidente del Consiglio e più volte ministro in svariati governi della Repubblica non presenta di per sé nulla di sospetto o di anomalo, tenuto conto del ruolo pubblico dello stesso Andreotti e delle tante occasioni e ragioni di incontri e contatti per ragioni istituzionali, potendosi al più censurare sotto il profilo dell’etica pubblica che il generale Subranni, come parrebbe evincersi dalla testimonianza dell’avv. Li Gotti, continuasse a coltivare quel rapporto, prestandosi persino a impiegare mezzi e risorse del proprio ufficio o, da pensionato, le proprie conoscenze negli apparati investigativi, per convenienze e motivi di interesse privato del plurititolato Andreotti (ammesso che vi sia stato un concreto interessamento del Subranni alle vicende riferite dal Li Gotti), anche dopo che nei suoi confronti s’era instaurato il procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa.
PROFILI DI OPACITÀ NELLA FIGURA DI SUBRANNI
Ciò posto, simili risultanze nel loro insieme potrebbero esitare al più il ritratto in parte “opaco” di un alto ufficiale dell’Arma non alieno ed anzi aduso a tessere e coltivare rapporti di reciproco interesse, o di subalternità e compiacenza nei riguardi del potente di turno (un tempo i cugini Salvo, o Vito Ciancimino, o il senatore Andreotti come l’on. Mannino), anche quando fosse attinto da sospetti o accuse di contiguità ad ambienti e personaggi della criminalità mafiosa, o addirittura sottoposto a procedimento penale per gravissime imputazioni che avrebbero consigliato o imposto di prendere le distanze.
Ma a contrastare tale esito valutativo, certo non lusinghiero, ha buon gioco l’appassionata autodifesa svolta dal generale Subranni all’udienza del 22.09.20 17 e supportata dalla cospicua documentazione prodotta, nello sciorinare, a riprova di una condotta integerrima ed esemplare, una nutrita serie di benemerenze e titolo acquisiti nel corso della sua lunga e brillante carriera, impreziosita da encomi solenni (come quello tributatogli dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: [...]), plurimi attestati di stima e piena fiducia provenienti da figure predare di magistrati (E mi riferisco ai Dottori Chinnici, Falcone, Borsellino, Grasso, Ajala, Silena, Aliquò, Forte, Aldo Rizzo, Giovanni Puglisi, Pignatone, Pizzillo, solo per citarne alcuni), esponenti istituzionali, o noti personaggi preposti agli apparati investigativi e di sicurezza, come il Prefetto Giuseppe De Gennaro [...], che nel corso degli anni avevano avuto modo di cooperare con il generale Subranni e di conoscerne ed apprezzarne il valore.
Spiccano, tra gli attestati di stima, la dedica apposta dal giudice Giovanni Falcone (“Al generale Subranni, con stima ed amicizia. Giovanni Falcone”) alla copia del libro “Cose di Cosa nostra” di cui gli fece dono (con la precisazione che la copia in questione è quella edita nel 1991, che corrisponde alla prima edizione del libro, sicché il dono risale ad epoca anteriore e prossima alla morte del dott. Falcone).
E meritano ancora di essere segnalati i motivati apprezzamenti espressi in alcuni passaggi della sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio che diede luogo al maxi processo, e a firma tra gli altri del dott. Falcone e del dott. Borsellino, a proposito della qualità del lavoro investigativo condensato nel rapporto giudiziario Riina Salvatore+25 tutti indiziati — e tra loro anche Gaetano Badalamenti e capi e gregari delle cosche mafiose sia corleonesi che badalamentiane -di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti e altri gravi reati, che, a parere degli estensori della stessa sentenza-ordinanza, forniva una lettura rivelatasi di grande lungimiranza sulle possibili traiettorie di quella che si preannunciava come sanguinosa contesa per l’egemonia tra schieramenti antagonisti all’interno di Cosa nostra.
Quel rapporto giudiziario peraltro faceva seguito ad altre importanti operazioni di polizia giudiziaria le cui risultanze erano compendiate in altrettanti rapporti giudiziari di denuncia dei presunti responsabili di una serie di delitti di sequestro di persona e omicidio che vennero letti come sintomatici di una vera e propria offensiva dei corleonesi contro esponenti dello schieramento mafioso antagonista.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Ombre e sospetti sui capi dei reparti speciali dei carabinieri. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 21 ottobre 2022
Detto questo è innegabile che persistono, sulla figura e sull’operato del generale Subranni, pesanti ombre che ne appannano l’immagine di ufficiale integerrimo e fedele servitore dello Stato, sempre determinato a portare avanti con il massimo impegno la lotta alla mafia, nell’ambito delle sue competenze.
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Detto questo è innegabile che persistono, sulla figura e sull’operato del generale Subranni, pesanti ombre che ne appannano l’immagine di ufficiale integerrimo e fedele servitore dello Stato, sempre determinato a portare avanti con il massimo impegno la lotta alla mafia, nell’ambito delle sue competenze.
Così pesa come un macigno, è inutile girarci intorno, la terribile rivelazione fatta da dott. Borsellino alla moglie appena quattro giorni prima di esse ucciso, quando le disse di avere saputo — o capito — che il generale Subranni era punciutu. Anche se tale rivelazione, pur sempre de relato, da sola non poteva bastare a determinare, né giustificherebbe, un epilogo diverso da quello sancito con il decreto di archiviazione del procedimento che ne scaturì a carico dello stesso Subranni per il reato di associazione mafiosa, poiché, nonostante le approfondite indagine espletate, non fu possibile allora come non appare neppure oggi possibile risalire alla fonte di quella notizia -se davvero si trattò di una notizia appresa da qualcuno — o alle ragioni per cui il dott. Borsellino avesse maturato il convincimento sintetizzato in quell’icastica asserzione. Né si è riusciti a trovare alcun significativo riscontro alla fondatezza di quella rivelazione, dal momento che né i nuovi pentiti che il dott. Borsellino aveva iniziato in quei giorni di luglio del ‘92 a interrogare, ma neppure tutti gli altri ex affiliati a Cosa nostra che negli anni successivi sono andati ad ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia, compresi “pentiti” di innegabile spessore, come Giovanni Brusca o Antonino Giuffrè, hanno saputo riferire alcunché circa eventuali collusioni mafiose del Subranni.
E non può certo conferirsi dignità di riscontro alle velenose insinuazioni del Di Carlo sui rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo e con l’on. Lima, che ne avrebbero favorito avanzamenti di carriera insolitamente rapidi (insinuazione smentita peraltro dallo stato di servizio versato in atti); o alle più che tardive propalazioni dello stesso Di Carlo sul ruolo che l’allora maggiore Subranni avrebbe avuto nel depistare, sempre su sollecitazione di Nino Salvo, le prime indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, nel senso di essersi adoperato per una fulminea chiusura delle indagini che, escludendo la pista mafiosa, allontanasse ogni sospetto sulla possibile matrice mafiosa del tragico evento e dirottasse le indagini dalla locale cosca mafiosa che faceva capo a Gaetano Badalamenti.
Peccato che Di Carlo abbia indicato come proprie uniche fonti di conoscenza di quella devastante “verità” due soggetti morti da anni (come Nino Badalamenti, ucciso nel 1981, e Nino Salvo, morto per cause naturali nel 1986), e quindi impossibilitati a smentirlo; e che ne abbia parlato per la prima volta nel 2012, circa sedici anni dopo che aveva iniziato a collaborare con la Giustizia; e
soprattutto che non avesse fatto il minimo cenno al ruolo attribuito (dalle sue fonti) al Subranni nei due procedimenti aventi specificamente ad oggetto quel delitto, il primo definito dalla Corte d’Assise di Palermo con il rito abbreviato a carico di Palazzolo Vito, esponente di spicco della cosca mafiosa di Cinisi (...); ed il secondo celebrato da altra sezione della stessa Corte d’Assise con il rito ordinario a carico del capo riconosciuto di quella cosca, Gaetano Badalamenti (...), pur essendo stato sentito nel processo celebrato con rito ordinario e nella fase delle indagini che avevano preceduto quello definito in abbreviato.
Tanto meno possono assurgere a dignità di riscontro le insinuazioni fatte sul conto del Subranni dall’allora maresciallo Canale, e raccolte dalla dott.ssa Camassa, la quale, nel confermare che Paolo Borsellino nutriva un rapporto di stima e affetto per i Carabinieri ed aveva rapporti di amicizia con molti ufficiali dell’Arma, rammenta altresì che lo stesso Canale, che all’epoca era uno dei più stretti collaboratori del dott. Borsellino, le aveva confidato, in occasione della cerimonia di commiato tenutasi alla procura di Marsala (il 4 luglio del ‘92) la sua preoccupazione per il fatto che egli si fidasse troppo del generale Subranni o del Col. Mori, che invece erano a suo dire personaggi “pericolosi”, senza specificare altro.
Ma la stessa dott.ssa Camassa ha precisato di non poter escludere che il Canale — il quale dal canto suo ha recisamente smentito la confidenza che la dott.ssa Camassa gli attribuisce: ma sono comprensibile le sue remore ad ammetterla, considerato che militava ancora nell’Arma quando è stato sentito sul punto - non le abbia fatto espressamente quei nomi e si sia limitato a fare riferimento ai vertici del Ros, sicché può essere stata lei a dedurne che potesse trattarsi di Mori e Subranni.
In ogni caso si tratta di asserzioni rimaste generiche e apodittiche, che potevano anche essere frutto di invidie o gelosie professionali, tant’è che lo stesso Canale o non ne fece mai cenno al dott. Borsellino, o, se lo fece, le sue preoccupazioni dovevano essere talmente disancorate da elementi specifici che il valoroso magistrato non ritenne di darvi alcun seguito. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quelle confidenze che Paolo Borsellino fece a sua moglie Agnese. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 22 ottobre 2022
E l’espressione “punciutu” non alludeva all’essere il Subranni formalmente affiliato a Cosa nostra con il classico rito del “santino”, ma era solo un modo per enfatizzare il concetto che egli aveva inteso esprimere nel confidare alla moglie quel terribile segreto...
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Ma tornando alla rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto attribuisce al marito, si può convenire, dando massimo risalto al contesto in cui quella frase fu pronunciata e al suo carattere anche di sfogo emotivo, su una lettura che ne stemperi il significato letterale, interpretandola nel senso che la notizia che tanto aveva turbato il dott. Borsellino era che il Subranni avesse avuto rapporti o tenuto comportamenti che ne implicavano una sostanziale collusione con l’organizzazione mafiosa.
E l’espressione “punciutu” non alludeva all’essere il Subranni formalmente affiliato a Cosa nostra con il classico rito del “santino” che brucia tra le mani del nuovo adepto, ma era solo un modo per enfatizzare il concetto che egli aveva inteso esprimere nel confidare alla moglie quel terribile segreto, quasi a voler trarre un minimo sollievo dal condividere con lei il turbamento che ne aveva ricavato sia nel venirne a conoscenza (tanto da avere provato conati di vomito), sia nel farne cenno alla moglie.
Ma era comunque una notizia così impressionante ed esplosiva, che, contrariamente a quanto eccepito dalla difesa del Subranni, e dallo stesso imputato nelle citate dichiarazioni spontanee, è del tutto plausibile che non si sia sentito di fame il minimo cenno con nessuno con i colleghi con i quali si vide ed ebbe contatti in quegli stessi giorni per ragioni di lavoro. Non era una notizia da poter commentare o comunicare con nessuno, al di là del fugace sfogo avuto con la moglie e compagna di una vita in un momento di particolare scoramento; e tanto meno poteva correre il rischio che una notizia simile. appresa pochi giorni prima, trapelasse in ufficio e dall’ufficio prima di avere fatto le necessarie verifiche e i doverosi riscontri.
D’altra parte, nessuno dubita della genuinità della testimonianza della vedova Borsellino, che peraltro nessuna ragione avrebbe avuto per calunniare, a distanza di tanti anni dalla morte di suo marito, il generale Subranni. E della sua sincerità sembrano essere convinti persino i suoi due coimputati, Mori e De Donno, per come si espressero (più il secondo che il primo, limitandosi Mori ad assentire con monosillabi alle esuberanti considerazioni del De Donnpo) nel corso della conversazione telefonica intercettata l'8 marzo 2012 e vertente proprio sulla testimonianza della signora Leto, come puntualmente annotato alle pagg. 1257 e 1258 della sentenza impugnata (che richiama anche la successiva conversazione intercorsa tra lo stesso De Donno e tale Raf, non meglio identificato: «perché poteva raccontare pure che cazzo voleva a dire la verità secondo me quindi, secondo me, forse la signora dice la verità io poi non la conosco la Signora Agnese, perché...perché dovrebbe inventarsi sta cazzata su Subranni... per cui presumo pure che probabilmente Borsellino l’abbia pure fatta sta battuta con la signora però bisogna vedere che cazzo intendeva lui, cioè chi glielo ha detto...»).
L’affidabilità poi del ricordo (fatta salva la remota possibilità che a distanza di tanti anni o anche in tempi più prossimi al colloquio del 15 luglio, la signora Agnese possa essere incorsa in un lapsus con conseguente scambio di persona sul nominativo dell’alto ufficiale del quale il dott. Borsellino avrebbe scoperto che era punciutu) anche con riferimento alle circostanze in cui aveva ricevuto dal marito la tremenda rivelazione, è puntellata dalla testimonianza di Diego Cavallaro, magistrato e amico di famiglia dei Borsellino, che continuò anche dopo la morte di Paolo, a intrattenere rapporti di amicizia e frequentazione con i congiunti del collega ucciso.
Questi, in occasione di una visita a casa Borsellino, che ha collocato temporalmente tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, e in un momento in cui si trovò a conversare in un clima di assoluta confidenza a quattro occhi con la signora Leto, ne ricevette la stessa rivelazione di cui la signora Agnese avrebbe riferito all’a.g., per la prima volta, soltanto 5 o 6 anni dopo.
LA DIFESA DI SUBRANNI
Per il resto, tutte le obbiezioni mosse dal Subranni nella sua appassionata autodifesa - e dai suoi difensori nel proposto gravame - si infrangono contro le persuasive argomentazioni spese dal giudice di prime cure nel motivare il giudizio di attendibilità della testimonianza della vedova Borsellino: argomentazioni che questa Corte ritiene di dover sottoscrivere integralmente e per le quali si rimanda alle pagg. 1254- 1257 della sentenza in atti.
Valga solo ribadire che la signor Leto ha offerto una spiegazione plausibile del ritardo con cui ha riferito all’A.G. quell’episodio, così svelando un segreto che aveva custodito per anni, senza fame parola con nessuno, nonostante I’ inesausta passione con cui aveva sempre onorato la memoria del marito, anche attraverso il suo personale impegno a dare il proprio contributo all’accertamento dei fatti nei tanti processi in cui era stata chiamata a deporre e prima ancora, o contestualmente, nelle indagini mai conclusesi per individuare i responsabili della strage di via D’Amelio, inclusi eventuali mandanti occulti.
Ha spiegato in sostanza la vedova Borsellino che temeva di danneggiare l’immagine dell’Arma intera, se avesse reso pubblica quella sconcertante confidenza. E, avendo mutuato da suo marito un rapporto di stima e ammirazione nei confronti dei Carabinieri, che in lui non era venuto meno neppure dopo l’orribile scoperta fatta nei suoi ultimi giorni di vita, aveva sempre ritenuto che essa fosse circoscritta alla persona del Subranni; e tale doveva rimanere, se non voleva fare torto all’Arma e a suo marito.
Non v’era quindi motivo di estendere un inevitabile giudizio di riprovazione nei riguardi dell’ufficiale infedele ai tanti altri ufficiali dell’Arma con cui suo marito aveva lavorato, nutrendo per loro una stima incondizionata, ed essendo legato, ad alcuni di loro, anche da rapporti di amicizia. Come non v’era ragione di che la signora Piraino Leto provasse imbarazzo nell’incontrare alti ufficiali dell’Arma (ma non il generale Subranni tra loro), come pure è provato che sia avvenuto in più occasioni (come la cena annotata dal generale Mori alla data del 16 febbraio 1993; o gli incontri con il comandante generale dell’Arma, Federici, che sono avvenuti il 13 maggio 1993 e il 28 gennaio 1994, come documentato agli atti del Comando generale; o in tante altre occasioni di incontri con ufficiali dei Carabinieri per cerimonie o eventi pubblici cui però non risulta abbia partecipato anche il generale Subranni).
E così si spiega anche la ferma volontà dei familiari del dott. Borsellino, confermata da più fonti, che fossero ufficiali del Ros a presenziare alla perquisizione dell’abitazione del loro congiunto, nell’immediatezza della strage di via D’Amelio.
Mentre resta solo un’astratta congettura, a fronte di un materiale probatorio così aleatorio e improbabile, l’ipotesi adombrata dalla pubblica accusa (peraltro solo nella requisitoria della discussione finale del giudizio di primo grado) che la ritenuta e brusca accelerazione dell’iter attuativo della strage di via D’Amelio possa ricondursi in qualche modo proprio alla sconcertante scoperta fatta dal dott. Borsellino negli ultimi giorni della sua vita su presunte collusioni mafiose del generale Subranni.
Basti rammentare, per tacere d’altro, che, se davvero vi fu l’asserita accelerazione, essa rimonterebbe comunque a diversi giorni, anzi a diverse settimane prima del 15 luglio ‘92.
L’indagine dei carabinieri di Subranni sull’omicidio di Peppino Impastato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 23 ottobre 2022
La prima fase delle indagini era stata inesorabilmente segnata da una catena inenarrabile di omissioni, inerzie o anomalie. E, circostanza incomprensibile e ingiustificabile, l’avere omesso qualsiasi attività d’indagine nei riguardi di personaggi denunciati da Giuseppe Impastato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Altre ombre sulla trasparenza e correttezza del modo di operare del generale Subranni nelle indagini più delicate provengono dalle risultanze del procedimento penale cui è stato sottoposto per l’accusa di avere depistato in favore del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e comunque della locale cosca mafiosa le indagini sulla morte di Giuseppe Impastato, che furono condotte, nell’immediatezza del fatto, dai carabinieri del Reparto operativo, all’epoca comandato dal maggiore Subranni.
Su sollecitazione del p.g. è stata acquisita la documentazione relativa ai più significativi atti d’indagine, unitamente alle sentenza emesse sull’omicidio Impastato, al fine di comprovare la gravità del depistaggio che oggettivamente si consumò fin dai primi giorni d’indagine per avere gli inquirenti imboccato senza tentennamenti, e senza neppure considerare la possibilità di ipotesi alternative, una pista - e cioè quella di un attentato suicida, o, in alternativa, della morte accidentale della vittima, mentre tentava di compiere un attentato dinamitardo con finalità terroristiche, consacrata nei rapporti giudiziari a firma dell’allora maggiore Subranni trasmessi all’a.g. in data 10 e 30 maggio 1978 - che doveva presto rivelarsi priva di qualsiasi fondamento; e per avere invece scartato a priori quella “pista mafiosa” che si è poi rivelata fondata, e che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere ritenuta quanto meno meritevole di particolare attenzione.
Ed è stato acquisito anche il decreto emesso il 25 agosto 2018 con cui il gip di Caltanissetta ha archiviato, per intervenuta prescrizione, il procedimento a carico del generale Subranni, indiziato di favoreggiamento aggravato, e dei sottufficiali dell’Arma Canale Carmelo, Abramo Francesco e Di Bono Francesco per falso in atto pubblico. Un provvedimento che, al di là dell’esito in posto dal tempo trascorso, nel passare in rassegna le più significative risultanze emerse — proprio per documentare le quali il p.g ha chiesto e ottenuto che venisse acquisita la documentazione prodotta - perviene a conclusioni che, a parere dello stesso p.g., equivalgono ad una virtuale pronuncia di condanna del Subranni.
In realtà, il gip di Caltanissetta ha ritenuto che il fatto nella sua materialità fosse provato, giacché «l'ufficiale cli polizia giudiziaria che (...) prospetti una sola possibile ricostruzione del fatto, contemporaneamente omettendo — attraverso l‘ingiustificata obliterazione di elementi indiziariamente rilevanti, ben noti all‘ufficiale medesimo — la prospettazione di altra ricostruzione, dotata di pari se non maggiore plausibilità, realizza una condotta oggettivamente idonea ad intralciare il corso delle indagini che l’Autorità giudiziaria ben potrebbe attivare nei confronti delle persone individuabili quali destinatarie delle, investigazioni, proprio sulla scorta della ricostruzione del fatto della quale sia stata ingiustificatamente omessa la prospettazione. Detta condotta (certamente lontana da quella doverosa), invero, è oggettivamente idonea a frapporre un ostacolo al proficuo e tempestivo svolgimento delle indagini da parte dell'Autorità Giudiziaria e quindi a porre in pericolo l’interesse dell‘amministrazione della giustizia al regolare svolgimento del procedimento penale nella fase delle investigazioni, già in atto o anche solo possibili dopo la consumazione del reato»; mentre non è necessario, ai fini della sussistenza del reato ex art. 378 c.p. che l’a.g. ne risulti effettivamente fuorviata.
Anche se, nel caso di specie, non è certo implausibile sostenere — si legge ancora nel provvedimento finale di archiviazione - che l’omessa prospettazione della pista mafiosa nei due rapporti giudiziari citati avesse ingenerato difficoltà e ritardi pregiudizievoli per l'accertamento della verità. E in effetti la prima fase delle indagini era stata inesorabilmente segnata da una catena inenarrabile di omissioni (come l’avere ignorato una pietra macchiata di sangue e rinvenuta — come riferito ance dal necroforo comunale - nel casolare poco distante dal punto in cui era avvenuta l’esplosione che aveva dilaniato il corpo della vittima; o il non avere interrogato il personale addetto al vicino casello ferroviario; o l’avere ignorato gli spunti investigativi offerti dall’esposto che già in data 11 maggio 1978 indicava plurime e specifiche ragioni a sostegno dell’ipotesi dell’omicidio) o inerzie (come l’avere consentito l’immediato ripristino della linea ferrata danneggiata dall’esplosione prima ancora che sul posto giungesse la squadra di artificieri che avrebbe dovuto procedere ai necessari rilievi tecnici; e il non avere proceduto ad accertamenti nei riguardi dei proprietari delle cave ubicate nei dintorni, come la cava di Finazzo Giuseppe, imprenditore vicino a Gaetano Badalamenti.
Che distava duecento metri in linea d’aria dal luogo del presunto attentato, e in cui veniva utilizzato lo stesso tipo di esplosivo usato per simulare l’attentato), anomalie (come il “sequestro informale” di una cospicua documentazione rinvenuta preso l’abitazione della zia materna della vittima, e di cui v’era traccia in una nota dell’1 giugno 1978 a firma dell’allora maggiore Frasca, che delegava agli uomini del nucleo informativo da lui comandato di identificare le persone ivi menzionate, mentre non se ne faceva menzione nei verbali di sequestro in atti), oggettivi travisamenti del contenuto o del senso di certi documenti o di taluni reperti (come il manoscritto in cui l'Impastato enunciava propositi di suicidio, ma che risaliva a diversi mesi prima ed era frutto di un momento transitorio di particolare prostrazione, ampiamente superato come poi si accertò sulla base di inequivoche testimonianze, ed appariva smentito anche dall’attivismo e l’impegno profusi dalla vittima nella campagna per le elezioni amministrative, essendo Giuseppe Impastato candidato nelle liste di Democrazia proletaria; o l’aver scambiato i fili elettrici che fuoriuscivano dal cofano dell’auto della vittima per cavi di attivazione di un congegno esplosivo mentre si trattava dei fili della batteria utilizzati per collegarvi l’altoparlante utilizzato in quei giorni per la campagna elettorale).
E più in generale, costituiva circostanza incomprensibile e ingiustificabile, si legge ancora nel corpo della motivazione del decreto in esame, l’avere omesso qualsiasi attività d’indagine nei riguardi di personaggi riconducibili agli ambienti oggetto delle reiterate denunce pubbliche di Giuseppe Impastato.
Al generale Subranni si contestava dunque l’avere risolutamente sposato e caldeggiato una tesi assertiva sulle cause della morte di Giuseppe Impastato del tutto avulsa da una analisi di contesto del fatto investigato, certamente esigibile da un ufficiale superiore preposto al comando di un reparto operativo.
E il contesto inspiegabilmente ignorato era appunto quello notoriamente segnato dalla oppressiva presenza mafiosa, pubblicamente e costantemente denunciata dallo stesso Impastato, con pubblicazioni ed esternazioni varie e soprattutto dai microfoni di Radio-Aut, emittente che grazie ai successi di ascolto dei suoi programmi aveva amplificato la portata della pubblica denuncia di specifici illeciti o sordide collusioni politico-mafiose-affaristiche che investivano il boss mafioso locale Gaetano Badalamenti, sarcasticamente apostrofato come il Gran Capo Tano Seduto, e figure di imprese e singoli imprenditori vicini od organici alle cosche mafiose (come Pino Lipari, socio della società che gestiva il Camping Z-1O; e il già citato Giuseppe Finazzo, costruttore accusato di varie speculazioni edilizie).
Si trattava di un’attività di pubblica denuncia dagli effetti dirompenti, considerati i tempi e il contesto ambientale, e l’Arma ne era certamente a conoscenza, non foss’altro attraverso le sue articolazioni territoriali. Come era a conoscenza, risultando da rapporti anche recenti, del fatto che il territorio di Cinisi recava tracce cospicue della presenza della criminalità mafiosa, mentre non altrettanto poteva dirsi per l’esistenza o le attività di gruppi terroristici.
E se era vero che si erano verificati a Cinisi e nei territori limitrofi anche negli ultimi tempi numerosi attentati con l’impiego di esplosivi da cava, ciò era avvenuto ad opera di gruppi mafiosi e per finalità estorsive e non certo per iniziativa di (inesistenti) frange estremiste, dedite ad attentati dinamitardi per finalità di terrorismo. Tutti elementi che avrebbero reso doveroso quanto meno inserire nel ventaglio di ipotesi investigative meritevoli di approfondimento anche la pista mafiosa.
LE INIZIATIVE INVESTIGATIVE DI SUBRANNI
Sul versante dell’elemento soggettivo, però, il gip esprime valutazioni più prudenti e interlocutorie, rimarcando la singolarità di alcune iniziative investigative ascrivibili — anche personalmente - al Subranni, al di là dei due rapporti citati e comunque una serie di sconcertanti anomalie nell’operato degli uomini al suo comando che avrebbero meritato una verifica dibattimentale, ormai preclusa dall’intervenuta prescrizione, potendosi porre a base del procedimento induttivo di ricostruzione del dolo.
Ora, è pacifico che le valutazioni espresse dal gip di Caltanissetta all’esito di un sintetico ma puntuale scrutinio delle più significative risultanze acquisite non hanno alcuna efficacia vincolante nel presente giudizio, come non l’avrebbero neppure se il procedimento si fosse concluso con un giudicato di condanna invece che con un provvedimento di archiviazione.
Ma anche volendo esaminare tali risultanze funditus e prescindendo dalla lettura che ne ha offerto il gip predetto, esse non appaiono comunque sufficienti né idonee a sciogliere il nodo che qui più interessa: e cioè se deviazioni e sviamenti che “oggettivamente” si consumarono nella prima fase delle indagini sul delitto Impastato siano state altresì volontarie, perché intenzionalmente dirette a
preservare il boss della locale cosca mafiosa, o singoli affiliati ad essa, da un’incriminazione che una serena valutazione di quelle stesse risultanze avrebbe reso probabile.
In realtà, costituisce un dato processualmente acquisito che all’incriminazione di Gaetano Badalamenti— e del suo braccio destro, Vito Palazzolo — si giunse solo molti anni dopo, e in forza delle propalazioni di una serie di ex affiliati mafiosi che avevano intrapreso nel frattempo il percorso di collaborazione con la giustizia e che con le loro rivelazioni, sia pure de relato, suggellarono sul piano probatorio l’ipotesi della matrice mafiosa del delitto. E soprattutto vi si giunse grazie alla specifica e circostanziata chiamata in correità di un collaboratore di giustizia (Palazzolo Salvatore, omonimo del mafioso accusato di essere stato tra gli esecutori materiali del delitto) che proveniva dalle fila della medesima cosca mafiosa capeggiata da Gaetano Badalamenti.
LE ACCUSE DI FRANCESCO DI CARLO
Ciò premesso, non si può sottacere che le dichiarazioni di Francesco Di Carlo, nella parte in cui accusa l’allora maggiore Subranni di essersi adoperato, su sollecitazione dei cugini Salvo, per una rapida chiusura dell’inchiesta che escludesse la pista mafiosa, così da fugare anche il semplice sospetto che si trattasse di un delitto ordinato dal boss Gaetano Badalamenti, appaiono tutt’altro che affidabili. Esse sono state già liquidate dai giudici della Corte d’Assise di primo grado di questo processo come prive di riscontri, rimandando però la sentenza appellata, per ogni valutazione conclusiva su eventuali responsabilità del Subranni nell’ipotizzato depistaggio, all’esito di un procedimento che alla data della pronuncia di primo grado era ancora sub iudice. Il procedimento in questione si è concluso con il citato provvedimento di archiviazione, ma, a prescindere da tale esito, deve ribadirsi che le dichiarazioni del Di Carlo, in parte de qua, restano inaffidabili. […]. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Un colossale depistaggio orchestrato “solo per idee politiche diverse”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 24 ottobre 2022
La condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; la sua ipotesi investigativa, in sintonia con il clima dell’epoca, appariva “giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine”, e “avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Dall’esame degli atti processuali sull’omicidio Impastato e sulle relative indagini emerge che vi fu, nella fase iniziale di dette indagini, una chiusura pregiudiziale a far luogo ad accertamenti e acquisizioni, sia documentali che testimoniali, che potessero avvalorare una pista alternativa a quella dell’eclatante gesto suicida o della morte accidentale del presunto attentatore.
Ma è pure vero che il compendio probatorio, integrato e arricchito da quelle risultanze che la fretta di chiudere le indagini dirette dall’allora Maggiore Subranni aveva precluso, consentì al giudice istruttore dell’epoca di affermare che si era trattato di un delitto e di accreditarne con ragionevole certezza la matrice mafiosa.
Ma non fu possibile andare oltre l’archiviazione per essere rimasti ignoti gli autori del delitto, anche se, nel chiosare tale conclusione, lo stesso g.i non mancò di imputare anche “agli irreparabili ritardi derivati da quello che nella requisitoria del pm viene definito l’iniziale “depistaggio delle indagini”, oltre che alla sopravvenuta uccisione di Finazzo Giuseppe, le cause che avevano impedito di tradurre in ben definite responsabilità individuali le verità che emergono dalle carte processuali.
Nella stessa sentenza del g.i dott. Caponnetto si dà atto che il Subranni (nel frattempo promosso al grado di Colonnello), già estensore dei due rapporti in data 10 e 30 maggio 1978 nei quali esprimeva la ferma convinzione che l'Impastato Giuseppe si fosse “suicidato compiendo scientemente un atto terroristico”, ammetteva sostanzialmente di esseri sbagliato.
In particolare, nella deposizione resa il 25.12.1980, egli precisava di avere appreso, dai suoi contatti con l’A.g., che dalle ulteriori indagini erano scaturiti “elementi tali da far ritener plausibile una causale diversa da quella formulata con il rapporto”. E nella successiva deposizione resa il 16.07.1982, lo stesso colonnello Subranni “in termini ancora più espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava: «Nella prima fase delle indagini si ebbe il sospetto che l'Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti però vennero meno quando in sede di indagini preliminari, svolte da magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano più per l’omicidio dell'Impastato che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera certa che l'Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalementi, che l'Impastato accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia, In ordine a questa ultima circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo, ritenuto mafioso e legato al Badalamenti».
Sempre nella sentenza Caponnetto viene richiamato il rapporto giudiziario del 10 febbraio 1982 a firma del Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Partinico che attesta quanto fossero mutati gli orientamenti e le convinzioni degli inquirenti — e dei carabinieri in particolare — in ordine alle circostanze, alle cause e alle modalità del tragico avvenimento verificatosi la notte del 9 maggio 1978. lvi si parla infatti del Finazzo Giuseppe come affiliato al clan mafioso capeggiato dal noto Gaetano Badalamenti, e lo si indica come indiziato di vari delitti il più grave dei quali risaliva al 9/05/78, ed era “la soppressione di Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria, di Cinisi, che pubblicamente non cessò mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarlo, il Finazzo Giuseppe, il Badalementi Gaetano e gli altri esponenti della mafia”.
In realtà, sulla causale del delitto e quindi sulla sua stessa matrice mafiosa, persistevano differenze di valutazioni e di convinzioni in seno all’Arma, che trascendevano e prescindevano dalle iniziali e improvvide prese di posizioni, presto ritrattate, del Subranni.
Convinzioni che riflettevano radicati pregiudizi politico-ideologici, quando non addirittura meschine antipatie personali, assai più che non sordidi interessi collusivi con la criminalità mafiosa (fatta salva la possibilità di strategiche convergenze, sempre da dimostrare, nel comune interesse e nell’atavico obbiettivo di arginare il pericolo rosso, cioè l’avanzata dei comunisti o comunque della sinistra nella paventata marcia verso la conquista del potere in Italia).
LA SCONCERTANTE NOTA DEL CAPITANO HONORATI
Ne costituisce riprova la sconcertante Nota del 20 giugno 1984 a firma del nuovo comandante del nucleo operativo del gruppo carabinieri di Palermo, Maggiore Tito Baldo Honarati (citato anche che nel decreto di archiviazione del procedimento a carico del Subranni per il reato di favoreggiamento aggravato in relazione all’omicidio Impastato).
Questi, infatti, nel rispondere alle richieste dei comandi superiori che sollecitavano, anche a seguito delle polemiche seguite all’intervenuta archiviazione, ulteriori indagini per fare luce sul caso Impastato, ribadiva come le indagini — definite molto articolate e complesse — condotte dal nucleo operativo al suo comando — hanno condotto al convincimento che l'Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nel predisporre un attentato di natura terroristica; e tale esito non lasciava prevedere né giustificava allo stato ulteriori possibilità investigative.
Nella Nota si sottolineava che «L‘ipotesi di omicidio attribuito all‘organizzazione mafiosa facente capo al boss Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici, a sua volta, è solo opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell'opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficializzato ai nostri atti, alla scala gerarchica».
Che si arrivasse a dire tanto del dr. Chinnici, a meno di un anno dalla sua tragica morte in occasione della strage mafiosa di via Pipitone Federico, lascia ancora oggi basiti. Ma quel che interessa qui segnalar è che, nel merito, l’estensore delta nota si sforzava di motivare il rilancio della tesi della morte dell'Impastato nel compimento di un attentato per finalità terroristiche, richiamando gli elementi a suo tempo forniti dal medesimo nucleo operativo, ed evidenziando le ragioni che facevano (a lui) ritenere assai fragile la pista alternativa dell’omicidio di mafia: «si vuol fare
osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche specificatamente questioni di mafia, come una cosca potente, e all'epoca dominante, come quella facente capo al Badalemnti, non sarebbe mai ricorsa per l'eliminazione di un elemento fastidioso ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell'Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni».
Erano passati sei anni dal delitto e quasi quattro anni da quando per la prima volta l’allora maggiore (rectius, colonnello) Subranni aveva ritrattato il suo iniziale convincimento.
[…] Ed allora, sul punto può concludersi che la condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; ma non può inferirsene che essa sia stata frutto di un deliberato proposito di favoreggiamento nei riguardi della locale cosca mafiosa e non l’espressione, piuttosto, del pervicace attaccamento all’ipotesi investigativa più in sintonia con il clima dell’epoca (oltre che con orientamenti ideologici verosimilmente a quel tempo ancora molto radicati nell’Arma): un’ipotesi investigativa che appariva peraltro giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine, e che avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quei “rapporti privilegiati” tra il ministro Mannino e i vertici del Ros. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 ottobre 2022
Il ridimensionamento del ruolo riconosciuto a Calogero Mannino nella vicenda ma ancora di più la sottovalutazione delle reali finalità che spinse gli ex ufficiali del Ros ad intraprendere i contatti con Vito Ciancimino poi sfociati in una doppia trattativa, ha indotto il giudice di primo grado a minimizzare il tema dell’indagine mafia/appalti,
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il ridimensionamento del ruolo riconosciuto a Calogero Mannino nella vicenda che ci occupa, ma ancora di più la sottovalutazione dell’importanza che, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti degli ex ufficiali del Ros odierni imputati, riveste l’accertamento delle reali finalità che li spinsero ad intraprendere i contatti con Vito Ciancimino poi sfociati in una doppia trattativa (avuto riguardo al diverso tenore delle proposte che gli avrebbero rivolto nelle due diverse fasi in cui si articolarono tali contatti) ha indotto il giudice di prime cure a minimizzare il tema dell’indagine mafia/appalti, che era stato invece aspramente dibattuto per tutto il corso del giudizio di primo grado.
La sentenza qui appellata esprime quasi rammarico per l’eccessivo spazio dedicato dall’istruzione dibattimentale, soprattutto su sollecitazione della difesa, ad approfondire un tema che poco o nulla avrebbe a che vedere con l’oggetto specifico di questo processo, se non fosse per l’esile filo — cosi testualmente si scrive in sentenza — costituito dalla ulteriore prova dell’esistenza di rapporti privilegiati tra alcuni esponenti politici, e segnatamente Calogero Mannino, e alti ufficiali dell’Arma, tra i quali il generale Subranni.
Ma non era necessario, a parere del primo giudice, scavare tanto su questo particolare capitolo della storia delle indagini che s’inscrivono nel filone mafia e appalti — che oltretutto riguarderebbe vicende risalenti a diversi anni prima dell’epoca in cui si collocano i fatti di causa – per dimostrare, l’accusa, e confinare, la Difesa, la tesi che esistessero rapporti non commendevoli di sudditanza o compiacenza di alcuni alti ufficiali dell’Arma e ambienti della politica o singoli esponenti politici. La prova conclamata ditali rapporti può infatti desumersi, sempre a parere del primo giudice, da ben altre fonti. Argomenti entrambi infelici, in realtà.
“MAFIA E APPALTI”
L’indagine “mafia e appalti” che era stata curata dai carabinieri del Ros intrecciando varie investigazioni da tempo in corso su eventi delittuosi connessi alla gestione illecita degli appalti in alcune cittadini dell’entroterra palermitana e si era poi allargato all’intero territorio siciliano, aveva trovato un primo bilancio nella corposa informativa depositata presso la procura della Repubblica di Palermo in data 20 febbraio 1991 (essendo stata consegnata dal suo estensore, il capitano De Donno, a mani del procuratore aggiunto Giovanni Falcone).
Ma quell’indagine avrebbe registrato un salto di qualità proprio sul finire dell’estate del ‘92, con il deposito in data 5 settembre di una seconda altrettanto corposa informativa che conteneva significativi indizi del possibile coinvolgimento di esponenti politici di rilievo anche nazionale, tra i quali l’on. Salvo Lima (che però nel frattempo era stato ucciso), il ministro Mannino, il presidente della Regione siciliana Rino Nicolosi, portando così alla luce un versante dell’indagine fino ad allora rimasto sottotraccia, e cioè quello delle compromissioni e collusioni di pezzi importanti del mondo politico con il sistema di spartizione degli appalti e relative tangenti, in cogestione con le cosche mafiose.
E se è vero che i fatti monitorati in quelle informative erano piuttosto datati, al pari delle intercettazioni che li documentavano, non è men vero che alcune di quelle intercettazioni lambivano o investivano la posizione di Calogero Mannino. Donde la polemica e i sospetti sulle ragioni per cui non si fosse approfondito per tempo quel versante dell’indagine.
Inoltre, ad ottobre dello stesso anno, e quindi in coincidenza con lo sviluppo della trattativa intrapresa dagli stessi carabinieri del Ros con Vito Ciancimino, veniva depositata un’ulteriore informativa, questa volta alla procura della Repubblica di Catania, cui facevano seguito la trasmissione degli atti per competenza alla procura di Palermo e l’esplosione di nuove polemiche con reciproci scambi di accuse (di insabbiamento o depistaggio) tra alcuni ufficiali del Ros e segnatamente il capitano De Donno e alcuni magistrati della procura di Palermo, già titolari dell’indagine mafia e appalti, nonché tra la stessa Procura e l’omologo ufficio requirente di Catania.
Tutte circostanze, quelle appena ricordate, che, secondo le loro difese, spiegherebbero le remore di Mori e De Donno a informare la procura di Palermo della trattativa instaurata con Ciancimino, soprattutto dopo che era venuto a mancare all’interno di quell’ufficio giudiziario un sicuro punto di riferimento come Paolo Borsellino.
I BUONI RAPPORTI TRA MANNINO E IL ROS
Quanto all’esistenza di un asse di rapporti privilegiati tra Mannino e i vertici del Ros, è a dir poco azzardato ritenere che da altre fonti potesse desumersi un rapporto di compiacenza o di sudditanza tale da potere giustificare o anche solo rendere plausibile che ne potesse sortire addirittura un disegno concertato di svendere la linea della fermezza dello Stato per salvare la vita a un politico influente, disonorando, gli ufficiali predetti, la divisa che indossavano. A meno di non voler ritenere:
che le delazioni del Corvo 2 avessero un minimo fondamento, invece che essere — come convennero da subito e con pubbliche esternazioni praticamente tutti i vertici degli apparati investigativi dell’epoca, Sco della polizia di stato incluso - il frutto di un tentativo di sollevare un polverone utile solo a gettare discredito sulle istituzioni e creare imbarazzo con una non peregrina commistione di elementi di verità e invenzioni calunniose ad una serie nutrita di note personalità del mondo della politica, dell’imprenditoria siciliana e della stessa magistratura;
che sia da elevare a sospetto il fatto stesso che Subranni abbia incontrato Mannino per parlare con lui, unitamente al Contrada, delle accuse lanciate nei suoi confronti dall’autore o dagli autori di quell’esposto anonimo. Al riguardo, può giudicarsi censurabile o disdicevole che Subranni non abbia avuto alcuna remora a incontrarlo, posto che il suo reparto era stato delegato dall’A.g. a svolgere accertamenti preliminari in merito al contenuto dell’esposto (si può sostenere infatti che evidenti ragioni di opportunità avrebbero dovuto prevalere sul galateo istituzionale, e indurlo a declinare l’invito a parlare riservatamente di certi argomenti). Ma va pure rammentato che il relativo procedimento venne incardinato, prima, a carico di ignoti e poi di noti per il reato di calunnia. Ed è certo che Mannino non fu l’unico politico siciliano, ma di rilievo nazionale, ad essere stato preso di mira nell’esposto anonimo predetto con accuse tanto infamanti quanto destituite di qualsiasi fondamento; come non fu l’unico politico che, pur essendo potenzialmente inquisito, si sia incontrato a sua volta con Bruno Contrada o con altri esponenti di vertice degli apparati investigati o di intelligence dell’epoca. D’altra parte, il Generale Tavormina, già nel corso delta deposizione resa all’udienza del 19.07.2000 nel processo a carico di Calogero Mannino per concorso esterno in associazione mafiosa aveva dichiarato in un primo momento di non potere escludere e poi di essere certo di avere parlato direttamente con lo stesso Mannino del contenuto dell’anonimo “Corvo2”, sebbene non avesse titolo a svolgere accertamenti al riguardo perché la Dia non aveva ricevuto alcuna delega d’indagine; circostanze confermate anche nella deposizione resa al dibattimento di primo grado di questo processo;
che la sollecitudine di Subranni nel farsi carico delle preoccupazioni di Mannino per la propria incolumità avessero un timbro diverso e sottintendesse una disponibilità ben diverse dalla sollecitudine che anche altri soggetti con cariche apicali degli apparati investigativi e di intelligence — e non ci si riferisce solo a Bruno Contrada, ma anche al citato generale Tavormina - ebbero nei confronti di una personalità che era pur sempre un noto protagonista della vita politica siciliana e nazionale, e, all’epoca dei fatti, ministro in carica;
che, dandosi per dimostrata la sensibilità e, ancora una volta, la sollecitudine del Subranni, ma anche del generale Tavormina, a dare una mano al ministro affinché si facesse chiarezza nel più breve tempo possibile sulle propalazioni accusatorie del pentito Spatola Rosario, ne fosse sortita, con la complicità del povero maresciallo Guazzelli, una “manipolazione” delle indagini scaturite da quelle rivelazioni e quindi una loro rapida conclusione, mentre ben altro esito avrebbero potuto avere se non vi fosse stato l’intervento inquinante dello stesso Guazzelli. Ma a quest’ultimo riguardo, è appena il caso di ricordare che lo stesso Spatola ritrattò le sue accuse con una lettera di scuse indirizzata all’On. Mannino; e che l’indagine a carico di quest’ultimo si chiuse in effetti in tempi rapidi, con un decreto di archiviazione congruamente motivato, ed emesso dal gip del Tribunale di Sciacca in data 11 ottobre 1991 su conforme richiesta avanzata dal Procuratore della Repubblica Messana, dopo che gli atti erano stati trasmessi per competenza dalla procura di Marsala; e che nessun riscontro probante alle accuse dello Spatola — che indicava il Mannino come uomo d’onore e organico alle cosche agrigentine, ma poi ammetteva di non poter riferire nulla, né per conoscenza diretta, né per notizie apprese da altri, circa eventuali condotte del Mannino in favore della consorteria mafiosa – era emerso dalle indagini; e che queste ultime erano state espletate non dai carabinieri del Ros bensì, per alcuni accertamenti specifici, dal N.o carabinieri di Agrigento, ma per la gran parte dalla Squadra Mobile di Trapani e poi dal Commissariato p.s di Sciacca. E ciò in evasione, rispettivamente, ad una corposissima delega d’indagine che era stata conferita, prima di trasmettere gli atti per competenza alla Procura di Sciacca, dal procuratore di Marsala Paolo Borsellino, e ad una successiva delega d’indagine dello stesso Procuratore di Sciacca. Anche se quest’ultimo, sia pure solo a conclusione delle indagini predette, aveva altresì richiesto ai carabinieri del Ros ulteriori informazioni sul conto dell’On. Calogero Mannino in ordine ad una sua eventuale appartenenza o vicinanza a gruppi di criminalità organizzata, ricevendone una risposta seccamente negativa.
Vi fu dunque un coinvolgimento informale, dei carabinieri del Ros, ed una sollecita e netta presa di posizione in favore del politico inquisito che sembrerebbero comprovare l’esistenza di buoni rapporti all’epoca intercorrenti tra il politico siciliano e il Ros comandato dal generale Subranni. Questi, peraltro, a dire del generale Tavormina, aveva conosciuto personalmente proprio quell’anno, e quindi pochi mesi prima, il ministro Mannino. Ma L’intervento del Ros sarebbe stato comunque del tutto marginale e giunto a indagini praticamente concluse. Altro è inferire che vi sia stato un intervento decisivo di inquinamento delle carte in favore del ministro inquisito. […].
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’inchiesta “mafia & appalti”, una questione cruciale per la difesa. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 ottobre 2022
Era interesse della difesa dimostrare quanto infondato fosse il sospetto di favoritismi e di avere tenuto una condotta men che corretta nello svolgimento dell’indagine su mafia e appalti; e come tale indagine, anzi, mirasse a portare alla luce il groviglio di interessi politico-affaristico-mafiosi che inquinava il sistema di aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ciò premesso, non poteva questa Corte assecondare l’impostazione, né condividere la valutazione del giudice di primo grado, tese entrambe a minimizzare la rilevanza del tema ora in esame.
Perché se fosse provato che i carabinieri del Ros avevano indagato a fondo e senza riserve la posizione di Calogero Mannino e degli altri esponenti politici di rilievo nazionale indiziati di essere coinvolti nel sistema tangentizio e di spartizione degli appalti; se fosse provato che non avevano omesso di riferire all’A.g. gli elementi che andavano emergendo a carico del Mannino — o di altri — nello svolgimento dell’indagine mafia e appalti (che non era affatto conclusa nell’estate del ‘92); se fosse provato che non avevano amputato il compendio di intercettazioni allegato alla prima informativa depositata in procura delle intercettazioni che contenevano gli elementi più compromettenti o comunque di maggiore interesse investigativo sul conto di Mannino (o di altri); se dunque fosse provato che avevano indagato sulle ingerenze politico mafiose nel sistema degli appalti - e continuavano a farlo, avuto riguardo all’informativa “Sirap”, depositata il 5 settembre ‘92 — senza sconti per l’on. Mannino; se tutto ciò fosse provato, allora sarebbe arduo continuare a sostenere, o anche solo ipotizzare, che gli stessi carabinieri del Ros contestualmente si adoperassero, su input e nell’interesse preminente del medesimo uomo politico, per creare le premesse di un negoziato tra lo stato e i vertici di Cosa nostra.
Era dunque, ed è, precipuo interesse della Difesa, e degli odierni appellanti approfondire talune vicende da un’angolazione e con esiti che fossero idonei a trarne elementi utili a confutare alla radice l’ipotesi accusatoria.
Un’ipotesi, va rammentato, che attribuisce anzitutto all’on. Mannino il ruolo di istigatore, sia pure indiretto e quindi “morale”, del reato per cui si procede, per avere innescato la sciagurata iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros attraverso i contatti instaurati con Vito Ciancimino e finalizzata a tutelarne l’incolumità, anche a costo di concessioni che esaudissero le richieste di Cosa nostra, in sfregio alla linea della fermezza dello stato nell’azione di contrasto alla mafia.
E in particolare, era interesse della Difesa dimostrare quanto infondato fosse il sospetto di favoritismi e di avere tenuto una condotta men che corretta nello svolgimento dell’indagine su mafia e appalti; e come tale indagine, anzi, mirasse a portare alla luce il groviglio di interessi politico-affaristico-mafiosi che inquinava il sistema di aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche, involgendo autorevoli e influenti uomini politici tra i quali proprio il ministro Mannino.
Su quest’ultimo il Ros non avrebbe mai smesso di indagare, su delega della procura della Repubblica di Palermo, retta dal nuovo procuratore Caselli (formalmente insediatosi proprio il 15 gennaio 1993), fino al suo arresto, avvenuto nel febbraio del 1995 (ed eseguito dai carabinieri del Ros).
L’INDAGINE E LE TENSIONI CON LA PROCURA DI PALERMO
E proprio tale indagine, la cui importanza si sarebbe confermata negli anni a venire fungendo da apripista a tutto un filone investigativo che avrebbe poi conseguito risultati straordinari nell’azione di contrasto alla corruttela affaristico-mafiosa, sarebbe stata all’origine di contrasti e tensioni con la procura di Palermo, o almeno con alcuni magistrati di quell’Ufficio, già titolari dell’inchiesta “mafia e appalti”, oltre che di valutazioni divergenti sulla reale consistenza delle risultanze acquisite e sulla possibilità concreta di ulteriori sviluppi di quell’indagine.
In tale prospettiva, era interesse della Difesa rinvangare anche vicende di contorno utili a rappresentare il clima di tensione, diffidenze e sospetti reciproci nei rapporti del Ros con la procura di Palermo. Un clima tale, secondo la lettura che ne offre la stessa Difesa, da giustificare in qualche misura le remore ad informare la procura di Palermo, almeno fino a quando non s’insediò il nuovo procuratore, dell’iniziativa concretizzatasi nella trattativa con Vito Ciancimino (con fasi alterne e un brusco cambio di spartito ad un certo momento, ma complessivamente protrattasi per circa sei mesi): tenendo presente, sempre nell’ottica difensiva, che non vi fu mai alcuna reale intenzione di aprire un negoziato con Cosa nostra, ma solo l’obbiettivo di spingere un personaggio accreditato di un notevole spessore mafioso di collaborare con gli inquirenti.
D’altra parte, come già segnalato, delle due condotte in cui secondo l’accusa si sarebbe sostanziato il concorso di Calogero Mannino al reato per cui qui si procede il giudice di prime cure ha ritenuto di doversi occupare solo della prima, derubricandola a mero antecedente causale della vicenda che ci occupa.
Ora, si può convenire sulla valutazione secondo cui tale condotta, in sé considerata, non avrebbe alcuna rilevanza penale, poiché non integra gli estremi di un’istigazione sussumibile nello spettro dell’art. 110 c.p. in relazione all’ipotesi di minaccia a corpo politico dello stato (art. 338 c.p.). Si tratterebbe al più di un’istigazione a istigare, e allora poco importa che l’iniziativa in questione sia stata concertata: essa si dislocherebbe in una fase in cui non è ravvisabile alcun comportamento penalmente rilevante, neppure da parte degli ufficiali del Ros, così come non è ancora una condotta penalmente rilevante l’avere contattato Vito Ciancimino, essendo quei contatti preliminari suscettibili degli esiti più disparati (ed allora poco importa che li avessero intrapresi di propria iniziativa o in forza di un disegno previamente concertato con l’on. Mannino o addirittura su incarico di quest’ultimo).
Ma resta il fatto che, anche nella ricostruzione fattuale sposata dal primo giudice, quella condotta costituirebbe pur sempre un antecedente causale necessario, che spiegherebbe e quindi connoterebbe gli sviluppi successivi della vicenda della trattativa stato-mafia; e, in particolare, essa ipotecherebbe l’illiceità delle successive condotte poste in essere dagli ufficiali del Ros, odierni imputati: altro è attivarsi per tutelare un’alta personalità politica dal rischio di attentati, senza con ciò esondare sostanzialmente dalle proprie competenze e dai propri poteri (e soprattutto dai propri doveri); altro è, invece, che un pugno di ufficiali abusi dei propri poteri per imbastire, su input e comunque nell’interesse di un influente uomo politico (anche se in questo caso l’interesse consisteva in ultima analisi nel salvarsi e salvargli la vita) di trame sotterranee mirate a influenzare ed orientare le decisioni dell’autorità di governo.
LA TRATTATIVA E LE REALI FINALITÀ DEL ROS
Ma poiché è provato che la trattativa con Vito Ciancimino si svolse in effetti attraverso una trama sotterranea di cui vennero edotti, per sommi capi e non senza ambiguità nel prospettare natura e le reali finalità dell’iniziativa, solo i vertici politico-istituzionali, per riceverne la copertura e il sostegno necessari perché andasse a buon fine, non è irrilevante stabilire se gli odierni imputati fossero mossi dalla finalità esclusiva di fermare le stragi, anche a costo di dovere, lo stato, fare delle concessioni ad un’organizzazione criminale come Cosa nostra; o se finalità precipua fosse quella di salvare la vita a un potente uomo politico con il quale intercorressero relazioni di scambio (di favori e protezioni): fino a sacrificare a interessi privati la linea della fermezza dello Stato nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Ecco perché è tutt’altro che secondario stabilire se vi fosse o non una propensione a farsi carico degli interessi dell’on. Mannino, sia che si trattasse di provvedere alla sua incolumità, sia che si trattasse di preservarlo da inchieste che potevano attentare alla sua immagine pubblica e alla reputazione politica, o addirittura portare alla luce profili di responsabilità penale per illeciti commessi nell’aggiudicazione o nella gestione spartitoria degli appalti o nel loro finanziamento, e in altri lucrosi affari.
La stessa sequenza di incontri e triangolazioni tra Mannino e Subranni e Guazzelli, Mannino, Subranni e Contrada, già scrutinata senza trame implicazioni rilevanti per l’accusa, potrebbe essere (ri)letta in una luce diversa, se fosse provata una tendenziale compiacenza e sudditanza del generale Subranni e degli ufficiali al suo comando verso interessi personali e “privati” del Mannino.
Pertanto, era ed è essenziale per le Difese appellanti dimostrare che non vi furono né compiacenza né sudditanza; e che anzi il Ros comandato dal generale Subranni, nel quadro delle investigazioni condotte e coordinate in prima persona dal capitano De Donno sugli intrecci tra mafia e appalti, indagò senza riserve e senza favoritismi anche su fatti che involgevano la persona dell’on. Mannino; e non nascose all’A.g. nulla di quanto emerso e nulla di quanto andava emergendo sul suo conto nel corso delle indagini.
Già sotto questo primo aspetto era doveroso da parte di questa Corte non precludere alle difese più interessate la possibilità di coltivare una serie di approfondimenti istruttori che, senza appesantire più di tanto l’iter del giudizio d’appello (consistendo quasi esclusivamente in richieste di acquisizioni documentali), miravano ad evidenziare la fragilità delle basi dell’accusa nei riguardi in particolare, degli ufficiali del Ros odierni appellanti. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La consegna in massa dei latitanti e il rifiuto di don Vito Ciancimino. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 ottobre 2022
Vito Ciancimino ha riferito di avere ricevuto dai vertici mafiosi, attraverso l’ambasciatore, alias Antonino Cinà, una piena delega a trattare con i carabinieri. Ma sostiene che la trattativa si chiuse, almeno in quella prima fase, non appena alla sua richiesta di sapere cosa offrissero, gli stessi carabinieri avanzarono una proposta irricevibile, ovvero la consegna dei latitanti...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sotto altro aspetto, poi, si coglie un’ulteriore ragione per riconoscere la rilevanza del tema relativo all’indagine mafia e appalti. È, invero, tutt’altro che sottile il filo che lo lega all’oggetto specifico del presente giudizio, ove si abbia riguardo alla possibile incidenza — che la sentenza appellata afferma perentoriamente esservi stata — dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quell’indagine, e della sua determinazione a riprenderla ed approfondirla, sulla (presunta) brusca accelerazione che sarebbe stata impressa all’attuazione del progetto già pendente di ucciderlo.
In realtà, nella costruzione del percorso logico-probatorio che ha condotto il giudice di primo grado ad affermare la penale responsabilità di Subranni, Mori e De Donno quali concorrenti nel reato di minaccia a un corpo politico dello stato, un momento importante è dato dall’assunto, che si assume provato con certezza, secondo cui fu proprio l’avere avuto sentore che uomini dello Stato si erano fatti sotto per sollecitare l’apertura di un dialogo a indurre Salvatore Riina a imprimere quella brusca accelerazione, così sconvolgendo o modificando la sua scaletta degli attentati in programma (come quello in danno del Ministro Mannino).
E nella valutazione del primo giudice questa circostanza offrirebbe un primo e tutt’altro che secondario riscontro logico-fattuale all’ipotesi che Riina, non soltanto fu informato di quella sollecitazione al dialogo, ma vi intravide l’opportunità di sfruttare l’improvvida iniziativa dei carabinieri per trame il massimo vantaggio, nel senso di poter trattare da una posizione di forza.
A tal fine sarebbe servito dare alla controparte una nuova terrificante dimostrazione della potenza di Cosa nostra, che, implementandone in modo cruento il potere “contrattuale”, inducesse lo stato ad accettare condizioni altrimenti difficilmente proponibili e ad accogliere richieste altrimenti irricevibili.
Riina, quindi, avrebbe fatto precedere dalla nuova strage la formulazione di specifiche richieste, o le avrebbe formulate subito dopo la strage, affinché la controparte istituzionale comprendesse, senza possibilità di equivoco, che non esistevano margini per una possibile trattativa, cioè per un vero negoziato. In altri termini, una volta costatato che dopo e proprio a seguito della strage di Capaci lo stato manifestava segni di cedimento e di debolezza sollecitando l’avvio di un negoziato per fare desistere Cosa nostra da ulteriori spargimenti di sangue, un nuovo eccidio – e tale fu la strage di via D’Amelio per il modo in cui fu concepita oltre che attuata – sarebbe quindi servito a Riina a metterlo nelle condizioni di poter trattare da una posizione di forza, anzi di impostare la trattativa con lo Stato nell’unico modo a lui congeniale che non contemplava un estenuante negoziato ma solo l’accettazione delle condizioni da lui imposte.
E in questo senso talune affermazioni di Riina, nelle conversazioni con il co-detenuto Lorusso, captate a loro insaputa al carcere di Opera, e segnatamente quando dice di sé di non avere mai trattato con nessuno […] , deporrebbero non nel senso di negare che una trattativa vi sia stata, ma solo che egli abbia mai “negoziato” con qualcuno, consistendo l’unica trattativa per lui concepibile appunto nell’imporre le proprie condizioni in cambio della rinuncia a soddisfare le proprie pretese con la violenza.
E infatti quando dice che “Riina non trattava, ma furono gli altri che trattarono con lui” (cfr. conversazione intercettata il 10 ottobre 2013 [...]), esprime il medesimo concetto, volendo significare che erano stati altri a pendere l’iniziativa di trattare: con ciò implicitamente confermando, come rileva il giudice di prime cure, che una trattativa c’era stata, ma per iniziativa di altri che lo avevano invitato a far conoscere le sue richieste.
Sarebbe allora indirettamente provato, attraverso la logica concatenazione dei fatti accertati, anche ciò che i diretti protagonisti di quella trattativa (a parte lo stesso Riina) hanno, con accenti diversi, sempre negato o mai ammesso: e cioè che Riina fece avere, attraverso il canale aperto dai carabinieri con Ciancimino e Cinà un “pacchetto” di specifiche richiese, il c.d. “papello” da intendersi come condizioni (non negoziabili) per la cessazione di omicidi e stragi.
CIANCIMINO, CINÀ E LA TRATTATIVA
Invece, come s’è visto, Cinà, ammette di essere stato informato da Vito Ciancimino dei contatti intrapresi con i carabinieri del Ros, senza che, peraltro, gli specificasse cosa volessero («Ricordo bene che mi disse testualmente che preferiva morire piuttosto che tornare in carcere. Mi disse anche voleva ottenere il passaporto. A questo punto, aggiunse che mi doveva dire una cosa importante ovverosia che si erano rivolti a lui i Carabinieri facendomi il nome del colonnello Mori e del Capitano De Donno, ma non mi disse né le ragioni né cosa volessero»); ammette di avere altresì ricevuto dallo stesso Ciancimino la richiesta di metterlo in contatto con Riina («aggiunse ancora che voleva mettersi subito in contatto con la controparte»); nega però di averne informato il capo di Cosa Nostra, e afferma di avere detto subito a Ciancimino che questi aveva maggiori possibilità di lui di contattare le persone cui si riferiva («gli risposi comunque che era impossibile che io potessi aiutarlo, spiegandogli che non avevo modo di contattare nessuno, atteso che potevo incontrare le persone cui lui si riferiva solo su loro richiesta e solo dopo laboriosa accortezza. Gli accennai anche che era impossibile contattarli attraverso comunicazioni scritte, considerato che sarebbe trascorso almeno un mese. Aggiunsi che lui aveva sicuramente più possibilità di me per poterli contattare») suggerendogli tuttavia, giusto per chiudere il discorso, di farsi aiutare dai carabinieri ad aggiustare i suoi processi («nell'occasione, constatando il suo stato di prostrazione e depressione per i motivi che ho già detto, ne approfittai per suggerirgli, per chiudere il discorso, ritenendo improbabile che, se davvero il contatto vi fosse stato, di chiedere ai Carabinieri di aiutarlo nei suoi processi»).
Vito Ciancimino a sua volta, sia nelle sue dichiarazioni all’A.g che nei suoi scritti ha riferito di avere ricevuto dai vertici mafiosi, attraverso l’ambasciatore, alias Antonino Cinà, una piena delega a trattare con i carabinieri. Ma sostiene che la trattativa si chiuse, almeno in quella prima fase, non appena alla sua richiesta di sapere cosa offrissero (in cambio), gli stessi carabinieri avanzarono una proposta irricevibile (ovvero la consegna dei latitanti). Come si vedrà nel prosieguo, Ciancimino non dice, ma neppure esclude, di avere ricevuto da Riina richieste o almeno indicazioni specifiche su cosa chiedere alla controparte in cambio della cessazione delle stragi, glissando su punto.
Quanto a Mori e De Donno, entrambi negano fermamente di avere mai avuto in visione un papello di richieste provenienti da Riina o altro esponente di vertice dell’organizzazione mafiosa, o che Ciancimino abbia fatto loro il minimo cenno a specifiche richieste avanzate dai vertici mafiosi, confermando che quel simulacro di trattativa — giacché a loro dire non avevano mai avuto alcuna reale intenzione di negoziare — si sarebbe infranta non appena i carabinieri, invitati dal Ciancimino a dire cosa fossero disposti ad offrire (per conto di chi li mandava), e non sapendo cosa dire, buttarono lì una proposta che loro per primi ritenevano ovviamente irricevibile per Cosa nostra.
Ebbene, è stato sforzo comune alle difese di Mori, Subranni e De Donno quello di provare che, se vi fu accelerazione nell’iter attuativo della strage di via D’Amelio — presupposto che non è affatto scontato — la causa ditale accelerazione non ha nulla a che vedere con la presunta trattativa, ma deve piuttosto ricercarsi nel rinnovato interesse del dott. Borsellino per l’indagine mafia e appalti; e nel timore dei vertici mafiosi — e degli influenti potentati con cui Cosa nostra aveva allacciato lucrose relazioni d’affari strutturate in un vero e proprio sistema di spartizione degli appalti — per i suoi potenziali sviluppi.
Nella diversa prospettazione difensiva, coltivata anche nel presente giudizio d’appello, verrebbe quindi meno, o ne sarebbe essenzialmente corroso, uno dei pilastri della piattaforma probatoria che supporta l’impugnata pronuncia di condanna, atteso che, nella ricostruzione sposata dalla Corte d’Assise di primo grado, la condotta costitutiva del reato per cui si procede prese corpo con la formulazione di specifiche richieste avanzate da Riina come condizione per la cessazione delle stragi, in tale correlazione sostanziandosi l’esternazione della minaccia a corpo politico dello stato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Depistaggi veri e presunti intorno al mistero di una doppia informativa. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 28 ottobre 2022
La (presunta) seconda copia, cioè quella integrata con gli atti da cui si desumerebbe il coinvolgimento nella illecita gestione degli appalti da parte di noti esponenti politici, e arricchita dalle dichiarazioni del sedicente collaborante Li Pera e dalle indagini che ne erano seguite, devierebbe, rispetto all’impostazione iniziale, nel ricostruire il ruolo ascrivibile a Cosa nostra.
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La tesi dell’esistenza di una seconda versione del rapporto mafia/appalti, molto più completa e approfondita soprattutto nella parte concernente gli approfondimenti o quanto meno i materiali raccolti (id est, trascrizioni di intercettazioni telefoniche) sul versante delle collusioni politico-affaristiche-mafiose e del coinvolgimento nelle indagini, se non in specifici fatti illeciti inerenti alla gestione degli appalti pubblici, era caldeggiata dalla pubblica accusa, per la rilevanza che si riteneva di potervi annettere, sotto un duplice profilo.
Anzitutto, ne uscirebbe comprovato il legame di solidarietà tra alti ufficiali del Ros e alcuni esponenti politici tra i quali, in particolare l’on. Calogero Mannino il cui coinvolgimento nelle vicende oggetto d’indagine sarebbe stato deliberatamente occultato, escludendo dalla copia del rapporto consegnato ai magistrati della Procura di Palermo titolari del procedimento mafia/appalti gli atti e segnatamente le intercettazioni in cui si parlava di noti esponenti politici siciliani e nazionali, tra i quali appunto il predetto Mannino: con la conseguenza che potrebbe inferirsene un ulteriore, ancorché indiretto riscontro all’ipotesi accusatoria che prefigura la trattativa intrapresa con Ciancimino come frutto di un disegno mirato non già a favorire la cattura dei boss latitanti e neppure a porre fine alle stragi, bensì più prosaicamente a salvare la vita al Mannino, ovvero a sventare la minaccia — fondata e incombente — di essere l’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti la prossima vittima, dopo Lima, propiziando uno scambio tra la concessione di favori e vantaggi a Cosa Nostra e la revoca della sentenza di condanna a morte già emessa dal “tribunale” mafioso.
Ma sotto questo aspetto, ha buon gioco la difesa a replicare che, anche volendo dare credito ad una tesi che in realtà si è rivelata infondata o comunque non supportata da idonei elementi di prova (con il suggello, adesso del giudicato assolutorio nei riguardi dell’illustre coimputato), l’on. Mannino non era l’unico esponente politico di cui sarebbe stato omesso il nome o nascosto il possibile coinvolgimento nell’indagine mafia/appalti.
E di contro, la sentenza qui appellata — che sulla questione della doppia refertazione sembra piuttosto sospendere il giudizio, reputandola ininfluente ai fini della decisione - replica che quei legami sono aliunde provati, come è provato che l’on. Mannino fu realmente fatto segno ad un progetto di attentato che all’epoca dei fatti era già in fase avanzata di esecuzione; così come sarebbe provato che, attinto da minacce specifiche e concrete — ancorché dissimulate da amichevoli consigli - e venuto a conoscenza dell’esistenza di un progetto di attentato ai suoi danni, lo stesso Mannino aveva mobilitato le conoscenze ed entrature di cui disponeva all’interno degli apparati di polizia, non solo per verificare la fondatezza delle minacce e la gravità del pericolo cui si sentiva — ed era — esposto, ma per trovare una via d’uscita al problema della sua sicurezza personale, al di fuori di canali ufficiali e istituzionali: fino ad esplorare anche la possibilità di aprire un negoziato con i vertici mafiosi che avevano decretato la sua morte.
Nella ricostruzione sposata dalla sentenza di primo grado, piuttosto nebulosa sul punto, si conferma che fu Mannino a innescare l’iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros e si propende per l’ipotesi che ne sia stato altresì l’ispiratore; ma non si esclude la possibilità che egli si sia limitato a prospettare, al generale Subranni come al generale Tavormina, i termini del problema che lo assillava e a rivolgere una sollecitazione (non meglio definita) anche solo implicita, premendo per una soluzione che sarebbe stata poi ideata o sviluppata da Subranni e da questi concertata con gli ufficiali del Ros alle sue immediate dipendenze, che a loro volta vi diedero concreta attuazione.
IL PRESUNTO OBIETTIVO DEL ROS
In realtà non sarebbe poi così ininfluente la prova che gli ufficiali del Ros odierni imputati si fossero a suo tempo adoperati per preservare l’on. Mannino dal rischio di un coinvolgimento nelle indagini mirate ad approfondire il nodo degli intrecci collusivi tra mondo della politica e delle istituzioni, ambienti imprenditoriali e criminalità mafiosa, con specifico riguardo alla creazione di un inedito network criminale tra grossi gruppi imprenditoriali e organizzazioni mafiose.
Se ciò fosse provato, ne uscirebbe infatti corroborata, sia pure indirettamente, l’ipotesi che gli stessi ufficiali dell’Arma, già adusi a condotte contrarie ai propri doveri d’ufficio, o di aperto favoreggiamento, possano avere concepito e concertato un’iniziativa non meno contraria a quei doveri per venire incontro a pressanti esigenze di un influente esponente politico della cui sorte già in un recente passato si erano fatti carico e con cui intrattenevano, in ipotesi, relazioni di mutuo interesse.
Ma questa Corte non si nasconde che l’assunto di una doppia informativa nella prospettazione accusatoria potrebbe anche avere ben altra rilevanza.
La (presunta) seconda copia, cioè quella integrata con gli atti da cui si desumerebbe il coinvolgimento nella illecita gestione degli appalti da parte di noti esponenti politici, e arricchita dagli ulteriori elementi scaturiti dalle propalazioni del sedicente collaborante Li Pera (geometra e già capo area per la Sicilia di una delle più grosse imprese, di rilievo nazionale, investite dall’investigazione del Ros) e dalle indagini che ne erano seguite, devierebbe, rispetto all’impostazione iniziale, nel ricostruire il ruolo ascrivibile all’organizzazione mafiosa.
Un ruolo che, alla luce delle propalazioni del Li Pera, tornava ad essere ancillare o secondaria sullo sfondo di una vicenda di corruttela politico-amministrativa non dissimile da quella che su scala nazionale era stata portata alla ribalta dall’indagine Mani Pulite del pool di magistrati della procura di Milano, e dalle analoghe indagini svolte da tanti altri uffici requirenti.
E questo dichiarato ridimensionamento del ruolo di Cosa nostra, e conseguente affievolimento dell’attenzione sul coinvolgimento dei capi dell’organizzazione criminale, sarebbe stato funzionale al disegno in quel momento in corso di esecuzione della “trattativa” intrapresa con gli stessi vertici mafiosi attraverso l’intermediazione di Vito Ciancimino.
Insomma, si spegnevano i riflettori, o si abbassava la luce sul coinvolgimento dei capi di Cosa Nostra nella creazione e nella gestione unitaria e verticistica di un sistema di spartizione degli appalti, per favorire la trattativa in corso o per creare un clima favorevole al suo svolgimento.
In tale prospettiva, non rileverebbe tanto stabilire se all’epoca della consegna della prima informativa sull’indagine mafia/appalti (20 febbraio ‘91) ne esistesse già una seconda versione, più completa e con i nomi dei maggiori esponenti politici coinvolti (il presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi,. l’on. Lima e l’on. Mannino, ma anche l’on. Carlo Vizzini) e per quale ragione si omise di segnalare già nel primo rapporto quei nominativi che invece figureranno poi nel corpo o negli allegati delle informative depositate successivamente (quella del 5 settembre; l’informativa “Caronte” depositata alla procura di Catania il 1° ottobre 1992; e ancora, l’informativa trasmessa alla Procura di Palermo nel novembre 1992).
Piuttosto la vicenda assumerebbe una certa rilevanza, nella prospettiva accusatoria, perché disvelerebbe un tentativo surrettiziamente perpetrato dai carabinieri del Rosdi valorizzare le propalazioni del Li Pera — sollecitato a rendere dinanzi all’A.g. di Catania dichiarazioni sulle stesse vicende già oggetto del procedimento principale nr. 2789/90 R.G.N.R. a carico di Siino Angelo e altri e dei procedimenti ad esso connessi come: il proc. 11. 2811/89 a carico di Pinello Giuseppe, scaturito dalle rivelazioni in ordine ai metodi di manipolazione degli appalti pubblici dell’ex sindaco di Baucina, Giaccone Giuseppe, a sua volta imputato del reato di cui all’art. 416 bis C.P.; il proc. N. 198 1/89 a carico di Modesto Giuseppe e altri, imputati del reato di cui all’art. 416 bis c.p., sempre in ordine ai metodi di illecita manipolazione degli appalti pubblici da parte di esponenti mafiosi tra i quali proprio il Siino; e il proc. N. 1155/90 N.C. originato dalle dichiarazioni rese alla Commissione Antimafia da vari sindaci di Comuni delle Madonie sul fenomeno del racket delle progettazioni nel settore degli appalti— e di svolgere ulteriori indagini sui medesimi temi, all’insaputa della procura di Palermo e dei magistrati titolari dell’inchiesta cui gli stessi carabinieri avevano lavorato, condensandone le prime risultanze nel rapporto mafia/appalti depositato il 20 febbraio 1991.
UN’IPOTESI IMPORTANTE
L’ipotesi di un potenziale sviamento delle indagini nel 1992, messo in atto (con l’informativa “Sirap” e l’informativa “Caronte”) dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, e per accreditare la tesi di un sistema di manipolazione delle gare e di spartizione degli appalti pubblici gestito mediante un triangolo costituito solo da politici e amministratori corrotti e da imprenditori, senza alcuna significativa presenza della mafia (in palese contrasto con l’assunto investigativo sostenuto dallo stesso Ros nell’originaria informativa depositata il 20 febbraio 1991), era stata formulata dalla Procura della Repubblica di Palermo nella citata relazione del 5 giugno 1998 a firma dei due Aggiunti (Lo Forte e Croce) e dei sostituti titolari di inchieste del filone mafia-appalti, indirizzata al procuratore capo Caselli e da questi consegnata al Csm nel corso di un’audizione tenutasi a Palermo il 3 febbraio 1999. Ivi si richiamavano le considerazioni svolte già nella “Relazione sui procedimenti instaurati a Palermo su mafia e appalti”, depositata presso il Csm in data 7 dicembre 1992, secondo cui tra le anomalie che avrebbero contrassegnato lo svolgimento dell’indagine mafia e appalti istruita dalla Procura di Palermo spiccherebbe il tentativo di sviarne gli sviluppi per accreditare la falsa tesi di un sistema di manipolazione degli appalti operante anche in Sicilia senza alcuna significativa presenza di Cosa Nostra.
E in tal senso avrebbero militato le indagini curate dal cap. De Donno lungo la linea suggerita dalle dichiarazioni rese dal geometra Li Pera all’A.g. catanese, con l’effetto (potenziale) di determinare, a beneficio degli imputati sotto processo in quel momento a Palermo (in data 9 marzo 1992 era stata avanzata richiesta di rinvio a giudizio per Siino Angelo, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo, Li Pera Giuseppe, Buscemi Vito e Cascio Rosario, e al 19 ottobre era stata fissata la data di inizio del processo) la sostanziale fuoriuscita di Cosa nostra dall’orizzonte processuale delle vicende di illecita spartizione degli appalti, attribuendosi all’organizzazione mafiosa un ruolo del tutto marginale o episodico; e, come effetto immediato più tangibile, la derubricazione dell’accusa, per tutti gli imputati, da associazione mafiosa. ex art. 416 bis ad associazione a delinquere comune, ex art. 416 c.p.p.. con la conseguente prevedibile scarcerazione di tutti gli imputati”.
Le citate relazioni sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia-appalti (e cioè quella del 7 dicembre 1992 e la relazione del 5 giugno 1998), per la parte concernente il triennio 1989/1992 lasciavano però aperto l’interrogativo circa le reali finalità dell’ipotizzato sviamento delle indagini, limitandosi a segnalare le negative ripercussioni di natura processuale che esso avrebbe avuto nel processo che stava per iniziare a carico di Siino Angelo e gli altri coimputati del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (finalizzata al controllo e alla gestione illecita di appalti pubblici in Sicilia).
Nella ri-lettura della medesima vicenda operata dalla pubblica accusa nel presente processo, il disegno consistito nell’aver ridimensionato il ruolo di Cosa n0ostra, asseverando una rappresentazione del sistema di spartizione degli appalti in Sicilia non dissimile da quello disvelato su scala nazionale dall’inchiesta Mani Pulite, avrebbe mirato ad oscurare le effettive responsabilità dei vertici mafiosi per favorire l’apertura di un dialogo finalizzato a far cessare le stragi. Una sorta di depistaggio, insomma, a beneficio del buon esito di quella trattativa occulta.
Dal raffronto dei verbali delle dichiarazioni del geometra Giuseppe Li Pera (già rappresentante per la Sicilia della RIZZANI-DE ECCHER. impresa di rilievo nazionale, tratto in arresto in esecuzione dell’o.c.c. emessa il 9 luglio 1991 dal GIP di Palermo nel procedimento a carico di Siino Angelo e altri) nel corso della sua sedicente collaborazione con varie autorità giudiziarie (compresa la procura di Milano, come attesta il verbale d’interrogatorio reso dal Li Pera al pm Antonio Di Pietro il 12 novembre 1992) emerge sicuramente il tentativo dello stesso Li Pera di introdurre surrettiziamente, per proprie convenienze difensive, nel procedimento a suo carico per il reato di associazione mafiosa, imputazione per la quale era alle viste la conclusione della fase delle indagini preliminari e poi l’inizio del processo, una rappresentazione del sistema di aggiudicazione degli appalti che, oltre a minimizzare il suo ruolo personale (descrivendosi come una rotella vittima di un ingranaggio molto più grande di lui), oscurasse il ruolo della componente mafiosa, a beneficio, sia pure indirettamente, della sua posizione processuale, essendo il Li Pera imputato appunto del reato di associazione mafiosa in relazione alla sua partecipazione a quel sistema.
Se, infatti, al pm di Catania dott. Lima il dichiarante si sforzava di accreditare quella rappresentazione in relazione alle vicende per cui era indagato presso l’A.g. di Palermo, interrogato, invece, dalla procura di Milano non aveva alcuna remora ad attribuire all’organizzazione mafiosa un ruolo specifico nel sistema di illecita spartizione degli appalti in Sicilia, e tale da farne una componente essenziale di quel sistema.
L’INDAGINE SULLA SIRAP
Quanto all’impostazione complessiva dell’informativa depositata il 5 settembre 1992, non va dimenticato che essa fu redatta in evasione alla delega d’indagine del 26 luglio 1991, e rispecchiava - e rispettava - una precisa direttiva formulata in quella complessa e articolata delega, con la quale venivano disposte dalla Procura di Palermo approfondite e ampie indagini sulla Sirap Spa (società partecipata dalla regione attraverso l’Espi, con sede a Palermo e incaricata della progettazione e realizzazione di 20 aree attrezzate per attività produttive, per un importo complessivo di mille miliardi di vecchie lire).
Ed invero, come si legge nella citata relazione sulle indagini mafia-appalti, da varie acquisizioni processuali (intercettazioni telefoniche, dichiarazioni testimoniali e interrogatori degli indagati del procedimento a carico di Siino ed altri) «risultava che il centro di interessi dell’organizzazione mafiosa era costituito dalle gare d’appalto bandite per un importo complessivo di mille miliardi dalla predetta Spa, società a capitale pubblico incaricata dalla Regione Siciliana di curare l’espletamento di gare finalizzate alla realizzazione di venti insediamenti industriali-artigianali in vari comuni della Sicilia».
Da qui il conferimento ai carabinieri del Ros di una complessa e articolata delega di indagine per accertare, tra l’altro, la natura dei finanziamenti ottenuti dalla Sirap e le scelte relative alla loro utilizzazione ed i criteri di individuazione logistica delle aree da attrezzare; e per escutere gli amministratori della Sirap, anche con riferimento a quanto emerso dagli interrogatori degli indagati, nonché tutti i pubblici amministratori degli Enti locali ove erano state o si sarebbero realizzare tutte le opere menzionate nell’informativa, con specifico riferimento alle modalità di finanziamento delle stesse ed ai loro eventuali rapporti con gli indagati; e le decine di altre persone già indicate come informate sui fatti; oltre a completare l’acquisizione dei documenti relativi alle
gare d’appalto menzionate nell’informativa e dare esecuzione a decreti di perquisizione negli uffici della Sirap e in altri uffici pubblici e abitazioni private e svolgere tutte le indagini conseguenziali riferendo con ulteriore informativa.
In sostanza, oltre a neutralizzare gli esponenti più pericolosi dell’organizzazione mafiosa, o che tali apparivano sulla base delle risultanze fino a quel momento acquisite e nei confronti dei quali erano stati acquisiti idonei elementi di colpevolezza - obbiettivo che era stato già conseguito con l’emissione (il 9 luglio 1991) di ordinanze di o.c.c. nei riguardi di Siino Angelo, Farinella Cataldo, Faletta Alfredo e Li Pera Giuseppe, capaci di reggere tutte al vaglio del Tribunale del Riesame e confermate in cassazione — la strategia della Procura palermitana mirava ad acquisire ulteriori elementi in ordine ad altri soggetti già indagati in quanto individuati nell’informativa dei carabinieri, senza che però si fossero raggiunti prove sufficienti a supportare la richiesta di provvedimenti cautelari.
Ma soprattutto, con la delega di indagine sulla Sirap e alcune amministrazioni locali, si puntava a individuare i referenti politico-amministrativi dell’organizzazione mafiosa, nella convinzione che il sistema di controllo mafioso si integrava in alcuni casi con fenomeni di corruzione politico—amministrativa.
Indagini ad alta tensione che si incrociano fra Palermo e Catania. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 ottobre 2022
Secondo i giudici d’appello, “non può comunque ascriversi al breve capitolo catanese dell’indagine del ROS sulle attività della SIRAP e delle imprese interessate all’aggiudicazione dei relativi appalti e alle risultanze rassegnate con l’informativa Caronte alcuna finalità di depistaggio rispetto all’impostazione originaria dell’indagine su mafia e appalti”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
L’informativa depositata il 5 settembre 1992, al pari del resto dell’informativa Caronte, che a dire dello stesso dott. Lima si fondava quasi esclusivamente su copie atti contenuti nel fascicolo del procedimento istruito dall’A.g. palermitana, compendiava quindi le risultanze dell’indagine Sirap: ossia la separata - ancorché connessa a quella oggetto del procedimento originario - indagine mirata ad approfondire, in evasione alla specifica delega impartita dalla stessa procura palermitana il 26 luglio 1991, il versante della corruttela politico-amministrativa che si intrecciava, con proprie peculiarità, al fenomeno dell’ingerenza mafiosa; e a ricostruire i meccanismi di manipolazione delle gare di appalto e la formazione di accordi di cartello e cordate tra imprenditori e amministratori o politici compiacenti. Peraltro tale direttrice di indagine traeva origine dall’annotazione a firma del Cap. De Donno del N.O. dei Carabinieri del Gruppo Palermo I, n. 2608/7 del 2 luglio 1990, redatta nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria esperite in merito
a un'associazione a delinquere di tipo mafioso tendente al controllo e/o gestione di attività economiche, concessioni appalti e servizi pubblici (art. 416 bis C.P.) nel territorio della regione Sicilia, come recita l’oggetto della medesima Annotazione. In pratica, si trattava di una delle prime informative dell’indagine mafia e appalti, che infatti risulta indirizzata ancora al procuratore della Repubblica Aggiunto dr. Giovanni Falcone e al sost. Proc. dr. Guido Lo Forte.
L’informativa segnalava come dalle indagini concernenti le attività illecite di una serie di personaggi direttamente e/o organicamente inseriti nelle principali famiglie mafiose locali, ed in particolare in quella di Corleone, fosse emerso, grazie alle attività espletate di intercettazione telefonica e servizi di o.p.c., che elementi di spicco di tale organizzazione criminale avevano il controllo e verosimilmente la gestione degli appalti indetti dalla società “Siciliana Incentivazioni Reali per Attività Produttive S.p.A.” (Sirap).
Tra le intercettazioni più significative allegate all’Annotazione figuravano quelle effettuate su utenze in uso al vicepresidente della Sirap, La Cavera Domenico, con particolare riguardo a conversazioni intercorse tra lo stesso La Cavera e il presidente della Sirap, Ciaravino Antonino, nonché un noto esponente politico siciliano e nazionale (l’on. Emanuele Macaluso). Tali conversazioni offrivano spunti investigativi ritenuti di notevole interesse, ancorché relativi ad altre vicende, apparentemente non collegate con quella in fase di sviluppo.
LA NOTA DEL 19 APRILE 1991
Ebbene, con Nota datata 19 aprile 1991 a firma dei sost. procuratori Lo Forte e De Francisci, che figuravano nel pool di magistrati cui era stato assegnato il dossier mafia-appalti (dopo il deposito dell'informativa datata 16 febbraio 1991, che in un primo tempo era stata assegnata soltanto ai sostituti Lo Forte e Pignatone), veniva disposta, previo esame degli atti del proc. nr. 2789/90 N.C. contro Siino Angelo ed altri, la separazione dallo stesso dell’annotazione di p.g. N. 2608/7 di Prot. del 2 luglio 1990 — “attesa la mancanza di connessione con i fatti costituenti oggetto del citato procedimento”, come recita la parte motiva del provvedimento — concernente l'intercettazione di talune conversazioni telefoniche di La Cavera Domenico; e l’iscrizione degli atti così stralciati, e comprensivi anche delle intercettazioni e dei documenti allegati all’Annotazione dei carabinieri, in un separato fascicolo da annotarsi nel Registro N.C. come “indagini preliminari relative a talune conversazioni telefoniche di La Cavera Domenico indicate nell'annotazione del Nucleo Operativo dei Carabinieri del Gruppo Palermo In. 2608/7 di prot. del 2.07.1990”.
Pertanto, giusta o sbagliata che fosse — o anche inopportuna in quella fase dell’indagine mafia e appalti — la scelta di separare gli atti del filone d’indagine scaturito principalmente dalle intercettazioni a carico del La Cavera Domenico fu motivata dalla convinzione dell’ufficio requirente che gli spunti investigativi che esse offrivano afferissero a vicende autonome e distinte da quelle oggetto del procedimento originario, e configurabili in chiave di corruttela politico-amministrativa. Ma questa fu comunque una scelta dell’Ufficio di procura non sollecitata né condizionata dal Ros e tanto meno dalle dichiarazioni del Li Pera che erano ancora da venire.
D’altra parte, la Nota del 28 ottobre 1992 con la quale il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania trasmetteva alla procura di Palermo, per competenza, un voluminoso fascicolo, comprensivo dell’informativa Caronte, segnalava che le indagini del Ros. (compendiate nell’informativa predetta) avevano evidenziato l’esistenza di un’articolata struttura associativa finalizzata al controllo, nell’ambito della Regione siciliana, degli appalti di opere pubbliche che tuttavia non rientrava nella competenza territoriale dell’Ufficio requirente catanese, avendo operato, per quanto emerso dall’abbondante materiale probatorio acquisito e arricchito dalle informazioni rese nel corso delle indagini preliminari da Li Pera Giuseppe, prevalentemente ed essenzialmente nell’ambito del territorio (circondariale e/o distrettuale) della procura della Repubblica di Palermo. Infatti, “detta struttura associativa mirava alla gestione. secondo criteri distributivi tra le imprese gravitanti nell‘ambito della stessa, degli appalti gestiti dalla Sirap spa., ente di natura pubblica, concessionaria della Regione Siciliana per la realizzazione di insediamenti artigianali e industriali dei Comuni della Sicilia”.
La medesima Nota, pur rimettendo ogni valutazione circa la natura di detta struttura associativa (“se semplice o di natura mafiosa”) all’A.g. individuata come territorialmente competente, e “che risulta aver già proceduto nei confronti di Siino Angelo ed altri per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata proprio al controllo degli appalti (“processo che attualmente si sta celebrando dinanzi al tribunale di Palermo)”, non mancava di esprimere quale fosse il proprio convincimento al riguardo: “Orbene, allo stato degli atti, non v’è dubbio che sussistono elementi sintomatici che possano far ritenere che anche l’associazione di che trattasi rientra nel modello di stampo mafioso previsto dall‘art. 416 bis c.p.; militano in tal senso sia la partecipazione ad essa di personaggi certamente collegati ad ambienti mafiosi o, addirittura essi stessi indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose (come Siino Angelo e Farinella Cataldo), sia il comprovato ricorso all‘intimidazione, attraverso violenze e minacce, direttamente o indirettamente, risultano aver fatto ricorso per l’attuazione delle finalità del gruppo (controllo degli appalti nell‘ambito della Regione Siciliana, con particolare; riferimento agli appalti gestiti dalla Sirap SPA.)”.
Se questo fu l’esito della collaborazione tra il Ros e l’A.g. catanese nell’indagine che andò oggettivamente a incrociare le vicende oggetto del processo carico di Siino Angelo e altri (per i quali era stata già fissata al 19 ottobre 1992 la data di inizio del dibattimento), nonché all’indagine oggetto dell’originario proc. N. 2789/90 che era proseguito a carico di 21 indagati (tra i quali De Eccher Claudio, Zito Giorgio, Catti De Gasperi Paolo, Lipari Giuseppe, Buscemi Antonino e altri: ma per tutti venne avanzata in data 13/22 luglio richiesta di archiviazione poi accolta dal GIP con decreto emesso il 14 agosto 1992), si può ancora discutere sulle conseguenze derivanti dal non avere la procura palermitana potuto fare uso delle dichiarazioni del Li Pera, in quanto ne fu messa al corrente solo a seguito della trasmissione dell’informativa Caronte e quindi alla fine di ottobre 1992 (ossia solo dopo che era stata avanzata e accolta la richiesta di archiviazione delle posizioni di De Eccher Claudio ed altri 20 indagati del proc. n. 2789/90 R.G.N.R.); si può eccepire che, o discutere se gli elementi acquisiti nel corso dell’indagine “catanese”, ove tempestivamente segnalati alla competente procura palermitana, avrebbero realmente impedito l’archiviazione del procedimento a carico di De Eccher e delle altre persone come lui indagate a Catania.
Ma non può comunque ascriversi al breve capitolo catanese dell’indagine del Ros sulle attività della Sirap e delle imprese interessate all’aggiudicazione dei relativi appalti e alle risultanze rassegnate con l’informativa Caronte — non meno di quelle rassegnate con l’informativa depositata il 5 settembre 1992 — alcuna finalità di depistaggio rispetto all’impostazione originaria dell’indagine su mafia e appalti.
Non si può poi trascurare, a riprova di come ci si muova su un terreno scivoloso fatto di insinuazioni velenose e congetture prive di idonei riscontri, che la stessa relazione su mafia e appalti stilata il 7 dicembre ‘92 dai magistrati della procura della Repubblica di Palermo che si erano occupati dell’inchiesta dà atto che, nei successivi interrogatori resi dal Li Pera alla stessa procura - dopo che per più di un anno si era rifiutato di rispondere - il dichiarante ha iniziato a fare le prime timide ammissioni sull‘interferenza di Cosa nostra nei mondo degli appalti, mostrando così i segni di un primo parziale rapporto di attendibile collaborazione, (cf. pg. 43). Ma al contempo nel medesimo passaggio della citata relazione si rimarca come ciò sia avvenuto soltanto dopo la trasmissione degli atti alla procura di Palermo.
Una “cantata” incerta e la spregiudicata azione di un capitano. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 ottobre 2022
Il Cap. De Donno partecipa agli interrogatori del Li Pera dinanzi all’A.g. catanese senza farne cenno a quella stessa A.g. palermitana per conto della quale contemporaneamente stava espletando una complessa indagine sulle medesime vicende sulle quali vertevano le dichiarazioni rese dal Li Pera al pm di Catania
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Insomma, ove si volesse ancora dare credito alla pRospettazione accusatoria, dovrebbe sostenersi che vi sarebbe stato un tentativo di depistaggio orchestrato dal Cap. De Donno, che però non conseguì l’obbiettivo prefissato (e cioè quello di ridimensionare il ruolo di Cosa nostra nel sistema di gestione unitaria e verticistica della Spartizione e aggiudicazione degli appalti pubblici in Sicilia), ed anzi sortì l’effetto contrario, inducendo finalmente il Li Pera, le cui propalazioni avrebbero dovuto servire da propellente per quel disegno di depistaggio, a iniziare con l’A.g. palermitana un primo parziale rapporto di collaborazione attendibile.
Ma se il Ros., attraverso l’azione spregiudicata del Cap. De Donno (che partecipa agli interrogatori del Li Pera dinanzi all’A.g. catanese senza farne cenno a quella stessa A.g. palermitana per conto della quale stava nel medesimo torno di tempo espletando una complessa indagine sulle medesime vicende sulle quali vertevano le dichiarazioni rese dal Li Pera al pm di Catania, dr. Lima) avesse avuto interesse a valorizzare le dichiarazioni del sedicente o aspirante collaboratore per depistare l’indagine in corso su mafia e appalti, non si vede per quale ragione non acquisire quella fonte agli atti della medesima inchiesta.
Invece, come si evince sempre dalla citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti, nella ulteriore corposa informativa redatta dallo stesso Cap. De Donno e consegnata alla procura di Palermo il 5.09.1992, avente ad oggetto gli stessi fatti, e cioè l’attività della Sirap Spa su cui riferiva il Li Pera (...) non vi era traccia delle dichiarazioni che costui stava rendendo (cfr. pag. 28). Si può anche comprendere che De Donno scontasse l’imbarazzo di dover trasmettere ai magistrati della procura palermitana gli atti relativi alle escussioni de Li Pera, in quanto questi aveva tra l’altro formulato pesanti accuse nei riguardi di taluni magistrati del medesimo ufficio, indicandoli come autori dell’illecita divulgazione del rapporto mafia-appalti avvenuta prima ancora del suo arresto. Ma tale spiegazione non regge per i primi verbali — e cioè quelli del 13 e 15 giugno che sono stati qui acquisiti – nei quali già il Li Pera illustra il sistema triangolare di Spartizione degli appalti, senza che vi sia traccia di accuse contro i magistrati della procura di Palermo, ai quali inizialmente il Li Pera addebitava solo di non avere avuto interesse a sentirlo, nonostante egli avesse fatto pervenire attraverso il proprio difensore la propria disponibilità.
E in effetti, come puntualmente rilevato nella corposa ordinanza di archiviazione del gip di Caltanissetta del 15 marzo 2000, le prime accuse del Li Pera ai magistrati palermitani risultano verbalizzate nell’interrogatorio reso al cap. De Donno delegato dal pm. Lima ad assumerlo, in data 20 luglio 1992. Sicché, a volere indugiare sul terreno di astratte e improbabili congetture, se ne potrebbe persino inferire che il De Donno omise di inserire le propalazioni del De Donno nell’informativa Sirap. proprio perché esse potevano pregiudicare o mettere in discussione l’impianto originario dell’indagine mafia-appalti.
IL TRAVAGLIATO PERCORSO COLLABORATIVO DI LI PERA
Piuttosto, è la stessa Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti a fornire una chiave di lettura del travagliato e incerto percorso collaborativo del Li Pera che l’affranca da qualsiasi ipotesi di intenzionale depistaggio sobillato dal Ros, traendone anzi un indiretto riscontro al ruolo di progressivo protagonismo assunto in Sicilia da Cosa nostra nel sistema di “tangentopoli”: ruolo che ne faceva un caso unico nel panorama nazionale e che rende ragione dei motivi per citi, a differenza che in altre regioni d’Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente inchiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.
Ivi si rimarca infatti che lo stesso Li Pera fu vittima delle pressioni intimidatorie esercitate da qualificati esponenti mafiosi nell’intento di interferire sulle indagini in terna di mafia e appalti. E che solo dopo essere stato sottoposto a programma di protezione aveva iniziato a riferire le notizie di cui era in possesso anche sii/la realtà mafiosa, mentre in una prima fase, e cioè quella della sua collaborazione con l’A.g. catanese, si era limitato a riferire quanto a sua conoscenza sul versante della corruzione politico—amministrativa.
Per la verità, già dal verbale dell’interrogatorio reso al pm. dott. Lima (sempre nell’anomala veste di persona informata sui fatti - il 15 giugno risulta che il dichiarante aveva iniziato a fare qualche ammissione, sia pure velata da palese reticenza. Infatti, egli, da un lato, nega di avere mai avuto un qualsiasi contatto con organizzazioni criminali (e quindi nega anche di avere avuto problemi nel suo lavoro con la delinquenza organizzata); […]. Ma poi aggiunge: «In ogni caso, poiché ero consapevole della situazione che c‘è in Sicilia, ho sempre prevenuto questo tipo di problemi subappaltando quanta più parte possibile del lavoro ad imprese del posto dove realizzavamo il lavoro stesso. Inoltre, compravo tutti i materiali dai fornitori locali e assumevo quanta più gente possibile del posto. Questo ci assicurava la tranquillità».
[…] Certo è che quel velo di reticenza sembra essersi dissolto il 12 novembre 1992, quando Io stesso Li Pera renderà al pm. dott. Antonio Di Pietro, magistrato di punta del pool di “Mani Pulite”, dichiarazioni (presente all’atto istruttorio anche il Capitano De Donno: v. infra) che denotano un’approfondita conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei comitati d’affari che presiedevano alla Spartizione degli appalti, tra politici di rilievo corrotti (fra i quali indicherà Salvo Lima, ma anche Turi Lombardo, Rino Nicolosi e proprio Calogero Mannino) e le cordate e cartelli imprenditoriali di cui erano partecipi i più importanti imprenditori dell’epoca, sia siciliani (come Graci, Costanzo, Rendo Salamone, Vita, Siino Angelo, e Farinella Cataldo), che nazionali (come Astaldi, Torno, Lodigiani, Tor di Valle, Cogefar, C.M.C., Edilter, Grassetto Costruzioni, Todini, Tosi, Matauro, Ilva, Codelfa e altri), attribuendo un ruolo preminente all’interno dei comitati predetti ad alcuni imprenditori in particolare, come Filippo Salamone Ma al contempo, il dichiarante ammette senza riserve che in Sicilia esisteva anche la componente mafiosa, che aveva un ruolo di primaria importanza nell‘assicurare la funzionalità degli stessi comitati.
Inutile aggiungere poi che lo sforzo profuso dal Capitano De Donno per valorizzare una fonte come Li Pera - che non lesinava accuse ai politici tra i quali proprio Calogero Mannino - sia pure con condotte discutibili o decisamente censurabili sotto il profilo della correttezza e lealtà dei suoi rapporti di cooperazione con le autorità giudiziarie di riferimento, denota quanto infondato sia anche solo il sospetto di compiacenza nei riguardi dell’ex ministro per gli interventi nel Mezzogiorno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le informative del Ros e quei nomi di politici che appaiono e scompaiono. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 31 ottobre 2022
Per i giudici d’appello è impossibile sostenere che i magistrati della procura palermitana fossero già a conoscenza, prima dell’informativa del 5 settembre 1992, “di elementi specifici e concreti che dessero contezza del possibile o probabile coinvolgimento di esponenti politici quali Lima, Nicolosi e Calogero Mannino”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È una vicenda emblematica di come gli organi preposti all’azione di prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata abbiano saputo farsi del male, talvolta, più di quanto non vi siano riuscite le organizzazioni criminali mafiose che essi erano — e sono – chiamati a contrastare.
1 Il dato certo e innegabile è che i nominativi dei più noti e influenti esponenti politici coinvolti nell’inchiesta, o di cui l’indagine mafia e appalti aveva evidenziato un possibile coinvolgimento in specifiche vicende riconducibili al sistema di illecita spartizione degli appalti, e in cui risultavano certamente coinvolte figure di spicco delle famiglie mafiose locali, e di quella corleonese in particolare, non figurano nell’informativa che fu depositata il 20 febbraio 1991, ossia quella conosciuta da Falcone.
2 Si è accertato che le trascrizioni delle conversazioni da cui si ricaverebbero elementi di prova o indizi del possibile coinvolgimento dei vari Lima, Nicolosi, Mannino, De Michelis, non figurano tra quelle allegate all’Informativa predetta (fatta eccezione per un fugace cenno, in una delle trascrizioni allegate, al ministro De Michelis).
3 Quei nominativi non figurano neppure nelle due schede riepilogative che contengono i nomi dei personaggi ritenuti di maggiore interesse investigativo, rispettivamente, per l’ipotesi di associazione a delinquere di stampo mafioso (il primo elenco nominativo); e per l’ipotesi di associazione a delinquere semplice (secondo elenco nominativo). Nel primo elenco non comparivano nomi di esponenti politici; nel secondo, figuravano solo Domenico Lo Vasco e Giuseppe Di Trapani, all’epoca Assessori nella Giunta comunale di Palermo. Accanto ad ogni nominativo era indicata l’intercettazione telefonica in cui si faceva riferimento allo stesso personaggio.
4 Nel corpo dell’informativa, e in numerose pagine, si riportano stralci di conversazioni telefoniche intercettate, nelle quali si fa riferimento ad alcuni noti uomini politici, ma sempre “all‘interno di contesti discorsivi fra terze persone che non evidenziavano di per sé fatti illeciti” (così a pag. 33 della cit. “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti negli anni 1989 e seguenti”). Si può dissentire da tale apprezzamento, perché i riferimenti contenuti in alcune delle intercettazioni predette (per una puntuale rassegna di tali riferimenti, cfr. pagg. 128- 130 dell’ordinanza di archiviazione del gip di Caltanissetta del 5 marzo 2000) deporrebbero per condotte illecite o per gravi irregolarità, sia pure restando impregiudicati eventuali profili di responsabilità penale, soprattutto per i politici citati nel corso delle conversazioni captate).
GLI ESPONENTI POLITICI CHIAMATI IN CAUSA
Ma è certo e indiscutibile che si tratta di esponenti politici locali, anche se tra loro ne figurano alcuni che ricoprivano o avevano ricoperto incarichi ministeriali, come l’on. Fiorino, all’epoca Sottosegretario al ministero per il Mezzogiorno, chiamato in causa per alcune gare di appalto al comune di Naro; o il Senatore Coco, già sottosegretario alla Giustizia; e poi ancora gli on.li Pumilia, Alessi e Cicero, oltre all’On. Bernardo Alaimo, all’epoca Assessore Regionale alla Sanità, al quale si fa cenno in varie parti dell’Informativa. E talvolta i riferimenti contenuti nelle telefonate intercettate non consentono di risalire all’identità degli esponenti politici cui si allude, oppure non è chiaro il ruolo che avrebbero avuto nelle vicende che interessano agli interlocutori; oppure il riferimento è a personaggi non meglio identificati e indicati come vicini a noti uomini politici, ma non direttamente a questi ultimi.
Nessun riferimento indiziante a carico di personalità politiche di rilievo nazionale o a ministri in carica. E in particolare non risulta citato in tal senso nessuno di quei personaggi che avevano suscitato l’interesse della stampa nazionale (con gli articoli richiamati nella cit. Relazione su mafia e appalti, pubblicati su “Il Secolo XTX” e sul Corriere della Sera, oltre che sul quotidiano “La Sicilia”). In particolare, non si facevano i nomi di Lima, Nicolosi e Mannino, che invece figurano per la prima volta nell’informativa depositata il 5 settembre 1992 e nelle intercettazioni allegate a quest’ultima informativa (e all’informativa “Caronte” trasmessa il 1° ottobre 1992 alla procura di Catania).
Quanto al nome dell’on. De Michelis, chiamato in causa in un articolo a firma di Alberto Cavallaro sul Corriere della Sera del 20 luglio 1991 (che riportava pesanti accuse all’operato della procura della Repubblica di Palermo, attribuendole ai Carabinieri che avevano condotto l’indagine, e cioè al Ros; ma per quanto concerneva De Michelis si limitava a dire che era in buoni rapporti con uno degli indagati), indizi di un suo coinvolgimento in affari illeciti inerenti alla gestione di appalti nel Nord est emergono in un’informativa del Ros trasmessa il 12 novembre 1991 alla procura di Palermo, che però disponeva lo stralcio degli atti e la loro trasmissione per competenza alla procura di Roma. In precedenza, all’on. De Michelis faceva riferimento solo una delle conversazioni intercettate su un’utenza in uso all’Ing. La Cavera, allegata all’informativa del 2 luglio l990. Ma in tutte le altre conversazioni allegate alla medesima informativa ed anche alla successiva Informativa del 5 agosto 1990 — che fu certamente portata a conoscenza della procura di Palermo, nella persona del Proc. Aggiunto Giovanni Falcone e del Sost. Proc. dott. Lo Forte — figurano riferimenti a vari uomini politici alcuni dei quali noti e influenti a livello regionale [...], altri anche di rilievo nazionale, come Lima, Gunnella, Turi Lombardo: ma quasi sempre in contesti tutt’altro che perspicui. Ma ancora non figurava, nelle informative predette, alcun riferimento al possibile coinvolgimento nell’ipotizzata gestione unitaria e verticistica del sistema di illecita spartizione degli appalti, o comunque in illeciti concernenti vicende in materia di appalti pubblici, di esponenti politici quali lo stesso Lima, Nicolosi e Calogero Mannino.
L’unico “Mannino” il cui nominativo figurava in una delle conversazioni intercettate su un’utenza in uso al La Cavera, chiamato in causa peraltro per vicende che nulla avevano a che vedere con l’indagine su mafia e appalti, venne identificato in Mannino Antonino (già segretario provinciale del P.C.I.), ed escusso dal pm Dott. Lo Forte proprio per chiarimenti in ordine alle conversazioni in cui era scaturito il suo cognome.
Si riferisce sicuramente all’oggetto dell’indagine mafia e appalti, e precisamente a presunti illeciti commessi nella gara di aggiudicazione dei lavori per il Palazzo dei Congressi, vinta dall’impresa Costanzo, che aveva prevalso sull’impresa Tosi, la conversazione telefonica dell’ing. La Cavera intercettata il 26 maggio 1990 e allegata all’informativa del 5 agosto ‘90. Ivi si fa riferimento a due uomini politici, uno dei quali era l’ex ministro Gunnella mentre l’altro era il deputato regionale Lauricella. Ma ancora una volta, nessun riferimento a Lima, Nicolosi e Calogero Mannino figurano nelle più significative conversazioni, intercettate su utenze Sirap o su utenze private, ma comunque in uso all’ing. La Cavera, alle quali si dà risalto nelle Informative del 2 luglio e del 5 agosto 1990 e le cui trascrizioni sono allegate alle medesime informative (cfr., in particolare, conversazioni intercettate il 13 -14 e 30 maggio ‘90; 2-5-6 e 13 giugno ‘90, richiamate sia nell’ordinanza Lo Forti che nella Relazione Mafia e appalti).
CINQUE INTERCETTAZIONI IMPORTANTI
Il raffronto delle conversazioni predette con quelle cui invece venne dato congruo risalto nelle informative trasmesse rispettivamente alla procura di Palermo il 5 settembre 1992 e alla procura di Catania il 1 ottobre 1992 (c.d. Informativa “Caronte”), entrambe a firma del Capitano De Donno, non dà adito al minimo dubbio.
Nella relazione Mafia e appalti si passano in rassegna in particolare 5 conversazioni intercettate:
il 19.03.1990, tra Ciaravino e La Cavera, con ripetuti cenni al coinvolgimento degli on.li Mannino (Calogero), Nicolosi e Lombardo nell’affare Sirap, pilotato da Angelo Siino; il 6.04.’90, tra Ciaravino e Salvo Lima, con riferimenti al rapporto dello stesso Lima con l’imprenditore mafioso Cataldo Farinella, che sarà segnalato dai carabinieri nella prima Informativa su mafia e appalti nel febbraio ‘91, e poi arrestato nel luglio ‘91 siccome indiziato del reato di cui all’art. 416 bis c.p.; il 22.04.’90, tra Ciaravino e Grammauta, con riferimenti compromettenti all’on. Nicolosi, all’Assessore Gorgone, all’on. Capitummino; il 9.05.’90. tra Ciaravino e un interlocutore non meglio identificato: contiene riferimenti all’on. Turi Lombardi; l’8.06.’90, ancora tra Ciaravino e La Cavera, con molteplici riferimenti agli on.li Salvo Lima, Turi Lombardo, Calogero Mannino, e Rosario Nicolosi.
È di tutta evidenza che si tratta di intercettazioni realizzate sulle medesime utenze o su utenze collegate a quelle già monitorate e nel medesimo periodo (primavera del 1990) o addirittura nelle stesse settimane in cui erano state realizzate le intercettazioni allegate alle Informative del 2 luglio e del 5 agosto 1990. Ma le “nuove” intercettazioni saranno portate a conoscenza dei magistrati della procura di Palermo solo con l’Informativa depositata il 5 settembre 1992.
Una parte, quindi, delle intercettazioni realizzate sulle stesse utenze, o su utenze collegate, non venne resa nota ai magistrati titolari dell’inchiesta, o almeno non v’è prova che fosse stata loro resa nota.
E tale prova non può inferirsi, come sostiene la Difesa richiamando un discutibile costrutto inferenziale del GIP Lo Forte, dal fatto che l’attività d’intercettazione nel corso della quale furono captate le suddette “nuove” conversazioni (nuove nel senso che se ne fa menzione per la prima volta nell’informativa del 5 settembre 1992) era stata regolarmente autorizzata dagli stessi magistrati: le autorizzazioni, invero, che furono certamente rilasciate, erano motivate dalla rilevanza delle intercettazioni, incluse quelle sulle utenze Sirap e sulle utenze Ciaravino, portate a conoscenza dei magistrati con le prime informative in cui veniva segnalata l’opportunità di sottoporre quelle utenze a intercettazione: che sono appunto le informative del luglio e dell’agosto 1990.
Ora, eventuali e successive richieste o sollecitazioni ad autorizzare la proroga di quelle intercettazioni, o a disporre l’intercettazione su nuove utenze - di cui comunque non v’è traccia nella pur certosina ricostruzione operata dal gip di Caltanissetta — non potevano che trarre spunto da altre conversazioni, captate nel prosieguo dell’attività di intercettazione già in corso nella primavera del ‘90, o quanto meno in giorni e settimane diverse e successive a quelle cui risalivano le intercettazioni già segnalate nelle informative di luglio e agosto ‘90. Altrimenti, perché non segnalarle subito?
UNA VERSIONE POCO CREDIBILE
Orbene, a tutto concedere, si può ancora sostenere che già nel periodo compreso tra la primavera e l’estate del 1990, la procura di Palermo era in possesso di elementi concreti e spunti investigativi che potevano far ipotizzare un possibile coinvolgimento, in quello che si andava delineando come un sistema strutturato di gestione verticistica e unitaria degli appalti in Sicilia, anche di esponenti politici di rilievo nazionale, ancora da identificare o il cui ruolo andava messo a fuoco.
Conseguentemente, in linea puramente teorica, e a tutto concedere, si può sostenere che le indiscrezioni giornalistiche che cominciano a comparire in una serie di articoli di cronaca pubblicati prima e nell’imminenza degli arresti di Siino e soci [...], fossero frutto di una fuga di notizie originatasi negli ambienti giudiziari, grazie a buone entrature in seno alla procura di Palermo dei giornalisti che divulgarono quelle notizie.
Fermo restando che in nessuno degli articoli citati, come già rammentato, si faceva specifico riferimento all’identità degli esponenti politici che si presumevano coinvolti nell’inchiesta (a parte il cenno di cui s’è detto all’on. De Michelis); e che nessun interesse avrebbero avuto i magistrati dell’Ufficio predetto a montare o sobillare o dare comunque adito ad una campagna di stampa che sostanzialmente accusava lo stesso Ufficio giudiziario di volere insabbiare quell’inchiesta o di volere coprire le responsabilità dei politici coinvolti.
Ma detto questo, ciò che non può, ad avviso di questa Corte, sostenersi, perché contrario alla logica e alle evidenze disponibili, è che i magistrati della procura palermitana fossero già a conoscenza, prima di esserne edotti con l’informativa del 5 settembre 1992, di elementi specifici e concreti che dessero contezza del possibile o probabile coinvolgimento nelle vicende oggetto del procedimento di cui erano titolari anche di esponenti politici quali Lima, Nicolosi e Calogero Mannino.
Non può militare a sostegno di tale tesi la nota indirizzata al dott. Falcone in data 30 agosto 1990, con la quale si preannunciava come imminente il deposito di un’informativa di carattere complessivo, precisandosi tuttavia che “sono in atto ulteriori complessi accertamenti tesi alla identificazione di personaggi legati al inondo economico-politico nazionale che, in base alle funzioni e agli incarichi svolti, valenti sull'intero territorio dello Stato, forniscono valido ed insostituibile aiuto al raggiungimento degli scopi illegali dell’organizzazione stessa”.
In pratica, la nota testé citata non contiene riferimenti espliciti a personaggi politici di primo piano, ed anzi precisa che era ancora in corso l’attività mirata alla loro identificazione. Inoltre, preannuncia il deposito di un’informativa di carattere complessivo — che è ovviamente qualcosa di più e di diverso dalle periodiche richieste o sollecitazioni ad autorizzare proroghe di intercettazioni — avente ad oggetto proprio il versante d’indagine concernente le collusioni politiche in vicende di ingerenza mafiosa nella gestione degli appalti (poiché era questo l’oggetto dell’investigazione in
corso da parte dei carabinieri). Ma la prima Informativa che risponda a questa tipizzazione è quella depositata il 5 settembre 1992. O meglio, essa è la prima in cui quelle collusioni vengono, sia pure come ipotesi investigative, esplicitate.
Se poi per informativa di carattere complessivo si doveva intendere un rapporto indiziario - come usava dirsi un tempo — che compendiasse le risultanze acquisite in ordine all’ipotesi investigativa originaria dell’esistenza di un sistema che si era andato strutturando in senso unitario e verticistico per la spartizione degli appalti con un ruolo preminente di Cosa Nostra, allora quella informativa complessiva poteva ben essere quella datata 16 febbraio 1991, che fu consegnata personalmente dal Capitano De Donno al procuratore Aggiunto Giovanni Falcone.
Nessun credito merita quindi la versione rilanciata dallo stesso De Donno nel corso dell’esame dibattimentale cui si sottopose al processo Mori/Obinu, secondo cui si era concordata con i magistrati titolari del procedimento, e quindi con lo stesso Giovanni Falcone, il deposito di una sorta di informativa preliminare sui profili e le vicende che coinvolgevano i politici di maggiore rilievo (i cui nominativi quindi sarebbero stati fatti ai magistrati addirittura prima ancora del deposito dell’informativa del febbraio 1991, o contestualmente ad essa) che avrebbe poi dovuto essere successivamente implementata con le risultanze acquisite in esito alle ulteriori
indagini. E in questa pre-informativa - come testualmente la definisce il De Donno - che sarebbe stata consegnata al dott. Falcone e al dott. Lo Forte un mese prima (dell’informativa datata 16 febbraio 1991) era contenuto l’elenco nominativo, o comunque si facevano i nomi di tutti i politici che i carabinieri ritenevano coinvolti in questa indagine.
Di quella che De Donno battezza come una sorta di informativa preliminare, o pre-informativa, non v’è traccia agli atti, e non se n’è trovata traccia neppure nella certosina ricostruzione e opera di acquisizione anche documentale operata dal gip di Caltanissetta che istruì il procedimento, anzi, i procedimenti — poi sfociati nella citata ordinanza di archiviazione del 15 marzo 2000. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quell’omissione “assai significativa” su Lima, Nicolosi e Mannino. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'1 novembre 2022
“Colpisce il fatto che tra le intercettazioni realizzate, “siano rimaste fuori del compendio che era stato certamente portato a conoscenza dei magistrati all’epoca titolari dell’indagine su mafia e appalti con le note del 2 luglio e del 5 agosto giusto quelle che contengono specifici riferimenti ai vari Lima, Nicolosi e Mannino. Ciò avvalorerebbe il sospetto che l’omissione non sia stata accidentale, ma intenzionale, quali che fossero le finalità di chi la commise”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Non giova poi alla tesi difensiva neppure l’argomento secondo cui le conversazioni più significative s’inquadrerebbero in un’attività tecnica di intercettazione che risale al 1990, è proseguita senza soluzione di continuità in virtù delle autorizzazioni a nuove intercettazioni o alla proroga di quelle già in corso, che erano state disposte (o richieste al gip) dagli stessi magistrati della procura di Palermo che si occupavano dell’indagine.
Se ne dovrebbe inferire — ed è la conclusione cui perviene il gip Lo Forti nella citata ordinanza di archiviazione — che i medesimi magistrati avessero contezza delle trascrizioni di conversazioni che deve presumersi fossero allegate alle richieste di proroga delle operazioni di intercettazione, per motivarne la necessità. Il ragionamento però, oltre che ingeneroso nei riguardi dei magistrati predetti — implicitamente tacciati o di non avere voluto tenere conto delle intercettazioni segnalate dai carabinieri, o di negligenza o superficialità nella lettura delle Annotazioni di polizia giudiziarie loro indirizzate — si rivela, ad un più attento esame, decisamente fallace nelle sue premesse.
Non v’è prova, infatti, di un solo atto o di una sola nota di sollecitazione ad ulteriori proroghe di intercettazioni che siano riferibili a quelle depositate come allegati all’informativa del 20 febbraio, o a quelle allegate alle Informative del 2 luglio e del 5 agosto 1990. Anzi, deve ribadirsi che le conversazioni più compromettenti, e che saranno segnalate come tali nelle successive informative (“Sirap” e “Caronte”) sono quelle realizzate sulle utenze Sirap e su utenze in uso a La Cavera e Ciaravino nel periodo compreso tra marzo e giugno 1990.
Ma si tratta delle medesime utenze — o di utenze collegate agli stessi soggetti — su cui erano state realizzate nel medesimo torno di tempo, le intercettazioni allegate alle citate informative trasmesse nell’estate del ‘90 ai magistrati titolari dell’inchiesta (e segnatamente ai dott.ri Falcone e Lo Forte), e che andranno poi a confluire nella corposa Informativa “Sirap”, depositata il 5 settembre 1992, cioè due anni dopo.
Orbene, la tesi difensiva è che non solo i nuovi allegati (contenenti le trascrizione delle intercettazioni più compromettenti per i politici in questione) erano già a conoscenza dei magistrati della procura di Palermo che a suo tempo avevano autorizzato le relative operazioni di intercettazione; ma era addirittura intervenuto un accordo tra gli investigatori e i magistrati di riferimento per quell’inchiesta, nel senso di stralciare le posizioni e gli atti che involgevano possibili responsabilità di esponenti politici di rilievo anche nazionale, per fame oggetto di separati e più specifici approfondimenti.
Sicché fu in forza ditale accordo che si decise di depositare una prima informativa — che sarebbe quella datata 16 febbraio 1991 - che compendiasse le risultanze fin lì acquisite, con esclusione degli atti che si riferivano a indagati o potenziali indagati le cui posizioni necessitavano di ulteriori approfondimenti.
LA RICOSTRUZIONE DELLA DIFESA
È in parte la versione di De Donno, che però vi apporta una variante, sostenendo che le posizioni da approfondire e i nomi dei politici che i carabinieri ritenevano coinvolti erano già contenuti in una preinformativa che sarebbe stata depositata ufficialmente prima di quella del febbraio ‘91. Circostanza che, come s’è detto, non risulta affatto e che quindi nella migliore delle ipotesi deve attribuirsi a un cattivo ricordo del dichiarante.
La ricostruzione difensiva - a parte il cattivo ricordo di De Donno – sembrerebbe però trovare conforto nelle dichiarazioni rese al P.M. di Caltanissetta in data 13.07.1993 dal dott. Pignatone (riportate a pag. 124 dell’ordinanza del gip Lo Forti) secondo cui nel mese di novembre 1990 era stata concordata con De Donno la redazione di una prima informativa e la prosecuzione dell’ascolto sulle utenze rivelatesi utili. Ma queste precisazioni non sciolgo il vero nodo della questione.
Il dot. Pignatone parla infatti di una prima informativa, riferendosi appunto a quella che fu depositata tre mesi dopo (e cioè nel febbraio del ‘91). E parla di un accordo per la prosecuzione dell’ascolto, e quindi delle attività di intercettazione, sul presupposto che fossero utili all’accertamento di eventuali profili di responsabilità per le posizioni che necessitavano di ulteriori approfondimenti.
Ma l’accordo predetto sarebbe intervenuto a novembre del 1990 - infatti dopo tre mesi venne depositata quella che, in base a tale accordo, doveva essere una prima informativa, vertente sulle posizioni che erano state già sufficientemente messe a fuoco - e autorizzava la prosecuzione delle attività di intercettazione sulle utenze ritenute utili.
Ma il nodo della questione è che le intercettazioni che fanno la differenza tra la prima “refertazione” sullo stato delle indagini, e cioè quella consacrata nell’Informativa datata 16 febbraio 1991, e la seconda refertazione, che è quella delle Informative “Sirap” e “Caronte”, risalgono tutte alla primavera del ‘90, e segnatamente ad un periodo compreso tra marzo e giugno di quell’anno. Esse, quindi, sono anteriori e non successive all’accordo intervenuto soltanto nel novembre del ‘90; e sono altresì anteriori alle informative del 2 luglio e del 5 agosto del medesimo anno, che pure non ne fanno cenno; e pertanto, non furono il frutto della prosecuzione dell’ascolto di nuove intercettazioni a cui si riferiva l’accordo predetto.
IL GIUDIZIO DELLA CORTE
È possibile però che proprio qui si annidi l’equivoco che ha offuscato e avvelenato l’intera vicenda (a parte i successivi miasmi originati da un’infelice gestione del rapporto confidenziale instaurata da Mori e De Donno con Angelo Siino nella veste di confidente dal gennaio del ‘93 alla fine del 1995, per cui si rimanda alla complessa indagine compendiata nell’ordinanza di archiviazione emessa dal gip di Caltanissetta il 15 marzo 2000).
È plausibile, infatti, che le intercettazioni compromettenti per le posizioni dei politici più noti o di maggior rilievo (come Lima, Nicolosi e Calogero Mannino), sebbene realizzate nell’ambito della medesima indagine e affatto “nuove” rispetto al compendio istruttorio già acquisito all’epoca del deposito della prima Informativa, siano state allegate per la prima volta alle successive Informative Sirap e Caronte in quanto frutto non già della prosecuzione delle operazioni di intercettazione già in corso all’epoca, bensì di un’attività - essa si “nuova” - di ri-ascolto delle intercettazioni già acquisite (che assommavano a diverse centinaia di conversazioni), o di un più accurato riesame dei verbali di trascrizione e dei brogliacci che si riferivano alle intercettazioni già oggetto di un precedente ascolto.
In tal senso militerebbe la circostanza che il Capitano De Donno, dopo avere chiesto e ottenuto l’autorizzazione al ritardo nel deposito dei risultati delle intercettazioni (cf. note del 23 e del 30 aprile 1990 citate a pag.124 dell’ordinanza Lo Forti), provvide a depositare in procura l’intero compendio costituito dalle bobine delle intercettazioni e relativi brogliacci e verbali di trascrizione.
Ma successivamente, e proprio per dare corso all’incarico di approfondire le posizioni più “sensibili”, in relazione alla vicenda Sirap, per cui era stato disposto con il cit. provvedimento del 19 aprile 1991 (v. supra) lo stralcio degli atti che facevano parte dell’originario procedimento Siino+43, e in vista della redazione dell’informativa che venne poi depositata il 5 settembre 1992, aveva chiesto l’autorizzazione al ri-ascolto delle telefonate intercettate, e segnatamente quelle intercettate sulle utenze Sirap, e/o in uso a La Cavera e Ciaravino; e l’autorizzazione al riascolto fu concessa con nota dal dott. Lo Forte in data 28 maggio 1992, con provvedimento steso in calce alla richiesta che era stata avanzata dal Capitano De Donno in data 26 maggio ‘92.
Non ci si può tuttavia esimere dal rilevare come colpisca il fatto che tra le intercettazioni realizzate a carico del La Cavera e del Ciaravino su utenze personali o della Sirap nei mesi di maggio e giugno 1990, o comunque nella primavera di quell’anno, siano rimaste fuori del compendio che era stato certamente portato a conoscenza dei magistrati all’epoca titolari dell’indagine su mafia e appalti con le Note del 2 luglio e del 5 agosto giusto quelle che contengono specifici riferimenti ai vari Lima, Nicolosi e Mannino (Calogero).
Ciò avvalorerebbe il sospetto che l’omissione non sia stata accidentale, ma intenzionale, quali che fossero le finalità di chi la commise; ed è comunque certo che tale omissione non era giustificata da accordi intervenuti con i magistrati della procura di Palermo, che, se vi furono, intervennero alla fine di agosto ‘90 (come si evincerebbe dalla Nota indirizzata dal Cap. De Donno al procuratore Aggiunto Giovanni Falcone, che però è assai generica) e poi a novembre del medesimo anno, come risulta dalle citate dichiarazioni del dott. Pignatone.
A dir poco frettoloso e sommaria appare dunque la conclusione cui ritenne di pervenire il gip di Caltanissetta con la sua ordinanza del 15 marzo 2000 quando afferma che già nella primavera-estate del 1990 i magistrati della procura di Palermo erano a conoscenza degli elementi investigativi da cui poteva evincersi il coinvolgimento degli esponenti politici in questione.
In realtà, le informative trasmesse ai predetti magistrati prima che venisse depositato il rapporto mafia e appalti del febbraio 1991 non contengono riferimenti agli esponenti politici sunnominati. E nella certosina opera del gip di Caltanissetta di ricostruzione e di acquisizione di materiali e documentazione varia proveniente dagli incartamenti relativi ai vari procedimenti i cui atti sono stati compulsati per ricavarne elementi utili alla propria indagine non v’è alcuna traccia di altre informative o annotazioni di p.g. che possano essere state trasmesse agli stessi magistrati, magari in epoca successiva all’agosto 1990, per sollecitare proroghe delle attività d’intercettazione in corso e nelle quali figurino specifici o espressi riferimenti ai personaggi politici in questione o alle quali siano allegate le intercettazioni che saranno invece allegate alle Informative Sirap e Caronte. LA SENTENZA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA
Il dossier Mafia e Appalti e le “regole” di un colonnello troppo ardito. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 02 novembre 2022
Una condotta poco rispettosa di regole e procedure o addirittura spregiudicata nello svolgimento delle attività info-investigative, nell’uso delle informazioni raccolte e nella gestione delle fonti confidenziali, contrassegnata da un’opacità che andava ben oltre i limiti di autonomia e discrezionalità. Il tutto condito da insofferente alla sottoposizione alle direttive e al controllo dell’autorità giudiziaria
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Ma allora cosa resta, ai fini del presente giudizio, della vicenda della “doppia refertazione” sulle risultanze dell’indagine mafia e appalti?
Resta il fatto che essa offre uno spaccato crudo ed eloquente di un discutibile modo di operare del Ros, o, più esattamente del gruppo di ufficiali che si strinsero sotto il comando del generale Subranni e dell’allora Col. Mori: un modus operandi sostanziatosi in una condotta poco rispettosa di regole e procedure o addirittura spregiudicata nello svolgimento delle attività info-investigative, nell’uso delle informazioni raccolte nel corso ditale attività e nella gestione delle fonti confidenziali, contrassegnata da un’opacità che andava ben oltre i limiti di autonomia e discrezionalità fisiologicamente intrinseci all’azione investigativa che si avvalga di questo genere di strumenti. Il tutto condito da insofferente alla sottoposizione alle direttive e al controllo dell’A.g. cui pure competeva la direzione delle indagini e da una visione ipertrofica della propria autonomia come organo di polizia, come se gli ufficiali predetti non riconoscessero altra legittima autorità all’infuori di quella inserita e riconosciuta nella loro catena di comando.
Così nel caso di Mori e De Donno, quest’ultimo particolarmente impegnato sul versante dell’indagine mafia e appalti: sono loro a decidere se, quando e soprattutto cosa riferire all’A.g. delle indagini loro delegate, o delle iniziative da loro autonomamente intraprese (per l’indagine mafia e appalti come per i contatti intrapresi con Vito Ciancimino, prima e con Angelo Siino poi, per non parlare di Li Pera).
IL COMPORTAMENTO DI DE DONNO
De Donno, in particolare, ha imbastito o propiziato l’avvio di un’indagine dell’A.g. di Catania sostanzialmente sui medesimi fatti che erano già oggetto di un procedimento pendente presso l’A.g. di Palermo e di un’indagine dalla stessa Autorità palermitana delegata al Ros e a lui affidata; ha attivamente cooperato con diversa autorità giudiziaria per sviluppare questa sorta di indagine parallela, coltivando per di più, o almeno, favorendo un’ipotesi ricostruttiva dei medesimi fatti che, quanto meno, si discostava dall’impostazione seguita dalla procura di Palermo.
E lo ha fatto valorizzando, dopo un numero imprecisato di colloqui investigativi cui - paradossalmente - era stato autorizzato dalla procura di Palermo, una fonte che figurava già tra gli indagati del procedimento “palermitano”: ma tutto ciò senza dame notizia all’A.g. di Palermo, così come ha taciuto all’A.g. catanese che il sedicente nuovo collaboratore di giustizia, contrariamente a quanto da lui dichiarato per giustificare la propria decisione di iniziare a collaborare con la procura di Catania, era stato più volte sentito dalla procura di Palermo che lo indagava per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., ma per ben due volte si era avvalso della facoltà di non rispondere e poi aveva reso un lungo interrogatorio (in data 5 marzo 1992) dinanzi ai magistrati della procura di Palermo titolari del procedimento ormai prossimo alla conclusione della fase delle indagini preliminari, insistendo nel protestare la propria innocenza e senza fornire alcun elemento utile per ulteriori sviluppi dell’inchiesta: una circostanza che avrebbe dovuto essere resa nota al pm di Catania, non fosse altro come elemento di valutazione dell’attendibilità del dichiarante.
De Donno non ha informato neppure il dr. Borsellino della decisione di Li Pera di aprirsi a un’iniziale collaborazione con la procura di Catania, benché ne avesse avuto la possibilità in occasione dell’incontro che ebbero il 25 giugno 1992 alla Caserma Carini (episodio che trova conferma nelle testimonianze di Sinico e Canale, anche se quest’ultimo, come rammenta il giudice di prime cure, dà una versione diversa delle ragioni per cui il dott. Borsellino aveva sollecitato quell’incontro che lo stesso Canale avrebbe poi provveduto a organizzare, o almeno della ragione che ne aveva fornito il pretesto).
Era un’occasione particolarmente ghiotta se si considera che, a suo dire, era stato lo stesso Borsellino a sollecitare quell’incontro per verificare la disponibilità di De Donno e del Ros a riprendere e approfondire un’indagine che entrambi convenivano fosse di assoluto rilievo nella lotta alla criminalità mafiosa; ma che tino a quel momento aveva sortito, sul piano giudiziario (con 6 imputati a giudizio, mentre per tutti gli altri dell’originario procedimento Siino+45 si profilava una imminente archiviazione) risultati di gran lunga inferiori a quelli auspicati e attesi dagli stessi inquirenti.
L’allora capitano De Donno, al pari del resto dell’allora colonnello Mori, nelle dichiarazioni rese al pm di Caltanissetta (nell’ambito del procedimento poi conclusosi definitivamente con il provvedimento di archiviazione più volte citato del 15 marzo 2000, in atti) si è detto certo che il dr. Borsellino fosse stato informato che Li Pera aveva deciso di collaborare e stava rendendo dichiarazioni alla procura di Caltanissetta. Ma sulle circostanze e da chi il dr. Borsellino ne sarebbe stato informato, De Donno ha reso dichiarazioni confuse e contraddittorie, oltre ad essere poco credibili ex se, spingendosi a fare affermazioni che sono state perentoriamente smentite da uno dei magistrati — peraltro contitolare dell’inchiesta su mafia e appalti — che era stato chiamato in causa come terminale attraverso cui la notizia, che sarebbe stata trasmessa riservatamente e in via ufficiosa dal pm di Catania, era pervenuta al dr. Borsellino.
È certo però che non ha mai detto di essere stato lui, De Donno ad informarlo. E quindi resta motivo di grave perplessità che non abbia sentito il bisogno di farlo lui stesso; o quanto meno, senza fare nomi e senza entrare nel merito della vicenda, per non violare il dovere di riserbo investigativo rispetto all’indagine condotta dall’A.g. di Catania, non avesse colto l’occasione di quell’incontro per allertare Borsellino sulla possibilità che vi fosse un nuovo collaboratore di giustizia disposto a riferire proprio sui fatti che avevano formato oggetto dell’indagine mafia e appalti cui lo stesso Borsellino si mostrava tanto interessato da sollecitarlo — una sollecitazione che dice di avere accolto, pur sapendo che erano altri i magistrati della procura di Palermo titolari dell’inchiesta - a svolgere un’indagine per la quale avrebbe dovuto rapportarsi solo a lui; e non lo avesse invitato a prendere contatti con l’Ufficio omologo di Caltanissetta.
L’INCONTRO CON BORSELLINO DEL 25 GIUGNO
Così come desta serie perplessità che, sempre in occasione dell’incontro sollecitato da Borsellino ed effettivamente tenutosi il 25 giugno, nè Mori nè De Donno abbiano ritenuto di informarlo dell’iniziativa che avevano intrapreso di compulsare Vito Ciancimino come possibile fonte di informazioni utili ad analizzare e comprendere il contesto criminoso in cui inquadrare l’escalation di violenza mafiosa in atto: e ciò a prescindere dal fatto che De Donno avesse già incontrato l’ex sindaco di Palermo o fosse in procinto di incontrano, trattandosi comunque di un programma di lavoro investigativo che ben poteva integrarsi con il proposito loro esternato dal dr. Borsellino di sviluppare l’indagine sugli intrecci collusivi di natura politico affaristico mafiosa. Tanto più che, a dire dello stesso De Donno, il dr. Borsellino era convinto, anche se non glielo aveva detto espressamente, che l’indagine su mafia e appalti avesse un rilievo strategico perché puntava al cuore del potere mafioso e della sua più recente evoluzione e che su quel versante poteva annidarsi la vera causale della strage di Capaci.
D’altra parte, la dott.ssa Ferraro ricorda perfettamente che il capitano De Donno, alla sua obbiezione che di quell’iniziativa i carabinieri avrebbero dovuto e riferire all’A.g. e quindi al dr. Borsellino, piuttosto che al Ministro, le assicurò che ovviamente ne avrebbe informato il dr. Borsellino. E lo stesso Mori, nel datare sia pure con appRossimazione l’incontro tra la Ferraro e il De Donno, esclude che avessero già incontrato Vito Ciancimino perché se così fosse stato ne
avrebbero certamente parlato con il dr. Borsellino: così dando addirittura per scontato che l’allora procuratore aggiunto della procura di Palermo dovesse esserne informato.
Sta di fatto che Borsellino ne fu informato dalla Ferraro, e non dagli ufficiali del Ros.
Ed ancora più discutibile è stata la scelta sia di Mori che di De Donno di non rivelare quell’episodio, tacendo per anni: fino a quando non vennero chiamati dalla procura di Caltanissetta per chiarimenti sulle circostanze emerse dalla deposizione di altro magistrato che aveva riferito sui filoni d’indagine particolarmente attenzionati dal dr. Borsellino negli ultimi tempi, indicando tra gli altri proprio l’indagine su mafia appalti, della quale lo stesso Borsellino avrebbe parlato in particolare con il capitano De Donno.
La giustificazione addotta — e cioè che a quell’incontro non aveva fatto seguito neppure la redazione di un programma di lavoro e quindi tutto era rimasto allo stato di mero proposito, sicché nessuno dei due ufficiali ritenne che quell’episodio potesse avere il minimo interesse per l’A.g. che indagava sulla strage di via D’Amelio — non fuga il sospetto di reticenza. Non poteva sfuggire ai due ufficiali la rilevanza dell’episodio, e comunque la necessità che la competente A.g. ne fosse messa a conoscenza, considerati, da un lato, lo sforzo profuso per tentare di individuare la causale della strage proprio a partire dall’analisi delle più significative indagini curate dal dr. Borsellino o da lui attenzionate. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La verità a due facce sull’accelerazione della strage di via d’Amelio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 03 novembre 2022
La tesi della difesa è che, se vi fu un’effettiva accelerazione nel dare concreta attuazione alla decisione già adottata da tempo di uccidere il dottore Borsellino, essa fu dovuta ad un coacervo di cause concomitanti che nulla hanno a che vedere con la presunta trattativa stato-mafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
L’episodio dell’incontro alla Caserma Carini, del 25 giugno ‘92, introduce al secondo profilo di rilevanza, stavolta in un’ottica squisitamente difensiva, dell’indagine su mafia e appalti.
La tesi della difesa è che, se vi fu un’effettiva accelerazione nel dare concreta attuazione alla decisione già adottata da tempo di uccidere il dott. Borsellino, essa fu dovuta ad un coacervo di cause concomitanti che nulla hanno a che vedere con la presunta trattativa Stato-mafia; e su tutte e prima di tutte, risalterebbe il rinnovato interesse del magistrato per l’indagine mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire tale indagine, che mirava a uno dei gangli vitali del potere mafioso. Da qui la preoccupazione dei vertici mafiosi di stroncare sul nascere qualsiasi velleità di sviluppare questo filone d’indagine, eliminando il dott. Borsellino prima ancora che potesse mettere in atto il suo proposito.
La sentenza appellata reputa provato sia l’interesse che il proposito predetti, richiamando al riguardo le convergenti dichiarazioni di una serie nutrita di fonti testimoniali (cfr. Canale, Natoli, Vizzini, Aliquò, Ferraro) in aggiunta e a riscontro di quanto dichiarato da Mori e De Donno in ordine alle intenzioni e intuizioni loro esternate dal dott. Borsellino in occasione dell’incontro del 25 giugno ‘92. E tuttavia esclude, per molteplici ragioni (cfr. pagg. 1234-1236), che possano avere avuto una concreta incidenza nell’accelerazione dell’iter esecutivo della strage (così andando, va detto, in contrario avviso rispetto ai più recenti arresti giurisprudenziali sul tema, come risulta dalle sentenze di merito del processo “Borsellino quater”, ed anche rispetto alla sentenza, divenuta irrevocabile, n. 24/2006 della Corte d’Assise d’Appello di Catania, che ha definito quale giudice di
rinvio i procedimenti riuniti aventi ad oggetto le due stragi siciliane); come pure esclude (cfr. pag. 1237) la possibile incidenza degli avvenimenti e delle circostanze che decine di giudici nei vari processi istruiti e definiti sulle due stragi siciliane hanno di volta in volta ipotizzato come possibili cause o concause di quell’accelerazione (quali la collaborazione di nuovi pentiti di rilevante spessore, come Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, che il dott. Borsellino aveva iniziato ad interrogare il 1° luglio ‘92, e altri pentiti proveniente da[l’agrigentino; nonché le incaute esternazioni risalenti all’ultima decade di giugno ‘92 dei ministri Scotti e Martelli circa una possibile designazione a procuratore Nazionale Antimafia del dott. Borsellino, quale naturale erede del giudice Falcone nel ruolo di leader dell’attività di contrasto alla mafia). E perviene infine alla conclusione che «è giocoforza ritenere che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo — ed in sostanza di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci — pervenuti a Salvatore Rima, attraverso Vito Ciancimino proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio».
Quei segnali sarebbero quindi l’unico fatto nuovo, sopravvenuto dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio che può avere indotto Riina a «sconvolgere la “scaletta” del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento. all’apparenza, sarebbe stato totalmente controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa se non altro per l’effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere garantista”, interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al ‘giro di vite” che il Governo si apprestava ad attuare nell’azione di contrasto alle mafie».
L’INTERESSE DI BORSELLINO
Ebbene, va detto subito che gli argomenti che inducono il giudice di prime cure ad escludere che l’interesse del dott. Borsellino per l’indagine mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire quel tema d’indagine abbiano avuto concreta incidenza nell’accelerazione della strage di via D’Amelio (nella sua fase esecutiva) appaiono tutt’altro che irresistibili e convincenti.
Vero è che nel periodo in considerazione si occupava anche - persino di più - di altre indagini, nella sua qualità di coordinatore dei magistrati titolari delle inchieste sulle consorterie mafiose operanti nelle province di Trapani e Agrigento. Ma è chiaro che, in un’ottica di tutela preventiva degli interessi mafiosi, le indagini in corso, o quelle che il dott. Borsellino si accingeva ad intraprendere, non avevano tutte lo stesso peso. C’è indagine e indagine: bisogna vedere quale, delle tante di cui egli si stava occupando, poteva destare maggiore allarme in Cosa nostra, per la sua valenza strategica e i possibili sviluppi. E la medesima considerazione vale per l’obbiezione che segue immediatamente alla prima.
Vero è che L’innegabile interesse per l’indagine mafia e appalti e i lungimiranti propositi di Borsellino di riprendere quel filone investigativo e approfondirlo — magari proprio avvalendosi degli input che potevano venirgli dai nuovi pentiti di cui aveva iniziato a raccogliere le prime dichiarazioni — non si erano concretizzato ancora in specifici atti istruttori e neppure in una delega d’indagine che potesse concretamente impensierire i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Ma anche sotto questo aspetto è agevole replicare che, sempre in un’ottica di tutela preventiva, se Cosa nostra aveva motivo di temere conseguenze gravemente pregiudizievoli per i propri interessi da un’eventuale approfondimento dell’indagine mafia e appalti che conducesse ben oltre gli approdi del procedimento a carico di Siino e gli altri 5 tra sodali e imprenditori collusi che erano stati arrestati e poi rinviati a giudizio per il reato di associazione mafiosa (essendo previsto per ottobre l’inizio del dibattimento), allora aveva altresì interesse a prevenire quel rischio: e quindi a stroncare sul nascere la possibilità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, attraverso l’annientamento del magistrato che forse più di ogni altro in quel momento avrebbe saputo mettere un patrimonio inestimabile di conoscenze e acquisizioni e capacità di analisi del fenomeno mafioso al servizio di un’indagine tesa a sviluppare un’intuizione che il dott. Borsellino aveva mutuato dal giudice Falcone, a proposito della sua probabile evoluzione nel senso di una progressiva penetrazione nei circuiti dell’economia legale, e negli ambienti dell’alta finanza e della grande impresa.
Un’evoluzione che, a partire dall’esigenza di riciclare e fare fruttare gli ingenti capitali provento dei traffici illeciti, e accumulati fin dalla seconda metà degli anni ‘70, aveva marciato lungo traiettorie che, nella prospettiva di una valenza non più soltanto predatoria o parassitaria dell’ingerenza di Cosa nostra nel sistema di illecita spartizione e gestione degli appalti, andavano ad incrociare le indagini sulle vicende di corruzione e concussione che ormai in tutto il Paese, al seguito dell’inchiesta Mani Pulite, investivano pezzi importanti della nomenclatura politica fino ad allora dominante, e non risparmiavano i più grossi gruppi imprenditoriali interessati ad aggiudicarsi lucrosi appalti anche in Sicilia.
Pertanto, cade anche l’ulteriore obbiezione del giudice di prime cure secondo cui, tutto sommato, l’indagine mafia e appalti già curata dal Ros si era sostanzialmente conclusa, senza andare molto oltre gli esiti compendiati nella prima Informativa del febbraio 1991. Essa non aveva sortito un gran danno per Cosa nostra, a parte il sacrificio di Siino, che aveva fatto velo all’ascesa di altri personaggi (come i fratelli Buscemi o l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone), rimasti ai margini di quell’indagine, e chiamati invece a ricoprire ruoli anche più importanti rispetto a Siino, nel fare da tramite tra l’organizzazione mafiosa, i rappresentanti dei più grossi gruppi imprenditoriali associati alle cordate di imprenditori locali negli accordi di spartizione degli appalti e i politici o gli amministratori che li propiziavano dietro versamento di congrue tangenti.
Saranno proprio le indagini e i processi del filone mafia e appalti che seguiranno negli anni successivi a svelarlo, come si evince dalla mole di documenti qui acquisiti.
Ma in quella primavera-estate del ‘92, era uno scenario ancora latente. E quindi non vale obbiettare che il rapporto mafia e appalti del capitano De Donno aveva sortito magri risultati sul piano giudiziario e non poteva rappresentare un pericolo per Cosa nostra; o che tra i politici e imprenditori che erano stati solo lambiti da quell’indagine - e che ovviamente non avrebbero gradito un suo approfondimento - non vi fossero personaggi talmente compenetrati agli interessi (strategici) di Cosa nostra da poter sollecitare l’organizzazione mafiosa a prendere i provvedimenti più opportuni per scongiurarne il rischio.
Sono obbiezioni che ancora una volta sottostimano le esigenze di tutela preventiva per gli stessi interessi mafiosi contro i rischi di un’indagine che andasse ad aggredire gangli strategici del potere mafioso, quali le sue fonti di arricchimento (e di fruttuoso reimpiego degli ingenti capitali accumulati) e i suoi crescenti e sempre più pervasivi collegamenti con ambienti qualificati del mondo politico e imprenditoriali, perseguiti e realizzati proprio attraverso l’inedito protagonismo di Cosa nostra nel settore degli appalti che apriva canali e opportunità formidabili per implementare quei collegamenti.
Sempre in un’ottica di tutela preventiva, ciò che poteva temere Cosa nostra era ben altro dal rischio che qualche politico “amico” o qualche imprenditore rampante e più o meno colluso restasse invischiato nelle maglie di un’inchiesta come quella sfociata nell’arresto di Angelo Siino e pochi altri suoi sodali.
Il vero pericolo era che un approfondimento di quel tema d’indagine, sotto la sapiente regia e la determinazione di un magistrato esperto qual certamente era il procuratore aggiunto di Palermo unanimemente additato come erede di Giovanni Falcone, e nel solco di un’intuizione che era stata dello stesso Falcone, portasse alla luce o squarciasse il velo di silenzio che avvolgeva gli scenari davvero inquietanti di cui ha parlato, anche nella deposizione resa dinanzi a questa Corte, come già aveva fatto nel “BorsellinoTer”, il senatore Di Pietro (v. infra). Ma di cui v’è cospicua traccia, oltre che nelle sentenze di merito dello stesso “BorsellinoTer” (e in quella emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel processo “BorsellinoQuater”), in diversi altri documenti come i due decreti (e relative richieste) di archiviazione dei procedimenti istruiti dalla Ddda nissena a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, la richiesta di archiviazione del procedimento De Eccher+20, e la citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti a firma dei magistrati titolari dei primi procedimenti istruite su questo tema d’indagine dalla procura di Palermo, e sui successivi sviluppi. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022
Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.
Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.
Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).
Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato.
Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».
IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA
In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.
Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.
In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).
Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.
E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,
Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022
Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.
In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.
La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.
La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.
L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.
Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).
LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO
Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze:
«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.
Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.
Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.
Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.
Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.
Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.
Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.
Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.
Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.
Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.
Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.
Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022
La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello
facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.
Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.
Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.
Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del
Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.
La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.
Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.
A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.
Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura.
LA PISTA ELVETICA
Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.
È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.
E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).
Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.
Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.
È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.
Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022
Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.
Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.
Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros
È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi).
E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.
Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.
E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.
Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».
Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».
In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.
Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».
[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».
In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.
E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.
E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».
E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La scarsa attendibilità di Brusca nella ricostruzione della trattativa. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’08 novembre 2022
Tace, la sentenza di primo grado, che la datazione offerta da Brusca, a partire dal momento in cui per la prima volta cambia versione - e cioè al processo “Borsellino ter” - rispetto a quella su cui aveva insistito anche in pubblici dibattimenti, è incompatibile con una ragionevole ricostruzione dei tempi di sviluppo della trattativa.
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Quanto alla conclusione secondo cui l’essere venuto a conoscenza, attraverso il canale Ciancimino-Cinà, che uomini delle istituzioni si fossero fatti avanti per sollecitare un possibile dialogo con i vertici di Cosa nostra (ovvero per negoziare la cessazione delle stragi) costituirebbe l’unico fatto nuovo, sopravvenuto dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio che può avere indotto Riina a sconvolgere la scaletta del suo programma criminoso anticipando l’esecuzione di un delitto che sarebbe stato controproducente — per Cosa nostra - commettere in quel frangente, il ragionamento del giudice di prime cure elude il confronto con i dati fattuali.
Esso infatti dà - o sembra dare, nel primo dei passaggi motivazionali dedicati al tema - per indiscutibilmente provato che Salvatore Riina fosse stato informato proprio nel periodo immediatamente precedente la strage della sollecitazione al dialogo proveniente da autorevoli rappresentanti dello stato; ma non si preoccupa più di tanto di dimostrare che lo sviluppo dei contatti tra gli ufficiali del Ros. fosse giunto, già prima della strage di via D’Amelio, ad uno stadio talmente avanzato da consentire al capo di Cosa nostra di avere una chiara e certa contezza, attraverso il canale Ciancimino-De Donno, che lo stato fosse disponibile ad avviare un negoziato con l’organizzazione mafiosa.
Il timing della vicenda che si desumerebbe dalle dichiarazioni dei diretti protagonisti racconterebbe tutt’altro, perché prima della strage di via D’Amelio vi sarebbero stati soltanto due o tre incontri a quattro occhi del Capitano De Donno con Vito Ciancimino, che s’inscrivevano ancora nella fase delle schermaglie preliminari.
Mentre il Col. Mori, la cui partecipazione ai “colloqui di pace” era stata ritenuta indispensabile a garanzia del livello della trattativa e della legittimazione dei carabinieri a proporsi come emissari di un’Autorità politica o istituzionale sovraordinata, sarebbe intervenuto solo successivamente.
D’altra parte, gli elementi che possono ricavarsi dalle testimonianze di Liliana Ferraro e di Fernanda Contri ci dicono di contatti ancora da instaurarsi o comunque ancora in fase del tutto embrionale nell’ultima decade di giugno e a cavallo del trigesimo della strage di Capaci (v. incontro della Ferraro con De Donno), e persino al 22 luglio, data dell’incontro della Contri con il colonnello Mori.
COSA DICE LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Di contro, le fonti che avrebbero potuto avvalorare, con le loro dichiarazioni, l’ipotesi che la trattativa avesse avuto uno sviluppo molto più celere e fosse giunta, in epoca anteriore e prossima alla strage di via D’Amelio, ad uno stadio molto più avanzato e maturo di quanto non vogliano far credere Mori e De Donno (per non parlare di Vito Ciancimino) sono liquidate dallo stesso giudice di prime cure l’uno, Massimo Ciancimino, come totalmente inaffidabile ai fini dell’accertamento di tutti i fatti di cui ha parlato e straparlato; l’altro, Giovanni Brusca, come assai poco affidabile quanto alla datazione degli avvenimenti che qui interessano — e segnatamente la vicenda del papello — per le incertezze palesate e soprattutto per avere reso dichiarazioni quanto mai ondivaghe tutte le volte che è stato sentito su quella vicenda.
O meglio, più che di oscillazioni, si deve dare atto di un vero e proprio mutamento di versione rispetto alle dichiarazioni che Brusca aveva reso già il 10 e il 14 agosto del ‘96, […] e il 10 settembre ‘96, […] e quindi all’inizio della sua collaborazione, quando aveva collocato con certezza il primo colloquio con Riina sul papello in epoca successiva alla strage di via D’Amelio: versione che però aveva sostanzialmente confermato anche in pubblici dibattimenti, come gli è stato contestato nel corso del controesame cui è stato sottoposto all’udienza del 12.12.2013. […] Ed ancora, dal verbale del 19 gennaio 1998, processo per le stragi in continente dinanzi la Corte d’Assise di Firenze: […]. Tace, la sentenza di primo grado, che la datazione offerta da Brusca, a partire dal momento in cui per la prima volta cambia versione - e cioè al processo “Borsellino ter” - rispetto a quella su cui aveva insistito anche in pubblici dibattimenti (come il primo processo sulle stragi in continente dinanzi la Corte d’Assise di Firenze e il processo “Borsellino bis” dinanzi la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta) e su cui peraltro ritornerà, inopinatamente, il 3.05.2011 dinanzi la Corte d’Assise di Firenze nel processo Tagliavia, almeno per ciò che concerne il secondo dei colloqui vertenti sul papello (v. infra), è incompatibile con una ragionevole ricostruzione dei tempi di sviluppo della trattativa.
TUTTE LE INCONGRUENZE DELLO “SCANNACRISTIANI”
Essa postula infatti che già prima della strage di via D’Amelio il Riina non solo fosse stato informato della sollecitazione al dialogo, ma avesse deciso di accettarla, inoltrando le sue richieste per il tramite di Ciancimino […]. Ma se il secondo dei due incontri in cui Riina gli parlò del papello fosse davvero avvenuto alla fine di giugno o al più ai primi di luglio, in netto contrasto, peraltro, con quanto lo stesso Brusca aveva dichiarato all’udienza del 3/05/2011 nel processo di Firenze a carico di Tagliavia Francesco sempre per le stragi in continente, il precedente incontro a tutto concedere sarebbe avvenuto intorno all’ultima decade di giugno (dando per buona la versione di tempi rapidissimi tra le richieste avanzate da Riina e la risposta della controparte, in barba alla difficoltà di un’interlocuzione che richiedeva varie intermediazioni e quindi vari passaggi).
Il contrasto con il racconto fatto al processo Tagliavia - che sembrerebbe segnare un ritorno alla versione originaria - è più che evidente. Ma addirittura disarmante è la spiegazione che lo stesso Brusac ha offerto, quando quella difformità gli è stata contestata, imputandola ad una sua contingente “mancanza di serenità”. […] In ogni caso, stando alla “nuova” versione (per intenderci: quella resa nel presente processo, che corrisponderebbe alla versione resa al “Borsellino ter”), per ritrovare il momento in cui Riina sarebbe stato informato della sollecitazione a far conoscere le sue richieste per far cessare le stragi […] occorrerebbe risalire alla prima metà di giugno: altro che schermaglie preliminari e gioco delle parti nei colloqui tra De Donno e Ciancimino e poi anche con Mori. Ma neppure Massimo Ciancimino è arrivato a tanto.
Di contro, stando a questa datazione, la trattativa si sarebbe chiusa, con la deludente risposta della controparte istituzionale, già tra le fine di giugno e i primi di luglio. E Riina avrebbe quindi deciso di procedere senza indugio alla strage, sia per ritorsione contro l’atteggiamento irriguardoso della controparte, che si era mostrata disposta a concedere solo briciole […]; sia per implementare l’efficacia intimidatoria della minaccia mafiosa e costringere la controparte istituzionale ad accogliere le richieste che erano state respinte come eccessive.
Ma allora come spiegare la successiva decisione di dare un altro colpetto, nell’autunno del ‘92, per indurre gli stessi soggetti che, a suo tempo, si erano fatti sotto, a tornare a trattare? Se non era servito un colpo tremendo quale quello inferto con la strage di via D’Amelio, un semplice colpetto non avrebbe certo potuto far superare la situazione di stallo.
E infatti, in un successivo passaggio della motivazione, sempre dedicato alla ricerca della conferma della trattativa anche nelle parole di Brusca, la sentenza appellata valorizza con convinzione le dichiarazioni che il Brusca ebbe a rendere nell’immediatezza della sua collaborazione, e rese utilizzabili nel presente giudizio attraverso la contestazione dei verbali utilizzati nel corso dell’esame dibattimentale del dichiarante e nei limiti di quanto confermato, e segnatamente quella consacrata nel verbale d’interrogatorio del 14 agosto 1996.
In quella sede, Brusca aveva fatto risalire ad epoca successiva alle due stragi, e addirittura alla vigilia delle festività natalizie, il momento in cui Riina aveva avuto contezza che non meglio specificati emissari istituzionali gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi […]. Al dibattimento ha sostanzialmente confermato il contenuto e la sequenza dei colloqui vertenti sul papello, salvo datarli entrambi alla fine di giugno del 1992 e comunque - con certezza e sulla base di assenti riferimenti temporali rivenuti nei meandri della sua memoria a distanza di anni — entrambi prima della strage di via D’Amelio.
E la sentenza appellata, con apparente disinvoltura (a pag. 1634) supera l’incertezza che ne verrebbe in ordine all’affettiva concatenazione causale dei fatti da ricostruire, dando sì atto che la collocazione temporale prospettata da Brusca è stata oggetto di dichiarazioni nel tempo diverse e spesso contraddittorie, ma assicurando al contempo che la Corte «intende prescindere da tale dato (che. peraltro, come meglio si preciserà nel prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina (quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque. per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che. invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni lino a quelle rese in questo dibattimento».
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La strage di via D’Amelio fu “anticipata” dal Capo dei capi di Corleone? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 09 novembre 2022
L’operazione via D’Amelio ha inizio alla fine di giugno ‘92, nel senso che a quella data è già in itinere, con l’incarico a Spatuzza di rubare la Fiat 126 da utilizzare come autobomba: e ciò significa che era stata già stabilita questa modalità di esecuzione, e, d’altra parte, erano già disponibili sia i telecomandi necessari per comandare l’ordigno a distanza sia l’esplosivo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
A parere di questa Corte, per fare chiarezza sulla questione in esame occorre risalire ai pochi punti processualmente certi.
Una ricostruzione ancorata alla datazione come “rettificata” da Brusca, mentre anticipa troppo i tempi della trattativa tra Ciancimino e i carabinieri (e lo stesso giudice di prime cure finisce per ritenerla inattendibile), perviene al risultato di far corrispondere l’inizio dell’iter esecutivo al momento in cui deve in effetti ritenersi - sulla base delle risultanze acquisite nei processi celebrati sulla strage Borsellino e non inquinate dalle false propalazioni di Vincenzo Scarantino - che abbia avuto concreto inizio l’operazione via D’Amelio: e cioè fine giugno primissimi giorni di luglio.
Già Cancemi collocava alla fine di giugno la riunione in casa di Guddo Girolamo in occasione della quale egli ebbe contezza che Riina aveva fretta di eliminare Borsellino [...].
Spatuzza ha reso dichiarazioni che, raccordate con risultanze più certe, consentono di datare ai primi di luglio il furto della Fiat 126 che fu poi tenuta in un garage per essere poi portata nell’officina in cui furono fatti gli ultimi lavori all’impianto dei freni.
Il dato certo è che il 10 luglio venne sporta da Pietrina Valenti formale denuncia di furto dell’auto intestata alla madre (D’Aguanno Maria). La denunciante asseriva che le era stata rubata la notte prima; ma sentita dagli inquirenti e poi al dibattimento del primo processo sulla strage ricordava perfettamente che si era recata a sporgere denuncia la domenica mattina, ma aveva dovuto tornare successivamente perché la caserma era chiusa, essendo domenica.
Sennonché il 10 luglio era un venerdì, e quindi se il furto fosse avvenuto la notte prima, cioè il 9 luglio, non si spiegherebbe il ricordo di essersi recata in caserma a sporgere denuncia la domenica mattina. E tuttavia la donna riferiva anche di essersi rivolta ad un conoscente, Salvatore Candura perché desse voce nel quartiere per farle trovare l’auto. E il Candura confermò la circostanza e ammise di avere convinto la Valenti ad attendere qualche giorno prima di sporgere denuncia (circostanza confermata anche da Valente Luciano, fratello di Pietrina).
È quindi più che probabile che il furto sia avvenuto la settimana prima, e precisamente nella notte tra il 4 luglio — che era sabato — e il 5 luglio; e che la donna recatasi in caserma a porgere la denuncia e, alla richiesta dei carabinieri di tornare in un giorno non festivo, e prima di formalizzare la denuncia, si sia rivolta al Candura perché l’aiutasse a recuperare l’auto; e avrebbe quindi atteso qualche giorno, come lo stesso Candura ha ammesso di averle suggerito, prima di recarsi nuovamente dai carabinieri. D’altra parte, Spatuzza nel rievocare con comprensibile approssimazione a distanza di tanti anni quelle circostanze, conserva il ricordo di alcune complicazione che certamente ritardarono l’espletamento dell’incarico che gli era stato conferito da Giuseppe Graviano tramite Fifetto Cannella.
IL FURTO DELLA FIAT 126
In sostanza, quando gli fu dato, la mattina del sabato precedente alla strage, l’incarico di rubare le targhe da apporre alla Fiat 126 per consentirne lo spostamento in via D’Amelio, vi provvide lo stesso giorno (con la complicità di Orofino Giuseppe, presso cui era ricoverata per riparazioni l’altra Fiat 126 di proprietà di Sferrazza Anna, da cui vennero asportate le targhe). Invece, per il furto dell’auto passarono alcuni giorni rispetto al momento in cui gli era stato dato l’incarico.
Spatuzza non era un ladro d’auto e allora dovette chiedere l’autorizzazione ad avvalersi di Tutino Vittorio, più esperto di lui in materia. Inoltre, si pose un problema di competenza, perché voleva essere certo di potere effettuare il furto in qualsiasi pane del territorio di Palermo, anche fuori del mandamento di Brancaccio. Si rivolse quindi a Cannella che a sua volta dovette interpellare Giuseppe Graviano. E passò qualche giorno prima di avere la risposta. E solo allora Spatuzza poté concordare con il Tutino il giorno in cui vedersi per andare a rubare un’auto del tipo richiesto.
Deve quindi convenirsi con la conclusione cui sono pervenuti i giudici del Borsellino quater — che peraltro si riportano a risultanze già acquisite nel corso dei precedenti processi sulla strage di via D’Amelio, annotate nelle sentenze versate anche agli atti di questo processo -secondo cui l’incarico di Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza per rubare una Fiat 126 può senz’altro collocarsi alla fine del mese di giugno 1992.
Anche se alcuni dei preparativi, come il collaudo dei telecomandi effettuato in località Case Ferreri dietro il Sigros di Palermo, di cui ha riferito, per avervi preso parte, il collaboratore di giustizia Giovanbattista Ferrante, furono compiuti molto più a ridosso del 19 luglio (Sabato li luglio, come il Ferrante aveva detto deponendo al Borsellino ter; o, come ha dichiarato in questo processo, una settimana o dieci giorni prima della strage).
E c’è un’altra risultanza che ci viene dalle pagine dei processi celebrati sulla strage di via D’Amelio, e che non è stata scalfita dalle revisioni dei giudicati a seguito delle verità emerse in relazione al depistaggio attuato con le sue false propalazioni dal sedicente pentito Vincenzo Scarantino.
La scelta del luogo e del giorno (la domenica) non lii né casuale né estemporanea, ma dovette essere preceduta da un’accurata attività di pedinamento e di osservazione degli spostamenti abituali del magistrato, che condusse gli assassini a individuare il luogo più propizio in cui piazzare l’autobomba in via D’Amelio, dove era ubicata l’abitazione non della madre del dott. Borsellino, ma della sorella Rita, presso la quale la madre soleva stare, in genere, nei fine settimana: quando appunto il dott. Borsellino si recava in via D’Amelio per fare visita all’anziana madre.
Tale attività preparatoria deve avere richiesto diverse settimane (come in effetti sembrerebbe evincersi dalla pur scarne dichiarazioni rese al riguardo in particolare da Galliano Antonino), come si evince dal passaggio che segue della sentenza nr. 29/97 della Corte d’Assise di Caltanissetta: […]. Il dato dell’abitualità delle visite in via D’Amelio, nei fine settimana, per andare a trovare la madre, a fronte dell’incertezza delle visite a casa dell’altra sorella, che avveniva durante i giorni feriali, ma non con regolarità, conferma che lo studio delle abitudini della vittima e dei suoi spostamenti più abituati deve essersi protratta per diverse settimane.
CI FU ACCELERAZIONE?
Ebbene, la sentenza impugnata ha totalmente omesso di confrontarsi con le risultanze sopra richiamate, nello sforzo di dimostrare non solo che vi fu una brusca accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio; ma anche che tale accelerazione ivi dovuta a uno specifico evento sopravvenuto dopo la strage di Capaci: un evento nuovo, non previsto e di tal portata da stravolgere il programma criminoso di Riina, e sopravvenuto poco prima del 19 luglio, tanto da indurre Riina a stoppare altri progetti omicidiari già in fase avanzata di esecuzione (come l’attentato a Mannino, di cui ha parlato Brusca, che però nella datazione degli eventi rettificata rispetto alle sue prime dichiarazioni, colloca pur sempre lo stop a giugno) e dare ordine ai suoi uomini di attivarsi per eseguire l’attentato a Borsellino nel girodi pochi giorni.
Lo stesso Riina avrebbe infatti confermato, in alcune delle conversazioni, intercettate a sua insaputa, con il codetenuto Lo Russo, che la strage fu studiata alla giornata, e attuata, nella sua concreta esecuzione — poiché la condanna a morte di Borsellino risaliva invece a diverso tempo prima — nel giro di pochi giorni. […] Ma che la strage Borsellino possa essere stata decisa, organizzata e attuata nel volgere di pochi giorni e a seguito di un evento imprevisto quale la sollecitazione al dialogo pervenuta a Riina proprio in quei giorni, attraverso il canale Ciancimino-Cinà, e proveniente da quelli che lo stesso Riina aveva motivo di credere fossero emissari di organi di governo, o rappresentanti dello Stato appare frutto di una chiara forzatura di tutti i dati disponibili.
L’operazione via D’Amelio ha inizio alla fine di giugno ‘92, nel senso che a quella data è già in itinere, con l’incarico a Spatuzza di rubare la Fiat 126 da utilizzare come autobomba: e ciò significa che era stata già stabilita questa modalità di esecuzione, e, d’altra parte, erano già disponibili sia i telecomandi necessari per comandare l’ordigno a distanza (Biondino aveva provveduto a procurare cinque coppie di telecomandi e Ferrante ne aveva sentito parlare fin da marzo) sia l’esplosivo, che era stata “lavorato” (da Spatuzza) insieme a quello utilizzato per la strage di Capaci.
D’altra parte, volendo prestare fede al racconto di Brusca, nella versione rettificata, lo stop al progetto già in fase avanzata di uccidere Mannino gli sarebbe stato impartito nel mese di giugno (e dobbiamo fare uno sforzo per sorvolare, come s’è visto, sul persistente contrasto con la narrazione di La Barbera e sulla diversa datazione del “fermo” indicata dallo stesso Brusca nelle sue prime dichiarazioni).
E sempre alla fine di giugno lo stesso Cancemi — che neppure il giudice di prime cure si sente tuttavia di poter assumere come riscontro rassicurante all’attendibilità della ricostruzione che si ricaverebbe dal racconto di Brusca — colloca l’episodio della riunione a casa di Guddo in cui Riina avrebbe manifestato, parlandone con il fido Raffaele Ganci, la fretta di procedere all’eliminazione del dott. Borsellino. (E per inciso, se si prestasse fede alle rivelazioni di Cancemi, se ne dovrebbe inferire una traiettoria ricostruttiva degli eventi che condurrebbe molto lontano dall’ipotesi che la fretta di Riina traesse origine dall’essere venuto a conoscenza della “trattativa”, o meglio della proposta di trattativa, perché la lettura che ne offre lo stesso Cancemi è tutt’altra).
Si può comunque affermare che Riina al più tardi nell’ultima decade di giugno abbia dato disco verde all’esecuzione della decisione - già adottata peraltro diversi prima — di uccidere il magistrato che dopo Falcone era il simbolo della Lotta alla mafia e ne aveva preso anche in tale veste il testimone.
LA “SOLLECITAZIONE” DEL ROS
Ma se così è, il collegamento che si vorrebbe contestare con la sollecitazione al dialogo rivolta dai carabinieri del Ros ai vertici mafiosi per il tramite di Ciancimino, anche prescindere dalle legittime perplessità suscitate dalle ondivaghe datazioni di Giovanni Brusca, non appare compatibile con i tempi di svolgimento dei contatti instaurati, prima dal solo De Donno e poi dal De Donno insieme a Mori, con l’ex sindaco di Palermo.
Non parliamo ovviamente dei tempi descritti dai due ex ufficiali del Ros (e tanto meno della datazione di Ciancimino che sarebbe troppo spostata in avanti, a dire degli stessi ex ufficiali odierni imputati, laddove afferma di avere deciso solo dopo la strage di via D’Amelio di accettare la richiesta del capitano De Donno di incontrarlo; e di avere successivamente incontrato anche il colonnello Mori), che sono molto lontani da uno svolgimento conforme a quello che si vorrebbe — in sentenza — asseverare. Ma non si può nascondere — come si vedrà in proseguo - che la stessa testimonianza della Ferraro non consente di dare per provato che a cavallo del 23 giugno 1992 il capitano De Donno avesse già incontrato Ciancimino, e non fosse piuttosto in procinto di incontrarlo proprio in quei giorni. E tanto meno può inferirsene la prova che vi fosse stato già un primo incontro di Mori con Ciancimino. Parimenti deve dirsi per la testimonianza di Fernanda Contri: la sua impressione che gli incontri di Mori con Ciancimino fossero un’iniziativa in fieri può lasciare il tempo che trova,
come semplice impressione personale. Ma è certo che lo stesso Mori nel fargliene cenno, le fece intendere che si trattasse di un approccio preliminare, senza nulla di definito e men che meno con dei primi risultati concreti.
E quindi, in quell’ultima decade del mese di giugno cui, come s’è visto, risale l’inizio dell’iter esecutivo della strage, l’interlocuzione dei carabinieri con Ciancimino, ammesso che fosse a sua volta iniziata, doveva essere ancora in una fase embrionale, tanto da potersi escludere che i carabinieri avessero già scoperto le carte e detto chiaramente a Ciancimino che volevano che si facesse da tramite con i vertici di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad allacciare un dialogo per far cessare le stragi.
E tanto meno può credersi che Ciancimino avesse avuto già il tempo di informarne prima il Cinà, e attraverso quest’ultimo — che, non va dimenticato, in un primo momento non si prestò a fare da tramite come da lui stesso ammesso, salvo poi ripensarvi (come sostiene Vito Ciancimino, che parla al riguardo di un ritorno di fiamma delle persone a cui si era rivolto e che inizialmente avrebbero irriso alla sua richiesta).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le tempistiche della trattativa e la confusione del popolo di Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 10 novembre 2022
In sostanza, secondo la lettura di Brusca le stragi avrebbero costretto lo stato a venire a patti, sia pure creando le premesse per nuovi scenari politici; secondo la lettura di Cancemi, invece, le stragi dovevano servire a destabilizzare il quadro politico e istituzionale per favorire l’ascesa di nuove forze che si sarebbero fatte carico di realizzare quelle riforme che stavano a cuore ai mafiosi
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Il punto di frizione tra la versione rettificata proposta da Brusca per gli incontri con Riina vertenti sulla vicenda del papello e le vecchie e nuove risultanze in ordine ai contatti tra Vito Ciancimino e gli ufficiali del Ros nella sua prima fase - e cioè quella sfociata nella proposta da recapitare ai vertici mafiosi di avviare un dialogo - attiene ai tempi di svolgimento della trattativa; o, più esattamente, al momento in cui si può ritenere che Riina abbia avuto contezza del fatto che uomini dello Stato si era fatti sotto per trattare. E, a cascata, se e, in caso affermativo, quando fece avere ai suoi interlocutori istituzionali, o quanto meno a Ciancimino perché li recapitasse ai destinatari, le richieste compendiate nel famoso “papello”.
La proposta di trattativa o di sondare la disponibilità ad intavolare un negoziato, che fu avanzata esplicitamente da Mori, poteva essere presa in considerazione da Ciancimino solo se avesse avuto l’avallo di un autorità superiore a quella di un capitano dei carabinieri (come il comandante del Ros, poiché Mori non mancò di fare sapere a Ciancimino che Subranni era il suo superiore e che gli avrebbe portato i suoi saluti, con ciò lasciando chiaramente intendere che la sua iniziativa era o sarebbe stata condivisa dal Comandante del Ros).
Ecco perché, dopo avere accettato o addirittura dopo essere stato lui stesso a sollecitare a De Donno la partecipazione diretta di Mori ai loro colloqui, Ciancimino pretese altresì di poter fare i loro nomi a quella che apostrofava come “l’altra sponda”.
Ed ecco perché diventa decisivo stabilire il momento della discesa in campo di Mori per rivolgere a Vito Ciancimino l’invito a fare avere ai vertici mafiosi [...] la sollecitazione ad avviare un dialogo finalizzato a fare cessare le stragi: e, conseguentemente, potere stabilire se Riina ne abbia potuto esserne informato prima della strage di via D’Amelio.
E qui deve convenirsi con il rilievo formulato nella sentenza impugnata, che segnala come i tre protagonisti di quei contatti abbiano fatto a gara per spostare in avanti quel momento, allontanandolo in particolare dalla strage di via D’Amelio, sia pure con un taglio diverso. Infatti, sia Ciancimino che De Donno sembrano attribuire un rilievo dirompente a quel tragico evento, che avrebbe indotto De Donno a forzare i tempi e la mano a Ciancimino - chiedendogli se fosse disposto a incontrare Mori, per alzare il livello della loro interlocuzione e della posta in palo — e avrebbe indotto Ciancimino, per l’orrore che gli aveva suscitato, ad accettare di ricevere il De Donno (25 agosto) per sentire cosa intendesse proporgli e subito dopo ad incontrare Mori (1° settembre), con quel che ne segui. Mentre Mori glissa completamente su quell’evento.
Tutte le fonti esterne al terzetto predetto, che la sentenza si preoccupa di compulsare per trarne riscontri utili a comprovare anche i tempi di svolgimento della trattativa intrapresa attraverso i contatti con Vito Ciancimino, non dicono nulla o non forniscono elementi che possano dare certezza di una diversa datazione, tale da spostare indietro nel tempo, e in particolare al periodo compreso tra la strage di via Capaci e la strage di via D’Amelio, il momento topico di quella trattativa.
A parte Massimo Ciancimino, che per la sua inaffidabilità non può far testo, e le testimonianze di Liliana Ferraro e di Fernanda Contri, di cui si è già fatto cenno, vanno riesaminate al riguardo le dichiarazioni di Cancemi e Giuffré; nonché le testimonianze dell’avv. Giorgio Ghiron e di Giovanni Ciancimino. Mentre, per le ragioni illustrate dallo stesso giudice di prime cure, non può far testo la
deposizione dell’altro figlio, parimenti avvocato, Roberto Ciancimino perché della vicenda sarebbe venuto a conoscenza, per avergliene parlato suo padre, la prima volta, solo nel mese di settembre, ovvero circa due mesi dopo la strage di via D’Amelio. Sicché Roberto Ciancimino può solo confermare che a quella data — cioè a settembre — un’ipotetica trattativa fosse già pendente e in fase avanzata.
LE DICHIARAZIONI DI ANTONINO GIUFFRÉ
Corroborano la prova che Riina fu informato della sollecitazione proveniente da uomini dello Stato a “trattare” e autorizzò tale trattativa, ossia autorizzò Ciancimino a sentire cosa avessero da chiedere i carabinieri e a farsi latore della sua risposta. Tale prova si ricaverebbe già dalle dichiarazioni di Brusca e Cancemi, ma inevitabilmente soffrirebbe delle criticità che investono l’attendibilità delle loro propalazioni, se ad esse non si aggiungesse il puntello di un’autorevole conferma qual è quella proveniente dal Giuffré. Riina viene informato dell’invito a far conoscere le sue richieste (e quindi viene informato solo dopo che Ciancimino ha avuto da Mori in persona la conferma della ragione per la quale lo avevano contattato), e autorizza Ciancimino a “trattare”, cioè a farsi latore della sua risposta e ad attendere un riscontro dalla controparte. Ma il dubbio e il cruccio di Giuffré, stando al suo racconto, era che Ciancimino avesse di propria iniziativa avviato contatti con i carabinieri, ovvero avesse accettato di incontrarli (anche più volte) senza esserne previamente autorizzato. E Provenzano, stando sempre al racconto dell’ex boss di Caccamo, avrebbe fugato tale dubbio e la conseguente preoccupazione del Giuffré, dicendogli appunto che quei contatti erano stati autorizzati e che Ciancimino stava trattando con i carabinieri perché era in missione per conto di Cosa nostra […]. In ogni caso, le dichiarazioni di Giuffré nulla dicono in ordine ai contenuti dell’interlocuzione avviata attraverso i contatti di Ciancimino, debitamente autorizzati, con i carabinieri; né consentono di stabilire a quale stadio del suo sviluppo fosse giunta la “trattativa”. Ma, giusta l’ipotesi adombrata sulla probabile dislocazione temporale della confidenza fatta da Provenzano, se ne dovrebbe inferire che Provenzano fosse convinto che la missione di Ciancimino non era finita, ma era ancora — a marzo del 1993 - in pieno svolgimento, nonostante che, nel frattempo, fosse intervenuta la cattura di Riina. E quindi è lecito dubitare, già per la portata dirompente di un evento che sconvolgeva gli scenari precedenti, che la missione predetta si identificasse con quella a suo tempo autorizzata da Riina.
I “ TEMPI” DI CANCEMI
Colloca a giugno del 1992 e qualche settimana dopo la strage di via Capaci l’episodio della riunione ristretta di Riina alla villa di Guddo con alcuni capi tra quelli a lui più vicini (Biondino e Raffaele Ganci) nel corso della quale Riina sventolò un foglietto in cui erano appuntate una serie di questioni, invitando i presenti ad aggiungere eventuali loro richieste; e diede ampie rassicurazioni che sarebbero andate a buon fine, perché sarebbero state recapitate a persone degne della massima fiducia (Berlusconi e Dell'Utri) che si sarebbero fatto carico di farle accogliere. La prima volta ne parla nell’interrogatorio reso alle procure di PA e CL il 23 aprile 1998 (v. pag.1573-1574 della sentenza); e poi lo ripeterà in pubblica udienza al Borsellino bis, udienza 4.04.2001.
Al dibattimento di I grado del processo sulla strage di Capaci (udienze del 19 e 20.04.1996) Cancemi ammette di avere avuto colloqui informali con il Mar. Scibilia e altri carabinieri del Ros, proprio nel periodo più travagliato del suo sofferto percorso collaborativo. In particolare, a Scibilia avrebbe confidato che c’erano delle cose che ancora non aveva detto e intendeva rivelare ai giudici (cfr. pag. 66 del verbale udienza del 20.04.1996).
Non è allora azzardato ipotizzare che Cancemi si sia deciso a rievocare l’episodio della sollecitazione di Riina ad aggiungere eventuali ulteriori richieste a quelle che lui aveva già annotate — per farle avere a chi, suo dire, sarebbe stato in grado di farle accogliere — non solo per le remore a fare i nomi di Berlusconi e Dell'Utri come terminali delle rivendicazioni di Cosa nostra, ma anche perché della trattativa avevano riferito in pubblica udienza, appena pochi mesi prima e cioè nel gennaio del 1998, Giovanni Brusca e gli ufficiali del Ros, cioè del reparto che, surrogando il servizio centrale di protezione, gestiva di fatto la sicurezza del Cancemi.
Questi si sentiva quindi affrancato da ogni remora a fare rivelazioni che potessero risultare imbarazzanti o compromettenti per i suoi “tutori”.
Ma, detto questo, è evidente che la trattativa che, sia pure con dichiarazioni tardive e non immuni dal sospetto di contaminazione con conoscenze acquisita nel frattempo dalle cronache di altri processi, Cancemi lascia intravedere, è distonica rispetto a quella desumibile dal “combinato disposto” delle rivelazioni di Brusca sul papello e di quelle di Mori e De Donno, unitamente alle dichiarazioni di Vito Ciancimino sui contatti intrapresi nei giorni o nelle settimane successive alla strage di Capaci. Diverse gli intermediari, diversi gli ipotetici terminali e nessun cenno ad un possibile ruolo di Vito Ciancimino; e diversa era anche la cornice strategica delle stragi, perché, a dire di Cancemi, attraverso queste azioni il Riina voleva sfiduciare coloro che all’epoca erano in sella; e si riprometteva di portare al potere Berlusconi e Dell'Utri, risultato questo che avrebbe rappresentato un bene per tutta Cosa nostra.
In sostanza, secondo la lettura di Brusca le stragi avrebbero costretto lo stato a venire a patti, sia pure creando le premesse per nuovi scenari politici: secondo la lettura di Cancemi, invece, le stragi dovevano servire a destabilizzare il quadro politico e istituzionale per favorire l’ascesa al potere di nuove forze nuovi soggetti che si sarebbero fatto carico di realizzare quelle riforme che stavano a cuore ai mafiosi; e da questi stessi soggetti sarebbe venuta non già la sollecitazione ad avviare un dialogo per far cessare le stragi, ma al contrario un input o un incoraggiamento ad attuare la strategia stragista per raggiungere i rispetti obbiettivi. […].
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’avvocato dei Ciancimino, un ambiguo personaggio con legami nei “servizi”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’11 novembre 2022
Non si può fare a meno di formulare riserve sull’ambiguità del ruolo di questo personaggio, in ragione dei suoi legami con lo stesso Mori, e una presunta contiguità ai servizi; nonché per la singolare tempestività della sua comparsa sulla scena, giusto in coincidenza con la vicenda del passaporto di Ciancimino...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Non si può fare a meno di formulare riserve sull’ambiguità del ruolo di questo personaggio (che sarà poi coimputato dei familiari di Vito Ciancimino nel processo per trasferimento fraudolento di valori e intestazione fittizia di beni), in ragione dei suoi legami con lo stesso Mori, e una presunta contiguità ai servizi (su cui si è soffermato nel corso della sua lunga deposizione il Col. Giraudo); nonché per la singolare tempestività della sua comparsa sulla scena, giusto in coincidenza con la vicenda del passaporto che si colloca nella fase in cui la trattativa con Ciancimino avrebbe radicalmente cambiato registro.
Ma anche di là di tali riserve, la sua testimonianza, nel processo Mori/Obinu (il relativo verbale del 30.06.20 10 è transitato perché prodotto dalle difese degli ex ufficiali del Ros e perché atto irripetibile essendo lo stesso Ghiron deceduto nel 2012 e quindi nelle more del giudizio di primo grado), è la meno idonea a offrire elementi di certezza sulla datazione e i tempi di sviluppo della trattativa. […].
LE AMBIGUITÀ DI GHIRON
A motivo delle riserve accennate su tale figura di dichiarante, val rammentare che egli ha palesemente “minimizzato” il suo rapporto di conoscenza con il col. Mori, che indica come “amico” di suo fratello Gianfranco Ghiron. Dice di non sapere nulla delle circostanze in cui sarebbe nata quell’amicizia, ma non manca di precisare che suo fratello gli parlava spesso di Mori. Del resto, di suo fratello si limita a dire che svolgeva l’attività di giornalista.
Dalla testimonianza del Col. Giraudo sembra però emergere una verità diversa, perché Gianfranco Ghiron aveva avuto rapporti con il Sid, anche se mai chiariti nella loro vera natura.
In effetti, a dire del Giraudo, i rapporti di Mori sia con Gianfranco che con Giorgio Ghiron possono essere ricostruiti solo sulla base di dichiarazioni rilasciate in tempi diversi dai diretti interessati. In particolare, le attività svolte dal Gianfranco Ghiron per conto dei Servizi sono rimaste nell’assoluta clandestinità, non essendo consacrate in alcun atto ufficiale o relazione di servizio. Negli archivi dell’Aise sono stati tuttavia rinvenuti diversi documenti che attestano come fosse un soggetto monitorato e persino sospettate di fare il doppio gioco, spacciandosi per agente infiltrato. Anzi, il Col. Giraudo ha precisato che è stata trovata documentazione comprovante che il Ghiron Gianfranco è stato una fonte esterna dei servizi, ma il suo “manipolatore” era il Cap. La Bruna.
E proprio per questa ragione, in quanto era un ufficiale dei carabinieri, non era possibile annotare l’identità della fonte in un documento ufficiale (esistono anche dei precedenti, come la fonte “Gian”), perché avrebbe dovuto essere associato ad una fonte attiva il nominativo di un agente del Servizio che però svolgeva anche compiti di ufficiale di polizia giudiziaria.
Nel caso della fonte “Ghiron” il nome in codice che risulta in documenti agli atti dell’archivio che l’Aise ha ereditato dal disciolto SISMI e prima ancora Sid era “Crocetta”. Non vi sono però atti a firma Mori o Marzolla — suo diretto superiore — concernenti la fonte “Crocetta”. E ciò si spiega agevolmente ove si consideri che i numeRosissimi atti che documentano l’attività svolta dal Ghiron per conto del servizio segreto risale ad epoca diversa e pregressa rispetto a quella in cui Mori ha fatto parte del raggruppamento centri di Cs.
In particolare, è documentalmente provato che dal 1961 il Ghiron lavora come agente o ausiliario dell’Ufficio “R” che si occupava dello spionaggio oltre cortina. Questo rapporto di collaborazione si interrompe perché cominciano a diffondersi negli ambienti del Servizio voci che additano il Ghiron come soggetto poco affidabile e di dubbia lealtà. E viene fatto oggetto di un’azione investigativa culminata in una perquisizione della sua camera d’albergo e del suo bagaglio (operazione ovviamente coperta e annotato con la sigla “Ghi”, dalle lettere iniziali del cognome dell’indagato).
È anche vero che l’Ufficio “R”, rispetto a questa indagine interna, assume un atteggiamento “protettivo” nei confronti della propria fonte. Sta di fatto che a a partire dal 1964, scompare dalla documentazione agli atti del Servizio. Ma negli anni successivi, secondo quanto dallo stesso Ghiron rivelato quando fu escusso a s.i.t., fece diversi tentativi per rientrare tra i ranghi del collaboratori esterni del Servizio, fino a stringere un rapporto personale con il colonnello Mori.
Peraltro, nella documentazione inerente alla gestione della fonte — valutazione, rimborsi spese richieste fondi — da trasmettere all’ufficio amministrativo, difficilmente avrebbe potuto trovarsi un atto firmato dal col. Mori, perché l’input della trasmissione veniva dal capo del raggruppamento Centri di Roma, in cui era inquadrato Mori. E tutt’al più veniva interessato sulla base di una prassi instaurata di fatto da Marzolla, il direttore del Servizio, cioè il generale Miceli.
Nel 1970, il capo centro di Palermo, Magg. Umberto Bonaventura comunica all’Ufficio D da cui dipendevano tutti i centri Cs del Sid che il Ghiron Gianfranco in più occasioni aveva tentato di accreditarsi come fonte del Servizio, comportamento che lo faceva ritenere poco affidabile.
Risulta anche che negli anni ‘70 il Ghiron gestì, insieme ad un agente del servizio americano, delle fonti libiche che svolgevano attività contro informativa e in tale contesto aveva avuto contatti con esponenti della criminalità mafiosa.
E nel 1975 il G.i. di Brescia. dott. Arcai, che indagava sulla strage di p.zza della Loggia, chiese al servizio tutta la documentazione concernente Ghiron Gianfranco. Ma gli fu trasmessa una documentazione largamente incompleta, su input dell’Amm. Casardi che era subentrato al generale Miceli, arrestato nell’ambito delle indagini sul golpe Borghese.
I RAPPORTI PERSONALI CON MORI
Il rapporto personale con Mario Mori è comprovato, oltre che da varie dichiarazioni testimoniali, anche da un documento da cui risulta che lo stesso Mori fu testimone di nozze del Ghiron (Gianfranco) in occasione del matrimonio con la sua prima moglie.
Quanto a Giorgio Ghiron, negli anni in cui Mori prestò servizio al Sid, svolgeva un’attività di consulenza legale e imprenditoriale con diversi studi, il più importante dei quali aveva sede a New York. Era anche titolare di una società di import-export. E fu oggetto di un’attività info investigativa del Servizio, nel quadro di un’indagine concernente tal Motter (operazione “Marmotta”) ex agente della Cia, perché si accertò che Giorgio Ghiron aveva con questo ex funzionario americano una frequentazione asSidua.
E’ datata 15 settembre 1975 la relazione “GIAN”. E’ una relazione di servizio che compendia le informazioni fornite da una fonte confidenziale di cui poi è stata rivelata l’identità. La relazione è opera del manipolatore di quella fonte. La fonte era un ufficiale dei carabinieri, Giancarlo Servolini. E l’agente Sid che lo “manipolava” era il cap. La Bruna. Sarà proprio quest’ultimo a rivelare il tutto al G.I. Salvini, che indagava tra l’altro sulla strage di p.zza Fontana. L’attività di manipolazione della fonte in questione risalirebbe all’epoca in cui il La Bruna, a capo del Nod, si occupava delle indagini sulle trame nere. In uno dei documenti che riportano informazioni della fonte Gian risulta messo in chiaro il nome della fonte, e si parla proprio del Servolini.
Èstato acquisito anche il fascicolo personale di questo ufficiale dei carabinieri da cui risulta che era in congedo temporaneo per convalescenza nel periodo in cui fu incaricato di svolgere l’attività informativa per conto del Servizio con il nome in codice “Gian”.
Il giornalista Norberto Valentini consegna al G.I. Antonio Lombardi, che indagava sulla strage alla questura di Milano del 17 maggio 1973 una copiosa documentazione che gli era stata fatta avere dal cap. La Bruna. In una delle cartelle che riportano i vari produttori, cioè le fonti d’informazione, è annotata parte della produzione della fonte Gian.
Il gruppo Taddei-Ghiron, operava in sinergia con il gruppo di militari Marzolla-Venturi-Mori. Gianfranco Ghiron viene definito come soggetto poco affidabile e agente prezzolato al soldo dell’Ufficio “R”. Giorgio Ghiron confermerà, in un colloquio databile a maggio 1975 alla fonte Gian quanto già alla stessa fonte era stato rivelato da suo fratello Gianfranco, e cioè che avevano avuto successo le pressioni esercitate sui periti incaricati di verificare la genuinità delle bobine contenenti le registrazioni delle conversazioni intercorse a Lugano tra il cap. La Bruna e Remo Orlandini, e aventi ad oggetto le rivelazioni dell’Orladini sull’attività cospirativa culminata tra l’altro nel tentativo di Golpe Borghese. Nella pag. 2 della relazione si fa esplicito riferimento a Mori e al suo prodigarsi insieme al Ghiron per esercitare quelle pressioni. (cfr. deposizione del Col. Giraudo, udienza 20.10.20 16).
STRANE COINCIDENZE
Certo è che l’avv. Ghiron compare sulla scena proprio in coincidenza con la fase di intensificazione dei contatti tra V.C. e il Col. Mori, ossia quando questi si sforza di assecondare le richieste del potenziale collaborante: il libro, da fare avere a eminenti personalità; il passaporto (al processo Mori-Obinu ha ammesso di essere stato lui a redigere la richiesta di rilascio del passaporto, oltre ad accompagnare personalmente il Ciancimino all’ufficio passaporti, in Questura, perché Ciancimino camminava male); un colloquio riservato con l’on. Violante. E con tutto il rispetto per la competenza professionale, è lecito il dubbio che questa improvvisa comparsa non fosse determinata dalla necessità di sostituire il prof. Campo o l’avv. Gaito nel mandato a difendere V.C. nel procedimento che pendeva a suo carico in appello (a Palermo, e non a Roma). Tanto più che l’avv. Ghiron era soprattutto un avvocato d’affari (svolgendo l’attività di consulente legale e imprenditoriale, ed essendo anche titolare di una società di export-import), o comunque, per restare in ambito forense, era di formazione civilistica, come rammenta Nicolò Amato.
Del resto, lo stesso Ghiron ha chiarito al processo Mori/Obinu, udienza 30giugno 2010 il tipo di assistenza professionale nei riguardi di V.C., che fa risalire addirittura al 1980 e che si sarebbe protratta fino al 2002, anno della morte del Ciancimino.
Lo assisteva anche per procedimenti penali ma solo a Roma, perché a Palermo aveva difensori di vaglia del calibro dell’avv. Restivo e delI’avv. Campo. Erano loro i suoi difensori anche nel processo d’appello a Palermo, che però anche lui seguiva da Roma, consultandosi con i colleghi. Il suo apporto atteneva alle sue competenze di avvocato internazionalista, effettivamente più confacente alle sue competenze; ma anche per i procedimenti penali Vito Ciancimino a Roma non aveva altri difensori.
Giorgio Ghiron, divenuto l’avv. di fiducia anche di Massimo Ciancimino ne condivise la vicissitudine giudiziaria sfociata nella condanna in primo e secondo grado per riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Erano suoi coimputati Massimo Ciancimino e l’avv. Gianni Lapis tributarista, anche loro condannati. Al processo Mori/Obinu venne sentito nella veste di teste assistito perché la condanna non era ancora definitiva, pendendo il giudizio in cassazione. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Sulla trattativa poche certezze e nessuna prova di un patto con Totò Riina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 12 novembre 2022
Per ammissione degli stessi giudici della Corte d’Assise di primo grado, ciò che si può dare per provato con certezza è solo che Riina venne contattato da emissari istituzionali per chiedergli di fare sapere a quali condizioni era disposto a fare cessare le stragi. Non è altrettanto certo e provato quando ciò sia accaduto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Non è risolutivo, per una datazione certa, neppure l’episodio di cui Giovanni Ciancimino aveva fatto cenno già al processo Mori/Obinu e che ha confermato anche in questa sede.
Un giorno, non sa precisare quando, ma era il ‘92, suo fratello Massimo, che era l’unico dei fratelli Ciancimino che viveva con il padre a Roma e lo assisteva quotidianamente, gli disse che il capitano De Donno doveva andare a trovare so padre insieme a un colonnello. Qualche tempo dopo, sempre Massimo, gli disse che l’incontro era avvenuto, e che anzi c’erano un via via di carabinieri per casa. Giovanni non aveva dato molto peso a queste confidenze del fratello, che ne diceva tante e spesso non si riusciva neppure ad afferrare il filo delle sue esternazioni. […] Ma comunque in cuor suo escluse che quelle confidenze di Massimo (ammesso che fossero veritiere: «mio fratello Massimo parlava di carabinieri, era vero, non era vero, che cosa c ‘era, proprio e ‘è l’imbuto, andiamo a fare la cernita») potessero riferirsi al discorso fattogli da suo padre a proposito della trattativa avviata per conto di personaggi altolocati, che immaginava essere soggetti di statura superiore a quella di due ufficiali dell’Arma […]. Il ragionamento di Giovanni Ciancimino - per il fatto stesso di essersi posto il problema - fa pensare che le confidenze di Massimo risalissero più o meno allo stesso periodo dei colloqui in cui suo padre gli parlò dell’incarico che a lui, Giovanni, aveva messo i brividi. Ma al di là di questa precisazione non sembra si possa andare.
Gli è stato contestato che, all’udienza dell’8.04.2014 nel processo Borsellino quater, aveva collocato, sia pure dopo una faticosa sequela di domande a chiarimento, in epoca successiva alla strage di via D’Amelio la notizia, datagli da suo fratello, che l’incontro che De Donno avrebbe dovuto avere insieme a un colonnello con suo padre, di cui Massimo gli aveva parlato in precedenza, era effettivamente avvenuto.
Ciò rispecchierebbe il timing prospettato da Mori e De Donno, quanto meno nella palle in cui esso colloca il primo incontro di Vito Ciancimino con i due ufficiali il 5 agosto 1992, ossia alcune settimane dopo la strage di via D’Amelio. E tuttavia dal medesimo verbale risulta che il teste ribadì, in quella sede, che il primo colloquio con suo padre sul tema della trattativa e dell’incarico che aveva ricevuto da personaggi altolocati era già avvenuto quando Massimo gli diede la notizia dell’avvenuto incontro del padre con i due ufficiali dell’Arma. Sicché residua l’incertezza sulla datazione di quel primo colloquio, e in particolare se esso fosse avvenuto prima o dopo la morte di Borsellino.
Può solo aggiungersi che se dovesse tenersi fede al ricordo che lega il primo colloquio di Giovanni con il padre al turbamento seguito alla strage di Capaci, andrebbe riscritto o il timing della trattativa o il contenuto delle interlocuzioni tra Vito Ciancimino e i due ufficiali del Ros.: perché vorrebbe dire o che c’era già stato (prima di via D’Amelio) almeno un primo incontro con Mori, e questi aveva avanzato la sua proposta (ma tale evenienza sembrerebbe esclusa da quanto il teste ebbe a dichiarare al Borsellino quater); oppure che Vito Ciancimino doveva ancora incontrare Mori e tuttavia, già nel corso dei colloqui a quattrocchi con il solo Capitano De Donno, gli era stato detto o lasciato intendere che il senso di quelle visite e di quei colloqui era di invitarlo ad adoperarsi per sondare la disponibilità dei vertici mafiosi ad avviare un dialogo: e ciò spiegherebbe per quale motivo Vito Ciancimino non avesse ancora raccolto l’invito, rimandando la decisione a quando avesse ricevuto dal colonnello Mori la garanzia della serietà e del livello della proposta, ovvero che non fosse soltanto un’iniziativa da “sbirri”.
In ogni caso, solo all’esito di tale garanzia, e di una conferma ed esplicitazione della proposta, egli poteva correre il rischio di informare Riina del fatto di essere stato contattato in via riservata da due ufficiali dell’Arma: ciò che avrebbe come minimo condensato sulla sua testa il sospetto di essere un confidente o peggio una spia dei carabinieri, se questi ultimi non fossero stati quelli che dicevano o lasciavano intendere di essere, e cioè meri emissari di più alte autorità.
LE DICHIARAZIONI PIÙ RECENTI DI VITO CIANCIMINO
Neppure può trarsi dalle dichiarazioni più recenti rese in alcuni interrogatori del 1997 e 1998 (cfr. pag. 1367 della sentenza: tre verbali di dichiarazioni rese da Vito Ciancimino al pm rispettivamente in data 3 giugno 1996, 5 agosto 1997 e 3 aprile 1998), o dallo scritto intitolato “I Carabinieri”, la certezza -rassegnata invece dal giudice di prime cure - che Vito Ciancimino abbia ricevuto due deleghe a trattare: la prima, riferita ai suoi contatti preliminari con il (solo) capitano De Donno; e la seconda a trattare più in generale con i carabinieri, di tal che possa inferirsene che Ciancimino abbia avvisato i suoi referenti mafiosi fin da quei primi contatti che sono sicuramente avvenuti prima della strage di via D’Amelio.
In realtà, anche nelle dichiarazioni successive, e nei passaggi in cui è ritornato su quanto aveva dichiarato già nel verbale d’interrogatorio del 17 marzo 1993, ha sempre detto che la delega a trattare — e peraltro ha parlato sempre di una sola delega — gli fu data a seguito di un ritorno di fiamma, e dopo che lui stesso aveva speso i nomi sia di De Donno che di Mori.
Si vorrebbe però ricavare dalla frase “piena delega a trattare, oltre al capitano De Donno, i carabinieri”, che le deleghe furono in realtà due (“Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare oltre al Capitano poi pure carabinieri ci fu un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto, ai quali richiedettero che la delega a trattare da queste stesse persone”).
Ora, è innegabile, anzitutto, che la frase è inserita in un periodo tra i più confusi e contorti, oltre che sgrammaticati, della narrazione sciorinata da V.C. nei vari interrogatori in cui ha parlato o fatto cenno della vicenda in questione, e sarebbe problematico già solo per questa ragione pretendere di ricavarne elementi utili a dirimere la questione.
Ma soprattutto, è lo sviluppo logico della sequenza incentrata sul ritorno di fiamma a fare escludere che esso sottintendesse una precedente delega “parziale”, invece che piena, ovvero un’autorizzazione a incontrarsi con il solo De Donno.
Intanto, la scelta del termine “delega” è già sintomatica di un’investitura che va ben oltre l’autorizzazione a uno o più incontri. Ma poi, la sequenza che si intravede nella parole di Ciancimino è unica e unitaria: non esiste la scissione tra un primo contatto di Ciancimino con i vertici mafiosi per informarli della richiesta di De Donno di incontrarlo (e ne sarebbe scaturita la prima delega/autorizzazione); e poi un secondo incontro, per informarli della proposta (che però sarebbe stata avanzata da Mori e non da De Donno), cui sarebbe seguito prima uno sprezzante commento e poi un ripensamento (il ritorno di fiamma) con l’autorizzazione a proseguire l’interlocuzione con i carabinieri. Assecondare una simile ricostruzione equivale a riscrivere letteralmente la partitura delle dichiarazioni di Ciancimino, o adattarle a misura dell’esigenza di poter dare per provato, come si legge a pag. 2069 della sentenza appellata, «che certamente Vito Ciancimino ebbe ad informare Riina già sin dal suo primo approccio con il capitano De Donno (dunque a giugno 1992), tanto da essere subito “delegato” a portare avanti quel contatto prima che subentrasse anche il Col. Mori».
Ed invero, la locuzione “delega piena’ non autorizza a pensare che vi dovesse essere una precedente “delega parziale”: ma allude alla portata e al contenuto dell’unico incarico conferito dai vertici mafiosi a Ciancimino, una volta informati del tenore della proposta.
D’altra parte, la Corte di I grado si contraddice rispetto all’assunto che vorrebbe ricavare dalle più recenti dichiarazioni o da successivi scritti un chiaro indizio del fatto che Vito Ciancimino avesse informato i suoi referenti mafiosi già prima di accettare di incontrarsi con De Donno, per avviare quella fase di contatti “preliminari”. E la contraddizione balza evidente nel momento in cui la stessa Corte perviene alla conclusione che né dalle dichiarazioni del Ciancimino né dai suoi scritti è possibile ricavare elementi idonei a supportare una ricostruzione adeguata dei tempi di svolgimento della trattativa (cfr. pag. 1405):[...]. Ed anche valorizzando gli scarni spunti offerti dalla testimonianza dì Giovanni Ciancimino, che, come s’è visto, è l’unica fonte di prova che fornisce un minimo appiglio alla ricostruzione sposata in sentenza, l’esito sul piano probatorio non è comunque quello prospettato dal primo giudice.
RIINA, CIANCIMINO E IL ROS
Una significativa anticipazione dei tempi di svolgimento della trattativa tra Ciancimino e i carabinieri del Ros, rispetto alla narrazione che questi ultimi ne hanno fatto, sarebbe in ogni caso imprescindibile per convalidare l’assunto secondo cui Riina venne informato già prima della strage di via D’Amelio che uomini dello Stato si erano fatti sotto per trattare con Cosa nostra (o per sollecitare l’avvio di un negoziato); e che tale circostanza lo indusse a modificare i suoi piani, dando precedenza assoluta all’attentato al dott. Borsellino, che quindi sarebbe stato organizzato in tutta fretta. Ebbene, uno specifico passaggio della sentenza impugnata fa comprendere come lo stesso giudice di prime cure creda poco a tale anticipazione, o non si senta di asseverarla con certezza.
Nel motivare infatti l’attendibilità e la rilevanza probatoria delle propalazioni di Giovanni Brusca sulla vicenda del papello, la sentenza evidenzia che tali propalazioni, nel loro contenuto sostanziale — e cioè al netto degli ondeggiamenti e delle discutibili rettifiche nella datazione degli eventi — sono rimaste immutate nel tempo, e s’incrociano perfettamente con una narrazione, qual è quella fatta dai Mori e De Donno, di cui si avrà pubblica notizia solo nel gennaio 1998, grazie al risalto mediatico delle deposizioni rese dai due ufficiali del Ros al processo di Firenze sulle stragi in continente.
Ma poi aggiunge (pag. 1635): «La propalazione di Brusca, dunque, anche per la sua prima collocazione temporale e per l’originalità del contenuto su fatti che in quel momento non apparivano particolarmente significativi in assenza di ulteriori conoscenze del contesto in cui gli stessi di inserivano, si appalesa attendibile e conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che effettivamente, quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non giù dopo la prima strage (quella di Capaci), Rima fu contattato da soggetti istituzionali che, con l’evidente intento di superare la contrapposizione frontale che si era creata, gli chiesero a quali condizioni avrebbe potuto porre termine alla strategia stragista».
Sono considerazioni e valutazioni in parte condivisibili (come meglio si dirà tra breve). Ma riguardo al tema in esame, ne discende che, per ammissione degli stessi giudici della Corte d’Assise di primo grado, ciò che si può dare per provato con certezza è solo che (effettivamente) Riina venne contattato da emissari istituzionali per chiedergli di fare sapere a quali condizioni era disposto a fare cessare le stragi. Non è altrettanto certo e provato quando ciò sia accaduto [quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage quella di Capaci].È dunque possibile, ma solo possibile, che sia avvenuto già prima della strage di via D’Amelio, ma non si può affatto escludere che sia accaduto invece solo dopo le due stragi siciliane.
Disarmante è però la disinvoltura con cui la sentenza appellata, dando atto dell’impossibilità di un’esatta collocazione temporale degli sviluppi fattuali dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino (per i contrasti tra le rispettive dichiarazioni e «anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6giugno 1998), perviene all’inopinata conclusione che tutto sommato non importa ricostruire con certezza i tempi di svolgimento di quei contatti; [...]. Ciò che conta, in questa nuova — e inattesa — prospettiva, è che risulti provato - ma non lo è affatto - che Riina venne informato da Ciancimino fin dal primo approccio che questi aveva avuto con il capitano De Donno, prima ancora che il colonnello Mori avesse modo di esplicitare personalmente a Ciancimino la sua proposta di dialogo: come se Riina avesse avuto la capacità divinatoria di intuire deve andasse a parare il primo approccio di De Donno a Ciancimino, o quest’ultimo lo avesse intuito da sé, senza bisogno di averne esplicita conferma da Mori.
E che Ciancimino avesse informato subito Riina, fin dal primo approccio di De Donno, la Corte d’Assise di primo grado pretende di inferirlo da una sola frase, con la quale Vito Ciancimino enuncia di avere ricevuto, dopo il ritorno di fiamma dei referenti mafiosi, una piena delega a trattare con i carabinieri, oltre che con il Capitano De Donno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La “grande suggestione” dei 57 giorni fra una strage e l’altra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 13 novembre 2022
Si dà per scontato che un intervallo temporale di “soli” 57 giorni — poiché tanti ne passarono tra i due eventi delittuosi, la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio — sia troppo esiguo, come se esistesse un prontuario delle stragi mafiose
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Incertezze interne e palesi aporie o forzature riscontrate nella ricostruzione sposata dalla Corte d’Assise di primo grado circa un possibile link tra l’improvvida iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i loro contatti con Vito Ciancimino e la presunta accelerazione della strage di via D’Amelio nella sua fase esecutiva non implica che abbia ragione la difesa - nonostante la forza di persuasione di taluni argomenti dedotti, supportati dalla cospicua documentazione qui allegata - a sostenere che a determinare quell’accelerazione sia stato invece il rinnovato interesse del dott. Borsellino per l’indagine su mafia e appalti e la sua conseguente determinazione a riprenderla e approfondirla.
E, alla luce delle considerazioni che precedono, è tempo di chiedersi se non sia sbagliato interrogarsi sulle cause della (presunta) accelerazione della strage di via D’Amelio; l’errore, cioè, prima che nelle diverse risposte che sono state date, si anniderebbe già nella domanda.
Ed invero, quando si afferma che vi fu un’accelerazione, o addirittura una repentina accelerazione dell’iter esecutivo, per cui ci si interroga poi sulle cause che l’avrebbero determinata (e si formulano le ipotesi più disparate), si sottintende che, se non fosse avvenuto qualcosa che modificò i piani di Riina, all’eliminazione del dott. Borsellino, la cui morte era stata da tempo decretata, si sarebbe giunti ugualmente, o almeno Cosa nostra ci avrebbe provato, ma non a distanza di così poco tempo dalla strage di Capaci.
E ovviamente si dà per scontato che un intervallo temporale di “soli” 57 giorni — poiché tanti ne passarono tra i due eventi delittuosi — sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi: come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi (ma quanto di più, naturalmente, nessuno dei convinti assertori dell’accelerazione lo dice), prima di replicare un delitto altrettanto eclatante della strage di Capaci.
Il rischio è che si annidi una suggestione psicologica collettiva del tutto legittima ben inteso ma che può inquinare il ragionamento: dopo Capaci, con tutta la sua terribile carica distruttiva, nessuno di buon senso avrebbe mai voluto assistere a scene di distruzione e di morte come quelle ripetute in via D’Amelio ed allora il tempo tra questi due eventi sembra restringersi, quasi a fondere questi eventi, ma solo perché in effetti neanche uno di essi è accettabile; il tutto, per di più, in una micidiale combinazione, uno-due, in danno dei magistrati che personificavano la lotta a Cosa nostra trucidati con esplosioni eclatanti e devastatrici.
E si dà per scontato — senza peritarsi di indicare le fonti che lo provino — che l’offensiva stragista, posto che la strage di Capaci segnava il punto più alto raggiunto da una strategia più complessiva di sfida allo Stato e di attacco frontale alle istituzioni, ma non la sua fine, avesse una sua tabella di marcia; e che questa sinistra tabella di marcia non contemplasse che due mesi dopo la strage di Capaci si mettesse mano ad un altro delitto, altrettanto eclatante. Un delitto, può aggiungersi, tanto importante da dovere avere la precedenza rispetto ad altri, benché già in programma o in itinere nella loro realizzazione concreta. Come l’uccisione del figlio di Salvo Lima, per il quale Onorato Francesco aveva concluso l’attività preparatoria ed era pronto ad entrare in azione quando si incontrò con Biondino, a marzo o aprile del ‘92, e questi gli disse di lasciar perdere perché si stavano preparando omicidi abbastanza delicati, gravi. Mi dice: no, lascia stare, ci sono altre persone. (E in quella circostanza il Biondino gli avrebbe detto che gli doveva rompere le corna, scusando la frase, al dottor Borsellino e al dottor Falcone, perché si dovevano pulire i piedi e avevano fatto condannare gli amici del Maxi processo). O come l’attentato all’on. Mannino, di cui ha parlato (soltanto) Giovanni Brusca (peraltro con tutte le incertezze di cui s’è detto sull’effettiva collocazione temporale dell’episodio).
E se è vero che la strage di Capaci era stato un vero e proprio atto di guerra oltre che di sfida allo Stato, ma non aveva concluso l’offensiva scatenata da Riina che semmai con quell’attentato aveva compiuto un salto di qualità, elevando a livelli mai visti in precedenza lo scontro con le istituzioni, allora, in una logica di tipo militare, qual è quella che si conviene ad una vera e propria guerra, era più che plausibile che gli attentati ai danni di soggetti già individuati come obbiettivi da colpire si susseguissero nel più breve tempo possibile, se v’era la capacità di realizzarli, senza dare respiro al “nemico”, e, in questo caso, senza dare allo Stato il tempo di riorganizzarsi, di serrare le fila e apprestare una reazione adeguata.
UNA LUNGA SCIA DI SANGUE
Quanto fragile sia l’argomento della brevità dell’intervallo temporale tra le due stragi siciliane lo dimostra del resto il lugubre calendario degli eventi delittuosi che cadenzano la guerra scatenata dai corleonesi allo Stato. In particolare, la strage di Capaci avviene 72 giorni dopo l’omicidio Lima, che aveva segnato l’avvio della campagna di guerra allo stato, varata già nella riunione di fine anno ‘91 della Commissione provinciale di Palermo (di cui hanno riferito Brusca, Cancemi e Giuffré) e in quella tenutasi ai primi giorni del nuovo anno della Commissione regionale (di cui è traccia nelle propalazioni dei collaboratori di giustizia che provengono dalle fila delle cosche catanesi: Malvagna, Pulvirenti e Avola). È in effetti un intervallo più lungo, ma solo di 15 giorni.
Ma l’intervallo si accorcia tra la strage Borsellino e la ripresa dell’offensiva corleonese dopo la “pausa” estiva: 56 giorni dopo si registra l’attentato a Germanà (14 settembre ‘92); e tre giorni dopo, e quindi a distanza di 59 giorni dalla strage di via D’Amelio, l’omicidio di Ignazio Salvo.
Ed ancora, sempre a distanza di due mesi (a novembre 1992) si collocherebbe il successivo episodio riconducibile alla campagna stragista, ovvero il mancato attentato al giudice Grasso (di cui hanno riferito, stavolta in termini sostanzialmente concordanti, Brusca e La Barbera).
Infine, 61 giorni distanziano temporalmente le stragi di Roma e Milano (la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993) da quella di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993), che segue di soli 13 giorni l’attentato di via Fauro (14 maggio). Sempre due mesi circa (giorno più, giorno meno). Mentre il più consistente distacco temporale delle stragi in continente rispetto alle stragi del ‘92 trova evidente giustificazione nello scombussolamento seguito tra le fila di Cosa nostra alla cattura di Riina e nel travaglio interno che precedette e accompagnò la decisione di riprendere l’offensiva stragista.
Ora, nel rammentare l’impressionante regolarità della cadenza con cui si susseguono i tragici avvenimenti del biennio ‘92-’93 non si vuoi certo insinuare che via una sorta di kabala nella successione dei più gravi episodi delittuosi in cui si è sostanziata la guerra dei corleonesi allo Stato.
Più prosaicamente si deve ritenere che in questa apparente (tragica) regolarità vi sia una componente di causalità, legata a possibili intoppi e circostanze fortuite che possono aver ritardato o al contrario affrettato l’esecuzione di questo o quell’attentato.
Ma vi è, con tutta probabilità, anche una componente di “ragione criminale” legata invece all’esigenza di una pianificazione accurata di ogni successivo attentato, all’attivazione di nuove risorse, in termini di uomini e mezzi, o al recupero di quelle già impiegate in un precedente attentato; alla scelta dell’obbiettivo cui dare precedenza; e, non ultima, la necessità di far decantare l’innalzamento di attenzione, tensione e capacità di reazione delle forze dell’ordine e degli apparati repressivi dello Stato, (in termini di dispiegamento di uomini e mezzi, posti di blocco, perquisizioni, mobilitazioni di fonti confidenziali e canali infoinvestigativi, attività tecniche di intercettazioni telefoniche e ambientali, controlli sul territorio), nonché lo zelo e l’impegno del personale operante nel dare concreta esecuzione ad eventuali nuove e più stringenti misure repressive: tutti fattori che raggiungono la massima intensità nei giorni immediatamente seguenti ad un delitto eclatante, ma di regola sono destinati ad affievolirsi con il trascorrere delle settimane.
E i corleonesi ne aveva una più che consolidata esperienza, avendo costruito la loro sanguinosa ascesa al vertice di Cosa nostra a suon di delitti eccellenti come l’assassinio: del giornalista Mario Francese; del segretario provinciale della Democrazia Cristina Michele Reina; del capo della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano; del Consigliere Istruttore Cesare Terranova e l‘agente Mancuso, nel 1979; del il Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e del procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa nel 1980; del M.llo dei Carabinieri Vito Jevolella nel 1981; del segretario regionale e parlamentare del P.C.I. Pio La Torre insieme all’autista e collaboratore Rosario Di Salvo, e cinque mesi dopo il Generale Dalla Chiesa, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta, nel 1982; del Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici nel 1983, insieme agli agenti di scorta Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi e al portiere dello stabile Stefano Li Sacchi; 1985; l’attentato al giudice Carlo Palermo a Pizzolungo, che provocò la morte della signora Barbara Rizzo Asta con i suoi due figlioletti gemelli, Giuseppe e Salvatore Asta, ed ancora il vice commissario Beppe Montana e qualche giorno dopo il Commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia; poi nel 1988: l’agente di polizia Natale Mondo, scampato alla strage di viale Croce Rossa, e due giorni dopo l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco; ed ancora, a Trapani, il giudice Alberto
Giacomelli; poi il giudice Antonino Saetta insieme al figlio disabile Stefano e il giorno dopo il giornalista Mauro Rostagno, della Comunità Saman sempre a Trapani; 1989: l’attentato all’Addaura (21 giugno); il duplice assassinio dell’agente di polizia Antonino Agostino insieme alla moglie Ida Castellucci (5 agosto); ed ancora, 1990: il giudice Rosario Livatino; 1991: il giudice Antonino Scopelliti (9 agosto), in predicato di rappresentare la procura Generale nella trattazione del maxi processo dinanzi alla Corte di Cassazione, e poi (29 agosto) l’imprenditore Libero Grassi). E non mancano in questo terrificante elenco di morte delitti commessi con le modalità e i connotati di vere stragi e di stragi (Dalla Chiesa, Chinnici, viale Croce Rossa, e Pizzolungo), due delle quali commesse con la tecnica libanese di devastanti autobombe, come la strage Chinnici e la strage di Pizzo Lungo.
E mai li aveva frenati, o aveva costituito una remora ad agire, il timore delle prevedibili reazioni in termini di dispiegamento di forze di polizia sul territorio e intensificazione della caccia ai latitanti o delle indagini sui presunti affiliati alle cosche operanti nelle zone o nei territori direttamente interessati dalla consumazione di quegli eventi delittuosi. Certo, era prevedibile, da parte delle Istituzioni, e degli apparati repressivi, una reazione veemente, che però non vi fu, dopo una strage delle proporzioni di quella di Capaci che colpiva lo Stato in quello che era divenuto il simbolo vivente della lotta alla mafia.
Nell’estate del 1992 Cosa nostra “non giocava in difesa ma in attacco”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 14 novembre 2022
Come scrivono i giudici del processo di primo grado del “Borsellino ter”, «La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa Nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione...».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
E quindi, si obbietta, buon senso e prudenza avrebbero dovuto consigliare di lasciare calmare le acque, prima di mettere in atto un secondo clamoroso attentato che avrebbe reso inevitabile un ulteriore inasprimento della risposta repressiva, con un incremento esponenziale di possibili contraccolpi negativi per tutta l’organizzazione mafiosa.
L’obbiezione è, in astratto, ragionevole. Ma trascura di considerare che il successo dell’impresa di Capaci, oltre a galvanizzare il popolo mafioso di Cosa nostra ed eccitare il delirio di onnipotenza del suo capo incontrastato (e ve n’è traccia cospicua traccia in diverse conversazioni intercettate in carcere tra Riina e il codetenuto Lo Russo, e segnatamente nelle parole di trionfale compiacimento e smisurato orgoglio con cui a distanza di tanti anni commenta la “mattanza” di cui rivendica di essere il principale artefice) aveva provocato un tale sgomento e scoramento, complice anche la distrazione di una classe politica nazionale alle prese con altre problematiche e con emergenze che si affiancavano a quella criminale, che la risposta dello Stato non fu all’altezza di quella che ci si poteva attendere e che gli stessi corleonesi avevano messo in conto.
Essa si concretizzò in realtà nel varo di un pacchetto di misure, quelle contenute nel d.l. che già riprendeva alcune indicazioni del giudice Falcone, e che, una volta andate a regime, avrebbero sicuramente comportato un inasprimento della stretta repressiva nell’azione di contrasto al fenomeno mafioso.
Ma intanto quelle misure — come l’ampliamento delle ipotesi di fermo di polizia, o della possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi o di disporre intercettazioni telefoniche e ambientali, per non parlare dell’introduzione di nuove l’intestazione di beni fittizi e soprattutto il regime speciale del 41 bis, di cui ancora nessuno poteva prevedere e percepire quale sarebbe stato l’impatto - non avevano ancora trovato applicazione concreta e ci sarebbe voluto del tempo per metterle in atto e perché producessero i loro frutti; inoltre, la stessa conversione in legge del decreto predetto era legata all’esito tutt’altro che certo di un’aspra battaglia parlamentare, al punto che, fin dall’inizio, si metteva in conto che non si sarebbe fatto in tempo a completare l’iter in tempo utile per evitarne la decadenza.
Ma come è emerso dalle testimonianze di Scotti, Martelli e Gargani, il Governo era assolutamente determinato a ripresentare il decreto nell’ipotesi in cui non fosse stato convertito; e semmai il dilemma che, a dire di Scotti, si pose era tra il lasciarlo decadere per mancata riconversione, per poi ripresentarlo magari con piccoli ritocchi, per guadagnare tempo e consensi, oppure impegnarsi nella battaglia parlamentare con il rischio che venisse convertito con modifiche che ne stravolgessero
il contenuto (l’On. Gargani però oltre a sottolineare che in tutti i passaggi parlamentari il suo partito votò compatto per l’approvazione del disegno di legge di conversione, nega di avere mai prospettato al suo collega di partito Scotti una simile alternativa).
Ora, è vero che la strage di via D’Amelio, come comprovato dalla documentazione relativa ai lavori parlamentari dell'iter di conversione del d.l. 8 giugno 1992 n. 306- non mancò di incidere pesantemente sull’andamento dei lavori e sull’esito finale: ma non perché si fossero modificati gli orientamenti delle varie forze politiche lacerate da contrasti trasversali che avevano generato uno schieramento composito che si opponeva all’impianto complessivo e ai contenuti più innovativi del decreto (in quanto lesivo dei diritti di difesa, e per l’effetto di stravolgimento delle linee portanti del nuovo codice di procedura penale entrato in vigore da appena tre anni).
Sotto questo aspetto, i contrasti persistevano e chi si opponeva non cessò di farlo. Ma è certo che l’appello al senso di responsabilità delle forze politiche di fronte al divampare dell’emergenza criminale non cadde nel vuoto.
GLI EMENDAMENTI DEL GOVERNO
Il Governo fece la sua parte, presentando il 21 luglio un maxi emendamento all’originario disegno di legge che, nell’intento di facilitare un accordo parlamentare, raccoglieva alcuni dei rilievi critici emersi nel corso del dibattito sulle più significative modifiche del quadro normativo; e ponendo la questione di fiducia per blindarne l’approvazione, dopo che neppure uno degli innumerevoli emendamenti presentati dalle opposizioni era stato ritirato (e il 24 luglio il Senato approvò con modifiche); e le conferenze dei capi gruppo dei due rami del parlamento sortirono una calendarizzazione dei lavori con cadenza serrata, rinunciando gli oppositori a qualsiasi manovra di ostruzionismo. E ciò nondimeno, il decreto fu convertito (con modifiche) in legge ad un giorno appena dalla scadenza.
È facile, con il senno di poi, rimarcare che se Riina e soci avessero avuto la pazienza di attendere tre settimane, invece di fare esplodere l’autobomba in quel pomeriggio del 19 luglio in via D’Amelio, il decreto Scotti-Martelli non sarebbe stato convertito in legge, restando impantanato nelle secche di un accesissimo scontro parlamentare.
Ma con quali risultati concreti?
Si è già visto che la mancata conversione in tempo utile fin dall’avvio dell’iter parlamentare era stata messa in conto dal Governo che tuttavia era determinato a ripresentarlo. E a meno di non ipotizzare spaccature su quel tema in seno alla maggioranza parlamentare che lo sosteneva, era altrettanto probabile che alla fine sarebbe stato approvato, sia pure al prezzo di qualche modifica. D’altra parte, era stata persino prospettata l’opportunità di lasciare scadere il decreto per poterlo ripresentare nella sua interezza (cfr. ancora Scotti e anche Violante), per evitare mutilazioni o modifiche che ne stravolgessero l’impianto, approfittando di una prassi quella della reiterazione dei decreti legge, che all’epoca era assolutamente abituale.
D’altra parte, è arduo credere che Riina, in pieno delirio di onnipotenza dopo la clamorosa impresa di Capaci, e determinato a portare avanti un’offensiva senza precedenti contro lo Stato, legasse le proprie scelte strategiche alle incerte previsioni sugli esiti di una battaglia parlamentare dalla quale poteva sortire il varo di un’ulteriore stretta repressiva. Anche perché quando venne deciso di porre concretamente mano all’esecuzione della condanna a morte del dott. Borsellino, e si decise di farlo con modalità eclatanti, mancavano assai più di tre settimane alla scadenza del termine per la conversione in legge del decreto in questione.
Del resto, esisteva già un funesto precedente storico, di come i corleonesi non si facessero minimamente condizionare da dinamiche politico-parlamentari, almeno per ciò che concerneva l’iter di formazione delle leggi, comprese quelle che più direttamente investivano i suoi interessi. Il disegno di legge n. 1581 a firma di Pio La Torre e altri, concernente l’introduzione del reato di associazione mafiosa e nuove misure in materia di prevenzione e indagini patrimoniali a carico degli indiziati mafiosi, presentato nel marzo del 1980 alla Camera dei deputati, era rimasto impantanato per quasi due anni prima che, all’indomani dell’omicidio del Segretario Regionale del Pci, ne riprendesse l’iter parlamentare.
Ed era in discussione quando venne consumata la strage Dalla Chiesa, che ebbe l’effetto di imprimere una straordinaria accelerazione all’approvazione del disegno di legge predetto, nel testo integrato con quello a firma del Ministro Rognoni (e fu così che vide la luce la Legge Rognoni-La Torre la cui abrogazione o modifica in senso favorevole ai mafiosi costituiva nove anni dopo uno degli obbiettivi strategici di Riina).
L’ESTATE DEL ‘92
Ma soprattutto, Cosa nostra nell’estate del ‘92 non giocava in difesa, ma in attacco, e l’obbiettivo prioritario non era quello di scongiurare il rischio di un ulteriore inasprimento della legislazione antimafia o dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Quello era un contraccolpo da mettersi in conto, come effetto immediato; ma l’obbiettivo finale era di costringere lo Stato, a forza di bombe, a prendere allo che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa nostra e quindi l’unica via era quella di fare concessioni o almeno trattare con i vertici mafiosi un allentamento delle misure repressive.
Perché ciò che i fautori della tesi dell’accelerazione dimenticano è che se Riina si era determinato a compiere un delitto eclatante come la strage di Capaci era anche perché la situazione si era già fatta tanto insostenibile, per gli interessi mafiosi, a causa delle modifiche normative già varate e andate a regime nel corso del trascorso biennio, da rendere più che sopportabile il rischio che ad una nuova strage potesse fare seguito una reazione vibrante dello stato sul piano dell’intensificazione dell’azione repressiva: nella convinzione, tuttavia che un governo e una classe politica tutt’altro che solidi, in un contesto segnato dalla crisi irreversibile cui erano avviati i partiti della debole maggioranza quadripartita che sorreggeva il primo, sotto i colpi dell’inchiesta “Mani pulite” (mentre lo stesso governo era alle prese con altre emergenze, oltre a quella criminale, come la vertenza sul costo del lavoro nel quadro di una crisi economica e finanziaria da fare tremare le vene ai polsi, e aggravata dalla necessità di rispettare i parametri contenimento del deficit imposti dal trattato di Maastricht, che era stato siglato pochi mesi prima, e di mettere al più presto mano a riforme di struttura come quelle di previdenza e sanità, oltre alla privatizzazione degli enti delle partecipazioni statali e degli altri grandi enti pubblici economici) non avrebbero retto a lungo di fronte alla minaccia di ulteriori spargimenti di sangue e alla conclamata incapacità di difendere l’ordine pubblico e l’incolumità dei cittadini.
Come scrivono i giudici del processo (di primo grado) Borsellino ter, «La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione, ma l’evidenza dei fatti oggettivi conferma le dichiarazioni dei predetti collaboranti, secondo cui il sentimento prevalente in Cosa nostra era quello per cui anche la situazione preesistente alla strage di Capaci era inaccettabile per l’organizzazione, che quindi, non doveva limitarsi ad evitare ulteriori inasprimenti ma doveva spingere la sua offensiva sino alle estreme conseguenze, non fermandosi sino a quando non avesse raggiunto il suo scopo, la garanzia cioè che sarebbero state modificate tutte quelle nonne che consentivano un più incisivo contrasto del fenomeno mafioso. anche se ciò avrebbe potuto comportare per un certo periodo “dei sacrifici”». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Strage di Capaci, il punto di non ritorno per il “terrorista” di Corleone. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 15 novembre 2022
Una volta imboccata la strada dell’attacco armato di stampo terroristico per costringere lo stato a venire a più miti consigli, non c’era alternativa alla scelta di proseguire su quella strada, fino a quando lo stato non avesse ceduto o mostrato segni di cedimento
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Già nella seconda metà del 1990, ma ancor più nel periodo in cui Giovanni Falcone aveva ricoperto le funzioni di Direttore degli Affari Generali del ministero di Grazia e Giustizia, erano state varate, come già rammentato, una serie di misure e modifiche anche normative di straordinaria efficacia e incisività sul terreno della repressione del crimine mafioso, anche sotto il profilo dell’azione di prevenzione dei fenomeni di infiltrazione del tessuto economico ed istituzionale.
Basterà ricordare tra i provvedimenti più significativi il decreto legge 3 maggio 1991, n. 143, recante “misure urgenti per limitare l’uso dei contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio”, poi convertito con modifiche nella legge 5.7.1991, ii. 197; il D.l 13 maggio 1991, n. 152, contenente misure urgenti “in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, convertito con modifiche nella legge del 12.7.1991 n. 203, decreto questo con cui si introducevano rigorosi limiti alla possibilità per i condannati per delitti di criminalità mafiosa di usufruire della liberazione condizionale e delle altre misure alternative alla detenzione e si prevedeva un’aggravante ad effetto speciale per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall‘art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nonché un’attenuante pure ad effetto speciale per i reati di criminalità mafiosa, da applicare nei confronti di coloro che avessero fornito un contributo rilevante nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei predetti reati.
I DECRETI NORMATIVI
Quest’ultima norma assumeva un particolare rilievo nella produzione legislativa in materia di contrasto alla criminalità organizzata perché introduceva per la prima volta, dopo lunghe polemiche ed incertezze, lo strumento – già collaudato con straordinari risultati nella lotta al terrorismo – dell’incentivazione premiale alla collaborazione di associati alle organizzazioni di tipo mafioso, tradizionalmente chiuse verso l’esterno dal muro dell’omertà.
Particolarmente significativi erano, altresì, il D.l 31 maggio 1991 n. 164, recante “misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso”, convertito con modifiche nella legge 22.7.1991 n. 221; il D.l 9 settembre 1991 n. 292, recante “disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimento di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari non richiesti”, convertito con modifiche nella legge 8.11.1991 n. 356; il D.l 29 ottobre 1991, n. 345, poi convertito con legge 30.12.1991 n. 410, recante “disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata”, che tra (‘altro istituiva nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza la Direzione investigativa antimafia (Dta), con il compito di coordinare le attività di investigazione preventiva in materia di criminalità organizzata e di effettuare indagini di polizia giudiziaria per i delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili all’associazione medesima; il D.l 20 novembre 1991 n. 367, convertito con modificazioni nella legge 20.1.1992 n. 8, contenente norme di “coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”, che tra l’altro istituiva la Direzione Nazionale Antimafia (Dna), con il compito di promuovere e coordinare a livello nazionale le indagini per i reati summenzionati, che venivano attribuite in via esclusiva alle Direzioni distrettuali antimafia (Dda), una sorta di “pool” riconosciuto dalla legge, istituito presso le procure della Repubblica aventi sede nei capoluoghi di distretto; il D.l 31.12.1991 n. 419, relativo alla “ Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive”, convertito con modificazioni nella Legge 18.2.1992, n. 172; la Legge 18 gennaio 1992 n. 16, recante “norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali”, che prevedeva tra l’altro delle cause di ineleggibilità a determinati uffici pubblici locali di coloro che avessero riportato condanne o fossero imputati di determinati reati.
E insieme alla produzione normativa, un’efficace azione di contrasto si giovava anche di misure concrete di organizzazione degli uffici giudiziari più sensibili, come nel caso della turnazione nelle assegnazioni dei processi in materia di c.o. alle sezioni della corte di Cassazione o del monitoraggio delle decisioni della suprema corte elevate a sospetto; o il dichiarato appoggio alla candidatura di Giovanni Falcone a ricoprire l’incarico di procuratore Nazionale Antimafia.
A questo implacabile trend normativo era andato ad aggiungersi l’esito disastroso del maxi processo che aveva per così dire suggellato la rottura definitiva del tacito patto di non belligeranza o di pacifica coabitazione nei rapporti tra le organizzazioni mafiose e la Politica, stroncando qualsiasi residua speranza di poter beneficiare di coperture e connivenze che per anni avevano assicurato ai mafiosi l’impunità per i crimini commessi, o la possibilità di godere di dorate latitanze.
Invertire questo trend negativo ricorrendo alla principale risorsa strategica e la più congeniale ai metodi con cui i corleonesi erano usi regolare i loro affari e tutelare i propri interessi, senza tuttavia trascurare la ricerca di nuove alleanze politiche (e in tale direzione convergono le propalazioni di Cancemi, Brusca e Giuffrè), era divenuta quindi una scelta obbligata per Riina e i capi corleonesi che si stringevano attorno alla sua leadership. E qui affondava le sue radici la decisione dei vertici mafiosi di scatenare un’offensiva senza precedenti contro lo Stato e le Istituzioni.
LA STRATEGIA DEL TERRORE
Ebbene, la strage di Capaci, in quanto vero e proprio atto di guerra con evidenti valenze terroristiche, aveva segnato un punto di non ritorno di quell’offensiva.
Infatti, una volta imboccata la strada dell’attacco armato di stampo terroristico per costringere lo stato — che si presumeva ormai votato a incalzare le organizzazioni mafiosi con incisive misure normative e organizzative, ma pur sempre incapace di sopportare un costo di vite umane che ne avrebbe decretato il fallimento nella principale delle sue funzioni, e cioè quella di assicurare il rispetto dell’ordine pubblico e tutelare l’incolumità dei cittadini — a venire a più miti consigli, non c’era alternativa alla scelta di proseguire su quella strada, fino a quando lo Stato non avesse ceduto o mostrato segni di cedimento: pena il dover riconoscere, Riina e tutti i suoi luogotenenti, il fallimento di quella strategia, quando invece tra le ragioni che avevano indotto ad optare per l’uccisione di Falcone con modalità eccezionalmente eclatanti v’era anche quella di rilanciare, con una dimostrazione di forza senza precedenti, una leadership messa in discussione dall’esito disastroso del maxi processo e dagli effetti che cominciavano a farsi sentire delle misure varate dalla compagine governativa nel trascorso biennio (oltre all’insofferenza per i metodi autoritari di gestione dell’organizzazione che tre anni prima aveva prodotto una fronda interna stroncata nel sangue da Riina: il cd. complotto Puccio).
Sotto altro profilo deve convenirsi come possa ormai darsi per acquisito, all’esito dei tanti processi celebrati e definiti ormai con sentenze divenute irrevocabili, che a saldare la strage di via D’Amelio a quella di Capaci in un disegno criminoso unitario non fu solo la finalità ritorsiva – e cioè la vendetta da tempo covata contro due nemici “storici” di Cosa nostra – essendo i due eventi delittuosi accomunati anche dall’ulteriore finalità di ricatto allo stato.
Nel senso che si voleva esercitare sul governo e sulla classe politica, mediante reiterate esplosioni di inaudita violenza, una pressione tale da costringere lo Stato a venire a più miti consigli, e a recedere da quella Linea dura a cui Cosa nostra avrebbe opposto reazioni sempre più vilente e sanguinose, dimostrando di averne la capacità di metterle in atto (e su ciò convergono le propalazioni dei collaboratori di giustizia sia palermitani, come Cancemi, Brusca, Giuffrè, Cucuzza, o trapanesi, come Sinacori, che catanesi, come Malvagna, Pulvirenti e Avola), e in particolare a fare concessioni significative sui temi di maggiore interesse per gli affiliati mafiosi: la revisione del maxiprocesso,
L‘allentamento della stretta carceraria mediante l’ampliamento delle possibilità di accesso per i mafiosi ai benefici della Legge Gozzini, la revisione in senso più restrittivo della legislazione sui collaboratori di giustizia, e di quella in materia di misure di prevenzione, con riferimento ai sequestri e alle confische dei beni dei mafiosi erano già allora gli obbiettivi che stavano più a cuore dei mafiosi.
Ora, se ciò è vero, come ci dicono tanti processi e relative sentenze definitive, e lo confermano le prove testimoniali raccolte anche nel presente processo, allora una nuova manifestazione di terrificante potenza che facesse seguito nel più breve tempo possibile a quella esibita con la strage di Capaci, colpendo al pari di questa e con modalità altrettanto eclatanti un altro simbolo vivente della lotta dello stato a Cosa nostra, non solo era funzionale a quella strategia, ma ne costituiva il più naturale, logico e quindi anche prevedibile sbocco.
Come scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, nel processo “Borsellino ter”, «in sostanza può senz’altro affermarsi che la ragionevole prevedibilità della strage di via D’Amelio non è frutto di un giudizio formulato a posteriori, giacché le stesse modalità dell’attentato di Capaci avrebbero dovuto rendere palese che, nel mirino di Cosa nostra, c’erano i magistrati che l’avevano affrontato con maggiore determinazione, tra cui, in prima linea, Paolo Borsellino, naturale erede di Giovanni Falcone, ed ideale continuatore della linea da lui tracciata».
Ed il primo ad esserne convinto, tanto da sentire di avere i giorni se non le ore contati, con la lucida consapevolezza che gli derivava probabilmente anche dalla profonda conoscenza della logica e del mondo di Cosa nostra, era proprio Paolo Borsellino: come è emerso, in effetti, dalle drammatiche testimonianze dei familiari e dei colleghi di lavoro a lui più vicini, odi soggetti con i quali aveva avuto negli ultimi tempi contatti per ragioni legate al suo lavoro.
Spiccano su tutte le dichiarazioni rese dalla Signora Agnese Piraino Leto già nel primo processo (“Borsellino Uno”) su via D’Amelio, e riportate in diverse sentenze acquisite, secondo cui «mio marito era preoccupatissimo e mi diceva sino a quando ci sarà Giovanni vivo mi farà da scuso, Giovanni è morto ed era sì, molto, molto preoccupato. Mi diceva ‘faccio una corsa contro il tempo, devo lavorare, devo lavorare tantissimo, se mi fanno arrivare.... Io ho capito tutto della morte di Giovanni...».
E non meno drammatiche le testimonianze dei colleghi a dire dei quali dopo la strage di Capaci, il dott. Borsellino si definiva come “un morto che cammina”, o addirittura evitava di farli salire in auto con lui per evitare loro rischi inutili.
Ve n’è un’eco precisa anche in questo processo nelle parole di Fernanda Contri, la quale rammenta che, quando si videro con Borsellino circa 15 giorni prima della sua morte, le disse che stava facendo avanti e indietro dalla Germania, per sentire nuovi pentiti; e le raccomandò di caldeggiare presso il Presidente del Consiglio le proposte e i disegni di legge che riguardavano i collaboratori di giustizia, sottolineando che aveva molta premura. […]. E le stesse annotazioni sull’agenda di lavoro del magistrato trucidato con la sua scorta, incrociate alle testimonianze dei colleghi, documentano eloquentemente il ritmo incalzante e persino frenetico con cui si susseguirono i suoi impegni professionali (a far data in particolare dal 25 giugno, e comprese due trasferte a Roma per andare a sentire due nuovi penti, e una trasferta in Germania, sempre per andare a sentire nuovi pentiti).
D’altra parte, è di tutta evidenza che Paolo Borsellino non era solo uno dei tanti obbiettivi da colpire, ma fu fin dall’inizio dell’offensiva stragista che era stata varata nel corso delle riunioni della Commissione provinciale e della commissione regionale di Cosa nostra tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92, uno degli obbiettivi principali di quella campagna di morte e di terrore.
E Paolo Borsellino diventa il nemico numero uno per i boss mafiosi. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 16 novembre 2022
Secondo il pentito Nino Giuffré, ci furono sondaggi prima delle stragi, effettuati con persone importanti del mondo economico e politico. E sia Falcone che Borsellino erano pericolosi non solo per Cosa nostra, ma anche per quegli ambienti politici e imprenditoriali che erano interessati a convivere pacificamente e proficuamente con Cosa nostra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ed è altrettanto evidente che, dopo l’eliminazione del giudice Falcone, il dott. Borsellino era divenuto l’obbiettivo primario, anche, ma non soltanto, per il valore simbolico associato alla sua figura; ed era lui stesso il primo, come s’è visto ad averne consapevolezza.
Sicché l’assunto secondo cui un intervallo di 57 giorni era troppo breve per non tradire qualche evento sopravvenuto medio tempore che imponesse di affrettare i tempi, potrebbe essere rovesciato nel suo esatto contrario: era un intervallo di tempo anche troppo lungo, se è vero, come pure è provato, che Cosa nostra aveva la capacità e i mezzi per sferrare un secondo micidiale colpo contro colui che, nell’immaginario mafioso, ne era divenuto, dopo la morte di Falcone, “il nemico numero uno”.
LE DICHIARIAZIONI DI CANCEMI E LA “FRETTA” DI RIINA
E allora ciò basterebbe a spiegare la fretta che secondo Cancemi trapelava dai toni perentori con cui Riina, in quella riunione (ristretta) che il dichiarante colloca nell’ultima decade di giugno ‘92, e nel corso della quale si ripeté il nome di Borsellino tra gli obbiettivi da colpire, ebbe a rammentare a Faluzzo (cioè a Raffaele Ganci, capo della famiglia mafiosa della Noce, i cui uomini sarebbero stati poi impiegati nelle attività preparatorie e poi nel pattugliamento delle zone di interesse per l’esecuzione del delitto) che “la responsabilità è mia”, alludendo alla necessita di procedere senza indugio all’uccisione di Borsellino «E quindi io mi ricordo in quella riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, quindi la cosa più forte che mi è rimasto è che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c'era là, con Riina e io c'ho sentito dire: “La responsabilità è mia”. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: “Questo ci... ci vuole rovinare a tutti”, quindi la cosa era... il riferimento era per il dottor Borsellino […] Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa... di una cosa veloce, aveva.., io avevo intinto questo, che il Rima questa cosa la doveva.., la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno».
Lo stesso Cancemi dà, di quella premura, una lettura diversa e non del tutto, anzi, per nulla convergente con le conoscenze sciorinate da Giovanni Brusca circa ragioni e finalità che accomunavano le due stragi. Ma anche l’espressione testuale profferita da Riina e che tanto aveva impressionato Cancemi (“La responsabilità è mia”) poteva essere, molto più semplicemente, un modo per tagliare corto, rispetto alle perplessità magari anche solo tacitamente manifestate dal Ganci, facendogli presente che era sua la responsabilità di quella scelta (cioè di agire subito) e quindi non c’era da discutere.
Di contro, attendere per un tempo indefinito avrebbe diluito l’effetto di sgomento e smarrimento prodotto dalla strage di Capaci, consentendo sia all’opinione pubblica che allo stato di assorbire il colpo; e dando al Governo e agli apparati di polizia il tempo di serrare le fila e attrezzarsi per una risposta adeguata, con la conseguenza di rendere più difficoltosa l’esecuzione della nuova strage e meno efficace il suo effetto intimidatorio.
È plausibile poi che lo straordinario successo (“successo” ovviamente per i mafiosi) dell’impresa di Capaci, e la debolezza della reazione da parte dello stato che è attestata dalle polemiche esplose fin dalle prime ore successive all’eccidio di via D’Amelio (che porteranno a indignate proteste e denunce di gruppi politici, associazioni della società civile, organizzazioni sindacai, semplici cittadini, oltre a varie iniziative di protesta dei magistrati: v. infra) e che sono documentate dalle cronache del tempo, abbiano concorso, unitamente alla sicurezza che derivava ai corleonesi dall’impunità immancabilmente seguita ai tanti delitti eccellenti, stragi comprese, che avevano commesso in precedenza ed anche in anni non lontani, a rafforzare la convinzione e la previsione di Riina — una previsione che i fatti si sarebbero di lì a poco incaricati di smentire — che un secondo mortale colpo, lungi dal provocare una reazione veemente da palle dello stato, ne avrebbe stroncato ogni velleità di resistenza alla violenza mafiosa e lo avrebbe ridotto in ginocchio, ancora di più di quanto non lo fosse già dopo Capaci.
Insomma, se di una guerra si trattava, bisognava incalzare il nemico fino a quando non avesse ceduto, o almeno non avesse manifestato segni di cedimento mostrandosi disponibile a negoziare la pace. Proprio come recitava il proposito che, parafrasando il noto brocardo latino, Filippo Malvagna attribuisce a Riina e che riassume l’essenza della strategia stragista ordita dai corleonesi: qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace (frase che suona come un’evidente parafrasi del noto brocardo latino, facendo persino pensare a un’intelligenza più raffinata di quella di Riina come fonte d’ispirazione e che lo stesso Riina avrebbe pronunziato, secondo quanto il Malvagna dice di avere appreso dallo zio, Pulvirenti Giuseppe, in occasione della riunione della Commissione regionale di Cosa nostra, tenutasi ad Enna all’inizio del 1992).
"CI VOLEVANO I MORTI”
E le modalità eclatanti di commissione del delitto in questione, tali da provocare spargimenti di sangue, non importa se anche a danno di vittime innocenti, non erano solo funzionali a massimizzare il terrore della violenza mafiosa e dare prova della terrificante potenza di cui Cosa nostra era capace, perché (al contrario di quanto può ritenersi per le stragi in continente) “ci volevano i morti”, per costringere lo stato a trattare: come abbiamo appreso dalla viva voce di Salvatore Riina, nella conversazioni intercettata il 18 agosto 2013 al carcere di Opera [...].
Se poi è vero che le previsioni di Riina furono un calcolo sbagliato sull’intensità della reazione che lo stato, ma anche l’opinione pubblica sarebbero stati in grado di opporre alla violenza mafiosa, è possibile che a questo clamoroso errore di calcolo abbiano concorso altri fattori, oltre a quelli già accennati, come la debolezza congenita del Governo Amato e le impegnative emergenze che si trovava simultaneamente ad a fronteggiare.
E tra questi fattori, anche le rassicurazioni che già prima della strage di Capaci sarebbero state date a Riina dai personaggi influenti con cui egli si era incontrato nel periodo di gestazione di quella strage, secondo il breve cenno che ne fece Cancemi nell’interrogatorio del 15 marzo 1994.
Un racconto succinto che non sembra lasciare spazio alla conoscenza da parte dello stesso Cancemi di chi fossero quegli autorevoli personaggi; e che deve quindi vagliarsi al netto di tutti i dubbi sull’attendibilità delle tardive rivelazioni che avrebbe fatto solo alcuni anni dopo, quando indicò i nomi di Berlusconi e Dell'Utri a proposito dell’identità degli autorevoli personaggi del mondo politico e imprenditoriale da cui Riina avrebbe ricevuto la garanzia che si sarebbero impegnati a portare a buon fine le istanze di Cosa nostra. E tuttavia, residua da quel racconto la certezza, condivisa da Riina con i suoi più fedeli luogotenenti proprio in ragione dei rapporti che lo legavano a non meglio specificati personaggi influenti esterni a Cosa nostra, che lo stato non avrebbe reagito.
Anche se, sempre Cancemi, è stato altrettanto chiaro nel precisare che quella convinzione era circoscritta a Riina e a quello che all’epoca poteva definirsi come il suo cerchio magico di capi mandamento più fedeli e sanguinari, mentre tra le fila del popolo d Cosa nostra serpeggiavano dubbi e preoccupazioni: […]. E che una qualche forma di rassicurazione — o più d’una — fossero state date a Riina, e allo stesso Provenzano prima delle due stragi, lo lascia intendere anche Antonino Giuffré’. Questi, all’udienza del 28.11.2013, alla domanda se gli risultasse che Cosa nostra, prima di accingersi a delitti eccellenti come quelli di Falcone e Borsellino, si preoccupasse di verificare le possibili ripercussioni di delitti del genere in ambienti qualificati ed estranei a Cosa nostra, ha dato una risposta eloquente, sottolineando come la commissione di un delitto eccellente, soprattutto quando siano in gioco rilevanti interessi economici che vanno oltre Cosa nostra per investire importanti ambienti imprenditoriali, richiede una preliminare verifica del grado di isolamento (alludendo all’isolamento all’interno delle istituzioni) del soggetto da colpire: «Quando si parla di isolamento degli individui che poi devono essere colpiti, è sotto inteso che c’è tutto un lavoro antecedentemente prestabilito per quanto riguarda un determinato omicidio eccellente.
Appositamente viene sempre più montata la pericolosità non solo nel contesto mafioso, ma in oggetto a questi discorsi che, in modo particolare stiamo parlando di interessi economici che vanno oltre gli interessi di Cosa nostra, che vanno nel mondo imprenditoriale, diciamo che è un discorso portato avanti di isolamento, di delegittimazione da parte degli interessati, quali il dottore Falcone, il dottore Borsellino o anche altri delitti più o meno eccellenti. C’è un discorso di isolamento e poi vengono... quando si reputa che questo lavoro è stato fatto bene, viene eseguita la sentenza».
“SONDAGGI PRELIMINARI” CON PERSONE IMPORTANTI
Ma ancora più esplicito era stato al “Borsellino quater”, parlando di sondaggi preliminari, effettuati con persone importanti del mondo economico e politico. E sia Falcone che Borsellino, scrivono i giudici del Borsellino quater richiamando le dichiarazioni di Giuffré, erano pericolosi non solo per Cosa nostra, ma anche per quegli ambienti politici e imprenditoriali che erano interessati a convivere pacificamente e proficuamente con Cosa nostra, facendo lucRosi affari con i mafiosi. E non era estraneo a questa “contaminazione” il mondo delle professioni, con le più disparate categorie di persone (come commercialisti, medici, professori e, aggiunge Giuffré, servizi più o meno deviati).
Questi “sondaggi” preliminari suscitarono la convinzione che Falcone e Borsellino fossero personaggi scomodi ed invisi anche alloro mondo, e quindi “isolati” [...]: ciò che rendeva più facile colpirli, perché si poteva fare affidamento sul fatto che la loro uccisione non avrebbe scatenato una
reazione vibrante. E se nella decisione di eliminare i due magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento, scrivono ancora i giudici del Borsellino quater, attingendo ancora alle dichiarazioni del Giuffré, «La stessa strategia terroristica di Salvatore Rima traeva la sua forza dalla previsione (rivelatasi poi infondata anche a causa della paura insorta in buona parte del mondo politico e della conseguente reazione dello stato) che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla normalità. L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento. che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino. e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».
D’altra parte, se tra gli obbiettivi perseguiti da Riina, per quanto potesse sembrare irrealistico realizzarlo, v’era anche la revisione delle condanne del maxi processo, e più in generale un ammorbidimento delle misure di contrasto alla mafia, sarebbe stato arduo che il Governo o singoli esponenti politici potessero caldeggiare proposte di modifiche del quadro normativo a favore di Cosa nostra fino a quando fossero rimasti in vita Falcone e Borsellino, con il loro carisma e la loro ferrea volontà di portare avanti senza cedimenti di alcun genere la lotta alla mafia. Motivo di più per legare l’uccisione di Borsellino in rapporto di consecuzione logico-temporale a quella di Falcone, nel senso che il successo della strage di Capaci non sarebbe stato pieno se e fino a quando alla morte di Falcone non avesse fatto seguito quella di Borsellino.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le ultime settimane prima della strage, l’atto di accusa di un giudice solo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 17 novembre 2022
Borsellino in pratica enunciava di essere a conoscenza di fatti specifici e in possesso quindi di concreti elementi probatori per fare luce sulla strage di Capaci; e che era pronto a metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria nissena che stava conducendo l’indagine. Si intuiva che non era stato ancora sentito, a distanza di un mese dai fatti, dagli inquirenti...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Detto questo, deve però concedersi che, nei giorni e nelle settimane successive alla strage di Capaci, e fino a quell’ultima decade di giugno-primi di luglio cui può farsi risalire l’avvio sul piano operativo dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio, sono certamente avvenuti fatti e maturate circostanze che potrebbero avere vieppiù corroborato il convincimento di Riina e dei capi corleonesi a lui più vicini che non vi fossero motivi validi per procrastinare ancora la concreta esecuzione di una deliberazione di morte che era stata da tempo adottata nei riguardi del dott. Borsellino; e che anzi fosse il caso di procedervi senza ulteriore indugio.
S’è detto delle ripetute esternazioni, sia pure in ambienti ristretti e legati al circuito delle sue relazioni professionali, del suo interesse per l’indagine mafia e appalti, culminato con l’incontro del 25 giugno 1992 alla caserma Carini con Mori e De Donno (per organizzare il quale s’era adoperato il suo più stretto collaboratore dell’epoca, l’allora M.llo Canale, che poi sarà processato — e assolto — per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa).
Ma già era stato motivo di allarme per Cosa nostra il trasferimento del dott. Borsellino alla procura di Palermo, a partire da gennaio, con l’incarico di procuratore Aggiunto e l’immediato inserimento — che ne aveva costituito la ragione principale della domanda di trasferimento — nella Dda che era stata istituita con D.L: 20 novembre 1991, n. 367, conv. con modificazioni in L. 20 gennaio 1992, n. 8 (“norme di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”): essendo le Direzioni Distrettuali Antimafia una sorta di pool di magistrati, previsto dalla legge e istituito presso le Procure della Repubblica aventi sede nei capoluoghi di distretto cui veniva attribuita in va esclusiva la competenza per i reati di c.o., dei quali quindi il dott. Borsellino non avrebbe più potuto occuparsi restando alla procura di Marsala.
E sebbene dal procuratore Giammanco egli avesse ricevuto la delega ad occuparsi solo dei procedimenti per reati di mafia commessi nei territori di Trapani e Marsala, competenza poi estesa anche al territorio di Agrigento e Sciacca (che meglio conosceva in ragione della sua pregressa attività come procuratore capo a Marsala) egli non aveva tardato ad imporsi come punto di riferimento per le indagini nel settore della criminalità organizzata, in ragione del prestigio e della competenza e delle conoscenze acquisite già come componente del pool che aveva istruito il maxi processo, sia all’interno dell’ufficio – soprattutto per i colleghi più giovani – che all’esterno.
La morte di Falcone, come già accennato, lo aveva automaticamente caricato, anche nell’immaginario collettivo, del ruolo di suo naturale erede nella lotta alla mafia. E lui stesso non aveva fatto mistero della sua determinazione a proseguirne l’opera, e a venire a capo della causale della sua uccisione, partendo proprio dai filoni d’indagine che avevano maggiormente assorbito l’attenzione e l’impegno di Giovanni Falcone negli ultimi periodi di servizio alla procura di Palermo, prima di trasferirsi al ministero di Grazia e Giustizia a Roma per andare a dirigere l’ufficio della direzione generale Affari penali.
L’EREDE DI GIOVANNI FALCONE
A questo fattore di sovraesposizione si aggiunse una sorta di investimento istituzionale sulla sua figura. Il 28 maggio ‘92, in occasione della presentazione dell’ultimo libro del sociologo Pino Arlacchi (La mafia imprenditrice) in una nota libreria di Roma, l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti espresse il convincimento che Paolo Borsellino fosse il candidato più idoneo a ricoprire la carica di procuratore Nazionale Antimafia.
E il ministro della Giustizia Martelli fece anche di più, chiedendo al C.S.M. di riaprire i termini per la presentazione delle candidature a quell’incarico, per consentire la partecipazione al concorso di quei magistrati che, essendo ancora in vita Falcone, avevano ritenuto di non presentare domanda perché convinti che la candidatura di Falcone fosse la migliore.
Borsellino si affrettò a declinare l’incarico, ma lo fece con lettera privata — contro il parere di alcuni colleghi a Lui particolarmente vicino che gli avevano segnalato con viva preoccupazione il surplus di pericolo che poteva provenire da quella pubblica investitura e perciò gli avevano consigliato di rendere pubblico il suo rifiuto – lettera che però venne resa nota dallo stesso Scotti solo dopo la morte del magistrato.
Nel frattempo, in un crescendo che non sfuggì all’attenzione dei colleghi che gli erano più vicini, e compatibilmente con i ritmi frenetici di lavoro che si era imposto, il dott. Borsellino, nelle settimane successive alla barbara uccisione dell’amico e collega Falcone, in deroga al rigoroso riserbo cui si era in precedenza attenuto, non aveva lesinato esternazioni in pubblico sui temi della lotta alla mafia, denunciando, a partire dall’isolamento e dagli ostacoli frapposti anche all’interno dell’ambiente giudiziario che avevano amareggiato l’ultimo periodo di servizio di Falcone quale procuratore Aggiunto, le vischiosità e le connivenze annidate all’interno delle istituzioni.
Ne fanno fede le dichiarazioni rese nel corso dell’audizione dinanzi il Csm e versate in atti dalla dott.ssa Sabbatino, all’epoca magistrato in servizio alla procura di Palermo e legata da personale amicizia a Paolo Borsellino […] La stessa dott.ssa Sabbatino precisava però che Paolo Borsellino aveva cambiato bruscamente atteggiamento dopo che, sul giornale di Sicilia del 30 giugno 1992 erano state estrapolate alcune dichiarazioni che aveva reso nella precedente intervista a proposito dei contrasti insorti tra Falcone e Giammanco: forse proprio perché in quell’articolo, che, a partire dal titolo (“Non fu per i contrasti con Giammanco che Falcone andò via dalla procura”) dava risalto a quelle dichiarazioni, benché avessero impegnato una parte minima dell’intervista, era stato travisato il suo pensiero al riguardo; o forse perché sempre più assorbito dal lavoro e consapevole di avere i giorni contati, o perché timoroso di partecipare a eventi pubblici, per essere lui stesso una fonte di rischio per chi gli stesse vicino: “Fatto sta che da allora, Paolo, e dopo questa pubblicazione anche falsata dell‘intervista che avviene poi il 30 giugno, non interviene più da nessuna parte, nessun incontro, proprio cambia totalmente atteggiamento, a differenza del primo mese successivo alla strage di capaci, in cui era presente ovunque, lui approfittava anche di una commemorazione in una chiesa per parlare... ovunque, lui non parla più, in pubblico non dice più titilla e mi disse che quello era un momento particolare e che aveva in corso indagini delicate, quindi io, mi parlò di alcuni pentiti, siamo nei primi giorni di luglio...”.
Ma quel ritrarsi da esternazioni in pubblico poteva anche spiegarsi con la preoccupazione di non dare la stura a polemiche che avrebbero potuto danneggiare le indagini, che erano la cosa che più gli premeva in quel momento, e che registravano un’eccezionale intensificazione del suo impegno di lavoro: [...].
LE ULTIME INTERVISTE DI BORSELLINO
Ma soprattutto, con interviste rilasciate ai giornali, o la partecipazione a eventi pubblici (almeno fino a quando non si inabissò, secondo il ricordo della dott.ssa Sabbatino nel lavoro di indagine), Paolo Borsellino aveva fatto appello alla coscienza dei cittadini, e al comune desiderio di libertà per sensibilizzare le forze sane della società civile a ribellarsi alla prepotenza mafiosa; e questo impegno, intensificatosi proprio nel mese di giugno, di pubblica di sensibilizzazione della collettività siciliana e nazionale sui terni della lotta alla mafia, ne aveva implementato la statura di figura iconica ed erede di Falcone nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Al contempo, egli aveva ripetutamente e pubblicamente manifestato il proposito di impegnarsi concretamente a fare luce sulle vere ragioni che avevano indotto Cosa nostra a progettare e attuare l’attentato di Capaci — come ricorda Giovanni Brusca, non occorrevano talpe o fonti confidenziali per venire a conoscenza di tale proposito, perché il dott. Borsellino lo gridava pubblicamente - dopo che era stato commesso un delitto come l’omicidio Lima, che, in una valutazione condivisa da Borsellino con Giovanni Falcone, aveva segnato la rottura violenta, e quindi carica di valenze strategiche, di un atavico e scellerato connubio tra l’organizzazione mafiosa e uno dei più potenti ed influenti esponenti politici siciliani, ancora accreditato del ruolo di leader della corrente andreottiana in Sicilia.
E se aveva rinunciato a chiedere di essere applicato alla procura della Repubblica di Caltanissetta per seguire direttamente le indagini sulla strage, già incardinate presso quell’Ufficio giudiziario, tuttavia, come puntualmente evidenziato dai giudice del “Borsellino ter”, «Borsellino aveva manifestato pubblicamente la propria volontà di collaborare a quell’inchiesta. riversando sui magistrati che ne erano titolari il cospicuo patrimonio di conoscenze che gli derivava sia dalla esperienza professionale che dalle confidenze raccolte da Falcone in occasione dei frequenti ed anche recenti incontri con lo stesso. Tale intento Borselino aveva, ad esempio, esternato in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, comunicando il proprio rammarico per non poter seguire direttamente l’indagine perché in ciò avrebbe “trovato un lenimento al mio dolore, così come era successo per l’omicidio del capitano Emanuele Basile” ed asserendo che sarebbe comunque andato a Caltanissetta “come testimone” per riferire al procuratore “fatti, episodi, circostanze, gli ultimi colloqui avuti con Falcone”».
IL DISCORSO DI CASA PROFESSA
In alcune delle sentenze versate in atti sono riportati ampi stralci del toccante discorso pronunciato dal dott. Borsellino la sera del 25 giugno 1992 in occasione della commemorazione della morte di Falcone tenutasi all’atrio della Biblioteca Comunale (Casa Professa) a Palermo.
In tale occasione, egli tra l’altro ribadì la propria convinzione di essere in possesso di concreti elementi probatori che avrebbero potuto contribuire a fare luce sulla strage di Capaci; e di essere pronto a rappresentare, nella veste di testimone, alla competente A.g. non già ciò che pensava, ma ciò che sapeva sui fatti sottesi al tragico evento sfociato nella morte di Giovanni Falcone («In questo momento inoltre, oltre a magistrato, io sono testimone, sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza cli lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto.... degli elementi probatori che porto dentro di me, io debbo per prima cosa rappresentarli all’autorità giudiziaria che è l’unica in grado cli valutare quanto queste cose che io so, non che io penso, che io so, possono essere utili alla ricostruzione dell‘evento che pose fine alla vita di Giovanni Falcone...»).
Non serve spendere parole di commento per significare l’effetto di sovraesposizione prodotti da simili coraggiose esternazioni. Borsellino in pratica enunciava di essere a conoscenza di fatti specifici e in possesso quindi di concreti elementi probatori per fare luce sulla strage di Capaci; e che era pronto a metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria nissena che stava conducendo l’indagine. Se ne inferiva inoltre che non era stato ancora sentito, a distanza di un mese dai fatti, dagli inquirenti; ma che era pronto e ansioso di farlo.
Era quindi altresì prevedibile, dopo quelle pubbliche esternazioni cui aveva fatto seguito un immediato e notevole risalto mediatico (v. articolo pubblicato su Repubblica del 27 giugno, dal titolo “L’atto di accusa di Borsellino”) che quanto prima sarebbe stato finalmente sentito da magistrati nisseni nella veste di persona informata sui fatti (in effetti, secondo quanto ebbe poi a confermare il dott. Giordano, pubblico ministero di Caltanissetta, il dott. Borsellino doveva essere sentito a inizio della settimana successiva al 19 luglio).
V’è poi traccia in atti di altre interviste ai giornali, non solo locali, (come quella pubblicata sulla Gazzetta per il Mezzogiorno il 3 luglio 1992, sugli scenari mafiosi in atto e l’ipotesi di una crescente anche se ancora latente conflittualità tra i due capi corleonesi, Riina e Provenzano, descritti come due pugili che si fronteggiano su un ring); dell’intervento nell’ambito di “Lezioni di mafia”, registrato presso il centro Rai di Palermo la mattina del 26 giugno e la contestuale intervista rilasciata al giornalista Antonio Prestifilippo, pubblicata su Il Mattino di Napoli (v. ancora audizione della dott.ssa Sabbatino dinanzi il Csm); ed ancora di altra intervista al giornalista Attilio Bolzoni pubblicata su il Venerdì di Repubblica, del 22 maggio, nella quale il magistrato si sofferma sulle peculiarità, legate al ruolo pervasivo della criminalità organizzata, che contraddistinguono, in Sicilia e nel Meridione in genere, i fenomeni di corruzione e concussione o comunque di uso spregiudicato del denaro pubblico che sono diffusi in tutto il territorio nazionale: peculiarità che ostacolano lo sviluppo delle indagini (“Ecco perché a Palermo è più difficile scoprire certi affari: perché incontriamo le stesse difficoltà investigative che troviamo quando indaghiamo su fatti di mafia”).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quell’ultima intervista su Berlusconi e lo stalliere Vittorio Mangano. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 18 novembre 2022
Nei giorni 18,19 e 21 maggio — e quindi appena due giorni prima della strage di Capaci – Borsellino rilascia una lunga intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi. L’intervista verteva sulla ricostruzione della marcia di avvicinamento di Cosa nostra ai circuiti dell’alta finanza, cominciata nei primi anni ‘70 quando si pose il problema di riciclare e reinvestire l’enorme massa di denaro provento soprattutto del narcotraffico gestito da Cosa nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Nei giorni 18,19 e 21 maggio — e quindi appena due giorni prima della strage di Capaci – Borsellino rilascia una lunga intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi (che lo aveva conosciuto tramite il Consigliere Rocco Chinnici e poi l’aveva incontrato nuovamente nel 1989, ricevendone indicazioni e notizie utili per il suo libro inchiesta “Vita quotidiana della mafia dal 1950 ad oggi, edito da Rizzoli).
L’intervista viene registrata con l’ausilio di una troupe televisiva di cui fa parte anche il regista produttore Jean Pierre Moscardo, (celebre per avere realizzato le ultimi immagini fumate della precipitosa fuga degli americani da Saigon nel 1975, nonché per il film documentario “Charter per l’inferno, sul fenomeno della droga e relativo indotto illecito); e avrebbe dovuto andare in onda sull’emittente televisiva francese Canal plus nell’ambito del docufilm di cui era autore il predetto Moscardo sugli affari della mafia.
L’intervista verteva sulla ricostruzione della marcia di avvicinamento di Cosa nostra ai circuiti dell’alta finanza, cominciata nei primi anni ‘70 quando si pose il problema di riciclare e reinvestire l’enorme massa di denaro provento soprattutto del narcotraffico gestito da Cosa nostra. In questa vicenda un ruolo importante sarebbe stato ricoperto da Vittorio Mangano, che tramite Marcello Dell’Utri era stato assunto alle dipendenze di Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore milanese in ascesa.
E Borsellino si soffermava sui trascorsi criminale del Mangano, precisando però che, quanto ai rapporti con Berlusconi era una vicenda di cui non si era occupato e quindi non si sentiva autorizzato a dire nulla, essendoci indagini in corso (“Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla....so che c’è un‘inchiesta ancora aperta”).
Pur insistendo nella necessità di astenersi da riferimenti a nominativi specifici, sul fenomeno generale dell’evoluzione di Cosa nostra nel senso di una progressiva penetrazione nei circuiti dell’economia legale, per l’esigenza di gestire una massa enorme di capitali di provenienza illecita, Borsellino dichiara che «questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente per questa ragione cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo da poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
E alla domanda se trovasse normale che Cosa nostra si interessasse a Berlusconi, rispondeva: «È normale che il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente, questa esigenza, questa necessità per la quale l’organizzazione criminale ad un certo punto della stia storia si è trovata di fronte, è stata portata ad una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare tino sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
Quanto a Mangano, già da due decadi operava a Milano ed aveva attività commerciali, sicché «è chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa nostra, in grado di gestire questi rapporti».
L’intervista si chiudeva con la consegna di alcuni fogli consultati nel corso della stessa, ricavati dalla stampa del file contenuto nel computer del magistrato e in essi comparivano i nomi dei personaggi citati (Mangano, Dell'Utri, Berlusconi, Rapisarda Alamia). Alla domanda su quando sarebbe finita l’inchiesta ancora aperta di cui aveva fatto cenno, Borsellino rispondeva: «Entro ottobre di quest’anno».
UN DOCUFILM MAI ANDATO IN ONDA
Ebbene, il docufilm di Moscardo non sarà mai realizzato per motivi a tutt’oggi non del tutto chiariti. L’intervista invece venne pubblicata in Italia, ma solo due anni dopo, nel marzo del 1994, in un lungo reportage de L’Espresso (“Borsellino, il testo dell‘intervista, Un cavallo per Marcello”: cfr. produzione documentale del pm). Né vi sono elementi per ritenere che Cosa nostra ne fosse venuta a conoscenza in tempo reale, o comunque prima che, a dire di Brusca, lui stesso ebbe modo di leggere quel reportage su L’Espresso.
Infine, nel mese di giugno trapela la notizia di due nuovi collaboratori di peso, come Leonardo Messina e Gaspare Mutolo. Entrambi chiederanno — sollevando un vespaio di polemiche e di tensioni all’interno della procura di Palermo di essere sentiti da Paolo Borsellino, che il 28 giugno confiderà alla dott.ssa Ferraro la sua amarezza e preoccupazione per la decisione del procuratore Giammanco di assegnare il fascicolo relativo alle indagini legate alle rivelazioni di Mutolo ad altri magistrati del suo Ufficio: decisione rientrata già alla fine di giugno, forse anche grazie alla mediazione della dott.ssa Ferraro che incontrò personalmente il procuratore di Palermo per sponsorizzare la designazione di Borsellino. E a partire dal 1° luglio, inizieranno gli interrogatori sia di Mutolo che di Messina condotti dal dott. Borsellino insieme al collega Aliquò e poi ai sostituti Lo Forte e Natoli.
E deve convenirsi (ancora una volta con quanto scrivono i giudici del Borsellino ter: v. pag. 591 della sentenza in atti) che l’allarme suscitato in Cosa nostra dalle esternazioni del dott. Borsellino non poteva che lievitare, atteso il più che fondato timore che egli potesse nuovamente ripetere, dall'alto della sua esperienza e capacità e grazie alle più recenti acquisizioni probatorie che i predetti consentivano, le fruttuose inchieste che avevano portato al primo maxi processo.
D’altra parte, Riina e i suoi fedelissimi non potevano essere certi di quale fosse il livello di conoscenza di vicende delittuose e retroscena che i due nuovi pentiti avrebbero potuto riversare sul magistrato più esperto e capace in tema di indagini antimafia; né potevano sapere che le rivelazioni più immediate e scottanti avrebbero riguardato, per ciò che concerneva Mutolo, personaggi delle istituzioni, accusati di infedeltà, collusioni mafiose o comportamenti inappropriati, e non sodali dell’organizzazione mafiosa e delitti di particolare gravità commessi da Cosa nostra (sicché non appare conducente l’argomento addotto dal giudice di prime cure per confutare la rilevanza delle notizie filtrate sulle due nuove collaborazioni come fattore che può avere concorso a rompere gli indugi nel dare esecuzione alla strage Borsellino).
Ebbene, nessuno degli eventi sopra richiamati appare così decisivo da potere sconvolgere i piani di Riina o una ipotetica tabella di marcia degli attentati in programma; e tuttavia essi nel loro insieme erano certamente idonei, come detto. A rafforzare il convincimento che si dovesse dare concreta esecuzione alla decisione di uccidere Borsellino senza immorare oltre.
LA STRAGE DI VIA D’AMELIO E LA TRATTATIVA CIANCIMINO-ROS
Tirando le fila dell’excursus che precede, può così concludersi sul punto in esame. È possibile, ma non è provato, che Riina sia stato informato poco prima della strage di via D’Amelio dell’invito proveniente da emissari istituzionali ad allacciare un dialogo per fermare l’escalation di violenza mafiosa.
Ma anche se così fosse, l’operazione Borsellino era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello stato si erano fatto sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani.
Anzi, egli ne trasse un incoraggiamento ad andare avanti, non perché non fosse interessato alla proposta di avviare un negoziato, ma perché, pur volendo raccogliere tale sollecitazione, ritenne, non del tutto irragionevolmente, che una nuova terrificante dimostrazione di (onni)potenza distruttiva da parte di Cosa nostra avrebbe giovato alla sua causa, consentendogli di trattare da una posizione di forza e fiaccando ogni residua velleità dello stato di opporsi alle sue pretese.
È però possibile, ed anzi assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del Ros e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa.
Ebbene, anche in tale evenienza, egli ne avrebbe tratto un incoraggiamento a persistere nei suoi piani, perché, se uomini dello stato si erano fatti avanti per trattare, dopo una seconda terrificante strage, ciò voleva dire che la strategia stragista “pagava”, nel senso che era un metodo efficace per ottenere che lo stato si piegasse alle richieste di Cosa nostra. E non era impensabile avanzare allora richieste altrimenti irricevibili, essendo tali richieste presidiate da una minaccia terribile e divenuta ancora più credibile di quanto non fosse già in precedenza.
Sotto questo profilo il nucleo essenziale del costrutto accusatorio esce validato dalla verifica probatoria: ma senza bisogno di evocare l’incidenza della sollecitazione al dialogo su una presunta accelerazione dell’iter esecutivo, accelerazione che non vi fu, o almeno non vi fu nell’accezione in cui la intende anche la sentenza qui appellata, nel solco di un refrain comune alle sentenze che hanno definito quasi tutti i processi celebrati sulle due stragi siciliane.
Se accelerazione vi fu, essa si verificò soltanto sul piano strettamente operativo e con riferimento alla sequenza finale della fase esecutiva, non appena si ebbe conferma che il dott. Borsellino quella domenica si sarebbe recato in via D’Amelio per fare visita alla madre, come in effetti soleva fare nei fine settimana (e come gli uomini di Cosa nostra cui era stato affidato il compito di organizzare e realizzare l’attentato sapevano, grazie alle attività di pedinamento e appostamento dispiegate nelle settimane precedenti), essendosi profilata, giusta quella conferma, l’opportunità di colpire nel luogo più idoneo tra quelli che erano stati studiati.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
E don Vito disse ai carabinieri del Ros: «Quelli accettano il dialogo». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 19 novembre 2022
Riina non soltanto accolse la “sollecitazione al dialogo”, ma concretizzò la sua risposta con la formulazione di specifiche richieste. Tale prova si raggiunge infatti sulla base di ben altre fonti, a partire dalle dichiarazioni – attendibili – di Giovanni Brusca sul cosiddetto “papello”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In realtà, non vi fu alcuna accelerazione della strage di via D’Amelio, o, almeno, non nel senso in cui l’ha intesa il giudice di prime cure: e cioè come se uno specifico evento, che la sentenza individua appunto nella sollecitazione ad avviare un eventuale negoziato, fosse sopravvenuto medio tempore tra le due stragi a sconvolgere la scaletta del programma criminoso di Riina.
Come s’è visto, è possibile, ma tutt’altro che provato con certezza, che il capo di Cosa nostra abbia avuto sentore dell’iniziativa dei carabinieri de Ros e ne abbia subito compreso le finalità (quelle, s’intende, fatte credere anche a Vito Ciancimino nella prima fase della “collaborazione” intrapresa con gli stessi Carabinieri) o ne sia stato compiutamente edotto già prima della strage di via D’Amelio, ma comunque quando quest’ultima era già in itinere anche nella sua concreta esecuzione.
Quand’anche così fosse, egli avrebbe persistito nei suoi piani, traendone anzi incoraggiamento e predisponendosi alla formulazione di specifiche richieste, che, proprio in quanto avanzate dopo che Cosa nostra aveva dato l’ennesima prova della sua terrificante potenza, dovevano intendersi come condizione non negoziabile della cessazione della violenza mafiosa.
Da qui la minaccia implicita nella formulazione stessa di quelle richieste.
La sconfessione della tesi dell’accelerazione della strage Borsellino non fa dunque venir meno la prova che Riina non soltanto accolse la “sollecitazione al dialogo”, ma concretizzò la sua risposta con la formulazione di specifiche richieste. Tale prova si raggiunge infatti aliunde, e cioè sulla base di ben altre fonti che non l’illusorio riscontro logico che si vorrebbe desumere dalla presunta accelerazione della strage di via D’Amelio.
L’ATTENDIBILITÀ DI BRUSCA
[…] Il nucleo portante della prova anzidetta è costituito dal riscontro incrociato delle propalazioni di Brusca con la “narrazione” della trattativa Ciancimino-Ros, avuto riguardo ai contenuti e ai tempi di svolgimento che essa avrebbe avuto nella prima fase della collaborazione che l’ex sindaco di Palermo intraprese con i carabinieri nell’estate del ‘92, fino alla sua brusca interruzione, cui sarebbe poi seguita una seconda fase contrassegnata da un drastico mutamento di spartito (nei termini e nelle finalità della collaborazione predetta).
Ed invero, questa corte ritiene di dover condividere la valutazione del giudice di prime cure secondo cui le propalazioni di Giovanni Brusca sulla vicenda del “papello”, al netto delle ondivaghe dichiarazioni sulla datazione dei colloqui con Riina vertenti su tale tema, sono pienamente credibili.
In più d’uno dei passaggi motivazionali, la sentenza mette in guardia sulla necessità di vagliare con estrema cautela le dichiarazioni di Brusca. E non solo per il pregiudizio normativo legato allo status del dichiarante, che era imputato per gli stessi fatti su cui vertevano le sue dichiarazioni.
Ma anche perché alle ombre residuate dal faticoso percorso collaborativo segnato da dichiarati tentativi iniziali di depistaggio (sia pure in relazione a specifiche vicende del tutto estranee ai fatti per cui qui si procede) si aggiungono, e questa volta in relazione alla materia di questo processo, talune incongruenze e soprattutto mutamenti di versione: nel quadro, aggiungiamo, di una generale propensione a rimodulare le proprie propalazioni a seconda delle emergenze processuali — e dei contesti processuali in cui è stato esaminato — e della difficoltà di secernere ciò che è frutto di sue originarie conoscenze, acquisite nel corso della sua militanza criminale, da notizie, informazioni e acquisizioni sedimentate nei tanti processi in cui è stato chiamato a riferire.
Per non parlare dell’inevitabile contaminazione dovuta sia al risalto mediatico di alcune delle vicende oggetto delle sue propalazioni, sia agli inevitabili e talora inconsapevoli “aggiustamenti” operati a seguito delle tante contestazioni che gli sono state mosse nei vari processi, incluso il presente giudizio.
E un’ulteriore insidia che ricorre nelle sue propalazioni sta nel fatto che Brusca non resiste alla tentazione di arricchire la narrazione di ciò che sa con deduzioni e collegamenti più o meno plausibili tra gli avvenimenti di cui è a conoscenza: come quando presume che vi possa essere stata un’accelerazione della strage Borsellino deducendolo dall’ordine di sospendere l’attentato a Mannino o dall’essere lo stesso Borsellino come del resto anche Falcone un ostacolo da eliminare se si voleva sperare di raggiungere l’obbiettivo cui stragi e delitti eclatanti erano finalizzati.
O come quando, venuto a sapere della trattativa di Ciancimino con i carabinieri del Ros, la ricollega non solo alle rivelazioni di Riina sul papello, ma anche a quanto riferitogli anni dopo da Spatuzza Gaspare a proposito del fatto che a dire di Matteo Messina Denaro obbiettivo del progettato attentato allo stadio Olimpico di Roma erano proprio i carabinieri, protagonisti di quella trattativa non andata a buon fine, ed anzi valutata quasi alla stregua di una presa in giro. E via discorrendo.
La Corte d’Assise di primo grado non manca del resto di annotare scrupolosamente, punto per punto (v. pagg. 16 17-1626) le difformità e le discrasie tra le dichiarazioni rese nel tempo — e nei vari processi — da Brusca emerse attraverso il fuoco di fila di contestazioni che ne hanno contrappuntato il contro-esame cui è stato sottoposto all’udienza del 12.12.2013.
E tuttavia deve darsi atto, come puntualmente rammentano i giudici di primo grado, che «in molti altri processi già conclusi con sentenze irrevocabili è stata riconosciuta l'importanza e la rilevanza del contributo fornito dal Brusca per la ricostruzione di vicende delittuose e per l’individuazione dei relativi responsabili (tanto che al detto odierno imputato è stata in molte occasione formalmente riconosciuta la circostanza attenuante speciale della collaborazione)»; e che proprio nel presente processo sono stati acquisiti i due straordinari e imprevedibili riscontri alle dichiarazioni di Brusca, che la sentenza richiama (alle pagg. 1629-1632) con riferimento alle intercettazioni ambientali delle conversazioni di Riina con il co-detenuto Lo Russo.
Anche se, giusta le diverse conclusioni cui questa Corte è pervenuta sul tema della presunta accelerazione della strage di via D’Amelio, il primo dei due “riscontri” degrada al più a indiretta conferma della decisione di Riina di dare precedenza assoluta, sul piano operativo, all’esecuzione della strage predetta rispetto a qualsiasi altro progetto di attentato, ancorché in itinere.
LE DICHIARAZIONI SUL “PAPELLO”
Ma per ciò che concerne la vicenda del papello, deve convenirsi che il nucleo sostanziale del racconto che Brusca ne ha fatto, al netto come già rammentato delle oscillazioni sulle date, non è mai mutato, nel corso degli anni e nelle varie sedi processuali in cui è ritornato su tale tema, ricalcando sempre lo stesso canovaccio, fin dalle dichiarazioni rese nella fase iniziale della sua collaborazione, ossia negli interrogatori resi nell’agosto e nel settembre del ‘96.
Egli ha sempre parlato di due distinti approcci al tema della “trattativa”, intendendo per tale quella che i vertici di Cosa nostra intesero avviare ed effettivamente avviarono nell’estate del ‘92, attraverso la mediazione di Vito Ciancimino (e di Antonino Cinà) con coloro che ritenevano essere emissari dello stato. Due approcci che si rispecchiano in un unico colloquio o in due distinti colloqui che Brusca (nell’interrogatorio del 14 agosto’96 aveva parlato di un unico colloquio, mentre nelle dichiarazioni successive riferirà di due distinti colloqui) avrebbe avuto a quattr’occhi con Riina, nel contesto di altrettante riunioni di capi mandamento.
E in entrambe le occasioni sarebbe stato Brusca a prendere l’iniziativa, sollecitando Riina ad aggiornarlo sugli sviluppi della situazione, in quanto desideroso di sapere se la strategia che avevano varato e cominciato a mettere in atto di attacco frontale allo stato stesse dando i frutti sperati. E non è un dettaglio secondario che Brusca abbia sempre detto di essere stato lui ad affrontare il discorso con il capo di Cosa nostra, poiché ciò vale a neutralizzare un’ovvia obbiezione che le più avvedute tra le argomentazioni difensive non hanno mancato di sollevare: come mai di una questione di tal rilievo strategico e che sicuramente doveva stare a cuore di tutti i capi mandamento, non si discusse apertamente nel corso delle riunioni a margine delle quali Brusca colloca i colloqui che dice di avere avuto personalmente con Riina?
A tale obiezione in effetti Brusca ha replicato che non può né affermare né escludere che anche gli altri capimandamento fossero stati a loro volta informati sull’andamento della situazione per ciò che concerneva i contatti riservati con i presunti o sedicenti emissari dello stato, giacché era lo stesso Riina a decidere se e cosa comunicare agli altri capi mafia. Al dibattimento ha aggiunto che Riina gli disse, quando già lui sentiva l‘odore che poteva essere tratto in arresto, che della questione del papello, così come dei piani o delle attività che lo stesso Riina aveva in quel frangente temporale, erano al corrente Salvatore Biondino e Matteo Messina Denaro.
Ma proprio il carattere estremamente riservato di quei contatti e la delicatezza della questione, unitamente all’incertezza sull’esito della trattativa, rende più che plausibile che Riina ne avesse messo a parte solo i capi a lui più vicini e fedeli, evitando di discuterne apertamente, sia pure nell’ambito di riunioni ristrette, come tutte quelle susseguitesi dopo l’ultima riunione “plenaria” della Commissione provinciale, che, come Brusca ha ribadito al dibattimento, fu, per quanto a sua conoscenza, quella tenutasi alla fine del ‘91.
L’ACCETTAZIONE DELLA TRATTATIVA
Venendo al merito della vicenda, tre sono i momenti che scandiscono il contenuto del report complessivo che Brusca avrebbe ricevuto da Riina sulla vicenda del papello: 1) c’erano stati dei contatti con soggetti presentatisi come emissari delle Istituzioni, anche se Riina non gli precisò di chi si trattasse («Si sono fatti sotto...»), i quali avevano chiesto cosa volesse Cosa nostra per finirla, con tutta quella violenza («Cosa vuoi per finire queste cose?»); 2) Riina aveva risposto presentando un pacchetto cospicuo di richieste, confidando nel loro accoglimento; 3) le richieste non erano state accolte perché ritenute eccessive («...Riina mi disse di avere fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe...»).
E questa è sostanzialmente la versione che ritorna nelle dichiarazioni rese anche nel presente processo. Ed è di tutta evidenza come la scansione predetta combacia perfettamente con i contenuti e l’andamento dei contatti instaurati dai carabinieri del Ros nell’estate del ‘92 con Vito Ciancimino, fino alla brusca rottura che sarebbe intervenuta quando Mori e De Donno alla richiesta di Ciancimino di scoprire le carte e dire cosa offrissero (in cambio della cessazione delle stragi), risposero con una proposta “irricevibile” (qual era la consegna dei capi di Cosa nostra e dei latitanti più pericolosi).
Sicché tra le due vicende non c’è soltanto una corrispondenza cronologica e una generica similarità ma una totale sovrapposizione, avuto riguardo soprattutto al senso della proposta che era stata fatta inizialmente a Ciancimino e al successivo svolgimento della vicenda.
Infatti, furono i carabinieri ad assumere l’iniziativa, presentandosi a Ciancimino come emissari di un’autorità istituzionale loro sovraordinata: o almeno questo è ciò che gli lasciarono intendere. E si presentarono come latori di una proposta il cui senso, come declinato nelle parole di Mori («Ma signor Ciancimino, ma cos‘è questa storia qua? Ormai è muro contro muro.
Da una parte c‘è Cosa nostra, dall‘altra parte c‘è lo stato? Ma non si può parlare con questa gente?») e nelle ulteriori esplicitazioni di De Donno (al processo di Firenze, udienza 24.01.1998, ma anche Mori/Obinu, udienza 8.03.2011, pag. 93-94: “Gli proponemmo a Ciancimino di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell‘organizzazione mafiosa Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello stato. E Ciancimino accettò”) corrispondeva esattamente al tenore della richiesta che, a dire di Brusca, era pervenuta a Riina da parte di non meglio precisati emissari istituzionali (“...«cosa vuoi per finire queste cose?»....; frase confermata anche in sede dibattimentale: “...«Per finirla cosa volete in cambio?»....”). E la proposta, recepita in quegli stessi termini dai vertici mafiosi, fu accettata, secondo quanto Brusca dice di avere appreso da Riina: esattamente come Vito Ciancimino riferì ai carabinieri dicendo loro che i suoi interlocutori avevano accettato la “trattativa” («Guardi, quelli accettano la trattativa»).
Brusca non ha mai detto di sapere che i misteriosi emissari di cui gli aveva parlato Riina fossero dei Carabinieri; anzi ha detto l’esatto contrario. Fino al (primo) processo di Firenze, sulle stragi in continente ha sempre dichiarato che Riina non gli svelò l’identità dei misteriosi emissari; ed anche successivamente ha dichiarato di avere appreso solo dalla lettura di un articolo di cronaca pubblicato su La Repubblica che si trattava dei carabinieri: o meglio, in quell’articolo (che per inciso è stato acquisito) si parlava dei contatti dei carabinieri del Ros con Ciancimino e si facevano anche i nomi di Cinà, Mori e De Donno.
E lui ricollegò quelle notizie alla vicenda del papello di cui gli aveva parlato Riina. Ed ha aggiunto che mai avrebbe immaginato che gli emissari istituzionali con i quali in sostanza Riina aveva trattato per conto di Cosa nostra fossero dei carabinieri; aveva sempre ritenuto che potesse trattarsi di esponenti politici, magari proprio quelli che in precedenza avevano contattato lo stesso Riina, proponendosi come referenti al posto di Lima .
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Cosa nostra trattò, ma con i capi del Ros e mai con lo stato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domaniil 20 novembre 2022
Ciò che conta, ai fini del presente giudizio è la prova che Riina colse l’occasione che gli si era offerta dell’apertura di un canale di comunicazione con quelli che riteneva essere emissari dello Stato per far sapere — e per dettare - le condizioni poste da Cosa nostra per interrompere la campagna stragista. Ebbene quella prova, a parere di questa corte, è stata in effetti raggiunta.
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Lo stupore di Brusca è un elemento che denota la sincerità anche delle pregresse dichiarazioni, che, come puntualmente annota la sentenza appellata, furono rese quando effettivamente Brusca ignorava che tra coloro che si erano fatti sotto v’erano i Carabinieri.
Il racconto primigenio del papello non è quindi ritagliato sulla conoscenza che solo in seguito si ebbe della interlocuzione avviata con Ciancimino da Mori e De Donno, che ne parlarono per la prima volta in pubblico dibattimento alla fine di gennaio del 1998, e Mori, prima ancora, nelle dichiarazioni rese alla procura di Firenze (1° agosto 1997) e alla procura di Caltanissetta (23 settembre 1997): dichiarazioni, queste ultime, consacrate in verbali ai quali vennero allegate altrettante copie del memoriale in cui lo stesso Mori ha fornito la sua versione dei fatti, quanto ai contatti intrapresi con Ciancimino e alla loro evoluzione fino all’arresto intervenuto il 19 dicembre.
Quei verbali avrebbero dovuto restare riservati, ma qualcosa era trapelato, a giudicare dall’articolo di Francesco Viviano citato da Brusca. Ma è innegabile che le prime dichiarazioni di Brusca precedono il memoriale Mori e ogni possibile indiscrezione sulle dichiarazioni di quest’ultimo alla procura di Firenze e alla procura di Caltanissetta.
E la corrispondenza tra la vicenda evocata da Brusca e la narrazione della “trattativa” Ciancimino-Ros non si ferma qui. Essa riguarda anche l’interruzione della presunta trattativa. Secondo quanto Brusca dice di avere appreso dalla viva voce di Riina, la risposta alle sue richieste non era stata quella sperata: le richieste erano state respinte perché ritenute eccessive.
E tuttavia la partita non era definitivamente chiusa, perché quella risposta non escludeva la possibilità di proseguire il dialogo su basi negoziali diverse (ovvero, ridimensionando le pretese di Cosa nostra). Tant’è che, sempre secondo il racconto di Brusca, lo stesso Riina ritenne utile, per sbloccare la situazione di stallo in cui versava, dare un altro “colpetto” per indurre i riluttanti emissari delle Istituzioni a tornare al “tavolo dei negoziati”.
UNA “TRATTATIVA” INTERROTTA PER RICHIESTE RITENUTE ECCESSIVE
Ebbene, è proprio questo lo scenario che sembra intravedersi in controluce alla narrazione da parte di Mori e De Donno e dello stesso Ciancimino circa l’interruzione della trattativa seguita all’irricevibile proposta avanzata dai carabinieri.
Tutti e tre convennero che Ciancimino non poteva trasmettere quel tipo di proposta ai suoi referenti mafiosi; e quindi concordarono di far sapere che la trattativa doveva intendersi congelata, ma in modo da lasciare aperto uno spiraglio alla possibilità di riprendere il dialogo.
È quindi del tutto plausibile che la risposta pervenuta a Riina, opportunamente “filtrata” da Vito Ciancimino, fosse stata nel senso che le sue richieste erano state ritenute eccessive; e che, conseguentemente, la trattativa non era definitivamente chiusa, ma solo sospesa, in attesa di rinegoziare i termini di un possibile accordo (cfr. De Donno: «Quindi lasciammo cadere la cosa, però lasciammo aperta la porta a questo dialogo»).
Deve quindi convenirsi con l’apprezzamento espresso dal giudice di prime cure, secondo cui l’anteriorità delle rivelazioni di Brusca sul “papello” rispetto alla divulgazione delle notizie sulla trattativa Ciancimino-Ros e l’originalità del loro contenuto in un momento in cui la vicenda non aveva assunto il risalto anche mediatico che solo diversi anni dopo avrebbe avuto non può che avvalorarne l’attendibilità.
E deve aggiungersi che le due narrazioni, dunque, combaciando nei loro contenuti salienti, e non soltanto nella corrispondenza cronologica, si riscontrano vicendevolmente, posto che esse traggono origine da fonti di conoscenza del tutto autonome e non sospettabili di reciproca contaminazione.
Brusca racconta che Riina fu raggiunto da una sollecitazione ad avviare un dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi emissari dello stato e decise di raccogliere tale sollecitazione che del resto realizzava uno degli obbiettivi della guerra che aveva scatenato contro le Istituzioni. E lo dichiara, ignorando che in quell’interlocuzione erano coinvolti i carabinieri, con largo anticipo rispetto a quando filtrano le prime indiscrezioni sui contatti che gli ufficiali del Ros avevano instaurato con Vito Ciancimino.'
E come puntualmente rilevato dal primo giudice, dalla Nota a firma del Generale Mori, datata 25 gennaio 1998, indirizzata ai Comandi Provinciali dei Carabinieri di Roma e Palermo per sollecitare gli opportuni adempimenti a tutela dell’incolumità di Vito Ciancimino e dei suoi familiari prova inequivocabilmente che, fino a quando Mori e De Donno non ne parlarono espressamente e in pubblico dibattimento all’udienza del 24 gennaio 1998 del processo di Firenze sulle stragi in continente, la notizia della “trattativa” tra Ciancimino e il Ros non era affatto di dominio pubblico.
D’altra parte, l’ex sindaco di Palermo, già nell’interrogatorio reso il 17 marzo 1993, aveva dichiarato - non potendo certo immaginare che tre anni dopo Giovanni Brusca avrebbe parlato in termini analoghi di un’interlocuzione avviata tra Riina e non meglio precisati emissari delle Istituzioni – che “l’altra sponda”, cioè i vertici mafiosi, contattati attraverso il dottore Antonino Cinà, avevano accettato la proposta di avviare un dialogo che, nelle parole di De Donno, era finalizzato proprio a trovare un punto d’intesa per far cessare la violenza stragista.
E Mori e De Donno a loro volta si sono detti certi che Ciancimino non avesse mentito, nel senso che era effettivamente riuscito a contattare i vertici mafiosi come gli era stato chiesto, anche se loro stessi non lo avevano creduto capace di tanto, ancorando tale certezza non già ad una mera deduzione (come vorrebbe la difesa dell’imputato Cinà), ma ad un dato estremamente tangibile e da loro percepito con assoluta immediatezza: la reazione violenta, in un mix di ira e di paura, opposta dal Ciancimino nel sentire la proposta irricevibile che, gettando la maschera, si era determinati a fargli.
NARRAZIONI DIVERGENTI
Ma su un punto le due “narrazioni” sembrano divergere. Un punto che riveste particolare importanza per l’accertamento dei fatti, perché attiene alla prova che Riina non soltanto fu raggiunto dalla sollecitazione al dialogo, ma accettò la proposta di “trattativa” - in tali termini quella sollecitazione gli fu trasmessa da Ciancimino per il tramite di Cinà — avanzando una serie di specifiche richieste (il “papello” di cui parla Brusca).
Infatti, Ciancimino sul punto si è limitato a dichiarare — e a scrivere — che la trattativa si interruppe bruscamente non appena Mori alla sua richiesta di scoprire le carte e dire cosa avessero da offrire in cambio della cessazione delle stragi, rispose con un’intimazione, e cioè la consegna dei latitanti, accompagnata dall’offerta di trattare bene le famiglie dei latitanti mafiosi che si fossero consegnati alla giustizia (si tornerà in proseguo su alcune discrasie tra le versioni rese al riguardo dai tre protagonisti di quella surreale interlocuzione).
Ciancimino non ha mai parlato — o scritto — di avere ricevuto da Riina particolari istruzioni o richieste da rappresentare alla controparte, ma solo di avere ricevuto una piena delega a trattare. E comunque sul punto gli si è usata, da parte di chi lo interrogava (rectius, da parte di chi si limitò a raccoglierne le dichiarazioni) la cortesia di non insistere più di tanto per averne i dovuti chiarimenti.
Mori e De Donno invece in più sedi hanno escluso di avere mai ricevuto da Ciancimino un documento contenente richieste provenienti dai vertici di Cosa Nostra; così come hanno escluso che lo stesso Ciancimino gliene avesse mai fatto il minimo cenno. Il loro assunto è che non si arrivò neppure a discutere di possibili condizioni “negoziali”, anche perché essi non avevano avuto alcuna autorizzazione a negoziare e mai era stata loro intenzione negoziare alcunché.
Naturalmente ogni dubbio sarebbe frugato se potesse credersi all’autenticità del documento che fu consegnato da Massimo Ciancimino, a margine di uno dei tanti interrogatori, contenente un’elencazione di richieste (in effetti omogenee, almeno alcune, a quelle di cui è traccia nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno riferito delle principali questioni che all’epoca stavano a cuore di Riina e dei Brusca, Cancemi, Giuffré, Naimo, Lipari).
Ma se non vi sono elementi che ne provino la falsità, neppure ve ne sono che comprovino la sua autenticità. Anzi, il fatto stesso che a “garantirla” sia una fonte inaffidabile come Massimo Ciancimino è un elemento che impone ex se di elevare a sospetto l’autenticità di quel documento. E Massimo Ciancimino ci ha aggiunto del suo per avvalorare il sospetto che si tratti di un artefatto, tanto contorte, involute e contraddittorie sono le dichiarazioni che ha reso su modalità e circostanze in cui sarebbe venuto in possesso del documento in questione.
C’È LA PROVA DEL DIALOGO COSA NOSTRA-ROS
In realtà, come giustamente chiosa la sentenza appellata, poco importa che Riina avesse recapitato a Ciancimino un documento del tipo di quello prodotto dal figlio Massimo; o che si fosse limitato a fargli avere precise istruzioni e indicazioni su cosa chiedere per conto di Cosa Nostra; o che le sue indicazioni siano state da altri annotate in un appunto scritto, e magari dallo stesso Vito Ciancimino, una volta edotto (dall’ambasciatore Cinà) su quali fossero i “desiderata” di Riina.
Ciò che conta, ai fini del presente giudizio, è la prova che Riina colse l’occasione che gli si era offerta dell’apertura di un canale di comunicazione con quelli che riteneva essere emissari dello stato per far sapere — e per dettare - le condizioni poste da Cosa Nostra per interrompere la campagna stragista, facendo pervenire le sue richieste a Ciancimino in risposta alla sollecitazione al dialogo proveniente dai Carabinieri. E poco importa che fossero condensate proprio nel “papello” consegnato da Massimo Ciancimino o in altro documento (mai rinvenuto) di analogo tenore; o che fossero semplicemente appuntate in un foglio o che fossero state trasmesse oralmente a Ciancimino e poi da questi annotate per iscritto anche come pro-memoria.
Ebbene quella prova, a parere di questa Corte, è stata in effetti raggiunta, attraverso un variegato coacervo di fonti e di elementi che corroborano l’attendibilità delle rivelazioni di Giovanni Brusca.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La misteriosa cattura di Totò Riina e la spaccatura nella Cupola. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 21 novembre 2022
E Bernardo Provenzano manifestò tutto il proprio dissenso sull’opportunità di proseguire sulla linea stragista. Fu allora che Leoluca Bagarella lo avrebbe schernito: «Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: “Io non so niente”»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Scorrendo il compendio scrutinato dal giudice di prime cure, soccorrono anzitutto le dichiarazioni rese dal generale Cancellieri (comandante della regione carabinieri Sicilia) nel corso della conferenza stampa seguita alla cattura di Riina il 15 gennaio 1993.
Si è accertato, attraverso la deposizione dello stesso Cancellieri, che questi, del tutto ignaro all’epoca dei contatti che gli ufficiali del Ros avevano instaurato con Vito Ciancimino, in buona sostanza si limitò a riportare il contenuto degli appunti che erano stati predisposti dal Col. Mori; né il relativo testo era stato minimamente concordato con i magistrati presenti (incluso il nuovo procuratore capo di Palermo).
E quindi, è farina esclusiva del sacco di Mori anche l’esplicita attribuzione a Riina del disegno di indurre lo stato a trattare: un proposito criminoso di cui lo stesso Mori aveva potuto avere contezza grazie e in esito ai contatti con Vito Ciancimino, e all’interlocuzione per suo tramite avviata con i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Da Ciancimino, infatti, il Col. Mori aveva ricevuto la conferma dell’interesse di Riina a “trattare” (“Guardi quelli accettano la trattativa”). Ma ciò non sarebbe bastato per attribuire con tale certezza a Riina il proposito criminale (“... un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico.... di mettere in discussione l'Autorità Istituzionale”) di indurre lo stato a piegarsi alla violenza mafiosa, facendo inaccettabili concessioni, e cosi barattando la propria autorità in cambio della cessazione della minaccia all’incolumità pubblica (“Quasi a barattare, o istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale”).
In fondo, era stato proprio Mori a sollecitare quell’interesse; e quindi, il manifestare, da parte di Riina una certa disponibilità ad assecondare quell’iniziativa non poteva etichettarsi in modo così tranciante come sintomatica della volontà di ricattare Io stato.
Ma sotto questo profilo Mori parlava— o meglio faceva parlare in sua vece il Generale Cancellieri — con piena cognizione di causa, proprio perché sapeva che Riina non solo aveva accettato l’invito ad aprire un dialogo, ma aveva fallo conoscere le sue richieste, ponendole come condizioni ultimative e non negoziabili per fare cessare la violenza mafiosa.
Quella di Mori — contrariamente a quanto ipotizza il giudice di prime cure — non era, però, una voce dal sen fuggito, ma doveva leggersi come un preciso messaggio lanciato a chi poteva intenderlo: la cattura di Riina era anche un monito per chiunque, tra i capi di Cosa nostra (che erano ancora quasi tutti latitanti e in grado di agire) pretendesse di trattare con lo stato nel modo in cui Riina aveva preteso farlo, e cioè dettando le sue condizioni, senza nessuna reale apertura ad un possibile negoziato.
Insomma, un monito all’ala stragista; ma, implicitamente, anche una mano tesa all’ala più moderata e sensibile ad un’eventuale offerta di trattare: ovvero a quanti, all’interno di Cosa nostra fossero disponibili a negoziare certi favori, senza la pretesa di imporre unilateralmente con la violenza la propria volontà.
Ed è persino scontato che nessuno dei presenti alla conferenza stampa potesse cogliere il senso recondito di quelle dichiarazioni, ancorché si trattasse di qualificati investigatori e valorosi magistrati, dal momento che ignoravano l’antefatto, e cioè non avevano alcuna conoscenza e il minimo sentore della complessa interlocuzione che era stata avviata tra il Ros e Vito Ciancimino, e del tenore della proposta, anzi, delle diverse proposte che erano state fatte a quest’ultimo.
COSA NOSTRA DOPO L’ARRESTO DEL “CORTO”
[…] Di trattative segrete condotte da Vito Ciancimino o da altri per conto di Cosa nostra ma con i carabinieri o altre forze dell’ordine, nessuno dei collaboratori di giustizia che pure hanno partecipato con ruoli di spicco alla stagione delle stragi e sono stati testimoni e poi esecutori della decisione di riprendere le stragi o i delitti eclatanti, sia pure lontano dalla Sicilia e cambiando target ha mai saputo alcunché.
Del resto, lo stesso Brusca lo ignorava, avendo appreso solo dalla lettura dei giornali e a distanza di anni dai fatti, quando già egli aveva iniziato a collaborare con la giustizia. E mai avrebbe immaginato che gli emissari delle istituzioni di cui gli aveva parlato Riina a propositi della vicenda del “papello” potessero essere dei carabinieri.
Di analogo tenore le dichiarazioni di Sinacori Vincenzo, che pure ha riferito di avere accompagnato Matteo Messina Denaro ad una riunione, presenti Bagarella, Graviano Giuseppe, Brusca e Provenzano, nella quale dovevano prendere delle decisioni sul continuare la linea stragista di Riina di fare gli attentati, dovevano parlare di questo fatto.
Ebbene, Sinacori, che tuttavia non prese parte a quella riunione ristretta, e riservata solo ai boss corleonesi che all’epoca tenevano le redini dell’organizzazione mafiosa orfana del suo capo, non soltanto non ha mai saputo nulla di trattative con esponenti politici o istituzionali; ma per ciò che concerne in particolare l’eventualità di interlocuzioni avviate da Riina con i carabinieri sia pure nell’interesse di Cosa nostra, ha aggiunto: «per come conosco, conoscevo Riina io, è impensabile una cosa del genere, che Riina potesse avere rapporti con forze dell'ordine».
In effetti Brusca rammenta che Riina gli disse, quando già paventava di poter essere arrestato, di mettersi eventualmente in contatto con Salvatore Biondino o con Matteo Messina Denaro che erano al corrente della faccenda del “papello”, alludendo evidentemente alla possibilità di proseguire la trattativa anche nel caso in cui lui stesso fosse stato arrestato. E così - implicitamente - confermando che pochissimi dovevano i capi corleonesi al corrente di quella faccenda (e del resto, del papello Riina gli parlò solo in colloquio a quattrocchi e non alla presenza di altri capi mandamento o loro sostituti).
Tra quei pochi, anche Matteo Messina Denaro (ciò che, per inciso, spiegherebbe per quale ragione questi sapesse, secondo quanto riferisce Brusca, che bersaglio del progetto di attentato allo Stadio Olimpico di Roma dovessero proprio i carabinieri). E tra loro Brusca ritiene di poter annoverare anche Bagarella (e al riguardo cita l’episodio dello scatto d’ira che aveva avuto Bagarella nell’apprendere dai giornali che il Ministro Mancino si era fatto installare vetri anti proiettile nella propria abitazione) e lo stesso Provenzano. Anche se chi fosse stato messo al corrente (da Riina) dell’esistenza di una trattativa segreta non necessariamente doveva sapere che essa si era instaurata e sviluppata attraverso contatti con i carabinieri.
E tuttavia, è pacifico che quando si decise, dopo la cattura di Riina, di proseguire la linea stragista, nel solco tracciato da Riina e per i medesimi obbiettivi, lo scopo era proprio quello di indurre lo stato a trattare: anzi, come precisa Brusca, questi attentati ai nord sono tutti finalizzati a fare tornare questi a trattare. Questi contatti che aveva avuto Riina.
E gli fa eco, sulle finalità delle stragi in continente, Filippo Di Pasquale che pure nulla sapeva dei contatti che aveva intrattenuto Riina con emissari istituzionali (o quelli che Riina riteneva fossero tali): «Le stragi di Roma, Firenze e Milano erano state fatte dal nostro gruppo, e quindi mi riferisco a tutti i componenti del gruppo di fuoco (...) quelle stragi erano state fatte per ricattare lo stato, ricattare lo stato e praticamente con queste stragi gli si diceva allo stato o chi comandava in quel momento o fate come diciamo noi, o noi continuiamo a fare le stragi (...) le cose che voleva Cosa nostra erano intanto abolire proprio sto 41 bis, perché quella è stata una tragedia. Io quello che mi ricordo, la cosa principale era il 41 bis e poi cercare di vedere se si poteva togliere la cosa sui collaboratori di giustizia, comunque la cosa principale era il 41 bis».
Lo stesso Brusca non sa a quale stadio di sviluppo fossero giunti, perché «gli consta solo che ad un certo punto si erano bloccati in quanto le richieste di Riina erano state giudicate eccessive. Ma gli consta altresì che con Bagarella, con Provenzano prima, e con Bagarella dopo questi attentati erano per fare riaprire questo dialogo. Costringere chi era di competenza o a trovare un altro soggetto o andare a trovare a Totò Riina in carcere, un po’ come ai tempi della guerra... la Seconda Guerra Mondiale». E del fatto che Bagarella e Provenzano fossero al corrente dei contatti che aveva avuto Riina, sempre Brusca ne ebbe una riprova eloquente quando insieme a Bagarella si recò ad un incontro con Provenzano per stabilire se pRoseguire o meno la linea stragista voluta da Riina. E in tale occasione lo informarono che avevano deciso — Brusca e Bagarella — di portar avanti quella strategia per far si che coloro che già s’erano fatti sotto con Riina, tornassero a trattare.
PROVENZANO CONTRARIO ALLE STRAGI
E Provenzano non batté ciglio in relazione a quei contatti sotterranei [...], manifestando però tutto il proprio dissenso sull’opportunità di pRoseguire su quella linea; anche perché non avrebbe saputo come giustificarsi agli occhi degli altri esponenti di spicco dell’organizzazione che condividevano le sue perplessità e che egli in qualche modo rappresentava.
E fu allora che Bagarella lo avrebbe schernito, costringendolo ad abbozzare di fronte alla determinazione dello stesso Bagarella a favore del quale ancora giocavano i rapporti di forza all’interno dell’organizzazione in quel momento (“...Provenzano l‘unica cosa che dice: “Ed io come mi giustifico con gli altri?” Si riferiva al suo gruppo Aglieri. Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente Bagarella gli fa, dice... che ha sorpreso pure me, dice: “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «Io non so niente»” Sì, fu in quella circostanza...neanche ha detto: “No, non lo fate “, non ha resistito alla volontà di Bagarella e quindi sapeva quello che stavamo facendo e il motivo”).
E’ una dinamica che trova, con parole e accenti diversi, dato anche il diverso angolo prospettico, piena corrispondenza nella descrizione fatta da Giuffré dell’atteggiamento e del punto di vista di Provenzano, quando ebbe modo di incontrarlo all’inizio del ‘93, dopo la cattura di Riina. Lo trovò completamente cambiato e propenso a tornare ad una linea di dialogo con la politica invece che di contrapposizione violenta alle istituzioni: primi assaggi di quella che sarebbe stata negli anni avvenire la strategia della sommersione.
Ma in quel frangente storico i rapporti di forza erano ancora a favore dei fautori della linea stragista e Provenzano dovette adeguarsi, come del resto emerge pure dalle dichiarazioni di Cancemi («mi ricordo che quando l’ho incontrato nel ‘93 al Provenzano, lui mi ha confermato che mi disse che tutto quello che hanno portato assieme con Riina avanti, lui stava continuando..»).
E si decise quindi di pRoseguire come prima, come aveva ordinato a suo tempo Salvatore Riina e per le medesime finalità (a parte il mutamento di target). Lo confermano, tra gli altri, La Barbera, che lui testimone dell’incontro che Brusca aveva avuto con Provenzano (“...Si sono parlati e ha detto che era d'accordo a continuare come prima, quindi da lì ho capito che ha incontrato lui Bernardo Provenzano .ed è d’accordo, continuiamo avanti come si era deciso prima”), Cucuzza, che sottolinea la certezza di Bagarella, nonostante il dissenso di Provenzano, che la strategia stragista avrebbe dato buoni frutti (“..a questo tipo di strategia era contrario Me lo ha detto espressamente Bagarella, anzi, chiamandoli miserabili, perché non condividevano questo andare avanti allo
sbaraglio quindi c‘erano dei contrasti abbastanza seri con Provenzano. Invece, Bagarella riteneva che così otteneva qualcosa, quindi era certo... la voleva portare avanti perché ci credeva a questo progetto”). E lo conferma anche Siancori, così come conferma che si era formata una spaccatura interna a Cosa nostra tra uno schieramento favorevole alla pRosecuzione stragista, facente capo a Bagarella, a fianco del quale si erano schierati i Graviano e Matteo Messina Denaro, con Brusca un po’ titubante; e uno schieramento contrario, facente capo a Provenzano. Ma i trapanesi, aggiunge, fedeli a Riina non potevano che seguire la linea dettata dal capo di Cosa nostra e quindi quella di Bagarella, perché se lo diceva Bagarella era come se lo dicesse Riina.
MA QUAL ERA DAVVERO LA LINEA DI RIINA ALLA VIGILIA DELLA SUA CATTURA?
Mantenere alto il livello dello scontro con lo stato, attraverso la minaccia di altre stragi, nella convinzione che nuovi attentati e delitti eclatanti, ossia una ripresa o una prosecuzione della offensiva stragista, lo avrebbe indotto a trattare.
Ma era a ben vedere una convinzione che si nutriva anche della conoscenza — preclusa ai più, anche all’interno di Cosa nostra — di quanto era effettivamente accaduto nel frattempo: e cioè che una trattativa segreta con emissari dello stato si era instaurata davvero; anche se poi si era arenata perché le richieste avanzate da Riina erano state valutate come eccessive (o almeno questa era stata la spiegazione veicolata al capo di Cosa nostra, come si evince incrociando le dichiarazioni d Brusca con la narrazione di Ciancimino circa il congelamento della trattativa che tuttavia lasciasse aperto uno spiraglio alla possibilità di riprendere il dialogo in futuro).
Bisognava dunque intensificare la pressione intimidatoria per vincere la resistenza dello stato — o detto con le crude parole dello stesso Riina: allo stato bisognava “vendere morti” se si volevano ottenere i risultati sperati — e indurre quella parte della classe politica e delle Istituzioni che già si era mostrata disponibile a negoziare, a cedere alle richieste di Cosa nostra.
E con questo genere di convinzione che Riina trasmise ai suoi luogotenenti — a cominciare da quei pochi privilegiati che magari nulla sapevano di contatti con i carabinieri, ma erano al corrente che uomini dello stato già s’erano fatti sotto (come Brusca, Bagarella, Biondino, che però era stato arrestato insieme al suo capo, e Matteo Messina Denaro, oltre a Provenzano) — prima l’invito a
pazientare, perché i risultati sperati non avrebbero tardato a venire; e poi la determinazione a rimette mano a nuovi attentati.
Ciò posto, fu proprio tale convinzione, nutrita come s’è detto dalla consapevolezza che l’ipotesi che lo stato fosse indotto a suon di bombe e attentati a trattare non era un’opzione irrealistica ma un dato acquisito, anche se la trattativa in tutta segretezza già instauratasi versava in un momento di stallo, a innervare la decisione di riprendere l’offensiva stragista. Una decisione che fu effettivamente adottata, nonostante autorevoli dissensi (rapidamente rientrati in ragione dei rapporti di forza tra i diversi schieramenti che si fronteggiavano all’interno di Cosa nostra) in esito ad una serie di frenetiche riunioni tenutesi nei primi mesi del ‘93, una volta superato lo shock e lo smarrimento provocati dalla cattura di Riina.
Ma l’opzione stragista non prevalse su quella contraria, che pure era sostenuta da uno schieramento facente capo ad esponenti mafiosi di primo livello e di grande prestigio, soltanto perché Bagarella, che insieme a Brusca e ai Graviano e a Matteo Messina Denaro ne era il più strenuo sostenitore si fece forte del principio d’autorità, appellandosi alla volontà del cognato, che era ancora il capo riconosciuto e indiscusso di Cosa nostra dei cui ordini egli era o si presumeva che fosse latore. O solo perché i rapporti di forza erano ancora a favore dei fedelissimi di Riina.
UNA STRATEGIA “VINCENTE”
In realtà, quell’opzione strategica prevalse anche perché la strategia stragista era effettivamente valsa a indurre lo stato a trattare, anche se non ne erano sortiti i risultati sperati (da Cosa nostra) essendosi la trattativa arenata già prima che Ciancimino venisse arrestato. E l’arresto di Ciancimino aveva costituito un’ulteriore complicazione, sicché per superare l’impasse occorreva dare un nuovo scossone.
Ed essere, sempre a suon di bombe, ancora più “convincenti” di quanto non si fosse stati in precedenza, portando il terrore e le distruzioni in continente, e nelle principali città; e colpendo chiese, monumenti o centri di attrazione turistica, così che tutto il mondo ne parlasse e la pressione stessa dell’opinione pubblica nazionale costringesse il governo a cedere, o almeno a riprendere la trattativa che a suo tempo si era interrotta.
Ma, e qui veniamo al punto che premeva evidenziare, se lo stato si era risolto a trattare, ed aveva iniziato a farlo, anzi aveva sollecitato i vertici mafiosi a far conoscere quali fossero le loro richieste (per porre fine all’escalation di violenza che metteva in pericolo l’ordine, la sicurezza interna e l’incolumità pubblica), e la trattativa era iniziata o proseguita persino dopo una seconda terribile strage come quella di Capaci, per quale ragione s’era arenata?
Evidentemente l’unica spiegazione plausibile, o che come tale poteva essere propinata a Riina, era che le richieste di Cosa nostra erano state respinte perché ritenute esorbitanti rispetto a quanto la controparte fosse disposta a concedere (ed è la narrazione di Brusca, che trova implicitamente riscontro nella soluzione concertata da Ciancimino con gli ufficiali del Ros per giustificare agli occhi di Riina il “congelamento” della trattativa).
Ma ciò presupponeva che delle specifiche richieste fossero state avanzate, ovvero che Cosa nostra avesse già fatto sapere che cosa chiedeva in cambio della cessazione delle stragi (e che cosa sarebbe successo se le sue richieste non fossero state accolte): che è appunto quanto si voleva dimostrare.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’irrituale iniziativa del colonnello Mori e gli imbarazzi del governo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 22 novembre 2022
Tutti colsero gli aspetti di irritualità e delle anomalie più o meno preoccupanti di quelle iniziative del Ros. Soprattutto colsero il contrasto tra le dichiarate finalità infoivestigative di quell’operazione e la sollecitazione rivolta ai vertici istituzionali dell’epoca di una condivisione o di un sostegno alla loro iniziativa o comunque l’esigenza di metterne a parte le massime autorità politiche e di governo, a fronte della scelta di non metterne al corrente l’A.g e non è vero che non colsero l’importanza e la delicatezza di quell’iniziativa.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Orbene, di testi come Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Fernanda Contri e Luciano Violante che solo a distanza di molti anni dai fatti hanno contribuito a squarciare il velo sui retroscena della trattativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti con Vito Ciancimino si è, talvolta ingenerosamente, stigmatizzato che abbiano ritrovato la memoria soltanto a seguito del clamore mediatico suscitato dalle rivelazioni di Massimo Ciancimino.
In realtà è plausibile che quel clamore sia valso a fare affiorare il ricordo di vicende tanto lontane nel tempo e delle quali essi erano stati testimoni e partecipi solo limitatamente a segmenti e spezzoni ed episodi assai circoscritti e privi, almeno quanto ad un loro personale coinvolgimento, di ulteriori sviluppi.
Sotto questo aspetto, deve però convenirsi che, con tutta la comprensione possibile per la difficoltà di ricordare fatti risalenti, la testimonianza della Ferraro, in particolare, non è scevra da dubbi e perplessità, sia per avere recuperato a rate la memoria degli avvenimenti su cui è stata più volte sentita, sia per le spiegazioni che ha offerto delle sue amnesie — e del ritardo con cui di quegli avvenimenti ha poi riferito all’A.g. — e la lettura a dir poco riduttiva che ha dato dei ripetuti approcci dei carabinieri in ordine ai contatti intrapresi con Vito Ciancimino e la sua asserita collaborazione.
[…] Ma a prescindere dalla posizione della Ferraro, valgono per lei come per gli altri testi che hanno riferito solo a distanza di anni quanto a loro conoscenza su una vicenda che peraltro aveva già avuto un certo risalto anche mediatico molto tempo prima che sulla scena irrompesse Massimo Ciancimino con le sue “rivelazioni” (si fa riferimento al processo celebrato dinanzi alla Corte d’Assise di Firenze per le stragi in continente, dove per la prima volta, in pubblico dibattimento, nel corso dì una serie di udienze tenutesi nel mese di gennaio 1998, prima Brusca riferisce della vicenda del “papello” e della trattativa intrapresa da Riina attraverso suoi intermediari con uomini dello Stato; e poi Mori e De Donno parlano dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino e del modo in cui lo avevano spinto a collaborare, inizialmente sollecitandolo ad adoperarsi per aprire un fronte di dialogo con i vertici mafiosi per far cessare le stragi) le considerazioni che seguono.
UN GRAVE “RITARDO”
È vero che tutti i testi predetti, chi più chi meno hanno, con accenti diversi, negato di avere mai avuto contezza, o anche di avere anche solo ipotizzato che l’iniziativa dei carabinieri del Ros di intraprendere contatti con Vito Ciancimino potesse essere qualcosa di più o avesse natura diversa da un’operazione di polizia anche spregiudicata inquadrabile nell’ambito delle indagini mirate a individuare gli autori delle stragi o ad acquisire elementi utili alla cattura di pericolosi latitanti.
È pure vero, però che tutti scontano, chi più chi meno, la difficoltà e persino un certo imbarazzo nel dover giustificare come mai soltanto a distanza di anni — e quasi tutti solo perché chiamati in causa da altrui propalazioni o sollecitati da clamori mediatici — si siano decisi a riferire all’A.g. quanto a loro conoscenza di avvenimenti appresi in relazione agli incarichi istituzionali che ricoprivano all’epoca.
Ed è comprensibile che questa difficoltà e questo imbarazzo possano averli indotti a minimizzare natura e portata di quei fatti, e segnatamente gli aspetti più oscuri o le evidenti irritualità ed anomalie delle iniziative intraprese dai carabinieri del Ros con l’operazione Ciancimino, fino a banalizzare, nel caso della Ferraro, le ragioni che avrebbero indotto il capitano De Donno a farle visita, o le finalità sottese alla richiesta di informarne il ministro della Giustizia per riceverne sostegno alla loro iniziativa.
Ma non v’è dubbio che tutti ebbero invece a cogliere degli aspetti di irritualità e delle anomalie più o meno preoccupanti in quelle iniziative. E soprattutto colsero il contrasto tra le dichiarate finalità infoivestigative di quell’operazione e la sollecitazione rivolta ai vertici istituzionali dell’epoca di una condivisione o di un sostegno alla loro iniziativa o comunque l’esigenza di metterne a parte le massime autorità politiche e di governo, a fronte della scelta di non metterne al corrente l’A.g. E non è vero che non colsero l’importanza e la delicatezza di quell’iniziativa.
LE DICHIARAZIONI DI MARTELLI
[…] Martelli a sua volta ha dichiarato di essersi subito lamentato dell’iniziativa dei carabinieri, dopo che la Ferraro lo aveva informato del colloquio con il capitano De Donno per quella che riteneva un’inammissibile interferenza dei carabinieri in attività di esclusiva competenza della neo istituita Dia e di averne parlato con i vertici degli apparati di polizia dell’epoca (certamente il capo della Polizia Parisi, e il ministro dell’interno in carica, anche se inizialmente non ricordava se ne avesse parlato con Scotti o con Mancino, che però negano; così come nega di essere stato informato da Martelli l’allora capo della Dia, il generale Tavormina che sul punto è stato categorico ed è apparso tanto fermo e deciso quanto, una volta tanto, coerente e sincero: v. supra).
E quando la Ferraro lo informò che Mori aveva sondato preso di lei la possibilità di fare avere il passaporto a Ciancimino, si adirò ancora più della prima volta. […] Vero è che Martelli ha sempre sostenuto che la sua avversione all’iniziativa del Ros fosse legata unicamente a quella che lui riteneva essere un’inammissibile prevaricazione dei doveri d’ufficio dei carabinieri a danno del nuovo organismo investigativo cui spettava la direzione e il coordinamento di tutte le attività investigative in materia di criminalità organizzata; ma a parte il travisamento dell’assetto normativo che lui stesso e il suo staff avevano contribuito a varare, su input di Falcone, dal momento che il Ros era uno dei Servizi di polizia centrale legittimati a compiere investigazioni in materia di criminalità organizzata — ed è singolare che nessuno del suo entourage, a cominciare dalla stessa Ferraro non avessero segnalato al ministro l’errore in cui era incorso, potendosi al più contestare il fatto che non ne fosse stata informata la Dia, in violazione dell’art. 4 della legge istitutiva — il fatto stesso che il ministro della Giustizia si fosse tanto irritato e avesse ritenuto di doversene dolere, informandoli, i vertici degli apparati di sicurezza, attesta come lui stesso non la ritenesse un’operazione di poco conto. Anche se il senatore Mancino stigmatizza proprio il fatto che, per ammissione dello stesso Martelli, dopo che lo avrebbe informato in occasione della visita di cortesia che lo stesso Mancino fece in via Arenula in data 4 luglio 1992. Martelli, per sua stessa ammissione non tornò più sull’argomento: segno che non riteneva la questione meritevole di particolare attenzione.
CIANCIMINO CHIEDE DI ESSERE SENTITO DA VIOLANTE
L’on. Violante, a sua volta, si irrigidì di fronte alla richiesta di Ciancimino, veicolatagli da Mori, di un colloquio riservato, invitandolo semmai ad avanzare formale richiesta di essere sentito dalla Commissione Antimafia. E contestò subito al Col. Mori l’anomalia della sua iniziativa — di un’operazione di collaborazione investigativa, destinata ovviamente a restare segreta, della quale Mori lo aveva edotto mentre non ne aveva riferito all’A.g. competente, né intendeva farlo — e la spiegazione in sé contraddittoria dello stesso Mori non l’ha mai convinto: se non aveva l’obbligo di riferirne all’A.g. essendo Ciancimino ancora solo una fonte confidenziale, tanto meno avrebbe dovuto riferirne ad un esponente politico, sollecitando un colloquio riservato.
E se l’obbiettivo era solo quello di potere il Ciancimino esporre le sue verità su vicende di interesse e carattere squisitamente politico, non v’era ragione di farlo in una sede che non fosse l’audizione dinanzi alla Commissione Antimafia.
[...] È certo che Vito Ciancimino chiese di avere un colloquio riservato con l’on. Violante, veicolando tale richiesta allo stesso Presidente della Commissione Antimafia attraverso il Col. Mori che, a sua volta in via riservata, lo incontrò più volte per parlargli di Ciancimino. L’imputato Mori ha sempre negato (nelle sue spontanee dichiarazioni) di essersi fatto latore di una richiesta di Vito Ciancimino di avere un colloquio a quattro occhi con il Presidente della Commissione Antimafia. La sua versione è che la richiesta, che in effetti lui stesso rivolse all’on. Violante era solo di essere ascoltato in Commissione Antimafia.
Si tornerà in pRosieguo sul contrasto tra le due versioni, e sulle ragioni per cui deve ritenersi fondata e provata anche sulla scorta di risultanze documentali la ricostruzione offerta dall’on. Violante in ordine alla serie di contatti che ebbe con il Col. Mori sul tema Ciancimino, a partire da un primo incontro che egli colloca poco dopo la sua elezione a Presidente della Commissione Antimafia. Basti qui anticipare che non v’è motivo di dubitare della sincerità dell’ex Presidente della Camera, anche in considerazione degli argomenti addotti a supporto della certezza del suo ricordo sul punto [...].
Sulle vere ragioni per le quali Vito Ciancimino tenesse ad avere un colloquio riservato con l’on. Violante si possono ovviamente formulare congetture diverse. Erano note le entrature del Presidente Violante e il credito di cui godeva negli ambienti giudiziari, unito ad un già consolidato prestigio politico, quale autorevole rappresentante della maggiore forza di opposizione presente in parlamento.
È quindi possibile e del tutto plausibile che Vito Ciancimino volesse sondarne la disponibilità a spendersi a favore del suo caso personale (e giudiziario), in vista dell’obbiettivo che più gli premeva, che era quello di vedere riconosciuta la sua innocenza rispetto all’accusa di fare pane di Cosa nostra, sovvertendo il pronostico di un esito sfavorevole del giudizio d’appello ancora pendente nell’ambito del procedimento in cui era stato già condannato per il reato di associazione mafiosa. E tutto ciò in cambio di una profferta di disponibilità dello stesso Ciancimino a collaborare per una soluzione “politica” della situazione di allarme per l’escalation della violenza mafiosa, o comunque ad offrire i suoi servigi e le sue conoscenze e relazioni per venire a capo del problema.
Ma una linea di doveRosa prudenza nel valutare i fatti osservando la massima aderenza a ciò che è stato realmente accertato suggerisce una diversa conclusione.
È certo infatti che Ciancimino non insistette più di tanto nella sua richiesta di colloquio riservato (anche se l’on. Violante ha dichiarato che tale richiesta gli fu rinnovata anche in occasione di un secondo incontro con Mori [...]), o comunque si rassegno e si adeguò all’indicazione del presidente Violante che lo aveva invitato, sempre per il tramite di Mori, a presentare direttamente alla commissione Antimafia formale richiesta di audizione, ove tenesse ad essere sentito (senza che, peraltro, lo stesso Violante assumesse alcun impegno al riguardo).
Non si può quindi escludere che l’obbiettivo immediato di Vito Ciancimino fosse proprio quello di essere finalmente ascoltato dalla Commissione Antimafia, per potere dispensare le sue “verità (sui grandi delitti politici, sulla presunta e a lui ritenuta certa matrice politica delle stragi, su Tangentopoli e quant’altro), e rilanciare da una pubblica e prestigiosa tribuna la sua credibilità politica e personale, non disgiunta dalla velata minaccia di essere depositano di indicibili segreti sulle collusioni politico-mafiose affaristiche.
LE ESIGENZE DI DON VITO
E in tale prospettiva, la sua esigenza di un colloquio riservato con Violante, nella qualità da questi rivestita di Presidente della Commissione Antimafia, scaturiva da una serie di precedenti decisamente negativi, poiché per almeno quattro volte le Commissioni Antimafia precedenti a quella presieduta dall’on. Violante avevano rigettate le sue richieste di audizione (talvolta adducendo a pretesto, secondo le doglianze reiterate dallo stesso Ciancimino in alcuni suoi scritti, l’irricevibile condizione posta, in una delle istanze presentate in passato, di una diretta televisiva o comunque di una pubblicità della sua audizione: condizioni alle quali adesso era pronto a rinunciare).
Egli avrebbe quindi voluto strappare al Presidente Violante — e poteva farlo solo in un colloquio a quattrocchi — la promessa o l’assicurazione che questa volta la sua richiesta di essere sentito dalla Commissione Antimafia sarebbe stata accolta.
Detto questo, non si può formulare una previsione postuma su cosa sarebbe potuto germinare da un colloquio riservato se il Presidente Violante avesse accolto quella richiesta che invece respinse con fermezza. Ed è anche probabile che Vito Ciancimino non si sarebbe fatta scappare l’opportunità di perorare anche la causa delle sue vicissitudini giudiziarie. Ma da qui ad ipotizzare che essa abbia costituito anche un tentativo ordito con la complicità di Mori di tessere un lembo della trama occulta di una potenziale trattativa tra lo stato e Cosa nostra ovviamente ne passa.
Quel che è certo è che Mori si adoperò per assecondare le richieste di Ciancimino. E lo fece incontrando più volte il Presidente Violante, anche in epoca pRossima ma successiva al 21 ottobre, ovvero in un frangente in cui la trattativa tra il Ros e Ciancimino si era bruscamente interrotta, stando alla narrazione dei due ufficiali, per avere essi opposto alla domanda su cosa avessero da offrire una richiesta semplicemente irricevibile (come quella che i boss latitanti si consegnassero). E, in teoria, in quei giorni i contatti tra loro erano sospesi: sarebbero ripresi solo dopo che Ciancimino maturò la decisione di “passare il Rubicone” e richiamò (non Mori, ma) il Capitano De Donno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Nessuna “sponda” all’azione del Ros, ma la politica lasciò fare. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 23 novembre 2022
E allora ha ragione sotto questo profilo il generale Mori: non ricavarono, da quei contatti istituzionali, alcun segnale esplicito di incoraggiamento o di condivisione; ma neppure furono scoraggiati o dissuasi dal persistere nella loro iniziativa. E nessuno li chiamò per chiedere spiegazioni o chiarimenti. Come dire che la politica lasciò fare
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In realtà, le rivelazioni di Massimo Ciancimino mutavano profondamente la cifra, le dimensioni e la stessa natura dell’operazione di cui i testi in questione erano stati a suo tempo, e solo parzialmente, messi al corrente, dandone un’immagine complessiva radicalmente diversa e assai più inquietante rispetto a quella di una mera operazione di alta investigazione, sia pure spregiudicata o con tratti di irritualità e persino di illegittimità: che era poi l’immagine corrispondente alla versione che fino a quel momento era stata data per vera o accreditata in tutti i processi in cui la vicenda era stata approfondita o solo lambita (come il Borsellino Ter o i primi due processi a carico di Antonino Cinà per il reato di associazione mafiosa o il processo a carico di Mori e De Caprio per il reato di favoreggiamento aggravato in relazione alla mancata perquisizione del covo di Riina).
Persino i giudici fiorentini del processo per le stragi in continente, o almeno i giudici d’appello, per le conseguenze che aveva innescato, non sembrano dubitare che «l’operazione era finalizzata a far divenire il Ciancimino un sorta di collaboratore di giustizia o loro confidente al fine non solo di potere avere importanti notizie sulla struttura maliosa ma anche al fine di potere arrestare il capo di Cosa nostra che era il Salvatore Riina».
Anche se, va rammentato, in un passaggio incidentale della motivazione della sentenza d’appello di quel processo si coglie come gli stessi giudici non si sentivano di escludere che quella vicenda potesse essere spia di scenari molto più inquietanti, che tuttavia reputavano ininfluenti ai fini della decisione in ordine ai reati per cui ivi si procedeva, e quindi non meritevoli di ulteriori approfondimenti.
I PROCESSI DI FIRENZE
Ed ancora più pesanti erano stati gli apprezzamenti riservati dai giudici di primo grado di quei processo all’iniziativa dei carabinieri del Ros, stigmatizzata come assolutamente improvvida per le gravi conseguenze che aveva innescato.
Nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Firenze il 6.06.1998, per la prima volta — come rammentato anche dal giudice di prime cure del presente processo — viene dato risalto, sulla base di precise risultanze processuali, all’esistenza di un nesso specifico tra la condizione di disagio e lo stato di sofferenza e fibrillazione nel popolo di Cosa nostra e tra gli affiliati mafiosi per l’intensificazione della stretta carceraria e dell’azione repressiva dello stato poste in essere nell’estate del ‘92 nel quadro di una (finalmente) forte e decisa reazione alle stragi siciliane e alcune “improvvide iniziative” verificatesi nel medesimo contesto temporale.
Per la prima volta si evidenzia come in quell’estate cominciò a farsi strada l’idea che la risposta più efficace a quella reazione potesse essere quella di riprendere e intensificare la violenza mafiosa, cambiando però target e cioè aggredendo il patrimonio artistico e monumentale e quello paesistico, e seminando il terrore nelle zone di maggiore attrattiva turistica, per dare maggiore forza d’intimidazione al ricatto alle Istituzioni, alla pretesa di conseguire, con una violenza strutturata in termini di un attacco in grande stile allo stato, un obbiettivo di massima, consistente in un allentamento dell’azione repressiva in modo da ripristinare condizioni di maggior vivibilità per tutti gli affiliati mafiosi a cominciare dai detenuti; ma, più specificamente, che si conseguissero alcuni risultati concreti, oggetto di specifiche aspettative e rivendicazioni o aspirazioni dei vertici mafiosi, quali l’abolizione del regime speciale deI 41 bis, la chiusura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara, l’abolizione dell’ergastolo, la sterilizzazione della disciplina in materia di collaboratori di giustizia o di quella in materia di M.P. soprattutto patrimoniali.
E per la prima volta in quella sentenza si esprime il convincimento, motivato e ragionato sugli atti processuali, che l’iniziativa dei carabinieri del Ros, attuata attraverso i contatti intrapresi con Vito Cancimino, rafforzò nei capi mafiosi dell’epoca il convincimento che la strage fosse pagante. E ciò indipendentemente dalle ragioni e dalle finalità perseguite dagli stessi carabinieri, e quindi anche se si fosse prestato fede alla ricostruzione che ai giudici fiorentini era stata offerta dal Col. Mori e dal Capitano De Donno.
La sentenza di primo grado del proc. Bagarella +25, per la verità, già nel lontano 1998 - e nulla sapendo delle interlocuzioni di Mori e De Donno con vari esponenti politici e funzionari ai vertici delle istituzioni -non mancò di esprimere forti riserve e perplessità sull’attendibilità ditale ricostruzione, con una serie di considerazioni che la sentenza qui impugnata ha riportato testualmente e fatto proprie, e che saranno riprese tra breve. E tuttavia i giudici della Corte d’Assise di Firenze reputarono ininfluente, ai fini del giudizio loro demandato, accertare quali fossero le finalità concrete che avevano mosso gli ufficiali del Ros a intraprendere contatto con Vito
Ciancimino, ed in particolare «Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa», poiché tale questione poteva (e doveva) interessare a chi sarebbe stato chiamato a giudicare l’operato degli uomini del Ros. Mentre, ai fini del giudizio di responsabilità nei riguardi degli imputati per le stragi in continente, «Quello che conta. invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del Ros, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro».
E sotto questo aspetto, i giudici fiorentini non nutrirono alcun dubbio: «l’iniziativa dei Ros (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione».
DUBBI E PERPLESSITÀ SULL’AZIONE DEL ROS
[…] Ora, il fatto stesso che tutti gli esponenti istituzionali che furono informati da Mori e De Donno dell’iniziativa in fieri con l’ex sindaco di Palermo avessero motivo di dubitare delle sue reali finalità o si interrogarono sulle ragioni per cui gli ufficiali predetti li (le) avessero contattati dimostra quanto fosse fondato il sospetto quanto meno di scarsa trasparenza sulla vera natura dell’intera operazione.
Il dato ceno è che i reiterati sondaggi di Mori e De Donno sulla disponibilità dei vertici politico-istituzionali a prestare attenzione e a mostrare interesse per l’operazione Ciancimino non sortirono forse gli effetti sperati, poiché non ne venne alcun esplicito incoraggiamento o segnale di condivisione (come i carabinieri avevano auspicato e sollecitato che avvenisse).
È anche vero però che nessuno li fermò. Nessuno li chiamò a rendere conto del loro operato o a chiarire le vere finalità perseguite. E ciò vale in particolare per Claudio Martelli, che più di ogni altro avrebbe avuto l’autorità necessaria per sollevare la questione, fino a portarla in Consiglio dei ministri, se necessario, o almeno a tornare sull’argomento con il ministro dell’Interno in carica, se è vero che già vi aveva fatto cenno in prossimità del suo insediamento; o a investirne riservatamente il presidente del Consiglio.
Invece, è certo che non fece nulla di tutto ciò (anche se poi qualcosa fece, quando allertò il procuratore Siclari sulla vicenda della richiesta di rilascio del passaporto a Ciancimino: v. infra).
La sua giustificazione è che non intravide alcuna possibile valenza di complotto politico, neppure per gli aspetti più irrituali, a suo giudizio, della condotta posta in essere dai carabinieri e che più lo irritarono.
Ma se ciò che loro rimproverava era solo di avere prevaricato le loro competenze a danno della Dia, oltre a parlarne e piuttosto che parlarne con il direttore della stessa Dia — che nega di esserne stato informato — e a investire della questione il ministro dell’interno, avrebbe dovuto conferire con il superiore diretto degli ufficiali infingardi, cioè con Subranni; oppure con il comandante dell’Arma, Generale Viesti; o, se voleva bypassare la gerarchia militare e investire l’autorità politica di riferimento, con il ministro della Difesa che, per inciso era pure un suo compagno di partito. Né si può dimenticare che il senatore Mancino è stato assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” — assoluzione ormai definitiva, non essendo stata tale pronunzia impugnata dalla pubblica accusa — dall’imputazione per il reato di falsa testimonianza che gli era stato contestato, in relazione alla deposizione resa nel processo a carico del Generale Mori e del Maggiore Obinu, proprio per avere falsamente affermato di non essere mai venuto a conoscenza, tra l’altro, “delle lagnanze del ministro della Giustizia Martelli sull‘operato dei sopra indicati Ufficiali dei Carabinieri” (oltre che “dei contatti intrapresi, in epoca immediatamente successiva alla strage di Capaci, da esponenti delle Istituzioni, tra i quali gli Ufficiali dei Carabinieri Mori Mario e De Donno Giuseppe, con Ciancimino Vito Calogero e per il tramite di questi con gli esponenti di vertice dell‘associazione mafiosa Cosa nostra”), come recitava il capo C) dell’originaria rubrica d’accusa di questo processo.
Vuoi dire che ha mentito Martelli? No, perché è possibile che questi gli abbia riferito solo in termini generici del fatto che i carabinieri del Ros non la finivano di interferire in attività che dovevano ritenersi di competenza della Dia o a cui comunque non erano autorizzati (ma senza entrare nel merito di specifiche attività investigative); oppure che gli abbia fatto cenno, ma non più di tanto, e a riprova della sua doglianza, dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino, ma tale cenno sia sfuggito all’attenzione del neo ministro Mancino, in effetti, ha decisamente escluso che Martelli possa avergli parlato espressamente di Vito Ciancimino e dei contatti intrapresi dai carabinieri; ma non ha invece escluso che possa avergli fatto cenno di questioni relative a contrasti e tensioni tra Dia e altri organismi investigativi e, in tale contesto, a indagini in materia di criminalità organizzata svolte dai carabinieri.
Come è plausibile che quel cenno gli sia sfuggito in un momento in cui era totalmente assorbito dagli impegni e gli adempimenti connessi all’insediamento nel nuovo e delicato incarico, come peraltro sottolineato già dal giudice di prime cure che, sul punto, valorizza un eloquente inciso della deposizione resa dallo stesso Martelli (“Francamente non mi è parso che prestasse una grande attenzione a quello”).
Ma anche in tale evenienza è certo che né Mancino ebbe a chiedere ulteriori delucidazioni a Martelli, né questi gliele fornì spontaneamente, o ebbe in seguito a tornare sull’argomento, in occasione di successive interlocuzioni con il collega di governo. Neppure dopo che Mori era andato a fare visita alla Ferraro, perorando la causa del rilascio del passaporto a Ciancimino.
Ed allora ha ragione sotto questo profilo il Generale Mori: non ricavarono, da quei contatti istituzionali, alcun segnale esplicito di incoraggiamento o di condivisione; ma neppure furono scoraggiati o dissuasi dal persistere nella loro iniziativa. E nessuno li chiamò per chiedere spiegazioni o chiarimenti. Come dire che la Politica, nelle sue massime articolazioni istituzionali, debitamente informata della loro iniziativa – a riprova che essi non avevano nulla da nascondere o comunque erano mossi solo da finalità istituzionali – lasciò fare.
L’ingarbugliata vicenda del passaporto e dell’arresto di Vito Ciancimino. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 24 novembre 2022
La conclusione che la Corte ritiene di poter trarre dalle confuse e contraddittorie risultanze è che sul caso Ciancimino si scaricarono tensioni e si esercitarono spinte e contro spinte e pressioni di segno opposto. Ma alla fine non si può certo dire che l’operazione imbastita dai Carabinieri del Ros avesse ricevuto l’avallo e l’appoggio di ambienti politici, governativi o parlamentari, o giudiziari.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La testimonianza di Roberto Ciancimino offre uno spaccato eloquente del mix di rabbia, sincero sconcerto, prostrazione che contrassegnarono lo stato d’animo del padre Vito nei giorni e nelle settimane seguenti al suo inopinato arresto.
Ce l’aveva, inizialmente, con i carabinieri, rammenta Roberto Ciancimino, in quanto sospettava che fossero stati artefici di un vero e proprio tranello ai suoi danni. Prima avevano chiesto la sia disponibilità a collaborare con loro per trovare una via d’uscita alla situazione che destava tanto allarme e preoccupazione. Lui l’aveva data; ed ecco che proprio quando si stava muovendo per concretizzare la sua disponibilità, era stato arrestato con il preteso del pericolo di fuga, motivato dal fatto che aveva presentato richiesta di rilascio del passaporto [...]. Una richiesta che però era stata concertata con gli stessi carabinieri; o almeno essi non avevano trovato nulla da obbiettare, quando aveva detto loro che il passaporto gli serviva per gestire i contatti necessari.
Sul punto il capitano De Donno ha dato una versione opposta al processo Mori/Obinu, sostenendo che, al contrario, avevano tentato di dissuadere Ciancimino e comunque non era il caso di cercare scorciatoie per ottenere il rilascio del passaporto, poiché sarebbe trapelata all’esterno la notizia della collaborazione di Ciancimino.
Ma De Donno è clamorosamente smentito non tanto dalla Ferraro, la quale ha sempre declinato al plurale (i carabinieri) i suoi interlocutori sulla vicenda del rilascio del passaporto, ma non è sicura che vi fosse anche De Donno all’incontro che ebbe con il Col. Mori sull’argomento. Ma è smentito dallo stesso Mori, giacché è conclamato il fatto che questi si adoperò presso la Ferraro per perorare la causa del rilascio del passaporto. Ed è uno di più vistosi punti di contrasto nella narrazione dei due ufficiali del Ros sul tenore dei contatti e dei colloqui con Ciancimino.
E va aggiunto che, non solo nei suoi scritti e appunti vari in cui si duole della pretestuosità delle ragioni addotte per motivare il suo arresto, ma già nell’interrogatorio del 17 marzo Vito Ciancimino aveva tenuto a precisare di avere presentato la richiesta di rilascio del passaporto d’intesa con i carabinieri: senza ricevere alcuna smentita, neppure con successiva relazione di servizio, da parte dei due ufficiali, e in particolare da parte di De Donno, che verbalizzò quell’interrogatorio.
Roberto Ciancimino rammenta altresì il suo personale disagio nel girare all’avvocato Campo, storico difensore di suo padre, la richiesta di assisterlo nella presentazione — che lo stesso Roberto riteneva imprudente e controproducente, ma non lo disse al padre perché si sentirono solo telefonicamente - dell’istanza per il rilascio del passaporto. Suo padre successivamente, nel corso dei colloqui in carcere, gli spiegò che s’era determinato a compiere quel passo — Roberto apprese solo dopo l’arresto che l’aveva effettivamente presentata — nonostante il parere contrario dell’avvocato Campo (motivo per il quale si era rivolto all’avvocato Ghiron) proprio perché i carabinieri gli avevano detto di non avere nulla in contrario [...].
In un successivo sforzo di razionalizzare più a freddo la sua vicenda, ha detto ancora Roberto Ciancimino, il padre, premessa la sua convinzione che dietro le stragi vi fossero delle responsabilità politiche a vari livelli, gli disse che forse i carabinieri erano stati complici involontari del tranello di cui era stato vittima. In pratica, essi dovevano avere riferito dei loro colloqui a qualche politico dal carbone bagnato e questo si era mosso per farlo arrestare. E aggiunge: questo era quello che diceva mio padre [...]. Sempre secondo la teoria di suo padre, ai politici interessava soltanto che si arrestassero Riina e Provenzano e chiudere al più presto la situazione.
Se io cominciavo a fare domande su che aria tira e cose, non gli conveniva a nessuno. In pratica, a partire dal momento in cui si era proposto di infiltrarsi nel sistema degli appalti, per conto dei carabinieri, si era deciso di eliminarlo dalla scena. Ma non era stata un’idea degli stessi carabinieri (quella di fermarlo), anzi loro credevano nell’iniziativa da lui proposta, ma ne avevano informato qualcuno che si era attivato per stroncarla ("Era stata una iniziativa..., però credendo in questo rapporto avevano informato qualcun altro che si era attivato per bloccare il tutto").
UN COMPLOTTO CONTRO CIANCIMINO?
Insomma, secondo il verbo cianciminiano, il nuovo arresto dell’ex sindaco di Palermo sarebbe stato frutto di un complotto ordito in ambienti politici per impedirgli di portare a termine la missione per cui si era proposto ai carabinieri. Questi ultimi ne sarebbero stati complici involontari, poiché per parte loro credevano nella validità dell’iniziativa che era stata proposta da Ciancimino. Ma avrebbero commesso l’imprudenza di informarne qualche politico dal carbone bagnato.
Ne discenderebbe allora che la collaborazione instaurata con i carabinieri si prefiggeva obbiettivi che andavano al di là di quello pur importante della cattura di boss latitanti; ovvero, persino nella configurazione assunta nella sua fase finale, e cioè sino all’arresto, sarebbe stata qualcosa di più di un’operazione di polizia, tanto da indurre i carabinieri a informarne qualche esponente politico che poi, a loro insaputa, si sarebbe attivato per fare fallire l’operazione.
Ciò posto, siamo in grado, a distanza di tanti anni e di tanti processi che peraltro proprio su questa vicenda hanno glissato, di comprendere come andarono le cose; e come l’arresto di Ciancimino fu il prodotto di una concatenazione in parte fortuita di eventi, e non di un complotto del tipo di quello evocato dallo stesso Ciancimino tra le righe delle doglianze reiterate nei suoi scritti e, più esplicitamente, nei colloqui con i familiari. Anche se ad innescare quella catena di eventi in effetti una dinamica molto simile a quella descritta da Roberto Ciancimino nel riportare le conclusioni cui era pervenuto suo padre.
Ad avviso di questa Corte, infatti, può darsi per provato che il ministro Martelli, informato nell’ultima decade di ottobre del 1992 dal Direttore degli Affari Generali (Liliana Ferraro) che i carabinieri del Ros – ancora impegnati nel dare corso ad un’operazione incentrata sulla presunta collaborazione di Vito Ciancimino che già aveva fatto storcere il naso al ministro della Giustizia quando ne era stato informato per la prima volta alla fine di giugno dello stesso anno – avevano in qualche modo sondato la disponibilità del ministro a non frapporre ostacoli al rilascio del passaporto che il Ciancimino aveva intenzione di chiedere, fece esattamente ciò che i carabinieri non avrebbero voluto: si mise di traverso a quell’iniziativa, deciso a stroncarla, perché la valutò come inappropriata, nella parte che concerneva l’eccessiva intraprendenza del Ros nel promuovere iniziative che avrebbero dovuto essere svolte dalla Dia o in stretto coordinamento con la Dia; e inopportuna o financo pericolosa nel merito perché si dava ad un personaggio ambiguo e pericoloso come Vito Ciancimino l’opportunità di sottrarsi alla giustizia.
Martelli quindi informò il procuratore Generale Siclari. Abbiamo anche una data certa: il 21 ottobre, giorno dell’incontro di Mori con la Ferraro nel corso del quale si parlò del passaporto di Ciancimino. La Ferraro ne informò in tempi brevi — non può dire se lo stesso giorno o pochi giorni dopo — il ministro, che senza indugio acchiappò il telefono, per usare le sue parole e investì del problema il procuratore Siclari, pregandolo di adottare i provvedimenti più opportuni.
Certo è che sei giorni dopo l’incontro annotato sull’agenda di Mori viene presentata, dalla procura Generale di Palermo una richiesta di ripristino della custodia cautelare nei riguardi di Vito Ciancimino, in relazione all’imputazione di associazione mafiosa per la quale aveva già riportato condanna in primo grado motivata dal pericolo di fuga.
È una richiesta che poteva destare perplessità perché l’imputato era stato scarcerato per decorrenza termini dieci anni prima (novembre ‘85). E per tutti questi anni era stato sottoposto a varie misure restrittive senza che la sua condotta desse mai adito ad alcun rilievo. [...]
Non si può dire però che la richiesta di ripristino della custodia cautelare si basasse su una motivazione pretestuosa o "apparente", che ne dissimulasse la vera causale. A sostegno si deducevano oltre all’imminente conclusione del giudizio d’appello (fissato per il 18 gennaio 1993), taluni eventi particolari verificatisi in questi ultimi mesi. In particolare, si faceva riferimento alla collaborazione con la giustizia intrapresa da ultimo da Gaspare Mutolo, accreditato di notevole spessore criminale e già uomo di fiducia del capo mandamento e componente della Commissione Rosario Riccobono, il quale aveva riferito importanti notizie non solo su episodi omicidiari come l’omicidio Mattarella e l’omicidio Lima, ma anche sui legami di esponenti politici con ambienti della criminalità mafiosa. E tra questi ultimi aveva fatto il nome di Ciancimino, evidenziandone i collegamenti con Riina, i contrasti che aveva avuto con l’on. Lima, i collegamenti con vari costruttori in odor di mafia, alcuni particolari sull’omicidio Mattarella che in qualche modo riguardavano Ciancimino ed infine la disponibilità di un patrimonio stimato in svariati miliardi.
[...] E peraltro già nella seduta del 15 ottobre, come ha ricordato l’on. Violante, anche la Commissione Antimafia aveva attenzionato il caso Ciancimino, in relazione al ritardo abnorme nella definizione del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale che si trascinava da quattro anni in grado di appello.
Di contro, appena due giorni dopo avere avanzato la richiesta di arresto — rectius, ripristino della custodia cautelare in carcere — lo stesso ufficio requirente avanzò una nuova richiesta, decisamente insolita: quella di soprassedere sulla richiesta di arresto, in quanto s’era avuta notizia che Vito Ciancimino dovesse essere sentito dalla Commissione Antimafia (o meglio, come recita testualmente la Nota: "si è appreso che il Ciancimino ha chiesto di essere ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia per fornire alla stessa notizie rilevanti di cui sarebbe in possesso"); e quindi non era opportuno intralciare i lavori della Commissione parlamentare e interferire con i suoi programmi, come sarebbe inevitabilmente accaduto se si fosse proceduto all’arresto del Ciancimino.
Ora, se si considera che nella nota indirizzata il 29 ottobre 1992 al Presidente della Terza sezione penale della Corte d’Appello di Palermo ci si limita a prendere atto che v’era solo una richiesta di Ciancimino di essere ascoltato, ma neppure si dava per certo che ciò sarebbe avvenuto e tanto meno di facevano previsioni sulla data di un’eventuale audizione, appare chiaro come la nuova determinazione equivaleva ad una sospensione sine die della richiesta precedente e quindi un rinvio, per così dire a babbo morto di ogni decisione sulla richiesta teoricamente ancora pendente di arresto. E ciò fa presumere che la procura generale non fosse tanto convinta che vi fosse un pericolo concreto e attuale di fuga, o che avesse mutato orientamento sul punto (ma dopo appena due giorni e sulla base di notizie di stampa, come pure si precisa nella Nota citata).
CONTROMOSSE E RICHIESTE
Insomma, sembrerebbe essere stata una classica contromossa, volta a parare gli effetti della prima mossa (e cioè sollecitare l’arresto di Ciancimino, su cui adesso si chiedeva di soprassedere) se non fosse per il fatto che tale contromossa proveniva dallo stesso ufficio requirente autore della (presunta) prima mossa. Circa quaranta giorni dopo, il meccanismo che avrebbe riaperto le porte del carcere a Vito Ciancimino, prima ancora della conclusione del giudizio d’appello, si rimette in moto.
La procura generale di Palermo, con una nuova nota datata 7 dicembre 1992, valuta esaurito il tempo dell’attesa e richiamando la precedente richiesta del 27 ottobre e la successiva nota del 29 ottobre, sollecita la competente A.g. a provvedere in merito al ripristino della custodia cautelare in carcere per Vito Ciancimino. Non sembra però che fosse accaduto nulla che potesse avere alterato il quadro preesistente; e infatti, nella Nota nr. prot. 145/92 bis. del 7 dicembre ‘92 si evidenzia solo che la Commissione parlamentare Antimafia non aveva ancora proceduto all’audizione del Ciancimino, né risultava che questi avesse più sollecitato tale audizione, sicché, a giudizio dell’ufficio richiedente, erano venute meno le ragioni che avevano indotto a formulare la Nota del 29 ottobre.
La situazione precipita a partire dall’11 dicembre. […] In data 17 dicembre, la III Sezione penale del tribunale di Palermo emetteva ordinanza applicativa del divieto di espatrio nei riguardi del Ciancimino; e il giorno dopo, 18 dicembre era la volta della III Sezione penale della Corte d’Appello di Palermo emettere a sua volta ordinanza con cui disponeva il ripristino della custodia cautelare.[...]. E il fatto che il prevenuto non fosse ricorso a sotterfugi, ma avesse adito le vie legali per il rilascio di titolo valido per l’espatrio, che poteva apparire incompatibile con la volontà di fuggire (che sarebbe in tal modo come preannunciata, si legge nel provvedimento), viene piuttosto valutato come indizio di astuzia, e del tentativo in un uomo abile, intelligente e non ignaro delle leggi, di sottrarsi definitivamente alla giurisdizione italiana, ricorrendo ad uno strumento che gli avrebbe evitato i rischi e il disagio di un espatrio clandestino.
TENSIONI E PRESSIONI SUL "CASO CIANCIMINO"
La conclusione che questa Corte ritiene di poter trarre dalla congerie di confuse e contraddittorie risultanze sopra richiamate è che sul caso Ciancimino si scaricarono tensioni e si esercitarono spinte e contro spinte e pressioni di segno opposto. Ma alla fine non si può certo dire che l’operazione imbastita dai carabinieri del Ros, cui l’arresto di Ciancimino non giovava, avesse ricevuto l’avallo e l’appoggio di ambienti politici, governativi o parlamentari, o giudiziari.
Al contrario, al veto di Violante rispetto alla richiesta di un colloquio riservato e alla successiva "melma" sull’audizione di Ciancimino, che di fatto non venne mai calendarizzata, si aggiunse la furibonda reazione di Martelli che verosimilmente innescò il meccanismo che anche per spinta inerziale portò alla fine all’arresto dell’ex sindaco di Palermo e all’inizio di una detenzione in carcere che si sarebbe prolungata senza soluzione di continuità per circa sette anni.
IPOTESI ANCORA DA VERIFICARE
Detto questo, deve convenirsi che non si può pervenire a valide conclusioni probatorie ragionando sulla base di sospetti o di congetture per quanto plausibili. Il sospetto di una residua reticenza degli esponenti politico istituzionali con cui Mori e De Donno ebbero varie interlocuzioni in ordine ai contatti intrapresi con Ciancimino, sotto il profilo che essi possano aver detto meno di ciò che lii loro detto o lasciato intendere nel corso di quelle interlocuzioni circa le reali finalità dell’iniziativa, resta ciò che è: un mero sospetto. Come resta un’ipotesi, ancora da verificare, che le ambiguità irrisolte di quell’iniziativa, o del modo in cui venne rappresentata dagli ufficiali del Ros a vari interlocutori politici e istituzionali, ne dissimulassero le reali finalità.
Non è dalle testimonianze di detti interlocutori, insomma, che può venire una parola definitiva proprio su questo punto, che è decisivo ai fini del giudizio di responsabilità nei riguardi, in primo luogo, degli ex ufficiali del Ros qui imputati di concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello stato; ma di riflesso anche nei riguardi dei coimputati che ne rispondono quali autori del reato.
Ma che sia necessario dare, sul punto, una risposta definitiva era certamente, ed è, compito di questo processo, nelle sue varie fasi e gradi di giudizio. Era cioè — ed è — compito di questo processo, e lo è tanto più in questo grado di appello per rispondere alle postulazioni difensive degli odierni appellanti, raccogliere l’invito, quasi un passaggio di consegne, dei giudici del primo processo celebrato sulle stragi in continente.
Si legge infatti a pag. 954 della cit. sentenza della Corte d’Assise di Firenze, 6.06.1998:
"Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del Ros a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria "trattativa". ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all'attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del Ros ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve. all'esterno e oggettivamente, l’iniziativa del Ros, e come la intesero gli uomini di "cosa nostra". Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro...".
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Tensioni, proteste e dimissioni di massa alla procura di Palermo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 novembre 2022
Al nuovo procuratore capo Pietro Giammanco non si perdonava di avere concorso a causare una perdita di credibilità esterna dell’Ufficio, a causa delle sue frequentazioni con uomini politici molto chiacchierati e discussi per le loro presunte o accertare relazioni con ambienti della criminalità mafiosa, o ritenuti contigui ad essa
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il documento di protesta redatto dai magistrati “dimissionari” della procura di Palermo nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio, verteva in misura preponderante sul malessere per condizioni di lavoro che non consentivano di portare avanti con efficacia la lotta alla c.o., a causa, principalmente, di inefficienze, o colpevoli inerzie, o improvvisazione e mancanza di adeguata pianificazione da parte degli organi preposti alla tutela della sicurezza dei colleghi più esposti (come era stato il dott. Borsellino), ma anche per la ritenuta impreparazione e l’inadeguatezza del personale di polizia addetto ai servizi di scorta. Ivi si stigmatizzava, come fattore di aggravamento del rischio per gli stessi magistrati, “la perdurante latitanza degli altri poteri dello stato sul fronte della complessiva risposta istituzionale alla criminalità mafiosa e precipuamente sul terreno cruciale dei rapporti mafia-politica, che finisce con il creare le condizioni di una loro oggettiva ed esclusiva sovraesposizione”.
Il documento deplorava altresì la “conclamata incapacità da parte degli organi responsabili di dare concreta esecuzione alle sentenze definitive di condanna mediante la cattura dei latitanti, e, in particolare, di alcuni dei capi di Cosa nosra”, rinvenendovi un altro fattore che contribuiva a rendere sterile gli sforzi della giurisdizione penale per contrastare il fenomeno mafioso, alimentando in noi un senso di frustrazione se non di inutilità del lavoro svolto e dei rischi conseguenti.
Solo nella chiosa finale si segnalava l’esistenza di divergenze e spaccature acuitesi dopo la strage di via D’Amelio e che solo una guida particolarmente autorevole e indiscussa potrebbe ricomporre e sanare, così esprimendo in effetti un apprezzamento fortemente critico, ancorché indiretto, all’operato del capo dell’ufficio. Pure il documento redatto in pari data (23 luglio 1992) da altri nove colleghi del medesimo Ufficio per esprimere la loro piena solidarietà ai colleghi “dimissionari” della Dda magistrati, oltre a condividerne le motivazioni nella parte in cui evidenziano le oggettive condizioni di impossibilità a continuare la lotta alla criminalità mafiosa, accenna al constatato clima di contrapposizione e disagio all’interno dell’Ufficio nel suo complesso.
Ma le audizioni dinanzi al Csm dei magistrati predetti e anche degli altri magistrati della procura di Palermo che non avevano sottoscritto nessuno dei due documenti citati (nonché dello stesso procuratore Giammanco, e del procuratore generale e dell’avvocato generale) e i chiarimenti forniti anche sulla genesi e le finalità perseguite nel redigere quei documenti danno un’idea adeguata e aderente al vero delle divergenze e spaccature interne all’Ufficio, ivi segnalate.
SOTTO ACCUSA L’OPERATO DI GIAMMANCO
Se ne ricava un quadro convincente delle problematiche che vi avevano dato causa, e che poco o nulla avevano a che vedere con presunti dissensi e contrasti sulle scelte adottate in ordine all’indagine mafia e appalti.
Al netto di questioni e divergenze fisiologiche in qualunque ufficio giudiziario, specie se di grosse dimensioni — come i criteri di assegnazione dei fascicoli, la creazione di gruppi di lavoro o pool specializzati per tipologie di reati o con ulteriore ripartizione per ambiti di “competenza” territoriale, l’eccessiva parcellizzazione che poteva derivarne a procedimenti, come quelli per reati associativi e di associazione mafiosa, in particolare, per i quali sarebbe stata consigliabile o addirittura necessaria una trattazione unitaria; ed ancora, i criteri di cooptazione di nuovi sostituti nella Dda — al capo dell’ufficio si rimproverava, a torto o a ragione da parte dei magistrati più critici del suo operato, scarsa sensibilità al problema della sicurezza e un approccio tendenzialmente burocratico” alla conduzione delle indagini, attento, soprattutto per quelle più delicate, più alle reazioni che le scelte adottate potessero suscitare in seno all’opinione pubblica che al merito di quelle scelte.
Tutti convenivano peraltro sulle capacità manageriale del procuratore Giammanco, che aveva implementato come mai erano riusciti a fare i suoi predecessori la dotazione di mezzi, attrezzature e anche personale dell’Ufficio di procura, e sulla sua capacità di instaurare rapporti più che cordiali e persino accattivanti, sul piano umano, con i singoli sostituti, e sulla sua disponibilità a venire incontro alle esigenze di ciascuno. E tutti escludevano che al procuratore Giammanco potessero ascriversi propositi e tentativi di interferire nella conduzione delle indagini da parte dei magistrati che vi erano preposti, o di orientare le scelte da adottare o di esercitare la benché minima pressione per condizionare l’esito di un procedimento.
Al procuratore si riconosceva altresì di avere introdotto una prassi destinata almeno nelle intenzioni a rendere più partecipativa l’attività dell’ufficio per le indagini più delicate, con periodiche assemblee o riunioni tra i magistrati della D.D.A. che potevano così confrontarsi e scambiarsi idee e informazioni sulle rispettive indagini. Anche se non è mancato chi ha stigmatizzato come la collegialità delle scelte dell’Ufficio fosse più apparente che reale perché il procuratore o, meglio, i sostituti a lui più vicini non di rado giungevano alle riunioni con soluzioni già preconfezionate e che ben poco spazio lasciavano alla discussione (cfr. De Francisci e Sabbatino).
Non gli si perdonava però, da parte dei magistrati più critici — in particolare da parte degli otto “dimissionari” — di avere concorso a causare una perdita di credibilità esterna dell’Ufficio, a causa delle sue frequentazioni con uomini politici molto chiacchierati e discussi per le loro presunte o accertare relazioni con ambienti della criminalità mafiosa, o ritenuti contigui ad essa.
LA “VICINANZA” A MARIO D’ACQUISTO
Era notoria in particolare la sua amicizia, mai negata ed anzi pubblicamente ammessa, con l’onorevole Mario D’Acquisto, ritenuto peraltro molto vicino a Salvo Lima. Quel legame personale, ancorché del tutto disinteressato e risalente a epoca non sospetta, dava adito a facili speculazioni o ad un non peregrino sospetto che il capo di una delle procure più esposte nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa e impegnata anche in delicate indagini sul versante di possibili collusioni tra mafia e politica fosse in qualche modo avvicinabile o influenzabile a vantaggio di taluni indagati, o per preservare influenti personaggi della politica da possibili indagini a loro carico.
Andava considerato che, a fronte della progressiva sensibilizzazione dell’opinione pubblica al tema degli intrecci collusivi tra mafia e politica, la circolazione della notizia, consacrata come dato processualmente acquisito in un noto processo qual era il maxi ter di frequentazioni dell’on. D’Acquisto con soggetti in odor di mafia, cui si aggiungevano altre acquisizioni probatorie in indagini più recenti, non poteva che appannare l’immagine di imparzialità e indipendenza di un ufficio che doveva essere tenuto indenne anche solo dal più vago sospetto di inquinamenti, compromissioni, compiacenze verso ambienti o personaggi legati alla criminalità mafiosa. Tanto più perché si trattava di un ufficio giudiziario che era stato già fatto segno in tempi recenti (e cioè appena un anno prima) ad attacchi e polemiche alimentate da velenose campagne di stampa e pubbliche prese di posizione di autorevoli esponenti di un movimento politico, sfociate anche in un esposto al Csm.
La presenza e il prestigio di Falcone e di Borsellino avevano fatto per così dire da scudo contro il lievitare della sfiducia dei cittadini nei riguardi di una delle Procure più esposte sul fronte della lotta alla mafia, ed esposta essa stessa al sospetto di non volere andare fino in fondo nell’indagare su connivenze e collusioni politico-mafiose.
Ma dopo la loro morte, era venuto meno il principale baluardo contro la perdita di credibilità dell’Ufficio, che, a dire di alcuni dei magistrati “dimissionari”, era un dato di fatto di cui non poteva non tenersi conto, perché ne andava dell’autorevolezza dell’Ufficio.
È anche vero, però, che, come puntualizzato da altri magistrati auditi dal C.S.M. (cfr. Natoli e Lo Forte), le simpatie politico-partitiche e le amicizie e frequentazioni personali del procuratore — al pari delle acquisizioni processuali su relazioni pericolose dell’onorevole D’Acquisto – erano da tempo un fatto notorio e certamente noto allo stesso Csm che tuttavia nel giugno del 1990, aveva conferito a Giammanco l’ufficio di capo della procura della Repubblica presso il tribunale di Palermo; così come a nessuno dei magistrati di quell’ufficio risultava che simpatie politiche o la dichiarata amicizia con l’onorevole D’Acquisto avesse fatto velo all’imparzialità del procuratore nella conduzione dell’Ufficio o di singole inchieste.
Quanto alla presunta frequentazione del D’Acquisto degli uffici della procura palermitano, dei magistrati che ne hanno riferito solo la dott.ssa Principato ha dichiarato di averlo visto almeno tre volte nella stanza del procuratore o, poche ore dopo che era stato ucciso Salvo Lima, dietro la sua porta in attesa.
Gli altri, o non lo hanno mai visto (cfr. Ingroia), oppure (cfr. Pignatone e Natoli) confermano di averlo visto in procura solo il giorno dell’omicidio Lima, mentre era in attesa di essere sentito come persona informata sui fatti, nel corso dei primi accertamenti investigativi per i quali si mobilitarono in forze i magistrati della procura palermitana.
LE TENSIONI CON GIOVANNI FALCONE
Ma ad alimentare sotterranee tensioni o “spaccature” all’interno della procura palermitano, esplose dopo la strage di via D’Amelio, erano la memoria, da parte di alcuni sostituti, o l’essere venuti ex post a conoscenza, per altri, dei contrasti che erano insorti nei rapporti tra il capo dell’ufficio Giammanco e il dottor Falcone, prima, e il dott. Borsellino poi.
E ad acuire il clima di tensione aveva contribuito anche la pubblicazione (il 24 giugno 1992, su “Il Sole 24 ore”) di ampi stralci dei c.d. “diari di Falcone”, in cui erano annotati, con puntuali rilievi critici da parte dell’autore, una serie di episodi nei quali si erano verificati espliciti dissensi del dott. Falcone rispetto alle strategie processuali concertate dal procuratore con altri sostituti, o si sollevavano dubbi sulla trasparenza o sull’opportunità di talune assegnazioni.
Anche se i dissidi con il procuratore non erano venuti fuori all’esterno dell’ufficio ed anzi risultavano smentiti da documenti ed esternazioni pubbliche, perché «Giovani Falcone era una persona che aveva un grande senso dello stato, dell‘immagine delle Istituzioni e quindi, se non vi era necessità assoluta, non era disposto a portare fuori i conflitti» (cfr. Scarpinato). Al fondo di quei contrasti v’era la constatazione o la convinzione da parte di Giovanni Falcone — del quale peraltro il dott. Giammanco aveva a suo tempo caldeggiato la nomina a procuratore aggiunto a Palermo — di essere stato progressivamente demansionato o ridimensionato rispetto al ruolo iniziale che aveva ricoperto quale delegato alle assegnazione dei procedimenti in materia di c.o., nonché supervisore o coordinatore di tutti i procedimenti per reati di associazione mafiosa e per reati in ipotesi connessi.
E alcuni dei magistrati auditi hanno rimarcato come non vi fosse alcun problema per il c.d. “ordinario”; ma per i procedimenti in cui si profilava il possibile coinvolgimento di esponenti politici, Falcone lamentava di essere stato bypassato.
Deve però convenirsi che gli stralci pubblicati dei diari di Falcone sono datati tutti ad un’epoca compresa tra novembre’91 e gennaio ‘92, e quindi non tengono conto né di chiarimenti o accomodamenti successivamente intervenuti anche nei rapporti tra lo stesso Falcone e gli altri colleghi chiamati in causa, né delle spiegazioni acquisite nel corso delle audizioni dei medesimi magistrati dinanzi al Csm (per le quali ovviamente si rinvia ai verbali acquisiti).
Così per il caso gladio, a proposito della soluzione di compromesso adottata, chiedendo, di concerto peraltro con il G.I la riunione degli atti al procedimento Insalaco, ancora pendente in fase di indagine preliminare (soluzione accettata da Falcone, se è vero che pure lui sottoscrisse la requisitoria per il processo sui delitti politici); o per taluni atti di indagine particolarmente delicati nell’ambito del procedimento per i delitti politici, assunti dai magistrati contitolari con Falcone all’insaputa di quest’ultimo (come l’escussione del Cardinale Pappalardo).
Ed ancora, per l’assegnazione del fascicolo relativo all’esposto anonimo per appalti truccati al comune di Partinico ad un pool di magistrati che non facevano parte della Dda e senza informarne Falcone; o per l’inopinata assegnazione — per volontà del procuratore — del procedimento per l’omicidio del colonnello Russo ad una collega giovane e che mai si era occupata di indagini e processi di c.o.; ed ancora, per l’assegnazione di un procedimento per presunti illeciti a carico di due carabinieri (sempre di Partinico) ad altra giovane collega, e sempre all’insaputa di Falcone (si trattava in effetti di un comune procedimento per falsificazione di assegni, senza ulteriori implicazioni: cfr. audizione della dott.ssa Randazzo).
Ciò non toglie che i rapporti tra Falcone e Giammanco si fossero incrinati, almeno nell’ultimo periodo di servizio del giudice ucciso quale procuratore Aggiunto (cfr. anche la testimonianza di Maria Falcone, verbale n.° 45 del 30 luglio 1992), e per dissensi profondi sul metodo di lavoro o sulle scelte organizzative o anche sulle strategie processuali, fino a convincere il dott. Falcone che non gli era più possibile svolgere il proprio lavoro, come lui intendeva farlo, finché fosse rimasto in quell’Ufficio: quasi una riedizione dello scontro che in passato aveva opposto lo stesso Falcone al dott. Meli, quando questi gli venne preferito a capo dell’Ufficio Istruzione. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Gli scontri tra Paolo Borsellino e il procuratore capo Pietro Giammanco. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 26 novembre 2022
Di un incrinamento del rapporto di fiducia del dott. Borsellino con Giammanco hanno poi riferito i pochi magistrati a conoscenza di un fatto che è rimasto ignoto alla maggior parte dei collegi che facevano parte della Procura di Palermo: vi sarebbe stato un tentativo, o un progetto, di avvicinare il procuratore Giammanco per propiziare un esito favorevole per l’indagine a carico di Angelo Siino, o per un alleggerimento della sua posizione processuale nell’ambito dell’indagine mafia e appalti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
E negli ultimi tempi si erano incrinati anche i rapporti tra Giammanco e Paolo Borsellino. Ciò sarebbe avvenuto, per quanto a conoscenza dei più, in relazione alla mancata assegnazione del fascicolo relativo alle dichiarazioni del nuovo collaboratore di giustizia, Gaspare Mutolo.
Questi aveva già avuto un primo contatto con Giovanni Falcone, che però era già al ministero e quindi l’inizio della collaborazione del nuovo pentito — accreditato dello spessore di un pentito di serie A, equiparabile a Contorno se non addirittura a Buscetta: cfr. De Francisci – era stata preceduta da una serie di colloqui investigativi con il dott. De Gennaro. Alla fine di giugno del ‘92, Mutolo, che era detenuto a Firenze, aveva manifestato la volontà di collaborare con la giustizia purché ad interrogarlo fosse Paolo Borsellino.
Il procuratore Vigna notiziò il Capo della procura di Palermo circa questa disponibilità condizionata del nuovo collaboratore; ma Giammanco non se ne diede per inteso, e assegnò il fascicolo all’Aggiunto Aliquò e al dott. Lo Forte, applicando pedissequamente il criterio di riparto per aree territoriali, con l’effetto di escludere il dott. Borsellino, pur avendo coassegnato il fascicolo anche al dott. Natoli, che pure era inserito nel poo1 che si occupava delle indagini scaturite dalle rivelazioni del pentito Calcara e dei procedimenti di c.o. per fatti commessi nelle zone di Trapani e Marsala (coordinato proprio dal dott. Borsellino).
Ma si fece un’eccezione per lui in quanto aveva raccolto le dichiarazioni di un pentito di minor calibro (tal De Caro, sentito come teste in quanto non era affiliato a Cosa nostra), che però era parente di Mutolo e aveva parlato a lungo della composizione e delle attività della famiglia di Partanna Mondello cui era affiliato Mutolo.
Sia Lo Forte che Natoli ritennero che fosse necessario attendere il ritorno di Borsellino (dal convegno di Bari) per informarlo ed eventualmente coordinarsi con lui.
E in effetti lo stesso Giammanco, dopo un chiarimento avuto con Borsellino — che non aveva nascosto la sua amarezza per l’estromissione: cfr. ancora Natoli — e dopo l’intercessione, come s’è visto, di Liliana Ferraro, dispose con un’annotazione scritta di proprio pugno (ma non firmata) che i magistrati assegnatari del fascicolo si coordinassero con il dott. Borsellino per quanto concerneva l’attività di raccolta delle dichiarazioni del nuovo pentito, rendendo nota tale disposizione nel corso di una riunione della Dda tenutasi o il 2 o il 3 luglio.
Ma già prima di procedere al primo interrogatorio di Mutolo, assunto dal dott. Borsellino e dall’Aggiunto Aliquò in data 1° luglio 1992 (vincendo non senza qualche difficoltà le iniziali remore del dichiarante a che fosse presente un altro magistrato, oltre al dott. Borsellino), aveva invitato l’Aggiunto predetto a coordinarsi con Borsellino in vista di quel primo interrogatorio.
Sta di fatto che la formale assegnazione del fascicolo non fu modificata, e ciò fu motivo di cruccio per il dott. Borsellino al punto che si fece scrupolo di proseguire gli interrogatori di Mutolo, quando questi ribadì la sua condizione che fosse lo stesso Borsellino non solo ad assistere agli interrogatori, ma ad occuparsi delle indagini che ne fossero scaturite.
Ma furono i colleghi che partecipavano a quegli interrogatori (Lo Forte e Natoli) a convincerlo che la disposizione impartita dal Capo dell’Ufficio non poteva che intendersi nel senso che sarebbe stato Borsellino a coordinare le indagini, e che a lui avrebbero dovuto rapportarsi per tutto ciò che concerneva la gestione del nuovo pentito. E a tale interpretazione essi si sarebbero attenuti.
L’INDAGINE SU ANGELO SIINO
Di un incrinamento del rapporto di fiducia del dott. Borsellino con Giammanco hanno poi riferito i pochi magistrati a conoscenza di un fatto che è rimasto ignoto alla maggior parte dei collegi che facevano parte della procura di Palermo.
Nell’ambito di un processo per un omicidio di matrice mafiosa — che si è accertato poi essere quello del M.llo Guazzelli — il dott. Borsellino aveva confidato al dott. Teresi, cui era assegnato quel fascicolo, di avere ricevuto una segnalazione di fonte attendibile, e raccolta da un organo di polizia, circa presunti rapporti tra un noto esponente politico e alcuni indagati del reato di associazione mafiosa. E gli aveva raccomandato di non fame parola con nessuno, perché non voleva che la notizia giungesse alle orecchie del procuratore Giammanco, prima che venissero espletati i dovuti e rigoRosi accertamenti.
In pratica, come poi il dott. Teresi ebbe a confermare, deponendo all’udienza del 23.04.2013 nel processo Borsellino Quater (limitandosi peraltro a confermare le dichiarazioni che aveva reso alla procura nissena il 7 dicembre 1992, e contestategli in ausilio alla memoria) vi sarebbe stato un tentativo, o un progetto, di avvicinare il procuratore Giammanco per propiziare un esito favorevole per l’indagine a carico di Angelo Siino, o per un alleggerimento della sua posizione processuale nell’ambito dell’indagine mafia e appalti.
Borsellino era stato informato di una soffiata ritenuta attendibile secondo cui Siino si sarebbe rivolto a Lima affinché questi tramite D’Acquisto, sensibilizzasse il procuratore Giammanco al problema che affliggeva Siino, dopo che era andato a vuoto un analogo tentativo esperito nei riguardi del M.llo Guazzelli. Da qui la preoccupazione di Borsellino che la notizia filtrasse e circolasse all’interno della procura, giungendo alle orecchie dello stesso Giammanco.
Nelle s.i.t. rese alla procura nissena che indagava sulle stragi, il dott. Teresi aggiunse che la notizia era stata oggetto di commenti tra Falcone e Borsellino; ed entrambi avevano convenuto sull’ipotesi, tutta da verificare, ovviamente, che in quel retRoscena potesse annidarsi la causale, o almeno una concausa non solo dell’omicidio Guazzelli, ma anche dell’omicidio Lima, sotto il profilo che questi non avrebbe voluto o saputo prestare l’apporto che gli era stato richiesto.
E in effetti, con una coincidenza temporale inquietante, il 9 marzo 1992, ossia tre giorni prima che Lima venisse ammazzato, la procura di Palermo aveva chiuso l’indagine a carico di Angelo Siino, che era stato arrestato il 10 luglio 1991, chiedendone il rinvio a giudizio per il reato di associazione mafiosa.
Nel corso della sua audizione dinanzi al Csm, il dott. Teresi ha aggiunto che solo dopo la strage di via D’Amelio aveva appreso che la stessa confidenza il dott. Borsellino aveva fatto ad un altro collega a lui molto vicino — ancorché non assegnatario del procedimento per l’omicidio Guazzelli — e cioè al dott. Ingroia, che a sua volta ne aveva parlato con il dott. Scarpinato.
Questi, a sua volta, ha dichiarato di essere stato informato (per sommi capi e senza scendere nel merito della notizia) in effetti dal collega Ingroia, ma di averne poi avuto conferma dallo stesso Borsellino, che questi stava conducendo delle indagini molto delicate a insaputa di Giammanco. E anche al dott. Scarpinato fu raccomandato di mantenere il più assoluto riserbo con il procuratore.
E ciò lo colpi in modo particolare, perché la regola professata e rispettata da Paolo Borsellino, che ne pretendeva il rispetto anche da parte degli altri colleghi, era quella di riferire sempre e per tutti i processi al procuratore (“Paolo riferiva tutto e sempre, ecco perché vengo colpito, proprio perché la normalità era quella e se così non fosse stato non sarei rimasto colpito”).
DA SIINO A D’ACQUISTO E LIMA
Una eco ditale vicenda si rinviene nelle risultanze agli atti del procedimento, anzi dei procedimenti connessi che furono istruiti dal gip di Caltanissetta dott.ssa Lo Forti, e si conclusero con l’ordinanza di archiviazione più volte citata. Si è accertato infatti che la signora Bertolino, moglie del Siino, aveva chiesto ed ottenuto di essere ricevuta, con la mediazione del legale di fiducia, dall’on. D’Acquisto, per perorare la causa del marito, che era stato già arrestato. Ma la visita non aveva sortito l’effetto sperato, al pari dell’incontro che la stessa Bertolino, a dire del figlio, Siino Giuseppe, avrebbe avuto per la medesima finalità con l’on. Lima (il quale, sempre a dire di Giuseppe Siino, si sarebbe limitato ad allargare le braccia).
E infatti, Siino era rimasto in carcere e in tale stato si trovava quando la procura diretta da Pietro Giammanco avanzò nei suoi confronti la richiesta, accolta dal gip, di rinvio a giudizio. Sicché l’episodio, come riconosciuto dal gip di Caltanissetta nulla prova in ordine alla prospettata ipotesi di corruzione (in atti giudiziari) per cui si era proceduto a carico dell’ex procuratore di Palermo, derivandone semmai una smentita, unitamente alla prova di una condotta ineccepibile.
Può concedersi però che, negli ambienti di Cosa nostra, la notorietà dei rapporti personali di amicizia del Capo della procura palermitano con l’on. D’Acquisto, e, per proprietà transitiva, con lo stesso Salvo Lima, avesse fatto credere che egli fosse influenzabile o condizionabile nel suo operato professionale (come propende a ritenere il gip Lo Forti nella citata ordinanza); né può escludersi che i politici chiamati in causa per propria convenienza avessero incoraggiato o quanto meno non avessero scoraggiato tale falsa credenza, così alimentando aspettative puntualmente deluse.
Deve però ritenersi che gli ufficiali del Ros avessero all’epoca tutti gli elementi e gli strumenti di conoscenza delle vicende giudiziarie in corso e dei comportamenti e delle scelte dell’Ufficio requirente palermitano necessari per non cadere vittima della stessa falsa credenza e per valutare se la condotta concretamente tenuta, in questo caso nei riguardi del Siino da parte del procuratore capo o dei magistrati titolari dell’inchiesta, fosse stata men che corretta, quali che fossero le convinzioni o le (false, anch’esse) propalazioni degli stessi indagati. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La riunione sul dossier “Mafia e Appalti” e i (presunti) contrasti fra i pm. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 novembre 2022
A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla Procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In ordine poi ai presunti contrasti che sarebbero insorti sulle risultanze dell’indagine mafia e appalti e sulle determinazioni da adottare, e che avrebbero opposto i magistrati titolari di quell’indagine — orientati ed anzi ormai determinati a chiedere l’archiviazione del proc. nr. 2789/90 N.R., o più esattamente di ciò che ne restava dopo i vari stralci effettuati — a Paolo Borsellino, che invece guardava con interesse e convinzione alla proficuità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, va osservato quanto segue.
Agli elementi, in verità piuttosto scarni, desumibili dalle audizioni del dott. Luigi Patronaggio e della dott.ssa Antonella Consiglio dinanzi al Csm, rispettivamente, il 30 luglio (verbale n.° 45) e il 31luglio 1992, si sono aggiunte le ulteriori informazioni e delucidazioni fornite dagli altri magistrati che ne riferirono nel corso delle medesime audizioni (cfr. La Neve e Gozzo, verbale n.° 43, del 29 luglio; Pignatone, verbale n.° 44 del 30 luglio; Lo Forte e Sabbatino, verbale n.° 45 del 30 luglio).
Si è accertato dunque che con lettera datata 11 luglio 1992, il procuratore Giammanco aveva convocato per il 14 luglio una riunione aperta alla partecipazione di tutti i sostituti, e non solo quelli della Dda, con un preciso ordine del giorno che faceva ex se comprendere come non fosse un mero pretesto per scambiarsi i saluti in vista delle ormai prossime ferie estive.
Al contrario, la riunione era stata indetta per fare il punto sullo stato delle indagini e dei processi più delicati, mettendone al corrente anche i magistrati che non se ne erano occupati, ed anzi soprattutto i sostituti che non facevano parte della Dda (cfr. Gozzo). Si rompeva cosi una tradizione e una prassi più che consolidata, qual era quella di tenere sì riunioni periodiche per aggiornarsi reciprocamente sullo stato delle indagini e scambiarsi informazioni o discutere questioni controverse per giungere a soluzioni condivise, ma ristrette ai sostituti che facessero parte della Dda (Cfr. La Neve e Sabbatino). Nelle intenzioni del procuratore quell’inedita riunione plenaria del suo Ufficio doveva servire proprio a far ritrovare un clima di armonia e di fiducia insidiate, a partire dalla pubblicazione dei diari di Falcone (24 giugno ‘92) dall’ennesima campagna di stampa — e relativa scia di velenose polemiche — che rinnovava il sospetto o l’accusa che alla procura di Palermo si manipolassero o si insabbiassero le indagini più delicate, come quelle che potevano coinvolgere esponenti politici e loro presunte collusioni con ambienti della c.o., o non si andasse a fondo in quelle mirate alla cattura dei più pericolosi latitanti mafiosi.
E infatti, sullo stato di tali indagini e le relative risultanze erano stati incaricati di svolgere apposite relazioni “informative” i sostituti che se ne erano occupati e figuravano ancora come assegnatari dei relativi procedimenti:
I) i sostituti Teresi, Morvillo e De Francisci dovevano relazionare sulle indagini scaturite dal rinvenimento del c.d. libro mastro dei Madonia e sul racket delle estorsioni, indagini per le quali era stato avanzato il sospetto, tra l’altro, di una colpevole inerzia che avrebbe propiziato l’omicidio di Libero Grassi;
2) il sostituto Pignatone era chiamato a relazionare sulle indagini per la cattura di grossi latitanti (avuto riguardo alle notizie di stampa che parlavano di occasioni sfumate per la cattura di Riina;
3) i sostituti Lo Forte e Scarpinato avrebbero invece dovuto relazionare sull’indagine mafia e appalti.
Quest’ultima era giunta in effetti ad uno stadio conclusivo, poiché da un lato era alle viste l’inizio del dibattimento, fissato per ottobre, nell’ambito del procedimento stralcio a carico di Siino Angelo e altri; dall’altro era già pronta, ma non ancora depositata, la richiesta di archiviazione per le posizioni residue dell’originario procedimento nr. 2789/90 N.R. (Il dott. Pignatone ricorda che i colleghi Lo Forte e Scarpinato l’avessero già completata e depositata, e in effetti è così, poiché la richiesta è datata 13 luglio; ma prima della trasmissione al GIP doveva essere vistata dal procuratore Capo che appose la sua firma solo in data 22 luglio 1992). Nel corso della riunione effettivamente tenutasi alla data prefissata, sull’indagine mafia e appalti relazionò solo il dott. Lo Forte, essendo il dott. Scarpinato assente per sopravvenuti impedimenti familiari.
I RICORDI DEL PM GOZZO
A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo (“Fece questa affermazione: come mai non fossero contenute questa carte all‘interno del processo si trattava di carte che erano state inviate.. alla procura di Marsala — e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla procura di Palermo — che era lo stesso processo però a Marsala. C‘erano degli sviluppi e quindi erano stati mandati a Palermo e lui si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea”).
Sosteneva poi che si profilavano nuovi sviluppi, in relazione alle dichiarazioni di un nuovo pentito, e chiese quindi di rinviare la discussione (in sostanza, per quanto sembra di capire, chiese di differire ogni determinazione finale in ordine a quel procedimento, nelle more di possibili nuove risultanze: e in effetti, la richiesta di archiviazione, già alla firma del procuratore Giammanco, rimase in stand by fino al 22 luglio).
Non è chiaro se il nuovo pentito di cui fece cenno il dott. Borsellino fosse proprio Gaspare Mutolo, oppure Leonardo Messina, al cui primo interrogatorio Borsellino aveva proceduto lo stesso giorno dell’interrogatorio di Mutolo, e cioè l’1 luglio 1992, e che in effetti avrebbe fatto ulteriori rivelazioni sul sistema degli appalti e relative ingerenze mafiose, ma anche sul coinvolgimento di politici e le connivenze che facevano prosperare quel sistema.
Ma anche la dott.ssa Sabbatino ricorda che, durante quella riunione, alla domanda che gli fece se fosse in procinto di andare in ferie, Paolo rispose che doveva prima risolvere il problema di un nuovo pentito. Non sapeva se avrebbe potuto andare a interrogarlo, e se sentirlo da solo o insieme ad altri colleghi: una situazione che richiama le incertezze e le ambasce che affliggevano il dott. Borsellino in relazione al caso Mutolo, posto che non era cambiata la formale assegnazione (ad altri) del relativo fascicolo, e che si manifestarono nel corso dell’interrogatorio di Mutolo effettivamente assunto due giorni dopo quella riunione dal dott. Borsellino, insieme ai colleghi Lo Forte e Natoli, come confermato da entrambi.
Ed entrambi confermano di avere sostenuto un’interpretazione della disposizione impartita da Giammanco di coordinarsi con Borsellino per le attività relative agli interrogatori di Mutolo assolutamente rassicurante quanto alla sua piena legittimazione a coordinare altresì le indagini che ne fossero scaturite.
La dott.ssa Consiglio, presente pure lei alla riunione del 14 luglio, ha dichiarato che a svolgere la relazione sull’indagine mafia e appalti furono i colleghi che se ne erano occupati (e fa i nomi del dott. Lo Forte e del dott. Pignatone), i quali illustrarono le ragioni che li avevano condotti a richiedere i provvedimenti cautelari che erano stati accolti.
Ha confermato altresì che il dott. Borsellino si era lamentato del fatto che non fossero state inserite talune carte nel fascicolo del procedimento a carico di Siino Angelo e altri. Ma non può essere più precisa perché non conosceva i fatti cui Paolo si riferiva; tuttavia, notò che l’unico a prendere parte attiva a quella discussione a cui noi eravamo solo dei meri spettatori era Paolo Borsellino.
Né poteva essere altrimenti perché si parlava di un’informativa di 800 pagine sconosciuta a quasi tutti loro (non a lei, però, avendo studiato quel rapporto per la sua connessione con i fatti oggetto di un grosso procedimento per associazione mafiosa, istruito al Tribunale di Termini Imerese, e avente ad oggetto varie vicende e reati di c.o. tra cui anche illeciti relativi ad appalti nei territori di Termini Imerese e Madonie: territori che rientravano appunto nella zona d’influenza di Angelo Siino e nella sua giurisdizione quale ministro dei LL.PP. di Cosa nostra).
Sulle osservazioni formulate dal dott. Borsellino in relazione alla mancata acquisizione al fascicolo del procedimento a carico di Siino e altri di alcuni atti, una spiegazione dettagliata è stata fornita dal dott. Pignatone nel corso della sua audizione.
Era accaduto che i carabinieri, prima ancora che venissero emessi i provvedimenti restrittivi a carico di Siino e altri, avevano informato i magistrati di Palermo titolari dell’indagine (all’epoca, se ne occupava anche il dott. Pignatone) che il dott. Borsellino, n.q. di procuratore a Marsala, aveva indagini in corso su presunti illeciti commessi nella gare di aggiudicazione di alcuni appalti di opere pubbliche da realizzare in Pantelleria, che rientrava nella giurisdizione del Tribunale e quindi della procura di Marsala.
Borsellino disse loro di rivolgersi al dott. Ingroia, che era stata assegnatario di quel fascicolo, per avere le carte che chiedevano. Ma il dott. Ingroia replicò che in quel momento quelle carte non potevano essere rese pubbliche perché - in quel di Marsala - stavano per emettere ordinanze di custodia cautelare in carcere nei riguardi tra gli altri anche del Sindaco di Pantelleria.
Alla fine, non ravvisando elementi specifici di connessione con l’ipotesi di reato di associazione mafiosa per cui si stava procedendo a carico del Siino, fu la procura di Palermo, ovvero i sostituti Lo Forte e Scarpinato, rimasti titolari del procedimento, a trasmettere gli atti in proprio possesso in ordine a quelle gare d’appalto (che erano costituiti essenzialmente da intercettazioni telefoniche tra soggetti cointeressati all’aggiudicazione di quelle gare) all’omologo Ufficio di Marsala, dove si procede(va) per il reato di associazione a delinquere semplice.
Di tale vicenda v’è traccia anche nell’audizione del dott. Borsellino dinanzi alla Commissione Antimafia (in visita agli uffici giudiziari di Trapani), nella seduta del 24 settembre 1991. È lo stesso Borsellino a richiamare l’inchiesta sfociata nell’arresto del Sindaco di Pantelleria e nello scioglimento del consiglio comunale, annoverandola come una delle indagini di maggiore successo condotte dal suo ufficio — e lo dice senza vanagloria personale, ascrivendone il merito ad un mio giovanissimo sostituto — in materia di reati amministrativi di notevole spessore che riguardano gli appalti o l’attribuzione di incarichi professionali; e sottolinea che al riguardo che «tutte queste non sono attività di mafia a sono attività attraverso le quali la mafia usufruisce di facili veicoli di profitto». Il dott. Pignatone ha precisato invero che Borsellino non formulò rilievi specifici, ma si limitò a chiedere chiarimenti; e poi prese atto della spiegazione fornita da Lo Forte.
UN “DIVERSO” METRO DI VALUTAZIONE
Tuttavia, avuto riguardo a quanto dichiarato dal dott. Gozzo sulla perplessità espressa dal dott. Borsellino per il fatto che non si fosse seguita la stessa linea, è lecito ipotizzare che persistesse il dissenso del procuratore Aggiunto per avere – i colleghi che si erano occupati dell’inchiesta – adottato un diverso metro di valutazione, ovvero una linea interpretativa e di qualificazione dei fatti ascrivibili ai vari soggetti indagati per le medesime vicende che rimandavano al contesto criminoso in cui era emerso il ruolo di Siino quale artefice degli accordi collusivi tra cordate di imprenditori, esponenti politici e cosche mafiose per la spartizione degli appalti.
E da qui la richiesta di aggiornare la discussione, ovvero di differire le determinazioni finali da adottare, prospettandosi la possibilità di ulteriori sviluppi in relazione alle rivelazioni di un nuovo pentito.
In effetti, tale lettura sembra trovare conforto nelle dichiarazioni del dott. Patronaggio.
Questi, infatti, rammenta che il dott. Borsellino, facendosi portavoce di lamentele da parte dei carabinieri che avevano condotto l’indagine mafia e appalti per l’esiguità dei risultati raggiunti sul piano giudiziario rispetto alle loro aspettative (in assemblea lo disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati di maggiore respiro”), chiese spiegazioni in ordine al procedimento a carico di Siino e altri: «perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri: verosimilmente, e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè e era stata fatto o non era stata fatta una cosa, ma più che altro era il contesto generale del procedimento, chi c‘era e chi non c‘era, perché poi in buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta, sinceramente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all‘interno del processo, o se vi erano nomi di politici di un certo peso, vi entravano solo per mero accidente».
In altri termini, le spiegazioni chieste da Borsellino non riguardavano singoli fatti o singoli atti istruttori ma l’impostazione generale dell’indagine e le sue direttrici. Il dott. Lo Forte, però, sempre a dire del dott. Patronaggio, si sforzò di spiegare che il vero nodo dell’indagine, semmai, concerneva il ruolo specifico degli imprenditori.
E anche le doglianze dei carabinieri traevano origine dall’aspettativa, andata delusa, di esiti più cospicui, non si riferivano tanto alle posizioni di uomini politici che entravano nell’indagine solo incidentalmente, bensì alle posizioni degli imprenditori coinvolti (o di taluno di loro): «In realtà no, non è solo nei confronti dei (politici), anche nei confronti degli imprenditori, perché lì il nodo era, il nodo era valutare a fondo la posizione degli imprenditori, e su questo punto peraltro il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell‘imprenditore in questo contesto, queste furono le spiegazioni date, chieste e date ecc.» (cfr. verbale n. 46, pag. 81).
Ciò posto, non v’è chi non veda che il “dissenso” del dott. Borsellino rispecchiava e denotava il convincimento da tempo maturato che l’indagine su mafia e appalti costituisse un filone investigativo “aureo” nel quadro dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata perché puntava - e poteva condurre - ai più inaccessibili santuari del potere mafioso che aveva il suo cuore pulsante nella creazione e nel consolidamento di legami sinergici con pezzi dell’imprenditoria e della politica, oltre a ricavare dalla partecipazione attiva al sistema di spartizione degli appalti un formidabile strumento di controllo dei flussi di ricchezza.
Tale intuizione è il connotato saliente, ed anche il principale merito ascrivibile all’ipotesi investigativa alla base del dossier mafia e appalti, che, come si legge testualmente nella “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti negli anni 1989 e seguenti”, «segnava un salto di qualità nelle conoscenze sino ad allora acquisite sui rapporti tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale. Ed infatti emergeva che l’associazione mafiosa non si limitava più a svolgere un ruolo di sfruttamento meramente parassitario delle attività economico-imprenditoriali, concretantesi nell’imposizione di tangenti, di subappalti, di assunzione di manodopera, ma mirava a realizzare un controllo integrale e un pesante condizionamento interno del modo imprenditoriale e del settore dei lavori pubblici in Sicilia, mediante complesse ed articolate metodologie che nel loro insieme costituivano l’espressione più sofisticata e moderna di una strategia di assoggettamento degli operatori economici al prepotere delle organizzazioni facenti capo a Cosa nostra».
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le parole profetiche di Falcone sulla spartizione dei grandi lavori. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 28 novembre 2022
«Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi. Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questa intuizione era già stata fatta propria da Giovanni Falcone, che, nella relazione (oggetto di infinite citazioni, anche in questo processo e non sempre a proposito) svolta ad un convegno tenutosi al Castello Utvegio a Palermo nel marzo del 1991 — e quindi quando egli si era appena trasferito al ministero — richiamava le risultanze di recenti indagini per trarne la conferma che la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico ed in particolare nel settore dei pubblici appalti fosse «più grave molto più grave di quelle che appare all‘esterno. Perché siamo di fronte ad un meccanismo di condizionamento generico dei pubblici amministratori e dei pubblici poteri da parte delle imprese che, a ben guardare, appare identico sia nel mezzogiorno sia nel centro e sia nel settentrione d’Italia».
Ma «accanto ad un coinvolgimento generico delle imprese in attività illecite e ad un certo tipo di corruttela generica dei pubblici amministratori, abbiamo un condizionamento mafioso che si innesta e sfrutta questa attività criminale che, in quanto generica, potremmo chiamare ambientale (...) Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese (e questo a prescindere da qualsiasi sistema più meno sofisticato sul tipo e sui criteri di assegnazione degli appalti), e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi.
Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle. Un condizionamento mafioso nella fase dell‘individuazione dei concorrenti che vinceranno le gare, ed un condizionamento in tutta la complessa attività che concreta la realizzazione degli appalti in questione. Ed abbiamo soprattutto, e questo nel futuro verrà fuori chiaramente, una indistinzione fra imprese meridionali e imprese in altre zone d’Italia, per quanto attiene il loro condizionamento e il loro inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa»; poiché, aggiungeva «è illusorio pensare che le imprese appartenenti ad altre realtà socio-economiche, nel momento in cui partecipano a gare che dovranno essere realizzate in determinate zone del Mezzogiorno d‘Italia, rimangano immuni da un certo tipo di collegamenti. Sia che lo vogliano, sia che non lo vogliano. Sono state acquisite, tramite intercettazioni telefoniche, chiarissime indicazioni di ben precise scelte operative dell‘organizzazione mafiosa, a cui tutti devono sottostare e non vogliono subire conseguenze gravissime, a meno che non si vogliano autoescludere dal mercato».
L’INTUIZIONE DI FALCONE
Nella relazione si addita ancora la vicenda dell’ex sindaco di Baucina Giaccone — le cui rivelazioni avrebbero impresso un impulso significativo al primo troncone dell’indagine mafia e appalti — come emblematica di un modus operandi incentrato su collusioni politico-mafiose affaristiche, se era vero quanto lo stesso Giaccone affermava, e cioè «che le opere vengono finanziate soltanto dopo che si è trovata l‘impresa che è gradita a questo o quel partito, e soltanto dopo che in sede locale il capo mafia abbia dato l’assenso».
E in alcuni passaggi della relazione, si adombra un aspetto particolarmente inquietante disvelato dalle ultime indagini su episodi di infiltrazione mafiosa che denotavano come le imprese si prestassero anche volontariamente ad un sistema di manipolazione delle gare sotto il controllo dell’organizzazione mafiosa, ricavandone cospicui vantaggi, di tal che «molto spesso non è necessaria un‘azione di rappresaglia, forte e violenta; questo avviene soltanto all’ultimo e nei confronti di coloro che veramente non vogliono capire», ma «Ci sono tali e tanti di quei passaggi intermedi, per cui qualsiasi impresa finisce per comprendere che, volente o nolente, è questo il sistema cui deve sottostare e non ci sono possibilità di uscirne fuori».
Starebbe proprio qui — e il giudice Falcone ne era ben consapevole, come può evincersi dai passaggi richiamati della nota relazione svolta al Castello Utvegio — il carattere addirittura eversivo che l’informativa del R.O.S su mafia e appalti depositata alla procura di Palermo il 20 febbraio 1991 avrebbe rivestito, secondo l’interpretazione autentica che ne ha dato il colonnello De Donno, che ne era stato estensore, deponendo al processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu: «le imprese che partecipavano a questo meccanismo noti erano, e qui era un po' il carattere, tra virgolette, eversivo della nostra indagine, non erano soltanto vittime, erano attori volontari di questo meccanismo, cioè l‘impresa che veniva dal nord non soggiaceva al potere intimidatorio di Cosa nostra o perlomeno, iniziava così, con questo vincolo di soggezione il rapporto con Cosa nostra, ma poi il vincolo si trasformava in una vera e propria collaborazione perché attraverso l‘intermediazione di Cosa nostra, di Siino e di altri personaggi, ne ottenevano poi una serie di vantaggi, in termini di riconoscimento di opere, cioè di aumenti di valore dell'opera stessa, per cui, alla fine, a conti fatti, una parte consistente di questi guadagni andavano all’impresa nazionale».
L’AUDIZIONE IN COMMISSIONE ANTIMAFIA
Del resto, già diversi mesi prima, e precisamente nel giugno 1990 — e la data è significativa perché coincide con quella di alcune delle informative che davano conto delle risultanze dell’attività di intercettazione telefonica in corso nell’ambito dell’indagine mafia e appalti e dei suoi possibili sviluppi – il giudice Falcone, sentito dalla commissione antimafia (XI Legislatura) presieduta dal senatore Chiaromonte, nell’additare il problema degli appalti pubblici come un punto cruciale nella strategia antimafia, sosteneva che le indagini — e le prove — che, una dopo l’altra, stavano venendo a compimento e a maturazione confermavano l’ipotesi di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, e, nei piccoli centri, per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione.
E in particolare, proprio sulla base dei risultati cui erano approdate le indagini svolte da almeno un biennio dai carabinieri con encomiabile professionalità, si era consolidata l’ipotesi dell’esistenza di ima centrale unica di natura mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori.
Ebbene, l’interesse di Paolo Borsellino ad approfondire questo filone d’indagine — individuato, dopo l’indagine su Gladio, come uno di quelli cui in precedenza Giovanni Falcone, nel suo ultimo periodo di servizio alla procura di Palermo aveva prestato maggiore attenzione — è stato pienamente confermato dalle testimonianze di Liliana Ferraro e del senatore Di Pietro, oltre a trovare un inedito riscontro nei verbali delle audizioni dei magistrati della procura della repubblica di Palermo dinanzi al Csm che sono state acquisite nel presente giudizio d’appello (senza dimenticare la conferma che è venuta dalle dichiarazioni del Tenente Canale, con tutte le cautele del caso quanto ad affidabilità della fonte e limiti di utilizzabilità ditali dichiarazioni, giacché nel corso del giudizio di primo grado si è avvalso della facoltà di non rispondere).
La Ferraro, in particolare, fu testimone della raccomandazione rivolta da Falcone a Borsellino di seguire con attenzione gli sviluppi dell’indagine compendiata nel voluminoso dossier mafia e appalti (quasi un passaggio dei testimone tra lo stesso Falcone, che non poteva occuparsene direttamente perché ormai al ministero, e il dott. Borsellino, che invece si era deciso a chiedere il trasferimento alla procura di Palermo) avendo assistito personalmente alla telefonata, databile ad agosto 1991, con la quale Falcone informava l’amico Paolo che aveva già pronta la Nota — che sarebbe stata poi firmata dal ministro Martelli — di restituzione al mittente dell’informativa mafia e appalti, che era stata inopinatamente trasmessa dal procuratore Giammanco al ministro della Giustizia.
E anche in occasione dell’incontro riservato all’aeroporto di Fiumicino del 28 giugno 1992, previamente concordato per telefono avendo necessità di parlarle di una serie di questioni della massima urgenza e delicatezza, il dott. Borsellino le chiese ulteriori notizie e spiegazioni sulle circostanze di quell’insolita trasmissione, e sul percorso seguito prima di giungere al tavolo del ministro (o meglio, alla segreteria della Direzione Generale Affari Penali): segno comunque dell’interesse per quell’indagine e per il primo rapporto giudiziario che ne compendiava le risultanze emerse a carico di numerosi soggetti indiziati di associazione mafiosa finalizzata al controllo degli appalti e connessi reati. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Gli annunci clamorosi e un dossier di “scarsa consistenza probatoria”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 novembre 2022
il dott. Borsellino non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi. Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, quando era ancora procuratore a Marsala.
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Tornando all’interesse di Paolo Borsellino per l’esigenza di riprendere e approfondire l’indagine mafia e appalti, ben si comprendono le sue perplessità a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione, a parte le posizioni degli imputati già rinviati a giudizio, le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo.
Ora, non v’è dubbio che la richiesta di opportuni chiarimenti e persino quella di aggiornare la discussione e il confronto sulle determinazioni da adottare per il proc. nr. 2769/90 RN.R. — quando già la richiesta di archiviazione era alla firma del procuratore — risente delle suggestioni derivanti sia dal menzionato passaggio di consegne circa l’attenzione con cui seguire i successivi sviluppi di quell’indagine, giusta raccomandazione di Falcone; sia dalle doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros E che questi ultimi, per un impegno investigativo che durava da circa tre anni (al biennio ricordato da Falcone dovevano aggiungersi gli ulteriori mesi d’indagine trascorsi fino al deposito dell’informativa del 16 febbraio 1991, nonché le attività pRoseguite su delega della procura ed ancora in corso a luglio ‘92), si aspettassero esiti giudiziari più cospicui di quelli conseguiti (come ribadito da De Donno al processo Mori/Obinu), il dott. Borsellino lo disse espressamente nell’assemblea plenaria tenutasi presso gli Uffici della procura della Repubblica di Palermo il 14 luglio 1992, come ben rammenta il dott. Patronaggio.
Lo ha confermato anche il dott. Lo Forte nel corso della sua audizione al Csm (v. verbale n.°45, pagg. 44-45) quando rammenta che all’atto e all’epoca del deposito dell’informativa dei Carabinieri su mafia e appalti «vi era una certa aspettativa basata su colloqui informali con gli ufficiali dei carabinieri che procedevano nelle indagini che forse era un po' superiore a quello che poi è apparso l'effettivo contenuto probatorio del rapporto».
SCARSA CONSISTENZA PROBATORIA DEL DOSSIER
Ma proprio sulla scarsa consistenza probatoria del dossier mafia e appalti convergono, sia pure con accenti diversi, le valutazioni di tutti i magistrati della procura di Palermo che all’epoca ne ebbero diretta cognizione, almeno per quanto può evincersi dalle testimonianze rese nel corso delle audizioni dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92.
Non mancò chi si lasciò andare ad apprezzamenti fortemente critici e quasi sprezzanti, parlando di minestra risciacquata (De Francisci). Altri, con maggiore garbo e misura hanno dichiarato in sostanza che l’informativa originaria in sé aveva una consistenza modesta sul piano probatorio, ma era certamente fonte di preziosi spunti investigativi, da sviluppare (Consiglio).
Su questa lunghezza d’onda si collocano anche le valutazioni che furono espresse dal dott. Lo Forte e dal dott. Pignatone.
Il primo rammenta che, sebbene il rapporto mafia e appalti avesse rivelato una consistenza probatoria inferiore alle attese (anche perché era costituito per il 90 per cento da intercettazioni telefoniche), tuttavia, «grazie alla combinazione di queste intercettazioni telefoniche con alcuni dati processuali, che noi abbiamo ricavato da altri processi che avevamo in corso, si è potuti arrivare ad una motivata richiesta di ordinanza di custodia cautelare che è stata accolta». Per i successivi sviluppi dell’indagine, e il loro esito giudiziario, la più efficace replica - e comunque l’unica che il dott. Lo Forte riteneva di poter opporre – alle polemiche di quei giorni era contenuta nella ponderosa richiesta di archiviazione datata 13 luglio ‘92, cui lo stesso Lo Forte si riportava.
Il dott. Pignatone (cfr. verbale n.° 44 del 30.07.1992) pone altresì l’accento sulla complessità delle questioni legate all’utilizzabilità processuale del materiale raccolto, in quanto costituito da una mole cospicua di intercettazioni telefoniche — ciò che già rendeva piuttosto complicato ricavarne un’efficace e coerente trama probatoria nell’ambito di un procedimento a carico di più di 50 soggetti e per una congerie di episodi avvenuti in varie zone del territorio siciliano — da cui emergevano sovente profili di rilevanza penale, ma per fatti riconducibili a ipotesi di reato (corruzione/concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta o associazione a delinquere semplice) diverse da quella di associazione mafiosa per cui si procedeva a carico sia degli originari indagati (Siino Angelo e altri) che degli indagati le cui posizioni dovevano essere ancora vagliate nell’ambito dell’originario procedimento 2769/90 (ora denominato De Eccher+20).
E per quei titoli di reato non sarebbe stato possibile disporre intercettazioni, per cui occorreva verificare l’eventuale connessione di ogni singolo episodio con l’ipotesi di associazione mafiosa (anzi, questo non sarebbe bastato ancora, poiché le intercettazioni potevano essere disposte solo per i reati per cui era previsto l’arresto obbligatorio in fragranza e, per la disciplina allora vigente, non vi rientrava il reato di semplice partecipazione ad associazione mafiosa, ma occorreva individuare un ruolo apicale).
Ma il vero problema che si poneva all’ordine del giorno dell’assemblea plenaria del 14 luglio non era quello di credere o no alle potenzialità strategiche di un filone investigativo come quello inaugurato con l’indagine mafia e appalti che era stata svolta dai carabinieri del Ros, e che prometteva di risalire fino ai santuari del potere mafioso.
Più semplicemente, occorreva stabilire, con riferimento alle posizioni specifiche che residuavano nell’ambito dell’originario procedimento n. 2769/90 R.G.N.R., dopo la serie nutrita di stralci effettuati, se vi fossero elementi sufficienti e idonei a supportare richieste conclusive diverse dall’archiviazione; o, quanto meno, se vi fossero presupposti e materia per ulteriori approfondimenti istruttori.
Fermo restando che era con le posizioni ancora da definire, e con il materiale probatorio raccolto a carico di ciascun indagato che occorreva confrontarsi, e non già con la prospettiva teorica della proficuità di ulteriori indagini sul tema delle connessioni tra mafia e appalti. E senza dimenticare che un filone d’indagine, quella relativo agli appalti Sirap, era ancora in corso di svolgimento, e proprio a cura degli stessi carabinieri del Ros che dovevano ancora evadere la corposa delega d’indagine loro conferita nel luglio del ‘91: ciò che sarebbe poi avvenuto con la nuova informativa depositata il 5 settembre 1992.
BORSELLINO NON INFORMATO DELLE “NOVITÀ”
Ed allora è chiaro che, al netto delle suggestioni e dei convincimenti di cui s’è detto, il dott. Borsellino, nel merito di vicende e fatti di cui poteva avere avuto sommaria cognizione attraverso la lettura dell’informativa originaria quando ancora era procuratore a Marsala, non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi.
Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, di cui aveva avuto cognizioni per ragioni del suo Ufficio poco più di un anno prima, quando era ancora procuratore a Marsala.
Lo si evince, del resto, dal fatto stesso che egli chiese — e ottenne, stando al ricordo del dott. Patronaggio — un rinvio o un aggiornamento della discussione sul tema, ovvero sulla decisione da prendere, per quanto di competenza dell’organo requirente, circa la sorte del procedimento pendente, e con riferimento alle posizione residue, motivato dall’auspicata eventualità che dalle rivelazioni di un nuovo pentito, che doveva ancora essere sentito in quei giorni, emergessero elementi tali da giustificare ulteriori approfondimenti investigativi.
Piuttosto, merita di essere segnalato un dato che deve essere sfuggito al gip di Caltanissetta che nella cit. ordinanza del 15 marzo 2000. Ivi, si ipotizza che ad indurre il dott. Borsellino a chiedere a Mori e De Donno un incontro riservato alla caserma Carini, per sondarne la disponibilità ad approfondire l‘indagine mafia e appalti (proprio nello stesso periodo in cui i titolari del procedimento stavano attendendo alla stesura della richiesta di archiviazione completata il 13 luglio 1992 e depositata il 22 luglio) sia stata una non condivisione delle scelte operate dal sito Ufficio.
Ma se così fu, «perché non rappresentare le sue riserve e perplessità nell’ambito del normale rapporto dialettico tra collegi, e considerata la sua qualità di procuratore Aggiunto, nel corso di quella discussione svoltasi all‘interno del suo ufficio tra l‘8 e il 10 luglio (...)? Perché non rappresentare in quella sede l’opportunità di un approfondimento delle indagini e preferire invece una personale iniziativa nei termini sopra riferiti che lasciavano trasparire una sorta di diffidenza nei confronti dell’operato dei suoi colleghi, proprio quando, successivamente alla strage di Capaci, erano insorti, all’interno di quella procura, contrasti e frizioni particolarmente gravi in ordine alla gestione dell’ufficio, e dei procedimenti più delicati da rendere necessaria quella riunione, alla quale si è fatto prima cenno, dagli intenti chiarificatori? » (cfr. pag. 200-201).
Ebbene, le audizioni dei magistrati della procura di Palermo dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92, hanno consentito di chiarire quale fosse il clima di quei giorni e le vere ragioni degli assenti contrasti e frizioni interne alla procura di Palermo.
La riunione convocata con intenti chiarificatori, in particolare, era stata indetta dal capo dell’ufficio per fugare i dubbi il disorientamento e il disagio che potevano avere colto la gran parte dei sostituti, del tutto ignari di contrasti e frizioni, a seguito delle polemiche di stampa seguite alla pubblicazione dei c.d. “diari di Falcone”, e dei sospetti rilanciati (sulla stampa) circa presunte colpevoli inerzie o peggio intenti di insabbiamento delle inchieste più delicate.
LA CONTROVERSA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE
Ma soprattutto, la posizione critica di Borsellino in ordine all’impostazione oltre che agli esiti dell’indagine mafia e appalti emerse con chiarezza nel corso di quell’assemblea (peraltro tenutasi il 14 luglio, e non il 10: ossia dopo che era stata completata e posta all’attenzione del procuratore Giammanco la controversa richiesta di archiviazione).
Egli non fece mistero di avere raccolto e fatto proprie le doglianze dei carabinieri sulla modestia dei risultati conseguiti, che invece, all’inizio dell’indagine, e per il materiale raccolto e allegato o trasfuso nella coi-posa informativa depositata il 20 febbraio 1991 promettevano di essere assai più cospicui.
Ed ancora, il dott. Borsellino non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla procura di Palermo (cfr. Patronaggio e Gozzo), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora Gozzo e Sabbatino).
Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Su don Vito il Ros non informa i magistrati ma avverte qualcun altro. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 30 novembre 2022
La linea giustificativa del Ros, che fa leva sull’autonomia operativa e su un doveroso riserbo investigativo cozza irrimediabilmente con l’opposta scelta di mettere al corrente dei contatti intrapresi con una potenziale fonte confidenziale, e addirittura prima ancora che l’ipotesi di una collaborazione con gli inquirenti si concretizzasse, esponenti politici e istituzionali che nessun titolo avevano per interloquire in quell’operazione o anche solo per esserne messi al corrente, se si fosse trattato solo di un’operazione investigativa
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Detto questo, in teoria l’eco di "divergenze" e di "spaccature" interne alla procura di Palermo (ancorché per ragioni che poco o nulla avevano a che vedere con l’indagine mafia e appalti), divenute di dominio pubblico dopo il clamore suscitato dai documenti di protesta e di solidarietà sottoscritti da oltre la metà dei magistrati in servizio presso quell’ufficio giudiziario, avrebbero potuto costituire un ostacolo o una fonte di remore per gli ufficiali del Ros ad informare la stessa autorità giudiziaria dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino (che nel frattempo erano proseguiti, dando corpo al progetto di instaurare un rapporto collaborativo con lo stesso) e degli ulteriori sviluppi che potevano derivarne dopo che aveva manifestato la disponibilità a cooperare con i Carabinieri.
Ma occorrerebbe, prima, dare per certo che questi ultimi avessero mai avuto l’intenzione di raccordarsi con l’A.g. nello sviluppare la loro iniziativa. E di ciò è più che lecito dubitare, tenuto conto del silenzio serbato nei riguardi del dott. Borsellino, prima; e del nuovo procuratore di Palermo, poi, come tra breve si vedrà.
Sarebbe nondimeno plausibile che una simile linea di condotta rispecchiasse un preciso modus operandi, alieno dal condividere con altri, che fossero organi di polizia o autorità giudiziarie, le proprie informazioni e le relative fonti, come peraltro emerge dal raffronto con la descrizione che il vice questore Savina del diverso modo di operare della Polizia di stato e della Squadra Mobile in particolare (ma anche dello Sco), contrassegnato da un rapporto di stretta collaborazione e coordinamento con i magistrati di riferimento nello svolgimento delle varie indagini.
E non diversamente del resto ebbe ad operare la Dia nella gestione di un’importante fonte confidenziale quale fu Luigi Ilardo, assassinato il 10 maggio 1996, pochi giorni prima che formalizzasse la sua decisione di collaborare con la giustizia (ma che da tre anni aveva instaurato un rapporto "confidenziale" con la Dia. prima che il Col. Riccio rientrasse nei ranghi dell’Arma e venisse aggregato al Ros portando in dote la fonte "Oriente" che per anni aveva gestito per conto della Dia).
Senza dimenticare poi la copertura normativa offerta dall’art. 203, comma i bis c.p.p., espressamente invocato del resto dal Generale Mori, anche in sue esternazioni extragiudiziali (come attesta l’on. Violante), senza curarsi, peraltro, dello stridente contrasto con la diversa giustificazione addotta per non averne riferito al dott. Borsellino (nel senso che gliene avrebbero parlato certamente, se i contatti con Ciancimino avessero registrato progressi significativi).
Ma questa linea giustificativa, che fa leva sull’autonomia operativa e su un doveroso riserbo investigativo — per blindare la segretezza delle indagini più delicate, ma anche a maggior tutela delle proprie fonti — cozza irrimediabilmente con l’opposta scelta di mettere al corrente dei contatti intrapresi con una potenziale fonte confidenziale, e addirittura prima ancora che l’ipotesi di una collaborazione con gli inquirenti si concretizzasse, esponenti politici e istituzionali che nessun titolo avevano per interloquire in quell’operazione o anche solo per esserne messi al corrente, se si fosse trattato solo di un’operazione investigativa.
Né, per la verità, s’era mai registrato anche un solo precedente di un personaggio accreditato di avere un ruolo e uno spessore mafioso di primo ordine che fosse stato avvicinato dai carabinieri per indurlo a collaborare con gli inquirenti, sostanzialmente tradendo i suoi (ex) sodali, ma al quale, per raggiungere tale scopo, fosse stata rivolta, almeno in una fase iniziale, una proposta del tipo di quella che fu rivolta, inizialmente, a Ciancimino (e cioè di fare da intermediario presso i vertici di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad allacciare un Dialogo con gli stessi carabinieri in quanto emissari di soggetti più titolati di loro a imbastire una vera e propria trattativa con l’obbiettivo dichiarato di far tacere le anni).
GIAMMANCO LASCIA LA PROCURA
In ogni caso a partire dal 28 luglio ‘92, Giammanco lascia la procura di Palermo. Ma la difesa insinua che continuavano ad operare e a ricoprire ruoli importanti in quell’ufficio alcuni dei sostituti che erano stati più vicini al procuratore uscente, e ne avevano condiviso la gestione. ù
Sennonché, a fugare qualsiasi sospetto di continuità di un presunto indirizzo teso a sminuire l’importanza dell’indagine mafia e appalti o a svalutare la consistenza delle risultanze compendiate nel rapporto originario, basti considerare che dei sostituti predetti uno (il dott. Pignatone) non si occupava più dell’indagine in questione fin dal novembre 1991 (come pure accertato dal gip di Caltanissetta e come è emerso anche nel corso delle citate audizioni dinanzi al Csm).
Tra i titolari del procedimento figurava invece il dott. Scarpinato, ossia uno dei sostituti che era stato non solo firmatario ma addirittura estensore del clamoRoso documento di protesta che aveva innescato o rafforzato la decisione di Giammanco di chiedere il trasferimento immediato ad altro ufficio. Ed era rimasto, degli originari titolari, il dott. Lo Forte, che però figurava come firmatario della corposa delega di indagine sulla vicenda degli appalti Sirap e dello stralcio dei relativi atti dall’originario proc. nr. 2789/90, disposto proprio per approfondire quel filone di indagine.
Se poi ci si riferisce alle propalazioni oggettivamente calunniose di Siino nei riguardi tra gli altri anche del dott. Lo Forte, queste ultime saranno raccolte dal capitano De Donno — e dal colonnello Mori — solo a partire dai primi mesi del 1983. Né può credersi che le (generiche) propalazioni accusatorie del sedicente neo collaboratore di giustizia Li Pera, raccolte dal solo De Donno nel corso di colloqui investigativi o dell’atto assunto su delega del sostituto procuratore dott. Lima (il 20 luglio) potessero incrinare la fiducia e il rapporto di doveRrosa e leale cooperazione con la procura di Palermo: e ciò prima ancora di avere intrapreso la ricerca di riscontri a propalazioni chiaramente dettate dall’intento di minimizzare le proprie responsabilità attribuendo ai magistrati palermitani titolari dell’indagine mafia e appalti il proposito di enfatizzarlo a beneficio dei veri responsabili; ed avendo peraltro contezza del mendacio con cui lo stesso Li Pera aveva tentato di giustificare la sua iniziale reticenza, asserendo che erano stati i magistrati della procura palermitana a non volerlo sentire.
Per non parlare dell’opacità e discontinuità delle dichiarazioni rese nel tempo dallo stesso De Donno sulla genesi di quella collaborazione e sul modo in cui ne sarebbe venuto a conoscenza il dott. Borsellino, per le quali si rinvia alla puntuale ricostruzione che ne ha fatto il gip del Tribunale di Caltanissetta, alle pagg. 200-203 della cit. ordinanza di archiviazione del 15 marzo 2000, che evidenzia le risultanze che smentiscono la versione — o, più esattamente, le diverse narrazioni — dell’allora capitano De Donno.
Detto questo, potevano nondimeno residuare valutazioni diverse circa la necessità o l’opportunità di talune scelte processuali che sembravano frustrare o non soddisfare le aspettative dei carabinieri del Ros, artefici delle indagini in oggetto.
Ma tali divergenze non giustificavano affatto che in altri filoni investigativi o su altri temi di indagine la collaborazione del Ros con la procura palermitana dovesse e potesse dispiegarsi entro binari di assoluta correttezza e lealtà, e nella più scrupolosa osservanza dei rispettivi doveri e delle rispettive competenze.
E infatti la pretestuosità dell’argomento difensivo, che indugia nell’imputare ai contrasti insorti in relazione alla sorte dell’indagine mafia e appalti le remore degli ex ufficiali odierni imputati a informare l’A.g. dell’operazione Ciancimino, emerge in tutta evidenza sol che si consideri il fervore di attività investigative e l’impegno correlati agli stralci che diedero luogo a separati procedimenti per i fatti meritevoli di ulteriori approfondimenti, ma rispetto ai quali era arduo ravvisare profili di connessione in senso stretto con l’oggetto specifico dell’originario procedimento n.2789/90355.
E soprattutto, come s’è visto, proprio in corrispondenza temporale dell’avvio dei contatti con Vito Ciancimino e poi dello sviluppo della prima fase della "trattativa" (i due primi incontri con Mori risalirebbero ad agosto 1992) era in pieno svolgimento una proficua attività investigativa riguardante uno dei filoni scaturiti dall’indagine mafia e appalti, ovvero la vicenda degli appalti della Sirap.
Tale attività traeva impulso da una corposa delega d’indagine conferita ai carabinieri del Ros dalla procura di Palermo e le relative risultanze saranno compendiate nell’informativa depositata il 5 settembre 1992: proprio quell’informativa cui sono allegati, tra gli altri, i verbali di trascrizione delle intercettazioni che contengono gli elementi più compromettenti per gli esponenti politici che non risultavano chiamati in causa nell’originario rapporto mafia e appalti (e relativi allegati), e che avrebbe dato la stura alla tesi di una doppia versione di quel rapporto.
I PRESUNTI IMBARAZZI DI DE DONNO
Si può poi concedere che il capitano De Donno potesse avere serio imbarazzo ad interfacciarsi con un Ufficio da cui erano partite delle segnalazioni di abusi e irregolarità a lui ascritte e ne era seguito uno scambio di pesanti accuse che non avrebbe favorito un rapporto di franca e leale collaborazione. Ma ancora una volta è necessario contestualizzare la vicenda, a partire da una corretta collocazione temporale, per non dare luogo a fraintendimenti.
Era accaduto, secondo quanto accertato nella sua istruttoria dal gip di Caltanissetta, che, a seguito della trasmissione in data 28 ottobre 1992 degli atti relativi al proc. a carico dei 22 indagati, scaturito dalle dichiarazioni accusatorie del sedicente collaborante Li Pera Giuseppe che erano state raccolte dal P.M. di Catania, dott. Felice Lima (presente il capitano De Donno), la procura di Palermo aveva presentato un esposto per presunte irregolarità e abusi ascritti al capitano De Donno.
Da tale esposto si erano originati due procedimenti a carico dello stesso De Donno: un procedimento disciplinare, preceduto da un’ispezione ministeriale presso gli uffici della procura di Palermo e presso gli uffici della procura di Palermo, che sfocerà (in data 26 marzo 1994) in un provvedimento di preliminare archiviazione da parte del P.g. presso la Corte di Cassazione, "non apparendo ravvisabili elementi e circostanze di rilievo, tali da provocare particolari iniziative"; e un procedimento penale istruito dalla procura di Roma per varie ipotesi di reato (falso e abuso d’ufficio), che sfocerà a sua volta in una richiesta di archiviazione accolta con decreto del gip del Tribunale di Roma.
Le contestazioni per falso e abuso d’ufficio erano state mosse in relazione alla condotta tenuta dal capitano De Donno nella gestione dell’inchiesta catanese, ed in particolare per avere, nell’informativa trasmessa al P.M. di Catania in data 1° ottobre 1992 fornito una lettura della nota a firma del colonnello Mori del 30 ottobre 1991, che ne stravolgeva il contenuto e il senso. Con tale Nota, l’allora colonnello Mori, in evasione di una delega d’indagine scaturita da un esposto anonimo che ventilava il possibile coinvolgimento di Angelo Siino, di Filippo Salamone e dell’onorevole Mannino nell’illecita spartizione degli appalti, aveva rappresentato alla competente A.g. che non erano emersi elementi di reità a carico degli stessi, fatta eccezione per il Siino.
Invece, nell’informativa "Caronte", trasmessa al pm di Catania il 1° ottobre 1992, il capitano De Donno aveva stravolto la precedente Nota a firma del suo Comandante, asserendo che, alla medesima data, erano emersi indizi di reità a carico (anche) del Salamone.
La competente autorità giudiziaria romana, pur dando atto della difformità tra il tenore della Nota che era stata trasmessa dall’allora colonnello Mori il 30 ottobre 1991 ad evasione dell’indagine delegatagli e la rappresentazione che il capitano De Donno ne aveva dato nell’inforrnativa Caronte, dispose l’archiviazione del procedimento penale, motivando tale decisione «sulla base degli esaurienti chiarimenti offerti dal De Donno nel corso del suo interrogatorio innanzi al pm di Roma (...). dai quali era emerso che la contestata condotta non era certamente stata il frutto di maliziosa interpretazione e volontà».
Ebbene, si tratta di una scia di dissapori e contrasti e motivi di risentimento o di reciproca diffidenza che, insieme alle polemiche sulla c.d. "doppia refertazione" prenderanno corpo, a tutto concedere, a partire dalla fine di ottobre 1992, ovvero non prima che la procura di Palermo si ricevesse per competenza gli atti del procedimento iniziato dalla procura di Catania sulla base delle rivelazioni del Li Pera, e quindi venisse a conoscenza dell’informativa Caronte e dei relativi allegati. Ma a quella data, la trattativa con Ciancimino era già in una fase più che avanzata, anzi c’era già stata quella brusca rottura cui avrebbe fatto seguito la decisione dello stesso Ciancimino di collaborare senza riserve con i carabinieri per aiutarli a catturare Riina.
Inoltre, era alle viste l’insediamento del nuovo procuratore a Palermo, nella persona del dott. Giancarlo Caselli che infatti già a novembre del ‘92 avrebbe dovuto prendere possesso del nuovo ufficio, ma dovete differirlo perché impegnato nella definizione di un grosso procedimento in materia di criminalità organizzato pendente dinanzi alla Corte d’Assise di Torino (come lo stesso dott. Caselli ha confermato deponendo dinanzi a questa Corte).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Di quel "dialogo" non viene informato neanche il nuovo procuratore Caselli. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’1 dicembre 2022
L’On. Violante non ricorda affatto che Mori gli abbia fatto cenno del proposito di informare il nuovo procuratore. E Caselli, a sua volta, anche dinanzi a questa Corte ha ribadito di avere appreso di quei contatti, per la prima volta, solo dalla viva voce di Vito Ciancimino in occasione di uno degli interrogatori resi alla procura di Palermo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Tale circostanza introduce a un ulteriore rilievo critico sull’attendibilità delle giustificazioni addotte dal Generale Mori. Ed invero, se la scelta di tacere fosse stata determinata dal clima di sospetto e diffidenza verso il procuratore capo di Palermo, ma anche diversi magistrati del medesimo ufficio, originato dalle determinazioni finali adottate in ordine all’indagine mafia e appalti compendiata nel rapporto del Ros deI 16 febbraio 1991 (effettivamente destinata ad essere archiviata per la maggior parte degli indagati, fatta salva la richiesta di rinvio a giudizio per sei di coloro che erano stati già attinti da misure custodiali, tra i quali Angelo Siino), allora gli odierni imputati ex ufficiali del Ros, ed in particolare il colonnello Mori che già vantava un rapporto di conoscenze e stima reciproche con il doti. Giancarlo Caselli, non avrebbero avuto alcuna remora a mettere il nuovo procuratore capo al corrente della loro iniziativa e ad aggiornarlo sui suoi possibili sviluppi.
E infatti è proprio quello che Mori dichiara di avere detto all’onorevole Violante: si riprometteva di parlare dei contatti intrapresi con Ciancimino con il nuovo Procuratore, non appena questi si fosse insediato […]. E lo fece, sempre a suo dire, già quando ebbero ad incontrarsi il 10 gennaio 1993.
Gli fa eco De Donno, il quale al processo Mori/Obinu ha confermato che se non fosse sopravvenuta la strage di via D’Amelio, il loro referente naturale nella gestione della "collaborazione" di Vito Ciancimino sarebbe stato il dott. Borsellino, ma, dopo l’arresto di Ciancimino, attesero che s’insediasse il nuovo procuratore per andare subito a raccontargli la faccenda di Ciancimino.
E già nel memoriale presentato prima alla procura di Firenze (1° agosto 1997), e poi alla procura di Caltanissetta (23 settembre 1997), Mori aveva sostenuto di avere edotto, sia pure informalmente, dell’intera vicenda il nuovo procuratore di Palermo, dott. Caselli, appena ricevuta la notizia che Ciancimino chiedeva un incontro con lo stesso Generale Mori e con De Donno; e di avere concordato con il Procuratore di procedere a un colloquio investigativo: «nel gennaio 1993, non ricordo se prima o dopo la cattura di Salvatore Riina (15 gennaio 1993), fui contattato dall’avv. Giorgio Ghiron, difensore di Ciancimino Vito, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno.
A questo punto resi informalmente edotto di tuta la vicenda il procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Giancarlo Caselli, e concordai con lui la richiesta di un colloquio investigativo con Ciancimino».
Tale versione però è andata incontro ad una duplice smentita.
Violante non ricorda affatto che Mori gli abbia fatto cenno del proposito di informare il nuovo procuratore. E Caselli, a sua volta, anche dinanzi a questa Corte ha ribadito di avere appreso di quei contatti, per la prima volta, solo dalla viva voce di Vito Ciancimino in occasione di uno degli interrogatori resi alla procura di Palermo dopo che il colonnello Mori, reduce da un colloquio investigativo debitamente autorizzato con lo stesso Ciancimino, gli aveva anticipato che l’ex sindaco di Palermo aveva manifestato la sua disponibilità ad essere sentito dalla Procura della Repubblica di Palermo e a collaborare con i magistrati.
LA TESTIMONIANZA DI GIANCARLO CASELLI
Il dott. Caselli ha reso sul punto una testimonianza tanto più affidabile perché, nuovamente esaminato per confermare o meno quanto asserito dal colonnello Mori nelle sue dichiarazioni spontanee dell’ 8.09.2026, ha dimostrato di avere un ricordo nitido delle circostanze e del modo in cui era venuto a conoscenza dei pregressi contatti di Ciancimino con gli ufficiali del Ros e anche dell’incontro del 10 gennaio con il colonnello Mori, che ammette di avere avuto, dicendosi però certo che, in occasione di quell’incontro, non gli fu fatto il minimo cenno a Ciancimino.
Il teste ha tenuto anzitutto a puntualizzare che, a sua memoria, solo a distanza di 23 anni Mori ha segnalato per la prima volta di aver avuto con lui già alla data del 10 gennaio 1993 un’interlocuzione sui suoi contatti con Vito Ciancimino. Ha poi ammesso che in effetti quel giorno si incontrarono a Torino, ma per tutt’altre ragioni, ribadendo che non si parlò affatto di Ciancimino.
Quello con Mori avrebbe dovuto essere solo un incontro conviviale, in vista dell’ormai imminente insediamento, e non — come asserito da Mori — una sorta di briefing per fare il punto della situazione che avrebbe trovato a Palermo.
Ma poi l’incontro prese una piega imprevista perché su tutto prevalse l’urgenza di affrontare le questioni operative legate alla rivelazione del generale Delfino secondo cui i carabinieri avevano arrestato in quel di Borgornanero un mafioso che era stato molto vicino a Totò Riina e che aveva manifesta la disponibilità a collaborare con la giustizia e a fornire notizie preziose per la cattura del capo di Cosa nostra.
E lo stesso Caselli, oltre a mettersi in contatto con il dott. Aliquò, reggente della Procura della Repubblica di Palermo, ritenne di doverne investire il vicecomandante del Ros per ogni eventuale sviluppo operativo e quindi sollecitò il Generale Delfino a convocare pure Mori («Quando arrivo da Delfino e Delfino mi dice che Di Maggio sembra essersi aperto a una collaborazione, dico subito al Generale Delfino per favore convochi Mori, convochi Mori...»).
Nega però che Mori, una volta giunto presso l’ufficio del generale Delfino, abbia saputo "anche" dell’arresto di Baldassare Di Maggio, come se fosse stato solo uno degli argomenti trattati [...]. Al contrario, era proprio questo lo scopo dell’invito a raggiungerlo dal generale Delfino, ed esclusivamente di questo si parlò: del Di Maggio e della possibilità di pervenire alla cattura di Riina, senza che residuasse né lo spazio né il proposito di trattare altri argomenti.
E nient’altro, in quel momento, poteva interessargli, se non lavorare alacremente ad organizzare il necessario per concretizzare quella possibilità [...]. D’altra parte, a quella data, Vito Ciancimino era già al sicuro nelle patrie galere. Il suo arresto era stato abbastanza clamoroso e salutato con sollievo e soddisfazione ("fine dell’impunità, finalmente"). Ed allora, per quale ragione Mori avrebbe dovuto parlargli ancora di Ciancimino e di un tentativo di approccio confidenziale una volta che oserei dire, finalmente era stato associato alle patrie galere?.
Non si vede infatti quali sviluppi potesse avere, ora che Ciancimino era in galera, un rapporto confidenziale che non s’era perfezionato neppure quando era in libertà. E allora, di quali sviluppi Mori avrebbe potuto informarlo o aggiornarlo? Ormai Ciancimino era in carcere, e la partita era chiusa. Mori non aveva alcun motivo di prospettargli un possibile rapporto "confidenziale" con un signore che ormai come confidente era finito, finito perché era finito in galera. E questa incongruenza della ricostruzione di Mori getta un’ombra su tutta la sua versione dell’accaduto […].
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Il monologo in carcere di Vito Ciancimino, un testimone molto sospetto. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 02 dicembre 2022
Gli interrogatori sono consistiti in una sorta di monologo del dichiarante al quale si è consentito di dare sostanzialmente lettura di appunti da lui stesso predisposti. In un interrogatorio reso da Vito Ciancimino in data 3.06.1996, lo stesso dichiarante si lascia scappare che: «io tutto quello che avevo.. ..l’avevo scritto pure con i carabinieri, oltre scritto e l’abbiamo dettato...».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Stupisce però che lo stesso procuratore e il sostituto che procedeva con lui all’interrogatorio non abbiano avvertito la necessità, nel corso del medesimo atto, di approfondire o esplicitare alcuni passaggi dell’inedito (per loro) racconto di Ciancimino, a partire proprio dal suo incipit ("Avevo avuto al capitano De Donno varie sollecitazioni per iniziative comuni"), per non parlare del "piano" che a dire del sedicente collaborante lui stesso avrebbe prospettato inizialmente ai carabinieri - che lo avrebbero accettato - prima che sopravvenisse l’irricevibile proposta, e cioè quello di cercare un contatto per collaborare con i carabinieri.
E sarebbe stato decisamente opportuno chiedere chiarimenti, ai due ufficiali del Ros., in separata sede, almeno per la parte che più specificamente concerneva le finalità della loro iniziativa e l’effettivo tenore della proposta inizialmente rivolta al potenziale confidente, che, giustamente, l’aveva intesa come sollecitazione a stabilire un contatto con i vertici mafiosi per verificarne la disponibilità ad aprire un fronte di dialogo che facesse cessare quel muro contro muro — e cioè la strategia di contrapposizione frontale tra la mafia e lo stato che minacciava di mietere ulteriori vittime, in un escalation di violenza stragista.
Ed ancora, chiarimenti sarebbero stati opportuni per spiegare il brusco cambio di registro della trattativa intrapresa con Ciancimino, con la formulazione, da parte di Mori e De Donno di quella proposta che fece impallidire e infuriare (almeno sulle prime) lo stesso Ciancimino, determinando una presunta, repentina rottura dei contatti, che in realtà non vi fu mai, come s’è visto a proposito degli incontri effettuati da Mori con Liliana Ferraro e con l’on. Violante proprio nei giorni dell’assenta rottura.
E per accertare se fosse vero che gli stessi carabinieri avevano accettato la nuova proposta di collaborazione avanzata da Ciancimino dopo aver maturato la decisione di passare il Rubicone, che prevedeva il suo inserimento nell’organizzazione mafiosa, ma a vantaggio dello stato; e contemplava altresì, per poter svolgere tale incarico, il rilascio del passaporto, che Ciancimino avrebbe richiesto per le vie normali. Ed anche questo punto del piano, secondo la versione dell’aspirante "infiltrato" per conto dello stato, sarebbe stato accettato dai carabinieri.
I quali, dal canto loro, si guardarono bene dall’informare il procuratore Caselli di avere effettivamente perorato l’interesse di Ciancimino ad ottenere il passaporto, veicolando questa sua esigenza alla Ferraro e così innescando la furibonda reazione del ministro Martelli sfociata in una vibrante sollecitazione al procuratore Siclari per stroncare l’intraprendenza — e l’impudenza, dal suo punto di vista – del Ros.: retroscena dei quali per quanto consta il procuratore Caselli e la procura di Palermo in generale non furono mai messi al corrente.
Dispiace poi dover constatare che, nel ricostruire la vicenda dei rapporti instaurati dai carabinieri del Ros. con Vito Ciancimino a partire dalle dichiarazioni dello stesso Ciancimino, tutto quello che poteva essere fatto per inquinare (oggettivamente e non certo intenzionalmente, si capisce) una fonte dichiarativa già inquinata ed inquinante di suo — se è vero quanto asserito dallo stesso Caselli che anche dinanzi a questa Corte lo ha dipinto come un dichiarante viscido, sfuggente e inaffidabile, per non parlare del severo apprezzamento espresso dall’on. Violante — è stato fatto.
Gli interrogatori susseguitisi a partire da quello del 27 gennaio 1992 sono stati quasi tutti sempre presidiati da Mori e De Donno, presenti, in particolare agli unici interrogatori in cui si è parlato o fatto cenno dei contatti intrapresi (così per l’interrogatorio del 3 marzo 1993, nel quale si è però solo preannunciato che sarebbero state messe a verbale le dichiarazioni di Ciancimino al riguardo; e per l’interrogatorio del 17 marzo 1993, e segnatamente quello assunto di mattina, come da verbale delle ore 09:30, presente il solo De Donno). E la serie dei primi interrogatori era stata preceduta da un colloquio investigativo, che è stato anche documentalmente provato, effettuato in data 22 gennaio 1992.
Stando poi a quanto dichiarato da Liliana Ferraro in occasione della sua audizione dinanzi alla Commissione Antimafia nel febbraio del 2010, ve ne sarebbero stati altri ma sotto controllo dell’A.g. competente, e cioè la procura di Palermo. Circostanza che è stata ammessa da De Donno al processo Mori/Obinu, nel senso che al primo colloquio, datato 22 gennaio 1992, ne seguirono molti altri, non ricorda quanti, sia nel 1993 che l’anno successivo, ma tutti autorizzati sempre dalla procura di Palermo.
La presenza di Mori e De Donno agli interrogatori di Ciancimino ben poteva essere giustificata da esigenze investigative, anche se nessuno ha mai spiegato quali fossero tali esigenze e perché richiedessero una presenza così assidua.
INTERROGATORI ANOMALI
Ma il dato più inquietante è un altro.
Gli interrogatori in questione, e in particolare proprio quello del 17 marzo, sono consistiti in una sorta di monologo del dichiarante al quale si è consentito di dare sostanzialmente lettura di appunti da lui stesso predisposti — e che sono stati poi acquisiti per essere allegati ai verbali in fotocopia — e che sono stati poi sequestrati unitamente a tutto il materiale cartaceo rinvenuto nella cella occupata da Ciancimino a Rebibbia, in esito alla perquisizione del 6 giugno 1996.
Dal verbale dell’interrogatorio del 17 marzo, che pure era stato sollecitato dallo stesso Ciancimino attraverso il suo difensore, avv. Ghiron, si evince che in effetti per larga parte dell’atto istruttorio, l’imputato si è limitato a rendere dichiarazioni spontanee e i verbalizzanti a prenderne atto. Solo dopo tre ore di soliloquio, i verbalizzanti danno un timido segno di vitalità: "A questo punto alle ore 12:20 si allontana per sopraggiunte esigenze professionali l‘avv. Giorgio Ghiron.
Anzi, si dà atto che prima dell‘allontanamento dell ‘avv. Ghiron l‘Ufficio comunica a Vito Ciancimino il proposito di formulare domande a precisazione ed integrazione delle dichiarazioni spontanee appena rese, nonché il proposito di formulare domande a proposito degli omicidi Dalla Chiesa, La Torre e Mattarella. Tanto nell‘ottica del verbale del 10/03/1993 laddove lo stesso Vito Ciancimino e il suo difensore avevano fatto riferimento a collaborazione rilevante ai sensi di legge".
In particolare, "l‘Ufficio chiede al signor Ciancimino di fare il nome dell’interlocutore intermediario". E sarà questa l’unica domanda che l’Ufficio avrà l’ardire di porre e alla quale l’interrogato si degnerà di rispondere dopo essersi consultato con il proprio difensore. Dopodiché riprenderà sino alla fine dell’atto istruttorio a rendere spontanee dichiarazioni, anche sui temi sui quali l’Ufficio aveva preannunciato il proposito di formulare domande, per poi rinunciare sommessamente a darvi corso.
Identica impostazione avrà anche il successivo "interrogatorio" del 31 marzo, in cui figura un fugace, ma, va anticipato, rilevantissimo cenno alla collaborazione intrapresa con i carabinieri, premendo al dichiarante - in relazione alle notizie di stampa che nei giorni precedenti avevano rivelato come egli stesse collaborando con l’A.g., pubblicando persino parte del contenuto dei verbali degli interrogatori già resi - «che sia falla assoluta chiarezza, rivelando che fin al 25/08/1992 ("prima di essere arrestato"), senza sollecitazioni avevo deciso di collaborare coi: i carabinieri e ritengo che di ciò debbano essere informati il Capo dello stato, 11 Presidente del Consiglio dei Ministri, il ministro degli Interni e il ministro di Grazia e Giustizia». Ebbene, anche in questo caso, l’atto istruttorio è consistito nel consentire a Ciancimino di sciorinare, mediante lettura dei suoi appunti manoscritti, dichiarazioni spontanee, come s’evince dall’incipit del verbale [...].
Ma c’è di più. In un successivo interrogatorio reso da Vito Ciancimino in data 3.06.1996 (ossia quello che diede luogo alla perquisizione della sua cella) il dichiarante, nel riproporre un sintetico resoconto dei suoi pregressi contatti con gli ufficiali del Ros. di cui aveva già parlato in precedenti interrogatori (in realtà solo uno, quello del 17.03.1993, delle ore 09:30), intercala frequentemente frasi che denotano come egli più che consultare leggesse gli appunti redatti a suo tempo e ancora in suo possesso ("ho letto qua" "o ho letto sono pronto ad andare avanti...", "io per ora sto leggendo"). A pag. 12 del verbale integrale, l’Ufficio dà atto che, dopo una breve interruzione per un lieve malessere del dichiarante, questi proseguiva la lettura dei suoi appunti ("a questo punto alle ore 12:15 il signor Ciancimino, ripresosi dal lieve malessere dichiara di essere pronto a ricominciare e si dà inizio ancora alla, si continua la lettura dei suoi appunti. Prego").
Ad un certo punto, lo stesso dichiarante si lascia scappare che «io non sono un bugiardo, io tutto quello che avevo.. ..l’avevo scritto pure con i carabinieri, oltre scritto e l’abbiamo dettato...tutto io a mano l’ho scritto»: frase che conserva un margine di ambiguità (nell’inciso "l’abbiamo dettato"), ma che fa intendere che, se la fonte a cui Ciancimino attingeva la sua narrazione era costituita da appunti scritti di suo pugno, quegli appunti li aveva scritti insieme ai carabinieri, o addirittura sotto dettatura. E anche se l’inciso "oltre scritto, l’abbiamo dettato" alludesse alla verbalizzazione in sede di interrogatorio, resterebbe indelebile un implicito riferimento al fatto che la verbalizzazione rispecchiava fedelmente gli appunti preconfezionati insieme ai carabinieri.
NESSUNO CHIEDE SPIEGAZIONI AL ROS
In pratica, al capitano De Donno e all’allora colonnello Mori non furono chieste spiegazioni e chiarimenti e tanto meno furono invitati a redigere una relazione di servizio sulla vicenda dei contatti intrapresi con Ciancimino, all’insaputa dell’A.G. prima e dopo il suo arresto. E lo stesso Ciancimino di fatto non è mai stato interrogato su tale vicenda, limitandosi a rendere dichiarazioni spontanee, consiste peraltro nel dare lettura di appunti preconfezionati. Quando si è presentata l’occasione di tornare, in successivi atti istruttori, su quella vicenda, Ciancimino si è di fatto tirato indietro.
Lo ha fatto platealmente, avvalendosi della facoltà di non rispondere - in quanto doveva essere sentito nella veste di imputato di reato connesso - quando venne citato su richiesta dei difensori di Riina e Graviano. imputati nel processo sulle stragi in continente all’udienza del 13.10.1999, dinanzi alla Corte d’Assise di Firenze, nel processo nr. 13/96 a carico di Graviano Giuseppe+3.
Eppure, gli si chiedeva solo di riferire sui contatti avuti con il Gen.le Mori e con il capitano De Donno nell’estate del 1992, così come già riferiti, questi contatti, dallo stesso generale Mori e dal capitano De Donno di fronte alla Corte d’Assise di Firenze in un processo connesso al presente, nonché in data 24gennaio 1998. Ciancimino in tale occasione avrebbe potuto riportarsi alle sue precedenti dichiarazioni, ma ha preferito sottrarsi, come del resto aveva sempre fatto fino a quel momento, al rischio di un vero interrogatorio/esame sulla vicenda; e in particolare al rischio di contraddire la versione di Mori e De Donno, o di far risaltare innegabili differenze già riscontrabili tra le sue prime dichiarazioni e la ricostruzione offerta dai due Ufficiali del Ros. Al dibattimento del processo fiorentino sulle stragi in continente.
E si trincerò dietro la formula di non avere altro da aggiungere rispetto a quanto già dichiarato all’autorità giudiziaria di Palermo, allorché, nel corso dell’interrogatorio del 3 aprile 1998 dinanzi ai pubblici ministeri di Firenze, Palermo e Caltanissetta fu sollecitato, preliminarmente, dai verbalizzanti a dire se avesse nulla da aggiungere (in ordine a quanto dichiarato in precedenza all’A.g. di Palermo), «anche con riferimento alle recenti notizie diffuse da organi di stampa circa le dichiarazioni di Giovanni Brusca, del generale Mori e del capitano Giuseppe De Donno».
Ma quando, nel prosieguo dell’interrogatorio, si torna al tema delle notizie di stampa diffuse sul suo arresto - che lo stesso Ciancimino ha voluto rettificare, segnalando che era falso che fosse stato arrestato per un residuo pena da scontare, perché la verità era che l’arresto lii motivato in relazione al ritenuto pericolo di fuga ricollegato alla mia richiesta del rilascio del passaporto, richiesta che però, ha tenuto a sottolineare, veniva concordata con i carabinieri — l’ufficio esibisce il verbale dell’interrogatorio del 17 marzo 1993 (quello delle ore 09:30), che Ciancimino inizia a leggere.
Ma dal verbale (quello del 3 aprile ‘98) risulta che "dopo la lettura di alcune pagine, il Ciancimino fa presente che si è stancato, tanto che non riesce a percepire nemmeno il significato di quello che legge e pertanto non si sente nelle condizioni di proseguire l’interrogatorio a causa cli un sopraggiunto malessere fisico e mentale".
Insomma, neppure in questa occasione è stato possibile porre domande o richiedere chiarimenti o approfondire aspetti della vicenda che avrebbero richiesto ben altra attenzione, anche alla luce di quanto dichiarato pochi mesi prima e in pubblico dibattimento dal generale Mori e dal capitano De Donno, oltre alle rivelazioni di Giovanni Brusca.
A parziale giustificazione dell’inerzia dell’Ufficio requirente, e del plateale disinteresse del procuratore Caselli ad approfondire la vicenda dei contatti informali e dei colloqui riservati (o se si preferisce "clandestini") avuti da Ciancimino con i carabinieri del Ros., può addursi l’essersi lo stesso dott. Caselli sempre attenuto, come ha dichiarato dinanzi a questa Corte, ad una sorta di regola aurea di condotta nei suoi rapporti con gli organi di polizia giudiziaria: la regola in forza della quale egli non interferiva nella gestione di una fonte confidenziale che restava appannaggio esclusivo dell’organo di polizia che la gestiva.
D’altra parte, che Ciancimino fosse stato o avrebbe potuto diventare una fonte confidenziale dei carabinieri era, sempre per quanto l’ex procuratore ha dichiarato in questa sede, una questione ornai definitivamente chiusa, poiché, a partire dal momento in cui era stato consegnato alle patrie galere, Ciancimino non poteva più ricoprire il ruolo di confidente, ammesso che lo fosse mai stato quando ancora era in libertà. Né il procuratore Caselli o altri magistrati del suo Ufficio furono messi al corrente dei contatti riservati che gli stessi carabinieri del Ros. avevano avuto, contestualmente a quelli avviati con Ciancimino, con esponenti qualificati dei vertici istituzionali dell’epoca, e del fatto che quell’iniziativa fosse stata — ai medesimi esponenti istituzionali - additata come una delle più importanti operazioni messe in campo per contrastare la violenza mafiosa e porre fine alle stragi.
Resta il fatto che sarebbe stato opportuno un report più accurato sui contenuti salienti di un’operazione che si era trascinata per circa sei mesi, passando attraverso un numero imprecisato di incontri e di colloqui tra Ciancimino e i carabinieri del Ros., ma anche attraverso spostamenti dello stesso Ciancimino dalla sua residenza romana fino a Palermo, per reiterati contatti con il suo diretto referente (identificato nella persona del dott. Antonino Cinà), che a sua volta si sarebbe interfacciato con esponenti di vertice dell’organizzazione mafiosa, avendone la possibilità ed essendo lo stesso Ciancimino, evidentemente, consapevole ditale possibilità.
E infatti doveva pensarla così il procuratore di Firenze Pierluigi Vigna, che, nel quadro delle indagini condotte dal suo Ufficio sulle stragi in continente, ebbe a richiedere alla procura di Palermo che gli venisse inviata copia degli interrogatori di Vito Ciancimino vertenti sui contatti intrapresi con i carabinieri, oltre a quello del 17 marzo 1993, ed eventuali relazioni di servizio o dichiarazioni assunte dagli stessi carabinieri. Ma, come si evince dal carteggio tra i due Uffici giudiziari che è stato versato agli atti del presente giudizio, gli fu trasmesso, in data 10 ottobre 1996 e in aggiunta al verbale del 17 marzo 1993, ore 09:30, già trasmesso in data 26agosto 1996, soltanto il verbale sempre del 17 marzo, ma aperto alle ore 16:30, con 1’ allegato manoscritto del Ciancimino medesimo.
La garbata sollecitazione del procuratore Vigna a trasmettere anche le eventuali dichiarazioni assunte dai due ufficiali del Ros. che avevano gestito la fonte Ciancimino non venne dunque raccolta. Non resta che prendere atto che in quel frangente storico, 1993-1996, lo stesso Ufficio requirente che di lì a qualche anno aprirà un primo procedimento (a carico del Cinà, di Riina Salvatore e dello stesso Ciancimino) poi archiviato, e successivamente chiederà e otterrà l’autorizzazione alla riapertura delle indagini che sarebbero poi sfociate nel presente procedimento, in quel frangente storico non nutrì alcun sospetto sulle reali finalità perseguite dai carabinieri del Ros né sulla vera natura di quell’operazione; e tanto meno ebbe ad adombrare l’ipotesi accusatoria che cominciò a delinearsi dopo che furono acquisite le rivelazioni di Giovanni Brusca (sul c.d. papello) e le dichiarazioni di Mori e De Donno al processo di Firenze sulle stragi in continente.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le tante ombre sulla versione data da Mario Mori e Giuseppe De Donno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 03 dicembre 2022
Sia Mori che De Donno hanno in varie sedi dichiarato che, fin dal primo incontro, Vito Ciancimino esternò questo disegno, quasi una fissazione, di proporsi come infiltrato per conto dello Stato nel sistema di gestione illecita degli appalti, forte delle sue entrature negli ambienti imprenditoriali (e politici). Ma di questa offerta è certo che non fu fatto il minimo cenno a Borsellino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
L’inerzia o lo scarso interesse della procura di Palermo ad approfondire i temi e i contenuti delle reiterate interlocuzioni di Vito Ciancimino con gli ufficiali del Ros. — a tutti gli effetti rimaste segrete, poiché a differenza di Ciancimino, non provvidero né in tempo reale né ex post a redigere anche solo degli appunti informali che potessero servire come strumento di lavoro investigativo — sollecita un quarto motivo di riflessione sulle tante incongruenze di quella che per anni è stata propinata — dagli ex ufficiali dell’Arma odierni imputati – come l’unica verità su quella oscura vicenda: il totale disinteresse per la disponibilità subito manifestata da Vito Ciancimino a parlare di tangentopoli e dei suoi riflessi o delle sue connessioni con le vicende (delittuose) siciliane, e ciò non solo con riferimento alla c.d. “tangentopoli siciliana”, cioè al riprodursi in Sicilia del medesimo fenomeno di corruzione sistemica legato agli appalti di opere pubbliche, ma con una connotazione peculiare derivante dalla presenza e dall’inedito ruolo di Cosa nostra quale protagonista degli accordi regolatori per la spartizione di appalti e tangenti; ma anche a possibili indiretti legami persino con la genesi o la causale delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Entrambi, e De Donno prima e più di Mori, stando al loro racconto, sarebbero rimasti a sentire gli sproloqui al riguardo di Ciancimino più come atto di cortesia, giusto per stabilire un clima cordiale e di fiducia, e non irritare il loro interlocutore che per un reale interesse alle cose che questi andava dicendo. Eppure, questo disinteresse è inspiegabile sol che si consideri che era verosimile che Vito Ciancimino avesse una conoscenza approfondita del sistema di gestione degli appalti e di spartizione delle relative tangenti, avuto riguardo al ruolo che ne aveva contraddistinto la sua carriera di “politico” in affari, e di imprenditore aduso a lucrare sulle sue entrature nel mondo della politica e delle istituzioni, ma anche al ruolo di uomo-cerniera tra mondo degli affari e della politica e ambienti della criminalità mafiosa.
Ora, ammesso che interesse precipuo dei carabinieri fosse quello di raccogliere notizie e indicazioni utili alle indagini sulle stragi, è innegabile, perché sono loro stessi ad averlo detto, e i loro difensori vi incentrano buona parte delle argomentazioni difensive, che essi ritenevano l’indagine mafia e appalti suscettibile di ulteriori e importanti sviluppi con ricadute anche sul versante delle indagini mirate a individuare causale e responsabili delle stragi.
Quell’indagine, infatti, più di ogni altra puntava al cuore delle risorse strategiche e del potere di Cosa nostra. E già in tale ottica erano stati ben lieti di assicurare la loro disponibilità al dott. Borsellino che a sua volta li aveva gratificati della sua stima e della sua fiducia chiedendo loro di riprendere le fila dell’indagine mafia e appalti compendiata nella voluminosa informativa già consegnata a Giovanni Falcone (che proprio a Borsellino aveva raccomandato, una volta trasferitosi al ministero, di curarne gli sviluppi, come attestato da Liliana Ferraro), e di condurre nel massimo riserbo un’attività investigativa per la quale avrebbero dovuto rapportarsi soltanto a lui.
CIANCIMINO SI PROPONE COME “INFILTRATO”
Ebbene, sia Mori che De Donno hanno in varie sedi dichiarato che, fin dal primo incontro, Vito Ciancimino esternò questo disegno, quasi una fissazione, di proporsi come infiltrato per conto dello stato nel sistema di gestione illecita degli appalti, forte delle sue entrature negli ambienti imprenditoriali (e politici). Ma di questa profferta è certo che non fu fatto il minimo cenno a Borsellino.
E ammesso che il primo incontro (di De Donno con Ciancimino) sia avvenuto in epoca successiva al 25 giugno, è difficile credere che non ve ne fosse stato alcuno prima del 10 luglio, e che prima di quella data — che è la data dell’ultima volta che Mori incontrò Borsellino — il Ciancimino non avesse ancora fatto cenno della sua proposta. Ma anche volendo accedere alla più improbabile ricostruzione della sequenza cronologia dei contatti tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros. — qual è quella secondo cui tutti gli incontri “preliminari”, e cioè quelli a quattrocchi tra De Donno e Ciancimino, siano avvenuti nella seconda metà di luglio ‘92, ossia in un arco temporale assai più ristretto di quello che si ricaverebbe dalle pur scarne indicazioni dei due ex Ufficiali (v. supra) — rimane il fatto che per loro stessa ammissione i carabinieri non hanno mai avuto né manifestato alcun interesse a coltivare, neppure come potenziale ipotesi di lavoro investigativo, quella proposta che liquidano come fantasiosa e comunque impraticabile, sebbene alcuni collaboratori di giustizia abbiano invece lasciato intendere che essa fosse fattibile, o che comunque
Ciancimino abbia continuato, attraverso legami imprenditoriali con soggetti a lui vicini, a giocare un ruolo rilevante nel sistema di spartizione degli appalti (cfr. Brusca, al processo Borsellino Ter: ivi adombra un possibile collegamento tra il sistema di gestione degli appalti, o meglio le indagini che mettevano in pericolo tale sistema, e la strage di via D’Amelio. Parla dell’interesse inedito di Riina per la Reale Costruzioni S.p.A., cui sarebbe stato cointeressato Vito Ciancimino, impresa che avrebbe dovuto estromettere e sostituirsi al ruolo strategico della Impresem di Filippo Salomone, nella gestione del sistema di spartizione degli appalti; e allude alla possibilità di imprese infiltrate dai carabinieri).
Ora, si poteva liquidare quella proposta per l’altissimo rischio che il proponente facesse una sorta di doppio gioco, non essendo animato da altro interesse che quello di trarne il maggior vantaggio per sé e magari di rilanciarsi sulla scena politico-imprenditoriale, una volta sistemate le sue pendenze giudiziarie.
Ma al netto di questo legittimo sospetto, deve riconoscersi che un personaggio come Vito Ciancimino aveva tutte le carte in regola per essere reclutato come agente sotto copertura per un’operazione del genere, considerati i suoi legami criminali, passati e attuali, e il ruolo che aveva ricoperto fino alla sua recente caduta in disgrazia (a partire dall’arresto nel giugno del ‘90, per reati contro la p.a. e gli ulteriori procedimenti per analoghi reati, nonché la condanna sopravvenuta il 17 gennaio ‘92 per associazione mafiosa).
UNA PROPOSTA MAI PRESA IN CONSIDERAZIONE
Invece, a dire di Mori e De Donno, questa eventualità, su cui pure l’aspirante infiltrato avrebbe tanto insistito, non venne mai presa in seria considerazione da loro. E se stettero a sentirlo tutte le volte che egli provò a convincerli della validità del suo progetto, lo fecero per pura cortesia, per non irritare la sua suscettibilità, per guadagnarsi la sua fiducia. Né, per altro verso, si sono mai preoccupati di annotare quanto Ciancimino era andato dicendo, nel corso dei loro colloqui, su Tangentopoli o sulla sua dichiarata conoscenza dei meccanismi della corruttela politico-affaristica.
E ciò contrasta con l’esaltazione che lo stesso De Donno ha fatto — in particolare nel corso della deposizione resa al processo Mori/Obinu - del potenziale ruolo di Ciancimino quale fonte preziosa per ricostruire i meccanismi del sistema tangentizio, ampliandone la lettura a scenari più ampi (fino ad adombrare un possibile collegamento con la causale delle stragi), divenuti poi oggetto di riflessione e di approfondimento anche nelle indagini più recenti: […]. Tra l’altro, in piena Tangentopoli, questo si che avrebbe potuto costituire un filone investigativo di grande interesse per i vertici istituzionali, ovvero per chi, investito delle più alte cariche e responsabilità pubbliche, non poteva non guardare con favore ad iniziative che fossero volte a ricondurre il sistema nei binari della legalità, neutralizzando le centrali della corruzione dilagante, e contribuendo al risanamento dello stato — e quindi al ripristino della fiducia dell’opinione pubblica nelle Istituzioni — sotto il profilo di una bonifica da collusioni e connivenze politico-affaristiche.
In ogni caso, dubbi e perplessità lasciano il posto ad un dato ineludibile: la versione resa da Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori — o dell’unico interrogatorio in cui ne parla — contrasta con quella degli ex ufficiali del Ros perché, a suo dire, la sua proposta alla fine venne accettata, sia pure solo come cavallo di Troia, e cioè come escamotage per consentirgli di infiltrarsi all’interno dell’organizzazione mafiosa e di giungere fino ai suoi vertici, potendo così fornire agli inquirenti informazioni preziose anche per la loro cattura o per prevenire ulteriori fatti delittuosi.
E quindi, o ha mentito Ciancimino nel suo interrogatorio — senza che Mori e De Donno obbiettassero alcunché — o hanno mentito i due Ufficiali. Ma è certo che anche su questo punto sarebbe stato opportuno chiedere ulteriori chiarimenti. E il meno che possa dirsi, a commento ditali risultanze, è che la ricostruzione offerta da Mori e De Donno è stata tutt’altro che trasparente, soprattutto nella parte che concerne le vere finalità del rapporto di collaborazione instaurato con Ciancimino e il tenore della “missione” affidatagli.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’ala stragista, l’ala moderata e la “condotta favoreggiatrice” del Ros. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 dicembre
Rimangono interrogativi che si legano a quelli relativi alla mancata perquisizione del covo di Riina e alla condotta favoreggiatrice di Provenzano da parte dei carabinieri del Ros al comando del generale Mori — che sotto l’aspetto oggettivo e fattuale è stata accertata.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
S’intende che questa ipotesi ricostruttiva, come già più volte anticipato, presuppone che Mori e gli altri due ufficiali partecipi dell’operazione Ciancimino — incluso Subranni che l’avrebbe consapevolmente avallata — fossero edotti dell’esistenza di una profonda spaccatura interna a Cosa nostra, tra un’ala militarista, e determinata a portare avanti la strategia stragista della tensione, e una componente più moderata, non incline a proseguire su quella strada e propensa piuttosto ad abbassare i toni, evitare iniziative delittuose che inasprissero ulteriormente la reazione repressiva dello stato e negoziare eventuali benefici attraverso collusioni e complicità interne agli apparati politico — istituzionali, invece di terrorizzare la classe politica: l’ala “trattativista”, insomma, nel senso precisato dal senatore Mancino, che in effetti esisteva e faceva capo proprio a Bernardo Provenzano.
E se, come s’è visto, un vago sentore dell’esistenza di una simile spaccatura era con tutta probabilità una percezione già condivisa dagli analisti più avvertiti degli apparati investigativi e di intelligence dell’epoca (sia pure senza una precisa cognizione degli esponenti mafiosi più rappresentativi dello schieramento moderato), i Carabinieri del Ros avevano le carte in regole per esserne edotti prima e più di ogni altro apparato di polizia, poiché disponevano già all’epoca di informatori o di fonti confidenziali riconducibili, direttamente o indirettamente, all’area provenzaniana, o comunque in grado di dare indicazioni orientative dei diversi schieramenti che si fronteggiavano dietro l’apparente monolitismo corleonese e della composizione di massima di tali schieramenti: le fonti del M.llo Lombardo, il povero Francesco Brugnano e, naturalmente, su tutti proprio Vito Ciancimino.
Per tacere poi di quel Cancemi che irrompe sulla scena solo un anno dopo, il 22 luglio del ‘93, consegnandosi proprio ai Carabinieri, e che sarà gestito dal Ros per diversi anni prima di essere affidato al personale del servizio di protezione. Cancemi, infatti, dichiarò che una delle ragioni che l’avevano spinto a quel passo era la consapevolezza che Provenzano era pronto a farlo eliminare, poiché proprio quella mattina gli aveva dato un appuntamento e già qualche tempo prima Raffaele Ganci (che era stato arrestato a Terrasini il 10 giugno dello stesso anno) lo aveva messo in guardia a non recarsi a eventuali appuntamenti con Provenzano perché non ne sarebbe uscito vivo.
Nelle successive dichiarazioni questa giustificazione del suo gesto evapora. Ma un clamoroso riscontro alla fondatezza di quel timore è venuto proprio dalle dichiarazioni di Antonino Giuffré, il quale ha confermato che Cancemi doveva essere eliminato; e di ciò ha diretta contezza perché c’era pure lui insieme a Provenzano ad attendere Cancemi quella mattina, in una casa messa a disposizione da Benedetto Spera a Belmonte Mezzagno: «aspettavamo al Cancemi. che non è arrivato, perché invece di venire da Provenzano, se n è andato in caserma. Dopo di ciò non si è commentato niente, diciamo, ha avuto paura e si è andato a costituire».
Giuffré ha aggiunto che Cancemi doveva essere ucciso perché ritenuto un soggetto inaffidabile. Ma il motivo per cui fosse ritenuto tale, lo sapeva Provenzano e non ne parlarono. Può solo supporre che si fosse dato credito a voci che accusavano il Cancemi di essere uno sbirro, cioè un confidente (probabilmente qualcuno soleva anche dire discorsi a livello di sbirro).
La difesa (di Mori) ha però eccepito che proprio dalle rivelazioni di Cancemi, divenuto collaboratore di giustizia, sarebbero venute indicazioni secondo cui, dopo l’arresto di Riina, proprio il Provenzano aveva ribadito, al cospetto di altri uomini d’onore in una delle riunioni tenutesi per discutere il da farsi, che bisognava andare avanti secondo la linea dettata da Riina e che tutto procedeva per il meglio. Sicché non potrebbe essere essere stato Cancemi a informare i Carabinieri che Bernardo Provenzano fosse l’esponente di vertice cui faceva capo lo schieramento più moderato e meno incline a pRoseguire la strategia stragista.
Sennonché le parole che Cancemi attribuisce al Provenzano e l’esortazione a pRoseguire sulla strada tracciata da Riina richiamano in modo impressionante le espressioni usate da Giuffré per riassumere i commenti ufficiali all’arresto di Riina e le raccomandazioni sciorinate da Provenzano in quei frangenti: che contrastavano però con il suo reale orientamento ed erano dettate solo dalla convenienza a non esporsi e tentare di fare passare la sua vera linea attraverso una graduale opera di persuasione.
E lo stesso Cancemi, del resto, si lascia scappare un riferimento pregnante al ruolo di Provenzano quale esponente più autorevole e rappresentativi dell’ala “trattativista” nell’interrogatorio del 15 marzo 1994 (assunto sempre presso gli uffici del Ros e alla presenza del colonnello Ganzer e del maggiore Obinu): il primo atto processuale in cui parla della convinzione di Riina (e della sua cerchia più ristretta) che stragi e delitti eclatanti avrebbero indotto lo stato alla trattativa; mentre la gran parte degli affiliati era di diverso avviso e paventava che la reazione dello stato sarebbe stata molto dura e avrebbe potuto mettere in crisi l’assetto stesso di Cosa nostra.
Ivi, alla domanda se alla luce delle reazioni dello stato e del conseguente inasprimento del trattamento carcerario non fosse ormai chiaro che le aspettative di Riina e dei suoi sodali fossero andate deluse, ha risposta in termini interlocutori, dando risalto al fatto che Provenzano fosse ancora libero (vedremo Provenzano è ancora libero). E ciò che più colpisce nella risposta, è il riferimento all’essere Provenzano in libertà, in un momento in cui erano ancora liberi pure Brusca e Bagarella e Matteo Messina Denaro, ossia i più convinti fautori — insieme ai Graviano, che invece erano da quasi due mesi già consegnati alle patrie galere — della linea dura; e che in effetti erano riusciti ad emarginare in qualche modo o a mettere sotto tutela il Provenzano, perché di fatto erano stati loro a dettare la linea e a reggere le fila dell’organizzazione, per tutto il 1993. Ma Provenzano viene da Cancemi accreditato della capacità di portare avanti, nell’interesse di Cosa nostra, la linea di una trattativa con lo stato: opzione che Cancemi evidentemente ritiene, grazie a lui, ancora possibile.
Naturalmente, la decisione di Cancemi di andare a costituirsi alla caserma che era sede della sezione anticrimine di Palermo del Ros; e l’essere stato preso in custodia da personale del Ros (come confermato anche dal Col. Ganzer) in luogo del personale del servizio di protezione, e senza essere attinto da misure restrittive, oltre alle voci raccolte negli ambienti di Cosa nostra da Giuffré sull’inaffidabilità di Cancemi, non sono elementi che consentano di affermare con certezza che egli fosse un confidente degli stessi Carabinieri del Ros già molto tempo prima che decidesse di affidarsi alla loro “protezione”. Ma è l’ipotesi più probabile.
IL ROS GIÀ A CONOSCENZA DELLA SPACCATURA INTERNA DI COSA NOSTRA
Ma c’è un documento, con una data precisa, che attesta come i vertici del Ros, e quindi la catena di comando che nell’estate del ‘92, faceva capo quale comandante a Subranni e quale comandante operativo a Mori, passando per il maggiore Obinu quale comandante del reparto centrale Criminalità organizzata (fino al capitano De Caprio quale comandante della I sezione del reparto Co) fossero edotti o in condizione di essere edotti dell’esistenza di una spaccatura in seno a Cosa nostra del tipo di quella di cui s’è detto.
E tra le pieghe delle dichiarazioni rese da Giuseppe De Donno all’udienza dell’8.03.201 I nel processo Mori/Obinu se ne coglie una prudente ma esplicita conferma. Ed invero, alla domanda se, per quelle che erano le conoscenze investigative dell’epoca (estate del ‘92) si sapesse già dell’esistenza di una spaccatura all’interno di Cosa nostra, o di divergenze di visioni strategiche tra Riina e Provenzano, il capitano De Donno dà una risposta evasiva; ma, al contempo, lascia intendere che, sebbene addirittura si ipotizzasse da parte di qualcuno che Provenzano fosse morto — inferendolo dalla notizia che la moglie era tornata a vivere a Corleone, insieme a tutti i suoi figli — la possibilità di una spaccatura o di un contrasto tra i due boss corleonesi era effettivamente materia di confronto e discussione, in seno alla magistratura e agli apparati investigativi, almeno come ipotesi, pur mancando ancora una reale cognizione dei fatti.
E si riteneva di poter rinvenire il motivo ditale contrasto nella propensione di Provenzano a privilegiare gli affari, contrapposta alla linea dura di Riina, che propugnava una strategia di contrapposizione frontale allo stato.
Indi, il De Donno è stato compulsato su quanto a sua conoscenza in ordine ad un documento redatto su carta intestata al Ros, datato 30 maggio 1992— ossia proprio l’epoca in cui viene concepita e avviata l’operazione Ciancimino — e proveniente dall’archivio centrale del Ros, che riporta notizie trasmesse da una fonte ritenuta affidabile circa l’esistenza di una profonda spaccatura che sarebbe stata in atto all’interno di Cosa nostra.
Nel documento predetto si leggeva infatti che la fonte aveva riferito di una profonda spaccatura al vertice di Corleone tra Riina e Provenzano; e la stessa fonte, pRosegue il documento, “ha ribadito l‘esistenza di una profonda spaccatura che provoca con lentezza, ma inesorabilmente, dei decisivi mutamenti nelle alleanze, con conseguenti ripercussioni sull‘intera stabilità della struttura mafiosa isolana”.
De Donno ha negato di essere a conoscenza di quell’appunto, ma non dubita della sua “genuinità”, e della sua provenienza dall’archivio del Ros. Sostiene però che si tratta dell’elaborazione a cura del reparto centrale di notizie provenienti dai terminali periferici della rete informativa dello stesso Raggruppamento; e quindi, sarebbe del tutto plausibile che egli non ne sia mai venuto a conoscenza […]. Ora è chiaro che ciò che importa non è se De Donno avesse mai letto quell’appunto; ma che fosse edotto delle informazioni in esso contenute.
E riesce davvero difficile credere che non ne sapesse nulla, visto che quelle informazioni attenevano specificamente ad un ambito di indagine in cui all’epoca lo stesso De Donno si apprestava a proiettarsi con l’operazione Ciancimino. E tuttavia, De Donno nega di essere stato a conoscenza di una fonte che già all’epoca in cui intraprese i contatti con Ciancimino aveva confermato l’esistenza di una profonda spaccatura tra Riina e Provenzano.
Anche per questo documento, che rinvia in definitiva a informazioni di fonte confidenziale, vale la considerazione già svolta per alti documenti che riportano notizie di fonti confidenziali: la sua utilizzabilità è circoscritta al fine di provare che al vertice del Ros già all’epoca fosse oggetto di valutazione, o addirittura ritenuta degna di fede, anche sulla base di informazioni raccolte dalle varie fonti che componevano la variegata rete informativa, l’ipotesi dell’esistenza di una profonda divisione di vedute odi contrasti all’interno di Cosa nostra e persino al vertice dello schieramento mafioso.
LE DUE “FAZIONI” DELLA MAFIA E LA CATTURA DI RIINA
Quanto all’effettiva esistenza di quella divisione già nell’estate-autunno del ‘92, vero è che i collaboratori di giustizia che hanno riferito circa il delinearsi di due opposti schieramenti (anzi, tre, stando a Giovanni Brusca che annovera proprio Cancemi insieme a Michelangelo La Barbera e a Raffaele Ganci tra gli indecisi o coloro che avevano assunto una posizione intermedia e di attesa), uno fautore della prosecuzione della strategia stragista (facente capo a Brusca, Bagarella, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro) e l’altro più moderato e propenso a desistere da una contrapposizione frontale allo stato (facente capo a Bernardo Provenzano, ma che annoverava anche Aglieri, Carlo Greco, Benedetto Santapaola, e altri, oltre allo stesso Giuffré), hanno concordemente datato l’emersione di questo contrasto alle settimane e i mesi immediatamente successivi alla cattura di Riina.
Ma è chiaro che profonde divergenze di vedute strategiche, e una divisione in schieramenti nettamente contrapposti non poteva germinare in un’organizzazione complessa come Cosa nostra da un giorno all’altro e solo per effetto della fibrillazione causata dall‘arresto del capo dell’organizzazione.
La verità è che la cattura di Riina ha avuto l’effetto di portare alla luce contrasti e divisioni che esistevano già da tempo, ma erano latenti perché, imperando Riina, nessuno di coloro che si riconoscevano nell’indirizzo che per comodità di esposizione si può definire “moderato”, avrebbero avuto l’ardire di uscire allo scoperto e manifestare il proprio dissenso al cospetto di altri uomini d’onore: a meno che non si trattasse di sodali dei quali non fossero assolutamente certi di potersi fidare in quanto partecipi dello stesso orientamento.
È del resto quanto Giuffré riferisce a proposito delle due versioni di cui Provenzano si faceva latore nei commenti sulla cattura di Riina: quella “ufficiale”, in occasione di riunioni con i capi o i reggenti di vari mandamenti; e le convinzioni e i progetti di cui in privato metteva a parte gli uomini d’onore a lui più vicini.
Ma, tranne Giuffré, che però era detenuto nella seconda metà del ‘92 e solo dopo essere stato scarcerato nel gennaio del ‘93 ha potuto incontrare Provenzano, trovandolo trasformato come se fosse un’altra persona per quanto sembrava cambiata la sua visione strategica, tutti gli altri collaboratori di giustizia che hanno riferito della contrapposizione tra i diversi schieramenti delineatasi all’indomani della cattura di Riina provenivano dalle fila della c.d. ala dura; e quindi poco ed anzi nulla sapevano dei dissensi che stavano fermentando tra gli affiliati della componente moderata.
Peraltro, lo stesso Giuffré ha dichiarato che i rapporti tra i due capi corleonesi si erano incrinati già a partire dalla fine degli anni ‘80. E già nel processo Mori/De Caprio, sentito al dibattimento, aveva fornito indicazioni pregnanti sul punto, datando al 1987 il solco via via approfonditosi tra Riina e Provenzano, e il graduale formarsi negli anni di due schieramenti contrapposti e facenti rispettivamente loro capo. E sempre in quel processo, dichiarazioni di analogo tenore in ordine al solco scavatosi tra Riina e Provenzano aveva reso Giovanni Brusca, a proposito dei sospetti circolati sul possibile contributo di Brugnano allo sviluppo dell’indagine poi sfociata nell’arresto di Riina.
L’azione del Ros: disinnescare la minaccia mafiosa
Le risultanze scrutinate consentono nel loro insieme di ritenere provato, o, quanto meno, appurato in termini di elevatissima probabilità, che l’iniziativa intrapresa dai Carabinieri del Ros attraverso in contatti intrapresi con Vito Ciancimino nell’estate del ‘92 si dislocò lungo una traiettoria di sviluppo divergente e addirittura incompatibile con l’ipotesi accusatoria.
Sebbene fosse molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo “politico” con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il Governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nove stragi ed arrestare l’escalation mafiosa.
Al contrario, l’obbiettivo era quello di disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta ulteriormente divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, pur non avendone la certezza, per volgerla a favore di una disarticolazione e di una neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti. E ciò attraverso una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma conclusa per facta concludentia e solo in ragione di una obbiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa nostra.
A questo punto, l’indagine sull’elemento soggettivo del reato per cui qui si procede, almeno per quanto concerne la posizione dei tre ufficiali del Ros odierni appellanti, potrebbe anche fermarsi qui. E non avrebbe importanza, ai fini del presente giudizio, accertare cosa ne sia stato della proposta finale di Mori e De Donno a Ciancimino (l’unica che ne rispecchiava le reali intenzioni), e la collaborazione che ne segui. Né avrebbe importanza, quindi, stabilire se l’ex sindaco di Palermo veicolò in qualche modo la proposta al suo destinatario (identificabile in Bernardo Provenzano); e se Ciancimino abbia poi dato un effettivo contributo alla cattura di Riina, e se Provenzano — al di là dei dubbi che rodono Riina e delle certezze rassegnate da Giuffré – vi abbia a sua volta avuto un ruolo.
Tutti interrogativi che si legano a quelli relativi alla mancata perquisizione del covo di Riina e alla condotta favoreggiatrice di Provenzano da parte dei Carabinieri del Ros al comando del generale Mori — che sotto l’aspetto oggettivo e fattuale è stata accertata — a cui almeno due processi definiti con sentenze passate in cosa giudicata hanno dato risposte parziali o interlocutorie o, comunque, tali da non dissipare dubbi, perplessità suscitate dalle tante incongruenze e dagli aspetti di opacità che sono stati riscontrati nell’operato dei Carabinieri.
Se non fosse che proprio gli sviluppi successivi della vicenda, oltre ad impegnare una parte cospicua dell’istruzione dibattimentale di primo grado, hanno formato oggetto di valutazioni di segno opposto, traendone in particolare il giudice di prime cure elementi ed argomenti a supporto della ricostruzione fattuale su cui la sentenza appellata fonda la pronunzia di condanna dei tre ufficiali del Ros. ed avendo il P.g., in questo secondo grado del giudizio investito una parte considerevole dello sforzo di approfondimento mirato a corroborare sul piano probatorio tale esito nel ritornare, alla luce di nuove emergenze processuali e con specifiche richieste istruttorie e sollecitazioni ai poteri officio di questa Corte, sul tema, in particolare del disegno sotteso ad una condotta favoreggiatrice della latitanza di Bernardo Provenzano che i carabinieri del Ros. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La mancata perquisizione del covo di Riina, un segnale per qualcun altro? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 dicembre 2022
La mancata perquisizione del covo di Riina — evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti — si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Per quanto concerne la mancata perquisizione del covo di Riina — evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti, e di latitanti mafiosi, per i quali la perquisizione immediata dei luoghi in cui vivono è fondamentale non fosse altro per rinvenirvi elementi utili a individuare la rete di favoreggiatori — si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene.
Così come non riuscirono a darsene una spiegazione plausibile gli stessi mafiosi, come confermato dalle testimonianze di Giovanni Brusca, Antonino Giuffré e Tullio Cannella raccolte nel giudizio di primo grado ( e per le quali si Riinanda alle pagg. 1981-1997 della sentenza appellata) e che si aggiungono a quelle raccolte sul medesimo tema nel processo definito a carico di Mario Mori e del capitano De Caprio e in quello a carico dello stesso Mori e del Magg. Obinu. E le relative sentenze di merito hanno puntualmente evidenziato le tante anomalie e incongruenze dell’operato dei Carabinieri in quel frangente, che sono state richiamate dalla sentenza qui appellata al Cap. 13 della p. III.
Quell’evento è, come ha rammentato nel corso della sua deposizione il dott. Pignatone, e Riinane, per tutti i magistrati della procura di Palermo che ne conservano memoria, una ferita aperta: che talvolta può sanguinare di più, talvolta di meno, ma non si è mai Riinarginata. Né potrebbe essere altrimenti perché resta insanabile il contrasto tra la versione di De Caprio e quella dei magistrati che furono protagonisti della vicenda (cfr. Caselli e Aliquò) e parteciparono alla riunione in cui, su pressante richiesta dell’allora capitano De Caprio, e sull’onda dell’ammirazione e della fiducia per la brillante operazione di cui era stato artefice con i suoi uomini, si convenne sull’opportunità di soprassedere all’immediata perquisizione del residence, ma solo alla condizione (che fu esplicitata e non semplicemente sottintesa) che sarebbe proseguito il servizio di sorveglianza all’esterno del residence.
Secondo la versione dell’Ufficiale, vi sarebbe stato un malinteso sul punto, perché la sua idea era di lasciare che l’obbiettivo si raffreddasse, per non pregiudicare lo sviluppo delle indagini sui favoreggiatori di Riina e in particolare sui fratelli Sansone.
Ma deve replicarsi che proprio per questa ragione era stato trovato un compromesso con i magistrati, con l’impegno a proseguire il servizio di sorveglianza (tuttavia risiederebbe qui l’origine del malinteso: perché l’obbiettivo da sorvegliare, per De Caprio, erano i Sansone e la relativa attività di controllo e osservazione sui Sansone era cosa ben diversa e più ampia del servizio di osservazione visiva sul complesso di via Bernini).
Inoltre, quella linea giustificativa è contraddetta dalla spiegazione offerta della decisione di rimuovere il servizio, e cioè l’essersi reso conto che l’ulteriore permanenza del furgone avrebbe dato nell’occhio ed esposto inutilmente il personale operante, o non avrebbe sortito risultati utili per essere la visuale limitata al solo cancello d’ingresso. Ciò comproverebbe comunque che il capitano De Caprio era perfettamente consapevole che i magistrati avevano accettato di differire la perquisizione sul presupposto che il servizio di sorveglianza proseguisse (anche se è discutibile che quella fosse una condizione sufficiente ad evitare che il covo venisse ripulito, come poi è avvenuto; e il protrarsi del servizio di osservazione poteva al più, ma non era poco, consentire di individuare i soggetti che accedessero al residence, eventualmente sottoponendo in visione le immagini registrate al neo pentito Di Maggio).
In ogni caso, lo “spazio di autonomia decisionale” che, secondo quanto sostenuto da Mori a discolpa, avrebbe indotto il capitano De Caprio a rimuovere il servizio senza dame contestuale avviso agli stessi magistrati, costituisce una spiegazione assolutamente inadeguata, anche nella valutazione espressa al riguardo dai giudici d’appello del processo a carico dello stesso Mori e del Magg. Obinu, che pure ne confermarono la pronunzia di assoluzione dall’imputazione per il favoreggiamento aggravato contestato in relazione a condotte poste in essere nel successivo biennio (95/96) nei riguardi di Bernardo Provenzano.
UNA SCELTA INCOMPRENSIBILE
A rendere ancor meno comprensibili le scelte operative e le omissioni del personale del Ros operante al comando del capitano De Caprio e sotto la supervisione del colonnello Mori, sono gli avvenimenti occorsi il 16 gennaio 1993, appena un giorno dopo l’arresto di Riina.
Quel giorno, filtra alla stampa l’indiscrezione che il covo in cui Riina aveva trascorso la latitanza prima dell’arresto era stato individuato in via Bernini. I giornalisti Alessandra Ziniti e Attilio Bolzoni hanno confermato di avere raccolto la notizia dal Magg. Roberto Ripollino, che tuttavia non aveva indicato il numero civico. Sta di fatto che diverse troupe televisive e giornalisti si precipitano in via Bernini e la stessa sera, in un servizio filmato mandato in onda su una Tv locale, vengono trasmesse anche le immagini del residence al civico 52/54 di via Bernini.
Il capitano De Caprio ha confermato di essere rimasto sconcertato alla vista di quelle immagini che vanificavano il tentativo di mantenere il riserbo sul fatto che il covo di Riina fosse stato individuato esattamente in quel residence (compreso il diversivo di eseguire l’arresto per la strada e a distanza di diverse centinaia di metri dall’abitazione predetta, corroborato dalle dichiarazioni del generale Cancellieri nella conferenza stampa del 15 gennaio). E commentò il fatto con il collega, M.llo Santo Caldareri, dicendogli che il sito era “bruciato”, come confermato dallo stesso Caldareri.
Ma se era bruciato il sito, lo era anche la pista dei Sansone, e quindi non vi sarebbe stata più alcuna ragione valida per differire oltre la perquisizione. E non si comprende come il capitano De Caprio potesse sperare che l’obbiettivo non fosse ormai definitivamente “bruciato”, ma potesse “raffreddarsi” in modo da consentire che il servizio di osservazione diretta venisse ripreso in un’imprecisata data successiva.
Lo stesso 16 gennaio dal Commissariato di Corleone giunge la notizia che la moglie di Riina era tornata in paese con i suoi figli. (Notizia che allarmò i magistrati della procura di Palermo, che si chiesero come quel movimento eclatante fosse sfuggito alla sorveglianza che si riteneva ancora in atto nei pressi di quella che era stata l’abitazione dei Riina: ma nessuno chiese spiegazioni agli ufficiali del Ros). Ma soprattutto, un comunicato ANSA rendeva noto che un siciliano di nome Baldassarre, dal Piemonte, dove si era trasferito da qualche tempo, aveva fornito agli inquirenti input preziosi per l’individuazione del Riina.
A questo punto i mafiosi, a cominciare proprio dai fratelli Sansone, disponevano di tutti gli elementi sufficienti per ricostruire i collegamenti che potevano avere condotto gli inquirenti ad individuare il capo di Cosa nostra. E infatti, paventando una trappola, decisero (cfr. Brusca e La Barbera) di affidare a Pino Sansone, che aveva pieno titolo a recarsi in quel residence, il compito di provvedere a “ripulire” il covo.
Non si comprende però come il capitano De Caprio e i suoi superiori (ossia, valenti investigatori a capo di un reparto d’elite e non reclute alle prime armi) potessero credere che la pista Sansone fosse ancora tanto utile da seguire, che valesse la pena rinunciare alla possibilità di rinvenire, attraverso un’accurata perquisizione, tracce utili allo sviluppo delle indagini e all’individuazione di favoreggiatori o soci in affari del Riina o a ricostruire la rete di rapporti economici o di attività estorsive controllate dal capo dell’organizzazione mafiosa.
E tutto ciò senza sentire il dovere di condividere una così sciagurata scelta investigativa con la procura competente, che, se informata, non avrebbe esitato un minuto di più (cfr. Giancarlo Caselli: « Era scontato, il procuratore della Repubblica non sospende la perquisizione se non c’è una vigilanza sull’obiettivo, altrimenti il procuratore della Repubblica dovrebbe cambiare mestiere») a ordinare l’immediata perquisizione (che, per la verità, fu effettuata soltanto il 2 febbraio, ossia due giorni dopo la riunione dei 30 gennaio ‘93 nel corso della quale finalmente i magistrati della procura di Palermo furono informati ufficialmente che il servizio di osservazione nei pressi dell’abitazione di via Bernini era stato dismesso già nel pomeriggio di giorno 15 gennaio; e dopo che, in data 1° febbraio, un comunicato Ansa aveva reso noto che il covo di Riina era stato individuato in quel residence di via Bernini).
Peraltro, l’attenzione che il Ros avrebbe tributato a Sansone come obbiettivo prioritario delle indagini successive alla cattura di Riina si sarebbe concretizzata in alcuni accertamenti societari e patrimoniali (ossia in ricerche d’archivio su cui fu redatta una relazione in data 26.01.1993). E, in compenso, con decreto del 20.01.1993 si pose fine — per ragioni a tutt’oggi imperscrutabili – a tutte le attività di intercettazione telefonica che erano state disposte sulle utenze riconducibili ai fratelli Sansone, inclusa ovviamente quella di via Bernini: vera ciliegina su una torta infarcita di dubbi e perplessità sull’operato dei carabinieri.
UNA CONDOTTA CHE LASCIA APERTA PARECCHI DUBBI
Detto questo non può che convenirsi con il giudice di prime cure di questo processo quando, richiamando i passaggi più significativi delle sentenze che hanno approfondito la vicenda, afferma non esservi alcun dubbio che «la condotta posta in essere dai carabinieri allora guidati dall’odierno imputato Mori in occasione dell’arresto di Salvatore Riina desti nell’osservatore esterno profonde perplessità mai chiarite».
E il fatto che la stessa sentenza che ha assolto il generale Mori e il capitano De Caprio dall’imputazione di favoreggiamento aggravato, per carenza dell’elemento soggettivo del reato, abbia tuttavia confermato la materiale sussistenza della condotta contestata, «evidenzia la grave anomalia che in quella occasione ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati».
I giudici del processo Mori/De Caprio, però, dopo avere scartato quasi a priori l’ipotesi di un’inesistente collusione dei due imputati con le consorterie mafiose, pervengono alla conclusione di dovere escludere il dolo di favoreggiamento, essendo la prospettazione accusatoria smentita e contraddetta da elementi di ordine fattuale e logico. Tale prospettazione rimandava alla trattativa intrapresa da Mori con Ciancimino, e sul presupposto che tale iniziativa fosse diretta ad intavolare un vero e proprio negoziato con l’organizzazione criminale (e non fosse invece un escamotage per carpire informazioni utili alle indagini mirate alla cattura di Riina e di altri latitanti mafiosi addivenire, con il pretesto di volere aprire per conto dello Stato un canale di comunicazione con l’associazione per arrivare ad un cessate il fuoco, in cambio di importanti concessioni): un negoziato che contemplasse, per porre fine alle stragi, la garanzia per Cosa nostra di poter tornare impunemente alla pratica dei propri affari, inclusa l’assicurazione della latitanza di alcuni esponenti di spicco, nonché qualificati oppositori del Riina, come il Provenzano e la garanzia che la documentazione in possesso del boss corleonese, che in ipotesi poteva contenere anche informazioni compromettenti sulla trattativa, o sulle contiguità di esponenti politici a Cosa nostra, non sarebbe stata reperita dalle forze dell’ordine, permettendo invece a taluni esponenti mafiosi di entrarne in possesso anche in vista di un potenziale uso ricattatorio o per garantirsi la propria impunità.
E in tale ottica la mancata perquisizione sarebbe stato un atto di esecuzione dell’accordo raggiunto; e la consegna di Riina, fautore dell’avversata linea stragista, «il prezzo da pagare volentieri per coloro che, nella mafia, intendessero sbarazzarsi del boss per assumere il comando dell’organizzazione, ed al tempo stesso privilegiassero un’opposizione di basso profilo, più produttiva dal punto di vista della salvaguardia degli interessi economici del sodalizio e della sua stabilità».
Di contro, osservano i giudici di quel processo, che, sulla base delle prove raccolte nel corso dell’istruzione dibattimentale, poteva dirsi accertato che il Riina non era stato consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una fortunata combinazione di elementi tra loro concatenati (a partire dall’input del Di Maggio su Pino Sansone quale favoreggiatore della latitanza di Riina e dal sopralluogo effettuato personalmente con il pentito presso gli uffici dei fratelli Sansone in via Bernini, anche se ad un civico diverso e distante qualche centinaio di metri dal residence in cui abitava Riina), e sviluppati grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio.
Inoltre dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano riferito sulle modalità e circostanze in cui si pervenne a svuotare ripulire e ristrutturare la casa in cui aveva abitato Riina si evincevano elementi che inducevano ad escludere una connivenza degli imputati, perché la scelta di incaricare i Sansone di procedere all’eliminazione di ogni traccia relativa al Riina e alla famiglia dimostrerebbe che la mafia ignorava del tutto che invece proprio loro fossero stati individuati e grazie a questo si fosse pervenuti ad osservare via Bernini ed all’arresto del Riina (pag. 114).
Argomento, per la verità, di dubbia conducenza, perché non è detto i soggetti che organizzarono la ripulitura fossero gli stessi che, in ipotesi, avevano ordito la consegna di Riina, ed anzi è certo che essi appartenevano alla cerchia di capi e gregari più vicini al capo dello schieramento corleonese.
Sempre a parere dei giudici di quel processo, anche il sospiro di sollievo che Giuffré attribuisce a Provenzano a commento dell’esito negativo della perquisizione che era stata poi effettuata il 2 febbraio attesterebbe che io stesso Provenzano non si aspettava un simile esito e dunque non aveva partecipato ad alcuna trattativa mirata alla consegna di Riina (Un argomento, anche questo, che
prova troppo, perché il sospiro di sollievo poteva essere giustificato semplicemente dalla constatazione che l’operazione di ripulitura era andata a buon fine, oltre che dall’intento di allontanare da sé qualsiasi sospetto di avere avuto un ruolo nella cattura del capo di Cosa nostra).
Verrebbe meno dunque una indefettibile premessa fattuale dell’ipotizzato accordo, perché gli elementi raccolti escluderebbero che Riina sia stato catturato grazie ad una soffiata dei sodali che erano a conoscenza del luogo in cui abitava, ovvero questa resta solo una suggestiva supposizione.
LE STRAGI IN “CONTINENTE”
Ma soprattutto contro l’ipotesi accusatoria militerebbe la circostanza conclamata che dopo la cattura di Riina non si verificò affatto la fine della stagione stragista che avrebbe dovuto costituire oggetto e scopo del presunto accordo; ed anzi quella stagione riprese con rinnovata virulenza a partire dal maggio ‘93 con gli attentati di via Fauro e poi di via dei Georgofihi a Firenze ed ancora gli altri attentati in via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma, fino al mancato attentato allo stadio Olimpico.
Come si legge nella citata sentenza, «Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di “pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a “cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato».
A parere di questa Corte emerge qui la fallacia del ragionamento che conduce ad escludere in radice l’ipotesi di un accordo o di un tentativo di accordo come causale della condotta favoreggiatrice in contestazione in quel processo. Ed invero, l’identificazione della causale della condotta favoreggiatrice sostanziatasi nella mancata perquisizione del covo di Riina in un patto di non belligeranza che contemplasse la consegna di Riina come prezzo dell’immunità e di una facilitazione del ritorno di Cosa nostra alla pratica dei propri affari illeciti, con la contestuale dismissione della strategia stragista, evidentemente non poteva concepirsi e intendersi né attuarsi come un accordo tra lo Stato, o pezzi rappresentativi degli apparati statuali e l’organizzazione mafiosa nel suo complesso, bensì come patto, o meglio ancora come ipotesi e proposta di accordo, con una parte dell’organizzazione mafiosa: e precisamente, con quella componente che soffriva la leadership di Riina e non ne condivideva la strategia di attacco frontale alle Istituzioni e di guerra aperta allo Stato.
Conseguentemente, il fatto che la strategia stragista fosse ripresa, alcuni mesi dopo l’arresto di Riina, a partire dal maggio ‘93 con più virulenza di prima non contraddice affatto quella ipotesi ricostruttiva, dal momento che la ripresa della strategia stragista, come è ormai processualmente acquisito perché accertato in più d’un processo definito con sentenza irrevocabile (a cominciare dai processi fiorentini sulle stragi in continente) fu deliberata solo all’esito di un lacerante contrasto conclusosi con il prevalere dell’opzione stragista contro quella patrocinata dallo schieramento più moderato.
I giudici del processo Mori/De Caprio, ritenuto che l’ipotesi di una trattativa Stato-mafia uscisse smentita dalle risultanze processuali, ne traggono l’ulteriore conclusione che l’iniziativa di Mori dovesse essere finalizzata a simulare l’interesse ad aprire un negoziato al solo fine di carpire informazioni utili a leggere le dinamiche di Cosa nostra e magari individuare i latitanti: salvo inciampare a loro volta in un’evidente forzatura sul piano logico-fattuale nel momento in cui pretendono di leggere una conferma di tale interpretazione (invece che un elemento stridente) nell’apparente incongruenza del comportamento di Mori e De Donno che si recarono dal Ciancimino a trattare, chiedendo il massimo, e cioè la resa dei capi, senza avere nulla da offrire: un comportamento che a parere dei giudici sarebbe viziato da un’evidente e illogica contraddizione se ci si ponesse nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata.
In realtà, anche nell’ottica di una trattativa simulata, come già più volte rilevato, e come stigmatizzato anche dai giudici fiorentini, il brusco cambio di spartito della interlocuzione con Ciancimino resta difficilmente spiegabile e costituisce anzi uno dei principali fattori di sospetto sulle reali finalità dell’operazione.
In ogni caso, gli stessi giudici non possono esimersi dal formulare pesanti apprezzamenti sulla spregiudicata iniziativa posta in essere da Mori, che, «nell’intento di scompaginare le fila di “cosa nostra” ed acquisire utili informazioni, sortì invece due effetti diversi ed opposti: da una parte, la collaborazione del Ciancimino che chiese di poter visionare le mappe della zona Uditore ove si sarebbe trovato il Riina, verosimilmente nell’intento di prendere tempo e fornire qualche indicazione in cambio di un alleggerimento della propria posizione giudiziaria; dall’altra, la “devastante consapevolezza, in capo all’associazione criminale, che le stragi effettivamente “pagassero” e lo stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti».
LA CATTURA DI RIINA
Anzitutto, nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa; e che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirato ad una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia.
In realtà, la lettura offerta dalla sentenza non fa i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino, Mori e i suoi uomini si preparavano e si attrezzavano (come detto sopra) per dare corso ad un’indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e catturare il capo di Cosa nostra.
E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma, stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto ad un certo punto una Brusca interruzione e comunque una drastica svolta. Né si preoccupa, la sentenza di spiegare come quell’impegno investigativo si conciliasse con una sollecitazione al dialogo che Ciancimino avrebbe dovuto veicolare fino ai vertici mafiosi, intendendo per tali, indistintamente, gli esponenti mafiosi che in quel frangente storico comandavano su tutta l’organizzazione ed erano in grado di deciderne la linea: a cominciare ovviamente da Salvatore Riina e dai suoi più fedeli luogotenenti.
Ed invero, se la sollecitazione al dialogo fosse stata rivolta a Riina per essere da questi (r)accolta e condivisa con gli altri capi dell’organizzazione mafiosa o con quelli a lui più vicini, gli sviluppi successivi della trattativa così intrapresa con lo stesso Riina, sfociati di fatto in un brusco arresto della prima e nell’arresto del secondo, avrebbero inferto un colpo mortale alla fiducia della controparte mafiosa di questa presunta trattativa e alla stessa credibilità di quella proposta iniziale di parlarsi per trovare un’intesa: altro che mantenere o riprendere il filo di un possibile e auspicato dialogo. Su queste premesse, ben difficilmente il contentino della mancata perquisizione avrebbe potuto sanare questa perdita di fiducia.
Diverso è il discorso se s’intende la sollecitazione al dialogo come rivolta, nelle vere intenzioni di Mori e De Donno (e Subranni) - che saranno disvelate a Ciancimino all’atto dello showdown – non già al Riina, ma ai suoi potenziali competitor od oppositori: ovvero, a quella componente moderata che si riteneva radicata in Cosa nostra, anche se fino a quel momento soccombente, e disponibile a ripristinare un rapporto di non belligeranza con lo stato.
Allora sì che la mancata perquisizione poteva essere un segnale rassicurante e confermativo della serietà della proposta di intesa, lanciato a chi poteva coglierne il significato, e cioè a quella componente moderata che si era tentato di raggiungere attraverso Vito Ciancimino. Né vi sarebbe contraddizione, anzi, con il parallelo impegno investigativo per giungere alla cattura di Riina.
UN MESSAGGIO PER QUALCUNO?
L’interrogativo cui dare risposta, allora, più che quello concernente un effettivo contributo di Ciancimino, e sullo sfondo di Provenzano, alla cattura di Riina sarebbe, per ciò che può interessare ai fini del presente giudizio, quello che verte sull’essere lo stesso Ciancimino riuscito a far avere il messaggio — ossia la sollecitazione a trovare un’intesa che passava però per la neutralizzazione della linea stragista e quindi aveva pur sempre come tappa necessaria la cattura di Riina e conseguente decapitazione dell’ala dura di Cosa nostra – al suo vero destinatario, che non era, ovviamente, Riina ma il suo principale competitor, Bernardo Provenzano.
Che l’ex sindaco di Palermo abbia fornito un contributo concreto all’individuazione del covo di Riina, sia Mori che De Donno (quest’ultimo peraltro non partecipò alle attività investigative intraprese a seguito della collaborazione intrapresa dal Di Maggio con le dichiarazioni rese il 9 gennaio ‘93; ma gesti personalmente e a quattrocchi i contatti con il Ciancimino dopo che questi aveva maturato la decisione di passare il Rubicone e cooperare alla cattura di Riina) lo escludono.
Anche se Mori deve ammettere che, ove non fosse intervenuto il suo arresto, Ciancimino avrebbe saputo fornire un contributo apprezzabile perché il residence di via Bernini ricadeva in effetti nel quadrilatero da lui descritto. E ciò fa ritenere plausibile che avrebbe potuto ulteriormente circoscrivere la zona da setacciare se gli fosse stata consegnata l’ulteriore documentazione di cui aveva fatto richiesta (v. infra).
E lo stesso Ciancimino sembra, in alcuni suoi manoscritti, riconoscere di non avere avuto tempo e modo di fornire quel contributo significativo che si riprometteva di dare quando lamenta che, se la sua collaborazione con i carabinieri non aveva dato i frutti sperati, la colpa era di chi l’aveva interrotta con un arresto del tutto pretestuoso. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Ombre sul misteriosissimo arresto di Balduccio Di Maggio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 dicembre 2022
Certo è che la testa di Riina venne servita (quasi) su un piatto d’argento. Ed era proprio questo uno dei principali risultati cui era diretta l’operazione Ciancimino, secondo la narrazione di Mori e De Donno. Ci si riferisce alle provvidenziali soffiate che avevano indotto già mesi prima i carabinieri a mettersi alle calcagna dei Ganci; e a porsi alla ricerca di Baldassare Di Maggio, pur essendo questi pressoché sconosciuto agli inquirenti e incensurato
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Certo è che la testa di Riina venne servita (quasi) su un piatto d’argento. Ed era proprio questo uno dei principali risultati cui era diretta l’operazione Ciancimino, secondo la narrazione di Mori e De Donno. E non ci si riferisce tanto alla fase finale, e cioè all’operazione scattata a seguito degli input forniti dal pentito Di Maggio e tradottasi in una serie di azioni condotte da personale dei gruppi I e 2 del N.o. dei Carabinieri, della sezione Anticrimine e della I sezione del I reparto investigativo del Ros di Roma; quanto alle provvidenziali soffiate che avevano indotto già mesi prima i carabinieri, da un lato, a mettersi alle calcagna dei Ganci; dall’altro, e nel medesimo torno di tempo, a porsi alla ricerca di Baldassare Di Maggio, con congruo impiego di risorse, pur essendo questi pressoché sconosciuto agli inquirenti e incensurato, o comunque non attinto da alcuna misura restrittiva.
Tuttavia, una fonte confidenziale evidentemente molto ben informata lo additava come esponente di rilievo del mandamento mafioso di S. Giuseppe Jato, già autista di Salvatore Riina e costretto a riparare nel nord Italia causa di contrasti con Giovanni Brusca che gli avevano fatto temere di poter essere ucciso (circostanze confermate come sappiamo dallo stesso Brusca).
LA VERSIONE DI BALSAMO
Secondo la versione ufficiale resa dai carabinieri (e in particolare dal tenente colonnello Balsamo) al processo Mori/De Caprio, l’interesse investigativo a rintracciare il Di Maggio scaturiva dalla convinzione che questi avrebbe potuto rappresentare una preziosa occasione per futuri spunti investigativi, anche e soprattutto nella direzione della cattura dello stesso Brusca. Si ipotecava quindi, ma non si capisce sulla base di quali ulteriori indicazioni, una disponibilità del Di Maggio a collaborare, se fosse stato rintracciato.
E sempre una preziosa soffiata avrebbe consentito di individuare in Borgomanero, piccolo borgo in provincia di Novara, il luogo in cui il Di Maggio si era rifugiato, approfittando dell’ospitalità di un suo compaesano e conoscente, Natale Mangano, che era titolare di un’officina meccanica. Ed era tale l’interesse a monitorare il Di Maggio che le utenze telefoniche del Mangano furono sottoposte ad intercettazione.
Finché venne captata, l’8 gennaio, una telefonata nella quale sembrava farsi riferimento ad un’attività di narcotraffico che avrebbe indotto i carabinieri — non si capisce con quale coerenza rispetto alle finalità dell’indagine — a irrompere nell’officina del Mangano, dove non si trovò alcuna traccia del supposto narcotraffico, ma in compenso venne trovato proprio il “ricercato” Di Maggio, e arrestato perché trovato in possesso di un’arma clandestina.
E Di Maggio, appena condotto in caserma, manifestò una grande agitazione, riferendo che temeva per la sua vita ed era disposto a fornire informazioni preziose per le indagini in Sicilia e soprattutto in merito a Salvatore Riina.
I carabinieri di Novara ne informarono i colleghi del gruppo 2 del N.o. di Palermo e la stessa sera l’allora Magg. Balsamo, unitamente al M.llo Merenda giunsero presso la caserma in cui il Di Maggio era trattenuto, scoprendo che aveva già iniziato a dialogare con il generale Delfino.
Di Maggio, infatti, aveva chiesto di poter parlare con il più alto ufficiale in grado, ottenendo di avere un primo colloquio con il generale Delfino, che non ne avrebbe avuto alcuna competenza nella sua qualità di comandante delle regioni Piemonte e Valle d’Aosta, ma che, secondo quanto dallo stesso dichiarato, stava conducendo da mesi una sorta di indagine parallela sullo stesso Di Maggio.
Infatti, all’atto del suo insediamento come comandante dell’Arma per le regioni Piemonte e Valle d’Aosta (6 settembre 1992) era stato informato dal comandante provinciale di Novara che già dal mese di giugno — a suo dire — erano in corso indagini, sollecitate dai carabinieri di Monreale, per rintracciare tale Di Maggio, indicato da fonte confidenziale come soggetto in grado di fornire notizie utili su Giovanni Brusca che ne aveva ordinato, probabilmente, l’eliminazione.
E qui si sarebbe accesa una lampadina nella testa del Delfino, che si sarebbe ricordato di avere diretto tre anni prima, quale vice comandante della Legione di Palermo, un’operazione in contrada Ginostra, territorio di San Giuseppe Jato, mirata a localizzare e perquisire una lussuosa villa che fonte confidenziale aveva indicato come nella disponibilità di Baldassare Di Maggio, già autista di Riina che forse era ospitato in quella villa.
La perquisizione aveva avuto esito negativo, né si erano rinvenuti riscontri alle informazioni confidenziali. Ma il dato era stato memorizzato dal Delfino, che ritenne di poter collegare la presenza del Di Maggio in Piemonte all’essersi ivi rifugiato lo stesso Riina (un clamoroso quanto provvidenziale errore di valutazione perché è processualmente accertato che Di Maggio era fuggito a Borgomanero grazie ad una soffiata di Maniscalco Giuseppe — che si saprà in seguito essere una fonte confidenziale del Ros — il quale lo aveva avvisato che proprio Riina ne aveva decretato la soppressione45).
Perciò aveva deciso di attivare in tutta segretezza un gruppo di investigatori con il compito di ricercare eventuali tracce della presenza del boss corleonese in territorio piemontese, ma senza riferire a nessuno l’episodio del 1989 (cfr. pag. 16 della sentenza Mori/De Caprio). E un riscontro ad uno specifico interessamento del generale Delfino alle indagini per la cattura di Riina, fin dall’estate del ‘92 parrebbe venire dalla testimonianza di Claudio Martelli che data alla fine di luglio ‘92 o primi di agosto e comunque dopo la strage di via D’Amelio una visita del generale Delfino che gli comunicò tra l’altro che entro dicembre, gli avrebbero fatto un bel regalo di natale con la cattura di Riina (“Presidente, stia tranquillo, glielo prendiamo noi Totò Riina, glielo poniamo noi prima di natale”).
Sempre secondo quanto ricostruito dai giudici del processo Mori/De Caprio sulla base della deposizione che il generale Delfino (non esaminato al dibattimento per motivi di salute) aveva reso il 21 febbraio 1997 alla Corte d’Assise di Caltanissetta, i Carabinieri di Novara avevano proseguito le ricerche sul Di Maggio; e a dicembre il comandante provinciale aveva informato Delfino che erano riusciti a localizzarlo a Borgomanero (per inciso, è la seconda coincidenza temporale con gli sviluppi della vicenda Ciancimino: perché a dicembre ‘92, ovvero alla vigilia del suo arresto.
Vito Ciancimino ebbe a produrre il massimo sforzo per mettere in atto la collaborazione che aveva deciso di intraprendere senza riserve con i Carabinieri, sia richiedendo una specifica integrazione della documentazione che già gli era stata fornita da De Donno per localizzare il covo di Riina; sia scendendo a Palermo per incontrare i suoi referenti o intermediari mafiosi al fine di ricavarne informazioni utili alle indagini. E a dicembre si sarebbe incontrato, a Roma, con Pino Lipari).
Il generale Delfino, appena informato che Di Maggio aveva dichiarato di potere fornire informazioni su Riina e aveva chiesto di parlare con l’ufficiale più alto in grado, s’era precipitato in caserma ed aveva iniziato a raccogliere le “spontanee dichiarazioni” del Di Maggio, prima dell’arrivo del Magg. Balsamo (che, secondo quanto si legge a pag. 16 della sentenza Mori/De Caprio, avrebbe faticato per convincere i colleghi di Novara a riconoscere la competenza del N.o. di Palermo in ordine alle indagini che erano state avviate e all’arresto che ne era conseguito).
I pur scarni e frammentari elementi desumibili dalla non facile ricostruzione operata dalla citata sentenza dei fatti che avevano portato all’arresto di “Balduccio” Di Maggio non possono che suscitare il dubbio che qualcosa non torni, fermo restando che si è accertato che gli input sull’interesse investigativo per la figura dello stesso Di Maggio erano venuti da una fonte confidenziale che doveva essere molto bene informata, ed evidentemente interna all’organizzazione mafiosa.
LA VERSIONE DI VIOLANTE E LA “CARRIERA” DI DELFINO
Per completezza va rammentato che la versione che dinanzi a questa Corte l‘On. Violante ha dichiarato di avere appreso, praticamente in tempo reale rispetto agli avvenimenti in corso, dalla viva voce del generale Delfino — con il quale peraltro già all’epoca non gradiva avere contatti diretti — è, anche al netto del lapsus sulla località in cui fu rintracciato Di Maggio (che non è Verbania, come ha dichiarato il teste, bensì Borgomanero), sensibilmente diversa da quella processualmente acquisita nel processo Mori/De Caprio. Essa oscura del tutto le pregresse indagini del gruppo 2 del N.o. Carabinieri di Palermo, ed enfatizza i profili di assoluta occasionalità e accidentalità dell’arresto del Di Maggio, avvalorando ulteriormente il sospetto di una messinscena (“Quindi come dire che qualcuno andasse da Palermo a Verbania, e si facesse prendere per dire guardate vi metto.., aveva l‘impressione come di una cosa in qualche modo costruita”).
Ora, il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l’orna della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, con un passato nei ranghi del Sismi, non è una figura che, per i suoi trascorsi giudiziari e i legami intrattenuti a dire di alcuni collaboratori di giustizia con esponenti di spicco della ’ndrangheta calabrese (cfr. Cuzzola che ha riferito dei suoi rapporti con i fratelli Papalia e lo accusa tra l’altro di avere avvisato prima Domenico e poi, su richiesta di questi, anche il fratello Antonio, che Saverio Morabito aveva deciso di collaborare con i magistrati; e Fiume Antonino, che ha dichiarato di essere stato testimone oculare di un incontro del Delfino con Rocco Papalia, nell’ufficio di questi) possa rassicurare più di tanto o fugare qualsiasi sospetto sul vero ruolo che potrebbe avere avuto nell’individuazione e nell’arresto del Di Maggio, intromettendosi in un’indagine in corso e della quale, teoricamente, non aveva alcun titolo e motivi di occuparsi (non essendo per il suo grado e per le funzioni e il comando di cui era investito, un ufficiale di polizia giudiziaria).
Tra l’altro, secondo quanto emerso in questo processo, all’indomani delle stragi in continente, l’allora Capitano Giraudo che all’epoca si occupava delle indagini sulla strage di P.zza Della Loggia a Brescia (delitto per il quale Delfino, accusato di avervi concorso insieme a Delfio Zorzi, Mario Tramonte, Carlo Maria Maggi e altri, è stato processato e assolto con sentenza definitiva) fu convocato dal generale Subranni nel suo ufficio e informato che il Ros stava lavorando ad una pista che portava al Delfino come possibile mandante e organizzatore a livello superiore degli attentati mafiosi commessi nel territorio nazionale, additandolo come ufficiale dell‘Arma particolarmente pericoloso.
SOLO UNA CONGETTURA
Ma, al di là delle coincidenze temporali prima ricordate, che vi sia un link con la collaborazione parallelamente intrapresa da Vito Ciancimino resta una congettura confortata da scampi appigli processuali, come le dichiarazioni di Tullio Cannella che sostiene di avere appreso da Bagarella che Provenzano aveva rapporti con Ciancimino e quest’ultimo a sua volta con il generale Delfino, che quindi poteva essere raggiunto da Provenzano attraverso Ciancimino (Cannella non è stato poi in grado di precisare quale indicazione avrebbe ricavato da sue assente conversazioni in carcere con lo stesso Ciancimino che possano confermare l’assunto di Bagarella, al di là di fumosi riferimenti alla comune appartenenza — di Ciancimino e di Delfino – ad ambienti massonici).
Va anche rammentata, a onor del vero, una terza coincidenza temporale.
Ai primi di gennaio, e veRosimilmente pochi giorni prima di quel fatidico 8 gennaio 1993 in cui i Carabinieri di Novara fanno irruzione nell’officina meccanica di Borgomanero, trovandovi e arrestando Baldassare Di Maggio, Vito Ciancimino fa sapere attraverso il suo nuovo difensore, l’avv. Ghiron che ha urgenza di avere un colloquio riservato con lo stesso Mori.
È quest’ultimo a rammentano nelle sue spontanee dichiarazioni, che per questa parte riproducono il memoriale del l’agosto ‘97, anche se non riesce a precisare se accadde poco prima o poco dopo l’arresto di Riina. In realtà, sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Mori, la richiesta di Ciancimino deve farsi risalire a prima ancora del 10 gennaio 1993, giorno in cui Mori ebbe ad incontrare il procuratore Caselli, che diii a poco si sarebbe insediato nel posto di capo della procura della Repubblica di Palermo.
Ed era già sua intenzione informarlo dei contatti che aveva avuto con Ciancimino proprio perché intendeva chiedere l’autorizzazione ad un colloquio investigativo con Vito Ciancimino, avendo raccolto la sollecitazione in tal senso veicolatagli dall’avv. Ghiron (“nel gennaio 1993, non ricordo se prima o dopo la cattura di Salvatore Riina, fin contattato dall ‘avv. Giorgio Ghiron, difensore di Vito Ciancimino, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno. A questo punto, resi informalmente edotto di tutta la vicenda il procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Giancarlo Caselli e concordai la richiesta di un colloquio investigativo con ciancimino”).
Come già sappiamo, il dr. Caselli nega di essere stato informato dell’operazione Ciancimino quando incontrò a Torino l’allora Col. Mori, perché l’incontro era previsto per tutt’altro oggetto e non vi lii tempo di parlare d’altro se non delle decisioni da prendere dopo che il generale Delfino l’aveva edotto degli avvenimenti di Borgomanero. E fu lo stesso Caselli a esigere che Mori partecipasse all’incontro con Delfino per i ragguagli sul caso, e per pianificare i successivi sviluppi investigativi.
Il colloquio investigativo sollecitato da Ciancimino vi fu, ma solo il 22 gennaio, una settimana dopo l’arresto di Riina (circostanza che non mancò peraltro di insospettire Liliana Ferraro, come lei stessa ha dichiarato, precisando che tuttavia non ritenne di darvi troppo peso, dando per scontato, anche se non ne chiese conferma al dr. Caselli, che il nuovo procuratore della Repubblica di Palermo, appena insediatosi, ne fosse al corrente. E in effetti, nelle settimane successive le risulta che furono effettuati altri colloqui e interrogatori di Ciancimino sotto il controllo della procura di Palermo). Ma è davvero un filo troppo esile per collegare l’urgenza di Ciancimino di avere un colloquio con Mori e De Donno, che poteva essere semplicemente propedeutico alla sua decisione di aprirsi ad una più ampia collaborazione anche con l’A.g., con i contestuali fatti di Borgomanero.
LA MANCATA PERQUISIZIONE DEL COVO DI RIINA COME SEGNALE RASSICURANTE
È innegabile però che la mancata perquisizione del covo di Riina, se non fu soltanto il frutto di dabbenaggine, o di discutibili scelte investigative mescolate a corto circuiti nelle attività di informazione e coordinamento dei vari reparti investigativi operanti sul campo e una sequela di incomprensioni e malintesi, appare perfettamente in linea con il tenore della proposta che era stata brutalmente rivolta a Vito Ciancimino all’atto dello showdown, in occasione dell’ultimo degli incontri con Mori (quello del 18 ottobre, secondo il timing ricavato dalle agende dello steso Mori).
Essa diede infatti la possibilità di ripulire il covo e quindi cancellare ogni possibile traccia e documentazione che potesse aiutare gli inquirenti a individuare soci in affari, complici del Riina, i suoi rapporti con altri affiliati e i suoi favoreggiatori: dandosi così corso all’impegno dei carabinieri di avere un occhio di riguardo per le “famiglie” dei latitanti arrestati (ovvero: che si fossero auto-consegnati, nella versione decisamente improbabile di Mori e De Donno; o che fossero stati consegnati ai Carabinieri, secondo la più plausibile versione di Ciancimino).
E quali che fossero le circostanze e fortunate contingenze che avevano condotto all’arresto del capo di Cosa nostra — e quindi anche ammettendo che Ciancimino non vi avesse avuto alcun ruolo — l’omessa perquisizione avrebbe conservato intatto il suo significato di segnale rassicurante lanciato alla componente mafiosa con cui si voleva instaurare un dialogo, per confermare tale volontà di un’interlocuzione finalizzata a raggiungere un’intesa che, in tale prospettiva, la cattura di Riina non avrebbe pregiudicato, rendendola anzi più agevole. Sul versante opposto, le difese degli ufficiali del Ros e quelle di Mori e De Donno in particolare, protese a dimostrare che l’operazione Ciancimino fu soltanto un’iniziativa di polizia giudiziaria; che non vi fu mai alcun intento di negoziare con chicchessia; e tanto meno si sollecitarono da parte dei Carabinieri, intese o accordi con Provenzano per la cattura di Riina, formulano una precisa obbiezione: se davvero Provenzano avesse giocato un ruolo nella cattura di Riina, con l’intermediazione del “pontiere” Ciancimino, non avrebbe avuto bisogno delle mappe invocate dallo stesso Ciancimino come mezzo per arrivare ad individuare il covo in cui Riina si nascondeva (in realtà non si nascondeva affatto, ma vi abitava con tutta la sua famiglia), perché ne era già a conoscenza, essendo uno dei pochi ammessi al suo cospetto.
In realtà, come già s’è visto, una più attenta lettura delle dichiarazioni dimostra che Brusca non può né confermare né smentire che Provenzano sapesse dove abitava Riina, perché ciò non gli consta personalmente e nessuno gli ha mai dato un’informazione del genere.
Ciò che gli consta con certezza è che Provenzano poteva incontrare in qualsiasi momento Riina perché conosceva i soggetti che ne tutelavano la latitanza ed ai quali rivolgersi per organizzare eventuali incontri, così come faceva lo stesso Brusca che in effetti non sapeva, negli ultimi tempi almeno, dove il capo di Cosa nostra abitasse.
Ed una clamorosa conferma è venuta proprio in questo processo dalla viva voce di Salvatore Riina. Questi, infatti, in una delle conversazioni intercettate al carcere di Opera, vanta la sua astuzia e la sua prudenza nell’interdire a tutti l’accesso alla sua abitazione (tranne a Raffaele Ganci) e nel blindare con rigore teutonico (Sì, no per ste cose un tedesco era) la conoscenza del luogo in cui era ubicata: e si lascia scappare che neppure “Binnu” e i Madonia ne era a conoscenza (cfr. intercettazione del 6 agosto 2013: […]). In effetti, c’erano anche altri soggetti che curavano direttamente l’assistenza al qualificato latitante, come il giardiniere e autista Di Marco, che accompagnava i figli a scuola; e Salvatore Biondino, e naturalmente i Sansone che avevano messo a disposizione l’abitazione all’interno del residence costruito da un foro impresa.
Ma Provenzano non era tra coloro che ne erano a conoscenza, e poteva al più sapere dei Sansone e dei Ganci, e quindi della zona in cui verosimilmente era ubicata l’abitazione del suo illustre compaesano, ma niente di più. Il ricorso alle “mappe” non esclude dunque, la possibilità di un coinvolgimento del Provenzano nel tentativo messo in atto da vito Ciancimino di pervenire per tale via all’individuazione del covo di Riina; ma neppure lo prova. […]. E deve convenirsi che il discorso delle mappe, da integrarsi con una documentazione relativa a utenze Amap ed Enel che solo in parte sarebbe stata consegnata al Ciancimino, è una sorta di buco nero nella ricostruzione della vicenda della tortuosa collaborazione clandestina intrapresa dalI’ex sindaco di Palermo con i Carabinieri del Ros.[...].
IL “LAVORO RIMASTO IN SOSPESO”
Orbene, l’insistenza con cui Vito Ciancimino nei suoi scritti torna ad insistere sull’utilità e soprattutto sull’attualità, dal punto di vista investigativo, anche dopo l’arresto del Riina, di quel lavoro rimasto in sospeso, e l’interesse manifestato dai magistrati della procura di Palermo — e segnatamente il procuratore Capo Caselli e il sost. Ingroia — per gli input rilanciati dallo stesso Ciancimino, di cui v’è evidente traccia nella delega d’indagine del 25 gennaio 1994 e nelle successive Note di sollecito al Ros dovrebbero bastare a fugare il dubbio che quella delle mappe planimetrie (e utenze per le forniture di luce e acqua) fossero solo una messinscena per dissimulare un contributo di altra natura alla cattura di Riina, cui l’ex sindaco di Palermo aveva deciso di cooperare.
Resta però da spiegare, non volendo prendere in considerazione e neppure fare cenno delle elucubrazioni e manipolazioni di una fonte inaffidabile qual è Massimo Ciancimino, che fine abbiano fatto quelle mappe - su cui peraltro Ciancimino senior avrebbe fatto delle annotazioni, se è vero che, come si legge negli appunti citati, aveva segnato o indicato alcune vie - e l’ulteriore documentazione a suo tempo consegnata al collaborante. E come sia possibile che Mori e De Donno non ne abbiano conservato copia agli atti del proprio Ufficio, considerato che su quella documentazione, stando al loro racconto, investivano ogni residua Speranza di ricavare un risultato utile (e che risultato: la cattura del capo di Cosa nostra) da tutta l’operazione Ciancimino.
Ma non v’è alcuna possibilità di ricevere dai due ufficiali del Ros una spiegazione che solo loro potrebbero dare, perché per anni hanno insistito in una versione, quella secondo cui la documentazione in questione sarebbe stata trovata e trasmessa all’A.g., che si è rivelata non rispondente al vero.
Ma soprattutto resta da spiegare l’improvvisa e definitiva perdita d’interesse di Mori per quella pista investigativa di cui, non a torto, come fra breve si vedrà, Vito Ciancimino propugnava la fecondità, ancora un anno dopo l’arresto del latitante corleonese più ricercato, nella convinzione che gli immobili che insistevano in una certa zona (tra Palermo e Monreale) potessero ancora essere adibiti a covo di altri pericolosi latitanti corleonesi.
Né era tanto difficile presumere a quali corleonesi doc latitanti di spicco lo stesso Ciancimino potesse fare riferimento, nel gennaio del ‘94, quando, grazie alle rivelazioni di Salvatore Cancemi, ogni residuo dubbio che Provenzano potesse essere morto (ammesso che il Ros avesse mai condiviso questo dubbio di matrice giornalistica) s’era dissolto. Peraltro, questa perdita d’interesse a coltivare la “pista delle mappe” si era registrata, inopinatamente, anche prima che si giungesse alla cattura del capo di Cosa nostra.
L’arresto di Vito Ciancimino, che aveva impedito la prosecuzione della ricerca intrapresa con l’ausilio di quelle mappe da integrarsi con l’ulteriore documentazione richiesta dallo stesso Ciancimino, non era un ostacolo insormontabile: anzi, avrebbe dovuto indurre Mori e De Donno ad attivarsi subito per essere autorizzati — e la competenza era del ministero e non della procura — a un colloquio investigativo che poteva servire oltretutto per rimediare allo strappo causato dall’inopinato arresto al rapporto di fiducia che si era instaurato con il potenziale collaboratore di giustizia.
Invece, Mori attese che fosse Ciancimino a farsi vivo attraverso il suo avvocato (ciò che avvenne, con tutta probabilità, poco prima del 10 gennaio, ma comunque prima lo stesso Mori incontrasse Caselli a Torino e che questi lo invitasse a partecipare al briefing con il generale Delfino sull’arresto del Di Maggio e sui possibili sviluppi).
La spiegazione offerta da De Donno (al processo Mori/Obinu) è che ritennero di poter aspettare qualche settimana, prima di andare a compulsare Ciancimino per riprendere il lavoro di ricerca sulle mappe mediante colloquio investigativo, essendo ormai alle viste l’insediamento del nuovo procuratore capo a Palermo. Una spiegazione discutibile, posto che il rischio che un latitante di quello spessore usasse l’accortezza di cambiare spesso il proprio rifugio non era trascurabile. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Vito Ciancimino parla di un covo ma i Ros se la prendono molto comoda. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 dicembre 2022
Resta da capire per quale ragione non si ritenne di approfondire lo spunto informativo offerto da Ciancimino dal momento che gli stessi ufficiali del Ros che ne avevano raccolto le confidenze, lo avevano scelto come interlocutore e fonte confidenziale, nonché potenziale collaboratore di giustizia, proprio per la nota sua vicinanza ai capi corleonesi
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ma anche Vito Ciancimino non ha mai spiegato come mai egli abbia impiegato un anno prima di realizzare che gli immobili che lui sapeva essere stati utilizzati come rifugio di boss corleonesi latitanti (uno dei quali era Riina) potessero ancora avere quella destinazione. Perché in nessuno degli interrogatori susseguitisi per tutto il 1993 — cioè l’anno in cui Giuffré apprende dalla viva voce di Provenzano che il Ciancimino che stava collaborando con gli inquirenti e che aveva avuto contatti con i carabinieri, era in missione per conto di Cosa nostra — la questione delle mappe e la pista ad esse correlata per giungere all’individuazione dei covi di altri pericolosi latitanti corleonesi venne mai neppure sfiorata.
È possibile che quell’anno di carcere abbia profondamente mutato l’atteggiamento dell’ex sindaco di Palermo e fiaccato le sue residue lealtà “corleonesi”. La sua situazione giudiziaria non aveva registrato alcun miglioramento, fatta eccezione per la sospensione del regime del 41 bis che gli era stato applicato a febbraio del ‘93, ma subito sospeso, su esplicita richiesta della procura di Palermo avanzata al Dap con Nota a firma del procuratore Caselli in data 9 marzo 1993.
A dicembre, però era divenuta definitiva la sua condanna per associazione mafiosa (e per corruzione); ed era divenuto definitivo anche il decreto per la confisca di buona parte dei suoi beni. La collaborazione con la procura di Palermo non stava producendo, insomma, i benefici Sperati per la sua situazione personale. Sta di fatto che a gennaio del nuovo anno, Vito Ciancimino sembra determinato a offrire un nuovo e incisivo contributo alle indagini mirate alla cattura di altri pericolosi latitanti che ritiene continuino a utilizzare due immobili in particolare, in una zona ben precisa tra Monreale e Palermo; e se, prima del suo arresto aveva pensato che uno dei boss che usavano quegli immobili fosse Riina — ma era solo un’ipotesi, come lui stesso tiene a precisare — adesso pensa ad altri, che però non nomina.
E tuttavia, già al capitano De Donno aveva fatto i nomi di alcune vie, o le aveva segnate sulle famigerate planimetrie quando erano sulle tracce di Riina. E setacciando i suoi appunti si scopre che una di queste vie l’aveva segnata ed evidenziata, usando il carattere maiuscolo: via Cannolicchio.
Questa via, e quindi gli immobili o uno dei due immobili cui Ciancimino pensava come possibile rifugio ancora attuale di altri pericolosi latitanti, balzerà all’attenzione degli inquirenti, e dei carabinieri in particolare, tre anni dopo, quando Calogero Ganci, divenuto collaboratore di giustizia (giugno 1996), riferirà tra l’altro di avere appreso che un immobile ubicato in via Cannolicchio era stato utilizzato tempo addietro come proprio rifugio da Bernardo Provenzano.
LE DICHIARAZIONI DI IERFONE
La circostanza è emersa, con specifico riferimento all’accusa di avere negli anni il R.O.S. comandato e diretto dal Generale Mori sistematicamente messo in atto condotte favoreggiatrici nei riguardi di Bernardo Provenzano, al dibattimento del processo Mori/Obinu, nel corso dell’esame del Capitano Felice Ierfone (udienza 24.02.20 12) ed è stata poi ripresa nel corso dell’esame cui lo stesso Ierfone è stato sottoposto al dibattimento di primo grado del presente processo (udienza 12.02.20 17) Felice Ierfone, annoverabile tra gli ufficiali molto fedeli e leali al Generale Mori che lo volle con sé anche al Sisde, ha dichiarato che la cattura di Provenzano era divenuta, al contrario, un obbiettivo prioritario del Ros almeno a seguito della collaborazione di Salvatore Cancemi. In effetti, tutte le fonti dichiarative che provengono da ufficiali od ex ufficiali del Raggruppamento, concordano nell’asserire che fin dal 1993 il Rosattraverso varie sue articolazioni, si è attivamente occupato di problematiche investigative attinenti a Bernardo Provenzano, sia per ciò che concerneva la ricerca e cattura di latitanti (a lui vicini), sia per ciò che riguardava il contrasto alla componente associativa che si rifaceva diciamo allo schieramento provenzaniano.
E ne riferiscono come di una vera e propria scelta strategica, in decisa controtendenza, secondo quanto ha dichiarato il Magg. Obinu all’udienza del 24.02.20 12 (dichiarazioni spontanee essendo egli imputato in quel processo), rispetto all’orientamento degli altri organismi investigativi che avevano come obbiettivi prioritari la disarticolazione della fazione ritenuta più agguerrita e dominante, che faceva capo ai vari Aglieri, Brusca e Bagarella, indicati come i principali esponenti mafiosi di vertice verso cui concentrare gli sforzi per porre fine alla loro latitanza.
Gli fa eco il gen. Ganzer che, sentito nel medesimo processo all’udienza del 23 .03 .2012, dichiara: «Nel momento in cui apprendemmo da Cancemi che si costituì proprio perché temeva di essere ucciso da Provenzano all‘esito di un incontro cui avrebbe dovuto essere accompagnato da Carlo Greco, mi sembra, e appunto nel momento in cui avemmo notizia che Provenzano pur non avendo il ruolo di vertice di Riina, insieme a Bagarella, a Brusca, ai fratelli Graviano, a Messina Denaro Matteo costituiva il vertice di Cosa nostra iniziarono le prime attività di ricerca che sostanzialmente nel tempo, sia attraverso i filoni associativi e sia attraverso la ricerca diretta, sono proseguiti fino al 2005 con vari step operativi che sono quelli imposti dalle scadenze procedimentali».
Ed ancora: «Posso tranquillamente affermare che l’impegno sii cui abbiamo destinato, abbiamo speso le maggiori risorse sia umane che finanziarie sino al momento della sua cattura, perché come vice comandante e come comandante avendo anche delle responsabilità di carattere amministrativo più volte mi sono trovato in difficoltà nel reperire le risorse necessarie»).
NUOVI FILONI DI INDAGINI
L’irruzione sulla scena di Cancemi sconvolse gli scenari investigativi, perché dalle sue rivelazioni trassero spunto diversi filoni investigativi curati dal Ros in accordo con varie procure Dda (Palermo, Caltanissetta e Catania) accomunati dall’essere inscritto in una medesima ancorché composita trama, tutta tessuta intorno alla centralità della figura di Bernardo Provenzano. In particolare, la prima sezione del primo Reparto Investigativo, al comando del Cap. Sergio De Caprio, sviluppò un’attività investigativa su Francesco Pastoia di Belmonte Mezzagno, che era stato indicato da Cancemi come l’autista che aveva accompagnato il Provenzano a varie riunioni con i capi di Cosa nostra (tra cui quella nel corso della quale Provenzano aveva ordinato di mettere mano al progetto di catturare o comunque eliminare lo stesso cap. Ultimo).
La sezione anticrimine di Palermo, al comando del Cap. Ierfone si occupò invece di un’indagine sui fratelli Marcianò e sui Buscemi, e più in generale sulla famiglia mafiosa di Boccadifalco passo di Rigano, sempre sul presupposto che i vari Buscemi, La Barbera e Marcianò fossero esponenti dello schieramento mafioso che faceva capo a Provenzano (il dichiarante parla testualmente di “schieramento provenzaniano”). Il primo filone investigativo registra una battuta d’arresto quando Pastoia viene arrestato per un’esecuzione pena. L’attenzione si sposta allora sul cognato, Vaglica Giuseppe, che era sospettato di averne preso il posto nell’agevolare la latitanza di e i contatti con Provenzano.
La sezione anticrimine di Ierfone torna a indagare nel contesto “provenzaniano” a seguito delle rivelazioni di Calogero Ganci sull’immobile di via Cannolicchio in Monreale (che gli era stato indicato dal padre Raffaele come di pertinenza del Provenzano: v. infra). Risultava essere stato locato all’ing. Udine Vincenzo, cugino di Lipari Giuseppe, dopo essere stato acquistato da Pipitone Antonino che l’aveva ceduto a Cannella Tommaso, uomo d’onore di Prizzi che a sua volta l‘aveva ceduto a Giuseppe Mirabile, socio in affari con Gariffo Carmelo e con il figlio del Lipari Arturo.
Ebbene, il Capitano Ierfone, al dibattimento di primo grado di questo processo, ha dovuto ammettere di avere appreso dell’esistenza di questo immobile solo a seguito delle rivelazioni di Calogero Ganci. Nessuno gli aveva segnalato che tre anni prima, Vito Ciancimino Io aveva indicato nel corso dei suoi contatti con gli Ufficiali del R.O.S. e ne avesse fatto menzione poi nel corso degli interrogatori resi su tali contatti o più esattamente, come ha tenuto a precisare l’avv. Milio, ne avesse fatto annotazione in uno dei suoi scritti, quello intitolato “Paradigma della collaborazione” che fu consegnato da Massimo Ciancimino alla procura di Palermo.
Va detto subito che la precisazione dell’avv. Milio è solo parzialmente corretta. È vero che il riferimento al civico “via Cannolicchio 14” non figura nei verbali d’interrogatorio di Vito Ciancimino. Ma quell’annotazione non figura soltanto nel documento a suo tempo consegnato da Massimo Ciancimino (e peraltro ritenuto genuino, all’esito del più scrupoloso vaglio di polizia scientifica).
Esso compare anche nella versione manoscritta di quel documento, e comunque in uno dei fogli manoscritti che vennero rinvenuti all’interno della cella e sequestrati il 3 giugno 1996; e quell’annotazione, per di più, figura inserita nel contesto dei vari punti che riproducono, in forma più schematica, il contenuto delle dichiarazioni consacrate nel verbale d’interrogatorio del 17 marzo 1993 (ore 09:30), nel quale però di quel civico non si fa cenno.
E’ incontestato poi che nel corso dell’interlocuzione sviluppata nella seconda fase della loro collaborazione, Ciancimino e il capitano De Donno parlarono dei luoghi in cui orientare la ricerca e delle vie da attenzionare.
Se poi in quel frangente, Ciancimino si sia auto-censurato, omettendo quel riferimento specifico che aveva perfettamente in mente e che si decise a mettere nero su bianco solo in un secondo tempo, e cioè quando decise di affrancarsi da ogni residuo vincolo di fedeltà personale, non si può escludere. Per quanto concerne la pertinenza di quell’immobile specificamente a Bernardo Provenzano, basti rammentare che in un primo momento esso era stato concesso in locazione ad Alfano Paolo, cognato di Bernardo Provenzano, come confermato dal capitano Ierfone.
E una conferma è venuta anche dalle dichiarazioni di Pino Lipari, altro soggetto particolarmente vicino al Provenzano il quale ha confermato (in uno degli interrogatori che hanno formato oggetto di contestazione in ausilio alla memoria appunto di avere personalmente incontrato il Provenzano negli ultimi tempi nella zona di Mezzojuso (fino al 2000), mentre per gli anni precedenti ha indicato in particolare un immobile sito in via Cannolicchio che era nella disponibilità di un certo Alfano, parente del Provenzano.
GLI INPUT DI CIANCIMINO
Sta di fatto che Ciancimino fornì - verosimilmente quando ritenne che la sua “missione” per conto di Cosa nostra dovesse considerarsi terminata e fosse il caso di pensare solo ai suoi guai personali - alcuni input che poi si rivelarono di particolare interesse per alcuni filoni d’indagine concernenti l’entourage di Provenzano.
E in particolare, fu Ciancimino a parlare per primo dell’immobile di via Cannolicchio, come probabile covo di uno dei capi di Cosa nostra. Ma solo nel 1996, e dopo che ne aveva parlato Calogero Ganci, il Ros fece, su delega della procura distrettuale di Caltanissetta, uno specifico accertamento da cui risultò appunto che quell’abitazione era stata data in locazione ad Alfano Paolo, cognato di Provenzano.
Il Ganci ne aveva parlato, nel corso di una delle tante ricognizioni, come di immobile che suo padre Raffaele gli aveva detto essere di pertinenza del Provenzano. Le informazioni furono trasmesse alla procura Distrettuale di Palermo che si occupò delle ulteriori indagini.
In pratica, come ha specificato il Capitano Ierfone al processo Mori/Obinu «accertiamo che l‘immobile dove sorgeva questa villa era condotto in locazione dall‘architetto, dall‘Ingegnere Udine Vincenzo, che era il cugino di Lipari Giuseppe, un personaggio noto come insomma associato all‘organizzazione mafiosa e vicino sia a Provenzano che a Riina Salvatore e scopriamo che era stato, che aveva avuto diciamo una vicissitudine di transazioni abbastanza singolari, nel senso che era stato venduto nel 1981 da alcuni fratelli, che avevano ereditato questo bene, e l’avevano venduto a Pipitone Antonino, anche lui noto mafioso palermitano, cognato di Cannella Tommaso, uomo d ‘onore della famiglia di Prizzi.
A sua volta Cannella Tommaso aveva acquistato parallelamente un altro immobile, specularmente che era sito a Borgo Molara, sempre dagli stessi venditori, e scoprimmo che di questo immobile era stato individuato dal collaboratore di giustizia La Barbera... Scusi, Di Maggio Baldassarre, come uno dei luoghi dove aveva trascorso negli anni ‘80 Riina Salvatore. Questo bene, quello di via Cannolicchio, da Pipitone Antonino arriva poi, sempre attraverso una transazione, a Mirabile Giuseppe che era una persona che troviamo inserito in un contesto societario che era stato oggetto di attività della sezione anticrimine di Palermo negli anni ‘80, (incomprensibile), Medisud, un articolato reticolo di società che lavoravano nel settore delle forniture mediche in cui era inserito anche il nipote, Gariffo Carmelo, di Bernardo Provenzano.
Nella circostanza, l'ingegnere Lipari era coinvolto al tempo nella progettazione di quello che oggi è l‘istituto Mediterraneo dei trapianti, all‘epoca si chiamava centro trapianti multiorgani, in associazione con uno studio americano, uno studio, Astorino di Pittsburgh e uno dei collaboratori che noi individuammo nell‘attività investigativa del Lipari in questa stia attività era proprio il figlio di Lipari Giuseppe, Lipari Arturo.
Quindi, partendo da Udine, l‘attività arrivò anche su Lipari Giuseppe che aveva una misura, adesso non so se è una misura di sicurezza o una misura di prevenzione, [...]. Dopo questa attività inizia l‘attività Grande Oriente, a seguito delle dichiarazioni di Ilardo Luigi, attività che si conclude nel novembre del 1998».
ANCORA DUBBI
Insomma, a partire dal dato relativo alla presunta pertinenza di quell’immobile a Provenzano si sviluppo un fecondo filone di indagine che porta a lumeggiare una serie di personaggi particolarmente vicini allo stesso Provenzano, e inseriti in importanti circuiti d’affari (come il progetto di realizzazione del centro Trapianti e le società specializzate in forniture mediche), quali il nipote Carmelo Gariffo, il geometra Pino Lipari, il cognato di Provenzano, Alfano Paolo, e l’imprenditore Giuseppe Mirabile.
Resta poi da capire per quale ragione non si ritenne di approfondire lo spunto informativo offerto da Ciancimino dal momento che gli stessi ufficiali del Ros che ne avevano raccolto le confidenze, lo avevano scelto come interlocutore e fonte confidenziale, nonché potenziale collaboratore di giustizia, proprio per la nota sua vicinanza ai capi corleonesi in senso stretto (Riina e Provenzano).
La verità è che, come già accennato, il Vito Ciancimino che nel gennaio del ‘94 si propone come consigliere degli inquirenti, e appare prodigo di input investigativi preziosi per individuare alcuni immobili che era convinto potessero ancora essere adibiti a rifugio sicuro per altri pericolosi latitanti, non è lo stesso Vito Ciancimino che nel tardo autunno, ed ancora a dicembre del ‘92, era disponibile e determinato a cooperare esclusivamente alla cattura di Salvatore Riina (a parte il misterioso “disegno politico”, come lui stesso lo etichetta in uno dei suoi manoscritti, che avrebbe concertato con i carabinieri per infiltrarsi nel sistema di gestione illecita degli appalti); e che per tutto il 1993, archiviata la pratica Riina, si limiterà nei suoi interrogatori a ciurlare nel manico, per dirla con il procuratore Caselli, tenendo per sé le intuizioni e gli input investigativi che tenterà di offrire agli inquirenti, con poco successo, solo a partire dal nuovo anno.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La guerra “ibrida” con Bernardo Provenzano per isolare Totò Riina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’08 dicembre 2022
Sull’ipotetico rapporto di collaborazione a distanza tra Ros e Provenzano: si sarebbe trattato di un’operazione di intelligence finalizzata alla costruzione di un’alleanza ibrida, sotto l’impellenza di ragioni superiori e di una reciproca convenienza di ragioni contingenti e di reciproca convenienza, e l’auspicato ripristino di un rapporto di non belligeranza o di conflittualità sostenibile tra stato e mafia).
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Chi, nel gennaio del ‘94 e nei mesi successivi, non è cambiato affatto, rispetto a quello scorcio finale del ‘92, è il Ros di Mori. E diversi elementi inducono a ritenere che, dopo che Ciancimino ebbe comunicato loro la sua decisione di passare il Rubicone, Mori e De Donno, se non sollecitarono, quanto meno assecondarono il collaborante nello stendere un velo su uno dei suoi due più titolati compaesani, per concentrare l’attenzione sull’altro.
Come già anticipato, è sorprendente che, sebbene l’operazione Ciancimino fosse nata, a loro dire, con lo scopo precipuo di saperne di più sulle strategie criminali di Cosa nostra e acquisire da una fonte ritenuta credibile. per il suo stesso spessore mafioso, informazioni utili ad individuare e catturare i responsabili delle stragi e i più pericolosi latitanti mafiosi in circolazione — contando proprio sul legame di Ciancimino con i suoi “compaesani” — non una sola domanda fu fatta, per tutto il corso della seconda fase della collaborazione che avevano instaurato, sul conto di Bernardo Provenzano.
E lo sconcerto è ancora maggiore se si considera che Ciancimino si era detto disponibile a cooperare senza più remore e supposti o reali vincoli di solidarietà criminale, invitando (De Donno) a dirgli cosa volessero da lui. Ora, nulla da obbiettare sulla scelta di assumere come obbiettivo prioritario la cattura del latitante mafioso n. 1, e cioè Salvatore Riina.
Ma non si comprende come tale scelta impedisse, contestualmente al lavoro di ricerca sulle mappe e sulla documentazione richiesta da Ciancimino, di compulsare quest’ultimo per avere notizie utili alle indagini anche nei riguardi dell’altro corleonese, accreditato peraltro, all’esito del primo maxi processo, di essere il n. 2 dell’organizzazione mafiosa. A meno che — ed alloro sì che tutto avrebbe una spiegazione plausibile — i due obbiettivi non fossero tra loro incompatibili.
De Donno ha spiegato (al processo Mori/Obinu) che erano certi che Ciancimino avesse rapporti stretti con i due boss corleonesi più ricercati, e suoi compaesani. O che, quanto meno, fosse in grado di riaprire in qualsiasi momento canali di comunicazione con i medesimi boss. Ma a loro non interessava affatto che egli confessasse di avere questi rapporti. Questa connessione avrebbe potuto costituire oggetto e materia di successive dichiarazioni all’A.g. se e quando Ciancimino avesse deciso di formalizzare la sua collaborazione.
Ma il loro interesse non era quello di spingere Ciancimino a confessare la sua appartenenza a Cosa nostra o l’avere rapporti con i vertici dell’organizzazione, bensì usare questi rapporti a vantaggio delle indagini. Ma questo era un motivo di più per compulsare Ciancimino sul conto dei suoi compaesani, non per fargli confessare che aveva rapporti con Provenzano o con Riina ma per ricavarne informazioni utili sui loro interessi economici, sui loro spostamenti, sulla possibile rete di favoreggiatori.
Insomma, tutto ciò che poteva essere utile alle indagini mirate alla loro cattura. Invece, silenzio assoluto. Come dire che Ciancimino si impegnava ad aiutarli a catturare Riina purché non gli chiedessero nulla che potesse danneggiare gli altri sodali mafiosi, perché lui non era un delatore come non lo erano i suoi referenti. E in questi termini si comprende come la sua potesse qualificarsi alla stregua di una missione da espletare nell’interesse e per il bene di tutta Cosa nostra.
I RAPPORTI CON CIANCIMINO NON VENGONO MENO
D’altra parte, sappiamo che nonostante lo shock di Ciancimino all’atto dello showdown, quando Mori e De Donno gli rivelano quali erano le loro vere intenzioni, la loro collaborazione non si è mai interrotta, pur pRoseguendo su un registro completamente diverso da come lo stesso Ciancimino l’aveva intesa.
E contatti non si sono mai interrotti e Mori personalmente si è adoperato, sia pure con la dovuta prudenza, per perorare alcune delle richieste avanzate da Ciancimino (andando a sondare la Ferraro sulla questione del passaporto; e girando tra l’altro a Ciancimino il secco invito di Violante a presentare una formale richiesta alla Commissione Antimafia, se voleva essere sentito: e la conseguente lettera pervenuta poi brevi manu al Presidente della Commissione antimafia è datata 26 ottobre). Sicché non deve essere passato più di qualche giorno prima che l’ex sindaco di Palermo si decidesse a passare il suo Rubicone.
Inoltre, prima che venisse arrestato, Ciancimino era andato a Palermo per contattare i suoi referenti mafiosi (e naturalmente Mori si era guardato dal monitorarne spostamenti e contatti) e ne era tornato fiducioso di un proficuo sviluppo; e Mori, dopo avere constatato che era davvero in grado di comunicare con esponenti di vertice dell’organizzazione mafiosa, attraverso canali che portavano ai suoi “compaesani”, poteva ragionevolmente confidare che la sua proposta fosse giunta a destinazione: la proposta che senza più infingimenti e paludamenti di sorta aveva avanzato a Ciancimino, e che doveva intendersi come una sollecitazione rivolta ad una componente dell’organizzazione mafiosa che reputava potesse essere interessata e disponibile a disinnescare la Minaccia stragista, neutralizzando lo schieramento mafioso che se ne faceva fautore.
E poiché il pontiere Ciancimino si era mostrato fiducioso e più che mai impegnato a cooperare alla cattura di Riina, Mori poteva dedurne che la proposta non solo fosse giunta a destinazione, ma anche che vi fossero tutti i presupposti perché venisse raccolta. E ora sappiamo che fu così, perché in quella temperie Ciancimino, nel collaborare alla cattura di Riina, era “in missione per conto di Cosa nostra”, anche se non era, ovviamente, la missione che lo stesso Riina aveva inizialmente autorizzato. (E non poteva esserlo perché all’atto della rivelazione fatta da Provenzano ad un esterrefatto Giuffré il Riina era stato già arrestato ad opera di quegli stessi Carabinieri con i quali era intercorsa la presunta trattativa; e quindi, se quelli erano stati i frutti, la missione predetta non poteva essere quella che Riina aveva inteso autorizzare. Inoltre, all’atto di quella sorprendente rivelazione, Provenzano sembrava un’altra persona, perché vagheggiava una strategia che era agli antipodi rispetto a quella imposta da Riina a tutta l’organizzazione. La missione insomma era iniziata con il placet di Riina, ma aveva subito, strada facendo, una sostanziale interversione dei suoi fini).
A questo punto sopraggiunge l’arresto di Ciancimino, in coincidenza però con la soffiata che permette ai Carabinieri di individuare il Di Maggio in quel di Borgomanero, con tutto quello che ne seguì. Ora, Mori poteva sapere o semplicemente sospettare che vi fosse lo zampino di Provenzano in quella soffiata; come poteva non avere alcun elemento di valutazione al riguardo. E ad avere un peso risolutivo al riguardo non possono essere le voci rimbalzate da Catania o la confidenza che il Col. Riccio raccoglie dalla fonte Oriente, e cioè la convinzione di Luigi Ilardo che fosse stato Provenzano a propiziare l’arresto di Riina (non avendo tale confidenza aggiunto alcun elemento concreto che andasse al di là dei rumors che sottotraccia covavano negli ambienti di Cosa nostra); e neppure le convinzioni maturate dallo stesso Giuffré, ragionando e discorrendo con gli altri esponenti mafiosi del suo gruppo.
FILI SOTTILI SI LEGANO A DI MAGGIO (E A PROVENZANO)
[…] Vicende successive, tuttavia, lasciano intravedere dei fili sottili che sembrano riannodarsi agli aspetti più oscuri dell’arresto del Di Maggio, e alimentare il sospetto che Provenzano vi abbia avuto un ruolo. Si scoprirà infatti che Giuseppe Maniscalco, uomo d’onore della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, ma divenuto (a partire dal ‘95) confidente del Ros, nonché molto legato al reggente del mandamento, Salvatore Genovese, ritenuto di area provenzaniana (v. infra) era stato colui che aveva avvisato il Di Maggio che Brusca lo cercava per ammazzarlo, inducendolo a riparare al nord.
Il Di Maggio pagò il debito di gratitudine, negando, quando già era divenuto collaboratore di giustizia, che il Maniscalco fosse uomo d’onore; e grazie anche alla decisione di La Barbera e Di Matteo di avvalersi al dibattimento della facoltà di non rispondere, così sostanzialmente ritrattando la chiamata in correità che entrambi avevano formulato nei riguardi del Maniscalco, quest’ultimo fu assolto, in primo grado nel processo a suo carico per il reato di associazione e mafiosa (“Aiello +14”).
E a sua volta, non mancò di ripagare il Di Maggio, dando ai carabinieri, nella sua veste di confidente, delle imbeccate depistanti sulla catena di delitti che e attentati che avevano insanguinato il territorio di San Giuseppe Jato tra la fine del 1996 e il settembre del 1997. Infatti, sebbene le vittime risultassero persone vicine ai Brusca, ne attribuì la paternità a questi ultimi, insinuando che quei delitti fossero funzionali al piano di depistaggio dei Brusca, che era già venuto alla luce nella fase iniziale della loro collaborazione, ma che secondo il Maniscalco persisteva, ed era diretto a screditare i collaboratori di giustizia e in particolare il Di Maggio, facendo ricadere su di lui la responsabilità di quei delitti.
Quando, a seguito dell’ennesimo omicidio, il Maniscalco inizio a collaborare con la giustizia (...), confessò la propria partecipazione ad alcuni di quei delitti oltre che l’appartenenza a Cosa nostra e svelò il disegno ordito dal Di Maggio che aveva raccolto intorno a sé un gruppo di uomini d’onore e soggetti a lui fedeli per riprendersi con le armi il territorio di San Giuseppe Jato, orfano dei Brusca, ma conteso da altri pretendenti (come Vito Vitale, boss di Partinico). […] Certo è che il Maniscalco era legato e devoto al Di Maggio, che a sua volta aveva con lui un debito di gratitudine per avergli salvato la vita; come è certo che lo stesso Maniscalco era a sua volta legato a Salvatore Genovese, e quest’ultimo al Provenzano: non è solo una conoscenza remota del dott. Sabella perché in occasione dell’arresto del Maniscalco gli fu trovato - o lui fece trovare - un bigliettino indirizzato da Bernardo Provenzano al Genovese, con l’invito ad adottare gli opportuni provvedimenti per fare abbassare la cresta a Vito Vitale. E quel bigliettino insieme ad altri rinvenuti in occasione dell’arresto di Giovanni Brusca daranno contezza dell’autenticità dei 14 pizzini dattiloscritti che la fonte Oriente aveva consegnato al Col. Riccio, indicandoli come provenienti dal Provenzano.
Ora, è arduo credere che quest’ultimo potesse accettare tra i suoi più fidati “postini” un soggetto come Giuseppe Maniscalco, che aveva un legame tanto profondo, risalente nel tempo ma più che mai attuale — rispetto all’epoca in cui si prestava a favorire le comunicazioni da e per il boss corleonese latitante - con quel Balduccio Di Maggio passato agli onori della cronaca per essere stato colui che aveva consegnato il capo di Cosa nostra a ai Carabinieri, se lui stesso Provenzano, non fosse stato in qualche misura partecipe o non ostile a quel legame (essendo ancora più arduo pensare che ne fosse totalmente all’oscuro) e ai frutti che aveva generato.
Ma anche se al risultato della cattura di Riina perseguito come priorità anche strategica si fosse pervenuti per una via investigativa autonoma rispetto alla collaborazione intrapresa per il tramite di Ciancimino e frutto di una fortunata concomitanza di fattori, la proposta di “dialogo” restava valida perché la cattura di Riina era una tappa necessaria, ma solo una tappa di un cammino ancora lungo e periglioso. Ed ecco che la mancata perquisizione del covo di Riina, ma anche la contestuale dismissione di ogni attività di intercettazione nei riguardi dei fratelli Sansone, e poi la perdita di interesse per la pista delle mappe che avrebbe potuto portare troppo a ridosso di un pericoloso latitante che tuttavia poteva, in quel contesto temporale, trasformarsi in un prezioso alleato, tornerebbero come tasselli di un disegno coerente.
E quando Vito Ciancimino, che è oramai pronto a tutto pur di non finire i giorni che gli restano da vivere in prigione, si mostra disponibile a riprendere quel lavoro Riinasto in sospeso, i Carabinieri del Ros raffreddano ogni entusiasmo e lasciano letteralmente Morire quella pista, rinunciando persino ad adoperarsi per nuovi colloqui investigativi. (Anche se vi sarà un’appendice investigativa, con la realizzazione, a cura dell’Arma territoriale, circa un anno dopo la richiesta avanzata dalla procura, di rilievi aerofotogrammetrici).
UN’IPOTESI COERENTE MA ECCENTRICA
Ma quand’anche si volesse accedere a questa ipotesi ricostruttiva, di una guerra ibrida, nella quale si profila un’innaturale coalizione di due antagonisti che trescano a distanza o per interposta persona in quanto accomunati dall’interesse a contrastare uno stesso nemico, il rapporto di collaborazione a distanza tra Ros e Provenzano s’iscriverebbe comunque in una prospettiva che non giova affatto all’accusa nei riguardi degli ex ufficiali del Ros, odierni appellanti.
Ne uscirebbe confermato, infatti, che non era negli intendimenti e nei propositi e nelle previsioni di Mori, De Donno e Subranni di avviare un negoziato con i vertici mafiosi per una soluzione politica globale. Si sarebbe trattato, piuttosto, di un’operazione di intelligence finalizzata alla costruzione di un’alleanza ibrida, sotto l’impellenza di ragioni superiori e di una reciproca convenienza di ragioni contingenti e di reciproca convenienza, anche se suscettibili di acquistare un respiro strategico (sotto il profilo dell’auspicato ripristino di un rapporto di non belligeranza o di conflittualità sostenibile tra Stato e mafia).
D’altra parte, v’è cospicua traccia agli atti di questo processo di una prassi consolidata di contatti e relazioni pericolose tra appartenenti alle forze dell’ordine e membri dell’onorata società, soprattutto prima che il fenomeno del pentitismo esplodesse diventando uno strumento formidabile dell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa. Una prassi che peraltro è proseguita anche dopo che quello strumento aveva cominciato a dare, dal maxi processo in poi, i suoi frutti.
Non mancano esempi rilevanti — e Vito Ciancimino non era stato il primo caso e non sarebbe stato l’ultimo - del ricorso a confidenti o addirittura a soggetti, organici o contigui alle cosche, con i quali s’instauravano relazioni ambigue in cui era difficile tracciare una netta linea di confine tra la veste di confidente, o di partner di occasionali scambi di favori (e tale poteva essere anche lo scambio di notizie di reciproco interesse): come nel caso delle fonti del M.llo Lombardo, o nel caso di Siino Angelo; o, più lontano nel tempo, come rammenta Giuffré nel caso di Rosario Riccobono.
Per non parlare delle voci sui rapporti di Madonia Antonino con appartenenti alle forze dell’ordine o ai servizi; o addirittura di esponenti mafiosi che da confidenti si trasformavano in infiltrati per conto dello Stato, ma non del tutto o non ancora passati completamente dalla parte dello Stato: come la fonte Oriente, alias Ilardo Luigi, che da confidente del Col. Riccio fece arrestare non meno di sette pericolosi latitanti ed esponenti delle cosche operanti nella Sicilia orientale, ma nel frattempo saliva i gradini della gerarchia mafiosa, fino al ruolo di vice-rappresentante della provincia mafiosa nissena; o quel Giuseppe Maniscalco, persona legata a Salvatore Genovese, a sua volta reggente del mandamento di San Giuseppe Jato che però, secondo le informazioni in possesso della procura di Palermo, si collocava nell’area provenzaniana.
Il Maniscalco, come s’è visto, pur collaborando come fonte confidenziale con i Carabinieri del Ros, continuava imperterrito a delinquere per conto di Cosa nostra, partecipando anche alla vicenda sanguinosa e nota come “il ritorno in armi” di Baldassare Di Maggio, che alla testa di un gruppo di affiati a lui fedeli, aveva tentato, quando già era collaboratore di giustizia, a suon di attentati e omicidi di riprendere il controllo del territorio di San Giuseppe Jato, approfittando della condizione di estrema debolezza dei Brusca.
E proprio il Maniscalco - che aveva un grosso debito di gratitudine nei riguardi de Di Maggio, che gli aveva procurato un’insperata assoluzione nel processo per il reato di associazione mafiosa e altri gravi delitti, negando che fosse uomo d’onore e inducendo anche La Barbera e Di Matteo a ritrattare o comunque a non ripetere al dibattimento le dichiarazioni accusatorie che avevano reso nei suoi confronti nella fase delle indagini; e il Di Maggio, a sua volta, era grato al Maniscalco per avergli in pratica salvato la vita avvisandolo che Brusca lo cercava per ammazzarlo – aveva depistato i carabinieri, dando loro false imbeccate che facevano ricadere su Brusca e sugli uomini d’onore rimasti a lui fedeli, la paternità di quella catena di delitti: come poi lui stesso ammise, quando, sottoposto a fermo dopo l’ennesimo omicidio (Arato Vincenzo, uomo dei Brusca), iniziò subito a collaborare.
E fece trovare, tra l’altro un pizzino di Provenzano che era diretto a Salvatore Genovese, con delle frasi che suonavano come un invito a prendere provvedimenti contro Vito Vitale, accusato di avere “invaso” un territorio, come quello di San Giuseppe Jato che non gli apparteneva. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Il “monopolio” delle indagini sull’ultimo boss di Corleone. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 09 dicembre 2022
Indicibili ragioni di “interesse nazionale” per non sconvolgere gli equilibri di Cosa nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità. Al contempo occorreva che i carabinieri fossero in grado di controllare i movimenti dell’avversario. Ecco perché il Ros, lungi dal disinteressarsi delle indagini su Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire, anche se solo di fatto e senza avere esercitato alcuna pressione una sorta di monopolio di quelle indagini
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ogni qualvolta si è scavato sul tema della presunta protezione della latitanza di Provenzano da parte dei Carabinieri del Ros diretto da Mario Mori, e dagli ufficiali a lui direttamente sottoposti, gli aspetti di opacità evidenziati — e stigmatizzati — anche nella sentenza di primo grado del processo Mori/Obinu (che si richiama, sotto questo profilo, alle valutazioni critiche espresse dai giudici del processo definito a carico dello stesso Mori e di Sergio De Caprio con sentenza di assoluzione per la condotta di favoreggiamento contestata in relazione alla mancata perquisizione del covo di Riina), si sono ispessiti.
Nuovi elementi fattuali e di valutazione si sono aggiunti, con il risultato che dubbi, perplessità sospetti sull’operato dei Carabinieri e sulle loro reali intenzioni, invece che dissolversi, ed essere definitivamente fugati o sopiti, ne sono usciti avvalorati e rilanciati. Senza mai raggiungere, va detto subito, la soglia minima necessaria di certezza probatoria, quanto alla sussistenza del dolo di favoreggiamento.
Già la sentenza di primo grado del processo Mori/Obinu (Tribunale Palermo, 17/07/2013) aveva ritenuto che «la condotta attendista prescelta con il concorso degli imputati sia sufficiente a configurare, in termini oggettivi, il reato addebitato», dovendo «ammettersi che nell’arco di tempo oggetto della contestazione siano state adottate dagli imputati scelte operative discutibili, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano».
Ma era poi pervenuto alla conclusione di dover assolvere gli imputati con la formula perché il fatto non costituisce reato sul presupposto che «benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processate non ha consentito di ritenere adeguatamente provato — ad di là di ogni ragionevole dubbio, come richiede l‘art. 533 c.p.p. — che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura».
LA SENTENZA D’APPELLO DEL PROCESSO MORI/OBINU
La sentenza d’appello (v. Corte d’Appello di Palermo, 19.05.2016), come rammenta il primo giudice di questo processo, è andata persino oltre, anche se ha finito per confermare l’esito assolutorio e la relativa formula, non potendosi escludere che gli imputati, “pur avendo presente la connessione causale tra il loro agire e l’evento “sottrazione del Provenzano alla cattura” abbiano realizzato le condotte loro contestate “per trascuratezza, imperizia, irragionevolezza o, piuttosto per altro biasimevole motivo”.
La citata sentenza d’appello ha tuttavia respinto la richiesta della difesa che sollecitava una riforma della statuizione di primo grado nel senso di assolvere gli imputati per insussistenza del fatto, sul rilievo che “fermi restando i grandi meriti nel campo della lotta al terrorismo e della criminalità organizzata di questo reparto di eccellenza dell’arma dei carabinieri e i lusinghieri giudizi sull’operato complessivo del Mori espressi da autorevoli esponenti di Autorità civili e militari — molti episodi connotano di opacità l’operato di questa articolazione dell’Anna in quel periodo, evidenziando una serie di incongruenze anche con riferimento ai fatti specie che ci occupano ed a quelli precedenti o successivi che con questi hanno attinenza.
Basta richiamare alcune delle risultanze che sono state riversate nel processo e che hanno riguardo, in particolare, alla mancata perquisizione del covo di Riina e all’episodio relativo alla presunta, omessa cattura di Benedetto Santapaola in Terme Vigliatore, nell ‘aprile 1993”.
Conseguentemente, non poteva «non concordarsi con i Giudici di primo grado laddove gli stessi affermano la sussistenza sotto il mero profilo oggettivo delle condotte ascritte agli imputati che possono, in astratto, anche con giudizio a ante, configurare sotto il nero profilo oggettivo il reato addebitato agli imputati».
Ebbene, come già anticipato, anche la sentenza qui appellata è giunta alla conclusione che non siano emersi elementi sufficienti a sovvertire, in relazione al giudizio di responsabilità nei riguardi di Mori e degli altri ufficiali del Ros suoi presunti correi per il diverso reato di cui all’art. 338, c.p., il giudicato assolutorio formatosi nel processo Mori/Obinu in ordine alle condotte ivi contestate per il biennio 1995/1996.
Nel senso che non si è raggiunta la prova di un deliberato intento di Mori di proteggere la latitanza di Provenzano, pur uscendone corroborata la certezza già raggiunta in quel processo, ad onta dell’esito assolutorio, che l’insieme di ritardi, atteggiamenti o condotte dilatorie, omissione nell’approntamento di servizi o nell’attivazione di tecniche e strumenti di monitoraggio dei probabili favoreggiatori o negli accertamenti volti ad identificarli compiutamente e nel raccordarsi con l’autorità giudiziaria di riferimento (non già per renderla edotta dei contenuti delle rivelazioni che la fonte Oriente, alias Luigi Ilardo, andava facendo all’ufficiale, il colonnello Riccio, che la gestiva — anche se, per le eventuali notitiae criminis emerse non poteva scaricarsi l’obbligo di referto soltanto sull’ufficiale predetto — quanto per aggiornarla sugli sviluppi dell’indagine mirata alla cattura del latitante più ricercato all’epoca, almeno dal Ros) si è tradotto in una condotta oggettivamente a compromettere il raggiungimento dell’obbiettivo di catturare Bernardo Provenzano, e dunque in una condotta di oggettivo favoreggiamento della sua latitanza.
DUBBI E PERPLESSITÀ
E deve convenirsi che anche dall’ulteriore approfondimento istruttorio espletato in questa sede su tale tema di prova escono avvalorati dubbi e perplessità sull’operato complessivo dei Carabinieri.
Ma, nella valutazione operata dal giudice di prime cure, il duplice esito sopra richiamato, se da un lato rendeva obbligata la decisione di assolvere gli ufficiali del Ros (non già dal reato di favoreggiamento, per cui Mori era stato già giudicato e assolto, bensì) dal diverso reato per cui si procedeva a loro carico, e limitatamente alla condotta loro contestata per avere, successivamente alle altre due specifiche condotte loro ascritte, assicurato il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo, principale referente mafioso di tale trattativa” (una contestazione che prefigurava che fin dall’inizio fosse stata stipulata un’intesa con Provenzano che avesse come corrispettivo della rinuncia allo stragismo anche il prodigarsi di Mori per favorirne la latitanza) dall’altro non sarebbe affatto incompatibile con la tesi accusatoria sposata in sentenza.
Opposta sarebbe la conclusione cui si dovrebbe pervenire, ad avviso del primo giudice, se fosse provato che non vi fu alcuna condotta favoreggiatrice (come postulavano i difensori di Mori e Obinu); o se si fosse accertata una chiara e inequivocabile volontà e determinazione di pervenire alla cattura di Provenzano, assunto realmente come obbiettivo prioritario dell’impegno investigativo profuso dal Ros diretto da Mario Mori nell’ambito delle indagini sulla criminalità mafiosa in Sicilia.
Poiché così non è, rimane impregiudicata sempre ad avviso del primo giudice, la possibilità che gli ufficiali del Ros abbiano concorso al reato di minaccia a corpo politico dello Stato, sia pure limitatamente alle prime due condotte loro ascritte. Conseguentemente, il giudicato assolutorio già formatosi nei processi a cui il Generale Mori è stato in precedenza sottoposto non può ovviamente spendersi processualmente o essere valutato come elemento di validazione dell’ipotesi accusatoria (come avrebbe potuto esserlo, sia pure nei limiti di cui all’ari. 338 bis c.p.p., un giudicato di condanna), ma neppure può affermarsi che esso vi frapponga un ostacolo insormontabile.
Parzialmente diversa è la conclusione cui questa Corte ritiene di dover pervenire. Come già anticipato, anche in esito alla rinnovazione istruttoria disposta in questo secondo grado del giudizio sono emersi elementi fattuali e di valutazione che implementano il plafond già cospicuo di dubbi e perplessità sull’operato dei carabinieri del Ros e gli aspetti di opacità che erano emersi già nel corso dei processi definiti con le sentenze irrevocabili sopra richiamate, come pure nel corso dell’istruzione dibattimentale del giudizio di primo grado d& presente processo.
E ci riferiamo in particolare alle nuove risultanze emerse in relazione alla vicenda dell’arresto di Napoli Giovanni, già condannato per associazione mafiosa e tra i principali favoreggiatori della latitanza condotta da Bernardo Provenzano per molti anni in quel di Mezzojuso; e agli elementi desumibili dalla vicenda per molti aspetti sconcertante di Riggio Pietro.
Ma il dubbio che residua, o che addirittura esce corroborato (senza tuttavia approdare alla certezza probatoria che sarebbe necessaria per trarne un verdetto di colpevolezza), nella diversa prospettiva di ricostruzione dei fatti cui questa Corte ritiene di dover aderire per restare fedele alle risultanze acquisite, finisce per giovare alla difesa, assai più che alla pubblica accusa, o almeno giova alle ragioni difensive che militano per l’esclusione del dolo (di concorso nel reato) di minaccia a corpo politico dello stato.
Già s’è visto che l’iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros nell’estate del ‘92 attraverso i contatti con Vito Ciancimino aveva come finalità precipua o esclusiva quella di fermare le stragi, ovvero l’escalation di inaudita violenza mafiosa che faceva paventare nuovi eccidi e delitti eclatanti dopo la strage di Capaci.
COSA NOSTRA ERA CAMBIATA NEL ‘95
E questo è un primo punto fermo nella ricostruzione fattuale cui si accennava. Si è anche detto che la finalità predetta sarebbe ex se incompatibile con l’elemento soggettivo del reato ascritto agli stessi Carabinieri. Ma quand’anche si reputasse tale argomento insufficiente od opinabile — sotto il profilo che non potrebbe escludersi un interesse a corroborare la minaccia come strumento di pressione sulle scelte delle autorità di governo — una rilettura serena della vicenda dei contatti tra Ros e Ciancimino e della collaborazione che ne scaturì conduce a ritenere che la proposta di accordo che si voleva veicolare a Cosa nostra attraverso Vito Ciancimino e i suoi referenti mafiosi non aveva come suo naturale destinatario Salvatore Riina e i suoi più fedeli luogotenenti, come lui convinti assertori della linea stragista; ma era diretta, piuttosto, a quella componente di Cosa nostra che, insofferente della leadership di Riina e preoccupata delle conseguenza di uno scontro frontale con lo stato, fosse disponibile a collaborare alla cattura di Riina e quindi alla decapitazione dello schieramento stragista o ala dura dell’organizzazione mafiosa: con l’obbiettivo ulteriore di disarticolare tale schieramento, in modo che a prevalere fosse quella componente più propensa, per sua stessa vocazione, a coltivare con lo stato e le Istituzioni un rapporto di non belligeranza: una coabitazione felice o almeno pacifica, che, dal punto di vista dei mafiosi, ripristinasse condizioni generali propizie al fine di sviluppare impunemente i propri affari, infiltrando, come era sempre avvenuto, il tessuto economico e istituzionale invece di sconvolgerlo con una violenta contrapposizione frontale.
Ora, nell’estate-autunno del ‘92 si poteva, forse, dubitare o non essere ancora certi che quella componente relativamente moderata dell’organizzazione mafiosa facesse capo proprio a Bernardo Provenzano (anche se i molteplici elementi in precedenza scrutinati fanno ritenere che i carabinieri avessero già maturato tale convincimento); ma nell’autunno inoltrato del 1995 e nell’anno seguente il bagaglio di conoscenze degli apparati investigativi sulle dinamiche mafiose e sui contrasti interni a Cosa nostra si era notevolmente arricchito.
E l’uscita di scena prima dei fratelli Graviano (arrestati a Milano il 27 gennaio 1994), poi di Bagarella (24 giugno 1995) e quindi di Giovanni Brusca (20 maggio 1996) che avvierà tre mesi dopo un percorso collaborativo sia pure inizialmente molto travagliato, non poteva che avere rafforzato la leadership di Provenzano. Né poteva valutarsi come una coincidenza fortuita che al rafforzamento del potere di Provenzano avesse corrisposto l’abbandono di fatto della linea stragista.
L’ultima strage, peraltro mancata e della quale solo ex post si avrà notizia (addirittura ancora sino alla conclusione del processo a carico di Mori e De Caprio si faceva risalire tale evento al novembre del 1993) è quella progettata allo Stadio Olimpico di Roma, che precedette di 4 giorni l’arresto dei fratelli Graviano. E poi il Ros, tramite il colonnello Riccio, rientrato nei ranghi dell’Arma e subito aggregato al Ros (con effetto dal 31 ottobre 1995), per proseguire l’indagine incentrata sulla gestione della fonte “Oriente” affluiscono le notizie che dall’interno di Cosa nostra la fonte predetta, alias Luigi Ilardo, boss della provincia mafiosa di Caltanissetta, cugino di Piddu Madonia riversa al colonnello Riccio sulle dinamiche di potere in atto, sulla progressiva modificazione dei rapporti di forza e degli equilibri interni a Cosa nostra, e sugli orientamenti strategici di Provenzano, sempre più in dissenso rispetto a Bagarella e a Brusca.
Ed allora, una volta esclusa in radice qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare lo status libertatis di Provenzano, e dunque anche a voler dare credito al dubbio che in effetti continua ad allignare sulla correttezza dell’operato del Ros per ciò che concerne le indagini mirate alla cattura del predetto boss corleonese, esso ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio e più efficacemente di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste (mai del tutto sopite, potendo Salvatore Riina contare sempre su un vasto consenso e su non pochi sodali rimasti a lui devoti) o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato.
V’erano dunque indicibili ragioni di “interesse nazionale” a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della “sommersione”, almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso.
Ma al contempo, per essere padroni e non pedine di un gioco così rischioso, bisognava che i carabinieri fossero in grado di controllare i movimenti dell’avversario, divenuto suo e loro malgrado alleato nel disegno di mantenere un assetto di potere mafioso che sancisse l’egemonia della componente moderata.
Ecco perché, giusta l’ipotesi considerata, il Ros, lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire, anche se solo di fatto e senza avere esercitato alcuna pressione (ed è lo stesso Mori ad ammetterlo nel replicare piccato alle dichiarazioni del dott. Sabella) una sorta di monopolio di quelle indagini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La cattura in massa dei grandi boss e il “peso” di Bernardo Provenzano. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 10 dicembre 2022
Già nell’autunno del ‘95 era chiaro che Cosa nostra aveva - da tempo - abbandonato la linea delle stragi: perché tentata dalla ricerca di una soluzione “politica” ai suoi problemi; o perché era prevalsa l’opzione più moderata, dopo che si era constatato che la stagione delle stragi aveva procurato solo l’inasprimento dell’azione repressiva dello Stato con conseguenze disastrose per gli interessi dei mafiosi.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso: e l’unica convenienza a non andare a fondo delle attività investigative dirette alla cattura del boss corleonese si legava alla condizione che questi riuscisse a mantenere il controllo delle pulsioni stragiste e che sotto il suo comando tutta Cosa nostra restasse fedele e ligia alla strategia della sommersione.
È proprio questo lo stato d’animo di Provenzano descritto da Giuffré quando si sparse la notizia che Ilardo era stato un confidente dei carabinieri. Un mix di preoccupazione e di ostentazioni di sicurezza che lo indussero a moltiplicare sì le precauzioni e ad essere sempre più esigente con i sodali che lo assistevano e protegge vano nella sua latitanza; ma, al contempo, a non cambiare la rete dei favoreggiatori e soprattutto il territorio in cui proseguire la sua latitanza (che Riina a Mezzojuso fino a quando, il 30 gennaio 2001, la Polizia di stato non fece irruzione in uno dei casolari messi a lui a disposizione da “Cola” La Barbera nei quali era solito tenere incontri riservati con altri uomini d’onore: e in quella circostanza furono arrestati lo stesso La Barbera Nicolò e Benedetto Spera).
[…] Ma per quel che importa ai fini dei presente giudizio non si profila sullo sfondo di questo ipotetico cordone protettivo steso intorno alla latitanza di Provenzano alcun interesse e volontà di corroborare la minaccia di una ripresa delle ostilità (di Cosa nostra) contro lo stato, perché la minaccia non era rappresentata tanto da Provenzano, ma, al contrario, dai suoi antagonisti.
I quali erano ancora forti o potevano riprendere forza, considerato il prestigio e il consenso di cui godeva quel Salvatore Riina, irriducibile propugnatore della strategia dello scontro frontale con le Istituzioni, che continuava ad essere, formalmente, il capo di Cosa nostra.
Pertanto, l’obbiettivo di fondo, che restava quello di prevenire nuovi delitti eclatanti o una ripresa della violenza stragista, non sarebbe stato, in ipotesi, condizionato ad un accordo consistente in reciproche rinunce, tra lo stato e la mafia (intendendo per stato il mondo della politica, o suoi qualificati esponenti, e il Governo), ma, semmai, ad una obbiettiva convergenza di interessi, tra i nuovi vertici dell’organizzazione mafiosa (giacché il presupposto era sempre quello che si riuscisse a soggiogare l’ala dura) e i responsabili degli apparati investigativi, o di uno dei principali apparati dello stato specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata.
Insomma, si voleva “proteggere” Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft (come ipotizza anche il giudice di prime cure), e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portare alla cattura di Provenzano, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, cioè il Provenzano, avrebbe riattivato lo stragismo o dato la stura ad una ripresa della violenza mafiosa; bensì perché la caduta di Provenzano, che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa nostra e l’avvento ai vertici dell’organizzazione degli esponenti rimasti più fedeli a Salvatore Riina.
Un simile disegno strategico, riportato ai fatti del ‘92, si traduce non già in una promessa di protezione della latitanza di Provenzano, ma in una sollecitazione rivolta alla componente moderata (che si presumeva esistere in Cosa nostra e poter contare su autorevoli esponenti, e poco importa che facesse capo a Provenzano, come è verosimile che Mori già ipotizzasse, o ad altri) a cooperare al ripristino di un clima di non belligeranza o di conflittualità sostenibile con le Istituzioni: un clima che lasciava intravedere, in prospettiva, la possibilità di un allentamento dell’azione repressiva dello stato e di modifiche anche del quadro normativo; e, nell’immediato, un occhio di riguardo nello svolgimento delle indagini che investissero gli esponenti mafiosi disponibili a cooperare a quel progetto, o i loro affari. Fermo restando che passaggio obbligato della realizzazione di un simile progetto era la decapitazione dell’ala dura, e quindi la cattura di Riina.
ANCORA “PERSISTENTI PULSIONI STRAGISTE”
La linea della contrapposizione violenta allo stato era stata imposta dal Riina già alla fine del ‘91; ed egli, in effetti, come si evince da alcuni sfoghi cui si lascia andare nelle conversazioni intercettate al carcere di Opera, non avrebbe mai voluto che Cosa nostra se ne discostasse (rimproverando proprio a Binnu di essersi fatto fregare, per avere ceduto alle sirene di quanti, andando a piangere sulla sua spalla, lo sollecitavano a “collaborare”: v. supra).
Ma già nell’autunno del ‘95 era chiaro che Cosa nostra aveva - da tempo - abbandonato questa linea: perché tentata dalla ricerca di una soluzione “politica” ai suoi problemi (investendo su una nuova formazione politica che, oltre a poter vantare ottime chance di affermarsi alle elezioni del marzo ‘94, benché fossero le prime elezioni politiche cui si presentava, prometteva di attuare un programma consentaneo agli interessi mafiosi, grazie anche ad intese raggiunte con qualificati intermediari); o perché era prevalsa l’opzione più moderata, dopo che si era constatato che la stagione delle stragi aveva procurato solo l’inasprimento dell’azione repressiva dello stato con conseguenze disastrose per gli interessi dei mafiosi.
Ma certo è che le notizie che il Ros poteva assemblare portavano alla conclusione, o confortavano la certezza già raggiunta, che Provenzano fosse convinto assertore di una linea più moderata, almeno quanto i Graviano e Brusca e Bagarella erano stati convinti fautori della linea stragista. Oggi sappiamo che era così, perché ce lo hanno raccontato collaboratori di giustizia di innegabile spessore come Giuffré, Sinacori, La Barbera, Cucuzza ed anche lo stesso Giovanni Brusca (e senza dimenticare il Cancemi dell’interrogatorio del 15 marzo 1994).
Ma le fonti che all’epoca, e già a partire dal ‘92, il Ros poteva compulsare erano con certezza o con tutta probabilità, soggetti molto vicini al Provenzano, e quindi in grado di fornire elementi di conoscenza o di valutazione su quali fossero gli orientamenti e gli auspici del boss corleonese.
E la certificazione che, sul finire degli anni ‘90, questa fosse una convinzione ormai diffusa e condivisa dagli apparati investigativi — e non più soltanto dal Ros che però con tutta probabilità l’aveva maturata prima degli altri — viene da un documento eccezionale, acquisito nel corso della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale espletata in questa sede. […]. Il dato che più rileva, e che affiora tra le righe della scarna informativa a firma del Col. Pellegrini, è costituito dall’implicito ma chiaro e inequivocabile riconoscimento a Bernardo Provenzano del ruolo di perno di uno schieramento mafioso ancora egemone e garante, per così dire, di una sorta di pax mafiosa e di un equilibrio reciprocamente rispettoso tra potere mafioso e autorità dello stato. Al punto che si profila come un rischio, che è interesse e compito prioritario degli apparati investigativo dello stato contrastare e sventare, le trame delle fazioni mafiose ostili alla leadership dello stesso Provenzano. Come se il maggiore pericolo non fosse costituito dall’egemonia mafiosa sul territorio, ma dall’eventualità che la leadership di Provenzano venisse sovvertita e messa in crisi, e con essa tutto l’ordine costituito che ne era garantito.
In realtà, la preoccupazione che trapela dall’informativa ben può essere letta in un’ottica diversa e meno inquietante. Se fosse stato vero che le frange che brigavano in dissenso dalla leadership di Provenzano progettavano addirittura delitti eclatanti - come l’attentato al presidente del Tribunale che stava celebrando il processo a Marcello Dell'Utri, stando alle rivelazioni (de relato) di Pietro Riggio - allora è naturale che, senza cedimenti sul versante dell’azione di contrasto al potere mafioso, in chiunque incarnato, tuttavia divenisse prioritario, per gli investigatori, scoprire e sventare eventuali trarne stragiste o progetti di attentati. […] Ma il dato saliente che si vuol qui segnalare è un altro.
In sostanza, nel 1994 i vertici del Ros sapevano che Provenzano, pur essendo uno dei capi di Cosa nostra, era fautore di una linea più moderata rispetto a quella sanguinaria e di scontro frontale con le Istituzioni patrocinata da Brusca e Bagarella. E però non si comprende donde venisse questa consapevolezza di una profonda diversità di vedute strategiche se appena pochi mesi prima proprio Mori, nel suggerire a Nicola Rao il testo dei lanci d’agenzia del 10 dicembre 1993, aveva indicato in Bernardo Provenzano (e subito dopo il nome che si faceva era quello di Aglieri, altro esponente di spicco dell’area provenzaniana) il principale ispiratore e regista delle stragi in continente. E considerato che per quanto costa nelle dichiarazioni rese all’A.g. lo stesso Cancemi aveva sempre indicato in Provenzano un convinto assertore della ortodossia corleonese che propugnava la necessità di attenersi alla linea voluta da Riina (Sarà in effetti Antonino Giuffré a rivelare che la fedeltà alla linea esternata “ufficialmente” era una postura di facciata del Provenzano imposta da prudenza nel prendere atto che i rapporti di forza erano ancora a favore dell’ala dura). S
ENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Inspiegabili ritardi, lacune e omissioni sui favoreggiatori di Provenzano. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’11 dicembre 2022
Le indagini a carico di Napoli Giovanni, dopo l’episodio di Mezzojuso, quando questi effettivamente era uno dei protagonisti più operosi, come poi si è accertato, della rete di favoreggiatori della latitanza di Bernardo Provenzano, insieme a La Barbera Nicolò, inteso “Colo”: nei confronti di entrambi si è registrato, da parte del Ros, una condotta che è anche troppo generosa qualificare come “attendista”, essendo connotata da vistosi ritardi, omissioni e discutibili scelte operative
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
E deve convenirsi che una plausibile chiave di lettura, sempre che non si voglia gettare la croce addosso al buon Gigliotti, sembra essere quella offerta da vicende pregresse che riguardano le indagini a carico dello stesso Napoli Giovanni, proprio nei mesi successivi all’episodio di Mezzojuso, quando questi effettivamente era uno dei protagonisti più operosi, come poi si è accertato, della rete di favoreggiatori della latitanza di Bernardo Provenzano, insieme a La Barbera Nicolò, inteso “Colo”.
Nei confronti di entrambi si è registrato, da parte del Ros una condotta che è anche troppo generosa qualificare come “attendista”, essendo connotata da vistosi ritardi, omissioni e discutibili scelte operative che di fatto hanno allontanato la possibilità di stringere il cerchio intorno alla latitanza di Bernardo Provenzano in un momento topico perché si era sulle tracce di due dei pilastri della rete di favoreggiatori di cui il boss corleonese si avvaleva in quel periodo. Anche se, nel valutare l’operato dei Carabinieri del Ros, non bisogna cadere nell’eccesso opposto, di abusare del senno di poi, facendosi fuorviare da conoscenze e risultanze che si sono acquisite solo in epoca successiva, o che solo oggi appaiono pacifiche e incontestate.
E tuttavia alcuni dati sono innegabili e giustificavano già forti riserve e dubbi sulla correttezza dell’operato dei Carabinieri, anche prima che emergessero gli aspetti più sconcertanti della vicenda Napoli.
In particolare, nella relazione datata li marzo 1996 a firma del colonnello Riccio, indirizzata al Raggruppamento operativo speciale carabinieri e alla c.a. del colonnello Mori, avente ad oggetto “Operazione Oriente”, si fa il punto del flusso informativo ordinato in sequenza cronologia e per aree di interesse territoriale della gestione della fonte Oriente.
OPERAZIONE ORIENTE
Secondo quanto dichiarato dallo stesso Riccio il colonnello Mori l’aveva invitato a redigere degli elenchi nominativi delle varie categorie di soggetti (presunti affiliati mafiosi, politici e imprenditori collusi ecc.) chiamati in causa dalla fonte “Oriente” nelle sue rivelazioni confidenziali, per predisporre delle schede informative in vista della collaborazione con la giustizia che Ilardo avrebbe in seguito formalizzato.
Ma proprio per questa ragione, egli ritenne di redigere un rapporto più completo, che fornisse un panorama completo e aggiornato su composizione delle famiglie, dinamiche di potere, e quant’altro di interesse investigativo la fonte avesse fin lì rivelato.
Nelle dichiarazioni spontanee rese il 24.02.20 12 il Magg. Obinu sostiene di essere stato lui a sollecitare il collega Riccio a redigere un’annotazione che potesse fungere da base certa per ulteriori approfondimenti investigativi. E non appena l’annotazione fu redatta, il Col. Mori ne dispose la diramazione a tutte le sezioni anticrimine con la precisa direttiva di sviluppare per quanto di rispettiva competenza gli accertamenti necessari per la compiuta identificazione dei soggetti indicati come presunti favoreggiatori della latitanza di Provenzano e di fornire ogni elemento utile alla cattura del latitante.
In realtà, dalla Nota in data 12 marzo 1996 a firma Mori si evince che il vice comandante del Ros diramò alle varie articolazioni territoriali del raggruppamento (cioè alle sezioni anticrimine di Palermo, Catania, Caltanissetta e Messina) e, per quanto di competenza, al 1 Reparto Investigativo un estratto della relazione del Col. Riccio; e, premesso che il documento allegato, in relazione a una “attività informativa condotta in ambito criminale di matrice mafiosa” che aveva consentito di acquisire una “serie articolata di dati che necessitavano di essere sviluppati”, conteneva “gli elementi afferenti il territorio di ciascuna Sezione in indirizzo”, dava carico a ciascuna sezione di provvedere all’identificazione dei personaggi menzionati, corredandola di schede informative e comprensive di dati investigativi e processuali salienti; alla descrizione articolata con eventuali riferimenti investigativi e processuali, dei fatti di reato indicati; alla compilazione di schede societarie per le ditte menzionate, comprensive di eventuali precedenti investigativi; a indicazioni di eventuali procedimenti penali pendenti; all’approntamento di fascicoli fotografici per i personaggi ritenuti Di Maggiore interesse.
L’estratto allegato, nella parte concernente la provincia di Palermo, menzionava come soggetti da identificare tale “Cono”. indicandolo come persona di fiducia di Provenzano in Mezzojuso, e proprietario di una Fiat Campagnola verde che di sovente gli fa da autista (oltre a fornire una dettagliata descrizione fisica) e tale Giovanni, indicato come autista e punto di contatto per ottenere incontri con il Provenzano, senza neppure specificare se si trattasse di un soggetto anche lui di Mezzojuso. Se ne indicavano tuttavia il numero di telefono (precisando che non doveva trovarsi sull’elenco) e l’auto di cui era proprietario: una Ford Escort diesel tg. Pa 300057. Nessun cenno all’episodio di Mezzojuso.
In realtà, mettendo insieme le testimonianze di Ganzer, Ierfone, Riccio, le ammissioni del Col. Mori e soprattutto la relazione 11 marzo 1996 può dirsi acclarato che a quella data il Col. Riccio non solo aveva informato i suoi superiori (come gerarchia interna al Ros) e cioè Obinu e Mori dell’incontro che la fonte diceva di avere avuto con Provenzano (come annotato nella relazione dell’11 marzo), ma aveva fornito, sulla base delle indicazioni offerte dalla fonte e riscontrate, per quanto era stato possibile, dal servizio di osservazione diretta e rilievi fotografici effettuati in occasione dell’appuntamento con Ferro Salvatore al bivio di Mezzojuso il 31 ottobre, tutti gli elementi necessari per una compiuta e immediata o comunque agevole identificazione dei soggetti indicati come “Cono” e “Giovanni”.
Eppure, per aversi conferma “ufficiale” dell’identificazione del Giovanni nella persona di Napoli Giovanni, veterinario e impiegato all’Assessorato regionale Agricoltura e Foreste bisogna attendere la relazione 3 maggio 1996 del Col. Antolini, all’epoca Comandante della Sezione Anticrimine di Palermo (dal ‘94 al ‘98). Questi, peraltro, ha dichiarato di non avere ricordi particolari degli accertamenti che furono sollecitati a seguito della Nota del 12 marzo sul conto del predetto “Giovanni” (che fu identificato) e del “Cono”, che invece non fu identificato (dalla sua sezione).
Si trattò, per quanto può ricordare, accertamenti evasi su specifiche richieste del Ros centrale, ma nessuno gli disse che rientravano nel quadro delle indagini su Provenzano o che fossero di particolare urgenza o delicatezza: per lui erano solo accertamenti “di routine”. Del resto, non c’è da stupirsi perché proprio per le indagini più delicate, per questioni di riservatezza e di modus operandi, il Ros centrale operava attraverso le sue varie articolazioni, bypassando le sezioni Anticrimine locali (pur essendo queste ultime inquadrate nel Ros).
LA TESTIMONIANZA DI IERFONE
In pratica, dalla testimonianza del Col. Antolini si evince che egli fu scavalcato dall’allora Tenente Ierfone che pure era in forza alla Sezione Anticrimine comandata dallo stesso Antolini, poiché Ierfone, come già rammentato, era perfettamente al corrente — per esserne stato edotto dal Magg. Obinu— quale fosse la finalità di quell’accertamento; e che il predetto Cono o Colo fosse uno dei soggetti che avevano accompagnato la fonte Oriente all’incontro con Provenzano a Mezzojuso, il 31 ottobre 1995. Ed è lui stesso ad ammetterlo, all’udienza del 17.04.2009: «Io personalmente non ho bisogno di una nota del comando Ros. Per identificare il Cono nel momento in cui mi viene detto che il Cono partecipa e mi viene detto prima di quella Nota, cioè le notizie che mi dà il Colonnello Obinu sono, Maggiore Obinu al tempo, sono antecedenti rispetto a quella nota che arriva (...) nel momento in cui mi parla di soggetti identificati e mi parla di una tale Cono o Colo e mi dà sommariamente anche quegli elementi individualizzanti (...) ho il ricordo che lui cucinava e ho il ricordo della Fiat Campagnola».
E tuttavia non lo disse al suo Comandante e gli lasciò credere che fosse un accertamento di routine. Ma soprattutto, non fece nulla per soddisfare quell’esigenza investigativa (“non faccio nessun accertamento io ma nemmeno la sezione anticrimine di Palermo finalizzata all‘identificazione di Cono”), perché a suo dire, il presupposto investigativo — di cui ovviamente era a conoscenza lui, ma non Antolini — «non inc...lo richiede, anzi mi richiede il contrario, cioè il presupposto investigativo era che la struttura, il dispositivo investigativo, io parlo cli Palermo, ... la sezione anticrimine di Palermo viene attivata solo per una mera verifica dei tempi di spostamento ai fini di un intervento successivo perché la logica del confidente era una logica cli un infiltrato in una realtà sensibile, quale era quella di un soggetto che andava a parlare con Provenzano.
Quindi, andare a fare gli accertamenti su dati di fatto perché con quegli elementi l’unica cosa che la sezione anticrimine poteva fare era andare all’anagrafe di Mezzojuso, ammesso che fosse di Mezzojuso, o all’anagrafe di non so che, per cercare di identificare un soggetto che si poteva chiamare così, ma era sconveniente farlo in quel momento per quei motivi che mi erano stati detti».
E poi ribadisce che l’accertamento compendiato nella relazione Mantile, del 10 maggio ‘96 fu del tutto casuale (pur essendo contestuale agli accertamenti che erano stati demandati alla Sezione Anticrimine di Palermo con Nota del 12 marzo: e infatti la relazione Antolini è del 3 maggio) e non disposto nell’ambito dell’operazione che sarà poi denominata “Apice”; e comunque non era finalizzato all’identificazione del “Cono”.
In sostanza, la spiegazione di Ierfone è che il Ros, o meglio la struttura investigativa nella quale lui stesso era inserito e che dipendeva da una catena di comando che faceva capo direttamente a Mori, passando per Obinu, non aveva interesse a curare quell’accertamento perché bisognava lasciare lavorare la fonte, che in questo caso avrebbe agito come un infiltrato. Come se la Nota trasmessa al Comandante della Sezione Anticrimine (che a quanto pare comandava ben poco) simulasse un’esigenza investigativa in realtà inesistente.
Omette però Ierfone di dire che quando il Col. Antolini comunicò gli esiti dell’accertamento che era stato richiesto (positivo per “Giovanni”, negativo per “Cono” o “Colo”), la speranza che la fonte continuasse ad operare da infiltrato e che fosse lui a condurre fino a Provenzano era già definitivamente tramontata e quindi gli accertamenti mirati identificazione compiuta di tutti i soggetti che avevano partecipato all’incontro di Mezzojuso ed in particolare di quel Colo o Cono che era stato indicato come vivandiere del Provenzano erano più che mai urgenti, in quanto propedeutici all’attivazione di intercettazioni ambientali o telefoniche o altre attività di monitoraggio del soggetto in questione.
E alla fine a quegli accertamenti e a quelle intercettazioni si perverrà, ma solo diversi mesi dopo la morte di Ilardo, e cioè tra settembre e novembre del 1996, con l’operazione denominata “Cilindro” (per assonanza con il nominativo del soggetto da identificare, indicato come “Cono”: cfr. Capitano Stefano Fedele).
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Il blitz di Mezzojuso e la scandalosa e spaventosa morte di Luigi Ilardo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 12 dicembre 2022
Si ha l’impressione di un interesse da parte di Mori e dei suoi uomini a seguire a distanza i possibili sviluppi e ad acquisire elementi sulla rete di favoreggiatori della latitanza di Provenzano senza un impegno diretto del Ros, che tuttavia restava il dominus dell’indagine. Il compito demandata alla “territoriale” era solo quello di identificare ed eventualmente monitorare i presunti favoreggiatori, venendone poi il Ros debitamente informato in modo da restare arbitro di decidere il miglior uso investigativo delle informazioni così acquisite
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Nell’Informativa Grande Oriente del 31 luglio 1996, l’identità del Napoli è ancora coperta; e sebbene l’informativa ricostruisca l’episodio di Mezzojuso con ulteriori dettagli (rispetto al generico cenno contenuto nella relazione dell’11 marzo '96), si continua a parlare di “Cono” e di “Giovanni”. Con la conseguenza che il magistrato titolare del procedimento e a cui il rapporto viene trasmesso non può neppure di propria iniziativa pensare ad attivare eventuali intercettazioni telefoniche o ambientali.
Il colonnello Riccio ha sostenuto che fu il maggiore Obinu a invitarlo a non dare evidenza ai nomi o agli elementi di identificazione dei soggetti che la fonte Oriente aveva indicato come suoi accompagnatori fino al casolare - la cui descrizione e ubicazione, invece nel rapporto viene ricostruita fin nei minimi dettagli - si era incontrato con Provenzano; e lo fece per potere lavorare in tranquillità, senza allarmare i soggetti da attenzionare nello sviluppo delle indagini.
Ora con tutte le riserve che si possono mantenere sulla credibilità di Giuseppe Riccio (le sentenze versate in atti offrono un campionario di apprezzamenti molto severi sulla sua personalità e la propensione a manipolare i dati per fini di autodifesa o per supportare i suoi sospetti e le sue accuse nei confronti dei suoi superiori per avere ostacolato o non avere fatto quanto era in loro potere per in buon esito delle indagini mirate alla cattura di Provenzano) non va trascurato che il rapporto “Grande Oriente” è firmato dal maggiore Obinu, pur precisandosi in calce che esso era stato redatto a compendio dell’indagine svolta dal colonnello Riccio.
E non c’è dubbio che Obinu avrebbe potuto imporre delle rettifiche o delle integrazioni su passaggi così delicati, come la decisione di sfumare i riferimenti ai soggetti indicati come favoreggiatori della latitanza di Provenzano, con riferimento all’episodio di Mezzojuso (cui peraltro è dedicato uno spazio esiguo), e non avesse pienamente condiviso tale decisione.
Peraltro, la giustificazione addotta sarebbe anche plausibile se non fosse per il fatto che non si lavorò in tranquillità su quei soggetti, ma più semplicemente non si lavorò affatto, come del resto non s’era “lavorato” neppure prima.
Bisognerà attendere (come si evince dal certificato richiamato anche nella sentenza qui appellata, e rilasciato il 6 maggio 2003 dalla segreteria dell’Ufficio Intercettazioni della procura di Palermo) fino al 21 ottobre ‘96 per le prime operazioni di intercettazione ambientale a carico del La Barbera Nicolò (e non a cura del Ros) e fino al 14 novembre ‘96 per le prime intercettazioni telefoniche (queste si a cura del Ros, e nell’ambito del proc. nr. 4868/96 N.C.) su utenze riconducibili a Napoli Giovanni (e a Napoli Antonino).
UN RITARDO INSPIEGABILE
Il Magg. Sozzo (che però come si ricorderà viene aggregato alle indagini del Ros alla cattura tra gli altri di Bernardo Provenzano solo a partire dal novembre ‘98), già nel processo Mori/Obinu, aveva fornito un affresco lineare e privo di ombre sulle indagini nei riguardi del suddetto “Cono”, attingendo al patrimonio di conoscenze investigative acquisito dal suo ufficio.
Così ha dichiarato, in quella sede (udienza 3.02.2012), che l’indagine su Nicola La Barbera si sviluppa dopo che l’Arma territoriale era giunta alla sua identificazione come quel Cono di cui aveva parlato Ilardo indicandolo come soggetto che aveva partecipato all’incontro di Mezzojuso e che ospitava Provenzano nella sua latitanza in quel territorio. In particolare rammenta che «siamo stati anche a Mezzojuso, [...] scoprimmo che in quel periodo che lui continuava a utilizzare la stessa Fiat Campagnola verde targata Palermo 950101, che era la stessa di cui aveva parlato Ilardo Luigi riferendo del suo famoso incontro del 31 ottobre. Noi attraverso alcune attività di osservazione ci accorgemmo che ancora il La Barbera continuava a utilizzare quella stessa autovettura e ricordo le estreme difficoltà della operazione, riuscimmo a istallare una microspia ambientale all‘interno di questa macchina, operando in vicolo cieco sotto la finestra in cui dormiva Nicola La Barbera, a Mezzojuso, sotto casa stia praticamente.
Quella attività di intercettazione ha avuto pochissimo frutto perché la Fiat campagnola essendo vecchissima, non avendo nessuna nessuna forma di coibentazione era così rumorosa da rendere totalmente inutile diciamo la captazione sonora». Non ebbe miglior sorte però la microspia installata all’interno dell’abitazione di campagna: non ne sorti alcun elemento utile e poi si scoprì che il La Barbera si era accorto dell’ambientale (l’aveva installata il M.llo Riolo che sarà poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa).
Sozzo però non sa spiegare per quale ragione l’indagine su Napoli Giovanni e su Nicola La Barbera e la loro identificazione sulla scorta degli elementi che erano stati forniti da Ilardo, sia stata intrapresa tanti mesi dopo che quelle informazioni erano state acquisite. Dice di non avere elementi al riguardo, e si avventura in una “difesa d’ufficio”.
[…] A beneficio delle scelte operate dal gruppo di comando del Ros si profila, ad una prima lettura, una spiegazione “indolore”. Fino alla morte di Ilardo, o meglio fino a quando questi agi da infiltrato, si contava sul fatto che questi sarebbe riuscito ad avere con Provenzano un nuovo abboccamento, dando modo di farsi trovare pronti (questa volta) per la sua cattura. Si ritenne quindi che non fosse utile tenere sotto controllo i favoreggiatori, per non correre il minimo rischio di allarmarli e indurre il principale indagato a ridisegnare la mappa dei suoi spostamenti e la rete di favoreggiatori.
In effetti, sembrerebbe questa la situazione fotografata alla data (11 marzo ‘96) della relazione a firma Riccio che fu poi diramata dal Col. Mori a tutte le articolazioni siciliane del Ros (e al I Reparto Centrale), poiché ivi si legge, sempre a pag. 6 e subito dopo il brevissimo cenno all’episodio di Mezzojuso: “Ora tutto è finalizzato, come sempre notiziato nelle varie relazioni di servizio, di cui si fa specifico riferimento per gli aggiornamenti dell‘indagine, ad ottenere un altro incontro con il latitante per catturarlo essendo ormai nota l’area di rifugio e le modalità operative dei suoi favoreggiatori”.
Naturalmente era una scelta discutibile e, con il senno di poi, sciagurata, perché sarebbe stato meglio costruire opportunità investigative alternative, che consentissero di arrivare all’obbiettivo senza attendere l’auspicato rendez vous preannunciato dalla fonte Oriente, invece che puntare tutto su questa unica risorsa, tanto più che erano trascorsi oramai cinque mesi dall’unico incontro di cui la fonte aveva dato notizia certa. Ma si potrebbe al solito parlare di una scelta investigativa improvvida, senza per questo dover dubitare della correttezza e buona fede di chi l’ha compiuta, ritenendo che fosse la più opportuna.
DOMANDE SENZA RISPOSTA
È altresì plausibile che dopo la morte di Ilardo si sia ritenuto che fosse inutile attivare i controlli sui favoreggiatori già noti o facilmente identificabili dando per scontato che fossero ormai bruciati per Provenzano e che questi avesse spostato altrove la sede della sua latitanza.
Ma poi le acquisizioni su Vaglica fecero ipotizzare che non fosse così o che Provenzano fosse tornato a bazzicare la zona di Belmonte Mezzagno; e quindi i soggetti che avevano avuto un ruolo importante nel proteggerne e supportarne la latitanza in quel territorio — come Nicola La Barbera e Giovanni Napoli - tornavano a rivestire un certo interesse dal punto di vista investigativo.
Ma perché delegare quest’attività all’Arma territoriale? E come spiegare l’eccesso di prudenza o l’atteggiamento rinunciatario nei riguardi di Giovanni Napoli? E soprattutto, perché le attività di controllo e intercettazione non partirono non appena deciso che Ilardo avrebbe varcato ufficialmente il Rubicone, passando dallo status di confidente a quello di collaboratore di giustizia, facendo così accantonare definitivamente il progetto di utilizzare Ilardo come infiltrato per giungere alla cattura di Provenzano?
E al riguardo è appena il caso di rammentare che la situazione fotografata alla prima decade di marzo ‘96 nella relazione a firma Riccio era superata già ad aprile, quando, rotti gli indugi sulla decisione di Ilardo di formalizzare la collaborazione con la giustizia. si cominciò a pianificare l’incontro poi effettivamente avvenuto a Roma il 2 maggio con i procuratori di Palermo e Caltanissetta.
Certo è che le indagini su Napoli Giovanni riprendono, o meglio, cominciano, quasi per caso: e cioè perché viene notato più volte recarsi alla masseria del La Barbera, avendosi così riscontro diretto di una continuità di rapporti tra i soggetti che erano stati protagonisti dell’episodio di Mezzojuso.
E finalmente nel novembre del 1996, parte la prima richiesta di intercettazione telefonica autorizzata con decreto nr. 1065/96 del 14/11/96. Seguirà poi a dicembre la richiesta di intercettazione dell’utenza dell’ufficio del Napoli, autorizzata con decreto nr. 13/97 emesso il 13 gennaio 1997, ma revocato dopo cinque giorni. (E agli atti figurano anche due decreti di intercettazioni telefoniche su utenze intestate a Napoli Antonino).
Ancora più inspiegabile — a meno di non volere ritenere convincente la disarmante giustificazione addotta da Ierfone: v. supra — il disinteresse per la figura del soggetto a nome “Cono”, indicato come “vivandiere” (ruolo tipicamente declinato nei riguardi dei soggetti che si occupano delle attività di materiale assistenza di un latitante) del Provenzano; e il conseguente ritardo con il quale partono le prime richieste di disporre le opportune intercettazioni telefoniche e ambientali che peraltro vengono avanzate dal nucleo operativo- comando provinciale di Palermo (e non dal Ros) e sono dirette ad altro magistrato e nell’ambito delle indagini mirate alla cattura di altro latitante. […] D’altra parte, nel pur tardivo avvio e svolgimento delle indagini su La Barbera Nicolò e poi su Napoli Giovanni, Riinase costante la sinergia tra personale del nucleo operativo e personale del Ros come l’interlocuzione sugli sviluppi dell’indagine tra Ierfone e Fedele.
Se ne ricava l’impressione di un interesse da parte di Mori e dei suoi uomini a seguire a distanza i possibili sviluppi e ad acquisire elementi sulla rete di favoreggiatori della latitanza di Provenzano senza un impegno diretto del Ros, che tuttavia restava il dominus dell’indagine. Il compito demandata alla “territoriale” era solo quello di identificare ed eventualmente monitorare i presunti favoreggiatori, venendone poi il Ros debitamente informato in modo da restare arbitro di decidere il miglior uso investigativo delle informazioni così acquisite.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le bombe del “dialogo” e le proteste dei boss contro il carcere duro. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 13 dicembre 2022
La nota dello Sco del 12 agosto 1993 evidenzia che i cinque episodi di strage avvenuti in continente si saldano alle stragi siciliane della primavera-estate del ‘92 in un unico disegno strategico, avente come obbiettivo quello di giungere ad una trattativa con lo stato sui problemi che affliggono l’organizzazione mafiosa, quali la stretta carceraria e il pentitismo
Secondo la tesi accusatoria fatta propria dalla Corte d’Assise di primo grado, il mancato rinnovo di tutti i 334 decreti applicativi del 41 bis venuti a scadenza nel mese di novembre del 1993 fu l’epilogo non annunciato ma concertato e preordinato di un’operazione orchestrata fin dall’inizio - con l’avallo e l’imprimatur del Capo dello stato ma sotto la regia occulta di Mario Mori - per giungere a quel risultato, e avviata già con l’avvicendamento improvviso dei vertici del Dap e la nomina assolutamente inattesa di Francesco Di Maggio a vicedirettore generale, ad affiancare il mite, anziano e imbelle Capriotti.
E la giustificazione addotta dallo stesso ministro di aver voluto con quel gesto dare solo un segnale di distensione che valesse a far decantare la tensione sarebbe soltanto un pretesto per dissimulare la vera e indicibile ragione superiore, performante di quella decisione: attenuare la stretta carceraria, mediante un vistoso ridimensionamento dell’ambito di applicazione di quello strumento normativo e amministrativo, assurto a simbolo della durezza dell’azione repressiva dello stato nei riguardi delle organizzazioni criminali mafiose.
LE DICHIARAZIONI DEL MINISTRO CONSO
[…] Tanto premesso, è necessario tornare ad esaminare, anche a costo di qualche ripetizione, le dichiarazioni di Giovanni Conso , […]. I giudici del processo Mori/Obinu ritengono oggettivamente poco attendibile che l’anziano ministro abbia maturato la sua decisione in assoluta solitudine senza parlarne neppure con suoi più stretti collaboratori (come invece lui ha dichiarato: “Non parlai con i miei collaboratori poiché non mi fidavo e temevo che le notizie finissero sulla stampa....”), e in particolare con i tecnici e i funzionari del dicastero, cioè i funzionari (più esperti e competenti) dell’Ufficio detenuti, che abitualmente istruivano e le pratiche relative ai trattamento dei detenuti e quelle del 41 bis in particolare (e in particolare, il vice direttore dell’Ufficio detenuti dot. Calabria che si avvaleva di uno staff di funzionari tra i quali il dot. Capriotti pur serbando ricordi sfocati della vicenda, annovera la dott.ssa De Carli).
E in effetti sembra davvero poco credibile che non ne abbia fatto cenno al Direttore generale e capo del Dap (e tuttavia è proprio quello che ha sempre dichiarato il dott. Capriotti, che lo avrebbe appreso solo dai giornali); o non ne abbia parlato almeno con il dott. Calabria che è l’autore e firmatario della Nota del 29 ottobre ‘93 che prefigura quale fosse l’orientamento di massima del dipartimento (prima ancora che quello del ministro) per i decreti in scadenza a novembre.
Gli stessi giudici ritengono di contro che «non sussistono concreti e decisivi elementi che consentano di ritenere provato che egli abbia ricevuto impulsi esterni perché non rinnovasse i provvedimenti de quibus»; e che «si deve ammettere la possibilità che egli, reso edotto o. comunque. persuaso del grave pericolo che la massiccia applicazione dello speciale regime previsto dall'art. 41 bis creava per l’ordine pubblico in stretto collegamento con le azioni stragiste di Cosa nostra, si sia autonomamente deciso a ridurne notevolmente il peso. sperando, così. di scongiurare ulteriori, cruente iniziative. Non si può comprendere lo sviluppo degli avvenimenti se non ci si cala nel contesto in cui gli stessi sono maturati, che giustificava profonde preoccupazioni per l’ordine pubblico dettate dall’eventualità di nuovi, sanguinosi attentati posti in essere dai mafiosi».
In realtà sta qui la radice del problema.
Un conto è affermare che, in mancanza di adeguata dimostrazione, non si può imputare la determinazione di inviare un segnale di distensione, momentaneamente cedendo sull’applicazione del regime speciale previsto dall’art. 41 bis, quale frutto di una trattativa con i mafiosi: e sotto questo profilo è credibile l’anziano giurista e Maestro di procedura penale quando, nel rievocare in varie sedi la drammatica contingenza politico istituzionale vissuta in quello scorcio finale del 1993, esclude di avere mai avuto anche solo sentore di trattative tra esponenti dello stato ed esponenti mafiosi […]; altro è concludere che sia stata invece frutto di una riflessione solitaria del ministro Conso , totalmente affrancata da informazioni e suggerimenti esterni, ossia provenienti da apparati istituzionali esterni al suo dicastero, come peraltro gli stessi giudici del processo Mori/Obinu sono propensi a ritenere, quando scrivono di una riflessione del ministro Conso , eventualmente suggerita da altri apparati istituzionali, spinti dalla pressante esigenza di evitare che si realizzassero le fosche previsioni di devastanti attentati.
LA NOTA DELLA DIA
I documenti prodotti dai migliori analisti dei massimi organismi investigativi e di intelligence attivi in quegli stessi mesi mettono in guardia circa possibili collegamenti della ripresa degli attentati con il crescente malessere e i fermenti di protesta che agitavano la popolazione carceraria - e soprattutto i detenuti mafiosi di minore livello o di livello medio - per la durezza delle misure restrittive inerenti al regime del 41 bis, e quindi con la questione del trattamento carcerario, da un lato (cfr. nota Dia del 10 agosto 1993: […]); e, dall’altro, con la linea della fermezza del governo con particolare riguardo all’applicazione sistematica regime speciale predetto (cfr. ancora nota Dia del 10 agosto 1993: “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ed il sostanziale fallimento della campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia, hanno sicuramente concorso, insieme ad altri fattori, alla ripresa della stagione degli attentati.[...]”).
Al contempo, ammoniscono a non mostrare alcun segno di cedimento proprio su quel terreno (“Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”; ed ancora: “Dopo Via Fa tiro gli attentati hanno assunto le caratteristiche di avvertimenti e di intimidazioni. Le bombe, seminando vittime spesso impreviste, lanciano un segnale di grande capacità distruttiva e di efficienza organizzativa, i cui effetti appaiono volutamente circoscritti. È come se gli ispiratori di tale strategia avessero ritenuto di poter raggiungere i propri scopi limitandosi, in un primo momento, a fare sfoggio della propria forza e sottintendendo, al contempo, la minaccia di azioni più devastanti e sanguinose.
Da Via Fauro in poi tutti gli attentati vengono eseguiti al di fuori della Sicilia e sono caratterizzati soprattutto dall’intento di suscitare il massimo clamore possibile e di creare sconcerto e disorientamento tra la gente. Scopo evidente è quello di far cadere il consenso sociale verso l’azione repressiva dello stato contro la mafia e indurre l’opinione pubblica a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il contrasto alla criminalità organizzata.
Siffatta strategia è senz’altro idonea ad insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che, in fondo, potrebbe essere più conveniente abbandonare una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di “cosa nostra” a condizioni in qualche in odo più accettabili da parte dei mafiosi. Un significativo precedente lo troviamo in un recente passato in Colombia, dove le continue stragi poste in essere dai trafficanti di droga costrinsero lo stato a trattare e il Governo a modificare la legge che consentiva l’estradizione dei trafficanti negli Usa).
Ora, se ci si riferisse a simili documenti per inferire che ad essi il ministro potrebbe avere attinto le informazioni riservate poste a base delle proprie valutazioni, non sì farebbe che dare risalto all’antinomia di una scelta operata in netto disaccordo non solo con la linea ufficiale del Governo, ma anche con i suggerimenti degli analisti più avveduti e le informazioni più preganti sugli scenari in atto, sui possibili sviluppi e sulle conseguenze di una scelta di cedimento anche solo temporaneo all’intimidazione mafiosa. E ciò, da un lato, basterebbe a far dubitare che Conso potesse assumersi una simile responsabilità senza il conforto di autorevoli condivisioni della sua scelta.
Dall’altro, si accrediterebbe Conso del potere di accedere ad un circuito estremamente riservato di documenti destinati a circolare solo nell’ambito più ristretto degli addetti ai lavori, anche se proprio sul documento della Dia, che era stato trasmesso lo stesso 10 agosto 1993 in via assolutamente riservata al ministro dell’interno, s’era verificata una limitata fuga di notizie essendo stati pubblicati uno o due articoli sul quotidiano La Repubblica che riportavano alcuni stralci di quel documento (come ben ricorda il dott. De Gennaro).
D’altra parte, il documento predetto, nello sforzo di decrittare la cifra criminale dei tragici avvenimenti di Roma Firenze, Milano, delineava scenari molto più ampi, e non circoscritti al solo obbiettivo di ottenere un allentamento della stretta carceraria per i detenuti mafiosi, che, peraltro, veniva adombrato solo come ipotesi, e nel quadro di una lettura in chiave di generica (finalità di) ritorsione contro il “trasferimento dei boss in particolari istituti di pena, in attuazione dell’art 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario”, e il fatto che le “grazie alle pesanti restrizioni imposte alla vita carceraria ed in particolare all’isolamento, che ha notevolmente limitato ogni forma di contatto con l’esterno, i detenuti non sono più riusciti ad esercitare efficacemente la loro azione di comando dall’interno delle carceri, venendo in tal modo delegittimate perdendo potere all’interno dell’organizzazione”; con la conseguenza che ne “è derivata per i capi l’esigenza di ria/fermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa”
In tal senso non v’è contraddizione tra il tenore dell’analisi sviluppata nel documento e la contestuale presa di posizione dello stesso De Gennaro, in rappresentanza della Dia, nella seduta del 10 agosto 1993 del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza. In quella sede, in fatti, il dott. De Gennaro, al contrario del dott. Di Maggio e dello stesso Capo della Polizia, Parisi, escluse un collegamento diretto tra gli ultimi attentati e la reiterazione dei decreti applicativi del 41 bis [...], optando per una lettura di contesto molto più ampia.
Infatti, pur ritenendo che la matrice degli attentati in oggetto dovesse individuarsi nell’ambito del crimine organizzata, con la certezza che, in tale ambito, Cosa nostra era la componente più accredita del necessario know-how anche sotto il profilo della capacità logistiche ed operative, grazie anche ad una progressiva penetrazione nei circuiti della criminalità locale in città come Roma (con particolare riguardo ai rapporti intessuti con la c.d. Banda della Magliana” e a contatti con appartenenti all’eversione di estrema destra), Milano (che aveva registrato il radicamento di personaggi del calibro di Luciano Liggio, i fratelli Fidanzati, i fratelli Bono e altri), Firenze (con l’insediamento in Toscana di gruppi di estrazione siciliana e napoletana dediti al narcotraffico e confluiti poi sotto la direzione di Cosa nostra) e sull’asse Padova-Venezia, con la conseguente possibilità di operare nelle città colpite dagli attentati anche utilizzando risorse criminali del posto tuttavia il documento apriva all’ipotesi che Cosa nostra avesse agito in sinergia con altre forze criminali portatrici di interessi diversi ma convergenti nel comune obbiettivo di seminare il terrore, alimentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e indebolire l’autorità dello stato; e concludeva rinnovando l’esortazione a non recedere dalla linea della fermezza nell’azione di contrasto all’emergenza criminale in atto: “Lo scenario criminale delineato stillo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza della presenza operativa di “cosa nostra”. Ha altresì lasciato intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa.
[…] Non si tratterebbe, quindi, di una organizzazione di tipo verticistico […]. Non è da oggi che “cosa nostra “, sodalizio dalle connotazioni anche eversive, mantiene collegamenti con altre organizzazioni al fine di supportare ipotesi golpiste o azioni stragiste.
In passato sono stati accertati suoi rapporti con ambienti dell’eversione di destra: valga per tutti l’esempio, ormai giudiziariamente provato, del golpe Borghese. Recenti indagini condotte in Calabria pongono in evidenza l’esistenza di collegamenti fra Franco Freda, all’epoca latitante, ed elementi di spicco della ‘ndragheta reggina, strettamente legati a “cosa nostra’, come si evince dalla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’On.le Romeo. Da ultimo vi è il riscontro offerto dall’esito del procedimento penale sull’attentato al treno rapido 904 del 23.12.1984, che ha consentito di condannare affiliati a “cosa nostra” che operarono in collusione con elementi della malavita napoletana e personaggi legati a gruppi estremisti di destra. Per quanto riguarda il coinvolgimento di ambienti diversi dalla criminalità organizzata, comune ed eversiva, ci sono prove di collusioni con ambienti massonici a rischio.
LE INFORMATIVE DEL CESIS E DELLO SCO
[…] La nota riservata del 6 agosto 1993 a firma del Generale Tavormina. n.q. di segretario generale del Cesis, trasmesso il 7 agosto al ministro dell’interno Mancino, oltre ad individuare in Cosa nostra l’organizzazione criminale più accreditata come responsabile di quegli attentati, sia pure senza escludere l'apporto di altre organizzazioni criminose come la camorra e la ‘ndrangheta o di ambienti affaristici di varia natura legati al mondo dell'illecito o ancora di centrali di potere occulto, e invitando a valutare con attenzione anche la possibilità di collegamenti con l’area dell’eversione di estrema destra, riconduce il più probabile movente alle tensioni e alle pressioni nel settore carcerario. […] E si pone in evidenza il possibile collegamento degli ultimi attentati con la previsione che si era diffusa nell’ambiente carcerario secondo cui i provvedimenti applicativi del 41 bis che andavano a scadere tra il 20 e il 21luglio 1993 (ossia i primi che diedero applicazione concreta, per la firma del ministro Martelli, al nuovo regime di carcere duro) non sarebbero stati rinnovati; “Giova rammentare che, contrariamente alla previsione — largamente diffusa nell‘ambiente penitenziario — secondo cui i provvedimenti di sottoposizione a regime differenziato non sarebbero stati rinnovati alla scadenza, il 16 luglio 1993 il ministro di Grazia e Giustizia, su proposta del Dipartimento, ha proceduto alla proroga, per ulteriori sei mesi, di 244 provvedimenti a suo tempo adottati. È significativa la circostanza che detti provvedimenti sono stati notificati tra il 20 e il 27 luglio 1993. [...]”.
Come evidenziato dalla sentenza impugnata (pag. 2.400), nell’attribuire a Cosa nostra e in particolare alla componente corleonese la paternità degli attentati, sia pure senza escludere altri possibili e concorrenti apporti criminali, la Nota del Cesis individua la causa scatenante della furia stragista nella proroga dei decreti applicativi del 41 bis, decisa dal ministro della Giustizia (Conso ) con propri provvedimenti del 16 luglio, che avrebbero deluso un’aspettativa diffusasi nelle carceri. Il documento non specifica da dove una simile aspettativa avesse tratto origine, ma è lecito supporre che vi avessero contribuito l’avvicendamento improvviso dei vertici del Dap, all’indomani della strage di Firenze (ovvero una settimana dopo), interpretato come un segnale di volere voltare pagina nella politica carceraria del Dipartimento, e il sentore che si ebbe di un effettivo intendimento della nuova governance di modificare in particolare l’orientamento in materia di applicazione del 41 bis, secondo le linee di riforma compendiate nell’Appunto a firma del nuovo Direttore generale Capriotti e trasmesso al ministro Conso in data 26 giugno 1993, che rassegnava l’esigenza di non inasprire il clima di tensione all’interno delle carceri e di lanciare invece un segnale di distensione attraverso opportuni interventi che rimodulassero l’applicazione dell’art. 41 bis, riducendolo in misura significativa.
Certo è che il menzionato passaggio della Nota del Cesis rispecchia la riflessione affidata dal dott. Di Maggio all’intervista a Liana Milella pubblicata su Panorama del 22 agosto a proposito delle bombe di Roma e di Milano come possibile reazione ad aspettative prima suscitate nell’ambiente carcerario e poi deluse. E la corrispondenza non è casuale se si considera che la Nota del Cesis compendia l’esito cui erano pervenuti i partecipanti al gruppo di lavoro interforze che si era costituito per una prima approfondita analisi della situazione all’indomani degli attentati del 27-28 luglio; e a quelle riunioni aveva partecipato anche il dott. Di Maggio.
[…] Un altro documento che, nel contesto di un’analisi più approfondita degli scenari legati agli ultimi attentati e dei possibili sviluppi, ripropone e dà risalto al link tra la questione del trattamento carcerario per i detenuti mafiosi e il probabile movente di quegli attentati (o comunque la strategia criminale ad essa sottesa) è la nota del Sco della Polizia di stato del 12 agosto 1993, […].
La nota del Sco evidenzia tra l’altro che i 5 episodi di strage avvenuti in continente si saldano alle stragi siciliane della primavera-estate del ‘92 in un unico disegno strategico (“cinque attentati verificatisi nelle città di Roma, Firenze e Milano si collocherebbero in un medesimo disegno terroristico, ordito dal gruppo di “palermitani” che si colloca attualmente al vertice di “Cosa nostra”, e rappresenterebbero la prosecuzione della strategia “delle bombe” avviata nel maggio dello scorso anno in Sicilia”) avente come obbiettivo quello di giungere ad una trattativa con lo stato sui problemi che affliggono l’organizzazione mafiosa, quali la stretta carceraria e il pentitismo […]. In tale contesto, gli attentati non erano intenzionalmente diretti a provocare delle stragi, ma servivano a creare le premesse per un trattativa con lo stato, indebolendone l’autorità e seminando il panico nell’opinione pubblica: una trattativa che Cosa nostra avrebbe potuto condurre utilizzando anche canali istituzionali [...]. E l’inciso sulla possibilità che Cosa nostra ricorresse a canali istituzionali è indizio inequivocabile che ai vertici degli apparati investigativi più impegnati sul fronte delle indagini sulla criminalità organizzata si aveva sentore del fatto che un canale di comunicazione fosse stato già aperto per quella ipotetica trattativa; o che, almeno, Cosa nostra avesse già individuato i soggetti che potevano fungere da emissari e intermediari. […] Ma anche per la Nota Sco del 12 agosto vale la considerazione che si faceva prima sul carattere riservato di questi documenti di analisi e sull’esserne la circolazione ristretta ad una cerchia selezionata di addetti ai lavori circolazione (Né v’è sentore di una fuga di notizie come per la nota Dia). […].
LA “SCELTA” DI NON RINNOVARE I DECRETI DI NOVEMBRE
Le ragioni di fondo della scelta di non rinnovare i decreti che scadevano a novembre, che, nelle dichiarazioni testimoniali del 24 novembre 2010, sono appena adombrate, vengono invece focalizzate nel corso dell’audizione che si era tenuta dinanzi alla Commissione parlamentare Antimafia presieduta dal Senatore Pisanu poco meno di 15 giorni rima, grazie a una serie di incalzanti e mirate richieste di chiarimento rivolte all’audito dai vari membri della Commissione.
E senza infingimenti, di quella scelta viene chiesto conto all’ex ministro, anche in relazione ai sospetti e alle accuse circolate in ordine all’ipotesi che potesse rientrare, sia pure a sua insaputa, nel grande gioco di una trattativa tra la mafia e lo stato. […] Anzitutto, nelle dichiarazioni rese alla procura di Palermo, due settimane dopo, lo stesso Conso insiste nella ricostruzione secondo cui la sua scelta si fondava su una speranza che era però supportata dalla consapevolezza di una frattura all’interno di Cosa nostra tra due linee strategiche contrapposte e di un mutamento nelle scelte dell’organizzazione grazie all’avvento di una nuova leadership. Ma mentre è costante l’indicazione dei connotati di questa nuova leadership, è molto più cauto nell’affermare che già all’epoca si sapesse che si trattava di Provenzano. […] E il nocciolo consiste nell’essere stata la scelta di Conso a suo tempo sostenuta non solo da una metafisica speranziella, come pure vorrebbe, il dichiarante, dare a intendere (“A spiegare la mia mancata spinta al rinnovo era proprio questa esigenza di vedere come potevano andare le cose, una speranziella sottesa, senza proclamarla, senza mandare dei messi; lasciar fare alle cose. E probabilmente è stato capito, mi auguro almeno. Oramai sono vent‘anni”), ma da elementi di analisi e di conoscenza della situazione in atto e dei possibili sviluppi, veicolategli da fonti bene informate, che nutrivano quella speranza di un qualche fondamento di ragionevolezza.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Il mistero del fallito attentato contro i carabinieri allo stadio Olimpico. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 14 dicembre 2022
Molto resta da chiarire sulla genesi di quel progetto criminale e le sue reali finalità, che sono state finora forse troppo sbrigativamente saldate in un unico disegno criminoso alle stragi progettate ed attuate nel corso del 1993. Ma non è azzardato affermare che, per le sue proporzioni e gli effetti dirompenti che potevano seguirne, sarebbe stato un evento capace di cambiare il corso della storia del nostro paese.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Molto resta da chiarire sulla genesi di quel progetto criminale e le sue reali finalità, che sono state finora forse troppo sbrigativamente saldate in un unico disegno criminoso alle stragi progettate ed attuate nel corso del 1993, nel solco della ricostruzione operata nei processi di Firenze.
Ma non è azzardato affermare - come chiosa la sentenza impugnata - che, per le sue proporzioni (sarebbe stata una strage senza precedenti per numero di vittime) e gli effetti dirompenti che potevano seguirne, tanto più in una situazione di particolare debolezza delle istituzioni con un Governo dimissionario e un’infuocata campagna elettorale in vista, agitata e avvelenata dalle “scorie” di Tangentopoli, sarebbe stato un evento capace di cambiare il corso della storia del nostro paese.
E se è vero che falli per il difettoso funzionamento del telecomando azionato dal commando incaricato della strage (e il tentativo non fu reiterato anche perché quattro giorni dopo i fratelli Graviano) non si può negare che esso sia stato oggetto di un’accurata e meticolosa preparazione con ripetuti sopralluoghi e ampio dispiegamento di uomini e mezzi come si è accertato anche attraverso l’imponente mole di risultanze incontestate e acquisite a riscontro della dettagliata ricostruzione offerta da Spatuzza (cfr. deposizioni dei testi Massimo Cappotella e Sandro Michele, entrambi funzionari della Dia; e pagg. 28 14-2834 della sentenza di primo grado).
Il giudice di prime cure ne trae una conferma indiretta della validità della ricostruzione fattuale secondo cui Cosa nostra, protesa a rinnovare la minaccia di nuovi eclatanti attentati se non fossero state accolte le sue richieste, non poteva che scorgere in modeste concessioni a favore dei detenuti mafiosi solo un segno di debolezza dello Stato e quindi l’incoraggiamento a proseguire nella via tracciata l’anno prima dal suo capo, Salvatore Riina.
OBIETTIVO: COLPIRE I CARABINIERI
Ma soprattutto, il fatto che obbiettivo della nuova strage progettata allo Stadio Olimpico fossero i Carabinieri, così come la circostanza che essa si saldasse in un unico disegno criminale agli attentati commessi nel medesimo contesto temporale in Calabria (il 2 dicembre ‘93, il 18 gennaio 1994 e l’1 febbraio 1994) ai danni sempre di militari dell’Arma (come pure si evince non solo dalle pur tardive rivelazioni di Conso lato Villani ma anche da un frammento significativo ed assai probante del racconto di Spatuzza a proposito dell’incontro con Giuseppe Graviano al bar Doney, e al riferimento che lo stesso Graviano avrebbe fatto al duplice omicidio dei carabinieri occorso il 18 gennaio 1994: “..lui mi comunica che erano stati uccisi due carabinieri, si erano mossi i calabresi che avevano ucciso due Carabinieri..”); e ovviamente il fatto che non si trattasse di una coincidenza casuale (come del resto fu inteso all’epoca dal Comandante generale dell’Arma, generale Federici, secondo quanto può evincersi da un’annotazione contenuta in una delle agende del presidente Ciampi alla data del 2 febbraio 1994) costituirebbe la riprova che si volesse dare un segnale preciso alla politica, o a quella parte della politica rea di avere fatto arenare la trattativa già avviata, respingendo le richieste che erano state avanzate da Riina; giacché in quella fase della trattativa, erano stati proprio i carabinieri a farsi avanti come emissari dello stato (o almeno così avevano creduto Riina e i suoi luogotenenti).
Si è già detto che questa seconda parte del ragionamento, e le conclusioni cui approda, nonostante alcuni eccessi argomentativi dei quali l’ipotesi ricostruttiva accolta può fare a meno, è largamente condivisibile, grazie anche al riscontro incrociato delle dichiarazioni di Spatuzza e Conso lato Villani: fonti del tutto autonome e non sospettabili di alcuna contaminazione reciproca, che senza sapere nulla l’uno dell’altro delineano entrambi il quadro di una stratega eversiva congiuntamente ordita da Cosa Nostra e ‘ndrangheta calabrese per colpire non più monumenti e vittime indeterminate o casuali, ma direttamente e specificamente l’Arma dei carabinieri.
Fonti supportate dalle dichiarazioni di Brusca, a loro volta incrociate con quelle di Spatuzza, che comprovano l’avere Spatuzza riferito allo stesso Brusca della strage mancata allo Stadio Olimpico, del ruolo di Giuseppe Graviano e dell’essere i Carabinieri obbiettivo di quell’attentato: di tal che ne uscisse chiaro il messaggio intimidatorio per cui, secondo le parole che Spatuzza attribuisce a Graviano (con riferimento alla riunione operativa di Campofelice di Roccella in cui fu progettato l’attentato allo Stadio Olimpico), “chi si deve muovere si dà una smossa”.
E la datazione certa del duplice omicidio di carabinieri in Calabria (18 gennaio 1994) cui aveva fatto riferimento Graviano nell’incontro al bar Doney, a sua volta avvenuto il mercoledì o il giovedì precedente alla domenica nella quale era progettato l’attentato (e quindi il 19 o il 20 gennaio 1994) assurge a formidabile riscontro esterno.
Ma gli ulteriori passaggi del ragionamento articolato in sentenza perdono ogni aderenza con le risultanze processuali. Appare francamente eccessivo e non supportato dagli elementi raccolti, che dalla progettata strage all’Olimpico possa trarsi la prova che, dopo che il Governo aveva mostrato di recepire la minaccia delle cosche mafiose siciliane, lasciando decadere, nel novembre 1993, moltissimi provvedimenti applicativi del regime del 41 bis (e fin qui si può concedere che la scelta di Conso e le ragioni che la motivarono assurgono a prova della ricezione della minaccia da parte del Governo pro-tempore, con tutte le precisazioni già fatte e quelle che ancora seguiranno):
• “Cosa Nostra” aveva immediatamente percepito e raccolto quel segnale di cedimento dello Stato rispetto alla linea della fermezza propugnata;
• che aveva ritenuto, conseguentemente, che l’accettazione del dialogo sollecitato dai Carabinieri stesse producendo i suoi frutti;
• che sarebbe stato utile, per la stessa “cosa nostra”, costringere i Carabinieri a riallacciare le fila di quel dialogo interrottosi con l’arresto di Vito Ciancirnino;
• che ne sarebbe seguita la necessità di lanciare un messaggio che coloro che tra i Carabinieri erano a conoscenza dei pregressi fatti ed approcci avrebbero potuto ben percepire.
SPATUZZA E I FRATELLI GRAVIANO
L’attentato all’Olimpico sarebbe stato quindi «inevitabile effetto del segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis subito raccolto da “cosa nostra” per dare il “colpo di grazia” e piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi».
Tutto ciò appare francamene ridondante e forzoso in simili inferenze è prefigurare addirittura un rapporto di causa effetto tra l’improvvida - secondo la valutazione del primo giudice - decisione di Conso di non rinnovare centinaia di decreti applicativi del 41 bis, e le successive mosse dei vertici di Cosa nostra, a partire dal progetto di attentato allo stadio Olimpico di Roma di cui solo i fratelli Graviano, e segnatamente Giuseppe Graviano sembra essere stato ideatore, oltre che organizzatore e mandante. Senza dire che il ragionamento suesposto glissa sul fatto che l’attentato fu messo in atto il 23 gennaio, quando era imminente, ma non ancora presa e tanto meno annunciata, la decisione sui decreti che scadevano una settimana dopo e che teoricamente avrebbero dovuto stare a cuore dei vertici di Cosa nostra, per il livello degli associati che vi erano interessati, ancora più di quelli scaduti (e non rinnovati) a novembre.
Piuttosto, è verosimile che le spaccature già esistenti avessero già dato luogo, all’inizio del 1994 ad una divaricazione nelle visioni strategiche e nelle conseguenti scelte dei capi dell’organizzazione mafiosa, per cui una parte importante di Cosa nostra, e in particolare quella riconducibile proprio a Provenzano se stiamo alle dichiarazioni di Giuffré e Ciro Vara, aveva sposato con convinzione l’idea di una soluzione tutta politica dei propri problemi, mobilitandosi vuoi per la costituzione di una propria diretta rappresentanza politica (come il movimento “Sicilia Libera” in cui persino il sanguinano Leoluca Bagarella aveva inizialmente creduto e investito), vuoi per appoggiare il nuovo soggetto politico che stava nascendo e prometteva di poter essere un cavallo vincente per Cosa nostra.
Ma ammesso che Giuseppe Graviano non sia stato l’unico ideatore e stratega del fallito attentato allo Stadio Olimpico (come pure farebbe pensare il fatto che, usciti di scena i fratelli Graviano. di quel progetto non si parlerà più benché gli altri capi che avevano concertato la sanguinosa filiera delle stragi in continente fossero ancora tutti liberi; mentre fu portato avanti il progetto di attentato a Contorno, in quel di Formello,) è lecito chiedersi se il disegno stragista coltivato da Giuseppe Graviano e ai suoi sodali non si sia snodato lungo traiettorie e in tempi che ignoravano le scadenze dei decreti applicativi del 41 bis; e che non fossero minimamente influenzati — e influenzabili — nè dalla decisione già adottata di non rinnovare i decreti scaduti a novembre. né della decisione ancora da prendere (l’attentato era programmato per domenica 23 gennaio 1994) alla fine di gennaio ‘94. Se stiamo alla narrazione di Spatuzza, l’ordine di procedere alla concreta organizzazione dell’attentato venne impartito dal Graviano nel corso della riunione tenutasi in un villino a Campofelice di Roccella tra la fine del ‘93 e i primi giorni di gennaio del ‘94 (sul punto Spatuzza non ha saputo essere più preciso, ma nelle sue prime dichiarazioni aveva parlato della fine del ‘93 perché rammentava che il villino in questione era in un residence in località balneare ed era certamente bassa stagione).
Ciò che fa presumere che il progetto fosse stato ideato ancora prima. E la decisione di procedere a quell’eclatante azione criminale s’inquadrerebbe in un contesto in cui, per dirla con le parole che Spatuzza avrebbe udito dalla viva voce dello stesso Graviano c’era in piedi una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati.
Fu in quel medesimo frangente, che il Graviano, forse per ravvivare il morale dei suoi uomini non proprio soddisfatti della piega che stavano prendendo gli eventi, con tanti morti che non centravano niente con Cosa nostra (per dire che erano tutte vittime “innocenti”), li rassicurò che dovevano proseguire sulla strada intrapresa che avrebbe dato i suoi frutti; e al disagio e anche il rammarico manifestato da Spatuzza per quelle morti, replicò seccamente che è bene che ci portiamo dietro un bel po‘ di morti, “così chi si deve smuovere si dà una smossa”.
Ora, il punto è che nell’economia della narrazione di Spatuzza spicca la considerazione che a quella riunione operativa e a quelle parole di Graviano si ricollegano — o almeno Spatuzza dice di avere fatto subito quel collegamento — le parole che sempre il Graviano ebbe a pronunciare in occasione dell’incontro al bar Doney, avvenuto pochi giorni prima della domenica in cui era previsto l’attentato. In tale occasione espresse infatti tutta la sua soddisfazione per come si erano messe le cose, perché, in sostanza “avevamo ottenuto tutto quello che avevamo chiesto”, riferendosi alle garanzie date dai nuovi referenti di Cosa nostra — indicati nelle persone di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri «che erano persone serie, a differenza di come si erano dimostrati quei quattro crasti dei socialisti» («sempre con quell‘espressione gioiosa mi comunica che avevamo chiuso tutto. Che avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo, grazie a delle persone serie che avevano portato avanti questa cosa. Cioè mi riferisce... questa cosa io.. questo incontro lo collego all‘incontro di Campofelice di Roccella. perché quando lui mi dice che avevamo chiuso tutto e ottenuto tutto quello che cercavamo, ricolleghiamo noi l‘incontro di Campofelice di Roccella che avevano portato avanti questa cosa avevano chiuso tutto»).
E Spatuzza spiega di avere operato quel collegamento anche perché fu Graviano a dire «ve l‘avevo detto che le cose andavano a finire bene, di tutto quello che lui mi aveva prospettato lì a Campofelice di Roccella che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie a queste persone che avevano portato avanti questa cosa. E aggiunse — sempre il Graviano — che grazie anche a queste persone c‘eravamo messi addirittura il Paese nelle mani».
"DARE IL COLPO DI GRAZIA”
La strage in programma all’Olimpico, e più esattamente, l’attentato contro i carabinieri, sempre a dire del Graviano «lo dobbiamo fare perché con questo gli dobbiamo “dare il colpo di grazia”: e dunque serviva portarsi dietro tutti quei morti, e che i morti fossero Carabinieri, per coronare il disegno di avere “il Paese nelle mani».
Ciò posto, è di tutta evidenza che, a prescindere dai tempi di effettiva gestazione del progetto di strage allo Stadio Olimpico, la posta in gioco era così alta che non potevano essere le decisioni del ministro o di un intero Governo (dimissionario) in ordine a qualche decina di provvedimenti applicativi (non tutti i 334 decreti scaduti a novembre riguardavano affiliati a Cosa nostra; e lo stesso dicasi per i 232 decreti che furono invece rinnovati con provvedimento del 30 gennaio 1994) a fare la differenza, nel senso di condizionare le scelte strategiche dell’organizzazione, o di quella componente di essa che aveva in Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro i suoi più autorevoli esponenti.
Scelte che erano maturate puntando ad obbiettivi molto più ambiziosi, anche se tra di loro poteva annoverarsi, più che un ammorbidimento del 41 bis, il suo smantellamento (come nelle originarie richieste), insieme alla cancellazione di altri presidi normativi della lotta alla mafia.
Infatti, nella ottimistica prognosi di Giuseppe Graviano si profilava, grazie alle alleanze tessute con nuovi referenti della politica e dell’imprenditoria, la possibilità concreta di mutamenti politico-istituzionali ditale portata da consentire a Cosa nostra di mettersi il paese nelle mani.
In tale prospettiva, il progettato attentato all’Olimpico, destinato questa volta a mietere centinaia di vittime (a differenza di quelle accidentalmente prodotte dalle stragi già consumate a Firenze come a Roma e a Milano) doveva essere una sorta di spallata decisiva ad un sistema sull’orlo dei collasso, il colpo di grazia di cui parlava Graviano.
Se è vero poi che questo piano per essere portato a compimento richiedeva di rinsaldare l’alleanza con le altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, e in particolare con la ‘ndrangheta calabrese, e doveva attuarsi attraverso una serie coordinata di eclatanti azioni dirette a colpire bersagli-simbolo dell’autorità dello Stato, secondo un progetto di destabilizzazione delle istituzioni per favorire nuovi assetti di potere, ben si comprende come un disegno strategico di tale portata non poteva essere condizionato dal mantenimento o dal rinnovo o dalla mancata proroga di alcune centinaia di decreti applicativi del 41 bis (che peraltro non interessavano tutti e soltanto detenuti mafiosi), pur essendo i vertici dell’organizzazione mafiosa certamente informati e interessati a ciò che accadeva nel mondo delle carceri.
D’altra parte, non è un dettaglio di poco conto che, per quanto possa scavarsi nelle fonti documentali e dichiarative compulsate in questo processo, come in quelli che hanno trattato più specificamente l’episodio della strage mancata all’Olimpico (per essere il fatto oggetto di una delle imputazioni per cui ivi si procedeva), e ci riferiamo in particolare alle dichiarazioni dei tanti collaboratori di giustizia escussi, non è emerso neppure una traccia, che sia una, del fatto che i vertici di Cosa nostra abbiano valutato e discusso in qualche modo le decisioni del ministro Conso , e tanto meno che ne abbiano tratto impulso a proseguire sulla via intrapresa. O addirittura a reagire con un nuovo e più tremendo colpo a quello che poteva apparire come un segnale di debolezza dello Stato.
Che possano averne fatto oggetto di valutazione, resta una plausibile congettura, legata alla certezza ampiamente acquisita che le vicende del “carcerario” e la sorte degli associati che languivano ai 41 bis non potevano essere ignorate ed erano seguite dai capi dell’organizzazione.
Ma altro è spingersi a sostenere che la cognizione di quella decisione abbia avuto un qualche impatto sulla decisione di ordire un massacro all’Olimpico. Mentre altre fonti, costituite da collaboratori di giustizia di comprovata affidabilità e che hanno ricoperto un ruolo di spicco durante la loro militanza in Cosa nostra (come Ciro Vara e Antonino Giuffré) avvalorano con le loro dichiarazioni l’ipotesi che almeno una parte cospicua dell’organizzazione era ormai orientata da aprire un capitolo completamente nuovo nella storia dei rapporti tra mafia e politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La memoria rimossa sul maresciallo Lombardo: il Maigret antimafia liquidato come suicida. Una perizia della famiglia punta a far riaprire il caso della morte in caserma. Il carabiniere che rivendicò nella lettera testamento di avere avuto un ruolo nella cattura di Riina, voleva riportare in Italia Tano Badalamenti detenuto negli Usa. Il figlio: “Fu ucciso per questo”. Sara Lucaroni su L’Espresso il 14 dicembre 2022.
Pioviggina ma il finestrino della Fiat Tipo di servizio è tirato giù. Un maglione verde, la mano destra sulle gambe stringe la Beretta calibro 9. Sul sedile accanto, un biglietto bianco graziato dal sangue. È scesa la sera su Palermo e sul parcheggio interno della “Bonsignore”, il comando regionale dei carabinieri. L’Italia è a tavola, mentre il primo processo per la morte di Paolo Borsellino è in corso, Totó Riina è in carcere, Giulio Andreotti sta per andare alla sbarra, Gaetano Badalamenti in Italia non verrà.
Il 41 bis e i “segnali” istituzionali, un nuovo capitolo della Trattativa? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 15 dicembre 2022
Non v’è dubbio che quello che si voleva lanciare all’esterno era un segnale molto preciso, perché affidato ad un intervento articolato in due fasi, che prevedeva prima di non rinnovare i decreti in scadenza a novembre. E poi (seconda fase), di procedere invece al rinnovo in blocco dei decreti in scadenza alla fine di gennaio ‘94 e concernenti posizioni di detenuti presumibilmente di maggiore spessore criminale
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Nel rivendicare la validità della propria scelta, e senza recedere dal rivendicarne la paternità esclusiva, Conso ha tenuto a sottolineare come nessuno abbia protestato, e gli stessi pm che avevano chiesto l’adozione dei provvedimenti applicativi del 41 bis non hanno mosso alcun rilievo dopo il mancato rinnovo dei decreti scaduti a novembre.
Tutti si sono acconciati ad attendere la prova dei fatti (“stiamo a vedere cosa può succedere”). E la sua conclusione è che “i fatti mi hanno dato ragione”. Questa considerazione introduce ad un aspetto importante della vicenda, che va tenuto presente anche per intendere il senso della scelta di Conso : che fu, all’unisono, di non rinnovare i decreti applicativi del primo elenco, quello delle posizioni teoricamente di minor rilievo; e di rinnovare invece, e pure questa volta in blocco, i decreti concernenti i soggetti del secondo elenco.
Il segnale che così si voleva lanciare a chi poteva intenderlo, come del resto lo stesso Conso ha detto tra le pieghe della sua audizione, era che il 41 bis non era in discussione, come presidio fondamentale per l’azione di prevenzione tutela della collettività contro il rischio di aggressione da parte delle mafie e di perpetuazione del potere dei mafiosi; ma si poteva discutere o metterne in discussione l’applicazione o il rinnovo per i soggetti che non si riconoscessero nello stragismo, o a carico dei quali non v’erano elementi per ritenere che fossero compromessi con lo stragismo.
Né si può affermare che la scelta operata due mesi dopo di rinnovare in blocco (o quasi: ben 232 i decreti che vennero rinnovati) che andavano a scadere il 31 gennaio 1994 sia stata determinata da una levata di scudi, che non ci fu, o da proteste da parte di qualcuno. Né giornali, né i dirigenti responsabili dei massimi apparati investigativi, né ambienti giudiziari o esponenti politici o istituzionali gridarono allo scandalo o mossero il benché minimo rilievo all’operato del ministro, neppure quando ne vennero a conoscenza.
Come dice Conso, preferirono stare a vedere cosa succedeva; oppure, aggiungiamo, non colsero la rilevanza della vicenda.
Solo il presidente della commissione Antimafia, Luciano Violante prese l’iniziativa di chiedere, con nota del 10 novembre 1993 indirizzata al ministro della Giustizia e al Dap, una formale relazione sullo stato di applicazione del 41 bis e su quale fosse al riguardo l’indirizzo del Ministero. Un atto di vigilanza critica che però ebbe una risposta evasiva sul punto cruciale, come si vedrà in prosieguo, e non diede luogo a ulteriori richieste di chiarimento.
“DOPPIO BINARIO”
Si può quindi credere all’ex ministro quando sostiene che furono portati alla sua attenzione entrambi gli elenchi dei detenuti le cui posizioni dovevano essere vagliate ai fini dell’eventuale rinnovo del 41 bis; e afferma di avere deciso di rinnovare in blocco i decreti che scadevano a gennaio nello stesso momento in cui decise di non rinnovare quelli del primo elenco.
Meno credibile è quando afferma che, pur sapendo bene che anche i detenuti di questo primo elenco erano soggetti pericolosi, perché altrimenti non sarebbero stati sottoposti a suo tempo al 41 bis e quindi sarebbe stato necessario svolgere specifici accertamenti per verificare se la loro pericolosità persistesse, non lo fece perché le posizioni da esaminare erano troppe e il tempo a disposizione troppo poco.
È lecito dubitarne perché, come si evince dalla testimonianza del dott. Aliquò, già intorno alla metà di ottobre, o anche prima ferveva la discussione sull’eventuale rinnovo e il ministro aveva già manifestato (a Di Maggio) l’intendimento di non procedere al rinnovo.
Vi sarebbe stato quindi tutto il tempo di esaminare almeno una buona parte delle posizioni da decidere; o comunque il ministro avrebbe potuto incaricare il suo staff di segnalargli le posizioni meritevoli Di Maggiore attenzione. Inoltre, lo stesso metodo egli adottò, con esito speculare, per i decreti in scadenza a gennaio, che vennero rinnovati in blocco, senza esaminare le singole posizioni.
Ma si è accertato che il parere preventivo per questa seconda tranche di decreti fu espresso dalla procura distrettuale di Palermo già con Nota del 13 dicembre 1993, pressoché contestuali furono i pareri delle varie forze di polizia consultate in quell’occasione, sicché residuava un ampio margine di tempo per procedere ad un esame più accurato delle singole posizioni.
Ma il punto è che già ad ottobre il ministro aveva preso la sua decisione, che non era frutto di un’applicazione ponderata del 41 bis, ma dell’intento di lanciare un preciso segnale e in una precisa direzione (pugno di ferro per capi e promotori; gesto di indulgenza per chi non fosse compromesso con lo stragismo). E a tal fine era necessario che entrambe le decisioni, ancorché di segno opposte, fossero adottate senza distinguere tra le singole posizioni, ma utilizzando solo un criterio discretivo congruo a fare intendere quel segnale.
Come già accennato, ciò che nelle dichiarazioni testimoniali rese alla procura di Palermo riesce di più difficile comprensione, e fa quindi pensare inevitabilmente a un “non detto” sono le ragioni su cui si fondava la speranza che avrebbe pervaso la scelta di Conso. E in particolare, la speranza che la nuova leadership mafiosa succeduta a Riina abbandonasse la linea della contrapposizione violenta allo Stato.
I fatti (come pure è stato contestato a Conso in sede di audizione parlamentare) non giustificavano una simile speranza, perché Riina era stato arrestato il 15 gennaio 1993 ed erano seguiti, a partire da maggio del medesimo anno, ben 5 episodi di strage. E dunque, non si vede come si potesse sperare che il vento fosse cambiato, che chi aveva preso il posto di Riina, che fosse Provenzano o altri, avesse in animo di abbandonare la linea dura.
Si poteva davvero confidare puramente e semplicemente nella “speranziella” che il successore di Riina fosse una persona più equilibrata o meno esageratamente ostile? Nella sua audizione dinanzi alla commissione Antimafia, Conso adombra tre elementi fattuali che avrebbero concorso a dare corpo alla sua dichiarata speranza. Anzitutto, il prolungato silenzio di Cosa nostra, che da diversi mesi si asteneva dal porre in essere nuove azioni eclatanti. E come ripeterà anche alla procura di Palermo, quel silenzio poteva essere foriero di un mutamento di strategia.
UN SEGNALE DI DISTENSIONE PER QUALCUNO?
In realtà, se si considera che la decisione di Conso fu maturata già a ottobre, dagli ultimi tragici eventi delittuosi erano trascorsi solo tre mesi: solo un mese di più del tempo trascorso tra la strage di via dei Georgofili e la decisione che il ministro aveva adottato con convinzione e cognizione di causa il 16 luglio, di rinnovare quasi tutti i decreti che scadevano tra il 20 e il 21luglio 1993.
Pertanto, quella diversa lettura che fece del silenzio di Cosa nostra doveva fondarsi su elementi più concreti di un’astratta speranza, elementi di cui il ministro non disponeva ancora quando, il 16 luglio, adottò una decisione di segno opposto. Nel corso della sua audizione parlamentare Conso indica tali elementi nella riduzione di Riina, cioè la sua progressiva perdita di potere conseguente al prolungarsi della detenzione in condizioni di rigoroso isolamento (e della vicenda relativa alla detenzione di Riina il ministro Conso ebbe ad occuparsi personalmente, su sollecitazione del collega Mancino, a seguito di incandescenti polemiche per il trattamento privilegiato di cui Riina avrebbe goduto per non avere fatto, a distanza di mesi dal suo arresto, un solo giorno di carcere duro a Pianosa o all’Asinara, restando detenuto a Rebibbia: polemiche destinate a placarsi proprio nello scorcio finale del ‘93, quando finalmente fu avviato l’iter per l’assegnazione di Riina all’Asinara); e la importanza di Provenzano, cioè un accresciuto ruolo del capo corleonese, al punto da essere indicato come il nuovo capo di Cosa nostra e comunque ritenuto in grado di imporre la propria linea, che non sarebbe stata quella voluta da Riina.
Era quindi inevitabile che al dichiarante si chiedesse di spiegare di spiegare in che modo e attraverso quali canali il successore di Riina (ovvero, Provenzano o chi per lui) avesse manifestato il proposito di cambiare strategia; e, se ciò avvenne, come il ministro ne ebbe sentore. E la risposta è tutt’altro che convincente, perché rimanda a notizie diffuse dai giornali dell’epoca, che certamente non potevano darle perché, semmai, all’epoca circolava addirittura la voce che Provenzano fosse morto. […] Egli [Conso], infatti, senza negare di avere ricevuto informazioni riservate, ma senza neppure confermarlo e tanto meno rivelare da chi fossero venute, dirotta il discorso: e specifica, in pratica il contenuto delle informazioni che pure non vuole ammettere di avere ricevuto […].
In conclusione, e al netto di possibili assonanze con la relazione del senatore Pisanu, presidente della Commissione, che aveva ripercorso tutta la stagione delle stragi fino alla svolta e che Conso ripetutamente nel corso della sua audizione mostra di avere letto con attenzione facendovi più volte riferimento, senza tuttavia dare l’impressione di ricalcare la sua ricostruzione, il dato che emerge dalle dichiarazioni di Conso è quel dichiarato intento di lanciare un segnale di distensione che valesse a far decantare la tensione senza che potesse interpretarsi come una manifestazione di debolezza dello Stato: come comprovato dalla contestuale decisione di rinnovare in blocco i 232 decreti che scadevano alla fine di gennaio e concernevano le posizioni degli associati mafiosi ritenuti di maggiore spicco. Una contestualità cui il giudice di prime cure non ha ritenuto di attribuire invece alcun rilievo.
Era comunque un’operazione che comportava un certo rischio, e che per la prima tranche urtava con la linea della fermezza ribadita dal Governo Ciampi. Se quindi avesse comunicato le sue intenzioni in anticipo, ne sarebbero seguite polemiche e contrasti che avrebbero impedito di portarla a compimento.
Premesse di quell’operazione erano l’essere Conso, da un lato, edotto che c’era (o era altamente probabile) un nesso tra le più recenti ed efferate azioni stragiste e la stretta sul versante carcerario determinata anche alla pressione esercitata dai quasi mille decreti applicativi del 41 bis ancora in vigore (erano 909, complessivamente, alla data del 26 giugno), sinonimo di “carcere duro” e fonte di crescenti proteste e polemiche; e, dall’altro, preoccupato da fosche previsioni che davano per probabili se non imminenti ulteriori devastanti iniziative stragiste.
Ma ciò premesso, non v’è dubbio che quello che si voleva lanciare all’esterno era un segnale molto preciso, perché affidato ad un intervento articolato in due fasi, che prevedeva prima di non rinnovare i decreti in scadenza a novembre, nella presunzione (in parte di comodo) che concernessero posizioni meno rilevanti in quanto si trattava dei decreti che erano stati emessi, tra l'11 novembre 1992 e il 27gennaio 1994, dal vice direttore Fazzioli nell’esercizio della potestà delegata dal ministro Martelli (delega circoscritta appunto alle posizioni dei soggetti ritenuti sempre tanto pericolosi da meritare il regime di detenzione speciale, ma di non particolare spicco nell’ambito delle Consorterie di appartenenza, o solo contigui a cosche mafiose). E poi (seconda fase), di procedere invece al rinnovo in blocco dei decreti in scadenza alla fine di gennaio ‘94 e concernenti posizioni di detenuti presumibilmente di maggiore spessore criminale.
D’altra parte, nelle settimane e nei mesi precedenti alla decisione di lasciare spirare il termine di efficacia dei decreti di novembre non era accaduto nulla di particolarmente significativo all’interno del mondo carcerario, ovvero situazioni che potessero avere determinato un brusco innalzamento del livello di tensione nelle carceri, come era accaduto per esempio a febbraio, con i fatti di Poggioreale, a seguito dell’omicidio del vice Brigadiera Pasquale Campanello; o con le ricorrenti segnalazioni di abusi e maltrattamenti dei detenuti reclusi a Pianosa, sempre tra febbraio e marzo del ‘93 [...]. O almeno nulla che potesse giustificare una decisione che ribaltava quella che lo stesso Conso aveva adottato appena qualche mese prima quando aveva rinnovato quasi per intero i decreti che scadevano a luglio.
Non è anzi azzardato ritenere che in quell’autunno del ‘93 si fosse addirittura spenta l’eco del documento di protesta dei familiari dei detenuti di Pianosa, o comunque sottoposto al 41 bis; e delle altre segnalazioni ed esposti che avevano motivato indagine ispettive e visite di parlamentari a Pianosa e all’Asinara. Così come sembravano essersi affievolite doglianze e proteste che si levavano dalla massa della popolazione carceraria e di cui s’erano fatti interpreti, con vibranti documenti di denuncia, alcune organizzazioni cattoliche molto attive nel mondo delle carceri e a favore dei bisogni e dei diritti dei detenuti (come l’organizzazione dei Cappellani delle Carceri).
[...] E soprattutto egli [Conso] prende nettamente posizione a favore del modello del doppio binario anche per ciò che concerne l’applicazione del 41 bis: massimo rigore nei riguardi dei detenuti affiliati alle consorterie mafiose; maggiore flessibilità nei riguardi dei soggetti i cui legami con ambienti della criminalità organizzati - e soprattutto, la persistenza di tali legami - non potevano desumersi automaticamente dal titolo di reato per cui erano detenuti. Un modello di pensiero che però la scelta operata per i decreti di novembre non rispecchia affatto.
Ci si chiede allora quale fosse stato il fatto nuovo che poteva avere indotto il ministro al così radicale, in apparenza, revirement attuato con la decisione di lasciare scadere i decreti di novembre, rispetto all’opposta decisione di quattro mesi prima. E l’unico fatto nuovo non poteva che essere la recrudescenza dello stragismo mafioso, con le bombe di Roma e di Milano. Ma non solo questo.
“IL PROBABILE TRIANGOLO MORI – DI MAGGIO – CONSO”
Era subentrata una consapevolezza che evidentemente mancava in precedenza, che vi fosse un collegamento specifico tra queste efferate azioni criminali e la pressione che non accennava a diminuire sui detenuti mafiosi per i quali, erano stati confermati e prorogati i decreti di sottoposizione al 41 bis emessi nella fase di prima applicazione della normativa varata all’indomani della strage di via D’Amelio.
E tuttavia si traviserebbe il senso della scelta di Conso, e del segnale che si volle mandare all’esterno, se ci si fermasse al dato di questa acquisita consapevolezza. Perché questa stessa consapevolezza, unita alla determinazione di dare una risposta adeguata alla gravità della minaccia, non contraddice ed è anzi alla base della decisione di rinnovare invece i decreti che andavano a scadere alla fine di gennaio, come si evince dalla motivazione del provvedimento emesso il 30 gennaio 1994: […]. Può quindi convenirsi con il giudice di prime cure che una lettura “solitaria” della lettura degli accadimenti di quei giorni non possa giustificare la decisione del ministro; che qualcuno deve averlo edotto di ulteriori elementi di conoscenza dei fatti, che egli, poi, ha valutato, facendone derivare quella sua autonoma decisione finale; e che tali elementi non possono che essere quelli indicati dallo stesso Conso e rimandano a una differenziazione di posizioni all’interno di Cosa nostra tra un’ala dura, facente capo al sanguinano Rima e una componente più moderata, capeggiata da Provenzano, interessato agli affari e, quindi, “meno esageratamente ostile” allo Stato.
Ma se è vero che fu la conoscenza di questa differenziazione che fece maturare in Conso la convinzione che la sua decisione di non prorogare quel consistente numero di decreti del 41 bis in scadenza nel novembre 1993 per lanciare un segnale di distensione, nella speranza che la linea “meno esageratamente ostile” di Provenzano potesse prevalere, non si può concludere che quella decisione sostanzialmente raccoglieva il suggerimento del D.A.P fino ad allora da lui disatteso di non inasprire ulteriormente il clima carcerario e che, conseguentemente, non vi sarebbero più state stragi. In realtà, il ministro ebbe contemporaneamente ben presente la necessità di riaffermare il carcere duro nei confronti di capi e personaggi di maggiore spessore, e diede corso a questa scelta, anche a costo di attuarla in modo tranciante senza, operare alcuna distinzione tra le singole posizioni individuali. […].
Le risultanze che seguono comprovano che in effetti fu Francesco Di Maggio la fonte delle informazioni riservate che furono valutate al ministro per adottare le sue decisioni. Ed è altresì altamente probabile - ma non più di tanto - che sia stato a sua volta Mario Mori a rendere il Di Maggio edotto delle conoscenze più profonde e aggiornate, che erano all’epoca in possesso del R.O.S., sulla posizione e il ruolo di Bernardo Provenzano e sulla diversità di vedute strategiche rispetto al suo titolato compaesano.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’ombra dei servizi segreti nelle nomine ai vertici delle carceri. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 16 dicembre 2022
Può dunque dirsi provato che fu Parisi a suggerire a Scalfaro il nome di Di Maggio; e il suggerimento incontrò il pieno gradimento del presidente, [...] verosimilmente perché Scalfaro aveva avuto modo di registrare una piena consonanza di vedute sulla necessità di trovare una dignitosa via d’uscita da Tangentopoli, per arrestare la deriva delle istituzioni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Esiste una diversa lettura che meglio si accorda con tutti i dati disponibili sulla vicenda.
Francesco Di Maggio è perfettamente al corrente di cosa bolle in pentola, e avvisa per tempo la procura di Palermo di tenersi pronti a intervenire. Ma poi succede qualcosa, che lo induce a lasciare correre, a non contrastare quella iniziativa.
Certo è che egli neppure a fatto compiuto riterrà di parlarne con la procura di Palermo, magari per sollecitare la trasmissioni di quelle specifiche indicazioni sulle posizioni dei detenuti Di Maggiore rilievo che avrebbero potuto indurre il ministro a un ripensamento della propria decisione: se è vero che alla procura di Palermo non se ne parlò più al punto che la dott.ssa Principato ha candidamente confessato di avere saputo di questa vicenda solo a seguito delle indagini sfociate in questo processo. E dopo l’annotazione di suo pugno scritta su quella risposta della procura di Palermo del 30 ottobre, egli tace. Non v’è traccia di sue comunicazioni ufficiali, e neppure di Note o appunti da allegare all’archivio dell’ufficio detenuti, né ulteriori richieste di chiarimenti.
Nulla che faccia trapelare una sua netta opposizione alla decisione del ministro, fatti salvi gli sfoghi personali con soggetti a lui particolarmente vicini, da cui si evince la sua insoddisfazione, il suo dissenso su come erano state gestite certe questioni che inerivano il 41 bis e il suo rammarico per essersi lasciato prendere la mano.
Ma la tempra e l’energia e l’irruenza del personaggio, che non si peritava di mettersi a muso duro contro il ministro, erano tali che è arduo credere che egli non avrebbe fatto fuoco e fiamme per contrastare una scelta così delicata e ditale rilievo strategico, se non l’avesse condivisa o non si fosse trovato nella condizione di non potervisi opporre (magari perché era una scelta suggerita o assecondata dagli autorevolissimi sponsor che ne avevano favorito la designazione a Vice Capo del Dap: ipotesi non peregrina).
C’è, in effetti, la notizia confermata da Capriotti e da Calabria di contrasti molto accesi anche con il ministro e addirittura di una lite che sarebbe occorsa proprio nel periodo in questione (tre o quattro mesi dopo l’immissione in possesso, che risaliva la 16giugno 1993) secondo il ricordo di Capriotti che ebbe ventura di entrare nella stanza del ministro proprio durante quella lite furiosa). Ma non c’è stato verso di far dire a Capriotti se l’oggetto della lite riguardasse questioni inerenti al 41 bis; ed anche Calabria è stato molto generico sui motivi dei contrasti tra Di Maggio e Calabria, limitandosi a dire che vertevano soprattutto sul modo in cui impiegare consistenti aliquote di personale della Polizia penitenziaria
Ma in quella frase che la Ferraro attribuisce a Di Maggio in un momento particolarmente vibrante, in cui lei confessava al suo amico il biasimo e la delusione per una decisione che sembrava tradire tante convinzioni ideali da entrambi condivise si coglie il senso dell’atteggiamento molto combattuto con cui il Di Maggio deve aver vissuto quella vicenda; e si capisce anche il disappunto per il modo in cui era stata confezionata la Nota del 29 ottobre.
Ed invero, il silenzio di Di Maggio, come già detto, è già una spia eloquente del fatto che egli avesse, alla fine, condiviso la scelta del ministro, o vi avesse prestato acquiescenza. Lo dimostra soprattutto il silenzio serbato, a fatto compiuto, con i responsabili di quegli stessi apparati investigativi che lui stesso aveva voluto rendere partecipi di un osservatorio permanente sullo stato di applicazione del 41 bis; e il silenzio con la procura di Palermo, a fatto compiuto e dopo che in precedenza l’aveva invitata a tenersi pronta ad interloquire.
Ed ancora il silenzio con i suoi amici e abituali commensali delle cene romane, anche nel periodo in cui si snodò tale vicenda, che ricoprivano ruoli apicali negli apparati investigativi o di intelligence dell’epoca: non una parola, se stiamo alle loro testimonianze, ai vari Ganzer e Morini, con i quali la vicenda non avrebbe mai formato oggetto di commenti, o di esternazioni di qualunque genere da parte del Di Maggio, neppure a titolo di sfogo personale.
La verità è che il 29 ottobre 1993, i giochi sono ormai fatti. Non v’è ragione di dubitare dell’affermazione di Conso quando dice che aveva già preso la sua decisione fin da quando gli erano stati sottoposti i distinti elenchi di detenuti per i quali scadevano i due gruppi di decreti.
E già prima del 30 ottobre, quando annota il suo contrariato stupore sulla Nota di risposta della procura di Palermo (ma con riferimento all’iniziativa dell’Ufficio Detenuti), Di Maggio era informato sia dell’imminente scadenza di un gran numero di decreti applicativi, sia della discussione che ferveva in merito e dell’orientamento del ministro, che si mostrava propenso a non prorogarli. Ed ecco la ragione del suo disappunto.
Volendo ricamare sulle sfumature semantiche dell’espressione testuale che la Ferraro attribuisce al Di Maggio, dovrebbe inferirsene che egli si fosse prestato ad un’operazione che però era andata oltre i limiti da lui stesso divisati (mi son lasciato prendere la mano). E in effetti, l’operazione per come si stava realizzando, e poi si realizzò concretamente, travalicava i limiti che lui stesso aveva preventivato o deragliava rispetto al tracciato immaginato.
Quello che certamente egli aveva condiviso era uno sfoltimento massiccio del 41 bis, utile a lanciare un segnale di distensione da dispiegarsi però in una direzione precisa: al popolo di Cosa nostra e delle altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, ma a beneficio delle seconde linee, di coloro che non potevano, per il loro minore rilievo all’interno delle Consorterie di appartenenza, avere avuto alcun ruolo e corresponsabilità nelle scelte strategiche dello stragismo mafioso, mentre la linea dura andava riconfermata con fermezza nei riguardi dei capi o di coloro che per il fatto di continuare a ricoprire ruoli apicali, e per la loro fedeltà ai corleonesi potevano reputarsi corresponsabili dello stragismo.
Ma a tal fine, e affinché il messaggio risultasse chiaro e nitido, era essenziale distinguere. E non bastava che alla decisione di sfoltire la massa di decreti c.d delegati si accompagnasse la contestuale decisione di prorogare in blocco il secondo gruppo di decreti, quelli che andavano a scadere il 31 gennaio 1994 e che riguardavano nella loro quasi totalità figure di spicco delle varie organizzazioni mafiose.
NOMI DI MAFIOSI ALTISONANTI
Anche all’interno del gruppo dei decreti delegati, che riguardavano in teoria personaggi di minore spessore, era necessario operare un’analoga selezione, individuando i personaggi che ad onta della loro classificazione fossero meritevoli di un trattamento più rigoroso.
L’operazione che la Nota del 29 ottobre lasciava adombrare non rispecchiava queste caratteristiche.
Anzitutto per le sue dimensioni, traducendosi in un totale e indiscriminato azzeramento in pratica di tutti i (residui) decreti che erano stati a suo tempo emessi nell’esercizio della potestà delegata dal ministro Martelli ai “tecnici” del Dap (ne restavano 373 alla data del 26 giugno, ma nei mesi successivi per diverse decine erano intervenuti provvedimenti di revoca o non si era proceduto al rinnovo di quelli in scadenza) e in una sollecitazione a circoscrivere il più possibile il ricorso allo strumento del 41 bis. Si era quindi approfittato di quella occasione - e lo si evince anche da alcune assonanze testuali - per rilanciare alcune delle linee programmatiche condensate nell’Appunto a firma Capriotti del 26 giugno che già Di Maggio aveva dimostrato di non condividere, almeno in linea di principio.
Tra l’altro, se si può prestare fede alle pur reticenti e confuse dichiarazioni rese da Capriotti alla Dda di Caltanissetta il 6 dicembre 2011, tra i motivi della lite o comunque dei contrasti che Di Maggio ebbe con il ministro Conso v’era anche la questione della delega a provvedere sull’applicazione del 41 bis, che Di Maggio avrebbe voluto per sé, mentre Conso non delegò né a lui né al Direttore Capriotti, anche se (come ben rammenta il dott. Ardita) non vi fu mai un provvedimento formale di revoca della delega che a suo tempo era stata disposta dal ministro Martelli.
Già nel preambolo del documento programmatico del 26 giugno si rassegnava come dato di certezza che la delega in oggetto non era più operante. E adesso si completava l’opera, spazzando via tutto ciò che era rimasto dell’esercizio di quella delega.
Ma soprattutto, si era rinunciato a qualsiasi selezione, impedendo di fatto alle autorità inquirenti consultate di poter fornire tempestivamente le informazioni che avrebbero potuto giustificare quella selezione, con il risultato che nel mucchio di figure effettivamente di secondo piano (pur trattandosi sempre di soggetti pregiudicati o imputati per reati gravissimi che andavano dall’omicidio all’estorsione aggravata al traffico di stupefacenti, commessi nell’ambito delle associazioni criminali di appartenenza) finivano per beneficare di quel gesto di distensione anche personaggi di levato spessore criminale e mafiosi di rango: come i 16 affiliati a Cosa nostra specificamente elencati nell’informativa illustrata dal teste Bonferraro, tra i quali anche esponenti di spicco delle famiglie mafiose di Trapani, Messina e di Catania; e, per ciò che concerneva Cosa nostra palermitana, spiccavano i nomi di Di Carlo Andrea, della famiglia mafiosa di Altofonte, fratello di Di Carlo Francesco, Antonino (detto “Nenè”) Geraci, storico capo mafia di Partinico e Giuseppe Farinella, storico capo mafia di San Mauro Castelverde con competenza su un vasto territorio madonita, entrambi componenti, peraltro, della Commissione Provinciale di “cosa nostra”; oltre a “seconde linee” che però appartenevano a storiche “famiglie” dell’organizzazione mafiosa, quali Francesco Spadaro (figlio del noto Tommaso detto “Masino” Spadaro), Spina Raffaele, della famiglia della Noce, (cognato del noto Raffaele Ganci e di Gambino Giacomo Giuseppe), Francesco Scrima, famiglia di Porta Nuova, imparentato con Pippo Calò, Giuseppe Gaeta, di Termini Imerese, esponente di spicco del mandamento di Caccamo, Giuseppe Fidanzati, che proveniva dalla famiglia mafiosa dell’Arenella, Prestifilippo Giovanni (già pure componente della “Commissione”), Diego Di Trapani, della famiglia mafiosa di Cinisi.
E senza trascurare ovviamente, personaggi come Grippi Leonardo, cognato di Tagliavia Francesco (che alla fine sarà condannato per la strage di Firenze e connessi reati) ed esponente di spicco della famiglia di Corso dei Mille, e Giuliano Giuseppe, della famiglia mafiosa di Brancaccio (che sarà condannato per le stragi in continente); nonché quel Vito Vitale che però solo anni dopo scalerà le gerarchie dell’organizzazione divenendo il capo della famiglia di Partinico.
E se di qualcuno dei predetti poteva essere incerta l’effettiva e attuale collocazione nello scacchiere degli schieramenti mafiosi, di molti dei predetti poteva dirsi quanto meno che appartenevano a famiglie storicamente alleate dei “corleonesi”.
Si può dunque comprendere perché Di Maggio abbia confidato alla sua amica Liliana Ferraro che si era lasciato prendere la mano. E tuttavia la rassicura che ce l’avrebbero fatta, invitandola a non dubitare del suo proposito di portare a compimento, sul versante della politica carceraria, quello che era stato il disegno di Giovanni Falcone.
E non è azzardato scorgere lo zampino del Di Maggio in alcune delle decisioni adottate dal ministro Conso alla fine di gennaio ‘94, quando vennero rinnovati quasi in blocco i decreti che riguardavano i detenuti mafiosi Di Maggiore calibro. Si può concedere che, come ha dichiarato Conso, tale decisione fu presa contestualmente a quella di non prorogare i decreti delegati, operando un taglio netto tra i due gruppi di decreti. Ma è certo che si ebbe anche qualche intervento correttivo degli esiti prodotti dal mancato rinnovo di quei decreti.
In particolare, tra le posizioni che potevano far gridare allo scandalo, almeno una platea di addetti ai lavori, v’erano quelle di Nené Geraci, capo del mandamento di Partinico, e storico alleato di Salvatore Riina; di Andrea Di Carlo, della famiglia mafiosa di Altofonte, che faceva parte dello zoccolo duro dello schieramento corleonese; di Giuseppe Grassonelli, boss in ascesa della mafia agrigentina, oltre ai citati Farinella Giuseppe e Grippi Leonardo. Ebbene, mentre per 6 decreti c.d. delegati venuti a scadenza tra il 27 e il 31 gennaio 1994 si adottò la medesima decisione già presa di farli decadere senza rinnovarli [...], di contro, per Geraci Antonino si lasciò scadere (il 27 gennaio’94) il decreto delegato che prevedeva un 41 bis “attenuato”, ma tre giorni dopo venne emesso un nuovo decreto applicativo del 41 bis e a firma del ministro.
Allo stesso modo si procedette nei riguardi di Di Carlo Andrea e di Grassonelli Giuseppe, mentre per Giuliano Giuseppe bisognerà attendere altri due mesi per analogo ripristino del 41 bis, con provvedimento emesso dal ministro il 30 marzo ‘94 (e ancora più tempo trascorrerà per il ripristino del 41 bis a Farinella Giuseppe, 2 agosto ‘94; e per Grippi Leonardo, 30 novembre 1994).
IL PRESIDENTE SCALFARO E VINCENZO PARISI
Sotto altro profilo va ribadito che l’orientamento dell’Ufficio che aveva specifica competenza in materia, e cioè l’ufficio detenuti, era sempre stato favorevole ad un ridimensionamento significativo dell’ambito di applicazione del 41 bis. […] Ma è pure vero che tale orientamento, e le ragioni di cui si nutriva, si sposava armonicamente con tutta una linea che sottotraccia percorreva gli ambienti istituzionali e faceva capo al presidente Scalfaro, molto sensibile a pressanti richieste di andare incontro alle voci di sofferenza che si levavano dal pianeta carcere, veicolategli dai rappresentanti di organizzazioni cattoliche a lui molto vicini, ed anche alle denunce e
segnalazioni di abusi e maltrattamenti nell’applicazione in particolare dei regime speciale previsto dal 41 bis; e sensibile altresì al rischio che quella sofferenza andasse ad alimentare la violenza mafiosa, per ritorsione o per dare soddisfazione agli affiliati che soffrivano le conseguenze del carcere duro e ai loro familiari. I quali, peraltro, già s’erano fatti vivi a febbraio del ‘93 - contestualmente ai gravi fatti di Poggioreale, e ai disordini seguiti alla decisione di applicare il 41 bis ai due penitenziari napoletani - con quell’esposto dai toni minacciosi, cui erano seguiti a distanza di tre mesi, gli attentati di via Fauro, a Roma e di via de Georgofili, a Firenze.
È plausibile che la certezza che quel documento, che per rigore semantico, proprietà di linguaggio e scorrevolezza denota il possesso di un’istruzione persino superiore alla media, provenisse da ambienti organici o contigui alla criminalità mafiosa, suscitasse preoccupazione negli apparati di polizia e dei servizi addetti alla sicurezza del Presidente.
E se ci si cala nel clima dell’epoca, potevano persino destare impressione, anche se si tratta di mere suggestioni che non trovarono poi alcun concreto fondamento, la coincidenza che il primo attentato, che segnava la ripresa dell’offensiva stragista, fosse stato ai danni di Maurizio Costanzo, che figurava tra i destinatari dell’esposto; e il secondo attentato, commesso a Firenze ai piedi della storica Torre delle Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, ma anche in prossimità della chiesa di S.Stefano e Cecilia, richiamava in qualche modo un altro dei destinatari di quell’esposto, il vescovo di Firenze.
E se Scalfaro era preoccupato che il malessere e le voci di protesta che si levavano dal mondo carcerario potesse infiammare o fornire pretesto per una recrudescenza della violenza stragista, il Capo della Polizia Vincenzo Parisi è altrettanto preoccupato delle ripercussioni sull’ordine e la sicurezza pubblica della crescente tensione nelle carceri.
Risale forse ai fatti di Poggioreale, e alla decisa presa di posizione del Capo della Polizia per un’immediata revoca del 41 bis che era stato applicato indiscriminatamente a tutti i detenuti dei due penitenziari napoletani, il primo scricchiolio delle convinzioni di Parisi sulla necessità di attestarsi sulla linea della fermezza nell’applicazione del regime di detenzione speciale, senza fare alcuna concessione (soprattutto a fronte di una dichiarata disponibilità e prontezza della controparte interessata ad un ammorbidimento a desistere da proteste e disordini o peggio iniziative violente, come era accaduto negli incontri svoltisi alla prefettura di Napoli con i rappresentanti dei detenuti di Napoli Secondigliano e Poggioreale).
E che le convinzioni iniziali di Parisi possano essere vacillate — e siano vacillate nel misurarsi concretamente con le conseguenze immediate che la tensione nelle carceri, esasperata dai rigori del carcere duro, poteva produrre sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla sicurezza collettiva anche all’esterno del carcere — si desume non solo dalle dichiarazioni di Nicolò Amato, che assemblano conoscenze del tempo insieme al portato di una sua successiva personale rielaborazione e rimeditazione dei fatti, ma anche dalla testimonianza del Prof. Arlacchi, consulente per anni della Dia. Questi conferma che Parisi ebbe, sul 41 bis, un orientamento ondivago, perché da convinto fautore della sua utilità come strumento di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa, cominciò nel tempo a nutrire dubbi, paventandone le ripercussioni sull’ordine pubblico. Ma c’era anche una ragione più profonda a dire dello stesso Arlacchi, che spiegherebbe la complessità dell’atteggiamento del Capo della Polizia sul tema.
[…] Ebbene, facendo un passo indietro rispetto all’autunno del ‘93, e tornando all’avvicendamento dei vertici del D.A.P., la sostituzione improvvisa di Nicolò Amato, fortemente voluta dal Presidente Scalfaro, per le modalità con cui fu attuata, fu, come già rilevato, espressione della volontà di dare un segnale nella logica del capro espiatorio, ma non soltanto.
Si dava in pasto una vittima sacrificale e al contempo si apriva la strada a un mutamento nell’indirizzo di politica carceraria che, ad onta della posizione ufficiale del Governo Ciampi appena insediatosi, fosse più attento agli aspetti della tutela dei diritti dei detenuti che alle esigenze di prevenzione e difesa della collettività contro il rischio di aggressioni delle organizzazioni criminali.
Il disegno di favorire un nuovo corso della politica carceraria, coagulatasi su un asse che passava per il rapporto preferenziale che legava Scalfaro a Parisi e la vicinanza del Capo dello stato ad ambienti cattolici particolarmente sensibili alle istanze di tutela della popolazione dei carcerati, trovava peraltro terreno fertile tra i tecnici e i funzionari del Dap..
Ed è innegabile che Amato avrebbe potuto rappresentare un ostacolo sia perché insofferente di qualunque pretesa di ingerenza nelle prerogative dei vertici del Dipartimento e dell’Amministrazione cui faceva capo, che era quella del Ministero di Grazia e Giustizia e non l’Amministrazione dell’interno e tanto meno i vertici della Polizia [...]; sia perché pur essendo lui stesso favorevole ad un superamento della normativa emergenziale di cui il 41 bis era un tipico prodotto, tuttavia avrebbe desistito dalla più rigorosa applicazione di questo strumento eccezionale soltanto nel quadro di un riassetto complessivo del sistema carcerario che attenuasse gli aspetti puramente afflittivi del regime speciale di detenzione, facendo però salva l’esigenza di recidere per il detenuto mafioso ogni possibilità di comunicare con l’esterno e di mantenere legami che gli consentissero di perpetuare il suo potere; e sottoponendo comunque i detenuti mafiosi ad un trattamento penitenziario differenziato, con restrizioni funzionali al soddisfacimento delle esigenze di sicurezza e di prevenzione (sia pure senza necessariamente tradursi in una maggiore afflittività).
Ma fino a quando fosse rimasta in vigore la normativa emergenziale, Amato ne sarebbe stato inflessibile custode e fermamente determinato ad assicurarne la sua più rigorosa osservanza, respingendo qualsiasi pretesa di interferenza o pressione da parte di altre Amministrazioni.
IL CUORE DEL PROBLEMA
Ed allora, si torna a quello che giustamente il dott. D'Ambrosio indicava come il cuore del problema. Esso non riguarda le ragioni dell’improvvisa sostituzione dei vertici del Dap. e il ruolo propulsivo che vi ebbe il Quirinale, che può dirsi ormai accertato. E non riguarda tanto l’individuazione di chi volle che fosse Di Maggio, (letteralmente sconosciuto al ministro che lo nominò su proposta di un Direttore del Dap., Capriotti, che a sua volta non sapeva chi fosse) ad andare a ricoprire il posto di Vice di Capriotti. Anche sotto questo profilo può dirsi accertato l’input di Scalfaro sia pure su suggerimento di Parisi.
Le annotazioni contenute nell’agenda di Ciampi sono illuminanti sul punto e non lasciano adito ad alcun dubbio. Anche se non è tanto rassicurante il sospetto che attraverso la mancanza di trasparenza associata allo stravolgimento di regole di competenza e procedure nel pervenire a quelle nomine abbia finito per proiettarsi sulle relative scelte l’ombra lunga dei Servizi.
A parte il legame di Parisi con l’ambiente da cui proveniva, non è rassicurante che un altro “suggeritore”, e cioè Monsignor Fabbri, che si è intestato di avere suggerito il nome di Capriotti sapendo che sarebbe stato gradito a Monsignor Curioni, abbia candidamente confessato di essere da anni legato a esponenti qualificati dei Servizi; tanto legato da non avere avuto remore a farsi consigliare e istruire se convenisse rispondere alla citazione della procura di Palermo per essere sentito sulla vicenda che aveva visto coinvolti i due alti prelati nella concertazione del successore di Nicolò Amato.
[…] Può dunque dirsi provato che fu Parisi a suggerire a Scalfaro il nome di Di Maggio; e il suggerimento incontrò il pieno gradimento del Presidente, [...] verosimilmente, perché, se si assemblano gli spunti offerti dalle testimonianze di Gaetano Gifuni e di Tito Di Maggio, c’era già stato un approccio poco tempo prima sul tema dell’inchiesta Mani Pulite, e Scalfaro aveva avuto modo di registrare una piena consonanza di vedute sulla necessità di trovare una dignitosa via d’uscita da Tangentopoli, per arrestare la deriva delle istituzioni. E dava garanzie di affidabilità che un personaggio del genere fosse al vertice operativo del Dap. perché la gestione dei pentiti in carcere ed anche il trattamento detentivo cui erano sottoposti i soggetti coinvolti nell’inchiesta Mani Pulite nei suoi tanti rivoli e filoni erano tra i punti dolenti della vicenda, e stavano a cuore sia di Scalfaro che di Parisi.
Ma è lecito chiedersi se le ragioni della scelta di Francesco Di Maggio non attenessero “anche” o “piuttosto” a quelle stesse ragioni che avevano indotto Scalfaro ad accelerare la defenestrazione di Nicolò Amato. Sotto questo decisivo aspetto, le risposte che il giudice di prime cure e la sentenza impugnata hanno dato nel motivare l’adesione al costrutto accusatorio, fanno risaltare, piuttosto, la fragilità ditale costrutto.E per le ragioni già esposte, è solo una scorciatoia dialettica, che non spiega e tanto meno prova alcunché, rifugiarsi nella considerazione che se Di Maggio, che pure aveva fama di essere un duro, fu preferito per il ruolo di Vicedirettore a Giuseppe Falcone, a sua volta scartato perché ritenuto troppo duro, allora vuoi dire che Di Maggio era stato catechizzato a dovere da Parisi, il suggeritore di Scalfaro su come interpretare il ruolo per cui era stato designato.
Nel prospettare questa conclusione come unica spiegazione possibile, […] si omette poi di considerare che Parisi poteva avere anche altre ragioni che ne giustificavano l’interesse a cogliere la palla al balzo — sfruttando l’occasione offerta dalle ambascerie per la nomina del Vice di Capriotti — per piazzare una persona di propria fiducia in un posto così strategico (per la gestione dei pentiti in carcere, per il controllo dei colloqui investigativi, per drenare o prevenire possibili abusi del pentitismo a tutela degli esponenti politici che potevano essere animi da propalazioni calunniose o delegittimanti; per avere all’interno del Dap e in posizione influente una persona non pregiudizialmente avversa a intromissioni dell‘Amministrazione dell’interno nella gestione delle vertenze più delicate: [...]); sia pure senza escludere l’eventualità di servirsene come pedina più o meno inconsapevole di una gestione flessibile del 41 bis.
[…] Ma la ricostruzione sposata dal giudice di prime cure vola ancora più in alto, perché dà per certo che Parisi, condividendo con Mario Mori l’obbiettivo di un ammorbidimento del 41 bis, che nell’ottica di Mori avrebbe dovuto facilitare lo sviluppo del dialogo a suo tempo avviato con Cosa nostra per giungere ad un intesa che ponesse fine alle stragi, abbia a sua volta ricevuto da Mori il suggerimento di caldeggiare la nomina di Di Maggio, notoriamente molto vicino ad ambienti dell’Arma e anche ad Alti Ufficiali con incarichi di rilievo anche nel Ros. (come il generale Ganzer) e negli apparati di sicurezza (come il Col. Bonaventura e il Maggiore Morini).
Si tratta ancora una vota di una catena di congetture, in parte plausibili ma prive di qualsiasi elemento di prova che le supporti. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
I colloqui investigativi nelle celle all’origine del “Protocollo Farfalla”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 17 dicembre 2022
Diverse e qualificate fonti confermano quanto Mori fosse interessato al tema dei colloqui investigativi, tanto da farne oggetto di incontri e interlocuzioni con diversi esponenti istituzionali: non solo con Di Maggio, ma anche, e prima ancora, con Liliana Ferraro. Del resto, questo strumento faceva parte della cultura investigativa di vecchia scuola di cui Mori, a dire del prof. Arlacchi, era convinto interprete...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Diverse e qualificate fonti confermano quanto Mori fosse interessato al tema dei colloqui investigativi, tanto da farne oggetto di incontri e interlocuzioni con diversi esponenti istituzionali: non solo con Di Maggio, ma anche, e prima ancora, con Liliana Ferraro, che infatti aveva la delega del ministro per le autorizzazioni ai colloqui investigati (per detenuti o internati, nonché imputati, mentre per gli indagati la competenza era del pubblico ministero) e che, già al processo Mori/Obinu aveva confermato di avere ricevuto sollecitazioni, in particolare dal Ros (ma mai da Di Maggio), nel senso di un allargamento della sfera dei possibili delegati ai colloqui.
Del resto, questo strumento, molto più di quello costituito da una formale collaborazione con la giustizia, faceva parte della cultura investigativa di vecchia scuola di cui Mori, a dire del Prof. Arlacchi, era convinto interprete e che puntava sull’apporto dei confidenti e quindi sull’attivazione di sempre nuove fonti confidenziali che consentissero di acquisire notizie aggiornate dall’interno delle organizzazioni mafiose, grazie alle soffiate di chi ne faceva ancora parte.
Ma già dalla testimonianza di Ganzer, che pure è attento a rimarcare come lo il Ros ricorresse a questo strumento con le dovute autorizzazioni (lui stesso cita ad esempio il colloquio investigativo da lui avuto con Salvatore Biondino al carcere di Pianosa, previa rituale autorizzazione), trapela come l’interesse a sfruttare le potenzialità dei colloqui investigativi non andasse disgiunto da quello di ampliarne la fattibilità oltre i limiti imposti dall’art. 18 bis.
Ganzer e Mori, infatti, nel rivolgere proprio a di Di Maggio la richiesta di segnalare in anticipo eventuali segnali di cedimento di detenuti al 41 bis, contavano sul fatto che questi avesse attivato propri sensori che lo mettessero in condizione di captare quei segnali e quindi di informarne il Ros, nella persona di Mori o dello stesso Ganzer (e già una simile prassi sarebbe stata di dubbia compatibilità con il rispetto delle competenze e dei doveri di un alto dirigente del Dap). E questa aspettativa collimava con il progetto che Di Maggio aveva in niente, secondo quanto riferito, da Morini, di dare vita ad una rete di intelligence interna alle carceri, in cui, essendo la raccolta di informazioni di interesse investigativo l’obbiettivo principale, la captazione della disponibilità di qualche detenuto a collaborare con gli inquirenti si integrava con lo sviluppo successivo costituito dalla prassi di colloqui investigativi.
Una prassi che però per funzionare nella logica dell’attivazione di una rete di fonti confidenziali dovevano lasciare meno tracce possibili e quindi passare attraverso la collaborazione diretta dei direttori dei penitenziari rimanendo però all’interno del sistema carcerario.
Sono i colloqui investigativi un po‘ sconsiderati, cioè praeter legem, di cui ha parlato appunto Loris D'Ambrosio, riferendosi ad una prassi vista con favore da una certa cordata istituzionale della quale avrebbero fatto parte Mori e Di Maggio propensa ad un uso flessibile del 41 bis, in funzione dell’instaurazione di rapporti confidenziali.
PROTOCOLLO FARFALLA
E quanto questo disegno sollecitasse l’interesse di Mori lo dimostra la vicenda del c.d. “Protocollo Farfalla”, che prenderà corpo, tra il 2003 e il 2004, sulla base di accordi intercorsi tra Mori, n.q. di direttore del Sisde, e Tinebra, quale Direttore Generale del Dap (con la “complicità” del dott. Leopardi, preposto all’Ufficio Ispettivo del Dipartimento) e che costituì il tentativo più compiuto di dare concreta realizzazione al progetto che dieci anni prima Di Maggio aveva adombrato, facendone verosimilmente oggetto di promettenti interlocuzioni con Mori (che però non ebbero poi ulteriori sviluppi perché Di Maggio, dopo burrascosi contrasti con il nuovo ministro Biondi, fu prima emarginato - e si limitò a collaborare con la Ferraro all’organizzazione del Convegno Onu sul Crimine organizzato tenutosi a Napoli nel novembre del 1994 a dire di Ganzer - e poi lasciò il Dipartimento, nel novembre del 1994 l)
Al riguardo, all’udienza del 12.05.2017. Felice Ierfone ha riferito di avere personalmente curato l’operazione Farfalla, dopo che era transitato tra i ranghi del Sisde. L’operazione prevedeva il reclutamento di detenuti sottoposto al 41 bis come terminali di una rete destinata a raccogliere informazioni all’interno delle carceri su possibili propositi e progetti di destabilizzazione che potessero involgere questioni di sicurezza nazionale, e da qui l’interesse del Servizio. C’erano state agitazioni e manifestazioni di protesta all’interno delle carceri, e alcune clamorose esternazioni (ndr. di Bagarella e di Aglieri, ma quest’ultimo sul terna della dissociazione), anche con toni di minaccia all’indirizzo di avvocati dei boss.
L’operazione fu avviata a partire dal 2002 sulla base di accordi tra il vertice del Dap, nella persona del dott. Tinebra e il Direttore del Servizio, il generale Mori. Questi accordi non furono mai consacrati in documenti ufficiali anche se agli archivi del Servizio figurano diversi documenti classificati sull’operazione.
Il teste è apparso a disagio quando gli è stato chiesto se talvolta i documenti che venivano trasmessi dall’interno del Dap sui contatti o sulle informazioni acquisite presso i detenuti, o sul loro “profilo”, venissero distrutti e non conservati negli archivi del Servizio: in sostanza non lo esclude.
Ha confermato poi che lii bypassato il dirigente del Dap che avrebbe avuto competenza specifica (si trattava anche di autorizzare tra l’altro contatti e colloqui tra agenti del Servizio e detenuti al 41 bis), e cioè il dott. Sebastiano Ardita, e che il suo referente diretto all’interno del Dap fu piuttosto il dott. Leopardi che in effetti era a capo dell’Ufficio Ispezioni e Controlli dello stesso Dap. Fu redatta una lista di detenuti al 41 bis per i quali si ventilava la possibilità di inserirli nel programma (tra loro c’era anche Di Giacomo Giuseppe). Era previsto anche un compenso in denaro, ma da erogare senza passare attraverso funzionari del Dap.
Fu aperto un procedimento penale istruito forse nel 2007 dalla procura di Roma ma conclusosi con un’archiviazione. Nessun funzionario del Servizio per quanto a sua conoscenza fu indagato. Lui stesso (Ierfone) fu sentito dalla procura di Roma e poi anche dal Copasir.
UN DOCUMENTO RISERVATISSIMO
Tra gli atti acquisiti figurano un documento con classificazione originaria riservato, datato 24 maggio 2004 e avente ad oggetto “Settore carcerario mafioso. Operazione “Farfalla”. Pianificazione”, che riassume il contenuto e le linee programmatiche dell’Operazione convenzionalmente denominata Farfalla.
Premesso che «nel contesto dell’attività informativa sviluppata in direzione del “carcerario” mafioso era stata a sito tempo pianificata un‘attività d‘intelligence finalizzata a realizzare un‘articolata penetrazione informativa “intramuraria”, supportata — sulla base di riservati moduli di raccordo — da concomitante azione del Dap, attraverso l’ingaggio di preindividuati detenuti appartenenti alle maggiori strutture criminali autoctone», il documento illustra poi in dettaglio “le linee di gestione operativa dei sottoelencati detenuti che, in esito ad una mirata strategia di “approccio” (avviata sin dal settembre dello scorso anno), si sono resi disponibili a garantire un flusso informativo di natura fiduciaria di tematiche di specifico interesse istituzionale, a fronte di un idoneo compenso da definire”, precisando che le linee di gestione operativa predette erano state definite nel corso di appositi contatti con dirigente del Dipartimento dell‘Amministrazione Penitenziaria.
Si raccomandavano poi sotto il profilo operativo e considerato lo stato di detenzione degli interessati, «modalità digestione “peculiari”, necessariamente ‘‘intermediate” da personale del Dap responsabile dello sviluppo dei contatti, nel quadro di una programmazione strategica di competenza del Servizio, volta a determinare priorità di intervento e finalità d‘impiego di ogni singolo fiduciario (nell’ottica di ottimizzarne progressivamente l‘efficienza e l‘efficacia) ed a garantire il controllo delle informazioni assunte (verifica di attendibilità ed affidabilità della fonte) e dell’operazione (sicurezza soggettiva e di contesto)».
Tra le linee guida dello sviluppo dell’operazione si erano concordati la gestione finanziaria a carico del Servizio e il criterio della remunerazione della produzione “a ragion veduta”, in funzione della qualità delle informazioni e del conseguimento di risultati info-operativi strettamente rientranti tra gli obbiettivi istituzionali; ed inoltre, una pianificazione dell’attività di ricerca informativa calibrata in base alle presunte potenzialità dei singoli fiduciari e comunque funzionalizzate alla penetrazione delle strutture criminali di appartenenza (con particolare riguardo a: strategie delittuose, interessi economico-finanziari, localizzazione di latitanti, individuazione di soggetti di vertice, equilibri interni e dinamiche relazionali esterne), al monitoraggio dei circuiti carcerari di interesse e in progressione, ad avvenuto consolidamento del rapporto — all‘attuazione di progetti di intelligence di più ampio respiro»: frase che allude alla possibilità di un salto di qualità nelle regole di ingaggio, ma al contempo proietta ombre inquietanti sull’asservimento delle risorse così reclutate per progetti di intelligence di più ampio respiro.
E’ stato acquisito poi un altro documento riservato, datato 23luglio 2004, indirizzato all’attenzione del Direttore del Servizio (cioè di Mario Mori) avente ad oggetto: “Settore carcerario mafioso. Progetto Farfalla. Situazione”, che, nei riprendere i contenuti del precedente elaborato, fa il punto della situazione, segnalando che lo sviluppo dell’operazione aveva consentito la redazione di appunti informativi che erano stati trasmessi l’uno al ministero della Giustizia (in data 25.06.2003) e l’altro ai Ministeri dell’Interno e della Giustizia (in data 16.07.2004).
[…] Il documento riscuoteva l’assenso del Direttore, come si evince dall’annotazione manoscritta su foglio intestato al “Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica - Ufficio del Direttore”, e datata “24.7.04”, unitamente alla raccomandazione di “continui e puntuali raccordi con la dirigenza del Dap”. Nonostante i costanti richiami alla necessità di raccordarsi con la Dirigenza ed il personale del Dap, ed anzi proprio per questa ragione, ve n’è abbastanza per giustificare i pesanti apprezzamenti formulati dal dott. Ardita sui profili di illegittimità del Protocollo Farfalla.
Anzitutto, per lo stravolgimento dei principi che regolano l’ordinamento penitenziario a causa della contaminazione che ne scaturiva tra le attività e le finalità d’istituto del personale del Dap e le finalità di stretta intelligence e di esclusivo appannaggio del Servizio cui l’operazione era asservita, al di fuori di qualsiasi controllo dell’A.g. e restando quindi opaco l’uso delle informazioni raccolte: […].
Inoltre, il ricorso a fonti confidenziale ingaggiate dietro remunerazione non prometteva nulla di buono sotto il profilo dell’attendibilità e della genuinità delle informazioni raccolte (“si tratterebbe di una prassi totalmente illegale dal punto di vista dell’ordinamento penitenziario, ecco, io a quello mi riferisco, sarebbe una prassi che non solo va ad incidere sui colloqui investigativi, ma addirittura potenzialmente può creare un inquinamento.
Allora rifacendosi all’esempio di poc’anzi, se una persona diciamo... A una persona vengono rivolte domande prima che collabori con la giustizia e poi viene dato un contributo economico, magari connette le due cose e ritiene che la risposta a quella domanda sia l’effetto del contributo, questa è una cosa assolutamente diciamo... Rappresenta un pericolo, ecco, un pericolo grave. mi auguro che non sia mai successo, che non sia mai accaduto un contatto del genere. Per quello che mi riguarda e che so, ritengo che non sia accaduto, ma diciamo che... Mi auguro sinceramente che non sia accaduto”). SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Un reato ma senza “dolo”, ecco perché sono stati assolti i capi del Ros. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 18 dicembre 2022
Scrivono i giudici della Corte d’Appello che “il reato si è perfezionato”, e che “Mori abbia materialmente contribuito a tale perfezionamento”. Ma le finalità del suo agire sono incompatibili con la configurabilità a suo carico di un dolo di concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello stato, essendo suo obbiettivo esclusivo non già di corroborare la minaccia mafiosa, bensì di sterilizzarla...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Detto questo, altra considerazione merita l’ipotesi che Mori abbia in qualche modo interloquito con Di Maggio, nell’imminenza dell’operazione poi attuata con la scelta del ministro Conso di non rinnovare la massa di decreti (delegati) in scadenza a novembre - ed è certo che si siano incontrati il 22 ottobre per discutere di problematiche attinenti ai detenuti mafiosi al 41 bis, sia pure sotto l’angolazione particolare dei colloqui investigativi (cfr. Ganzer: “il senso era quello di vedere se attraverso il 41 bis c ‘erano segnali di cedimento di qualcuno”) - coltivando un suo interesse strategico a quell’esito.
Purché si tenga presente che l’operazione deve essere valutata nel suo insieme, e quindi come comprensiva della decisione di rinnovare in blocco i decreti che andavano a scadere alla fine di gennaio del ‘94, decisione che, a dire dello stesso Conso, fu contestuale a quella apparentemente di segno opposto di lasciare spirare il termine di efficacia di quelli che facevano parte del gruppo di detenuti presumibilmente di minore spessore criminale.
Ed invero, l’interesse (primario) di Mori ad una gestione selettiva, e in questo senso “flessibile” del 41 bis, funzionale all’instaurazione di rapporti privilegiati a fini di intelligence, e cioè per alimentare una rete di potenziali fonti confidenziali, poteva anche allargarsi e intrecciarsi ad una prospettiva di più ampio respiro, che conservasse però una connotazione marcatamente selettiva.
In tale prospettiva poteva inquadrarsi un’operazione come quella descritta da Conso e incentrata su una precisa e contestuale duplice decisione, anche se emessa in due tempi, per rispettare i diversi termini di scadenza dei rispettivi decreti: non rinnovare in blocco i decreti concernenti le posizioni teoricamente di minore spessore senza motivare tale scelta in funzione di un esame delle singole posizioni, proprio perché l’intento era di lanciare un preciso segnale di “distensione” al popolo di Cosa nostra e alla componente più moderata dell’organizzazione mafiosa; e al contempo, prorogare parimenti in blocco, e per le stesse ragioni - che qui giocavano con effetto speculare - senza entrare nel merito delle singole posizioni, i decreti concernenti i capi e i soggetti di più elevata pericolosità.
UN MESSAGGIO PER GLI AFFILIATI
E il messaggio che si voleva lanciare era forte e chiaro: pugno di ferro contro i capi e promotori delle organizzazioni criminali, coloro ai quali poteva addebitarsi la corresponsabilità nelle scelte strategiche che avevano condotto in particolare Cosa nostra ad uno scontro frontale con lo stato e le istituzioni, rinnovando l’offensiva stragista; un gesto di indulgenza, invece, e di buona volontà nei riguardi della sofferenza e del disagio delle seconde linee, degli elementi di minore rilievo per non avere ricoperto ruoli apicali o non essersi macchiati dei crimini più gravi, per quegli affiliati insomma dei quali poteva presumersi che non avessero responsabilità dirette nell’adozione di scelte strategiche di cui pagavano solo il prezzo.
E un simile messaggio era perfettamente consentaneo ad una offerta di dialogo che fosse rivolta non già all’organizzazione mafiosa nella sua interezza e tanto meno ai vertici corleonesi in senso stretto, e cioè capi e strateghi dello stragismo mafioso, bensì a quella componente che si era certi esistesse e vantasse autorevoli rappresentanti in Cosa nostra che aveva subito la scelta dello stragismo senza condividerla ed era quindi propensa ad abbandonare quella linea.
Ed allora si torna all’ipotesi ricostruttiva più aderente, o almeno meno lontana dalle risultanze processuali per ciò che concerne le finalità — in ipotesi — perseguite dal Ros diretto da Mario Mori già a partire dall’iniziativa che era stata intrapresa nell’estate del ‘92 con i contatti instaurati con Vito Ciancimino: incunearsi nella spaccatura che sulla base di fonti interne all’organizzazione si riteneva esistesse in Cosa nostra per alimentare divisioni e tensioni con proposte divisive che frantumassero o incrinassero la coesione del fronte corleonese, dando forza alle ragioni della componente più moderata.
Anche un’attenuazione del carcere duro a beneficio di chi non avesse avuto alcuna responsabilità nella scelta dello stragismo poteva tornare utile a questo disegno, perché attenuando il disagio di gregari e semplici affiliati che della scelta stragista pagavano solo le conseguenze senza averne avuto alcuna colpa, si puntava a neutralizzare la minaccia mafiosa togliendo acqua (e cioè consenso a nuove violenze ed anzi sollecitazioni e pressioni ai capi per reagire alla stretta repressiva dello stato) al pesce dello stragismo. E senza per questo imbastire alcuna trattativa, perché per usare le parole di Conso, «un comportamento non può diventare trattativa; la trattativa ha bisogno di una telefonata, di una lettera, di un mediatore, di un fatto. Non basta l’inerzia, non è trattativa».
Caldeggiare una proposta divisiva, che al gesto di indulgenza verso i peones o le seconde linee di Cosa nostra e delle altre organizzazioni criminali associasse una risposta inflessibile contro capi e promotori non voleva essere affatto un cedimento all’intimidazione mafiosa e un tentativo di orientare in tale direzione le scelte del governo, nella persona del ministro competente in materia. […].
L’ASSOLUZIONE DEI TRE EX UFFICIALI DEL ROS.
I pregressi rapporti di conoscenza e di reciproca stima tra Mori e Di Maggio e i contatti che ebbero all’epoca dei fatti non sono una ragione sufficiente a inferirne che Mori abbia avuto un qualsiasi ruolo nel propiziare la nomina del Di Maggio a Vice Direttore del Dap., o che egli abbia brigato per favorire quell’avvicendamento dei vertici del Dipartimento che altri soggetti, anche più influenti e autorevoli dello stesso Mori aveva voluto e per ragioni e disegni che seguivano itinerari autonomi, anche se per certi effetti convergenti con quelli che l’accusa attribuisce a Mario Mori.
Ben più concreti e pregnanti gli elementi che avvalorano l’ipotesi che Mori abbia avuto un ruolo nel propiziare la scelta di Conso di non rinnovare i decreti venuti a scadenza in quel mese di novembre del ‘93: ovvero, che sia stato Lui e non altri a indurre Di Maggio ad adoperarsi in una sorta di morale suasion per orientare quella scelta (o per corroborarla, se già il ministro vi era spontaneamente propenso).
Ciò posto, si può concedere — non senza qualche residua titubanza sulla piena congruenza del compendio probatorio — che sia stato Mori, e non altri, a chiudere per così dire il circuito dell’iter realizzativo della minaccia qualificata per cui qui si procede, facendola pervenire al suo naturale destinatario, e cioè il Governo della Repubblica, nella persona del ministro competente per materia (provvedere sulle richieste estorsive già avanzate da Cosa nostra e divenute prioritarie in quel frangete storico).
Giovanni Conso, nella qualità di ministro della Giustizia in carica, veniva edotto per un verso dell’esistenza di una fronda interna a Cosa nostra, o comunque dell’esistenza di una componente autorevolmente rappresentata che era propensa ad abbandonare la linea dura della contrapposizione violenta allo stato e alle istituzioni per tornare a dedicarsi agli affari e alla più proficua pratica degli accorsi collusivi con la politica.
Ma Conso veniva edotto altresì di ciò che un’altra parte dell’organizzazione mafiosa si aspettava o comunque pretendeva che il governo facesse, e delle conseguenze prospettate nel caso in cui le sue richieste non fossero state accolte o le sue aspettative fossero andate deluse, come già era accaduto nel luglio del ‘93. E con tale consapevolezza egli operò la sua scelta, adottando due decisioni solo apparentemente di segno opposto, ma che in realtà rispecchiavano e davano concreta attuazione a un unico disegno.
Tanto basta per concludere che il reato si è perfezionato, e che Mori abbia materialmente contribuito a tale perfezionamento.
Ma le finalità del suo agire, per le ragioni già più volte esposte, sono incompatibili con la configurabilità a suo carico di un dolo di concorso nel reato di minaccia a Corpo politico dello stato, essendo suo obbiettivo esclusivo non già di corroborare la minaccia mafiosa, bensì di sterilizzarla, alimentando la spaccatura già esistente in Cosa nostra con un’iniziativa dagli effetti divisivi, e dissuasiva per gli associati che condividessero o simpatizzassero per la scelta strategica dello stragismo.
Ne segue che gli va assolto dall’imputazione per il reato di cui all’art. 338 c.p., per ciò che concerne le condotte poste in essere nel 1993, al pari che per quelle risalenti all’anno precedente, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. E a cascata, con la medesima formula vanno assolti i coimputati De Donno e Subranni, ai quali in realtà non si contesta la partecipazione materiale ai fatti del ‘93.
E in effetti, della presenza di Subranni v’è traccia solo perché da lui promana la Nota del 28 agosto 1993 — peraltro firmata per suo conto dal Col. Castagna — con cui il Ros, rispondendo all’interpello del 30 luglio, si pronuncia a favore del mantenimento del 41 bis e quindi anche della proroga per tutti i decreti che andavano a scadere il 24 agosto. L’allora Capitano De Donno, invece, era addirittura tornato a prestare servizio a Napoli, occupandosi d’altro, a parte qualche proiezione a Palermo per evadere le deleghe conferitegli dalla procura di Palermo per accertamenti sulle dichiarazioni di Vito Ciancimino.
Tuttavia, stante l’inscindibile unità del reato consumatosi in pregiudizio dei governi Amato (destinatario della minaccia quando questa era ancora in itinere) e Ciampi (destinatario ultimo della minaccia ormai perfezionatasi), il contributo prestato nella prima fase - peraltro assai importante, pregnante e addirittura decisiva per i successivi sviluppi - del complessivo iter di realizzazione dell’unico reato, in assenza di qualsiasi elemento da cui poter desumersi che fosse intervenuta una volontaria desistenza e che addirittura si fossero adoperati per impedire che il disegno originariamente concertato venisse portato a compimento, sarebbe sufficiente ad integrare il concorso nel medesimo reato: se quell’apporto fosse stato sorretto da un effettivo intento di contribuire alla sua realizzazione, che invece non vi fu.
Ma ciò che manca in radice è proprio l’elemento soggettivo, avendo essi condiviso per la parte in cui ciascuno dei due vi concorse materialmente o solo “moralmente”, le finalità dell’iniziativa intrapresa da Mori (ovvero, concertata da Mori e De Donno con l’avallo di Subranni).
All’assoluzione segue la revoca delle statuizioni civili adottate dal giudice di prime cure nei riguardi dei tre imputati, e di ogni sanzione accessoria alla condanna. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Marcello Dell’Utri e la mancata prova delle minacce “giunte a destinazione”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 19 dicembre 2022
In relazione ai fatti ritenuti idonei ad integrare il reato contestato a Dell'Utri, il problema è quello di verificare se le iniziative intimidatorie siano davvero “pervenute a destinazione” ossia se abbiano raggiunto Silvio Berlusconi, insediatosi nel maggio del 1994. Questo aspetto della vicenda è quello che – per i giudici – rimane controverso tanto che non può ritenersi provato in termini di piena certezza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza di primo grado si è occupata della posizione di Dell'Utri Marcello riportando, anzitutto, l’imputazione elevata a carico di quest’imputato ossia l’aver concorso nel reato di minaccia, finalizzato a turbare l’attività del governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa Cosa nostra, e, in particolare, di essersi attivato in relazione alle richieste di questi ultimi
“...finalizzate ad ottenere benefici di varia natura (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti all’associazione mafiosa denominata “Cosa nostra”.
Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l‘omicidio dell’on. Salvo Lima ed era proseguita con le stragi palermitane del ‘92 e le stragi di Roma, Firenze e Milano del ‘93”, ponendo in essere le seguenti specifiche condotte: “inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all‘omicidio Lima ed in luogo di quest‘ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa nostra “per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati”. Successivamente rinnovando tale interlocuzione con i vertici di Cosa nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di Ciancimino Vito Calogero e di Riina Salvatore, così agevolando il progredire della “trattativa” stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione de/la strategia stragista”; “agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il Suo insediamento come capo del governo”.
In tale approccio si è fatto riferimento alle risultanze probatorie già esposte su questa tematica (sempre nella Parte Quarta della medesima decisione) muovendo dalla figura di Dell'Utri quale emerge, innanzitutto, dalle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, in particolare, ponendo i seguenti interrogativi: “...se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra” ebbe già allora a rivolgere al governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragista, se, successivamente, il medesimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l'intento di rinnovare ancora la minaccia, se, poi, tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi questa volta nei confronti del governo Berlusconi e, infine, se Dell‘Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi”.
In relazione a simili quesiti è stato fissato un punto certo: “... la prima parte della verifica ha avuto esito negativo, poiché l’esame delle risultanze probatorie ha condotto alla sicura esclusione di un ruolo di Dell'Utri nelle vicende che, ad iniziare dal 1992, diedero luogo alla minaccia mafiosa in danno dei Governi in carica precedentemente a quello poi presieduto da Silvio Berlusconi dal maggio 1994 (v. Parte Quarta della sentenza, Capitolo 3)”.
Quest’affermazione, se vale ad escludere ogni coinvolgimento dell’imputato nel la “prima parte” della vicenda, cioè in riferimento alle condotte poste in essere nei confronti dei Governi precedenti a quello presieduto da Silvio Berlusconi e per le quali condotte lo stesso Dell'Utri è stato assolto in primo grado “per non avere commesso il fatto” - sia in relazione ad un suo presunto ruolo, dopo l’omicidio Lima, di “interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa nostra”, sia, sempre nel 1992, quale partecipe della condotta già scrutinata che può essere sinteticamente definita come la prima “trattativa stato/mafia” - vale, sotto altro profilo, a ribadire il concetto, che può ritenersi pacificamente acquisito, secondo cui le iniziative di Cosa nostra volte a minacciare il governo della Repubblica fatte oggetto di questo processo sono state più d’una e in riferimento ad esse Dell'Utri viene in rilievo in questo giudizio di appello soltanto per l’ultima, ovvero come “tramite” incaricato di veicolare la minaccia mafiosa di ulteriori iniziative stragiste al governo insediatosi nel maggio del 1994.
In proposito la sentenza impugnata ha rammentato che soltanto nella seconda metà del 1993 l’organizzazione mafiosa, accantonato l’originario progetto di “... dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di “cosa nostra”...” ha inteso “... sfruttare la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per iniziativa di Silvio Berlusconi . . .“ servendosi anche “... di Marcello Dell'Utri per ottenere i benefici per gli associati che erano stati già oggetto dell‘azione ricattatoria stimolata dalla sciagurata iniziativa dei Carabinieri del Ros nel giugno del 1992 letta dai mafiosi come primo segnale di cedimento dello stato dopo la strage di Capaci, poi, ulteriormente confermato, nel successivo anno 1993, da altri segnali promananti dal settore carcerario in relazione all‘applicazione del regime del 41 bis (dall‘avvicendamento dei vertici del Dap. alla mancata proroga di molti provvedimenti di 41 bis)”.
Precisato che questa Corte condivide solo in parte quest’ultimo argomento, riferito alla c.d. “sciagurata iniziativa dei Carabinieri del Ros”, dal momento che tale iniziativa (per quanto effettivamente “sciagurata”) ha sì finito per innescare la minaccia al governo Amato e poi al governo Ciampi (resa evidente dalla mancata proroga dei decreti ex art. 41 bis in scadenza nel novembre 1993) ma senza che gli uomini del Ros condividessero tale proposito delittuoso, ciò che per il momento interessa focalizzare è il fatto che secondo la Corte di Assise il ruolo di Dell'Utri è circoscritto al reato contestato come commesso in danno del primo governo Berlusconi: “In questa fase, con l‘apertura alle esigenze dell‘associazione mafiosa “cosa nostra” manifestata da Dell‘Utri ancora nella sua funzione di intermediario con l’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo “sceso in campo” in vista delle elezioni politiche che poi vi sarebbero state nel narzo 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992 e si pongono le premesse della rinnovazione della minaccia in danno del governo, quando. dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato, appunto, presieduto dallo stesso Berlusconi”.
Sempre in riferimento a questo momento storico/politico è stata posta un’ulteriore dirimente precisazione legata al fatto che gli elementi probatori che si riferiscono alle iniziative degli esponenti mafiosi di vertice per creare collegamenti con la neo formazione politica Forza Italia non assumono, a ben vedere, rilievo diretto per l’integrazione del reato pluriaggravato di cui all’art. 338 c.p. trattandosi di fatti antecedenti al maggio 1994, data di insediamento del governo di che trattasi: “... non è questa, dunque, la fase in cui va ricercata la minaccia che può integrare la fattispecie criminosa oggetto della contestazione formulata in questo processo a carico del medesimo Dell'Utri”.
Emerge un netto discrimine tra quello che rispetto all'imputazione può essere definito come un antefatto non punibile, un mero antecedente causale alla successiva condotta, perché avvenuto prima dell’insediamento del governo Berlusconi, e ciò che si è verificato dopo l’insediamento di detto governo e solo quando, a quel punto,
L’intimidazione mafiosa, se portata a compimento, poteva valere ad integrare il reato oggetto di contestazione secondo le coordinate recepite dalla stessa sentenza di primo grado. Seguendo questo criterio logico/temporale sono stati posti in luce gli incontri di Vittorio Mangano con Dell'Utri sia prima sia dopo l’insediamento del governo di che trattasi individuando, per quest’ultima fase, due occasioni: la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994: due occasioni che il Mangano ha avuto “... per sollecitare l‘adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni”.
In relazione ai fatti collocabili in questo arco temporale e ritenuti idonei ad integrare il reato contestato a Dell'Utri in concorso con i coimputati Brusca e Bagarella (oltre che in concorso con altri soggetti ormai deceduti quali Mangano e Cucuzza), il problema esegetico fondamentale è quello di verificare se le iniziative intimidatorie provenienti da contesto mafioso siano davvero “pervenute a destinazione” ossia se abbiano raggiunto quella che, secondo l'impostazione accusatoria ricevuta con la sentenza impugnata, viene individuata come la parte offesa di questa condotta: Berlusconi Silvio in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri del governo insediatosi nel maggio del 1994
Questo aspetto della vicenda, “l’ultimo miglio” potrebbe dirsi parafrasando la terminologia in uso nelle telecomunicazioni, è quello che, ad avviso di questa Corte, rimane controverso tanto che non può ritenersi provato in termini di piena certezza.
Ma prima degli approfondimenti sul tema, dirimenti per stabilire se il delitto sia stato portato a consumazione prospettandosi, diversamente, un delitto tentato ai sensi degli artt. 56 e 338 c.p. per chi ha posto in essere quella condotta (ossia Bagarella e Brusca, per come si vedrà), è necessario ripercorrere il percorso seguito con la decisione impugnata quanto alle tappe antecedenti, parimenti d’interesse nella ricostruzione processuale. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Gli incontri con lo “stalliere” Vittorio Mangano prima del maggio 1994. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 20 dicembre 2022
Bagarella e Brusca affidano a Vittorio Mangano la “reggenza” del “mandamento” di Porta Nuova in sostituzione di Salvatore Cancemi costituitosi spontaneamente ai carabinieri nel luglio 1993”. È evidente che tale nomina sia stata caldeggiata in previsione di sfruttare i suoi risalenti rapporti di conoscenza con Dell'Utri per realizzare quell’obiettivo che stava particolarmente a cuore a Cosa nostra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sui contatti intervenuti prima del maggio 1994 (come visto data di insediamento del primo governo Berlusconi) vengono in rilievo degli aspetti della decisione che coinvolgono non solo il già citato Dell'Utri ed i suoi rapporti con Mangano Vittorio ma anche e più direttamente i coimputati di questo processo Bagarella Leoluca e Brusca Giovanni.
In merito a quest’iniziativa, definita la “seconda condotta” (seconda rispetto a quella che ha coinvolto gli uomini del Ros nonché gli esponenti mafiosi di cui già si è detto in precedenza), risulta ineccepibile la ricostruzione, anche questa tratteggiata nella sentenza di primo grado, che ha collocato “... la condotta posta in essere in prima persona da Bagarella e Brusca già all‘indomani dell‘arresto di Salvatore Riina (v. trascrizione udienza 25 gennaio 2018) e, quindi, prima della successiva fase iniziata col ricorso all‘opera di Vittorio Mangano, dopo che a questi, per volere degli stessi Bagarella e Brusca, era stata affidata la “reggenza” del “mandamento” di Porta Nuova in sostituzione di Salvatore Cancemi costituitosi spontaneamente ai carabinieri nel luglio 1993”. (Cancemi si costituisce esattamente in data 22.07.1993).
Se, dunque, un ruolo centrale va attribuito a Vittorio Mangano, tanto da divenire reggente del citato mandamento mafioso, è altrettanto evidente che tale nomina sia stata caldeggiata in previsione di sfruttare i suoi risalenti rapporti di conoscenza con Dell'Utri per realizzare quell’obiettivo che stava particolarmente a cuore a Cosa nostra e, in quel momento (dopo l’arresto di Riina ed in seguito dei fratelli Graviano), in specie ai predetti Bagarella e Brusca.
Un’iniziativa che, si badi bene, non era finalizzata a porre in essere nell’immediato l’ennesima “prova di forza” minacciando il Governo della Repubblica, una compagine governativa che, per di più, in quel momento non era neppure rappresentato da Silvio Berlusconi, ma invece tesa a trovare un compiacente interlocutore per assicurare determinai risultati da tempo auspicati dalla compagine mafiosa in tema di ammorbidimento della legislazione antimafia e di modifiche ordinamentali del sistema penale e penitenziario paventando, quale funesta alternativa, il riprendere (o la prosecuzione se si preferisce) delle stragi.
Un progetto peculiare perché configura una minaccia sottoposta ad una duplice condizione:
- primo, che la compagine politica capeggiata da Berlusconi e sponsorizzata da Dell'Utri avesse vinto le elezioni;
- secondo, che detto gruppo politico, una volta “salito al governo”, non avesse rispettato le interlocuzioni preelettorali intessute da Dell'Utri con gli uomini di Cosa nostra.
In chiave difensiva è stata censurata la coerenza di una “minaccia preventiva” di tal fatta in base all’interrogativo sintetizzabile con la formula: che senso avrebbe avuto, per i mafiosi, minacciare Silvio Berlusconi al tempo importante imprenditore ma privo di cariche istituzionali o incarichi governativi?
Rispetto a questo quesito, che prospetta una questione logica ancor prima che probatoria, è agevole replicare affermando che l’obiettivo immediato fosse quello di creare le pre-condizioni affinché Cosa nostra ottenesse, già in quel momento, delle rassicurazioni rivolgendosi all’interlocutore Dell'Utri che, come emerge dalle dichiarazioni dello stesso Brusca, in quel momento era l’obiettivo ma non certamente in qualità di “vittima” della minaccia: Dell'Utri rappresentava una sorta di trampolino per assicurare, in un pRossimo futuro, un’attenzione normativa alla questione caldeggiata da Cosa nostra.
In questo scenario si inserisce la tematica (affrontata nella Parte Quarta della sentenza di primo grado) dell’esistenza di un accordo preelettorale tra Cosa nostra, nelle persone di Bagarella e Brusca (oltre che, separatamente, almeno sino al gennaio 1994, nelle persone dei fratelli Graviano), e Marcello Dell'Utri in rappresentanza del partito Forza Italia.
Rispetto a questo accordo preelettorale la sentenza impugnata, se in un primo momento ne ha affermato l’esistenza in termini di certezza (“In conclusione, allora, può ritenersi ampiamente provato che, in occasione della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1994, le cosche mafiose, facendo affidamento sulle “assicurazioni” e sulle “garanzie” ricevute attraverso Marcello Dell‘Utri, decisero di appoggiare il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi (con l‘apporto determinante dello stesso Dell‘Utri) nella prospettiva di ricavarne vantaggi e benefici), di seguito e nello sviluppo della stessa motivazione ha prospettato uno scenario più sfumato giungendo ad ipotizzare che sia stato raggiunto “... se non un accordo preeletrorale vero e proprio, la promessa preelettorale da parte di Marcello Dell'Utri, nella predetta qualità di intermediario di Silvio Berlusconi «ruolo di intermediario già risalente negli anni, secondo quanto definitivamente accettato con le sentenze di cui si è detto nella Parte Quarta della sentenza, Capitolo I), che, in caso di successo nelle imminenti elezioni politiche e di incarico di governo affidato a Silvio Berlusconi, sarebbero stati adottati alcuni provvedimenti certamente in linea con le attese dei mafiosi (basti pensare all‘abolizione dell‘ergastolo in favore della quale già alcuni esponenti di quel partito si erano pronunziati)”.
NON UN ACCORDO, MA UNA PROMESSA
Dunque, più che di un “accordo preelettorale”, si è trattato (almeno) di una “promessa preelettorale” da parte di Dell'Utri in questa sua particolarissima veste di mediatore in una ricostruzione nella quale è stato anche dato per assodato che già in questa fase, appunto preelettorale, vennero “...prospettate al Dell‘Utri le conseguenze (in termini di stragi) della mancata adozione di provvedimenti attesi dai mafiosi. ma tale minaccia, poiché rivolta ad un destinatario che in quel momento non faceva pare di un Governo, né lo rappresentava neppure nella veste di intermediario di singoli componenti, venendosi nell‘ipotesi del reato istantaneo che si consuma nel momento in cui la minaccia viene recepita dal destinatario (che, in quel momento, come detto, appunto, non faceva parte del Governo della Repubblica), non potrebbe da sola integrare i presupposti del contestato reato di cui all’ar. 338 c.p.”.
Ed è in tale contesto che si inseriscono le interlocuzioni cui ha fatto riferimento in particolare il collaboratore Giovanni Brusca.
Occorre al riguardo precisare che la figura di Dell'Utri (del quale, all’interno di “cosa nostra”, era noto il risalente ruolo, svolto esattamente dalla metà degli anni settanta fino al 1992 come stabilito dal giudicato a carico dello stesso, quale intermediario tra l’organizzazione mafiosa e Silvio Berlusconi) interessava tanto l’ala stragista di Cosa nostra (nella persona di Giuseppe Graviano ed, in un secondo momento, dopo l’arresto dei fratelli Graviano, di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca) quanto l’ala che alla prima si contrapponeva e che caldeggiava la cessazione delle stragi (rappresentata da Bernardo Provenzano) senza che nessuna di queste fazioni abbandonasse le proprie posizioni strategiche.
In riferimento alla minaccia al Governo Berlusconi, di cui adesso si tratta, è chiaro che assuma rilievo l’iniziativa dell’ala stragista ed esattamente l’iniziativa assunta dopo l’arresto, il 27.01.1994, dei fratelli Graviano.
È proprio in questa fase che si coagula un progetto voluto da Bagarella e Brusca i quali intendevano pRoseguire nella tattica stragista (ad iniziare da quella dello stadio Olimpico organizzata da Graviano e fortunosamente fallita) ed a minacciarne ulteriori per ottenere ciò che l’organizzazione rivendicava.
Al riguardo rimane peculiare l’occasione, descritta dallo stesso Brusca, a fondamento di tale proposito criminoso dal momento che il predetto ha sostenuto di aver chiesto a Mangano di contattare Dell'Utri dopo che aveva appreso, in via del tutto inaspettata, dei risalenti rapporti tra questi ultimi e Silvio Berlusconi dalla lettura di un articolo del settimanale L’Espresso che lo stesso Brusca aveva acquistato (“me lo avevo comprato io”) e che poi aveva ritrovato, in termini altrettanto casuali (per “coincidenza”), sul tavolo di una stalla a Partinico.
In merito a questa genesi, in effetti dai tratti così originali, va dato atto delle perplessità esternate con forza dalle difese anche in questo giudizio di secondo grado.
Precisato che la sentenza impugnata, dopo articolata riflessione, è giunta alla (condivisibile) conclusione secondo cui l’articolo del settimanale L’Espresso da cui Brusca ha appreso dell’esistenza ditali rapporti tra Mangano e Dell'Utri e da cui, soprattutto, ha tratto ispirazione per ordire il suo progetto criminoso, è da collocare a marzo del 1994 (e non, come sostenuto dalla procura, l’articolo pubblicato nell’aprile 1994, ritenendo che “... appare più coerente datare l’incontro di quest‘ultimo – Brusca - con Mangano almeno al marzo 1994 quando furono pubblicati i primi due articoli sui rapporti Mangano, Dell Utri e Berlusconi...”), è stato posto in evidenza, in chiave difensiva, che tale collocazione temporale, appunto nel marzo 1994, sarebbe inconciliabile con quanto affermato dallo stesso Brusca a proposito di quel regalo che sempre questo dichiarante ha riferito di aver fatto a Vittorio Mangano per “premiarlo” della sollecitudine del suo intervento con Dell'Utri.
Più esattamente Brusca ha riferito di avere donato carne di vitello proveniente dalla macellazione di bovini che precedentemente erano stati rubati dai fratelli Vitale ad un certo Tola [...]. Appunto mettendo in relazione la data del furto, collocabile nella notte tra il 7 e l’8 ottobre del 1993, come da verbale di denuncia, e la data della pubblicazione dell’articolo de l’Espresso nel marzo del 1994, si è ritenuto che sarebbe intercorso un tempo eccessivamente lungo così da screditare la complessiva credibilità del Brusca non potendosi confidare che quella carne sia stata conservata per circa sei mesi prima di essere regalata al Mangano.
L’argomento non merita accoglimento. Invero, il furto a Partinico dei capi di bestiame consente di collocare l’incontro in epoca sicuramente successiva al mese di ottobre 1993, poiché a tale epoca risale il furto cui Brusca si è riferito. A prescindere, infatti, dalle tecniche di conservazione della carne macellata, preme soprattutto sottolineare che neppure Brusca sapeva dopo quanto tempo dal loro prelievo i vitelli fossero stati macellati per poi essere consegnati al Mangano.
Unendo questi dati si ottiene la compatibilità della ricostruzione anche temporale offerta con la sentenza di primo grado circa l’iniziativa delittuosa assunta dal Brusca nei termini detti, contattando Vittorio Mangano a marzo del 1994. Tale datazione appare, del resto, coerente con il fatto — anche questo riportato nella decisione di primo grado — “...che, nel frattempo i fratelli Graviano, che avevano già un proprio contatto con Dell‘Utri, erano stati arrestati e che, pertanto, si poneva la necessità per Brusca e Bagarella di attivare un proprio contatto diretto col medesimo Dell‘Utri”.
BRUSCA IGNARO DEL FALLITO ATTENTATO ALL’OLIMPICO
Inoltre, lo stesso Brusca, nel descrivere l’incarico affidato a Mangano e la minaccia che questi avrebbe dovuto comunicare a Dell'Utri, ha riferito che in quel momento egli ancora non sapeva della tentata strage dell’Olimpico (v. dich. Brusca: “E di dirgli se non si mette a disposizione noi continueremo con la linea stragista, che già erano successe due, tre, quattro... forse tutte, in quel momento ancora io non sapevo di quella dell'Olimpico, la mancata addirittura neanche sapevo che era già stato messo in atto, quindi non... io non sapevo nulla..”), così che indirettamente se ne deve ricavare che l’incarico di cui si tratta venne affidato a Mangano in epoca successiva al predetto fatto delittuoso pianificato nel gennaio del 1994.
A tale datazione non sono d’ostacolo, come detto, neppure i mesi trascorsi dal furto dei vitelli, poiché Brusca ha riferito che al Mangano fu regalata carne proveniente dalla macellazione dei detti capi di bestiame che, dunque, al di là del ricordo impreciso del Brusca dovuto al tempo trascorso, ben poteva essere stata macellata a distanza di tempo dal furto e comunque conservata, come abitualmente ed usualmente avviene, anche nei mesi successivi sino a quando una parte di tale carne era stata, appunto, elargita a Mangano come segno di riconoscimento.
Ma tornando all’iniziativa di Brusca, va sottolineato che lo stesso ha riferito della sua azione, concertata con Leoluca Bagarella, al fine di instaurare, tramite Mangano, un rapporto con Dell'Utri e per far recapitare a questi le richieste di Cosa nostra perché le inoltrasse a Silvio Berlusconi unitamente alla minaccia di proseguire nelle stragi qualora tali istanze non fossero state esaudite nel momento in cui e se lo stesso Berlusconi avesse assunto incarichi di governo.
Rinviando alla sentenza di primo grado per i dettagli anche riferiti a questa vicenda (p. 4358 e ss.), così come per l’individuazione dei riscontri a simili propalazioni del Brusca (riscontri sui quali a breve si tornerà), occorre ribadire che le richieste di quest’ultimo erano essenzialmente finaizzate ad ottenere, nell’immediato l’attenuazione del regime del 41 bis O.P. e, nel prosieguo, ulteriori revisioni della legislazione antimafia sulla falsa riga, in sostanza, delle questioni che erano state oggetto, per come lo stesso Brusca aveva potuto apprendere da Salvatore Riina, della prima trattativa, cioè quella instaurata con coloro che, nel 1992, si “erano fatti sotto” richiamando la grezza ma emblematica espressione utilizzata al riguardo dallo stesso Riina.
Se, dunque, è individuabile questa linea di continuità nella strategia ricattatoria mafiosa, che pure non incrina la diversità delle due iniziative (che valgono, come visto, a tracciare due differenti ipotesi di reato), il collaboratore Brusca ha chiarito di avere espressamente incaricato Mangano di prospettare a Dell'Utri, qualora non si fosse “messo a disposizione”, la prosecuzione dell’attacco diretto e frontale allo stato: “E di dirgli se non si inette a disposizione noi continueremo con la linea stragista...”.
LE NUOVE INTERCETTAZIONI
Va anche ricordato che la Corte di Appello di Palermo, con la sentenza del 29 giugno 2010, nel processo celebrato a carico di Marcello Dell'Utri per il reato aggravato di concorso in associazione mafiosa, aveva ritenuto di non potere escludere che Vittorio Mangano avesse millantato con Brusca e Bagarella di avere ricevuto da Dell'Utri promesse politiche nel corso degli incontri collocabili nel 1993-1994 e che, dunque, i pretesi contatti (lo si ribadisce Mangano/Dell'Utri) fossero rimasti, in effetti, soltanto a livello di tentativo senza alcuno sviluppo ulteriore e più tangibile.
Questo punto esegetico deve essere adesso superato sulla scorta degli elementi, anche sopravvenuti, emersi in questo processo e che verranno a breve ripercorsi (specie in merito agli incontri intercorsi dopo il maggio del 1994 nonché evincibili dall’intercettazione, acquisita in questo giudizio di appello, che interessa l’avv. Pittelli e di cui pure si avrò modo di dire); degli elementi tali da far ritenere che in quel periodo, tra il 1993-1994, Dell'Utri abbia effettivamente incontrato personaggi mafiosi (non solo siciliani, come emerge dalla citata intercettazione Pittelli vedi infra) per intessere un patto politico-mafioso nel quale si inserivano anche e, anzi, soprattutto, per quanto emerge in questo processo, gli incontri di Mangano con Dell'Utri per recapitargli i desiderata di Cosa nostra.
Tuttavia non si dispone - perlomeno è tale la convinzione di questa Corte - di una prova altrettanto solida e completa circa il fatto che questo meccanismo di comunicazione sia andato a termine fino alla fine (tracciando “l’ultimo miglio” del percorso probatorio, come metaforicamente si diceva), cioè che Marcello Dell'Utri abbia a sua volta trasmesso tale messaggio, con la sua terribile carica intimidatoria, a Berlusconi (perché si mettesse ‘a disposizione”) né, tanto meno, si ha prova delle modalità di una possibile interlocuzione, qualora davvero intervenuta, tra Dell'Utri e Berlusconi dopo l’assunzione dell’incarico di governo da parte di quest’ultimo.
Se, dunque, la condotta, che si è articolata anche dopo l’insediamento del Governo Berlusconi (vedi infra), rimane allo stadio del reato tentato, tuttavia rispetto alla pronuncia irrevocabile sopraddetta si ha adesso la consapevolezza di un passaggio ulteriore, per quanto non ultimo, nel senso che si ha prova dei contatti Mangano/Dell'Utri rimanendo, invece, indimostrati (o non provati se si preferisce) quelli ulteriori Dell'Utri/Berlusconi.
Una problematica, quella della conoscenza o meno da parte di Berlusconi delle minacce stragiste ventilate da Cosa nostra, che attraversa questi periodi e che si ripropone, sebbene sottendendo conseguenze giuridiche decisamente diverse, sia in riferimento alla fase antecedente al maggio del 1994 (quando Berlusconi non aveva incarichi di governo e quindi la minaccia al Corpo politico dello stato non poteva essere per questa via integrata) sia dopo il maggio del 1994 (quando la minaccia, se recapitata al Presidente del Consiglio Berlusconi o ai danni di altri esponenti di quel Governo, ben avrebbe potuto portare a consumazione il reato di che trattasi).
Malgrado risulti evidente che la questione centrale attenga ai fatti successivi all’insediamento del citato Governo, per fatti astrattamente capaci di integrare il reato per come contestato, è importante analizzare l’antefatto per comprendere le dinamiche sottese ai rapporti e per pervenire ad una ricostruzione quanto più organica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’illustre compaesano “messosi a disposizione” per aiutare Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 21 dicembre 2022
Giovanni Brusca ha precisato di aver appreso che Mangano si era incontrato in quell’occasione soltanto con Dell'Utri e che egli (Brusca) non sapeva se quel messaggio, con tutta la sua carica intimidatoria, fosse stato poi ulteriormente recapitato a Berlusconi, ma che Dell'Utri si impegnò ad attivarsi nel senso richiestogli (“...Chiedo subito l‘attivazione per il 41 bis, se potevano fare qualche cosa, ma il motivo principale era di agganciare un altro canale politico”).
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Venendo agli incontri antecedenti al maggio del 1994, sui quali ha riferito essenzialmente Brusca, si è testé dato atto del fatto che, comunque la si intenda, la questione non attiene (ancora) alla configurazione del reato come ribadito a chiare lettere dal giudice di prime cure: «Ed allora, alla stregua delle predette risultanze deve concludersi che l‘episodio riferito da Brusca, ma anche il primo viaggio di Vittorio Mangano a Milano dopo la richiesta di Brusca, il suo incontro con Dell‘Utri ed il successivo rientro in Sicilia, sono avvenuti prima che si fosse insediato il governo con la guida di Silvio Berlusconi nel successivo mese di Maggio 1994».
Ma per sondare le affinità nei comportamenti e al fine anche di cercare di dipanare la matassa sulla condotta successiva (cioè quella riferita agli incontri di Mangano e Dell'Utri dopo l’insediamento del governo Berlusconi ovvero degli incontri, non solo temporalmente diversi dai primi, ma realizzati anche attraverso un canale in parte differente da quello descritto da Brusca, essenzialmente sul quale ha riferito il collaboratore Cucuzza Salvatore) è bene scrutinare l’antefatto.
Ebbene anche in riferimento agli incontri antecedenti al maggio del 1994 va detto che né Brusca Giovanni né nessuno degli altri collaboratori di giustizia, che con le loro dichiarazioni hanno riscontrato sul punto Brusca, hanno offerto qualche elemento chiaro e tangibile che possa asseverare un contatto Dell'Utri/Berlusconi sulla tematica di interesse.
Dovendo fin da adesso aggiungere che la questione rilevante ai fini di questo processo e per ritenere (in prospettiva) l’intervenuta consumazione della azione delittuosa, non è riferita tanto all’accordo politico-elettorale (quell’accordo che la sopra citata sentenza della Corte di Appello di Palermo del giugno del 2010 non ha ritenuto provato divenendo sul punto irrevocabile), quanto, piuttosto, la consapevolezza da parte di Berlusconi, appunto già in questa fase preelettorale, della minaccia preventiva e doppiamente condizionata di cui si diceva tale da aver fatto da preludio (una sorta di premessa) alla ulteriore minaccia, ovvero quella promossa in seguito e solo dopo l’insediamento del governo presieduto dal predetto Berlusconi.
I RICORDI DI BRUSCA
Ma tornando a Brusca, egli ha riferito che, dopo alcuni giorni dall’incarico dato a Vittorio Mangano (“Per eccesso una decina di giorni, per eccesso quando dico a breve dico mesi. Posso pure sbagliare, quindici giorni, però penso meno di dieci giorni. Sì, sono stati giorni, le ripeto non è stata una risposta attesa nel tempo...”) il Mangano, tornato da Milano, gli disse che si era incontrato con Dell'Utri nei locali di una ditta di pulizie di tale Roberto (“Un certo Roberto che era titolare di un‘agenzia di pulizie che lavorava all‘interno della Fininvest e attraverso lui aveva contatto diretto per agganciare... quantomeno Dell‘Utri, poi non so se anche Berlusconi e via dicendo”) e che Dell'Utri, mostratosi perfino contento di quell’approccio, assicurò che si sarebbe attivato (“Quindi, ora io non so che tempo, si è organizzato fino due, tre giorni, l'appuntamento come ha fatto, questo non lo so. Ma, diciamo, che nell‘arco di giorni, una settimana, dieci giorni cosi massimo, ricevo già la risposta da Mangano che era andato, si era incontrato con questo... l‘appuntamento l’aveva fatto recandosi in un‘agenzia di pulizie, che a sua volta era amico di Vittorio Mangano che faceva anello di congiunzione per potere agganciare Dell‘Utri e Berlusconi, che questo qua a sua volta era un‘impresa che lavorava all‘interno della Fininvest. E mi ha detto che si era incontrato con Dell‘Utri, cosa che avevo menzionato di non dire, si era incontrato con Dell‘Utri dicendo che era contento e dice tutto contento, contento «Grazie, grazie, vediamo quello che possiamo fare» e da lì si è instaurato questo rapporto...”).
Il collaboratore Brusca, sollecitato dal pm nel corso dell’esame dibattimentale, ha precisato di aver appreso che Mangano si era incontrato in quell’occasione soltanto con Dell'Utri e che egli (Brusca), dunque, non sapeva se quel messaggio, con tutta la sua carica intimidatoria, fosse stato poi ulteriormente recapitato a Berlusconi quale destinatario finale di quella comunicazione (“Il suo interlocutore, che era Marcello Dell‘Utri. Tutto contento, soddisfatto e che avrebbe ripreso sia sul piano personale che su quello che era sul territorio di Cosa nostra, quello che mi ha detto Vittorio Mangano [...]”) ma che, comunque, Dell'Utri si impegnò ad attivarsi nel senso richiestogli (“Che da lì a poco si sarebbe allertato per quelle che erano le loro possibilità. In quel momento io chiedo... come si dice? Chiedo subito l‘attivazione per il 41 bis, se potevano fare qualche cosa, ma il motivo principale era di agganciare un altro canale politico”).
Va anche dato atto che la difesa del Dell'Utri ha sul punto osservato che: dalla deposizione del collaboratore emerge chiaramente come il messaggio ricattatorio, nelle intenzioni di Brusca, era diretto innanzitutto a Dell‘Utri «l’obiettivo era Marcello Dell‘Utri però il punto finale era Silvio Berlusconi»: sicché, volendo ammettere che la minaccia ci sia stata, secondo Brusca, Dell‘Utri ne sarebbe stato la vittima.
Delle riflessioni che risultano solo parzialmente condivisibili ed esattamente limitatamente al fatto che le sollecitazioni mirassero nell’immediato a Dell'Utri il quale, però, non era certamente (e come già puntualizzato) il soggetto “da minacciare” ma, semmai, il soggetto (“l’anello” di comunicazione”, come definito) deputato a farsi latore di quel messaggio secondo un passaggio finale che, tuttavia, neppure Giovanni Brusca ha potuto confermare ma che ha desunto dal fatto che Mangano lo aveva rassicurato dell’interessamento mostrato da Dell'Utri.
Per poter affermare, come fatto con la sentenza di primo grado, che “...la minaccia rinnovata dai mafiosi dopo l‘insediamento del governo presieduto da Silvio Berlusconi, infatti, trova le sue radici nelle promesse che Dell'Utri, sia assoluto protagonista della nascita ed affermazione della nuova forza politica, ebbe a indirizzare all’organizzazione mafiosa in vista delle elezioni politiche del 1994...”, non si può prescindere dalle dichiarazioni dello stesso Brusca il quale, a ben vedere, a proposito di quanto Mangano ebbe a riferirgli, dopo avere incontrato Dell'Utri, si è limitato a descrivere ciò che ha appreso dallo stesso Mangano e circa il fatto che Dell'Utri, mostrandosi “contento”, si era impegnato ripromettendosi di vedere quello che si poteva fare: “...Dietro questo fatto lui ritorna e dice tutto contento contento “Grazie, grazie, vediamo quello che possiamo fare”.
Se, dunque, neppure Giovanni Brusca (cioè il soggetto che a seguito della lettura del settimanale L’Espresso e comunque attingendo alle sue conoscenze maturate al riguardo ha dato un input essenziale a questa iniziativa criminosa) ha avuto una conferma diretta dell’interlocuzione finale con Berlusconi, è bene indicare – per come ha già fatto anche sul punto la sentenza di primo grado – che, allorché era stato sentito nel primo processo a carico di Dell'Utri, lo stesso Brusca, nel ripercorrere questa identica vicenda, aveva omesso di riferire perfino della sua conoscenza del contatto tra Mangano e Dell'Utri (“Se non mi ricordo quasi totale, però avevo tralasciato il contatto diretto Vittorio Mangano/Dell'Utri”).
In effetti quest’aspetto delle dichiarazioni del Brusca, pur con le evoluzioni che le contraddistinguono, non incrina la dimostrazione dei contatti Mangano/Dell'Utri in oggetto, poiché le perplessità al riguardo evincibili dalle dichiarazioni di questo collaboratore di giustizia possono essere superate in virtù dei riscontri, di cui più avanti ci si occuperà, riferiti al periodo anche successivo al maggio del 1994 e capaci di confermare, nel complesso, che Mangano si sia davvero incontrato con Dell'Utri per affrontare queste tematiche così scottanti e delicate.
Tuttavia è del pari evidente che, anche questa considerazione sul “passaggio intermedio” della comunicazione da Mangano a Dell'Utri, nulla di risolutivo possa aggiungere circa l’ulteriore esito, ossia se già in questo primo periodo - lo si ribadisce antecedente al maggio 1994 per come ricostruito essenzialmente dal Brusca - vi sia stata una relazione finale con Berlusconi quale destinatario della “minaccia preventiva” strutturata nei termini sopraddetti.
LE TESTIMONIANZA DI MONTICCIOLO, DI NATALE E LA MARCA
Ma riguardo ai riscontri alle propalazioni del Brusca, che, come visto, attengono specificamente questo periodo preelettorale, assumono anzitutto rilievo le dichiarazioni di Giuseppe Monticciolo il quale, se ha confermato di aver appreso da Mangano dei suoi incontri con i “politici” di Milano (personaggi politici di cui inizialmente lo stesso Monticciolo non ricordava neppure i nomi) e di avere appreso da Giovanni Brusca che si trattava di questioni attinenti al 41 bis ed alla confisca dei beni, ha altresì mantenuto memoria del fatto che secondo Bagarella, del quale aveva raccolto delle confidenze, sarebbe stato decisamente più rassicurante parlare direttamente con “u gRossu’, ossia con la persona di peso e politicamente più importante con ciò riferendosi a Berlusconi Silvio (“Mi sembra che uno dei tanti, che una volta disse Mangano, dove si lamentava, è stato che andava... praticamente, andava anche a Milano per poter parlare con Dell‘Utri. Infatti certe volte loro, cioè Bagarella diceva, era un po’ arrabbiato certe volte, ora ho cercato di averci un filo conduttore, e diceva che era meglio parlar direttamente con... lui diceva u Rossu. Poi ognuno deduca quello che...”).
Da queste così come dalle altre dichiarazioni del Monticciolo, se è possibile ottenere conferma dei viaggi fatti da Mangano per incontrare Dell'Utri (sebbene il nome di questo soggetto sia stato fatto tardivamente dal predetto Monticciolo), non vi è invece conferma circa il destinatario ultimo delle interlocuzioni e soprattutto circa l’esito delle stesse (“No, glielo chiedevano loro. L’ho detto prima, Brusca e Bagarella. Per deduzione se lui lavorava ad Arcore da Berlusconi, se parlava con Dell'Utri, se la devo dir tutta quello più gRosso, politicamente è Berlusconi. Poi se fosse lui o non fosse lui e quello che si dicevano io non ero nella stanzetta lì con loro, quindi questo non lo so.”), non potendosi neppure trascurare quell’insoddisfazione, esternata da Bagarella allo stesso Monticciolo, secondo cui per dirimere ogni dubbio sul tema sarebbe stato auspicabile un contato diretto con Berlusconi.
Anche La Marca Francesco, se ha confermato il racconto di Giovanni Brusca in merito all’incarico conferito dallo stesso Brusca e da Bagarella a Vittorio Mangano e circa i viaggi di quest’ultimo a Milano, non ha potuto invece specificare nulla circa le modalità delle eventuali discussioni sul tema tra Dell'Utri e Berlusconi.
Le dichiarazioni del La Marca assumono un valore significativo poiché lo stesso apparteneva alla medesima “famiglia” mafiosa di cui Mangano faceva parte e nella quale proprio quest’ultimo, per un periodo, ha ricoperto il ruolo di reggente per volere di Bagarella e Brusca dopo che il precedente reggente, Salvatore Cancemi, nel luglio 1993, si era costituito ai Carabinieri.
Appunto in virtù di questa “comunanza mafiosa” il La Marca ha riferito di avere accompagnato Vittorio Mangano ad un incontro con Bagarella e Brusca. Se in riferimento a questa occasione il La Marca ha ricordato di essere stato personalmente presentato al Bagarella, il predetto collaboratore ha riferito che, dopo circa venti giorni da quest’incontro, il Mangano, dovendosi recare a Milano per discutere con dei politici al fine di ottenere benefici riguardo al regime del4l bis e al sequestro dei beni, Io aveva incaricato di sostituirlo per le incombenze che si fossero rese necessarie a Palermo durante la sua assenza.
Se, dunque, il La Marca ha svolto queste funzioni “di supplenza”, lo stesso ha riferito che il Mangano, rientrato a Palermo dopo quattro o cinque giorni, aveva comunicato che l’incontro a Milano aveva sortito esito positivo nel senso che se il partito di Berlusconi avesse vinto sarebbero stati tolti il 41 bis e la confisca dei beni, tuttavia precisando che non sapeva con quale politico il Mangano avesse interloquito: “Sì, quello che mi ha detto che ci ha mandato sia Brusca e sia Bagarella... Ce l’ha mandato là a Milano sia Brusca e sia Bagarella per parlare di queste cose, però io onestamente non lo posso dire se è andato a parlare con Berlusconi o con qualche altro. È andato a Milano a parlare con un politico, non so chi era, non ce l’ho chiesto, non era carattere mio, per dire, ma con chi hai parlato? Questo sono a conoscenza e questo io dico Sì, per andare a parlare là a Milano per fare togliere il 41 bis con l’accordo e i sequestri dei beni”.
Sempre secondo La Marca, Vittorio Mangano, dopo essere tornato da Milano, si era incontrato ancora con Bagarella e Brusca per riferire loro l’esito del suo viaggio ed i predetti nell’occasione si erano mostrati molto soddisfatti (“erano tutti contenti” ... “erano contentissimi”), ostentando una contentezza che tuttavia il La Marca vedeva con qualche titubanza subodorando delle possibili “prese in giro”: […]. Ma il La Marca, esplicitamente sollecitato anche in controesame, ha ribadito di non sapere con chi si fosse incontrato Mangano a Milano (“Avvocato, io ripeto di nuovo, lui mi ha detto che andava a Milano, però non mi ha detto che stava andando con Berlusconi o con qualche altro. Io, siccome c’ho un carattere io molto riservato, non glielo ho detto ma con chi? Lui voleva parlare, ma io l’ho chiuso”). Neppure dalle dichiarazioni del collaboratore Di Natale Giusto, utilizzabili quale riscontro indiretto alle propalazioni di Brusca e La Marca, è possibile trarre maggiori ragguagli sul tema.
Più esattamente il Di Natale ha narrato che un giorno Guastella si era incontrato con il genero di Vittorio Mangano ed era ritornato nei suoi uffici (del Di Natale) per incontrare Bagarella mostrandosi perfino euforico perché aveva appreso che Mangano aveva dato assicurazione che finalmente si prospettavano alcuni interventi legislativi a loro favore (“... È ritornato euforico dicendo che le cose si stavano mettendo benissimo in quanto aveva avuto assicurazioni da Vittorio Mangano che si sarebbe messo mani all’articolo 192 e avrebbero modificato la legge sui collaboratori di giustizia...”) e ciò per essere stato a sua volta rassicurato in tal senso da Dell'Utri (“Diceva che aveva parlato con Marcello Dell'Utri”).
Si tratta, come già è stato sottolineato con la sentenza di primo grado “...di un riscontro indiretto, perché, se non riguarda i momenti dell‘incarico inizialmente affidato da Brusca e Bagarella a Vittorio Mangano, concerne, però, un fatto temporalmente successivo che, tuttavia, non può che trovare le proprie radici nel necessario antecedente fattuale riferito da Brusca, non potendo di certo ritenersi che Vittorio Mangano avesse agito per un interesse collettivo degli associati senza l’impulso di coloro che, di fatto, all’epoca guidavano l‘organizzazione mafiosa (v. sopra Parte Terza della sentenza, Capitolo 14). Ed è ugualmente rilevante che in quell’occasione sia stato fatto espressamente il nome di Dell‘Utri quale interlocutore del Mangano perché è proprio per contattare Dell‘Utri che Brusca e Bagarella si erano rivolti a Mangano” (p. 4371).
Malgrado la difesa Dell'Utri abbia censurato il fatto che Di Natale ha riferito notizie che avrebbe appreso da Leoluca Bagarella e da Giuseppe Guastella, i quali a loro volta avevano riferito di informazioni apprese dal genero di Vittorio Mangano [...], anche da tale fonte risulta che Dell'Utri ha incontrato Mangano fornendo rassicurazioni sugli interventi normativi che sarebbero stati adottati (sebbene riferendosi al periodo successivo al maggio del 1994 che appresso verrà più ampiamente esplorato). […]. Né maggiori chiarimenti possono trarsi sul punto dalle propalazioni di Cucuzza Salvatore.
Malgrado, infatti, il collaboratore Cucuzza (di cui diffusamente si dirà più avanti) abbia riscontrato gli incontri di Mangano e Dell'Utri, di cui ha parlato Brusca, anche precedenti all’insediamento del governo Berlusconi, ugualmente egli non ha potuto specificare se a tali interlocuzioni, appunto Mangano/Dell'Utri, abbiano fatto seguito le ulteriori e conseguenti interlocuzioni Dell'Utri/Berlusconi.
Va anticipato che ci si confronta con una questione per molti versi speculare a quella centrale per l’imputazione adesso in disamina (vedi infra) che coinvolgerà le dichiarazioni dello stesso Cucuzza ma per gli incontri successivi alla nomina del governo Berlusconi e che non trova, anche per i fatti pregressi, esauriente risposta, perlomeno in termini di certezza probatoria.
Non c’è prova che Silvio Berlusconi sapesse della “promessa elettorale”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 22 dicembre 2022
Se ampie sono le conferme circa il fatto che Vittorio Mangano, anche su incarico di Brusca e Bagarella, ebbe a contattare Marcello Dell'Utri ricevendo da questi rassicurazioni che si sarebbe adoperato per caldeggiare le modifiche legislative, non è altrettanto certo se di siffatte trame sia stato messo al corrente Berlusconi all’epoca in qualità di leader della nascente formazione politica Forza Italia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In buona sostanza, dalle dichiarazioni di Cucuzza, in modo analogo a quanto può trarsi dalle dichiarazioni di Brusca e Di Natale, si ottiene si conferma degli incontri tra Mangano e Dell'Utri già in questo periodo preelettorale, ma non anche del fatto se, a queste interlocuzioni, collocabili prima della scarcerazione dello stesso Cucuzza (intervenuta il 29 giugno 1994 “questi incontri me li diceva che erano da molto prima che io uscissi”), abbia fatto seguito un’interlocuzione con Silvio Berlusconi per veicolargli la c.d. “minaccia preventiva” adesso di interesse.
Non vi è certezza del fatto se Berlusconi, allora già “sceso in politica” ma non ancora eletto e senza alcun incarico di governo, sia stato partecipe di questo accordo preelettorale (o di questa promessa elettorale come pure definita) esplicitato nei termini formulati a Marcello Dell'Utri e nato sotto la terribile minaccia, già allora manifestata dagli uomini di Cosa nostra, per volere di Bagarella e di Brusca, che se la promessa non fosse stata in futuro rispettata sarebbe proseguita (o ripresa) la stagione delle bombe.
Per quanto la minaccia fosse sottoposta, almeno in quella fase, alla duplice condizione già illustrata, il fatto adesso di interesse non è tanto riferito alla linea politica che si prefiggeva di seguire in campagna elettorale il partito Forza Italia, ben nota anche in termini di posizioni garantiste sulla “questione giustizia” intesa in senso ampio, ma invece se Berlusconi, quale leader di quella neo formazione, fosse stato messo al corrente da Dell'Utri di quali gravissime conseguenze sarebbero conseguite per il Paese intero qualora il suo operato, una volta e se assunto un incarico di governo, non si fosse adeguato a certe precise aspettative.
Un ricatto preventivo e condizionato (o meglio doppiamente condizionato) se letto rispetto alla configurazione della minaccia a Corpo politico dello stato ex art. 338 c.p., ma invece una minaccia più che attuale rispetto alla linea politica da seguire come contraltare alla raccolta di voti in favore di Forza Italia, per la quale si erano spesi celti uomini di Cosa nostra.
In questa prospettiva, ben inteso, non è sufficiente aver prova dell’accordo politico mafioso in senso stretto, che per sua natura implica perfino una comunanza di interessi, ma occorrerebbe la dimostrazione che, oltre a questo patto (per quanto illecito e profondamente immorale), fosse già insita la minaccia stragista; non basterebbe dimostrare una collusione politico-mafiosa, anche ai più elevati livelli del partito di Forza Italia e per la raccolta di voti per quella tornata elettorale, ma sarebbe necessario dimostrare che già in quella fase “l’accordo” nasceva viziato dalla minaccia stragista nota e chiara anche a Berlusconi.
Ma in merito alla questione della consapevolezza di Silvio Berlusconi non sono di particolare aiuto neppure le parole di Salvatore Riina intercettate durante i suoi colloqui in carcere.
[…] Se tali dichiarazioni oggetto di captazione assumono un’importanza effettivamente centrale per asseverare sia il fatto che Vittorio Mangano ebbe ad eseguire più trasferte per contattare, attraverso Dell'Utri, Berlusconi (v. intercettazione del 29 settembre 2013: [...]), sia il fatto che Mangano ebbe a parlare con Dell'Utri (v. intercettazione del 22 agosto 2013: […]), dalle stesse non può tuttavia evincersi se Berlusconi sia stato davvero coinvolto in siffatte interlocuzioni ed eventualmente in quali termini.
Al riguardo è bene aggiungere che, considerato il momento in cui si collocarono tali iniziative cui ha fatto riferimento il collaboratore Brusca, ovvero prima del maggio 1994, non è rinvenibile un motivo diretto e stringente per il quale lo stesso Dell'Utri avrebbe dovuto mettere al corrente Berlusconi dei suoi incontri con Mangano quale emissario dei desiderata della compagine mafiosa con la nota stonata e terribile delle conseguenze future in termini di possibili nuove stragi. In quella fase e per quel canale di comunicazione non si trattava, come già accennato, di rivolgere una minaccia al governo della Repubblica, che non era (ancora) rappresentato da Berlusconi, ma, semmai, di ottenere rassicurazioni pre elettorali cioè ottenere degli impegni circa l’atteggiamento futuro secondo il meccanismo intimidatorio già illustrato della minaccia sottoposta a duplice condizione (se Berlusconi avesse assunto incarichi di governo e se, in tale veste, non avesse rispettato i desiderata di Cosa nostra).
Solo in questa prospettiva avrebbe avuto senso, per la compagine mafiosa, minacciare Berlusconi al tempo importante imprenditore già avviato alla fase politica ma ancora privo di incarichi politici/istituzionali o di funzioni governative.
Bagarella, Brusca ed i loro accoliti, sollecitando per mezzo di Mangano e nei termini detti l’interlocutore Marcello Dell'Utri, volevano ottenere rassicurazioni “politiche” circa il fatto che, a prescindere da una certa decantata linea garantista caldeggiata pubblicamente dal partito che Berlusconi stava costituendo, dopo l’assunzione degli incarichi di governo venissero mantenuti i patti intessuti con lo stesso Dell'Utri.
Ricostruita la vicenda entro questi termini, va aggiunto che neppure la sentenza di primo grado ha affermato che Berlusconi sapesse di queste minacce “preventive” (o “preelettorali” che dir si voglia) relegando quasi sullo sfondo questo aspetto della vicenda che non attiene, del resto, alla integrazione del reato. Semmai questa stessa decisione si è premurata di dimostrare, ricorrendo sul punto ad una prova “logica fattuale” (vedi infra), che Berlusconi sia stato informato dopo l’insediamento del governo, così portando a consumazione l’azione delittuosa ex ari 338 c.p..
Come detto vi è l’interesse di esplorare l’antefatto, per come descritto in particolare da Brusca, avendo cura di precisare e ribadire che questo antecedente, così strutturato, è diverso da un accordo preelettorale in senso stretto.
Un accordo di tale genere, come tradizionalmente inteso implica, invero, una raccolta di voti indirizzati dalla compagine criminale verso un partito o una formazione politica che si mostri, più o meno esplicitamente, disponibile a concedere dei “benefici” a seguito del successo elettorale ma senza implicare, sol per questo, anche un ricatto teso a far si che i desiderata dell’organizzazione criminale debbano essere rispettati a pena di rappresaglie violente e sanguinarie.
Nel caso di specie, poi, tali rappresaglie, perlomeno come prospettate da Bagarella e Brusca e per quanto dichiarato da quest’ultimo, non erano neppure dirette a ledere i fautori politici dell’accordo politico/mafioso, a partire da Marcello Dell'Utri, ma semmai l’intera nazione secondo lo schema mafioso/stragista che aveva insanguinato gli anni 1992/93.
Dunque una prospettiva che inverte le logiche tradizionali del negoziato politico/mafioso poiché un accordo di questo genere (o anche la semplice promessa elettorale) si fonda su una convergenza di interessi lontana dal concetto della minaccia, anzi sotto questo profilo tutt’altro che minacciosa né tanto meno bellicosa (men che meno per l’intero Paese) nel senso che, in virtù di un rapporto sinallagmatico, viene assicurata una concentrazione di voti su una determinata compagine politica che, per affinità di prospettive o per accordi espliciti pre elettorali, possa assicurare un certo tornaconto all’organizzazione mafiosa.
A ritenere, infatti, che vi sia stato un accordo preelettorale, in quanto diretto a far confluire i voti su Forza Italia (come riferito da Brusca, Giuffré e dagli altri soggetti di cui si dirà nel paragrafo che segue) e tale per cui i non pochi voti che Cosa nostra pilotava dovevano essere guidati per quelle elezioni su questo partito, un simile accordo non implicherebbe, per sua natura, una preventiva minaccia nei termini sopraddetti, addirittura precoce rispetto alla costituzione di una formazione parlamentare o governativa ma tale, in prospettiva, da poter condizionare le scelte legislative.
Secondo le dinamiche ben note le mafie sono solite “salire sul carro dei vincitori”, anche a prescindere dalla coloritura delle formazioni politiche, per soddisfare i propri interessi e se questo tipo di accordo politico-mafioso finisce per legare indissolubilmente i singoli esponenti politici compiacenti, che si prestano a simili subdoli accordi, non si registra, sempre secondo un percorso comportamentale comune, una minaccia che vada addirittura al di là di chi questo accordo abbia siglato o favorito.
In siffatta prospettiva si tratta di verificare se Forza Italia, che più delle altre forze politiche dell’epoca ha caratterizzato la nascita della c.d. “Seconda Repubblica”, sia stata condizionata, ed a che livelli, non tanto da un accordo pre elettorale per ottenere voti, ma perfino dalla terribile minaccia di Cosa nostra che certamente avrebbe pesato (e non poco) sulle dinamiche comportamentali già allora in atto all’interno di questo partito oltre che, in prospettiva, su quelle future del governo che si sarebbe potuto insediare con esponenti di quella stessa formazione politica.
Ebbene, in riferimento ad un così complesso capitolo di indagine non si dispone di conferme certe e residua - sempre su un piano rigorosamente probatorio -soltanto il fatto che Dell'Utri sia stato esortato a fare in modo che in quella delicata fase pre elettorale i desiderata dei mafiosi venissero in futuro rispettati mettendosi in questo senso a disposizione e così impegnandosi, pena ulteriori stragi, sempreché il partito capeggiato da Berlusconi, e per il quale si era speso lo stesso Dell'Utri, fosse “salito al governo” nei modi sperati.
Se ampie sono le conferme circa il fatto che Vittorio Mangano (il quale aveva preso in affitto un immobile a Como, ove risiedeva anche Dell'Utri, chiedendo perfino di essere rimborsato della relativa spesa, di lire 4.000.000 annuali, dalla “famiglia” mafiosa di comune appartenenza col Cucuzza), anche su incarico di Brusca e Bagarella, ebbe a contattare Marcello Dell'Utri ricevendo da questi rassicurazioni che si sarebbe adoperato per caldeggiare le modifiche legislative (“vediamo quello che possiamo fare “), non è altrettanto certo se di siffatte trame e soprattutto se della sanguinaria “minaccia condizionata” sottesa a tali contatti sia stato messo al corrente Berlusconi Silvio all’epoca in qualità di leader della nascente formazione politica Forza Italia.
L’incontro tra Berlusconi e Giuseppe Graviano, ipotizzato ma non provato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 23 dicembre 2022
Per quanto siano individuabili, anche sulla scorta di accertamenti, dei margini per assumere che Dell'Utri abbia fatto da intermediario con Graviano, va aggiunto che neppure la sentenza di primo grado ha avuto modo di affermare che Berlusconi, che in data 26 gennaio 1994 ufficializzò la sua “discesa in campo”, abbia avuto occasione di incontrare Giuseppe Graviano per di più pochi giorni prima della cattura di questo latitante e pressocché contestualmente al fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Nell’ambito della ricostruzione dell’antefatto e per leggerne il suo significato più autentico potrebbe acquisire rilevanza la conoscenza di certe interlocuzioni dirette di Silvio Berlusconi con esponenti mafiosi.
La sentenza di primo grado, pur non affrontando direttamente questa tematica, ha riservato particolare attenzione alle intercettazioni che hanno interessato Graviano Giuseppe nel corso della sua detenzione dalle quali vanno enucleati alcuni dati di interesse, sia pure al netto di alcuni tentativi dello stesso Graviano di approfittare di eventuali ascolti indesiderati per proclamare insinceramente la sua estraneità a fatti delittuosi, nella ragionevole consapevolezza del servizio di captazione che poteva essere in atto.
Più esattamente, nel capitolo 4.3 “Conclusioni sulle risultanze delle intercettazioni dei colloqui di Giuseppe Graviano”, sono state rassegnate le seguenti riflessioni evincibili da tali intercettazioni:
- la centralità del tema carcerario (41 bis e ergastolo) nei pensieri dei mafiosi a partire dal 1992 cui ripetutamente si è riferito il Graviano in molte delle conversazioni intercettate sopra riportate e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 12;
- l'attribuzione ai Ministri Scotti e Martelli dell‘azione di contrasto alla mafia più rigorosa e del regime del4I bis, poi attenuati dopo la sostituzione dei detti Ministri (v. soprattutto conversazioni intercettate il 22 luglio ed il 22 novembre 2016 sopra riportate) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella parte Terza della sentenza, Capitolo 3;
- il collegamento tra la questione carceraria e le stragi del 1993 (v. soprattutto conversazioni intercettate il 22gennaio 2016 e il 17 settembre 2016 sopra riportare,) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitoli 15 e 23;
- i ritenuti effetti positivi (per i mafiosi) delle dette stragi ai fini del miglioramento delle condizioni carcerarie e della attenuazione del regime del 41 bis (v. ancora conversazione intercettata il 22 gennaio 2016) e ciò anche a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitoli 14 e 15;
- il più diretto collegamento tra gli attentati del 27-28 luglio 1993 e (provvedimenti di revoca del regime del 41 bis adottati dal Governo nello stesso anno (v. ancora conversazione intercettata il 17 settembre 2016) e ciò ancora a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitoli 14, 15 e 23;
- l’appartenenza del Graviano (stretto alleato di Riina) al fronte opposto dell‘organizzazione mafiosa rispetto a quello facente capo a Bernardo Provenzano ed il giudizio negativo del primo sul secondo perché incline a rapporti con le Forze dell‘Ordine (v. conversazione intercettata il 12 dicembre 2016) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 14;
- il “pentimento “per la decisione di far confluire il movimento autonomista Sicilia Libera in Forza Italia (v. conversazione intercettata il 22 gennaio 2016 sopra riportata) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Quarta della sentenza, Capitolo 4;
- la contrarietà di Graviano alla cessazione della strategia stragista dopo il suo arresto, perché quella strategia stava producendo frutti positivi per l’organizzazione mafiosa (v. conversazione intercettata il 12 dicembre 2016) e ciò a conferma sia ancora delle risultanze esposte nella Fai-te Quarta della sentenza, Capitolo 4, sia, indirettamente, delle propalazioni di Gaspare Spatuzza riportate nella medesima Parte Quarta della sentenza, Capitolo 2, paragrafo 2.8, poi ulteriormente confermate anche dalla intercettazione del 10 aprile 2016 nella parte in cui si fa cenno ad incontri dei Graviano con Marcello Dell'Uitri;
- l‘attesa riposta anche da Graviano sui provvedimenti favorevoli per gli associati mafiosi che il Governo Berlusconi avrebbe adottato e la convinzione che Berlusconi non aveva poi potuto adottare quei provvedimenti per l’opposizione delle altre forze della coalizione di Governo (v. conversazione intercettata il 19 gennaio 2016) e ciò a conferma delle risultanze esposte nella Parte Quarta della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4, anche con riferimento anche all‘analoga convinzione di Leoluca Bagarella ed all’attesa per l’abolizione dell‘ergastolo effettivamente oggetto sia delle richieste di “cosa nostra” sia di iniziative di esponenti di Forza Italia;
- la conseguente delusione per la mancata totale abolizione del regime del 41 bis e della pena dell‘ergastolo da parte del Governo guidato da Berlusconi (v. ancora conversazione intercettata il 19 gennaio 2016) che indirettamente conferma quali fossero le richieste all‘epoca avanzate da “cosa nostra;
- il conseguente risentimento nei confronti di Berlusconi, per non avere questi mantenuto i patti, espresso tra la speranza di potere ancora ottenere qualche beneficio e più o meno esplicite minacce di riferire, direttamente o indirettamente, i rapporti con lui avuti prima di essere arrestato nel gennaio 1994 (v. conversazione intercettata il 14 marzo 2016 sopra riportata) che conferma l’esistenza delle assicurazioni che Berlusconi e Dell‘Utri avevano dato a Graviano quando nel gennaio 1994 questi ebbe a manifestare particolare felicità a Spatuzza perché così si sarebbero “messi il Paese nelle mani”;
- l‘effettiva presenza di Bernardo Provenzano a Mezzojiuso in occasione dell‘incontro con Litigi Ilardo (v. conversazione intercettata il 12 dicembre 2016) ad ulteriore conferma delle risultanze sul punto esposte nella Parte Terza della sentenza, Capitolo 35.
LE ASPETTATIVE DI COSA NOSTRA
Tra questi dati, quello che può assumere maggior rilievo ai fini di interesse attiene alle aspettative che Cosa Nostra nutriva per gli interventi normativi del nuovo Governo accompagnati dalla delusione per l’omessa adozione di simili provvedimenti da ascrivere tendenzialmente alle difficoltà politiche non imputabili allo stesso Berlusconi ma tali da aver potuto meritare, sempre secondo il feroce pensiero di Graviano, perfino la ripresa della strategia stragista (fortunatamente non attuata).
Orbene, a prescindere da questa peculiare rilettura dei fatti offerta da Giuseppe Graviano durante la sua detenzione, l’argomento che è stato ripreso in particolare in questo giudizio di appello attiene alla possibilità che vi siano stati dei contatti di Silvio Berlusconi con Graviano, evidentemente prima dell’arresto di costui.
In particolare Giovanni Brusca, a seguito del deposito della motivazione della sentenza di primo grado, ha inteso offrire un nuovo contributo “chiarificatore ed integrativo” sulla tematica riferendo, in occasione dell’interrogatorio reso in data 16.10.2008, il cui verbale è stato acquisito con l’accordo delle parti, di aver appreso che Graviano aveva visto al polso di Berlusconi un orologio del valore di 500 milioni di lire commentando questo fatto con Messina Denaro Matteo.
Brusca ha chiesto di essere sentito dopo aver letto la sentenza “trattativa Stato — mafia” rendendosi conto di non aver detto durante il dibattimento di un episodio che allora non aveva ritenuto rilevante ossia che, in occasione di un incontro avvenuto a Dattilo (nella provincia di Trapani) nella seconda metà del 1995 con Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori e Nicola Di Trapani, aveva appreso da Messina Denaro, a conclusione di questa riunione - che atteneva ad alcune “diatribe” (cosi definite) che in passato lo stesso Brusca aveva avuto con Leoluca Bagarella in relazione alle stragi - che Giuseppe Graviano aveva in passato riferito allo stesso Messina Denaro di aver visto al polso di Berlusconi un orologio assai costoso del valore appunto di 500 milioni di lire.
Precisato che lo stesso Brusca ha chiarito che Berlusconi non aveva nulla a che spartire con l’oggetto di quel summit mafioso, tanto più che di questo orologio ne parlarono dopo la riunione ed allorché l’interlocuzione verteva su beni di lusso ed orologi (tematica alla quale lo stesso Brusca è particolarmente appassionato), v’è da aggiungere che, per quanto risulta, Matteo Messina Denaro non ha riferito di aver partecipato a questa occasione nella quale Graviano vide l’orologio ma di aver più semplicemente raccolto le confidenze dello stesso Giuseppe Graviano su questo particolare così appariscente per il valore di quel bene di lusso.
Dunque, una deposizione doppiamente de relato, per quanto Graviano ha riferito a Messina Denaro e per quanto questi ha poi a sua volta riferito a Brusca, in riferimento alla quale, al di là di queste peraltro stringate e tardive reminiscenze del Brusca (persino indotte dalla lettura della motivazione della sentenza di primo grado), non si dispone di argomenti più solidi per poter affermare che Berlusconi abbia effettivamente incontrato Giuseppe Graviano restando ancor più impregiudicata la questione dell’epoca e del contesto di tale eventuale incontro. Lo stesso collaboratore Brusca, infatti, non ha potuto collocare questo fatto nel tempo e nello spazio, insistendo di aver ricevuto, a margine della riunione a Dattilo, soltanto un fugace commento sul valore di quell’orologio.
Pur a voler escludere, come invece sostenuto in particolare dalla difesa di Dell'Utri, che il commento riguardasse un orologio indossato da Berlusconi in una sua apparizione televisiva o in una fotografia pubblicata dai giornali che ritraeva questo noto imprenditore, neppure Brusca ha saputo nulla di più in merito all‘occasione di questo avvistamento. Stando così le cose, in base agli elementi disponibili, non si può neppure escludere che Graviano abbia conservato ricordo di siffatto particolare dell’orologio per aver incrociato Berlusconi in una qualche occasione, magari assai risalente nel tempo, che non implicava neppure la consapevolezza da parte di Silvio Berlusconi del profilo criminale dello stesso Graviano o del suo stato di latitanza (sempre se l’incontro, qualora davvero avvenuto, vada collocato quando Giuseppe Graviano era latitante); tanto meno può ritenersi che l’incontro possa avere avuto una qualche attinenza con le elezioni del 1994 o comunque con i fatti di diretto interesse processuale.
LA TESTIMONIANZA DI SPATUZZA
In effetti va aggiunto che Vincenzo Sinacori, altro collaboratore di giustizia all’epoca latitante ed indicato da Brusca come anche lui presente a Dattilo, se nel verbale di interrogatorio dell’11.04.2019 (anche questo acquisito al fascicolo processuale) ha confermato che dopo l’arresto di Bagarella venne effettivamente organizzato un incontro con Brusca, non proprio a Dattilo ma nelle campagne limitrofe comunque sempre di quella zona di Trapani, un incontro al quale parteciparono lo stesso Sinacori, Matteo Messina Denaro, Di Trapani Vincenzo ed appunto Brusca, non ha ricordato nulla circa una possibile discussione che abbia riguardato, su iniziativa di Messina Denaro o anche di qualcuno degli altri presenti in quell’occasione, la questione dell’orologio di 500 milioni visto da Giuseppe Graviano al polso di Berlusconi.
Malgrado non possa essere letta come una smentita alle propalazioni del Brusca, potendosi immaginare che Vincenzo Sinacori non abbia semplicemente conservato ricordo o non abbia neppure partecipato con interesse a questa parte della discussione che, sempre a dire del Brusca, si è sviluppata a margine della riunione e per una faccenda effimera quale quella dell’orologio, certamente ci si trova al cospetto di una mancata conferma delle dichiarazioni del Brusca che pesa in senso negativo sulla ricostruzione complessiva di questa vicenda.
Rimane, allora, soltanto quella indicazione de relato (anzi come visto doppiamente de relato) di Brusca che non consente di comprendere neppure se la visione dell’orologio, nei termini appresi prima da Matteo Messina Denaro e poi dallo stesso Giovanni Brusca, sia avvenuta da parte di Giuseppe Graviano in occasione di quei contatti con esponenti politici di cui ha parlato in particolare Gaspare Spatuzza.
Come più sopra ricordato questo collaboratore di giustizia ha riferito, tra l’altro, di quella sua trasferta a Roma, a gennaio 1994, in occasione della qua[e ebbe ad incontrare Giuseppe Graviano presso il Bar Doney ricevendo dallo stesso ampie e perfino entusiastiche rassicurazioni circa la prospettiva di ottenere benefici normativi perché erano intervenute interlocuzioni con “persone serie”, subito indicate in Silvio Berlusconi e nel “compaesano” Dell'Utri che aveva fatto da intermediario, e che, quindi, si erano “messi il Paese nelle mani”.
Chiarito che Spatuzza non ha visto con chi Graviano si fosse incontrato, tanto più che lo stesso si è limitato a prelevare questo soggetto da quel bar ricevendo i commenti (per quanto entusiastici) di costui, si può ottenere una parziale conferma, per di più di carattere deduttivo, per ritenere che in quell’occasione con Graviano sia stato presente Dell'Utri (il “compaesano” che faceva da intermediario) tanto che proprio costui, nello stesso periodo in cui Spatuzza ha collocato l’episodio, aveva alloggiato in un albergo, l’Hotel Majetic, ubicato nei pressi del citato bar Doney in via Veneto. Al riguardo si può fare rinvio all’attività di ricerca dei riscontri rispetto alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sulla quale hanno riferito, all’udienza del 22 ottobre 2015, i testi Sandro Micheli e Massimo Cappottella. Quest’ultimo, già luogotenente in servizio presso il Centro Operativo Diadi Firenze dal 1993, ha riferito di aver partecipato, sin dal mese di febbraio 1994, alle indagini sulle stragi ([...]) concluse in una prima fase col processo di Firenze e, successivamente, riprese nel 2009 a seguito, appunto, della collaborazione di Spatuzza.
Ebbene il teste ha riferito che il suo Ufficio era stato incaricato di ricercare i riscontri alle dichiarazioni di Spatuzza, riscontri, peraltro, in parte già acquisiti dal Centro Operativo di Roma ([...]), ad iniziare dal primo accertamento concernente la presenza di Spatuzza in Roma nel gennaio 1994. Sempre il teste Cappottella ha riferito che un prima conferma si trovò analizzando i tabulati telefonici del cellulare in uso a Spatuzza (“[...]”), che aveva consentito di rilevare, in particolare, alcune telefonate fatte in Roma dal 18 gennaio 1994 (“[...]”).
Il teste ha aggiunto che, nel contempo, era stata verificata la presenza nel medesimo periodo di Giacalone Luigi (“Giacalone Luigi era una delle persone che hanno partecipato all’attentato dell’Olimpico sostanzialmente. È stato condannato poi per tutte le stragi, Firenze, Roma e Milano, Formello, Olimpico, ed era una persona che abitava a Palermo e che ha concorso in queste... Nella preparazione di quell’attentato. E c‘è la sua presenza nello stesso periodo in cui c’è Spatuzza, quindi abbiamo anche lì esaminato il tabulato del suo cellulare. che avevamo già acquisito durante le indagini del primo procedimento sulle stragi sostanzialmente. Abbiamo individuato all’epoca tutti i cellulari che avevano in mano gli indagati, esaminati per bene e individuati tutti i loro spostamenti. In questa fase li abbiamo ripresi e ricollocati per riscontrare quello che diceva Spatuzza Il cellulare di Giacalone è su Roma dal 17 al 24gennaio.... ++++++++, ed era un cellulare intestato non a lui direttamente, ma alla ditta di Giacalone, la Auto O e O di Giacalone, che era... Lui era un rivenditore di auto usate sostanzialmente”) ed erano state individuate le abitazioni utilizzate come basi logistiche indicate dai collaboranti (“Si, questa è sempre stata materia del primo processo, cioè, in cui furono individuate tutte le abitazioni che le persone che collocarono diciamo gli esplosivi avevano utilizzato, sia tramite l’analisi telefonica, sia tramite assunzione di informazioni di testimoni, cioè riuscimmo ad individuare tutti quanti le abitazioni e anche, diciamo, gli spostamenti. E in sostanza, diciamo, si trattava di abitazioni che erano site a Roma, […]”), nonché la data di scarcerazione di Pietro Romeo avvenuta l'1 febbraio 1994 (“Allora, la scarcerazione è avvenuta il 1 febbraio 94 ...Arrestato nel 92, però non mi ricordo adesso la data precisa.[...] Perché Spatuzza disse che quando rientrò a Palermo dopo il fallito attentato dell’Olimpico, si incontrò con Romeo che era stato scarcerato da poco”).
Il verbalizzante ha inoltre riferito che è stato, anche, riscontrato che in data 18 gennaio 1994 erano stati uccisi due Carabinieri a Scilla in Calabria (“[...]”) e che erano stati svolti, poi, accertamenti riguardo alla presenza in Roma, in quel periodo, di Marcello Dell'Utri, verificandone la registrazione in albergo in data 18 gennaio 1994 (“Si, sono stati svolti anche da noi quegli accertamenti Abbiamo... Ci fu delegato di verificare se appunto in quel periodo c’era anche la presenza di Marcello Dell'Utri a Roma, ragion per cui diciamo noi ci attivammo per verifcare dove fosse alloggiato e quindi in quest’ottica attingemmo al centro elaborazioni dati dapprima, diciamo, come primo accertamento al Ced della Polizia di Stato che detiene tutte le registrazioni degli alberghi diciamo, dove passano tutte le persone alloggiate e quindi vengono segnalate alla Questura che li inserisce. E il Ced ci rispose, diciamo, ci inviò dei tabulati da cui risultava che Marcello Dell'Utri era presente a Roma il 18 gennaio 94 all'hotel Majestic che si trova in Via Veneto 50”) e ricostruendo anche il motivo ditale presenza collegata alla nascita di Forza Italia (“[...]”).
Per quanto siano individuabili, anche sulla scorta di tali accertamenti, dei margini per assumere che Dell'Utri abbia fatto da intermediario con Graviano, va aggiunto che neppure la sentenza di primo grado ha avuto modo di affermare che Berlusconi, che in data 26 gennaio 1994 ufficializzò la sua “discesa in campo”, abbia avuto occasione di incontrare Giuseppe Graviano per di più pochi giorni prima della cattura di questo latitante (intervenuta a Milano il 27.01.1994, unitamente al fratello Filippo) e pressocché contestualmente al fallito attentato dinamitardo allo Stadio Olimpico di Roma, progettato per il 23.01.1994 in occasione della partita di calcio Roma-Udinese, nonché qualche giorno dopo l’uccisione, in Calabria, il 18.01.1994, dei Carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo in un agguato consumato con colpi da arma da fuoco.
Pertanto il tardivo contributo dichiarativo del Brusca, con tutti i suoi limiti e l’assenza di riscontri (anzi con il riscontro negativo desumibile da quanto detto da Sinacori sulla vicenda dell’orologio), non aiuta a superare questo passaggio probatorio circa l’incontro di Berlusconi con Giuseppe Graviano in vista delle consultazioni elettorali del 1994. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le intercettazioni in carcere di “Madre Natura” sul Cavaliere di Arcore. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 24 dicembre 2022
Graviano, per quel che è possibile comprendere, fa riferimento all‘intendimento di Berlusconi di “scendere” in Sicilia, al fatto che in questa regione ancora dominavano i “vecchi” politici, ed alla richiesta che gli aveva fatto Berlusconi per una “bella cosa”. Vi sono, poi, alcuni confusi passi della conversazione nei quali Graviano sembra fare cenno da un lato alle discussioni sulla prosecuzione della strategia stragista o in alternativa della ricerca di un accordo...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In merito alla vicenda testé rammentata del fallito attentato allo Stadio Olimpico è doveroso riportare ciò che è stato scritto nella sentenza di primo grado per collocare tale episodio nel contesto degli avvenimenti che avrebbero potuto segnare la storia del paese:
Costituisce forte convinzione della Corte, alla stregua del complesso di tutte le acquisizioni probatorie i-accolte, che quell‘episodio dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, passato quasi in secondo piano perché per fortuna fallito, se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di Carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo stato pressoché definitivamente (il “colpo di grazia “, per fortuna, soltanto vaneggiato da Giuseppe Graviano) dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni a fronte di un Governo di fatto già dimissionario e di un parlamento già proiettato verso le imminenti elezioni politiche nel contesto di una campagna elettorale particolarmente aspra per le scorie della c. d. “tangentopoli” che aveva travolto tutti i partiti politici tradizionali.
Allora, pur volendo evitare qualsiasi enfasi, non può non ritenersi che quella strage avrebbe sicuramente cambiato (ovviamente in maniera tragica,) la storia di questo paese, aprendo la porta ad una fase di instabilità e di incontrollabilità del fenomeno mafioso foriera di esiti, sì, imprevedibili, ma certamente tutti gravemente negativi per la sopravvivenza stessa delle Istituzioni democratiche.
Il “caso”, qui rappresentato dall‘occasionale fallimento dell’attentato unitamente all‘arresto dei fratelli Graviano che di lì a pochi giorni sarebbe avvenuto a Milano, ha mutato il corso delle cose e forse “salvato” il paese da anni sicuramente bui e tristi”.
Delle considerazioni che, per quanto offrano una lucida lettura degli accadimenti di quel periodo storico e politico, non aiutano a ricostruire la dinamica del fatto delittuoso che viene contestato in questo processo, neppure in riferimento alla posizione ritagliata intorno alla figura di Marcello Dell'Utri.
A volere ritenere che la stagione mafioso/stragista sia cessata dopo il fortuito fallimento (per un difetto del telecomando di innesto) dell’attentato allo Stadio Olimpico e dopo l’arresto, intervenuto in quello stesso periodo, dei fratelli Graviano, da tale ricostruzione non è possibile stabilire in quale misura la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi e la creazione, anche con l’ausilio di Dell'Utri, di Forza Italia siano stati degli eventi capaci di disinnescare, perlomeno in termini di causa-effetto, la stagione di contrapposizione frontale tra Cosa nostra e lo stato.
Non solo, infatti, va tenuto conto di quanto decantato in linea difensiva, circa gli interventi legislativi assunti con il contributo di Forza Italia, con provvedimenti contro i detenuti per l’imputazione ex art. 416 bis c.p. e perfino in tema di stabilizzazione del regime penitenziario di cui all’art 41 bis presi dai Governi Berlusconi successivi alla prima (e breve) esperienza di governo di questo esponente politico, ma va considerato che l’oggetto dell’imputazione che coinvolge in questo giudizio anche l’appellante Dell'Utri, non è quello riferito all’aver favorito una “pacificazione” nei rapporti tra lo stato e “la mafia”, ma di aver semmai minacciato e condizionato, in concorso con i mafiosi, l’operato del premier Berlusconi dopo l’insediamento del Governo nel maggio del 1994: l’ipotesi è che Silvio Berlusconi in quel particolare momento politico istituzionale sia stato minacciato ventilando la ripresa delle stragi. Senza dimenticare che Giuseppe Graviano, che fino a qualche giorno prima del suo arresto decantava, con Spatuzza, di aver trovato degli “interlocutori seri” e di essersi messo praticamente in mano le sorti dell’intero paese, ha proseguito, fino a quando ha potuto (cioè praticamente fino al suo arresto), la linea di attacco frontale allo stato, tanto che, nonostante quelle interlocuzioni al bar Doney, ha progettato l’attentato all’Olimpico di Roma che, se portato a consumazione, avrebbe falcidiato un numero di vittime, tra Carabinieri in servizio d’ordine e tifosi lì convenuti, perfino superiore ai precedenti attentati degli anni 1992-93.
V’è dunque da ritenere che l’esaurirsi della fase stragista, per quanto condizionata dal fallimento dell’attentato allo Stadio Olimpico, vada attribuita ad una molteplicità di fattori legati anche ai progressivi arresti dei soggetti più sanguinari che avevano seguito la primogenita strategia di Salvatore Riina e dell’ala stragista più intransigente. Una linea non coltivata, perlomeno non con nuove iniziative eclatanti, neppure da Bagarella e Brusca prima dei loro rispettivi arresti (24.06.1995 data dell’arresto di Bagarella; 21.05.1996 data dell’arresto di Brusca) verosimilmente per il mutamento delle condizioni e nell’attesa (o nella speranza) di ottenere le riforme nei termini promessi da Marcello Dell'Utri.
Un esito rispetto al quale non può ritenersi estraneo neppure un certo senso di sfiducia che aleggiava, sempre più forte, tra le fila di Cosa nostra anche per la progressiva presa d’atto che la linea di contrapposizione dura contro lo stato non aveva pagato producendo, semmai, degli effetti perfino opposti in termini di irrigidimento dell’azione repressiva ed antimafia.
Una condizione che ha finito per favorire l’ala mafiosa più moderata che tradizionalmente si rifaceva a Bernardo Provenzano. Quale possa essere stato, poi, il ruolo di Forza Italia cosi come delle altre formazioni politiche dell’epoca in questa opera che può essere letta di “normalizzazione” è compito che spetta agli analisti e non certamente a questa Corte in assenza di un’imputazione che vada oltre i confini (in verità già ampi) individuati nella sentenza di primo grado. Al riguardo va sottolineato che l’imputazione di cui al capo A) contiene una contestazione aperta in Palermo e Roma dal 1992, quasi a voler prospettare un’azione delittuosa perdurante ed appunto priva di margini temporali.
Rispetto a questa eventualità va dato atto della puntuale operazione attuata dalla Corte di Assise di Palermo che ha individuato i limiti anche temporali della condotta di reato ancorandola, come termine ultimo, ai fatti che coinvolgono il primo governo presieduto da Berlusconi e, dunque, fino al dicembre del 1994. Una ricostruzione coerente con gli elementi disponibili e neppure fatta oggetto di impugnazione da alcuno e che ha anche l’indubbio pregio di restituire concretezza ad un’accusa che, diversamente, rischierebbe di risultare imprecisa perfino con prospettive di indefinite ed impalpabili dilatazioni cronologiche.
IL GIUSEPPE GRAVIANO PENSIERO
Tornando alla questione riferita ad un’ipotetica interlocuzione Berlusconi/Graviano con riferimento agli accordi preelettorali del 1994, è opportuno ribadire che questo capitolo probatorio, a prescindere dai suoi limitatissimi esiti, sarebbe comunque destinato a rimanere distinto dalla problematica degli sviluppi in senso ricattatorio/stragista, gli unici davvero capaci di integrare il delitto di cui all’art. 338 c.p.; un’iniziativa di minaccia, quest’ultima, che, secondo la sentenza di primo grado, non è stata neppure coltivata direttamente dal Graviano, per di più a quel punto già in stato di detenzione, ma dalla coppia Bagarella e Brusca con l’ausilio anche di Salvatore Cucuzza, secondo la veicolazione dell’intimidazione affidata a Vittorio Mangano e quindi a Dell'Utri perché la inoltrasse infine al neo Prernier Berlusconi.
Ma se le intercettazioni carcerarie che hanno interessato Giuseppe Graviano consegnano, nei termini detti, strettissimi spunti di riflessione per l’imputazione predetta (con commenti nei quali aleggiava un senso di sfiducia verso l’operato del Governo), non si può ignorare che in una di queste intercettazioni, esattamente quella del 10.04.2016, è riportato un passaggio che, per quanto dal contenuto criptico e controverso, offre conferma di una richiesta che Berlusconi avrebbe formulato a Graviano. Considerato che la questione attiene, come è noto, anche a sviluppi probatori su ipotesi delittuose diverse ed ancora aperte, sebbene in fase di indagini, in questa sede ci si limita ad un breve cenno sempre funzionale alle ricadute di stretto interesse probatorio per la fattispecie contestata al capo A).
Poiché l’argomento è stato meticolosamente trattato con la decisione di primo grado è opportuno muovere dalla motivazione ditale sentenza, nella quale è dato leggere: “Intercettazione del 10 aprile 2016 (passeggio)
E’ l‘unica intercettazione per la quale, come anticipato sopra, v‘è stato un significativo contrasto tra la trascrizione effettuata dal Perito incaricato dalla Corte, condivisa anche dal consulente nominato dal P.M, e quella, invece, effettuata dal consulente della difesa dell‘imputato Dell‘Utri. Il contrasto, in particolare, riguarda due passi un cui si fa il nome di Berlusconi (in uno in modo per lo più completo o comunque intellegibile e nell‘altro con la sola iniziale “B”). Questi i due passi trascritti dal Perito incaricato dalla Corte e condivisi dal consulente del P.M.:
1° “Berlusca... mi ha chiesto ‘sta cortesia... per questo è stata... l’urgenza di riri... comu mai chissu... p ‘a... p‘acchianari? Poi chi successi? (inc. a ore 13:02:30 Graviano sussurra all‘orecchio di Adinolfi) siccomu iddru... l‘elezioni.. Berlusca... (inc.)rnari la Sicilia... Berlu...”;
2° “.. “ma chissu chi.. chi intenzioni avi?” perchè lui non sa... uh... a difficoltà, mi voli fari parlari di tutti cosi di “b “... o voli u suli e a luna ‘mucca”?
Il consulente della difesa dell‘imputato Dell‘Utri ha, invece, così trascritto i due passi che precedono:
1° “Bravissimo... mi ha chiesto ‘sta cortesia... per questo è stata... l’urgenza di di diri comu mai e gli sviluppi.... p‘acchianari. Poi chi successi? (ore 13:02:30 abbassa il tono della voce). (inc.) a ragazza ci vinni (inc)”;
2° ‘‘.. “ma chissu chi... chi intenzioni avi? “perché lui non sa... uh... a difficoltà. Mi voli fari parlari di tutti cosi di mi (fonetico)... o voli u suli e a luna ‘mucca?”.
La Corte ha ascoltato in camera di consiglio la registrazione messa a disposizione dal Perito, la cui scarsa qualità rende effettivamente difficoltoso il riconoscimento delle parole, tanto più quando, come nel caso del secondo passo sopra riportato, la differenza riguarda una sola consonante “B” o “M” pronunziata informa puntata. Ma l’ascolto diretto (effettuato con le sole attrezzature a disposizione della Corte, costituite da un personal computer portatile, dotato di ordinaria scheda audio, ed una cuffia, certamente meno sofisticate e performanti di quelle utilizzate per le attività di perizia) sembra avallare la trascrizione del Perito tenuto conto che è stato possibile percepire con sufficiente chiarezza, per la prima parte della registrazione del primo passo, la parola “Berlusca” e per la seconda parte, invece, pur non essendo riuscita la Corte a percepire le parole “Berlusca” e “Berlu” che risultano incomprensibili, è stata percepita con suffìciente chiarezza la parola “Sicilia” che, conferma, appunto la corrispondente trascrizione del Perito e conduce a disattendere quella diversa del Consulente di parte che riporta parole (“..a ragazza ci vinni.”) che già l’ascolto effettuato come sopra indicato consente di escludere.
Anzi, v’è da dire, che le tracce più “ripulite” messe a disposizione dalla difesa dell‘imputato Dell‘Utri ed acquisite all‘udienza del 11 dicembre 2017 […] ha tolto, poi, alla Corte, più nella sua valutazione inevitabilmente soggettiva, qualsiasi dubbio sulla effettiva pronunzia della parola “Berlusca” laddove sono chiaramente percepibili le vocali “e” ed “u” invece inesistenti nella parola
“bravissimo” ([...]). […] D’altra parte, appare veramente singolare che, su oltre ventuno ore di registrazioni trascritte dal Perito incaricato dalla corte, il consulente della difesa dell‘imputato Dell'Utri non abbia concordato sulle due uniche brevi frasi nelle quali viene espressamente nominato, dal Graviano, Berlusconi in un contesto diverso dai riferimenti al suo Governo o alprocesso Dell‘Utri.
Ciò tenuto conto, peraltro, che vi sono nelle conversazioni del Graviano molti altri riferimenti riconducibili a Berlusconi ed estranei alla stia attività di Governo nei quali il nome del predetto non viene pronunziato e che, pertanto, non è stato possibile per il medesimo consulente della difesa alcuna contestazione.
Ci si intende riferire a quei passi nei quali è possibile, comunque, identificare il soggetto di cui parla Graviano in Berlusconi per l‘indicazione delle visite pubbliche fatte da quest‘ultimo sull‘Etna (notoriamente il 29 ottobre 2002) e in Bielorussia (notoriamente il 30 novembre 2009 negli stessi giorni in cui Graviano era stato chiamato a testimoniare nel processo Dell ‘Utri).
POCA CHIAREZZA E MOLTE IPOTESI
Ciò premesso, deve, d ‘altra parte, osservarsi che ben poco è possibile trarre dalla intercettazione qui in esame, perché caratterizzata, forse ancor più di altre, da una particolare attenzione del Graviano per evitare che le eventuali intercettazioni, che egli sospettava con elevatissima probabilità esservi, potessero consentire l’ascolto da parte di terzi del suo colloquio con Adinolfi.
Se, in questo caso come negli altri, è stato possibile percepire alcuni passi ditale colloquio è, verosimilmente, soltanto perché Graviano ed Adinolfi avevano erroneamente individuato la fonte delle possibili intercettazioni in videocamere collocate ad altri fini e, comunque, diverse dalle attrezzature utilizzate, invece, per le intercettazioni e si tenevano, dunque, più a distanza dalle prime anziché dalle seconde.
[…] Nel prosieguo, quindi, Graviano, per quel che è possibile comprendere, fa riferimento all‘intendimento di Berlusconi di “scendere” in Sicilia, al fatto che in questa regione ancora dominavano i “vecchi” politici, ed alla richiesta che gli aveva fatto Berlusconi per una “bella cosa” […]. Vi sono, poi, alcuni confusi passi della conversazione nei quali Graviano sembra fare cenno da un lato alle discussioni sulla prosecuzione della strategia stragista o in alternativa della ricerca di un accordo ([...]) e, dall‘altro forse alla vicenda della richiesta di scarcerazione di alcuni detenuti tra i quali Bernardo Brusca, padre del “pentito” Giovanni ([…]). Poi, v‘è ancora un riferimento del Graviano alla citazione sua e del fratello Filippo nel processo Dell‘Utri (“[...]”) ed alle conseguenti preoccupazioni suscitate (“...t‘avissi a ricordari... picchì si preoccupava, dice “si chistu pa.. a mia ma... m‘arrestano subito!”. Umbè, ha fatto tutte cose così sottolineando, però, che egli si era avvalso della facoltà di non rispondere [...] e che il fratello Filippo, tenendo testa a coloro che lo interrogavano, aveva difeso “a spada tratta” Dell‘Utri in virtù delle pregresse frequentazioni ancorché da quest‘ultimo dimenticate [...]”).
Da tali riflessioni della Corte di Assise, da assumere con cautela per le difficoltà di comprensione delle parole di Graviano ed anche per la possibilità dello stesso di voler perfino veicolare messaggi all’esterno (nella sostanziale consapevolezza delle intercettazioni carcerarie), si ottiene comunque la conferma di un’istanza (“... mi ha chiesto ‘sta cortesia ) rievocata da Graviano e che aveva coinvolto il “Berlusca” così da lasciare adito alla possibilità di un’interlocuzione con Silvio Berlusconi per di più in riferimento alta vicenda delle elezioni politiche ([...]), sia pure in termini non perfettamente chiari ed intellegibili, perlomeno a giudizio di questa Corte ed in base ai dati disponibili in questo processo.
Orbene, pur in presenza di un inquietante scenario di tal fatta, che ben inteso ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Silvio Berlusconi per gravissime ipotesi di reato, esattamente nelle indagine sui c.d. mandanti occulti delle stragi in continente (da qui la ragione processuale che ha portato, vedi infra, a citare il predetto Berlusconi in qualità di “testimone assistito”, perché indagato in un procedimento connesso sul piano probatorio), va dato atto del fatto che neppure la sentenza di primo grado ha ritenuto che Berlusconi abbia incontrato Graviano Giuseppe, perlomeno non con ricadute che possano assumere una qualche valenza significativa per l’ipotesi di reato di cui all’art. 338, nemmeno in termini di premessa per una sorta di scelta condivisa rispetto alle iniziative assunte in seguito da Bagarella e Brusca in danno del Governo Berlusconi.
In effetti i pochi e frammentari elementi a disposizione, su un capitolo di indagine così estremamente complesso, scivoloso e multiforme, non restituiscono dei dati certi per avvalorare, neppure da questa via, l’ipotesi accusatoria riferita— è il caso di doverlo ricordare ancora una volta — non tanto alla “trattativa” o agli accordi pre elettorali ed agli altri elementi che possano essere stati di contorno all’antecedente causale, bensì alla fattispecie delittuosa di minaccia al Corpo politico dello stato nei termini e nei limiti dell’imputazione riferita in particolare al governo Berlusconi insediatosi nel maggio del 1994.
Senza dire che qualora si ritenesse confermata - per mera ipotesi - la tesi per cui Silvio Berlusconi abbia assunto un qualche ruolo come ideatore oppure sollecitatore delle stragi ed allora la situazione probatoria per il presente processo finirebbe per complicarsi ulteriormente secondo una sorta di eterogenesi dei fini per cui Berlusconi sarebbe al contempo compartecipe del progetto delle stragi ed a sua volta vittima delle stesse, perlomeno nel momento in cui ha assunto l’incarico di governo ricevendo la minaccia di ulteriori atti terroristico/mafiosi.
Causa ed effetto al pari delle complessive azioni, in virtù di questa prospettiva, sarebbero destinate a confondersi irrimediabilmente secondo una logica difficilmente decifrabile che lascia adito ad ipotesi, se non a sospetti, ma non certamente a prove nemmeno in termini di contributi significativamente rilevanti.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Il pesante “precedente” di Dell’Utri, la condanna per concorso esterno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 dicembre 2022
In seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palermitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell‘Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che — per i motivi più volte evidenziati — è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questo segmento della decisione si pone in prosecuzione logica con gli altri ma adesso la questione diviene centrale poiché eventuali minacce recapitate a Berlusconi, a questo punto come rappresentate (anzi come primo rappresentante) del governo da lui presieduto, non sarebbero più qualificabili come prospettive su scenari futuri ed incerti ma varrebbero ad integrare -appunto se dimostrate - il reato aggravato di cui all’art. 338 c.p..
In effetti è stata acquisita prova del fatto che Vittorio Mangano, anche nel periodo successivo all’insediamento del predetto governo, ebbe degli ulteriori contatti con Dell'Utri, nel giugno-luglio 1994 e poi nel dicembre dello stesso anno, ricevendo, di volta in volta, aggiornamenti sulle azioni che il governo (o il partito di Berlusconi) stava portando avanti in linea con l’impegno preso dallo stesso Dell'Utri durante la campagna elettorale da poco conclusa (v. Parte Quarta della sentenza di primo grado, Capitolo 4, paragrafo 4.4).
Tuttavia, per come ha riconosciuto la stessa decisione impugnata, “... non v’è e non può esservi prova diretta sull‘inoltro della minaccia da Dell‘Utri a Berlusconi perché ovviamente soltanto l‘uno o l‘altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui”.
In mancanza della prova diretta la sentenza si è affidata alla prova logica: vi sono, tuttavia, ragioni logico—fattuali che conducono a non dubitare che Dell ‘Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa “cosa nostra” mediati da Vittorio Mangano (‘ma, in precedenza, in altri casi, anche da Gaetano Cinà,).
Se, dunque, la prova è logica - o logica fattuale, come definita - occorre procedere con ponderatezza poiché, se il nostro ordinamento consente di pervenire alla condanna sulla scorta di una prova di tal fatta, è altrettanto evidente che in questi casi si imponga un esito immune da alternative basate su un substrato egualmente logico e tale da condurre ad un risultato diverso; con l’ulteriore ed anch’essa basilare precisazione che, in caso di plurime scelte esegetiche razionalmente percorribili, dovrà prevalere la soluzione che conduca all’esito favorevole per gli imputati (in dubbio pro reo).
Come già affermato in precedenza in questa motivazione, la prova logica, come strumento di accertamento dei fatti, si dissolve se le venga meno il supporto della mancanza di plausibili spiegazioni alternative; e in questo caso il rischio di incorrere nel classico vizio della fallacia dell’affermazione del conseguente è altissimo.
Occorre, pertanto, ripercorrere il ragionamento seguito in primo grado per valutare se si tratti dell’unica interpretazione, dovendo anche aggiungere che non basta la coerenza logica rispetto ad un determinato esito probatorio ma è necessario che tale risultato discenda dagli elementi indiziari, in assenza di alternative coerentemente ed egualmente percorribili.
[…] Alla luce di queste premesse, improntate alla presunzione di non colpevolezza di cui la locuzione “al di là di ogni ragionevole dubbio” costituisce il necessario postulato, occorre approcciarsi alla motivazione di primo grado secondo le coordinate delineate, in specie, nella parte dedicata alla trattazione della posizione dell’imputato Dell'Utri.
IL “CONSOLIDATO RUOLO” DI DELL’UTRI
Ebbene, il primo dei “fatti” a base del giudizio di colpevolezza è stato individuato nel consolidato ruolo di intermediario, tra gli interessi di Cosa nostra e gli interessi di Berlusconi, svolto con continuità da Dell'Utri incontestabilmente (perché definitivamente accertato per effetto delle ricordate sentenze irrevocabili) dimostrato dall’esborso, da parte delle società facenti capo a Berlusconi, di ingenti somme di denaro versate a Cosa nostra.
Sul punto la sentenza muove dalla premessa secondo la quale, come acclarato irrevocabilmente con la condanna per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., “... Dell'Utri, senza l’avallo e l‘autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme per conto di quest‘ultimo recapitate ai mafiosi.
In riferimento alla condotta per la quale Dell'Utri è stato condannato ci si può rifare (per come analogamente ha fatto la decisione di primo grado di questo processo) alla sentenza della Corte di Appello di Palermo del 25 marzo 2013.
Da tale decisione si ricava, invero, che già dalla precedente pronunzia della Corte di Cassazione di annullamento della precedente sentenza della Corte di Appello di Palermo del 29 giugno 2010, era derivato il definitivo accertamento “in virtù del giudizio positivo formulato in ordine all‘attendibilità soggettiva ed alla esistenza di riscontri reciproci delle dichiarazioni di Di Carlo, Galliano e Cucuzza, collaboranti gravitanti all‘interno di cosa nostra di alcuni precisi fatti indicati nei seguenti punti:
“- l‘assunzione - per il tramite del Dell ‘Utri - di Mangano ad Arcore come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di cosa nostra;
- la non gratuità dell‘accordo protettivo in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell‘accordo essendosi posto anche come garante del risultato;
- il raggiungimento dell‘accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell ‘Utri che, di quell‘assunzione, è stato l‘artefice grazie anche all‘impegno specifico profuso dal Cinà”.
Tali condotte, sostanzialmente “consistite nella ricerca di un contatto con esponenti di”cosa nostra” al fine del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e l‘associazione mafiosa, la mediazione nei pagamenti di somme di denaro da parte dell‘imprenditore milanese alla stessa consorteria mafiosa in cambio di una generale protezione, sono state, quindi, ritenute sintomatiche della fattispecie delittuosa contestata all‘imputato di concorso esterno in associazione mafiosa”.
Secondo la sentenza della Corte di Appello del 2013, dunque, era “incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e durante il dominio di Salvatore Rima, non si è registrata alcuna interruzione dei pagamenti cospicui da parte di Silvio Berlusconi, essendo “...emerso che l’imputato (con il Cinà) ha agito in modo che il gruppo inprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ‘90.”.
Va anche aggiunto che, secondo quei giudici, la “cifra notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito della stagione stragista della nuova direzione mafiosa”, voluta da Salvatore Riina subentrato, sin dai primi anni ottanta a Stefano Bontate nella guida della “cosa nostra” palenriitana, non aveva “inciso sugli equilibri sanciti tra cosa nostra e Dell‘Utri e Berlusconi con il patto del 1974 che — per i motivi più volte evidenziati — è rimasto del tutto immutato ed è proseguito senza soluzione di continuità fino al 1992”.
Sino al 1992, pertanto, sono stati ravvisati “tutti gli elementi costitutivi del delitto contestato non essendo mai emerso alcun fatto da cui poter desumere un mutamento dell‘elemento psicologico di Dell‘Utri” che investiva “sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica, che dopo quasi un ventennio Dell‘Utri ben conosceva, sia il contributo causale recato con il proprio comportamento alla conservazione ed al rafforzamento dell‘associazione mafiosa con la quale consapevolmente e volontariamente l’imputato interagiva dal 1974”.
Ed è ugualmente utile puntualizzare in questa sede che, ancora secondo quella sentenza della Corte di Appello del 2013, la “...peculiarità del comportamento di Dell‘Utri è consistita nel suo modo speciale e duraturo di rapportarsi con gli esponenti di cosa nostra non provando mai in un ventennio, nessun imbarazzo o indignazione nell‘intrattenere rapporti conviviali con loro, sedendosi con loro allo stesso tavolo” e ciò non per “t’avvisare relazioni e contiguità sicurweunente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee all‘area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione”, ma per “valutare la condotta di un soggetto che, per un ventennio, pur non essendo intraneo all‘associazione mafiosa, ha voluto consapevohnente interagire sinergicamente con soggetti acclaratamente mafiosi. rendendosi conto di apportare con la sua opera di mediazione un ‘attività di sostegno all‘associazione senza dubbio preziosa per il suo rafforzamento”.
I PERIODI “COMPROMESSI”
A ciò va aggiunto che la sentenza della Corte di Cassazione del 9 marzo 2012 (di annullamento parzialmente e con rinvio) ha provveduto a suddividere il periodo rilevante per l’imputazione di concorso esterno (che il giudice di seconde cure aveva fissato nell’arco temporale 1974 — 1992 anziché tino al 1998, come sostenuto dal Tribunale) in tre diversi sottoperiodi: un primo periodo dal 1974 al 1977; un secondo periodo dal 1978 al 1982; un terzo periodo dal 1983 al 1992.
A proposito del primo indicato sottoperiodo, è stata confermata la sentenza impugnata nella parte in cui quest’ultima aveva ritenuto dimostrato che Dell'Utri, nel 1974, avesse favorito la stipulazione di un accordo tra Silvio Berlusconi e gli allora vertici di Cosa nostra — accordo in forza del quale Berlusconi avrebbe versato cospicue somme di denaro in cambio di protezione per sé e la propria famiglia — e che, nei tre anni successivi, si fosse occupato di garantire l’esecuzione di tale accordo, provvedendo personalmente a consegnare il denaro di Berlusconi a esponenti della associazione mafiosa.
Infine, con la già citata sentenza della Cassazione del 9 maggio 2014, che ha reso definitiva la condanna di Marcello Dell'Utri alla pena di anni sette di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato affermato che anche nell’ultimo periodo, coincidente con il decennio 1983-1992, Dell'Utri aveva mantenuto il dolo specifico e diretto del concorrente esterno dal momento che aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da Cosa nostra sia l’efficacia causale della sua attività per il mantenimento della stessa associazione criminale in particolare assicurando una protezione alle attività imprenditoriali del Berlusconi.
Tuttavia tutti questi elementi, che pure valgono a delineare i conclamati rapporti di Dell'Utri con l’organizzazione mafiosa, non possono essere in questa sede trasfusi sic et simpliciter per asseverare la consumazione della minaccia a Como politico dello stato rappresentato dal governo di cui si è detto e ciò, non solo perché la condanna irrevocabile a carico di Dell'Utri è limitata ai fatti commessi fino al 1992 (argomento sul quale e tenacemente si sono spese le difese), ma soprattutto perché quella condanna ha riguardato il concorso esterno nell’associazione mafiosa, ovvero un reato che come noto non implica l’adesione al sodalizio e l’affectio societatis. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
I pagamenti eccellenti che facevano contento Totò Riina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 26 dicembre 2022
Malgrado emerga che l’imprenditore Berlusconi fosse soggetto ai pagamenti in epoca anche successiva al maggio del 1994, questo fatto non prova, di per sé, che vi sia stata un’interlocuzione tra Dell'Utri e Berlusconi sulla minaccia stragista che Cosa nostra rivolgeva al governo della Repubblica per assicurarsi il rispetto degli accordi preelettoral i intrecciati con Dell'Utri
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Se, dunque, la precedente condanna irrevocabile (per di più per fatti fino al 1992) non costituisce un viatico sufficiente per dimostrare che il predetto Dell'Utri, che non è stato partecipe dell’organizzazione, si sia senz’altro incontrato con Berlusconi nel 1994 per recapitargli la minaccia mafiosa capace di integrare il reato di cui all’art. 338 c.p., non risulta neppure risolutivo l’ulteriore elemento, parimenti deduttivo, teso a valorizzare certe acquisizioni probatorie non esistenti all’epoca del primo processo a carico di Dell'Utri.
Il riferimento è alle emergenze che consentono di riscontrare le propalazioni di Giusto Di Natale ricavabili dalle intercettazioni delle parole di Salvatore Riina nel 2013 (v. Parte Quarta, Capitolo 2, paragrafo 2.13.1 della sentenza di primo grado) ed essenzialmente dirette a comprovare che i pagamenti delle società di Berlusconi siano proseguiti almeno fino al dicembre del 1994.
Anche tale acquisizione, per quanto di indubbia rilevanza (se si vuole: “di straordinaria rilevanza”), possiede tuttavia un carattere circoscritto ai fini di interesse, ossia per dimostrare che Berlusconi abbia davvero ricevuto (subendola) la minaccia stragista tramite Dell'Utri a completamento dei canale di comunicazione Mangano/Dell'Utri e, appunto, Dell'Utri/Berlusconi.
Questa Corte non intende (tutt’altro) sottovalutare il significato delle captazioni delle esternazioni di Riina durante la sua detenzione, delle dichiarazioni capaci di confermare quanto riferito al collaboratore Di Natale circa il pagamento di 250 milioni di lire da annotare nel “libro mastro” per le antenne televisive delle società di Berlusconi - un versamento da registrare sotto il nome “u sirpiente”, con riferimento al simbolo del gruppo Fininvest ovvero dell’ancora più iconico simbolo di “Canale 5”, installate sul Monte Pellegrino a Palermo:
“Di Natale: E in questo caso mi sto ricordando che in una di queste annotazioni una volta venne il Guastella, non mi portò il denaro, ma mi disse di annotare duecento cinquanta milioni di lire, dice: scrivici u sirpiente, dice, che queste sono le antenne televisive di Berlusconi che si trovano a Monte Pellegrino:
P.m Del Bene: - E u serpente stava per cosa?:
Di Natale: - Il biscione, insomma, volgarmente il biscione che c’era nella pubblicità di Mediaset, invece di scrivere biscione un ha detto scrivi u sirpiente. in siciliano, per capire che si trattava delle antenne televisive di Monte Pellegrino”.
Ma è proprio quanto riferito dal Riina che porta a ritenere che questi pagamenti prescindessero da un’attività di intermediazione diretta da parte di Dell'Utri. Tanto meno un’interlocuzione tale da richiedere dei dialoghi con Berlusconi, in quel momento impegnato nel suo incarico di neo Presidente del Consiglio.
Occorre accennare al fatto che il racconto del collaboratore Di Natale era stato originariamente ritenuto “incerto e confuso” tanto da finire per essere disatteso su un piano probatorio, di modo che i pagamenti da parte di Silvio Berlusconi a Cosa nostra erano stati ritenuti provati soltanto fino al 1992, epoca alla quale, pertanto, era stata ancorata la conclusione della condotta criminosa contestata al predetto Dell'Utri, definitivamente condannato, difatti, per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. commesso sino al 1992.
LE CONFIDENZE DI ZIO TOTÒ IN CARCERE
Nel rispetto di questo giudicato, va tuttavia considerato che nel presente processo, per un reato differente da quello allora ascritto a Dell'Utri, sono state acquisite le intercettazioni dei colloqui effettuati nel 2013 da Salvatore Riina con un altro detenuto, in particolare Lorusso Alberto. Più esattamente, durante il colloquio registrato il 22 agosto 2013, Riina raccontava a questo suo interlocutore che Berlusconi versava la somma di duecentocinquanta milioni: […].
Si tratta dello stesso importo, di 250 milioni di lire esattamente, che è stato fatto annotare a Di Natale Giusto nel “libro mastro” nel 1994 e se viene così riscontrato in modo puntuale quanto riferito dal predetto Di Natale (il quale, per di più, indicando proprio quella somma si era distinto rispetto a quanto era sino ad allora noto, per averlo riferito, ad esempio, Cancemi con dichiarazioni ampiamente riportate sulla stampa, circa dei pagamenti di un importo minore e pari a 200 milioni di lire), tuttavia da tale prova sopravvenuta (almeno rispetto al giudicato formatisi per il Dell'Utri) risulta che i pagamenti fossero inseriti in un percorso consolidato, come affermato a chiare lettere dallo stesso Riina: “... ogni sei misi... ducentucinquanta!”.
Unendo questi dati può allora ritenersi che, almeno fino al 1994, Cosa nostra”ricevette effettivamente la somma di lire 250 milioni per le “antenne” a Palermo dalle”società televisive riferibili a Berlusconi, secondo una dinamica tanto consolidata che Salvatore Riina, conversando con il suo compagno di detenzione, si compiaceva di tale periodicità semestrale per dei soldi che, a suo modo di dire, spettavano a Cosa nostra (“... Soddi chi spittavanu a niatri...”).
Ciò posto non è invece certo, come ritenuto con la sentenza di primo grado, se sino alla predetta data (dicembre 1994) Dell'Utri, che faceva da intermediario con “cosa nostra” per tali pagamenti, riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti con i mafiosi, ottenendone le necessarie somme di denaro e l’autorizzazione a versarle o farle versare, appunto, a “cosa nostra “; così come non può giungersi all’ulteriore conclusione per cui v’è la prova che Dell'Utri interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994,) nel quale incontrava Vittoriio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo.
Escluso, infatti, che Dell'Utri si occupasse materialmente, ogni sei mesi, del pagamento di una così esosa somma (pari a 250 milioni di lire) o che si intermediasse di volta in volta con Berlusconi perché tale versamento continuasse con quella cadenza, pare decisamente più credibile che questo pagamento, come del resto inconsapevolmente ammesso dal Riinq durante il suo dialogo intercettato, avvenisse in base ad un progetto estorsivo prestabilito che non necessitava di successive interlocuzioni, tanto meno da parte di Dell'Utri con Berlusconi.
Al più v’è da ritenere che delle eventuali rimodulazioni quanto ai tempi, all’importo o ad ipotetiche altre problematiche dei pagamenti, di cui tuttavia non v’è sentore, queste si avrebbero potuto meritare un nuovo intervento di Dell'Utri per mettere a punto l’evoluzione del rapporto estorsivo che, diversamente, era instradato su binari prestabiliti tali da non comportare un’attività ulteriore del predetto imputato quale mediatore tra Cosa nostra e Berlusconi.
Senza dimenticare che un conto erano i rapporti che Dell'Utri ha intessuto in riferimento alle questioni del gruppo societario riferibile a Berlusconi e legate anche al pagamento delle tangenti mafiose e altra, diversa, era la questione della pressione dell’organizzazione mafiosa tale da integrare il reato aggravato di cui all’art. 338 c.p. nei confronti di Berlusconi quale Presidente del Consiglio e dunque di rappresentante del governo della Repubblica.
NON BASTANO LOGICA E IPOTESI
Malgrado emerga che l’imprenditore Berlusconi, come desumibile dalla menzionata intercettazione del Riina e ben prima per quanto riferito dal Di Natale, fosse soggetto ai pagamenti in epoca anche successiva al maggio del 1994, questo fatto non prova, di per sé, che vi sia stata un’interlocuzione sul tema tra Dell'Utri e Berlusconi. Tanto meno si può ritenere, sempre secondo un criterio ulteriormente inferenziale che si affidi all’alta probabilità logica, che nel contesto di questi ipotetici dialoghi sia stato inserito anche l’argomento della minaccia stragista che Cosa nostra rivolgeva al governo della Repubblica per assicurarsi il rispetto degli accordi preelettoral i intrecciati con Dell'Utri.
Se, dunque, manca la prova di questo dialogo sulle tangenti mafiose così come dell’interlocuzione ulteriore, sempre tra Dell'Utri e Berlusconi, anche sulle problematiche relative alle iniziative legislative da incanalare verso un certo percorso, va detto che un ulteriore elemento di “conforto” (così definito dalla sentenza impugnata) alla conclusione che ha portato a ritenere che Dell'Utri abbia riferito a Berlusconi delle sollecitazioni mafiose veicolategli da Mangano, è stato tratto dal primo incontro, collocabile in questa fase, tra Mangano e Dell'Utri, ossia quello del giugno-luglio 1994, di cui ha riferito il collaboratore di giustizia Cucuzza e per il quale sono stati acquisiti per la prima volta in questo processo eccezionali riscontri esterni, alcuni dei quali anche di natura individualizzante nei confronti di Dell'Utri ...(così la sentenza di primo grado).
Vengono in rilievo quelle anticipazioni che Vittorio Mangano ha raccolto da Dell'Utri, riferendone il contenuto a Cucuzza, circa alcuni interventi legislativi che si ponevano in linea con i desiderata di Cosa nostra.
Allo stesso modo, quanto all’incontro del dicembre del 1994, si è fatto leva sulle anticipazioni normative. questa volta imputabili a ulteriori iniziative del partito capeggiato da Berlusconi, anch’esse ignote all’opinione pubblica ma anche queste in linea con le aspettative dell’associazione mafiosa.
Riservando di approfondire tali argomenti nel prosieguo, va anticipato che questa Corte condivide solo in parte il ragionamento tratteggiato dalla sentenza ed esattamente soltanto nella misura in cui da tali indici fattuali si può ottenere conferma che anche in questo periodo (cioè dopo che il governo Berlusconi si era insediato) proseguirono gli incontri tra Mangano e Dell'Utri. Viceversa, da questi stessi dati, non è possibile trarre una conferma ulteriore ed altrettanto sicura circa il fatto che del contenuto ditali incontri sia stato messo al corrente anche Silvio Berlusconi.
Permangono, infatti, persuasivi elementi logico razionali per ritenere che siffatte iniziative, che pure si collocarono nel solco della condotta delittuosa in esame, voluta ed avviata in specie da Bagarella e Brusca, non abbiano raggiunto - almeno di tale esito non vi è certezza probatoria - la parte offesa, individuata nel governo della Repubblica allora in carica, e, più esattamente la persona di Berlusconi, quale soggetto di vertice ditale compagine governativa.
In questo senso v’è da ritenere che la condotta realizza da Vittorio Mangano su input degli altri soggetti mafiosi, tra cui Cucuzza (ormai deceduto al pari dello stesso Mangano), Bagarella e Brusca, tutti partecipi ditale progetto criminoso, si sia arrestata, in specie per i predetti Bagarella e Brusca, imputati in questo processo, alla fase del tentativo ai sensi degli am. 56 e 338 c.p..
Ma prima di giungere a questa conclusione è bene muovere da ciò che la sentenza di primo grado ha illustrato per trarre conferma degli ultimi incontri di Mangano con Dell'Utri anche a seguito della nomina del primo governo Berlusconi; un argomento che verrà tuttavia affrontato dopo aver esplorato, nel paragrafo che segue, la parallela e preliminare questione dei limiti del giudicato formatisi a carico di Marcello Dell'Utri.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Nordafricani rapinano il figlio di Salvini: cosa è successo. Luca Bocci il 26 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il figlio del vicepremier è stato rapinato venerdì sera da due malviventi di origine nordafricana. Il telefonino è stato poi recuperato grazie alla collaborazione di un commerciante egiziano, un lieto fine poco comune di questi tempi
Sarebbe potuto essere l’ennesimo episodio di microcriminalità, uno dei troppi che quotidianamente rendono difficile la vita degli abitanti di città piccole e grandi. A renderlo diverso dagli altri, il fatto che ad essere minacciato da due malviventi in pieno centro di Milano sia stato Federico, figlio diciannovenne del vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. L’episodio è avvenuto lo scorso 23 dicembre ed è emerso solo oggi grazie al reportage del sito milanese del Corriere della Sera. Una volta uscita la notizia, il leader della Lega è stato interpellato da alcuni media a caccia di reazioni. Fonti interne al partito riportano la risposta del politico lombardo, estremamente misurata: “È capitato a lui come, purtroppo, capita a tanti a Milano. Fortunatamente non si è fatto male nessuno". La cosa che fa più impressione ai cittadini normali è che, questa volta, il maltolto è stato recuperato dalle forze dell’ordine. Il cellulare che gli era stato rubato è stato riconsegnato a Federico Salvini nella giornata di Santo Stefano.
Una brutta avventura troppo normale
Una serata come tante, antivigilia di Natale, via Paladini, in zona Gambara, ovest di Milano, non molto lontano dal Pio Albergo Trivulzio. Sono passate da non molto le 20 quindi c’è un discreto andirivieni di gente che si affanna per tornare a casa. Ti immagini che non siano le condizioni ideali per una rapina ma certi criminali, specialmente di questi tempi, non si fanno troppi problemi. Una coppia di uomini, descritti da alcuni testimoni come d’origine nordafricana, si sono avvicinati con una bottiglia rotta, intimando al figlio di Salvini di consegnargli il suo cellulare. Federico era da solo ma ha tenuto i nervi saldi ed ha fatto quanto gli era stato richiesto, osservando poi i rapinatori che si dileguavano nel nulla. Dopo pochi minuti riesce a contattare il padre che, tramite la scorta, riesce ad avvisare la questura di Milano. Una rapina come se ne vedono tante, troppe, compiute da gente che considera ogni ragazzo che si fa gli affari suoi come una possibile preda. Sembra chiaro che non avessero idea di chi avessero appena rapinato, un errore che potrebbero pagare caro.
Il lieto fine che non ti aspetti
Dopo aver ricevuto la chiamata del vicepremier, polizia e carabinieri, che condividono i tre settori nei quali è diviso il territorio metropolitano, si sono messi ad indagare, recuperando i filmati delle telecamere della zona, sperando che qualcuna avesse ripreso la fuga dei rapinatori. In questi casi, più tempo passa, più è difficile che il bottino sia recuperato ma ecco il colpo di scena che nessuno si aspettava proprio. Un commerciante di origine egiziana, avvicinato dai rapinatori con il telefono di Federico, se l’è fatto consegnare ma poi ha cambiato idea e l’ha riportato alla polizia. Visto il Natale c’è voluto del tempo per fare uno più uno ma alla fine lo smartphone è stato riconsegnato al figlio di Salvini. Una storia a lieto fine invece del solito incidente che fa statistica ed importa solo a chi è stato vittima di questa criminalità che di “micro” non ha nulla. Speriamo che, almeno nel finale, storie del genere diventino più comuni. Milano ne potrebbe solo guadagnare.
L’assoluzione irrevocabile di Dell’Utri per “i fatti” dopo il 1992. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 dicembre 2022
Marcello Dell’Utri è già stato giudicato “per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata Cosa nostra nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente dell’inondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In relazione ai fatti di interesse assumono specifico rilievo le dichiarazioni di Cucuzza Salvatore ovvero di un collaboratore di giustizia la cui attendibilità è stata criticata e posta in discussione dalle difese, in specie da quella dell’appellante Dell'Utri.
Richiamando anche la ratio del giudicato (secondo una lettura che si ponga a favore dell’imputato) è stato sottolineato il fatto che gli incontri tra Mangano e Dell'Utri dopo l’insediamento del governo Berlusconi, di cui ha riferito appunto il Cucuzza, sono stati ritenuti insussistenti con la sentenza irrevocabile intervenuta per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., resa nel processo svolto a carico di Dell'Utri, di modo che, con la sentenza di primo grado di questo processo, sarebbe stata trascurata la dipendenza logica assoluta tra l’esistenza di quegli incontri e la responsabilità del Dell'Utri quale propalatore della minaccia ai sensi dell’ art. 338 c.p..
In buona sostanza la difesa ha eccepito un’incompatibilità logico/giuridica tra i fatti posti a fondamento della decisione impugnata e quelli accertarti con sentenza divenuta irrevocabile. In ogni modo è stata contestata la violazione dell’mt. 238-bis c.p.p. E l’assenza di motivazione in ordine alla portata probatoria della citata sentenza.
Nell’atto di appello Dell'Utri si è censurato il fatto che sarebbe intervenuta una “sorta di inammissibile revisione contra reo, camuffata sotto le spoglie della “libera valutazione” della sentenza irrevocabile ai sensi dell ‘art. 238 bis c.p.p. “e, sempre al riguardo, è stato posto in evidenza il fatto che, una volta acquisita una sentenza irrevocabile, il giudice non possa decidere di non tenerne conto o di ignorarla, così rischiando di ricostruire i fatti in maniera del tutto inconciliabile con quelli già irrevocabilmente accertati.
Rievocando il contenuto precettivo dell’art. 238 bis c.p.p., per come elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, si è fatto riferimento all’onere di motivazione nonché all’obbligo del giudice di tenere conto della sentenza irrevocabile nella ricostruzione dei fatti per evitare il contrasto tra giudicati e prevenire la revisione”.
In altre parole il giudice di prime cure, per affermare la responsabilità del Dell'Utri per concorso nel reato di minaccia a Corpo politico dello stato, avrebbe dovuto individuare fatti ulteriori, diversi e naturalisticamente compatibili rispetto a quelli già ritenuti insussistenti con il giudicato; solo così -si sostiene sempre nel gravame - i fatti a fondamento della sentenza di condanna in primo grado non sarebbero entrati in contraddizione con quelli accertati come insussistenti nella pronuncia irrevocabile.
LA SENTENZA DI PRIMO GRADO (SUI FATTI DOPO IL 1992)
Quanto ai “riscontri”, che secondo la Corte di Assise varrebbero ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., sono riferiti alla verifica della “Attendibilità delle dichiarazioni di Salvatore Cucuzza” in riferimento sempre a “Gli incontri di Vittorio Mangano con Marcello Dell'Utri successivi all’insediamento del governo Berlusconi”. Ebbene nel menzionato atto di appello è stato evidenziato con forza che tali “riscontri” erano stati tutti già esplorati nella sentenza di assoluzione per il concorso nel reato associativo per i fatti collocabili dopo il 1992:
1) il “decreto Biondi” e la “piccola modifica” alla disciplina della custodia cautelare in carcere e la testimonianza di Roberto Maroni;
2) il lancio Ansa del 20 dicembre 1994;
3) la convergenza delle dichiarazioni di Cucuzza con le dichiarazioni di Giusto Di Natale.
Si sostiene, pertanto, che la decisione di primo grado abbia violato la ratio e il contenuto precettivo dell’art. 238 bis c.p.p., ignorando la sentenza irrevocabile acquisita in atti, di modo che, per conseguenza, tutta la parte della motivazione relativa ai presunti incontri tra Mangano e Dell'Utri finirebbe per essere viziata da una violazione di una norma processuale e da una assoluta carenza argomentativa in ordine alla portata probatoria della sentenza irrevocabile della Corte di Appello di Palermo del giugno 2010, n. 2265.
Rispetto a tali censure, così come alle altre di analogo contenuto articolate dalla difesa, è necessario replicare escludendo la sussistenza del bis in idem; per il semplice fatto che diversi sono i reati contestati a Dell'Utri in riferimento a condotte ontologicamente differenti: quella riferita al reato di concorso nell’associazione mafiosa, provata fino alle condotte contestate come commesse antecedentemente al 1992 e non provata per quelle successive al 1992; quella di questo processo relativa all’inoltro della minaccia stragista “... favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come Capo del governo”.
La tematica è stata già affrontata in questa motivazione a proposito delle questioni preliminari ma, al fine di ulteriormente chiarire il punto, è bene rinviare anche al condivisibile percorso tracciato con la decisione di primo grado: occorre, innanzitutto, ribadire che non è l’identità delle fonti probatorie del processo già definito con quelle del processo qui in esame (identità che, peraltro. Come si è visto, non v’è essendosene aggiunte altre decisive in questo processo,) che può dare luogo all’identità del fatto richiesta dall‘ar. 649 c.p.p. per l’insorgere del divieto di un secondo giudizio. Si è già ricordato, invero, che “non hanno rilevanza ed efficacia, ai fini della preclusione ex art. 649 c.p., l’identità delle fonti probatorie e l’unicità della condotta caratterizzante la fattispecie del concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza che le medesime fonti probatorie possono essere utilizzate per dimostrare l’esistenza di un ulteriore illecito che risulti essere stato commesso con la medesima azione con la quale è stato integrato quello già giudicato” (v. Cass. 21 marzo 2013 n. 18376).
I FATTI GIÀ CONTESTATI (E GIUDICATI) ALL’EX SENATORE DI FORZA ITALIA
[…] Entrando, allora, nel merito della questione deve rilevarsi che Marcello Dell‘Utri è stato già giudicato per il reato previsto dagli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. “per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa nostra” nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del inondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima”. E così ad esempio:
1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;
2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l‘associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;
3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;
4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.
Così rafforzando la potenzialità criminale dell‘organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell‘Utri a porre in essere “in varie forme e modi, anche mediati condotte volte ad influenzare — a vantaggio della associazione per delinquere — individui operanti nel inondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art 416 bis c.p, trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziarie, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell’associazione per delinquere denominata Cosa nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi” (v. sentenze in atti).
Ma per comprendere meglio, al di là della necessariamente più generica formulazione del capo di imputazione, quali furono gli episodi specifici che furono oggetto del precedente processo e diedero luogo alla iniziale condanna pronunziata dal Tribunale (poi in parte riformata) può farsi riferimento alla elencazione contenuta nella prima sentenza della Corte di Appello che così li descrive:
- la “posizione assunta da Marcello Dell‘Utri nei confronti di esponenti di cosa nostra”, ai contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), al ruolo ricoperto dallo stesso nell‘attività di costante mediazione, con il coordinamento di Gaetano Cinà, tra quel sodalizio criminoso e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest;
- la “funzione di “garanzia” svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, ad operandosi per l‘assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale “responsabile” (“fattore” o “soprastante’) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l’avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Girolamo Teresi, all‘epoca dite degli “uomini d‘onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo”;
- gli ulteriori rapporti dell‘imputato con ‘‘cosa nostra”, favoriti, in alcuni casi, dalla fattiva opera di intermediazione di Gaetano Cinà, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Marcello Dell‘Utri aveva continuato l‘amichevole relazione sia con il Cinà che con il Mangano, nel frattempo assurto alla guida dell‘importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che “cosa nostra “percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall‘azienda milanese facente capo a Silvio Berhisconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l‘organizzazione mafiosa ed il gruppo Fininvest (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella “vicenda Garraffa”) e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario” v. sentenza già sopra citata).
UN REATO ANCORA CONTESTABILE
Nessun cenno, dunque, né nel capo di imputazione, né nella descrizione degli episodi in giudizio, alla minaccia rivolta al governo presieduto da Silvio Berlusconi o anche soltanto — ed è ciò che più rileva — ad un ruolo di intermediario svolto da Dell‘Utri tra cosa nostra “e Silvio Berlusconi nella sua funzione di Capo del governo destinatario di una minaccia.
Ma a prescindere da ciò, va, altresì, osservato che, al più, tra il reato già giudicato e quello qui in giudizio v’è il rapporto che può sussistere tra reato associativo e reato-fine della condotta associativa. Ora, il principio del ne bis in idem impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato. ma non gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutano liberamente ai fini della prova di un diverso reato.
Così, ad esempio, “nel caso di procedimento per il delitto di cui all’art. 416-bis co.pen. e di separato procedimento per i reati fine realizzati, non sussiste la preclusione del “ne bis in idem” ricorrendo l’ipotesi del concorso materiale di reati, perché per il primo la condotta necessaria e sufficiente sta nella prestazione della propria adesione alla organizzazione già costituita, mentre per i secondi la condotta necessaria è quella tipica, fissata nella fattispecie criminosa” (v. Cass. 20 novembre 2014 n. 52645, Montalbano).
Tale ultimo principio, peraltro, è stato affermato dalla Suprema Corte proprio in una ipotesi di concorso esterno all‘associazione mafiosa precisando che “il contributo arrecato al rafforzamento del sodalizio criminoso dal concorrente esterno può essere certamente realizzato attraverso la realizzazione di un delitto fine dell’associazione, ma ciò, altrettanto certamente, non può comportare che il soggetto non debba anche rispondere del suddetto delitto fine” (v. sentenza citata).
[…] Ciò detto, se, come sembra non possa dubitarsi, sarebbe stato possibile contestare in un unico processo tanto il reato di concorso esterno nell‘associazione mafiosa, quanto il reato di concorso nella minaccia rivolta dai vertici di “cosa nostra” nei confronti del governo Berlusconi, non può esservi l‘idem factum nel senso impeditivo cx art. 649 c.p.p. ed il solo mancato coordinamento nel tempo dei due diversi processi nei quali, invece, si è proceduto non può di per sé determinare l’insorgenza del divieto del secondo giudizio, dal momento che, come già osservato per l‘analoga posizione dell‘imputato Mori, nessuna norma, neppure costituzionale e sovranazionale, impone che si proceda per tutti i reati nello stesso processo, nè tanto meno richiede la contemporaneità dei diversi processi seppur eventualmente connessi, che, per fattori occasionali, possono ciascuno avere tempi non conciliabili nella definizione delle diverse vicende procedimentali.
[…] D‘altra parte, anche in concreto, la diversità del fatto emerge dallo stesso oggetto del pregresso processo che, per la parte che qui riguarda, è consistito, come asserito e, quindi, riconosciuto dalla medesima difesa dell‘imputato Dell‘Utri, che, infatti sul punto, ha molto e lungamente insistito (v. trascrizione della discussione all‘udienza del 23 marzo 2018), nel c.d. “patto politico-mafioso” che, secondo la contestazione, era intervenuto nella fase antecedente alle elezioni politiche del marzo 1994 (v. sentenza della prima Corte di Appello sopra citata che ha affermato l‘insussistenza di tale “patto politico-mafioso” integrante la condotta di concorso eventuale nel reato di cui all‘art. 416 bis c.p. ed ha, pertanto, assolto l’imputato Dell‘Utri dalle condotte contestate come commesse successivamente al 1992).
Ora, tale “fatto” così individuato ed indicato dalla stessa difesa dell‘imputato Dell‘Utri, non coincide, neppure temporalmente, con l‘oggetto dei presente processo consistente, invece, nella minaccia al governo consumatasi dopo l‘insediamento di Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio nel maggio 1994 a mezzo di un ‘intermediazione di Dell‘Utri, che non è legata in alcun modo, neppure concettualmente. al “patto politico-mafioso” (negato, come detto, dalla sentenza definitiva di assoluzione), nè da questo necessariamente dipendente, ma piuttosto discende dall‘analoga intermediazione che era stata già utilizzata dai mafiosi anche ben antecedentemente al detto ipotizzato “patto politico-mafioso” e per ragioni del tutto diverse e distinte (v. sentenze irrevocabili in atti prima richiamate). Deve, pertanto, escludersi che nella fattispecie sia ravvisabile l‘ipotesi del divieto di bis in idem, sancito dall‘art. 649 c.p.
Se, dunque, non residuano dubbi sulla piena e legittima procedibilità dell’azione penale nei confronti di Dell'Utri Marcello (quanto al Bagarella l’analoga questione ex art. 649 c.p.p. è stata anche questa già in precedenza affrontata e risolta), occorre adesso entrare nel merito delle dichiarazioni del Cucuzza e dei relativi riscontri, ossia su degli elementi probatori che possono essere rivalutati in questa sede a prescindere dalle valutazioni già espresse nel precedente procedimento penale definito nei confronti di Dell'Utri.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quegli incontri voluti da Vittorio Mangano per ricordare promesse e patti. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO il 28 dicembre 2022
Rimane un ragionevole dubbio sul fatto che Dell'Utri abbia effettivamente recapitato il “messaggio stragista” a Berlusconi, sia prima sia dopo l’insediamento del governo presieduto da quest’ultimo, non potendosi al riguardo trarre risolutivi elementi di conferma né dall’argomento “logico”, né dal fatto che Cosa nostra continuava a ricevere, almeno fino a dicembre del 1994, una lauta e periodica tangente mafiosa per i ripetitori televisivi di Mediaset istallati sul Monte Pellegrino a Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Alla stregua delle osservazioni fin qui articolate questa Corte non condivide le conclusioni secondo cui si disporrebbe della prova per ritenere che Marcello Dell'Utri “...abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino a Berlusconi quando questi era già presidente del Consiglio” né, tanto meno, che il medesimo Dell'Utri abbia posto in essere “... condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia questa volta nei confronti del Governo Berlusconi.
Una dimostrazione che difetta in termini assoluti relativamente a quest’ultimo aspetto della vicenda, poiché non risulta che il predetto appellante abbia provocato o rafforzato alcun proposito delittuoso di questo tipo, avendosi semmai prova di un suo coinvolgimento nella fase dell’accordo politico/mafioso nei termini sopraddetti nei quali il reato di cui alI’art. 338 c.p. non era neppure configurabile (prima dell’insediamento del Governo Berlusconi). Una dimostrazione che difetta in termini di certezza probatoria (“oltre ogni ragionevole dubbio”) quanto all’altro aspetto, perché non vi è prova certa che Dell'Utri abbia realmente veicolato una minaccia stragista a Silvio Berlusconi in qualità di presidente del Consiglio sostanzialmente per chiedere l’adempimento delle promesse per le quali lo stesso Dell'Utri si era impegnato e speso in campagna elettorale.
COSA DICEVA LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Nel capitolo “4.5 Conclusioni sulla rinnovazione della minaccia nei confronti del governo Berlusconi” il giudice di prime cure, riprendendo la tematica dell’accordo pre elettorale, ne ha prospettato la esistenza scrivendo che “...ben prima dell‘insediamento del nuovo Governo Berlusconi ed, anzi, quando neppure, ovviamente, fosse certo che il nuovo partito politico fondato da Silvio Berlusconi con l‘apporto determinante di Marcello Dell'Utri sarebbe riuscito a prevalere nelle elezioni politiche del 1994 e ad ottenere l’incarico di formare il nuovo Governo (superando le perplessità del capo dello Stato Scalfaro quali emergono anche dalla lettura dell’agenda del 1994 del presidente del Consiglio uscente Ciaimpi, Dell‘Utri, attraverso Vittorio Mangano, al fine di accaparrare in favore di Forza Italia anche i voti che in Sicilia “cosa nostra” allora ancora in misura non piccola controllava, aveva dato assicurazioni — rectius, aveva promesso — che l‘eventuale nuovo Governo presieduto da Berlusconi (v. dich. La Marca: “se saliva Berlusconi”) avrebbe adottato alcuni provvedimenti oggetto di risalenti richieste dei mafiosi”.
Tale promessa, proprio perché finalizzata ad acquisire il consenso elettorale controllato da “cosa nostra “che in quel momento poteva anche apparire determinante in un ‘importante Regione qual è la Sicilia, non può, però, ritenersi frutto della minaccia che pure Mangano. non potendo di certo sottrarsi all’incarico espressamente affidatogli da Bagarella e Brusca, ebbe a recapitare al Dell'Utri (v. dich. Giovanni Brusca già riportate: “...se non si mette a disposizione noi continueremo con la linea stragista...”), dal momento che, per un verso, non risulta — non avendone mai alcun collaborante riferito — che siano state rivolte in quel periodo minacce di carattere personale a Dell‘Utri o a Berlusconi e, per altro verso, il pericolo di nuove stragi in quel momento riguardava altro Governo ed, anzi, avrebbe potuto seminai favorire l’ascesa di nuove forze politiche se si fosse diffusa l‘opinione che il Governo allora in carica non fosse in grado di farvi fronte.
Come anticipato questo ragionamento viene condiviso tuttavia limitatamente alla parte dell’accordo preelettorale o del patto politico/mafioso raggiunto da e con Dell'Utri, mentre rimane incerto (quindi indimostrato) stabilire se già in questa fase, riferita sempre all’antefatto quale mero antecedente (non punibile ex art. 338 c.p. in assenza dell’insediamento del Governo di che trattasi), Berlusconi sapesse dell’accordo preelettorale (o della semplice promessa elettorale, come pure definita) sottoposto alla minaccia preventiva e doppiamente condizionata di cui si è abbondantemente detto: se quella formazione politica avesse vinto le elezioni; se la stessa, una volta assunti incarichi di governo, non avesse rispettato le interlocuzioni avute da Dell'Utri con l’organizzazione mafiosa.
Ed è essenziale ripetere che per le valutazioni di interesse non basterebbe aver conferma del fatto, per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole, che Berlusconi, già sceso in politica ma ancora privo di incarichi di governo, fosse al corrente dell’accordo diretto a favorire la “sua” formazione politica con i voti pilotati da Cosa nostra (che per di più provenivano sia dall’ala stragista sia dall’ala che alla prima si contrapponeva in seno a Cosa nostra), ma sarebbe necessario dimostrare anche che questo leader politico sapesse, in questa fase, che tale appoggio elettorale nasceva viziato dal fatto che, per volere di Bagarella e Brusca, se non fossero stati rispettati certi accordi preelettorali sarebbero riprese (o continuate) le stragi sulla falsariga di quelle del terribile biennio 1992/93.
Come corollario a tale premessa dovrebbe ritenersi che, una volta insediatosi a capo del Governo, sarebbe stata recapitata la minaccia (anche sotto forma di ulteriore sollecitazione) sempre a Berlusconi ma questa volta in termini cogenti e tali da portare a consumazione il reato in danno del Governo della Repubblica, semplicemente chiedendo quali fossero le iniziative assunte e/o che si intendevano assumere per onorare gli “impegni”.
UN RAGIONEVOLE DUBBIO (MA MOLTO RESIDUO)
Si è visto anche come residui un ragionevole dubbio sul fatto che Dell'Utri abbia effettivamente recapitato il “messaggio stragista” a Berlusconi, sia prima sia dopo l’insediamento del governo presieduto da quest’ultimo, non potendosi al riguardo trarre risolutivi elementi di conferma né dall’argomento “logico”, secondo cui Dell'Utri, per quanto già irrevocabilmente condannato per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., dovesse necessariamente affrontare queste tematiche con Berlusconi, né dal fatto che Cosa nostra continuava a ricevere, almeno fino a dicembre del 1994, una lauta e periodica tangente mafiosa per i ripetitori televisivi di Mediaset istallati sul Monte Pellegrino a Palermo.
Ciò posto, è il momento di approfondire il significato dei due incontri, il primo tra giugno e luglio 1994 e il secondo nel dicembre del medesimo anno, di Vittorio Mangano con Marcello Dell'Utri voluti dal Mangano sostanzialmente per sollecitare l’adempimento degli impegni presi in campagna elettorale e nei quali, sempre il Mangano, ha ricevuto delle anticipazioni sui provvedimenti che erano prossimi al varo o quantomeno in avanzata fase di elaborazione normativa.
E non si tratta soltanto di capire che forma e che grado di esteriorizzazione abbiano avuto simili “sollecitazioni”, per soppesarne la valenza intimidatoria (argomento sul quale pure ci si interrogherà), ma ancor prima di verificare se il presidente Berlusconi si stato destinatario ditali comunicazioni.
Per affrontare questa tematica appare opportuno formulare alcune considerazioni preliminari che ricalcano quelle stesse considerazioni preliminari da cui muove la sentenza impugnata:
“Invero, occorre, innanzitutto, ancora sottolineare che, come si è visto nella parte terza della sentenza, capitolo 12, paragrafo 12.3, la minaccia è un reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l‘attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l‘effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione.
Ne consegue che,[...] per la consumazione del reato non occorre che il predetto effetto si verifichi in concreto, ma soltanto che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo, essendo il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo.
Tale precisazione è necessaria per puntualizzare che non occorre in questa sede accertare che gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al presidente del consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa.
Anzi, vi sono fondate ragioni per ritenere — e in ciò può concordarsi con la difesa dell‘imputato Dell ‘Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata) — che le dette iniziative non siano state effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sin dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per asserita vocazione ‘garantista “, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.
L’OPPOSIZIONE DI ALCUNI (FUTURI) MINISTRI AL 41 BIS
Si pensi in proposito, alla opposizione al regime del 41 bis già nel 1992 da parte di alcuni esponenti politici e dell‘avvocatura poi confluiti in Forza Italia e ad alcune iniziative ampiamente pubblicizzare, di cui pure si è dato conto nel presente dibattimento, quali le visite in carcere, viste con favore anche dai mafiosi, effettuate nel settembre 1993 degli on. Maiolo e Biondi (v. testimonianza Bonferraro: “[...]”), poi, entrambi, appunto, inseriti nelle liste di Forza Italia e successivamente anche divenuti la prima presidente della commissione Giustizia della Camera dei deputati ed il secondo ministro della Giustizia nel governo Berlusconi.
Si vuole dire, in altre parole, che i tentativi da parte del governo Berlusconi di adottare provvedimenti attesi (anche) da “cosa nostra” e, poi, l’effettiva adozione di taluni di essi, ai fini che qui rilevano, non devono essere necessariamente letti come legati da un rapporto di causa ed effetto con una minaccia mafiosa, ben potendo anche ricondursi alla attuazione di un programma ampiamente prevedibile (e previsto dagli stessi mafiosi), e, quindi, come mantenimento di impegni volontariamente assunti durante la campagna elettorale (ànche da parte di Dell ‘Utri nei confronti dei mafiosi) per acquisire il consenso e i voti anche di quei non piccoli settori della popolazione che vedevano sfavorevolmente la contrapposizione frontale con le organizzazioni mafiose perché ritenuta causa delle efferate stragi che si erano verificate nel biennio 1992-93.
Se, dunque, non risulta che “...gli interventi legislativi, tentati o attuati su iniziativa della forza politica facente capo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodeterminazione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa , è chiaro che le iniziative in oggetto non possano costituire un indice probatorio per dimostrare la pressione mafiosa/stragista esercitata in danno di questo leader politico sia prima sia (soprattutto) dopo l’insediamento del governo.
Assodato, infatti, che le dette iniziative non sono tate effetto diretto di una minaccia, dal momento che, sui dalle origini, in Forza Italia era stata inserita anche una consistente componente di soggetti che, per assenta vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti governi, pare altrettanto evidente che a quegli impulsi riformatori della legislazione, di cui è stato messo al corrente in anteprima il Mangano tramite Dell'Utri, si sia potuti giungere secondo quel percorso “ampiamente pubblicizzato” che esisteva in seno a Forza Italia e che vedeva schierata in termini definibili “garantisti” una parte di questa formazione politica e, in particolare, alcuni dei suoi esponenti tra i quali quelli ricordati nella stessa sentenza quali l’on. Biondi e l’on. Maiolo, che hanno assunto anche incarichi istituzionali. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La “linea garantista” di Forza Italia senza pressioni mafiose. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 dicembre 2022
Iniziative attuate in coerenza con la linea “garantista” che molti esponenti di Forza Italia propugnavano e che, peraltro, aveva consentito loro di raccogliere molti consensi elettorali in ambienti non solo malavitosi, ma anche di certe elite culturali di diversa provenienza che sin dagli anni ottanta avevano intrapreso battaglie politiche del medesimo segno (basti pensare al referendum del 1981 per l’abolizione della pena dell’ergastolo)...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In effetti la decisione di primo grado ha ribadito a più riprese questo concetto evidenziando alcuni progetti, ad esempio in tema di abolizione dell’ergastolo, in favore dei quali taluni esponenti di Forza Italia si erano espressi seguendo una linea di pensiero del resto comune anche ad esponenti di altre fon-nazioni politiche.
Delle iniziative attuate in coerenza con la linea asseritamente “garantista” che molti esponenti del nuovo partito politico propugnavano e che, peraltro, aveva consentito loro di raccogliere molti consensi elettorali in ambienti non solo malavitosi, ma anche di certe elite culturali di diversa provenienza che sin dagli anni ottanta avevano intrapreso battaglie politiche del medesimo segno (basti pensare al referendum del 1981 per l’abolizione della pena dell’ergastolo), tanto più che v’era una forte presenza, in quel medesimo nuovo partito, di esponenti provenienti da quella parte dell’avvocatura che da sempre aveva avversato la legislazione del c.d. “doppio binario” per i processi prima di terrorismo e, poi, più recentemente, di mafia.
Se, dunque, quei provvedimenti erano frutto di questo percorso, e non di condizionamenti, minacce o pressioni, è chiaro che da queste stesse iniziative non si possa ottenere alcun indice di riscontro circa il fatto che Berlusconi abbia effettivamente ricevuto la minaccia stragista tramite la filiera Mangano e Dell'Utri.
Semmai, da questi stessi elementi, emergono ragioni logico fattuali per ritenere che a Mangano sia stata recapitata la notizia, sebbene in anteprima e per il canale segreto rappresentato in quel momento da Dell'Utri, di quali fossero le modifiche legislative che (assunte come visto a prescindere dalla minaccia e certamente non come conseguenza della stessa) erano state tentate o erano in procinto di essere presentate.
INIZIATIVE POLITICHE “CONNATURALI”
La questione è tutt’altro che secondaria. Qualora, infatti, si disponesse della prova che il contenuto del decreto legge 14 luglio 1994 n. 440, nella parte che riguardava le misure cautelari anche per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., o che l’operato della commissione Giustizia della Camera, per l’attività di interesse programmata per gennaio del 1995 e su iniziativa anche di Forza Italia, fossero conseguenza (“causa-effetto”) della pressione mafiosa ed allora si disporrebbe di un dato fattuale dal quale ritenere, in modo deduttivo, che le notizie date da Dell'Utri su queste stesse tematiche rappresentavano la dimostrazione tangibile della realizzazione del progetto criminoso di cui ci si occupa poiché, senza tale pressione dall’indiscutibile valenza intimidatoria, a tale risultato non si sarebbe arrivati, perlomeno in quei tempi e secondo quel percorso.
Considerato che, viceversa, tali iniziative erano “connaturali” ad una certa politica giudiziaria, insita in quella formazione, ne consegue che da questi elementi non si può ottenere alcuna prova (né logica nè d’altro tipo).
Risulta arduo comprendere perché si sarebbe dovuta brandire, per di più da parte dell’interlocutore Dell'Utri, la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul governo per condizionarne le scelte quando queste ultime potevano apparire confacenti con certi risultati attesi dalla consorteria mafiosa.
Ma se erano progetti in linea con il programma di Forza Italia, senza cambiamenti indotti da segrete pressioni, pare ancora più evidente che per ottenere quel tipo di informazioni non fosse necessario “scomodare” Berlusconi, in quel momento impegnato nel suo incarico di neo presidente del Consiglio peraltro alle prese, già a dicembre del 1994 (cioè pressocché in corrispondenza del secondo incontro Mangano/Dell'Utri di cui si tratta), con una ventilata crisi di governo, per le tensioni insorte con la Lega Nord, che poi porterà alle dimissioni il 21.12.1994.
Non si trattava, in altri termini, di “iniziative legislative” (intese in senso ampio) note solamente al Presidente del Consiglio Berlusconi o di suo segreto ed esclusivo appannaggio, bensì di progetti che rientravano nell’agenda di governo e che i soggetti di vertice e/o con responsabilità tecniche/normative di quel partito possedevano senza bisogno per Dell'Utri di doversi rivolgere a Berlusconi, per di più veicolandogli (come ritenuto nella sentenza di primo grado) la minaccia mafiosa in presenza di una pianificazione normativa che seguiva un suo corso a prescindere da interferenze (sempre per come ritenuto nella medesima decisione).
DELL’UTRI ERA BEN ADDENTRO IN FORZA ITALIA
Marcello Dell'Utri, per quanto non avesse all’epoca incarichi di governo o istituzionali, era ben addentro a quella formazione politica, con conoscenze profonde ed a vario livello essendo stato uno dei promotori della nascita di Forza Italia, sicché pare evidente che lo stesso seguisse alacremente e con attenzione le riforme normative che quel partito ed il governo in carica si accingevano a promuovere soprattutto sui versanti sensibili “della giustizia” e/o “carcerario” per i quali, per di più, proprio lui aveva assunto degli “impegni” secondo l’accordo preelettorale (o secondo la promessa elettorale come pure etichettata).
Può allora ritenersi, in termini di elevata credibilità razionale, che le pur preziose informazioni in anteprima, che l’imputato ha recapitato a Mangano e che questi ha sollecitamente girato a Cucuzza, provenissero da un soggetto sì qualificato dell’entourage di Forza Italia e/o dell’ufficio legislativo riferibile a questo partito, ma senza che si trattasse necessariamente di Berlusconi e senza che quest’ultimo venisse a tal fine interpellato da Dell'Utri in nessuna delle duplici occasioni sopraddette dell’estate e del dicembre del 1994.
Prescindendo dal fatto che non vi è neppure prova che in questi periodi vi siano state delle interlocuzioni Dell'Utri/Berlusconi, che pure in generale hanno mantenuto rapporti di confidenzialità e frequentazione, v’è da aggiungere che, già in questo arco temporale, erano montate le polemiche, perlomeno in certa opinione pubblica, legate alle notizie di stampa (di cui Giovanni Brusca ha fornito in questo processo plastica rappresentazione riferendosi alla lettura di quell’articolo de L’Espresso di cui si è sopra detto), che denunciavano i compromettenti e risalenti legami tra Mangano e Dell'Utri e di costoro con Silvio Berlusconi dei legami che in quel periodo potevano finire per appannare – e non poco – l’immagine del Premier, per di più già alle prese con una possibile crisi di governo dopo alcuni mesi dal conferimento del primo incarico governativo.
Risulta pertanto difficile immaginare che il presidente del Consiglio, che in quella fase politica non conferì alcun incarico di governo a Dell'Utri, che pure si era alacremente speso per le elezioni ed era stato tra i protagonisti della costituzione di Forza Italia, si dedicasse, poi, ad incontri confidenziali con questo stesso soggetto per di più per metterlo al corrente delle iniziative normative che potevano appagare certi desiderata di Cosa nostra.
Simili informazioni, che (lo si ripete) seguivano una linea politica/giudiziaria diffusa anche in campagna elettorale, ben potevano essere chieste a e date da soggetti del partito vicini a Dell'Utri e vicini a Berlusconi, purché in possesso delle adeguate conoscenze tecniche, ma senza che vi fosse la necessità di un compromettente contatto di Dell'Utri con Berlusconi.
Il fatto che, come si ricava dal racconto del Cucuzza e dal (pur “eccezionale”) riscontro valorizzato già in primo grado, Dell'Utri fosse informato della modifica legislativa che sarebbe stata inserita in un decreto legge che si intendeva emanare a breve, tanto da riferirne a Mangano per provare il rispetto dell’impegno assunto con i mafiosi, non vale a dimostrare che lo stesso Dell'Utri informasse Berlusconi dei suoi contatti con Mangano ed i mafiosi anche dopo l’insediamento di quel governo.
Tanto meno può immaginarsi che soltanto Berlusconi, quale Presidente del Consiglio, avrebbe potuto informare Dell'Utri di un intervento legislativo quale quello che fu varato, ad esempio, con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440.
Per quanto fossero notizie segrete all’esterno (su iniziative definite perfino come “segretamente assunte”), da qui la prova dei contatti Mangano/Dell'Utri, simili informazioni potevano essere attinte, da parte di un personaggio come Dell'Utri e con le sue ramificate conoscenze, da una fonte e da un canale interno al partito che, per quanto privilegiato, prescindeva però da un passaggio con il Presidente, tanto più che si trattava di novità sullo stato della legislazione senza dover coartare Berlusconi né, tanto meno, gli altri componenti del governo.
Si coglie un’indiscutibile differenza rispetto alla minaccia che ha investito il governo Ciampi poiché in quel caso (come ampiamente scrutinato in precedenza) le modifiche incalzate sotto il ricatto stragista miravano a degli obiettivi in contrasto con la linea seguita tanto che, come visto, la mancata proroga dei provvedimenti di sottoposizione al 41 bis, in scadenza nel novembre del 1993, venne letta come un segnale in controtendenza se non come un vero e proprio momento di cedimento.
Viceversa, nel caso che ha coinvolto più direttamente Dell'Utri e per le specifiche modifiche di cui egli si è fatto portavoce con Vittorio Mangano, si trattava di risultati perfino in linea con la politica di quella formazione o, almeno, di parte di quel governo riconducibile a Berlusconi.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Per Dell’Utri non c’è prova nel processo sulla trattativa fra stato e mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 dicembre 2022
Difetta la prova che Dell'Utri, per fornire le informazioni pur da lui trasmesse in anteprima agli uomini di Cosa nostra, in particolare a Vittorio Mangano, su certe perfino “segrete” riforme normative, si sia dovuto rivolgere al presidente del Consiglio allora in carica e non, invece, a qualche altro esponente di vertice di Forza Italia...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Muovendo dalla posizione di Marcello Dell'Utri, si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione.
Al di là del pieno coinvolgimento di Dell'Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello (in particolare grazie all’intercettazione che ha coinvolto l’avv. Pittelli), non si ha prova che a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offese e di presidente del Consiglio per ottenere
L’adempimento, appunto sotto la minaccia mafìosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell'Utri nella precedente campagna elettorale. Non risulta provato che oltre alla interlocuzione Mangano/Dell'Utri vi sia stata una interlocuzione di Dell'Utri con Silvio Berlusconi su questa tematica, tanto meno dopo l’insediamento del governo Berlusconi, dovendo al riguardo ribadire, come fatto nei paragrafi che precedono (ed ai quali continua a farsi rinvio), la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al governo della Repubblica soltanto questa capace di integrare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 338 c.p. sotto il terribile ricatto della ripresa (o della prosecuzione) della stagione stragista che aveva insanguinato gli anni 1992 e 1993.
Difetta la prova che Dell'Utri, per fornire le informazioni pur da lui trasmesse in anteprima agli uomini di Cosa Nostra, in particolare a Vittorio Mangano, su certe perfino “segrete” riforme normative (in specie per quanto riguarda il decreto legge del 14 luglio 1994 n. 440 con la sua “subdola” modifica che riguardava i limiti dell’arresto anche per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.), si sia dovuto rivolgere al presidente del Consiglio allora in carica e non, invece, a qualche altro esponente di vertice di Forza Italia o fidato componente dell’ufficio legislativo di quel partito egualmente a conoscenza dei particolari tecnici di questi propositi normativi che si ponevano, comunque, in linea con un certo orientamento politico di tipo garantista perfino connaturale a quello stesso partito.
Analogamente si sconoscono le modalità di un’eventuale interlocuzione sul tema tra Dell'Utri e Silvio Berlusconi non potendosi neppure escludere scenari in cui eventuali dialoghi (sempre se davvero intervenuti e provati) si siano arrestati ad un livello embrionale in cui l’imputato non aveva neppure l’interesse o la necessità di fare riferimento all’antefatto nè, tanto meno, alla minaccia mafiosa/stragista, nemmeno in forma implicita, velata o subdola, ben potendo assumere le notizie di interesse semplicemente esplorando i percorsi normativi più significativi che stavano prendendo corpo. A voler ritenere, anche oltre i dati concretamente provati, che via sia stata un’interlocuzione su queste tematiche con Berlusconi dopo la sua nomina presidenziale, non è comunque possibile ricostruire il tenore di questi dialoghi.
Si è anche avuto modo di evidenziare che l’indice presuntivo della conoscenza da parte di Berlusconi delle richieste mafiose, legato al fatto che Dell'Utri ha informato in anteprima Mangano (e tramite lui gli altri sodali mafiosi) di certi progetti di riforma che erano all’esame o prossimi al varo su iniziativa governativa, perde la sua efficacia persuasiva, non solo perché rimangono inesplorabili i concreti percorsi comunicativi che hanno consentito a Dell'Utri di acquisire simili informazioni (per quanto in quel momento segrete all’opinione pubblica), ma anche perché ipotetici dialoghi su questa tematica con Berlusconi possono aver assunto connotati che restano indecifrabili, particolarmente perché non c’era neppure la necessità di addomesticare il percorso normativo.
Una prova che non discende né si può ricavare neppure dalla regola del cui prodest, riferita a vantaggi che il destinatario finale dell’interlocuzione poteva ottenere in termini di risultati elettorali, poiché, non solo non si ha prova del grado di conoscenza che Berlusconi avesse degli accordi preelettorali con i vari personaggi della criminalità organizzata (tanto dell’ala stragista quanto dell’ala che alla prima si contrapponeva in Cosa Nostra), ma soprattutto perché questi accordi sono intervenuti (come è evidente) allorché il governo Berlusconi non era in carica e, quindi, il reato oggetto di contestazione non poteva essere integrato. Senza comunque perdere di vista il fatto che né Dell'Utri né tanto meno Berlusconi avrebbero tratto vantaggio dalla minaccia stragista che, anzi, vedeva Silvio Berlusconi, a quel punto in qualità di componente del governo, come parte offesa.
Vero è che se riferito all’accordo preelettorale la minaccia poteva connotarsi come la resa del conto per all’aiuto elettorale offerto da Cosa Nostra, ma questi elementi coinvolgono semmai Dell'Utri e le sue spregiudicate trarne con l’organizzazione mafiosa e non anche Berlusconi (perlomeno di un coinvolgimento di questo tipo difetta la prova).
Dovendo in ogni caso ribadire il concetto secondo cui, in assenza della prova diretta dei dialoghi tra Dell'Utri ed il presidente Berlusconi, deve farsi ricorso ad un criterio inevitabilmente logico, anzi di alta probabilità logica, così da poter ritenere che, esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’unica soluzione sia quella e soltanto quella che porti a ritenere dimostrata, con elevato grado di credibilità razionale, la veicolazione della minaccia al governo.
Dubitare è un obbligo giuridico imposto dal sistema processuale che, nel caso di specie, non si traduce nella necessità di dover semplicemente confutare la logicità della tesi seguita in primo grado, ma di verificare se questa conduca concretamente e con certezza alla prova dei fatti in assenza di alternative egualmente logiche e razionali; e, come già si è avuto modo di anticipare, proprio in questo caso il rischio di incorrere nel classico vizio della fallacia dell’affermazione del conseguente rimane altissimo.
La prova della colpevolezza non può limitarsi alla corrispondenza di taluni dati ma deve trovare solido fondamento, secondo un percorso esattamente inverso, sugli elementi disponibili per ottenere da essi dei sicuri (chiari, precisi e concordanti) indici per addivenire in concreto alla dimostrazione della tesi accusatoria.
Una prova che difetta in termini di certezza ( “al di là di ogni ragionevole dubbio”) così da portare a ritenere, ai sensi del secondo comma dell’art. 530 c.p.p., che Marcello Dell'Utri, nonostante il suo pesante coinvolgimento nella fase preelettorale ed anche postelettorale (con delle azioni tali da assumere astrattamente rilievo per una differente fattispecie di reato, tuttavia coperta dall’intangibile giudicato assolutorio di cui si è detto intervenuto per i fatti di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. successivi al 1992) non abbia concorso nella minaccia al Corpo politico dello Stato. Non si ha prova, in altri termini, che questo imputato, nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto, abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano.
All’assoluzione di Marcello Dell'Utri “per non aver commesso il fatto” di cui alla residua imputazione sub A) consegue, oltre alla revoca delle statuizioni civili a carico di questo appellante, anche la perdita di efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio applicata nei suoi riguardi nel corso del presente giudizio di appello. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Paolo Cirino Pomicino per Dagospia il 19 settembre 2022.
La storia di Scarpinato è lunga. Dopo il processo Andreotti, Scarpinato ha sfiorato il processo Mannino e poi la famosa trattativa Stato- mafia, processi entrambi risoltisi con una sconfitta della procura di Palermo che ha speso soldi e tempo per indagare sostanzialmente innocenti e che ha dovuto subire, in qualche caso, anche parole sprezzanti da diversi collegi giudicanti ed in particolare dalla suprema corte di cassazione. Eppure, insieme a Nino di Matteo, oggi che è a riposo Roberto Scarpinato continua a parlare ancora di mandanti oscuri, di ombre potenti che avrebbero coltivato questa fantomatica trattativa tra lo Stato e la Mafia.
Il mondo di Scarpinato ieri attaccava Giovanni Falcone, qualche volta anche in diretta televisiva, mentre oggi ne esalta la memoria così come fanno i rappresentanti del vecchio PCI che ricordano con enfasi Falcone e Borsellino mentre in Parlamento votavano contro tutti i provvedimenti adottati dal governo Andreotti per sconfiggere la mafia suggeriti proprio da Falcone. La disastrosa politica politicante.
La curiosità, però, non si limita alla figura di Roberto Scarpinato ma si estende anche alla sua gentile consorte, Teresa Principato, anch’essa PM nella più autorevole procura d’Italia secondo i mafiologi di turno. La trasmissione “Report” evidenziò qualche tempo fa una strana vicenda. La Principato aveva chiuso nella sua cassaforte un computer in cui erano registrati tutti i file sulle indagini a carico di Matteo Messina Denaro, comprese le registrazioni dei pentiti e le intercettazioni.
Insomma l’intero patrimonio di notizie che, presumiamo, non avessero copie, per proseguire le indagini sul capo mafioso latitante da decenni. La cassaforte aveva due sole chiavi, una in possesso della Principato e l’altra del suo assistente il finanziere Pulici. Quest’ultimo fu processato ed assolto mentre nessuno si permise neanche di pensare ad una distrazione della Principato. Una sorta, insomma, di “noblesse oblige”. Ed allora chi prese tutto quel ben di Dio di notizie su Matteo Messina Denaro?
Forse la fata turchina o forse quelli che hanno, diciamo, occultato i rapporti tra Scarpinato e Antonello Montante (condannato a 8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), rapporti puntualmente registrati da quest’ultimo e custoditi in una sua villa poi perquisita e oggi in possesso della procura di Palermo (Renzi lo ha ricordato).
Capita a tutti qualche distrazione, qualche amicizia pericolosa ed in molti casi arriva appunto la fata turchina con sembianze umane che provvede a far scomparire tutto. In qualche caso anche la memoria! Potremmo aggiungere ancora qualcosa sulla famiglia Scarpinato ma scadremmo nel pettegolezzo mentre registriamo che in aggiunta al PD è arrivato anche Conte ed il suo Movimento che hanno cominciato a reclutare pubblici ministeri a riposo mentre noi aspettiamo da tempo e con indomita speranza che ci sia qualcuno che volendo reclutare un magistrato tra i propri parlamentari scelga finalmente un magistrato giudicante. Come si vede il peggio non ha mai fine.
Roberto Scarpinato, il grillino che faceva affari col condannato per mafia. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 21 settembre 2022
Volano gli stracci fra Matteo Renzi e Roberto Scarpinato. Il motivo? I rapporti fra l'ex procuratore generale di Palermo, ed ora candidato di punta del M5S gestione Giuseppe Conte, con Antonello Montante, ex potentissimo presidente della Confindustria siciliana, condannato in appello ad 8 anni di carcere per associazione mafiosa. La vicenda, riportata nel libro intervista "Lobby e Logge" scritto dall'ex capo dell'Anm Luca Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, è tornata d'attualità l'altro giorno durante un incontro elettorale del leader di Italia Viva nel capoluogo siciliano. Nel libro, l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva rivelato che quando era al Csm si sarebbe attivato il piano "salviamo il soldato Scarpinato". Tutto ebbe inizio in occasione dell'arresto di Montante, ufficialmente un paladino della lotta alla mafia. Durante la perquisizione a casa dell'imprenditore siciliano, erano stati infatti rinvenuti alcuni documenti da cui emergevano suoi rapporti molto intensi con Scarpinato, come diverse 'richieste' da parte di quest' ultimo.
MAPPE E NOMINE
In particolare, un appunto datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna». L'appunto era una "mappetta" disegnata della sala del Plenum del Csm a Palazzo dei Marescialli con sopra indicati, in maniera assai precisa, i nomi dei vari componenti, laici e togati, e la loro rispettiva appartenenza politica o di corrente. Le successive attività per capire come mai un magistrato antimafia come Scarpinato si fosse rivolto ad un soggetto esterno alla magistratura per una nomina, si erano poi concluse senza addebiti nei confronti del diretto interessato. «Insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall'ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati», la replica al vetriolo di Scarpinato nei confronti dell'ex collega. Immediata la controreplica di Palamara che aveva invitato Conte a chiarire i suoi rapporti con il faccendiere, poi arrestato e coinvolto nelle trame di Piero Amara, Fabrizio Centofanti. La querelle Renzi-Scarpinato fa comunque tornare alla mente una interrogazione parlamentare del 1999 presentata dall'allora forzista Filippo Mancuso. All'epoca Palamara non c'era.
RELAZIONE DETTAGLIATA
Scarpinato, raccontò Mancuso, aveva venduto ad una società siciliana che era rappresentata dalla signora Rosaria Di Grado, moglie del boss mafioso Salvatore Fauci, un immobile della propria famiglia. Lo aveva venduto per la somma esorbitante di quasi 700 milioni, quando ne valeva 300. Un immobile in Sciacca che oggi «è assolutamente abbandonato e da nessuno frequentato», disse Mancuso. E Fauci «era ben noto a Scarpinato, perché quest' ultimo, nel 1992, ne aveva chiesto il proscioglimento». Nel 1996, anno della compravendita, «Scarpinato, aveva dato atto», mentre gli vendeva l'immobile a caro prezzo, «che Fauci, il suo compratore o comunque il marito della sua acquirente era un mafioso indagato». Mancuso recuperò una relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documentava che il compratore o il marito della compratrice di Scarpinato «era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!».
La vecchia interrogazione sul candidato 5 stelle. Chi è Roberto Scarpinato, il pm grillino integerrimo che vendeva casa ad un imputato. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2022
Pare che la notizia sia antica. Però nessuno la conosceva, e quando, ieri, me l’hanno portata, non ci credevo. Invece pare che sia tutto verificato. Roberto Scarpinato, fino qualche mese fa Procuratore generale a Palermo (una delle cariche più importanti in magistratura) e ora passato alla politica con il partito dei grillini e di Conte, ed esposto sempre su posizioni assolutamente integerrime, e di denuncia feroce del malcostume e della politica degli occhi mezzi chiusi con la mafia, beh proprio lui, quando già era un Pm molto noto a Palermo, vendette una casa di famiglia, a Sciacca (cittadina di circa 40 mila abitanti, sul mare, in provincia di Agrigento) ad un prezzo esorbitante e ad un acquirente un po’ sospetto.
La casa fu venduta per circa 700 milioni – scrisse all’epoca l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso – mentre – sempre secondo Mancuso, sul mercato non valeva neanche la metà di quei soldi. Fu un gran bell’affare. L’acquirente era stato processato per mafia, e questo Scarpinato lo sapeva. Si dice che l’acquirente fosse molto vicino ai Siino. Chi era Siino? veniva chiamato il ministro dell’economia di Riina, si occupava di appalti. Sugli appalti di Siino indagò il colonnello Mori ma poi la sua indagine, avviata da Falcone, fu archiviata, prima che Borsellino potesse prenderla in mano. Fu archiviata da Scarpinato e da un altro magistrato.
Coincidenze, coincidenze, coincidenze. Non è mica vietato vendere la casa a un probabile mafioso. Dov’è il reato? Non venitemi a parlare della solita bufala del concorso esterno in associazione mafiosa, per favore. È un reato che non esiste, lo abbiamo scritto mille volte.
Certo se il protagonista di quella vendita, invece di Scarpinato, fosse stato un deputato del centrodestra, o anche del centrosinistra, la Procura avrebbe aperto una indagine. Ma non era un deputato, il protagonista, e non ci fu indagine. Ora il protagonista ha la possibilità di diventare deputato. Tra gli integerrimi 5 stelle.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il caso del pm. Quando Scarpinato vendette una casa al doppio del prezzo ad un suo imputato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022
L’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, vuole appendere la toga al chiodo di Palazzo Madama. Candidandolo come paladino dell’Antimafia nella sua Sicilia, il M5s di Giuseppe Conte gli ha promesso (e garantito, da capolista) uno scranno parlamentare. In quel Parlamento il nome di Scarpinato era già entrato, nel 1999. E non esattamente per un encomio. A farlo risuonare fu allora l’ex ministro della giustizia Filippo Mancuso che dai banchi dell’opposizione, dove sedeva per Forza Italia, indirizzò una circostanziata interrogazione al Governo.
L’atto di sindacato ispettivo partiva da un articolo pubblicato dal Velino il 26 ottobre di quell’anno. Rendeva noto un fatto che il ministro guardasigilli Oliviero Diliberto non ebbe modo di smentire nel merito. Scriveva Mancuso: «…Nel mirino degli investigatori c’è la vendita, fatta il 30 agosto del 1996, di un immobile a Sciacca e del quale Scarpinato Roberto, (al tempo, ndr) sostituto nella procura di Palermo, era comproprietario con la sorella Lidia Maria Giulia e altri parenti. La casa fu venduta per 690 milioni a una società, la Cesa, di cui è socia accomandataria gerente la signora Rosaria Di Grado. La signora Di Grado è la moglie di Salvatore Fauci, uno dei maggiori imprenditori siciliani specializzato nella produzione di laterizi. L’imprenditore, nel 1992, fu indagato dalla procura della Repubblica di Palermo assieme a decine di altri imprenditori in seguito al dossier De Donno sui rapporti tra mafia, politica e appalti. Attenzione: parliamo di Mafia e Appalti, l’inchiesta proibita costata qualche carriera e forse più d’una vita.
Occhio alle date che concatenano i tratti ora salienti, ora drammatici, di quella nefasta stagione del 1992: il 23 maggio la strage di Capaci uccide Giovanni Falcone, che insieme a Paolo Borsellino stava concentrando il lavoro su Mafia e Appalti. Il 13 luglio i pm di Palermo, Scarpinato e Lo Forte, chiedono l’archiviazione dell’inchiesta Mafia Appalti. Il 19 luglio il giudice Paolo Borsellino muore in un agguato sotto casa della madre, in via D’Amelio. Il 14 agosto viene concessa – con inusuale solerzia, alla vigilia di Ferragosto – l’archiviazione definitiva dell’indagine. E torniamo al 1992 con il documento agli atti parlamentari. Scriveva ancora l’ex magistrato Filippo Mancuso: «Nel 1992, comunque, la posizione di Fauci fu archiviata con decisione firmata dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, dall’aggiunto Guido Lo Forte e da, appunto, Roberto Scarpinato. Il fatto di cui sopra non risulta finora in alcun modo smentito e, nella parte riguardante i menzionati magistrati, appare di notevole gravità sotto l’aspetto deontologico e funzionale». Fin qui i fatti riportati alla Camera dei Deputati.
Leggiamo il resoconto stenografico depositato a Montecitorio, perché nell’archivio documentale delle interrogazioni parlamentari il testo a oggi non appare leggibile. Chiese allora Mancuso al ministro Diliberto: «Chiedo di sapere quali iniziative di propria competenza intenda promuovere nei confronti dei magistrati che, in questa vicenda, siano coinvolti o in prima persona o come titolari dei doveri di vigilanza e/o disciplinari, a tutt’oggi trascurati». L’allora ministro della Giustizia del governo D’Alema rispose senza eccepire i fatti, ma decise di non dover procedere. La replica di Diliberto: «Dalla documentazione acquisita dal procuratore generale, dal procuratore della Repubblica di Palermo, nonché dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, emerge in primo luogo che il dottor Scarpinato era nudo comproprietario per un sesto indiviso di un immobile a Sciacca pervenutogli in eredità dalla madre nel 1992. (…) Alla vendita per 690 milioni si provvide tramite una delle agenzie originariamente incaricate. Il dottor Scarpinato non partecipò alle trattative, ma alla stipula dell’atto, ovviamente, avvenuta nell’agosto 1996. Ad acquistare l’immobile fu la società Cesa di Di Grado Rosaria, moglie di Salvatore Fauci, già indagato in un procedimento instaurato a seguito di una informativa dei carabinieri del 1991 e alla trattazione del quale il dottor Scarpinato era stato designato nel maggio del 1992 con altri sette componenti del cosiddetto pool antimafia. Per il Fauci, come per altri venti dei complessivi ventisette indagati, fu chiesta l’archiviazione il 13 luglio 1992 con provvedimento a firma del procuratore Giammanco, del dottor Lo Forte e dello stesso Scarpinato. La richiesta fu accolta dal Gip il successivo 14 agosto».
Due date che coincidono con l’archiviazione di Mafia e Appalti, con lo spegnimento in tutta fretta di quello che era avviato ad essere il motore centrale delle indagini sul sistema corruttivo in Sicilia. Tanto che una parte della magistratura ha deciso di non arrendersi: la Procura di Caltanissetta a fine luglio di quest’anno ha riaperto il filone. Mafia e Appalti aveva messo in luce, tra le altre prime risultanze, il ruolo nevralgico di Angelo Siino: autentico regista degli affari dei Corleonesi, il “ministro dei Lavori pubblici” di Riina era un esperto di aste, gare e appalti. Nel suo sistema aveva previsto che per tutti gli affari conclusi in Sicilia, al “Capo dei capi” doveva essere assegnato lo 0,80%. Oltre a questa, le percentuali che doveva pagare chi otteneva l’appalto erano il 2% per i politici, il 2% per la famiglia mafiosa territorialmente competente e lo 0,50% per i pubblici controllori. Siino venne arrestato nel 1991 e iniziò a collaborare con la giustizia nel 1995; dai verbali dei suoi interrogatori derivano i dettagli sulle percentuali sugli appalti.
È scomparso l’anno scorso. Non potrà quindi dire la sua sulla vicenda di questa compravendita che ha riguardato la proprietà immobiliare del giudice Scarpinato e uno degli uomini ai quali sarebbe stato legato, il re dei laterizi Salvatore Fauci. E non potrà dire la sua Filippo Mancuso, scomparso nel 2011. Le sue ultime parole furono gridate nell’aula di Montecitorio: «Quella che vi sto mostrando è la relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documenta, anzi, come dire, confessa – data la situazione! – che il compratore o il marito della compratrice del pubblico ministero Scarpinato era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!». E concludeva: «Mentre sussisteva tutto questo, il dottor Scarpinato si elevava agli onori degli altari dell’antimafia, con un piglio che è ancora più grave dal punto di vista antropologico che da quello morale: un’indegnità comunque, in ogni caso». La risposta del Guardasigilli provò a dissolvere le ombre: «Nessun addebito di carattere deontologico e funzionale sembra poter essere rivolto al dottor Scarpinato. Peraltro ho provveduto a richiedere informazioni, come dicevo, anche alla procura di Caltanissetta. Questa ha riferito che non esistono indagini aventi ad oggetto il tema dell’interrogazione né alcun organo di polizia ha trasmesso comunicazione di notizia di reato attinente».
Nessun illecito, a parere del Ministro di allora, ma una dinamica tanto discutibile quanto scivolosa. Per la cronaca, stando alle valutazioni di Mancuso: l’immobile di Scarpinato, situato nel comune di Sciacca, pur essendo stato valutato 300 milioni di lire, venne venduto a quasi 700 milioni. Più del doppio del suo valore. Venne comprato dalla moglie di un indagato su cui lo stesso Scarpinato aveva svolto indagini e disposto l’archiviazione quattro anni prima di concludere l’affare. Nel giugno 2014 Siino iniziò a ricordare meglio il ruolo di Fauci: «Pagava il pizzo attraverso fatture gonfiate. Si aumentava il costo delle operazioni contabili, si riscuoteva il relativo importo e la differenza tra il valore reale e quello creato veniva consegnato in contante alla mafia». Fauci nel 2016 verrà condannato in Appello a un anno e mezzo per essere stato “Responsabile di false informazioni ai magistrati con l’aggravante dell’aver agevolato Cosa nostra”. Una storia che ha dell’incredibile, quella della casa di Scarpinato a Sciacca, su cui sarà indispensabile andare a fondo. Ieri lo ha chiesto Luca Palamara, oggi ci torna Matteo Renzi: «Ancora ieri c’è stata una polemica contro di me da parte del M5s e di Scarpinato, magistrato candidato con i grillini. Io vorrei chiedergli: perché invece di insultare me non risponde a Palamara?». Oppure a Filippo Mancuso, venti anni dopo.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Sotto accusa le rivelazioni dell'ex pm. Renzi a Scarpinato: “La lotta alla mafia non è cosa per te”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022
“Renzi? Venga qui senza scorta a dire che vuole abolire il reddito di cittadinanza”, ha gridato sabato scorso Giuseppe Conte da un palco siciliano, alla presenza del candidato antimafia’ del M5S al Senato, l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Apriti cielo. La campagna si è infiammata, avvelenata da una intimidazione che ricorda quello degli squadristi: cento anni fa Roberto Farinacci aizzava dal palco con le stesse parole, a suon di minacce cui seguivano puntuali le manganellate ai rivali.
Matteo Renzi ha replicato duramente a Conte: “Un mezzo uomo che parla con un linguaggio da mafioso della politica”. Parole prese in prestito a Leonardo Sciascia che il senatore fiorentino ha scagliato dal comizio fatto proprio a Palermo. Poi il leader di Italia Viva ha rilasciato una intervista al Giornale di Sicilia dai toni altrettanto duri, E se l’è presa anche con Scarpinato. “Non prendiamo lezioni di antimafia da Roberto Scarpinato. Un ex premier che dice che devo andare a Palermo senza scorta non ha alcun senso delle istituzioni, sta istigando alla violenza con un linguaggio politico mafioso e non ha alcun rispetto per gli uomini e le donne delle forze dell’ordine che oggi sono qui a presidiare il territorio perché se qualcuno mi avesse messo le mani addosso lo avrebbe fatto perché sobillato da Conte e tutto il mondo parlerebbe di noi. Quella frase dimostra la statura dell’uomo, meschino e mediocre…”. Botte da orbi. E se l’analisi di Renzi poi va sull’antifona di Conte (“Io non prendo lezioni sulla povertà da Letta e Conte. Per uscire dalla povertà non ci vuole il reddito di cittadinanza, ma un lavoro pagato bene. Con sussidi e assistenzialismo la Sicilia non va da nessuna parte”) è a Scarpinato che il riferimento irriverente brucia di più.
L’ex magistrato, candidato con Conte nel collegio senatoriale Sicilia 1 e in Calabria, si ritrova in un denso passaggio de Il Sistema di Luca Palamara. Cosa rivelò su di lui l’ex capo della magistratura associata? Parlando di pratiche lottizzatorie tra le varie correnti della magistratura nei concorsi per il conferimento degli incarichi di vertice, Palamara ha raffigurato Scarpinato come persona vicina ad Antonello Montante, ex Presidente di Confindustria Sicilia, condannato dalla Corte di Appello di Caltanissetta a otto anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata a vari i reati. Stando al testo dell’ormai celebre libro di Palamara, Scarpinato avrebbe chiesto a Montante, allora particolarmente influente nelle dinamiche siciliane, una segnalazione per essere nominato Procuratore Generale a Palermo.
Scarpinato gli aveva replicato con un lungo articolo pubblicato sul Fatto quotidiano l’11 febbraio 2022, protestando che l’affermazione di Palamara era falsa: non avrebbe mai chiesto alcuna segnalazione a Montante. Le accuse nei suoi riguardi sono gravissime: secondo gli inquirenti, Antonello Montante sarebbe stato a capo di una rete di spionaggio dedita ad acquisire informazioni riservate (anche mediante accessi abusivi alla banca dati SDI delle forze di polizia), ivi comprese quelle riguardanti l’attività d’indagine che si stava svolgendo nei suoi confronti. La Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana ha redatto un corposo documento, chiamato “Il sistema Montante”, che però non ha incluso gli eventuali episodi di contatto intervenuti tra lui e il dottor Scarpinato.
Nella polemica si inserisce Repubblica, che definisce Palamara “fonte (s)qualificata” di Renzi. “Grave che l’articolista abbia omesso di fare una verifica che gli avrebbe consentito di accertare che in realtà la fonte di questi rapporti è un appunto manoscritto rivenuto all’esito di una perquisizione presso l’abitazione del Montante e riferito all’imminente nomina di Scarpinato”. L’ex Procuratore generale di Palermo ieri ha risposto al leader di Italia Viva per le rime: “A pochi giorni dalle elezioni politiche nazionali del 25 settembre, Renzi che sino ad oggi non si era mai occupato della mia persona, ha sferrato un attacco nei miei confronti replicando insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall’ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati. Renzi è evidentemente preoccupato della costante crescita di consensi del M5S per il quale sono candidato come senatore. Nessuna meraviglia che Renzi non esiti a fare ricorso per biechi calcoli elettoralistici a tali squallidi metodi diffamatori nei confronti di chi ritiene essere temibile antagonista politico per la credibilità personale conquistata in decenni di attività al servizio dello Stato sul fronte del contrasto alla criminalità mafiosa ed ai suoi potenti complici nel mondo dei colletti bianchi”.
Poi dallo sfogo Scarpinato è passato a una escalation verbale tipica di chi ha fatto il callo con le reprimende in aula: “Non è un caso che la reputazione e la credibilità di Renzi siano progressivamente colate a picco via via che gli italiani hanno imparato a conoscerlo come portavoce prezzolato di interessi di potenze straniere, nemico dell’assetto della Costituzione e promotore di leggi dichiarate incostituzionali che hanno contribuito a svuotare i diritti dei lavoratori e ad impoverirli”. Niente meno. Per la difesa, il tweet di Renzi che replica a Conte: “Anche oggi Giuseppe Conte parla di me dicendo bugie. Tutto pur di non parlare del perché ha chiuso la struttura dedicata al dissesto idrogeologico e delle truffe miliardarie permesse dal suo Governo. Accetterà mai un confronto?”, la domanda aperta. Siamo agli ultimi quattro giorni di campagna elettorale e tra i leader non c’è stato alcun confronto a quattro. “Renzi vuole farsi pubblicità parlando di me”, gli risponde il leader del M5S. In effetti la querelle tra i due contendenti, direbbero forse i sondaggisti se potessero parlare, sembra abbia portato a una nuova polarizzazione degli elettori, insoddisfatti dal duello Letta-Meloni, oggettivamente meno vivace di questo.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
L'inchiesta. I misteri del senatore Scarpinato: dai rapporti con Montante alle compravendite immobiliari. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 4 Ottobre 2022
Wikipedia è stato aggiornato: “Roberto Maria Ferdinando Scarpinato (Caltanissetta, 14 gennaio 1952) è un politico ed ex magistrato italiano”, recita. Forse manca una ulteriore attività: “Mediatore immobiliare”. Perché se da senatore della Repubblica deve ancora insediarsi – lo farà la settimana prossima – e da magistrato si è già congedato, è l’attività di compravendita immobiliare che sembra averlo a lungo appassionato. Dalla Procura di Palermo ha chiuso la porta dietro di sé lasciando un alone di mistero sul quale facciamo parlare le carte: con i tanti interrogativi aperti sulla natura dei suoi rapporti con Antonello Montante, condannato in appello per associazione a delinquere, Scarpinato si troverà sempre a fare i conti.
Lo stesso Matteo Renzi, in campagna elettorale, aveva scoperchiato la pentola: “Io quando penso a Roberto Scarpinato penso alle pagine di Luca Palamara. Il sistema Montante, le raccomandazioni. Noi non prendiamo lezioni di antimafia da chi come Roberto Scarpinato ci cela il suo rapporto con Montante e siamo costretti a leggerlo sul libro di Palamara”. Ed ecco come Palamara riassume il caso, che parte da un compagno di cordata elettorale, anch’egli eletto (ma alla Camera) con il Movimento Cinque Stelle: “Cafiero de Raho nell’ottobre del 2017, come da accordi con Minniti, viene nominato alla Direzione nazionale antimafia, non prima di aver superato un pericoloso scoglio, la prestigiosa e inattesa candidatura per quello stesso posto del procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, Roberto Scarpinato”.
Luca Palamara dettaglia: “Ma anche Scarpinato, fortemente sostenuto dalle correnti di sinistra, all’ultimo incappa in un problema che giaceva dormiente al Csm dal 2016”. E già in quel dormiente giacere c’è la prima avvisaglia di qualcosa che non torna. Di cosa parla, Palamara, a proposito del sonnacchioso Csm? “Parliamo – scrive a pag. 163 de Il Sistema – dell’inchiesta che ha portato prima all’arresto e poi alla condanna in primo grado a 14 anni di carcere di Antonello Montante, il presidente di Confindustria Sicilia paladino dell’antimafia, che aveva organizzato una rete spionistica per controllare il sistema politico-economico siciliano e trarne indebiti vantaggi”. E qui si precisa meglio anche di quali fatti si parli.
“Nel fascicolo mandato al Csm si fa riferimento a un foglio trovato durante la perquisizione a Montante, con in dettaglio i voti che Scarpinato avrebbe dovuto conseguire nel plenum del Csm che nel 2013 lo nominò procuratore generale di Palermo. Per quella vicenda il pubblico ministero di Catania, Rocco Liguori, che indagava sul caso, decise l’archiviazione per un “comportamento discutibile, che però non costituisce reato”. Varrà la pena di andare a leggere le motivazioni dell’archiviazione. Scrive il giudice Liguori: “Il Montante dichiarava che il dottor Scarpinato non gli aveva mai parlato di quella sua candidatura, e in merito alla piantina dell’immobile sito nel centro di Palermo di proprietà di parenti del dottor Scarpinato, lo stesso Montante dichiarava di essersi sì interessato all’acquisto, ma di non aver dato seguito all’affare”. La chiosa di Palamara è amara: “Gli esposti arrivati al Csm su questa vicenda non decolleranno mai”.
Salta all’occhio la ricorrenza degli affari immobiliari, anche nel documento della Procura catanese. Una piantina “di un immobile sito nel centro di Palermo”. Avevamo dato conto qualche giorno fa dello strano caso segnalato al Ministro della Giustizia del 2001 da uno dei suoi predecessori, Filippo Mancuso. L’avvocato e parlamentare siciliano aveva chiesto alle istituzioni più alte del Paese, con una interrogazione parlamentare, di aprire gli occhi sulla vicenda della compravendita di un immobile a Sciacca (Agrigento), venduto da Scarpinato alla moglie di un suo ex indagato, nel frattempo archiviato. Il ministro guardasigilli dell’epoca, Oliviero Diliberto, aveva dato una risposta che non aveva soddisfatto il richiedente e che suonava pressappoco così: “La compravendita c’è stata, tramite agenzia immobiliare, anni dopo l’archiviazione. Non si ravvisano comportamenti che violano la legge o la deontologia”.
Una formula che ricorre spesso, nella vita di Scarpinato. Dove, per esempio? Apriamo il faldone con il quale la Procura di Catania provava a mettere in fila le carte: ci troviamo davanti a una ulteriore notizia di attività immobiliare, che se anche non sembra essersi finalizzata, certamente è stata intrapresa. Siamo nel novembre 2016, il caso della doppia vita di Montante, paladino antimafia di giorno e confidente delle famiglie di notte, è ormai esploso. Il Sostituto procuratore Liguori scrive in atti: “Nella perquisizione presso l’abitazione di Montante Antonello, sottoposto a indagini per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, venivano rinvenute, all’interno di dispositivi elettronici nella disponibilità del Montante (e di un suo stresso collaboratore), una serie di cartelle contenenti numerosi file relativi ai rapporti tra lo stesso Montante ed alcuni magistrati”. Le cartelle trasmesse facevano riferimento a quali magistrati? Le carte parlano di Roberto Scarpinato, dopo aver fatto la gimcana tra una serie di Omissis che appongono i sigilli della massima riservatezza all’atto di inchiesta.
È ancora la Procura di Catania a dirci che tra Scarpinato e Montante il dialogo è fitto e concreto: c’è uno scambio di richieste, di segnalazioni, di nominativi che l’uno raccomandava all’altro. Un po’ grigiamente, gli uffici giudiziari annotano: “Venivano evidenziati una serie di appuntamenti del Montante con il predetto magistrato”. La disamina del materiale rinvenuto è articolata, ma a richiamare l’attenzione del cronista è un paragrafo in particolare del foglio 2: “Tra gli appunti conservati dal Montante compariva in data 13.12.2010 la consegna di una piantina di un’abitazione sita a Caltanissetta di proprietà di parenti del Dr. Scarpinato. La stessa piantina veniva rinvenuta anche tra i file in sequestro al Montante”. Dunque risulta agli atti che un interessamento per l’acquisto di quell’immobile vi fu, e se a riceverlo fu come risulta il Montante, a sottoporgliene l’opportunità non poteva essere altri chi ne aveva indirettamente la disponibilità, Scarpinato.
Non sappiamo a che titolo Scarpinato sembra aver trattato con Montante la compravendita di quell’immobile, possiamo solo sperare di ricevere dall’interessato un chiarimento utile a fugare ogni dubbio. Quanto risulta agli atti, conferma la richiesta avanzata dal giudice: “Con riferimento all’abitazione sita nel centro storico di Caltanissetta, di proprietà dei parenti del dr. Scarpinato, il Montante riferiva che l’immobile era in vendita e di essersi interessato per l’acquisto, ricevendo anche la piantina dell’immobile, ma di non aver dato seguito a contrattazioni”. Ed ecco anche a Catania il ritorno della formula dell’archiviazione per il magistrato, previa solita tiratina d’orecchi: “Tale condotta, in assenza di altri elementi di difficile accertamento, per quanto discutibile, non può ritenersi penalmente illecita”.
Abbiamo iniziato a esaminare le carte e subito ci troviamo davanti a una condotta che gli stessi magistrati definiscono “discutibile” e che riguarda già, per quello che sappiamo, tre operazioni immobiliari che il neo senatore del Movimento Cinque Stelle aveva tanto a cuore da finire per parlarne perfino con soggetti non proprio raccomandabili, in odore di mafia: una a Sciacca, una a Palermo, una a Caltanissetta. In tanti casi i giornali hanno scritto del Risiko delle Procure. Nel caso di Scarpinato era piuttosto Monopoli.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
I pasticci del pm. Ci ha riquerelato Scarpinato, siamo terrorizzati! Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2022.
Ieri Nino Di Matteo, ex Pm palermitano e ora membro del Csm, ha criticato i partiti che hanno fatto sparire dai loro programmi la lotta alla mafia. Giusto. L’unica traccia di impegno contro le cosche lo hanno dato i Cinque Stelle candidando l’ex procuratore generale di Palermo. Che però… Proprio l’altro ieri è riemersa una storia che era stata dimenticata da tutti. Pare proprio che l’ex procuratore generale di Palermo (Roberto Scarpinato) qualche anno fa abbia venduto ad un prezzo altissimo una casa di famiglia nel paese di Sciacca a un suo ex imputato, che lui archiviò un paio di volte ma che poi fu condannato da altri. Non è una vicenda edificante.
La sollevò tanti anni fa l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso, il quale sostenne anche che questo compratore di casa fosse amico dei Siino, una famiglia che aveva tra i suoi esponenti il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici dei corleonesi di Riina”. Ahi ahi ahi. Nessun reato, pare, ma insomma per i Cinque Stelle che sospendono dal partito un assessore per una bazzecola qualunque, anche se non provata, questo è un macigno. Ieri ancora non era giunta la notizia di una nota di presa di distanze da Scarpinato da parte di Giuseppe Conte. E’ molto probabile che la nota arriverà oggi in giornata. E che Conte chieda a Scarpinato di impegnarsi a dimettersi dalla Camera in caso di elezione. (Sia chiaro: noi non siamo d’accordo; se il reato non c’è, non c’è. In nessuna parte del codice penale c’è scritto che un magistrato non possa fare affari con il proprio imputato. Però conosciamo purtroppo l’intransigenza morale di Conte).
Scarpinato ci ha riquerelato. Ha querelato il direttore di questo giornale perché abbiamo scritto di una casa di proprietà della sua famiglia, a Sciacca, che lui vendette alla bella cifretta di quasi 700 milioni a un signore che tempo prima era stato suo imputato ed era stato da lui archiviato. È un reato vendere la casa a un proprio imputato (che poi, da altri magistrati, fu condannato per altri fatti)? No. Pare che il codice penale non proibisca la compravendita di appartamenti tra magistrati e imputati e nemmeno proibisca pagamenti molto alti. Del resto che una casa a Sciacca, nel ‘96, valesse quasi settecento milioni quando a Roma trovavi un appartamento in zona semicentrale a 400 milioni non è un fatto così eccezionale. Sciacca è una cittadina di una certa importanza e non è lontana da Agrigento. Le case costano.
Non è chiaro però per cosa ci quereli Scarpinato. Nel comunicato che ha diffuso alle agenzie conferma tutte le notizie che noi abbiamo dato. Sorvola solo sul fatto che l’acquirente della abitazione fosse un suo ex imputato, però neanche lo smentisce questo fatto. E allora? Dov’è la diffamazione da parte nostra? Nell’aver riportato una interrogazione parlamentare regolarmente presentata da un deputato della Repubblica? Non credo. Nell’aver taciuto il fatto che questa interrogazione è vecchia di qualche anno? No, non lo abbiamo taciuto, lo abbiamo scritto bene bene in prima pagina. Nell’aver sostenuto che la vendita fu un reato? No, abbiamo spiegato e rispiegato che non c’è nessun reato. Abbiamo solo fatto notare che certo – ma questo è indiscutibile – se una cosa simile fosse successa a un assessore – non parliamo nemmeno di un deputato…- beh, quell’assessore avrebbe passato guai seri. Scarpinato non era un assessore e infatti – anche questo lo abbiamo scritto – la magistratura siciliana stabilì che non c’era niente su cui indagare e l’interrogazione del deputato – ed ex ministro della Giustizia – fu archiviata.
Giusto. E infatti anche questo lo abbiamo scritto. Dunque? Niente, le cose stanno così e noi siamo abituati. In Italia puoi scrivere quello che vuoi di chi vuoi, specie dei politici, ma dei magistrati o degli ex magistrati è meglio che non scrivi niente. Tacere, sopire, sopire, tacere. Così fan tutti. Pensate all’oblio nel quale è stato lasciato dai grandi giornali e dai politici il libro di Palamara e Sallusti. E vabbé, noi non ci adattiamo. Il nostro direttore ha già collezionato una ventina di querele dai magistrati. Si paga un prezzo alla libertà di stampa, no? La libertà dal potere dei magistrati è la più difficile. L’importante è non spaventarsi per le intimidazioni.
L'ex magistrato candidato del Movimento. Scarpinato e il falso su Wikipedia: non è mai stato nel pool di Falcone e Borsellino. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Settembre 2022
Giuseppe Conte è lui o non è lui? Alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale del Movimento compare sul palco con una coreografia peronista di canti e cori, magliette e bandiere inneggianti al “progressismo del popolo”. È un mutante, Conte-Camaleonte, capace di assumere e metabolizzare le sembianze di chi lo circonda. È un gran commis con la pochette tra gli alti papaveri. Un rigido conservatore di destra quando presenta i Decreti Salvini con il sodale leghista. Ieri sera, davanti alla piazza di sinistra – quella storica della sinistra prodiana, Santi Apostoli – era diventato il capopopolo descamisado dei populisti. Proprio come Woody Allen in Zelig, diventa chi non è per proprietà transitiva. E la stessa magia si infonde, a quanto pare, su chi lo circonda. A partire dagli uomini-simbolo di cui si è circondato ancora ieri.
L’ex magistrato Roberto Scarpinato, per esempio. Un uomo che tiene tanto alla correttezza delle informazioni che circolano sul suo conto. Puntualizza i dettagli, si accerta che venga scritta la verità. E fa bene. Gli deve dunque essere sfuggita la pagina di Wikipedia che lo riguarda. Nella biografia pubblica di Scarpinato indicizzata da Google – come risulta effettuando una ricerca mentre scriviamo – si legge infatti: «Inizia la carriera in magistratura nel 1978. Dopo avere prestato servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo nel 1989 entra a far parte del pool antimafia collaborando con Giovanni Falcone e con Paolo Borsellino». Colpiti, abbiamo fatto verifiche e chiesto ai più esperti. Non risulta affatto che Scarpinato sia mai stato un componente del gruppo. Non risulta ad esempio a Giuseppe Ayala, già sostituto procuratore a Palermo e pubblico ministero al primo maxiprocesso, che a domanda precisa risponde con un secco “No”.
Il pool antimafia venne ideato da Rocco Chinnici verso gli inizi del 1980 e dopo il suo assassinio venne guidato dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto. Facevano parte del gruppo Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello Finuoli, Leonardo Guarnotta. In seguito, a causa del trasferimento di Borsellino alla Procura di Marsala, vennero cooptati anche Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio De Francisci. Il lavoro del pool ha fatto in modo che fosse celebrato il celeberrimo Maxiprocesso di Palermo, contro i criminali appartenenti a Cosa Nostra. «Nel pool antimafia c’erano solo i giudici istruttori, non la Procura della Repubblica. Scarpinato non avrebbe potuto far parte del pool», puntualizza l’avvocato Stefano Giordano. E allora come la mettiamo con quella pagina di Wikipedia? Contiene un errore vistoso, attribuisce a Scarpinato una prossimità con Falcone e Borsellino che in quei termini non c’era. Conoscendolo, si premurerà senz’altro di far correggere l’indebita attribuzione.
Anche per non lasciar cadere in errore un Giuseppe Conte smodatamente infervorato sul tema. Fu proprio da Palermo, per la prima volta alla presenza di Scarpinato, che il leader 5 Stelle si lasciò andare: «Siamo nati per fare la guerra alla mafia con il rigore dell’etica pubblica e l’intransigenza morale. Non accettiamo compromessi e su questo siamo pronti a far cadere il governo», aveva anticipato Conte l’8 giugno scorso, confortato dal consenso dei magistrati presenti, cinque settimane prima di realizzare il suo piano. Ieri è tornato sulle sue parole d’ordine: il Reddito di cittadinanza, il cashback fiscale “per avere subito uno sconto sulle spese sanitarie e veterinarie”, il salario minimo. Si vota col portafogli e non con la testa, sembra aver capito Conte. Tutto come da copione, peccato per quelle due gaffe dal palco. Presenta Scarpinato come simbolo di lotta alla mafia dimenticando la vicenda della casa di famiglia venduta a un indagato per rapporti con Cosa Nostra. Poi Conte rivela, affannato dopo tanti camuffamenti e iperboreato dall’esultanza della piazza, come in un moto liberatorio, la sua autentica propensione. E sulla Russia cade anche il suo velo.
«Proprio perché l’Ucraina non poteva difendersi a mani nude dicemmo all’inizio di sì alle sanzioni ed all’invio delle armi anche se siamo pacifisti. Ma ora l’evoluzione attuale ci dice che la strategia decisa a Washington con la complicità di Londra che la Ue sta subendo passivamente ci porta ad abbracciare il rischio di una escalation militare». Le responsabilità di Putin non le vede. Non esistono, dall’alto del palco di Santi Apostoli, coperte da troppe bandiere. «Siete venuti in tanti da Napoli, dalla Calabria, dalla Sicilia», grida. Si sente, in cuor suo, Achille Lauro. Qualcosa l’ha dato, lanciando il reddito di cittadinanza con il suo governo. Qualcos’altro lo darà, se votate bene. Ed è così che lo ritrae Matteo Renzi: «Conte dice che il reddito di cittadinanza è una misura per i poveri. Ai poveri serve lavoro, sanità, istruzione. Non organizzare un sistema, spesso truffaldino, per garantire il consenso di alcune parti del Paese. Almeno Achille Lauro lo faceva coi suoi soldi, non coi soldi del contribuente».
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Memorie di una guerra. I 57 giorni del 1992 in cui la mafia si ruppe le corna. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 16 Agosto 2022
Poco meno di due mesi separano l’attentato a Falcone dalla strage di via D’Amelio. Ma per Cosa Nostra, lanciata in una folle corsa stragista e terrorista, quello fu per lei il momento di non ritorno. Dopo la morte di Borsellino, tutta la rete di connivenze e pavidità si sciolse e fu tutto il Paese ad avvertirlo, mosso da quel coraggio civile che gli italiani sanno tirare fuori nei momenti più tragici
L’indimenticabile e tragico ’92
Per molti è l’indimenticabile (e tragico) ’92. Al pari dell’indimenticabile (e tragico) ’56, come Pietro Ingrao definì l’anno nel quale i carri armati sovietici repressero la rivolta operaia e popolare in Ungheria. Con una differenza: mentre allora la crisi devastante si abbatté soprattutto sul Partito comunista, incapace di recidere il legame di ferro con l’Unione Sovietica (cosa che determinò la fuoriuscita di tanti intellettuali di prestigio e di semplici militanti e l’inizio della storia dell’autonomismo socialista, che invece quel legame lo recise e di cui fu erede Bettino Craxi, la cui fine politica avviene proprio nel 1992), nell’anno di Tangentopoli e delle stragi mafiose il Partito comunista sembrava doverne uscirne indenne. L’attacco mafioso colpiva al cuore la Democrazia cristiana mentre la corruzione demoliva il Psi e il suo leader e colpiva gli alleati moderati. Si vedrà dopo che quella di andare al governo sfruttando la decapitazione dei partiti moderati sconfitti non nelle urne ma dall’azione della magistratura fu una tragica e breve illusione.
Non dico che quell’azione della magistratura non fosse necessaria, perché la corruzione era diventata sistema e il terrorismo mafioso dei corleonesi aveva portato l’attacco dentro il cuore dello Stato. Qui voglio sottolineare come nel biennio 1991/1993 il Pds (malgrado la felice intuizione di Achille Occhetto che il crollo dell’Urss e del Muro di Berlino avrebbe infine riguardato l’intero sistema politico italiano) abbia assecondato nella pratica l’illusione giustizialista, pensando di risolvere il problema della riunificazione della sinistra – che il crollo del comunismo poneva all’ordine del giorno – con l’annessione di ciò che rimaneva dei socialisti dopo il napalm giudiziario. Il Pds confuse il finanziamento illecito della politica e la connessa corruzione che riguardava tutti i partiti, Pci compreso, come una malattia esclusiva del craxismo. Per questo, invece di realizzare la propria Bad Godesberg, assumendo esplicitamente l’identità del socialismo democratico che Bettino Craxi, al di là della sua vicenda giudiziaria, aveva efficacemente portato all’apice della sua influenza politica, gli ex comunisti si avventurarono in una confusa ricerca identitaria tuttora irrisolta.
Di questo anno drammatico sono stato testimone partecipe. Fu il mio ultimo anno a il manifesto e dì lì a poco sarei diventato direttore di Italia Radio, la radio del Pds. Quegli eventi – quelli delle stragi di mafia, voglio dire – li ho vissuti sul campo e ve li racconto oggi come allora, senza il senno del poi.
L’omicidio Lima
Da marzo a luglio ho fatto continuamente la spola tra Roma e Palermo. Arrivavo a Palermo direttamente dai palazzi del potere romano dove seguivo per il manifesto la convulsa fase che attraversavano le istituzioni, con i partiti bloccati sul nome del successore di Francesco Cossiga e la candidatura di Giulio Andreotti che incombeva. Ricordo i proconsoli romani di Andreotti – Franco Evangelisti, Nino Cristofori, Paolo Cirino Pomicino – riunire i cronisti per spiegare che il Capo aveva i voti per andare al Quirinale. Erano sicuri di avere con sé una parte di voti anche del Pds, e dicevano di avere il sostegno di uno dei grandi vecchi del Pci, Paolo Bufalini, che non sarebbe più stato in Parlamento dopo le elezioni politiche di aprile ma che era ancora molto influente. Non sapremo mai se fosse vero, perché ad Andreotti fu scagliato contro il cadavere del suo plenipotenziario in Sicilia, Salvo Lima, garante del patto tra la politica e Cosa Nostra.
Questo adesso è un fatto acclarato, ma per averlo detto allora, insieme a Sandra Bonsanti, collega di Repubblica, nel corso di una rovente puntata di Samarcanda, la trasmissione di Michele Santoro, rischiai fisicamente il linciaggio da parte degli amici di Lima (che non erano esattamente dei tipi raccomandabili). Ricordo un marzo freddissimo, insolito per Palermo. E il gelo calò non solo sul cadavere di Lima, assassinato come un cane davanti alla sua villa di Mondello, mentre cercava di sfuggire ai killer dei corleonesi.
L’assassinio di Salvo Lima, uomo dei corleonesi, autore insieme a Vito Ciancimino del sacco edilizio di Palermo, proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, avviene mentre è aperta la lotta per l’elezione del nuovo capo dello Stato, dopo il settennato di Francesco Cossiga che si era concluso con le picconate a un sistema politico-istituzionale moribondo. Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, di cui Lima è il proconsole in Sicilia, è uno dei candidati più autorevoli. L’assassinio di Lima è la pietra tombale su quella candidatura. Ed è la vendetta dei capi della mafia contro il loro sodale Salvo Lima e contro il suo leader che, secondo loro, non si sono dati da fare per evitare quel che più temono: la conferma degli ergastoli per tutti i boss che si realizza nel gennaio di quell’anno.
Nella chiesa dove si svolge la cerimonia funebre osservo il volto illividito di Giulio Andreotti e vi leggo il declino di un’epoca.
Poche ore dopo l’omicidio di Salvo Lima, appena sbarcato a Palermo, avevo telefonato a Calogero Mannino, uomo chiave del rinnovamento democristiano voluto da Ciriaco De Mita, che si era incarnato nelle giunte antimafia del sindaco Leoluca Orlando che, insieme all’offensiva del pool antimafia, interpretarono la rivolta dei siciliani contro il potere mafioso e i suoi complici politici.
Testa politica finissima, esponente della sinistra democristiana, commissario della Balena Bianca in Sicilia, più volte deputato, sottosegretario e ministro, assolto nel 2010 in via definitiva dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dopo un lunghissimo iter giudiziario nel corso del quale ha scontato anche nove mesi di reclusione e tredici di arresti domiciliari, Mannino è stato assolto anche dall’accusa di essere stato l’ispiratore della trattativa tra Stato e mafia che, secondo la procura di Palermo, fu avviata dopo la strage di Capaci nel maggio del 1992, «perché il fatto non sussiste».
Nella gelida primavera del ’92 lo incontro nella hall dell’Hotel Jolly, un grande albergo pieno di notabili dc col terrore negli occhi, e gli dico: «Lillo, ora tutti dicono che sei tu il nuovo viceré». Mannino mi lancia uno sguardo inceneritore e mi dice: «Non dirlo neppure per scherzo».
Allora non capii pienamente il significato di quelle parole che invece mi fu chiaro tanti anni dopo quando Mannino, in un’intervista per l’Unità, all’indomani dell’ultima assoluzione, mi confidò: «Io penso che Ciancimino fosse stato informato dei delitti di Michele Reina e Piersanti Mattarella (il primo era segretario provinciale della Dc, il secondo presidente della Regione, entrambi furono assassinati dai corleonesi, nda), fu lui a ordinare gli attentati contro due sindaci democristiani come Elsa Pucci e Nello Martellucci. Ciancimino era al centro dell’offensiva di Cosa Nostra contro la Dc e nessuno allora focalizzava il suo ruolo. Neppure Giovanni Falcone riuscì a inserirlo nel maxiprocesso. E Lima era uguale a Ciancimino. Però a un certo punto aveva cominciato a prendere le distanze da Cosa Nostra perché aveva capito, come sosteneva anche il mio amico Leonardo Sciascia, che i corleonesi non volevano più obbedire alla politica ma diventare i padroni della politica. Una volta Falcone mi disse che “la lotta contro Cosa Nostra diventa una questione di sovranità nazionale”. E di questo salto di qualità, ecco quel che molti si ostinano a non capire, e voi di sinistra in particolare, noi democristiani fummo le prime vittime. Cominciamo dall’omicidio di Michele Reina, segretario provinciale della Dc di fede andreottiana. Era un personaggio che ritenevo discutibile, quindi quando lo uccisero, nel marzo del 1979, non feci la tradizionale visita alla famiglia. Quella sera, non l’ho mai raccontato finora, verso le 22:30 vennero a casa mia Piersanti Mattarella, che un anno prima era diventato presidente della Regione con l’appoggio dei comunisti, anche perché Andreotti pensava di avere un debito morale verso Aldo Moro, che era appena stato rapito e perché voleva creare una sorta di parallelismo Roma-Palermo, e Rosario Nicoletti, segretario provinciale della Dc (morirà suicida nel 1984, nda). “Lillo”, mi disse Mattarella, “la situazione è grave, molto più di quanto tu possa immaginare”. Nicoletti, che era molto agitato, esclamò: “Lillo, qua ci ammazzano a tutti e tre”. Eravamo i tre temerari che avevano proseguito l’esperienza morotea, dopo la morte di Moro».
A conferma di quei rischi, molti anni prima, quando era ministro dell’Agricoltura, mentre lo intervistavo, e insistevo per ottenere un giudizio su Lima, Mannino mi chiese di spegnere il registratore e poi mi disse: «Ma mi vuoi vedere morto?».
La polvere rossa di Capaci
Qualche mese dopo quel colloquio all’Hotel Jolly del marzo 1992, è il 24 maggio dello stesso anno, mentre dall’aeroporto corro verso il luogo della strage di Capaci, incrocio in senso opposto il corteo presidenziale che sta riportando a Roma il vicecapo dello Stato, Giovanni Spadolini, che si lascia alle spalle la Beirut italiana e torna nei Palazzi in disfacimento. In quanto presidente del Senato è capo dello Stato supplente perché Francesco Cossiga si è dimesso prima del tempo, lanciando una bomba lacerante.
È tutto un sistema politico che sta cadendo sotto i colpi di Tangentopoli. La mafia sta perdendo i suoi vecchi punti di riferimento e decide di saltare la mediazione politica. O, meglio, di assoggettare le istituzioni con il terrorismo mafioso. E questo, come si vedrà poi, fu il suo più grande errore.
Di che materia è fatta la memoria? La mia, se torno a quel maggio del 1992, è fatta di odori, di scirocco, di pioggia, di lacrime.
L’odore, lì a Capaci, è quello ferrigno della morte, della polvere rossa che il vento di scirocco trascina con sé nell’aria che sa di esplosivo, di catrame ancora caldo. Per terra, pezzi di tela militare sbattuti dal vento, due mazzi di fiori di campo poggiati su un cumulo di terra.
Per duecento metri l’autostrada non esiste più, è stata cancellata, spazzata via. Ecco il grande cratere di terra rossa: qui sotto c’erano mille chili di tritolo, una potenza micidiale che ha sollevato l’asfalto che ora se ne sta ingobbito, dilaniato da quella forza devastante sprigionata dal suo stesso ventre. La macchina sulla quale viaggiavano Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, è ferma sul ciglio del cratere, con il muso stritolato dalla furia del primo impatto, tutti i suoi congegni elettronici sono lì sventrati, oscenamente esposti. Poco più dietro, un’altra macchina della scorta messa di traverso e più in là un’altra ancora che sembra come schiacciata da una mano potente che scende dall’alto.
Ecco. Così sono morti Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo.
Un cronista di Radio Monte Carlo mi dice solo quattro parole :«It’s a war».
Già, ma in questa guerra lo Stato si ferma dopo ogni piccola battaglia vinta, mentre la mafia, giunta all’apice della sua potenza economico-militare, dispiega la propria onnipotenza e dice: io posso tutto, io posso assassinare come un cane, in mezzo alla strada, l’uomo politico che non ha mantenuto le promesse; io posso togliere di mezzo il giudice più protetto d’Italia, il mio nemico numero uno, quello che vi ha costretto a guardare di che cosa sono fatta davvero. E per farlo vi dimostro che posso, letteralmente, sollevare la terra sulla quale camminate.
Falcone doveva morire perché aveva guardato il mostro negli occhi, ne aveva compreso il salto di qualità. Non più un insieme di cosche, ma un vertice che governa con il pugno di ferro, che ha intrecciato legami con pezzi della politica e dello Stato. L’aveva detto, Falcone, dopo l’attentato fallito alla sua villa dell’Addaura, quando parlò di «menti raffinatissime» che l’avevano ordito. L’aveva detto nella sentenza del processo Maxi-ter a Cosa Nostra quando, parlando dei grandi delitti politico-mafiosi, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Michele Reina e Pio La Torre, affermava che si trattava di «omicidi in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi e di oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti, che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina».
La condanna a morte di Giovanni Falcone è tutta scritta lì. Avendo compreso in quale trama di potere giocasse Cosa Nostra, Falcone cercava gli strumenti per poterli mettere a nudo. Ci provò dapprima con il suo lavoro di magistrato, finché non gli legarono le mani; poi cercando di cambiare dall’interno la politica giudiziaria, delineando la Procura nazionale antimafia. In questo cammino commise anche errori, forse sottovalutò la capacità di irretirlo del potere e sopravvalutò la volontà di taluni di combattere veramente la mafia. Le critiche che gli vennero da chi gli era stato amico lo ferirono profondamente, ma erano fatte in buona fede e nascevano anche dalla preoccupazione che certe mediazioni non solo non gli avrebbero consentito di raggiungere i suoi obiettivi, ma lo avrebbero esposto come ostacolo al patto di convivenza tra Stato e mafia.
Scrivevo allora, cercando di spiegare perché, dopo aver ucciso l’uomo del legame tra politica e mafia, Salvo Lima, Cosa Nostra avesse alzato il tiro sul suo nemico giurato: «Un atto di terrorismo mafioso… L’hanno fatto mentre il Palazzo viveva un passaggio delicatissimo: un’elezione presidenziale nel corso della quale si ridisegna l’equilibro del potere. Non c’è bisogno di pensare a complotti e a trame oscure. Purtroppo, è tutto tragicamente chiaro: un pezzo d’Italia che è Colombia e Libano. Con i piedi ben piantati qui, il potere mafioso alza la testa e guarda in alto, alla ricerca del suo posto tra i poteri, oligarchia armata che vive del deficit di democrazia e a sua volta lo alimenta».
Lo sapevo e lo sapevano tutti, a cominciare proprio da chi fingeva di non vedere: nel corso degli anni Ottanta la mafia aveva decapitato il sistema politico e istituzionale siciliano, assassinando il capo della mobile, Boris Giuliano, il capo dell’ufficio istruzione, Cesare Terranova, il capo della procura, Gaetano Costa, il segretario provinciale della Dc, Michele Reina, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, il segretario regionale del Pci, Pio La Torre, il prefetto antimafia, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giudice istruttore Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia, il mentore di Giovanni Falcone. Non è solo un impressionante elenco di morti, è un colpo di Stato silenzioso, che divora dall’interno la legalità con le complicità e le connessioni e abbatte chiunque si metta sulla sua strada, mentre Giovanni Falcone e il pool antimafia ne svelano la nuova natura: Cosa Nostra, micidiale macchina da guerra, mix di traffici illegali, kalashnikov e business, tritolo e politica. I vecchi patti con la politica sono saltati e coloro che per complicità o codardia non hanno voluto vedere l’ascesa sanguinosa dei corleonesi, ora assistono sgomenti e terrorizzati a quella dimostrazione di geometrica potenza militare.
Attraversando Palermo, tra l’odore delle stigghiole arrostite per strada e le ceste di pane, leggo su qualche rudimentale cartello la scritta “Falcone sei vivo”. Io c’ero, posso raccontare il dolore attonito di una città che poi si farà rabbia all’apparire dei vertici istituzionali, le lacrime che si confondevano con la pioggia. Paolo Borsellino, una maschera da tragedia greca avvolta in una perenne nuvola di fumo, e gli altri membri del pool antimafia: Giuseppe Ayala ripiegato su sé stesso, una pertica che pare sul punto di spezzarsi, Giuseppe Di Lello, il nostro carissimo amico Peppino, piccolo e solo, senza scorta, talmente indifeso che ci stringiamo attorno a lui, quasi a fargli da scudo. E poi quelle parole di Rosaria Schifani, quella specie di lamento funebre contro i mafiosi: «Io vi perdono, ma inginocchiatevi… ma non voi non lo fate… non lo fate», che risuonò nella chiesa di San Domenico come una biblica maledizione.
Il 25 maggio, due giorni dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, le Camere eleggono presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un democristiano moderato, cattolicissimo (tanto da aver schiaffeggiato negli anni Cinquanta in un ristorante romano una signora che mostrava le spalle troppo scoperte) ma fuori dai giochi di potere. A conferma dei paradossi di quella stagione fu proposto da due outsider della politica che sembravano il suo opposto: Marco Pannella, leader dei radicali e anticlericale per eccellenza, e Leoluca Orlando, figlio ribelle della sinistra dc che aveva da poco fondato la Rete. Scalfaro poi divenne, durante la sua presidenza, il principale avversario dell’ascesa politica di Silvio Berlusconi, e un’icona della sinistra.
Cinquantasette maledetti giorni
Falcone e Borsellino. Giovanni e Paolo. Ormai gli italiani li ricordano così, come fossero una sola persona e fossero morti in un’unica strage. Ma non fu così. Ci sono cinquantasette giorni, cinquantasette maledetti giorni. Non s’era ancora chiuso l’asfalto di Capaci, sventrato da una gigantesca quantità di esplosivo, che si aprì quello di via D’Amelio con l’odore ferrigno dell’esplosivo che ti entrava nelle narici e il fumo nero che si diffondeva in città come una lebbra.
Quando eravamo venuti a raccontare di Falcone, Paolo Borsellino era una presenza dolente che, lo scoprimmo dopo, non piangeva solo l’amico, ma contava i giorni che gli restavano da vivere, prima che i boia mafiosi decidessero di eliminare anche lui. Il problema non era se, ma quando. E perciò ingaggiò una specie di lotta contro il tempo, per scoprire chi avesse ucciso il suo amico e collega Giovanni, sua moglie Francesca Morvillo, gli uomini della scorta, ma anche per denunciare chi aveva tradito il suo amico Giovanni e affossato il pool antimafia. Borsellino sapeva benissimo che gli attacchi non erano venuti solo dalla mafia, o dalla politica corrotta e connivente (che c’era, oh sì che c’era), ma anche dai “giuda” interni alla magistratura che avevano isolato e boicottato il suo amico Giovanni.
A tutto questo pensavo mentre percorrevo le strade di una città furente, addolorata, che si rivoltava gandhianamente contro uno Stato che aveva consentito quell’incredibile mattanza.
Il mattino di lunedì 20 luglio sono in via D’Amelio, dove vive la mamma che il magistrato era andato a trovare come ogni domenica. È una giornata caldissima, una giornata che non finirà mai perché si prolunga nella notte della protesta degli agenti delle scorte davanti alla prefettura, della gente di Palermo che prende d’assalto con le scale Palazzo delle Aquile e mi spinge su, a invadere la sala del Consiglio dove una giunta posticcia ha sostituito quelle antimafia di Leoluca Orlando.
Ma ora sono qui, dove hanno massacrato Paolo Borsellino e i sei agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Via D’Amelio è una strada chiusa, attorno alla quale si innalzano palazzoni alti, fino a tredici piani; da uno spicchio tra un edifico e l’altro si vede il Monte Pellegrino. Questa scena ricorda Beirut: una trentina di macchine distrutte dalla vampata dell’esplosione, a cavallo di un muro un pezzo dell’autobomba, odore intenso e acre di lamiere bruciate, di gomma arsa, vetri dappertutto, l’asfalto nero contorto. E i palazzi semidistrutti, i muri aperti dall’esplosione, le finestre gonfie e ritorte, le lesioni sulle facciate. Un albero spoglio, come bruciato: è qui sopra che hanno raccolto quel che restava del povero corpo di Emanuela Loi. Avevo già raccontato un altro giudice assassinato con il tritolo, Rocco Chinnici, il 23 luglio del 1983. Ricordo il viaggio in aereo con la delegazione del Csm che scendeva a Palermo e un caldo asfissiante, una cappa umida di dolore e morte.
Questo, capite?, era successo quasi dieci anni prima e la potenza di fuoco si era nel frattempo moltiplicata per cento. Così, quando viene il giorno dei funerali di Stato dopo la strage di via D’Amelio, Palermo ha solo lacrime e rabbia. Ancora oggi non ho dimenticato le mani di Palermo. Quelle della sua gente, voglio dire. Migliaia. Mani disarmate, che si levano al cielo, che si intrecciano l’una con l’altra, che coprono il viso di chi piange, che si congiungono in preghiera o si alzano sulle teste a ritmare l’applauso. In queste mani c’è la forza e la disperazione, la ragione e la collera di un’intera città. Una città che lo Stato della vergogna avrebbe voluto tenere lontano dalla sua cattedrale, dai suoi morti, dal suo dolore. Perché ha paura della sua coscienza sporca, delle promesse non mantenute, delle cose non fatte, delle complicità e delle collusioni ormai irrimediabilmente venute alla luce. Non è Palermo, è lo Stato che è irredimibile, che teme l’ira giusta dei cittadini, e così, non per catturare latitanti, ma per impedire alla città di avvicinarsi alla cattedrale, la mette in stato d’assedio. Camionette, blindati, doppi, tripli e quadrupli cordoni di agenti, peraltro con ogni evidenza niente affatto felici del compito che è stato loro affidato, a presidiare tutti gli ingressi e le vie d’accesso alla cattedrale che vengono però infine travolte dalla folla che vuole partecipare a un funerale che sente suo.
C’è un sole feroce, che non perdona. Palermo gronda lacrime e sudore.
È venerdì. Mio Dio, quanto è lunga l’elaborazione del lutto e del dolore! Dopo l’ira ora viene il momento del raccoglimento e della preghiera. È il momento dei funerali privati.
Sono da poco passate le dieci quando Antonino Caponnetto, che era stato il capo del pool, si dirige verso l’altare per la sua «preghiera laica». Man mano che parla, si avverte come una forza interiore che si diffonde ed entra in ciascuno, dentro e fuori la chiesa. Eccola, in quest’uomo anziano, diafano, dall’aria dolce ma ferma, la ribellione morale di un’intera città e forse di un intero Paese; in quest’uomo che non esita a dire: ho sbagliato, in un momento di sconforto, a dire «tutto è finito» (come aveva detto dopo la morte di Giovanni). E che rende così più vera e credibile quella promessa, quel «giuramento», che è di tutti: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino a ora dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi. Questa è la promessa che io ti faccio, solenne come un giuramento». Un giuramento che tutti sottoscrivono con l’applauso interminabile, struggente, forte, che accompagna Paolo Borsellino nel suo ultimo viaggio.
C’era stata, prima, quella maxi-trattativa che avrebbe coinvolto i principali vertici delle istituzioni, ipotizzata dalla procura di Palermo? Ad oggi si tratta di un’ipotesi sempre più difficile da dimostrare. Quel che è certo è che un sistema vasto di complicità e connivenze, che ebbe la sua parte nel contrastare l’azione di Falcone e Borsellino, s’infranse in via D’Amelio.
Forse è in quel momento che la Cosa Nostra dei corleonesi lanciata nella folle corsa stragista e terrorista ha perduto la sua sfida. La mafia non è stata sconfitta definitivamente, questo no, essa si riproduce continuamente come un camaleonte, alla ricerca continua di denaro, potere e affari. Ma se l’obiettivo, come disse Totò Riina, era di “rompere le corna” allo Stato, bisogna dire che le corna se le sono rotte loro, i boss, seppelliti da anni di carcere duro o morti dietro le sbarre, come Bernardo Provenzano e Riina. La strage di via D’Amelio fu il momento di non ritorno, non c’era più spazio per pavidità e rassegnazione. In gioco non c’era solo la vita di tanti servitori dello Stato, ma quella di tutti noi: fu tutto il Paese ad avvertirlo, mosso da quel coraggio civile che noi italiani sappiamo tirare fuori nei momenti più tragici della nostra storia. Dieci anni dopo quella strage, me lo fece capire Andrea Camilleri che, in un documentario che girai per La7, mi disse: «Fu come il nostro 11 settembre. Caddero le nostre Torri, che erano Falcone e Borsellino». E forse fu per questo che reagimmo. Ma in questa sacrosanta reazione vi furono non solo esagerazioni, ma una vera e propria distorsione complottista che serve più a mantenere la visibilità di qualche procuratore e a garantire successi editoriali che a ricercare la verità.
Infine, consiglierei di non citare a vanvera un simbolo come Giovanni Falcone che «era un autentico liberale e aveva una sincera cultura garantista, superiore a tanti altri magistrati», come ricorda Paolo Mieli che, con l’aiuto di due bravissimi colleghi palermitani, Marcello Sorgi e Francesco La Licata, aveva portato il giudice a collaborare con la Stampa, fino alla sua tragica morte.
Come trovai allucinanti le accuse del Comitato antimafia a Leonardo Sciascia e le parole di padre Ennio Pintacuda, un gesuita che era impegnato nel movimento antimafia, sul sospetto come anticamera della verità. Falcone gli rispose tranchant: «Il sospetto non è l’anticamera della verità è l’anticamera del khomeinismo». E poi aggiunse: «A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede». E ancora: «Io posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole… o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro Paese».
Falcone pensava che non bastasse una ricostruzione storica, per quanto suggestiva, a mettere sotto accusa questo o quel politico. Sapeva, dunque, di doversi inoltrare su quel terreno minato, ma non si spingeva oltre quanto gli consentissero gli strumenti dell’azione penale: «Giovanni fu accusato di tenere nel cassetti le prove delle complicità istituzionali, ma non è affatto vero», mi ha spiegato Peppino Di Lello, memoria storica del pool antimafia, collega e amico di Falcone e Borsellino. «È che lui non era avventato e teneva molto a verificare che le indagini e le testimonianze reggessero alla prova del processo e non si traducessero in un boomerang».
Una tesi condivisa da Giovanni Fiandaca, che intervistai per l’Unità a venticinque anni dalle stragi. Sessantanove anni, professore ordinario di Diritto penale dell’Università di Palermo, già membro del Csm, Fiandaca è uno dei massimi esperti italiani della legislazione sulla criminalità organizzata. Uomo di sinistra, ha scritto, insieme allo storico Salvatore Lupo, un libro dedicato al processo sulla trattativa (La mafia non ha vinto. Nel labirinto della trattativa).«Cosa nostra è più debole di prima, perché le sono stati inferti colpi formidabili grazie a una azione giudiziaria di contrasto che è perdurata da allora», mi dice Fiandaca. «Ovviamente ciò non vuol dire che il fenomeno mafioso in Sicilia sia scomparso».
Fiandaca non ha mai creduto all’ipotesi della trattativa e della regia occulta degli attentati: «È un’ipotesi accusatoria che finora non ha trovato adeguati riscontri, né sul piano giudiziario né su quello della ricostruzione storico-giornalistica. Una cosa è sostenere che non è da escludere che possa esserci stata qualche complicità, altra cosa e darla per provata. In ogni caso, a mio giudizio, non è molto plausibile la tesi di una sorta di complotto universale, concepito nell’ambito di una regia unitaria da pezzi della politica, pezzi del mondo imprenditoriale, pezzi della massoneria e articolazioni dei servizi segreti deviati. Comunque sia, l’assoluzione di Mannino, seguita dalla recentissima assoluzione del generale Mori, fanno certamente venir meno strutture portanti dell’edificio accusatorio dei pubblici ministeri».
«Una parte dell’antimafia», spiega Fiandaca, «si è trasformata in una retorica della legalità, un vuoto palcoscenico per rituali stanchi o per dare sfogo a forme di intollerabile narcisismo. E questo nella migliore delle ipotesi. A questo stucchevole ritualismo si è purtroppo aggiunta un’antimafia carrieristica e affaristica: nel senso che il vessillo dell’antimafia è stato impropriamente utilizzato per fare carriera o per accedere in modo privilegiato a commesse pubbliche o a occasioni di profitto da parte di imprenditori in rapporto di opportunistica vicinanza con esponenti del mondo politico e istituzionale. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Aggiungerei però che l’antimafia fasulla o strumentale è anche prosperata a causa di una acritica complicità di quella parte dei media sempre pronta a dare visibilità e a mettere sugli altari personaggi che sulla base di più attente valutazioni non lo meriterebbero affatto».
Peraltro, sono state di recente desecretate le audizioni di Falcone al Csm, in particolare quando fu chiamato a rispondere delle accuse del tutto infondate del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, sulle prove dei delitti politico-mafiosi tenute nascoste nei cassetti. Che il sindaco di Palermo, (che era e resta un mio amico) sbagliasse, glielo dissi allora e gliel’ho ripetuto quando, in occasione del trentesimo anniversario della fondazione della Rete l’ho intervistato per l’Espresso. «Populista, giustizialista, professionista dell’antimafia, quali di queste accuse ti pesa di più?», gli ho chiesto. Mi ha risposto: «Lo sono stato davvero o certe scelte erano dettate dal contesto nel quale avvenivano? Ci furono degli eccessi di corruzione e di mafia, e ci furono eccessi nella risposta. Mi hanno chiamato a quel tempo giustizialista: è una definizione che non risponde al mio spirito, tanto che sono passato alla cultura dei diritti. Io, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, il cardinale Pappalardo eravamo i professionisti dell’antimafia. Lo siamo diventati perché eravamo isolati. E inevitabilmente eravamo indicati così. Poi i palermitani hanno aperto gli occhi, l’attenzione è cambiata. Io da anni non sono più in prima fila ai cortei antimafia. Significa che è cambiata la mia posizione? No di certo, è cambiato il contesto. È diventata una scelta di opportunità. Ai tempi di Sciascia si doveva fare professione di antimafia, oggi se ne può fare a meno. Dopo di che sono stato eccessivo? Sì, e ho sbagliato anche nei toni quando me la prendevo con la Procura di Palermo».
La sentenza d'appello di Palermo. Trattativa Stato-mafia, parla Mori: “In quei giorni solo il Ros contro Cosa Nostra, affrontata senza violare la legge”. Mario Mori su Il Riformista il 17 Agosto 2022
Signor Direttore,
faccio ancora ricorso alla sua gentilezza per chiederle, se lo riterrà opportuno, di pubblicare questo mio intervento, che vuole essere una personale analisi delle argomentazioni sostenute nelle motivazioni dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo relative alla sentenza che, il 23 settembre 2021, mi ha mandato assolto, unitamente ai colleghi Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, per non avere realizzato quelle minacce al Governo del paese, attribuiteci in sede di processo di primo grado, e per le quali avevamo ricevuto una pesante condanna.
Nel testo i giudici, mentre definiscono inequivocabilmente la liceità del comportamento dei Carabinieri del Ros in relazione agli addebiti loro mossi, esprimono alcune critiche che si possono così riassumere:
. i contatti con Vito Ciancimino da parte del Ros furono “improvvidi”;
. il modo di procedere di Mori e De Donno fu “discutibile e poco rispettoso delle procedure”;
. i Carabinieri del Ros avevano una “visione ipertrofica” della propria autonomia”;
. la “corrente moderata” di cosa nostra, quella di Bernardo Provenzano, fu favorita per potere combattere la fazione di Salvatore Riina. Accetto, ovviamente, il verdetto emesso, e quindi devo prendere anche atto delle valutazioni che ad esso sono collegate. Poiché non pretendo di contestare le decisioni della magistratura giudicante, mi permetto di fare solo alcune osservazioni che esprimono la mia posizione in relazione alle vicende che mi hanno visto protagonista.
Questo procedimento è giunto alla sentenza a circa trenta anni dai fatti che era chiamato a valutare, e l’Italia di oggi non è certamente quella della fine del secolo scorso. Molto è cambiato, in particolare per quanto attiene alla situazione dell’andamento della sicurezza pubblica nel cui ambito si sono sviluppati i fatti processualmente esaminati. Il dibattimento, che ha avuto come sfondo aspetti complessi della vita nazionale, ha dovuto affrontare e giudicare le azioni dei protagonisti della vicenda penale che non poteva prescindere dal contesto in cui costoro erano stati chiamati ad operare. Per questa considerazione ritengo che, nell’ampio esame compiuto dai giudici dei fatti direttamente o indirettamente connessi al mio operato, sarebbe stata necessaria un’analisi dello scenario di riferimento più ampia di quanto è avvenuto, oltre alla presa in considerazioni di sentenze connesse già passate in giudicato che, forse, avrebbero consentito di meglio inquadrare l’operato mio e dei miei dipendenti.
Si era riproposta nella fase temporale oggetto del giudicato, addirittura accentuandosi con i tentativi di delegittimazione e poi con gli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quella situazione che già pochi anni prima aveva provocato tante morti eccellenti, da Cesare Terranova, a Carlo Alberto dalla Chiesa, passando attraverso Piersanti Mattarella, Pio La Torre ed altri ancora. Posta questa constatazione, ai fini di una valutazione processuale, a mio parere, non si poteva non considerare attentamente anche l’impatto delle vicende esaminate sulla pubblica opinione che, davanti alle tragiche scene di Capaci e via D’Amelio, constatava la drammatica impotenza dello Stato nel combattere il fenomeno mafioso, mai giunto a osare tanto nella storia italiana, e pretendeva una reazione adeguata da parte dell’ambito istituzionale. Così, a mio avviso, andava sottolineato ancor più, in questo contesto, l’incerto procedere delle forze politiche, ondivaghe in quegli anni nel costante dilemma tra la ricerca dell’efficacia repressiva e il rispetto della legalità.
Si doveva in particolare valutare che l’apparato preposto alla sicurezza, in specie quello destinato al contrasto della grande criminalità, già da tempo in difficoltà nell’individuare risposte adeguate, di fronte al manifestarsi di un’attività stragista, aveva inizialmente dato più di una sensazione di incertezza, evidenziando l’incapacità di definire prontamente indirizzi operativi più aderenti alle dimensioni della sfida.
Quando mi riferisco all’apparato preposto alla sicurezza, intendo non solo le forze di polizia e l’intelligence, ma anche la magistratura requirente, e quella siciliana in particolare. Le prime, nei loro organi di vertice, limitandosi, in quei giorni drammatici, da un lato, a rassicurare genericamente la pubblica opinione e, dall’altro, a sollecitare alle proprie strutture un “maggiore impegno investigativo”, senza però nulla aggiungere dal punto di vista qualitativo a quello che già era l’apparato di contrasto e soprattutto non fornendo alcuna direttiva che consentisse una più mirata ed efficace azione di contrasto a “cosa nostra”. La seconda lamentando come un mantra il proprio isolamento, attribuito al disinteresse e al distacco da parte delle altre componenti statali, a cui si univa la constatazione della mancanza di strumenti legislativi e materiali per adeguare la propria risposta pratica.
Questo complessivo stato di cose sul terreno provocò una fase d’incertezza e di vuoto estremamente pericolosa e passò del tempo prima che lo Stato nella sua interezza si riprendesse dal trauma provocato dagli attentati di “cosa nostra”. Nel frattempo pochi, tra quelli rimasti sul terreno, tentavano di dare un indirizzo alle proprie attività ed un senso alle funzioni ricoperte. Come responsabile delle operazioni di un reparto operativo quale il Ros, forte delle mie esperienze passate, applicai immediatamente lo schema già definito contro il terrorismo, tra l’altro molto più oneroso perché prescindeva dalla ricerca del colpo immediato, pagante dal punto di vista promozionale e dell’immagine ma inefficace nella sostanza, proponendomi, come preciso obiettivo, la cattura di elementi del vertice mafioso. In tal modo stimavo di giungere alla sua disarticolazione attraverso lo sviluppo di una conseguente attività investigativa, che gli spunti informativi di uno o più successi nella ricerca dei latitanti, avrebbero certamente consentito.
Ritenevo così di applicare anche le effettive finalità della legge Rognoni – La Torre che, varata dopo la morte del generale Dalla Chiesa, con i nuovi strumenti normativi offerti, mirava proprio a debellare i sodalizi mafiosi nella loro organizzazione strutturale. Per realizzare questo disegno, spiegai anche in modo chiaro, ai magistrati interessati, agli esponenti istituzionali competenti e ai miei superiori, quali erano gli obiettivi prefissati e le procedure attraverso le quali intendevo raggiungerli. Le modalità esecutive che volevo applicare erano peraltro note in ambito nazionale, perché conosciute ed apprezzate come proprie del così detto “Nucleo Dalla Chiesa”, che aveva operato con successo nella lotta al terrorismo.
Non servivano mano libera o autorizzazioni speciali, attuavo una linea investigativa adeguata alla grave situazione della sicurezza pubblica, ma pienamente inquadrata nelle norme previste dall’ordinamento legislativo. Prova ne sia che questa tecnica, messa in atto in più parti del territorio nazionale, non ha mai dato luogo altrove a polemiche e nello stesso Tribunale di Palermo, nelle diverse vicende processuali che mi hanno riguardato, è stata giudicata rispettosa delle disposizioni vigenti. Il contatto con Vito Ciancimino, non una trattativa come sembra anche propendere nel suo giudizio la motivazione, può essere considerato “improvvido” oggi, quando lo si giudica a trenta anni dai fatti. Penso che non lo fosse nel 1992 quando lo Stato appariva in ginocchio e non giungevano, anche dai magistrati requirenti, indirizzi o iniziative da assumere.
Vi era anzi chi dichiarava, come il sostituto procuratore dott. Vittorio Teresi “Dobbiamo dare un segnale fortissimo … La giurisdizione penale a Palermo è finita. Dobbiamo chiudere il Tribunale per cinque anni. Lo riapriremo solo quando gli altri organi dello Stato faranno il loro dovere fino in fondo. Prendete i dieci superlatitanti, sorvegliate le zone ad alto rischio. E poi ne riparleremo. Volevo andare via, ma dopo Falcone sono rimasto, ho detto a Borsellino: metto la mia vita nelle tue mani, ma battiamo la mafia. Adesso basta, mi accorgo che non serve a nulla combattere. Qui si muore per nulla”. A chi legge o ascolta, queste parole suonano come una resa di fronte a “cosa nostra”, anche perché contestualmente c’era chi, come il dott. Antonino Caponnetto, dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sosteneva che “era tutto finito”.
Il contatto con la fonte Ciancimino era un atto del tutto consentito alla polizia giudiziaria e poteva essere sviluppato in tutta riservatezza.
Dissento anche sul fatto che il Ros non rispettò le procedure, se ciò fosse stato evidente penso proprio che la Procura della Repubblica di Palermo lo avrebbe sottolineato con atti documentati, ma ciò non avvenne, nemmeno quando quell’Ufficio decise di ascoltare il detenuto Vito Ciancimino che descrisse le serie dei suoi incontri con Mori e De Donno. Almeno che non si volesse dire che il Ros le procedure non rispettasse mai, il che oltre ad essere clamoroso, avrebbe dovuto avere la connivenza di tutti gli Uffici giudiziari nazionali, silenti di fronte a questa conclamata illegalità.
La concezione “ipertrofica” dell’autonomia, attribuita dalla motivazione ai Carabinieri del Ros, sembra solo appartenere al rapporto con la Procura della Repubblica di Palermo, perché non vi sono atti che la confermino in altre sedi giudiziarie. Questo sembra anche il parere del Tribunale di Palermo che, nel valutare i fatti connessi alla cattura di Salvatore Riina , attribuisce la ritardata perquisizione della sua abitazione alla decisione della Procura di Palermo e non già ad un’iniziativa estemporanea del Ros. Più che concezione ipertrofica io penso che si dovrebbe parlare di un diverso approccio operativo, dove quello della Procura, in quella fase, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, aveva perso quell’ampiezza che le avevano dato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, capace di affrontare le accresciute dimensioni dello scontro con “cosa nostra”.
La lotta al sistema mafioso è un impegno vecchio quanto lo Stato italiano e questa ovvia constatazione sta a dimostrare la complessità del problema. Intendo dire con ciò che la persistenza del fenomeno non è tanto dovuta a errori o deviazioni da parte di singoli, ma a difetti strutturali della nostra società, di cui la mafia è un’espressione, sia pure deviata. Mario Mori
Non favorimmo Provenzano, indagare sul perché la magistratura non indagò: la verità del generale Mori. Mario Mori su Il Riformista il 18 Agosto 2022
Le vicende esaminate processualmente dimostrano, per ciò che mi riguarda, che non vi furono mancanze giuridicamente rilevabili. Qualcuno ha detto però, e certamente altri continueranno a sostenerlo, che “Mori sbagliò”, forse non violando il codice, ma certo nella valutazione delle conseguenze delle sue scelte operative. Scelte che avrebbero indotto in Salvatore Riina la convinzione che lo Stato, dopo Capaci, potesse essere propenso a trattare.
I miei critici ricavano quest’ultima conclusione dalle motivazioni della Corte di Assise di Firenze che, nella sentenza sulla strage dei Georgofili, prendendo in esame anche i contatti tra il Ros e Vito Ciancimino, peraltro esaminato attraverso un materiale probatorio molto limitato e non certamente comparabile alla mole di testimonianze e documenti valutati nei processi a mio carico, non escluse l’ipotesi di una trattativa, con connotazioni discutibili, tra elementi dello Stato – Mori e De Donno – e la mafia. Quei giudici, però, si astennero da qualsiasi conclusione, e nel demandare correttamente la specifica verifica dei nostri comportamenti ai procedimenti che avevano titolo per valutarli, affermarono: «Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del Ros (Mori, ndr) a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se cioè la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del Ros, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa» (Vds. Sentenza emessa dalla Corte di Assise di Firenze in data 6 giugno 1998 nel processo a carico di Bagarella Leoluca più altri).
L’esito dei ripetuti giudizi presso il competente Tribunale di Palermo, ha chiarito come il rapporto con Ciancimino non fosse un tentativo di realizzare un contatto indebito con la consorteria criminale, ma una “lodevole operazione” sviluppata nel corso di una precisa azione investigativa mirata a colpire la “cupola” mafiosa ed evitare nuove stragi. Quel Tribunale ha ritenuto che tale «finalità non potrebbe, di per sé, rivelare un atteggiamento volto a favorire le ragioni dei mafiosi e, anzi, dovrebbe senz’altro apprezzarsi come lodevole» ribadendo la «meritevolezza della finalità di evitare le stragi, obiettivo che poteva, in quel momento storico, considerarsi prioritario, in attesa della organizzazione di adeguate contromisure che consentissero di assicurare gradualmente alla giustizia i responsabili di quella stagione di inaudite violenze».
Dare per scontato, come sostengono i miei critici, che la Corte di Assise di Firenze avesse accertato l’esistenza di una “trattativa”, invece che, come avvenuto, avere demandato, a chi ne aveva competenza, la valutazione dei fatti connessi, serve solo a potere sostenere artatamente la tesi della mia colpevolezza. Un modesto espediente per tenere in piedi una polemica ormai speciosa e senza più argomenti. In base alle norme della procedura penale, avevo tutta la facoltà di contattare in maniera riservata elementi potenzialmente in grado di agevolare le nostre indagini, aggiungo che, stante la situazione che sopra ho descritto, la mia risoluzione appariva doverosa nel deserto delle iniziative dei vari organismi preposti al contrasto di “cosa nostra”.
Infine, avvalorare l’ipotesi che da parte del Ros vi fosse stata l’idea di favorire la fazione “moderata” di Bernardo Provenzano, così da ottenere in cambio elementi per contrastare l’ala “militare” del Riina, è un’indicazione azzardata e non supportata da elementi concreti. Infatti, oltre alla sentenza Fontana del 17 luglio 2013 che esclude qualsiasi tipo di favoreggiamento nei confronti del Provenzano da parte del Ros, è notorio che solo nel luglio 1993, con le dichiarazioni di Salvatore Cancemi, si seppe che il latitante fosse ancora vivo, contrariamente ai convincimenti di tutti gli inquirenti dell’epoca. Peraltro sulla linea operativa del Provenzano, in piena sintonia con la rigida posizione corleonese, fanno fede inequivocabilmente le sentenze relative alle stragi mafiose del 1993/94 che lo indicano come compartecipe delle decisioni stragiste assunte da “cosa nostra”.
In ultimo, a questo proposito, vi è anche un’implicazione di ordine logico. L’asserita volontà di favorire l’ala “moderata” facente capo a Provenzano comporta logicamente che il Ros avesse il monopolio delle ricerche del latitante (così da proteggerlo), ovvero che avesse siglato un “accordo di protezione” anche con le altre Forze di Polizia che si occupavano delle sue ricerche. L’assurdità di questi presupposti è stata anche smentita dalla testimonianza del prefetto Luigi Savina, attuale vicario della Polizia di Stato, sentito nel processo a carico mio e del colonnello Mauro Obinu, ma la cui testimonianza è stata anche acquisita nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato/mafia, venendo anche citata nel testo della motivazione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo.
Ciò posto, constatare che l’attività del Ciancimino potesse suscitare, nel vertice mafioso, la sensazione del realizzarsi di un approccio finalizzato a uno scambio di una qualche utilità, era un dato che da sempre risulta scontato in ogni contatto, diretto ovvero indiretto, tra le istituzioni (esponenti della polizia giudiziaria) e la mafia (controparte), derivando dalla ormai secolare consuetudine che l’organizzazione ha avuto nel rapportarsi col mondo politico, istituzionale ed imprenditoriale, di cui sono piene le cronache anche recenti dell’Isola e altrove.
Nell’ottica di “cosa nostra” gli organismi rappresentativi della società sono sempre una controparte con cui intavolare un dialogo, o con accordi più o meno coperti, ovvero con la sopraffazione, realizzata con le minacce e la violenza.
I tentativi di provocare, nel gennaio 1994, una strage di Carabinieri allo Stadio Olimpico di Roma e, nel precedente 1993, la realizzazione degli attentati di Firenze, Roma e Milano, si configurano come l’attuazione di una strategia iniziata a Capaci e definita ben prima dei contatti del Ros con Ciancimino. Il tutto peraltro si inserisce storicamente in una striscia di sangue che viene da molto lontano. Infatti, ogni attività mirata a contrastare efficacemente l’organizzazione mafiosa ha provocato sempre reazioni violente e specifiche. Questa affermazione è dimostrata, nelle cronache, a partire dall’assassinio del sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo, nel lontano 1883, proseguendo ininterrottamente nel tempo sino a giungere al secondo dopoguerra, con le morti di Placido Rizzotto, Mauro De Mauro, Boris Giuliano, Cesare Terranova, a cui seguirono quelle dei già ricordati Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. I fatti di Capaci e via D’Amelio, così come quelli degli anni 1993/94, non sono che la conferma di questa costante del procedere mafioso.
Le critiche all’agire mio e di alcuni miei colleghi – Antonio Subranni, Mauro Obinu, Sergio De Caprio e Giuseppe De Donno – da cui sono derivate tre distinte incriminazioni con relativi procedimenti giudiziari, praticamente frutto della stessa vicenda operativa, potrebbero essere considerate come la doverosa valutazione a posteriori di fatti che hanno avuto rilevanza nazionale e su cui è lecito svolgere un puntuale esame. Se così fosse però, l’attenzione mirata e ripetuta, rivolta esclusivamente ad un reparto specifico e ad alcuni suoi rappresentanti in particolare, appare non coerente né giustificata alla luce di un esame corretto dei fatti. Se, infatti, si riteneva doveroso mettere pienamente a fuoco le modalità del contrasto alla criminalità mafiosa in un determinato momento della vita italiana, allora correttezza e completezza di analisi avrebbero voluto che pari attenzione fosse rivolta al complesso delle strutture istituzionali applicate nel settore, e cioè agli organismi politici, della magistratura e delle forze di polizia che concorrevano nel loro complesso alla sicurezza pubblica.
Non penso che negli altri enti tutto si sia svolto senza errori e con esiti pienamente soddisfacenti, almeno l’esame dei risultati non dice questo. Se poi vogliamo andare in profondità, allora dobbiamo considerare che il Ros era un reparto costituito solo nel dicembre del 1990, cioè già nel pieno dell’affermazione della componente più violenta di “cosa nostra”, quella corleonese. Mentre altri uffici e reparti operavano nel contesto siciliano praticamente da sempre e potevano quindi vantare dati, esperienze e qualificazioni professionali certamente superiori che però, nella fattispecie, non sono state convenientemente sfruttate. Sembra invece, dalle attività della magistratura requirente palermitana, che quasi tutti gli aspetti negativi derivino dall’attività di Mori e dei suoi colleghi e questo mi sembra una sintesi un po’ troppo facile se non addirittura culturalmente limitata. A questa conclusione ha posto ripetutamente rimedio la magistratura giudicante, compresa anche la Corte di Assise d’Appello di Palermo, con la sentenza del 23 settembre 2021.
Ora forse potrebbe essere giunto il momento in cui, con serenità e senza pretese esclusivamente punitive, si possa procedere ad un esame generale di vicende che hanno segnato drammaticamente la vita del paese, se non per individuare verità assolute, almeno per ottenere una ricostruzione credibile dei fatti. Questo è anche ciò che chiedono le famiglie delle tante vittime di quegli anni tragici. Con “cosa nostra” i Carabinieri del Ros hanno operato a viso aperto rischiando in proprio, nel doveroso tentativo di assolvere i compiti loro assegnati. Si poteva fare meglio? Certo, si può fare sempre meglio, ma intanto facendo prevalere i fatti sulle parole, abbiamo ottenuto risultati importanti, con una serie di operazioni culminate con la cattura di Salvatore Riina. In sintesi noi abbiamo agito tempestivamente e gli altri sono venuti dopo, a situazione chiarita, quando, come si dice in Sicilia, “la piena era passata”.
I contrasti, che sono successivamente nati tra il Ros da me diretto e la Procura della Repubblica di Palermo, non ci hanno consentito di proseguire nell’Isola, con la stessa efficacia, la nostra attività, che però è continuata altrove con ulteriori significativi esiti. Resta comunque il dato indiscutibile, riconosciuto da chi svolge una disamina serena di quegli anni che, con la cattura di Salvatore Riina, si è determinata la fine di una fase nella storia della mafia, quella più sanguinaria e spregiudicata, caratterizzata dall’avvento e dal predominio della “famiglia” corleonese. E il risultato lo si deve ai Carabinieri del Ros. Questa considerazione, unitamente alla soddisfazione di avere riportato a casa tutti i miei uomini, con l’eccezione dolorosa del maresciallo Antonino Lombardo, caduto per un’azione denigratoria non prodotta da “cosa nostra”, ma originata da modeste e improvvide polemiche di parte a sfondo politico-giornalistico, mi rende totalmente orgoglioso di quel tratto del mio percorso professionale. Alla luce e sulla base delle considerazioni sopra espresse, accolgo con rispetto le valutazioni della Corte d’Assise d’Appello di Palermo. Mario Mori
Io, ex generale del Ros, dico: lo Stato non ha mai “protetto” Provenzano. I rilievi di Giampaolo Ganzer alla sentenza d'appello sulla Trattativa, secondo cui la cattura del boss sarebbe slittata in virtù della sua linea "antistragista".
Giampaolo Ganzer, già comandante del Ros dei carabinieri, su Il Dubbio il 17 agosto 2022.
La motivazione del processo d’appello sulla cosiddetta “trattativa Stato- mafia”, pur riconoscendo che la finalità dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros era del tutto legittima, in quanto volta alla cessazione delle stragi e alla tutela dell’incolumità per la collettività nazionale, censura la condotta degli stessi sostenendo che, per preservare una fazione di cosa nostra asseritamente più moderata rispetto alla linea stragista di Riina, avevano “discretamente” protetto la latitanza del vertice di questa componente, Bernardo Provenzano. Ne consegue una suggestiva, ma non certo inedita rilettura in malam partem di vicende già oggetto del giudicato penale, sino ad affermare che le attività di ricerca del latitante, arresti di affiliati e favoreggiatori compresi, erano sempre state effettuate con la precisa riserva di evitarne comunque la cattura, che avrebbe pregiudicato lo scopo ultimo dell’operazione.
Se ciò fosse vero, si sarebbe trattato effettivamente di una raffinata operazione di intelligence e di un’ abilissima manipolazione dell’avversario, condotta sul piano della prevenzione, piuttosto che della polizia giudiziaria, ma – per quanto di diretta cognizione questa ricostruzione risulta totalmente difforme dalla realtà storica, prima ancora che processuale. L’ impegno più dispendioso e incondizionato di risorse umane, tecnologiche ed economiche del Ros, fu infatti la ricerca di Bernardo Provenzano, iniziata poco dopo l’arresto di Riina e proseguita sino alla sua cattura, per oltre un decennio. Giova peraltro ricordare, come sottolineato nella mia mai contestata testimonianza avanti la Corte d’assise di Palermo, che sino alla spontanea costituzione di Salvatore Cangemi nel luglio 1993, non solo sul Provenzano non vi erano notizie, ma era addirittura diffuso tra gli addetti ai lavori il convincimento di una sua scomparsa.
Lo stesso gruppo investigativo che aveva catturato Riina, potenziato nel tempo in uomini e mezzi, avviò pertanto la ricerca, condotta sul campo esclusivamente con le tradizionali tecniche investigative e con tutte le difficoltà che questo comportava in aree ad alta densità mafiosa, dove ogni presenza è oggetto di controllo della controparte. E in particolare, rispondendo ad una domanda del Presidente della Corte, avevo ribadito che questa linea non era mai mutata, semplicemente perché la ricerca del principale latitante di cosa nostra dopo Riina, era il prioritario obiettivo del Ros. Nella citata testimonianza avevo anche ricordato come, in relazione alla vicenda Ilardo e alla riesumata “mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso”, avessi personalmente sottolineato al tenente colonnello Riccio che l’ Ilardo, dopo il suo incontro con i Magistrati di Palermo e Caltanissetta, doveva essere considerato a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia e non doveva pertanto rientrare in Sicilia.
Lo stesso Riccio, che aveva a suo tempo precluso qualsiasi servizio di pedinamento in occasione del preannunciato incontro con il latitante ( asserendo che ciò sarebbe stato troppo pericoloso e che l’opportunità si sarebbe presto ripresentata senza il timore di controlli sulla fonte), all’insaputa del Comando Ros aveva invece disatteso, con tragiche conseguenze, l’elementare misura di sicurezza. Del resto, il ten. col. Riccio aveva instaurato con l’informatore, affidatogli a suo tempo dalla Direzione della Dia, un rapporto esclusivo, tanto da trattenerne la gestione anche dopo la sua repentina restituzione all’Arma; conseguentemente, ne manteneva pure in via esclusiva l’ impiego e la responsabilità.
Dopo l’ omicidio dell’Ilardo, i dati e le confidenze raccolti e rassegnati dall’ufficiale furono sviluppati investigativamente dal Raggruppamento, e tradotti in un vasto quadro associativo ed all’operazione Grande Oriente. Pure di essa la Corte censura presunti ritardi e omissioni, sebbene le Procure di Caltanissetta e di Palermo, che dirigevano le indagini, non solo nulla abbiano mai eccepito, ma piuttosto apprezzato ed elogiato pubblicamente l’operato del Ros. Unica nota stonata fu la divulgazione mediatica che le stesse Autorità giudiziarie intesero gestire con separate conferenze stampa nelle sedi dell’Arma dei due capoluoghi distrettuali.
Se quella della mancata cattura del Provenzano a Mezzojuso è quindi una leggenda, poiché, come anzidetto, per decisione del Riccio non era stato ipotizzato alcun intervento, ma semplicemente l’osservazione dell’ incontro preliminare dell’ Ilardo con i mafiosi che avrebbero dovuto accompagnarlo in un luogo diverso e sconosciuto, nel 1997 invece, del Provenzano fu realmente sfiorata la cattura tra l’autoscuola Primavera di Palermo e Belmonte Mezzagno, dove egli era custodito dall’allora capomandamento mafioso, Francesco Pastoia. Qualcuno, necessariamente interno alla filiera delle intercettazioni telefoniche, era riuscito tuttavia a metterlo in guardia tempestivamente, e i carabinieri non poterono fare altro che osservare dalle microtelecamere di sorveglianza (queste ultime applicate autonomamente e quindi non note ad altri), le operazioni di bonifica ambientale effettuate dai mafiosi.
Da quel momento il Procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Caselli, procedette ad iscrizioni criptate dei soggetti intercettati, ma era troppo tardi; furono arrestati alcuni favoreggiatori, mentre i responsabili della provocata fuga non furono mai individuati. Fu tuttavia pazientemente ripreso e ricostruito, passo dopo passo, il percorso dei pizzini utilizzati per comunicare con il Provenzano dagli altri esponenti di cosa nostra. Da un’ enorme azienda agricola di Vittoria (Rg), mimetizzati dal trasporto di ortaggi, i messaggi raggiungevano la provincia di Caltanissetta, per poi proseguire verso Casteldaccia, Baucina, e infine giungere a Bagheria, storica roccaforte del latitante, dove il reggente della famiglia mafiosa, Monreale Onofrio, provvedeva alla consegna finale.
La convergenza di indagini e di acquisizioni sulla stessa area, indusse a quel punto la Procura di Palermo (i Pm Pignatone e Prestipino) a procedere massicciamente e contestualmente sulla fitta rete di affiliati e di favoreggiatori, con gli arresti dell’operazione Grande Mandamento, condotta congiuntamente da Ros e Sco della Polizia di Stato, che costrinse il latitante a rifugiarsi nella masseria di Corleone, dove sarebbe stato infine arrestato. In quella circostanza, il Procuratore aggiunto di Palermo, dottor Pignatone, pur essendo stata la cattura opera della Polizia di Stato, sottolineò pubblicamente il fondamentale contributo del Ros ad un risultato conseguito per tappe successive, prosciugando progressivamente la rete di favoreggiamento e di supporto logistico; un metodo questo, adottato da tutte le Forze di Polizia e dalla Magistratura più esperta, per la ricerca dei latitanti di maggior spessore criminale.
Solo chi legga queste procedure con le lenti colorate del pregiudizio, oppure sopperisca con la fervida fantasia alla minor competenza, può ritenere una quasi- finzione un lavoro estenuante ed irto di difficoltà, in cui ogni scelta operativa può peraltro apparire a posteriori meno indovinata e quindi soggetta a malevoli riletture. Ma, prima ancora dell’esclusione di ogni atteggiamento di favore nei confronti del Provenzano, sono i dati storici a escluderlo oggettivamente. Non solo infatti il medesimo, come anzidetto, era ignorato sino alla costituzione del Cangemi, ma che egli rappresentasse un’ala più moderata dell’organizzazione è frutto di acquisizioni e di valutazioni di molto successive. È pertanto profondamente errata, sotto il profilo logico e giuridico, una lettura dei fatti basata su elementi inesistenti o comunque non disponibili all’epoca.
E ciò senza scordare che le stragi non cessarono certo con la cattura di Riina, né consta che il Provenzano ad esse si sia opposto neppur successivamente. Se una spaccatura interna a cosa nostra allora era nota, si trattava di quella tra i corleonesi e i palermitani, conclusasi con la sconfitta di questi ultimi, meno feroci e determinati dei cosiddetti “viddani”. Ma che ve ne fosse un’altra interna ai corleonesi, ammesso che ciò sia esatto, avrebbe richiesto facoltà divinatorie che neppur gli abili ufficiali possedevano.
In ogni caso, come anzidetto, l’azione del Ros fu costante e incondizionata, indipendentemente dalle presunte modifiche di strategia di cosa nostra (il cosiddetto inabissamento), dettate peraltro verosimilmente dalla considerazione che lo stragismo non era pagante. Questo posso ribadirlo per aver condiviso, quale comandante di Reparto dal 1993, vicecomandante e comandante del Ros dal 1997 al 2012, tutte le attività accennate, e per aver continuato a disporle con immutati criteri, anche dopo il trasferimento del Generale Mario Mori, avvenuto nel gennaio 1999. I tanti militari del Raggruppamento che hanno operato per questi risultati con totale dedizione e, soprattutto, senza remore o riserve di alcun genere, non meritano certo sospetti, ma solo rispetto e gratitudine.
Giampaolo Ganzer, già comandante del Ros dei carabinieri.
“Infiltrato” nella mafia, così passava notizie al Ros dei carabinieri. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 16 agosto 2022
Quel famoso Bruno, che sentivo chiamare dal telefono di casa, venni a sapere che non era altri che il colonnello dei Ros, Michele Riccio. Michele... quel nome che destò tanta curiosità da parte nostra alla nascita dei gemelli e di cui non capivamo il perché. Appresi da tutto il materiale disponibile, che mi angustiava ma che volevo conoscere, il loro rapporto «speciale».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Foto, immagini, registrazioni audio, trascrizioni di confessioni e addirittura filmati. Ci volle un po’, ma tutto purtroppo era sempre più chiaro... Papà aveva deciso di collaborare con la giustizia, ma non in modo convenzionale; aveva scelto la maniera, a mio avviso, più sfrontata, pericolosa, scellerata e discutibile, mai vista fino ai giorni nostri.
Fu il primo e unico «infiltrato» nella storia italiana mafiosa. Quel famoso Bruno, che sentivo chiamare dal telefono di casa, venni a sapere che non era altri che il colonnello dei Ros, Michele Riccio. Michele... quel nome che destò tanta curiosità da parte nostra alla nascita dei gemelli e di cui non capivamo il perché. Appresi da tutto il materiale disponibile, che mi angustiava ma che volevo conoscere, il loro rapporto «speciale»: mio padre aveva intrecciato con lui un legame di strette confidenze e dichiarazioni registrate su nastri, e nelle svariate ore che trascorsero insieme durante quel delicato e difficoltoso cammino si legò emotivamente a lui.
Aveva affidato la sua vita, ma soprattutto la nostra, a quell’unico uomo che oltre a proteggerlo in vesti istituzionali, tutelando la sua e nostra incolumità, era anche un suo fraterno amico. A oggi, la mia valutazione sulle sue scelte rimane contrastante su molti aspetti.
L’unica certezza è che è stato un pazzo, ha sopravvalutato sé stesso e soprattutto lui, Michele, e quello «Stato buono» che doveva accompagnarlo nell’insidioso e pericoloso cammino. Per molti oggi è un eroe, un uomo coraggioso come pochi, forse come nessun altro. Io, da figlia, non posso che valutare con amarezza anche il rovescio della medaglia e criticare la maniera di portare avanti la sua scelta azzardata (la leggerezza, potrei dire), con cui ahimè ha messo a rischio la vita mia, di mia sorella, dei miei fratelli e di Cettina, la sua amata moglie.
Avrebbero potuto farci del male, sciogliere anche qualcuno di noi nell’acido, come accadde a quel piccolo angelo di Giuseppe Di Matteo. È difficile spiegare anche a me stessa come quell’uomo, che ci amava tanto visceralmente, ne sono certa oltre ogni ragionevole dubbio, abbia rischiato così tanto sulla nostra pelle innocente.
Non saremmo stati né le prime né le ultime vittime della mafia, che già da tempo ormai non aveva dimostrato alcuna pietà nel punire il tradimento dei suoi affiliati.
ALLA RICERCA DI BERNARDO PROVENZANO
[…] Con un lavoro duro, senza darmi tregua a livello emotivo e scoprendo nuovi linguaggi, regole, ambienti, persone impegnate a ricercare la verità, ancora oggi, dopo venticinque anni, aggiungo e tolgo tasselli a quel puzzle ricomposto più volte e buttato per aria altrettante. Unisco ciò che leggo, che imparo giuridicamente, mi confronto con altre versioni e ricordo mio padre. Questa è la parte più difficile: legare i ricordi di figlia al linguaggio spesso burocratico e asettico delle indagini. Per me, per noi, nulla è asettico. Tutto diventa emozione.
Uno di quei giorni in cui lo vidi sdraiato sul letto, quando alla mia domanda su cosa avesse mi rispose che «era stanco», aveva indosso pantaloni e un maglione dolcevita neri, ben distanti dal suo solito abbigliamento elegante e di buon gusto. Lui, poi, detestava il nero. Oggi, so che quello fu il giorno stesso del suo sopralluogo e appostamento con i Ros e Riccio al casolare di Bernardo Provenzano. Viaggiò parte della notte e della successiva mattina vestito di scuro, nascosto dietro il sedile di un’auto civetta.
Le persone vedono l’impresa, l’azione, ciò che stava facendo e l’importanza di tale gesto. Io non riesco che a provare pena e compassione nel sapere il mio gigante rannicchiato in quelle condizioni, come una bestia stipata nei furgoncini che portano gli animali al loro ultimo giorno di vita. Cerco di immaginare spesso cosa pensasse in quei concitati momenti; immagino l’adrenalina, l’inevitabile paura, i sensi di colpa e il timore di una ritorsione nei nostri confronti se qualcosa fosse andato male.
Penso al fortissimo tormento interiore che, ne sono certissima, affliggeva il suo animo durante quel cammino di lucida follia. Ripenso a tutte le volte che mi sono sentita rispondere «sono stanco» e già percepivo il suo mondo nascosto dietro due semplici parole. E non osavo andare oltre, perché in famiglia si era educati al silenzio. Adesso capisco la verità della sua stanchezza fisica, ma più che mai, ora posso dirlo, psicologica, e la tensione estrema per ciò che stava facendo.
Vidi, rividi, stoppai milioni di volte il fermo-immagine del suo incontro a Mezzojuso, dove condusse i Ros e i carabinieri: lì c’era lo Stato italiano, non solo simbolicamente, per la cattura «mancata» di Provenzano. Sento... immagino il contrordine del generale Mori, l’ubbidienza del colonnello Riccio. Perché ubbidì?! Perché?! Risuona in me la domanda senza risposta certa. Lo mandarono lì dentro solo, indifeso, senza un’arma addosso. Aveva cambiato due auto per presentarsi da zio Binnu, aveva rischiato un controllo dei suoi uomini, che tutelavano il protocollo del loro «Santo Patrono» per quelle rare persone che potevano avere il privilegio di vederlo, e mio padre era tra questi, perché faceva parte di un’antica famiglia mafiosa, «l’aristocrazia» di Cosa nostra.
Figlio, nipote di «uomini d’onore», di massoni anche, potenti, spregiudicati, inseriti, che conoscevano molto e sapevano tacere sempre. Uomini cerniera tra la parte nascosta di Cosa nostra e quella dei presentabili, che custodivano segreti di strada e di cosche, di boss e politici emergenti o già affermati. Omertà sempre.
Arrivò lì dentro con il cuore che probabilmente faceva fatica a contenere nello sterno, aspettava un plotone di forze armate che da un momento all’altro avrebbero fatto la più degna irruzione da film all’interno di quel casolare, minuti, attimi infiniti di attesa... e mai quegli uomini arrivarono. Aveva espresso anche un desiderio per quel finale da film mai consumato: «Non fatemelo guardare più in faccia quando lo arresterete, non avrò più il coraggio di incontrare il suo sguardo dopo ciò che ho fatto».
Luigi Ilardo e la trattativa nella requisitoria del pm Nino Di Matteo. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 19 agosto 2022
Quella «Grande Oriente» è una vicenda che certamente ha prodotto l’effetto immediato più tragico nei confronti del suo protagonista principale: Gino Ilardo. Un effetto tremendo, nel momento in cui Cosa nostra sostanzialmente, uccidendo Ilardo, ha dimostrato di potere stoppare sul nascere una collaborazione di altissimo livello
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Ora dobbiamo affrontare, sia pure per sintesi, l’importante vicenda legata alla collaborazione del confidente Ilardo con il colonnello Riccio e alla possibilità intenzionalmente non sfruttata da parte del Ros dei carabinieri e del comandante operativo Mori in particolare, di catturare Bernardo Provenzano.
E di farlo facilmente attraverso le specifiche, analitiche, preziosissime indicazioni che Ilardo, prima di essere ucciso il 10 maggio del 1996, aveva fornito al Ros. [...] (Precisazioni sulla sentenza definitiva di assoluzione Mori e Obinu per favoreggiamento aggravato, alla formula di assoluzione «Il fatto non costituisce reato» – acquisizione della sentenza irrevocabile di assoluzione, non comporta alcun automatismo e non vincola il giudice, che, fermo restando il rispetto del principio del ne bis in idem, può rivalutare anche il comportamento dell’assolto al fine di accertare la sussistenza di gravi responsabilità per un’altra fattispecie – prova dei fatti considerati come eventi storici).
Ecco perché non solo siamo legittimati, ma abbiamo il dovere di ripercorrere il percorso fattuale, i punti salienti della vicenda Ilardo, Provenzano, Riccio, Mori, mancata cattura di Provenzano. Gino Ilardo nello stesso momento in cui ricopriva all’interno di Cosa nostra cariche apicali – la reggenza delle Province mafiose di Caltanissetta ed Enna – svelava in diretta, al colonnello Riccio, gli assetti, i segreti antichi, le dinamiche in divenire di Cosa nostra e – per favore non dimenticatelo mai – non soltanto con riferimento alle vicende di ordinaria criminalità mafiosa, ma anche in riferimento a rapporti più alti e più inconfessabili di Cosa nostra con la politica, con la massoneria, con soggetti deviati e devianti dei servizi di sicurezza.
Dopo tanti anni in cui ho seguito fin dalla fase dell’indagine anche questa vicenda, non esito a definire, perché ne sono convinto, quella di Ilardo come una storia unica, più unica che rara certamente, nel panorama delle vicende di mafia e antimafia nel nostro paese. Una vicenda incredibile, una vicenda eccezionale, una vicenda vergognosa, una vicenda tragica nell’epilogo che ha avuto, intanto nei confronti – non dimentichiamolo mai – del suo protagonista principale, Gino Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio 1996, otto giorni dopo avere incontrato tre magistrati delle Procure distrettuali di Palermo e Caltanissetta, il colonnello Mori e altri ufficiali del Ros presso la sede centrale del Ros a Roma, e cinque giorni prima rispetto al momento in cui – la data era già stata fissata – Ilardo con il suo primo interrogatorio formale innanzi all’autorità giudiziaria, fissato per il 15 maggio, avrebbe assunto formalmente la veste di collaboratore di giustizia e sarebbe stato sottoposto al programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia.
Quella «Grande Oriente» è una vicenda che certamente ha prodotto l’effetto immediato più tragico nei confronti del suo protagonista principale: Gino Ilardo. Un effetto tremendo, nel momento in cui Cosa nostra sostanzialmente, uccidendo Ilardo, ha dimostrato di potere stoppare sul nascere una collaborazione di altissimo livello che sarebbe stata devastante per l’organizzazione e per tutti coloro i quali colludevano con l’organizzazione mafiosa.
Quindi l’aspetto tragico, più immediato, è nei confronti del suo protagonista principale, Gino Ilardo, ma è una vicenda che ha continuato a produrre i suoi effetti perversi anche successivamente all’omicidio di Ilardo. E questi effetti si sono prodotti – mi piace sottolinearlo fin dall’inizio – anche in danno di quel colonnello Michele Riccio, che è stato l’artefice e il motore di quelle investigazioni e che, pur con tutti i suoi limiti, le sue iniziali incertezze nella comprensione di quello che stava accadendo e nel coraggio di denunciarlo, ha finito per scontrarsi anch’egli con la volontà di quella parte dello Stato che evidentemente non voleva che la collaborazione di Ilardo portasse frutti, perché quei frutti erano allora ritenuti troppo pericolosi e destabilizzanti.
E qui si scorge la grande importanza del collegamento di questa vicenda con quella di cui ci stiamo occupando in questo processo, con le specifiche imputazioni mosse agli odierni imputati. La vicenda Ilardo è il frutto avvelenato della trattativa. È il frutto avvelenato della condotta in particolare del comandante operativo del Ros di allora, Mori, del comandante del Ros di allora, Subranni. In quel momento storico in cui si sviluppò la collaborazione informale di Ilardo, dall’inizio del ’94 fino a tutto il ’95 e ai primi mesi del ’96, la verità è una sola: Provenzano non poteva essere catturato.
Non poteva essere catturato perché era il garante da parte mafiosa, di quegli accordi che erano scaturiti dalla trattativa, di quegli accordi che erano il frutto di quel percorso che i carabinieri del Ros avevano iniziato contattando Vito Ciancimino, per capire cosa Cosa nostra volesse o pretendesse in cambio della cessazione della sua strategia di attacco frontale alle istituzioni. Provenzano non poteva essere catturato perché, dopo la fase prettamente iniziale della trattativa in cui l’interlocutore mafioso era Riina, egli stesso aveva assunto quella veste e aveva abilmente indirizzato verso una soluzione – tra virgolette – più ragionevole quei contatti inizialmente viziati dalla eccessività e dalla esosità delle pretese di Riina.
Bernardo Provenzano, il capo dei capi che doveva restare libero. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 20 agosto 2022
Provenzano non poteva essere catturato perché rappresentava la garanzia dell’adempimento da parte dei mafiosi degli accordi e quindi la garanzia di una direzione di Cosa nostra verso prospettive più moderate, verso la prospettiva di abbandono definitivo di quella strategia stragista che ancora aveva prodotto i suoi effetti e le sue conseguenze tragiche...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Provenzano non poteva essere catturato perché rappresentava la garanzia dell’adempimento da parte dei mafiosi degli accordi e quindi la garanzia di una direzione di Cosa nostra verso prospettive più moderate, verso la prospettiva di abbandono definitivo di quella strategia stragista che ancora aveva prodotto i suoi effetti e le sue conseguenze tragiche con gli attentati del ’93 e fino al fallito attentato dell’Olimpico nel gennaio del ’94.
C’è un altro motivo: Provenzano non poteva essere catturato perché un eventuale suo arresto, l’eventualità anche teorica di una sua collaborazione con la giustizia avrebbe scoperto le carte. Avrebbe sparigliato gli accordi. Avrebbe comportato, soprattutto per i carabinieri del Ros, la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito, che era iniziato già nel giugno del ’92, venisse definitivamente alla evidenza dell’autorità giudiziaria e dell’opinione pubblica.
Questo era il motivo per cui Subranni e Mori non potevano, non dovevano e non hanno voluto catturare Provenzano, perché preoccupati di rispettare il patto con l’ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetrazione, la perpetuazione della segretezza di quell’accordo.
Ecco perché anche oggi, anche in questa sede è opportuno esaminare, stante l’evidenza di questi profili di collegamento con le imputazioni oggi mosse ad alcuni dei nostri imputati, la vicenda Ilardo. Con una precisazione e un auspicio, prima di passare a una sintetica ricostruzione dei fatti. L’auspicio è che, finalmente, anche questa tragica vicenda venga letta in un quadro d’insieme e di sistema con altre vicende, delle quali abbiamo a lungo discusso in queste udienze.
Dobbiamo uscire ma dovete uscire anche voi signori della Corte, da quel percorso che ha portato a conseguenze di sostanziale ingiustizia e di sostanziale mancata comprensione dei fatti. Dobbiamo uscire da quel percorso caratterizzato dalla atomizzazione di vicende che vengono sempre lette separatamente. Questo è stato il vizio di fondo di tutto il percorso, cioè per decenni che magistrati inquirenti e giudicanti, a nostro parere, hanno scontato.
Vicende che vengono lette sempre separatamente ma che invece possono e devono trovare una valutazione unitaria. La trattativa Ros-Ciancimino, la cattura di Riina, la mancata perquisizione del covo di Riina, l’episodio di Terme Vigliatore finalizzato a evitare che venisse catturato Benedetto Santapaola, la mancata cattura di Provenzano il 31 ottobre ’95 a Mezzojuso, ma soprattutto il mancato sviluppo di ogni possibilità di progressione investigativa che, partendo dai favoreggiatori di Provenzano, dalla sera del 31 ottobre ’95, avrebbe inevitabilmente facilmente condotto già in quel periodo all’arresto del latitante.
Quella parte di Stato che aveva trattato non poteva permettersi che giudiziariamente emergesse, attraverso le parole di Gino Ilardo e attraverso la valorizzazione del suo apporto collaborativo – che con la cattura di Provenzano sarebbe stata massima – venissero fuori vicende troppo imbarazzanti di stretta attualità in quel momento, quali quelle ben note allo stesso Ilardo, che ne aveva già anticipato, seppure per cenni, il contenuto a Riccio.
Ed erano le vicende legate agli accordi mafiosi che, con l’intermediazione di Marcello Dell’Utri, la mafia aveva stipulato con il nascente partito Forza Italia già prima delle elezioni del marzo ’94 e che avevano avuto sbocco nell’affermazione di quel partito sulla base degli accordi con la mafia. Valorizzare Ilardo, indagare sulle sue confidenze a Riccio, portarlo a un percorso di collaborazione con la giustizia, valorizzato anche dalla cattura di Provenzano, avrebbe creato questo problema. Ilardo già nel ’94 aveva detto a Riccio, sostanzialmente, le stesse cose che hanno costituito poi, ovviamente con gli approfondimenti dovuti, gli accordi con Forza Italia intermediati da Dell’Utri, l’invito a dire: «... state calmi, noi faremo qualcosa» – bisognerebbe rileggerlo sempre, quel rapporto – «nel giro di cinque, sette anni noi quelle cose che voi volete cercheremo di farle, sul carcerario, sul sequestro dei beni, sul 416 bis». In diretta, la vicenda Ilardo rappresentava il pericolo numero uno che la trattativa venisse svelata giudiziariamente mentre ancora era in corso.
Quegli stessi carabinieri che avevano avuto un ruolo così decisivo – mi riferisco a Mori soprattutto – nella fase iniziale della trattativa, non potevano permettere, valorizzando il contributo conoscitivo di Ilardo, che si desse credito a chi per primo stava riferendo della conclusione della trattativa tra Provenzano e Forza Italia per il tramite di Dell’Utri.
Quella parte che aveva condotto la trattativa – e mi riferisco in particolare sempre all’imputato Mori – non si poteva nemmeno permettere che attraverso le parole di Ilardo, eventualmente consacrate in un verbale di interrogatorio, emergessero altre verità scabrose legate a ciò che Ilardo sapeva e aveva intenzione di riferire a verbale sulla commistione di interessi mafiosi e di interessi politico-istituzionali, in molti dei delitti eccellenti e con ogni probabilità anche nelle stragi del ’92 e del ’93.
La volontà di Ilardo: raccontare tutto sulle stragi del 1992. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 21 agosto 2022
Fin dall’inizio, Ilardo precisò ai suoi interlocutori che le finalità essenziali della sua collaborazione sarebbero state due: da una parte ottenere il contatto diretto e personale con Bernardo Provenzano, per poterlo fare arrestare, e dall’altra fornire un contributo informativo importante sulle stragi del ’92 e del ’93 con particolare riferimento ai moventi, ai mandanti esterni a Cosa nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
La vicenda Ilardo, signori giudici popolari, non può essere letta – come pure, soprattutto mediaticamente, si è tentato per anni di fare – nel senso di – la tecnica è sempre la stessa – minimizzare, parcellizzare, ridicolizzare. La vicenda Ilardo non può essere letta, come si è tentato per anni, come la vicenda deputata a stabilire esclusivamente chi e per quali ragioni decise di non intervenire il 31 ottobre ’95 a Mezzojuso.
Quello è un passaggio, probabilmente è il meno importante di un percorso molto più complesso che ci deve portare a capire perché i carabinieri del Ros, teoricamente la punta dell’Arma più avanzata nel contrasto investigativo antimafia, non svilupparono, neppure successivamente al 31 ottobre e all’incontro che quel giorno Ilardo ebbe con Provenzano, le immediate, preziose, precise, articolate, dettagliate informazioni che Ilardo, attraverso Riccio riversò immediatamente ai carabinieri del Ros.
Questo è il cuore. Informazioni sui luoghi dove si svolgeva la latitanza di Provenzano, informazioni sui luoghi e sui casolari dove Provenzano incontrava gli altri uomini d’onore, sui soggetti che materialmente in quel momento – e poi vedremo, capiremo per quale incredibile lasso di tempo – gestivano la latitanza del Provenzano. Tutto questo mentre quegli stessi carabinieri, l’odierno imputato Mori in prima persona, parallelamente a questa gravissima omissione operativa, ometteva di informare l’autorità giudiziaria di quel preziosissimo apporto conoscitivo che Ilardo aveva loro riversato.
E perfino gli altri colleghi, perfino le articolazioni territoriali interessate dello stesso Ros e perfino la Sezione anticrimine Ros di Palermo – lo schema è sempre quello: non fare e non comunicare. Ripercorriamo, allora, necessariamente i passaggi principali di questa vicenda. Dopo aver chiesto un colloquio con il dottor De Gennaro, già nell’ottobre del ’93, mentre era detenuto presso la casa circondariale di Lecce, Ilardo iniziò a offrire una collaborazione di natura confidenziale alla Dia e in particolare al colonnello Riccio, che venne delegato dopo il primo colloquio, che si svolse con De Gennaro e dott. Di Petrillo, dallo stesso De Gennaro.
La collaborazione si intensificò nel momento della scarcerazione dell’Ilardo nel gennaio del ’94 e si protrasse con risultati sempre più significativi fino al 10 maggio ’96. Fin dall’inizio – questo è importante, lo hanno testimoniato anche De Gennaro e Di Petrillo – fin dal primo contatto con De Gennaro e Di Petrillo, Ilardo prospettò la sua disponibilità, una volta uscito dal carcere, a infiltrarsi, a reinserirsi in Cosa nostra alla quale apparteneva da tempo, a fornire in diretta notizie sull’organizzazione.
Fin dall’inizio, Ilardo precisò ai suoi interlocutori che le finalità essenziali della sua collaborazione sarebbero state due: da una parte ottenere il contatto diretto e personale con Bernardo Provenzano, per poterlo fare arrestare, e dall’altra fornire un contributo informativo importante sulle stragi del ’92 e del ’93 con particolare riferimento ai moventi, ai mandanti esterni a Cosa nostra.
E ciò anche sfruttando le pregresse conoscenze ed esperienze dirette che aveva avuto anche per le sue origini familiari, per il suo inserimento, anche da un punto di vista del vincolo familiare di sangue, antico ed importante in Cosa nostra, nel Gotha dell’organizzazione mafiosa, per i suoi contatti con la ’ndrangheta ed esponenti non soltanto siciliani e calabresi, appartenenti all’area dell’eversione di destra. Signori giudici popolari, sapete chi è Ilardo.
È figlio di un vecchio mafioso massone, il quale aveva, grazie al solito schema dell’appartenenza alla Massoneria, dei rapporti talmente importanti con persone importanti, che per anni, per decenni, forniva – attraverso un regolare contratto stipulato con la pubblica amministrazione – all’esercito dei carabinieri i muli. Allevava i muli nella sua azienda di Lentini, e aveva l’esclusiva della fornitura degli animali per i reparti dei carabinieri e dell’esercito che avevano necessità di questi animali.
Siamo a un livello veramente notevole, anche da un punto di vista delle conoscenze, anche da un punto di vista della famiglia. Gli scopi erano questi due ed effettivamente questo scopo dichiarato venne, nel periodo della collaborazione informale con il colonnello Riccio, accompagnato dal conseguimento e dal raggiungimento di risultati eccezionali.
Mai, mai, veramente, non temo di poter essere smentito, mai erano stati conseguiti risultati qualitativamente e quantitativamente di tale importanza con un’unica attività investigativa. Mai, attraverso un rapporto confidenziale tra un mafioso e un esponente delle forze dell’ordine, erano stati conseguiti risultati di questo tipo specifici, numerosi, importanti. Mai. Nemmeno ai tempi della collaborazione del boss Di Cristina con il colonnello Pettinato, perché lì era una collaborazione confidenziale importante ma di scenario, certamente non di individuazione dei covi dei latitanti. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"
Un (quasi) pentito caduto nella trappola del “gioco grande”. DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO" su Il Domani il 22 agosto 2022
Questi erano i risultati, i frutti che immediatamente l’asse della collaborazione Ilardo-Riccio, organi inquirenti e magistratura, avevano prodotto. L’arresto di questi latitanti, le modalità esecutive, lo spessore criminale di primo livello di ognuno di loro nel panorama mafioso dell’epoca, il numero di queste operazioni, dimostrano un dato che non si può mettere seriamente in discussione...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.
Qualcuno degli importanti risultati raggiunti. Il 12 aprile 1994 Ilardo aveva incontrato assieme a Ciro Vara un soggetto che gli si palesò come Simone, che gli aveva mostrato alcune buste contenenti delle lettere che disse di avere ricevuto da Bernardo Provenzano, precisando che stava andando in Calabria per spedirle, per farle pervenire ai destinatari, commentando quell’incarico con l’espressione «appena riceveranno queste lettere ne vedremo delle belle».
Nella stessa data della comunicazione – vedete come si comportava Riccio quando era alla Dia, cominciamo a vedere – Riccio informava i suoi superiori della Dia, che il giorno successivo con nota del 15 aprile ’94 informavano ufficialmente la procura della repubblica di Palermo. Alcuni giorni dopo la segnalazione, si apprendeva che Bernardo Provenzano con una lettera spedita da Reggio Calabria aveva sottoscritto, indirizzandola ai giudici delle misure di prevenzione di Palermo, una nomina dei suoi difensori.
All’epoca molti sostenevano che Provenzano fosse morto – ricordo anche il clamore mediatico. Ancora, ma soltanto per limitarci ai risultati più evidenti, il 2 agosto ’94, dopo un breve personale sviluppo delle notizie che gli aveva fornito Ilardo, il colonnello Riccio individuava il rifugio del latitante di mafia Vincenzo Aiello che – lo abbiamo visto incidentalmente in vari passaggi dell’istruzione dibattimentale in questo processo – in quel momento era il vicecapo provinciale di Cosa nostra a Catania. Non venivano arrestati mafiosi di basso rango.
Il 5 agosto con personale della Dia di Catania venivano catturati lo stesso Aiello e altri importanti mafiosi poi condannati per favoreggiamento ad Aiello. Il 21 dicembre ’94, con personale della Dia di Caltanissetta, seguendo le indicazioni specifiche di Gino Ilardo, si procedeva all’arresto del latitante Domenico Vaccaro, in quel momento capo della provincia mafiosa di Caltanissetta.
Indicazioni specifiche, non dicevano (Ilardo a Riccio e Riccio alla Dia e alla procura) «vedete, forse potreste seguire questa persona o questo clan», dicevano «sta lì, vedete se sta lì, seguite queste persone». Lo facevano e li catturano. Il 13 gennaio ’95, sempre con le stesse modalità, sempre seguendo indicazioni specifiche di Ilardo, sempre attraverso la comunicazione tempestiva di Riccio alla Dia, veniva individuato il rifugio del latitante Lucio Tusa e veniva arrestato a Catania, la cui importanza mafiosa si coglie non soltanto con riferimento al suo grado di parentela – è nipote di Giuseppe Piddu Madonia – ma anche come uomo essenziale nelle dinamiche del potere «provenzaniano» in quel momento.
Ancora, Gino Ilardo, era stato in grado di mettersi nelle condizioni di avere notizie specifiche per catturare un altro capo provincia, un altro rappresentante provinciale, Salvatore Fragapane e il 25 maggio ’95 all’alba, dopo una serie di appostamenti, personale della Dia trae in arresto Fragapane. Signori della Corte, ci sarebbero altri risultati clamorosi, comunque importanti.
Questi erano i risultati, i frutti che immediatamente l’asse della collaborazione Ilardo-Riccio, organi inquirenti e magistratura, avevano prodotto. [...] L’arresto di questi latitanti, le modalità esecutive, lo spessore criminale di primo livello di ognuno di loro nel panorama mafioso dell’epoca, il numero di queste operazioni, dimostrano un dato che non si può mettere seriamente in discussione: la professionalità e l’abilità con le quali Riccio tutelò e blindò la segretezza del rapporto, pur in un contesto in cui non fece mai mancare il flusso informativo nei confronti dei suoi superiori e dell’autorità giudiziaria.
Ma non vi ho ancora parlato del risultato che, da un certo punto di vista, è ancora più importante, comunque altrettanto importante rispetto alla cattura dei latitanti.
Per la prima volta, attraverso l’opera di infiltrazione, di collaborazione di Ilardo, venne acquisito quel materiale documentale, i famosi «pizzini», provenienti da Provenzano, quei manoscritti la cui riconducibilità a Provenzano è stata definitivamente consacrata in più sentenze passate in giudicato, tra le quali quella «Grande Oriente», quella «Grande mandamento». Quei «pizzini», che avete acquisito anche in questo processo, sono stati acquisiti nel corso delle indagini per valutare, comparare altri «pizzini», asseritamente provenienti dall’utenza.
Mai e poi mai gli apparati investigativi dello stato avevano avuto a disposizione un’arma viva ed efficace come Gino Ilardo, un mafioso di elevatissimo spessore che riusciva a trasmettere in presa diretta allo Stato tutte le informazioni più nascoste e strategiche della consorteria mafiosa.
Quando i carabinieri del Ros, il generale Mori, presero in mano l’indagine «Oriente» con l’aggregazione di Riccio al Ros, già sostanzialmente a partire dal giugno del ’95, avevano in mano non solo la chiave per arrestare Provenzano, avevano in mano la chiave utile per aprire quella porta che avrebbe loro consentito – se solo avessero voluto – di individuare e scardinare tutto quel sistema provenzaniano che ancora, invece, per lunghi anni, almeno fino alla cattura di Provenzano nell’aprile del 2006 a Montagna dei Cavalli, dominò incontrastato i meccanismi del potere mafioso in Sicilia.
Mori che cosa fece? Mortificò gli sforzi del Riccio e quella facile chiave di accesso al potere provenzaniano di Cosa nostra venne presa e volutamente gettata via, allo scopo di salvaguardare, con il mantenimento della latitanza di Provenzano, il difficile equilibrio faticosamente raggiunto dopo anni di intermediazione nella trattativa Stato-mafia con il prevalere della fazione Provenzano. [...] Non si può nemmeno ipotizzare la decisione del mancato intervento a Mezzojuso come frutto di una cautela o diffidenza nei confronti di una fonte di cui si dovrà verificare l’attendibilità. Ma quale verifica di attendibilità? Aveva fatto catturare già 6 latitanti di spicco di Cosa nostra. Mai, mai nella storia.
DAL LIBRO "LUIGI ILARDO. OMICIDIO DI STATO"
(ANSA il 12 agosto 2022) - La mancata perquisizione del covo di Riina, subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1993, fu chiesta dai vertici del Ros alla Procura di Palermo "allo scopo di permettere lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che assicuravano protezione al boss".
Lo puntualizza in una nota l'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, replicando alle dichiarazioni del colonnello Sergio De Caprio, conosciuto con il nome in codice di "Capitano Ultimo", l'ufficiale che arrestò Riina, che ieri aveva dichiarato all'ANSA che la decisione di non perquisire la villa "era stata presa dalla Procura, non certo dai carabinieri".
"Segnalo che in un memoriale pubblicato dal quotidiano "Il Riformista" il 26 ottobre 2021, a firma del generale Mario Mori, comandante del Ros all'epoca dei fatti - scrive Caselli -, si legge che la decisione di non perquisire subito era stata prospettata dal capitano Sergio de Caprio e da lui sostenuta.
Ciò allo scopo di permettere lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che assicuravano protezione al Riina. Come del resto già sostenuto in un documento ufficiale del Ros indirizzato all'epoca dei fatti alla procura di Palermo, nel quale si spiegava che il rinvio della perquisizione era stato necessario per evitare ogni intervento immediato o comunque affrettato e per non pregiudicare ulteriori acquisizioni che dovevano consentire di disarticolare la struttura economica e quella operativa facente capo a Riina".
Le dichiarazioni di "Ultimo" si collegavano alla motivazione della sentenza riguardante il processo sulla cosiddetta trattativa, nella quale i giudici della Corte d'assise d'appello scrivono che gli ufficiali del Ros, tutti assolti, con la mancata perquisizione della abitazione di Riina intendevano lanciare un "segnale di disponibilità" al dialogo alla componente moderata non stragista di Cosa nostra.
Il caso dell’ex colonnello dell’Arma. Capitano Ultimo assolto, non diffamò il generale Nistri. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Settembre 2022
Tutto è bene quello che finisce bene. Si è conclusa ieri con una archiviazione piena, perché “il fatto non sussiste”, la vicenda giudiziaria del colonnello dell’Arma Sergio De Caprio, alias ‘Capitano Ultimo’, imputato del reato di diffamazione militare aggravata nei confronti dell’ex comandante generale dei carabinieri, il generale Giovanni Nistri. La causa scatenante del procedimento aperto nei confronti dell’ufficiale che catturò Totò Riina era stata una intervista in esclusiva che egli aveva rilasciato a luglio del 2020 proprio al Riformista.
Ultimo, nell’intervista allo scrivente, aveva criticato i vertici della Benemerita, Nistri ed generale Teo Luzi, all’epoca capo di stato maggiore ed ora numero uno dell’Arma, per il modo in cui esercitavano l’azione di comando sui carabinieri. Dopo aver ‘bocciato’ la gestione del duo Nistri-Luzi, Ultimo, in pensione dallo scorso anno, aveva quindi avanzato la proposta di istituire una commissione d’inchiesta, finalizzata anche ad rifondazione dell’istituzione militare. I capi dell’Arma, per Ultimo, sarebbero stati manifestamente ostili verso i sindacati militari, mai effettivamente coinvolti. Il pm aveva chiesto l’ assoluzione ai sensi del 530 comma 2°, in quanto per analoghe condotte Ultimo era già stato assolto l’anno scorso, riconoscendo l’esercizio del diritto di critica. Il collegio, come detto, è stato di diverso avviso ed ha assolto De Caprio con la formula più ampia.
Nistri era stato criticato da Ultimo anche dopo una sua audizione in Commissione difesa alla Camera. “Viene quindi riconosciuto e sdoganato finalmente quel diritto di critica poiché scriminato”, ha affermato il luogotenente Massimiliano Zetti, segretario del Nuovo sindacato carabinieri di cui Ultimo è il presidente onorario. Ieri, prima della conclusione del processo, Ultimo aveva anche rilasciato dichiarazioni spontanee in maniera calorosa e appassionata, rivendicando il diritto della critica e dell’azione sindacale ancora osteggiata ed evidentemente ritenuta come ‘lesa maestà’ da alcuni comandanti. Ad assistere Ultimo, l’avvocata Saveria Mobrici, presidente della Camera penale militare. Si attendono le motivazioni. Ad Ultimo le felicitazioni del Riformista per l’assoluzione, ricordandolo sempre per le brillanti operazioni di polizia giudiziaria condotte quando era in servizio e per l’attività di assistenza ai bisognosi che attualmente svolge con la sua onlus nella Capitale. Paolo Comi
Stato-mafia, i segreti del Protocollo Farfalla: "Ombre inquietanti sui boss reclutati in cella dagli 007 per avere informazioni". Salvo Palazzolo su La Repubblica l'11 Agosto 2022.
La sentenza della corte d'assise d'appello che ha assolto Mori indaga sui misteri dell'accordo stipulato fra il Sisde di Mori e il Dap diretto da Tinebra. Un testimone: "Ardita non doveva sapere"
È una delle operazioni di intelligence più delicate avviate negli ultimi vent’anni: il “Protocollo Farfalla”. L’allora direttore del Sisde Mario Mori aveva stretto un accordo con il direttore del Dap, Gianni Tinebra, per raccogliere informazioni riservate all’interno delle carceri. Un’operazione sistematica, fatta con alcuni capimafia reclutati in cella, in cambio di denarto. Un’operazione su cui hanno indagato i giudici del processo “Stato-mafia”.
Le motivazioni della sentenza del 23 settembre. Travaglio se ne faccia una ragione, la trattativa tra lo Stato e la mafia fu un atto di generosità. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Agosto 2022.
La Trattativa, quella con la “T” maiuscola tra i boss e corpi deviati dello Stato, destinata a favorire la mafia fino a far assassinare il giudice Paolo Borsellino, non ci fu. Anzi, le attività che pubblici ministeri come Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, e insieme a loro i giudici che emisero la sentenza di condanna di primo grado, avevano interpretato come aiuti alla mafia, al contrario erano gesti di grande umanità e generosità finalizzati a fermare le stragi e salvare vite umane. Più chiare di così le motivazioni della sentenza che il 23 settembre di un anno fa aveva mandati assolti gli uomini del Ros e il senatore Marcello Dell’Utri non potrebbero essere. Se ne facciano una ragione anche Marco Travaglio e i suoi ragazzi-spazzola di redazione. Anzi, è probabile che, scrivono i giudici dell’appello in sentenza, l’accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino sia stata determinata dall’interesse che il magistrato aveva mostrato, e prima di lui Giovanni Falcone e anche Tonino Di Pietro, per quel dossier mafia-appalti che fu archiviato dalla procura di Palermo.
Poi naturalmente, sgomberato il campo dal teorema “Trattativa”, possiamo qualificare come meglio ci aggrada, il tentativo del generale del Ros Antonio Subranni, del colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, di scardinare dall’interno Cosa Nostra e fermare le bombe stragiste attraverso il contatto con Vito Ciancimino. Possiamo anche chiamarlo “trattativa”, quel rapporto, ma le intenzioni e le finalità opposte a quel che ipotizzavano i pubblici ministeri restano. E anche la qualificazione delle azioni dei carabinieri: non erano mafiose ma anti-mafiose, nessuna complicità con i boss quindi. Basta saper leggere, del resto. “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa, e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, furono mossi piuttosto da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato”.
Nessuna complicità, ma anche nessuna “zona grigia”, come pare alludere, ancora oggi, il consigliere del Csm Nino Di Matteo, uno di coloro che da pm hanno creduto di più al fatto che negli anni 1992-1993 lo Stato abbia chinato il capo davanti a Totò Riina per salvare, con la complicità di carabinieri amici della mafia, la vita a qualche ministro. Assoluzione totale quindi, sul piano penale, agli uomini del Ros, assolti perché il fatto non sussiste. Ed encomio per la finalità generosa delle loro intenzioni. Ma anche vigorosa tirata d’orecchi sul metodo, una vera mozione di tipo moralistico: “Un’iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti al loro ufficio e ai loro compiti istituzionali”. Se si deve giudicare questa frase, e altre di cui sono infarcite le 2.971 pagine della sentenza, la sensazione è che i giudici presieduti da Antonio Pellino abbiano quasi versato un tributo a quella parte dell’opinione pubblica interpretata ancora ieri dall’ex pm Di Matteo, che ha recriminato il fatto che molte vittime di mafia abbiano anche pagato la durezza dello Stato. Forse dimenticando che nei confronti dei “pentiti”, anche i più sanguinari, lo Stato è stato invece morbidissimo, e nessun magistrato si è permesso, a ogni loro scarcerazione, di rinfacciare il sangue versato. Discorso analogo potremmo fare sul trattamento, veramente ingeneroso, riservato dalle motivazioni della sentenza, al senatore Marcello Dell’Utri. Trattato come amico di mafiosi sulla sola base del suo rapporto con Vittorio Mangano, quasi per dovere dopo la sua condanna per “concorso esterno”. Dopo ventiquattro anni una sentenza è costretta a escludere da qualunque orizzonte la figura di Silvio Berlusconi, che in questo processo avrebbe dovuto svolgere un doppio ruolo. Quello del Presidente del consiglio vittima di un ricatto della mafia, ma la sentenza lo esclude perché Dell’Utri non avrebbe percorso quell’”ultimo miglio” mettendolo a conoscenza delle pressioni di Totò Riina. Ma anche quello del premier che avrebbe avuto il ruolo di agevolare i boss con provvedimenti clementi del suo governo. Cosa che non fece.
Non, come sostengono i ragazzi-spazzola di Travaglio, solo perché quel governo durò poco, ma perché non ne aveva alcuna intenzione, tanto che prolungò immediatamente il 41-bis che, nelle previsioni del legislatore del 1992, avrebbe dovuto, in quanto provvedimento emergenziale, avere una durata limitata. La sentenza distrugge anche la credibilità del personaggio più amato dal Fatto quotidiano, un mafioso assassino di nome Giuseppe Graviano. Il quale ogni tanto, dopo essersi scolato una birra nel carcere speciale ( è ironico, caro Marco Lillo, rilassati), racconta favole e barzellette sul nonno (che opportunamente non c’è più) che avrebbe dato soldi a Berlusconi per partecipare ai suoi primi investimenti a Milano. E si porta in giro per l’Italia i pm di Firenze, i quai ritengono che queste farneticazioni siano ottimi indizi per addossare al presidente di Forza Italia la responsabilità di aver commissionato le stragi. Ecco come trattano queste “testimonianze” i giudici del processo d’appello “Trattativa”: dichiarazioni “di dubbia valenza”, perché rese da un “soggetto enigmatico” che “non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione”.
Ma intanto, forse anche grazie all’iniziativa degli uomini del Ros, già dall’inizio del 1993 era stato arrestato Totò Riina e, dopo gli ultimi colpi di coda delle bombe di Milano e Firenze, le stragi erano cessate. Ma è rimasta la legislazione speciale, e insieme la parte più controversa, anche dal punto di vista storico, di quel che accadde in quei giorni, mentre si susseguivano gli ultimi governi della prima repubblica, sull’oggetto dell’inesistente “Trattativa”. Cioè la decisione del ministro guardasigilli Giovanni Conso di riportare al trattamento ordinario una serie di detenuti al 41-bis che non erano certo boss mafiosi di prima fila. Chi c’era ricorda bene come le più forti sollecitazioni venissero da una serie di giudici di sorveglianza così come dal mondo dei cappellani di vari istituti di pena. L’esigenza di rallentare con i provvedimenti emergenziali non era il contenuto dell’inesistente “papello” con le richieste di Riina inventato dal farlocco Massimo Ciancimino, ma il bisogno del mondo carcerario di voltare pagina dall’emergenza. Ed è inutile continuare a rovistare, spesso con la complicità degli stessi protagonisti, tra ministri “duri” e “molli”, tra capi del Dap repressivi o permissivi. Nicolò Amato era un garantista, e Francesco Di Maggio che divenne il vice del suo successore Capriotti, non era affatto un “trattativista”, ma un magistrato abile che aveva il compito, attraverso i colloqui investigativi, di indurre la maggior parte possibile di mafiosi alla collaborazione. Anche questa era una forma di lotta alla mafia, colpendola dall’interno. “Ingeneroso e fuorviante”, dice la sentenza, aver tentato di coinvolgere, da parte dei pubblici ministeri, il ministro Conso e il presidente della repubblica Oscar Maria Scalfaro nel teorema della “Trattativa”. Anche loro hanno contribuito nella lotta “contro” la mafia, non “per” la mafia. Chissà se la procura generale, non più guidata dall’ormai pensionato Roberto Scarpinato, se ne farà una ragione, o se ricorrerà anche in cassazione.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Stato-mafia, «Nessun patto politico con i mafiosi. La trattativa voleva fermare le stragi». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.
Nonostante le 2.971 pagine impiegate per motivare la sentenza con cui quasi un anno fa, a settembre 2021, la corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto gli ex carabinieri del Ros imputati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia (condannati in primo grado), il verdetto è racchiuso in poche righe. Dopo aver ricostruito in ogni dettaglio i contatti dell’allora colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, sotto l’egida del generale Antonio Subranni, con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino al tempo delle stragi di mafia del biennio 1992-1993, i giudici scrivono: «Sebbene fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo “politico” con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nuove stragi ed arrestare l’ escalation mafiosa; al contrario, l’obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa Nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti».
«Interessi convergenti»
Per i giudici si trattò di «una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma solo in ragione di un’obiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa Nostra».
Ragionamento forse complesso, ma sufficiente chiaro: la trattativa avviata con Ciancimino «non costituisce reato» perché l’intenzione non era di rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato, bensì di evitare altre stragi. Punto.
Il reato l’hanno commesso i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (insieme agli altri mafiosi morti o pentiti) che volevano ricattare i governi in carica a suon di bombe. Non invece Marcello Dell’Utri, presunto intermediario della minaccia al governo Berlusconi nel 1994, perché «non vi è prova che vi sia stata un’interlocuzione con Silvio Berlusconi su questa tematica, dovendosi al riguardo ribadire la differenza tra un accordo politico-mafioso (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al governo della Repubblica».
«Iniziativa improvvida»
Anche le più recenti dichiarazioni del boss stragista Giuseppe Graviano su presunti rapporti con l’ex premier fondatore di Forza Italia sono «di dubbia valenza», poiché rese da un «soggetto enigmatico» che «non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione».
Quanto alle revoche del «carcere duro» decise nel ‘93 dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, miravano anch’esse a dividere Cosa nostra, ma i giudici sottolineano che fu «ingeneroso e fuorviante», nonché «frutto di un errore di sintassi giuridica», insinuare cedimenti alla mafia da parte dell’ex ministro e dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, come fecero i loro colleghi di primo grado.
Detto questo, la sentenza è infarcita di giudizi molto duri sull’azione dei carabinieri imputati: «Un’iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti alloro ufficio e ai loro compiti istituzionali». Taciuta «senza alcuna valida ragione» persino a Paolo Borsellino negli incontri avvenuti tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio che peraltro, secondo i nuovi giudici, non subì alcuna accelerazione nella sua esecuzione; e tantomeno perché Borsellino fu informato (da altri) della trattativa tra il Ros e Ciancimino.
Il dialogo a distanza innescato da carabinieri mirava all’arresto di Totò Riina, poi avvenuto a gennaio 1993, perché era lui a guidare l’ala stragista di Cosa nostra; lasciando così spazio all’altra componente guidata da Bernardo Provenzano: un boss disponibile a privilegiare «la ricerca di complicità e connivenze per un più proficuo esito dei propri affari, aliene o poco inclini ad una linea di contrapposizione violenta».
«Ragioni indicibili»
Una sorta di ritorno alle origini, in modo che tra lo Stato e Cosa nostra si ricostituisse «un clima di non belligeranza, o di conflittualità sostenibile». Proprio per allontanare nuove «pulsioni stragiste» i Ros scelsero di «preservare la libertà» dell’altro capo corleonese, rimasto latitante fino alla cattura 2006 per mano della polizia: «V’erano indicibili ragioni di “interesse nazionale” a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della “sommersione”. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso».
Manca però la prova «che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano» per la consegna di Riina in cambio della mancata perquisizione del covo, «dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia». Tuttavia quella vicenda rimane una ulteriore iniziativa del Ros che «desta profonde perplessità mai chiarite».
S.P. per la Repubblica il 7 agosto 2022.
«Questa sentenza ribadisce che una trattativa fra pezzi dello Stato e Salvatore Riina ci fu», dice Nino Di Matteo, uno dei pm del processo "Stato-mafia", oggi componente del Consiglio superiore della magistratura.
«A cercare il capo di Cosa nostra, subito dopo il sangue sparso con la strage di Capaci, furono esponenti dello Stato. Con buona pace di quelli che hanno continuato a parlare di una fantomatica trattativa e di teorema del pubblico ministero».
Come valuta la sentenza depositata dai giudici della corte d'assise d'appello?
«Mi lascia molto perplesso e preoccupato l'affermazione di un principio che sembra giustificare la possibilità che si possa trattare con i vertici di Cosa nostra per favorire una fazione piuttosto che un'altra, con il dichiarato intento di far cessare le stragi. Una sorta di ragion di Stato non dichiarata e pertanto inaccettabile in una democrazia».
La procura generale sta valutando il ricorso in Cassazione.
«Mi chiedo cosa penserebbero di questa sentenza le centinaia di vittime istituzionali e non della violenza mafiosa che hanno pagato con il sangue l'intransigenza e la scelta di non cercare alcun patto o compromesso con la mafia. Mi piace ricordare le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che l'anno scorso, alla commemorazione per la strage di Capaci, disse: "Nessuna zona grigia, omertà, o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi, non ci sono alternative"».
La sentenza sembra riaprire anche un altro capitolo di questa lunga stagione giudiziaria, quello relativo alla mancata perquisizione del covo di Riina.
«È ulteriormente inquietante che, come io e i miei colleghi avevamo sostenuto nel processo di primo grado, la mancata perquisizione nel covo di Riina sia stato un segnale per incoraggiare il dialogo a distanza. E quindi per rafforzare la trattativa in corso».
Cosa dice la pronuncia di secondo grado?
«Alla luce di questa sentenza, che non condivido, e che spero venga impugnata, sono fiero di avere insieme ai miei colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e prima Antonio Ingroia contribuito a fare emergere fatti storici ritenuti dai giudici provati, fatti che hanno attraversato la storia opaca e ancora in parte da chiarire dello stragismo mafioso. Ma sulla trattativa non bisogna dimenticare un'altra sentenza, definitiva».
I giudici di Firenze scrissero parole pesanti.
«La corte d'assise che si è occupata delle stragi del 1993 ha sottolineato come l'iniziativa del Ros di fatto rafforzò in Riina il convincimento che la strategia di attacco allo Stato fosse quella giusta. Un'iniziativa dagli effetti devastanti».
Salvo Palazzolo per palermo.repubblica.it il 6 Agosto 2022.
“Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”.
La corte d'assise d'appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, spiega le ragioni che il 23 settembre scorso hanno portato all'assoluzione degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno nel processo per la "Trattativa Stato-mafia", in primo grado la corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto aveva invece condannato gli imputati. E, intanto, la procuratrice generale di Palermo, Lia Sava, dice: "Leggeremo con attenzione le tremila pagine della sentenza e valuteremo gli spazi per il ricorso in Cassazione". Il termine per adire la Cassazione scade il 15 ottobre.
I giudici d'appello confermano che una "trattativa accettata da Riina" ci fu, definiscono "un'improvvida iniziativa" quella di contattare l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, ma scrivono che l'unica finalità dei carabinieri era quella di fermare le stragi: "Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da tini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato". Assoluzione, dunque, per i carabinieri.
E parole accorate per due esponenti politici che erano finiti nella maglie dell'inchiesta: "Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull'aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica".
Il rapporto mafia e appalti
I giudici d'appello ribaltano anche in un altro punto la sentenza di primo grado: non ritengono che sia stata la "trattativa fra Stato e mafia" ad accelerare la strage Borsellino: "La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti".
La sentenza esclude soprattutto che i carabinieri possano aver fatto promesse di benefici ai mafiosi delle stragi. Scrivono i giudici (gli estensori della sentenza sono il presidente e il giudice a latere): "Eventuali concessioni a favore dei mafiosi, dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata dell’organizzazione mafiosa, giustamente ritenuta soccombente fino a quando al comando di Cosa Nostra fosse rimasto Salvatore Riina e i capi corleonesi a lui più vicini e fedeli.
Una volta decapitata l’ala stragista, con la cattura di Riina e degli altri capi mafia fautori della linea dura di contrapposizione frontale allo Stato – prosegue la sentenza – sarebbe stato pensabile e praticabile un dialogo volto al ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione, o almeno sull’abbandono di uno stato di guerra permanente; e un’eventuale proposta di dialogo in tal senso non avrebbe potuto essere interpretata come un segno di debolezza dello Stato – che con la cattura dei capi corleonesi più pericolosi a cominciare ovviamente dal capo di Cosa Nostra avrebbe dato al contrario una grande dimostrazione di forza e della propria capacità di colpire al cuore l’organizzazione mafiosa – e quindi non avrebbe mai potuto corroborare la strategia stragista, rafforzando lo schieramento mafioso che la perseguiva".
Insomma, fu un'azione al confine quella messa in atto fra le stragi del 1992. "Il disegno insomma era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente, almeno in nuce all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista". I giudici lo definiscono "un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria “trattativa politica” e una mera “trattativa di polizia”, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento".
La mancata perquisizione del covo di Riina
Le "sconcertanti omissioni" che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano "nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell'associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti". Scrive anche questo la corte d'assise d'appello nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
"In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D'Amelio", dicono i giudici.
"Non v'è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall'altro la rinuncia a perquisire l'immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d'ogni traccia - prosegue la corte - Né Mori e i suoi potevano essere certi dell'esistenza all'interno dell'abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo".
La trattativa con Dell'Utri, assolto
Su un altro imputato eccellente di questo processo, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato per concorso in associazione mafiosa in un altro processo) la corte scrive invece: "Non si ha prova, in altri termini nonostante le sue ramificate implicazioni nell'antefatto" che "abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano". In primo grado Dell'Utri era stato condannato a dodici anni, in appello i giudici lo hanno assolto dall'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.
"Muovendo dalla posizione di Marcello Dell'Utri – scrive ancora la corte – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del consiglio dei ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato – prosegue la Corte di assise di appello – come l'ultimo miglio percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione”. Per questa ipotesi di reati sono stati condannati solo Brusca e Bagarella.
Argomentano i giudici: "Pur in assenza della prova della veicolazione della minaccia in danno del presidente Berlusconi è altrettanto evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca... E' indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell'Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perche Dell'Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo, in specie fino a Belusconi quale Presidente del Consiglio dei Ministri".
"Nei confronti di questi imputati", cioè Bagarella e Brusca "pertanto, è configurabile un delitto tentato poiché gli stessi hanno posto in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad esercitare la citata pressione mafiosa stragista in danno di quel governo, non riuscendo nel loro intento criminale per una causa indipendente dalla loro volontà concretamente rappresentata, su un piano strettamente processuale, dalla mancanza di una prova certa riferita 'all'ultimo passaggio' della condotta affidata a Marcello Dell'Utri in previsione delle sue comunicazioni con il presidente Berlusconi".
Francesco La Licata per “la Stampa” l'8 agosto 2022.
Le quasi tremila pagine con cui la Corte d'assise d'appello di Palermo motiva la sentenza di assoluzione per gli ufficiali del Ros (Reparto speciale dei carabinieri) e per il politico Marcello Dell'Utri sono state accolte con molta freddezza (tranne qualche eccezione) dai media e dalle segreterie dei partiti, impegnate nell'insolita campagna elettorale estiva. Eppure quelle pagine, certamente molto «scandalose», meriterebbero una più attenta considerazione, perché contengono molti spunti di riflessione che dovrebbero interessare soprattutto le forze politiche che si accingono a candidarsi alla guida del Paese.
Pagine scandalose, certamente. E non perché si voglia mettere in discussione il succo di una sentenza che sembra logica rispetto a quanto il processo ha potuto accertare. Lo scandalo, se così si può dire, non consiste nelle assoluzioni, ma nel «quadro generale» che i giudici hanno offerto nel tentativo di spiegare il perché delle loro conclusioni.
Già, perché ciò che viene sancito in sentenza è che uno Stato moderno e democratico - e non un manipolo di investigatori azzardosi - per fermare la furia stragista di una organizzazione criminale è dovuto venire a patti con essa attraverso una «ibrida alleanza», un accordo non esplicito, con l'ala moderata di Cosa nostra (quella di Bernardo Provenzano) fino a proteggere la latitanza di un capo lasciato libero perché potesse imporre una scelta di non aggressione allo Stato che, invece, era la linea intrapresa da Totò Riina e in attesa di prosecuzione da parte degli eredi di Totò 'u curtu, cioè Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i Graviano di Brancaccio.
I giudici parlano apertamente di «patto» con la «corrente più moderata di Cosa nostra». E leggendo queste righe non si può fare a meno di pensare come la mafia, quella del '92, '93 e '94, fosse diventata una specie di «Stato alternativo» a quello legale e costituzionale. Tanto da indurre le autorità costituite a mettere in atto azioni simili alle operazioni di geopolitica nelle guerre in corso.
In sostanza, dicono i giudici, la Trattativa ci fu, ma non per decisione dei singoli investigatori quanto per scelte istituzionali che avallarono vere e proprie «operazioni di intelligence». Solo che a guidare l'azzardo erano agenti di polizia giudiziaria che avrebbero dovuto sottostare alle regole del codice senza fughe in avanti in un terreno privo di regole di ingaggio, comportandosi, alla fine, come un servizio segreto. E quando «agganciano» don Vito Ciancimino (mediatore col «consenso» di Totò Riina) sfuggono a ogni controllo, tanto da essere redarguiti oggi dai giudici che definiscono l'operazione una «improvvida iniziativa».
E qui il pensiero va al giovane Massimo Ciancimino, prima portato sugli altari e poi abbandonato al proprio destino e massacrato giudiziariamente, pur avendo dato un buon contributo sulle vicende oggi scandagliate dai giudici di appello. Certo, la Trattativa ci fu e riuscì pure a fermare la deriva stragista di Cosa nostra, ma fu portata avanti per la «salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato».
Mentre la mancata perquisizione al covo di via Bernini (la casa di Totò Riina) e i diversi episodi di mancata cattura di Bernardo Provenzano erano segnali di amicizia, propedeutici a fare cessare le stragi sanguinose. Tutto definito dai giudici «sconcertante», ma perfettamente inquadrabile nella logica di «indicibili ragioni di interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa nostra».
Ma allora ci sarebbe da chiedersi se, una volta superata la punta più alta della crisi con la strategia del dialogo, non fosse stato indefettibile un intervento veloce e definitivo che estirpasse alle radici le mafie ben radicate nelle quattro regioni del nostro Meridione, anche per evitare di dover ricorrere ad altre trattative in futuro. E invece continuiamo a scrivere e leggere della geometrica potenza della 'ndrangheta, capace di muovere miliardi di cocaina poi reinvestiti in imprese per la realizzazione di opere pubbliche.
Ecco, i soldi. Anche di questo aspetto si occupa la sentenza che smentisce la tesi che Paolo Borsellino sia stato ucciso perché costituiva un impedimento allo svolgersi della Trattativa. Ipotizzano i giudici di Palermo che la decisione di uccidere il giudice fu presa con grande fretta, come se fosse sopraggiunto qualcosa che andava fermato subito.
Questo qualcosa, sospetta la corte d'appello, era l'interesse di Borsellino per il «rapporto su mafia e appalti» frettolosamente chiuso dalla Procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco e ripreso da Falcone e Borsellino. Una inchiesta esplosiva che ha fatto dire all'ex giudice Antonio Di Pietro che «la Tangentopoli prima di noi l'avevano scoperta i magistrati di Palermo e in particolare Giovanni Falcone».
Lo stesso Falcone che si era sovraesposto parecchio su questi temi, fino a dichiarare pubblicamente, riferendosi alle indagini sulla Calcestruzzo di Gardini: «La mafia è entrata in Borsa». Da qui la fretta di eliminare Borsellino, l'unico in grado di proseguire quella inchiesta che avrebbe attraversato il sistema di potere politico-imprenditoriale di tutta l'Italia. Riina convoca una riunione della cupola per mettere in cantiere via D'Amelio e dimostra grande fretta.
Lo confermerà nel 2013, quando scambia confidenze col detenuto con cui «fa socialità» e gli dice che la strage Borsellino non fu come l'altra, «fu un fatto studiato alla giornata». Ma anche il rapporto sugli appalti è rimasto seppellito per decenni. D'altra parte i depistaggi e le indagini a vuoto sono espedienti adoperati non tanto per cancellare la storia dei fatti accaduti quanto per ritardarne il più possibile il valore processuale.
Oggi l'inchiesta è stata riaperta a Caltanissetta e c'è da aspettarsi il solito «trattamento»: anni di ricerche di prove su fatti avvenuti negli Ottanta, immancabili polemiche, scontri fra garantisti e manettari, insomma la via crucis che va in scena da sempre. Speriamo, soprattutto, ci sia risparmiata un'altra Trattativa, lo dobbiamo principalmente ai familiari delle vittime di precedenti «improvvide iniziative».
Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia l'8 agosto 2022.
Le motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia che ha mandato assolti tutti gli imputati ha detto una parola fine sulla ridicola ricostruzione fatta prima dalla procura di Palermo e poi da alcuni giornalisti esperti di mafia che invece di documentarsi con inchieste scrivono romanzi.
Gli incontri tra i carabinieri Mori e Di Donno e Ciancimino serviva a convincere quest’ultimo a dare indicazioni sul covo di Riina (e a nostro giudizio li ha dati tanto che Riina fu arrestato qualche mese dopo) e di rispondere a tutte le domande che la commissione antimafia presieduta da Luciano Violante gli avrebbe voluto fare. Questa audizione fu preannunciata da Violante alla commissione antimafia tra ottobre e novembre del 1992 come si evince dagli atti parlamentari.
Prima dell’audizione la procura di Palermo arrestò Ciancimino togliendolo dalle mani dei carabinieri e consegnandolo alla polizia di Stato. Violante decise di non fare più quell’audizione pur potendo ascoltare Ciancimino in condizione di detenzione in quanto la commissione aveva ed ha i poteri dell’autorità giudiziaria. Quale aggressione allo Stato poteva fare una trattativa che si concludeva con una audizione pubblica in commissione antimafia del mafioso Ciancimino solo qualche disturbato mentale poteva immaginarlo. Di qui la ridicolaggine di alcune ricostruzioni.
Nessuno però fa l’unica domanda ancora inevasa: perché la commissione e Violante non vollero più sentire Ciancimino che avrebbe avuto molte cose da dire? Non vollero sentire Ciancimino padre nel 1992 ed alcuni anni dopo sentirono quasi permanentemente Ciancimino figlio che spiegava la trattativa così come alcuni inquirenti volevano probabilmente sentire.
Forse sono anche io un disturbato mentale perché penso che chi doveva e poteva fare quella audizione non volle che Ciancimino parlasse con la tutela della commissione. Gli esperti mafiologi che hanno scritto tanti romanzi si sono sempre dimenticati di ricordare alla opinione pubblica la disponibilità di Ciancimino a parlare di tutto dinanzi al parlamento della Repubblica.
Stato mafia, altro che presunta: la trattativa fu un vero e proprio bluff. La Corte d’appello di Palermo nella motivazione della sentenza smonta il teorema: Cosa nostra non ebbe alcun favore, ma bastona anche i Ros per aver agito da soli e senza badare agli errori di calcolo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 agosto 2022.
C’è chi, come il magistrato Nino Di Matteo, esige delle scuse per come fu criticato quando imbastì il processo trattativa Stato-mafia. Oppure, al lato opposto, c’è chi esulta perché l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, dimostra la completa disfatta del teorema. Non è esattamente così. Le motivazioni della sentenza trattativa, a seconda di come la si legge, può far felici o scontentare tutti nel contempo.
Ma c’è un dato chiaro, senza alcun errore di interpretazione, dal quale nessuno può fuggire e, quello sì, che smonta l’intera tesi accusatoria: non c’è stato alcun input da parte della politica o pezzi infedeli dello Stato a trattare, ma fu una iniziativa degli ex Ros del tutto autonoma. Parliamo del loro approccio con don Vito Ciancimino per raggiungere un solo ed unico scopo: quello di porre fine alle violenze mafiose. Nemmeno dopo fu coinvolta la politica o un governo in particolare, visto che – e questo viene ben specificato nelle motivazioni – nessuno allentò assolutamente la lotta alla mafia. Anzi, la esacerbò e ciò viene dimostrato con le numerose leggi varate nel corso degli anni. Non solo.
La pseudo trattativa (ora possiamo togliere “presunta”, perché parliamo di un bluff che non portò ad alcun beneficio per i corleonesi) non ha nemmeno determinato l’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Se c’è stata – e i giudici qui non la danno per certo -, il motivo è da ritrovarsi nell’interessamento di Borsellino sul dossier mafia-appalti.
Nessun patto tra Stato e mafia, ma una iniziativa di Mori e De Donno
Quindi nessun patto tra lo Stato e la mafia, ma una pseudo trattativa (ricordiamo che tra l’altro non esiste il reato di trattare) intrapresa personalmente da Mori e De Donno. Ed è qui che arriva la prima forte bacchettata nei confronti dei carabinieri: le trattative sono lecite, ma hanno un senso se intraprese legittimamente dal governo, l’unico corpo deputato a fare determinate scelte. In più la Corte d’Appello di Palermo contesta – e non è ovviamente un dettaglio -che i Ros non intrapresero una semplice operazione di polizia giudiziaria, sia pure con una marcata connotazione info-investigativa. Per i giudici si spinsero oltre le loro prerogative e ciò comportò un errore di calcolo.
Le motivazioni smentiscono i sostenitori della trattativa
Cade quindi un pilastro importantissimo del teorema. E sorprende che Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano, scriva un editoriale per dire che le motivazioni confermano quello che hanno sempre detto. Casomai l’esatto contrario. L’ex ministro Calogero Mannino non ha dato avvio ad alcuna trattativa per poter salvare la propria pelle. Non è poco, perché – secondo i giudici stessi – ciò ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti. Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Ciancimino. È così infatti è stato.
I governi non hanno rispettato i punti del presunto papello
Altra narrazione decostruita, ma che Travaglio ha sempre portato avanti assieme ai pm che imbastirono il processo, è quella dei governi che avrebbero rispettato i punti del presunto papello. Altra sciocchezza ben decostruita. Il teorema narra della sostituzione dell’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti con uno più morbido, ovvero Nicola Mancino. Parliamo di una lettura “trattativistica” degli eventi della politica italiana. In realtà la delegazione democristiana nel nuovo governo fu interamente rinnovata, nella sua composizione, rispetto alla precedente compagine, in conformità ad una precisa indicazione strategica (vennero confermati, dei ministri uscenti, sia pure per essere destinati a incarichi diversi, Maria Rosa Russo Jervolino e, appunto, lo stesso Scotti), che aveva motivazioni squisitamente politiche: furono esclusi dalla lista dei democristiani designati dal partito a far parte del nuovo governo coloro che (come Paolo Cirino Pomicino) si erano rifiutati fino all’ultimo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, ad eccezione di Scotti, per il quale tuttavia il segretario nazionale confidava che avrebbe rassegnato le dimissioni da parlamentare, una volta accettata la sua designazione a ministro degli Esteri. Così accadde.
Per i giudici il ministro Mancino «la guerra alla mafia la fece davvero»
A quel punto, la lotta alla mafia si ammorbidì? Nemmeno per sogno. I giudici osservano che anche per quanto concerne l’attività concretamente dispiegata dalle forze dell’ordine e dagli apparati repressivi dello Stato, con particolare riguardo agli organismi specializzati nell’attività investigativa e di contrasto alla criminalità mafiosa, non si registrò, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del nuovo governo — e del nuovo ministro degli Interni —, alcun segno che potesse far pensare a un diverso orientamento, o a un mutamento di direttive strategiche od operative del Viminale. «Né si può affermare che il ministro Mancino, nelle sue pubbliche esternazioni, come nella concreta azione a capo del Viminale, abbia minimamente fatto rimpiangere l’intransigenza del suo predecessore nel sostenere la linea della fermezza nella lotta alla mafia e alle organizzazioni criminali in genere», scrivono nelle motivazioni. Anzi, i giudici sottolineano che, come ministro dell’interno e per quanto di competenza del suo dicastero, il ministro Mancino «la guerra a Cosa nostra la fece davvero».
Per i giudici gli ex Ros agirono da soli e in “maniera improvvida e sciagurata”
Gli ex Ros, quindi, agirono da soli e – secondo i giudici – lo fecero in maniera improvvida e sciagurata. Non accolgono la ricostruzione della difesa e addirittura prendono per assodato che la mancata perquisizione del covo di Riina (anche se in realtà non era il covo, ma l’abitazione della famiglia) fosse un segnale nei confronti dell’ala moderata rappresentata da Provenzano. Perfino quest’ultimo fu – sempre secondo i giudici – agevolato in maniera soft nella latitanza. In realtà sono passaggi fortemente opinabili anche perché sono aspetti che gli ex Ros hanno affrontato nei processi specifici dai quali sono usciti pienamente assolti. Diversi passaggi della motivazione sulla pseudo trattativa restano abbastanza contraddittori e si comprende visto che comunque sia, i giudici ritengono il contatto tra i Ros e Ciancimino una iniziativa improvvida.
Gli scontri in procura sono evidenziati dalle sentenze del Borsellino quater
Così come destano stupore alcuni passaggi dove sembra che Borsellino non avesse avuto alcuno scontro in procura. Anzi, sembrerebbe che la colpa fosse dei giornali dell’epoca con l’uscita dello scandalo dei diari di Falcone. In realtà non è esattamente così. Manca nelle motivazioni – ma è solo uno dei tanti elementi non evidenziati -, la citazione del verbale al Csm della sorella di Giovanni Falcone. Quella testimonianza, messa insieme alle altre, fa comprendere che qualcosa di poco chiaro è accaduto in quell’ambiente definito, da Borsellino stesso, il “nido di vipere”. Ma questo approfondimento è di competenza della procura di Caltanissetta, anche perché le sentenze del Borsellino quater danno una descrizione completamente diversa, evidenziando – tra le altre cose – cosa disse il giudice alla moglie Agnese il giorno prima della strage: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò accada».
Stato-mafia, depositate le motivazioni delle assoluzioni in appello. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Agosto 2022.
"In sostanza la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità - scrivono i giudici - di allacciare un dialogo con 'quella gente' voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale".
Qualche foglio meno di 3000 pagine (2.971 per la precisione) per scrivere le motivazioni della sentenza di appello del processo di appello della cosiddetta trattativa tra Stato e mafia con cui la Corte di assise di appello di Palermo, il 23 settembre scorso, ha ribaltato il verdetto di primo grado. Le motivazioni sono state depositate in cancelleria ieri nel tardo pomeriggio.
Il giudice estensore, Vittorio Anania (a latere nel processo) e il presidente della corte di assise d’appello, Angelo Pellino, hanno avuto la necessità di prendersi tutto il tempo necessario per “motivare” la sentenza con cui – attraverso la formula «perché il fatto non costituisce reato» – hanno assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri, l’ex capo del Ros dei Carabinieri , il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei Carabinieri Giuseppe De Donno.
l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino
“E’ pacifico, perché comprovato dalle convergenti allegazioni dei diretti protagonisti della vicenda, che Vito Ciancimino“, l’ex sindaco mafioso di Palermo “intese la proposta inizialmente rivoltagli da Mori e De Donno esattamente nei termini in cui tale proposta era stata formulata, e quindi, così come riassunta, con parole diverse, ma semanticamente equipollenti, dai due ex) ufficiali prefetti. E dunque la proposta fu di tentare di stabilire un contatti con i vertici, o comunque con esponenti autorevoli di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad un dialogo finalizzato a trovare un punto di intesa, cioè un accordo, per porre fine alle stragi“. E’ quello che anno scritto i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia.
“In sostanza la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità – scrivono i giudici – di allacciare un dialogo con ‘quella gente’ voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale“. I giudici d’appello confermano che una “trattativa accettata da Riina“ ci fu, definiscono “un’improvvida iniziativa” quella di contattare l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, ma scrivono che l’unica finalità dei Carabinieri era quella di fermare le stragi: “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da tini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato“.
Parole accorate per ì due esponenti politici che erano finiti nella maglie dell’inchiesta: “Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica“.
Marcello Dell’ Utri e Silvio Berlusconi
Su un altro imputato eccellente di questo processo, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato per concorso in associazione mafiosa in un altro processo) la corte scrive invece: “Non si ha prova, in altri termini nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto che abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano“. In primo grado Dell’Utri era stato condannato a dodici anni, in appello i giudici lo hanno assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.
“Muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrive ancora la Corte di assise di appello – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del consiglio dei ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come l’ultimo miglio percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione”.
La Corte di assise di appello aveva ridotto con la stessa sentenza, la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermato quella per il medico – boss Antonino Cinà. In primo grado – nel maggio 2018 – erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e a 8 anni per De Donno.
LE MOTIVAZIONI DELL’ASSOLUZIONE. Sato-mafia, la trattativa ci fu ma i carabinieri volevano solo evitare nuove stragi. Il Domani il 06 agosto 2022
Sono uscite le motivazioni dell’assoluzione degli ex vertici del Ros dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, nel processo trattativa Stato-mafia. Secondo i giudici d’appello, che hanno ribaltato la sentenza di secondo grado, la trattativa ci fu ma fu giustificata dalla necessità di evitare nuove stragi.
I giudici della corte d'assise d'appello di Palermo hanno depositato questa mattina le motivazioni dell’assoluzione degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno nel processo trattativa Stato-Mafia.
Nel documento, lungo 2.971 pagine, si conferma come la trattativa sia avvenuta ma che tutto ciò non comporta reato dal momento che avvenne non per motivi di protezione di un singolo o più figure politiche ma per tutelare l’intera collettività nazionale.
«Scartata in partenza l'ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l'ipotesi che essi abbiano agito per preservare l'incolumità di questo o quell'esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi», si legge nelle motivazioni.
La trattativa, dunque, ci fu e fu «accettata da Riina» e andò avanti con l’apertura di un «canale di comunicazione» con la mafia. Ma a motivare i vertici del Ros erano «fini solidaristici», più nello specifico «la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato».
Confermate invece le condanne per i capi mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà per l’esistenza di una trattativa, che dunque è provata, anche se definita «improvvida iniziativa».
CONFERMATI I CONTATTI CON CIANCIMINO
Il fatto non risulta reato dato che fu un’attività volta a tutelare l’interesse nazionale, nell’interpretazione dei giudici. Nelle motivazioni della sentenza comunque si certificano i contatti tra gli ex vertici del Ros e Vito Ciancimino: «Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l'esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci», si legge nelle carte.
Così sul 41 bis Scalfaro si piegò alle richieste dei carcerati e cacciò Amato. La sentenza Stato-mafia riscrive anche questo pezzo di storia. DI Maggio nominato per controllare da vicino Mani Pulite. Luca Fazzo l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.
Un ruolo diretto di Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica, per accogliere le richieste che venivano dal mondo delle carceri. E non solo. L'intervento diretto del Capo dello Stato per utilizzare il mondo delle carceri per indirizzare l'inchiesta Mani Pulite, monitorando pentimenti e collaborazioni. È questo il capitolo più inquietante della sentenza della Corte d'Assise d'appello di Palermo sulla presunta trattativa Stato-Mafia. È la sentenza che ha assolto i generali dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, insieme all'ex senatore Marcello Dell'Utri. E che apre invece una finestra del tutto nuova su un periodo drammatico della storia recente d'Italia, la caduta della Prima Repubblica tra indagini giudiziarie e stragi di mafia.
Il teorema della Procura di Palermo diceva: tra le richieste di Cosa Nostra ai carabinieri c'era la cacciata dal vertice delle carceri del «duro» Niccolò Amato; quando Amato viene cacciato al Dap, il dipartimento penitenziario, arriva come «vice» l'ex pm milanese Francesco Di Maggio, messo lì da Mori per mantenere la promessa fatta alle cosche: la rimozione di boss e picciotti dall'elenco dei detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro.
Non era vero niente, dice la nuova sentenza. La cacciata di Amato fu «fortemente voluta dal presidente Scalfaro». Il capo del Dap fu il «capro espiatorio», «si dava in pasto una vittima sacrificale e al contempo si apriva la strada a un mutamento della politica carceraria, più attento ai diritti dei detenuti che alla difesa della collettività». Era quanto da tempo chiedevano i boss. Perché Scalfaro impose la svolta, assumendo un «ruolo propulsivo»? La sentenza offre tre spiegazioni in parte convergenti. C'erano le pressioni che venivano dal mondo dei cappellani carcerari, «strettamente legati a Scalfaro». C'erano gli interventi di due monsignori, Fabbri e Curioni, «legati ai servizi segreti».
E c'era la pavidità personale del Presidente, cui era pervenuta una pesantissima lettera minatoria da parte di sedicenti parenti dei detenuti di Poggioreale, che aveva allarmato i responsabili della sicurezza del Quirinale. Per questo Scalfaro allontana Amato, nominando al suo porto «l'imbelle» Adalberto Capriotti. La sentenza analizza gli appunti privati del premier di allora, Carlo Azeglio Ciampi, e approda alla conclusione che, dietro le quinte, Ciampi stava con Scalfaro: «sintonia di intenti».
Fu dal Colle, e non dai carabinieri, che venne dunque il segnale di resa che l'ala stragista di Cosa Nostra si attendeva. Ma non è tutto. Perché, dopo aver messo Capriotti al posto di Amato, Scalfaro fa nominare come suo vice Di Maggio. Un mastino che non era affatto, sottolinea la sentenza di Palermo, l'uomo adatto a portare una linea morbida nelle carceri. No, l'incarico di Di Maggio era un altro. Proseguire il lavoro che già nel '92 gli aveva affidato Scalfaro: trattare con il pool Mani Pulite, trovare una «soluzione soddisfacente» per Tangentopoli, grazie ai suoi rapporti con la Procura milanese dove aveva lavorato a lungo.
Un incarico impensabile e illegale, che apre interrogativi sul rapporto sotterraneo tra il Colle e il pool (che della tutela del Quirinale si fece in quei mesi ampio scudo). Controllare le carceri serviva a tenere d'occhio il comportamento dei politici arrestati. Il teste Salvatore Cirignotta riassume così lo scopo dell'operazione: «Dopo i fatti di Mani Pulite si era posto il problema della possibilità di gestire i pentiti che erano in carcere, al fine della tutela o del danneggiamento, ora non so dire, della classe politica esistente». Scrivono i giudici di Palermo: «Dava garanzie di affidabilità che un personaggio del genere di Di Maggio fosse al vertice de Dap perché la gestione dei pentiti in carcere ed anche il trattamento detentivo cui erano sottoposti i soggetti coinvolti nell'inchiesta Mani Pulite stavano a cuore sia a Scalfaro che a Parisi (il capo della polizia, ndr)». Altro che trattativa: questa è la storia su cui sarebbe appassionante capire qualcosa.
Napolitano, Ciampi e Spadolini. Ecco le loro mosse dietro le quinte della Trattativa. La trattativa Stato-mafia dopo la strage di Capaci gestita dagli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno ci fu. Felice Manti l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.
La trattativa Stato-mafia dopo la strage di Capaci gestita dagli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno ci fu. Serviva a evitare altre mattanze ma non è reato. La sentenza della corte d'Appello di Palermo fa carta straccia di tutte le illazioni su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri fantomatici registi di un accordo tra i clan e lo Stato a fini elettorali, in realtà strumentalmente utilizzati per depistare l'attenzione dai veri responsabili. Ma quella sanguinosa pagina di storia resta una ferita purulenta. Chi sapeva che Mori e De Donno avevano chiesto a Vito Ciancimino di fermare il sanguinario Totò Riina? Chi sapeva o li aveva autorizzati? E chi ha incassato, in qualche modo, un dividendo politico-elettorale dalle stragi? Non c'è solo Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale sulle macerie fumanti dell'auto di Giovanni Falcone. Dagli States facevano il tifo per lui ma anche per un Giovanni Spadolini «quirinalizzato», come recita un take dell'agenzia di stampa Repubblica del tempo.
E che dire di Carlo Azeglio Ciampi? Dagli appunti sulle sue agende dal 28 aprile 1993 al 10 maggio 1994, agli atti del processo sulla Trattativa e desecretate nel 2016, l'ex governatore di Bankitalia annotò il pressing di Scalfaro nella nomina al Dap di Adalberto Capriotti anziché del «duro» Giuseppe Falcone. E proprio per ammorbidire la politica carceraria, una delle richieste del leggendario «papello». A suggerire un vice altrettanto morbido come Francesco Di Maggio secondo Ciampi fu l'allora capo della Polizia Vincenzo Parisi. Al neo ministro della Giustizia Giovanni Conso (arrivato al posto di Claudio Martelli) Di Maggio non piaceva, eppure fu Conso stesso a dire a Ciampi di averlo scelto «personalmente» e di aver deciso «in autonomia» di non rinnovare il carcere duro a oltre 300 boss.
Tutto regolare? Non proprio. È con le stragi di Roma e Milano del 27 luglio 1993 che la situazione sembrò precipitare, con il famoso black out di Palazzo Chigi e i timori di un golpe, con un caotico Comitato nazionale per la sicurezza riunito nottetempo che fece emergere l'inadeguatezza degli apparati alla sfida lanciata da Cosa nostra. Il 10 agosto del 1993 la Dia di Gianni De Gennaro teorizzò all'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino (sfiorato dal processo) che anziché una trattativa con i boss sarebbe stata necessaria a linea eccessivamente dura per condurre alla resa di Cosa Nostra» e «una strategia per convincere l'opinione pubblica» che «un'eventuale revoca anche solo parziale sul 41 bis avrebbe rappresentato un cedimento dello Stato», arrivato comunque dopo le bombe del novembre 1993 alle chiese di San Giovanni fuori le mura e San Giorgio al Velabro. Curiosamente i santi con i nomi dei presidenti di Camera e Senato del tempo, Napolitano e Spadolini, unico rappresentante del Pri filoatlantico uscito indenne da Mani Pulite (assieme a Napolitano), come aveva profetizzato Bettino Craxi nell'aula del Palazzo di giustizia di Milano.
E se è vero che la sentenza scagiona l'ex capo dello Stato Scalfaro («È ingeneroso e fuorviante coinvolgerlo») è altrettanto vero che la morte del giudice Falcone sbloccò l'impasse al Colle, liberando il posto di presidente della Camera per Giorgio Napolitano, che sarebbe diventato anche il primo ex comunista al Viminale dopo essere stato il primo comunista europeo ad andare negli States e il ministro degli Esteri ombra del Pci dal 1975 eppure (come Spadolini) risparmiato da Mani Pulite. Sarà lui a succedere a Ciampi nella poltrona più alta del Quirinale e verrà rieletto nell'aprile 2013. Una fumata bianca arrivata al sesto scrutinio, proprio mentre a Palermo il gip Riccardo Ricciardi distruggeva per sempre le registrazioni delle sue conversazioni con Mancino, disposte dai pm della Trattativa. Il sospetto è che anche l'ex capo dello Stato fosse al corrente delle trame, ma non lo sapremo mai. Come ricorda il libro I Diari di Falcone di Edoardo Montolli (Chiarelettere), l'uomo nero dell'intelligence italiana Federico Umberto D'Amato, ufficiale di collegamento tra Italia e Nato già capo del misteriosissimo ufficio Affari riservati del Viminale, era grande fan di Napolitano. Tanto da dire a Giuseppe D'Avanzo su l'Espresso: «Il Viminale? Napolitano era il mio candidato unico. È un uomo freddo, al punto giusto». E al posto giusto.
"Ci sono anche altre responsabilità. Lo Stato diede l'idea di essere debole". L'ex Guardasigilli su Scalfaro: "Fu il regista politico della trattativa". Lodovica Bulian l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.
«Da vent'anni sostengo la tesi che è diventata sentenza dello Stato. Ed è una sentenza di importanza capitale con argomentazioni difficilmente aggirabili».
Claudio Martelli era ministro della Giustizia all'epoca della cosiddetta «trattativa», prima di essere sostituito da Giovanni Conso. Da poco è uscito il suo ultimo libro «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone».
Nelle motivazioni i giudici parlano di un'iniziativa «improvvida» da parte dei Ros. Se lo aspettava?
«Improvvido è stato anche il processo. Che quella dei carabinieri del Ros non fosse reato lo dico da quando ci sono state le prime iniziative giudiziarie contro di loro. Del resto già nel processo di Firenze, Mori ammise di aver trattato con Ciancimino. Disse di averlo fatto per acquisire elementi utili alle indagini con lo scopo di dividere Cosa Nostra».
Secondo i giudici il coinvolgimento nell'inchiesta dell'ex presidente Scalfaro e dell'ex ministro Conso rispetto a un presunto cedimento alla minaccia mafiosa fu «ingeneroso e fuorviante, un errore di sintassi giuridica».
«E hanno ragione i giudici, non era materia di un'indagine penale il comportamento dei politici, come Scalfaro, che favorirono le revoche del 41 bis nel 1993. L'intento lo ha spiegato lo stesso Conso, era quello di fermare le stragi. Volevano dare un segnale all'ala moderata di Cosa nostra. Non fu un reato, ma un errore politico sì. Perché non fermò le stragi che anzi vennero esportate in continente».
Lei ha definito Scalfaro il regista "politico" della «trattativa». Quale fu il ruolo dell'ex presidente?
«Ne è stato il regista dal punto di vista politico. Le revoche furono ispirate da Scalfaro e messe in atto da Conso. Scalfaro ha orientato le scelte di attenuazione del 41 bis a mafiosi non particolarmente pericolosi. Ma la conseguenza di quell'atteggiamento non combattivo - a differenza di quello che io avevo perseguito - è stata che le stragi ricominciarono. Lo Stato ha dato l'idea di essere debole. Cosa importava a Riina se revocavano il 41 bis a mafiosi di terza categoria? Lui era interessato all'abolizione totale».
I giudici però parlano anche di sconcertanti omissioni in riferimento all'operato dei carabinieri del Ros. Anche lei ne ha sottolineato le anomalie. Vale la ragion di Stato?
«All'epoca a me apparve un'iniziativa improvvida e lo dissi. Ho parlato più volte di anomalie, di abuso di potere, come più volte ho sottolineato che fu un errore non aver informato i magistrati di quello che stavano facendo e i loro superiori della Dia. Tra l'altro avevamo appena creato la Dia che unificava i servizi intelligence nel contrasto alle mafie, perché non hanno informato i vertici? Parliamo di anomalie, non di reati, è diverso».
Lei si oppose quando chiesero di restituire addirittura il passaporto a Ciancimino.
«Chiamai il procuratore generale di Palermo, dissi quello Falcone aveva sempre detto di Ciancimino, cioè che era il più politico dei mafiosi e il più mafioso dei politici e per questo era pericoloso lasciarlo espatriare. I carabinieri del Ros hanno preso iniziative discutibili e da giudicarsi con severità, ma non sono reati e loro non meritavano un processo penale».
Si chiude davvero il cerchio con questa sentenza?
«Si andrà in Cassazione, anche se per me questa dovrebbe essere la sentenza definitiva. Quello che invece bisogna continuare è una ricerca storica sulle responsabilità penali ma politiche che sono emerse in modo evidente. Sia da parte del governo che del presidente della repubblica. Perché non è che Scalfaro abbia mai detto direttamente che bisognava trattare, ma Conso ha dichiarato che si volle dare un segnale. E Conso da chi era stato messo al ministero della Giustizia?
«La trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra ci fu. Ma i carabinieri volevano solo fermare le stragi». Depositate le motivazioni con le quali la Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha assolto Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. I giudici di secondo grado demoliscono la prima sentenza. Il Dubbio il 6 agosto 2022.
Sono state depositate, a quasi un anno dalla sentenza emessa il 23 settembre del 2021, le motivazioni del processo d’appello sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. La Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, aveva assolto al processo gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime. Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà. La sentenza è composta da oltre tremila pagine.
Trattativa Stato-Cosa Nostra, ecco le motivazioni d’appello
«Ben si comprendono le perplessità di Paolo Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla Procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo» scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo, i quali ricordano anche le «doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros». E fanno riferimento a quanto accadde nell’affollata assemblea plenaria che si tenne in Procura con i pm il 14 luglio del 1992, cioè appena cinque giorni prima della strage di via D’Amelio. «Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea», dicono, come «ben rammenta Luigi Patronaggio».
La proposta di Vito Ciancimino ai carabinieri del Ros
«È pacifico, perché comprovato dalle convergenti allegazioni dei diretti protagonisti della vicenda, che Vito Ciancimino», l’ex sindaco mafioso di Palermo «intese la proposta inizialmente rivoltagli da Mori e De Donno esattamente nei termini in cui tale proposta era stata formulata, e quindi, così come riassunta, con parole diverse, ma semanticamente equipollenti, dai due ex ufficiali prefetti. E dunque la proposta fu di tentare di stabilire un contatti con i vertici, o comunque con esponenti autorevoli di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad un dialogo finalizzato a trovare un punto di intesa, cioè un accordo, per porre fine alle stragi».
«In sostanza – dicono i giudici – la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità di allacciare un dialogo con ’”quella gente” voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale».
Trattativa Stato-Cosa nostra, «la sentenza di primo grado è incongruente»
La sentenza di primo grado, con la quale i giudici guidati da Alfredo Montalto, condannarono pesantemente i generali Antonio Subranni e Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, «è incongruente», sostiene il collegio giudicante, presieduto da Angelo Pellino che dunque non risparmia le critiche al collega di primo grado.
In appello i tre ufficiali sono stati tutti assolti, così come l’ex senatore Marcello Dell’Utri, tutti accusati di minaccia a corpo politico dello Stato. Pellino parla di «varie incongruenze» della sentenza di primo grado. «Anzitutto – scrivono i giudici d’appello – nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa. E che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirati a una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia».
La cattura di Totò Riina e lo stop alla trattativa con Ciancimino
«In realtà – dicono ancora in sentenza d’appello – la lettura offerta dalla sentenza non i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino», l’ex sindaco mafioso di Palermo, il generale Mario Mori e i suoi uomini «si preparavano e si attrezzavano per dare corso a una indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e a catturare il capo di Cosa nostra». «E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto a un certi punto una brusca interruzione e comunque una drastica svolta».
Trattativa Stato-Mafia: Dell’Utri non fece da tramite tra Cosa nostra e Berlusconi. Redazione su Il Secolo d'Italia il 6 Agosto 2022.
La Corte d’assise d’appello di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale il 23 settembre scorso ha demolito la sentenza di primo grado del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Un verdetto che ha mandato assolti dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. La corte, presieduta da Angelo Pellino, condannò invece i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. La sentenza, depositata dopo diverse richieste di proroga dei termini, è di 2971 pagine.
Critiche ai giudici di primo grado: sentenza piena di incongruenze
La sentenza di primo grado del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, con la quale i giudici guidati da Alfredo Montalto, condannarono pesantemente i generali Antonio Subranni e Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, “è incongruente”. A scriverlo, nelle motivazioni della sentenza d’appello è il Presidente della Corte d’assise Angelo Pellino che non risparmia le critiche al collega di primo grado. In appello i tre ufficiali sono stati tutti assolti, così come l’ex senatore Marcello Dell’Utri, tutti accusati di minaccia a corpo politico dello Stato. Pellino parla di “varie incongruenze” della sentenza di primo grado.
“Anzitutto – scrivono i giudici d’appello – nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa. E che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa e a ripristinare un costume di rapporti ispirati a una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia”.
Mori e i suoi uomini si attrezzarono per catturare il capo di Cosa nostra
“In realtà – dicono ancora in sentenza d’appello – la lettura offerta dalla sentenza non fa i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo, il generale Mario Mori e i suoi uomini “si preparavano e si attrezzavano per dare corso a una indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e a catturare il capo di Cosa nostra”. “E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto a un certo punto una brusca interruzione e comunque una drastica svolta”.
Su Dell’Utri le prove sono inesistenti
Non si ha prova – rilevano ancora i giudici nelle motivazioni – che l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri “nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto”, “abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”.
“Muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrivono i giudici – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato prosegue la Corte di assise di appello – come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione…”.
“Non risulta provato che oltre alla interlocuzione Mangano (Vittorio, l’ex stalliere di Arcore ndr) Dell’Utri, vi sia stata una interlocuzione di Dell’Utri con Silvio Berlusconi su questa tematica, tanto meno dopo l’insediamento del Governo Berlusconi, dovendo al riguardo ribadire, come fatto nei paragrafi che precedono ( ed ai quali continua a farsi rinvio), la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al Governo della Repubblica, soltanto questa capace di integrare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 338 c.p. sotto il terribile ricatto della ripresa (o della prosecuzione) della stagione stragista che aveva insanguinato gli anni 1992 e 1993”.
Il pentito fasullo e il depistaggio. La strage di via D’Amelio, i figli di Borsellino presi in giro per 30 anni dallo Stato e da Scarantino. Paolo Liguori su Il Riformista il 19 Luglio 2022
Via D’Amelio, Palermo. Trent’anni fa l’omicidio di Paolo Borsellino, poco dopo quello di Giovanni Falcone. Trent’anni fa fu così. Oggi sono passati trent’anni per tutte e due, Falcone e Borsellino, vittime della mafia. Certo vittime della mafia. Ma nel caso Borsellino, anche però protagonisti di uno dei più grandi depistaggi di Stato che sono mai stati fatti in Italia. Perché su Borsellino, naturalmente, non si riesce ancora a stabilire esattamente come sono andate le cose. E chi sono stati mandanti, esecutori con precisione. Perché c’è stato un depistaggio effettuato dalla magistratura.
All’improvviso spuntò fuori un pentito, Scarantino, che disse ‘vi dico io chi sono stati i colpevoli’. E lo disse. Beh, dopo trent’anni abbiamo scoperto che quel pentito era un pentito fasullo. Aveva capito che volevano da lui delle cose. Ai magistrati le aveva dette, ma subito dopo ritrattò e ritrattò pubblicamente. Chi vi parla faceva il direttore di Studio Aperto all’epoca. Scarantino ritrattò a Studio Aperto. E anche in una rubrica che avevo a Studio Aperto – Fatti e misfatti – noi lo dicemmo subito. Ebbene, fummo silenziati e addirittura il testo di quell’intervista fu secretato e rimase segretato per molti anni. Perché? Perché disturbava i magistrati che avevano raccolto quella testimonianza? Io, senza fare nomi, vi dico che il magistrato che raccolse quella testimonianza fu il pm Di Matteo.
Però poi la cosa è proseguita. Siamo andati avanti con altri processi, tutti basati sulle testimonianze di Scarantino. Come se non avesse ritrattato. E lui continuava a dire no, non è vero. No, non è andata così. Gli conveniva fare quella falsa confessione finché non si è arrivati a un processo a Catania che ha rimesso in libertà alcuni poliziotti che erano stati ingiustamente accusati e poi adesso a un processo a Caltanissetta che ne ha accusati altri.
Insomma, tutte le istituzioni hanno partecipato a questo depistaggio. Se qualcuno volesse vederci chiaro, bisognerebbe davvero su questo istituire una commissione ad hoc sulla questione di Borsellino, non sulla mafia, ma su come in trent’anni di lotta alla mafia alcuni apparati dello Stato hanno fatto la loro parte, hanno fatto i loro interessi, hanno cercato le loro carriere.
Questa è l’idea nostra e anche quella dei figli di Borsellino. Loro infatti sono stati i primi a denunciare sin dall’inizio questo depistaggio. E quindi noi ci associamo a loro, a Fiammetta Borsellino che l’ha più volte denunciato. Perché è vergognoso il depistaggio, oltre che naturalmente la perdita a seguito dell’omicidio. Son dolori che abbiamo già subito con Falcone, ma in questo caso molto più gravi.
Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom
Non sappiamo i loro nomi, ma a uccidere Borsellino non è stata solo la mafia. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 19 luglio 2022
Con l’autobomba del 19 luglio 1992 hanno assassinato Borsellino e “suicidato” la Cosa Nostra di Totò Riina. Un piano perfetto.
La regia è altrove e se ne rintracciano indizi fin da prime indagini. Mai un'investigazione ha raccolto in sé tante anomalie e forzature, mai tanti inganni sono riusciti a passare al vaglio di procure della repubblica, corti di assise e corti di assise di appello fino a ricevere il bollo ultimo della Cassazione.
Il depistaggio di cui tanto si parla non è partito dopo l'attentato, il depistaggio è partito prima. Pentiti fabbricati in laboratorio, atti spariti, procuratori ben disposti a prendere ordini dagli apparati. Una giustizia piegata a interessi non di giustizia.
Borsellino, la strage di via d'Amelio: trent’anni di bugie e silenzi. Quella verità negata dal depistaggio di Stato. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 Luglio 2022.
l depistaggio ci fu, ha detto la sentenza del tribunale di Caltanissetta. Anche se è ormai prescritto. E per la prima volta sono stati ritenuti responsabili uomini dello Stato per il mancato accertamento della verità
La grande incompiuta del nuovo tribunale, accanto al vecchio palazzo di giustizia, è diventata un monito per tutti quelli che passano. Qui, lo Stato si è fermato. Da dodici anni non riesce a completare un edificio che doveva essere il simbolo della verità e della giustizia nel distretto di corte d'appello chiamato a trovare i responsabili delle stragi del 1992.
Borsellino, la strage di via d'Amelio: trent’anni di bugie e silenzi. Quella verità negata dal depistaggio di Stato. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 18 luglio 2022.
Caltanissetta - La grande incompiuta del nuovo tribunale, accanto al vecchio palazzo di giustizia, è diventata un monito per tutti quelli che passano. Qui, lo Stato si è fermato. Da dodici anni non riesce a completare un edificio che doveva essere il simbolo della verità e della giustizia nel distretto di corte d'appello chiamato a trovare i responsabili delle stragi del 1992. Un monito sinistro, che però non ha mai scoraggiato magistrati, investigatori, avvocati di parte civile e familiari delle vittime che sono arrivati in questa trincea nel cuore della Sicilia. Nei dodici anni della grande incompiuta, al quarto piano del vecchio palazzo di giustizia, dove ha sede la procura della Repubblica, sono state invece scritte pagine che nessuno immaginava: le dichiarazioni del killer Gaspare Spatuzza hanno svelato la grande impostura del falso pentito Vincenzo Scarantino e hanno consentito di avviare l'indagine sul depistaggio messo in atto da alcuni poliziotti. Il depistaggio ci fu, ha detto la sentenza del tribunale di Caltanissetta. Anche se è ormai prescritto. E per la prima volta, trent'anni dopo le stragi, sono stati ritenuti responsabili uomini dello Stato per il mancato accertamento della verità.
Resta la domanda: perché i poliziotti guidati dall'allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera si resero protagonisti del "più colossale depistaggio della storia giudiziaria d'Italia"? Se non era per favorire la mafia, come dice il tribunale, per quale altra finalità? Solo per ottenere presto un risultato? "Tesi troppo riduttiva", hanno osservato i legali di parte civile. Un falso pentito e una verità di comodo potevano trasformarsi presto in un boomerang per chi invece coltivava sogni di gloria antimafia. Dunque, cosa c'è davvero dietro il depistaggio? Se non fu architettato per favorire il boss Giuseppe Graviano e gli altri mafiosi che sventrarono via D'Amelio con un'autobomba, chi doveva proteggere e nascondere?
Sono stati trent'anni di misteri e di silenzi di Stato. La procura di Caltanissetta, oggi diretta da Salvatore De Luca, non ha mai smesso di indagare. I magistrati sono tornati a riesaminare decine di vecchi fascicoli in archivio, alla ricerca di piste e tracce. Un'attenzione particolare viene adesso data al dossier mafia e appalti, a cui Borsellino si era dedicato negli ultimi tempi: secondo la famiglia del giudice, potrebbe essere stata la ragione dell'accelerazione della strage.
Questa è una storia che continua a portare verso ambienti esterni alla mafia. Non sono dei mafiosi (già condannati) i volti ancora senza nome che compaiono nel lungo video che la procura fece realizzare anni fa dalla Scientifica, con tutti gli spezzoni Tv esistenti del 19 luglio. Chissà se fra quegli uomini c'è l'agente dei servizi segreti di cui ha parlato uno dei primi poliziotti arrivati in via D'Amelio, chissà se fra quegli uomini senza nome c'è il ladro dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Di un altro Mister X ha parlato il pentito Spatuzza: "Il giorno prima dell'attentato, nel garage di via Villasevaglios dove si caricava l'autobomba, c'era una persona che non conoscevo". La verità la conosce Giuseppe Graviano, il capomafia di Brancaccio a cui Salvatore Riina affidò l'incarico di realizzare l'attentato. "All'inizio di luglio partì, andò fuori dalla Sicilia", ha raccontato il suo autista oggi collaboratore di giustizia, Fabio Tranchina. Dove andò Giuseppe Graviano? E chi incontrò?
Da qualche tempo, sono tornati gli operai nella grande incompiuta di Caltanissetta. E lo Stato ha riaperto il cantiere dell'opera simbolo. Ma, intanto, fra i corridoi e le aule del vecchio palazzo in cui si cerca la verità sulle stragi, sembra di stare dentro un labirinto. I pm hanno appena svelato l'ennesima impostura, quella dell'ex pentito Maurizio Avola, che aveva annunciato addirittura con un libro di essere fra i killer di via D'Amelio, vestito da poliziotto. Forse, voleva allontanare tutti i sospetti sugli uomini senza volto?
Sono tante le domande che continuano ad animare questo palazzo di giustizia dove negli ultimi anni è stata riscritta anche la storia dell'antimafia, con le condanne di due "paladini", Antonello Montante e Silvana Saguto. Sussurra uno dei ragazzi delle scorte: "Qui, i magistrati hanno toccato fili ad alta tensione".
«La verità sulle stragi di Cosa Nostra deve venire fuori, si indaghi ancora». Il Dubbio il 18 luglio 2022.
Il procuratore generale di Palermo Lia Sava crede che ci sia ancora del tempo utile per conoscere nuovi elementi su Capaci e via d'Amelio. Ma ricorda: «I processi non sono sociologia, ma si fanno raccogliendo elementi da portare in dibattimento e da trasformare in prove»
«Sappiamo tanto delle stragi e non è una sconfitta continuare a indagare, a trent’anni di distanza». Lia Sava, procuratore generale di Palermo, nella sua decennale esperienza a Caltanissetta ha indagato a lungo sugli eccidi del 1992 a Capaci e in via D’Amelio. «L’ansia di verità e giustizia – spiega in un colloquio con AGI – e il desiderio di colmare i buchi neri, a 360 gradi, non sono solo dei familiari delle vittime, ma appartengono a un intero Paese. Sarà sempre fatto il massimo sforzo per arrivare a una verità il più possibile completa».
In questo contesto c’è anche la vicenda del «gigantesco e inaudito depistaggio», come lo ha definito nell’ultima requisitoria la procura nissena, delle indagini sulla strage Borsellino del 19 luglio 1992, conclusa lo scorso 12 luglio, a Caltanissetta, con una assoluzione e due dichiarazioni di prescrizione nei confronti dei tre poliziotti imputati.
«Per serietà – spiega il Pg di Palermo – ogni commento andrà fatto solo dopo il deposito delle motivazioni della sentenza. Io ribadisco che in tutta la vicenda delle stragi ci sono punti oscuri, come emerge anche da sentenze definitive pronunciate a Caltanissetta e non solo. Tante procure, quella nissena come Palermo, Reggio Calabria e Firenze, continuano ad approfondire queste storie, sotto il coordinamento della Direzione nazionale antimafia, più che mai fondamentale, dato che occorre rimettere insieme i pezzi ancora mancanti alla verità sulle stragi, via D’Amelio in particolare, di cui domani ricorre il trentennale».
«L’agenda rossa di Borsellino sparita – dice ancora Lia Sava – e “l’extraneus” nel garage di via Villasevaglios, in cui fu caricato il tritolo nella 126 usata per l’attentato, e di cui parla Gaspare Spatuzza. Elemento che si collega all’altro estraneo alle cosche, che sarebbe stato nel garage di Troia quando venne macinato il tritolo per la strage di Capaci. Cosa che però non vuol dire che ci siano stati mandanti esterni, perchè Cosa nostra non si fa dettare nulla da nessuno. Noi infatti abbiamo sempre parlato di concorrenti esterni».
Poi l’aspetto più inquietante: la famosa “tastata di polso” di cui ha parlato Nino Giuffrè: «Fu il sondaggio in ambienti esterni alla mafia – aggiunge ancora l’alto magistrato – per decidere se procedere a quanto la commissione aveva deliberato già in precedenza, cioè di uccidere Falcone e Borsellino in caso di esito negativo del maxiprocesso in Cassazione. La tastata di polso ebbe esito favorevole, da quegli ambienti esterni e deviati arrivò il placet. E in questa direzione si continua a indagare, per individuarli: fermo restando che i processi non sono sociologia, ma si fanno raccogliendo elementi da portare in dibattimento e da trasformare in prove».
Delitto Borsellino, il procuratore nazionale antimafia chiede scusa per il depistaggio. Il Domani il 19 luglio 2022.
«Per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage»
Trent’anni dopo la strage di via D’Amelio, molti anni dopo che si è concluso il processo senza portare alla verità sulla morte di Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia ma non solo il 19 luglio del 1992, il procuratore antimafia Giovanni Melillo chiede scusa in un’intervista al Corriere della Sera.
Quello che, ricorda il giornalista Giovanni Bianconi, fu una sentenza ha definito «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiani», dopo l’assoluzione e le prescrizioni nel processo ai poliziotti accusati di calunnia: «A prescindere dalle responsabilità dei singoli, che si possono valutare soltanto nelle sedi istituzionali», ha risposto Melillo, «per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage. Sono scuse che porgo con rispetto e profonda consapevolezza ai familiari delle vittime e alle persone che, innocenti, sono state trascinate nel baratro della condanna per quel delitto. Gli uni e le altre sanno assai meglio di noi che il tempo non lenisce quelle ferite, se tante domande restano senza risposta».
Il procuratore sembra aprire all’ipotesi che sul caso si lavorerà ancora: «È importante ricordare ciò che avvenne, per conservare l’ammirazione e la gratitudine che il paese deve alle vittime di quel terribile delitto. Soprattutto per riconoscere l’enorme debito di verità e giustizia che ancora oggi abbiamo verso le vittime e i loro familiari». Un debito, dice, «che impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità e di evitare la retorica e la ritualità di celebrazioni che, seppure sentite e commosse, inevitabilmente rischiano di esacerbare il dolore di chi non può non guardare con diffidenza e fastidio alle formali promesse di impegno succedutesi negli anni».
LA POSIZIONE DELLA FAMIGLIA
Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso, in una lunga intervista all’Espresso uscita qualche settimana fa, ha spiegato che non avrebbe partecipato alle commemorazioni. Posizione che la famiglia porta avanti da anni: «Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere.
La piena consapevolezza di questo l’ho avuta quando le prime sentenze hanno documentato l’esistenza del più grande depistaggio nella storia della Repubblica italiana oggi noto a tutti, quello relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio, per la quale era stato costruito un finto pentito ed erano stati condannati degli innocenti». La moglie di Borsellino, Agnese Piraino Leto (sua madre), ha ricordato, «aveva rifiutato i funerali di stato. Allo stesso modo, noi figli abbiamo deciso di non partecipare mai più a cerimonie e celebrazioni di stato finché non sarà chiarito, anche fuori dai processi penali, tutto quello che è accaduto».
La famiglia chiede altro: «Per me fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole».
Melillo: «Le mie pubbliche scuse per il depistaggio e gli errori sul delitto Borsellino». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 18 luglio 2022.
Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia dal 4 maggio scorso: che senso ha celebrare, trent’anni dopo, l’anniversario della «È importante ricordare ciò che avvenne, per conservare l’ammirazione e la gratitudine che il Paese deve alle vittime di quel terribile delitto. Soprattutto per riconoscere l’enorme debito di verità e giustizia che ancora oggi abbiamo verso le vittime e i loro familiari. Un debito che impone di lavorare in silenzio e con serietà per placare quella sete insoddisfatta di verità e di evitare la retorica e la ritualità di celebrazioni che, seppure sentite e commosse, inevitabilmente rischiano di esacerbare il dolore di chi non può non guardare con diffidenza e fastidio alle formali promesse di impegno succedutesi negli anni».
La sua sembra una risposta ai figli di Che cosa può dire ai familiari del magistrato e degli agenti uccisi, su quello che una sentenza ha definito «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiani», dopo l’assoluzione e le prescrizioni nel processo ai poliziotti accusati di calunnia? «A prescindere dalle responsabilità dei singoli, che si possono valutare soltanto nelle sedi istituzionali, per la responsabilità della mia funzione non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori, ma anche per le superficialità e persino le vanità che hanno ostacolato la ricerca della verità sulla strage. Sono scuse che porgo con rispetto e profonda consapevolezza ai familiari delle vittime e alle persone che, innocenti, sono state trascinate nel baratro della condanna per quel delitto. Gli uni e le altre sanno assai meglio di noi che il tempo non lenisce quelle ferite, se tante domande restano senza risposta».
Si poteva arrivare prima a scoprire le bugie smascherate dal pentito Spatuzza solo nel 2008? «Nessuno può dirlo con certezza. Però non c’è dubbio che la scelta di Spatuzza di collaborare con la giustizia fu per anni frenata dal timore di ritorsioni e vendette di Cosa Nostra. Non bisogna dimenticarlo. Anche per non rischiare di perdere di vista l’importanza, assolutamente fondamentale nel contrasto alle mafie, dello strumento dei collaboratori di giustizia, per cui tanto si spese Giovanni Falcone. Anzi, da tempo è matura l’esigenza di assicurare al sistema di protezione dei collaboratori reali standard di modernità ed efficienza; ancora oggi, ad esempio, per un’inerzia legislativa davvero incomprensibile, manca una disciplina dei documenti di copertura che impedisca, come purtroppo è accaduto, che una cosca mafiosa rintracci il collaboratore che ne ha svelato i delitti attraverso mirati accessi abusivi alle informazioni dei sistemi sanitari, previdenziali e fiscali».
Ma proprio il depistaggio sul delitto ha mostrato i rischi di un cattivo uso del pentitismo. «In generale, proprio il valore essenziale di quello strumento rende ancora più importante la responsabilità della magistratura di assicurare un rigoroso controllo della sua applicazione. Ciò richiede elevata professionalità, rigore metodologico e profonda conoscenza della natura e delle dinamiche dei fenomeni mafiosi. A partire dalla raccolta delle dichiarazioni del collaboratore».
Ci sono analogie tra quanto accaduto per la strage di via D’Amelio e altre pagine oscure della storia giudiziaria italiana? «Abbiamo bisogno di riflettere a fondo su ognuna di quelle che lei chiama “pagine oscure”. Il prossimo anno, ad esempio, sarà l’occasione per ricordare, quarant’anni dopo, la strage mafiosa nella quale perse la vita Rocco Chinnici, cui tanto deve l’esperienza del pool antimafia di Palermo, ma anche per riflettere sull’emblematica storia di Enzo Tortora. I delicatissimi poteri affidati a magistratura e apparati di polizia a fini di giustizia esigono, per ricevere una “giustificazione sociale”, la più scrupolosa osservanza delle regole e delle garanzie individuali. Un generale ripudio della tentazione di coltivare immagini edulcorate e a tutto tondo di sé, assegnandosi sempre e solo ruoli benefici e salvifici, aiuterebbe a evitare ogni affievolimento di quel ruolo di garanzia dei diritti e della legalità processuale, innanzitutto nella fase delle indagini, che fonda l’indipendenza della magistratura, e in particolare del pubblico ministero. Ma bisogna evitare anche rischi contrapposti».
Ad esempio? «L’uso politico strumentale dell’errore giudiziario e persino della fisiologica diversità delle pronunce giudiziarie traspare spesso nelle proposte di comprimere le prerogative processuali del pubblico ministero, indebolendone la responsabilità nella direzione delle indagini. Che resta essenziale, anche per evitare che la giustizia torni, come in un tempo non troppo lontano, a scorrere solo lungo i binari tracciati dai mattinali delle questure».
Che cosa resta da scoprire sulle «Obiettivamente, molto. Sin dal primo momento fu drammaticamente chiaro che le stragi rivelavano disegni e relazioni criminali difficilmente riconducibili alle sole strategie di un’organizzazione schiettamente criminale come Cosa Nostra. Basti ricordare le parole che il presidente del Consiglio Ciampi pronunciò dinanzi alle Camere riunite dopo i simultanei attentati del luglio ’93, additando la responsabilità di “una torbida alleanza” di forze eterogenee, ma con comuni obiettivi di destabilizzazione politica. Molti elementi, anche di recente acquisizione, sembrano indicare quello scenario anche in relazione ad altri non meno gravi delitti, la ricostruzione dei quali esige però ancora grande impegno ed un estremo rigore nelle valutazioni del materiale indiziario; anche perché ogni tentativo mal riuscito allontana la formazione di prove affidabili. In questa prospettiva, stiamo definendo un’apposita intesa con il Dis per rendere concretamente accessibili ai magistrati che indagano tutti i documenti dei servizi segreti versati all’Archivio di Stato, in attuazione delle direttive politiche, da ultimo del presidente Draghi, sulla declassificazione delle informazioni di intelligence sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia repubblicana».
Che cosa può e intende fare la Procura nazionale per aiutare ancora in corso? «La Dna deve garantire l’impulso e l’effettivo coordinamento delle indagini che da tempo impegnano le Procure di Caltanissetta, Firenze, Palermo, Roma, Reggio Calabria e Catanzaro. Siamo dunque impegnati ad assicurare la tempestiva condivisione delle informazioni e l’opportuna concertazione delle iniziative dei vari uffici, anche attraverso l’applicazione ad alcune di quelle indagini di magistrati della Dna, secondo un modello di integrazione degli indirizzi investigativi che va consolidato e va potenziato. Anche per evitare aporie, contraddizioni e tensioni, che sono incomprensibili all’opinione pubblica e capaci di minare la credibilità e l’efficacia della nostra azione. Tuttavia, va riconosciuto che la grandissima parte dei pm italiani ha da tempo imparato a lavorare insieme, interiorizzando la cultura del coordinamento. Confido che ciò renderà più efficace il nostro sforzo di lavorare accanto alle Procure distrettuali per sostenerne e valorizzarne l’impegno, rifuggendo dai rischi di approcci autoritari e autoreferenziali».
Borsellino: «Grati per le scuse, ma chi ha sbagliato sia fuori dalle indagini». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 19 luglio 2022.
Nella città che celebra uno dei suoi martiri antimafia, le magliette indossate da bambini e ragazzi che al tempo della strage non erano nati lanciano un messaggio di speranza: «La memoria di ieri per i cittadini di oggi. Borsellino 2.0». In via D’Amelio, il luogo dell’eccidio, a decine sfoggiano questo slogan, insieme ad altri (del movimento «Agende rosse») che suonano più agguerriti: «Trent’anni senza verità e giustizia», «No cerimonie di Stato per stragi di Stato».
Il 30mo anniversario
Mai come quest’anno omaggio (alle vittime) fa rima con depistaggio, a pochi giorni dalla sentenza che ha certificato il contributo di almeno due poliziotti dell’epoca al falso pentimento del falso mafioso Vincenzo Scarantino, accusa oggi dichiarata prescritta; ma non sono certo loro gli ideatori, né i mandanti delle prove manipolate. Lo spiega l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, primogenita del magistrato assassinato, e di fatto rappresentante legale della famiglia. Sia nei processi in cui è stato legale di parte civile, sia nel giorno in cui i figli di Borsellino hanno deciso di disertare le cerimonie ufficiali; solo Manfredi, funzionario di polizia, è andato alla caserma dell’ufficio scorte dove il capo del Dipartimento Lamberto Giannini ha deposto una corona di fiori sulla lapide che ricorda i cinque agenti caduti nella strage: Agostino Catalano, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina e Vincenzo Li Muli.
Il depistaggio
«Non sono quei due imputati i primi responsabili del depistaggio», dice l’avvocato Trizzino che fa una rapida apparizione in via D’Amelio riepilogando le manovre cominciate ben prima del finto pentimento di Scarantino: «Subito dopo l’esplosione viene fatta sparire l’agenda rossa, poi si ipotizza che la Fiat 126 trasformata in auto-bomba sia stata riempita di tritolo nello stesso garage in cui era stata rubata la targa applicata alla macchina. C’è un’osmosi di veline tra Squadra mobile e Sisde sull’identificazione degli autori del furto dell’auto e del luogo in cui sarebbe stata custodita, e si arriva al futuro questore Arnaldo La Barbera che, riconsegnando la borsa di Paolo, dice a mia moglie Lucia che l’agenda rossa non c’è perché non c’era».
Sono tutti anelli di un’unica catena, sostiene il marito di Lucia Borsellino, che per sedici anni ha legato l’attentato di via D’Amelio a una falsa verità costruita dagli investigatori e avallata dai pubblici ministeri e poi dai giudici di primo e secondo grado di Caltanissetta, fino a quelli della Cassazione. Per questi errori tramutatisi in depistaggio, dopo trent’anni, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha chiesto pubblicamente scusa ai familiari di Borsellino e agli innocenti condannati all’ergastolo, scarcerati dopo 17 anni di detenzione. «Un atto di sensibilità umana e istituzionale di cui siamo grati — commenta Trizzino — e che altri avrebbero dovuto compiere prima. Penso però che la magistratura debba fare un passo ulteriore, trovando dei meccanismi per cui chi è stato coinvolto, anche in buona fede, in quelle indagini inquinate e inquinanti non siano più investiti in futuro delle indagini sulla strage. Quegli inquirenti hanno avuto la loro occasione, hanno fallito, ora devono lasciare il campo a chi può guardare e leggere con occhi diversi quelle carte».
Il «pentito» Scarantino
Le parole dell’avvocato sembrano indicare un nome e un cognome: il pubblico ministero Nino Di Matteo, che a Caltanissetta partecipò alle indagini su via D’Amelio al tempo del falso pentito Scarantino e che, dopo l’esperienza al Csm che terminerà in autunno, da sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia potrebbe tornare ad occuparsene con il «gruppo stragi» di cui faceva parte. «Di Matteo è l’ultima persona di cui penserei male a questo mondo — chiarisce l’avvocato —, ma non possiamo ignorare conflitti d’interessi anche solo ipotetici. E del resto lui nel 2009, da pm di Palermo, mostrava perplessità sull’attendibilità del pentito Spatuzza che sconfessava Scarantino, e che invece era considerato già credibile dai suoi colleghi di Caltanissetta. Ci vogliono menti libere per andare avanti nelle indagini. Del resto se un chirurgo sbaglia un’operazione a un ginocchio, trent’anni dopo non mi faccio operare da lui all’altro ginocchio, mi pare una considerazione di senso comune».
«Bugie e verità»
Nel 2018, prima di farne parte, lo stesso Di Matteo (unico tra gli inquirenti di allora) è stato ascoltato dal Csm, in seduta pubblica su sua richiesta, dove ha rivendicato l’estraneità ai depistaggi e un ruolo minino nella gestione di Scarantino, puntando il dito su chi «l’ha imboccato mescolando bugie e verità» e lamentando le «campagne di disinformazione» orchestrate per «strumentalizzare la sacrosanta ansia di verità» della famiglia Borsellino. Parole che non hanno evitato il cortocircuito tra due posizioni oggi tanto distanti quanto stridenti, in una celebrazione inevitabilmente segnata da assenze e polemiche. Nonostante le magliette sfoggiate da bambini e ragazzi.
L'ultimo oltraggio a Borsellino. Felice Manti il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.
A trent'anni dalla morte (annunciata) di Paolo Borsellino e della sua scorta, la verità è nascosta in una prigione di carta composta da "errori e omissioni, superficialità e vanità".
A trent'anni dalla morte (annunciata) di Paolo Borsellino e della sua scorta, la verità è nascosta in una prigione di carta composta da «errori e omissioni, superficialità e vanità», stando alle parole del Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo. L'elenco di chi ha oltraggiato con la sua superficialità e la sua vanità la morte del magistrato, dilaniato in via D'Amelio sotto casa della mamma il 19 luglio del 1992, è sterminato. Eppure, a distanza di 30 anni, nessuno ha il coraggio di metterli in fila, questi «errori e omissioni» di cui parla Melillo, chiedendo scusa ai familiari.
C'è stato un depistaggio? Sì. Chi ne è stato vittima sono i pm, che hanno abboccato alle balle colossali di Vincenzo Scarantino, imbeccato da qualcuno neanche troppo bene e che però ha ingannato per anni stuoli di magistrati, a partire da Antonino Di Matteo. Che contro l'assoluzione del falso pentito ha fatto più volte appello. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Come diabolico è continuare a instillare il dubbio che dietro le stragi che hanno insanguinato la Sicilia ci sia Silvio Berlusconi, come ancora ieri insisteva il Fatto. Se depistaggio c'è Stato, con la S maiuscola, non poteva esserne Berlusconi il beneficiario né il mandante occulto. Sono altri politici, altri partiti, altre cariche dello Stato a incassare il dividendo di quelle stragi. Lo dice la logica, lo dice la Storia con la stessa S maiuscola, lo dicono alcune sentenze - che hanno fatto a brandelli alcuni traballanti castelli accusatori - eppure ancora oggi a Firenze e in altre Procure su e giù per lo Stivale c'è ancora chi insegue questi fantasmi. Come si fa a prendersela (invano) con tre poliziotti senza indagare su tutta la filiera di comando che potrebbe averli istruiti? Ancora oggi andiamo dietro alle fantasie di pentiti con la memoria ritrovata, che dicono cose inverosimili eppure finiscono sui libri e nei talk show. Ah, la vanità. Se un decimo delle risorse messe in campo soltanto per danneggiare un avversario politico fossero state spese per la ricerca della verità sulla strage oggi piangeremmo un magistrato morto lanciando sulle sue spoglie fiori di verità. E invece l'abbiamo lasciato solo. Anche ieri, come ha preteso la famiglia.
Se Melillo vuole davvero fare chiarezza come dice, provi a cercare la risposta a queste semplici domande: ancora oggi non si sa come fecero a sapere dell'arrivo di Borsellino, inaspettato e imprevedibile. Chi avvisò il commando che piazzò la 126, che disponeva da mesi di telefonini clonati, come scoprì Gioacchino Genchi? Dove fu azionato il telecomando? È vero che, secondo quanto riferisce un dispaccio confidenziale dell'ambasciata di Roma del primo giugno del 1992, Borsellino era stato incaricato di partecipare alle indagini su Falcone? È vero che il 30 maggio Liliana Ferraro a Palermo avrebbe dovuto informare Borsellino di questa decisione, come risulta nell'agenda grigia dalle 18.30 alle 19.30 con il memo «Morvillo (L. Ferraro)», pubblicata su Il Giornale? La morte è collegata al dossier mafia e appalti, frettolosamente archiviato a Palermo dal pm Roberto Scarpinato alla vigilia dei funerali del giudice?
Nessuno pagherà per la strage di via D’Amelio, ma l’Italia è troppo scossa dal dramma Totti-Blasi per indignarsi. Antonio Scarpata il 14/07/2022 su Notizie.it.
Nessuno pagherà per la strage di via D’Amelio, ma l’Italia è troppo scossa dal dramma Totti-Blasi per indignarsi
Il 1992 è in balia della corrente, si allontana lento ma inesorabile, trascinando nell'oblio tutti i misteri di uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica.
“Non parteciperemo agli anniversari di via D’Amelio. Ci asterremo fino a quando lo Stato non ci spiegherà cos’è accaduto davvero“. Così Fiammetta Borsellino, figlia del giudice assassinato insieme alla sua scorta, ha annunciato la volontà di disertare tutte le cerimonie previste in ricordo del padre.
Avreste il coraggio di darle torto? A maggior ragione ora, che da poche ore il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse per due dei tre poliziotti imputati di aver depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio. I due, accusati di calunnia con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, avrebbero indotto e forzato le false confessioni di Vincenzo Scarantino, l’uomo che nel 1992 mentì sulla sua partecipazione all’attentato, dando luogo a un depistaggio che avrebbe portato alla condanna di persone innocenti.
In altre parole, come troppo spesso accade, anche stavolta nessuno pagherà. Vite e destini annientati da quella prescrizione che nessuno, dalle parti di Roma, ha mai avuto davvero intenzione di riformare.
“A parte che ho ancora il vomito per quello che riescono a dire, non so se son peggio le balle oppure le facce che riescono a fare“. Così dice Ligabue e noi conosciamo fin troppo bene che tipologia di faccia occorra per riempirsi la bocca di Falcone e Borsellino, per sfoggiarli su t-shirt e mascherine, per poi sostenere un referendum come l’ultimo aberrante sulla giustizia.
Una chiamata alle urne dove (alla faccia di chi proprio come Borsellino diceva che “un politico in odor di mafia, anche se non condannato, non va candidato“) sono stati in grado di chiederci di abolire la legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza da ruoli politici per le persone condannate, tra gli altri, proprio per reati di mafia e terrorismo.
E anche se non è andata come lor signori avrebbero voluto, non possiamo spacciare per una nostra vittoria il mancato raggiungimento del quorum. Dei leader politici veri, degni di questo nome, non avrebbero mai strizzato l’occhio all’astensionismo, ma invitato apertamente e senza paura a votare contro, toccando le corde giuste. Un Paese con un minimo di memoria storica avrebbe dunque sotterrato il quesito sulla Severino sotto milioni di “no”, in onore degli eroi che hanno dato la propria vita nella lotta alla criminalità organizzata e alle sue perverse ramificazioni nei palazzi del potere.
La sete di verità da noi è fonte inesauribile di frustrazione, la ricerca di giustizia in Italia è un’eterna lotta contro i mulini a vento, dove chi vuole sopravvivere spesso deve farlo da solo, destreggiandosi tra menzogneri di professione, politicanti da passerella e indifferenti cronici. E ogni 23 maggio, così come tutti i 19 luglio, sfumano i confini tra social e vita reale: su quella passerella tanto cara a chi si nutre di salotti, voti e sondaggi, a sfilare, puntuali, sono sempre e solo parole vuote, quelle dal like facile. Dai microfoni e dagli smartphone sgorgano i soliti patetici appelli a “non dimenticare”, quelli con scadenza a 24 ore.
Il 1992 è in balia della corrente, si allontana lento ma inesorabile, trascinando nell’oblio tutti i misteri di uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica. 30 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio: avremmo potuto, avremmo dovuto presentarci meglio a questo triste appuntamento. C’era chi nutriva una speranza, c’era ancora chi aspettava una sentenza che restituisse dignità al dolore di appartenere a un Paese che continua imperterrito a nascondere la parte migliore di sé.
Non tutti sanno che subito dopo l’attentato, Lucia Borsellino, l’altra figlia di Paolo, volle a tutti i costi vedere ciò che era rimasto del padre e che non si limitò a questo. Decise di ricomporlo e infine lo vestì all’interno della camera mortuaria. Poche ore dopo avrebbe sostenuto un esame universitario, lasciando incredula l’intera commissione.
Dobbiamo ammetterlo. Avremmo un po’ tutti bisogno di mettere da parte, anche solo per un attimo, la separazione tra Totti e Ilary Blasi o le avvincenti lezioni di una perfetta sconosciuta che vuole insegnarci a parlare in corsivo e ritrovare quella voglia di saperne di più. Di mettere insieme i pezzi mancanti, di focalizzarci sugli “influencer” che contano davvero, semplicemente di imparare dalla dignità disarmante e dalla forza di Lucia Borsellino.
Nessuna verità a 30 anni dall'uccisione. Strage di via D’Amelio, storia del più grande depistaggio di Stato e di un processo che non s’ha da fare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Luglio 2022.
Nessun responsabile per il più grande depistaggio di Stato della storia. Questo processo non lo vogliono proprio fare. E questa è vera mafia. La mafia delle complicità che, attraverso la tortura, ha costruito un fantoccio che inventasse una verità di comodo, una qualunque sulla strage di via D’Amelio e sui perché dell’uccisione di Paolo Borsellino. Il fantoccio, una vittima pure lui alla fine, si chiama Vincenzo Scarantino. Ma poi ci sono gli altri, fantocci e mandanti di una storia lunga trent’anni. Ci sono quelli che lo hanno preso, strattonato, minacciato e torturato. Poi gli altri che gli hanno voluto a ogni costo credere mentre lui ripeteva a paperetta quel che altri gli avevano scritto sui foglietti o infilato in gola. E tutti quelli che non hanno voluto controllare neanche se un tipo che si autoaccusava di aver imbottito di tritolo un’auto in un certo garage, almeno avesse mai visto il luogo. Se sapesse come aprirne la porta.
La curiosità, la grande assente nella storia di questi inquirenti. E’ bene sempre ricordarne i nomi: Anna Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo. Si sono mai domandati questi bravi magistrati per esempio come mai di quel sopralluogo nel garage dove fu accompagnato Scarantino non esisteva neanche un verbale? E perché nessuno dei tre pm ha avuto la curiosità di parteciparvi? Certo, il regista di quelle indagini condotte con quei metodi fu Arnaldo La Barbera, un poliziotto abile che fu chiamato a Palermo a dirigere il gruppo d’indagine “Falcone e Borsellino” e che ci costruì la propria carriera, diventando subito dopo questore di Palermo. Certo, il meno curioso è stato sicuramente il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, mostratosi sordo anche alle segnalazioni di Ilda Boccassini. Ma il cerchio non si può chiudere qui. E non solo perché i due non ci sono più. E neanche ci si sarebbe potuti accontentare (lo diciamo per la famiglia Borsellino e per gli innocenti calunniati) delle condanne dei collaboratori di La Barbera, il dirigente del gruppo “Falcone e Borsellino” Carlo Bò e l’ispettore Luigi Mattei.
La sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha registrato la prescrizione del reato di calunnia, non ne ha dichiarato l’estraneità al depistaggio, quindi, un punto fermo l’ha messo: anche per la nostra malandata giustizia qualche comportamento doloso nella costruzione del fantoccio c’è stato. Leggeremo le motivazioni. Ma questo processo è arrivato in tribunale portando sulle spalle due pesanti zavorre. La prima è quella del tempo, perché si è cominciato a indagare solo dopo il deposito degli atti del processo “Borsellino quater” e le rivelazioni del “pentito” Gaspare Spatuzza, il quale per esempio di quell’auto imbottita di tritolo e di quel garage aveva potuto parlare con cognizione di causa perché lui, lui sì, c’era stato. Ritardo doloso, comunque. La seconda zavorra è frutto di quell’ossessione che si chiama “antimafia”. Perché la procura di Caltanissetta ha voluto a tutti i costi contestare agli imputati anche l’aggravante mafiosa. Che è, pur se transitata indenne dalle mani del gup, ovviamente, crollata subito al primo grado di giudizio.
Ma veramente questi pubblici ministeri hanno pensato anche solo per un attimo che questi poliziotti avessero costruito il fantoccio Scarantino in combutta con i boss di Cosa Nostra? Che si fossero impicciati di cose di mafia fino al punto di cercare di incastrare quelli della Guadagna per proteggere i fratelli Graviano? Tutti questi bravi magistrati avrebbero fatto meglio prima di tutto a studiare un po’ di storia politica di quegli anni in cui furono compiute le stragi, con i governi che si succedevano di corsa, con i ministri di giustizia che cadevano come birilli e la prima repubblica che si spegneva a suon di bombe. Avrebbero forse capito anche l’urgenza che avevano a livello istituzionale di trovare subito qualche responsabile.
In quel momento Cosa Nostra, se pur sconfitta dal maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, era ancora vincente perché i capi erano tutti latitanti. E sarebbe stato meglio, per la magistratura e per lo Stato, cercare i responsabili “giusti” delle bombe, senza la fretta di dare in pasto all’opinione pubblica qualche pezzo di carne da sacrificare. Come sta accadendo di nuovo, visto che il tribunale di Caltanissetta ha trasmesso alla procura della repubblica le deposizioni di quattro testimoni, tutti poliziotti che avrebbero giurato il falso per aiutare i colleghi imputati. Allora, ricominciamo daccapo?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La sentenza sul falso pentito Scarantino. Depistaggio della strage di via D’Amelio, non sapremo mai chi è stato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Luglio 2022.
Cade l’aggravante mafiosa, ed è giusto. Così il reato di calunnia semplice è prescritto, ma uno dei tre agenti accusati di depistaggio, Michele Ribaudo, è anche assolto. Nulla di scandaloso, nella sentenza pronunciata ieri sera dal Presidente del tribunale di Caltanissetta, alla presenza di Lucia e Manfredi (Fiammetta lontana dalla Sicilia), due dei tre figli di Paolo Borsellino, dopo nove ore di camera di consiglio. Ancora una volta una procura esce sconfitta da un processo di mafia, anche se in realtà non in senso stretto. Proprio perché le cosche non c’entravano niente, nel più grande depistaggio di Stato, quello della costruzione a tavolino di un finto pentito, Enzino Scarantino. Depistaggio che non aveva la finalità di aiutare Cosa Nostra, questo è sicuro. Questo è stato l’errore della procura di Caltanissetta, ed è sempre il solito, quello di vedere mafia dappertutto. Per poi perdere l’occasione di un pezzettino di verità e di giustizia.
Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (in aula erano presenti solo gli ultimi due) erano accusati di calunnia, ma soprattutto, sospetto infamante, con l’aggravante di aver favorito la mafia, con i loro comportamenti. Un processo di cento udienze, iniziato nel novembre 2018, che è diventato simbolico, da quando si è capito che solo di lì poteva emergere un po’ di verità, un pezzetto di giustizia. Tanto che nell’aula del tribunale di Caltanissetta, davanti al Presidente Francesco D’Arrigo, a rappresentare la pubblica accusa non ci sono soltanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, che hanno chiesto condanne severe, 11 anni e 10 mesi per Bo, 9 anni e mezzo ciascuno per gli altri due. Non fa mancare la sua presenza, nei giorni della requisitoria, lo stesso capo della procura Salvatore De Luca. Sono qui, aveva detto, per testimoniare la presenza dell’intera Procura. Anche lui però, aveva finito per scaricare ogni responsabilità solo sui “pesci piccoli”.
Ma non era il più grande depistaggio di Stato? I magistrati, tutti innocenti, dunque? Ecco il capolavoro del Procuratore De Luca, successore di Tinebra: «Non si tratta di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia». Si spara alto, dunque, per non perdere il vizio di dare del mafioso a chicchesia, ma poi si mette il silenziatore, puntando il dito solo sui tre poliziotti, che avrebbero fatto tutto da soli, magari insieme allo “sbirro” morto La Barbera. Ma non alla toga morta Tinebra. Né ai vivi della Procura di Caltanissetta che “gestirono” il pentimento e il pentito, e neanche a tutti quelli che avrebbero potuto far scoppiare il bubbone già trent’anni fa. Sarebbe sufficiente prima di tutto far mente locale su quegli appunti scritti con grafia femminile che Scarantino teneva in mano quando doveva andare a testimoniare, dopo esser stato chiuso per ore negli uffici con i pubblici ministeri. Anche con lo stesso Tinebra, ha detto Ilda Boccassini. Chi gli dava l’imbeccata? Nessuno, e forse la grafia femminile è quella della moglie. Ma ci sono stati i ruoli attivi e anche quelli passivi.
Innocenti, nessuno. Basterebbe ricordare quel che disse Antonio Ingroia nella sua veste di testimone in aula nel dicembre 2021, e poi ancora nel maggio scorso davanti alla commissione antimafia siciliana. Quando ricordò come, da giovane pm palermitano, fosse stato incaricato di sentire quel “pentito” e le cose che aveva da raccontare su Bruno Contrada e su Silvio Berlusconi come “narcotrafficante”. Il magistrato era andato, e si era reso conto subito del fatto che Enzo Scarantino diceva cose a casaccio, che inventava. Così lasciò perdere. Ci ponemmo il problema, come Procura palermitana, ha poi aggiunto, se aprire un fascicolo nei suoi confronti per il reato di calunnia, ma “c’era il rischio che se si incriminava per calunnia questo pentito si sarebbe innescata una guerra”. Era dunque così importante, questo ragazzotto. Ma per chi? Chi avrebbe innescato un clima di guerra se qualcuno avesse osato toccarlo? La procura di Caltanissetta? E perché? Il giovane Ingroia era uno dei tanti che avrebbero potuto smascherarlo trent’anni fa. Non lo ha fatto.
Il capitolo Ilda Boccassini, che con il collega Roberto Saieva nel 1994 fiutò da subito l’imbroglio, entra ed esce dalle cronache come un fiume carsico. Ma solo di recente, ed è un peccato, come ha ricordato indignata Fiammetta Borsellino, che sui media non se ne sia parlato allora, quando lei e il suo collega avevano inviato una relazione al procuratore di Caltanissetta Tinebra e in copia agli uffici di Palermo retti da Giancarlo Caselli. Siamo nel 1994, a due anni dalla strage. Si sarebbe potuto fare allora quel che si è cominciato trent’anni dopo. Denunciare pubblicamente la costruzione a tavolino del “falso pentito”. Boccassini avrebbe potuto. Caselli avrebbe potuto. Ma anche Ingroia. E anche Di Matteo, che invece difese la genuinità della testimonianza di Scarantino anche pubblicamente in un’aula di tribunale. E il procuratore di Palermo, insieme alle massime autorità, dal pg fino al questore e al prefetto –non ci stancheremo mai di ricordarlo- in una conferenza stampa non solo valorizzò l’indifendibile reputazione di Arnaldo La Barbera, ma disse anche che coloro che mettevano in dubbio la parola di Scarantino stavano dalla parte della mafia. Tra questi “amici dei mafiosi” c’era anche qualche parlamentare.
Se dobbiamo credere alla buona fede di tutti loro, di chi non parlò pubblicamente, così come di chi al contrario parlò solo per mettersi al fianco dei depistatori, facciamo fatica a prestare orecchio a quel che si è sentito ieri nell’aula da parte dei difensori dei tre imputati. Che hanno insistito nel descrivere un picciotto tossicodipendente della Guadagna con la terza elementare, come unico organizzatore e realizzatore del “più grande depistaggio dello Stato”. Ci rendiamo conto che stiamo parlando degli anelli finali della catena, anche se non proprio gli ultimissimi, visto che, per l’esperienza diretta di quegli anni nelle carceri di Pianosa dove fu costruito il “pentimento” di Scarantino, di agenti di polizia penitenziaria “pacifisti” non ne abbiamo proprio incontrati. Le torture ci furono e non le commise di certo personalmente La Barbera. Per ora abbiamo visto sul banco degli imputati solo persone accusate di calunnia.
Ma abbiamo un tarlo, e ci domandiamo: tutti i magistrati che hanno incontrato in quei giorni Enzo Scarantino e altri finti pentiti di serie B che avevano fruito del “trattamento Pianosa”, li hanno sempre trovati integri, nel corpo e nello spirito? La dottoressa Annamaria Palma e il dottor Carmelo Petralia, che sono stati prosciolti dall’accusa di calunnia e salvati da un Csm distratto e in cui “aleggiava”, come ha scritto Luca Palamara, il nome di Di Matteo che rendeva improponibile qualunque curiosità su quei fatti, hanno sempre tenuto le palpebre abbassate? Lo interrogavano con le bende sugli occhi e gli orecchi chiusi? Sarebbe bastato un piccolo sospetto su un occhio tumefatto, su una “caduta dalle scale”, per intuire quel che stava succedendo. Senza dover arrivare all’omertà di Stato che è partita dalle torture nelle segrete di Pianosa per arrivare al Csm e ai procuratori generali. Per poi atterrare ieri nell’aula del tribunale di Caltanissetta con un pugno di mosche in mano. Nemmeno la verità storica.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
A 30 anni dalla strage. Depistaggio su Borsellino, fuori tutti i nomi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Luglio 2022
Caro Direttore,
condivido interamente gli articoli che sulla questione del depistaggio del processo Borsellino ha pubblicato Tiziana Maiolo e l’intervista rilasciata dalla figlia di Borsellino che sull’argomento sta conducendo una grande battaglia. Però per evitare che tutto rimanga sul generico perché non partiamo da un dato certo e cioè che uno dei protagonisti principali del depistaggio fu il questore La Barbera, altro che poveri agenti di pubblica sicurezza rimasti alla fine in un processo farsa.
Ora La Barbera non era un personaggio di poco conto, era a un uomo di punta della polizia di stato tant’è che lo ritroviamo a far danni anche alla Diaz durante il G8 di Genova. Possibile che chi dirigeva allora la polizia di stato non ha nulla da dire sul ruolo svolto da un personaggio fondamentale all’interno della pubblica sicurezza in quella fase?
Fabrizio Cicchitto
Giustizia negata persino a Borsellino. Claudio Brachino il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.
Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l'ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino
Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l'ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino. La sentenza del tribunale di Caltanissetta smentisce la tesi dell'omonima procura, da un depistaggio gigantesco e inaudito siamo passati a tre ex poliziotti a cui non viene riconosciuta l'aggravante mafiosa, uno assolto e per due calunnie in prescrizione. Erano imputati di aver spinto il controverso pentito Scarantino a formalizzare le bugie che hanno mandato in carcere degli innocenti e ci hanno allontanato per anni dalla verità. E proprio la verità sembra la grande assente di questo anniversario importante, trent'anni dalla strage di Capaci, un anniversario in cui chi sa dovrebbe dire qualcosa, in cui si dovrebbe fare un passo in avanti rispetto alle ombre che hanno accompagnato errori nelle indagini e inchieste sbagliate. Non voglio tirar dentro questa polemica i familiari delle vittime, il cui bisogno di verità rimane ineccepibile al di là delle tifoserie ideologiche. Il depistaggio, che ha animato con veemenza per anni il circuito giustizialista nostrano, non ha trovato una dimostrazione formale giudiziaria. Gli addetti ai lavori in realtà non si attendevano nulla dal processo di Caltanissetta, con agli attori di primo rilievo già passati a miglior vita, dal questore la Barbera, al procuratore Tinebra, all'ex capo della polizia Parisi. Ripeto, dire che non ci sono state cose inquietanti in questa storia non si può. Il divieto di parcheggio non scattato sotto la casa della madre di Borsellino dove fu invece lasciata la 126 imbottita di tritolo, l'agenda rossa sparita, i troppi personaggi strani presenti sulla scena del crimine e arrivati troppo presto. Soprattutto l'aver creduto per anni più che a una versione a uno schema, che quello fosse un delitto di mafia semplice, per di più compiuto da cosiddetti pesci piccoli e poco strutturati. Come per Falcone la mafia fu committente e manovalanza, ma ancor più che in Falcone rimane uno iato, uno spazio tra la cronaca e la verità riempito dal mistero e dal buio. L'unica cosa formalizzata in sede giudiziaria è «l'ipotesi che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Sono parole che purtroppo vanno bene anche per altre tragedie italiane. Le ricostruzioni storiche sono una cosa, e ognuno in quello spazio nero indistinto può mettere servizi segreti, pezzi di Stato e di politica corrotti, massoneria, poteri forti internazionali. Poi però c'è la giustizia, che ha i suoi linguaggi, le sue necessità dimostrative, le sue verifiche, direbbe forse il grande investigatore Borsellino. Rileggendo la sua storia straordinaria di uomo e magistrato colpisce non tanto il livore dei suoi nemici, ma il non amore dei suoi colleghi, fino ad ostacolarne il lavoro e la serenità interiore, fino all'isolamento, come con Falcone. E un giudice che rimane solo, forse tradito come avrebbe confessato Paolo alla moglie prima della fine, è già con un piede nella morte, morale, prima dell'omicidio materiale. Giustizia non è stata fatta, mai, per Borsellino.
Borsellino, l'ultima beffa: nessuno pagherà per le indagini depistate. L'amarezza della famiglia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 12 Luglio 2022.
A trent'anni dalla strage di via D'Amelio, la prescrizione salva due poliziotti. Cade l'aggravante mafiosa, reato non più punibile. Assolto l'ex ispettore Michele Ribaudo
Lucia e Manfredi restano immobili mentre il presidente Francesco D’Arrigo legge la sentenza: «Il tribunale dichiara non doversi procedere nei confronti di Mario Bò e Fabrizio Mattei per i reati loro ascritti essendo gli stessi estinti per prescrizione». E, poi, ancora: «Assolve Michele Ribaudo dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato». Lucia e Manfredi, i figli del giudice Paolo Borsellino, ascoltano la sentenza e vanno via subito dal tribunale.
Depistaggio Borsellino, prescritte accuse per Bo e Mattei. Assolto Ribaudo. Valentina Mericio il 12/07/2022 su Notizie.it.
Il tribunale di Caltanissetta si è espresso sulle accuse di depistaggio delle indagini sulla morte di Borsellino. Due prescrizioni e una assoluzione.
Due prescrizioni e una assoluzione. Il tribunale di Caltanissetta si è espresso così sul caso di depistaggio delle indagini della strage di Via D’Amelio che ha portato alla morte del giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Per Mario Bo e Fabrizio Mattei è stata pronunciata la prescrizione.
Assolto Michele Ribaudo.
Depistaggio delle indagini per la morte di Borsellino: cade l’aggravante mafiosa
Stando a quanto viene riportato dal dispositivo della sentenza del processo sul depistaggio, la prescrizione del reato è stata attuata in quanto è decaduta l’aggravante mafiosa. Per ciò che riguarda invece il terzo imputato, il poliziotto Michele Ribaudo, il tribunale ha pronunciato l’assoluzione in quanto “Il fatto non costituisce reato”. Tutti e tre, inoltre, erano stati accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra.
Avrebbero in particolare obbligato Vincenzo Scarantino ad auto-accusarsi. Con quest’ultimo sono state accusate altre sette persone innocenti.
Il procuratore capo di Caltanissetta aveva chiesto al termine della requisitoria una pena di 11 anni e 10 mesi reclusione per Mario Bo. Per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, la condanna chiesta era di 9 anni e 6 mesi.
Il pubblico ministero Stefano Luciani, nella requisitoria del processo che si è tenuto a maggio 2022 aveva dichiarato: “La sparizione dell’agenda rossa, se sparizione c’è stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei […] La borsa di colore scuro di Paolo Borsellino giace per mesi sul divano di Arnaldo La Barbera. Fino alla data del 5 novembre del 1992 non è mai acquisita perché manca un verbale di sequestro”, sono le sue parole riportate da Blog Sicilia.
Borsellino e i depistaggi: prescritte accuse per due imputati, un assolto. Redazione Tgcom24 il 12 luglio 2022.
A una settimana dal trentesimo anniversario della strage di via d'Amelio, costata la vita al magistrato Paolo Borsellino e alla sua scorta, arriva la sentenza di primo grado. E scontenta quasi tutti: accuse prescritte e un'assoluzione. Un'altra occasione persa per arrivare alla verità e ancora tanti tasselli da aggiungere a quel pomeriggio tragico per l'Italia intera. Il Tribunale di Caltanissetta, dopo undici ore di camera consiglio, ha stabilito che il depistaggio delle indagini sull'attentato ci fu e che a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, oggi imputati. Ma la prescrizione, scattata per il venir meno dell'aggravante di mafia, li ha salvati dalla condanna. Mentre esce assolto "per non aver commesso il fatto" Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell'inchiesta sugli attentati del 1992.
La linea dell'accusa - Secondo la Procura, rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e avrebbe coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo ai tre poliziotti la Procura aveva imputato l'aggravante di aver favorito Cosa nostra, oggi caduta. "I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza", aveva detto la Procura durante la requisitoria. Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell'attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha consentito dunque di arrivare a una verità sulla fase esecutiva dell'attentato. E ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell'ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. Il processo di oggi nasce da qui. Un dibattimento durato quattro anni e cento udienze, fatto di decine di deposizioni e faldoni di migliaia di pagine. Un processo che ha riservato continui colpi di scena e ha fatto intravedere una regia e un piano preciso: inquinare le indagini. Un puzzle che è andato componendosi fino alla sentenza di oggi che, però, ancora una volta, non chiude il cerchio e non restituisce tutta la verità ai familiari delle vittime e all'Italia intera. Non commentano i figli del giudice Paolo Borsellino, Manfredi e Lucia, presenti alla lettura del dispositivo.
I legali della famiglia - Mentre è duro il loro legale, l'avvocato Fabio Trizzino. "È una sentenza rispetto alla quale è decisivo leggere le motivazioni, ma che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perchè sono fatti di 30 anni fa, ma l'elemento della calunnia resta", dice. Opposta la valutazione del legale di Mattei, l'avvocato Giuseppe Seminara che, riferendosi all'invio degli atti in Procura per calunnia per Scarantino, deciso dai giudici, sostiene: "Anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore".
Borsellino e la strage di via d’Amelio, la prescrizione salva i poliziotti accusati di calunnia. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.
Niente aggravante mafiosa per i funzionari imputati del processo per depistaggio: prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Michele Ribaudo è stato assolto
Reato prescritto, perché non c’è l’aggravante di avere favorito la mafia, per Mario Bo e Fabrizio Mattei, i poliziotti imputati di calunnia aggravata per aver indotto il falso pentito della strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino, a mentire accusando se stesso e altri innocenti di aver partecipato all’attentato che, il 19 luglio 1992, uccise Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Per il terzo agente, Michele Ribaudo, assoluzione piena perché il fatto non costituisce reato. È il verdetto del processo di primo grado sul depistaggio della strage, che porta con sé ulteriori strascichi per possibili false testimonianze di altri funzionari di polizia testimoni e nuove menzogne di Scarantino. Una sconfessione dell’impostazione della Procura di Caltanissetta che, dopo aver ristabilito un pezzo di verità smascherando la Grande Bugia che per 16 anni ha inquinato i processi sul delitto Borsellino, ha cercato di fare un passo avanti nell’interpretazione di quei fatti. Senza successo.
«Un ordinario agguato di Cosa Nostra»
Nonostante i tempi e le modalità con cui avvenne (un attentato terroristico a meno di due mesi dall’eccidio di Capaci che uccise Giovanni Falcone), la strage di via D’Amelio fu inquadrata dagli investigatori di allora in un ordinario agguato di Cosa nostra. Con la partecipazione di un piccolo malavitoso di borgata imparentato con un uomo d’onore, Scarantino appunto. Questo stabilirono le prime indagini e i primi verdetti, caso chiuso con le confessioni del sedicente ladro della Fiat 126 imbottita di tritolo e fatta esplodere davanti alla casa della madre del magistrato: quello Scarantino sconfessato solo nel 2008 da Gaspare Spatuzza, vero autore del furto dell’auto-bomba. Un depistaggio non direttamente collegato, ma ipoteticamente connesso, agli altri misteri legati alla morte di Paolo Borsellino. A cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa del magistrato, verosimilmente prelevata dalla sua borsa dopo l’attentato.
L’inchiesta deviata
«Le indagini hanno subito condizionamenti esterni e indebiti da parte di taluni degli stessi inquirenti — hanno scritto i giudici nell’ultima sentenza sull’attentato di via D’Amelio —, che hanno “forzato” le dichiarazioni dei primi pentiti in modo da confermare una verità preconfezionata e preesistente, pur rimanendo ignote le finalità perseguite». Arrivando a ipotizzare che «la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». La Procura di Caltanissetta è partita da queste conclusioni per contestare ai tre poliziotti l’aggravante di aver favorito la mafia con il depistaggio costruito attraverso Scarantino . Nella consapevolezza che i principali protagonisti dell’inchiesta deviata non ci sono più: dal questore Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, al procuratore Giovanni Tinebra, morto nel 2017, passando dall’ex capo della polizia Vincenzo Parisi che incaricò La Barbera e mandò da Tinebra l’ex poliziotto Bruno Contrada, dirigente di quel servizio segreto che puntellò la «pista Scarantino» accreditandolo di contiguità mafiose inesistenti o quasi. Pm e giudici che hanno avallato le indagini sbagliate, invece, sono stati prosciolti o — nella maggior parte dei casi — nemmeno inquisiti. «Ma non sono mai arrivate le scuse», ha accusato l’avvocato Fabio Trizzino a nome dei figli di Borsellino, che ora si rammarica: «È una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è». Cioè il riconoscimento della calunnia, ma con troppo ritardo «da parte dello Stato».
Il depistaggio
«Nessuno ha mai pensato di trovare la soluzione definitiva da questo processo», ha detto il pm Stefano Luciani aprendo la requisitoria con cui aveva chiesto condanne da 9 e mezzo a quasi 12 di pena. Partendo da un presupposto: «Scarantino ha recitato un copione come gli è stato detto di fare da La Barbera», aggiungendo il racconto di maltrattamenti e vessazioni per costringerlo ad accusare sette innocenti. Nonostante i difensori degli imputati di allora — a cominciare dall’avvocata Rosalba Di Gregorio, che in questo giudizio s’è trasformata in parte civile ed è costretta ad accontentarsi di «un altro pezzetto di verità» — avessero denunciato persino la «psicolabilità» del falso pentito. Ma Scarantino ha continuato a calunniare anche in questo processo accusando gli imputati che l’avrebbero costretto a mentire, hanno ribattuto i difensori dei poliziotti. In parte convincendo i giudici, che non hanno creduto alla prova della connessione con gli interessi della mafia. Ma il depistaggio c’è stato, sia pure prescritto. Le motivazioni della sentenza spiegheranno come e perché.
Processo Borsellino: prescrizione e assoluzione per i poliziotti, il depistaggio rimane senza autori. Nel primo grado del processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino: prescrizione per Mario Bo e Fabrizio Mattei, assoluzione per Michele Ribaudo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 luglio 2022.
Due prescrizioni e una assoluzione perché il fatto non sussiste, così si conclude in primo grado il processo per il depistaggio per la morte di Paolo Borsellino nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre poliziotti accusati di calunnia per aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. I reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto. Il Borsellino quater, ricordiamo, ha sentenziato che è stato messo in atto il più grande depistaggio della storia giudiziaria del nostro Paese. Ma con questa sentenza, sommandola all’archiviazione nei confronti dei magistrati che seguirono le indagini, si rimane senza colpevoli. Un depistaggio senza autori, quindi.
Ricordiamo che, durante la requisitoria, secondo il pubblico ministero Stefano Luciani, i tre imputati «hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi, che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende: non una condotta illecita di passaggio, ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera». E poi ha aggiunto: «È dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo, sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta». Ma con la sentenza di primo grado, tale reato – se c’è stato – è prescritto.
Rimangono così sospesi tanti punti interrogativi. Ricordiamo che a parere del procuratore Luciani ci sarebbero forti elementi a dimostrare «convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio, tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra, e ambienti esterni ad essa». Ma quali sarebbero stati questi ambienti? Il pm Luciani fa riferimento a ciò che disse l’ex boss Antonino Giuffrè pentito nel 2001. Cosa nostra, prima di deliberare le stragi di Capaci e Via D’Amelio aveva assunto dei contatti con soggetti esterni ad essa per sondare i loro umori. Giuffrè è stato preciso e il pm ha sottolineato di prestare attenzione agli ambienti di riferimento di cui parla il pentito. Ovvero imprenditori e una parte di politici. Di cosa si è parlato? «Hanno inciso profondamente – ricorda Luciani le parole di Giuffrè – in discorsi economici e in modo particolare il discorso degli appalti pubblici».
Il dato, tra l’altro riportato in tutte le sentenze sulle stragi, è che le stragi sono frutto di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e ambienti imprenditoriali e politici. Ma a facilitare la strage è stato anche il clima di isolamento nei confronti di Borsellino soprattutto dal suo ambiente lavorativo. Anche qui il pm Luciani è stato chiaro durante la requisitoria. I dati sono incontrovertibili. Sono tanti, a partire – così ha ricordato il pm durante la requisitoria – dalla testimonianza della moglie Agnese quando si riferì alla passeggiata sul lungomare senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, così riferì la moglie, «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ud ucciderlo della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere». Quindi i suoi colleghi ed altri avrebbero permesso che si potesse addivenire alla sua eliminazione. «E questa è la traduzione di quello di cui ha parlato Giuffrè, ovvero il clima di isolamento che crea le condizioni per arrivare ad eliminare il dottor Borsellino!», ha chiosato il pm Luciani.
Per Lipari con l’arrivo di Borsellino Giammanco avrebbe avuto problemi
Altro dato, ma è solo la punta dell’iceberg, è ciò che disse Pino Lipari in merito al trasferimento di Borsellino alla Procura di Palermo. Il pm Luciani ha ricordato le motivazioni della sentenza del quater: «Il pentito Angelo Siino ha riferito i commenti di Pino Lipari secondo cui l’arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a quel santo cristiano di Giammanco e cioè al procuratore della Repubblica con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti e incomprensioni dal punto di vista professionale che l’avevano determinato ad accettare l’incarico propostogli del ministero della giustizia». Ma perché il pm ha fatto riferimento a ciò? Si ritorna sempre agli ambienti esterni riferiti da Giuffrè. Ricorda che durante l’udienza del 2019, il pentito Brusca fece riferimento all’impresa Reale e tale azienda era proprio legata a Lipari. «Era un’impresa fallita, ma a un certo punto questa impresa riemerge e viene sponsorizzata da Salvatore Riina – ha spiegato il pm sempre durante la requisitoria – e messa nel giro dei grandi appalti: doveva essere lo strumento per creare il nuovo canale politico istituzionale: uno degli strumenti che venne individuato da Cosa Nostra quale possibile cerniera tra il mondo mafioso, quello politico di rilievo nazionale e imprenditoria di rilievo nazionale». E chi c’era dietro l’impresa reale come referenti per Cosa nostra? Pino Lipari e Antonino Buscemi. Quest’ultimo doveva curare il rapporto con le figure del gruppo Ferruzzi, «ma era l’ingegner Bini quello che rappresentava questa nuova cordata politica imprenditoriale», ha sottolineato Luciani. Tutta questa operazione, come ha riferito Brusca, avviene tra il 1989 e il 1992. «Siamo nel pieno periodo stragista!», ha chiosato Luciani.
L’avvocato Trizzino: «Un disegno criminoso di chi doveva cercare la verità»
Quindi il depistaggio non può non essere slegato dalla genesi dell’attentato di Via D’Amelio. Entrambi i momenti sono stati congegnati da Cosa nostra con il benestare di queste forze esterne appena descritte. Aiutano le parole dette in aula dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei figli di Borsellino: «Nell’opera di ricostruzione di ciò che è avvenuto dopo la strage di via D’Amelio, l’approssimazione, le anomalie e negligenze corrispondevano a un disegno criminoso portato avanti da uomini che doveva ricostruire la verità: è stato compromesso il diritto dell’accertamento della verità negli eventi antecedenti e successivi che hanno portato alla strage di via d’Amelio!».
È oramai storia nota che erano state condannate – con tanto di conferma in Cassazione – delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri).
Con le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza nel 2008 la svolta nelle indagini
La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto. Spatuzza si è attribuito la responsabilità – unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra – di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. Siamo così arrivati al Borsellino quater che accertò il depistaggio, da lì è nata anche una indagine nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma è stata archiviata. Erano rimasti soltanto i poliziotti, conclusasi con la prescrizione e una assoluzione.
Il tribunale di Caltanissetta sulla strage di via D'Amelio. Depistaggio Borsellino, due poliziotti prescritti e uno assolto: “Salvati da ritardo dello Stato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Luglio 2022
Due prescrizioni e un’assoluzione. È quanto ha deciso il tribunale di Caltanissetta sulle accuse contestate a Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti erano accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale morirono il giudice Paolo Borsellino e alcuni agenti della scorta. L’attentato di Cosa Nostra si inseriva in quella strategia stragista che solo due mesi prima aveva colpito e ammazzato il giudice Giovanni Falcone. La sentenza lascia scontenti quasi tutti e rappresenta l’ennesimo giro a vuoto nella ricerca della verità sull’attentato di trent’anni fa in via D’Amelio.
Gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del 1992, erano accusati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Secondo l’accusa avevano costruito a tavolino, con la regia del loro capo deceduto Arnaldo La Barbera, una falsa verità sull’attentato costringendo Vincenzo Scarantino e gli altri due pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta ad autoaccusarsi e ad accusare sette persone innocenti della strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il processo per il depistaggio è iniziato nel novembre 2018. Ha avuto quasi cento udienze.
Stando all’accusa quella costruzione di falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. “I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la Procura durante la requisitoria. L’aggravante di aver favorito Cosa Nostra non ha retto al vaglio del tribunale che quindi ha dettato la prescrizione. Al termine della requisitoria il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca e i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Fra le parti civili nel processo la famiglia Borsellino (assistita dall’avvocato Fabio Trizzino), l’avvocato Rosalba Di Gregorio a rappresentare Gaetano Murana, l’ex netturbino in carcere per 17 anni da innocente, l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto e l’avvocato Roberto Avellone in rappresentanza di alcuni familiari degli agenti di scorta.
Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” secondo quanto si legge nel dispositivo di sentenza sul depistaggio. A presiedere il collegio era Francesco D’Arrigo. Il lavoro dei pm nisseni e le parole del pentito Gaspare Spatuzza avevano ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, e ha svelato quel depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica.
“Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello”, le prime parole dell’avvocato Fabio Trizzino che ha rappresentato durante tutto il dibattimento i fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i primi due presenti in aula alla lettura del dispositivo di sentenza. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante, è una sentenza che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perché sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”.
Insoddisfatto dalla sentenza anche l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del funzionario di polizia Mario Bo, “perché riteniamo che i nostri assistiti sono completamente estranei ai fatti contestati”. Il tribunale di Caltanissetta ha rinviato alla procura gli atti affinché valuti se procedere per il reato di calunnia nei confronti del falso pentito Vincenzo Scarantino. Tramessi anche gli atti in ordine alle dichiarazioni rese dai poliziotti Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi in quanto testimoni sospettati di falsità o reticenza.
“Ritenere in questo processo – ha aggiunto l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore. Il fatto che sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c’è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare“.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Depistaggio sulla morte di Borsellino, le difese: «Poliziotti e magistrati screditati dalla procura». Parla l'avvocato Panepinto, difensore di Mario Bo. Un duro attacco alla procura di Caltanissetta che in precedenza aveva puntato il dito contro i poliziotti. Il Dubbio l'1 giugno 2022.
Parla di «accuse infamanti» e di «gogna mediatica» ma anche di «schizzi di fango» che «hanno colpito i tre poliziotti imputati» del processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, l’avvocato Giuseppe Panepinto, difensore di uno degli imputati, Mario Bo, che oggi ha iniziato l’arringa difensiva davanti al Tribunale di Caltanissetta. La Procura ha chiesto per Mario Bo undici anni e dieci mesi, nove anni e mezzo per gli altri due imputati, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati tutti di concorso in calunnia aggravata perché secondo la Procura avrebbero indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino ad accusare falsamente delle persone su via D’Amelio. «Prima di formulare accuse infamanti che espongono alla gogna mediatica, non solo i poliziotti ma anche i magistrati colpiti da schizzi di fango, prima di fare queste accuse ed esporre alla gogna mediatica un uomo dello Stato, magistrati, poliziotti, ci vogliono delle prove – dice Panepinto – abbiamo sentito parlare di prove granitiche che non abbiamo mai visto, e abbiamo trovato semplici sospetti, dubbi ed illazioni, fatte in quest’aula di giustizia». Presenti i tre imputati.
Panepinto parla poi di «ricostruzioni romanzesche» che «non possono trovare spazio in un processo». «Non possono trovare spazio protagonisti, che sono personaggi in cerca di autore». L’avvocato spiega poi: «Siamo arrivati alla conclusione in un processo che abbiamo vissuto lungamente, finalmente è arrivato il momento di fare sentire la voce degli imputati, dopo avere ascoltato a lungo le deposizioni dei testimoni». «Chi mi ha preceduto ha ritenuto di dovere ringraziare il Tribunale – dice riferendosi al pm Stefano Luciani e alle parti civili – non me ne voglia questo Tribunale, ma io ritengo che non si debba ringraziare nessuno, perché se siamo qui in un’aula di giustizia, è perché il mio assistito avrebbe fatto a meno di stare in questa aula e perché il pm ha ritenuto di fare un’indagine che era stata archiviata ed esercitare l’azione penale».
«Ho avuto un certo smarrimento in diversi momenti, non certo perché vi siano stati argomenti particolarmente incisivi, non è mancanza di rispetto nei confronti dell’accusa – prosegue ancora l’avvocato Giuseppe Panepinto – Ma un grande senso di smarrimento perché ho avuto l’impressione di partecipare a un processo diverso delle altre parti, di avere valutato prove documentali diverse da quelle di cui vi hanno parlato le parti. Ovviamente abbiamo sentito parlare del “dovere di verità”, di rispetto delle vittime della strage e di rispetto per la memoria. Ovviamente totale rispetto per le parti delle vittime di questa terribile tragedia che ha sconvolto lo Stato italiano, per i loro parenti e coloro che hanno subito un danno e tutti i cittadini italiani».
«Fu un periodo che ha scosso le coscienze di tutti gli italiani – prosegue il legale di Mario Bo – Ma sono certo che altrettanto rispetto meritino tutti coloro che con grande senso del dovere si sono impegnati in quegli anni nella lotta alla mafia, e con grande senso del dovere hanno messo la propria vita per lo Stato. Mi riferisco ai magistrati, agli uomini del gruppo Falcone e Borsellino (di cui facevano parte i tre imputati ndr) che hanno condotto una guerra alla mafia. Hanno arrestato mandanti ed esecutori». «Se oggi abbiamo un momento storico diverso, se oggi non c’è più quella guerra è dovuto grazie a loro, per merito loro che Cosa nostra ha subito un durissimo colpo – dice ancora Panepinto – Abbiamo sentito criminalizzare tutti gli uomini dello Stato». E ancora: «La memoria di coloro che non possono difendersi è stata ampiamento screditata, mi riferisco a tutti gli uomini dello Stato che si sono succeduti, dei testimoni tacciati di essere collusi, di volere coprire e infangare, occultare, sono accuse gravi che vengono fatte, specie in un’aula di giustizia».
Il legale di Mario Bo, citando la requisitoria del pm Stefano Luciani, parla ancora di «illazioni» e cita quanto dice il vocabolario. «Sono ipotesi, un giudizio formulato per via deduttiva. È questo che ci è stato prospettato in questi processo. Un processo che per anni ha costretto gli imputati a subire tutto, ciò che un processo comporta, le sofferenze, conseguenze in ambito personale, familiare e lavorativo. Anche malattie e sofferenze, sono la conseguenza di questo processo». E del suo assistito, Bo, oggi presente con la moglie in aula, dice: «È un uomo dello Stato integerrimo, un uomo del quale ho avuto modo di apprezzare la dignità, e soprattutto il grande senso di abnegazione e rispetto per lo Stato, ancora oggi dopo quello che ha subito, ancora oggi dice che rifarebbe tutto ciò che ha fatto». E aggiunge: «Mario Bo continua ad avere massima dignità per lo Stato».
«Lasciamo ai libri, scritti da ex magistrati e giornalisti, chiunque scrive e parla di questa vicenda – dice Panepinto – il top è stato raggiunto quando anche Candura (il falso pentito ndr) aveva un memoriale che voleva pubblicare. E poi ancora interviste televisive. lasciamole fuori dall’aula di giustizia». E aggiunge: «Si continua a parlare di fatti mai accaduti ed esistiti, si continua parlare di altre verità». (adnkronos)
Depistaggio sulla strage di via D’Amelio, il legale della famiglia Borsellino: «Di Matteo si crede “assolto”, ma è lo stesso coinvolto». Il Dubbio il 20 maggio 2022. L'avvocato Fabio Trizzino nel corso della discussione per la parte civile costituita, ha menzionato anche i magistrati Palma e Petralia, inizialmente accusati di calunnia.
«Definire questo processo “epocale” è anche riduttivo». Inizia con queste parole la sua arringa difensiva, l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia di Paolo Borsellino, parte civile nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. «Il pm Stefano Luciani all’inizio della requisitoria ha ritenuto di chiedere scusa alle parti civili presenti, io vorrei rassicurare il dottor Luciani che non è lui che deve chiedere scusa, perché ha dato un contributo fondamentale per almeno 13 anni alla ricostruzione di questi eventi così dolorosi – dice l’avvocato Trizzino – Sono altri i pm che avrebbero dovuto chiedere scusa. Scuse mai arrivate. Nonostante noi crediamo che loro siano in qualche modo convolti nel confezionamento di quello che è stato definito nella sentenza “Borsellino quater” come uno dei “più grandi depistaggi” della storia giudiziaria italiana». Presente in aula anche Manfredi Borsellino, figlio di Paolo Borsellino, che è funzionario di Polizia. Sono poliziotti anche i tre imputati, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di concorso in calunnia aggravata, perché secondo la Procura avrebbero imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso.
«Mi rendo conto che è un’affermazione forte e dolorosa – dice Trizzino – ma visto il contegno tenuto nel corso del loro esame, per quanto riguarda la dottoressa Palma e Petralia come indagati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che “per quanto loro si possano credere assolti, riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti”, e lo dimostrerò nel corso di questa arringa la validità».
L’avvocato cita il testo di una canzone di Fabrizio De Andrè, “Canzone del maggio”, che recita: «Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare, vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti». I giudici Annamaria Palma e Carmelo Petralia erano stato indagati dalla Procura di Messina per concorso in calunnia, sempre per la gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, ma il gip ha archiviato la loro posizione. Mentre Antonino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, era stato il pm che si era occupato della prima inchiesta sulla strage Borsellino.
Petralia replica al legale della famiglia Borsellino: «Sono stato assolto, meritavo delle scuse». Il Dubbio il 20 maggio 2022.
L’anno scorso, il magistrato e Annamaria Palma erano stati indagati dalla Procura di Messina per concorso in calunnia aggravata, perché accusati di avere indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino. Ma il gip di Messina ha archiviato la loro posizione.
«Il fair play non è una dote che può esigersi in chi ha subito lutti gravissimi, ma altra cosa è il rispetto delle regole dello Stato di diritto. Ciò vale per le parti private, ma ancora di più per chi rappresenta la parte pubblica. In nome di chi viene chiesto scusa, mi domando. In nome di quei magistrati che ostinatamente sono stati accusati, perseguiti e processati per poi venire assolti con una motivazione che non ha lasciato spazio a ombre o sospetti? O in nome addirittura del giudice che li ha giudicati e assolti? O in nome della procura competente per questo giudizio che non ha impugnato la sentenza? Forse qualcun altro avrebbe avuto il diritto di esigere delle scuse, ma il fair play e comunque il rispetto per il dolore di una famiglia atrocemente colpita glielo hanno impedito». Lo ha detto all’Adnkronos il magistrato Carmelo Petralia, replicando così a distanza all’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile dei familiari di Paolo Borsellino.
Oggi, nel corso dell’arringa difensiva, nel processo sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, Trizzino ha duramente attaccato Petralia, ma anche l’ex pm Annamaria Palma, che subito dopo le stragi indagarono sull’uccisione di Borsellino e dei cinque agenti della scorta. « Il pm Stefano Luciani all’inizio della requisitoria ha ritenuto di chiedere scusa alle parti civili presenti, io vorrei rassicurare il dottor Luciani che non è lui che deve chiedere scusa, perché ha dato un contributo fondamentale per almeno 13 anni alla ricostruzione di questi eventi così dolorosi – ha detto Trizzino, seduto vicino a Manfredi Borsellino – Sono altri i pm che avrebbero dovuto chiedere scusa. Scuse mai arrivate», e il riferimento è proprio a Petralia e Palma, oltre che all’attuale consigliere del Csm Antonino Di Matteo che per un periodo indagò sulle stragi. «Nonostante noi crediamo che loro siano in qualche modo convolti nel confezionamento di quello che è stato definito nella sentenza “Borsellino quater” come uno dei “più grandi depistaggi” della storia giudiziaria italiana», ha detto ancora Trizzino. Ed ecco l’attacco frontale ai magistrati: «Mi rendo conto che è un’affermazione forte e dolorosa – ha detto Trizzino – ma visto il contegno tenuto nel corso del loro esame, per quanto riguarda la dottoressa Palma e Petralia, come indagati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che “per quanto loro si possano credere assolti, riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti”, e lo dimostrerò nel corso di questa arringa la validità», citando una canzone di Fabrizio De Andrè, “Canzone del maggio”, che recita: «Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio, se la paura di guardare, vi ha fatto chinare il mento, se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento, anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti» «Solo abbassando i toni e ricordandoci che ci sono dei limiti che tutti – parti civili e parti pubbliche – dobbiamo rispettare si rende onore alla Giustizia e ai tanti eroi che in nome di essa hanno sacrificato le loro vite», ha poi aggiunto il magistrato Carmelo Petralia parlando ancora con l’Adnkronos.
L’anno scorso, Petralia e Annamaria Palma erano stati indagati dalla Procura di Messina per concorso in calunnia aggravata, perché accusati di avere indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino. Ma il gip di Messina ha archiviato la loro posizione. Ecco cosa scriveva il gip di Messina, che aveva accolto la richiesta di archiviazione della Procura: «Sono insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell’accusa di calunnia a carico degli indagati».
I due magistrati facevano parte del pool che coordinò l’indagine sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. A entrambi si contestava il reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Nell’ipotesi accusatoria, in concorso con tre poliziotti tuttora sotto processo a Caltanissetta per la medesima accusa – Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – i due pm avrebbero depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio imbeccando tre falsi pentiti, tra cui Vincenzo Scarantino, e suggerendo loro di accusare dell’attentato persone ad esso estranee. Quelle false accuse avevano poi portato all’ingiusta condanna all’ergastolo nei confronti di sette persone: Cosimo Vernengo, Gaetano La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso e Natale Gambino. I sette, ora persone offese dal reato, si erano opposte alla richiesta di archiviazione presentata dai pm.
Esclusivo – L’audio inedito in cui Falcone difende il capitano De Donno. L'ex Ros è stato tirato in ballo nel processo Trattativa Stato mafia, ma per il giudice ucciso dalla mafia era un uomo fidato. Ecco la deposizione di Falcone del 1992. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'11 maggio 2022.
«Come sempre, il capitano De Donno ha svolto di buon grado anche questo compito». L’avvocato Pietro Milio? «Una persona serissima, uno dei pochi avvocati disposti ad assistere chi collabora con la giustizia nonostante comporti rischi e sacrifici». A trent’anni dalle stragi di mafia che si intersecano con il trentennale di Tangentopoli (e vedremo il collegamento), queste sono le ultime parole pubbliche di Giovanni Falcone. Parliamo del giorno di San Valentino del 1992, a tre mesi dall’attentato che subirà a Capaci. Il Dubbio è riuscito a recuperare l’audio inedito del giudice, ritrovandolo per puro caso tra migliaia di processi registrati nell’archivio di Radio Radicale.
Giovanni Falcone, il 14 febbraio del 1992, sentito come teste nel processo Giuseppe Giaccone, ha speso parole di elogio verso due persone che – dopo la sua morte e quella di Paolo Borsellino – saranno messe sotto una oscura luce. L’ex Ros Giuseppe De Donno subirà decenni di persecuzione giudiziaria; mentre l’avvocato Pietro Milio, scomparso nel 2010, padre dell’attuale legale che ha difeso i Ros al processo Trattativa, non sarà visto di buon occhio per aver difeso non solo Mario Mori e De Donno stesso, ma anche l’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada.
La confessione a Falcone dell’ex sindaco di Baucina Giuseppe Giaccone
Perché Falcone è stato sentito come testimone? E soprattutto chi è Giaccone? Quest’ultimo era uno stimato professore universitario di algologia con un passato da sacerdote, ma soprattutto era l’ex sindaco di Baucina, un piccolo paese in provincia di Palermo. Quando si presenta a Falcone appare come un uomo deciso a parlare. Come mai? Correva l’anno 1989, esattamente il 17 settembre, quando nel paese dell’ex sindaco fu assassinato un piccolo imprenditore, tale Giuseppe Taibbi. Gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno indagarono su quell’omicidio di matrice mafiosa e uscì fuori che, nonostante la modestissima entità dell’impresa, dietro c’erano grossi gruppi imprenditoriali multinazionali.
La Tangentopoli italiana scoperta da Falcone anni prima in Sicilia
L’ex sindaco Giuseppe Giaccone, qualche giorno dopo, decise di recarsi da Falcone per parlare di un giro di mazzette per gli appalti. Mise a verbale – con la presenza di De Donno che trascriveva le dichiarazioni – nomi di politici altisonanti, tra i quali anche un ministro. L’unico avvocato che fu disposto ad assisterlo è, appunto, Pietro Milio. Come dirà anni dopo l’ex giudice Antonio Di Pietro, la vera tangentopoli la scoprì Giovanni Falcone molti anni prima di “mani pulite”. Fu grazie a quell’indagine sull’omicidio a Baucina, che gli allora ex Ros – sotto l’impulso e coordinamento di Falcone – scoprirono l’enorme tavolino che vedeva seduti la mafia di Totò Riina, le grandi imprese nazionali e i politici. Una indagine che dette vita allo scottante dossier mafia-appalti, nel quale confluì anche il fascicolo Giaccone, considerato a posteriori “l’alpha della tangentopoli italiana”.
Mafia-appalti il movente delle stragi di Capaci e Via D’Amelio
Un dossier che, secondo tutte le sentenze sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, viene ritenuto il movente assieme a quello della vendetta di Cosa nostra per l’esito del maxiprocesso. Per essere più chiari, prendiamo in esame le parole dei magistrati nisseni nell’indagine “mandanti occulti bis”. Annotarono che tale movente era «rappresentato dall’interesse che alcuni ambienti politico–imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondimento di indagini, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici».
Non solo. I magistrati nisseni scrissero nero su bianco che il movente mafia-appalti «aveva influito fortemente nella deliberazione adottata da “Cosa nostra” di attualizzare il progetto, già esistente da tempo, di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, atteso che era intenzione dell’organizzazione criminale neutralizzare l’intuizione investigativa di Falcone in relazione alla suddetta gestione illecita degli appalti, le indagini sulla quale avrebbero aperto già nel 1991 scenari inquietanti e, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese della cosiddetta “Tangentopoli”».
Giaccone accusò Falcone, De Donno e Milio di avergli estorto i nomi
Come mai il giorno di San Valentino del 1992, Giovanni Falcone ha quindi deposto in un processo tenutasi a Roma? Accade che Giuseppe Giaccone, dopo aver verbalizzato i nomi di politici nazionali, decide di ritrattare, accusando Falcone e l’avvocato Milio di avergli estorto i nomi. In quegli interrogatori, Giaccone – come detto – aveva rilasciato rivelazioni “bomba”, aveva parlato di un giro di miliardi che gli imprenditori siciliani pagavano per ottenere l’aggiudicazione degli appalti a Baucina, Cimina e Ventimiglia di Sicilia. In particolare l’ ex sindaco aveva riferito di un incontro al quale partecipò anche un ministro che si impegnò a facilitare l’aggiudicazione degli appalti. Ribadiamo che da lì, soprattutto in seguito all’omicidio dell’imprenditore Taibbi, si sviluppò un’altra indagine più approfondita che coinvolgeva tutta l’isola e non solo, tanto che Falcone, appena qualche mese prima del deposito del dossier mafia-appalti avvenuto il 20 febbraio 1991, innanzi alla commissione Antimafia parlerà di “centrale unica” degli appalti.
Nel gennaio del ‘ 91 Giuseppe Giaccone ci ripensa, vuole rimangiarsi le affermazioni – verbalizzate e sottoscritte – rilasciate a Falcone. Per raggiungere il suo obiettivo si reca negli uffici bunker di Roma dell’allora alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica. Gli consegna un voluminoso memoriale nel quale sostiene che Falcone, l’ex Ros De Donno e l’avvocato Pietro Milio, lo hanno indotto a dire determinate cose promettendogli in cambio una sorta di immunità. Sica gli disse di rivolgersi alla procura di Roma.
Il fascicolo giunse nelle mani dell’allora sostituto procuratore della Repubblica di Roma Davide Iori. Il magistrato analizzò tutto e capì che Giaccone aveva mentito. Il pm lo portò al processo con l’accusa di calunnia continuata e aggravata. Si accertò con sentenza definitiva che quel memoriale fu un atto d’accusa falso e calunnioso nei confronti di Falcone e l’avvocato Piero Milio. Rimane il mistero di quella ritrattazione di Giuseppe Giaccone, così come il suo passaggio dall’allora alto commissario Sica che gli suggerì di denunciare alla Procura di Roma.
Fortunatamente si scongiurò la macchina del fango nei confronti di Falcone. Chi toccò mafia-appalti o muore oppure veniva delegittimato. Anche De Donno, all’epoca fu ritenuto complice di Falcone nell’estorsione. Morto Falcone, morto poi Borsellino, iniziò nei suoi confronti, così come per Mario Mori, un lungo e devastante travaglio giudiziario che si è concluso con l’assoluzione. Nonostante ciò, ad oggi, i principali mezzi di comunicazione e i canali televisivi sia pubblici che privati, proseguono con il teorema. L’opinione pubblica, oramai è deformata. Tutte le persone legate a Giovanni Falcone, non solo professionalmente, ma anche da una profonda e sincera amicizia, saranno viste in cattiva luce. Quasi come se si trattasse di una vera e propria maledizione.
Da corriere.it il 26 aprile 2022.
«La mafia mi ha messo 40 chili di tritolo qua fuori, erano risentiti. Ma devo a Michele (Santoro, ndr) l’emozione di aver fatto qualcosa dentro al Paese». Inizia così il ricordo di Maurizio Costanzo dell’attentato di via Fauro del 1993, proprio davanti al Teatro Parioli dove, oggi come allora, va in scena il suo celebre show. Nella prima puntata della nuova edizione, che celebra il quarantesimo anniversario del programma, Costanzo duetta sul palco proprio con Santoro.
«Io ti ho sempre paragonato a un gatto che srotola un gomitolo che non sai mai dove va a finire», dice Santoro, prima di ricordare la maratona evento Rai-Mediaset contro la mafia. «Una cosa incredibile che non si era mai vista. Ne è nata una speranza pazzesca. Il Paese ha acceso le luci e tutti i grandi giornali del mondo hanno parlato di questa staffetta». «Mi piacerebbe far crescere una tv indipendente», racconta ancora Santoro, tornando poi sul terribile attentato avvenuto davanti al Parioli.
«Qua fuori c’era un baratro, una scena da guerra. Lui era ancora frastornato, Maria sul letto che non riusciva a proferire parola. In quell’obiettivo c’eravamo tutti e due, era troppo facile, ma secondo me quell’attentato aveva un significato molto importante: era un attentato alla televisione, ci dicevano state esagerando, tornate nei ranghi». Maurizio Costanzo poi rivela: «Nelle indagini hanno scoperto a metà platea Messina Denaro, il grande latitante, veniva a vedere lo show e magari gli piaceva pure». E ancora: «Ricordo lo stupore di Enzo Biagi che mi chiedeva perché, è stato terribile»
Il depistaggio su Borsellino scaricato su due morti. Luca Fazzo l'1 Maggio 2022 su Il Giornale.
La "colpa" di aver creduto al finto pentito Scarantino attribuita a Tinebra e La Barbera. Ma gli altri dov'erano?
Non c'è miglior colpevole di un morto. Qui di morti ce ne sono addirittura due. Quindi c'è poco da stupirsi se a venire indicati come gli inventori di questo scandalo, efficacemente - ma non del tutto correttamente - etichettato come «il più grande depistaggio della storia d'Italia», siano due defunti, incapaci di difendersi o almeno di spiegare come sia accaduto che un balordo di terza fila sia stato trasformato in un superpentito di mafia, e le sue «sciocchezze» (copyright di Ilda Boccassini) sul massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta siano state spacciate per verità assolute, portando alla condanna all'ergastolo di sette innocenti. I due geni del male, viene raccontato ora, furono un magistrato, Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta, e un poliziotto, anzi un «superpoliziotto», Arnaldo La Barbera, che avrebbero convinto Vincenzo Scarantino, ladro d'auto, a inventare accuse false. Morti Tinebra e La Barbera, sul banco degli imputati nel processo che si avvia a conclusione a Caltanissetta sono rimasti tre pesci piccoli, tre poliziotti accusati di calunnia.
Ma anche nella ricostruzione dell'accusa non sono certo loro tre ad avere architettato la gigantesca messa in scena, né sono loro a sapere quali inconfessabili interessi abbiano mosso il depistaggio. Gli ordini venivano dall'alto. Tinebra e La Barbera d'altronde sono i colpevoli ideali, non solo perché morti ma per il resto che emerge post mortem su di loro: il primo animatore della fantomatica Loggia Ungheria, il secondo a libro paga dei servizi segreti. Un profilo perfetto di depistatori al soldo di poteri oscuri.
Ma tutti gli altri dov'erano?
Basta frugare senza paraocchi gli archivi per avere contezza che se le «scemenze» di Scarantino gli vennero messe in bocca a forza di pestaggi e di ricatti nel carcere di Pianosa, e poi messe a verbale e portate con successo fino in Cassazione, questo avvenne sotto il naso di magistrati, giornalisti, politici che all'operato di La Barbera e della sua squadra applaudivano senza porsi domande. Salvo poi defilarsi, non ricordare, quando lo scandalo esplode. Uno per tutti: Gian Carlo Caselli, allora procuratore di Palermo. Che adesso dice di non avere mai utilizzato le dichiarazioni di Scarantino, ma nel luglio 1995, quando la moglie del «pentito» accusa La Barbera di avere fatto torturare il marito per convincerlo a riempire i verbali sulla strage di via D'Amelio, insorge a difesa del superpoliziotto, e accusa i giornali che danno retta alla donna di «contribuire a una campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia».
Si dirà: allora nessuno poteva sapere che Scarantino mentiva. Invece no, perché almeno due pm in servizio nel pool che indagava sulle stragi sentirono puzza di bruciato e misero per iscritto i loro dubbi: Ilda Boccassini e Roberto Saieva. Ma il resto del pool andò avanti per la sua strada: non il solo Tinebra ma una sfilza di pm - Anna Maria Palma, Carmelo Petralia, Antonino Di Matteo - vengono indicati dalla figlia di Borsellino, Fiammetta, come coloro che presero per oro colato le dichiarazioni di Scarantino, che dopo avere detto di avere rubato la 126 da imbottire di tritolo e da piazzare in via D'Amelio aveva accusato come mandati una lunga serie di mafiosi che non c'entravano niente. Da allora i sopravvissuti si rimpallano le colpe, Di Matteo - nel frattempo approdato al Consiglio superiore della magistratura - dice che lui nel pool nemmeno c'era, e che anzi la prima a interrogare Scarantino era stata la Boccassini. Ma in questo valzer di verità l'unica certezza che emerge è quella di una gestione scellerata dei pentiti, con Scarantino che nel suo ricovero protetto ha persino i numeri di cellulare privati dei pm, e con loro si sfoga, chiede aiuti, conforto. C'è una frase che andrebbe resa immortale, perché riassume bene l'intero clima. Quando il pentito Scarantino si mette a piangere, a dire che lui in realtà della strage non sa niente e sta accusando degli innocenti si sente consolare così dalla Palma: «Mi disse di stare tranquillo e aggiunse: se non hanno fatto questo hanno fatto altre cose e pagano».
Come tutti i bravi pentiti, Scarantino ha ritrattato anche questo, dicendo che a istruirlo, a suggerirgli cosa dire, erano solo i poliziotti e non i pm. Il Csm ne ha approfittato per archiviare il fascicolo aperto dopo l'esposto di Fiammetta Borsellino, che accusava i pm di avere avallato le «gravissime, grossolane anomalie investigative» nell'inchiesta sulla strage. Niente da fare. La colpa ufficiale è tutta dei due morti, il procuratore Tinebra e lo sbirro La Barbera. Eppure è lo stesso La Barbera che quando nel 2001 lo cacciarono dall'Antiterrorismo per i fatti del G8 i giornali che oggi lo indicano come il genio del male descrivevano come «un grande poliziotto», «un generoso, imprevedibile mastino».
Resta da chiedersi: perché? Perché il «generoso mastino» si inventa il pentito, perché Tinebra e i suoi gli vanno dietro? È qui che mostra la corda l'etichetta di «depistaggio» affibbiata a questa storia. Perché sottintende che ci fossero altri, veri colpevoli da salvare: al di fuori della mafia, sopra la mafia. È il teorema Ingroia. Ma di questi mandanti eccellenti in trent'anni non si è mai trovata traccia. E l'intero affare Scarantino va forse allora letto come una truce storia di furore investigativo, di ansia da risultato priva di scrupoli, di ambizione di carriera: nella convinzione di essere comunque nel giusto, perché dovunque si fosse colpito si sarebbe colpito bene.
Il depistaggio sul cadavere di Paolo Borsellino e le troppe facce di uno stato omertoso. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 aprile 2022
C'è qualcos'altro da aggiungere sul depistaggio orchestrato sul cadavere di Paolo Borsellino. In questi trent'anni centinaia e centinaia di mafiosi hanno salto il fosso, alcuni hanno raccontato tanto e altri hanno raccontato poco. Ma non c'è un solo rappresentante dello stato che abbia confessato qualcosa, nemmeno il più piccolo dettaglio.
Per Cosa Nostra il muro di omertà è crollato, per lo stato no.
Nelle prossime settimane conosceremo il verdetto del dibattimento sulle trame che hanno scaraventato il falso pentito Scarantino al centro dell'intrigo ma già ora, e al di là di quello che sarà la sentenza, abbiamo sufficienti elementi per capire come siano andate le cose.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 29 aprile 2022.
Da un paio di giorni un pubblico ministero sta pronunciando la requisitoria più angosciante che si sia mai sentita in Italia. Oddìo, sentita. Non la sente nessuno, non ne sa niente nessuno, a meno che non si sintonizzi su Radio radicale, che ne dà conto perché solo Radio radicale fa servizio pubblico (ricordate la bella idea dei grillini di levarle i fondi statali?).
Il pm si chiama Stefano Luciani, il tribunale è quello di Caltanissetta, il processo è sul "più colossale depistaggio della storia giudiziaria italiana": gli ergastoli rifilati per la strage di via D'Amelio - Paolo Borsellino e la sua scorta - a gente innocente sulla base di dichiarazioni di un falso pentito (Vincenzo Scarantino), individuato, torturato, istruito dalla polizia, infine creduto - diciamo così - dalle procure e dai giudici. Questo racconta Luciani, e questo racconta da anni Fiammetta, la figlia di Borsellino. Io ogni tanto torno qui, con questa storia, sebbene mi paia proprio di annoiarvi. E succederà ancora.
Perché il pm si è scusato - dovremmo scusarci tutti - di una requisitoria non all'altezza «di un processo di questa portata», dove gli imputati sono tre poliziotti, e una specie di omertà istituzionale impedisce di sapere chi li abbia incaricati e attrezzati, probabilmente anche dentro i palazzi di giustizia. Le più alte corresponsabilità della morte di Borsellino - altro che quella boiata della trattativa Stato mafia - sono coperte e ignote da anni, salvo poi versare la lacrimuccia coccodrillesca a ogni ricorrenza. Una roba degna della Russia di Putin. E noi, che non ce ne curiamo, siamo già degni sudditi del putinismo.
LA REQUISITORIA. Le indagini sulla strage di via D'Amelio, il pm: "Fu più grande depistaggio della storia". La Gazzetta del Sud il 26 Aprile 2022.
Per l’accusa è stato il più grande depistaggio della storia italiana. Una definizione forte, la stessa che venne usata anni fa dalla corte d’assise che, per la prima volta in una sentenza, puntò il dito sul clamoroso tentativo di inquinare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, uno dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra. A Caltanissetta è il giorno della requisitoria della Procura che di quel depistaggio accusa tre funzionari dello Stato: i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, imputati di aver creato a tavolino un castello accusatorio fasullo, riuscito, però, a reggere ad anni di processi. Gli imputati rispondono di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia nel quinto dibattimento istruito sull'attentato in cui, ormai quasi trent'anni fa, persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.
«Mi scuso in anticipo con le parti civili perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata», ha detto il pm Stefano Luciani che ha ricordato i «numeri» del dibattimento: "70 udienze, 112 testimoni, 4.900 pagine di trascrizioni». Per l'accusa i fatti emersi sono chiari. I tre ex investigatori, che facevano parte del gruppo "Falcone-Borsellino", avrebbero costretto Vincenzo Scarantino, piccolo criminale palermitano, a mentire minacciandolo, picchiandolo, facendo su di lui pressioni psicologiche. Vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una falsa verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza riuscirono poi a smascherare. «Fu Spatuzza - dice Luciani - a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino». Luciani ha poi ricordato le vessazioni subite durante la detenzione a Pianosa da Scarantino, piccolo spacciatore assurto, nella falsa ricostruzione degli investigatori, al rango di boss al corrente dei più oscuri segreti della stagione stragista.
«I suoi precedenti - spiega il pm- erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si è voluto rappresentare. Scarantino ha subito un pressing asfissiante. Interrogatori costanti e ripetuti, plurimi procedimenti penali, condanne per traffico di droga perché mentisse accusando persone che con la strage non c'entravano nulla». «La moglie - continua Luciani - raccontò che era un uomo robusto di oltre 100 chili. Quando lo vide a Venezia era già ridotto alla metà, a Pianosa era ormai in condizioni terribili». Fu lui stesso a raccontare che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera (ex capo del pool investigativo poi morto, ritenuto la mente del depistaggio ndr). Fu lui stesso a riferire che i poliziotti l’avrebbero picchiato, gli avrebbero messo i vermi nella minestra, gli avrebbero instillato il dubbio di essere malato di Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare. Vere e proprie torture che avrebbero fatto crollare un uomo insicuro, fragile costringendolo ad ammissioni fantasiose e ad accuse false. A Scarantino, insomma, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. «Più andavo avanti e più bravo diventavo», ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l'inchiesta.
Borsellino, processo per il depistaggio contro tre poliziotti. Il pm: “Sono passati 30 anni, se c’è stato altro ditelo”. Il Fatto Quotidiano il 27 aprile 2022.
Davanti ai giudici di Caltanissetta sono imputati Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo perché accusati di aver indotto Vincenzo Scarantino a raccontare falsità sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il magistrato e i cinque agenti della sua scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.
Il processo a coloro che sono ritenuti tra gli autori di uno dei “più grandi depistaggi della storia” è, dopo oltre 70 udienze e 112 testimoni, arrivato al secondo giorno di requisitoria. “Se gli appunti sui verbali in possesso di Vincenzo Scarantino non erano tutti farina del suo sacco, ci dica Fabrizio Mattei chi altro ci ha messo mano. Sono passati 30 anni, se c’è stato dell’altro ditelo” ha detto il pm Stefano Luciani. Nel processo sono imputati tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina.
Secondo l’accusa i tre ex componenti del gruppo “Falcone Borsellino” avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. Come raccontato dallo stesso Scarantino ai giudici di Caltanissetta nel giugno del 2019. Il pm Stefano Luciani si è soffermato nel corso della requisitoria sugli appunti che Fabrizio Mattei avrebbe scritto di proprio pugno sui verbali in possesso di Scarantino. In un primo tempo il poliziotto, secondo la ricostruzione dell’accusa aveva detto che erano stati interamente scritti da lui per poi dire che non erano tutti suoi. L’accusa – di cui sono chiamati a rispondere davanti al Tribunale collegiale presieduto da Francesco D’Arrigo – è di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. “Mattei – ha aggiunto il pm Luciani – non ha detto il vero quando ha tentato di disconoscere la paternità di queste scritture poste a margine. Se si arrivano a rendere dichiarazioni che vengono smentite dalla realtà dei fatti evidentemente una motivazione c’è. Non puoi rispondere in esame con un ‘non lo so’ se ti viene chiesta se è tua la paternità di quelle manoscritture. Allora Mattei non diceva il vero nel 1994 “. “Sono trascorsi trent’anni, adesso è ora di dire basta. Se c’è stato dell’altro, ditecelo. Mattei ci dicesse, una volta per tutte, chi gli ha dato questi benedetti appunti” ha proseguito. Sulla strage di via D’Amelio “i falsi collaboratori di giustizia”, come Vincenzo Scarantino, “hanno costruito un castello di menzogne“. In particolare, Luciani ha ripercorso le “due settimane che avevano preceduto l’esame dibattimentale di Scarantino al processo Borsellino uno”, “in cui Scarantino stesso è imputato”, dice. “Era il primo vaglio dibattimentale serio alla sua collaborazione”, aggiunge. E poi ha ribadito che bisogna “Maneggiare con assoluta cura le propolazioni di tutti questi soggetti che avevano falsamente collaborato con la giustizia costruendo quel castello di menzogne sono stati su questa vicenda sempre coerenti, una narrazione che ha riferito sempre gli stessi dettagli”.
Per l’accusa i fatti emersi sono chiari. Scarantino subì vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza – che presto potrebbe tornare libero – riuscirono poi a smascherare. “Fu Spatuzza – dice Luciani – a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino”. A Scarantino, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. “Più andavo avanti e più bravo diventavo”, ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l’inchiesta. Per quelle ricostruzioni false furono condannati da innocenti nove persone per cui solo nel 2017, con il processo di revisione, è arrivata una sentenza di assoluzione.
Borsellino e l’illegalità sfacciata dei poliziotti imputati nella strage di via D’Amelio, il pm: “Il più grave depistaggio della storia italiana”. Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa il 27 aprile 2022.
«L’illegalità contrassegnava i giri dei poliziotti imputati. Sono trascorsi trent’anni, adesso è ora di dire basta e di parlare», dice il pubblico ministero Stefano Luciani nella requisitoria del processo, in corso a Caltanissetta, a carico di tre poliziotti (Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo) imputati di calunnia aggravata nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino. La vicenda, che affonda nelle indagini sulla strage mafiosa di via d’Amelio del 1992 in cui morirono il giudice Borsellino e cinque agenti della scorta, rappresenta «il più grave depistaggio della storia italiana» secondo la sentenza che ha ribaltato la verità giudiziaria sulla strage, dopo che i primi processi, basati sulle dichiarazioni di Scarantino, avevano portato a condanne all’ergastolo di innocenti. I tre poliziotti sono accusati di aver «indottrinato» a tavolino il falso pentito. «È incredibile quello che ci è stato detto in questo processo. Questa vicenda è costellata dal costante piegare strumenti di indagine processuali e non processuali a finalità di legge diverse dalle quali sono pensate», ha detto il pm. In particolare si è soffermato sulle telefonate di Scarantino, all’epoca in cui era sotto protezione in quanto collaboratore di giustizia ritenuto affidabile. «Ci sono troppe anomalie, tra cui telefonate che stranamente saltavano» quando Scarantino parlava con magistrati e poliziotti. L’inchiesta e il processo, che ha raccolto 112 testimonianze in 70 udienza e oltre 10mila pagine di prove, non è riuscita a risalire ai livelli apicali della catena di comando che avrebbe ordito il depistaggio. «Ma non si dica che la montagna ha partorito il topolino», ha protestato il pm, chiedendo agli imputati di aiutare a individuare eventuali mandanti e moventi.
Depistaggio Borsellino, l'appello del pubblico ministero ai poliziotti imputati: "Dopo 30 anni, è l'ora di parlare". A Caltanissetta, prosegue la requisitoria di Stefano Luciani nel processo per le pesanti ombre attorno alle indagini su D'Amelio. La Repubblica il 27 aprile 2022.
"Mi hanno fatto studiare, mi dicevano quali erano le contraddizioni, mi hanno preparato: queste erano le parole di Scarantino - dice il pm Stefano Luciani - Tutto questo lavoro di indottrinamento, di aggiustamento di dichiarazioni è servito per fare condannare la gente all'ergastolo". Nell'aula bunker di Caltanissetta prosegue la requisitoria nel processo sul depistaggio delle indagini di via D'Amelio, che vede imputati i poliziotti Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tutti appartenenti al gruppo d'indagine "Falcone Borsellino".
Via D'Amelio, l'accusa dei pm: "Sulla strage il depistaggio dei poliziotti". Fiammetta Borsellino: "Omertà di Stato"
dal nostro inviato Salvo Palazzolo26 Aprile 2022
I tre imputati sono accusati di aver indotto, con minacce e pressioni, il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso per depistare le indagini. "Mario Bò - ha continuato Luciani - era il supervisore dell'attività fatta illegalmente da Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Ce lo conferma la ex moglie di Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, e lo stesso Scarantino. E' una verità che emerge dai documenti che abbiamo mostrato, tutti attribuibili, senza alcun dubbio, a Fabrizio Mattei, sulla base della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero e non smentita dalla consulenza di parte. La difesa, da canto suo, non offre elementi per sgravare di responsabilità Mattei. E se mai residuasse un micro margine di dubbio, quella menzogna che ha retto per oltre 20 anni è spazzata via da Gaspare Spatuzza che ci dice che Scarantino aveva mentito".
Luciani rivolge parole accorate in aula ai poliziotti: "E' ora di parlare", sussurra. "Mattei ci dicesse una volta per tutte chi gli ha dato questi benedetti appunti, sono passati trent'anni, è ora di dire basta. Se c'è stato dell'altro ditecelo".
Al centro della requisitoria anche alcune "anomalie" nelle intercettazioni. E su questo argomento il pm Luciani è tornato a rilevare alcune "contraddizioni" nelle deposizioni rese dai poliziotti che a quell'epoca si occupavano proprio dell'ascolto e della registrazione delle telefonate che partivano dal'utenza messa a disposizione di Vincenzo Scarantino. "Con queste deposizioni - ha detto il magistrato - si voleva dimostrare che questa famosa macchina era costellata da frequenti anomalie e malfunzionamenti. Sui brogliacci veniva scritto che non si procedeva per anomalia o interruzione della macchina, ma poi si è visto che c'erano eventi telefonici di diversi minuti. Un ingegnere, consulente della difesa, nella sua deposizione è venuto anche a parlarci del fatto che bisognava tenere conto del "fattore stress". Ma se la linea da registrare era solo una? E le conversazioni da ascoltare solo quelle?".
Tra le telefonate "saltate" vi sono quelle che il falso pentito Vincenzo Scarantino avrebbe effettuato alla procura di Caltanissetta e agli uffici della Questura di Palermo. Una ricostruzione, con date e progressivi, per dimostrare che i problemi tecnici si sarebbero evidenziati solo per determinate telefonate mentre "sugli scontrini - ha detto il pm - risultano i tempi delle chiamate e poi i nastri non registrano niente".
Salvo Palazzolo per “La Repubblica” il 27 aprile 2022.
«Prima lo sfiancarono con interrogatori e accuse, poi lo torturano nel carcere di Pianosa».
Così un gruppo di poliziotti costruì il falso pentito Vincenzo Scarantino, fra il 1993 e il 1994. «Mentre tutto ciò accadeva - accusa il pubblico ministero Stefano Luciani - la moglie del pregiudicato denunciava le violenze: mandò lettere al presidente della Repubblica, al presentatore Funari, alla signora Borsellino, che non poteva certo immaginare cosa stesse accadendo» . Il più colossale depistaggio della storia d'Italia, attorno alla strage di via D'Amelio, si poteva evitare.
Invece, il balordo della Guadagna fu trasformato un provetto Buscetta. E, oggi, sul banco degli imputati ci sono tre investigatori del gruppo d'indagine della polizia che avrebbe dovuto fare luce sulle bombe di Cosa nostra: il dirigente Mario Bò, oggi in servizio nel Nord Italia, e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Erano i collaboratori più stretti dell'allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, ritenuto il principale responsabile di questa drammatica vicenda, è stato stroncato da un tumore nel 2002.
«Ecco come lo spinsero a parlare», ripete il pubblico ministero all'inizio della requisitoria contro gli uomini dello Stato. «Con un pressing asfissiante e con violenze inaudite».
Rosalia Basile, la moglie di Scarantino ha ribadito in questo processo quello che aveva già detto nel 1994: «La prima volta che lo andai a trovare a Pianosa, mi raccontò che lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Arnaldo La Barbera e altri poliziotti. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Gioè. Un giorno, gli misero dei vermi nella minestra. Un'altra volta, gli dissero che forse aveva l'Aids. Un'altra volta ancora gli fecero intendere che io avevo l'amante».
Il pm punta l'indice contro La Barbera e i suoi poliziotti. Non solo gli imputati: « In questo processo - dice Luciani con tono di voce deciso - ci sono stati anche testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo Falcone-Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossavano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana».
E giù con un elenco di omissioni e non ricordo. Già nel momento delle indagini. « Fecero un sopralluogo con Scarantino nella carrozzeria dove diceva di avere rubato l'auto e non fu redatto un verbale » . E ancora: « Verbali non furono fatti neanche durante gli incontri nel carcere di Pianosa, fatti da La Barbera e Bò».
C'è dell'altro: «I colloqui investigativi autorizzati dal ministero e dalla magistratura avevano il solo scopo di indottrinare il falso pentito». Così fu creato «il più grande depistaggio della storia d'Italia». Il pm lo chiama anche in un altro modo: «Una vicenda incredibile». Una montagna di falsi di cui non si accorsero neanche i giudici che poi celebrarono i primi due processi per la strage di via D'Amelio. Sotto accusa sono finiti anche due ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, ma poi la loro posizione è stata archiviata.
Restano le accuse nei confronti dei poliziotti che facevano parte del gruppo di La Barbera. Accuse ancora una volta fondate sulle parole della moglie di Scarantino: «Due agenti lo facevano studiare sui verbali che aveva fatto: si chiamano Fabrizio e Michele». I verbali che il balordo della Guadagna aveva infarcito delle cose suggerite, ma pure di « ricostruzioni di cose apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta » . Scarantino, insomma, ci mise anche del suo.
« Il canovaccio fu riempito delle sue goffe dichiarazioni - ricostruisce il pm - Lo dice lo stesso Scarantino: "Più andavo avanti e più bravo diventavo"» . Luciani mostra in aula gli appunti su cui veniva fatto studiare il falso pentito. C'è scritto: «Chiarimenti perché Graviano prima c'era e poi non c'era » . Le richieste di condanna saranno fatte l'11 maggio.
Borsellino, depistaggio per la strage: tutto iniziò con le torture a Pianosa. Il pm Luciani nella requisitoria: “Facevano spogliare nudo Scarantino, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Battute finali del processo contro i 3 poliziotti. Ecco come sono state deviate le indagini. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 aprile 2022.
Iniziata la requisitoria da parte del pubblico ministero Stefano Luciani nel processo di Caltanissetta contro i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra perché avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, sviando così le indagini sull’attentato di Via D’Amelio nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.
Anche Vincenzo Scarantino subì delle torture
Secondo il pm Luciani, tutto è iniziato nell’allora supercarcere di Pianosa, chiuso in seguito alle denunce da parte degli organismi internazionale in merito alle indicibili torture che avvenivano nei confronti dei detenuti. Anche Scarantino subì delle torture, e secondo il pm fu quello l’inizio – come sentenzierà il Borsellino Quater – del più grande depistaggio della Storia giudiziaria. «Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino – ricostruisce Luciani -, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra una nota del Sisde veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Servizio segreto civile anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso.
Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato».
La moglie di Scarantino: «La Barbera non lo lasciava in pace»
Ed ecco che arriviamo a Pianosa. «La moglie di Scarantino – prosegue il pm Luciani durante la requisitoria – fece mettere a verbale che il marito le diceva: “Non mi lasciano in pace sono sempre qua”. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare». Il pm ripercorre la testimonianza della moglie del falso pentito, la quale disse che Arnaldo La Barbera (l’uomo che fu messo alla guida del gruppo Falcone – Borsellino) non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile.
Scarantino riferiva alla moglie che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro. «Scarantino aveva raccontato alla moglie – riferisce sempre il pm Luciani – che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera».
L’iniziativa di indagare sul falso pentito non è certamente proveniente dal Sisde
Per verità di cronaca, in merito alla nota del Sisde, va precisato che l’allora capo Bruno Contrada ha sempre riferito – e in effetti lo si evince dalla prima informativa – di aver consigliato di indirizzare le indagini proprio sui Madonia (coloro che effettivamente furono tra i mandanti), in merito alla strage di Via D’Amelio. La nota che fu inviata su Scarantino era su richiesta di Arnaldo La Barbera stesso. In sostanza l’iniziativa di indagare sul falso pentito, non è certamente proveniente dal Sisde. Contrada verrà tratto in arresto a dicembre del 1992 e quindi non ha potuto incidere sulle indagini. Di fatto, non ha mai potuto interrogare Scarantino. A detta di Contrada, se l’avesse fatto, si sarebbe accorto che era uno che raccontava cose non vere.
Ecco tutte le tappe del depistaggio
A questo punto, ripercorriamo la vicenda depistaggio. È oramai storia nota che erano state condannate – con tanto di conferma in Cassazione – delle persone innocenti, accusate di essere stati gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Tesi che si è retta esclusivamente sulle accuse da parte di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto da Vincenzo Scarantino, il quale (pur attraverso un percorso dichiarativo disseminato di contraddizioni e ritrattazioni) aveva accusato di partecipazione alla strage di Via D’Amelio, oltre che sé stesso, numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù (uomini di Pietro Aglieri).
La svolta su Via D’amelio nel 2008 con le rivelazioni di Gaspare Spatuzza
La svolta si ebbe nel 2008, con un lavoro iniziato dalla “nuova” procura di Caltanissetta sulla scorta delle dichiarazioni sconvolgenti di Gaspare Spatuzza, il quale nel giugno dello stesso anno aveva manifestato tale intendimento al Procuratore Nazionale antimafia, spiegando che la propria decisione era frutto di un sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto.
Spatuzza, soprannominato negli ambienti di cosa nostra “u tignusu”, già condannato all’ergastolo per le stragi del 1993 e per altri numerosi e gravissimi delitti, ha iniziato a rendere le sue dichiarazioni il 26 giugno 2008 alle Procure di Caltanissetta, Firenze e Palermo che, successivamente, hanno proseguito gli interrogatori e le indagini autonomamente (nell’ambito delle rispettive competenze), pur rimanendo in collegamento investigativo e pertanto curando lo scambio di atti informazioni e notizie, anche nell’ambito di apposite riunioni di coordinamento svolte presso la Procura nazionale antimafia.
Spatuzza si è attribuito la responsabilità – unitamente ad altri soggetti inseriti in Cosa nostra – di un importante segmento della fase esecutiva della strage di Via D’Amelio. In particolare ha confessato di avere eseguito in concorso con altri, su incarico del capo mandamento di Brancaccio, Giuseppe Graviano, il furto della autovettura Fiat 126 utilizzata come autobomba, il furto delle targhe di un’altra autovettura della stessa tipologia e marca custodita presso l’autofficina di Orofino Giuseppe, nonché di aver reperito il materiale necessario ad innescare l’ordigno e di essere l’artefice del reperimento di notevoli quantità di sostanze esplosive utilizzate per le stragi mafiose degli anni ‘92 e ‘93.
Nel Borsellino quater è stato accertato il depistaggio
Spatuzza ha quindi messo in discussione l’esito di processi consacrati in sentenze passate in giudicato (soprattutto Borsellino uno e bis) con le quali erano stati inflitti numerosi ergastoli e centinaia di anni di reclusione per gravissimi delitti. Fu fatta la revisione, assolvendo quindi le persone innocenti e iniziò il famoso processo Borsellino Quater che accertò il depistaggio, sottolineando anche le irritualità processuali. Da lì scaturì l’indagine nei confronti dei poliziotti, il quale ha prodotto il processo attuale.
Un altro troncone di indagine è nato anche nei confronti dei magistrati di allora, coloro che gestirono lo pseudo pentito Scarantino. Ma nei loro confronti si concluse con una archiviazione. Rimangono soltanto i poliziotti che ovviamente si professano innocenti. Se dovessero essere condannati, rimane però l’interrogativo: agirono in completa autonomia? La ex pm Ilda Boccassini ha sempre sottolineato che erano i magistrati i dominus di quelle indagini e doveva essere sempre il pm che doveva coordinare l’attività della polizia giudiziaria.
L'incredibile storia del poliziotto che ha ritrovato la foto della "biondina delle stragi". Gianluca Zanella il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.
In un libro mai dato alle stampe, il poliziotto che nel 1993 trovò la foto di Rosa Belotti ad Alcamo racconta la sua vicenda dove, in chiaroscuro, s'intravede il profilo di Giovanni Aiello, meglio noto come "Faccia da mostro".
Che l’ispettore di polizia Antonio Federico abbia avuto una vita professionale degna di un libro non siamo noi a sostenerlo. Lo dimostra lui con i fatti. Del dott. Federico abbiamo già parlato in relazione a Rosa Belotti, la presunta “biondina” delle stragi del 1993 a Firenze e Milano. È stato lui, infatti, a ritrovare ad Alcamo la foto ritraente la Belotti (foto in cui lei si è riconosciuta) all’interno di un libro impilato in uno scaffale a casa di Fabio Bertotto, il carabiniere che, a seguito di una controversa perquisizione domiciliare, ha passato diversi guai per la presenza, nella sua abitazione, di un arsenale di non meglio specificata provenienza.
Questo accadeva nel 1993. Solo nel 1997 Antonio Federico decideva di tirare fuori quella foto dicendo di essere rimasto colpito, quattro anni prima, dalla somiglianza tra la donna ritratta (la Belotti) con l’identikit della donna vista a Firenze e disegnata in un fotofit. Federico confonde Firenze con Milano: è solo nel contesto del secondo attentato che infatti viene stilato il fotofit con l’ormai famosa “biondina”. Viene poi da chiedersi come abbia fatto a notare una somiglianza, dal momento che la Belotti è – ed era – mora e, dobbiamo dirlo, ben poco somigliante a quel disegno. Ma non è questo il punto. Torniamo all’inizio: la vita professionale di Antonio Federico è degna di essere riportata in un libro e, in effetti, a farlo ci ha pensato lui stesso.
La struttura segreta di Gladio sul territorio di Alcamo: questo il titolo di un libro che circola in rete in versione Pdf. Un libro mai dato alle stampe e che non si capisce (perché non è scritto da nessuna parte) quando sia stato scritto. In questa fatica letteraria, Federico svela, tra le varie cose, i presunti retroscena della perquisizione in casa di Bertotto, sorvolando – chissà per quale motivo – sul ritrovamento della foto.
A guidarlo in casa del carabiniere (e a indicargli l’esatta ubicazione della foto nascosta in un libro, questo lo aggiungiamo noi) una fonte coperta, un personaggio che sembra uscito da una spy story dalla trama prevedibile, un Virgilio che guida il poliziotto/Dante attraverso i gironi del mistero e dell’intrigo. Mark – questo il nome che Federico attribuisce alla fonte – sbuca dal nulla e introduce il giovane poliziotto tra le fittissime trame di Gladio. Siamo vicino Trapani, siamo nei pressi del famigerato centro Skorpione, e Mark racconta a Federico la “verità” (le virgolette sono d’obbligo) sulla mattanza avvenuta nel 1976 all’interno della casermetta di Alcamo Marina. Secondo la fonte, i due carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta sarebbero stati eliminati perché avrebbero scoperto alcuni traffici di armi legati alla struttura semi-clandestina Gladio. Struttura di cui lo stesso Mark – dipinto da Federico in tinte romanzesche – farebbe parte in un ruolo apicale.
Una volta rotto il ghiaccio, senza una buona ragione apparente Mark decide che Antonio Federico sia la persona giusta per mettere i bastoni tra le ruote a quella che ha tutta l’aria di essere una sorta di Spectre. Siamo nel 1993 e, ufficialmente, Gladio è stata scoperta e dismessa tre anni prima, dopo che Giulio Andreotti ne aveva rivelato l’esistenza. Sappiamo però che in Sicilia, in particolare a Trapani, la struttura continuò ad essere operativa almeno fino al 1993 con le opache attività del centro Skorpione di cui fu direttore anche Vincenzo Li Causi.
Mark comincia a fornire a Federico delle soffiate per individuare alcuni punti “caldi”: basi e depositi di armi, come quello trovato in casa di Fabio Bertotto. Cominciano da questo momento una serie di vicissitudini dallo schema ricorrente: Mark fa una soffiata, Federico trova i riscontri, ma quando torna sul posto con i rinforzi – puntualmente – non c’è più nulla. Questo lo pone in una situazione complicata con i suoi superiori, che cominciano a osteggiarlo. Ma lui non si da per vinto e, con spirito di abnegazione, prosegue nella sua solitaria attività di monitoraggio e di caccia ai danni degli appartenenti a quella che si configura come una struttura super segreta e decisamente deviata.
Scorrendo le pagine di un libro che è a metà strada tra il saggio storico e il romanzo, dove non mancano velate allusioni e, forse, qualche verità incastonata in decine e decine di pagine zeppe di fatti difficilmente riscontrabili e apparentemente frutto di una fervida immaginazione, troviamo due elementi curiosi e degni di nota.
Il primo: Federico racconta di aver scoperto – ovviamente grazie a Mark – una vera e propria sede operativa di Gladio in località Calatubo, nei dintorni di Alcamo. La struttura – che Federico ha mostrato anche alla troupe di Report in un’intervista in occasione del trentennale della strage di Capaci – è in effetti una ben strana costruzione in cemento armato, una cattedrale nel deserto che senza dubbio ha avuto funzione militare e all’interno della quale Federico scrive di aver scorto, nottetempo, una vera e propria centrale operativa con poltrone, monitor, apparecchiature elettroniche e “un migliaio di piccole lucine che si illuminavano ad intermittenza”. Ovviamente pochi giorni dopo, tornato sul posto con i rinforzi, nulla di quanto visto poche sere prima era rimasto al suo posto. Sorvolando sul racconto fatto dall’autore, sarebbe effettivamente interessante scoprire a cosa servisse una struttura del genere in un punto simile.
Il secondo: il momento di massima tensione nel racconto fatto da Federico si verifica quando Mark gli confida che, in un certo punto, a una certa ora, potrà fare una grande scoperta. Siamo nel 1994, sono le 3 di notte. Antonio Federico, da solo, è appostato tra i cespugli sotto i piloni dell’autostrada A29, nei pressi della misteriosa struttura in zona Calatubo. È in attesa di alcuni uomini che, stando alla promessa di Mark, lo condurranno alla base principale di Gladio. Una base, neanche a dirlo, sotterranea. E in effetti gli uomini arrivano: si calano con delle corde dal ponte, sono in nove. Federico – che si dice terrorizzato dall’improvvisa apparizione – li descrive armati di tutto punto, possenti e alti almeno un metro e novanta. Mentre si appiattisce a terra per non farsi scoprire, Federico vede il volto di uno dei Rambo illuminato di sfuggita da una torcia: “L’immagine agli occhi fu terrificante. Quell’uomo aveva una cicatrice sulla guancia che gli attribuiva un aspetto ancora più minaccioso”. Se poi aggiungiamo che l’uomo aveva i capelli lunghi, è impossibile non pensare a Giovanni Aiello, più noto come “Faccia da mostro”, il poliziotto e agente segreto morto nel 2017.
Aiello – il volto sfigurato per un colpo di fucile – fu per un breve periodo alle dipendenze di Bruno Contrada presso la squadra mobile di Palermo, salvo congedarsi nel 1977. Il suo nome sale alla ribalta delle cronache nel 2009, quando il procuratore aggiunto della Direzione Nazionale Antimafia Gianfranco Donadio lo indica come al centro di una serie interminabile di trame. Tra le tante: il fallito attentato all’Addaura, la strage di via D’Amelio e la strage di via dei Georgofili. In buona sostanza, Aiello sarebbe stato uomo di cerniera tra mafia, servizi segreti e ‘ndrangheta.
Terminata la lettura del libro, quello che resta sono le domande. ilGiornale.it ha contattato Antonio Federico, che però si è reso disponibile per un’intervista solo ai primi di giugno. Approfittiamo per porne qui alcune, dandogli – se lo vorrà – il tempo di ragionare sulle risposte: Perché – in un libro così generoso di dettagli – nemmeno una menzione della foto di Rosa Belotti? Relativamente a molti dei fatti raccontati, il dott. Federico sarebbe in grado di dimostrarne la veridicità? E infine, il personaggio dal volto sfigurato è Giovanni Aiello?
Su quest’ultimo punto ci teniamo davvero ad avere una risposta, perché leggendo il libro si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di messaggio diretto a qualcuno, un ammiccamento. Forse ci sbagliamo. Forse ce lo dirà alla prima occasione buona Antonio Federico.
La "bionda delle stragi" e l'enigma della foto ritrovata in casa di un carabiniere. Gianluca Zanella il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.
In un'intervista, parla il carabiniere nella cui casa, nel 1993, venne ritrovata la foto che ha messo nei guai Rosa Belotti, la presunta "bionda" delle stragi di mafia, e sostiene di essere vittima di una vendetta.
Risale ormai a tre mesi fa la notizia del presunto riconoscimento in Rosa Belotti, ex pregiudicata e imprenditrice bergamasca, della “biondina” delle stragi del 1993 a Firenze e Milano. Un riconoscimento, dobbiamo dirlo, piuttosto singolare, dal momento che il confronto è stato fatto con una foto ritrovata in modalità a dir poco dubbie (e ora ci arriviamo) e un identikit disegnato all’epoca dei fatti che per nulla somiglia alla signora Belotti.
Dal giorno in cui il Ros di Firenze ha perquisito l’abitazione della donna, poche notizie sono filtrate, ma sappiamo che il lavoro d’indagine sta proseguendo. Giova però a questo punto tornare su quella foto che ha determinato il coinvolgimento di Rosa Belotti a distanza di tanti anni e su quel ritrovamento le cui modalità abbiamo definito “dubbie”.
La foto messa a confronto con l’identikit del 1993 (realizzato grazie alla testimonianza di testimoni oculari che, in via Palestro, a Milano, videro una ragazza bionda scendere dall’automobile che di lì a poco sarebbe esplosa spazzando via la vita di cinque persone) viene ritrovata il 29 settembre del 1993 – poco più di due mesi dopo l’attentato – in una villa di Alcamo, cittadina in provincial di Trapani, Sicilia. Nello specifico, la foto era infilata dentro il volume di un’enciclopedia. Andando ancora più nello specifico, a ritrovare la foto è stato Antonio Federico, un agente di polizia, che in quella villa era andato per scovare un arsenale di armi che una sua fonte gli aveva indicato come appartenente alla struttura semi clandestina Gladio. La stessa fonte l’ha guidato a colpo sicuro verso il ritrovamento della foto, con la promessa – stando a quanto sostenuto dallo stesso Federico – che lì avrebbe trovato la foto di una donna "bionda" a conoscenza di molti dettagli riguardo a dei traffici di armi "e altro materiale" nella zona del trapanese.
Ritrovata la foto, che però mostra una donna bruna, non bionda, il poliziotto Antonio Federico cosa fa? Siamo a due mesi dall’ultimo, sanguinoso attentato, logica suggerisce che l’abbia consegnata a chi di dovere. E invece no, la logica in questa storia non trova spazio. Federico quella foto se la dimentica e la conserva per fino al 1997. Solo allora la tira fuori dal cilindro e la consegna agli inquirenti, sostenendo che già all'epoca del ritrovamento in quella foto aveva notato la somiglianza, definita "incredibile", con la donna indicata come presente sul luogo della strage in via dei Georgofili, a Firenze.
In un precedente articolo sul tema, ci siamo posti delle domande che non hanno ancora trovato una risposta e che meritano di essere ripetute: a che titolo Antonio Federico, all’epoca ispettore, si recò in quella villa? A chi rispondeva? Chi erano i suoi superiori? Chi era la sua fonte? E, soprattutto, perché non ha consegnato subito quella foto? Sempre riprendendo il precedente articolo, non è immaginabile che un ispettore agisca di sua iniziativa scavalcando bellamente tutta una rete di comando. Non se la posta in gioco è una “soffiata” che porta a un arsenale legato (apparentemente) a Gladio. Non se si paventano connessioni con le stragi di mafia del 1993. Ma soprattutto, non se quella villa è di proprietà di un carabiniere.
Si, perché in questa storia troviamo coinvolti due carabinieri. A seguito della perquisizione della polizia e del ritrovamento dell’arsenale, a passare i guai sono due appartenenti all’Arma: il brigadiere Fabio Bertotto, padrone di casa, e l’appuntato Vincenzo La Colla, che lì conservava alcune delle armi poi sequestrate.
Facciamo un breve inciso, nulla in questa storia è come sembra. Più si scava, più si trova del marcio. Si ha la netta impressione che dietro le quinte si stia muovendo qualcosa di grosso. Vecchi armadi della vergogna sono stati riaperti e stanno lasciando uscire miasmi tenuti troppo a lungo tombati. Sembra quasi di assistere al secondo tempo di una lotta tutta interna alle istituzioni. Una lotta mai realmente terminata, ma dove i contendenti hanno avuto un lungo periodo di tregua. Periodo che ha portato qualcuno ad abbassare imprudentemente la guardia. E anche assistere dall’esterno non garantisce di non restare invischiati in qualcosa di veramente sporco.
Terminato l’inciso, a tre mesi dalla notizia della perquisizione in casa Belotti, un giornalista residente negli Stati Uniti, Stefano Santoro, porta a casa un’intervista esclusiva proprio con Bertotto e La Colla, i due carabinieri coinvolti nella vicenda. Noi de IlGiornale.it abbiamo avuto il permesso e l’opportunità di leggerla con attenzione e di riportarne alcuni stralci che abbiamo ritenuto di grande interesse.
La prima domanda che fa Santoro è giustamente questa: facevate parte di Gladio? A rispondere è Bertotto: “No assolutamente no, anche perché non avevo l’età per entrare a far parte di questa associazione segreta creata nel dopo Guerra. Sono tutte fantasie”. A questo punto il giornalista chiede, sempre a Bertotto, se sia vero che ha svolto delle missioni in Somalia come effettivamente si ricava da diverse fonti aperte. Bertotto è ancora una volta categorico: “Mai stato in Somalia. L’unica missione che ho svolto è stata in Cambogia e anche a causa di questa vicenda, hanno sospettato sul ritrovamento di banconote in dollari, non considerando che erano missioni Nato e che le missioni venivano pagate con moneta Statunitense. Posso dimostrare che non sono mai stato in Somalia, perchè sono rientrato nel mese di Luglio del ‘93 e la missione in Somalia era già iniziata, poi a settembre fui sottoposto a un procedimento penale e comunque ho i documenti del foglio matricolare che possono provarlo. Inoltre mi vorrebbero collegare per qualche motivo al Maresciallo Li Causi che io non ho mai conosciuto, non abbiamo mai fatto servizio insieme . È tutto un depistaggio” .
Depistaggio. Il dubbio che in effetti sia in atto, a distanza di tanti anni dai fatti, un depistaggio è forte. A opera di chi, però, non si capisce ancora bene. Andiamo avanti. Stefano Santoro incalza: “Si disse che le armi che vi sequestrarono potevano armare un esercito di una piccola nazione. Come mai eravate in possesso di questo arsenale?”. Risponde sempre Bertotto:
“Avevo quattro licenze di armi, tra cui anche quella di collezionatore [sic.]. Quando arrivai ad Alcamo non avevo queste armi, ma successivamente ne diventai proprietario dopo la morte di un mio zio che collezionava armi e mio nonno, dopo aver ritrovato questo materiale, mi disse che potevo essere l’unico a poterle custodire. A queste si aggiunsero altre armi da collezione del collega La Colla […] Si era pensato ad un museo. Voglio precisare comunque che in quel periodo i colleghi Carabinieri della Guardia di finanza e della Polizia di Stato ne erano a conoscenza. Con le armi regolarmente denunciate andavamo infatti con loro, a sparare nei pressi di Alcamo, almeno un paio di volte alla settimana. Per tanti colleghi non era assolutamente un mistero la presenza di queste armi nel garage, accanto il mio appartamento, nelle campagne di Alcamo. Ricordo bene che quando andavo in missione lasciai le chiavi ad un mio collega, pregandolo di utilizzarle qualora era necessaria l’apertura del garage. Ribadisco, diversi colleghi venivano con me ad esercitarsi.. era un hobby. Molte erano armi della prima e seconda guerra mondiale, incluso un moschetto 91/38 che era stato restaurato dallo stesso La Colla che ne era il proprietario”.
Riteniamo che al momento in cui questa intervista sarà diffusa, chi attualmente sta indagando sulla vicenda avrà gioco facile a verificare le parole di Fabio Bertotto. Se ciò che dice corrisponde al vero, devono essere parecchie le persone in grado di testimoniare a suo favore. C’è poi un altro dettaglio importante in questa risposta: le chiavi lasciate al collega. Posto che ci viene da chiedere per quale motivo si possa rendere “necessaria” l’apertura di un garage in cui sono conservate armi in assenza del proprietario, si tratta di un passaggio importante, perché – stando a quanto rilasciato da Bertotto al giornalista Santoro – si annida proprio qui il crocevia principale di questa vicenda. Il giornalista, giustamente, fa la domanda più logica: se tutti sapevano dell’arsenale, per quale motivo si arriva alla perquisizione in cui – ricordiamolo – viene ritrovata anche la foto di Rosa Belotti (foto, giova anche qui ricordare, in cui la Belotti, nel corso del primo interrogatorio di fronte ai magistrati fiorentini, si è riconosciuta senza saper spiegarsi come sia finita ad Alcamo)?
A rispondere è sempre Bertotto: “li entriamo in un tunnel. Ci sono dei grossi contrasti a monte. Ci sono stati dei contrasti grossi tra noi e la Polizia”. Non entriamo ora nel merito della vicenda e rimandiamo all’intervista integrale che Stefano Santoro pubblicherà sul suo profilo Facebook. Basti dire che Bertotto racconta di una storia decisamente torbida che, se confermata, può ancora mettere qualcuno nei guai. Idem se smentita. A noi, in questa sede, interessano le modalità del ritrovamento della foto di Rosa Belotti. Ricordate il dettaglio delle chiavi lasciate al collega? Bene, proprio quel collega, insieme a un poliziotto, si sarebbe recato in assenza di Bertotto nel garage. Logico, direte voi, aveva le chiavi per ogni necessità. Evidentemente, però, colleghi non vuol dire necessariamente “amici”.
Il giornalista Santoro, raccolte le parole di Bertotto (corredate dai commenti di La Colla), torna al sequestro dell’arsenale, chiedendo conferma se, dal suo punto di vista, si sia trattata di una ritorsione della Polizia. La risposta di Bertotto è piuttosto eloquente: “Riguarda la vicenda tra me e un mio subalterno carabiniere, nei mesi precedenti si dimostrò insofferente nei miei confronti, aveva un astio verso me, ambiva a sostituirmi nel comando di capo della radiomobile. Ricordo che un giorno fui convocato dal comando della Regione dell’Arma e il Colonnello mi disse che il mio collega era andato a recriminare per non precise ragioni, ed aveva avuto anche una crisi di pianto. Risposi che non avevo nessun problema nei suoi riguardi. Dopo il sequestro delle armi, chiesi ad un contadino che lavorava la terra nei pressi della villa che avevo affittato, se aveva notato movimenti strani. Rispose che aveva visto un’auto e che aveva riconosciuto un carabiniere ed un poliziotto, facendone una precisa descrizione. I due soggetti quindi entrarono nel garage della villa […] Il contadino me li descrisse bene, perchè li conosceva...."l'autru era autu, cu li baffi, era u to collega". Andarono un pomeriggio, alcuni giorni prima della perquisizione, aprirono con le chiavi, ed entrarono dentro […]” .
Insomma, Fabio Bertotto adombra il sospetto (che per lui è praticamente una certezza) che il sequestro delle armi si sia trattata di una vendetta. Certo, l’abbiamo detto anche all’inizio di questo articolo e l’abbiamo scritto in precedenza, le modalità raccontate da Antonio Federico fanno acqua da tutte le parti. Ma qui le parole pesano come macigni e non dubitiamo che chi di dovere avrà molto materiale su cui lavorare. Tornando all’intervista, Santoro chiede a Bertotto come giustifica il ritrovamento della foto di Rosa Belotti. Ecco la risposta di Bertotto:
"Non conosco la signora Belotti , e non capisco come mai tra tante foto che avevo, è spuntata solo una foto di cui non ho conoscenza. A casa avevo centinaia di foto di amici e parenti. La foto della signora Belotti non è nel verbale del materiale sequestrato, ho controllato molto bene.. nessuna foto e questo è sufficiente. Inoltre non capisco come mai qualcuno l'ha tenuta conservata per diversi anni e poi la tira fuori. Mi lascia sconcertato perchè la procedura penale non è una opinione, quindi la foto la sequestri o non la sequestri, non ti puoi ricordare dopo anni di aver messo in tasca una foto, e dopo anni dici "Oh... ho questo.... ho dimenticato di consegnarlo" . Ricordo che per tre giorni effettuarono la perquisizione, spaccarono tutto, sputarono sulle mie divise calpestate dal fango, presero anche dei miei vestiti personali… Quella foto non mi dice nulla, così come ho dichiarato alla magistratura. Tra l'altro al primo piano, d'estate tornavano i proprietari che avevano una attività a Paderno Dugnano in Lombardia. È possibile che se l'hanno trovata nella villa, è stata trovata nell'appartamento di sopra dei proprietari. Ma poi guardando bene, la signora non assomiglia all'identikit, e comunque non ho mai fatto indagini su questa donna".
Cosa aggiungere? Nulla, se non che questa vicenda diventa davvero di volta in volta più complessa. Qualcuno mischia e sottrae le tessere del puzzle e per chi ha l’ardire di provare a ricostruire almeno un contesto chiaro il gioco è tutt’altro che semplice. E visto che i giochi semplici non ci piacciono, aggiungiamo anche le parole di La Colla, che ricostruisce la genesi della perquisizione in modo differente rispetto al collega Bertotto.
“La vicenda del sequestro delle armi – spiega La Colla - è nata con il mio fermo, in base ad una relazione di servizio che, a firma di quattro poliziotti di Alcamo, asserivano [sic.] che mi riconobbero mentre buttavo dal finestrino un fagotto. Dichiararono che dopo che andai via, andarono a vedere dentro questo fagotto e trovarono un fucile vecchio antico. Quando fui convocato al Commissariato, un poliziotto mi chiese che calibro era quel fucile. Io risposi che non lo sapevo, ma successivamente mi ricordai che quattro giorni prima un mio confidente, tale Ruisi, mi aveva proposto di comprarlo e io avevo rifiutato. Ruisi era anche confidente di un poliziotto e così provarono a creare l'inganno. Io non avevo motivo di gettare un fucile. Questo fu il pretesto per arrivare alla perquisizione”.
Modalità diverse ma, stando alle parole di La Colla, pretesto comune: una ripicca tra colleghi. Santoro chiede a La Colla per quale motivo tenesse le sue armi in casa di Bertotto. L’uomo risponde così: “Queste armi le portai per motivi familiari dalla casa mia di campagna alla villa di Bertotto. Avevo dei pezzi interessanti e Fabio Bertotto sperava di entrarne in possesso per una pura collezione. Aggiungo anche che ci sono i verbali dove io indico chi mi ha dato quelle armi, ovvero il Capitano tizio etc etc.. Quindi non potevano mai essere armi della Gladio”.
Anche qui, non sarà difficile per gli inquirenti verificare queste informazioni. L’intervista prosegue e ci sono altri spunti interessanti, dunque vi invitiamo a leggerla integralmente. Noi ci siamo limitati ad analizzare le parti che ci interessavano, quelle cioè riferibili alla foto di Rosa Belotti e alle modalità di ritrovamento. Il risultato è quello di avere le idee se possibile ancora più confuse, ma la certezza, che vale la pena sottolineare, di essere di fronte a uno scontro dall’esito incerto. Quello che possiamo dire con sicurezza è che non ci presteremo al gioco di nessuno ma manterremo una distanza di sicurezza per non farci sporcare dagli schizzi di fango.
I MISTERI SULLE BOMBE MAFIOSE DEL 1993. Stragi di mafia, per la bomba a Milano di via Palestro indagata una donna. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 03 marzo 2022
Rosa Belotti è accusata di aver guidato l’autobomba che il 27 luglio 1993 provocò la morte di cinque persone e il crollo del muro esterno del Pac a Milano. Ora è indagata per quella strage, ma anche per quella di via dei Georgofili a Firenze, per le quali sono stati già condannati i vertici di Cosa nostra.
Per la strage di via Palestro si è più volte parlato del ruolo di una donna misteriosa e sono rimaste oscure le fasi esecutive della strage. In particolare due testimoni che si trovavano in zona avevano raccontato già all’epoca di una donna bionda, alta e magra, che avrebbe lasciato l’auto per salire a bordo di un’altra macchina guidata da due complici.
Al momento risulta certa la corrispondenza tra la foto segnaletica del 1992, la foto ritrovata nel 1993, ma sarà la stessa dell’identikit? Da questa domanda parte l’indagine che ha portato alla perquisizione.
NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.
La donna dell'attentato mafioso in via Palestro a Milano ora ha un nome. Lirio Abbate su L'Espresso il 3 Marzo 2022.
È stata individuata la donna bionda la cui foto fu recuperata nel ‘93 durante una perquisizione. I magistrati della procura di Firenze ipotizzano che possa essere la persona che ha dato sostegno al commando dei mafiosi per le bombe del ‘93.
Ha un nome la donna coinvolta nell’attentato mafioso in via Palestro a Milano la sera del 27 luglio 1993. Ci sono arrivati i magistrati della procura di Firenze, titolari dell’inchiesta sulle stragi nel Continente, coordinando il lavoro investigativo.
La donna si chiama Rosa Belotti, ha 57 anni ed è residente ad Albano Sant'Alessandro, poco fuori Bergamo, ed è indagata perché sospettata di essere stata alla guida della Fiat Uno carica di tritolo che è stata fatta esplodere la notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993 in via Palestro a Milano, causando cinque vittime. Bellotti verrà interrogata nei prossimi giorni.
I carabinieri del Ros hanno perquisito la sua abitazione su delega dei pm fiorentini Luca Tescaroli e Luca Turco, che sono arrivati ad identificare Belotti attraverso una foto.
La donna è la moglie di Rocco Di Lorenzo, 65 anni, pregiudicato e condannato per una serie di estorsioni a 11 anni di carcere (confermati in appello) e ora in carcere. I due sono coppia fissa fin dal 1992, quando entrambi vennero arrestati con altre otto persone per traffico di cocaina. Rosa Belotti venne scarcerata all'inizio del 1993. Aveva poi gestito un negozio di frutta e verdura e uno di abbigliamento, entrambi poi chiusi.
In passato gli inquirenti avevano individuato un’altra donna, vicina ad ambienti criminali milanesi, sospettata di essere stata coinvolta nella strage, ma le indagini l’hanno esclusa. Adesso arriva un nuovo volto e un nuovo nome.
Tutto parte da una fotografia scoperta nel 1993 in un’abitazione di Alcamo, in provincia di Trapani, durante una perquisizione della polizia. Adesso a questa donna, che gli investigatori all’epoca accoppiarono uno degli identikit effettuati dopo la strage di Milano, è stato dato un nome. E su di lei si è indagato con il massimo riserbo.
I fatti di via Palestro risultano ancora parzialmente accertati dalle inchieste che hanno portato fino adesso a diverse condanne. Mancano alcuni tasselli. È ancora oscura la fase prettamente “operativa finale”, cioè quella di chi ha posizionato l’auto caricata di esplosivo che è stata fatta esplodere. Un testimone ha detto subito dopo la strage di aver visto una donna alla guida dell’auto. E ne ha fatto con gli investigatori un identitkit. I processi che ne sono seguiti per i mafiosi coinvolti hanno però lasciato un buco nero in questa prima fase dell’attentato. Non c’è l’identità di chi ha materialmente posizionato la “uno” e chi l’ha fatta esplodere e nemmeno chi ha fornito il necessario supporto logistico.
Per gli inquirenti altre persone, oltre ai mafiosi Cosimo Lo Nigro e Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino, sono coinvolte nella strage che provocò l'uccisione di cinque persone: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l'agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina. Questo attentato viene inquadrato nella scia delle altre stragi del 1992 a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e del 1993 a Roma e Firenze che provocarono complessivamente la morte di 21 persone (tra cui gli agenti di scorta dei magistrati a Capaci e via D’Amelio) e gravi danni al patrimonio artistico.
La foto che riporta la donna sul luogo della strage arriva da Alcamo.
Ci sono dunque altre persone che hanno responsabilità nell’attentato a Milano su cui indaga la procura di Firenze.
Adesso tutto ci riporta in Sicilia. E tutto riparte dal lontano 1993. Siamo a poco tempo di distanza dalle bombe nel Continente e la polizia effettua una perquisizione nell’abitazione di un sospettato per traffici di armi nelle campagne di Alcamo. E durante il controllo gli agenti scoprono fra le pagine di un volume di un’enciclopedia, la foto di una donna bionda. Per gli investigatori si sarebbe trattato di una persona coinvolta in traffici illeciti. Questa immagine consegnata ad un funzionario di polizia gli è apparsa somigliante a quella di una donna che era stata vista allontanarsi dal luogo dell'attentato di via di Georgofili a Firenze e per il quale era stato fatto un identikit. In quel periodo l’immagine ricostruita la computer era diffusa negli uffici degli investigatori, perché si cercavano questi attentatori.
A distanza di 28 anni, le nuove tecnologie per la comparazione dei volti a disposizione degli investigatori avrebbero permesso di identificare la foto ritrovata ad Alcamo con una foto segnaletica della donna ora perquisita, risalente al 1992. Mentre sull’identità della donna che è stata vista a Firenze la sera della strage di via dei Georgofili sono ancora in corso accertamenti.
Strage di via Palestro, una donna autista dei mafiosi coinvolta nell'attentato. Il Quotidiano del Sud il 3 Marzo 2022.
I carabinieri del Ros di Firenze hanno eseguito in Lombardia un decreto di perquisizione, ispezione e sequestro nei confronti di una donna che, secondo quanto emerso, potrebbe essere coinvolta nell’esecuzione dell’attentato del luglio 1993 a Milano, in concorso con appartenenti a Cosa nostra già condannati in via definitiva.
La donna, secondo quanto trapela, è sospettata di aver guidato e parcheggiato la Fiat Uno imbottita di tritolo che nella notte tra il 27 e 28 luglio a Milano esplose in via Palestro uccidendo cinque persone e causando danni ingenti al Padiglione d’arte contemporanea.
L’ipotesi di reato è quella di strage, in concorso con mafiosi già condannati come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, con l’aggravante dell’aver agito per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale e per agevolare l’attività di Cosa Nostra.
In via Palestro persero la vita cinque persone, i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, migrante marocchino che dormiva su una panchina. Furono tutti uccisi dall’esplosione che mandò in frantumi il padiglione di arte contemporanea. Pochi minuti dopo altre due esplosioni si verificarono a Roma (senza provocare vittime), nei pressi della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia e davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro.
Donna fermata a Bergamo: è lei la "Bionda" delle stragi di mafia del 1993? Gianluca Zanella il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.
Fermata a Bergamo dal Ros di Firenze Rosa Belotti, imprenditrice bergamasca, ex pregiudicata sospettata di essere una delle misteriose donne delle stragi del 1993.
È stata fermata mercoledì mattina dal Ros di Firenze, su delega dei due procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, con il coordinamento del procuratore capo Giuseppe Creazzo, Rosa Belotti, imprenditrice di 57 anni residente a Bergamo.
Un nome che non dice nulla, ma che in queste ore sta rimbalzando un po’ su tutti gli organi di stampa con un’ombra sinistra a circondarlo. La donna sarebbe infatti accusata di aver guidato la Uno bianca imbottita di T4 che, il 27 luglio del 1993, esplose in via Palestro a Milano, spazzando via la vita di cinque persone. Come se non bastasse, ora la donna è sospettata anche di aver preso parte all’attentato in via dei Georgofili, a Firenze, che due mesi prima di quella di via Palestro, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, distrusse un’ala della Galleria degli Uffizi e provocò la morte di altre cinque persone, tra cui due sorelle, una di nove anni e un’altra di nemmeno due mesi.
Gli investigatori sono arrivati a lei dopo un’attività d’indagine durata quasi trent’anni e cominciata quando ad Alcamo, in Sicilia, viene rinvenuto un arsenale sospetto. Una storia intricata che ha inizio il 29 settembre del 1993, quando – a seguito di una soffiata – un agente di polizia trapanese, Antonio Federico, arriva a individuare due carabinieri in possesso di una vera e propria santabarbara, la cui origine resta tutt’ora avvolta dal mistero, ma che le cronache dell’epoca indicarono come appartenente alla struttura clandestina di area Nato Gladio, che proprio a Trapani aveva uno dei suoi centri più importanti: la base Skorpione.
Nel corso della perquisizione, l’agente di polizia trovò all’interno di un libro una fotografia ritraente una giovane donna bionda. Foto consegnata solamente dodici anni fa ai magistrati.
L’importanza di questo elemento risiede nel fatto che, poco prima dell’esplosione di via Palestro, due testimoni videro un uomo e una ragazza bionda, apparentemente di circa trent’anni, uscire dalla Uno bianca appena parcheggiata nel punto in cui poi avvenne la deflagrazione.
Mercoledì mattina, l’apparente svolta. Nel decreto di perquisizione di Rosa Belotti si legge: “[...] a distanza di 28 anni, l’impiego dell’applicativo C-Robot, utilizzato per la comparazione di foto segnaletiche e persone scomparse, ha consentito di identificare l’effige rinvenuta con la foto segnaletica del 1992 ritraente Rosa Belotti, altra 173 cm, imprenditrice, pregiudicata per reati concernenti traffici di stupefacenti, legata almeno dal 1991 al pluripregiudicato campano Rocco Di Lorenzo, vicino al clan La Torre di Mondragone”.
La tecnologia ci ha dunque messo lo zampino. Grazie a una foto segnaletica risalente a un anno prima delle due stragi per cui la Belotti sembrerebbe essere coinvolta, si è arrivati a una comparazione con un grado di affidabilità di quasi il 70%.
Ex moglie di Rocco Di Lorenzo, napoletano accusato di essere a capo di un clan dedito all’antica pratica dell’estorsione, fino a prima dell’arresto la Belotti lavorava in una ditta di guarnizioni industriali nel bergamasco e la sua posizione è attualmente in fase di verifica da parte degli inquirenti. A giorni è previsto l’interrogatorio, ma la prudenza è d’obbligo e lo si evince chiaramente dal comunicato diffuso giovedì mattina dalla procura di Firenze: “Nell’ambito delle indagini sulle stragi terroristico eversive del biennio 1993-1994, condotte dalla Procura della Repubblica di Firenze, il ROS dei Carabinieri di Firenze ha eseguito in Lombardia un decreto di perquisizione, ispezione e sequestro nei confronti di una donna che si ipotizza essere coinvolta nell’esecuzione materiale, con funzioni di autista dell’auto imbottita di esplosivo, dell’attentato del 27 luglio 1993, compiuto in via Palestro a Milano in pregiudizio del Padiglione di Arte Contemporanea, in concorso con appartenenti a cosa nostra già condannati con sentenza passata in giudicato. Si segnala che l’atto è compiuto nel corso di indagini preliminari e che l’eventuale responsabilità dell’indagata necessità di un vaglio giurisdizionale”.
A 30 anni dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, una novità per certi versi inaspettata che riaccende l’attenzione su quelle presenze ancora mai chiarite di contorno a Cosa nostra. Presenze su cui si concentra un lavoro durato anni del giornalista Massimiliano Giannantoni, che in primavera uscirà con un libro in pubblicazione per Chiarelettere e che, alla luce di quanto accaduto a Bergamo, promette di far discutere e rovinare i sonno di qualcuno.
Il riserbo sui contenuti del libro è ancora massimo, ma una cosa la possiamo dire: Rosa Belotti (che avrebbe anche un nome in codice ancora top secret) – per quanto la sua posizione sia ancora tutta da accertare e il tutto possa trattarsi di un enorme equivoco – potrebbe non essere l’unica donna a dover ricostruire di fronte agli investigatori dove si trovasse in occasione di alcuni dei più gravi fatti di sangue accaduti nel biennio 93/94. Potrebbero esserci altre donne, magari inserite (in passato o tutt’ora non è dato saperlo) in delicati settori paralleli allo Stato, che presto o tardi saliranno agli onori delle cronache.
Nella casa di Rosa Belotti, la donna accusata della strage di via Palestro: «Tutte falsità, non sono capace di uccidere neanche una cimice». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.
La 58enne di Albano Sant’Alessandro indagata a distanza di quasi trent’anni si difende: «Per me è un incubo, non ero là al 1.000 per 1.000». È la moglie del pregiudicato Rocco Di Lorenzo: «Ha sbagliato, ma se una donna ama affronta tutto».
Tortura il fazzoletto. Si fa sempre più minuscolo, più sgualcito, consumato dalle lacrime e dalla rabbia. Rosa Belotti, nei suoi 58 anni di vita, 32 al fianco del pregiudicato campano Rocco Di Lorenzo, ne ha passate tante. Coi guai ci convive, è allenata alle tensioni, persino ai blitz all’alba. Nell’ultimo processo, finito per il marito con una condanna a 11 anni di carcere , ritenuto colpevole di avere guidato una banda specializzata in estorsioni, non ha saltato un’udienza, sempre presente senza mai perdere la calma, devotamente al fianco di lui con i modi pacati e l’aspetto curato.
Ma oggi no. Oggi, esplode dal terrazzo della villetta di Albano Sant’Alessandro e si sente, confida una volta tornata in sé, «invecchiata tutto d’un colpo». Accuse così schiacciano anche una come lei. Per la Procura di Firenze, è la donna della strage di via Palestro , a Milano, 5 morti e 13 feriti. Tra le vittime, un vigile urbano di Gandino, il trentenne Alessandro Ferrari. Belotti avrebbe parcheggiato la Fiat Uno carica di esplosivo. L’ipotesi di reato è strage in concorso con mafiosi già condannati come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, con l’aggravante dell’aver agito per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale e per agevolare l’attività di Cosa Nostra. Una fotografia trovata in una perquisizione ad Alcamo, nel 1993, comparata con le fotosegnaletiche nel database del Ros attraverso le ultime tecnologie, ha portato al suo volto. Alle 7 di mercoledì (2 marzo 2022), i carabinieri le hanno suonato al citofono.
«Erano in tanti — racconta, seduta al tavolo del soggiorno —, ma sono abituata, d’istinto ho spiegato che mio marito non c’era, pensavo cercassero lui». Sta scontando una vecchia pena, mentre sugli 11 anni, confermati in Appello, deve esprimersi la Cassazione. «Mi hanno risposto: legga. Dopo le prime righe — intende del decreto di perquisizione — non sono più stata capace di andare avanti. Non sono io, dove andavo io? È inconcepibile una cosa del genere, lo è nel mio stile di vita, non riesco a uccidere nemmeno le cimici, apro la finestra e le faccio uscire. Non accetto accuse del genere, perché gente così la metterei in mano alla piazza, non basta il carcere». La strage fu il 27 luglio 1993. Un anno prima, il pm Carmen Pugliese, oggi in pensione, aveva fatto arrestare Di Lorenzo, Belotti e altri otto per traffico di cocaina, un giro tra Bergamo e Mondragone, in Campania, il paese d’origine dove erano stati ipotizzati legami con la camorra. Proprio quei legami, oggi, secondo gli inquirenti, aprono scenari da capire.
A Belotti, allora incinta, costò due anni per favoreggiamento: «Vivevamo insieme a Scanzorosciate, per forza ero finita di mezzo. Quando ho partorito, lui era ai domiciliari, avevamo dovuto chiamare i carabinieri per andare in ospedale». Nel periodo dell’attentato, era alle prese con una bimba di pochi mesi e un’altra, avuta da una precedente relazione, di 7 anni. «Posso dire al 500 per 500, al 1000 per 1000, al 10.000 per 10.000 che non c’ero a Milano, sono tutte falsità. Non si può rovinare così la vita delle persone», ripete senza fine.
La piccola di allora, Ilaria, oggi ha 29 anni e una figlia di 4. Prepara il caffè, fa passare in rassegna i siti che stanno lanciando la notizia, sbotta davanti al nome di Riina: «Lavoro tutto il giorno in fabbrica, mia mamma è una nonna a tempo pieno. Ma se fossimo persone così, davvero crede che andremmo a lavorare per mille euro al mese? Mio marito fa le notti». È Mimmo, che dal divano si fa sentire una sola volta, per dire questo: «Mia suocera neanche sa fare la benzina alla macchina». La nuora Caterina Marino, 42 anni, ricorda la permanente bionda che Belotti portava negli anni Novanta: «Mio suocero ha combinato di tutto, ma assassini no, non lo accetto», insiste Marino, che poi si sforza di scherzare. Ma Belotti piange. E appallottola il fazzoletto con la gattina Milù in cerca di coccole: «Ho una mamma di 87 anni, come reagirà? Mi sembra un incubo, da cui vorrei svegliarmi. I carabinieri mi hanno sequestrato tutte le vecchie fotografie. Ma va bene, che scavino nella mia vita, negli abissi più profondi. Io ho la coscienza pulita».
Al marito ha fatto visita anche ieri, a informarlo, però, è stato l’avvocato Emilio Tanfulla, che in questa fase sceglie il silenzio: «Parleremo con gli inquirenti». L’interrogatorio a Firenze è stato fissato giovedì 10 marzo. «Ci siamo conosciuti quando facevo la commessa in un negozio di scarpe — ricorda Belotti di Di Lorenzo —. Non lo sopportavo, mi nascondevo in bagno ogni volta che veniva a portarmi fiori, cioccolatini. Lo chiamavo “il terrone”». Ma poi non lo ha lasciato più e nel 2012 si sono sposati. «Ha sbagliato, cosa dovevo fare? Piantarlo in mezzo a una strada? I sacrifici si fanno insieme e una donna, se ama, sta vicino al proprio uomo e accetta tutto quello che arriva. Tutto. Ma questo no».
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2022.
Quindici pistole, 6 fucili, 2 bombe a mano, 9 caricatori, oltre 10.000 cartucce tra nuove e ricaricate, 15.000 proiettili. E una fotografia. Parte da un arsenale segreto custodito da due carabinieri in Sicilia, scoperto nel 1993, dove tra le pagine di un libro era nascosta pure l'istantanea di una giovane donna, il mistero della presunta attentatrice di via Palestro a cui, dopo 29 anni, la Procura di Firenze ha dato un nome e un cognome. L'auto-bomba che nella notte tra il 27 e il 28 luglio a Milano uccise cinque persone fa parte della catena di stragi mafiose consumate sul continente un anno dopo quelle di Capaci e via D'Amelio, per ricattare lo Stato e allentare la morsa della repressione seguita alle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Una carneficina voluta da Totò Riina e dal suo esercito corleonese (così hanno stabilito le sentenze), sulla quale ha sempre pesato il sospetto di complicità esterne e perfino istituzionali. Che ora trova un ulteriore indizio nella donna indagata per l'eccidio di via Palestro: Rosa Belotti, 57 anni, bergamasca, pregiudicata per fatti di droga e moglie di un campano considerato vicino a un clan camorristico, detenuto dopo una condanna per estorsione. Belotti è accusata di avere parcheggiato la Fiat Uno esplosa per colpire il Padiglione d'arte contemporanea.
Quando polizia e carabinieri, nel settembre '93, scoprirono ad Alcamo, in provincia di Trapani, quel deposito di armi in uso a due militari dell'Arma in seguito a una «soffiata», cercavano e trovarono pure la foto di una donna di cui aveva parlato l'informatore. Che assomigliava all'identikit dell'attentatrice di Milano ricostruito sulla base di un testimone oculare, che vide «una bella ragazza bionda, sui trent' anni, che dava l'idea di un fisico ben fatto e belle gambe» scendere dall'auto-bomba esplosa poco dopo.
Anche il poliziotto che aveva ricevuto la confidenza sul villino-arsenale di Alcamo aveva notato una certa similitudine tra la foto e l'identikit , ma si trattava di volti senza nome. Solo di recente il lavoro degli investigatori coordinati dai procuratori aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco è riuscito a risalire a un'ipotetica identità. Come? Attraverso l'applicativo chiamato C-Robot, normalmente usato per comparare le foto segnaletiche con quelle di persone scomparse.
La sovrapposizione dell'immagine trovata nel '93 con quella di Belotti al momento dell'arresto per favoreggiamento (relativo a un traffico di droga) nel luglio 1992 ha consentito ai carabinieri del Ris di riscontare «molto forti elementi a supporto della riconducibilità a un medesimo soggetto femminile». Al testimone che vide parcheggiare la Fiat Uno in via Palestro è stato mostrato un album di fotografie e quando è arrivato a quella di Rosa Belotti nel '92, ha indicato «tratti di similitudine» con la donna notata allora. Indizi che, per quanto labili, hanno portato alla perquisizione dell'altro ieri nella casa dell'indagata di Albano Sant' Alessandro, in provincia di Bergamo.
Quando ha visto i carabinieri pensava fossero lì per il marito, poi s' è resa conto che invece il decreto riguardava lei, indicata come presunta «esecutrice materiale» della strage, e non voleva crederci: «È inconcepibile, io non ho niente a che fare con quelle storie, non ammezzerei nemmeno una cimice». I militari del Ros hanno portato via tutto quello che potrebbe essere interessante per l'indagine, comprese tutte le vecchie fotografie. Belotti è stata convocata in Procura a Firenze per la prossima settimana, e pare abbia tutta l'intenzione di presentarsi assieme al suo avvocato per difendersi e portare prove a discarico. A cominciare dal fatto che al tempo della strage lei era uscita di galera da pochi mesi ed era appena diventata madre.
Tra il materiale sequestrato, i carabinieri avrebbero trovato una vecchia foto in cui Rosa veste un pullover che sembra uguale a quello indossato dalla donna della fotografia trovata ad Alcamo, e questo sarebbe un ulteriore indizio per un'indagine che, cercando di risalire alla presenza femminile in via Palestro segnalata anche in un documento del Sisde del 1993, dovrebbe collegare gli attentati ad ambienti extra-mafiosi. I precedenti del marito di Belotti porterebbero alla camorra, ma anche ad alcune cosche catanesi.
Tuttavia il contesto più interessante per gli inquirenti è quello che ruota intorno al deposito siciliano, dove c'erano anche armi con la matricola abrasa. Il processo a carico dei due carabinieri che avevano accesso al villino s' è chiuso con condanne lievi, senza aver accertato i reali motivi per cui i due avevano accumulato «un vero e proprio arsenale, che esula dalla semplice soddisfazione della passione del collezionista». Un enigma mai risolto che ha portato gli inquirenti a supporre che possa trattarsi di un deposito dismesso di Gladio, la struttura parallela dei Servizi segreti svelata e disciolta nel 1990.
E il collegamento con le stragi del '93, attraverso la foto della donna misteriosa, darebbe nuovo vigore alle ricorrenti ipotesi di connessioni tra la mafia stragista e i cosiddetti «servizi deviati». Ma anche con la nuova indagine e le relative perquisizioni, resta tutto da provare.
Rosa Belotti, via Palestro e la fotografia trovata ad Alcamo: «Sono io, ma con la strage non c’entro». Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.
Sembra impossibile che uno dei capitoli più oscuri della storia giudiziaria italiana porti ad Albano Sant’Alessandro, nella villetta con un pezzo di giardino, due cani e un gatto di Rosa Belotti. Eppure, , dal momento che ieri mattina (10 marzo 2022), in Procura a Firenze, la 57enne moglie del pregiudicato Rocco Di Lorenzo si è riconosciuta nella fotografia della presunta attentatrice di via Palestro, a Milano. «Sono io», ha ammesso al fianco del suo avvocato Emilio Tanfulla. Ma ha anche negato di essere coinvolta nella strage così come nella vicenda dell’arsenale scoperto ad Alcamo, in Sicilia, in un villino dove da un’enciclopedia sarebbe spuntata l’immagine di quella ragazza così somigliante, secondo l’agente di polizia che fece trovare le armi e la foto, a quella dell’identikit di via Palestro. Un testimone oculare aveva riferito di avere notato una bionda sui trent’anni scendere dall’auto poi esplosa, la sera del 27 luglio 1993. Lo stesso teste, riconvocato di recente e messo di fronte a un album, avrebbe indicato il volto di Belotti come quello con alcuni tratti sovrapponibili, in base ai suoi ricordi.
Rosa Belotti, due ore davanti ai pm di Firenze A casa di Rosa Belotti: «Tutte falsità, non ucciderei neanche una cimice» Via Palestro, un’indagata per la strage: «Guidava l’auto con l’esplosivo» Chi è Rosa Belotti, la donna indagata per la strage di via Palestro Il fratello della vittima bergamasca: «Un ricordo sempre presente»
Allora Belotti era bionda con la permanente. Era diventata mamma da pochi mesi di Ilaria, la figlia avuta da Di Lorenzo nel bel mezzo dell’indagine su un traffico di cocaina dalla Campania, che aveva portato entrambi in carcere il 4 luglio 1992. Successivamente lei era stata messa all’obbligo di firma, lui ai domiciliari. La figlia era nata a gennaio 1993. «Avevamo dovuto chiamare i carabinieri per chiedere se potevamo andare in ospedale vista la misura cautelare di mio marito», dopo la perquisizione subita il 2 marzo scorso, in un lungo sfogo di lacrime e rabbia. «Posso dire al 1.000 per 1.000 che non c’ero a Milano, sono tutte falsità, non si può rovinare così la vita delle persone», le parole per allontanare da sé, d’istinto, accuse per fatti «inconcepibili con il mio stile di vita, io non riesco a uccidere neanche una cimice».
È ciò che la donna ha tentato di spiegare anche nel colloquio di un paio d’ore con i pm toscani, di fronte a un’altra fotografia, quasi identica a quella al centro del caso: stessa giovane donna, stesso pullover indossato. Il Ros gliel’ha sequestrata ad Albano e lei ha confermato che le due immagini furono scattate insieme. Ha aggiunto, inoltre, di non avere idea di come la prima foto sia finita nel villino-arsenale. Non ha spiegazioni, perché, dice, non conosce nessuna delle persone coinvolte, a cominciare dai due carabinieri a cui faceva capo l’immobile. Sostennero che erano collezionisti di armi, furono condannati a pene sotto i 4 anni e agli inquirenti rimase sempre il dubbio di trovarsi di fronte a un nascondiglio di Gladio, l’organizzazione parallela dei Servizi segreti.
Intrecci assurdi, di cui Belotti si dichiara all’oscuro, anche se non ha fornito un alibi sulla notte della strage. Gli inquirenti glielo hanno chiesto, ma lei non ricorda dove si trovasse né è in grado, almeno per ora, di portare elementi in sua difesa. Sono passati quasi trent’anni e di quel periodo, quando viveva a Scanzorosciate, ha impressi le preoccupazioni per la bimba appena nata e gli interrogatori con il pm Carmen Pugliese, nell’indagine che aveva toccato soprattutto il marito, ritenuto vicino al clan camorristico dei La Torre. Oggi è di nuovo in carcere. Sta scontando una pena e ha altri 11 anni pendenti in Cassazione per le estorsioni fatte, con la sua banda.
Stragi del 1993, oggi parla la "biondina". Ecco come si difende. Gianluca Zanella il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.
A 29 anni dalle stragi di via dei Georgofili e via Palestro la presunta svolta: viene interrogata oggi Rosa Belotti, la donna di Bergamo sospettata di aver piazzato l'autobomba a Milano. Ma i misteri sulla vicenda restano.
È di pochi giorni fa la notizia del fermo di Rosa Belotti, 57 anni, imprenditrice di Bergamo fermata dal ROS su mandato dei pm aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco, guidati dal magistrato Giuseppe Creazzo. Una notizia che – a quasi trent’anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio in cui, assieme alle loro scorte, vennero spazzati via i giudici Falcone e Borsellino – ha scosso gli organi di stampa.
Il sospetto, infatti, è che un filo rosso leghi la Belotti a quei terribili anni, nello specifico al biennio di sangue 1993/94 quando, dopo le bombe esplose in Sicilia, l’attività stragista attribuita a Cosa nostra si spostò sul continente, colpendo duramente in via dei Georgofili, a Firenze, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, e in via Palestro, a Milano, il 27 luglio dello stesso anno. Due attentati che in totale provocarono dieci vittime innocenti. Due attentati in cui Rosa Belotti avrebbe avuto un ruolo non ancora ben specificato, ma che per ora risulterebbe essere quello della ragazza “biondina” vista da un testimone in via Palestro poco prima dell’esplosione.
La donna, inserita in un fascicolo per concorso in strage (un reato per cui sono già stati condannati pezzi da novanta del crimine organizzato come Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giuseppe e Filippo Graviano, Bernardo Provenzano e il latitante Matteo Messina Denaro), stando ad alcune indiscrezioni verrà interrogata dai magistrati oggi e aspetteremo di capire quale sarà la sua linea di difesa. Quello che per ora possiamo fare è porci delle domande.
La prima: dopo 29 anni si è arrivati al fermo di Rosa Belotti grazie a una comparazione effettuata con un software denominato C-Robot. Questo software ha confrontato una foto segnaletica del 1992 (la Belotti era finita in carcere per traffico di stupefacenti insieme al marito) e un identikit del 1993, scaturito dalla testimonianza di un uomo che, proprio in via Palestro, a Milano, avrebbe visto una “biondina” scendere dalla macchina poi esplosa poco dopo. Ora, sorvolando sul fatto che la comparazione ha dato un risultato del 67% che Rosa Belotti e la donna dell’identikit possano essere la stessa persona (tanto? Poco? Non possiamo stabilirlo noi, ma a occhio sembra pochino per inchiodare qualcuno dopo quasi 30 anni), la vera domanda è: cosa è stato fatto dal 1993 al 2022? E perché proprio oggi si arriva a questa – presunta – svolta? In questi anni qual è stata l’attività della magistratura?
Le ipotesi sono sostanzialmente due: o nel 1993 quella pista venne ritenuta di scarso interesse investigativo e quindi tralasciata (su basi che ovviamente non possiamo conoscere), oppure (ipotesi più inquietante) quella pista venne ritenuta molto buona. E ugualmente tralasciata. Perché se qualcosa è stato fatto, allo stato dell’arte non lo sappiamo.
La seconda: Come riportato in un articolo de La Nazione, prima di giungere alla comparazione effettuata grazie a C-Robot, i magistrati fiorentini sarebbero arrivati a Rosa Belotti dopo un viaggio – effettuato non sappiamo quando – ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, per interrogare una persona. E qui la storia si tinge di tinte oscure.
La località di Alcamo Marina è rimasta tristemente nota alla cronache per l’efferato omicidio di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che vennero trucidati a colpi di P38 all’interno della casermetta denominata Alkamar. Per questo omicidio vennero accusate quattro persone. Due – Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli - fuggirono all’estero, una – l’anarchico Giuseppe Vesco – dopo aver accusato gli altri cercò di ritrattare ma venne ritrovato impiccato in cella (evidentemente era un prestigiatore, perché riuscì a fare un nodo scorsoio pur essendo privo di una mano); l’ultimo – Giuseppe Gulotta – aveva 19 anni all’epoca dei fatti. Fu torturato e costretto a confessare e passò 22 anni in carcere. Oggi è libero e riabilitato e ha richiesto un risarcimento di 66 milioni allo Stato, somma che non potrà certo restituirgli gli anni migliori passati dietro le sbarre.
Dietro quell’omicidio, nel settembre 1993 – diciassette anni dopo - si allunga l’ombra di Gladio. Grazie alla soffiata di un confidente, il poliziotto Antonio Federico scopre in una casa di Alcamo, la cui proprietà era riconducibile a due carabinieri, un vero e proprio arsenale. In quanto i due carabinieri erano appartenenti al Sismi, il servizio segreto militare, le indagini su di loro vennero fermate, ma Antonio Federico aveva ricevuto anche un’altra soffiata dallo stesso confidente: la strage di Alcamo Marina era avvenuta perché i due carabinieri uccisi così tanti anni prima avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. Qualcosa legato ai traffici di armi. Qualcosa, appunto, legato a Gladio.
Insieme all’arsenale, il poliziotto in questione, guidato dalle confidenze della sua fonte decisamente ben informata, che gli aveva promesso di farli trovare dei collegamenti con le stragi avvenute pochi mesi prima a Firenze e Milano, apre il volume di un’enciclopedia sistemata all’interno di una libreria. All’interno del volume ritrova una foto. In questa foto è ritratta una donna che, stando a quanto ha riferito lo stesso Federico, somigliava all’identikit 14 diffuso dopo via Palestro. Lo stesso identikit che – confrontato con una foto segnaletica – ha portato al fermo di Rosa Belotti.
Come sicuramente avrete capito, la persona interrogata ad Alcamo Marina dai pm fiorentini è proprio Antonio Federico. Quello che ci chiediamo – ed ecco la seconda domanda – è: perché dopo tanti anni? Antonio Federico fu interrogato nell’immediatezza dei fatti? Se sì, non lo sappiamo. Se no, la cosa è parecchio strana. Non interrogarlo sarebbe stato un madornale errore investigativo. Se è vero che questa foto appare alla fine di settembre del 1993, a distanza di nemmeno due mesi dall’attentato di Milano, e di quattro da quello di Firenze, cosa è successo? Cos’ha fatto la polizia? Cos’hanno fatto i Pm? Chi era la fonte di Federico? Si sono fatte indagini in tal senso? In mancanza di informazioni più precise, ci troviamo di fronte a un buco investigativo durato decenni.
E poi una terza e ultima domanda: la foto ritrovata nell’enciclopedia. Stando a quello che siamo riusciti a capire, non era la foto segnaletica messa a confronto con l’identikit, dunque potrebbe essere un’altra. Se così fosse, in che occasione è stata scattata? Ritrae solamente la “biondina” di via Palestro o anche qualcun altro? Domande che reclamano una risposta chiara, ma non da oggi. Da 29 anni.
Tre decenni durante i quali il sospetto che dietro quella stagione di sangue non ci fosse solamente Cosa nostra è sempre stato forte, ma mai provato. Tre decenni di sussurri, sospetti, depistaggi e l’ombra inquietante di apparati deviati dello Stato a braccetto con i boss corleonesi.
E mentre facciamo ricerche, mentre scaviamo nel torbido, mentre facciamo il nostro lavoro, una fonte riservata a cui ci rivolgiamo per fare luce su aspetti poco chiari e per tentare di individuare il bandolo della matassa ci dice “è ancora fuoco vivo... fammi campare un altro po’”.
Stragi del 1993, ecco i retroscena inediti. Gianluca Zanella l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.
Si è svolto ieri l'interrogatorio di Rosa Belotti, sospettata di essere la "biondina" della bomba in via Palestro. Ma le cose non tornano e dietro il suo coinvolgimento potrebbe esserci molto di più di una foto vecchia di 29 anni.
Si è svolto nella giornata di ieri, presso la procura di Firenze, l'interrogatorio di Rosa Belotti, la donna bergamasca sospettata dai procuratori fiorentini che indagano sul biennio di sangue 1993/94 di essere la "biondina" vista da testimoni in via Palestro, a Milano, la sera del 27 luglio 1993, scendere dalla Fiat Uno bianca che esplodendo uccise cinque persone.
Torchiata per quasi tre ore, la donna - come ha fatto sin da subito - ha negato ogni addebito. Secondo indiscrezioni filtrate già poco dopo la fine dell'interrogatorio condotto dal Ros dei Carabinieri, gli inquirenti avrebbero sottoposto alla donna l'istantanea ritrovata con modalità piuttosto singolari ad Alcamo Marina, provincia di Trapani, nel 1993 da un poliziotto all'interno del volume di un'enciclopedia.
Rosa Belotti è crollata di fronte all'evidenza: in quella foto è proprio lei, ma non ha idea di come quella sua istantanea sia finita fino in Sicilia. Gli inquirenti sono arrivati alla Belotti proprio attraverso quella foto e grazie alla comparazione con un identikit stilato dopo la bomba milanese sulla base del racconto dei testimoni. Una comparazione effettuata grazie a un software chiamato C-Robot che avrebbe dato un risultato del 67% di compatibilità. Questi i fatti.
Adesso però prendiamoci un attimo per analizzare la situazione. Non serve un giurista per capire che con un risultato del 67% un qualunque avvocato alle prime armi sarebbe in grado di smontare l'accusa piuttosto facilmente. Davvero una foto di 29 anni fa (ma stando a fonti ben informate le foto sarebbero due) può inchiodare una persona - in questo caso una mamma e una nonna - a una cosa così orribile come un attentato terroristico? Un attentato - per inciso - fino a pochi giorni fa, seppur tra mille sospetti, attribuito solamente a Cosa nostra.
Il sospetto - forse qualcosa di più di un sospetto - è che non ci sia solamente questo dietro il fermo della donna bergamasca. Stando a fonti attendibili, IlGiornale.it è venuto a conoscenza di un dettaglio per ora ancora privo di conferme ufficiali, ma che spiegherebbe molte cose. Sembra infatti che dietro le accuse mosse a Rosa Belotti vi siano le testimonianze di almeno tre persone. Una di queste, con un passato criminale alle spalle, potrebbe aver condotto gli inquirenti sulla pista decisiva passando dall'auto utilizzata per l'attentato in via Palestro.
Verrebbe meno, allora, la versione ufficiale circolata nei giorni scorsi che voleva l'individuazione della Belotti avvenuta dopo un viaggio dei procuratori aggiunti di Firenze Luca Turco e Luca Tescaroli ad Alcamo Marina, per interrogare il poliziotto che nel 1993 ritrovò la foto di cui tanto si sta parlando e che - alla luce dei dettagli emersi - pare sempre di più come uno specchietto per le allodole. E anche su questa vicenda della foto i conti non tornano e la storia ufficiale lascia più di qualche interrogativo.
A che titolo il poliziotto Antonio Federico, all'epoca ispettore, si recò nella casa di uno dei due carabinieri appartenenti al Sismi (ma anche su questa appartenenza ai servizi segreti militari ci sono versioni discordanti) dove venne trovato l'arsenale riconducibile a Gladio e la foto della "biondina" di via Palestro? A chi rispondeva? Chi erano i suoi superiori? E perché, cosa ancora più strana, ha consegnato la foto solamente nel 2008?
Non è pensabile che un ispettore prenda l'iniziativa scavalcando la rete di comando, non se la posta in gioco è una "soffiata" che porta a una santabarbara; non se si tratta di scavare nei cassetti segreti dell'Arma. Insomma: la storia del ritrovamento della foto fa acqua da tutte le parti e ci chiediamo se le stesse domande che ci stiamo facendo noi, se le siano fatte gli inquirenti dell'epoca.
In attesa di ulteriori sviluppi, continueremo a seguire la vicenda che - giorno dopo giorno - apre crepe sempre più profonde nella storia non solo dello stragismo mafioso, ma dell'Italia intera.
Via Palestro, parla la donna indagata: “Sono io nella foto, ma non c’entro con la strage”. I pm di Firenze sentono Rosa Belotti, la donna indagata per l'attentato del 1993 e coinvolta nell'inchiesta per una fotografia. Il Dubbio l'11 marzo 2022.
È stata interrogata, per circa tre ore, nel palazzo di giustizia di Firenze, Rosa Belotti, 58 anni, residente ad Albano Sant’Alessandro (Bergamo), indagata dalla Direzione distrettuale antimafia fiorentina perché ritenuta «coinvolta nell’esecuzione materiale, con funzioni di autista» della Fiat Uno, imbottita di esplosivo, utilizzata per l’attentato mafioso del 27 luglio 1993 in via Palestro a Milano.
L’autobomba danneggiò il Padiglione di Arte Contemporanea e provocò cinque morti. La donna è stata perquisita il 2 marzo scorso dai militari della sezione Anticrimine dei Carabinieri del Ros di Firenze, su delega dei due procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, sotto il coordinamento del procuratore capo Giuseppe Creazzo, che indagano sulle stragi mafiose del 1993. Secondo quanto riferito dal suo difensore, avvocato Emilio Tanfulla di Bergamo, Belotti avrebbe risposto alle domande dei magistrati, ribadendo la sua estraneità ai fatti che le sono stati contestati. E’ lei la donna ritratta nell’immagine, la bionda sui 3o anni che assomiglierebbe all’attentatrice dell’identikit, avrebbe ammesso Belotti. Ma con la strage, ribadisce, non c’entra.
Ricapitoliamo. Ai primi di marzo i i carabinieri del Ros avevano perquisito l’abitazione della signora Bellotti ad Albano Sant’Alessandro, in provincia di Bergamo. La signora, come si legge nel decreto di perquisizione firmato dai procuratori aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco e dall’ancora per poco procuratore Giuseppe Creazzo, e riportato quasi per intero dai quotidiani, risulta essere indagata per “associazione di stampo mafioso finalizzata alla strage, con l’aggravante di aver agito per finalità di terrorismo ed eversione”. In pratica, con esponenti di Cosa Nostra Bellotti venne coinvolta nell’esecuzione materiale dell’attentato con funzioni di autista della Fiat Uno imbottita di tritolo lasciata davanti alla galleria. Ma come si è arrivati, dopo trenta anni, alla signora di Bergamo? Ecco che arriviamo alla fotografia. Durante una perquisizione nel 1993 a casa di un carabiniere di Alcamo, accusato di detenzioni di armi da guerra destinate a Gladio, venne rinvenuta in un libro una foto di una ragazza.
La foto era stata poi confrontata con un software C-Robot ed era risultata “compatibile” con l’immagine fotosegnalatica della Belloti, arrestata l’anno prima a Bergamo per spaccio di stupefacenti. A legare alla strage il nome della signora lombarda, un identikit fatto da due testimoni oculari all’indomani della strage che segnalarono “una giovane bionda” allontanarsi dalla Fiat Uno poi esplosa. «La mia assista è caduta dalle nuvole», ha commentato il difensore di Belotti.
Violata la presunzione di innocenza. Strage di via Palestro, “bionda” finisce alla gogna e viene stracciata la legge Cartabia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Marzo 2022.
Dalla biondina di via Fani alla biondina di via Palestro. La prima notizia, che segnalava ossessivamente la presenza di una “signora bionda” sul luogo dove il 16 marzo 1978 fu rapito Aldo Moro e trucidati gli uomini della scorta, è sicuramente falsa. Della seconda, che ha segnalato nei giorni scorsi nome cognome e indirizzo di un’altra “signora bionda” come colpevole addirittura della strage di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993, non conosciamo l’attendibilità.
Quel che sappiamo per certo è che tutte le notizie, se sono uscite dalla procura di Firenze piuttosto che dai Ros dei carabinieri e pubblicate con titoli del tipo “Portò l’autobomba in via Palestro” (La Stampa), “Strage del ’93: è lei la donna del tritolo” (Il Fatto quotidiano), “La donna dell’attentato mafioso in via Palestro a Milano ora ha un nome” (l’Espresso), hanno violato la legge. A meno che l’avvocato Emilio Tanfulla, difensore della signora inquisita, non assuma su di sé ogni responsabilità. Stiamo comunque parlando della violazione del decreto legislativo numero 188 approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri il 4 novembre in applicazione della direttiva europea del 2016 sulla presunzione di innocenza.
La signora Rosa Belotti di Albano Sant’Alessandro in provincia di Bergamo non è nuova a vicende di giustizia, è stata in carcere per fatti di droga e ha anche un marito detenuto per estorsione. Ma merita rispetto come ogni altro cittadino, e merita che nei suoi confronti sia applicata la legge voluta dalla ministra Cartabia e dal Parlamento, ma soprattutto dall’Unione Europea che aveva sollecitato gli Stati membri fin dal 2016 e l’Italia in particolare che aveva subito condanne per non essersene mai occupata in tutti questi anni. La legge da poco approvata in via definitiva è stata il primo atto concreto in tema di giustizia del governo Draghi. Impone che nessuno sia presentato come colpevole finché non sia stato condannato con sentenza passata in giudicato. E pone vincoli stretti sia ai procuratori –che possono fare conferenze stampa solo se sono utili per casi particolarmente eclatanti e urgenti- sia alle forze dell’ordine, che devono essere autorizzate ai rapporti con la stampa da appositi e motivati provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
Ci domandiamo quindi prima di tutto quale rilevanza e urgenza rivestano le notizie sulla “biondina di via Palestro”, a distanza di trent’anni dai fatti e dopo che i responsabili della strage sono stati processati e condannati. Il fatto che un paio di testimoni avessero dichiarato allora di aver visto una signora che scendeva dall’auto imbottita di tritolo in via Palestro, è sempre rimasta senza riscontro. Ma la procura di Firenze, il capo Giuseppe Creazzo e gli aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, continuano a indagare, forse nel tempo libero loro lasciato dalle indagini su Matteo Renzi e family. O forse anche perché, sulla base di una fonte attendibilissima come quella del pluriomicida mafioso Giuseppe Graviano, stanno continuando a rovistare (per la quarta volta, dopo tre archiviazioni) nelle vite di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per poterli far mandare a giudizio come mandanti di stragi. Il che dovrebbe solo far sorridere se non stessimo parlando di morti e feriti.
Fatto sta che nei giorni scorsi i Ros dei carabinieri hanno effettuato una perquisizione di una casa del bergamasco. Come sono arrivati a quell’indirizzo e quel nome? Mettendo a confronto non l’identikit ricostruito nel 1993 sulla base delle testimonianze raccolte, ma due foto. Una era stata trovata all’interno di un’enciclopedia in casa di certi carabinieri che in Sicilia ad Alcamo erano stati sorpresi con un arsenale da guerra e per quello poi condannati. Persone che nulla avevano a che fare, deve essere chiaro, con le indagini sulla mafia o sulle stragi. Una foto che è stata passata di mano in mano per trent’anni. Solo ora però, attraverso l’uso di un nuovo software che si chiama “C-robot” e la comparazione tra foto si è arrivati a Rosa Belotti, la cui immagine sarebbe compatibile con l’altra al 67%. E quindi? Siamo nel regno dell’assurdo. Ma tanto è bastato per costruire la gogna. Alla faccia della nuova legge sulla presunzione di innocenza.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Le statistiche. Chi c’è in carcere: aggressori e pusher, pochissimi i mafiosi. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Marzo 2022.
Ha un’età compresa tra i 40 e i 60 anni, ha figli. Nella maggior parte dei casi ha anche una moglie o una convivente, e ha un titolo di studio medio alto. E si trova in carcere per reati contro la persona o contro la pubblica amministrazione. Eccolo il ritratto del detenuto medio, il profilo di chi compone la maggioranza della popolazione detenute nelle carceri della Campania, e più in generale di tutto il Paese. È di queste persone che dovrà occuparsi il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altro che mafiosi, a stare in carcere sono soprattutto uomini violenti o truffatori, ladri e spacciatori. Eccolo l’identikit di chi vive dietro le sbarre.
Certo ci sono anche quelli condannati per reati di criminalità organizzata, ma sono una minoranza rispetto alla popolazione che vive nelle celle. Lo dicono le statistiche ministeriali con cui periodicamente il Ministero della Giustizia traccia un bilancio sullo stato del sistema penitenziario. Ebbene, se è vero che i numeri sono utili per descrivere certe realtà, è dai numeri indicati nelle statistiche ministeriali che viene fuori un ritratto del detenuto medio che non è solo e sempre il ritratto dello spietato e potente boss della criminalità organizzata rispetto al quale diventa difficile, come sostengono i meno garantisti, intavolare discorsi su misure alternative e provvedimenti svuotacarceri. Su una popolazione detenuta di oltre 54mila persone, sono 7.274 quelli reclusi per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso.
La maggior parte dei detenuti è dietro le sbarre per reati contro il patrimonio, cioè furti e rapine. E per reati contro la persona, quindi aggressioni e lesioni. Nella prima sfera di reati rientrano 31.009 detenuti, nella seconda 23.611 detenuti. E allora come mai, quando si parla di carcere, ci si concentra sempre ed esclusivamente sui boss della camorra? Ragionare su misure alternative al carcere e sulla possibilità di ricorrere al carcere solo come extrema ratio può essere possibile per più della metà della popolazione detenuta. Cosa significherebbe? Innanzitutto la fine di carceri-inferno, e poi di celle strapiene, di diritti mortificati, di spazi inadeguati, di attività di rieducazione non a singhiozzo e non per pochi, di tutela della salute, di tutela dei diritti anche di chi lavora in carcere perché le risorse non saranno inadeguate a gestire il numero di detenuti che sarebbe realmente presente nelle celle.
In due parole, sicurezza e diritti. Di tutti. Di chi vive all’interno delle strutture penitenziarie e di chi vive nel mondo fuori. I numeri, dicevamo. Sono stati, nel 2021, più di 8mila i detenuti per reati contro la pubblica amministrazione e oltre 9mila quelli dentro per possesso di armi. I numeri descrivono anche un altro aspetto della questione carcere tanto dibattuto quanto nei fatti ignorato: i detenuti problematici, quelli per esempio tossicodipendenti. Sono molto numerosi. Nel 2021 si sono contati 18.942 detenuti per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Rispetto al passato sono in numero più contenuto (erano più di 23mila nel 2005 e più di 21mila nel 2019), ma sono pur sempre ancora moltissimi, se si considera che più della metà oltre a trafficare in droga ne sono anche assuntori. Sono dunque troppi per le strutture di cui il sistema penitenziario dispone, inadeguate a gestire detenuti con dipendenze e patologie.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Cosa sanno i cultori del carcere duro di amministrazione penitenziaria? I detenuti per reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 6 marzo 2022.
Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è chiamato ad occuparsi della gestione amministrativa delle carceri. Dunque, deve occuparsi di personale, di Polizia Penitenziaria, di condizioni detentive degli internati, di edilizia carceraria. Deve amministrare un bilancio di imponenti dimensioni. Si tratta insomma di un incarico di alta amministrazione, in uno dei comparti pubblici più delicati e peculiari.
La prima domanda che dovremmo tutti farci seriamente, che invece pochi si fanno e alla quale pervicacemente nessuno risponde, è perché mai si ritenga immancabilmente di affidare questo delicato e complesso incarico a un magistrato. Il quale ultimo è entrato nei ranghi della Pubblica Amministrazione vincendo un concorso che valuta qualità, conoscenze ed idoneità del tutto estranee a quelle – chiaramente manageriali, e anche non poco sofisticate- richieste per amministrare il Dap. Perfino se fosse un magistrato con lunga esperienza al Tribunale di Sorveglianza – il che, paradossalmente, non accade praticamente mai- questi sarebbe comunque privo delle più rudimentali cognizioni di management pubblico che la funzione necessariamente presuppone.
Ma questo è il Paese che ha maturato una idea talmente ancillare verso il potere giudiziario, da essersi convinto a considerare di esclusiva competenza magistratuale qualunque funzione (non giurisdizionale ma) amministrativa in tema di Giustizia. A questa assurdità (assimilazione della competenza amministrativa a quella giurisdizionale) se ne è aggiunta una seconda, particolarmente rozza e primitiva e perciò cara alla diffusa cultura manettara di questo Paese, secondo la quale quella carica deve essere affidata, come dire, ad un “mastino”, che dia garanzie di una solida cultura poliziesca e, soprattutto, “antimafiosa”, qualunque cosa ciò possa concretamente significare. Dunque, non solo magistrati, ma preferibilmente Pubblici Ministeri con solido curriculum in processi contro le mafie, e con solida cultura carcerocentrica.
Ora, dovete sapere che i detenuti per titoli di reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Le ragioni per le quali costoro sono detenuti, debbano rimanerlo e con quale regime detentivo, sono di esclusiva spettanza dei magistrati che li indagano, li giudicano, ne curano il regime esecutivo della pena. Il regime detentivo speciale del cosiddetto 41 bis è fissato da norme di legge primarie e secondarie. Dunque, la seconda domanda che tutti dovremmo farci, che invece pochi si fanno e alla quale pervicacemente nessuno risponde è: cosa c’entra l’antimafia con il Dap? Ma qui è inutile tentare un ragionamento, siamo di fronte a quel crogiuolo esplosivo di isteria collettiva e retorica un tanto al chilo che annichilisce le sinapsi e preclude ogni sensata discussione. Con una popolazione di 60mila persone detenute da governare, di altre centinaia di migliaia tra personale amministrativo e di polizia penitenziaria da amministrare, di strutture carcerarie fatiscenti da adeguare, di enormi flussi di denaro da spendere in modo ottimizzato, le prèfiche nazionali dello schiavettone strepitano indignate, perché il nome avanzato dalla Ministra Cartabia non garantirebbe quegli sconclusionati parametri di idoneità all’incarico che ci siamo inventati non si sa quando, non si sa come, non si sa perché. Il dottor Renoldi non è un Pubblico Ministero dunque non può vantare maxi inchieste e maxi arresti di mafia; è “solo” ( sic!) un Giudice della Corte di Cassazione, dunque – parrebbe di capire che questo sia il pensiero degli energumeni indignati- una mammoletta senza spina dorsale; e soprattutto avrebbe espresso qui è là, in quel tal convegno o in quel tal altro scritto, idee sull’ergastolo ostativo semmai consonanti con le salottiere ed irritanti pruderie della Corte Costituzionale, ma certamente insostenibili a petto della rude e maschia cultura antimafia, chessò, di un Gratteri o di un Di Matteo.
Quindi, cari amici, a questo stiamo. Avremmo voluto chiedere alla Ministra Cartabia: perché ancora un magistrato? (e non un direttore di carcere di lungo corso, o un qualificato studioso di diritto penitenziario, o meglio ancora un manager pubblico)?; e invece dobbiamo cogliere nella decisione della Ministra, per di più con sincero compiacimento, almeno il segno comunque coraggioso e limpido della fedeltà alla sua idea di carcere e di pena che ha da subito reso esplicita, e che, naturalmente, le fa onore. Invece che un pm scegli un giudice, per di più non grondante idolatria della ostatività, e tanto basta a scatenare il linciaggio. Ahi poveri noi, poveri noi.
Un garantista al Dap. Il capo del Dap non è un Pm: grillini e leghisti ingoiano il rospo, panico al Fatto Quotidiano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Marzo 2022.
Sarà perché ci sono ben altre urgenze -le stragi in Ucraina, l’energia e il caro-bollette, l’uscita dall’emergenza pandemia- fatto sta che anche i partiti di governo più recalcitranti, Lega e Movimento cinque stelle, hanno dovuto deglutire la nomina da parte del Consiglio dei ministri unanime del giudice Carlo Renoldi a capo del Dap. Non se ne pentiranno, crediamo, quando anche i più zucconi capiranno che cosa è il mondo del carcere, un’istituzione totale di oltre cinquantamila persone, di cui la metà non ancora processate, private della libertà per le ragioni più disparate, con un eccesso di ricorso alla norma penale che riempie le prigioni invece di svuotarle e di affrontare i problemi di devianza sociale per quel che sono, cioè spesso dei non-reati.
Abbiamo sempre ritenuto inopportuno il fatto che il ruolo di capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria fosse un pubblico ministero, e in particolare uno dei cosiddetti pm “antimafia”, proprio per questo motivo. Perché hanno la tendenza prima di tutto a privilegiare l’esigenza della sicurezza rispetto a quella della funzione di reinserimento del detenuto nella società. E poi, specie per quei magistrati che provengono dall’aver ricoperto il ruolo di pubblici accusatori nei maxiprocessi di mafia, per la tentazione di vedere i detenuti solo come assassini pericolosi. Può sembrare un paradosso, ma il sapere che cosa pensi il dottor Renoldi dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario o dell’ergastolo ostativo è del tutto secondario, interessa solo agli ossessionati del Fatto quotidiano e a quelli dell’antimafia militante. Il mondo della giustizia, e anche del carcere, ha ben altri e gravi problemi. O vogliamo tornare ai tempi in cui ogni domenica sera da Giletti si sparava contro il capo del Dap Francesco Basentini, che veniva messo in croce per una circolare in cui, in piena pandemia, si chiedeva alle direzioni carcerarie di segnalare i nominativi di anziani e malati in modo da snellire il sovraffollamento ed evitare maggiori contagi? E quando lo stesso ministro Bonafede veniva preso d’assalto perché al posto di Basentini non aveva nominato un pm “antimafia” doc come Nino Di Matteo.
Carlo Renoldi non fa parte di quei giri lì. Durante un convegno li aveva anche criticati come coloro che stanno ancorati alle immaginette di Falcone e Borsellino in modo ideologico. Naturalmente, poiché chiunque può essere impiccato per una frase isolata dal contesto o volutamente fraintesa, la stupidità militante era partita lancia in resta contro il giudice e la sua nomina, voluta dalla ministra Cartabia. Ma pochi avevano fatto, nei giorni in cui era trapelata la notizia della sua probabile nomina al Dap, lo sforzo di informarsi bene, di capire chi è, che cosa ha fatto (e non solo quel che ha detto in qualche convegno) nella sua vita di magistrato, Carlo Renoldi. Forse i suoi dieci anni trascorsi nel ruolo di giudice di sorveglianza a Cagliari, invece di essere un titolo di merito per la competenza, spaventano. Così come il fatto che abbia sollevato alcune questioni di costituzionalità su norme penitenziarie che la Corte ha accolto o abbia fatto parte di una commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario, forse induce qualche sospetto. Soprattutto da parte di quel mondo, per fortuna non più così numeroso, per cui il vero magistrato, quello che conta, è solo colui che ha quanto meno fatto il pm nel fallimentare “processo trattativa”.
Gli cede il posto Dino Petralia, che si è dimesso dalla magistratura, prima che da capo del Dap, con qualche mese di anticipo dalla scadenza dei 70 anni, età della pensione per i magistrati. Se ne va dopo un commiato negli uffici della ministra Cartabia cui hanno partecipato, come lui stesso racconta, i vertici della magistratura e del Csm. Costretto a precisare di non esser stato cacciato per far posto al giudice Renoldi. Come se non fosse stata la stessa Guardasigilli, al momento del suo ingresso nel governo, a confermare sia Dino Petralia che Roberto Tartaglia come suo vice al vertice del Dap. Ma i tartufoni del Fatto quotidiano preferiscono l’immagine di una ministra amica dei mafiosi che caccia un ex pm “antimafia” per far posto a uno che, proprio come lei, preferirebbe secondo loro usare la mano morbida con i boss. Come se non esistesse la Costituzione a imporre un certo trattamento nei confronti dei detenuti. Come se non esistesse la presunzione d’innocenza, ribadita dal Parlamento con voto unanime. Agli auguri di buon lavoro al nuovo capo del Dap con parole incoraggianti da parte del Garante dei detenuti e dell’associazione Antigone e a quelli del deputato del Pd Walter Verini (che sente la necessità di ricordare l’esigenza di sicurezza nelle carceri, quasi timoroso di esser additato per intelligenza con il nemico), non possiamo che aggiungere i nostri. Per l’uguaglianza dei diritti. Di tutti.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Renoldi è il nuovo capo del Dap: anche i ministri 5S si piegano a Cartabia. VIA LIBERA UNANIME DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI ALLA NOMINA DEL GIUDICE PROPOSTO DALLA GUARDASIGILLI PER LE CARCERI. Hanno detto sì, dunque, anche le delegazioni governative di pentastellati e Lega. Nonostante il muro alzato nei giorni scorsi contro il magistrato “colpevole” di avere a cuore la dignità dei detenuti. Errico Novi su Il Dubbio il 18 marzo 2022.
Secondo Giulia Sarti, irriducibile dell’intransigenza 5 Stelle, Carlo Renoldi sarà pure «un magistrato di grande capacità e professionalità», ma la sua nomina resta «non perfettamente in linea con le peculiari esigenze del Dap». Eppure stasera il no pentastellato, ma anche leghista e meloniano, ha dovuto piegarsi alla volontà di Marta Cartabia: intorno alle 18.30, infatti, durante un Consiglio dei ministri in cui si è discusso anche di molto altro, il governo ha deliberato all’unanimità la nomina del giudice individuato dalla ministra della Giustizia quale nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria.
All’unanimità. Dunque anche con l’assenso dei ministri in quota Movimento 5 Stelle e in quota Lega. I fan della “antimafia dura e pura” si sono dovuti arrendere alla determinazione della guaerdasigilli, che sulla materia forse a lei più cara, la dignità nelle carceri, non ha accettato veti.
Dopo le polemiche sollevate non solo da alcuni partiti di maggioranza e da Fratelli d’Italia, ma anche da alcuni magistrati, a cominciare dal consigliere Csm Nino Di Matteo, si compie un passaggio destinato a segnare l’intera esperienza di Cartabia a via Arenula.
Su Renoldi, Cartabia aveva avvertito: non darò retta a Travaglio
Solo tre giorni fa, nel corso di un’audizione al Senato, la ministra aveva fatto intendere che stavolta la sua diplomazia avrebbe lasciato posto alla fermezza: «Non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare, poi ne riparleremo», aveva detto a proposito delle bordate esplose contro Renoldi sul Fatto quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio era stato il primo a far emergere le posizioni critiche del consigliere di Cassazione, ed ex giudice di Sorveglianza a Cagliari, sul regime del 41 bis.
Ma Cartabia era stata di una durezza inconsueta, martedì scorso: «Vediamo se Renoldi è una persona che corrisponde all’immagine dipinta in alcune visioni mediatiche o se ha le qualità per cui io mi sono sentita di proporlo». Praticamente l’annuncio di quanto è avvenuto poco fa in Consiglio dei ministri: via libera unanime su richiesta della guardasigilli.
Anche se Sarti, ex presidente e tuttora deputata della commissione Giustizia, insiste nel dire: «Restiamo perplessi e preoccupati di fronte alla nomina». Continueranno a cannoneggiare. Ma stavolta, sul carcere, ci si batte in campo aperto. Non più soltanto con il vigliacco sadismo consumato a tavolino sulla pelle dei detenuti.
Dap, inizia l’era Renoldi: finalmente un garantista. Redazione su Il Riformista il 18 Marzo 2022.
Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla nomina di Carlo Renoldi a capo del Dap. Lo hanno riferito fonti del ministero della Giustizia. Giornata nera per Travaglio e il M5s, che avevano osteggiato la nomina del magistrato, ritenuto troppo fedele al dettato alla Costituzione, ovvero troppo poco forcaiolo. «Restiamo perplessi, potrebbe risultare non perfettamente in linea con le peculiari esigenze del Dap», è non a caso il benvenuto che riserva a Renoldi Giulia Sarti, deputata grillina e membro della commissione Giustizia.
Di ben altro avviso Stefano Anastasia, Portavoce dei Garanti territoriali, nonché Garante dei detenuti della Regione Lazio. «Carlo Renoldi è un magistrato di grande valore e competenza professionale. Ben prima della duplice condanna europea per il sovraffollamento in carcere nelle sue funzioni di giudice di sorveglianza – chiosa Anastasia – aveva prestato attenzione alla dignità e ai diritti dei detenuti. Eguale e critica attenzione ha prestato alla legislazione sulle droghe che riempie le nostre carceri di quella che Sandro Margara chiamava la “detenzione sociale”, quella cioè che non dovrebbe stare in carcere, se non avessimo una legge criminogena e se funzionasse adeguatamente il sistema dei servizi socio-sanitari. Tutto ciò ci rende fiduciosi nell’incarico che la ministra Cartabia e il Cdm hanno voluto affidargli».
(ANSA il 9 marzo 2022) - Un voto contrario e tre astensioni. Il Csm ha dato così il via libera a maggioranza al collocamento fuori ruolo di Carlo Renoldi, chiesto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, per consentirgli di assumere l'incarico di capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
Contro ha votato il laico della Lega Stefano Cavanna, ritenendo Renoldi una figura "divisiva", mentre si sono astenuti il laico del M5S Fulvio Gigliotti e i togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita.
La nomina di Renoldi deve passare dal Consiglio dei ministri, ma ha già suscitato polemiche all'interno della maggioranza per le posizioni assunte dal magistrato sul carcere duro per i mafiosi e sull'ergastolo ostativo. Al punto da spingerlo a inviare nei giorni scorsi una lettera di chiarimento alla ministra Cartabia.
(AGI il 9 marzo 2022) - "Sono perfettamente consapevole che, in applicazione della normativa primaria e secondaria attualmente vigente, non sussistono formali motivi ostativi all'autorizzazione in questione. Oggi sicuramente questo plenum autorizzerà il collocamento fuori ruolo del dottor RENOLDI per assumere l'incarico di Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, ma ciò non si realizzerà anche con il mio voto".
Lo ha detto in plenum il togato indipendente Nino Di Matteo, spiegando le ragioni della sua astensione. "Le forti perplessità che impediscono alla mia coscienza di votare a favore del collocamento fuori ruolo del dottor RENOLDI per assumere un incarico così importante e delicato derivano da talune sue esternazioni pubbliche", afferma Di Matteo, ricordando in particolare, che RENOLDI "ha utilizzato toni e parole sprezzanti nei confronti di coloro i quali, altrettanto legittimamente, avevano assunto posizioni diverse dalle sue, arrivando a delegittimare gravemente perfino il Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti".
Il togato ricorda poi le parole di RENOLDI in occasione della commemorazione, nel 2020, di Margara, in passato capo del Dap e rileva che "nel precisare ulteriormente che con l'espressione antimafia militante aveva inteso riferirsi ad associazioni, movimenti, testate editoriali ed anche ad ambienti e soggetti istituzionali" RENOLDI "ha definito - osserva Di Matteo - almeno alcune parti di tale 'Antimafia' come esempio di 'ottuso giustizialismo' bollando ancora la costante invocazione da più parti del rispetto del principio di certezza della pena come esplicativa di un 'vecchio retribuzionismo da talk show'".
Per questo, ha concluso il togato indipendente, "non posso in coscienza esprimere voto favorevole all'autorizzazione al collocamento al vertice del Dap di un collega che in occasioni pubbliche ha dimostrato pervicace e manifesta ostilità nei confronti di ambienti e soggetti, anche istituzionali, che avrebbero quantomeno meritato un diverso rispetto
I duri e puri si indignano. Carlo Renoldi nuovo capo del Dap, il Csm dà il via libera ma Di Matteo e Ardita si sfilano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Marzo 2022.
Parte già con una bella corona di spine sul capo, il magistrato Carlo Renoldi, cui il plenum del Csm a larga maggioranza ha autorizzato ieri la messa fuori ruolo e la nomina a direttore del Dap. Solo un piede nell’uscio per ora, in realtà, perché l’ultimo passaggio, quello dell’approvazione del Consiglio dei ministri, potrebbe non essere solo un fatto formale. Infatti, delle tre astensioni che non hanno consentito un voto unanime, oltre a quelle previste dei togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, l’altra è quella dell’esponente laico in quota Cinque stelle Fulvio Gigliotti. E soprattutto l’unico voto contrario, quello di Stefano Cavanna, indossa la felpa della Lega, e forse ha dato un voto contrario più al governo che alla persona di Renoldi, che si limita a definire “figura divisiva”, la cui nomina addirittura potrebbe secondo lui danneggiare la reputazione della magistratura “oggi ai minimi storici”.
Ma anche in un ex partito leninista come la Lega non mancano le contraddizioni. Infatti ha votato a favore l’altro consigliere nominato nella stessa quota politica , Emanuele Basile, un avvocato di Lodi, ex parlamentare, che ha sempre manifestato posizioni opposte a quelle del chiudere la cella e buttare la chiave. I consiglieri Di Matteo e Ardita, il cui voto non favorevole a Carlo Renoldi era ampiamente previsto, non hanno nascosto un pensiero dominato da una storia che ha molto a che fare con la costruzione del “Processo Trattativa” e dell’antimafia militante. Percorsi che confliggono apertamente con i comportamenti, le parole e la giurisprudenza di molti giudici di sorveglianza. I quali, proprio come Carlo Renoldi, conoscono bene le carceri e hanno studiato le leggi che hanno riformato gli istituti di detenzione e introdotto il trattamento individuale di ogni prigioniero come base per quel percorso di cambiamento tanto caro alla ministra Cartabia. Questi magistrati in gran parte condividono la giurisprudenza della Corte Costituzionale degli ultimi anni e soprattutto quella della Cedu, a partire da quella “sentenza Viola” che per prima svincolò il superamento dell’ergastolo ostativo dalla necessità per il detenuto di diventare un “pentito” e confessare, più che i propri, i (presunti) reati altrui.
Il “la” a Di Matteo e Ardita pare averlo dato un antico leader di Magistratura Democratica, Giancarlo Caselli, il quale, prendendo vistosamente le distanze da un magistrato di quella che fu la sua corrente quando ancora indossava la toga, ha lanciato dal Fatto quotidiano una sorta di ordine: l’ergastolo ostativo non si tocca. Due i destinatari, il Parlamento che sembra aver già recepito l’indicazione e marcia fiducioso nella direzione opposta a quella tracciata dalla Corte Costituzionale che aveva dato un anno di tempo per la riforma, e il Csm che si è riunito ieri. Per ora, possiamo dire che si sono comportati meglio i magistrati, che hanno già battuto i politici uno a zero. Anche se quelle tre astensioni e quel voto contrario pesano, eccome. Tagliente l’accetta con cui il dottor Ardita ha colpito, qualora ci fossero ancora dubbi, la possibilità di qualunque forma di attenuazione all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e l’ergastolo ostativo. Impressionante però la sua visione delle carceri. Che evidentemente non conosce, e che descrive come “un edificio in fiamme”, così composto: al vertice il 41-bis, ma alla base “ingovernabilità, inciviltà e mancanza di regole”. Forse è per questo che un sincero riformatore come Carlo Renoldi non sarebbe adatto per migliorare la situazione? O si deve dedurre che a parere del consigliere Ardita, ci vorrebbe una mano forte? Non un pompiere a spegnere l’incendio e salvare vite umane, ma qualcuno che quelle celle le tenga sempre ben serrate?
La totale ignoranza di che cosa sia una prigione da parte dei magistrati (quasi tutti) è impressionante, e grave, soprattutto perché i pubblici ministeri e i giudici del settore penale sono quelli che vi mandano i cittadini, anche prima delle sentenze. Chi potrebbe mai sbattere dentro una cella anche il peggior nemico sapendo di mandarlo in luoghi ingovernabili e incivili, addirittura palazzi in fiamme? Lo stesso ex magistrato Caselli, in quell’articolo sull’ergastolo ostativo, ricordava i suoi due anni di permanenza al Dap come il periodo più difficile della sua vita in toga. Eppure era stato un prestigioso procuratore. Evidentemente non si era mai posto il problema. Come del resto il consigliere Nino Di Matteo, che ancora una volta si è dimostrato il più politico, nella seduta di ieri. Già il mancato voto contrario è un segnale di capacità di incuriosire, di farsi ascoltare. Si è posto come leader e ha fatto un discorso da leader. Con una certa astuzia ha sostenuto prima di tutto di essere consapevole del fatto che il suo collega aveva tutte le carte in regola per avere la nomina alla direzione del Dap. “Ma ciò non si realizzerà anche con il mio voto”, ha poi buttato lì. Fare pure, ma non nel mio nome. Più politico di così.
Poi è riuscito in un abile gioco di prestigio. Un po’ come quelli che usano la perifrasi negativa per lanciare contumelie: non dirò mai che il tale è un delinquente… e intanto l’hanno detto. Così Di Matteo sostiene che la sua contrarietà alla nomina di Renoldi è più un fatto formale che sostanziale. Cioè della persona non gli danno fastidio tanto i suoi pensieri, la sua visione della giustizia e del carcere, ma il modo in cui li manifesta. Così, nel frattempo, è riuscito a elencare per esempio, nel modo più demagogico possibile, la critica all’ “antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”, sapendo che l’argomento ha molta presa, soprattutto se ricordato sui quotidiani del giorno successivo. Ma astutamente eludendo il concetto della frase completa, quella in cui Renoldi diceva che delle vittime di mafia come Falcone e Borsellino non si ricordava mai niente di quel che erano stati e avevano fatto, ma li si usava solo come immaginette. Strumentalmente. Perché “vengono ricordati esclusivamente per il sangue versato e per la necessaria esemplarità della reazione contro un nemico irriducibile”. Queste frasi, uno come Di Matteo le ha capite molto bene, e sa che sono una critica non all’antimafia in generale, ma alle modalità con cui sono stati condotti in tutti questi anni i processi in Sicilia, peraltro con esiti disastrosi proprio per quelli come lui.
Sono frasi che gli bruciano per il loro contenuto profondo, e anche per la consapevolezza di aver perso tante battaglie. Renoldi è un magistrato di sinistra un po’ vecchio stampo, come il suo maestro Margara, che era tutt’altro che arrogante. Pure è questo il concetto con cui il consigliere Di Matteo ha tentato di demolire la figura del futuro presidente del Dap, descritto come arrogante, come uno “che usa toni e parole sprezzanti nei confronti di chi non la pensa come lui”. La corona di spine è pronta. Vedremo ora se la ministra Cartabia riuscirà a togliergliela senza pungersi a sua volta.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La nomina del capo del Dap è sempre più divisiva all’interno del Csm. GIULIA MERLO su Il Domani il 09 marzo 2022
La proposta di nominare il magistrato progressista Carlo Renoldi a capo del Dap ha suscitato scontro politico e divisione anche all’interno del Csm, dove la sua collocazione fuori ruolo è passata a maggioranza ma dopo un dibattito acceso. Il ruolo a capo del Dap negli ultimi anni è diventato sempre più delicato: al centro, il problema della gestione dei detenuti, soprattutto di mafia
Il vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è una poltrona sempre più scomoda: da nomina delicata e molto ben retribuita ma interna al ministero della Giustizia, negli ultimi anni ha assunto connotati sempre più politici.
Proprio la scelta del nuovo capo del Dap, dopo il pensionamento di Dino Petralia, è diventato argomento di scontro sia dentro la magistratura che tra i partiti di maggioranza.
A suscitare polemica è stata la scelta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, del consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza vicino a Magistratura democratica, Carlo Renoldi. Sotto accusa sono finite le sue posizioni a favore della modifica dell’ergastolo ostativo e la sua visione critica rispetto ad alcune posizioni dell’antimafia e non sono bastati i suoi chiarimenti scritti inviati alla ministra per calmare lo scontro.
LA DIVISIONE AL CSM
La nomina al Dap è di tipo fiduciario perchè si tratta di un incarico dirigenziale interno al ministero e la scelta del candidato spetta alla ministra della Giustizia. Tuttavia, l’indicazione deve essere ratificata dal consiglio dei ministri e, se il nuovo capo è un magistrato, il Csm deve approvare la sua collocazione fuori ruolo.
Questo passaggio normalmente è quasi un pro forma sulla base del principio di collaborazione tra amministrazioni, visto che si tratta di un incarico ministeriale. Invece, il Consiglio superiore della magistratura si è diviso su Renoldi, il cui collocamento fuori ruolo è avvenuto a maggioranza e dopo un dibattito acceso.
Al momento del voto, gli astenuti sono stati i due togati di Autonomia e Indipendenza, Nino di Matteo e Sebastiano Ardita, e il consigliere laico in quota Movimento 5 Stelle, Fulvio Gigliotti, mentre ha votato contro il laico della Lega, Stefano Cavanna.
Tecnicamente i consiglieri erano chiamati ad esprimersi sulla collocazione di Renoldi fuori ruolo e non sull’opportunità del nuovo ruolo che andrà ad assumere, invece il dibattito ha riguardato questo secondo aspetto.
A motivare il suo voto contrario è intervenuto duramente Cavanna, che ha definito legittima la richiesta di «una fuoriuscita dalla giurisdizione per un magistrato richiesto dal Governo per svolgere funzioni fuori ruolo», ma in questo caso «mi sembra doveroso fare anche una valutazione di opportunità, perchè una figura di questo tipo non può che essere divisiva». Quindi Cavanna ha spiegato il suo voto contrario dicendo di aver valutato «l’utilità per la magistratura ed i riflessi sulla sua immagine dello specifico fuori ruolo».
Non diverso è stato il ragionamento di Di Matteo, che ha spiegato la sua astensione dicendo che Renoldi «Per illustrare le sue legittime opinioni in materia di concedilità di benefici penitenziari anche ai condannati all'ergastolo cosiddetto ostativo, ha utilizzato toni e parole sprezzanti nei confronti di coloro i quali, altrettanto legittimamente, avevano assunto posizioni diverse». Un comportamento, questo, che secondo Di Matteo «delegittima gravemente perfino il Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti».
Meno duro ma comunque astenuto è anche Ardita: «Premetto che sono contrario all'attenuazione del 41 bis e dell'ergastolo ostativo e non condivido le critiche espresse dal dottor Renoldi all'antimafia militante. Ma la realtà carceraria è come un edificio in fiamme. Dentro le carceri ci sono pezzi in cui non comanda lo stato».
LO SPECCHIO DELLA MAGGIORANZA
Proprio queste divisioni espresse dentro il Csm non fanno altro che alimentare lo scontro politico che già era sorto, al momento della proposta di Renoldi. Di più: la divisione dei laici del Csm ricalca esattamente quella politica interna alla maggioranza.
In Consiglio il voto negativo (di astensione o contrario) al fuori ruolo è arrivato da Gigliotti del Movimento 5 Stelle e da Cavanna della Lega e proprio grillini e leghisti – insieme all’opposizione di Fratelli d’Italia - sono stati i più duri nell’attaccare la nomina di Cartabia.
Da fonti ministeriali è emersa la ferma volontà della ministra di proseguire con la nomina, che è appunto considerata fiduciaria e dunque di stretta responsabilità della guardasigilli.
Tuttavia, è sempre più probabile che la contrarietà politica di M5S e Lega verrà manifestata anche in sede di consiglio dei ministri, che deve ratificare la nomina. Incerto, invece, è se questo produrrà conseguenze sulla già traballante stabilità della maggioranza di governo.
LE RAGIONI DELLO SCONTRO
Ad alimentare lo scontro tra le parti è uno scontro che affonda in un dibattito mai risolto interno all’amministrazione della giustizia: il modo di intendere la lotta contro la mafia e, di conseguenza, la gestione del carcere e dell’espiazione delle pene.
Renoldi ha una visione del carcere molto simile a quella di Cartabia, che ha sempre posto l’accento sulla sua funzione rieducativa come indicata dalla Costituzione. A partire da questo, l’ormai ex consigliere di Cassazione si era espresso in favore della decisione della Consulta di dichiarare incostituzionale l’ergastolo ostativo nella parte in cui crea un automatismo tra benefici penitenziari e collaborazione con la giustizia.
Proprio su questo tema e dopo la sentenza, è incardinata alla Camera una proposta di legge di modifica dell’ergastolo ostativo nel senso di eliminare l’automatismo e attribuire la scelta di attribuire i benefici alla valutazione dei magistrati, pur sulla base di parametri rigidi.
Inoltre, sotto accusa sono finite le parole di Renoldi che durante un convegno del 2020 aveva parlato di «antimafia militante arroccata nel culto dei martiri», che ricorda solo la risposta repressiva e dimentica che «l’affermazione della legalità non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
Su questo, Renoldi ha tentato inutilmente di smorzare le polemiche con una lettera alla ministra in cui scrive: «Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia», costato la vita a tanti «servitori dello Stato e non ho mai messo in dubbio la necessità dell'istituto del 41bis». Però, ricorda Renoldi, la piaga della mafia non può «far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato».
Per Lega e Movimento 5 Stelle la nomina di Renoldi rimane «inopportuna» e Fratelli d’Italia ne ha chiesto il ritiro perché «manca solo la nomina a capo del Dap di un magistrato che ha sempre contrastato il carcere duro per i mafiosi per dare l'idea della resa della Stato».
Anche i sindacati di polizia si sono dichiarati scettici se non apertamente contrari alla scelta di Renoldi, visto che il capo del Dap è anche il vertice della polizia penitenziaria.
PERCHÈ UN INCARICO DELICATO
Il Dap è il dipartimento in assoluto più delicato dei quattro che compongono il ministero della Giustizia. È stato istituito nel 1990, in sostituzione della precedente Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, e il suo vertice gode dell’indennità più alta all’interno del ministero.
I compiti del Dap sono di garantire l’ordine e la sicurezza dentro ai penitenziari, sovrintendendo l’esecuzione della pena e delle misure di sicurezza detentive, oltre che delle misure alternative alla detenzione. Di fatto, dunque, gestisce la vita carceraria dei circa 60 mila detenuti e a quella professionale dei circa 40 mila agenti della polizia penitenziaria.
Inoltre – e questo è il ruolo più delicato – dirige la polizia penitenziaria ed è il crocevia di tutte le informazioni anche legate alla pubblica sicurezza che arrivano da dentro le carceri.
Esiste una sorta di prassi per la quale il vertice del Dap sia sempre un magistrato: è così dal 1983, quando è stato isitutito il dipartimento. Tendenzialmente la qualifica preferenziale per ricoprire il ruolo è di aver svolto attività nell’Antimafia, ma in realtà non esiste alcuna norma che vieti di indicare avvocati, professori o garanti dei detenuti per il ruolo.
Negli ultimi anni il ruolo è diventato sempre più delicato ed è stato al centro delle polemiche. Il caso più eclatante è avvenuto nel 2020, in piena pandemia e durante il mandato di Francesco Basentini, nominato nel 2018 dall’allora ministro Alfonso Bonafede.
Basentini ha dovuto dimettersi in seguito alla gestione delle rivolte carcerarie di Modena e alle cosiddette “scarcerazioni facili” a causa del Covid e il suo posto è stato preso da Petralia.
IL CASO DI MATTEO
Lo scontro politico più forte, tuttavia, ha riguardato Bonafede e Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm astenuto sulla nomina di Renoldi. Proprio dopo le polemiche sugli errori gestionali di Basentini, Di Matteo ha dichiarato che Bonafede aveva offerto a lui il posto al capo del Dap, ma che – dopo il suo sì – il ministro gliela aveva negata.
Nel frattempo, dal gruppo operativo mobile arrivano informazioni alla procura nazionale antimafia di cui Di Matteo fa parte, che descrivono «la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e altri stragisti, all’indiscrezione che potessi essere nominato capo del Dap. Quei capimafia dicevano: “se nominano Di Matteo è la fine”», dice Di Matteo.
L’allusione è che Bonafede abbia fatto il passo indietro sulla nomina perché era anche lui al corrente di queste informazioni, che erano state trasmesse anche al ministero, e che quindi temesse reazioni mafiose.
Il ministro ha sempre negato questa ricostruzione e di non aver ricevuto alcuna pressione esterna contro la nomina di Di Matteo. Tuttavia, non è mai stato chiarito né perché Di Matteo abbia aspettato due anni – dal 2018 al 2020 – per raccontare questi fatti e la ragione della ritrattazione di Bonafede.
Tuttavia, il caso Di Matteo dà la dimensione della delicatezza del ruolo al Dap, del perché sia così nevralgico e ambito ma anche perché politicamente è sempre più incandescente.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Scontro sul Dap e quell’idea di antimafia ancora ferma agli anni Novanta. Recuperare la terzietà e la neutralità dell’espiazione della pena è la prima grande sfida, e ha bisogno di un capo del Dap adeguato. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 6 marzo 2022.
La battaglia in corso sulla nomina del prossimo capo del Dap è, per la prima volta dopo tanti anni, al centro di un dibattito pubblico vero.
Dai toni aspri, ma vero. Non è chiaro se la notizia dell’intenzione della ministra Cartabia di nominare Carlo Renoldi, consigliere della Cassazione, sia stata fatta trapelare da ambienti ministeriali ostili, ma certo ben informati, oppure se la guardasigilli abbia democraticamente avviato un giro di consultazioni tra le forze di maggioranza per coglierne le indicazioni e qualcuno abbia lanciato il sasso nello stagno mediatico. Certo è che la designazione ha dato luogo a durissime prese di posizione contro il magistrato cui si contesta una posizione, come dire, “morbida” in materia di carceri e, soprattutto, di gestione del regime speciale, il cosiddetto 41 bis. Inoltre, il consigliere Renoldi sembra pagare qualche parola di troppo nei confronti del circuito dell’antimafia e dei suoi rituali. Le due cose, ovviamente, si tengono tra loro. In un paese in cui mafia e terrorismo hanno mietuto centinaia di vittime innocenti, è inevitabile che ci sia un gruppo di irriducibili che ritengono le politiche penitenziarie mai dure abbastanza nel far scontare ai colpevoli il prezzo delle loro scelleratezze. È comprensibile e si tratta di posizioni che meritano il massimo rispetto. Ma che non possono condizionare per decenni il dibattito sul sistema carcerario, sull’ergastolo ostativo, sul regime speciale di detenzione. La scelta del governo Berlusconi, nel 2002, di stabilizzare e conferire un assetto definitivo alla reclusione di 41 bis – dopo venti anni – merita di essere presa nuovamente in considerazione e non per indugiare a un ingiusto perdonismo, ma per fare un bilancio realistico, obiettivo, verificabile della necessità di mantenere in regime di isolamento centinaia di detenuti, anche dopo decenni di carcere. È un punto decisivo che viene costantemente tenuto lontano dal dibattito pubblico, sommerso da un profluvio di commemorazioni, anniversari, convegni e quant’altro che rendono difficile uno sguardo distaccato e sereno. In una nazione seria si dovrebbe pur stabilire se le mafie siano state o meno strategicamente sconfitte dallo Stato e siano state costrette a ripiegare su “semplici” arricchimenti e violenze minute senza alcuna possibilità di occupare più un ruolo egemone sulla società. Ovvero se, come qualcuno ipotizza, si siano acquattate da qualche parte e attendano tempi migliori. Sia chiaro: che le organizzazioni mafiose esistano e siano pericolose non lo nega nessuno, il punto è se lo Stato abbia conseguito successi tali da sbaragliare la bramosia di potere dei clan confinandoli (come in molte altre parti del mondo) al ruolo di gruppi criminali e di bande di malviventi. Ecco che la discussione sul prossimo capo del Dap deve essere ben accetta e costituisce un’occasione di confronto preziosa.
Soprattutto dopo il terribile pasticcio combinato dal precedente ministro della Giustizia nel caso Di Matteo, direttore in pectore misteriosamente messo da parte ai piani alti di via Arenula. Il punto centrale è se il carcere, in ossequio alla Costituzione, debba o meno avere al proprio centro la funzione rieducativa della pena e la riabilitazione del condannato o se debba restare pienamente assorbito dalla belligeranza dichiarata alle cosche oltre i suoi cancelli.
Perché ciò accada la dimensione detentiva deve acquisire una neutralità persa decenni or sono, quando le celle erano divenute covi di malaffare (la potente narrazione dello champagne all’Ucciardone); celle che lo Stato ha poi trasformato in un’ulteriore proiezione del campo di battaglia alle mafie estendendo entro le mura intercettazioni, sequestri, captazioni, regimi speciali. Recuperare la terzietà e la neutralità dell’espiazione della pena è la prima grande sfida, e ha bisogno di un capo del Dap adeguato che la politica deve scegliere senza timore di polemiche e senza porsi alla continua ricerca del placet del Politburo dell’antimafia.
Musolino: «Io, pm, dico: il mito del 41 bis fa comodo a chi vuol negare le vere radici della mafia». Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria, interviene sulla polemica per la designazione di Carlo Renoldi al vertice del Dap. Valentina Stella su Il Dubbio il 6 marzo 2022.
La polemica sulla designazione da parte della ministra Cartabia di Carlo Renoldi come nuovo vertice del Dap non si placa. Cosa ne pensa di tutto questo un gruppo associativo sensibile al tema del carcere come Magistratura democratica? Lo chiediamo al segretario della corrente progressista, Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria, con alle spalle dieci anni, appena “compiuti”, alla Dda reggina, che gli consentono di discutere sul tema anche in base a quella esperienza.
Renoldi è finito sotto attacco per essere stato individuato dalla ministra Cartabia quale possibile nuovo capo del Dap. Qual è la vostra posizione in merito?
Non abbiamo una posizione specifica, su una scelta che è di esclusiva pertinenza della ministra. Le polemiche a cui lei fa riferimento sono, essenzialmente, ispirate da una logica mafio- centrica che trascura le più complesse qualità e sensibilità richieste a chi è chiamato a dirigere il Dap. Le condizioni di degrado strutturale in cui versano oggi le carceri, le drammatiche insufficienze di uomini e mezzi, il tema della marginalità sociale ristretta negli istituti penitenziari che ne determina il sovraffollamento, la necessità di far uscire il carcere dalla periferia sociale per porlo al centro delle dinamiche culturali e delle politiche degli enti locali. Dovrebbero essere questi i temi su cui valutare l’adeguatezza di Carlo Renoldi.
E invece le stilettate contro di lui sono arrivate soprattutto per le sue posizioni sul 41 bis.
A me pare che le posizioni espresse da Renoldi diano conto della complessità del tema, insofferente a un approccio ideologico da guerra di religione, fondata su inestirpabili pregiudizi. Io credo che un approccio laico ai temi del regime speciale regolato dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario dovrebbe suggerire maggiore attenzione per la capacità dell’istituto di reggere alle valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di quella della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Un sistema normativo figlio di una logica di emergenza che il tempo sta usurando.
Quindi il 41 bis non è destinato a durare per sempre?
L’istituto è necessario per contenere la capacità dei dirigenti mafiosi di continuare a gestire dal carcere le dinamiche criminali, ma la restrizione dei diritti individuali in funzione delle esigenze di sicurezza generale deve trovare un punto di compensazione più elevato di quello attuale. Invece, secondo alcuni, la capacità dello Stato di contrastare adeguatamente il fenomeno mafioso si misura tutta sul mantenimento integrale del regime del 41 bis. Ma così facendo, se ne fa un mito intoccabile, tacendone le inefficienze e, soprattutto, trascurando i temi dell’antimafia sociale, quella che ambisce ad incidere sui fattori genetici del fenomeno che risiedono nella oggettiva povertà economica e culturale di alcune zone del Paese. Sostenere il totem del 41 bis fa comodo a tanti perché così non si affrontano le vere criticità sottese al fenomeno mafioso.
A cosa allude quando si riferisce alle inefficienze del 41 bis?
Alcune delle previsioni che regolano l’articolo 41 bis hanno natura puramente afflittiva e sono, perciò, esorbitanti rispetto alla logica che ispira la necessità di un trattamento differenziato dei dirigenti mafiosi. Lo ribadisco: l’istituto è necessario, perché l’esperienza, anche quella dei detenuti mafiosi in regime di alta sicurezza, dimostra come costoro abbiano un atteggiamento refrattario alle proposte rieducative e tendano a ripetere anche all’interno delle strutture detentive quelle che sono le modalità relazionali e i metodi che caratterizzano l’organizzazione. Ma se questo è vero, dobbiamo anche consentire valutazioni individualizzate dei singoli percorsi detentivi che non siano viziate da pregiudizi irresistibili, ma siano capaci di garantire anche al detenuto mafioso la possibilità di emendarsi e usare il tempo trascorso in carcere quale momento di rieducazione ed emancipazione dall’organizzazione e dai suoi metodi.
Quindi come si esce dall’equivoco per cui chi desidera un carcere più umano e rispettoso dei diritti sarebbe in realtà intenzionato a depotenziare la lotta alla mafia?
Io credo che la necessità di una detenzione ispirata al massimo rispetto delle dignità umana sia ineludibile e sia imposta dalla Costituzione e dalla normativa internazionale. Sulla base di questa ispirazione di fondo, credo sia giunto il tempo di rivalutare con attenzione un istituto indispensabile nel contrasto alle mafie, riformandone i profili puramente afflittivi ed accentuando la rilevanza di una valutazione individualizzata di ciascun detenuto. Come le ho detto anche in altre occasioni, continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico: è un fenomeno ormai cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione in grado di tenere insieme le ragioni della sicurezza sociale con quelle dei diritti dei soggetti coinvolti nei processi.
È rispuntata la questione della “trattativa” Stato- mafia: Salvatore Borsellino, sempre sul caso Renoldi, ha parlato di “ultima cambiale della trattativa”. Scrive il collega Aliprandi che questo tema riappare sempre per “intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o di ergastolo ostativo”. Lei che pensa?
Trattandosi di un tema complesso, è necessario osservarlo da plurime prospettive, ognuna delle quali ha aspetti di ragionevolezza. Se non se ne fa un tema da guerra di religione, ogni contributo è utile a migliorare la comprensione delle poliedriche sfaccettature che ne disegnano l’insieme, migliorando la qualità del compromesso finale tra diritti individuali e ragioni di sicurezza sociale. Mentre rifiutare il confronto e descrivere come un traditore dell’antimafia chi muove da altre valutazioni credo sia profondamente sbagliato. Costruire su questa materia totem pregiudiziali non aiuta l’antimafia, aiuta piuttosto quelli che sull’antimafia fanno carriera e gran parte della politica.
A cosa si riferisce quando chiama in causa la politica?
La politica sembra non volersi assumere le responsabilità che deriverebbero da una antimafia sociale, sicché preferisce delegare tutto al mito della repressione e a quello della mafia, che si coltivano vicendevolmente. Se pensiamo che da trent’anni il modo di approcciare alla mafia è solo quello della repressione, chi pensa che questo sia ancora il solo metodo per fronteggiarla dovrebbe chiedersi perché questa ricetta non ha funzionato. Questo non vuol dire sottovalutare la natura del fenomeno mafioso, ma sottolineare che una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata. A tal proposito mi permetta però di aggiungere due parole su quanto letto ieri sul vostro giornale ( il riferimento è all’articolo di Damiano Aliprandi intitolato “Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa”, ndr).
Prego.
Descrivere Md e il dibattito al suo interno come qualcosa di ideologizzato o indifferente ai temi di cui stiamo parlando non fa un servizio alla verità. Le faccio solo un esempio: quando venne resa nota l’indagine a carico dell’ex ministro Conso nell’ambito del processo cosiddetto sulla trattativa, Nello Rossi (allora procuratore aggiunto a Roma ed esponente di spicco della corrente di sinistra della magistratura, ora direttore della rivista di Md “Questione Giustizia”, ndr) difese Conso pubblicamente, attirandosi le critiche anche di altri magistrati. Md è sempre stata e ambisce ad essere un luogo aperto al confronto e ispirato dalla curiosità del dialogo, soprattutto su questi temi in cui la tentazione di sfuggire alla complessità con soluzioni semplicistiche o elevare bandiere ideologiche possono costituire freni alla tutela più piena dei diritti coinvolti: quelli individuali e quelli collettivi.
La nomina al Dap. Quella cultura manettara che vuole l’antimafia al governo del Dap. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Marzo 2022.
Il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria è chiamato ad occuparsi della gestione amministrativa delle carceri. Dunque, deve occuparsi di personale, di Polizia Penitenziaria, di condizioni detentive degli internati, di edilizia carceraria. Deve amministrare un bilancio di imponenti dimensioni. Si tratta insomma di un incarico di alta amministrazione, in uno dei comparti pubblici più delicati e peculiari.
La prima domanda che dovremmo tutti farci seriamente, che invece pochi si fanno ed alla quale pervicacemente nessuno risponde, è perché mai si ritenga immancabilmente di affidare questo delicato e complesso incarico ad un magistrato. Il quale ultimo è entrato nei ranghi della Pubblica Amministrazione vincendo un concorso che valuta qualità, conoscenze ed idoneità del tutto estranee a quelle -chiaramente manageriali, ed anche non poco sofisticate- richieste per amministrare il DAP. Perfino se fosse un magistrato con lunga esperienza al Tribunale di Sorveglianza -il che, paradossalmente, non accade praticamente mai- questi sarebbe comunque privo delle più rudimentali cognizioni di management pubblico che la funzione necessariamente presuppone.
Ma questo è il Paese che ha maturato una idea talmente ancillare verso il potere giudiziario, da essersi convinto a considerare di esclusiva competenza magistratuale qualunque funzione (non giurisdizionale ma) amministrativa in tema di Giustizia. A questa assurdità (assimilazione della competenza amministrativa a quella giurisdizionale) se ne è aggiunta una seconda, particolarmente rozza e primitiva e perciò cara alla diffusa cultura manettara di questo Paese, secondo la quale quella carica deve essere affidata, come dire, ad un “mastino”, che dia garanzie di una solida cultura poliziesca e, soprattutto, “antimafiosa”, qualunque cosa ciò possa concretamente significare. Dunque, non solo magistrati, ma preferibilmente Pubblici Ministeri con solido curriculum in processi contro le mafie, e con solida cultura carcerocentrica. Ora, dovete sapere che i detenuti per titoli di reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Le ragioni per le quali costoro sono detenuti, debbano rimanerlo e con quale regime detentivo, sono di esclusiva spettanza dei magistrati che li indagano, li giudicano, ne curano il regime esecutivo della pena. Il regime detentivo speciale del c.d. 41 bis è fissato da norme di legge primarie e secondarie.
Dunque, la seconda domanda che tutti dovremmo farci, che invece pochi si fanno ed alla quale pervicacemente nessuno risponde è: cosa c’entra l’antimafia con il D.A.P.? Ma qui è inutile tentare un ragionamento, siamo di fronte a quel crogiuolo esplosivo di isteria collettiva e retorica un tanto al chilo che annichilisce le sinapsi e preclude ogni sensata discussione. Con una popolazione di 60mila persone detenute da governare, di altre centinaia di migliaia tra personale amministrativo e di polizia penitenziaria da amministrare, di strutture carcerarie fatiscenti da adeguare, di enormi flussi di denaro da spendere in modo ottimizzato, le prèfiche nazionali dello schiavettone strepitano indignate, perché il nome avanzato dalla Ministra Cartabia non garantirebbe quegli sconclusionati parametri di idoneità all’incarico che ci siamo inventati non si sa quando, non si sa come, non si sa perché.
Il dott. Renoldi non è un Pubblico Ministero dunque non può vantare maxi inchieste e maxi arresti di mafia; è “solo” (sic!) un Giudice della Corte di Cassazione, dunque -parrebbe di capire che questo sia il pensiero degli energumeni indignati- una mammoletta senza spina dorsale; e soprattutto avrebbe espresso qui è là, in quel tal convegno o in quel tal altro scritto, idee sull’ergastolo ostativo semmai consonanti con le salottiere ed irritanti pruderie della Corte Costituzionale, ma certamente insostenibili a petto della rude e maschia cultura antimafia, chessò, di un Gratteri o di un Di Matteo. Quindi, cari amici, a questo stiamo. Avremmo voluto chiedere alla Ministra Cartabia: perché ancora un magistrato? (e non un direttore di carcere di lungo corso, o un qualificato studioso di diritto penitenziario, o meglio ancora un manager pubblico)?; e invece dobbiamo cogliere nella decisione della Ministra, per di più con sincero compiacimento, almeno il segno comunque coraggioso e limpido della fedeltà alla sua idea di carcere e di pena che ha da subito reso esplicita, e che, naturalmente, le fa onore. Invece che un P.M. scegli un giudice, per di più non grondante idolatria della ostatività, e tanto basta a scatenare il linciaggio. Ahi poveri noi, poveri noi.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Giustizialisti all'assalto. Ergastolo ostativo, il Parlamento la butta in ammuina e lascia spazio all’assalto giustizialista. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Marzo 2022.
Tira brutta aria alla Camera dei deputati, dove lunedì scorso è iniziata la discussione sull’ergastolo ostativo. E non spira migliore brezza dalle parti del Ministero di giustizia, dove la guardasigilli Cartabia è già sotto attacco per aver indicato per la direzione del Dap, in luogo del consueto pm “professionista” dell’ antimafia, un ex giudice di sorveglianza che conosce il carcere e le sue regole. E che è stato già costretto, dopo aver subito attacchi vergognosi, a fare atto di fede all’articolo 41-bis del regolamento carcerario.
Al dottor Renoldi aveva già scritto ieri sul Fatto quotidiano una lettera aperta il dottor Caselli. Il quale, dopo aver ricordato come “l’esperienza più difficile della mia vita professionale” i due anni trascorsi al Dap, dà un’unica raccomandazione al collega: “l’ergastolo ostativo non va toccato” . Un’indicazione che sembra esser stata raccolta prima di tutto proprio dal Parlamento dove, di limatura in limatura, si sta andando nella direzione di disattendere le indicazioni dell’Alta Corte, che un anno fa sancì l’incostituzionalità della “morte sociale”, dando al Parlamento un anno di tempo (la scadenza al prossimo maggio) per l’approvazione di una legge che rispetti, oltre alla Costituzione, anche l’articolo 3 del regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo.
È sempre antipatico dover riconoscere di aver avuto ragione, ma quando nell’aprile dell’anno scorso avevamo scritto alla Corte Costituzionale “serviva più coraggio”, avevamo guardato con realismo la composizione dell’attuale Parlamento, fermo nei numeri e nella qualità dei suoi rappresentanti alle elezioni del 2018, con la prevalenza numerica dei Cinque stelle, con una Lega ondeggiante tra l’iniziativa referendaria e quel gusto antico del “buttare la chiave” dopo aver chiuso la cella, un Pd disposto a tutto pur di stare al governo con i grillini e la destra di Giorgia Meloni ancorata sempre più alle tradizioni del Msi. Resta ben poco sul piano numerico, senza nulla togliere alla qualità non solo dei componenti di Forza Italia e Italia viva, oltre a qualche singolo parlamentare, come Enza Bruno Bossio del Pd.
La giurisprudenza che mette in discussione il cuore stesso della norma che dal 1992 esclude dai benefici penitenziari una serie di condannati per reati gravi che non si siano “pentiti”, cioè di coloro che hanno ammesso i reati propri e denunciato quelli altrui, è chiarissima fin dal 2019. E non consente limature né i famosi “salvo che” in cui è specializzata la cultura di una certa sinistra, quella più sensibile alle sirene del Partito dei pm. Si parte dalla “sentenza Viola”, quella con cui la Cedu aveva condannato l’Italia perché non consentiva a Marcello Viola, condannato per gravi reati di mafia, di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge del 1975. Il detenuto si era sempre dichiarato innocente ed estraneo ai reati che gli erano stati contestati. La sua era quindi una collaborazione impossibile. La sentenza metteva in discussione la costrizione al “pentimento”. E’ importante ricordare quel punto di partenza, perché è da lì che si arriva ai provvedimenti della Corte Costituzionale. Che, ancora di recente, con la sentenza numero 20 di quest’anno, ribadisce come punto fermo l’esistenza della collaborazione impossibile o inesigibile.
Ora la domanda è: nel testo in discussione alla Camera questo principio esiste ancora? Pare di no. Bisogna tener conto del fatto che non esistono solo coloro che si dichiarano non colpevoli, ma anche quei condannati che non hanno più nulla da aggiungere a quel che spesso un’intera schiera di “pentiti” ha già raccontato. E ancora, tanti sono i detenuti che hanno già fatto un intero percorso (di 26 anni) di cambiamento della propria vita, ormai lontani dal mondo mafioso, ma che per una questione di principio non vogliono scendere al livello dei delatori, oppure semplicemente temono per la vita dei propri familiari. Perché tutti costoro devano essere inchiodati a ciò che furono?
Il dottor Caselli ritiene, e non è il solo, che chi è stato delinquente una volta lo sia per sempre, perché negli ambienti della criminalità organizzata tutti sarebbero vincolati a una sorta di giuramento religioso o massonico insuperabile. Non è così. Potremmo fare i nomi e i cognomi dei tanti che sono veramente cambiati e si sono reinseriti nella società. Ma anche l’intervento di lunedì alla Camera del presidente della Commissione giustizia, Mario Peraboni, esponente dei Cinque Stelle, non promette niente di buono, e pare allineato al pensiero dei magistrati “antimafia” che sono stati ascoltati nel corso del lavoro in commissione.
Punto primo: per quale motivo per la concessione al detenuto di permessi premio o di liberazione anticipata occorre interpellare il pm presso il giudice che ha emesso la sentenza (e in alcuni casi addirittura il Procuratore nazionale antimafia)? Cioè colui che ha scattato la fotografia nel momento della commissione del reato? Secondo punto: il Parlamento non si fida dei giudici di sorveglianza, di quelli come il dottor Renoldi, insomma. Infatti il testo base in discussione sposta ogni decisione al tribunale, organo collegiale. E ancora: i 26 anni trascorsi i quali l’ergastolano può cominciare ad avanzare le sue richieste diventano 30. Ma non basta.
E’ inquietante quel “se sarà dimostrato” non solo il suo cambiamento, ma anche il concreto distacco dalle organizzazioni criminali. Pare che il testo preveda una sorta di corsa a ostacoli, lunga e complicata che il detenuto dovrà sostenere per arrivare all’agognata meta. E che dovrebbe fungere in realtà da disincentivo. Ma la Cedu e la Corte Costituzionale avevano detto altro.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Sull’ergastolo vince il ricatto violento dell’antimafia. Più che una difesa d’ufficio, il discorso pronunciato da Walter Verini due giorni fa, a Montecitorio, sulla legge che riforma l’ergastolo ostativo è l’ammissione di una difficoltà estrema. Errico Novi su Il Dubbio il 2 marzo 2022.
Nessuno poteva realisticamente aspettarsi, sull’ergastolo ostativo, uno slancio garantista incondizionato. Nessuno poteva illudersi che l’attuale Parlamento concepisse una legge davvero illuminata. E infatti il testo condiviso dalla commissione Giustizia, sul quale di qui a qualche ora arriverà il via libera dell’aula di Montecitorio, è una trincea piena di ostacoli per il condannato “non collaborante”. Lo ha ricordato ieri, in un’intervista al Dubbio, la deputata del Pd Enza Bruno Bossio, tra i pochi che, nell’esame in commissione, abbiano avuto il coraggio di difendere davvero i princìpi dettati dalla Consulta. Perché, va ricordato, la legge sull’ostativo è la conseguenza di una pronuncia, la numero 97 dello scorso anno, con cui la Corte costituzionale ha spiegato che non è legittimo considerare la collaborazione con la giustizia come la sola via a disposizione di un ergastolano condannato per reati ostativi che voglia accedere al più importante dei benefici, la liberazione condizionale.
Certo, il giudice delle leggi ha chiesto al Parlamento di eliminare il pregiudizio assoluto tuttora previsto, per chi non collabora, dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario senza però compromettere la sicurezza collettiva. Ma nel testo si legge la volontà di alzare vere e proprie barricate sul ritorno alla libertà del detenuto di mafia. È da lui, da chi è stato per trent’anni recluso quasi sempre in regime di 41 bis, che si pretendono prove in grado di escludere residui collegamenti con l’organizzazione o il rischio che vengano ripristinati.
È vero d’altronde che, per la maggioranza attuale, un risultato diverso era di fatto impossibile. Si può legiferare se si è consapevoli che l’ossequio allo Stato di diritto verrebbe travisato un minuto dopo, dai pm antimafia e dal Fatto quotidiano, come un regalo alle cosche? Si può, ma è davvero molto difficile. E su quanto fosse difficile, ha offerto una testimonianza in fondo schietta Walter Verini, dirigente dem che ha esposto, due giorni fa in Aula, la posizione prevalente nel suo partito. Ha esordito così: «Diciamo subito che il testo è il frutto di un lavoro importante e impegnativo e per niente semplice».
Non può passare inosservato che ad Enza Bruno Bossio si sia data la possibilità di proporre una “relazione di minoranza”, in parallelo con l’intervento di Verini. Segno della prova non facile che il partito oggi di maggioranza relativa nel Paese si è trovato ad affrontare. «Il lavoro svolto raggiunge una sintesi, con un testo perfettibile certamente, ma in grado di tenere insieme i due princìpi segnalati dalla Corte costituzionale», ha detto Verini. Che non ha taciuto delle sollecitazioni arrivate alla commissione affinché adottasse un impianto davvero garantista: «Le opinioni del professor Ruotolo, di Patrizio Gonnella di Antigone, del presidente Anm Santalucia, del professor Anastasia: alcune di queste personalità sono, secondo noi, punti di riferimento di grande spessore nel dibattito giuridico- costituzionale e in quello legato all’ordinamento penitenziario», ha chiarito il deputato dem. Che ha aggiunto: «Sono critiche e questioni che meritano ascolto, anche se alcune, forse, viziate da una certa unilateralità. Ma probabilmente è giusto, perché analoga unilateralità può essere stata espressa da altre personalità con opinioni diverse e magari opposte».
Verini insomma ha reso l’idea della tenaglia in cui si sono trovati i deputati: da una parte la tesi di chi ha ben presenti gli insulti alla Costituzione consumati nel sistema e nell’ordinamento penitenziario, dall’altra gli irriducibili che vedono nello Stato di diritto un vile cedimento. Si poteva e doveva arrivare in Aula con una legge migliore di questa. Ma quanto avvenuto spiega benissimo come l’insinuazione dell’accusa di collaborazionismo in qualsiasi lampo garantista delle leggi antimafia sia ancora oggi uno dei più formidabili e violenti ricatti a cui si è costretti ad assistere nella politica giudiziaria.
Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa. Le ricostruzioni sulla trattativa Stato-Mafia sono una spada di Damocle anche sulla corrente, come dimostra il caso del magistrato indicato dalla guardasigilli al capo del Dap. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 3 marzo 2022.
Non entriamo nel merito dell’intervista del fratello di Paolo Borsellino pubblicata sul Fatto Quotidiano. Pieno di luoghi comuni, inesattezze, argomentazioni prive di base logica dettate sicuramente dalla mancanza di conoscenza. Potremmo contrapporre la lucidità e sensibilità, dettata anche dalle visite in carcere, di Fiammetta Borsellino che è esattamente agli antipodi. Ma non lo facciamo. Sarebbe sbagliato strumentalizzare le vittime di mafia che hanno tutto il diritto di pensare come vogliono. Invece è doveroso sollevare un problema.
Il silenzio di Magistratura democratica, corrente di cui fa parte Carlo Renoldi indicato dalla ministra Cartabia come capo del Dap, davanti alle imbarazzanti ricostruzioni del teorema trattativa Stato-mafia, utilizzate per intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o ergastolo ostativo. Attenzione, non pretendiamo che i magistrati di Md interferiscano su una inchiesta o un processo. Quello sarebbe sbagliato. Ma vista la sensibilità della corrente contro l’idea reazionaria del sistema penitenziario, sarebbe stato giusto un intervento ogni qual volta un loro collega, o addirittura un loro iscritto, vada ad esempio innanzi alla Commissione giustizia e usi una intercettazione, inconsapevolmente stravolgendone il contenuto, per dire ad esempio che nel 2000 Bernardo Provenzano parlava dell’ergastolo ostativo, dando la percezione che ci fu una trattativa in corso per abolirlo. A pensare che l’ergastolo ostativo è un termine coniato dalla dottrina soltanto pochi anni fa.
Così come ad esempio, sarebbe stato bello che Magistratura democratica fosse intervenuta quando si parlava della famosa mancata proroga del 41 bis a circa 300 soggetti da parte dell’allora ministro Giovanni Conso. Una delle pseudo prove dell’avvenuta trattativa Stato mafia. Perché non sono intervenuti, rendendo così onore al magistrato Alessandro Margara, iscritto a Md, uomo di grande spessore e cultore del diritto penitenziario, che fu proprio uno dei magistrati di sorveglianza che sollevò la questione alla Corte costituzionale? Sì, perché le revoche dei 41 bis ai 300 soggetti (tra l’altro solo una piccolissima parte erano mafiosi, di basso rango) disposte dal ministro Conso nel ’93, furono conseguenza della sentenza della Corte costituzionale (numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993) che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi.
Il merito di quella sentenza, ricordiamo, è stato anche di Alessandro Margara che sollevò la questione quando era magistrato di sorveglianza a Firenze. Non di una trattativa, non della mafia, ma dello Stato di Diritto. Lo stesso Franco Corleone, attualmente garante dei detenuti del carcere di Udine, ricorda i colloqui avuti con Margara stesso e il suo sbalordimento per le accuse a Giovanni Conso, accusato di avere appunto tolto dal regime del 41 bis presunti mafiosi per favorire la “trattativa Stato mafia”. Sono argomenti privi di contatto con la realtà, che inevitabilmente intossicano il dibattito. Non permette di far progredire il nostro Stato di Diritto. Anzi, lo arretra. Molti parlamentari, a partire di chi ricopre ruoli istituzionali come l’attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, sono imbevuti di questa propaganda. Ne hanno assorbito talmente tanta, che a sua volta la veicolano anche loro. I danni sono enormi, a partire da quelli culturali. Il rischio è che anche le istituzioni scolastiche ne rimangano travolte. I giovani studenti, saranno (o sono) le prime vittime. In realtà Magistratura democratica, in particolare Area, non solo è stata in silenzio, ma nel passato ha organizzato anche convegni sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove i partecipanti al dibattito, ancora una volta, hanno usato queste argomentazioni totalmente fallaci.
Eppure, all’interno di Magistratura democratica, ci sono tuttora persone di valore e che conoscono molto bene il meccanismo. Sanno benissimo che il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle, non solo sopra la testa di un eventuale governo illuminato, ma anche sulla loro. Le critiche feroci, e completamente sballate nei confronti di un loro iscritto, il magistrato Carlo Renoldi, ne sono la dimostrazione. Speriamo solamente che la ministra della Giustizia Marta Cartabia mantenga il punto. Altrimenti vince la paranoia e la teoria del complotto sulla Politica. E ciò diventa pericoloso, perché tutto ciò è funzionale allo Stato di Polizia, anziché di Diritto.
LA NOMINA. Cartabia sceglie il nuovo capo del Dap, che divide sia i magistrati che la politica. GIULIA MERLO su Il Domani il 28 febbraio 2022
Si chiama Carlo Renoldi, appartiene alle toghe progressiste e parla di «carcere dei diritti», in passato ha attaccato quella che ha definito come «antimafia militante arroccata nel culto dei martiri». Le sue posizioni sul 41 bis sono in linea con quelle della ministra, ma la Lega ha espresso «preoccupazione per un candidato scelto in modo unilaterale»
Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha un nuovo capo: Carlo Renoldi, consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza, prende il posto di Bernardo Petralia, che ha chiesto di andare in pensione.
La nomina ha suscitato reazioni opposte, sia sul fronte politico che su quello interno all’amministrazione penitenziaria.
A far sollevare una parte della maggioranza – in particolare la Lega e il Movimento 5 Stelle –sono stati sia il metodo che il profilo scelto.
Sul fronte del metodo, la critica alla ministra della Giustizia Marta Cartabia è di aver scelto il candidato in modo unilaterale e anche molto rapido, senza aver consultato le forze di maggioranza. Quanto al profilo, è spiccato l’elemento di novità rispetto al passato: Renoldi, infatti, è noto per aver preso posizioni critiche rispetto a un certo modo di intendere la lotta alla mafia, che lui ha definito «arroccata nel culto dei martiri».
Proprio questo ha suscitato la dura reazione della responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno: «La Lega manifesta preoccupazione per la scelta», in particolare «desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell'Antimafia».
A difenderlo, invece, è intervenuto il membro della commissione Giustizia del Pd, Walter Verini, che ha parlato di «magistrato di grande preparazione, in generale e in particolare sul tema della gestione e dell'umanizzazione dell'ordinamento penitenziario. Il rigore inflessibile nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, dentro e fuori dal carcere, non può essere in contrasto con i principi fissati dalla Costituzione».
Dal ministero della Giustizia, tuttavia, è stato fatto notare che la nomina a capo di un dipartimento è di tipo fiduciario, pur passando dal consiglio dei ministri.
In ogni caso, il 9 marzo sarà la prima seduta utile per il Csm per pronunciarsi sul collocamento fuori ruolo di Renoldi: una valutazione che non è di merito ma oggettiva rispetto al parametro del tempo già trascorso fuori ruolo da Renoldi (non si possono superare i 10 anni) e della scopertura di organico dell’ufficio in cui attualmente presta servizio.
UN NOME IN LINEA CON LA MINISTRA
Renoldi, 53 anni e originario di Cagliari, è attualmente consigliere della prima sezione penale della Cassazione. In passato, invece, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Magistrato che non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria.
Dal punto di vista dell’orientamento, è vicino a Magistratura democratica ma iscritto anche ad Area, il gruppo associativo che per anni è stato il contenitore delle toghe progressiste che ora invece si sono divise.
La sua nomina è in continuità sia con gli orientamenti della Corte costituzionale in materia di carcere, a partire dalla recente ordinanza che ha dichiarato incostituzionale il 4bis (il carcere duro senza benefici per i condannati ostativi che non hanno collaborato con la giustizia), ma anche con la linea della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sulla funzione riabilitativa del carcere.
«Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza», ha scritto Renoldi.
Il suo profilo considerato progressista e riformatore in tema di gestione del carcere, però, non convince i sindacati di polizia penitenziaria, visto che Renoldi assumerà anche il ruolo di capo del corpo. «Renoldi non dimentichi che dovrà rappresentare coloro che pressoché quotidianamente hanno a che fare con detenuti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza della sezione detentiva», si legge in un comunicato del Sappe, «Per quello che ha detto nel passato, dunque, credo che Carlo Renoldi sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria».
LE POSIZIONI SULL’ANTIMAFIA
A rendere divisivo il profilo di Renoldi, però, sono le sue prese di posizione sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere.
In un convegno a Firenze del 2020, Renoldi ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che «che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa».
Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: «Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
L’ERGASTOLO OSTATIVO
Questa nomina è in linea con un tentativo di riforma dell’ordinamento carcerario che Cartabia sta portando avanti e procede in parallelo con la riforma dell’ergastolo ostativo ora alla Camera.
La Consulta, infatti, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’automatismo per il quale i condannati al 4bis – il cosiddetto carcere duro – possano accedere ai benefici carcerari solo in caso di collaborazione con la giustizia. Secondo la Corte, questo automatismo è contrario alla finalità rieducativa della pena e il parlamento è chiamato a modificarlo.
La sentenza ha suscitato critiche in ambienti giudiziari e in particolare nella magistratura antimafia, che considera il carcere ostativo – previsto dalla legislazione di emergenza pensata da Giovanni Falcone – per i condannati al 41bis come ancora oggi lo strumento per contrastare il fenomeno mafioso.
La riforma, invece, prevede di eliminare l’automatismo e assegnare alla magistratura di sorveglianza una valutazione concreta caso per caso del profilo di ogni detenuto che non ha voluto collaborare, prendendo in considerazione il percorso carcerario e di dissociazione e l’opportunità di concedergli benefici carcerari.
Tuttavia, il rischio è che l’inattesa nomina del nuovo capo del Dap Renoldi crei nuovi ostacoli politici all’approvazione del ddl. Il testo e la nomina del relatore – il presidente del M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni – sono stati votati da tutti i partiti della maggioranza e anche da Fratelli d’Italia. Questa larga convergenza, però, potrebbe guastarsi proprio in seguito alla scelta di Renoldi.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
LA NOMINA DI RENOLDI. La nomina al Dap è il nuovo fronte dello scontro sulla giustizia. GIULIA MERLO su Il Domani l'01 marzo 2022
Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia considerano Renoldi troppo aperturista sulla riforma del carcere ostativo, lui scrive alla ministra per chiarire le sue posizioni: «vanno tenuti insieme strumenti come l’ergastolo con i principi del trattamento riaducativo»
La scelta del magistrato di Cassazione, Carlo Renoldi, al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta scatenando polemiche contro la ministra della Giustizia, Marta Cartabia.
Al centro dello scontro sono le posizioni del magistrato sull’ergastolo ostativo e l’antimafia, considerate inaccettabili da Movimento 5 Stelle, Lega e – dall’opposizione – da Fratelli d’Italia, che è arrivata a chiedere il ritiro della proposta di nomina.
Al centro della polemica ci sono alcune dichiarazioni di Renoldi, che nel corso di un dibattito sul carcere nel 2020 si è espresso in termini favorevoli alla modifica del 41 bis e ha criticato «l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri», che ricorda solo la risposta repressiva e dimentica che «l’affermazione della legalità non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
Queste parole hanno suscitato la durissima reazione di un inedito asse tra Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia.,
I CONTRARI
I parlamentari M5S della commissione Antimafia hanno scritto che «La possibile nomina di Renoldi alla guida del Dap ci preoccupa e ci lascia interdetti» perchè «Al Dap crediamo che sia necessaria una figura che abbia come priorità la conservazione e la valorizzazione degli strumenti ideati dai nostri martiri, come Falcone, Borsellino, e molti altri, e che abbia massima attenzione per il difficile e massacrante lavoro della polizia penitenziaria. Basta con le picconate continue e inesorabili al 41bis».
Parole simili a quelle della responsabile Giustizia, Giulia Bongiorno, secondo cui «desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell'Antimafia».
Sulla stessa lunghezza anche Fratelli d’Italia, il cui responsabile Giustizia Andrea Delmastro ha chiesto che la ministra «ritiri la proposta di Renoldi a capo del Dap. Dopo le rivolte carcerarie che hanno devastato i nostri istituti, dopo le costituzioni di parte civile del Ministero contro gli agenti che hanno sedato le rivolte e mai contro i detenuti che hanno saccheggiato gli istituti penitenziari, manca solo la nomina a capo del Dap di un magistrato che ha sempre contrastato il carcere duro per i mafiosi per dare l'idea della resa della Stato».
IL MURO DEL MINISTERO
Fonti del ministero fanno sapere che la ministra non ha alcuna intenzione di tornare sui suoi passi su una nomina che, ricordano, è di tipo fiduciario. Il capo del Dap, infatti, è un dirigente di un dipartimento del ministero, la cui nomina passa attraverso il sì del consiglio dei ministri ma che è di appannaggio della Guardasigilli.
Tuttavia, Renoldi ha ritenuto di far pervenire una lettera a via Arenula, nella quale spiega meglio le sue posizioni e si rammarica delle polemiche in seguito alla pubblicazione delle frasi del convegno del 2020. «Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia», costato la vita a tanti «servitori dello Stato e non ho mai messo in dubbio la necessità dell'istituto del 41bis». Però, ricorda Renoldi, la piaga della mafia non può «far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato».
In materia di ergastolo ostativo ha ricordato poi che «le sentenze delle Alte Corti devono interrogarci su quali risposte dare e il Parlamento lo sta facendo, alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento oggi ancora indispensabile, come l'ergastolo, e i principi dell'umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo».
LE CONSEGUENZE
Lo scontro sulla nomina mette in luce un contrasto che continua a covare dentro la maggioranza.
La ministra Cartabia ha individuato in Renoldi, ex magistrato di sorveglianza e quindi conoscitore delle carceri e toga progressista di Magistratura democratica, un interprete della sua stessa visione del carcere.
Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, invece, si sono saldati proprio nell’antagonismo forte alla riscrittura delle norme sul carcere ostativo, resa però indispensabile da una pronuncia della Corte costituzionale.
Il paradosso è che tutti i partiti si sono ritrovati nell’approvazione del mandato al relatore per portare in parlamento la riforma del carcere ostativo, mentre si sono divisi sulla nomina di un magistrato che proprio in questa riforma crede.
Quali siano le conseguenze concrete è difficile dirlo, ma potrebbero riguardare un rallentamento dell’approvazione della riforma in parlamento.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
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1 marzo 2022 – In questo momento così tragico per la società civile internazionale e per l’umanità tutta, che si trova ad osservare impotente l’assenza della volontà, da parte di tutti i leader mondiali, di trovare un’alternativa alla violenza, ci troviamo costretti ad aprire una parentesi nazionale per denunciare una situazione la cui gravità può essere seconda solo ad una guerra.
La notizia, passata colpevolmente in sordina, che la Ministra della Giustizia (?) Marta Cartabia avrebbe scelto come nuovo direttore dell’amministrazione penitenziaria italiana il magistrato Carlo Renoldi ci lascia sconcertati.
Perché? Perché Carlo Renoldi è colui che ha esortato a “resistere” contro l'”armamentario schiettamente conservatore” che identifica nel principio della “centralità della vittima” (Assemblea “Il governo delle carceri”, Roma, 11 novembre 2014); è colui che critica l’antimafia “militante”, definendola “arroccata nel culto dei martiri” e accusandola di presentare il nemico (cioè il boss mafioso, ricordiamolo) “come irriducibile” (Convegno “Il carcere dopo Cristo nell’emergenza della pandemia”, 29 luglio 2020); è colui che è dichiaratamente ostile alla conservazione del 41-bis come strumento necessario per la salvaguardia della società tutta dal perpetrarsi del potere decisionale dei capimafia detenuti, i quali, prima dell’avvento del 41-bis, continuavano a comandare e a ordinare omicidi dal carcere. Prendiamo tristemente atto che, per Renoldi, lo studio nelle scuole del contributo di uomini come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è portare avanti il “culto dei martiri”; prendiamo altresì atto che, per Renoldi, la pluridecennale giurisprudenza in materia di reati mafiosi, secondo cui l’affiliato rimane irriducibilmente mafioso fino alla sua morte o alla sua collaborazione con la giustizia, è sbagliata; ma, soprattutto, prendiamo tristemente e rabbiosamente atto che, per Renoldi, il legislatore non deve mettere al centro del suo operato la difesa della vittima. Evidentemente non è sufficiente che (giustamente, sia chiaro) Nessuno tocchi Caino, si deve anche mandare a morte Abele.
Che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la Ministra Cartabia e il Governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini della nazione dal cancro mafioso? Se fosse così, pretendiamo che il Governo e la Ministra Cartabia si assumano la responsabilità di dichiararlo esplicitamente agli italiani e, soprattutto, alle vittime di mafia e ai loro familiari.
Salvatore Borsellino e il Movimento delle Agende Rosse
Carceri, la maggioranza si spacca sul giudice scelto da Cartabia per guidare il Dap. I 5 stelle: “Vuole allentare le regole per i boss detenuti”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 28 febbraio 2022.
Un pezzo della maggioranza contro la scelta della guardasigilli che vorrebbe Carlo Renoldi come nuovo capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Da giudice della Cassazione ha aperto ai colloqui su Skype per i mafiosi e ai colloqui dei garanti locali coi detenuti in regime di 41bis. I 5 stelle ricordano gli attacchi del magistrato "all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri". La Lega esprime "preoccupazione". Malumori anche tra alcuni dem e Forza Italia
Al Dap è favorito il giudice che vuole allentare il 41-bis
Carceri, il giudice scelto per guidare il Dap scrive a Cartabia: “Mie frasi equivocate”. Maria Falcone: “Attenuare 41bis? Segnale pericoloso”
I 5 stelle esprimono “perplessità” e parlano di un “fatto grave“. La Lega manifesta “preoccupazione” e persino il Pd lascia intravedere qualche malumore. L’ultima scelta di Marta Cartabia ha spaccato di nuovo la maggioranza del governo di Mario Draghi. Mentre l’attenzione è tutta focalizzata sulla guerra della Russia in Ucraina, la guardasigilli ha scelto il nuovo capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria: è Carlo Renoldi, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, esponente di Magistratura democratica, cioè la corrente di sinistra delle toghe. Un magistrato che è stato relatore ed estensore di sentenze delicate, come quella che apriva ai colloqui via skype per i mafiosi detenuti al 41bis, il regime di carcere duro. Renoldi dovrebbe prendere il posto di Dino Petralia, che è andato in pensione anticipata, andando a guidare il Dap insieme a Roberto Tartaglia, attuale vicecapo dell’amministrazione penitenziaria.
“Certezza della pena? Mito reazionario” – I condizionali, però, sono obbligatori. Intanto perché non è detto che Tartaglia rimanga a fare il numero due del Dap ora che con il cambio del capo cambierà, molto probabilmente, tutta la politica della gestione delle carceri. Ma soprattutto perché il nome di Renoldi ha creato profonde tensioni nella maggioranza. Fibrillazioni destinate a durare: per far arrivare la nomina sul tavolo del Consiglio dei ministri, infatti, bisognerà aspettare il via libera del plenum del Csm, che non arriverà prima del 9 marzo. Dieci giorni in cui i partiti si faranno probabilmente sentire. A cominciare dai 5 stelle e dalla Lega. In queste ore, infatti, in molti hanno focalizzato la loro attenzione su alcuni video che riportano interventi di Renoldi contro il governo gialloverde. Il 9 febbraio del 2019, a un convengo a Firenze, aveva attaccato le riforme del primo governo guidato da Giuseppe Conte: “C’è un ritorno nel discorso pubblico del mito reazionario della certezza della pena, che è un punto fondamentale del programma del governo del cambiamento – aveva detto – Un mito che in questa narrazione diventa una sorta di evocazione identitaria che mira alla costruzione dell’identità del blocco politico e sociale”.
“Antimafia militante arroccata nel culto dei martiri” – Non sono le uniche dichiarazioni pubbliche che in queste ore sono tornate di attualità. Come ha raccontato al Fatto Quotidiano, già nel luglio 2020 il giudice aveva apprezzato i provvedimenti “epocali” della Consulta “che hanno riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario”. Si riferiva alla sentenza che consentiva di concedere i permessi premio agli ergastolani ostativi, cioè i detenuti per reati di tipo mafioso o per terrorismo che non hanno collaborato con la magistratura. “Ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”, diceva Renoldi. L’uomo che Cartabia vorrebbe al vertice del Dap è un convinto sostenitore dell’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, cioè la norma che vieta la liberazione condizionale dei boss irriducibili se non hanno collaborato con gli investigatori. “Ha acquisito alla dimensione del diritto convenzionale il principio della flessibilità della pena, del finalismo rieducativo con la conseguente incompatibilità con l’ergastolo ostativo”, diceva sempre due anni fa, ricordando che “a queste aperture sul piano normativo” sono seguite reazioni “abbastanza trasversali”. A chi riferiva? Proprio “al Dap e ad alcuni sindacati della polizia penitenziaria, ad alcuni ambienti dell’antimafia militante, ad alcuni settori dell’associazionismo giudiziario e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza. Un Dap che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti ‘giustiziabili’ per le persone detenute”. Particolarmente contestati sono poi gli attacchi di Renoldi “all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”.
Le sentenze: da Skype ai permessi per i mafiosi – È solo un pezzo del pensiero di Renoldi. Il resto si può trovare in alcune delle sentenze di cui è stato relatore ed estensore in Cassazione. Nel dicembre del 2018, per esempio, aveva aperto ai colloqui dei garanti locali – non solo quindi col garante nazionale ma pure quelli regionali e comunali – coi detenuti in regime di 41bis. Nell’agosto del 2020 Renoldi è relatore di una sentenza della Cassazione che apre ai colloqui via Skype anche per i detenuti pericolosi come Salvatore Madonia, killer di Cosa nostra. Nell’aprile del 2021 un’altra sentenza della sezione della Suprema corte di cui fa parte Renoldi condanna il divieto imposto dal Dap ai detenuti 41bis di acquistare gli stessi generi alimentari dei detenuti ordinari. Poi a ottobre un’altra decisione importante: aveva aperto ai permessi premio per i detenuti al 41bis, seguendo i recenti orientamenti della Consulta.
I 5 stelle: “Se nomina confermata è un fatto grave” – Insomma: a mettere insieme le sentenze firmate da Renoldi e le frasi pronunciate in pubblico si capisce perché i 5 stelle e la Lega siano contrari alla sua nomina al vertice del Dap. “Ci lasciano perplessi le indiscrezioni sul nuovo vertice del Dap alla vigilia dell’approdo in aula della riforma dell’ergastolo ostativo. Non per la persona ovviamente ma per le sue esternazioni che connoterebbero il capo del Dap per la sua disponibilità ad allentare le regole del carcere per i mafiosi e per quella sua critica all’antimafia ‘arroccata nel culto dei suoi martiri‘. Posizioni evidente troppo sbilanciate per una carica così delicata”, dice Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera e deputato del M5S. Secondo un altro 5 stelle come Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario di via Arenula, la nomina di Renoldi “se fosse confermata sarebbe un fatto grave che mi lascerebbe senza parole. Renoldi, oltre ad aver improntato interventi in convegni contro il regime 41-bis e a favore di un suo gravissimo annacquamento, non ha risparmiato parole forti con attacchi frontali a forze politiche come il Movimento 5 Stelle e non solo, ha anche sminuito l’antimafia dei martiri”.
Le posizioni di Lega e Pd – Pure la Lega manifesta “preoccupazione” per la scelta del ministro Cartabia. “Ferme restando le indubbie capacità professionali del magistrato, desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”, dice Giulia Bongiorno, responsabile del dipartimento Giustizia del Carroccio. Persino il berlusconiano Maurizio Gasparri chiede a Renoldi di smentire “le dichiarazioni ostili ed offensive che ha rilasciato nel passato contro i sindacati del personale della polizia penitenziaria“. E se il Pd appoggia la decisione della guardasigilli, il deputato Walter Verini, ex responsabile giustizia del partito, sottoscrive una nota in cui definisce “un peccato” l’abbandono di Petralia: “Per quanto mi riguarda – aggiunge – mi auguro davvero che Roberto Tartaglia possa continuare a svolgere il suo prezioso ruolo anche con il nuovo responsabile Renoldi, in un clima di grande collaborazione con tutte le componenti dell’Ordinamento Penitenziario”. Un augurio che al momento non trova un riscontro. Tartaglia, infatti, non ha ancora fatto sapere se intende rimanere al Dap anche con la nuova gestione. Nel frattempo il presidente dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, firma una nota in cui critica la scelta della guardasigilli e annuncia di stare “programmando iniziative di protesta affinché il governo adotti interventi di carattere straordinario per garantire l’incolumità del personale che lavora nelle carceri”. La nomina di Renoldi, insomma, rischia di creare fibrillazioni non solo all’interno della maggioranza ma pure all’interno dell’amministrazione penitenziaria.
Carceri, il giudice scelto per guidare il Dap scrive a Cartabia: “Mie frasi equivocate”. Maria Falcone: “Attenuare 41bis? Segnale pericoloso”. Il Fatto Quotidiano l'01 Marzo 2022.
Carlo Renoldi scrive alla guardasigilli per provare a spiegare le sue frasi pronunciate in un convegno del 2020 che hanno scatenato la polemica: "Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia". La sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci: "Qualunque tentennamento nell’applicazione delle norme sarebbe un segnale pericolosissimo che sarebbe interpretato dalle mafie come un pericoloso indice di debolezza". Salvatore Borsellino: "Che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la Ministra Cartabia e il Governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere?"
Carceri, la maggioranza si spacca sul giudice scelto da Cartabia per guidare il Dap. I 5 stelle: “Vuole allentare le regole per i boss detenuti”
Al Dap è favorito il giudice che vuole allentare il 41-bis
Il giudice scelto per fare il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria scrive alla ministra della giustizia. Una missiva in cui Carlo Renoldi si dispiace per le “polemiche che hanno accompagnato la pubblicazione di alcune frasi fraintese ed estrapolate da un incontro tenutosi nel 2020″. Il riferimento è a quanto pubblicato da Fatto Quotidiano e relativo a un convegno sul carcere organizzato a Firenze il 29 luglio 2020: il giudice sosteneva i provvedimenti “epocali” della Consulta “che hanno riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario” e si congratulava per la sentenza che apriva ai permessi premio per mafiosi ergastolani che non collaborano, perché “ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”. Poi aveva attaccato”l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”,
La lettera alla ministra: “Non era a conoscenza delle mie parole” – Parole che ovviamente hanno scatenato la polemica. Soprattutto dopo che Renoldi è stato designato al vertice del Dap, in sostituzione di Dino Petralia. Il magistrato tenta di gettare acqua sul fuoco scrivendo alla guardasigilli: “Illustrissima Signora Ministra, sento la necessità di scriverLe questa breve nota in relazione alle polemiche che hanno accompagnato la pubblicazione di alcune frasi fraintese ed estrapolate da un incontro tenutosi nel 2020, in occasione della commemorazione di Sandro Margara; polemiche di cui ovviamente mi dispiaccio, anche perché relative a considerazioni risalenti e di cui Lei, prima di oggi, non era certamente a conoscenza. Renoldi dunque sostiene che la guardasigilli non fosse a conoscenza di quel suo intervento. Possibile che il nome nel nuovo capo del Dap sia stato scelto senza prima verificare che posizioni avesse sul carcere duro? A leggere la lettera di Renoldi parrebbe di sì.
Il mea culpa del giudice – “In occasione di quel convegno, riflettevo sull’idea di carcere che, in particolare nel tempo della pandemia, vediamo affermarsi e, in generale, sull’idea di penalità che attraversa le società moderne. E in tale contesto, – cerca di spiegarsi Renoldi – ragionavo sulle pronunce della Corte costituzionale in materia di ergastolo ostativo”. Poi arrivano le frasi che spiegano il seguito del suo intervento, quello in cui attaccava “l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri“. Il giudice allarga le braccia: “Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti colleghi e servitori dello Stato. E non ho mai messo in dubbio neanche la necessità dell’istituto del 41bis, essenziale nel contrasto della criminalità organizzata, per recidere i legami tra il detenuto sottoposto al relativo regime e il contesto delinquenziale di appartenenza. Come emerge da sentenze a cui ho contribuito nella Prima sezione penale della Cassazione, in cui si sottolinea la necessità che le singole misure restrittive siano specificamente finalizzate a tale esigenza”.
“Mia frase si prestava a equivoci” – Quindi arriva il mea culpa: “E così, proprio nell’incontro in ricordo di Margara, rilevavo, con una frase che forse si prestava a equivoci – (e questo mi addolora: verso i nostri martiri ovviamente avvertiamo un sentimento di riconoscente reverenza) – come sia necessario avere una proiezione sul presente e sui gravissimi problemi che esso pone, in relazione al carcere”, spiega il giudice nella sua lettera alla Guardasigilli. “Sull’ergastolo ostativo, – prosegue – le sentenze delle Alte Corti devono interrogarci su quali risposte dare e il Parlamento lo sta facendo, alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento oggi ancora indispensabile, come l’ergastolo, e i principi dell’umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo. Papa Francesco dice: ‘qualsiasi condanna deve avere una speranza”. Infine il magistrato scelto per guidare il Dap prova a inviare un segnale di apertura ai sindacati di Polizia penitenziaria, dopo le roventi polemiche delle scorse ore. “Quanto, infine, alle parole sui sindacati della Polizia penitenziaria, il mio pensiero, espresso in più occasioni pubbliche, è che i diritti sindacali sono diritti fondamentali, ma che soprattutto quando riguardano soggetti istituzionali o che esercitano servizi essenziali, sia ancora più necessario superare ogni logica corporativa. Spero – conclude Renoldi – di avere fornito utili chiarimenti sulle mie posizioni e che, alla fine, le polemiche di cui sopra possano essere archiviate come frutto di un evidente fraintendimento”.
L’intervento di Maria Falcone e Salvatore Borsellino – In verità, però, la missiva di Renoldi sembra non bastare per sopire le polemiche: tutt’altro. Sul dibattito è intervenuta anche Maria Falcone, sorella del giudice ucciso nella strage di Capaci e presidente della Fondazione che del fratello porta il nome. “In merito alla discussione sulla nomina dei vertici del Dap mi auguro che nella lotta alla mafia, che vede nella tenuta del regime carcerario duro per i boss uno dei suoi cardini, non si arretri di un millimetro. Qualunque tentennamento nell’applicazione rigorosa di norme che sono costate la vita a uomini delle istituzioni come mio fratello sarebbe un segnale pericolosissimo che sarebbe interpretato dalle mafie come un pericoloso indice di debolezza”, dice la presidente della Fondazione. “Ringrazio quelle forze politiche che con forza ribadiscono la necessità di difendere un’applicazione rigorosa del 41 bis e le conquiste ottenute nella lotta contro Cosa nostra- continua la sorella di Giovanni Falcone – Il nostro Paese si accinge a celebrare il trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, un anniversario di cui a parole tutti riconoscono l’importanza. Ci auguriamo che alle dichiarazioni seguano i fatti e che le istituzioni e la politica siano coerenti e dimostrino con azioni concrete il loro impegno contro le mafie”. Sulla questione è intervenuto anche Salvatore Borsellino, che dopo aver ricordato le frasi contestate di Renoldi, si chiede: “Che messaggio hanno deciso di mandare ai cittadini italiani la Ministra Cartabia e il Governo italiano? Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini della nazione dal cancro mafioso? Se fosse così, pretendiamo che il Governo e la Ministra Cartabia si assumano la responsabilità di dichiararlo esplicitamente agli italiani e, soprattutto, alle vittime di mafia e ai loro familiari”, scrive il fratello del magistrato ucciso nella strage di via d’Amelio.
M5s: “Nome inadatto per il Dap” – Le polemiche non sembrano placarsi neanche sul fronte politico. Dopo le proteste dei giorni scorsi oggi i parlamentari dei 5 stelle in commissione Antimafia intervengono di nuovo sulla questione: “Crediamo che la massima attenzione debba essere rivolta alle vittime, a rafforzare il contrasto antimafia e non a dare benefici ulteriori a chi si è macchiato di reati che miravano a destabilizzare le istituzioni della Repubblica. Le garanzie per i detenuti esistono, così come esistono i benefici per coloro che decidono di collaborare e di abbandonare per sempre le compagini mafiose e i loro orrori”, scrivono in una nota. “Al Dap – aggiungono – crediamo che sia necessaria una figura che abbia come priorità la conservazione e la valorizzazione degli strumenti ideati dai nostri martiri, come Falcone, Borsellino, e molti altri, e che abbia massima attenzione per il difficile e massacrante lavoro della polizia penitenziaria. Basta con le picconate continue e inesorabili al 41bis”. Contrario alla nomina di Renoldi al Dap è anche Fratelli d’Italia, l’unico partito all’opposizione del governo. “Ci opporremo, anche nel culto dei martiri di mafia che tanto infastidiscono Renoldi, ad una nomina che rappresenterebbe un ulteriore cedimento alla cultura degli svuota carceri, dell’indulgenza senza sé e senza ma e che ancora una volta conferirebbe alla Polizia penitenziaria l’idea di essere abbandonata a sé stessa”, dice Andrea Delmastro, deputato e responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni.
Renoldi, il segno che Cartabia vuol lasciare sul carcere. Con la nomina del magistrato definito “troppo garantista” da Lega e M5S, la guardasigilli compie una scelta chiara, destinata a pesare anche dopo la conclusione del suo mandato a via Arenula. Errico Novi su Il Dubbio l'1 marzo 2022.
Marta Cartabia ha compiuto una scelta. Non irrilevante, tutt’altro che causale. Ha individuato come futuro capo del Dap un giudice che proviene dalla magistratura di sorveglianza, Carlo Renoldi. L’attuale consigliere di Cassazione, in servizio alla prima sezione penale, vanta infatti nella propria vicenda professionale l’esperienza impegnativa e a volte dolorosa della giurisdizione sui diritti di chi è recluso.
Ha scatenato, la ministra, una tempesta di reazioni contrarie trasversali. Tutte hanno un punto in comune, nonostante siano espresse da settori così diversi e distanti del panorama politico: additano Renoldi come troppo garantista. Lo è al punto da aver espresso, dicono, posizioni tropo solidali con la condizione dei detenuti, e a volte critiche nei confronti dell’operato degli agenti.
Ma visto che un curriculum del genere non è immediatamente spacciabile come una colpa, alcuni, per esempio l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, deputato della Lega, aggiungono: viene dalle file di Magistratura democratica, è un giudice di sinistra, ideologizzato. Si prova a dire che, insomma, Cartabia si sarebbe sbilanciata politicamente. Non una scelta sui diritti, ma sul colore delle bandierine.
Non sembra una critica solida. Innanzitutto perché mette insieme forze politiche e voci troppo distanti tra loro per non far pensare che invece la vera colpa di Renoldi sia proprio la vicinanza ai diritti dei reclusi. Il Movimento 5 Stelle, per esempio, che non esattamente un partito di destra, si trova su una linea simile a quella di Morrone, e ieri ha inondato le agenzie con comunicati addirittura di allarme per la scelta di un magistrato cosi favorevole alle garanzie.
Poi pero il capogruppo di FI in commissione Giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin, che viceversa difficilmente può essere confuso con un nostalgico della Terza Internazionale, plaude alla scelta della guardasigilli, così come fa il Pd compatto. E allora: c’è qualcosa che non va? No semplicemente stavolta si è aperta una faglia trasversale nella politica giudiziaria. Una frattura che attraversa il campo da destra e sinistra e divide chi è più attento alle garanzie e ai diritti e chi invece pensa che, in fatto di carcere, vengano sempre e comunque prima il rigore, la restrizione, il controllo, poi il resto.
Cartabia ha fatto una scelta chiara. Si è schierata. Renoldi, ricordiamolo, non è ancora destinatario di una nomina, per lui è stata solo chiesta al Csm l’autorizzazione al collocamento fuori ruolo. Ma sin da ora si può dire che siamo davanti a una di quelle scelte destinate a lasciare un segno, a restare, anche dopo che il governo e la guardasigilli avranno concluso il loro mandato.
La ministra fa capire che su una cosa intende orientare il futuro della giustizia anche al di là della propria personale presenza a via Arenula: si tratta del carcere appunto, della possibilità che il nostro Paese lo organizzi e concepisca secondo principi di umanità, sull’esigenza di uscire da quella che i radicali definiscono illegalità conclamata. In altre parole, un sistema penitenziario rispettoso della Costituzione.
Una sfida difficile. Che, come le note delle ultime 48 ore lasciano intendere, dovrà fare i conti con molti avversari. Ma vale la pena scatenare qualche attrito. Il diritto alla speranza e alla dignità di molte migliaia di persone chiuse in una cella ha già ceduto troppe volte il passo alla politica degli slogan.
La biografia. Chi è Carlo Renoldi, il nuovo capo del Dap voluto dalla Cartabia. Redazione su Il Riformista il 5 Marzo 2022.
Carlo Renoldi ha 53 anni, è originario di Cagliari, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Ora è consigliere di Cassazione. Non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria. Tra i suoi riferimenti e maestri c’è Alessandro Margara, che fu capo del Dap, ispirò la riforma Gozzini (la più liberale della storia italiana) ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti. Il suo era un “carcere dei diritti”. Sia dei detenuti, sia degli agenti.
«Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza», ha scritto recentemente lo stesso Renoldi. A rendere quantomeno divisivo il profilo di Renoldi, ci sono anche le sue prese di posizione, oltre che sul tema dell’ergastolo ostativo, sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere. In un convegno nel capoluogo toscano nel 2020, ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che «che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa».
Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: «Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti».
Il ritratto di Carlo Renoldi, il capo del Dap scelto da Cartabia. Carlo Renoldi è allievo di Alessandro Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria, il magistrato "che trattava i detenuti come uomini". Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 marzo 2022.
La ministra della giustizia Marta Cartabia, con l’indicazione di Carlo Renoldi come nuovo capo del Dap, continua la tradizione che vuole un magistrato al vertice dell’amministrazione penitenziaria, ma con questa scelta riprende quello che fu un cammino interrotto bruscamente nel ’ 99 dall’allora guardasigilli Oliviero Diliberto con l’amministrazione guidata da Alessandro Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria, il magistrato “che trattava i detenuti come uomini”.
Carlo Renoldi, nato a Cagliari il 1969, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, è un magistrato che ha tra i suoi maestri proprio Margara. Iscritto alla corrente di Magistratura democratica, non a caso è stato componente dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dall’allora ministro Andrea Orlando. Attraverso le sue pubblicazioni, ha contribuito al dibattito sull’affettività in carcere, auspicato una rivisitazione della nostra legislazione penale sulle droghe. Da consigliere della Cassazione ha contribuito a emanare provvedimenti che vietano tutte quelle misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto al suo scopo originario. Non sono azioni che ammorbidiscono il cosiddetto carcere duro, come affermano i suoi prevedibili detrattori che approfittano dell’informazione distorta. In realtà si tratta del pieno rispetto della ratio di questa misura differenziata che sulla carta dovrebbe avere un solo unico scopo: vietare ai boss mafiosi di veicolare all’esterno ordini al proprio gruppo di appartenenza criminale. Nient’altro.
Il magistrato Renoldi ha anche una idea ben precisa di come debba funzionare l’esecuzione penale. Una idea che ovviamente rispecchia la visione della ministra Cartabia, ovvero quella dettata dalla nostra carta costituzionale.
Contesta, basti sentire i suoi interventi registrati su Radio Radicale, quello che definisce un “mito reazionario”, ovvero la retorica della certezza della pena, quella che da una certa parte politica, anche trasversale, la declina in «no a sconti della pena, no alla prescrizione che viene rappresentata come uno strumento – ha detto Renoldi durante un convegno in Toscana del 2019 – che consente ai delinquenti di sottrarsi alla giusta sanzione, e poi in materia di ordinamento penitenziario l’impegno a fare sì che chi sbaglia la debba pagare in carcere senza benefici».
Renoldi, in quell’interessante dibattito, ha ricordato che uno dei cavalli di battaglia intrapresi da Alessandro Margara era la “flessibilità della pena”, un principio che è stato costituzionalizzato con la sentenza della Consulta del 1974 sulla liberazione condizionale. Interessante quando il magistrato Renoldi non parla di disobbedienza, ma di «obbedienza costituzionale» che si può realizzare attraverso una rete composta da magistrati e avvocati.
Il richiamo è sempre quello: i valori della nostra costituzione.
Ed è questa l’affinità con la visione della ministra Marta Cartabia. Ma finisce qua. Non sarà certo il capo del Dap a riformare il sistema penitenziario. Ricordiamo che il compito dell’amministrazione penitenziaria è quello di provvedere a garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, lo svolgimento dei compiti inerenti all’esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, delle misure alternative alla detenzione. Tutti aspetti difficili e complessi, per questo ci vuole competenza e non una visione riduttiva come hanno taluni magistrati sponsorizzati dai detrattori di Renoldi.
Sicuramente il compito non sarà facile. Ci sono numerose criticità che stanno diventando insostenibili sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari.
Non a caso, Gennarino De Fazio, il segretario Generale della Uilpa, plaudendo la possibile nuova nomina, ha rivolto l’ennesimo appello alla guardasigilli affinché vari un decreto- legge necessario per i provvedimenti immediati e si approvi una legge delega per la reingegnerizzazione del sistema d’esecuzione penale, la rifondazione del Dap e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria.
Il nuovo capo del Dap. Renoldi a capo del Dap, gli avvocati ci sperano: “Segnale importante”. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia, nell’indicare il nome da proporre come capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, resta nel solco già tracciato in passato: un magistrato. L’importante, e rilevante novità, è quella che il togato non è un pubblico ministero e soprattutto non ha un passato nella Direzione Antimafia. Carlo Renoldi, il prescelto, è attualmente giudice della I sezione penale della Cassazione ed è stato magistrato di Sorveglianza a Cagliari.
Più volte ha dichiarato di avere come guida nel suo lavoro il collega Alessandro Margara, autore della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che ha fatto prevalere l’aspetto rieducativo su quello punitivo della sanzione, secondo i principi scolpiti nella Costituzione del 1948. Un nome, dunque, in linea con le dichiarazioni pubbliche che il Ministro ha fatto sin dall’inizio del suo mandato: un carcere diverso, non in contrasto con la nostra Carta. Immediatamente i professionisti dell’Antimafia hanno fatto conoscere il dissenso sulla scelta. La loro “voce” quotidiana ha titolato sul sito: «Al DAP è favorito il giudice che vuole allentare il 41 bis» e ancora «Renoldi si scaglia contro l’Antimafia ed è contrario all’ergastolo ostativo». Nell’articolo poi anche la critica, imbarazzante quanto intollerante, ad alcuni interventi del designato che elogiavano i provvedimenti della Corte Costituzionale sull’esecuzione della pena.
Tutto lascia, dunque, intravedere un dibattito politico serrato sull’indicazione del Ministro della Giustizia, in quanto la nomina dovrà essere deliberata dal Consiglio dei Ministri e poi perfezionata con decreto del Presidente della Repubblica. In un Governo, che vede la presenza della Lega e del Movimento 5 Stelle, partiti che hanno fatto del carcere duro uno dei loro principali cavalli di battaglia, il passaggio non sarà affatto semplice. I così detti “giustizialisti” – termine abusato e affatto idoneo a descrivere coloro che di giustizia hanno un concetto del tutto personale e fuori da ogni canone giuridico – si batteranno per avere a capo del Dipartimento l’ennesimo magistrato inquirente proveniente dalle fila dell’Antimafia, gli unici, a loro avviso, a poter sovrintendere all’amministrazione penitenziaria, come se nelle nostre carceri ci fossero solo mafiosi. Eppure, proprio a questi ultimi – con l’eccezione dei pochissimi irriducibili capi, che si contano sulle dita di una mano – più di ogni altro, dovrebbe essere destinato il trattamento rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione.
Un percorso di responsabilizzazione personale che la vita probabilmente non gli ha offerto, per essere nati in contesti criminali che non hanno dato loro la possibilità di altre scelte. Lo Stato deve mostrare le proprie capacità ad offrire altre chances a tutti i detenuti, anche a quelli condannati per reati associativi. Le strade percorse in passato – peraltro spesso in violazione di legge – sono state perdenti ed è giunta l’ora di quel cambio di passo, di quella rivoluzione culturale che, da tempo, i giuristi – e tra questi in prima fila, tra gli altri, gli avvocati dell’Unione Camere Penali – attendono. L’augurio è che il presidente del Consiglio Mario Draghi sappia, anche in questo caso, mettere in riga gli oppositori all’indicazione del nome prescelto. La nostra speranza è che egli ricordi le parole pronunciate al carcere di Santa Maria Capua Vetere – dove accorse insieme al Ministro della Giustizia – dopo la mattanza subita dai detenuti da parte di alcuni componenti la Polizia Penitenziaria: «Siamo qui ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte. Venire qui oggi significa guardare da vicino, di persona per iniziare a capire».
Ed è giunto speriamo il momento di capire che una nuova modalità di gestire l’esecuzione penale è possibile. La legge in parte la indica già e la riforma dell’ordinamento penitenziario, scritta ma ignorata, dopo gli Stati Generali, l’ha perfezionata. Un capo dell’amministrazione che abbia come bussola, nel suo navigare, la Costituzione è un elemento imprescindibile. Sappiamo che la scelta fatta dal Ministro va in questo senso e ci auguriamo che la nomina si realizzi. Se ciò avverrà, saremo solo all’inizio di un’ennesima non facile battaglia, come senz’altro sa bene il designato. Potrà contare sul sostegno di noi tutti, inguaribili difensori della giustizia, quella autentica. Riccardo Polidoro
E' già partito il fuoco di sbarramento. “Al Dap vogliamo un aguzzino”, assalto di Travaglio e della Lega alla Cartabia. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
La ministra Cartabia ha scelto il successore di Dino Petralia alla guida del Dap. Il Dap è il dipartimento del ministero che si occupa di carceri. Il capo del Dap è una figura molto importante, perché è lui che detta le linee della politica carceraria. E la politica carceraria, in un paese moderno, è il termometro della civiltà: tanto più è una politica democratica, costruita sulla difesa dei diritti – e non sul mito della punizione, della ferocia, della vendetta – tanto più il grado della civiltà è alto. E viceversa.
La ministra Cartabia ha scelto come successore di Petralia un magistrato molto esperto e del quale tutti riconoscono le capacità, la cultura e l’alto livello professionale. Si chiama Carlo Renoldi. È un consigliere di Cassazione ma è stato per molti anni giudice di sorveglianza. Cioè è un magistrato che le carceri le conosce bene. In passato il capo del Dap è stato spesso un Pm, cioè un professionista privo di esperienza nel campo della politica penitenziaria. La notizia della scelta di Renoldi ha suscitato allarme e protesta in alcuni settori della magistratura, i quali hanno subito chiesto e ottenuto l’intervento dei partiti reazionari presenti e maggioritari in Parlamento. I quali hanno risposto abbastanza in fretta all’appello. Il primo a far squillare le trombe è stato il capo vero dei 5 Stelle, Marco Travaglio – che ormai credo che tra i grillini sia riconosciuto come l’unica autorità pensante – il quale ha scagliato il suo giornale contro Renoldi. Il “Fatto” ha spiegato che Renoldi è contro l’ergastolo ostativo, contro il 41 bis, contro Falcone e Borsellino contro l’antimafia. Può un personaggio così border-line assumere un incarico tanto delicato?
Vediamo intanto se le accuse del “Fatto” sono accuse vere. Renoldi, come tutte le persone che studiano e amano il diritto, non ama l’ergastolo ostativo per una ragione essenziale: perché è una misura che viola in modo evidente la Costituzione. E Renoldi più volte e in modo un po’ sfacciato si è dichiarato, effettivamente, favorevole alla Costituzione. Renoldi non ama particolarmente neanche il 41 bis (cioè il carcere duro), anche se – a differenza dei garantisti totali, come per esempio i radicali ma anche, nel nostro piccolo, noi del Riformista – non chiede di abolirlo ma pensa solo che vada mitigato. Renoldi ha sempre detto che nelle carceri bisogna bilanciare le esigenze della sicurezza con le esigenze del diritto, e per bilanciarle non si può permettere che le esigenze della sicurezza schiaccino il diritto.
Non è vero neppure che Renoldi disprezzi Falcone e Borsellino. Tutt’altro. Le frasi che Travaglio e i suoi gli imputano sono quelle nelle quali Renoldi descrive l’ottusità dell’antimafia professionale (che non è lotta alla mafia, è semplicemente retorica antimafia). E spiega che usare la retorica dei “martiri dell’antimafia” (che pure, precisa, vanno giustamente celebrati) per scagliare il loro sangue contro i diritti, e chiedere pene esemplari, non è una cosa molto bella. Il richiamo di Travaglio, comunque, ha funzionato immediatamente. Domenica si sono pronunciati uno a uno moltissimi parlamentari Cinque Stelle. Poi è partita lancia in resta la Lega, che ha speso persino il nome della sua avvocata di riferimento, Giulia Bongiorno. Chiedendo di rinunciare alla nomina di Renoldi e di mettere a quel posto un tipo tosto, in linea col populismo reazionario (finalmente riunificato, dopo la ferita del Papete) di Lega e travaglini.
Il ragionamento è semplice: le carceri sono luogo di punizione e dunque devono essere il più possibile infernali. Il capo delle carceri deve essere un aguzzino, guai se quell’incarico finisce nelle mani di un liberale. La Costituzione può tranquillamente essere usata se serve a polemizzare con Berlusconi o con Renzi, ma certo non va accettata per i principi folli e modernisti e volterriani, che, se presi sul serio, finiscono con l’annientare lo Stato etico e col mettere nell’angolo la magistratura di trincea, impapocchiandola con la storia insopportabile dei diritti, della necessità delle prove, e persino con il ruolo degli avvocati. Cartabia ora avrà il coraggio di prendere a schiaffo Lega e travaglini? Non ci resta che sperare
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
"La Costituzione è una cosa complicatissima". Renoldi al Dap, il magistrato contro la tortura indigna Travaglio e Bongiorno: “In carcere aguzzino, detenuti vanno stangati”. Redazione su Il Riformista il 28 Febbraio 2022.
Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, commenta le polemiche sulla nomina del nuovo capo del Dap e dello scandalo che questa ha suscitato nei partiti reazionari in parlamento.
Bisogna nominare il nuovo capo del Dap, cioè del dipartimento delle carceri. La persona che le deve amministrare in Italia, a occuparsi di come funzionano, a occuparsi che la legge sia rispettata, a occuparsi del sovraffollamento. Di tutto. È il capo. Il vecchio è andato in pensione e il ministro Cartabia ha in mente un nome: un giudice di sorveglianza che si chiama Carlo Renoldi. Dicono tutti che sia un giudice molto molto bravo che conosce molto bene le prigioni perché ha fatto il giudice di sorveglianza quindi è stato a contatto con le questioni carcerarie. Generalmente scelgono dei pubblici ministeri che non sanno nulla di carceri, ovviamente.
Loro mandano la gente in prigione, ma non è che amministrano le prigioni. Questa volta invece è stata fatta la scelta di un giudice di sorveglianza, poi l’ideale sarebbe che non sia un magistrato. Non sta scritto da nessuna parte che lo debba essere. La Cartabia ha scelto un magistrato ancora una volta, però dicono tutti molto bravo, molto serio, che conosce bene la Costituzione e la rispetta. È contro il carcere duro, contro alle esecuzioni di pena eccessivamente severe, sta molto attento sul 41bis, sugli isolamenti. Ha l’idea che la prigione debba essere un luogo di rieducazione e non di tortura, anche perché, appunto, ha letto la Costituzione il giudice Renoldi.
Voi sapete che nel parlamento italiano esistono parecchi partiti reazionari, questo li ha scandalizzati. In particolare il partito della Lega e il partito di Travaglio. Insomma, come si chiama, i cinquestelle diciamo. Travaglio ha suonato la tromba per primo, ha scritto sul Fatto Quotidiano: “Guardate che stanno per fare capo del Dap un magistrato che vorrebbe applicare la Costituzione. Siamo impazziti? Sono prigioni o no? – dice Travaglio – Le prigioni chi le deve dirigere? Da che mondo è mondo un aguzzino, non certo un liberale”.
La cosa ha generato molti consensi. Ieri a seguito dello squillo di tromba del loro capo tutti i parlamentari cinquestelle si sono precipitati a dichiarare: “No, no! Renoldi mai! Non possiamo pensare che un liberale vada a dirigere le prigioni, sarebbe a fine dell’ordine pubblico in Italia”, e ora è arrivata anche la Lega e addirittura una dichiarazione l’ha fatta un avvocato molto importante come Giulia Bongiorno che ha detto: “Noi siamo garantisti fino a un certo punto, poi quando si va in prigione si va in prigione. Vanno stangati!”.
L’Italia è cosi, purtroppo. La battaglia non solo garantista, la battaglia liberale, la battaglia per la difesa della Costituzione è una cosa complicatissima. Una parte consistente, forse maggioritaria delle forze politiche, intellettuali, della magistratura, in Italia sono forze fortissimamente reazionarie. Precedenti all’illuminismo. Perché ritengono che bisogna soprattutto punire, che le carceri siano un luogo da affidare agli aguzzini e che la Costituzione sia stato un clamoroso errore da correggere.
A Sanremo 2022 Roberto Saviano ricorda le stragi. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 03 febbraio 2022.
Quest’anno il trentennale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui sono stati uccisi i giudici Falcone e Borsellino. «Recordare significa rimettere nel cuore» ha detto il giornalista: «La loro storia è parte della memoria collettiva, per tutti noi sono simboli di coraggio, il coraggio è una scelta».
Roberto Saviano a Sanremo ha ricordato il trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui persero la vita i giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Recordare significa rimettere nel cuore» ha detto il giornalista: «La loro storia è parte della memoria collettiva, per tutti noi sono simboli di coraggio, il coraggio è una scelta».
Non scegliere «finisce solo per rendere complice». Saviano ha ricordato anche altre vittime, il giudice Rocco Chinnici, Rosario Livatino. Quando le organizzazioni criminali uccidono «contano sul fatto che non se ne parli più», la mafia, ha detto, era convinta di questo: «Falcone e Borsellino avevano subito il miglior alleato del silenzio, la delegittimazione, erano stati screditati».
Falcone e Borsellino necessitavano della scorta, ed erano accusati di spettacolarizzare il loro ruolo antimafia. Già all’epoca subivano gli «haters», il «fango li aveva isolati».
Saviano ha ricordato anche la storia di Rita Atria, cognata di Piera Aiello, quest’ultima oggi parlamentare del Movimento 5 stelle dopo essere vissuta a lungo sotto copertura. Atria aveva deciso di collaborare con la giustizia ma si uccise a 17 anni una settimana dopo la strage di via D'Amelio perché, per la fiducia che riponeva nel magistrato italiano Paolo Borsellino, si era decisa a collaborare con gli inquirenti, ma poi lo aveva improvvisamente perso.
«Credevano di seppellirti, ma quello che hanno fatto è seppellire un seme. Hanno creduto di seppellire Rita Atria o Paolo Borsellino, ma loro erano semi».
Poche settimane prima di morire, Rita aveva scritto un tema dedicato al giudice Falcone, e Saviano lo ha letto: «Con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre. L’unico sistema di eliminare tale piaga è convincere i ragazzi che fuori c’è un altro mondo. Forse, un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse, se ognuno di noi prova a cambiare. Forse, ce la faremo».
Il silenzio «finisce per collaborare con la mafia e lasciare solo chi la combatte» e «credevano di seppellirti, ma hanno seppellito un seme». Il seme è il coraggio delle vittime di mafia.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Sanremo, Saviano ricorda Rita Atria: «Se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo». SAVERIO ALBANESE su Il Quotidiano del Sud il 4 Febbraio 2022.
Con un monologo di otto minuti dedicato ai due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, lo scrittore Roberto Saviano ha raccontato “il sacrificio di due uomini che hanno cambiato radicalmente non solo le modalità del contrasto alle organizzazioni criminali, ma anche la loro narrazione.
Mentre Amadeus ricorda i nomi dei giudici, della moglie di Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta morti nei due attentati il pubblico del teatro Aristo è tutto in piedi per omaggiare con fragorosi applausi la memoria la memoria di questi due straordinari magistrati eroi, che hanno dedicato la loro vita alla lotta contro la mafia.
«Sono passati trent’anni dagli attentati ai giudici Falcone e Borsellino – ha esordito lo scrittore partenopeo –. Siamo qui a ricordare, che vuole dire rimettere nel cuore perché per gli antichi era il cuore la sete nella memoria. Ricordare Falcone e Borsellino significa rimetterli in vita».
«Molti di noi ancora non c’erano quanto sono stati uccisi eppure la loro storia è parte della storia collettiva. Per molti sono il simbolo del coraggio. Il coraggio è una scelta. Il non scegliere non significa rimanere neutrali ma significa rendere complici chi vi si rifugia».
«A scegliere di costituire il pool antimafia era stato Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia. Il giudice che si occupò del processo dell’omicidio di Chinnici fu ammazzato. Sono solo alcuni dei numerosi uomini di giustizia uccisi dalle mafie. Prima delle stragi di Capaci e Via d’Amelio c’era sempre stato silenzio. Il miglior alleato del silenzio è la delegittimazione. Falcone e i colleghi del pool venivano esibiti di spettacolarizzare i processi antimafia. Non c’erano i social, ma c’erano già gli hater, gli odiatori. Non essendo alla loro altezza si preferiva affossarli per creare diffidenza per chi era dalla loro parte. E questo la mafia lo sapeva».
«La loro azione ha portato a capire che era possibile tramite il diritto fare scelte coraggiose e avere una vita diversa. Rita Atria era una ragazza di 17 anni nel 1992, che aveva denunciato quello che sapeva della mafia che le aveva ucciso il padre e il fratello diventando la più giovane testimone di giustizia d’Italia. Ad accompagnarla in quel percorso c’era Paolo Borsellino. Per Rita, Borsellino era guida. Sette giorni dopo la strage di via D’Amelio, Rita si tolse la vita. Rita era stata una ragazza piena di energia e la sua testimonianza descriveva dall’interno ciò che i magistrati potevano vedere solo da al di fuori».
«Il coraggio dei testimoni di giustizia è il coraggio di chi sa che scegliendo di denunciare sa che rovinerà la sua vita e quella di chi gli sta accanto. Ogni volta che noi non denunciamo, rinunciamo alla nostra dignità. Il silenzio finisce per favorire le mafie. Credevano di seppellirti, ma quello che hanno fatto è seppellire un seme. Hanno creduto di seppellire Rita Atria o Paolo Borsellino, ma loro erano semi. Poche settimane prima di morire, Rita aveva sostenuto un tema dedicato al giudice Falcone».
«Con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre. L’unico sistema di eliminare tale piaga è convincere i ragazzi che fuori c’è un altro mondo. Forse, un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Se ognuno di noi prova a cambiare – la chiosa finale di Roberto Saviano – forse, ce la faremo».
L'Ariston in piedi per le vittime di Capaci e via D'Amelio. Massimo Balsamo il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.
A 30 anni dalle due stragi di mafia, il Festival ha voluto dedicare un ricordo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: teatro in piedi per i due eroi
Sono passati trent’anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, lunga e calorosa standing ovation a Sanremo 2022 per ricordare le vittime di mafia. Tutto il pubblico dell’Ariston si è alzato in piedi alla lettura dei nomi delle persone che hanno perso la vita, a partire dai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, passando per Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Ospite della terza serata del Festival, Roberto Saviano ha voluto ricordare le stragi mafiose con un lungo intervento, citando anche il caso di Rita Atria, la giovane collaboratrice di giustizia uccisasi a 17 anni, una settimana dopo la morte di Borsellino.“La loro storia è parte della nostra memoria collettiva”, ha ricordato lo scrittore: "Per tutti noi sono simboli di coraggio, che è sempre una scelta, di fronte alla necessità di cambiare le cose si può scegliere o lasciar perdere, ma non scegliere è rendersi complice".
Celebrati come eroi, Falcone e Borsellino, ma anche accusati all’epoca di spettacolarizzare il loro lavoro. “Di Falcone si arrivò a dire che la borsa con 58 candelotti all'Addaura se l'era messo da solo: non c'erano i social ma c'erano gli haters”, le parole dell’autore di Gomorra. La neutralità non tiene in sicurezza, ha proseguito Saviano, rimarcando che il silenzio favorisce le mafie e chi le contrasta. Ma c’è speranza verso il futuro, ha concluso: “Se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.
Grande, grandissima commozione nel ricordo di Falcone e Borsellino, omaggiati con un altro lungo applauso.
Massimo Balsamo. Nato nel Torinese diversi anni fa. Collaboro con giornali cartacei e online: mi occupo di cinema, ma anche di politica e di cronaca. Ho lavorato a vari progetti nel mondo della comunicazione e ho scritto il libro "Cinema - Riflessioni e proiezioni". Vietato criticare in mia presenza The Office, Camera Cafè, i bassotti e Aldo, Giovanni e Giacomo.
Cosa Nostra le uccise il papà e il fratello: ripudiata dalla madre che distrusse la sua lapide. Chi è Rita Atria, la testimone di giustizia che si ribellò alla Mafia e morì suicida a 17 anni. Giovanni Pisano su Il Riformista il 4 Febbraio 2022.
Figlia di un piccolo boss siciliano, divenne testimone di giustizia a 17 anni ma poche settimane dopo si tolse la vita dopo la strage di via D’Amelio a Palermo dove il 19 luglio del 1992 la mafia uccise il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. La storia di Rita Atria, rilanciata nel corso della 72esima edizione del festival di Sanremo dal giornalista e scrittore Roberto Saviano, è stata ispirazione per film e rappresentazioni teatrali oltre che per un libro (Rita Atria. La picciridda dell’antimafia) realizzato da Petra Reski, giornalista e scrittrice tedesca famosa per la sua produzione letteraria “di denuncia” sulla criminalità organizzata.
Rita era la figlia di un pastore di Partanna, paesino in provincia di Trapani, in Sicilia. Suo padre, Vito Atria, venne ucciso nel 1985 in un agguato. Era affiliato a Cosa Nostra così come Nicola, il fratello maggiore di Rita. Da lui raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. Nel giugno 1991 anche Nicola Atria viene ucciso e sua moglie Piera Aiello, che era presente quando è avvenuto l’agguato, denuncia i due assassini e collabora con la polizia. Non possono essere considerate pentite di mafia perché a differenza dei loro familiari non hanno commesso alcun reato. Sono invece testimone di giustizia, figura questa che è stata legislativamente riconosciuta con la legge 45 del 13 febbraio 2001.
Cinque mesi dopo, nel novembre 1991, Rita ha 17 anni e decide di seguire la strada intrapresa dalla cognata, cercando nella magistratura giustizia per quegli omicidi. Una decisione che non venne accettata dalla madre che ripudiò la figlia e la nuora. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni è il giudice Paolo Borsellino (all’epoca procuratore a Marsala), al quale si lega come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala e di avviare un’indagine sull’onorevole democristiano Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco di Partanna.
Rita si toglie la vita il 26 luglio del 1992, un mese e mezzo prima che compisse 18 anni e una settimana dopo la strage di via D’Amelio dove morì Paolo Borsellino, suo vero punto di riferimento. Rita era sotto choc e si lanciò dal settimo piano di un palazzo di viale Amelio. Dopo la sua morte, la madre, successivamente, distrusse a martellate la sua lapide. Anna, invece, sorella di Rita, andò a vivere a Roma lasciando Partanna.
La storia di Rita Atria è la storia di una dolorosa presa di coscienza. Il lungo e doloroso percorso di rigetto e denuncia delle logiche mafiose lo raccontava nei suoi diari, dai quali emergeva la paura e la sfiducia che stavano prendendo il sopravvento su di lei. Poi grazie all’aiuto della cognata Piera e del magistrato Paolo Borsellino, che in pochi mesi divenne un punto di riferimento per lei, riuscì a trovare il coraggio di denunciare tutto e allontanarsi da quell’ambiente fino al drammatico epilogo dopo la sconvolgente strage di via D’Amelio.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
L'articolo sul Fatto Quotidiano. Travaglio insiste con la fake news su Mori e la trattativa Stato-mafia: errore o furbata? Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Gennaio 2022.
Ieri Marco Travaglio ha scritto un lungo articolo, sul suo giornale, con l’obiettivo, del tutto legittimo, di danneggiare la candidatura di Giuliano Amato al Quirinale. Molte perfidie su Amato. Alcune vere, alcune discutibili, alcune non vere. Soprattutto una. Scrive testualmente in prima pagina: “Appena giunto al governo, Amato non fa nulla per bloccare la trattativa Stato mafia avviata dal generale dei Ros Mario Mori.” In realtà Mori non ha mai condotto nessuna trattativa con la mafia.
Effettivamente alcuni Pm di Palermo negli anni scorsi hanno ipotizzato che in quegli anni (nella fattispecie stiamo parlando del 1992) si svolse una trattativa tra lo stato e la mafia. Condotta da Mori. E questa loro ipotesi fu appoggiata in modo formidabile da varie Tv e giornali, che con campagne martellanti cercarono di influenzare i processi che si tennero e che videro per imputato proprio il generale Mori. Il quale è stato accusato di inconfessabili trattative e addirittura di attentato al governo in tre diversi processi. Mori ha vinto tutti i processi. I magistrati hanno perso tutti i processi. Le Corti – come comunque aveva già fatto la storia – hanno confermato che Mario Mori, tra gli esseri viventi, è quello che ha ottenuto più di tutti nella lotta senza quartiere che ha condotto contro la mafia. E che lo ha portato, tra l’altro, a decapitare i feroci corleonesi con l’arresto di Totò Riina.
Ciononostante, va detto, molte trasmissioni televisive hanno continuato a battere sulla trattativa. Recentemente, prima dell’ultima sentenza di assoluzione di Mori, è stata addirittura la Tv di Stato a mandare in onda un programma con il quale, probabilmente, riteneva di poter influenzare la Corte d’assise d’appello di Palermo e ottenere una condanna di Mori. Obiettivo fallito: Mori di nuovo assolto. E non risulta che, al momento, la Tv di Stato abbia realizzato una trasmissione di riparazione. Aspettiamo fiduciosi. Naturalmente è possibile che Marco Travaglio non si sia accorto di questi avvenimenti e che le righe che ha scritto ieri siano solo il risultato di un clamoroso errore giornalistico. Do per scontata questa ipotesi perché mi rifiuto di credere alla malafede. Volevo solo segnalare ai più giovani – da vecchio quale ormai sono da tempo – che qualche anno fa per un errore giornalistico di queste dimensioni succedeva un pandemonio.
Nel 1982 l’Unità pubblicò un articolo in prima pagina nel quale sostenne che c’era stata una trattativa Dc-camorra, condotta addirittura da un ministro, per ottenere la liberazione di un assessore democristiano napoletano che era stato rapito dalle Br. L’Unità però non aveva le prove. E anzi pubblicò un documento di accusa che si rivelò falso. Successe il finimondo, perché in quegli anni molti erano convinti che i giornali avessero il dovere di pubblicare solo notizie vere. Si dimise il direttore del giornale, si dimise il vicedirettore, si dimise il redattore capo, si dimise persino il numero 2 del Pd, il vice di Berlinguer.
Il capogruppo del Pci alla Camera chiese pubblicamente scusa, a nome dell’Unità, intervenendo in Parlamento. Pensate quanto tempo è passato. L’errore di Travaglio è molto simile a quell’errore che fu commesso dall’Unità. Forse anche più grave. La differenza è piccola piccola e sta tutta nel Dna del giornalismo, che è cambiato. Allora il giornalismo era una cosa seria ed era una delle colonne della vita civile e della democrazia. Oggi no. È diventato un “Fatto”.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La débâcle dei giornali. Trattativa Stato Mafia, da Travaglio a Bianconi il flop dei giornalisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Ottobre 2021.
Saranno stati, come disse Antonio Ingroia, l’ex pm del processo “Trattativa”, i colletti bianchi ad averla fatta franca, o non invece lui stesso, il collega Di Matteo e tutta la banda dei giornalisti che facevano la ola davanti a loro? Insomma, chi è che l’ha fatta franca? Quando, con grande senso della scenografia e piccolo senso del pudore, il presidente della corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto scelse il ventiseiesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino, il 19 luglio 2018, per depositare le motivazioni della sentenza che sposava l’ipotesi-bufala e condannava gli imputati per minaccia o violenza a corpi dello Stato, era stato un coro di osanna che aveva percorso l’etere e la penisola. Tre anni dopo, quando una nuova sentenza assolve tutti, si scopre che la “complessità” della mafia non va giudicata nelle aule di giustizia. Travaglio permettendo, naturalmente.
I giudici avevano aspettato il novantesimo giorno, ultima scadenza consentita dalla legge dopo l’emissione della sentenza, pur di scodellare le 5.252 pagine calde calde sulla commemorazione della strage di via D’Amelio, nel 2018. E consentire ai giornali amici di titolare direttamente su Borsellino. Non solo per ricordarne il valore e il sacrificio, però. È sufficiente sfogliare qualche titolo del giorno dopo. Corriere della sera: “I giudici e via D’Amelio: il dialogo tra Stato e mafia accelerò quella strage”. La Repubblica: “Chi condannò Borsellino”. Il Fatto: “La Trattativa uccise Borsellino”. Parliamoci chiaro: quel giorno i tre alti carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre al senatore Marcello Dell’Utri erano presentati come gli assassini, o quanto meno i mandanti, della strage di via D’Amelio, in particolare della sua accelerazione nei tempi. Perché, mostrando agli uomini della mafia il volto fragile e accomodante di uno Stato pronto a trattare, avevano in realtà spinto i boss dei corleonesi ad alzare il prezzo con altre bombe e altre stragi.
È evidente a tutti, o forse a pochi, che la strage di via D’Amelio non aveva nulla a che fare con il processo. Ma molto con l’uso propagandistico che ha inquinato per tanti troppi anni – non si riesce più a contarli, perché le prime indagini nei confronti di Dell’Utri sono partite fin dal 1994- l’inchiesta e poi il processo su una trattativa tra lo Stato e la mafia che ormai una sentenza che possiamo considerare definitiva ha sonoramente bocciato. L’“accadimento”, il quid che avrebbe spinto Totò Riina a fare in fretta a uccidere Borsellino, “non è provato”, come scriveva sul Corriere Giovanni Bianconi, ma trovava convergenza di due fatti. Il primo, nelle parole della moglie del magistrato cui il marito avrebbe confidato in modo molto generico di aver saputo di ambienti istituzionali inquinati. Il secondo sarebbe stata un’intercettazione in carcere in cui Riina diceva a un suo complice “ma dammi un po’ di tempo”. Prove inconfutabili, come si può notare. L’assurdo è che tutta quanta l’inchiesta, compresa la sentenza di primo grado, è fatta così, ricca di congetture ed effetti scenici.
Pure, queste ipotesi, il fatto che un gruppo di alti ufficiali prima e Dell’Utri dopo fossero stati interessati messaggeri delle minacce di morte da Cosa Nostra a tre diversi governi, è stata fatta propria anche da ampi settori del giornalismo militante, amico delle toghe militanti. Tanto che Attilio Bolzoni quel 20 luglio del 2018 su Repubblica scriveva che le parole scritte in quella sentenza “raccontano i cattivi pensieri che abbiamo avuto in questo quarto di secolo. Un pezzo di stato che si cala le braghe e che dà forza ai suoi nemici, un pezzo di stato che ha preferito “parlare” con i Corleonesi piuttosto che scatenarsi con tutta la sua potenza contro un potere criminale”. Una frase in cui stato è scritto con la minuscola e Corleonesi con la maiuscola. Ma sono certamente errori di battitura. Il regno dell’assurdo.
Bolzoni che incensa l’ex ministro Scotti dicendo che era stato cacciato dal governo perché era stato duro nei confronti della mafia, ma forse non ricorda che in quei giorni la segreteria della Dc aveva imposto che i ministri si dimettessero da parlamentari, così perdendo l’immunità, che Scotti aveva evidentemente preferito mantenere, visti i tempi che correvano, con Tangentopoli che stava decimando gli uomini del pentapartito. E Bianconi che, scrivendo su Dell’Utri e la minaccia che avrebbe effettuato, per conto della mafia, nei confronti del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, accenna alle famose riforme che sarebbero state gradite a Totò Riina. In quei giorni non si parlava ancora del decreto Biondi. Ma delle riforme si dice che, citiamo da Bianconi, “Non importa che queste fossero frutto di un semplice e legittimo spirito garantista della nuova maggioranza, e non dettate dal ricatto mafioso. L’importante è che tramite Dell’Utri l’avvertimento sia arrivato a Palazzo Chigi, e questo per i giudici è confermato”.
Anche di questo non c’è prova, come non c’è mai stata nei confronti di Calogero Mannino che, mentre la nebulosa trattativa si trascinava dal processo di primo a quello di secondo grado, portava a casa assoluzioni a raffica. Pure, quel 20 luglio di tre anni fa, mentre l’ex ministro era stato già assolto in primo grado, il sospetto grava ancora su di lui che, terrorizzato dopo l’uccisione di Salvo Lima, sarebbe stato disposto a tutto pur di salvarsi la vita e avrebbe incaricato i carabinieri di avviare la famosa “trattativa”. Nessun dubbio solcò la fronte dei giornalisti militanti, in quei giorni. La prima assoluzione di Mannino era citata tra due virgole e tanto doveva bastare. Il nobel dell’entusiasmo come sempre va attribuito a Marchino Travaglio, che ha anche il merito di non demordere mai: trattativa era e trattativa doveva continuare a essere. E chi se ne importa delle sentenze. Tranne di una, quella del presidente Montalto. Sentite che toni lirici: “ Una sentenza che tutti gli italiani dovrebbero conoscere. E il Fatto si attiverà con ogni mezzo per divulgarla e rompere lo scandaloso muro di ignoranza..”. E poi la promessa di pubblicare a puntate le cinquemila pagine. Sai che spasso, i lettori non aspettavano altro.
Qualcuno pensa che di tutta questa retorica ci sia ancora traccia sui giornali del 24 settembre 2021, il giorno successivo alla sentenza d’appello che ha sconfessato in toto l’ipotesi di Ingroia e Di Matteo fatta propria anche da Montalto? Macché, tutti virtuosi, ormai. Il direttore del Fatto si impunta su un particolare, il fatto che i mafiosi siano stati condannati per aver tentato di minacciare lo Stato, mentre gli ufficiali dei carabinieri, che non avevano mai negato di aver tentato un approccio con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino per un aiuto alla cattura di Riina (che infatti sarà arrestato all’inizio del 1993) venivano assolti “perché il fatto non costituisce reato”. E Dell’Utri addirittura per non aver commesso il fatto. La trattativa c’è stata, insiste. E quello che fu l’inventore della “Trattativa” con la T maiuscola e tra virgolette, Antonio Ingroia, non si arrende, ma lamenta il fatto che “i colletti bianchi l’hanno fatta franca”.
Quanto ai due quotidiani d’opinione che abbiamo esaminato per gli articoli del 2018, navigano oggi virtuosamente tra le nuvole. Nessuno che dica “ci siamo sbagliati”, nello sposare con gli occhi chiusi quella sentenza. Porta ancora la firma di Bianconi il commento del Corriere della sera “L’uso improprio che si fa dei processi”, impeccabile nell’affermare che non sono le aule di giustizia a dover scrivere la storia. Neppure una riga di questo concetto commentava la sentenza di condanna, ci pare di ricordare. Quanto a la Repubblica, si rifugia nella “zona grigia”, nel buio in cui tutte le vacche sono nere, perché è difficile decifrare la complessità del fenomeno mafioso. L’incarico del commento è affidato a Carlo Bonini, che riesce a far bella figura perché ha letto (o ne ha sentito parlare) il libro del professor Giovanni Fiandaca e dello storico Giuseppe Lupo che nel 2014 scrissero che per giudicare la trattativa “un’aula di giustizia era troppo piccola”.
Potrebbe forse regalarne una copia al collega Bolzoni, anche se non è più suo compagno di banco, e ricordare che sia Fiandaca che Lupo si sono espressi ben oltre il 2014 su questa inchiesta. Che è stata definita “una boiata pazzesca”. Sulla pelle di morti e feriti. Non solo nel corpo. Ne riparleremo quando Dell’Utri sarà del tutto libero da ogni ferita, dopo il prossimo provvedimento della Cedu sulla condanna per concorso esterno. Allora faremo la prossima analisi comparata.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Rai: Rita è candidata alle elezioni, quindi per favore smettetela di romanzare il generale Dalla Chiesa. Scelte che offendono la nazione. TheWorldNews TWnews.it il 24 agosto 2022.
in nome di un'arena a livello unico Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Cetti Carraro furono assassinati dalla mafia 40 anni fa
Interruppe la fiction "Il nostro generale" su Alberto di Chiesa, ucciso dalla mafia in Sicilia 40 anni fa. Abbiamo appreso che la decisione è stata presa dalla Rai e che Rita , la figlia del famoso volto televisivo Chiesa, è stata selezionata per candidarsi alla carica. Per Forza Italia. Infatti, non senza indignazione, tutto il Paese parla della scelta ridicola. Ed esprimere piena solidarietà a Rita in chiesa. Finì per sentirsi in colpa.
Il rinvio della miniserie in quattro puntate, che doveva andare in onda su Rai1 dall'11 settembre, insieme al rinvio della conferenza stampa di annuncio, è stato deciso sulla base del regolamento relativo al par condicio lanciato Per organo di sorveglianza, a norma di legge. Ma cosa c'entra un eroe nazionale, un carabiniere che, come il generale Dalla Chiesa, nelle elezioni del 25 settembre ha dato la vita per servire la nazione? Una fiction sull'omicidio del padre può portare voti alla candidata Rita Dalla Chiesa? Per il suo 40° anniversario, siamo rimasti sbalorditi quando è stato identificato come diretto da Lucio, con Sergio Castellitto. Bloccati Pellegrini e Andrea Jublin. La replica della vecchia serie "Il Generale Dalla Chiesa" non è stata posticipata, ma andrà in onda il 3 settembre, con Giancarlo Giannini. Una decisione interessante in un paese davvero curioso.
Controcorrente, l'amarezza di Rita Dalla Chiesa: "Sospesa la fiction su mio padre". Il colpo basso della Rai. Il Tempo il 24 agosto 2022
Rita Dalla Chiesa è visibilmente emozionata quando, mercoledì 24 agosto, interviene a Controcorrente, il programma condotto su Rete 4 da Veronica Gentili. Il motivo è quello della sospensione con rinvio a data da destinarsi della messa in onda della fiction su Carlo Alberto Dalla Chiesa, "Il nostro generale", regia di Lucio Pellegrini e Andrea Jublin, con protagonista Sergio Castellitto in occasione del quarantennale della strage di via Carini. La prima puntata doveva andare in onda su Rai 1 a partire dall'11 settembre ma, dopo la candidatura di Rita Dalla Chiesa alle elezioni del 25 settembre nella fila di Forza Italia, è tutto saltato.
"A causa della mia candidatura" la messa in onda è stata sospesa, dice Dalla Chiesa visibilmente amareggiata. "Sono regole che in Rai esistono... È ingiusto per la memoria di mio padre e per la mia professione che dura da 40 anni", dice la conduttrice di tanti programmi di successo tra cui Forum. "È una vergogna. è indegno e infanga la memoria di questo Paese", interviene Giorgio Mulè, forzista e sottosegretario alla Difesa. "Ridicolo, dimostra una profonda ipocrisia che toglie agli italiani la possibilità vedere una fiction su una delle persone più importanti della nostra storia", rimarca Antiono Padellaro del Fatto quotidiano. "Questa storia mi ha anche fatto sentire in colpa, mi stanno facendo sentire a disagio - affermata Dalla Chiesa - Ogni cosa è buona per attaccarmi in base a mio padre. E chi lo può sapere cosa mi avrebbe detto mio padre?".
"Il padre di Rita ha conosciuto meglio di tutti le bassezze di questo Stato, al punto di lasciarci la pelle, non credo che si stupirebbe e abbraccerebbe la figlia dicendole: vai avanti, fregatene", commenta il direttore di Libero, Alessandro Sallusti.
“Una berlusconiana contro la mafia”. Da Rita Dalla Chiesa ad Annarita Patriarca, parte la gogna di “Fatto” e “Domani”: la lista degli impresentabili per gli amanti delle manette. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Agosto 2022
Sarcasmo: “Una berlusconiana contro la mafia”. Lo schiaffo arriva violento su Rita Dalla Chiesa. La colpisce in pieno, come una mitragliata di Cosa Nostra. Mira a cancellarla come persona, come seria professionista, e anche come donna che ha sofferto nella tragedia che ha colpito lei e la sua famiglia dopo l’assassinio del generale nel 1982. La sua candidatura nelle liste di Forza Italia per le prossime elezioni politiche del 25 settembre annulla tutto, una storia, una vita. È così che Rita diventa un’impresentabile. Indegna del ricordo, persino.
«La Rai trasmetterà in occasione dei 40 anni della strage di Palermo, una nuova serie che racconta il generale, interpretato da Sergio Castellitto, mentre la figlia sarà in campagna elettorale sotto la bandiera di Forza Italia, il partito di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi». Così scrive di lei Nello Trocchia. Se si può dare un voto allo schifo, questa volta sul podio più alto nel festival delle manette non c’è il Fatto di Marco Travaglio ma Stefano Feltri con il suo Domani. È una gara a tre, con il fanalino di coda della Notizia. Il brodo è sempre lo stesso, quello che si presenta come uno stantio ritornello a ogni tornata elettorale. E qualcuno, i famosi più puri, presenta il catalogo di coloro che, a loro sindacabile giudizio, sono gli “impresentabili”.
La base di partenza è naturalmente l’intervento della magistratura, ma ormai non basta più. Tanto che il Fatto quotidiano, il cui direttore è il vero papà dei primi della classe della verginità morale, ha addirittura stilato le tre categorie dei bocciati: condannati, inquisiti e “inopportuni”. Ha però dimenticato i parenti. Ci pensa La Notizia, che ha fatto ieri il vero scoop, denunciando lo scandalo della candidatura al Senato di Antonia Postorivo. Del tutto secondario il fatto che si tratti di un’avvocata costituzionalista e anche magari che in Parlamento in questo momento potrebbe essere molto utile un ruolo professionale come il suo. Quel che conta è una condanna, non definitiva, di suo marito per concorso esterno, il famoso reato che non c’è ma che, soprattutto al Sud, difficilmente viene negato ai politici. «Insomma –scrive il quotidiano, con il solito linguaggio un po’ questurino- per quanto la Postorivo sia estranea alla vicenda e che sia perfettamente abile e arruolabile come candidata, ciò non toglie che…». Eccetera.
Ma ecco che Travaglio rilancia subito e triplica l’impresentabilità di un’altra candidata, che porta non solo sul suo corpo le stimmate del marito ma nel dna le macchie del padre. Annarita Patriarca è una consigliera regionale campana, la più votata con 11.000 preferenze, ma questo i lettori del Fatto non possono saperlo, perché viene raccontato loro chi è suo padre e chi è suo marito. Lei non esiste se non come “figlia di “ e “moglie di”. Inoltre, si suppone sia incensurata e non abbia carichi pendenti, visto che l’articolo non ne parla. In questo caso non conta. Pure è un’altra impresentabile. Certo che questi illustri direttori di quotidiani non scherzano quanto a misoginia! Dobbiamo però a questo punto fare una piccola rettifica. Perché sullo scaffale del Fatto, dove sono messe in bella mostra anche le foto segnaletiche di “condannati, indagati e inopportuni”, almeno una è stata salvata.
È vero che il nome di Chiara Appendino, candidata dal Movimento cinque stelle, in fondo, ma proprio in fondo all’articolo c’è, con la sua condanna in primo grado a un anno e sei mesi per la tragedia di piazza San Carlo a Torino nel 2017. Ma almeno a lei, contrariamente alle altre, è stata risparmiata la gogna dell’immagine, oltre che commento piccante. Bravo Marcolino, almeno una l’hai salvata. Inutile soffermarsi, mentre si sfoglia l’album di famiglia degli impresentabili, sugli amorevoli ritratti dedicati a Silvio Berlusconi, che rientrerà al Senato dopo quel voto che lo cacciò nonostante i tanti costituzionalisti che davano un’interpretazione negativa sulla retroattività della legge Severino. Più che la condanna per frode fiscale, o i ridicoli “processi Ruby”, è la militanza antimafiosa, a farla da padrone. Ed è la stessa Rita Dalla Chiesa, intervistata dal Quotidiano nazionale, la prima a scacciare le insinuazioni come mosche fastidiose.
«Mai creduto alle accuse di mafia», sentenzia sicura, «hanno avuto paura di lui solo quando è entrato in politica». Se “Berlusconi finanziava la mafia”, naturalmente ce ne è anche per Salvini e Renzi, impresentabilissimi, uno per la questione delle navi di immigrati, l’altro per Open e il sospetto di finanziamento occulto al Pd. Ma son rose e fiori –infatti se ne occupano solo i tre quotidiani abbonati al festival delle manette- rispetto a quel che sta succedendo in Sicilia. Dove il Pd è stato l’abbandonato da un Conte che giustamente rivendicava «Non posso candidare Scarpinato e Cafiero de Raho e poi accettare impresentabili in Sicilia». Così, incassato per sua fortuna un “si” a denti stretti da Caterina Schinnici, la figlia del magistrato assassinato dalla mafia, che era stata indicata dalle primarie comuni come candidata a governare la Sicilia, e che non abbandona la corsa, il Pd sta vivendo i tormenti del giovane Werter.
Ha già dovuto rinunciare a correre il capogruppo del partito all’assemblea regionale Giuseppe Lupo, e pare traballi la posizione del segretario regionale Antony Barbagallo. Il quale non trova di meglio, per salvarsi la pelle, che ingaggiare la rincorsa del peggior grillismo, affannandosi a dichiarare: «La decisione di non inserire nelle liste candidati sottoposti a procedimenti penali è da attribuire esclusivamente al Pd. È una linea condivisa da me e dal segretario nazionale». Chissà quale manina aveva prima inserito i nomi che ora sono spariti. Traballano le posizioni. E anche Enrico Letta, tra la Sicilia e il viterbese, non si sente molto bene.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La storia della Trattativa Stato-mafia. Il patto tra Dc e corleonesi fu siglato sul sangue di Dalla Chiesa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Settembre 2021. Per questa seconda puntata del racconto sommario dei rapporti fra Stato e mafia sono andato ad attingere da un mio antico file nutrito per oltre quaranta anni con troppi eventi e nomi per poter essere usato. Ma ne escono le questioni fondamentali dello sviluppo del rapporto fra Stato, Mafia, intermediari, professionisti e sedicenti tali dell’antimafia. Per tornare di nuovo a Sciascia: c’è una storia che nasce con il dopoguerra e una seconda parte che comincia negli anni Ottanta e che vede l’astro Falcone illuminarsi progressivamente e per molti minacciosamente. Oggi si parla di Cosa Nostra come se fosse una squadra, un brand, un marchio di fabbrica, ma è falso. Fa parte della vulgata ideologizzata. Ma provate a immaginare: ci fu un’epoca, quella degli anni Settanta e Ottanta e che arriva fino alla fine della guerra fredda, quando scoppiò Tangentopoli con l’inchiesta Mani Pulite, in cui erano attori di primo piano le varie mafie fra cui i Corleonesi con il loro ruolo di comando, i guerriglieri di dubbia e molteplice origine sia rossa (Brigate rosse, Prima Linea) e nere (Nar e altre sigle), correnti fra loro diverse e opposte negli organi dello Stato, specialmente nei servizi segreti perennemente divisi fra un’ala filo araba e una filo israeliana e americana, ma con pesanti e continue interferenze dei servizi dell’Unione Sovietica che nel 1981 tentarono, senza riuscirci, di eliminare il papa polacco che con il suo seguito sindacale e politico occupava materialmente il territorio polacco, rendendolo inoperabile per fini militari. Cominciò la stagione delle Commissioni antimafia sia regionali che del Parlamento repubblicano in cui tale commissione diventa istituzionale, ovvero diventa una branca del Palamento con tutto il suo apparato, gli accordi e disaccordi sulle presidenze e il mestiere di membro o presidente dell’antimafia diventa la professione che Leonardo Sciascia violentemente contestava, sicuro che nessuno dei politici italiani capisse nulla di mafia e usasse la mafia e l’antimafia solo per fare carriera e occupare spazi politici. I delitti accadevano a una velocità che abbiamo dimenticato: circa ottanta all’anno, qualche anno più pescoso anche di più. Era la normalità della mafia e dell’antimafia. Sono poi andato a sfogliare dei miei volumoni di fotocopie degli originali interrogatori condotti da Falcone, quando mise sotto torchio Tommaso Buscetta che fu il primo e vero testimone di giustizia che vuotò il sacco. Il giudice lo interrogò sempre da solo, senza cancelliere, e metteva a verbale con la penna stilografica le domande e le risposte. Questo Tommaso Buscetta è un uomo chiave su cui sono stati fatti film e libri. Ma era un testimone di Giustizia (in Italia e soltanto in Italia si dice “pentito”) che volente o nolente vuotò tutto il sacco, e quando cercava di mettere nel sacco Falcone, quello lo ri-arrestava. Un altro tutore esegeta di Buscetta fu Enzo Biagi che ebbe con lui una famosa intervista in cui, ad esempio, Buscetta spiegava mentalità e uso del potere di Salvo Lima che poi diventò il referente di Giulio Andreotti, per cui quando Lima fu ammazzato, Andreotti capì che la sua corsa verso il Quirinale era finita, anche se seguitò a sperarci. Nei primi anni Sessanta il futuro onorevole Lima fu sindaco di Palermo. Buscetta raccontò poi a Biagi: «Lui personalmente non mi ha fatto dei favori perché io avevo anche i miei dentro il municipio di Palermo, che erano di Cosa nostra. Addirittura, uno era il consigliere della mia famiglia che si chiamava Giuseppe Trapano, consigliere della famiglia e consigliere municipale». Prima di quei due anni da sindaco, Lima aveva assistito come membro della Democrazia Cristiana all’ascesa dei Corleonesi al potere, cominciata con l’assassinio del boss (e noto medico chirurgo) Michele Navarra, quando gli uomini in armi erano Totò Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Liggio. Disse Buscetta che le riunioni nella Commissione erano tempestose perché il capo dei palermitani, Salvatore La Barbera si trovava in contrasto con i provinciali Corleonesi e accadde che un membro della famiglia di Porta Nuova, tal Anselmo Rosario, si era innamorato della sorella di un uomo d’onore, Raffaele Spina, di un’altra famiglia, quella di Noce. Raffaele Spina pose il veto sul matrimonio per motivi sociali. I compari di Anselmo Rosario, fra cui Tommaso Buscetta, consigliarono all’amico di rapire la donna amata e chiudere la faccenda con un fatto compiuto. Il rapimento avvenne e le conseguenze furono quelle previste: Raffaele Spina inghiottì il boccone, ma giurò vendetta e di far fuori l’odiato rapitore della sorella. Ma le regole di famiglia vietavano qualsiasi atto che andasse contro i legami di sangue e Salvatore La Barbera si oppose alla richiesta, cosa che aumentò ancora di più la tensione fra palermitani e provinciali. La tensione arrivò a tal punto che Calcedonio Di Pisa fu assassinato a Palermo il 26 dicembre 1962, poco prima che la proposta di legge del Senatore Ferruccio Parri – il primo capo del governo repubblicano alla fine della guerra, di istituire una Commissione permanente d’Inchiesta sulla mafia, fosse messa nel calendario dei lavori parlamentari. Intanto era morto a Napoli Lucky Luciano per un infarto, mentre stava discutendo un film sulla propria vita con un produttore americano e per i suoi funerali si era spostato da Milano Joe Adonis, antico compagno di gangsterismo negli Stati Uniti. Luciano non era mai stato regolarizzato come cittadino americano essendo entrato da bambino come clandestino e dunque era stato espulso e spedito a Napoli. Adonis aveva deposto una corona con la scritta “Goodbye, Old pal”. Nel 1962 anche l’Assemblea regionale siciliana vota all’unanimità una mozione per la Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia. Finalmente il 20 ottobre 1962 la Camera approva la legge che istituisce la Commissione antimafia con il compito anche di “proporre le misure necessarie per reprimere le manifestazioni ed eliminarne le cause”. Intanto la mafia si è convertita dal settore agricolo all’edilizia, badando alle amministrazioni, agli appalti, e quindi alla politica del denaro pubblico. Alla lupara si sostituiscono il mitra e la pistola automatica mentre diventano importanti le connessioni con i partner commerciali della cocaina e dell’eroina, imponendo una politica estera di Cosa Nostra. Dirà Buscetta nel 1992: «La mafia è dominata dai Corleonesi. Si sono sciolte tutte le famiglie. Nel ‘63 un tale Michele Cavataio si rese responsabile di una cosa gravissima. Aveva messo delle bombe nelle macchine provocando la morte di civili e poliziotti. Fu uno scandalo per Cosa Nostra. Ora invece i Corleonesi possono mettere le bombe e far saltare i giudici». Negli Stati Uniti, nell’autunno del 1963, Joe Valachi di fronte alla Commissione senatoriale degli Stati Uniti rivelò il nome di Cosa Nostra e la sua organizzazione. Valachi fu il primo a parlare della Mafia come “Cosa Nostra”, in cui dice di essere entrato nel 1930, introdotto da Salvatore Maranzano. Dopo aver deposto e fornito il primo quadro dettagliato e attendibile dell’organizzazione, Valachi, dopo aver pronunciato la sua impressionante testimonianza di “pentito”, fu condotto nella prigione federale di La Tuna in Texas, dove morì d’attacco cardiaco nel 1971. Dopo la morte del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nominato prefetto di Palermo e ucciso barbaramente a colpi di mitra insieme alla giovane moglie, il figlio del generale, Nando dalla Chiesa, accusò lo scrittore Leonardo Sciascia di aver lasciato credere a suo padre di essere il capitano Bellodi, l’eroe del Giorno della Civetta, Lo scrittore siciliano non ne aveva voluto sapere di celebrare il generale ucciso rimproverandogli di non aver capito la mafia, di essere stato superficiale e imprudente e di essersi pericolosamente nutrito della propria auto leggenda. Del delitto dalla Chiesa, Tommaso Buscetta racconta a Falcone: «La sera del 3 settembre, qualche ora dopo l’assassinio di dalla Chiesa ero all’hotel Regent di Belem, sul Rio delle Amazzoni, con Gaetano Badalamenti e guardavamo la televisione. Quando venne trasmessa la notizia, Badalamenti commentò dicendo che quel delitto doveva essere stato un atto di spavalderia dei Corleonesi». Falcone trovò molto acuta questa analisi e commentò nella sentenza istruttoria: «Ciò che sorprende è la sicurezza con cui Badalamenti ha saputo analizzare la notizia e individuare cause e autori dell’eccidio». Tuttavia, Buscetta accennò anche al possibile retroscena politico del delitto: «Badalamenti disse ancora che qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante ormai del generale». Fu dunque Badalamenti a dire a Buscetta che il delitto aveva probabilmente due facce, una corleonese e una politica: il politico in questione viene sempre identificato in Vito Ciancimino, da Buscetta descritto sempre come il referente dei Corleonesi. La cosa importante da notare in questa data è che Buscetta accusa la “spavalderia dei Corleonesi” per il delitto dalla Chiesa e ipotizza che «qualche uomo politico» si sia sbarazzato del generale. Ma di “entità” esterna, nulla. Quei fatti sono ormai lontani e hanno perso parte della loro memoria emotiva. Ma la questione vagamente mafiosa è diventata all’inizio degli anni Novanta una questione politica e politicante, matura ed autonoma rispetto alla vera organizzazione criminale e dotata di vita e logica propria. Ed è il momento in cui la partita si fa veramente dura e in cui i personaggi più loschi scendono in campo.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Rita Dalla Chiesa a La Confessione (Nove) di Peter Gomez: “L’omicidio di mio padre? Politico. Andreotti gli disse: chi si mette contro la Dc in Sicilia torna con i piedi davanti”. Il Fatto Quotidiano il 24 settembre 2021. Rita Dalla Chiesa a La Confessione (Nove) di Peter Gomez: “Berlusconi coinvolto in stragi di mafia? Non ci ho mai voluto credere, mi farebbe troppo male”. “Nei diari di mio padre c’era scritto di un colloquio tra lui e Andreotti, in cui gli diceva. “Attenzione, perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia, poi torna con i piedi dalla porta”. Così Rita Dalla Chiesa, ospite de La Confessione, il programma condotto da Peter Gomez, in onda il 24 settembre alle 22.45 su Nove, ha raccontato del clima in cui maturò l’omicidio, di matrice mafiosa, del padre, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa morto il 3 settembre 1982 nella strage di via Carini in cui morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. “Al funerale era pieno di politici, ma non c’era Giulio Andreotti”, ha confermato l’ex conduttrice di Forum. “Oggi c’è un collaboratore di giustizia, l’abbiamo saputo tre anni fa, il quale dice che il mandante dell’omicidio di suo padre è stato, sarebbe stato, un politico, oggi scomparso, molto vicino ad Andreotti. Lei che ne pensa?”, ha chiesto il direttore de Ilfattoquotidiano.it. “Che è vero”, ha risposto lapidaria la figlia del Generale. “Lei, già da subito, si è convinta che la decisione di quell’omicidio fosse una decisione politica”, ha insistito il conduttore. “Sì, ho maturato questa convinzione perché ho visto la solitudine nella quale avevano lasciato mio padre – ha detto Rita – Perché nei diari di mio padre, che poi Falcone mi fece leggere, ne parlai anche con Chinnici (Rocco Chinnici, ndr), c’era scritto di un colloquio che mio padre aveva avuto con Andreotti. E Andreotti gli aveva detto: “Attenzione perché chi si mette contro la mia corrente politica in Sicilia (quella della Democrazia cristiana, ndr), poi torna con i piedi dalla porta, ecco, questo era il significato”, ha concluso il noto volto televisivo.
LE SABBIE MOBILI DEL CAPOLUOGO SICILIANO. Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale ingoiato da Palermo. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 agosto 2022
Nella “sua” prefettura più che un estraneo è un nemico. Si sente spiato, non si fida del caffè che gli portano gli impiegati, ha paura che sia avvelenato. Sa che ascoltano le sue telefonate, si accorge che qualcuno apre la sua corrispondenza.
Carabiniere figlio di carabiniere (suo padre Romano è stato anche lui vicecomandante dell'Arma), negli Anni Settanta guida un Nucleo Speciale che sbaraglierà le Brigate Rosse. Nasce il “mito” del generale, l'uomo “che ha sconfitto il terrorismo in Italia”.
Giulio Andreotti non parteciperà ai suoi funerali “perché preferisce i battesimi”. La storica omelia del cardinale Salvatore Pappalardo su “Sagunto espugnata”
LA SERIE SU CARLO ALBERTO DALLA CHIESA. Un generale mandato allo sbaraglio nella Sicilia mafiosa. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 23 agosto 2022.
Il suo omicidio ha mandanti mafiosi (tutti catturati e processati e condannati) e mandanti occulti mai trovati. Quando nel carcere dell'Ucciardone la notte del 3 settembre si diffonde la notizia che Carlo Alberto dalla Chiesa è stato ucciso, i boss della settima sezione hanno brindato con lo champagne
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Gli avevano promesso poteri speciali che non gli hanno mai dato. Gli avevano garantito che avrebbe potuto indagare “sulla famiglia politica più inquinata” della Sicilia. L'hanno lasciato solo per centoventi giorni, solo in una Palermo che non aspettava altro che azzannarlo.
L'hanno ucciso quarant'anni fa, la sera del 3 settembre 1982. E con lui la giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Una settimana dopo morirà anche il poliziotto della sua scorta Domenico Russo. Un agguato, i sicari imbracciavano Kalashnikov, gli stessi fucili mitragliatori che l'anno prima avevano ucciso i boss Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.
LA FIRMA DI TOTÒ RIINA
Come prefetto di Palermo è arrivato il pomeriggio del 30 aprile, il giorno dell'uccisione di Pio La Torre, parlamentare e segretario regionale del Partito comunista italiano. Il suo nome per quell'incarico l'aveva proprio suggerito La Torre, che il generale aveva conosciuto alla fine degli anni Quaranta a Corleone quando comandava una squadriglia antibanditismo e l'aveva rincontrato nei primi Anni Settanta quando da colonnello era stato ascoltato in Commissione Antimafia.
Ai parlamentari dell'Antimafia aveva consegnato “schede” su Salvo Lima, Vito Ciancimino e Giovanni Gioia, gli stessi personaggi politici che avrebbe ritrovato a Palermo in quella primavera del 1982.
Carabiniere figlio di carabiniere, Carlo Alberto dalla Chiesa è diventato un mito per avere sconfitto le Brigate Rosse, una lunga stagione che ha insaguinato l'Italia. A capo di un Nucleo Speciale Antiterrorismo autonomo dalle gerarchie, nuovi metodi d'indagine, qualche azione investigativa spericolata che gli ha creato ostilità e sospetti.
Ma a Palermo le cose vanno ben diversamente. I poteri politico-criminali stanno cambiando, la Sicilia è un vulcano.
Il suo omicidio ha mandanti mafiosi (tutti catturati e processati e condannati) e mandanti occulti mai trovati. Quando nel carcere dell'Ucciardone la notte del 3 settembre si diffonde la notizia che Carlo Alberto dalla Chiesa è stato ucciso, i boss della settima sezione hanno brindato con lo champagne.
Da oggi e per circa un mese sul nostro Blog Mafie pubblichiamo ampi strali tratti dal libro “Uomini Soli” di Attilio Bolzoni, ripubblicato da Zolfo Editore.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA. Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
Un generale dei carabinieri fatto a pezzi dallo Stato. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 23 agosto 2022
La cassaforte è vuota. C’è solo una piccola scatola verde. Anche la scatola è vuota. È tutto quello che trovano: una scatola vuota dentro una cassaforte vuota. Palermo ingoia i suoi segreti in una notte.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
La cassaforte è vuota. C’è solo una piccola scatola verde. Anche la scatola è vuota. È tutto quello che trovano: una scatola vuota dentro una cassaforte vuota.
Palermo ingoia i suoi segreti in una notte.
Fra le stanze buie di Villa Pajno, la residenza privata dei prefetti, scompare ogni segno della lunga estate di solitudine di un uomo ucciso lentamente fra Roma e la Sicilia. Omicidio premeditato, annunciato, dichiarato. Omicidio fortemente voluto per chiudere un conto con un generale diventato troppo ingombrante. Una leggenda per i suoi carabinieri, un mito della lotta al terrorismo degli Anni Settanta, una minaccia permanente per l’Italia che sopravvive fra patti e ricatti.
Chi è il mandante?
La «malefica tabe», dice un sindaco. «Il nostro male oscuro», dice un presidente della Regione. «Il cancro dell’isola», dice un ministro. Mafia.
Una parola che non si pronuncia mai nemmeno davanti a quel corpo proteso a difendere una giovane donna, lui e lei vicini anche nella sera di scirocco siciliano che li trascina verso la morte. Mafia.
Un alibi perfetto per seppellire e dimenticare per sempre Carlo Alberto dalla Chiesa, cinquantottesimo prefetto di Palermo dall’Unità nazionale. All’Ucciardone è festa, brindano con lo champagne. A Roma, c’è chi si asciuga la fronte imperlata di sudore per lo scampato pericolo. Un altro cadavere, il 3 settembre del 1982, riporta Palermo nella sua normalità. È il cadavere di un generale fatto a pezzi dallo Stato.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
L’estate del 1982, una Palermo dannata prigioniera della mafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 24 agosto 2022
Prigioniera è Palermo nell’estate 1982, soffocata dall’afa e presa a tradimento dai suoi sicari padroni delle strade. Un omicidio ogni 72 ore nel mese di giugno, un omicidio ogni 48 ore a luglio, un omicidio ogni 12 ore ai primi di agosto. Alla Milicia, la campagna verdissima che da Altavilla e Casteldaccia scende verso il mare di Bagheria, i morti ammazzati sono quattordici in una sola settimana.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Dannata è Palermo nell’estate del 1982, dove tutto sembra irreale e tutto accade sotto lo sguardo di Carlo Alberto dalla Chiesa, sessantadue anni, il generale che dopo una vita da carabiniere lascia l’Arma e scende in Sicilia «per combattere la mafia».
Dalla mattina dell’uccisione di Pio La Torre, il 30 aprile, è lui il nuovo prefetto.
«Eccellenza, dolce o amaro?». Con ostentata cortesia il domestico appoggia la tazzina del caffè sul tavolo e fa un cerimonioso inchino. Il prefetto l’avvicina alle labbra e aspetta che qualcuno dei suoi ospiti ne mandi giù un sorso. Non beve mai il caffè prima degli altri. Ha paura di morire, avvelenato come Gaspare Pisciotta. E sospetta che possano farlo anche lì, nelle sale di Villa Whitaker, una palazzina rossastra in stile veneziano fatta costruire dai pronipoti degli Ingham, facoltosa famiglia inglese che produceva un vino liquoroso – il Marsala – ancora prima dello sbarco di Garibaldi in Sicilia.
Specchiere, stucchi, decorazioni liberty, cristalli, divani damascati, dipinti. Lunghi corridoi che s’inseguono piano dopo piano. Spie in ogni stanza.
Due inservienti sono imparentati con gente di Cosa Nostra.
Un impiegato si chiama Antonio Miceli ed è il fratello di Joseph Miceli Crimi, il medico della polizia che ha sparato a Michele Sindona nascosto a Palermo.
Un segretario è nipote di un vecchio boss – Vincenzo Catanzaro detto il Borbone – che il generale ha conosciuto nel bosco della Ficuzza quando da giovane capitano comandava le squadriglie di Corleone, al tempo della lotta al banditismo.
La prefettura di Palermo è un labirinto immerso fra acacie e oleandri, deposito di misteri di mafia e misteri di Stato.
Fra benvenuti e salamelecchi, Carlo Alberto dalla Chiesa è studiato, sorvegliato, intercettato. Si accorge che qualcuno apre la sua corrispondenza personale, qualcun altro ascolta le sue telefonate.
Fa spostare la scrivania a ridosso di un muro, lontano dalla finestra, la luce entra violenta da via Cavour, i palazzi di fronte sono a una cinquantina di metri, le impalcature dei lavori in corso sembrano il luogo ideale per un cecchino.
Prigioniera è Palermo nell’estate 1982, soffocata dall’afa e presa a tradimento dai suoi sicari padroni delle strade.
Un omicidio ogni 72 ore nel mese di giugno, un omicidio ogni 48 ore a luglio, un omicidio ogni 12 ore ai primi di agosto.
Alla Milicia, la campagna verdissima che da Altavilla e Casteldaccia scende verso il mare di Bagheria, i morti ammazzati sono quattordici in una sola settimana.
Il prefetto ordina ai battaglioni mobili dei carabinieri di presidiare i paesi sotto assedio, posti di blocco, perquisizioni, armi sequestrate, impronte digitali controllate, guanti di paraffina, interrogatori, fermi. I killer non si trovano mai.
Le prime pagine del giornale L’Ora sono ormai fotocopie con numeri al posto dei titoli: 81… 84… 87…
Gli omicidi a Palermo dall’inizio dell’anno.
L’11 agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l’inchiostro rosso si spande sulla foto dell’ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il giornale che chiamava la mafia col suo nome nella città palude. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 agosto 2022
Quotidiano indipendente della sera, il giornale L’Ora, fondato nel 1900 dai Florio, nel 1982 è l’unica voce dell’altra città, quella Palermo che è contro la mafia. Denuncia scandali, i suoi giornalisti sono sommersi da querele, ogni tanto una bomba fa saltare la tipografia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
La redazione è in uno stanzone, gelido d’inverno e bollente d’estate. In prima linea siamo tutti ragazzi, fra i ventidue e i venticinque anni. Veniamo scaraventati ogni giorno sulle strade per raccontare i morti di Palermo.
Sono sempre tre gli articoli per ogni omicidio. La cronaca, «chi è» la vittima, i parenti e i vicini.
Nessuno vuole fare mai il «pezzo» sui parenti. Bisogna bussare alla loro porta, cercare di parlare con una vedova o una madre, procurarsi una foto del morto quando era in vita.
Tornare in redazione senza la foto non si può. Qualche volta la sfiliamo da un album, qualche altra volta la rubiamo direttamente da un comò con tutta la cornice.
Il giornale va in stampa verso mezzogiorno, alle due del pomeriggio è nelle edicole al centro della città e sui treni o sulle corriere che lo portano in ogni paese della Sicilia.
Per i palermitani è «il L’Ora». O «il L’Ora morti e feriti», per gli strilloni che ai semafori e agli incroci urlano i titoli di prima pagina e poi si abbandonano a una litania: «Quanti ne muriru, quanti ne cadiru». Quanti ne sono morti, quanti ne sono caduti.
Quotidiano indipendente della sera, il giornale L’Ora, fondato nel 1900 dai Florio, nel 1982 è l’unica voce dell’altra città, quella Palermo che è contro la mafia.
Denuncia scandali, i suoi giornalisti sono sommersi da querele, ogni tanto una bomba fa saltare la tipografia.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
In Sicilia nessuno vuole il prefetto che ha sconfitto le Brigate Rosse. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 agosto 2022
Il generale dalla Chiesa? «Meglio che se ne stia al mare a sciacquarsi le palle», ironizzano in Questura. Il generale dalla Chiesa? «Ha molta buona volontà ma si dimentica che tutto deve passare da qui, da noi», si affrettano a far sapere gli ermellini del Palazzo di Giustizia, procuratori generali e presidenti di Corti di Appello...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Infida è Palermo nell’estate del 1982, con il suo prefetto che va e viene da Roma e aspetta «poteri» che nessuno gli vuole dare. Incontri al ministero dell’Interno, promesse, rassicurazioni, riunioni interminabili al Viminale per decidere chi è «preposto al mantenimento dell’ordine pubblico nell’isola» e chi deve «coordinare le forze dell’ordine».
Il prefetto dalla Chiesa o il presidente del governo siciliano Mario D’Acquisto, come recita l’articolo 31 dello statuto speciale della Regione?
Si discute per settimane, inutilmente. E intanto, ogni sera, si aggiorna la conta dei morti.
Il caldo è insopportabile, quaranta gradi all’ombra. In Sicilia è l’estate più bollente dell’ultimo quarto di secolo. Le «capanne» di Mondello sono prese d’assalto dai villeggianti, il depuratore è guasto e scarica i suoi liquami nelle acque color pastello del golfo.
La città mattatoio ha i suoi predestinati, l’altra città sembra indifferente. Gelo di melone e Corvo bianco di Salaparuta.
Il generale dalla Chiesa? «Meglio che se ne stia al mare a sciacquarsi le palle», ironizzano in Questura.
Il generale dalla Chiesa? «Ha molta buona volontà ma si dimentica che tutto deve passare da qui, da noi», si affrettano a far sapere gli ermellini del Palazzo di Giustizia, procuratori generali e presidenti di Corti di Appello che non dedicano alla mafia neanche un cenno nelle loro relazioni all’inaugurazione degli anni giudiziari.
Il generale dalla Chiesa? «Un uomo simpatico», risponde Salvo Lima, potente di Palermo.
Il carabiniere più famoso d’Italia è ostaggio nella città più spietata d’Italia.
Gli abitanti sono poco più di 700 mila, i disoccupati ufficiali 120 mila. Ma il denaro scorre a fiumi, c’è un popolo che campa con traffici di droga e contrabbando, commerci illegali piccoli e grandi, si sfama nel sottobosco, ingrassa con gli appalti pubblici.
E stanno arrivando altri soldi per Palermo.
Più di 5250 i miliardi di lire per opere della Regione e altri 1.000 del Comune per il risanamento di un centro storico – unico in Europa – ancora devastato dalle bombe della seconda guerra.
Si aspettano anche 500 miliardi per costruire case, sempre nuove case. A Cardillo. Ad Acqua dei Corsari. A Settecannoli.
Dalla Chiesa sempre più solo in una prefettura dove è visto come nemico. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 27 agosto 2022
Debole sul fronte istituzionale come non lo era mai stato ai tempi delle Brigate Rosse, segregato in quella prefettura che gli sembra giorno dopo giorno sempre più una fossa, Carlo Alberto dalla Chiesa sprofonda in una cupa solitudine. Ma non cede. Resta in Sicilia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Che cosa s’inventerà mai il generale per «combattere la mafia»? Quali saranno le sue prime mosse? Come si muoverà il carabiniere – un «piemontese», per giunta – in una Sicilia che non potrà mai e poi mai capire?
L’onore e il buon nome di Palermo e dei palermitani sono affidati alla difesa e all’eloquenza di Nello Martellucci – è lui quello che la mafia preferisce definirla con vezzo declamatorio «malefica tabe», malattia degenerativa – avvocato penalista e sindaco solo per volere di Salvo Lima. Ma qualche volta, anche lui, è costretto a uscire allo scoperto. A nominarla:
Mafia, mafia… Quanto parla la gente! Che brutta equazione: Palermo uguale mafia. Non è giusto. Come sindaco, come conoscitore dei costumi locali, come rappresentante di questa gente generosa, leale, laboriosa, io mi ribello.
Io non conosco episodi di collusione mafiosa al Comune di Palermo; ed io ho occhi acuti, gli stessi occhi che mi fanno vedere le offese che subiamo in continuazione noi meridionali, colpiti da un malessere sociale che il partito nordista si guarda bene dal curare. Ma stiano attenti i nostri governanti a non tirare troppo la corda, non dimentichino le lezioni della storia… i Vespri Siciliani…
Il prefetto Cesare Mori disse al Duce che la presenza di mafiosi in Sicilia si poteva quantificare nel tre per cento della popolazione. Se prendiamo per buona anche oggi quella proporzione, ci possiamo accorgere che il fenomeno sia meno esteso di quanto si immagini.
Il prefetto dalla Chiesa non si discute. Ma cosa può offrire a dalla Chiesa uno Stato di diritto?
È accerchiato il generale. Debole sul fronte istituzionale come non lo era mai stato ai tempi delle Brigate Rosse, segregato in quella prefettura che gli sembra giorno dopo giorno sempre più una fossa, Carlo Alberto dalla Chiesa sprofonda in una cupa solitudine. Ma non cede. Resta in Sicilia.
Un servitore dello Stato che non piace ai potenti. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 agosto 2022
L’uomo è nato combattente. È uno di quegli italiani cresciuti nell’«amor di patria» – orgoglio, sacrificio, fedeltà –, è un servitore dello Stato che però non si è mai fatto incantare da Roma capitale e dai suoi vizi. Per lui l’Italia è il «suo» popolo, quello che ha conosciuto dalla valle del Belice alle Prealpi comasche, caserma dopo caserma, incarico dopo incarico.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
L’uomo è nato combattente. È uno di quegli italiani cresciuti nell’«amor di patria» – orgoglio, sacrificio, fedeltà –, è un servitore dello Stato che però non si è mai fatto incantare da Roma capitale e dai suoi vizi. Per lui l’Italia è il «suo» popolo, quello che ha conosciuto dalla valle del Belice alle Prealpi comasche, caserma dopo caserma, incarico dopo incarico.
Del piemontese ha il rigore, dalle sue origini emiliane eredita l’estro, ha un rispetto scrupoloso della tradizione ma anche un’anima «moderna» che disvela quando è a capo dell’Antiterrorismo negli Anni Settanta: reparti speciali, infiltrati, una spregiudicatezza operativa che gli attira disapprovazione e sospetti. A sinistra soprattutto. E nelle burocrazie ministeriali, fra magistrati e alti comandi.
Carlo Alberto dalla Chiesa è carabiniere dalla testa ai piedi – «Ho gli alamari cuciti sulla pelle», dice di sé con compiacimento – ma attraversa tempeste per quarant’anni anche dentro la sua amatissima Arma.
È un potente che non piace ai potenti. È romantico, scaltro ma anche ingenuo, adorato e detestato, invocato e temuto, onesto, autoritario, affettuoso. È il generale delle «emergenze» nazionali, tutto impeto e sentimento.
È troppo vero per un’Italia di egoismi e convenienze.
Ed è troppo rischioso averlo tra i piedi nella Sicilia dei giuramenti di sangue, con i ministri che vanno a cena con i boss, con i questori che fanno finta di non vederli.
Nell’agosto del 1982 Carlo Alberto dalla Chiesa aspetta la sua ora. Le sabbie mobili di Palermo se lo stanno divorando.
«L’operazione da noi chiamata Carlo Alberto l’abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa», è la telefonata che arriva dopo l’ultimo omicidio fra Villabate e Altavilla.
Una rivendicazione così a Palermo non l’hanno fatta mai. Sembra un proclama terroristico o una dichiarazione di guerra, in stile militare.
Sono a Casteldaccia, quando arriva quella telefonata. Mi arrampico su una stradina che sale fino alla caserma dei carabinieri. Lì c’è già il capitano Tito Baldo Honorati, il comandante del nucleo operativo di Palermo. È davanti a un’utilitaria impolverata, la parte posteriore dell’auto è «abbassata», schiacciata verso l’asfalto.
Ormai, si riconoscono anche da lontano le macchine con un grosso peso nel bagagliaio. Significa che lì dentro c’è un uomo.
Il capitano apre.
È un «incaprettato», mani e piedi legati con una corda che gli passa intorno al collo.
Si è ucciso da solo. Quando i muscoli delle gambe cedono, la vittima finisce per strangolarsi. «È un altro regalo per il nostro generale», dice l’ufficiale mentre via radio gli arriva la notizia che c’è stato un omicidio anche sulla piazza di Trabia.
L’Arma e la Resistenza, ecco la storia del carabiniere d’Italia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 agosto 2022
Il primo incarico del sottotenente Carlo Alberto dalla Chiesa è una caserma nelle Marche, a San Benedetto del Tronto. È lì che diventa un carabiniere partigiano. È la sua prima scelta di fedeltà all’Italia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 è nella Resistenza e finisce su una lista nera delle SS.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
È già morto anche lui, Carlo Alberto dalla Chiesa, carabiniere figlio di carabiniere, nato a Saluzzo, provincia di Cuneo, Piemonte. Dall’altro capo dell’Italia.
Quel nome glielo danno perché nasce in via Carlo Alberto, il 27 settembre 1920. Suo padre Romano è un alto ufficiale dell’Arma, nominato vicecomandante nel 1955. Sarà così anche per lui, ventisei anni dopo. Pure suo fratello Romolo è carabiniere. Un altro futuro generale.
Romano è parmigiano, la mamma – Maria Laura – piacentina. Per Carlo Alberto dalla Chiesa infanzia e adolescenza scivolano fra un trasloco e l’altro, al seguito dei trasferimenti del padre. Vorrebbe fare l’avvocato ma c’è la guerra. Entra nell’Esercito. Ci sono subito i Balcani, è sottotenente in Montenegro nel 1941. L’anno dopo passa all’Arma come ufficiale di complemento.
Inizia allora la sua sorprendente storia di carabiniere. Non frequenta l’Accademia e non esce dalla Nunziatella.
L’educazione militare se la fa «in prima linea», sulla strada, il sudore, le fonti, le sofferenze, l’esperienza sul campo. Quello che negli anni a venire sarà il più celebre dei carabinieri italiani si porta dietro per sempre questo marchio di «diversità», un carabiniere che non ha percorso tutte le classiche vie della carriera di un ufficiale dell’Arma. Nelle alte sfere glielo fanno pesare e pagare ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Il primo incarico del sottotenente Carlo Alberto dalla Chiesa è una caserma nelle Marche, a San Benedetto del Tronto. È lì che diventa un carabiniere partigiano.
È la sua prima scelta di fedeltà all’Italia.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 è nella Resistenza e finisce su una lista nera delle SS. Salva partigiani e prigionieri inglesi dalle rappresaglie naziste, entra in clandestinità e apprende le tecniche della guerriglia, organizza gruppi armati nella zona di Ascoli Piceno, attraversa le linee del fronte per raggiungere l’Italia liberata e tutta da ricostruire.
Sono anni tumultuosi, pieni di incertezze, di paure. Di spostamenti di massa dalle campagne alle città, da una città all’altra, da Nord verso Sud e da Sud verso Nord. Anche per Carlo Alberto dalla Chiesa è un girovagare senza fine.
È a Roma, dopo la Liberazione. È a Bari, in un’altra tenenza. A Parma, con i soldati della Quinta Armata Americana. A Firenze, come comandante della «Compagnia esterna». A Casoria, nel napoletano infestato dai briganti.
A Bari si laurea prima in Giurisprudenza, poi in Scienze Politiche. Fra i suoi professori c’è Aldo Moro, il futuro capo di governo e leader della Democrazia Cristiana.
E a Bari, durante un ballo al circolo ufficiali della Legione, incontra l’amore della sua vita: Dora Fabbo. È figlia di un carabiniere. Si sposano il 29 luglio 1945, a Firenze. È un sentimento fortissimo quello che li unisce. Per oltre trent’anni, fino alla morte di Dora, le porterà ogni 29 del mese – di ogni mese – un mazzo di rose, un rametto di pesco, un fiore di campo.
Dora è la custode di tutti i suoi segreti, la compagna che non lo lascia mai solo nella sua avventurosa, tormentata esistenza di carabiniere.
La prima figlia, Rita, nasce a Casoria il 31 agosto del 1947. Il secondo figlio, Nando, nasce a Firenze il 3 novembre 1949.
L’arrivo a Corleone e l’incontro ravvicinato con il boss Luciano Liggio. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 30 agosto 2022
Carlo Alberto dalla Chiesa comincia a conoscere la Sicilia dal suo ventre, in una delle sue tane più mortali. Da un anno e mezzo è scomparso il sindacalista Placido Rizzotto, il segretario della Camera del Lavoro di Corleone. L’indagine del capitano dalla Chiesa per la prima volta fa emergere il nome di un uomo che diventerà famoso: Luciano Liggio.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Dai primi giorni del settembre 1949 Carlo Alberto dalla Chiesa è in Sicilia, in una squadriglia del Comando Forze Repressione Banditismo.
È a Corleone, capitale di mafia. Viene a sapere della nascita di Nando mentre è su una jeep, di notte, in perlustrazione nelle campagne. Vede suo figlio, per la prima volta, nel febbraio successivo. In foto. E lo prende in braccio quando ha già nove mesi.
Il capitano dalla Chiesa non ha ancora trent’anni. In quella sua prima permanenza a Corleone viene contagiato per sempre dal «mal di Sicilia», una nostalgia degli odori e degli umori dell’isola, i contrasti della terra, la dignità ma anche le incoerenze dei suoi abitanti.
Corleone è nelle mani di Michele Navarra. È il medico condotto. È l’ispettore della cassa Mutua e Malattia. Il direttore sanitario dell’Ospedale dei Bianchi. Il presidente dell’Associazione dei Coltivatori Diretti. Il fiduciario del Consorzio Agrario. È il capomafia.
Carlo Alberto dalla Chiesa comincia a conoscere la Sicilia dal suo ventre, in una delle sue tane più mortali.
Da un anno e mezzo è scomparso il sindacalista Placido Rizzotto, il segretario della Camera del Lavoro di Corleone. L’indagine del capitano dalla Chiesa per la prima volta fa emergere il nome di un uomo che diventerà famoso: Luciano Liggio.
Più che un mafioso mi sembra un gangster. Spaccone, esibizionista, poco siciliano. Lo vedo per la prima volta dal vivo molto tempo dopo l’omicidio di Placido Rizzotto. Sono passati quasi quarant’anni.
Luciano Liggio è rinchiuso in una gabbia dell’aula bunker dell’Ucciardone, al maxi processo. È il 1986.
Se ne sta tutto il giorno a rigirarsi in bocca un enorme sigaro cubano. Indossa un cappotto nero con il collo di pelliccia. Si agita, parla tanto, interrompe i giudici della Corte di Assise. Gli altri detenuti non lo degnano di uno sguardo.
Una volta racconta qualcosa che non dovrebbe raccontare Ricorda il tentato golpe fascista del principe Junio Valerio Borghese e di come la mafia voleva dargli una mano. Ma poi si ferma.
«Statti mutu e fatti ù carcerateddu», stai zitto e fai il carcerato tranquillo, gli mandano a dire i nuovi capi di Corleone.
Lui, il mito del crimine degli Anni Sessanta, non conta più niente.
Non è più nessuno
L’indagine sull’omicidio di Placido Rizzotto, un caso troppo spinoso. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 31 agosto 2022
Individuati gli assassini, a Carlo Alberto dalla Chiesa non resta che scoprire il movente dell’omicidio. In un secondo rapporto, trasmesso il 30 maggio del 1950 – sei mesi dopo il primo – il capitano raccoglie tutte le prove contro Liggio e le elenca, punto per punto, ai giudici. Il carabiniere è convinto che il mandante sia lui, Liggio. E non Michele Navarra, come si mormora in paese.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Il 18 dicembre del 1949, il capitano dalla Chiesa invia il rapporto sull’omicidio di Placido Rizzotto al suo comando e alla procura della repubblica di Palermo.
Qualche mese prima ha ricevuto in caserma una lettera anonima: «Attento alle perzone che ti faccio presenti io che è stato le carnefici di Placito… prima li fratelli Crisciuna tutte le due, Luciano Liggio...»
Ordina di cercare Pasquale Criscione, lo trovano in casa di un parente, lo arrestano, l’interrogano. Criscione confessa.
Racconta come è stato assassinato il sindacalista, fa i nomi dei suoi complici, spiega che è stato Luciano Liggio «ad esercitare minacce su di lui» per attirare Rizzotto in un tranello.
Pasquale Criscione indica al capitano dalla Chiesa il luogo dove Liggio ha scaraventato il cadavere.
Nella «ciacca», la foiba di Rocca Busambra, i carabinieri della squadriglia di Corleone trovano carcasse di pecore, una pistola arrugginita modello 1899, pezzi di stoffa, una cintura e tre paia di scarponi con dentro resti scheletrici di piedi umani. Il padre di Placido riconosce gli scarponi del figlio.
Individuati gli assassini, a Carlo Alberto dalla Chiesa non resta che scoprire il movente dell’omicidio.
In un secondo rapporto, trasmesso il 30 maggio del 1950 – sei mesi dopo il primo – il capitano raccoglie tutte le prove contro Liggio e le elenca, punto per punto, ai giudici.
Il carabiniere è convinto che il mandante sia lui, Liggio. E non Michele Navarra, come si mormora in paese. Carlo Alberto dalla Chiesa sa tutto di Navarra. Sa anche che viene chiamato u’ Patri Nostru, il Padre Nostro. Ma non è stato il dottore. È stato quel pazzo di Luciano Liggio. Ha voluto punire Rizzotto per aver difeso alcuni compagni di passaggio a Corleone, ex partigiani aggrediti dagli sgherri mafiosi.
Una delle prime scorribande solitarie di Lucianeddu che si sta «allargando» sempre di più in paese, che vuole diventare anche lui un capo. Se ne accorgerà anche il vecchio medico condotto di Corleone. Ma per lui sarà troppo tardi.
Nel suo rapporto ai giudici, Carlo Alberto dalla Chiesa parla di «una mafia che è autentica delinquenza» e che è in guerra con lo Stato e le sue leggi.
Il capitano spiega Cosa Nostra prima della scoperta di Cosa Nostra.
Per gli italiani la mafia è ancora un oggetto sconosciuto, credono che sia un’«onorata società» custode dei valori più autentici della Sicilia e della sicilianità: lealtà, rispetto, onestà. Anche i magistrati di Palermo che ricevono il rapporto dal capitano dei carabinieri di Corleone dicono mafia e intendono giustizia.
Una ventina di giorni dopo la stesura del secondo rapporto, il Comando Generale dell’Arma dei carabinieri trasferisce il capitano dalla Chiesa. D’urgenza. Le ragioni non gli vengono comunicate. L’ordine è di rientrare nella città che ha lasciato anni prima.
All’inizio dell’estate del 1950, è già a Firenze.
Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, «presunti assassini» di Placido Rizzotto, vengono tutti assolti dall’accusa di omicidio. Il dottore Navarra, u’ Patri Nostru, è ucciso otto anni più tardi da Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Nel 1961, Carlo Alberto dalla Chiesa finisce fra le pagine de Il Giorno della Civetta, il libro di Leonardo Sciascia che racconta la mafia all’Italia. Nel romanzo, il personaggio è il capitano Bellodi, ufficiale del Nord, originario di Parma, che appena trasferito sull’isola comincia a indagare su un delitto compiuto in un paese del palermitano. È un giovane ufficiale che crede nella democrazia, nella legge, nell’integrità degli uomini. Proprio come Carlo Alberto dalla Chiesa.
Il capomafia si chiama don Mariano Arena e tutto può in quel paese. Proprio come Michele Navarra detto u’ Patri Nostru. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La medaglia per la “campagna di Sicilia” e la solitudine dentro l’Arma. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'01 settembre 2022
Come più volte gli accadrà anche in futuro, Carlo Alberto dalla Chiesa è solo anche dentro la sua Arma dei carabinieri. Ma ubbidisce sempre. Per principio e per amore della sua famiglia.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
La decorazione per la sua «campagna di Sicilia» è una medaglia d’argento al valor militare. Carlo Alberto dalla Chiesa la riceve tre anni dopo, quando è già lontano da Corleone e dalla mafia.
A Firenze la sua famiglia diventa più numerosa: il 23 ottobre 1952 nasce Simona. Un periodo di serenità per i dalla Chiesa.
Uno dei pochi. Perché, dopo la Toscana, per il capitano comincia una girandola di trasferimenti. Como. Milano. Roma. Torino.
Non fa in tempo ad arrivare in una caserma che già c’è l’ordine di spostarsi in un’altra. In un anno i trasferimenti sono ben quattro. Sempre lontano dai figli e dalla moglie. La famiglia ogni tanto prova a seguirlo, i ragazzi cambiano città e insegnanti a metà anno scolastico. Il più delle volte se ne va via da solo.
Il «duro» carabiniere soffre il distacco dagli affetti, vive come un’ingiustizia i continui cambiamenti di sede, è smarrito, si sente emarginato dentro l’Arma, avverte che qualcuno – «in alto» – non lo apprezza. Anzi, fa di tutto per ostacolarlo e mortificarlo.
Confesserà molti anni dopo: «È stato il momento più difficile della mia carriera».
È in quegli anni che comincia un’appassionata corrispondenza con la moglie. Lettere d’amore e poi lettere sempre più malinconiche. Descrive il suo avvilimento per le umiliazioni, le privazioni, la mancanza dei suoi ragazzi, la difficoltà di arrivare alla fine del mese con lo stipendio. Deve farsi bastare i soldi per pagare un alloggio decoroso. Al Comando gli promettono quello di servizio, a Roma. Poi, però, glielo negano.
A Torino prende in affitto una camera «per 35-36 mila lire compreso il riscaldamento». Fa l’elenco minuzioso delle spese quotidiane: «Novecento lire per la mensa senza vino, la lavatura della biancheria, il giornale…».
È la vita più intima di Carlo Alberto dalla Chiesa che viene sconvolta nei primi Anni Sessanta. Intorno a sé ha il vuoto. Gira la voce che al Comando Generale lo detestino, dicono che è un «tipo pericoloso». Giovanissimi ufficiali vengono messi sull’avviso dai superiori: «Stategli lontano».
Come più volte gli accadrà anche in futuro, Carlo Alberto dalla Chiesa è solo anche dentro la sua Arma dei carabinieri.
Ma ubbidisce sempre. Per principio e per amore della sua famiglia.
Scrive alla moglie: «Ho subito tutto, tesoro, anche la flessione della spina dorsale per non fare dell’altro male a te e ai bambini; ho inghiottito senza reagire unicamente nella speranza che la nostra Madonnina ci proteggerà ancora e ci ridarà tutto il bene di cui siamo stati ingiustamente privati».
Dal nucleo di polizia giudiziaria della Corte di Appello di Milano alla IV° Brigata di Roma e, ancora, alla Legione «Allievi carabinieri di leva» di Torino. È il trasferimento più punitivo.
Per il maggiore dalla Chiesa non c’è pace. Ha quarantatre anni, una moglie e tre figli lontani. Si dispera per quella penitenza che deve scontare chissà per quanto tempo ancora.
Il ritorno a Palermo, dopo la strage di Ciaculli e la prima guerra di mafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 02 settembre 2022
In una mattina di fine giugno del 1963, fra i mandarini della borgata palermitana di Ciaculli, una Giulietta carica di tritolo esplode mentre un artificiere cerca di disinnescare l’ordigno. Cinque carabinieri – il tenente Mario Malausa, i marescialli Calogero Vaccaro e Silvio Corrao, gli appuntati Eugenio Altamore e Marino Fardelli – e due artificieri dell’Esercito – Pasquale Nuccio e Giorgio Ciacci – saltano in aria.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Il Comandante Generale dell’Arma è Giovanni De Lorenzo, che dal 1955 al 1962 è stato a capo del Sifar, il servizio segreto delle Forze Armate.
Il Comandante ha un suo clan di ufficiali che si è portato dietro dal «servizio». E sono questi a far carriera nell’Arma. Non si fidano di uno come dalla Chiesa, troppo «autonomo», libero, poco affidabile per quei carabinieri con l’anima nera. Dalla Chiesa ha anche un passato da partigiano.
Sono anni di grandi trasformazioni politiche in Italia, i socialisti stanno per la prima volta entrando in un governo di «centrosinistra» e il generale Giovanni De Lorenzo sta preparando il Piano Solo.
Nel 1967, un’inchiesta del settimanale L’Espresso, firmata da Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, denuncia il «rumore di sciabole» e il pericolo di un colpo di Stato.
Piano Solo significa riportare un «equilibrio» nel Paese «solo con i carabinieri».
Carlo Alberto dalla Chiesa intuisce finalmente le ragioni delle sue sventure.
Aspetta tempi migliori. E, ancora una volta, va incontro alla Sicilia.
Aspettano tempi migliori anche i mafiosi di Palermo. Molti sono sotto processo. O al soggiorno obbligato, mandati al confino nei primi Anni Sessanta. Una guerra ha decimato e impoverito le «famiglie», la Sicilia è sulle prime pagine dei giornali per i suoi morti.
In una mattina di fine giugno del 1963, fra i mandarini della borgata palermitana di Ciaculli, una Giulietta carica di tritolo esplode mentre un artificiere cerca di disinnescare l’ordigno.
Cinque carabinieri – il tenente Mario Malausa, i marescialli Calogero Vaccaro e Silvio Corrao, gli appuntati Eugenio Altamore e Marino Fardelli – e due artificieri dell’Esercito – Pasquale Nuccio e Giorgio Ciacci – saltano in aria.
Il ministro degli Interni Mariano Rumor si presenta in televisione: «Non si illudano gli associati a delinquere: nella sfida che è impegnata tra essi e lo Stato, lo Stato non sarà certo il primo a stancarsi».
A dicembre, sono 822 i boss di Cosa Nostra rinchiusi nelle carceri.
Tutto per quella faida fra i Greco e i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera, mafiosi ma anche ricchi imprenditori edili legati a un uomo che conta tanto a Palermo: il sindaco Salvo Lima.
A Roma, nei primi mesi del 1963 iniziano anche i lavori della Commissione parlamentare Antimafia.
Stretta fra la repressione poliziesca e l’attenzione politica, per la prima volta nella sua storia la mafia siciliana si sente in pericolo. Chi sfugge alle retate ripara in Sudamerica. Altri prendono in considerazione anche la possibilità di «sciogliere» l’organizzazione.
Cosa Nostra, dopo un secolo ufficiale di vita, rischia la rovina. I suoi capi restano nell’ombra per qualche anno, attendono in silenzio le sentenze dei loro processi. È vietato far rumore, è vietato sparare.
Cosa Nostra cambia, il caso De Mauro e l’omicidio del procuratore Scaglione. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 settembre 2022
La pace di Palermo finisce quando la mafia decide che deve finire. Il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa – sono passati tre anni dal suo arrivo a Palermo – è seduto su una polveriera. Il 10 dicembre 1969, c’è la strage di Viale Lazio. Il 16 settembre 1970 scompare il giornalista de L’Ora Mauro De Mauro. Il 5 maggio 1971 uccidono il procuratore capo della Repubblica Pietro Scaglione
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
In una Palermo sprofondata in un’illusoria quiete, nel luglio del 1966 arriva Carlo Alberto dalla Chiesa per mettersi al comando della Legione dei carabinieri.
Salvo Lima non è più sindaco da dieci giorni. Per quindici anni ha avuto il Comune in pugno. Ora vuole tutta la Sicilia.
L’isola è cambiata, non è più quella che ha lasciato all’inizio del 1950 da capitano. Vista dall’alto, Palermo è un’immensa distesa di palazzi.
L’annuncio trionfale del ministro Rumor dopo la strage di Ciaculli è presto dimenticato.
È lo Stato che si stanca per primo.
La stagione della «lotta alla mafia» è un breve intervallo. I boss lo capiscono e cominciano a intravedere un futuro migliore, si riorganizzano sotto traccia, s’insinuano nelle amministrazioni, ritornano a comandare all’Ucciardone. E, intanto, impongono la loro «presenza» anche quelli che a Palermo chiamano i viddani o peri incritati, piedi sporchi di fango, contadini, i mafiosi di Corleone scesi in città.
Il più famoso fra loro, Carlo Alberto dalla Chiesa se lo ricorda bene: è Luciano Liggio, quello che lui ha denunciato per il sequestro e l’uccisione del sindacalista Placido Rizzotto. Adesso, Liggio, ha anche un piccolo esercito.
È una razza speciale di mafiosi quella di Corleone, ossessionata dalla segretezza. Sono paranoici, assetati di sangue e di potere.
La pace di Palermo finisce quando la mafia decide che deve finire. Il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa – sono passati tre anni dal suo arrivo a Palermo – è seduto su una polveriera.
Il 10 dicembre 1969, c’è la strage di Viale Lazio. Quattro morti negli uffici dei costruttori Moncada. Il bersaglio è Michele Cavataio, un boss dell’Acquasanta che vuole diventare il re dei re di Cosa Nostra. È la guerra che ricomincia.
Il 16 settembre 1970 scompare il giornalista de L’Ora Mauro De Mauro. Una lupara bianca, un sequestro senza ritorno. De Mauro è un ex di Salò, volontario nella Decima Mas del principe Borghese tra il 1943 e il 1945. È un reporter dal fiuto eccezionale.
Il 5 maggio 1971 uccidono il procuratore capo della Repubblica Pietro Scaglione e il suo autista Antonio Lo Russo. Scaglione è il primo magistrato assassinato in Italia nel dopoguerra
Un nuovo metodo d’indagine, così dalla Chiesa dà la caccia ai mafiosi. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 04 settembre 2022
Contro Cosa Nostra Alberto dalla Chiesa inventa un nuovo metodo d’indagine. Parte dagli alberi genealogici per ricostruire il potere delle «famiglie». Sfila come comandante della Legione davanti ai commissari dell’Antimafia e mostra le sue «schede», una a una. Spiega che così «si può seguire meglio il fenomeno»...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
È un fantasma nella redazione dell’Ora. Quando arrivo io è già scomparso da nove anni. Ma non c’è giorno che qualcuno non lo ricordi. Per i suoi articoli, per il suo carattere esuberante, per un’inchiesta scritta insieme a lui.
Perché l’hanno rapito? «Forse perché aveva saputo del golpe Borghese che stavano organizzando da lì a poche settimane, per l’8 dicembre 1970», mi racconta Nino Sofia, il «principe della nera» di Palermo, un giornalista eccellente che con Mauro De Mauro ha esplorato la Sicilia.
E dalla Chiesa? «Il colonnello era di un’altra idea, secondo lui Mauro è stato ucciso perché aveva scoperto qualcosa di importante sul traffico di droga, era convinto che Mauro avesse intuito dove avvenivano gli sbarchi di eroina. I suoi carabinieri avevano presentato un rapporto in procura su dodici mafiosi ma a quella pista della droga non ci hanno mai creduto, i magistrati non sono andati avanti».
Nel 2001 mi ritrovo alla foce del fiume Oreto a cercare il suo cadavere. «L’abbiamo sepolto lì Mauro De Mauro», confessa un pentito.
Lì, dopo tre decenni, c’è solo fango, canne, qualche albero di mandarino.
Carlo Alberto dalla Chiesa chiede ogni mese ai suoi carabinieri rapporti dettagliati sui mafiosi: famiglia per famiglia, paese per paese, provincia per provincia. Informazioni su figli e figliocci, cognati, generi, intrecci di parentele, comparaggi, testimoni di nozze e padrini di battesimo.
Una schedatura speciale solo per i boss. Non si accontenta del «fascicolo personale» di ciascun indiziato mafioso, con dentro i precedenti penali, condanne o assoluzioni.
«Non servono a niente», dice il colonnello ai comandanti operativi di Palermo e Caltanissetta, Agrigento e Trapani.
Contro Cosa Nostra Alberto dalla Chiesa inventa un nuovo metodo d’indagine. Parte dagli alberi genealogici per ricostruire il potere delle «famiglie». Sfila come comandante della Legione davanti ai commissari dell’Antimafia e mostra le sue «schede», una a una. Spiega che così «si può seguire meglio il fenomeno», che con quella raccolta di dati un’indagine non parte mai dal nulla.
All’Antimafia fa vedere anche una mappa tutta coperta da spilli. Azzurri per il furto, rossi per le rapine, neri per gli omicidi.
Nella zona di Corleone non ci sono spilli. Non accade mai nulla da quelle parti. Non ci sono delitti comuni perché la mafia è sovrana sul territorio.
Sono gli anni in cui quel carabiniere, impetuoso, severo, rispettato dai suoi uomini, comincia ad acquistare una certa popolarità in Italia.
Il dossier dei carabinieri su due “amici”, Salvo Lima e Vito Ciancimino. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 05 settembre 2022
Nomi, cognomi, vincoli, patti, favori. Il colonnello invia tutto alla Commissione Antimafia. Aggiunge in una nota: Proprio nel periodo in cui il Ciancimino Vito resse quell’assessorato… si fa risalire la ulteriore e sensibile fortuna economica. Fortuna che non è stato possibile, a tutt’oggi, identificarne esattamente gli estremi...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Palermo è in subbuglio, butta lava come un vulcano.
Il nuovo sindaco dal novembre del 1970 è Vito Ciancimino, l’ex assessore ai Lavori Pubblici che ha fatto brutta una delle città più belle del mondo.
Ciancimino è dentro alle segrete cose di Cosa Nostra. Si è arricchito con le licenze edilizie, si è impadronito della Democrazia cristiana cittadina insieme a Salvo Lima.
È un mafioso quello che governa la quinta città d’Italia.
Il 15 gennaio del 1971, la Commissione parlamentare Antimafia chiede al comandante della Legione dei carabinieri di Palermo un rapporto informativo sul primo cittadino di Palermo.
E un altro – il 30 dicembre – sul costruttore Francesco Ciccio Vassallo e le sue relazioni «con personalità politico-amministrative».
Carlo Alberto dalla Chiesa ricostruisce tutta la vicenda familiare di don Vito, indica i suoi primi protettori politici, elenca le cariche istituzionali coperte, riporta la consistenza del suo patrimonio immobiliare, cita le «teste di legno» delle sue società.
È un’impressionante rappresentazione di Palermo. Della sua mafia e della sua politica che si mischiano, si confondono.
Come nel dossier sul «carrettiere» diventato miliardario: Ciccio Vassallo.
Nomi, cognomi, vincoli, patti, favori. Il colonnello invia tutto alla Commissione Antimafia.
Aggiunge in una nota: Proprio nel periodo in cui il Ciancimino Vito resse quell’assessorato… si fa risalire la ulteriore e sensibile fortuna economica. Fortuna che non è stato possibile, a tutt’oggi, identificarne esattamente gli estremi, nello stesso tempo che il suo imponibile risulta ammontare a soli 2 milioni di lire…
Il dottor Lima Salvo, il 13/7/1961 acquistò dal Vassallo un appartamento in via Marchese di Villabianca per lire 12 milioni e nel 1969 acquistò con l’attuale deputato regionale Mario D’Acquisto, con l’avvocato Nicola Maggio e Vassallo Francesco un lotto di terreno edificabile… una fonte confidenziale afferma che i suddetti hanno ottenuto dal Vassallo quasi gratuitamente la realizzazione degli immobili...
Carlo Alberto dalla Chiesa non lo sa ancora, ma alcuni di quei personaggi che compaiono nelle sue «informative» li incontrerà ancora molti anni dopo.
Il rapporto sul ministro Giovanni Gioia e le sue relazioni pericolose. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 06 settembre 2022
All’Antimafia il colonnello trasmette anche un rapporto su Giovanni Gioia, deputato al Parlamento dal 1958 e ministro della Repubblica fra il 1970 e il 1976 nei governi Andreotti, Rumor e Moro.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
All’Antimafia il colonnello trasmette anche un rapporto su Giovanni Gioia, deputato al Parlamento dal 1958 e ministro della Repubblica fra il 1970 e il 1976 nei governi Andreotti, Rumor e Moro.
Qualche tempo prima, lo scrittore Michele Pantaleone nei suoi libri Mafia e Politica e Antimafia occasione mancata, ha scritto che Giovanni Gioia è «un campiere del potere» molto vicino agli ambienti mafiosi. Pantaleone e l’editore Giulio Einaudi vengono querelati. Il processo si avvia alla conclusione quando il collegio di difesa, per via confidenziale, riceve un dossier di 94 pagine - firmato dal comandante della Legione dei carabinieri di Palermo - e lo presenta al Tribunale.
È una delle «schede» di Carlo Alberto dalla Chiesa redatte per la commissione parlamentare.
Non ci sono gli omissis dell’Antimafia. In quel rapporto c’è la verità sul ministro.
Dalla Chiesa viene convocato in aula come testimone, gli chiedono se la firma sul dossier è sua. Lui conferma.
Michele Pantaleone e Giulio Einaudi sono assolti dall’accusa di diffamazione.
«Gioia è mafioso, dirlo non costituisce reato», titola in prima pagina la Repubblica del 21 dicembre 1976.
Il colonnello dalla Chiesa, dopo sette anni in Sicilia, è promosso generale.
A Palermo ha lasciato il segno. Con i suoi carabinieri ha mandato alla sbarra centinaia di boss. Ha rivoluzionato un sistema d’indagine. È entrato nei santuari mafiosi, ha denunciato le complicità con la politica.
Se ne va da un’isola che cambia e non cambia, sospesa, sempre incerta se guardare avanti o al suo passato.
Gli Anni Settanta sono quelli dell’indifferenza, quelli che generano vicende che saranno fatali per Palermo. Alla mafia non basta più l’edilizia o l’estorsione. Punta più in alto, vuole un rapporto paritario con i signori che stanno a Palazzo dei Normanni, il parlamento regionale. Vuole comandare come comandano quegli altri, i Lima e i Ciancimino.
Si prepara l’assalto allo Stato. Prove generali che avvengono sotto gli occhi impassibili di tutti. Governanti. Magistratura.
Polizia. Intellettuali. Stampa. Chiesa
La mafia in Sicilia è Stato, protetta da Chiesa e magistratura. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 07 settembre 2022
Palermo è sempre più nelle mani dei mafiosi. Imprese, cantieri, ristoranti, alberghi, mercati all’ingrosso, aziende agricole. Ci sono poliziotti che si scambiano informazioni e cortesie con i boss, procuratori della repubblica che passeggiano a braccetto con il capomafia del paese, uomini d’onore che diventano uomini politici.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Un giorno vado a trovare padre Agostino Coppola, uno dei sacerdoti della chiesa di Monreale.
È agli arresti domiciliari allo «Zucco», una campagna che è un paradiso terrestre fra Carini e Montelepre. La tenuta – quasi 150 ettari, un castello, un baglio, le stalle, i silos per il grano, le cantine piene di botti, fontane di pietra – una volta era di uno dei duchi d’Orléans, adesso è di don Agostino costretto a stare qui perché in canonica gli hanno trovato i soldi dei riscatti dei sequestri di persona che l’Anonima di Luciano Liggio organizzava a Milano.
Lo trovo seduto davanti a un tavolo di legno sotto il pergolato. Si sta scolando in solitudine una bottiglia di vino nero come l’inchiostro.
Gli chiedo dei rapimenti.
«Sono malato», dice.
Gli chiedo di suo zio Frank «Tre Dita», il trafficante siculoamericano.
«Sono malato», mi risponde.
Gli chiedo di quando – nel 1974 – ha sposato Totò Riina e Ninetta Bagarella che erano latitanti.
«Sono malato», continua a ripetere.
Qualche mese dopo quell’incontro un amico medico di Palermo mi racconta che nel suo reparto è ricoverato un prete
mafioso. «È don Agostino», mi svela.
E aggiunge: «Sta tutto il giorno dietro a una mia collega, non la molla mai».
Quando padre Agostino Coppola guarisce il Vaticano lo sospende a divinis.
E lui si sposa con Francesca Caruana, nipote dei Caruana di Siculiana, i leader del commercio di eroina nel bacino del Mediterraneo La signora Caruana, una bella donna dai capelli rosso fuoco, faceva il medico in un ospedale di Palermo.
Palermo è sempre più nelle mani dei mafiosi. Imprese, cantieri, ristoranti, alberghi, mercati all’ingrosso, aziende agricole.
Ci sono poliziotti che si scambiano informazioni e cortesie con i boss, procuratori della repubblica che passeggiano a braccetto con il capomafia del paese, uomini d’onore che diventano uomini politici.
La mafia è Stato in Sicilia
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Il “Nucleo Speciale Antiterrorismo” e la fine dei capi delle Brigate Rosse. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'08 settembre 2022
I vertici dell’Arma sono contrari, sospettano che una squadra «separata» possa andare facilmente «fuori controllo». Temono quel generale ormai così celebre e così poco militare. Dalla Chiesa è avvisato. Ma la sua idea piace al ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani. Il 22 maggio 1974 nasce ufficialmente il Nucleo Speciale Antiterrorismo. Al Comando Generale dell’Arma sono furiosi.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Pochi mesi dopo la partenza dalla Sicilia del colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa, a due passi dalla sua caserma di Palermo viene ritrovato il cadavere di un ragazzo con un cartello appeso al collo: «Così muoiono i vermi che infangano la Sicilia».
Dieci giorni prima la ballerina cecoslovacca Jirina Kottova, in vacanza con il fidanzato Jiri Lansky, è stata sfregiata con un coltello da un «malacarne» che vuole scipparla. La polizia ferma Jiri, lo accusa del ferimento della ragazza «per motivi di gelosia». Poi però, il boss del quartiere scopre la verità e punisce il rapinatore: ha osato rubare senza la sua «autorizzazione».
In una sola mossa la mafia ha difeso la ballerina, scagionato il fidanzato e inflitto la pena massima al vero colpevole.
Anche la giustizia, a Palermo, è amministrata da Cosa Nostra.
In fondo all’Italia, è lontana la paura che sta sconvolgendo le grandi città del Nord. Le bombe sui treni, le stragi nere, l’apparizione delle Brigate Rosse. Carlo Alberto dalla Chiesa è da un anno – siamo nel 1974 – comandante della Brigata di Torino, quella che ha giurisdizione su Piemonte, Liguria e Val d’Aosta.
È tornato da generale nella città dove in passato ha sofferto le pene dell’inferno. È al centro di quell’Italia che da lì a poco sarà gelata dal terrorismo.
Entra in un altro mondo dalla Chiesa, quello che lo farà diventare il carabiniere più famoso e «famigerato» del Paese.
Accusato di protagonismo, guardato con sospetto dai garantisti, sempre ostacolato dai Comandi Generali e sempre alla testa dei suoi uomini. Come un condottiero.
In quell’alba di terrorismo il generale intuisce che per combattere le Br servono reparti speciali, un po’ come ha fatto in Sicilia con i mafiosi. Ci vogliono «schedature», inchieste mirate, investigatori esperti della materia. Pensa a una sezione autonoma, indipendente dalle scale gerarchiche. I vertici dell’Arma sono contrari, sospettano che una squadra «separata» possa andare facilmente «fuori controllo». Temono quel generale ormai così celebre e così poco militare. Dalla Chiesa è avvisato.
Ma la sua idea piace al ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani.
Il 22 maggio 1974 nasce ufficialmente il Nucleo Speciale Antiterrorismo. Al Comando Generale dell’Arma sono furiosi.
Appena quattro mesi dopo, a settembre, i carabinieri di dalla Chiesa arrestano a Pinerolo due capi delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. È un trionfo. Ma l’operazione nasconde un retroscena. Sono le stesse Brigate Rosse a svelarlo successivamente, in uno dei loro volantini con la stella a cinque punte. Curcio e Franceschini sono stati catturati – non come ha raccontato il generale, che ha fornito alla stampa una stramba versione dei fatti per coprire la sua fonte – ma con la collaborazione di un «infiltrato», un ex legionario ed ex frate francescano che ha vissuto in Sudamerica con i guerriglieri boliviani. Il suo nome è Silvano Girotto, si fa chiamare Frate mitra.
Il generale dalla Chiesa lo avvicina, lui si conquista la fiducia dei brigatisti e poi consegna Curcio e Franceschini ai carabinieri.
Le polemiche sono roventi. Dalla Chiesa è attaccato violentemente per i suoi «metodi», da più parti si grida allo scandalo, s’invoca lo stato di diritto.
«Gli infiltrati esistono dai tempi dei Babilonesi», replica il generale.
L’operazione di Pinerolo rivela fin da subito la «tecnica» delle sue indagini. C’è la sua impronta.
Renato Curcio torna presto in clandestinità. Viene liberato nel febbraio del 1975 da un commando nel carcere di Casale Monferrato. È un assalto facile. Sua moglie, Margherita Mara Cagol, che ha guidato l’irruzione nella prigione, tre mesi dopo muore sotto una sventaglia di mitra degli uomini dell’Antiterrorismo che liberano l’industriale Vittorio Vallarino Gancia. Nello scontro a fuoco cade anche un carabiniere, l’appuntato Giovanni D’Alfonso. Tornano a scoppiare le polemiche sui «sistemi» di dalla Chiesa.
«Vieni con noi», quella proposta di entrare nella P2 di Licio Gelli. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 09 settembre 2022
Un gruppo di amici: una loggia massonica segreta, la P2 di Licio Gelli. Il generale Franco Picchiotti gli spiega che sono tanti lì dentro. Anche al Comando Generale dell’Arma. Carlo Alberto dalla Chiesa è dubbioso. Sulla sua scrivania Picchiotti lascia una domanda di adesione alla P2. Poi si fa vivo, una, due, tre volte. Fino a quando dalla Chiesa cede e firma.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
La prima generazione di brigatisti italiani sta per scomparire quasi del tutto decimata dal reparto del generale quando – è il 1976 – il Nucleo Speciale Antiterrorismo è smantellato. Per Carlo Alberto dalla Chiesa ricomincia un’altra stagione difficile e penosa. È a Torino, aspetta la promozione a generale di Divisione ma i suoi superiori gli fanno sapere che da lì a pochi giorni sarà sollevato anche dal Comando della Brigata.
Ritornano i fantasmi di quindici anni prima: l’isolamento, le umiliazioni, i silenzi dell’Arma. Dopo i successi contro le Br gliela stanno facendo pagare un’altra volta. È troppo scomodo, troppo svincolato dai «giri» romani.
È una mattina dell’ottobre del 1976 quando a Torino va a trovarlo l’ex vicecomandante dei carabinieri, il generale Franco Picchiotti. Una visita improvvisa. È un dalla Chiesa abbattuto quello che racconta le sue traversie a Picchiotti, che lo ascolta e alla fine gli dice: «Le vie sono infinite, vieni con noi».
Un gruppo di amici: una loggia massonica segreta, la P2 di Licio Gelli.
Gli spiega che sono tanti lì dentro. Anche al Comando Generale dell’Arma.
Carlo Alberto dalla Chiesa è dubbioso. Sulla sua scrivania Picchiotti lascia una domanda di adesione alla P2. Poi si fa vivo, una, due, tre volte. Fino a quando dalla Chiesa cede e firma. Ma il suo nome non sarà mai ritrovato negli elenchi della loggia segreta sequestrati a Castiglion Fibocchi, nella villa di Gelli. Solo una domanda di iscrizione rimasta lì, in “sospeso”.
Pochi mesi dopo è a capo del coordinamento degli istituti di prevenzione e pena. Un incarico amministrativo che il generale trasforma in una «centrale» antiterroristica. A modo suo. Con infiltrati, informatori nelle prigioni. Nascono le «supercarceri» di dalla Chiesa, nove fortezze inespugnabili per i capi delle Brigate Rosse.
Favignana, Fossombrone, l’Asinara, Cuneo, Trani, Novara, Termini Imerese, Pianosa e Nuoro.
Il terrorismo però, come molti credono o fanno finta di credere, non è sconfitto e non è finito. La tragedia pubblica più grande si consumerà presto.
La tragedia privata di Carlo Alberto dalla Chiesa è già avvenuta.
Il 19 febbraio del 1978 muore Dora, la moglie. Un infarto. Il suo cuore non ce la fa più a sopportare un’angoscia senza fine Con un marito sempre in pericolo, nel mirino dei brigatisti, sempre lontano, nascosto, oramai in clandestinità anche lui.
Un’ansia che per anni la moglie si tiene tutta dentro.
Per Carlo dalla Chiesa è un dolore insopportabile. Non si staccherà mai da lei. In quel febbraio comincia a scriverle ogni notte. Farà così sino alla fine dei suoi giorni. È un diario che, anni dopo, scoprirà la vita interiore di un generale italiano e rivelerà il marcio che ha avuto intorno.
Mentre il cappellano militare della caserma di Torino nella sua omelia funebre ricorda Dora Fabbo come «la vittima più silenziosa del terrorismo», il Paese precipita con clamore nell’inferno.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Di nuovo contro il terrorismo, nasce il mito degli uomini del generale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI, su Il Domani il 10 settembre 2022
Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Neanche un mese dopo, il 16 marzo, rapiscono il presidente della Dc Aldo Moro.
È un altro momento decisivo per l’Italia. I comunisti stanno per entrare nella maggioranza di governo, Moro è l’artefice della svolta politica, qualcuno vuole fermare il cambiamento con il più simbolico dei messaggi. Cinquantacinque giorni di dramma e di sospetti e poi il presidente è ritrovato cadavere nel bagagliaio di una Renault, nel centro di Roma, quasi a metà strada fra le sedi del Pci e della Dc. Sono le Brigate Rosse che ritornano.
Torna anche Carlo Alberto dalla Chiesa. A fine della primavera del 1978 viene ricostituito il suo Nucleo Speciale Antiterrorismo. L’incarico gli arriva da Giulio Andreotti.
Ha carta bianca. Deve rispondere solo al capo del governo e al ministro degli Interni Virginio Rognoni. Sceglie 150 uomini, i migliori.
Si rivolge a loro così: Da oggi nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. Il Paese è terrorizzato dai brigatisti. Da oggi saranno loro che devono cominciare ad avere paura di noi e dello Stato.
Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione». La sfida di Carlo Alberto dalla Chiesa al terrorismo è all’ultimo sangue.
Serve lo Stato ma sono in molti a ritenerlo fuori dalle regole dello Stato. Gli chiedono un intervento «straordinario» per salvare le istituzioni ma poi gli danno del fascista. Il temperamento non lo aiuta. Al contrario alimenta diffidenze, invidie, risentimenti. Nell’Arma, nonostante migliaia di carabinieri lo considerino un «eroe», è tenuto alla larga quasi fosse un corpo estraneo. Diffidano di lui e delle sue milizie «private».
Lo Stato lo usa e lo scarica. Lo richiama un’altra volta e poi se ne sbarazza. E non è ancora finita.
Dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, continua la «guerra».
Uccidono altri giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, operai che denunciano i terroristi in fabbrica.
I carabinieri di dalla Chiesa smembrano le «colonne» delle Br una per una. Arrestano Patrizio Peci – che poi si pentirà – e irrompono in via Fracchia, a Genova, dove trovano un deposito di armi e documenti. Nello scontro a fuoco, muoiono quattro brigatisti. Vittorie su vittorie che però si trascinano dietro sempre misteri, dubbi su quelli che ormai vengono riconosciuti come «eccessi».
Il generale è travolto da un ciclone.
A Genova scopre una trentina di fiancheggiatori – fra loro c’è anche un famoso docente di Lettere Antiche – ma la magistratura smonta la sua indagine. Il generale fa scalpore al 166° Anniversario dell’Arma con un discorso sull’«ingiustizia che assolve».
Non lo difende lo Stato che lo manda a combattere. E lo attaccano dall’altra parte. Lui è in mezzo, fedele alle istituzioni di un’Italia felpata, prudente, volubile.
Dentro si sente ancora il giovane capitano sceso in Sicilia trent’anni prima a combattere i mafiosi di Corleone. Con lo stesso sentimento, lo stesso ardore di quando dava la caccia agli assassini di Placido Rizzotto.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Sospetti e ombre sul caso Moro, i dossier e i misteri di un covo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 settembre 2022
I magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli. Trovano gli elenchi della loggia P2. Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso»...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982. È soprattutto un’operazione speciale nei covi brigatisti a segnare la storia degli anni del terrorismo e forse la stessa sorte di Carlo Alberto dalla Chiesa. È la scoperta di un nascondiglio, quello di via Monte Nevoso, a Milano.
Aldo Moro è stato ucciso da sei mesi quando un capitano dell’Antiterrorismo viene a sapere che il brigatista Lauro Azzolini è rifugiato lì, in via Monte Nevoso. Il 1° ottobre del 1978 i carabinieri lo fermano, nel covo c’è anche la nuova compagna di Curcio, Nadia Mantovani. Nell’appartamento trovano le lettere di Aldo Moro scritte durante la prigionia brigatista.
È il «memoriale» del presidente della Dc rapito dalle Br. Il generale consegna le carte al capo del governo, Giulio Andreotti, dal quale dipende direttamente per decreto. Tutte? Le consegna tutte?
È questo il sospetto che comincia a circolare in Italia: dalla Chiesa ha tenuto per sé alcune lettere, come arma di ricatto contro Andreotti e altri uomini politici italiani.
Allusioni che si rincorrono per anni, che raccontano di un dalla Chiesa intento a trafficare con i dossier, custodire segreti per uso estorsivo, a minacciare il tempio del potere italiano con le carte di Moro.
Qualcuno – il giornalista Mino Pecorelli – dice anche che i «memoriali» sono più di uno e che la vita del generale è in pericolo. Ma è Pecorelli che nel marzo 1979 muore ammazzato.
Che cosa è realmente avvenuto in via Monte Nevoso? Chi spande veleni intorno al cadavere di Aldo Moro?
Carlo Alberto dalla Chiesa, probabilmente, è a conoscenza di retroscena indicibili sul «caso Moro». I misteri del covo di via Monte Nevoso serviranno a qualcuno come movente o come alibi per liberarsi in futuro del generale.
Nel 1980 è a Milano, comandante della Divisione Pastrengo.
Gli «anni di piombo» stanno per finire. I brigatisti sono isolati nel Paese, la repressione è durissima, il generale ha quasi concluso il suo compito.
È sempre a Milano quando, all’inizio dell’anno successivo, i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli.
Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso».
Dopo aver ceduto agli inviti di Franco Picchiotti, il suo ex vicecomandante, dalla Chiesa qualche mese dopo ha chiesto di non voler più entrare nella loggia. Ma la notizia del suo coinvolgimento nella P2 filtra subito, anche se non è nell’elenco, confuso con tutti gli altri.
Il generale è disperato. Lui in mezzo a quella teppa. Golpisti. Ladri di Stato. Amici dei mafiosi. È fuori di sé, si vergogna.
Convocato come testimone dai giudici milanesi racconta dell’incontro con Picchiotti del 1976, della sua curiosità verso quella loggia fin dai primi anni dell’Antiterrorismo – quando ha incrociato alcuni «neri» in contatto con la P2 –, del suo pentimento per essersi piegato alle pressioni dell’ex vicecomandante. Tutti i documenti sulla P2 vengono pubblicati il 7 maggio 1981.
Lo scandalo è enorme. Ricominciano gli attacchi contro dalla Chiesa anche se lui nella lista non compare.
I più duri arrivano ancora una volta dall’interno dell’Arma.
È il Comandante Generale, Umberto Cappuzzo, uno di quelli che non l’ha mai sopportato, a invitarlo «a farsi da parte».
Il governo fa quadrato intorno al generale. Alcuni uomini politici lo stimano, uno di loro è Bettino Craxi. Ma i suoi superiori si accaniscono, cercano di convincere il ministro della Difesa Lelio Lagorio e quello dell’Interno Virginio Rognoni. Vogliono cacciarlo dall’Arma. Non ci riescono. Alla fine del 1981 ne diventa vicecomandante. Come suo padre Romano nel 1955
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
L’incarico diretto da Spadolini e la “famiglia politica” più inquinata. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 settembre 2022
Carlo Alberto dalla Chiesa ha sessantuno anni. È provato, sofferente, deluso. Sembra proprio alla fine di una carriera gloriosa, quando all’improvviso lo convocano a Palazzo Chigi. Il capo del governo Giovanni Spadolini gli chiede di tornare in Sicilia. Ancora una volta.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Carlo Alberto dalla Chiesa ha sessantuno anni. È provato, sofferente, deluso. Sembra proprio alla fine di una carriera gloriosa, quando all’improvviso lo convocano a Palazzo Chigi.
Il capo del governo Giovanni Spadolini gli chiede di tornare in Sicilia. Ancora una volta.
«Tra me e La Torre in un paio di anni le cose più importanti dovremmo riuscirle a fare», dice alla figlia Rita appena nominato prefetto di Palermo.
Il generale ha conosciuto Pio La Torre, il segretario del Pci siciliano, nel 1949 a Corleone. E lo ha incontrato ancora da colonnello, quando ha parlato negli Anni Settanta davanti alla Commissione parlamentare Antimafia.
Ma La Torre, dopo qualche settimana, già non c’è più. L’hanno ucciso. A Palermo, dove adesso stanno inviando lui.
Carlo Alberto dalla Chiesa ha ricevuto ufficialmente l’incarico il 29 marzo del 1982.
Il giorno dopo, su alcuni giornali, escono le dichiarazioni di un paio di capi della Dc siciliana. Al generale sembrano avvertimenti.
Il 2 aprile dalla Chiesa invia una lettera al Capo del governo Spadolini.
Il 6 aprile accetta l’invito di Giulio Andreotti per un incontro. Poi, il 30 aprile, l’omicidio di Pio La Torre.
È una settimana cruciale quella a cavallo fra il marzo e l’aprile del 1982. È la settimana in cui il generale ha capito che lo stanno mandando allo sbaraglio. E non pensa solo alla sua sconfitta «politica», ha il presentimento che a repentaglio questa volta ci sia la sua vita.
Nella lettera a Spadolini chiede un impegno «dichiarato» e «codificato» del governo, non gli basta la carica onorifica a prefetto di prima classe. Il generale ricorda al Presidente del Consiglio anche i messaggi «già fatti pervenire a qualche organo di stampa da parte della ‘famiglia politica’ più inquinata del luogo».
Gli scrive: …Lungi dal volere stimolare leggi o poteri «eccezionali», è necessario ed onesto che chi è destinato alla lotta di un «fenomeno» di tale dimensione… goda di un appoggio e di un ossigeno «dichiarato» e «codificato»… «dichiarato» perché la sua immagine in terra di «prestigio» si presenti con uno «smalto» idoneo a competere con detto «prestigio». «codificato» giacché, nel tempo, l’esperienza (una macerata esperienza) vuole che ogni promessa si dimentichi, che ogni garanzia («si farà», si «provvederà», ecc.) si logori e tutto venga soffocato e compromesso non appena si andranno a toccare determinati interessi.
Spadolini legge la lettera e tace. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Quel lugubre ricordo di Andreotti su un cadavere con dieci dollari in bocca. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 13 settembre 2022
Dopo il silenzio del Presidente del Consiglio, arrivano le parole lugubri di Andreotti. Il senatore per sondare le sue intenzioni gli racconta un episodio intorno alla vicenda Sindona citandogli «un certo Inzerillo, morto in America, è giunto in Italia in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Dopo il silenzio del Presidente del Consiglio, arrivano le parole lugubri di Andreotti.
Il senatore, che è stato a capo del governo negli anni di dalla Chiesa all’Antiterrorismo, per sondare le sue intenzioni gli racconta un episodio intorno alla vicenda Sindona citandogli «un certo Inzerillo, morto in America, è giunto in Italia in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca».
Un altro avvertimento?
Perché Giulio Andreotti, grande protettore del bancarottiere, uomo legato a doppio filo alla mafia siciliana, riferisce di quel delitto a dalla Chiesa che è in procinto di tornare a Palermo?
Forse per orgoglio, per senso dello Stato, forse per il timore che qualcuno possa dire che nella sfida più decisiva lui si è tirato indietro, circondato da ostilità manifeste e avversioni appena smorzate Carlo Alberto dalla Chiesa dopo quarant’anni nella sua Arma parte come prefetto per la Sicilia.
Sull’aereo che va verso Palermo, il pomeriggio del 30 aprile 1982, scrive una lettera ai suoi figli. È il suo testamento.
Ricorda l’amore per la moglie Dora e ai ragazzi dice che ha già diviso per loro i gioielli di famiglia: «Quanto vi ho scritto, l’ho fatto a 7.000-8.000 metri d’altezza, in cielo, mentre l’aereo mi portava veloce a Palermo…».
All’aeroporto di Punta Raisi sale su un taxi, è in borghese. E in taxi entra nella sua prefettura, Villa Whitaker, in via Cavour.
È in borghese anche sul palco di piazza Politeama, domenica 2 maggio, davanti alla folla sterminata che assiste ai funerali di Pio La Torre.
Accanto a lui c’è il presidente della Regione Siciliana Mario D’Acquisto, un democristiano conosciuto ai tempi della Legione di Palermo. È uno degli amici di Salvo Lima finiti in quelle sue «schede» consegnate alla Commissione Parlamentare Antimafia.
Il «dibattito» sui suoi poteri si fa subito rovente. Parte anche il lamento sulla «criminalizzazione» della Sicilia, s’evoca il fantasma del prefetto Mori e delle sue retate indiscriminate alla fine degli Anni Venti.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Un generale da solo in giro per Palermo, senza scorta e senza paura. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 settembre 2022
Il 5 maggio è a Roma. Con un discorso commovente si congeda ufficialmente dall’Arma dei carabinieri. Torna a Palermo e se ne va in giro per la città. Da solo. Vuol far vedere a tutti che non ha paura. Qualche volta prende l’autobus. Una mattina, prima delle sette, entra al mercato ittico. Cambia in continuazione itinerari, orari, appuntamenti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Carlo Alberto dalla Chiesa capisce l’antifona. Cerca il ministro degli Interni Virginio Rognoni, gli comunica che per combattere davvero la mafia siciliana non potrà non toccare alcuni democristiani dell’isola.
Il ministro lo rassicura: «Non si preoccupi, lei non è il generale della Democrazia Cristiana».
Il potere di Palermo è tutto schierato. Salvo Lima, Vito Ciancimino, Mario D’Acquisto, il sindaco Nello Martellucci. E nell’ombra i cugini Salvo, gli esattori mafiosi di Salemi. I Greco di Ciaculli. I Corleonesi di Totò Riina.
Il 1° maggio si presenta alla Camera di Commercio di Palermo. Ai Maestri del Lavoro dice che, anche in Sicilia, conta solo la legge dello Stato.
Il 4 maggio è a Monreale per commemorare il capitano Emanuele Basile, l’ufficiale dei carabinieri ucciso due anni prima.
Il 5 maggio è a Roma. Con un discorso commovente si congeda ufficialmente dall’Arma dei carabinieri.
Torna a Palermo e se ne va in giro per la città. Da solo. Vuol far vedere a tutti che non ha paura. Qualche volta prende l’autobus. Una mattina, prima delle sette, entra al mercato ittico.
Cambia in continuazione itinerari, orari, appuntamenti.
Una domenica fa sequestrare il pane al Borgo Vecchio, mafalde e rimacinatini che gli abusivi vendono anche nei giorni di festa sui loro furgoni.
Ai giornali locali arrivano i fax dalla prefettura: «Le contravvenzioni sono 157 e i pani di dubbia provenienza chilogrammi 9.141, s’invita la cittadinanza a rinunciare all’acquisto di queste partite di pane sia per combattere l’illecito sia per garantire la salute dei consumatori».
Al Borgo ci sono tafferugli, vigili urbani feriti, sono tutti imbestialiti con il prefetto che vuole far tornare la legge in ogni strada di Palermo. È una delle sfide del generale.
Al Borgo non l’hanno presa bene. Gridano: «Noi panifichiamo tre volte al giorno per campare e lui se la prende con il muro basso», solo con i poveracci. E poi comincia la solita litania: «A Roma, la mafia vera è a Roma…».
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La città trema: «Dalla Chiesa può diventare una sciagura per Palermo». DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 15 settembre 2022
Il direttore del quotidiano L’Ora, Nicola Cattedra, nel riportare la conversazione fra ricchi palermitani incontrati in un ristorante alla moda della città, racconta: «Se si mette a fare il superpoliziotto contro i trafficanti di droga, finisce che rovina questa città...».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Il 17 maggio il prefetto dalla Chiesa è a Corleone, luogo simbolo dove ha convocato quindici sindaci della provincia per «dimostrare che lo Stato è al loro fianco».
Il 29 maggio è al «Gonzaga», la scuola dei gesuiti frequentata dai rampolli della borghesia, quella che da sempre forma la classe dirigente della città.
Il 3 giugno, senza farsi annunciare, entra al «Garibaldi», il liceo classico che hanno frequentato anche i suoi figli, Nando e Simona. Ai ragazzi racconta «della mafia intorno a voi».
E poi parla di sé e di Palermo: «Sono ancora in fase di studio e sono al tempo stesso io oggetto di studio».
Gli studenti, gli operai dei Cantieri Navali, le madri dei tossicodipendenti, i sindaci dei paesi più mafiosi. Il generale parla a tutti di diritti. Quelli che la mafia traduce in favori. Cominciano ad arrivargli lettere di incoraggiamento, segnalazioni di piccoli e grandi abusi, l’immondizia che nessuno raccoglie, lamentele per l’acqua che non c’è mai.
Ma l’altra Palermo si fa sempre più tetra. Il sindaco Martellucci ingaggia una singolare guerra con lui. Il generale fa paura.
Il direttore del quotidiano L’Ora, Nicola Cattedra, nel riportare la conversazione fra ricchi palermitani incontrati in un ristorante alla moda della città, racconta:
«Questo dalla Chiesa può diventare una sciagura per Palermo. Se si mette a fare il superpoliziotto contro i trafficanti di droga, finisce che rovina questa città. Si immagini tutti quelli che oggi campano con i proventi della droga, buttati sul mercato dei disoccupati. Metterebbero a sacco le nostre case.
Non potremmo più uscire alla sera, ci scipperebbero, scassinerebbero negozi, ville, uffici. Non ci sarebbe più pace, mi creda. I ristoranti non sarebbero più sicuri, le nostre mogli non potrebbero più uscire in pelliccia. No, deve stare attento a quello che fa, questo generale piemontese…»
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
La “strage della circonvallazione” e la solitudine di un generale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 16 settembre 2022
La mattina del 16 giugno, sulla circonvallazione di Palermo viene attaccato un piccolo convoglio che scorta al carcere di Trapani il boss catanese Alfio Ferlito. Ucciso il mafioso, uccisi i tre carabinieri, ucciso l’autista. È impotente il generale davanti a questi altri morti.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Giugno, succedono molte cose fra Roma e Palermo. A Roma, al congresso della Dc, sono undici i siciliani eletti al Consiglio Nazionale. C’è Lima, c’è D’Acquisto. C’è Luigi Gioia, fratello del ministro Giovanni, quello «bollato» come mafioso dal Tribunale di Torino al processo contro lo scrittore Pantaleone e l’editore Einaudi.
C’è anche l’ex ministro della Difesa Attilio Ruffini, nipote prediletto dell’ex cardinale e che nel 1979 – da ministro – è stato invitato a una cena elettorale, alla trattoria La Carbonella, dagli Spatola e dagli Inzerillo. I «meglio mafiosi» di Palermo.
E don Vito, Ciancimino, è designato responsabile provinciale degli Enti locali della Dc.
A Palermo, per la prima volta, la Finanza entra per un controllo negli uffici della Satris, la società di riscossione delle tasse dei Salvo di Salemi. È la violazione di un luogo sacro per la mafia.
Poi, è la rivolta dei prefetti.
Quelli siciliani protestano al Viminale, dicono che ne hanno le tasche piene di un generale che vuole imporsi su tutto e tutti.
Al coro si aggiunge anche il prefetto di Napoli, Riccardo Boccia, che ha qualcosa da recriminare su dalla Chiesa e sui «super-poteri» che pretende di avere dallo Stato. Cosa vuole questo carabiniere? Militarizzare la Sicilia? Dichiarare lo stato d’assedio nell’isola? Incarcerare mezza popolazione?
Un diluvio di parole, la malevolenza mascherata ancora una volta da garantismo, principi, regole. Tutti hanno qualcosa da eccepire o contestare a Carlo Alberto dalla Chiesa mentre laggiù, in Sicilia, si muore.
La mattina del 16 giugno, sulla circonvallazione di Palermo viene attaccato un piccolo convoglio che scorta al carcere di Trapani il boss catanese Alfio Ferlito. Ucciso il mafioso, uccisi i tre carabinieri, ucciso l’autista.
I sicari sono armati di fucili mitragliatori sovietici, i kalashnikov. Gli stessi che un anno prima sono stati usati per eliminare il capo di Cosa Nostra di Palermo, Stefano Bontate. Gli stessi che saranno impugnati da lì a due mesi, il 3 settembre.
È impotente il generale davanti a questi altri morti.
Lo vedo da lontano. Cammina da solo, sta tornando indietro.
Ha appena parlato con i carabinieri vivi che sono piegati sui carabinieri morti.
Poi se ne va. Scansa le auto ferme in colonna sulla circonvallazione. Ha un vestito chiaro, la faccia scura. Gli vado incontro. Generale, questi cadaveri sono un altro messaggio per lei? Mi guarda, è cupo, non risponde. Mi dice che non può e che non vuole parlare. Non ha scorta. Non vedo il suo autista. Non c’è nessuno dietro di lui e nessuno davanti a lui.
La solitudine del generale per me è soprattutto in questo ricordo di un breve incontro sulla circonvallazione, la mattina del 16 giugno 1982. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Mentre a Palermo si spara, il prefetto si sposa con la giovane Emmanuela. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 settembre 2022
È quasi agosto. E prima che a Palermo cominci il mese più drammatico, il generale si sposa in seconde nozze. Lei si chiama Emmanuela Setti Carraro, è una ragazza della buona borghesia milanese, crocerossina, ha quasi trent’anni meno di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
La mafia palermitana è in disordine, spara, si divide, combatte una guerra interna della quale pochi conoscono l’origine e le finalità. Sulla scrivania di dalla Chiesa arriva un rapporto giudiziario, «Michele Greco + 161», firmato dal commissario capo Ninni Cassarà e dal capitano dei carabinieri dell’Anticrimine Angiolo Pellegrini. È una mappa aggiornata delle «famiglie».
Si comincia a scoprire qualcosa anche lì dentro.
Michele Greco è quel signorotto di campagna con la faccia da prete che vive come un pascià alla Favarella, la tenuta dove c’è sempre la fila di onorevoli e magistrati per rendergli omaggio.
È quasi agosto. E prima che a Palermo cominci il mese più drammatico, il generale si sposa in seconde nozze.
Lei si chiama Emmanuela Setti Carraro, è una ragazza della buona borghesia milanese, crocerossina, ha quasi trent’anni meno di Carlo Alberto dalla Chiesa.
S’incontrano a Genova nel maggio del 1980, alla parata nazionale degli alpini. Iniziano a frequentarsi. Un anno dopo, lei è invitata nella casa di campagna dei dalla Chiesa, a Prata, in Irpinia. Conosce i tre figli del generale, il rapporto fra i due è sempre più intimo, nella primavera del 1982 decidono le nozze.
È tutta la sua vita che cambia in pochi mesi. Una nuova compagna. E poi la Sicilia. È un momento delicato della sua esistenza, Carlo Alberto dalla Chiesa si tormenta per aver trascinato a Palermo il suo nuovo giovane amore. Diventano marito e moglie sabato 10 luglio, nel castello di Levico, in Trentino.
Il lunedì, il generale è già tornato a Palermo.
Le strade non hanno più un nome.
Ci siamo abituati alla violenza.
«Vediamoci alle 18 dove hanno ucciso il procuratore Costa».
«Il film lo danno nel cinema accanto a dove è morto Boris Giuliano».
«Andiamo nel ristorante davanti al bar dove l’altro giorno sono scomparsi quei due».
Così prendiamo gli appuntamenti a Palermo in quei mesi d’estate del 1982.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
I Cavalieri di Catania e la storica intervista a Giorgio Bocca. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 18 settembre 2022
A Bocca il generale dice anche: «Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato»
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Sono i suoi ultimi giorni.
Sempre più abbandonato da Roma e sempre più respinto dalla Sicilia, Carlo Alberto dalla Chiesa decide di rompere l’isolamento. Lo Stato è in ritirata, la mafia all’attacco, il generale ha pochi amici: il cardinale Salvatore Pappalardo e alcuni preti delle borgate, i sindacalisti, qualche socialista legato a Craxi, uomini del Pci e del Movimento Sociale.
Chiama Giorgio Bocca, un giornalista che non è mai stato morbido con lui negli anni angosciosi del terrorismo. Ma è un grande, un uomo con la schiena dritta, anche lui piemontese.
Bocca è in vacanza in Val d’Aosta, scende subito in Sicilia e la mattina del 10 agosto su Repubblica esce un’intervista che rimarrà negli annali del giornalismo italiano.
Il generale parla delle quattro maggiori imprese edili catanesi – i Cavalieri – «che con il consenso della mafia palermitana oggi lavorano a Palermo». Racconta che la «mafia è forte anche a Catania».
Denuncia la connivenza delle banche che proteggono i loro clienti in combutta con la criminalità organizzata. E poi dice che «l’Italia perbene sbaglia a disinteressarsi» di quello che sta accadendo in Sicilia. È un messaggio che lancia a tutta la nazione.
Perché la mafia ormai non è solo in Sicilia. È dappertutto. A Bocca dice anche: «Credo di avere capito la nuova regola del gioco. Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato».
Il generale in tre mesi non ha capito poco di Cosa Nostra come vorrebbero far credere alcuni. Ha capito tutto.
Palermo insorge. Tutti che urlano contro dalla Chiesa.
Si scatena anche il prefetto di Catania Francesco Abatelli. Lui giura che a Catania «la mafia non c’è». Qualche mese prima Abatelli ha tagliato il nastro all’inaugurazione di un autosalone di proprietà di Nitto Santapaola, il capomafia della città. Quello che ha ordinato la strage della circonvallazione a giugno.
Palermo è in fiamme. Altri morti.
L’11 agosto fra i viali del Policlinico uccidono il medico legale Paolo Giaccone. Non ha voluto «aggiustare» una perizia, far finta di non vedere l’impronta di un sicario di mafia trovata su una pistola.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Latitanti “a casa loro”, nessuno cerca i boss di Cosa Nostra. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 19 settembre 2022
Saliamo, entriamo nello studio medico, in sala d’attesa ci sono tre uomini. Non faccio in tempo a sedermi, Gianni mi afferra per un braccio e mi trascina via. Non capisco. Gianni è agitato, accelera il passo, mi bisbiglia: «Poi ti dico, poi ti dico…».Uno dei tre uomini che aspettava dal dentista era Rosario Riccobono, latitante da due anni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Palermo è popolata da latitanti. Sono liberi di circolare per le strade, vanno al ristorante, al cinema, nei bar di via Ruggiero Settimo. Non hanno paura. Nessuno li cerca. Sono tutti latitanti a casa loro.
Ho mal di denti da due giorni. Il mio dentista è in ferie. È agosto, la città è vuota. Chiedo al collega Gianni Lo Monaco se ne conosce uno. Fa una telefonata. Due ore dopo, Gianni mi accompagna in un palazzo in vetro cemento che ha l’ingresso in un porticato interno e la vista su piazza Politeama. Siamo nel centro del centro di Palermo.
Saliamo, entriamo nello studio medico, in sala d’attesa ci sono tre uomini. Non faccio in tempo a sedermi, Gianni mi afferra per un braccio e mi trascina via. Non capisco. Gianni è agitato, accelera il passo, mi bisbiglia: «Poi ti dico, poi ti dico…».
Mi dice tutto quando torniamo al giornale.
Uno dei tre uomini che aspettava dal dentista era Rosario Riccobono, il capomafia di Partanna Mondello. Uno che è stato nella Cupola, un grosso trafficante di stupefacenti.
Riccobono controlla la zona di Palermo dove Gianni Lo Monaco ha una casetta, in via Castelforte, che diventa a ogni inizio estate il suo ritiro. È terrorizzato Gianni. Il boss lo conosce, sa che è un giornalista. E il boss è latitante da due anni.
Non passano quattro mesi da quell’incontro dal dentista che Rosario Riccobono scompare. Lo rapiscono e lo uccidono il 30 novembre del 1982.
Aveva tradito i vecchi amici per passare con i Corleonesi. E Totò Riina non si poteva fidare di lui. Chi tradisce una volta può tradire sempre.
Palermo è una sacca di veleni. Il generale è circondato dal vuoto, si diffonde la voce che stia per lasciare il suo incarico. Il Giornale di Sicilia, gazzetta ufficiale dei Palazzi, pubblica la notizia che dalla Chiesa potrebbe essere nominato ministro degli Interni. È falso.
Il presidente Spadolini si è dimesso il 7 agosto, il governo è caduto su un decreto che fa pagare più imposte ai petrolieri e riduce le gabelle agli esattori. I franchi tiratori della Dc sono entrati in azione compatti.
Molti sono amici dei Salvo di Salemi.
Palermo assiste inerme all’agonia di un generale.
E intanto a Palermo si raffina la droga da vendere ai “cugini” americani. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 20 settembre 2022
Il chimico è Francesco Marino Mannoia, un mafioso che nel 1989 deciderà di saltare il fosso e di pentirsi con il giudice Falcone. Nel laboratorio di via Messina Marine, Mannoia in ventiquattro mesi ha raffinato lui da solo sette quintali di morfina base.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Emmanuela è in città, insieme vanno dal cardinale Pappalardo. Sono ospiti d’onore al «Roggero di Lauria» di Mondello, festeggiamenti per l’ottantesimo anniversario del circolo. Torte, candeline, mille invitati.
Il prefetto e sua moglie sono due estranei in mezzo alla folla.
Nelle immagini stampate sui quotidiani sembrano figurine appiccicate fra tante maschere, come in un fotomontaggio.
A Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa ormai non rappresenta lo Stato ma solo se stesso.
Un giorno è così affranto che va a trovare Randolph Jones, il console americano in Sicilia. Chiede aiuto anche a lui.
Gli racconta: «Quando ero comandante della Legione qui a Palermo, seppi che il capomafia di un paese aveva minacciato di morte un mio ufficiale. Invitai quell’ufficiale a venire con me per passeggiare a braccetto tante volte nel corso principale di quel paese. Poi aspettammo il ritorno a casa del mafioso e lo guardammo negli occhi. Tutto ciò che chiedo oggi è che qualcuno passeggi con me e mi prenda a braccetto».
È passato da poco Ferragosto e il ministro delle Finanze, Rino Formica, annuncia che è pronta la schedatura patrimoniale di 3192 mafiosi siciliani. Nella lista ci sono anche i trafficanti più ricchi del Mediterraneo. All’inizio dell’anno, a febbraio, hanno scoperto la quarta raffineria di eroina a Palermo.
È in una villetta a due piani sulla via Messina Marine, ci entro nel primo pomeriggio. Mi dicono che, al momento dell’irruzione dei carabinieri, un uomo in camice bianco è riuscito a fuggire.
La raffineria è al piano terra. Nella prima stanza ci sono i sacchi di juta con dentro duecento chili di morfina base. Nella seconda stanza c’è un tavolo di ferro dove sono allineati alambicchi, ampolle, pentoloni colmi di acido acetico per lavorare la «pasta» e trasformarla in eroina purissima. Nella terza stanza, una brandina, due sedie e tre bilancini di precisione.
Al primo piano abita il proprietario della villetta, Nicola Di Salvo. È incensurato, fa il commerciante. I carabinieri mettono sottosopra la casa. Sequestrano tutto. Anche il quaderno che la figlia quindicenne di Di Salvo, primo anno alle Magistrali, tiene sul comodino. C’è il tema che ha scritto il giorno prima in classe: «Una delle piaghe sociali più grandi è rappresentata dalla droga. È un fenomeno difficile da combattere, anche perché negli ultimi tempi ci sono raffinerie di eroina in tutto il mondo e pure a Palermo. Occorre un’azione più forte della polizia perché non riescono a trovare le raffinerie. Intanto la droga si continua a vendere e l’eroina rovina centinaia di ragazzi».
La raffineria è dei fratelli Vernengo, i boss della zona. Il chimico è Francesco Marino Mannoia, un mafioso che nel 1989 deciderà di saltare il fosso e di pentirsi con il giudice Falcone.
Nel laboratorio di via Messina Marine, Mannoia in ventiquattro mesi ha raffinato lui da solo sette quintali di morfina base.
I Bontate e gli Inzerillo vendevano l’eroina a 50 mila dollari al chilo ai Gambino, e i Gambino la piazzavano a 130 mila dollari al chilo ai loro parenti americani di Cherry Hill. In quei ventiquattro mesi la mafia siciliana ha guadagnato con l’eroina raffinata solo da Francesco Marino Mannoia fra i 30 e i 35 milioni di dollari e la mafia americana ne ha incassati quasi 90.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
L’agguato di via Isidoro Carini, così uccidono il generale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 21 settembre 2022
I sicari gli scivolano dietro, probabilmente avvertiti da qualcuno che sta a Villa Whitaker. Il generale ed Emmanuela sono su un’utilitaria, un’A112 di colore beige. Guida lei. Sono seguiti da un’Alfa blu con al volante l’agente di pubblica sicurezza Domenico Russo, l’autista.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
È l’ultima settimana di agosto. Il prefetto è da qualche giorno in vacanza nella casa in Irpinia. Segue da lì l’interminabile dibattito sui poteri speciali da lui chiesti, notizie contraddittorie che s’incrociano, i soliti attacchi, i distinguo, tutte le ipocrisie della politica italiana.
Ma il generale, incredibilmente, crede ancora che qualcosa accadrà. I poteri speciali – ne è sicuro – prima o poi glieli daranno.
Il figlio Nando gli chiede: «Ma chi ti è contro?». Lui risponde: «Gli andreottiani, i fanfaniani e una parte della sinistra democristiana. Gli andreottiani in particolare ci sono dentro fino al collo».
Il 1° settembre del 1982 il generale è a Palermo. Chiama un sottufficiale dei carabinieri, un vecchio amico. Gli dice che ha bisogno di lui per la sua sicurezza personale: «È urgente, vieni in Sicilia».
Nel tardo pomeriggio del 3 settembre Emmanuela Setti Carraro entra in prefettura. Telefona alla madre, la saluta, le dice che sta bene e che fra poco sarà a cena a Villa Pajno.
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa prenota un tavolo per due al ristorante La Torre, a Mondello. Una precauzione, non si sa mai chi ascolta le sue telefonate.
La cena a Villa Pajno è già pronta, la tavola apparecchiata.
I sicari gli scivolano dietro, probabilmente avvertiti da qualcuno che sta a Villa Whitaker.
Il generale ed Emmanuela sono su un’utilitaria, un’A112 di colore beige. Guida lei. Chi se lo può mai immaginare che il generale se ne va in giro per Palermo con una piccola auto? Dalla Chiesa gioca sempre sulla sorpresa.
Sono seguiti da un’Alfa blu con al volante l’agente di pubblica sicurezza Domenico Russo, l’autista.
Via Cavour, via Principe di Scordia, la caserma della Guardia di Finanza a sinistra e i vicoli del Borgo Vecchio a destra. Sera d’estate, la città vuota, le strade deserte. I primi colpi partono in via Isidoro Carini, quando l’A112 è davanti a una pasticceria famosa per le sue cassate.
Sono le 21.15 del 3 settembre 1982.
Due corpi immobili nell’utilitaria. Sull’Alfa blu il poliziotto è ancora vivo. Morirà otto giorni dopo.
Kalashnikov. I killer hanno ucciso con gli stessi fucili della «strage della circonvallazione» e dell’omicidio di Stefano Bontate. Su ordine di Totò Riina, il grande capo. Sempre i Corleonesi. Sempre i peri incritati, i contadini della Rocca Busambra che danno mandato di morte ai loro servi di Palermo. Vincenzo Galatolo e Francesco Paolo Anzelmo, Calogero Ganci e Raffaele Ganci.
Ci sono anche Giuseppe Lucchese u’ Lucchiseddu, Pino Greco Scarpazzedda e Nino Madonia. Quelli di Pio La Torre.
Prima le sventagliate di mitra. Poi, uno di loro si avvicina a Carlo Alberto dalla Chiesa e spara il colpo di grazia.
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DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
E dopo la strage, la cassaforte del prefetto viene svuotata. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 22 settembre 2022
Cosa rubano dalla cassaforte del generale dalla Chiesa? Quali documenti segreti ci sono? Le ultime indagini sulla mafia di Palermo? Gli accertamenti sui Cavalieri di Catania o sugli esattori di Salemi? Vecchie carte dell’Antiterrorismo?
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Arrivano i primi poliziotti in via Carini, coprono il viso del generale e di Emmanuela con un foglio di giornale. Nessuno avverte i figli di lui, la famiglia di lei. Qualcuno lo apprende dalla tivù, altri dai parenti che telefonano. Telefonano per tutta la notte.
Sul muro accanto alla pasticceria attaccano un cartello: «Qui è morta la speranza dei siciliani onesti».
Davanti alla bara del padre, Nando dalla Chiesa piange.
«Si dia un contegno», gli sussurra il procuratore capo della repubblica Vincenzo Paino.
Sul feretro è appoggiata la corona di fiori del Presidente della Regione siciliana, Mario D’Acquisto. Rita dalla Chiesa la fa togliere. In campagna, a Prata, il padre ha ricordato ai suoi figli: «Nei delitti di mafia, la prima corona che arriva è quella del mandante».
Lo zio Romeo, il più piccolo dei fratelli del generale, arriva di notte a Palermo. Prova a entrare a Villa Pajno. Non ci riesce. Ordini superiori. Fanno entrare però – per prendere un lenzuolo e coprire i cadaveri di via Isidoro Carini – quell’economo della prefettura cacciato dal generale qualche settimana prima.
Fanno entrare anche un paio di uomini che non vengono registrati all’ingresso.
Agenti dei servizi? Carabinieri? Funzionari del ministero dell’Interno?
Qualcuno si infila nell’appartamento del generale e di Emmanuela, arriva fino alla camera da letto, apre la cassaforte e la svuota. Si porta via tutto. Lascia solo una scatola verde, di quelle che servono per custodire i biglietti da visita.
La chiave della cassaforte, il giorno dopo il delitto, non c’è.
Ricompare l’11 settembre nel cassettino di un secretaire.
Cosa rubano dalla cassaforte del generale dalla Chiesa? Quali documenti segreti ci sono? Le ultime indagini sulla mafia di Palermo? Gli accertamenti sui Cavalieri di Catania o sugli esattori di Salemi? Vecchie carte dell’Antiterrorismo?
«Una volta ho sentito il generale che diceva alla moglie: “Se mi dovesse succedere qualcosa, tu sai dove andare a prendere quello che ho messo nero su bianco”...», riferisce Vincenza Orofino, la domestica di Emmanuela.
«Forse i nomi dei mandanti in tre dossier del generale», titolano i giornali del 5 settembre, ancora ignari del mistero della cassaforte di Villa Pajno. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
L’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo su “Sagunto espugnata”. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 23 settembre 2022
L’omelia è del cardinale Salvatore Pappalardo, uno dei pochi amici del generale nei suoi quattro mesi in Sicilia. La sua omelia farà storia nella Sicilia insanguinata.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
I funerali si celebrano nella basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo.
La folla si scaglia contro gli uomini politici venuti da Roma, lancia monetine contro il Presidente del Consiglio Spadolini, il ministro Rognoni è sfiorato da una bottiglia, c’è chi sputa, chi insulta.
«Li avete uccisi voi, in Parlamento», inveisce Gianmaria Setti Carraro, il fratello di Emmanuela.
Dalle urla e dai fischi viene risparmiato solo il Capo dello Stato Sandro Pertini che piange. Piangono anche milioni di italiani.
L’omelia è del cardinale Salvatore Pappalardo, uno dei pochi amici del generale nei suoi quattro mesi in Sicilia.
«…Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera la nostra Palermo», grida dall’altare. La sua omelia farà storia nella Sicilia insanguinata.
I ministri tacciono davanti alla rabbia di Palermo e all’atto di accusa del cardinale. Sguardi persi, cuori di pietra.
Poi parte la sceneggiata di sempre.
I partiti studiano «misure straordinarie» contro la mafia. Il governo si riunisce – in via eccezionale, di domenica – per nominare il nuovo prefetto di Palermo. Il presidente Spadolini chiama a raccolta tutti i capi della sicurezza nazionale «per proseguire l’opera di dalla Chiesa». Di quale «opera» parla il capo del governo? Quella che al generale non hanno lasciato nemmeno cominciare?
L’uomo che ha amato l’Italia più di se stesso è già sepolto. Il generale non c’è più. L’ordine torna a Palermo. I macellai di Totò Riina hanno «concluso l’operazione Carlo Alberto». Per conto loro e per conto terzi.
È il primo grande sbaglio dei Corleonesi. Il 3 settembre 1982 i mafiosi della Rocca Busambra hanno cominciato a scavarsi la fossa. Dal 3 settembre 1982, in Sicilia niente sarà più come prima.
Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare dalla Chiesa. Andiamo, parliamo chiaro. Ma perché noi dobbiamo sempre pagare le cose e perché glielo dovevamo fare questo favore? Solo i politici si possono infilare sotto l’ombrello, tu vedrai che nei vari processi quelli che non avranno problemi saranno soltanto i politici.
È la voce di Giuseppe Guttadauro, capo mafia del quartiere Brancaccio.
Quasi vent’anni dopo, nella primavera del 2001, commenta con un amico mafioso l’agguato di via Isidoro Carini. Una microspia registra tutto. Chi ha voluto la morte di Carlo Alberto dalla Chiesa? Chi ha dato l’ordine? Perché?
Le indagini partono dai sicari e si fermano ai sicari. Si concentrano sulla perizia balistica, i Kalashnikov. Si attorcigliano sulla dinamica del delitto seguendo i racconti di alcuni pentiti. Si perdono nelle amnesie di funzionari di prefettura, capi della polizia, ministri della Repubblica. L’inchiesta sull’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa è morta ancora prima di cominciare.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
A Palermo arriva il prefetto Emanuele De Francesco e tutto torna come prima. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 24 settembre 2022
Lo stato nomina prefetto di Palermo Emanuele De Francesco. È anche Alto commissario per la lotta alla mafia e il direttore del Sisde, i servizi segreti civili. Poi si circonda di una «struttura» di intelligence con a capo Bruno Contrada, il poliziotto più famoso di Palermo. Dieci anni dopo sarà arrestato per le sue complicità mafiose.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Per tre settimane ho inseguito un merlo parlante. «Di questo uccello devi scoprire tutto», mi ordinano al giornale. Nei primi di ottobre del 1982, un mese dopo la strage di via Isidoro Carini, al procuratore capo Vincenzo Pajno si presenta l’ingegnere Francesco Naselli Flores, marito della sorella di Dora Fabbo, la prima moglie del generale dalla Chiesa.
E racconta al magistrato: «Una ventina di giorni fa, mi hanno consegnato un merlo che era nell’appartamento di mio cognato e di Emmanuela. Questo merlo non fa che ripetere una frase: “Carlo Alberto morirai, Carlo Alberto morirai”. È un’ossessione. Sicuramente qualcuno, in prefettura, lo ha ammaestrato per ripetere quella frase». Il procuratore capo promette l’apertura di un’indagine. Per giorni e giorni gli investigatori perdono il loro tempo dietro al merlo. E io con loro. Quattro colonne in cronaca ogni mattina.
Lo stato nomina prefetto di Palermo Emanuele De Francesco. È anche Alto commissario per la lotta alla mafia e il direttore del Sisde, i servizi segreti civili.
È un vecchio navigatore dei labirinti ministeriali, uno «sbirro all’antica». A lui, i ministri di Roma concedono subito tutti i poteri che hanno sempre negato al generale. Accesso ai segreti bancari. Coordinamento su tutto il territorio nazionale. Potere di intercettazione telefonica.
Emanuele De Francesco si presenta: «Io non mi sento abbandonato dallo Stato».
Il suo primo atto è confermare la fiducia «a tutti i dipendenti di ogni ordine e grado» di Villa Whitaker. De Francesco rimette al loro posto gli impiegati della prefettura che ha allontanato il generale.
Poi si circonda di una «struttura» di intelligence con a capo Bruno Contrada, il poliziotto più famoso di Palermo. Dieci anni dopo sarà arrestato per le sue complicità mafiose.
L’Alto Commissariato da quel momento diventa un centro di potere investigativo che inizia un’opera di «contrasto» senza fine verso due giudici di Palermo: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Nando dalla Chiesa accusa: «I mandanti vanno ricercati nella Dc siciliana». DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 settembre 2022
Nando dalla Chiesa ricorda che tutti i suoi nemici, il padre li ha indicati pochi giorni prima di morire al settimanale L’Europeo. Sono Lima, Ciancimino, D’Acquisto, Martellucci, il segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti. La reazione di Palermo è rabbiosa. Si scatenano tutti contro il figlio del prefetto ucciso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
I giornali raccontano la Palermo del dopo strage. E l’8 settembre, su Repubblica esce un’altra intervista di Giorgio Bocca. Questa volta a parlare è il figlio del generale, Nando.
«Che cosa penso dell’omicidio di mio padre? Penso che sia stato un delitto politico deciso e commesso a Palermo. Né a me né ad altri della mia famiglia interessa sapere chi sono stati i killer, se venuti da Catania o da Bagheria o da New York. Interessa che siano individuati e puniti i mandanti che, a mio avviso, vanno ricercati e puniti nella Democrazia Cristiana siciliana».
Nando dalla Chiesa ricorda che tutti i suoi nemici, il padre li ha indicati pochi giorni prima di morire al settimanale L’Europeo. Sono Lima, Ciancimino, D’Acquisto, Martellucci, il segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti.
La reazione di Palermo è rabbiosa. Si scatenano tutti contro il figlio del prefetto ucciso. È lui il colpevole, una settimana dopo la strage.
È un «sociologo politicizzato» che usa il nome del padre. È in grado di provare le sue gravissime accuse? È un mascalzone. Strumentalizza il lutto a scopi politici perché «è comunista».
Nando dalla Chiesa si è limitato a ricordare le parole pubblicamente pronunciate dal generale nei suoi ultimi giorni di vita. È questa la sua colpa.
«Palermo è una città pulita, una città che non si fa chiacchierare addosso», dichiara Salvo Lima.
«Sono tutti galantuomini, sono tutti galantuomini», dice dei ras della sua onorata corrente Giulio Andreotti, che in Sicilia ha già incontrato i capi di Cosa Nostra e fino all’ultimo si è opposto alla nomina a prefetto del generale.
Non passa un mese dall’agguato di via Isidoro Carini e già comincia la demolizione della figura di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Umberto Capuzzo, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, vecchio nemico del generale: «Probabilmente lo stesso fatto nuovo nella vita sentimentale di questo ufficiale, che alla sua età sposa una giovane donna, ha influito. Forse non voleva far pesare su di lei il suo ambiente di precauzioni, di mancanza di libertà». Riccardo Boccia, il prefetto di Napoli che qualche mese prima ha protestato per i super poteri da affidare a dalla Chiesa: «Forse in questo ha sbagliato lui: sembrava che fosse entrato in guerra con la mafia».
Il sindaco Nello Martellucci in privato si spinge senza vergogna a sostenere che il generale «si è suicidato».
La tecnica è sempre la stessa. Prima si calunnia, poi si spara, poi si torna a gettare fango. Con uno Stato che arriva sempre dopo.
Il 13 settembre, il Senato approva i trentacinque articoli della nuova legge antimafia.
Non è bastata la morte del segretario del Pci Pio La Torre, c’è voluta anche quella di Carlo Alberto dalla Chiesa per ottenere quella legge. Definito il delitto di associazione mafiosa. Confisca dei beni. Controlli sui patrimoni.
La legge è la «Rognoni-La Torre», dai nomi del ministro degli Interni e del segretario regionale del Pci dell’isola.
È la straordinaria eredità che ha lasciato il comunista siciliano ucciso il 30 aprile a Palermo. Il primo a ribellarsi alla legge antimafia è uno dei quattro Cavalieri di Catania, Carmelo Costanzo, uno di quelli citati da dalla Chiesa nell’intervista a Bocca.
L’imprenditore giudica «indegno» il nuovo sistema di verifiche sugli appalti. Qualche giorno dopo l’entrata in vigore della «Rognoni-La Torre», chiude tutti i suoi cantieri in Calabria e licenzia gli operai.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Come sempre, boss condannati e ignoti i complici eccellenti. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 settembre 2022
L’inchiesta sull’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa si ferma a un mandante: Totò Riina. Il resto è inviolabile. Nel 1993, il pentito Tommaso Buscetta svelerà un piano mafioso per uccidere il generale già nel 1979, delitto da far rivendicare alle Brigate Rosse.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
«Con l’antimafia non si mangia», dicono in una Palermo che fra false piste d’indagine e polemiche velenose si trascina verso altre stragi.
Un mese dopo la morte del generale un «supertestimone» rivela come è stato ucciso dalla Chiesa. Accusa anche un contadino calabrese di essere uno dei sicari. Ma si è inventato tutto.
È un uomo di Bergamo, Giuseppe Spinoni. Giura di avere assistito all’agguato, nascosto sotto un’auto. Dice che ha visto in
faccia gli assassini.
Scoprono che è un bugiardo quando, una mattina, lo portano a fare un sopralluogo. Ma non in via Isidoro Carini, dove c’è stato l’attentato. Da tutt’altra parte, a Porta Carini. Il «superteste» comincia a ricostruire la scena della strage. E l’arrestano per falsa testimonianza.
Un mitomane o un tentativo di depistaggio?
Un anno dopo vengono pubblicati dal settimanale L’Espresso i diari di Carlo Alberto dalla Chiesa. Lì dentro c’è tutto il suo tormento.
Sono citati i personaggi che l’hanno osteggiato. Parla di Giulio Andreotti («Non avrò riguardi per i suoi grandi elettori») e di «uno Stato che non vuole debellare una politica mafiosa».
Fra le carte ci sono anche stralci delle lettere alla prima moglie, Dora: «Mi sono trovato ad un tratto a casa d’altri, che da un lato attende dal tuo Carlo i miracoli e dall’altro va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo…».
L’inchiesta sull’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa si ferma a un mandante: Totò Riina.
Il resto è inviolabile.
Nel 1993, il pentito Tommaso Buscetta svelerà un piano mafioso per uccidere il generale già nel 1979, delitto da far rivendicare alle Brigate Rosse.
S’indaga sull’esecuzione di Mino Pecorelli, voluta dagli esattori di Salemi, i cugini Salvo, per fare un «favore» a Giulio Andreotti.
Il caso dalla Chiesa e il caso Pecorelli vengono collegati alle carte di Moro ritrovate nel covo di via Monte Nevoso.
Mezze verità, mezze falsità, mai una certezza.
Si mischiano i misteri d’Italia intorno all’omicidio del generale.
Si scopre tutto e niente
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
LA MEMORIA CHE SI PERDE. Il museo Falcone e Borsellino perde il suo inventore che lascia chiudendo anche la pagina Facebook. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 14 settembre 2022
Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e stretto collaboratore di Giovanni Falcone che lo chiamava “Papa“, ha abbandonato quella che era la sua “creatura“: un museo (che non è solo un museo) nei locali dove i due giudici hanno vissuto uno accanto all’altro per dieci anni
In polemica con l’Associazione nazionale magistrati e con la Fondazione che gestisce la struttura, l’esperto informatico dell’ufficio istruzione il 5 settembre scorso ha chiuso anche la pagina facebook dedicata al “Museo Falcone-Borsellino”
Un luogo che è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia, con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze.
La risposta dell’Associazione magistrati: “Il Museo non chiude“. Tentativi per un chiarimento e nuove incomprensioni con l’antimafia ufficiale.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
Carlo Alberto Dalla Chiesa jr: "Mi dissero che il nonno era volato in cielo. Io capii e chiesi: l’hanno ucciso i ladri?" Tullio Filippone su La Repubblica il 4 Settembre 2022.
Intervista al nipote del generale: "Di lui porto con me il nome e i valori. Quell’estate del 1982 mi regalò la maglia della Nazionale azzurra"
"Papà, il nonno è stato ucciso dai ladri?". A 4-5 anni era troppo piccolo per capire cosa fosse successo in via Carini, la sera del 3 settembre 1982, ma del nonno, del quale porta il nome solenne per intero, l'altro Carlo Alberto Dalla Chiesa, nipote del generale, conserva ricordi nitidi: "Mi ricordo la dimensione, grande, il timbro di voce, la figura che emanava qualcosa di carismatico - dice Carlo Dalla Chiesa, 44 anni, primogenito di Nando, oggi imprenditore e fondatore di Ostello Bello - ma era anche il nonno che giocava e faceva scherzi ai nipoti e ci portava le maglie del Mondiale dell'82".
Nando dalla Chiesa: «Papà, non farò il carabiniere. Lui replicò: sociologo? Che noia». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 15 settembre 2022.
Giovedì a Milano in via Sant’Antonio 12, alla presenza del rettore della Statale Elio Franzini e del comandante generale dei carabinieri Teo Luzi («Due figure decisive» ha ricordato il professor ), avverrà la firma dell’accordo per un percorso comune di studi sulla criminalità organizzata, all’interno del dottorato fondato nel 2017 proprio da dalla Chiesa. Il ciclo di incontri, al via lo scorso lunedì, vedrà gli interventi di Alessandra Dolci, a capo della Dda di Milano, del presidente di «Libera» don Luigi Ciotti e del sindaco Giuseppe Sala.
«Perfino le mie sorelle Rita e Simona ignorano questa storia, o almeno i suoi veri dettagli. Anche se forse si tratta di una piccola, minuscola storia di famiglia». Un parco di Milano. Brindisi con succhi di frutta, labrador in libertà, aria lieta, odore d’erba tagliata. Il professor Nando accompagna con una telecronaca il nipotino — maglietta verde dell’Irlanda — che rincorre un pallone dopo la festa per il compleanno. «Credo siano il luogo e il momento giusti. Mi preparo alla chiusura di un cerchio: da una parte i carabinieri e dall’altra l’università con la firma di un accordo in Statale, nella facoltà di Scienze politiche, per un nuovo percorso di studi all’interno del Dottorato di ricerca sulla criminalità organizzata che ho fondato. Tutto questo succede nel quarantesimo dall’assassinio di papà, che mi voleva carabiniere. E io lo feci, il carabiniere: ufficiale di complemento, a Palermo, anni 1972 e 1973, mentre portavo avanti la tesi di laurea in Bocconi, sulla mafia. sperava che continuassi dopo la leva. Ma avevo in testa sociologia. Certo, la sociologia che fabbricava i terroristi, gli stessi che lui contrastava».
«Presto sarai orfano»
Decisione sofferta, decisione ineluttabile. «Mi aiutò mamma: preparò il terreno. Dopo la laurea ero andato a Londra, nel centro studi di una banca, aiutato da mio zio. Papà pensò che avrei quantomeno intrapreso quel percorso. Non c’era verso: solo e soltanto sociologia. Rifiutai di restare, e tornato in Italia glielo comunicai. Mi aiutò dandomi dei soldi, per mantenermi. Non era d’accordo — anzi ci rimase malissimo —, eppure tacque. Ripresi con i libri, iniziai a fare supplenze negli istituti tecnici. Un docente mi diede subito il benvenuto: “”. Una volta mi ricoverarono in ospedale. Sentii un medico bisbigliare alla collega: “Com’è che si chiama? Sarà mica il figlio di quello là? Fosse per me, non uscirebbe vivo”. Definivano papà il “generale della repressione”, e noi eravamo i suoi figli, ugualmente dei nemici, delle persone da odiare e tener lontano. In più, lo ripeto, io volevo fare il sociologo, e sappiamo chi per esempio frequentava l’università di Trento... Papà disse che con la sociologia avrei fatto sempre le stesse cose; disse che era come fare bicchieri giorno dopo giorno, gli stessi identici bicchieri, rinunciando a ogni minima arte creativa, perdendo la possibilità di partecipare alla complessa grandiosità del mondo». E aveva ragione? «Non all’epoca. Però oggi, per poter percorrere una carriera universitaria, ai giovani vengono chiesti un’esasperata settorialità priva di uno sguardo d’insieme e specialismi che indeboliscono, soffocano, al contrario di caricare d’energia».
Ma il professor dalla Chiesa, alla pari del padre, possiede l’intoccabile fiducia nelle nuove generazioni e la devozione a questa privilegiata causa di sostenere i ragazzi; e possiede la consapevolezza che noi siamo in gran parte i nostri genitori, e che alla fine i cammini s’incrociano. Prima, durante oppure dopo non importa: s’incrociano comunque. Per meriti propri, per merito del prossimo, per coincidenze. «Vede, alcuni generali dell’Arma, che davvero non conoscono affatto questo mio racconto personale, hanno intuito la possibilità d’intersecare virtualmente papà e me, sposando l’idea del progetto».
La Milano del generale
Nel percorso di studi, i carabinieri saranno sia studenti sia insegnanti, in una lettura contemporanea dell’arte dell’investigazione, in uno scambio costante, in una necessaria contaminazione tra l’azione sul campo e una preparazione accademica della materia. Non poteva che avvenire a Milano, e non per mere questioni logistiche legate alla sede dell’ateneo: qui i carabinieri hanno intrapreso con passione un’«indagine» (non scontata) della memoria sull’intenso periodo di Carlo Alberto dalla Chiesa, dalle sue operazioni contro la mafia alle tecniche per infiltrarsi nei brigatisti, dal governo della truppa alla gestione dei confidenti e dei pentiti. Dopodiché, il professor Nando dalla Chiesa, ancorato al pudore, non ne fa cenno. Ma in questo «incontro» con suo papà, da quella leva palermitana all’odierna firma in Statale, non possiamo non respirare l’accompagnamento della moglie Emilia, scomparsa un anno fa. Chi ha avuto la fortuna di star con loro nel tempo, li ha visti perennemente abbracciati. Un’altra istantanea di questa «piccola, minuscola storia di famiglia».
Nando dalla Chiesa: "Da De Mita a Spadolini mio padre lasciato solo: ho visto il telefono muto, non gli rispondevano più". Piero Colaprico su La Repubblica il 31 Agosto 2022.
Intervista al figlio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso dalla mafia quarant'anni fa. "Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc, quell'estate dell'82 non si fa trovare anche se eravamo in Irpinia a 30 chilometri di distanza. Mio padre diceva: non possono pensare che io sia contro di loro con quello che ho fatto"
Professor Nando dalla Chiesa, siamo a 40 anni dalla morte di suo padre Carlo Alberto, il generale dei carabinieri ammazzato - 3 settembre 1982 - con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l'autista Domenico Russo da un commando di Cosa nostra. Un omicidio, che insieme a quello di Paolo Borsellino, di Giacomo Matteotti, ammazzato dai fascisti, e di tanti altri, resta uno dei più "annunciati" della storia italiana.
Estratto dell'articolo di Piero Colaprico per “la Repubblica” l'1 settembre 2022.
Professor Nando dalla Chiesa, siamo a 40 anni dalla morte di suo padre Carlo Alberto, il generale dei carabinieri ammazzato il 3 settembre 1982 con la moglie Emanuela Setti Carraro e l'autista Domenico Russo da un commando di Cosa nostra. Lei, scusi se lo dico, ma è ben visibile, è ancora sofferente.
«Venerdì ho raccontato la storia di mio padre ai miei studenti universitari e mentre parlavo mi sono scoperto a commuovermi ancora.
Nelle scuole cerco di non rispondere mai a domande personali. E se vedo qualche ragazzo che ride, perché a volte gli studenti non arrivano preparati, mi ferisce tantissimo. E mi pento di aver accettato l'invito. Se invece so cosa devo dire, mi controllo. Ma talvolta mi viene in mente qualcosa in più».
Venerdì…
«Venerdì c'era anche don Ciotti, mi è capitato un passaggio imprevisto.
Raccontavo la storia della lotta al terrorismo, delle balle sul "popolo che insorge", e m' è venuto in mente che mia madre morì di paura e non poté nemmeno avere il funerale in chiesa. Mi ci sono voluti tre bicchieri d'acqua prima di poter ricominciare a parlare. Le ingiustizie patite sono state tante».
Critiche inaccettabili o altro?
«Un conto sono i giudizi critici, un conto le menzogne. C'è sempre qualcuno che può dire le cose più infami senza che magistratura senta il dovere di difenderne la memoria.
Tutti telefonavano a mio padre all'epoca del terrorismo. Ma poi ho visto con i miei occhi i telefoni muti. Non gli rispondevano più».
Chi, ad esempio?
«Ciriaco De Mita, segretario della Dc, quell'estate dell'82 non si fa trovare anche se eravamo in Irpinia a 30 chilometri di distanza. Mio padre diceva: "Non possono pensare che io sia contro di loro, con quello che ho fatto". Eppure, non l'hanno aiutato e i killer mafiosi sono scesi dalle moto dopo le prime raffiche non per finirlo, ma per sparargli ancora e sfigurarlo.
E sin da subito uno dice che era troppo guascone. E Giovanni Spadolini, che era presidente del Consiglio, non consegna la lettera inviata da mio padre, ma l'ho trovata nell'archivio di casa. E il procuratore di Palermo, Vincenzo Pajno, dice a mio zio "Non intendo giocarmi le ferie". Le ferie! Quando avrebbe dovuto parlare di coscienza. Dentro di me è tutto vivo».
La famosa intervista a suo padre di Giorgio Bocca per Repubblica che effetto le fece?
«Mi sembrò grandissima. Bocca non lo amava e mio padre aveva sempre interesse a discutere con chi era in contraddittorio. In quel momento delicato, il giornalista era uno a cui, in nome di interessi superiori, chiedeva aiuto. L'intervista uscì, ma l'aiuto non è arrivato, è stato lasciato solo».
Lei che aveva pensato, ai tempi?
«Avevo passato le vacanze dell'estate dell'82 con mio padre a Prata Principato Ultra, in Irpinia, nella casa del nonno materno. Tornando a Milano pensai seriamente che potessero ammazzarlo. Ma mi dissi: non lo possono fare. Si sono talmente esposti che sarebbe un delitto firmato. E ho sbagliato. Ho imparato che possono esistere delitti firmati, basta che esista una società che non voglia leggere le firme». (...)
Il 3 settembre 1982 Dalla Chiesa fu assassinato dalla mafia mentre era con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Andrea Galli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.
Sporca e infangata, è stata una Milano di anime perse, erranti, criminali. Sì, certo, il benedetto e ben accetto boom economico - perché comunque bisognava risollevarsi dalla guerra: ma insieme, negli anni Cinquanta e Sessanta, la città soffriva di una degenerazione e di una tale sequenza di eventi dei quali, per davvero, si faticava a tenere il conto.
Ebbene di quei tempi Carlo Alberto dalla Chiesa fu testimone privilegiato, con i primi incarichi da ufficiale ricoperti proprio qui al Comando provinciale dei carabinieri. Nei giorni del 40esimo anniversario del suo omicidio – assassinato dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982 con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo –, abbiamo ricostruito la Milano del generale.
Lo abbiamo fatto richiamando una delle maggiori convinzioni di dalla Chiesa: lo sguardo al futuro. E così dei ventenni (tutti carabinieri) raccontano alle nuove generazioni (ma non soltanto a loro) una storia parallela: quella dell’investigatore dalla Chiesa e di una città via via obbligata a convivere con le stagioni delle baracche e degli orfani, dell’immigrazione massiccia e dei problemi d’integrazione, della fame – fame vera, ovvero compiere reati per garantire un pasto ai propri figli -, una città sorpresa dall’arrivo dei mafiosi, dalle prime infiltrazioni nell’imprenditoria e dai regolamenti di conti, una città oscurata dagli attentati dei terroristi di destra e di sinistra.
Non si sbaglia mai nel cercare di conoscere i luoghi che viviamo, e non unicamente come forma di rispetto nei confronti di chi ci ha preceduto e lasciato una traccia profonda.
Dalla Chiesa e il mistero sui complici occulti dei killer mafiosi. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022.
La strage di 40 anni fa nella quale vennero uccisi il generale, Emanuela Setti Carraro e un agente di scorta. Il rapporto Cassarà: per la prima volta viene usata l’espressione «convergenza di interessi»
«Alle ore 21,10 di ieri 3 corrente mese, veniva segnalata tramite 113 una sparatoria con feriti in via Isidoro Carini». La prima informativa della Squadra Mobile di Palermo alla Procura sull’ennesimo fatto di sangue consumato in quell’anno terribile porta la data del 4 settembre 1982. «Prontamente inviato sul posto, personale dipendente accertava che ignoti avevano assassinato i passeggeri dell’autovettura A112 targata ROMA J97252, ferma vicino al marciapiede sinistro della strada, e ferito gravemente l’autista dell’Alfetta bleu targata PA 507032, anch’essa ferma lungo lo stesso marciapiede».
A seguire, i nomi delle vittime: «I due occupanti la utilitaria venivano identificati per Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, ed Emanuela Setti Carraro, consorte dell’alto funzionario, mentre l’autista dell’Alfetta veniva identificato per l’agente della Polizia di Stato Russo Domenico, autista dell’autovettura di servizio del prefetto». Il 15 settembre spirerà anche lui, portando a tre il bilancio dei morti della strage di via Carini. Rivendicata da una telefonata anonima al quotidiano La Sicilia: «L’operazione Carlo Alberto si è conclusa».
Una strana rivendicazione
Iniziativa del tutto inedita per un attentato di mafia. Gli assassini vollero scimmiottare i terroristi, e del resto dalla lotta al terrorismo veniva il generale dalla Chiesa, catapultato a Palermo nelle vesti di prefetto il pomeriggio del 30 aprile, subito dopo l’uccisione del segretario regionale comunista Pio La Torre.
Un tentativo di confondere le acque, o di dare a quel nuovo «omicidio eccellente» una valenza diversa. Che fu colta e inquadrata da un successivo e ben più sostanzioso rapporto di polizia inviato in Procura nove mesi più tardi, il 27 giugno 1983, redatto dal commissario capo Antonino «Ninni» Cassarà, insieme al capitano dei carabinieri Domenico Barillari. Una denuncia per il triplice omicidio a carico di Totò Riina e altri dieci boss di Cosa nostra (tra cui Michele e Salvatore Greco, e il catanese Nitto Santapaola), in cui si delineava un movente che andava oltre la volontà degli «uomini d’onore» di eliminare un nemico scomodo. Il quale aveva proclamato pubblicamente di voler perseguire gli interessi economici e politici delle cosche, e chiesto con insistenza poteri che il governo si ostinava a negargli, nonostante l’avesse scelto come simbolo del contrasto alla mafia. Lasciandolo però un generale senza esercito e senza mezzi, dunque isolato e pressoché inerme. Bersaglio facile per i boss e i loro alleati.
«In sintesi deve affermarsi che il movente dell’omicidio è complesso e composito», scrisse Cassarà nel suo rapporto, «nel senso che esso non apparirebbe logico se non si ipotizzasse una convergenza di finalità ed interessi diversi che rispecchia la situazione dei gruppi mafiosi e i loro collegamenti con potenti gruppi economici». È dunque in relazione al delitto dalla Chiesa che compare, forse per la prima volta in un documento giudiziario, l’espressione «convergenza d’interessi»; utilizzata per superare il confine scontato delle responsabilità dei clan ed estenderle alla «zona grigia» delle collusioni, imprenditoriali e istituzionali.
La reazione dello Stato
Un leit motiv che da allora tornerà per tutte le successive stragi di mafia, e sul quale, quarant’anni dopo, si continua a indagare senza essere arrivati a risposte soddisfacenti e tantomeno esaustive. Ma restano — inevitabili — le domande sottese proprio al rapporto Cassarà: che interesse avevano, i capiclan, a uccidere un avversario spedito a combatterli senza armi, provocando con un delitto tanto eclatante la certa reazione dello Stato? In pochi giorni il Parlamento fu quasi costretto a varare la legge Rognoni-La Torre che introdusse il reato di associazione mafiosa e il sequestro dei beni per i boss, ferma da oltre due anni a Montecitorio.
Un meccanismo del tutto analogo a quello innescato dieci anni dopo, con la strage che nel 1992 uccise Paolo Borsellino nemmeno due mesi dopo l’eccidio di Capaci in cui era saltato in aria Giovanni Falcone: fu la seconda bomba a determinare la quasi immediata approvazione del decreto-legge che istituiva il carcere duro per i mafiosi e nuovi benefici per i pentiti, altrimenti destinato a decadere.
«La decisione dell’omicidio non può essere stata che collettiva», continuava Cassarà nella ricostruzione del delitto dalla Chiesa, «e le responsabilità necessariamente sono individuabili a vari livelli corrispondenti a quelli degli interessi illeciti che con l’omicidio si è inteso proteggere: esse vanno dall’esecuzione materiale, attribuibile mafiosi, all’istigazione degli imprenditori che con i mafiosi hanno ambigui rapporti economici, fino alle connivenze colpevoli di quei rappresentanti delle forze politiche che dai mafiosi traggono favori elettorali e agli imprenditori collegati procurano lucrosi appalti. In realtà — chiosava il commissario — dalla Chiesa era un personaggio scomodo per molti, come è rilevabile dalle polemiche (reali e presunte) riportate dai mass media fino all’ultimo giorno della sua vita».
I dubbi dei mafiosi
Scomodo al punto che già nel 1979, rivelerà Tommaso Buscetta, quando il generale si occupava di terrorismo, la mafia provò a organizzarne l’uccisione camuffandola da azione delle Brigate rosse. E nel 2001 il capoclan Giuseppe Guttadauro, intercettato dalla polizia, confiderà a un altro mafioso: «Tu partici dall’82… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a dalla Chiesa… Insomma viene questo qua che non ha nessun potere… E che perché glielo dovevamo fare qua questo favore…».
Anche dentro Cosa nostra, quindi, c’era la consapevolezza di complicità che a quarant’anni di distanza restano occulte, e si sottolineavano le «convergenze d’interessi» che hanno determinato la strage di via Carini.
Due anni dopo aver utilizzato quel termine nel suo rapporto sull’omicidio del prefetto, il commissario Cassarà fu a sua volta trucidato a colpi di kalashnikov, il 6 agosto 1985, nel mezzo di un’altra estate di sangue palermitano. L’indomani Falcone e Borsellino furono prelevati con le rispettive famiglie e «deportati» sull’isola-carcere dell’Asinara, poiché altrove lo Stato non era in grado di proteggerli. Rimasero lì il tempo necessario a concludere l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo a Cosa nostra, nella quale tornarono a parlare, a proposito dei «delitti politici» ordinati dai boss, di «singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica».
Ai due giudici istruttori rimanevano sette anni di vita. Durante quel periodo di lavoro isolato, Falcone chiese e ottenne di tornare — superscortato — per poche ore a Palermo: il 3 settembre, per partecipare alla commemorazione del generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, nel terzo anniversario dell’omicidio.
L'omicidio del generale Dalla Chiesa, la rabbia dei palermitani onesti. Roberto Puglisi, Palermo, su Avvenire su l'1 settembre 2022.
Il 3 settembre del 1982, a Palermo, fu un giorno di sangue. Uno dei tanti, dei troppi, rimasti tragicamente iscritti nelle cronache siciliane. In via Isidoro Carini, furono trucidati il prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie, Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta, Domenico Russo. I killer di Cosa nostra, con una tempesta di colpi, trasformarono una strada pacifica in un campo di battaglia. Un attentato realizzato per togliere di mezzo l’uomo che insidiava picciotti e boss.
«Qui è morta la speranza dei palermitani onesti»: qualcuno scrisse queste amarissime parole sopra un cartello che comparve nel luogo della feroce esecuzione. Era un grido disperato. Qualche giorno dopo, un altro grido, carico di forza e ribellione, riecheggiò nell’omelia pronunciata dal cardinale Salvatore Pappalardo, durante i funerali che seguirono la strage. Nella memoria è rimasta impressa la requisitoria del cardinale, imperniata su un passaggio tratto da un brano di Tito Livio: «Mentre a Roma si discute, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo! Come difenderla?».
Il clima era cupo, in quello scorcio di anni Ottanta, nel cuore di una Palermo assediata da una mattanza che non aveva risparmiato coraggiosi oppositori delle cosche. Qualche mese prima, il 30 aprile del 1982, era caduto Pio La Torre, segretario regionale del Pci, autore di incessanti iniziative antimafia, con il suo autista, Rosario Di Salvo. Il generale Dalla Chiesa era stato mandato in Sicilia per ridare certezze e fiducia a una terra ferita. Ebbe poco più di cento giorni a disposizione. Ma la città, dopo la sua morte, seppe reagire. Dal sangue versato nacquero migliaia di voci e di esperienze sul cammino del cambiamento, sulle orme generose di quell’ufficiale dei carabinieri che aveva atteso, invano, i poteri richiesti.
Oggi, a quarant’anni dall’eccidio, il calendario dell’anniversario prevede, tra l’altro, la commemorazione in via Carini, la deposizione di un omaggio floreale e la Messa in Cattedrale che sarà celebrata dall’arcivescovo Corrado Lorefice. Nessuno, tra coloro che vissero la storia come cronaca, ha mai dimenticato le cicatrici che il tempo non ha cancellato. Pino Toro, presidente nazionale dell’Ail, l’associazione italiana contro le leucemie, è un testimone diretto di quelle vicende ed è stato tra le figure forti di "Città per l’Uomo", movimento cattolico impegnato nella trincea dell’antimafia. «Il 3 settembre del 1982 – racconta – tutti, a Palermo, restammo scossi per l’accaduto. Il generale era stato accolto con diffidenza da chi aveva qualcosa da temere, ma godeva di grande popolarità tra la gente. Andava nelle scuole a predicare legalità, parlava alle persone, diceva che avremmo potuto liberarci dai vincoli mafiosi».
Il ricordo delle esequie è, appunto, incancellabile. «L’omelia del cardinale Pappalardo – continua Toro – fu uno schiaffo salutare su cui sbocciò la speranza. Non dovevamo più continuare a subire senza ribellarci. La stessa reazione l’avremmo vista dopo le stragi del ’92. I segnali si moltiplicarono. Nel novembre del 1982, pochi mesi dopo, salutammo la visita a Palermo di Papa Giovanni Paolo II, con gioia, come un evento importantissimo. Sentimmo di non essere più soli».
Salvatore Lupo, storico, professore universitario, studioso di vicende di mafia, illumina il contesto con la sua analisi: «L’omicidio Dalla Chiesa si verificò mentre era in corso il boom del terrorismo mafioso. Il generale era stato inviato in Sicilia per i meriti acquisiti nella lotta contro il terrorismo e perché era comunque un esperto, avendo prestato servizio qui. Già allora maturò l’impressione che, però, non aveva ricevuto tutto il sostegno richiesto da parte del governo. Era un simbolo. La mafia lo elesse, infatti, a simbolo pericoloso e poi lo uccise».
L’imponente risposta collettiva confermò che gli sporchi conti dei boss erano sbagliati. «La speranza non morì – continua il professore Lupo – a caro prezzo, successe esattamente il contrario. Si avviò e si consolidò quel percorso che avrebbe portato al maxi-processo, il vero momento di svolta. La stessa reazione indignata dell’opinione pubblica fu robusta e intransigente. Quel delitto fu uno dei tanti autogol di Cosa nostra che non è mai stata né invincibile, né infallibile. Anche la Chiesa scese in campo senza più ambiguità e i movimenti antimafia che sorsero videro la presenza di tantissimi cattolici militanti. La speranza era rinata».
La profezia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso 40 anni fa dalla mafia. I poteri negati e l’isolamento a cui lo consegnò la Dc e il polipartito di Cosa Nostra: la raggelante premonizione del prefetto di Palermo, ammazzato il 3 settembre 1982. Gian Carlo Caselli su L'Espresso il 2 Settembre 2022.
Il 3 settembre di quarant’anni fa a Palermo, in via Carini, la mafia uccideva il generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo.
Fissiamo alcuni punti.
Prendendo possesso del nuovo incarico , dalla Chiesa scrive nel suo diario di «una Dc che su Palermo vive con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che di potere politico».
Carlo Alberto dalla Chiesa attraverso le sue parole. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera l'1 Settembre 2022.
Il 3 settembre 1982 la strage di via Carini in cui morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’autista Domenico Russo. I suoi pensieri tratti dai suoi Diari e da una celebre intervista a Giorgio Bocca
La strage di via Carini del 3 settembre 1982, nella quale Cosa nostra uccise il generale-prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo, si può ricordare in vari modi. Qui si utilizzano frasi e pensieri dello stesso dalla Chiesa, in prevalenza tratti dai suoi Diari e da una celebre intervista Di Giorgio Bocca su «la Repubblica» del 10 agosto, qualche giorno prima della strage. Ecco dunque le parole di dalla Chiesa, che scolpiscono una figura di straordinaria levatura umana e professionale. E sono parole - in gran parte – ancora attuali.
Sono arrivato a Palermo subito dopo l’omicidio del mio amico Pio La Torre. Mi trovai al centro di un’opinione pubblica che ad ampio raggio mi dava l’ossigeno della sua stima e nello stesso tempo di uno Stato che affidava la tranquillità della sua esistenza, non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome. Che poi la mia opera potesse divenire utile, era tutto lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttami al vento non appena determinati interessi fossero toccati o compressi.
Occorrevano mezzi e poteri adeguati per vincerla, la mafia, occorreva che gli impegni presi dal Governo nel Consiglio dei Ministri del 2.4.82 fossero codificati. Ero venuto a Palermo per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e precedenze. Invece fui tradito. Vi fu come un ritiro delle mie credenziali e mi trovai isolato.
In quei cento giorni a Palermo, sono andato nelle scuole e nei cantieri navali a parlare con i ragazzi, con i loro insegnanti e con gli operai, ricevendo molto da quegli incontri. In quei cento giorni rifiutai invece, sistematicamente, tutti gli inviti (a cene e galà in mio onore) di ambienti altolocati, intuendo che proprio in quei salotti, ci potessero essere anche contiguità e collusioni.
In quei cento giorni ho capito molte cose, alcune molto semplici ma decisive. Si poteva, e si può ancora, sottrarre alla mafia il suo potere. Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti: come ad esempio il lavoro e l’assistenza economica. Occorreva e occorre, oggi più che mai, assicuraglieli questi diritti. Così si toglierà potere alla mafia, e i cittadini invece che suoi dipendenti (sudditi), potranno diventare nostri alleati.
Attenti, perché la mafia non è un «fatto siciliano»: da decenni la mafia sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e industriali. A me interessa conoscere questa «accumulazione primitiva» del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato, e trasformano, in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma deve interessare soprattutto la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci, magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.
È quello che io chiamo il «polipartito», della mafia, per indicarne la profonda compenetrazione con pezzi della politica e dell’economia, una compenetrazione utile e proficua alla mafia non meno che ai i suoi complici occulti. Un mafia che mostra – come sempre - due volti: quello militare e quello della mafia degli affari; che si inabissa per poter meglio consolidare una rete di relazioni al servizio di un business mafioso che avvelena ( senza clamore, ma in modo profondo) l’economia e la qualità della nostra vita.
La mafia militare – anche quando sembra assopita – rimane pronta ad agire. La regola del gioco è sempre la stessa; si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma è isolato. Una regola applicata anche per me il 3 settembre 1982 in via Carini.
Dai brigatisti alla mafia: chi era Carlo Alberto dalla Chiesa, l’uomo che inventò l’anti-terrorismo. Manfredi Alberti su L'Espresso il 2 Settembre 2022.
A quarant’anni dalla morte del generale, ucciso da Cosa nostra con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo, una biografia dello storico Vittorio Coco ne ricostruisce la storia. A partire dall’incontro con Aldo Moro
Gli anni Settanta e Ottanta del Novecento emergono sempre più come terreno di studio da parte di nuove leve di storici, per nulla o poco coinvolte per motivi anagrafici da quel periodo, e forse proprio per questo maggiormente in grado di coglierne le fattezze. Ciò vale sia per l’analisi dei processi economico-sociali, sia per la ricostruzione dei fatti politici e delle biografie dei protagonisti.
Una delle figure più coinvolte nella lotta al terrorismo e alla violenza politica degli anni Settanta e Ottanta è stata quella del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di cui ricorre il 3 settembre il quarantesimo anniversario della morte. Il suo importante ruolo traspare nitidamente nell’ultimo lavoro di Vittorio Coco, storico dell’Università di Palermo, che ha da poco dato alle stampe un volume – Il generale dalla Chiesa, il terrorismo, la mafia, Laterza, Roma-Bari 2022 – che ne ripercorre l’intero percorso biografico. Andando oltre le visioni apologetiche o demonizzanti che si sono periodicamente alternate, il pregio del volume è quello di esaminare la vita di dalla Chiesa sulla sola base delle fonti disponibili, non trascurando di sondare anche quelle circostanze su cui ci sono ancora molte zone d’ombra.
Nato in Piemonte ma di radici emiliane, dalla Chiesa si laurea nel 1943 all’Università di Bari, ed è in quell’occasione che incontra Aldo Moro, docente supplente di Diritto penale. Da giovane tenente dei carabinieri aderisce poi senza esitazione alla Resistenza. Nell’immediato dopoguerra è in Sicilia per indagare sulla morte del sindacalista Placido Rizzotto; vi farà ritorno al comando della Legione carabinieri della Sicilia occidentale, in anni di recrudescenza del fenomeno mafioso, tra il 1966 e il 1973, acquisendo una prima importante esperienza nella lotta contro il crimine organizzato.
Tra il 1974 e il 1975, alla guida di un Nucleo speciale di polizia giudiziaria, dalla Chiesa è in prima linea nel contrasto alle Brigate rosse, delineando un metodo di lotta al terrorismo – mafioso o politico – basato su una conoscenza ravvicinata dell’organizzazione da contrastare, anche attraverso una pratica che si dimostrerà decisiva: l’infiltrazione. Con il tempo tale metodo darà i suoi frutti, e anche in ambito giudiziario si comincerà a sperimentare il criterio della centralizzazione e della specializzazione, rivelatosi cruciale anche sul terreno della lotta alla mafia. Dopo l’assassinio di Aldo Moro, il nuovo ministro dell’Interno Rognoni lo sceglie come «superdetective», essendo l’unico dotato di un’esperienza specifica nel contrasto alla lotta armata di estrema sinistra. Il suo operato in quello snodo cruciale della storia repubblicana, tuttavia, non smette di suscitare ancora oggi dubbi e ipotesi di ricerca, così come la sua richiesta di adesione alla loggia massonica P2, motivata probabilmente dal desiderio di facilitare un percorso di carriera non scontato.
L’ultimo tragico atto della vita di dalla Chiesa è quello più noto. Nella primavera del 1982, lasciata l’Arma dei carabinieri per accettare l’incarico di prefetto di Palermo, dalla Chiesa era perfettamente consapevole non solo delle difficoltà che avrebbe trovato, ma anche dell’ostilità di quanti, a livello locale e nazionale, non avevano alcun interesse a colpire realmente la mafia e i suoi conniventi. A soli tre mesi dal suo insediamento, fu così assassinato in un agguato mafioso. Eppure l’omicidio di dalla Chiesa, preceduto di pochi mesi da quello del dirigente comunista Pio La Torre, pose le basi per la nascita di quel dissenso diffuso verso le istituzioni corrotte che fu un elemento fondamentale della nascita del moderno movimento antimafia, e che avrebbe assestato, a partire dal Maxiprocesso a Cosa Nostra, un colpo durissimo all’organizzazione.
Manfredi Alberti è ricercatore di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali all’Università di Palermo
Dalla Chiesa per chi non c’era: il fumetto del generale eroe. DAMIANO FEDELI su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.
Per Solferino (e in ebook con il «Corriere» digitale) la graphic novel di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte. Progetto di Stato maggiore, Arma dei Carabinieri, Struttura per gli anniversari della Presidenza del Consiglio, il volume andrà nelle scuole a cura dei Carabinieri
L’ultimo fotogramma del film è noto. Una Autobianchi A112 color panna crivellata dai colpi di un Kalashnikov AK 47. Dentro, i corpi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, e della seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, sposata appena due mesi prima. Subito dietro, nell’Alfetta blu della scorta, è stato ferito (morirà 12 giorni dopo) l’agente Domenico Russo. È una scena di guerra quella della sera del 3 settembre 1982, quarant’anni fa, in via Carini a Palermo.
Scene che intere generazioni di italiani hanno ben presenti. Ma che i più giovani rischiano di non aver mai incrociato. È questo il senso dell’operazione ora patrocinata da Stato maggiore della Difesa, Arma dei Carabinieri, Struttura per gli anniversari nazionali della Presidenza del Consiglio: un romanzo a fumetti che racconta la storia di dalla Chiesa, specialmente a chi non c’era. Con il linguaggio visivo dei nostri giorni. Ne è nato il volume Le stelle di Dora. Le sfide del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, graphic novel di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, volume edito da Solferino nella collana Connessioni in uscita il 2 settembre, in occasione del quarantesimo dalla strage di via Carini.
Non solo. Proprio come grande operazione di memoria e di educazione alla legalità dei ragazzi delle scuole superiori, un’edizione speciale sarà distribuita dai comandi territoriali dell’Arma dei Carabinieri in tutte le 11 mila scuole secondarie di secondo grado d’Italia. Infine, la graphic novel sarà disponibile in forma di ebook nell’App digitale del «Corriere della Sera».
Si parte da quell’ultimo fotogramma. E si va all’indietro. Il linguaggio della graphic novel, con lo stile inconfondibile di Rocchi e Demonte, assidui collaboratori de «la Lettura», accompagna i lettori in Montenegro nel 1941, con il giovane Carlo Alberto (era nato nel 1920) sottotenente di fanteria. L’anno dopo lo troviamo alla tenenza dei Carabinieri a San Benedetto del Tronto, dove, dopo l’armistizio del 1943, è attivo nella Resistenza e nel sostegno alla popolazione.
La Dora del titolo è Dora Fabbo, la prima moglie, conosciuta a 18 anni e morta d’infarto nel 1978, madre dei figli Rita, Nando, Simona. Le lettere che il marito le scrive punteggiano tutta la graphic. Dopo la guerra, l’allora capitano viene mandato in Sicilia: i legami tra mafia e banditismo, l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto nel 1948, la lotta ai corleonesi Michele Navarra e Luciano Liggio sono alcuni dei fronti su cui lavora, come viene documentato nel romanzo grafico.
La lotta per la legalità viene portata avanti durante tutta la carriera dall’ufficiale. Che in questo volume illustrato non diventa supereroe ma eroe quotidiano, concreto uomo di Stato. Nome in codice: Dallas. Ritorna a operare in Sicilia più volte, nel 1966 — tra gli altri riconoscimenti, la medaglia di bronzo al valor civile per la sua attività durante il terremoto del Belice del 1968 — e poi in quel fatale 1982, da prefetto. Le tavole di Rocchi e Demonte, con il ritmo di un poliziesco illustrato, lo ritraggono però anche su altri fronti. Come a Torino nella lotta contro il terrorismo e le Brigate rosse (con, tra l’altro, la cattura nel 1974 dei capi storici Br Renato Curcio e Alberto Franceschini), così come negli incarichi negli istituti di prevenzione e pena. Oppure viene disegnato mentre nel 1981 viene intervistato in tv da Enzo Biagi.
Ciaj Rocchi e Matteo Demonte «hanno inteso evidenziare, oltre la sua storia professionale nota ai più, il profilo umano e sentimentale del protagonista, cogliendo quanto quest’ultimo aspetto abbia in effetti incisivamente determinato tutti gli altri», sottolinea in uno degli interventi che corredano il volume il generale Alfonso Manzo, capo del Quinto reparto dello Stato maggiore della Difesa. «A Palermo, in quei cento giorni tra maggio e settembre del 1982, pur nella consapevolezza di andare incontro a un destino ineluttabile, senza trascurare il contrasto operativo alla mafia, riuscì a mobilitare le coscienze di migliaia di operai, di studenti, di vittime della droga, di quei palermitani onesti che videro morire, in quella tragica serata del 3 settembre, la loro speranza», conclude il generale Teo Luzi, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri.
Con i Carabinieri nelle scuole
Una edizione speciale della graphic novel «Le stelle di Dora» sarà distribuita, a cura dei Comandi territoriali dell’Arma dei Carabinieri, a tutte le 11 mila scuole superiori italiane. Il volume è frutto della collaborazione tra Stato maggiore della Difesa, Comando generale dell’Arma dei Carabinieri e Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni - Presidenza del Consiglio.
Giovedì 1° settembre, a Roma (Scuola ufficiali Carabinieri), è prevista la presentazione alle autorità con i due autori, con Emanuele Vietina (Lucca Comics & Games), gli attori Luca Ward e Domitilla D’Amico. Invitati i ministri di Interno, Difesa, Politiche giovanili e Istruzione.
Il delitto il 3 settembre 1982. Chi era Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale ucciso a Palermo in un agguato dalla Mafia. Vito Califano su Il Riformista il 3 Settembre 2021
Era il 3 settembre 1982 quando il generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa veniva ucciso a Palermo, vittima di un agguato mafioso. Nell’attacco morirono anche la moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’agente della scorta Domenico Russo. “La loro barbara uccisione rappresentò uno dei momenti più gravi dell’attacco della criminalità organizzata alle Istituzioni e agli uomini che le impersonavano – ha scritto in una nota il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – ma, allo stesso tempo, finì per accentuare ancor di più un solco incolmabile fra la città ferita e quella mafia che continuava a volerne determinare i destini con l’intimidazione e la morte. A quell’odiosa sfida la comunità nazionale nel suo complesso, pur se colpita e scossa, seppe reagire facendosi forte della stessa determinata e lucida energia di cui Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva già dato esempio, durante il suo brillante percorso nell’Arma dei Carabinieri, nell’impegno contro organizzazioni criminali e terroristiche”.
Dalla Chiesa era nato a Saluzzo, provincia di Cuneo, il 27 settembre 1920. Figlio di un ufficiale dei carabinieri – Romano, di origini emiliane come la madre – che diventerà vicecomandante generale dell’Arma. Proprio come il figlio. La madre si chiamava Maria Laura Bergonzi. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale partecipò alle operazioni militari nei Balcani come sottotenente di complemento. Si laureò in Giurisprudenza e in Scienze Politiche. Al momento dell’armistizio era responsabile della caserma di San Benedetto del Tronto. “Durante l’occupazione nazista – come raccontò in un’intervista a Enzo Biagi ripresa dalla Treccani – dopo essersi rifiutato di prendere parte ad azioni anti-partigiane, collaborò con i gruppi di resistenti nel territorio marchigiano fino alla fine dell’anno, quando riuscì a passare le linee nemiche. Molti anni dopo avrebbe dichiarato che quella resistenziale era stata una delle esperienze più importanti della sua vita, dal momento che ‘mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni’”.
Dalla Chiesa indossò la divisa a 22 anni e ricevette il primo incarico in Campania, destinato alla compagnia di Casoria, Legione di Napoli. A luglio del 1946 sposò a Firenze Dora Fabbo, conosciuta a Bari, figlia di un ufficiale dei carabinieri. E nel 1947, a Casoria, nacque la prima figlia: Rita, cui seguirono Fernando e Simona Maria. Di questi tempi le operazioni contro la criminalità. Entrò a far parte del Corpo di Forze Repressione Banditismo (CFRB) che operava in Sicilia. Gli fu assegnato il comando del Gruppo Squadriglie di Corleone. La sua principale indagine fu sull’omicidio del sindacalista socialista Placido Rizzotto. Alla conclusione delle indagini tornò a Firenze, per passare poi a Como, a Milano e a Torino.
Dal luglio del 1966 assunse il comando della Legione di Palermo. Fronteggiò la cosiddetta “Prima Guerra di Mafia” e fu organizzatore dei soccorsi in occasione del terremoto del Belice, nel 1968, Sicilia Sud-Occidentale. Per il suo impegno i comuni di Gibellina e Montevago lo insignirono con la cittadinanza onoraria. Suo il rapporto dei 114: una mappa dei nuovi e vecchi capimafia siciliana. Per la prima volta, nel documento stilato da Dalla Chiesa, apparivano nomi che sarebbero stati spesso protagonisti di fatti di Mafia, anche negli anni a venire. Quindi il trasferimento a Torino, ambiente caldissimo sul fronte del terrorismo rosso, e quindi promosso a generale venne assunto alla guida della divisione Pastrengo a Milano. Su sua proposta il governo accettò la proposta di contrastare il terrorismo al Nucleo Speciale di Polizia Giudiziaria. Prima di passare a Milano fu assegnato alla guida del Coordinamento del servizio di sicurezza esterna degli Istituti Penitenziari (Sicurpena).
Dora morì nel febbraio del 1978, stroncata da un infarto. “Per il generale il colpo fu durissimo, anche perché riteneva di avere una parte di responsabilità, avendo costretto la moglie a una vita di lontananze prolungate e attese angosciose. Fu da quel momento che iniziò a tenere un diario personale, scritto sotto la forma di lettere a Dora”, scrive ancora la Treccani. Dalla Chiesa fece parte anche di un gruppo di lavoro del ministero degli Interni durante il sequestro di Aldo Moro. Gli fu assegnata dal ministro Virginio Rognoni la guida di una nuova struttura di contrasto al terrorismo. Alla Pastrengo a Milano arrivò nel 1979. Il 19 febbraio 1980, a Torino, fu arrestato il brigatista Patrizio Peci, che divenne il primo e più importante collaboratore di giustizia. A partire dalle dichiarazioni di questi furono arrestati decine di militanti, smantellati i gruppi di Genova e Milano ma una sparatoria in un covo a Genova causò la morte di quattro brigatisti. Le polemiche furono enormi. Dalla Chiesa ammise anche, dopo l’esplosione del caso, di aver fatto domanda di iscrizione alla Loggia massonica P2, su insistenza di un suo ex superiore. Domanda che non aveva però avuto seguito. Dalla Chiesa sostenne e fece pressioni anche per rinchiudere i brigatisti nelle carceri di massima sicurezza.
Fu nominato vice comandante dell’Arma alla fine del 1981 ma nel 1982 andò a Palermo per contrastare la Mafia in qualità di Prefetto. Il momento era drammatico: era in corso la cosiddetta “Seconda Guerra di Mafia”. “Subito dopo avere accettato l’incarico, però, in una lettera al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, Dalla Chiesa non soltanto chiese un impegno più esplicito e concreto a sostegno della sua azione, ma espresse anche preoccupazione sull’ostilità di alcuni ambienti democristiani locali, da lui ritenuti i più legati alle cosche mafiose”, scrive ancora la Treccani.
Pochi giorni prima l’inizio dell’incarico venne assassinato Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista Italiano. “Come nella lotta al terrorismo, anche in questo caso la sua azione procedette su due piani. Sotto l’aspetto investigativo, Dalla Chiesa si interessò all’ascesa dei corleonesi, all’estensione del fenomeno anche alla Sicilia orientale (con la formazione di un asse Palermo-Catania) e alla sua marcata internazionalizzazione. Da un punto di vista psicologico, il prefetto si rendeva conto che, in un contesto caratterizzato da sfiducia e rassegnazione, era fondamentale far sentire la presenza delle istituzioni e sensibilizzare l’opinione pubblica. Nel complesso, però, attorno alla venuta di Dalla Chiesa, in alcuni ambienti sembrava esserci diffidenza, quasi fastidio”.
Dalla Chiesa si risposò: con un’infermiera volontaria, Emanuela Setti Carraro. La sera del 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini a Palermo, un commando affiancò l’auto sulla quale viaggiava la coppia. Il delitto fu subito inquadrato nella corsa al potere dei corleonesi in ascesa, successivamente in una cornice politica più ampia. Il pentito di Mafia Tommaso Buscetta mise in relazione il delitto con quello del giornalista Carmine Pecorelli, che secondo il collaboratore sarebbe stato messo a conoscenza dal Generale dell’intero memoriale di Aldo Moro. Pochi giorni dopo l’omicidio fu approvata la legge Rognoni-La Torre che introduceva il reato di associazione mafiosa.
La storia di Dalla Chiesa è stata anche raccontata in diversi film, come Il generale Dalla Chiesa, diretto da Giorgio Capitani con Giancarlo Giannini nei panni del generale. “Esiste un ‘prima’ e un ‘dopo’ via Carini – ha scritto per questo giornale Alberto Cisterna – che non ha eguali in tanti decenni di lotta alle mafie; perché la predisposizione di un reato di associazione mafiosa – punita come distinta e separata dalla più vetusta associazione per delinquere (articolo 416) – ha segnato un traguardo di definitiva consapevolezza circa la peculiare e specifica minaccia che all’ordine costituito derivava dall’operatività dei clan. Non solo associazioni criminali, ma entità voraci di potere e alimentate da un’insaziabile e, a tratti, incontrollabile violenza. Da questo angolo visuale il sangue versato da Carlo Alberto Dalla Chiesa pesa e molto nella storia, in gran parte ancora da scrivere, della lotta alla mafia”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
100 anni dalla nascita del Generale. Perché la Mafia uccise Carlo Alberto Dalla Chiesa, simbolo eroico della presenza dello Stato. Alberto Cisterna su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Sarebbe riduttivo limitarsi ad annotare l’omicidio del generale Dalla Chiesa nel triste e lungo catalogo dei cosiddetti omicidi eccellenti di mafia. Da quella terribile, lunga contabilità, la strage di via Carini si staglia per due tratti distintivi particolarmente evidenti: il prefetto Dalla Chiesa è stato il funzionario dello Stato più alto in grado a soccombere sotto i colpi della mafia e, poi , circostanza da non poco poi, non era siciliano, al contrario della maggior parte delle vittime individuate da Cosa nostra tra le fila dei propri nemici. Messe insieme le due cose ci restituiscono una cornice anomala, quasi asimmetrica rispetto agli eventi futuri e, soprattutto, rispetto agli omicidi di Falcone e Borsellino, quando praticamente tutto ha avuto fine e i corleonesi si sono condannati a una inevitabile e dura sconfitta. Certo le condizioni politiche e sociali del Paese nel 1982 e nel 1992 erano completamente diverse. L’arrivo di Dalla Chiesa in Sicilia era avvenuto in un contesto di assoluto deserto legislativo e organizzativo sia sul versante della polizia giudiziaria che della magistratura, ancora priva delle complesse e geniali intuizioni di Giovanni Falcone. Il 1992 è, invece, l’anno che segue la straordinaria opera della trimurti Cossiga-Martelli-Falcone con la creazione, praticamente dal nulla, dell’intera legislazione antimafia: dai reparti speciali di polizia alle procure antimafia, con in mezzo un oceano di soluzioni, strumenti, idee rivoluzionarie su pentiti, regime carcerario, intercettazioni. Insomma tutto ciò che funziona (e bene) in Italia ha una sua origine precisa in un pugno di mesi del 1991, quando venne vergata la condanna a morte di Giovanni Falcone, neo direttore generale del ministero di grazia e giustizia. Uccidere un prefetto-generale resta una decisione, come dire, diversa. Mentre l’azione di Falcone suonava come corale, era percepita come politicamente robusta, era appoggiata nei piani alti del potere istituzionale del Paese (Quirinale e palazzo Chigi in primo luogo) e all’estero (la storica amicizia dell’Fbi), era sorretta da un sostegno mediatico solo scalfito dai numerosi e infidi nemici interni alla corporazione, la missione di Dalla Chiesa apparve subito solitaria, isolata, priva di un’adeguata preparazione politica e istituzionale. Un “solo contro tutti” che indusse rapidamente Cosa nostra a percepire la necessità di una drastica e risolutiva eliminazione. L’ uomo era stato e in parte si era anche eretto a simbolo eroico della presenza dello Stato in terra di mafia e come un simbolo doveva essere tolto di mezzo il più in fretta possibile, prima che coagulasse forze e risposte che una Sicilia riottosa non voleva ancora approntare. In questo rapido sguardo sinottico sul decennio 1982-1992 non deve sfuggire, però, che la reazione del legislatore all’eccidio di via Carini risulterà – sul lungo periodo – molto più decisiva o meno blanda di quella che si ebbe dopo la mattanza del 1992. L’uccisione di Dalla Chiesa è l’unico delitto di mafia cui ha fatto seguito una risposta a suo modo rivoluzionaria da parte dello Stato con l’ingresso nel codice penale del reato di associazione mafiosa (articolo 416-bis) e con l’aggiunta della confisca nel catalogo delle misure di prevenzione. Uno spartiacque senza eguali nella legislazione del Paese neppure comparabile a quanto avvenuto dieci anni dopo con la strage di Capaci in cui la risposta più importante giunse dallo Stato-apparato e non dallo Stato-legislatore. È vero che nel 1982 si trattava di novità in gestazione al momento dell’assassinio del generale (il progetto di legge Rognoni – La Torre), ma non era stato sufficiente l’agguato mortale a Pio La Torre, il 30 aprile 1982, a spingere le forze politiche ad approvare le nuove misure tanto auspicate per contenere e reprimere lo strapotere militare, economico e politico delle cosche. Furono, invece, sufficienti dieci giorni al Parlamento per concludere l’iter di quel disegno di legge. Il 13 settembre 1982, a dieci giorni dall’assassinio del prefetto, la nuova legge era stata approvata e una nuova stagione aveva inizio, anche grazie all’impegno di una generazione di magistrati e inquirenti che, proprio dalla morte del generale Dalla Chiesa, aveva tratto la definiva convinzione del delirio eversivo che si era impadronito di Cosa nostra siciliana. Un delirio sanguinoso e in principio inarrestabile, fermato solo con la cattura nel 1993 del capo dei capi e la parabola delle successive collaborazioni di giustizia. Da questo punto di vista esiste un “prima” e un “dopo” via Carini che non ha eguali in tanti decenni di lotta alle mafie; perché la predisposizione di un reato di associazione mafiosa – punita come distinta e separata dalla più vetusta associazione per delinquere (articolo 416) – ha segnato un traguardo di definitiva consapevolezza circa la peculiare e specifica minaccia che all’ordine costituito derivava dall’operatività dei clan. Non solo associazioni criminali, ma entità voraci di potere e alimentate da un’insaziabile e, a tratti, incontrollabile violenza. Da questo angolo visuale il sangue versato da Carlo Alberto Dalla Chiesa pesa e molto nella storia, in gran parte ancora da scrivere, della lotta alla mafia. Quando sarà calata la nebbia agiografica e mitologica che tuttora avvolge e ottenebra le vicende di quegli anni si dovrà pur porre mano a un’attenta ricostruzione dei canali di “collusione divergente”, sia politica che istituzionale, che hanno indotto i corleonesi allo scontro armato con lo Stato, facendo balenare loro il sogno di una vittoria impossibile. In fondo nel 1982 e nel 1992 quei boss tanto celebrati hanno commesso due errori fatali di sottovalutazione e di calcolo, guadagnandosi praticamente da soli le porte dell’inferno carcerario in cui, uno alla volta, si stanno dissolvendo. Le “menti raffinatissime” vicine a Riina e ai suoi li hanno spinti a uno scontro totalmente senza speranza di successo sia nel 1982 che nel 1992, illudendoli di una supremazia che li ha divorati in poco tempo. Resta da comprendere fino in fondo chi abbia sostituito gli sconfitti e quali sembianze abbia assunto la mafia siciliana liberatasi per sempre dei sanguinari viddani, scesi da Corleone con un delirio da realizzare.
Nel ricordo di Dalla Chiesa, un pensiero ai veri eroi e ai “professionisti dell’antimafia”. Alessandro Butticé su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Il 3 settembre si è celebrato il trentottesimo anniversario della strage di Via Isidoro Carini, teatro del barbaro martirio per mano mafiosa del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, di sua moglie, Elisabetta Setti Carraro, e della guardia scelta della Polizia di Stato Domenico Russo, che seguiva l’A112 guidata dalla giovane signora. Si è detto e scritto tanto su quel tragico evento, che eliminò, assieme ad altre due vittime – una del dovere, l’altra dell’amore – chi era stato capace di sconfiggere il terrorismo brigatista. Con metodi, secondo alcuni, sicuramente da emergenza nazionale. Ma che non ha avuto lo stesso tempo, gli stessi mezzi e la stessa fortuna per affrontare un altro non meno pericoloso pericolo per il Paese: quello della Mafia. Al di là di ogni lettura ed interpretazione di quell’eccidio, per molti aspetti ancora non chiari, resta il fatto che esso rappresentò un momento storico della lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso nel nostro Paese. Tra i tanti commenti letti in questi giorni sui media e sui social, mi ha colpito particolarmente quello postato su Facebook da Alfredo Musumeci, che è un generale in congedo della Guardia di Finanza. Quella stessa Guardia di Finanza che, per la cronaca, attraverso due suoi militari richiamati dagli spari nella propria caserma che aveva sede in piazza Sturzo, distante poche decine di metri dall’eccidio, fu la prima forza di polizia ad intervenire. ‹‹Oggi è l’anniversario della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – scrive il generale Musumeci – e ricordo che quando accadde ero ancora giovanissimo comandante di tenenza in quel di Termoli, in Molise. Nell’apprendere la notizia non ne compresi neppure da lontano la reale portata. La mafia non era ancora sulle bocche di tutti allora. Sono passati trentotto anni e oggi tutti parlano di mafia e di mafie. Per dirla citando un grande siciliano quale Sciascia, ne parlano “uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà”. E molti, forse, anche oggi lo ricorderanno, il generale Dalla Chiesa, con il solito déja vu: festival di commemorazioni e di parole qua e là sull’eroe e sull’uomo dello Stato vittima del dovere e di mani assassine. Parole che scivoleranno sulle coscienze come un film e, dopo i titoli di coda, tutto tornerà come prima. E non va bene. Non vanno bene le commemorazioni e i fiumi di parole alate se, poi, le coscienze e i comportamenti collettivi non cambiano. Con tutto il rispetto per i caduti, è proprio questa la vera questione. Crogiolarsi nei riti, continuare solo a celebrare i martiri e gli eroi è il tragico segnale di qualcosa che non va. Vuol dire che ci sono un Paese e una realtà che non girano come dovrebbero e in cui non tutti fanno ciò che sono chiamati a fare. E il vero sogno da realizzare dovrebbe essere, invece, proprio quello: un Paese reale fatto di sane e oneste normalità che, giorno per giorno, costruiscono una vita reale di sana e onesta normalità e in cui non c’è più bisogno di santi, martiri ed eroi. Perché se c’è bisogno di quelli vuol dire che la realtà è molto malata. E che i più non vogliono neppure farla guarire››. Pur nel rispettoso ricordo di un eroe come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e degli altri due martiri trucidati assieme a lui, come si può dare torto a Musumeci? Troppe lacrime di coccodrillo, versati per altri eroi, discreti e silenziosi, come i Falcone, i Borsellino e i Chinnici, e troppi «professionisti dell’antimafia» ho visto nella mia vita. Come troppe carriere di magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, giornalisti e politici costruite immeritatamente sul sangue di autentici martiri ed eroi. Coi quali nulla hanno a spartire, se non le foto a volte indegnamente e pomposamente esposte nei loro uffici. Mi è persino capitato di conoscere magistrati padani che, per aver prestato servizio solo qualche mese (sì, mesi, non anni!) in una procura della Repubblica siciliana, si sono presentati in Europa come magistrati antimafia. Cosa che avrebbe fatto sicuramente sorridere Giovanni Falcone, che era solito sostenere che ‹‹solo un siciliano intriso di sicilianità può comprendere il fenomeno mafioso e combatterlo››. Ma in Europa a volte basta solo essere siciliano (se non semplicemente italiano) per essere qualificato «mafioso». Così come altre volte basta solo essere magistrato italiano (magari di Trento, Bolzano, Torino o Aosta) per potersi presentare col pedigree di «magistrato anti-mafia». Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto di chi li sa vedere e valutare. Onore quindi ai veri Eroi e Martiri della Repubblica, come il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sognando però un Paese normale. Che, come ammoniva Bertolt Brecht, non abbia bisogno di eroi, ma che sappia anche riconoscere e sbeffeggiare i falsi «professionisti dell’Antimafia» assieme a troppi autoproclamati eroi. Di cartone.
Adriano Scianca per la Verità il 14 settembre 2020. Per combattere un criminale devi pensare come lui. Quante volte lo abbiamo sentito dire nei polizieschi americani? Fuori dall'orizzonte della fiction, è esattamente così che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa impostò la sua guerra al terrorismo, quando, negli anni Settanta, creò il Nucleo speciale antiterrorismo. «Da oggi», disse, «nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. I nostri reparti dovranno vivere la stessa vita clandestina delle Brigate rosse». Così nacquero i «monaci», come venivano chiamati, del Nucleo speciale antiterrorismo. La vicenda, poco nota, di questo reparto speciale, è narrata nel recente Il coraggio tra le mani, del giornalista Emiliano Arrigo (Historica). Il saggio è in realtà un lungo colloquio con Nero, uno dei componenti del Nucleo speciale antiterrorismo. «Posta la specificità del mondo dell'eversione nazionale», spiega nella prefazione il generale Mario Mori, uno dei protagonisti di quell'avventura, «Dalla Chiesa comprese che era assolutamente necessario creare una struttura a sé stante, costituita da "investigatori nuovi", che a una formazione professionale adeguata, potessero aggiungere esuberanza e freschezza operativa, perché integrati nella cultura giovanile dell'epoca; lo stesso ceppo quindi da cui originavano gli esponenti delle formazioni eversive, sia di destra che di sinistra. Certamente una tipologia di militari dell'Arma un po' fuori dai canoni tradizionali». Pensare come il nemico che si vuole combattere, appunto. C'era però anche un altro motivo che spinse i vertici dello Stato a cambiare approccio al terrorismo: la presenza, in seno alle organizzazioni eversive, di vere e proprie centrali di controspionaggio. I brigatisti si informavano, facevano indagini, compilavano dossier, pedinavano. Sapevano tutto, per esempio, degli uomini della Digos. Era quindi importante che non sapessero nulla degli agenti speciali che dovevano dar loro la caccia. «Era fondamentale», racconta Nero, «che nessun brigatista vedesse chi entrava o usciva dalla sezione e, soprattutto, nessuno di loro doveva vedere chi avevamo a bordo con noi. Pertanto, una nostra auto usciva in anticipo rispetto a tutte le altre, bonificava il territorio circostante e, dopodiché, se tutto era tranquillo, via radio si dava l'okay per l'uscita degli altri mezzi. E stesso discorso avveniva quando dovevamo rientrare in sezione». Per la medesima ragione, nessun agente poteva portare in caserma parenti o amici. E gli stessi componenti del gruppo erano scelti tra carabinieri che non avessero svolto in precedenza altre mansioni «al pubblico»: non si poteva certo rischiare di mettere alle calcagna di un terrorista lo stesso agente che qualche anno prima aveva raccolto la denuncia dell'estremista per una carta d'identità smarrita...Fra agenti e brigatisti si instaura una sorta di partita a scacchi, in cui oltre alla preparazione militare è essenziale anche la strategia, la furbizia, l'inventiva. Nel libro, Nero parla per esempio dell'arresto di un estremista che fu raccontato ai media in modo sensibilmente diverso da come in realtà era avvenuto: «Si disse che l'arresto era avvenuto nell'ambito delle attività di controllo della metropolitana finalizzata al contrasto della criminalità comune». A che scopo introdurre il particolare della metropolitana, se non era vero? «Perché volevamo indurre i brigatisti a non utilizzare la metropolitana visto che a quei tempi le nostre apparecchiature radio lì sotto erano pressoché inutilizzabili», spiega l'ex agente. Anche i pedinamenti dovevano tener conto della capillare opera di controspionaggio messa in campo dalle Br: «Noi», spiega l'ex agente speciale, «potemmo disporre di targhe di copertura, cosicché, se i brigatisti avessero sospettato di essere pedinati e avessero registrato le nostre targhe, non sarebbero comunque potuti risalire al vero proprietario. Inoltre, grazie ai nostri colleghi sparsi su tutto il territorio nazionale, potemmo contare anche sulle targhe di qualunque città. Ad esempio, se per una operazione si andava a Rieti, avevamo a disposizione le targhe di Rieti. Se si andava a Frosinone, avevamo le targhe di Frosinone. E così via». A un certo punto, il Nucleo speciale antiterrorismo arrivò a disporre di un proprio taxi fasullo, una Fiat Ritmo gialla di volta in volta guidata da un agente differente, per la disperazione di quanti si sbracciavano per prenotare la corsa di fronte a un taxi che sembrava sempre fuori servizio e che girava per la città cercando ben altro che clienti.
Maria Berlinguer per la Stampa il 4 settembre 2020. «Rita, mi diceva, se una macchina ti segue per due isolati volta all'improvviso e vai in una delle caserme più vicine. Giravo con una mappa di Montesacro, il quartiere dove abitavo allora e due volte ho avuto davvero paura. Mia sorella invece dovette essere trasferita nella notte da Torino a Catanzaro con il marito e la bambina, l' amica che la ospitava ricevette una telefonata minatoria da un brigatista, "sappiamo che la Dalla Chiesa è lì da lei, le consigliamo di allontanarla, sappiamo dove va a scuola sua figlia". Papà ha sempre cercato di proteggerci ma certo non ho avuto una gioventù spensierata e mi fa ancora rabbia ripensare al clima di connivenza e simpatia di certi ambienti intorno ai brigatisti. Mio padre, che pure aveva fatto la Resistenza, veniva dipinto come fascista». Il 3 settembre cade l' anniversario della strage del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della giovane seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, assassinati dalla mafia a Palermo nel 1982, una strage per certi versi annunciata dal silenzio che vertici militari e politici avevano fatto intorno al prefetto di Palermo. A cento anni dalla nascita del padre, Rita Dalla Chiesa ci regala un ritratto familiare del generale che ha combattuto in prima linea terrorismo e mafia con Il mio valzer con papà (Rai libri).
Cosa l' ha spinta a scrivere proprio ora?
«Mi è stato chiesto di farlo. Di libri su papà ne sono usciti tanti. Volevano il ritratto di una famiglia cresciuta in caserma, spesso costretta a cambiare città. I ricordi di una ragazza adolescente e ribelle come sono stata. Ho accettato a patto di ricostruire insieme alla storia famigliare anche il clima di quei terribili anni. Chi non li ha vissuti non può sapere cosa sono stati. Anni nei quali potevi perdere la vita solo facendo la fila alla posta. Sparavano a un simbolo, una divisa, non a un uomo. Anni cupi, di piombo. E non solo per la mia famiglia».
Qual è il ricordo più forte?
«Ho visto pochissime volte piangere mio padre. L' ha fatto quando le Br hanno giustiziato Roberto Peci per punire il fratello che stava collaborando. Papà con Patrizio aveva costruito una relazione di affetto, in carcere gli portava dei libri, lo considerava un ragazzo che aveva sbagliato ma recuperabile. L' esecuzione di Roberto, che con le Br non c' entrava niente, è stata una vera vigliaccata. Quando è morta mia madre il vescovo di Torino ha detto "Dora Dalla Chiesa è solo l' ultima silenziosa vittima del terrorismo". E pure c' era chi aveva atteggiamenti ambigui, in certi salotti intellettuali si pensava che i terroristi fossero solo ragazzi, non assassini».
Come si erano conosciuti i suoi genitori?
«A Bari in caserma, erano entrambi figli di carabinieri, uno generale, l'altro colonnello. Papà aveva 18 anni, mamma 15. Dopo l'armistizio papà, che era un liberale si è unito alla Resistenza. Si sono sposati dopo la guerra. Il loro è stato un grandissimo amore. Mamma era tutto per papà, la sua roccia, la sua cassaforte. L' unica a cui confidava i segreti, ha continuato a scriverle tutte le sere una lettera, anche dopo la sua morte. Nei diari che poi mio fratello Nando ha consegnato a Giovanni Falcone emerge la solitudine di papà. Non è stato mai amato né dai militari né dai politici. Era troppo libero. Non guardava in faccia nessuno. Quando tornò a Palermo Giulio Andreotti lo mandò a chiamare. Papà gli disse chiaro che non avrebbe avuto pietà se avesse trovato collusioni nella dc siciliana. Andreotti, scrive papà nei diari, gli disse "stia attento, chi si mette contro quelle correnti normalmente si trova con i piedi stesi". Ma non gli rispondevano al telefono neanche Spadolini, Rognoni e De Mita. Quando arrivò a Punta Raisi non c' era nessuno ad aspettarlo. Per la prima volta lo vidi preoccupato».
Che tipo di padre era?
«Molto affettuoso, quando entrava a casa cambiava sguardo. In un ultimo biglietto, quasi premonitore, ci ha scritto "Voletevi bene sempre, come ora". Amava la musica, adorava Mina e Celentano, Azzurro era la sua canzone. Era un appassionato di Renata Tebaldi e cercava di convincermi che fosse da preferire alla Callas. Ascoltava anche i cantautori. E' stato il primo uomo a regalarmi delle rose, l' ha fatto ogni anno il 22 giugno, il giorno del mio onomastico. Credeva molto nella famiglia. Quando mi sono separata dal padre di Giulia non mi ha parlato a lungo. Si è come spento quando è morta mamma. Viveva in una stanza blindata sulla Salaria. Finiva tardi di lavorare e spesso trovava chiusa la mensa dei carabinieri. I suoi uomini gli lasciavano un po' di latte e della frutta in camera. Poi è arrivata Emanuela, un raggio di sole nella sua vita, anche se io ne sono stata gelosa, lo confesso».
Cioè?
«Ero innamorata di mio padre, quando è comparsa questa bella ragazza che aveva la mia età mi sembrava impossibile. Ma fui la prima a dirgli che non poteva vivere una relazione clandestina, "se vuoi sposala, parlo io ai fratelli". Papà non voleva che Emanuela andasse subito a Palermo con lui perché percepiva il pericolo. Povera Emanuela, assassinata a neanche due mesi dal matrimonio».
Dagospia il 29 settembre 2020. Da "I Lunatici Radio2". Rita Dalla Chiesa è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Rita Dalla Chiesa ha parlato del centenario della nascita del papà, Carlo Alberto Dalla Chiesa, e del libro "Il mio valzer con papà", edito da Rai Libri: "L'ho scritto perché mi sono meravigliata a pensare che papà avrebbe compiuto cento anni e perché la Rai mi ha chiesto di parlare di mio papà, più che del Generale. I proventi andranno tutti agli orfani dei carabinieri che sono morti in servizio. Mio padre era molto geloso, la gelosia è di famiglia. Io ero gelosa di lui e lui era geloso di me. Mi teneva lontane le persone che tentavano di avvicinarsi, qualunque corteggiatore arrivasse papà diceva sempre che non era quello giusto per me. Da ragazza uno vorrebbe vivere come vedeva vivere gli altri, io mi rendevo conto che trascorrevo una vita diversa. Vivere in caserma era bellissimo, era sempre aperto, non c'era bisogno di chiavi o di allarmi. Alle volte però mi ribellavo, perché tante cose che una ragazza vorrebbe fare non erano possibili. Quando ho deciso di fare la giornalista, però, mio padre è stato contento. Condivideva il tipo di vita che avevo cercato intraprendere. Da quando ero piccola ho amato scrivere. Scrivevo con mio fratello il giornalino della caserma, su un foglio di carta, una cosa che era soltanto nostra. Ho sempre avuto voglia di raccontare. I compleanni? Papà è sempre stato un Generale impegnatissimo ma anche un padre che era sempre presente. A modo suo, rubando i minuti, ma c'è sempre stato. Ricordo i primi fiori, delle roselline rosa, ricevuti da piccolissima. Me li regalò lui. Abbiamo fatto una vita particolare, mai la stessa casa per più di due anni, non invidio mai nulla ad esempio, ma invidio le persone che sono riuscite a portarsi una amicizia dai banchi di scuola. Io invece dovevo ricominciare sempre tutto dall'inizio. La cosa bella dei continui trasferimenti, invece, è che ho visto tutta l'Italia". Ancora Rita Dalla Chiesa: "Ho lasciato il cuore a Milano, mi è piaciuta tantissimo Ancona, avevamo una casa in collina e mi ricordo che tutte le sere mi affacciavo a guardare il mare e passavano sempre i treni diretti verso la Puglia. Adoro il treno, il suo rumore non mi dà fastidio, anzi. Mi piacerebbe ancora abitare vicino a una ferrovia. Il fatto di aver cambiato continuamente città ti dà la sensazione di appartenere a tutte le città. Io cambierei casa continuamente". Sul tre settembre del 1982: "C'è un dolore sordo che è dentro e non se ne va. Inizio a star male prima del tre settembre, divento nervosa, mi chiudo a riccio, non voglio vedere nessuno. Il 31 agosto è il giorno del mio compleanno e ricevevo sempre la telefonata di mio papà, che però quell'anno non è arrivata, perché c'era rimasto male perché non avevo mandato mia figlia Giulia a Palermo. Non l'avevo mandata perché da madre sentito che non dovevo mandarla. Purtroppo avevo ragione io. Mio padre mi ha chiamato il 3 settembre mattina, mi aveva raccontato che il Ministro Formica era stato a Palermo, avevamo parlato abbastanza. Ci siamo salutati dicendoci che ci saremmo risentiti domani e invece no, perché la sera lo hanno ammazzato. Vivere una dimensione pubblica del dolore certamente fortifica. Quando siamo andati a Palermo dopo che papà era stato già sepolto, per togliere tutti gli affetti personali di papà, abbiamo trovato un muro di fotografi. Avevo capito che la mia vita non sarebbe più stata la stessa. Mio padre era molto amato in tutta Italia. E' stato l'unico non siciliano ad essere stato ucciso in Sicilia, per la Sicilia. Era di Parma, si è trovato a combattere la mafia in Sicilia. Purtroppo il cancro della mafia esiste ancora, ora si è diffuso in tutta Italia, non è più un fenomeno solo siciliano". Rita Dalla Chiesa ha aggiunto: "Ho vissuto un pezzo della storia italiana molto importante e pesante. Ho vissuto gli anni di piombo, la mafia, i grandi uomini con i quali mio padre è venuto a contatto, che sono poi stati uccisi. Falcone, Borsellino, Chinnici. L'altro giorno sono stato al matrimonio del nipote di Chinnici, che si è sposato e che ora indossa la divisa dei carabinieri in onore di mio padre. Quando me l'ha raccontato mi sono messo a piangere. C'è un filo che ci lega ai Falcone, Borsellino, Chinnici, Mattarella. Ne ho conosciute tante di queste persone, sono passata attraverso tutti questi dolori. Ho vissuto cento vite in una vita sola". Ancora sulla fine del Generale Dalla Chiesa: "Non ha fatto in tempo a fare arrivare i suoi uomini a Palermo. E' arrivato a luglio ed è stato ucciso il tre settembre. All'epoca era tutto molto rallentato, avrebbe voluto i suoi uomini a Palermo, gli aveva mandato la richiesta, chi aveva risposto di sì non ha fatto in tempo ad arrivare. Quando aprimmo la cassaforte di papà, dopo la sua uccisione, trovammo una scatola vuota. Volevano metterla a tacere questa cosa. Ci sono intercettazioni di Riina dove lui dice che lo facevo ridere. Abbiamo dovuto convivere con una società che da un lato ci era vicina e ci aiutava, ma dall'altro abbiamo dovuto anche con la malavita, con dei mafiosi che continuavano e continuano a sbeffeggiare e delegittimare mio padre. E' stata una battaglia continua. Mio fratello ha dedicato tutta la sua vita a scoprire cosa fosse davvero successo". Sui suoi sentimenti: "I mafiosi mi fanno pena, sono dei poveracci. Non hanno neuroni. Non li odio. L'odio non fa parte della mia mentalità. Però non perdono. Ricordo tutto e tutti. Non perdono, ma è una cosa diversa dall'odiare".
Ci insegnò cosa fare quando si scopre un covo". 100 anni dalla nascita di Dalla Chiesa, il ricordo di Mario Mori: “Rivoluzionò il modo di fare indagini”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Ventisette settembre, cento anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Personalità unica tanto da assurgere oggi al ruolo antonomastico (“Qui ci vorrebbe un Dalla Chiesa”…), guadagnò sul campo di battaglia tutti i gradi, passando da giovane brigadiere di Corleone a Generale di Divisione dei Carabinieri, e divenne il primo Prefetto in divisa di Palermo. Sarà lì, dopo soli cento giorni dall’insediamento, che Dalla Chiesa sarà barbaramente trucidato a colpi di kalashnikov da un commando mafioso agli ordini di Totò Riina, la sera del 3 settembre 1982. Il boss, conquistato il vertice della cupola di Cosa nostra, sarà arrestato nel 1993 proprio dal braccio destro di Dalla Chiesa: il generale Mario Mori, comandante del Ros. Il più stretto collaboratore di Dalla Chiesa, poi Direttore dei Servizi segreti (Sisde), racconta al Riformista il Dalla Chiesa privato, in un ritratto inedito. Chiamiamo il Generale Mario Mori, la linea è disturbata da un sottile rumore metallico. La conversazione si interrompe. Richiamiamo. Mori scherza: «Sono i servizi deviati, non ci faccia caso».
Dev’essere il maltempo, la linea è disturbata.
«È tanto che è disturbata, la linea… ma andiamo avanti. Vuole sapere come definire il Generale Dalla Chiesa? Partiamo con una domanda difficile. Dalla Chiesa è indefinibile. Una personalità particolare, unica».
Da che punto di vista?
«È difficile inquadrarlo. Una presenza eminente, carismatica. Mi sembrava una sintesi tra una personalità di tipo ottocentesco e un manager di ultima generazione. Noi gli davamo tutti i soprannomi più disparati. Scherzando, nella squadra, lo chiamavamo Egli. Prendendolo un po’ in giro, come fosse un Padreterno. Quando eravamo un po’ incazzati lo chiamavamo Khomeini. Sempre con tanto rispetto, sia chiaro».
Cosa aveva di ottocentesco e cosa del manager moderno?
«Aveva uno stile non militaresco ma certo militare. E un linguaggio che non era desueto ma ricercato. Certamente non comune. Un linguaggio colto, come la sua scrittura, sempre molto puntuale. L’approccio nei nostri confronti era distaccato ma mai freddo. Severo. Era un uomo severo, anche e forse soprattutto con chi gli stava più a cuore. Mai scortese».
Un uomo che ha attraversato la storia, si è unito alla Resistenza, è stato ricercato dai nazisti, poi ha combattuto il terrorismo e infine la mafia…
«Ed è rimasto brillante, affascinante. Per molte signore, incluse le nostre mogli, era il più affascinante».
E sul lavoro?
«È stato un professionista impeccabile, un grande precursore. Un manager della sicurezza nel senso moderno. Rispetto ai suoi pari grado, ai generali come lui, era avanti di venti o trent’anni».
Un innovatore, quindi.
«Aveva una modernità intellettuale con cui affrontava il livello strategico della problematica operativa. Era svincolato dalla prassi della ripetitività del quotidiano, dalle abitudini. Sapeva mettere la flessibilità al centro, muovendo verso l’obiettivo in modo policentrico. Ci insegnò a non perseguire una sola idea fissa e a dubitare fino all’ultimo delle certezze, mettendo semmai in campo più ipotesi contemporaneamente».
Inventò il Ros, forse anche indicando una rotta che anni dopo ispirerà la nascita del Pool antimafia. Selezionò una “prima squadra” da dedicare al solo contrasto mafioso…
«Sì, seppe dedicare ai grandi fenomeni di criminalità mafiosa la stessa attenzione che fino a allora lo Stato aveva rivolto al terrorismo. E stata l’intuizione che non si poteva contrastare questi fenomeni così specifici se non si disponeva di una avanguardia di personale particolarmente preparata al contrasto, ovviamente scegliendo gli uomini che per propensione e preparazione potevano essere i più idonei a farlo, questo contrasto».
Qual era il principio?
«Il suo concetto era questo: quando c’è un fenomeno nuovo di grandi dimensioni, che non è la solita criminalità, bisogna affrontarlo con gente specializzata che individui le caratteristiche del gruppo e della struttura criminale e la combatta. Quando poi avremo inquadrato questo fenomeno, allora potranno subentrare tutte le forze di polizia, perché prima c’è bisogno di impostare le investigazioni in un certo modo, e quando il quadro è chiarito si estende la partecipazione a tutte le forze di polizia. Ma l’investimento andava fatto sugli “specialisti”, come allora ci chiamavamo».
Con quali caratteristiche venivano svolte le indagini?
«L’osservazione, insieme al controllo, al pedinamento e alla conoscenza di tutta la cultura del “nemico” era uno dei punti centrali delle investigazioni di Dalla Chiesa. Ero con lui nel 1978, per la prima volta. Per contrastare le Brigate Rosse lui fu il primo a chiederci di entrarvi nel merito. Ci disse di studiare tutto, di ripetere ad alta voce i loro slogan. Di masticare la loro ideologia, per provare a intuire dove andavano a parare, a colpire, e magari anche a nascondersi. Un metodo immersivo, si direbbe oggi».
Entrare in contatto mentale con il nemico.
«La sua convinzione era che bisognava conoscere e possibilmente anche usare il vocabolario e le tecniche degli avversari per essere in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse: “Sapere il più possibile dell’avversario, far sapere il meno possibile di noi”».
Per sapere qualcosa in più di voi: è vero che le sue squadre diventavano una famiglia?
«Non ci voleva mai mollare. La sera si faceva il punto della situazione e si rimaneva a cena insieme. Quando eravamo fuori ci offriva anche il pranzo. Ma seduti a tavola si continuava a lavorare, ci si scambiava informazioni».
Erano cene importanti, strutturate?
«Andavamo a mangiare una pizza. Quasi sempre pizza. Dovevamo stare leggeri, sobri nel mangiare e ancora di più nel bere. Si faceva il punto della giornata e il briefing per quella successiva. E ci davamo i tempi delle indagini, dei filoni, che sapevamo essere asimmetrici».
Cosa vuol dire? Non necessariamente i più brevi?
«Non necessariamente. Dalla Chiesa ci diede questa impostazione, che io ho poi fatto mia: quando si individua il covo di un ricercato, si dedica tutto il tempo necessario all’appostamento e alle osservazioni. Si disegna tutto il tracciato sotterraneo dei suoi contatti. E si decide di intervenire solo in base a un ragionamento bilanciato tra opportunità e rischi. Perché ogni pedina porta a un’altra. Noi non abbiamo mai avuto il compito di fermare il singolo ma di individuare tutta l’articolazione delle organizzazioni criminali».
Questo ha portato in alcuni casi a polemiche e anche a qualche procedimento giudiziario.
«Abbiamo agito sempre nell’interesse delle indagini, come è stato appurato. Se tu scopri che ci sono sedici terroristi in una determinata area, ci insegnò Dalla Chiesa, non ne devi arrestare sedici. Ne arresti dodici, al massimo tredici. Perché quei tre che rimangono andranno in fibrillazione, contatteranno il resto dell’organizzazione e solo seguendoli e intercettandoli puoi arrivare alla fine ad arrestarli tutti».
Ha fatto l’esempio dei terroristi. Vale anche per Cosa Nostra, per Riina?
«Quando abbiamo arrestato Riina lo avevamo nel mirino, lo abbiamo seguito per un po’, sapevamo che ci avrebbe condotti ad altri. Come è noto, il capitano De Caprio è entrato in azione quando è stato più opportuno farlo. Era un pesce troppo grosso per rischiare. Con la tecnologia di oggi si possono fare molte più cose, inclusi i pedinamenti satellitari, i filmati infrarossi da lunga distanza, anche di notte. Ma il successo, quando si indaga, sta sempre nella testa degli uomini che comandano. E di Dalla Chiesa ce n’è stato uno solo, in Italia».
Perché è stato ucciso, arrivato da poco a Palermo?
«Ci sono state tante ipotesi. Quello che è certo, è che è stato il commando mafioso su mandato di Riina. Nelle condizioni in cui Dalla Chiesa era stato mandato a combattere in Sicilia, la condanna a morte da parte di quell’ignorante e della sua banda è segno di una grande sopravvalutazione».
Ci spieghi meglio.
«Dalla Chiesa aveva un nome e un prestigio che gli derivavano dal suo passato, ma i poteri che aveva a Palermo erano limitati. Non aveva gli strumenti che gli servivano. Dalla Chiesa si rendeva perfettamente conto di essere finito in un vicolo cieco, in una condizione in cui non poteva rendere quanto potenzialmente avrebbe potuto rendere».
È stato sovraesposto, alla fine?
«Non era in grado di svolgere un mandato di ampio potere, come quello con cui avrebbe potuto davvero contrastare le mafie, come si aspettava la pubblica opinione. Se ne rese conto, non mancò occasione di chiedere al governo una forza che non gli arrivò mai. “Il Prefetto di Palermo ha gli stessi poteri del Prefetto di Forlì”, fece rispettosamente notare. Quando morì era un uomo amareggiato. Straordinario, esemplare, ma come spesso accade agli eroi, solo».
«Risarcire i figli di Dalla Chiesa con i fondi per le vittime della mafia». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. È già suonato il tempo scaduto per la prescrizione decennale dell’azione civile, sosteneva il ministero dell’Interno tramite l’Avvocatura dello Stato: e argomentava che i tre figli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso dalla mafia nel 1982) dovessero chiedere il risarcimento civile dei danni non patrimoniali solo al condannato boss Calogero Ganci (che però è nullatenente), e non avessero invece diritto di azionare anche la responsabilità solidaristica del «Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso», istituito dalla legge del 1999 appunto presso il Viminale ma con teorizzato accesso solo entro i limiti delle (scarse) disponibilità finanziarie annuali. E in primo grado nel 2018, davanti al Tribunale civile di Milano, il ministero si era visto dare ragione. Ma ora la II Corte d’Appello civile ribalta il diniego, e condanna il «Fondo», in solido con Ganci, a risarcire 400.000 euro a testa a Nando, Maria Simona e Rita Dalla Chiesa. Per l’omicidio del generale dei carabinieri assassinato da Cosa Nostra a Palermo in via Isidoro Carini la sera del 3 settembre 1982 con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, il 7 marzo 2003 era stato condannato, in concorso con Giuseppe Lucchese, il boss del quartiere «Noce» — e poi dal ‘96 collaboratore di giustizia — Raffaele Ganci, con sentenza che (divenuta definitiva l’11 maggio 2006) riconosceva nel contempo il risarcimento dei danni affidato a un separato giudizio civile, salvo una provvisionale subito di 60.000 euro. I giudici civili milanesi ora escludono che l’azione dei figli di Dalla Chiesa fosse già prescritta, obiettando al Ministero che essi non avrebbero potuto chiedere l’accesso al «Fondo» prima, in quanto prima non avrebbero ancora avuto i requisiti richiesti dalla legge. E accogliendo la lettura di taluni precedenti proposta dai legali Giuseppe Fornari e Maurizio Orlando, la Corte d’Appello osserva che, «in assenza di una norma che specificatamente impedisca al danneggiato di agire nel medesimo giudizio contro l’autore del reato, nulla osta che il “Fondo” sia condannato in solido con il reo», e «anzi ciò risponde a minimali esigenze di economia processuale» perché «per tutti agevola la difesa in unico contesto». Rimossi questi due principali ostacoli procedurali, è poi più semplice la valutazione della risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale: «È indubitabile», scrivono infatti il presidente estensore Walter Saresella e i consiglieri Letizia Ferrari da Grado e Elena Grazioli, come i figli di Dalla Chiesa «in età ancora giovane abbiano subìto gravi sofferenze a seguito della tragica perdita del padre, eminente esponente delle istituzioni e ineludibile punto di riferimento e di impegno sociale per tutta la famiglia»; e abbiano patito «l’irreversibile distruzione del sistema di vita basato sull’affettività e sulla condivisione dei rapporti reciproci, sostituiti inconsultamente da vicende mediatiche non ricercate e potenzialmente devastanti». La quantificazione avviene in via equitativa sulla base dell’importo massimo (331.000 euro) previsto dalle tabelle dell’«Osservatorio 2018 sulla giustizia civile di Milano», maggiorato sino a 400.000 a testa (al netto dei 60.000 della vecchia provvisionale) per «l’efferatezza e gravità del crimine, la finalità, la risonanza mediatica, l’ampia fascia temporale richiesta per identificare i colpevoli, i prolungati stati di tensione e pressione emotiva subìti dai figli della vittima».
È salentino l'avvocato che ha ribaltato le sorti del processo Dalla Chiesa. Giuseppe Fornari, 52 anni di Lecce, non è solo è il legale di Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa, figli del generale ucciso dalla mafia. Fabiana Pacella il 29 Novembre 2019 su La Gazzetta del mezzogiorno. È salentino l’avvocato che ha sparigliato le carte del delicato processo culminato in appello, dopo 37 anni, col riconoscimento dello status di vittime innocenti di mafia ai i figli del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Giuseppe Fornari, 52 anni di Lecce, non è solo è il legale di Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa. “Mi lega a loro un’amicizia profonda e la condivisione di valori e battaglie per la legalità - spiega il professionista -, che ci hanno portato sempre a stare dalla stessa parte, quella della giustizia. In tutti questi anni ai figli del generale è toccato difenderne la memoria, in un Paese in cui talvolta ci si diverte a manipolare la realtà e crearne altre parallele e fantasiose, delegittimando e isolando. Ancora oggi combattono per raccontare il vero Dalla Chiesa, l’uomo dello Stato migliore, la figura rimasta nel cuore del popolo, cara all’Arma che lo ricorda in migliaia di foto appese ai muri di ogni caserma”. La II Corte d’Appello civile di Milano ha ribaltato la sentenza di primo grado con cui si sosteneva che l’azione per il risarcimento dei danni non patrimoniali spettante ai figli del generale assassinato da Cosa Nostra a Palermo nell’82, fosse esperibile solo nei confronti del boss condannato Calogero Ganci, nullatenente ça va sans dire, e non anche verso lo Stato con accesso al Fondo di Rotazione. Il Viminale ora dovrà ora risarcire per 400mila euro a testa, più gli interessi maturati dall’82 a oggi, i tre aventi diritto. Il primo intoppo si giocò sul terreno scivoloso dei tecnicismi e nacque sul nome, del fondo. Nel ’99 fu infatti istituito con apposita legge come “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso”. Tra i primi risarcimenti, accolto dal dissenso del movimento antimafia, quello alla figlia di Salvo Lima, accusato di essere referente politico di Cosa Nostra. “Si innescò una battaglia – spiega Fornari – per il cambio di denominazione in “Fondo di solidarietà per le vittime innocenti di mafia”, per sottolineare il ruolo e il sacrificio di chi la mafia l’aveva combattuta, come Dalla Chiesa. E così anche i suoi figli, costretti ad una prova più grande di loro, e alle conseguenze di una vicenda lacerante, dovevano essere riconosciuti vittime. Eppure, con una sentenza curiosa e un appiglio sbagliato l’istanza dei miei assistiti fu respinta, in primo grado”. Poi la vittoria di queste ore, che non è “economica ma morale”. Anche se un po’ d’amaro resta. Sullo sfondo come nell’anima. Da un lato per una pagina di storia fosca e dolorosa per l’Italia intera. Dall’altro “per il ruolo che lo Stato, attraverso certa politica di casa nostra, non ha mai riconosciuto a Nando dalla Chiesa, risorsa importante per lo studio e il contrasto alle mafie, voce importante nel mondo, ma non valorizzato in Italia. È come se la storia peggiore si ripetesse”. Oltre la toga il cuore. Anzi, prima quello, a far due conti. Quanto ci sia di salentino nelle arringhe di Giuseppe “Gippo” Fornari, 35 anni a Milano e centinaia di corse al fulmicotone per un saluto a Lecce a papà Giancarlo e mamma Marcella e un pasto caldo da dividere con loro, è presto detto: “ai miei ragazzi a studio dico sempre che alle capacità tecniche occorre aggiungere pathos, cuore, coinvolgimento. E questo è il bagaglio che mi sono portato da casa, da leccese, da salentino, da meridionale”.
Non è l'Arena, Rita Dalla Chiesa commuove lo studio: "Mio padre mi disse "la prima corona che arriva al mio funerale è del mandante", arrivò dalla Regione Sicilia". Libero Quotidiano il 28 settembre 2020. Rita Dalla Chiesa commuove lo studio di Non è l'Arena, il programma di La7 condotto da Massimo Giletti. La puntata, la prima della stagione, è quella di domenica 27 settembre. "Mio padre mi aveva detto la prima corona che arriva al mio funerale è del mandante, la corona che arrivò era della Regione Sicilia", esordisce la figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso nel 1982 dalla mafia assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro. "La prima cosa che feci - a quel punto - fu quella di prendere la corona sulla tomba e buttarla fuori". Poi la Dalla Chiesa ricorda di aver chiesto a un ufficiale dei carabinieri di prendere il tricolore, la sciabola e la sciarpa e soprattutto il suo berretto di generale, perché - conclude la Dalla Chiesa - "è così che voglio venga sepolto".
Roma, Rita Dalla Chiesa: «Mio padre scomodo da vivo, e anche da morto». La figlia del generale Carlo Alberto, conduttrice televisiva, parla all’indomani della decisione di risarcire lei e i due fratelli con 400mila euro a testa per la strage del 1982. Virginia Piccolillo il 29 novembre 2019 su Il Corriere della Sera.
«Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato scomodo da vivo, scomodo quando è stato ucciso ed evidentemente è scomodo anche da morto».
Rita Dalla Chiesa, il Viminale — come anticipato dal «Corriere» — è stato condannato a risarcire lei e i suoi fratelli per la morte di suo padre, al pari delle altre vittime di mafia, ma lei sembra più amareggiata che soddisfatta. Perché?
Lo Stato si è dimenticato di noi».
Come è potuto accadere?
«Quando ti viene ucciso un padre, in quel modo, tenti solo di sopravvivere all’immane dolore e l’ultima cosa a cui pensi è il denaro. Quindi non abbiamo certamente chiesto se ci spettasse qualcosa. Ma in quell’elenco noi dovevamo esserci».
Invece?
«Scoprimmo che esisteva quel fondo perché ne fece richiesta la figlia di Lima. L’avvocato presentò la richiesta ma venne respinta perché, dissero, era passato troppo tempo. Ma l’omicidio del generale Dalla Chiesa non può essere prescritto!».
Chi bocciò la richiesta?
«Non lo so. Vorrei conoscerli. Un giovane carabiniere giorni fa mi ha detto: “Io indosso questa divisa per suo padre”. Nelle piazze, nelle scuole, ovunque vada sento ancora che lui è un simbolo. La gente non ha dimenticato. Noi allo Stato abbiamo chiesto solo giustizia è verità».
E l’avete avute?
«No. C’è una grossa ombra che incombe sulla sua morte. Non mi bastano i nomi di chi ha sparato. Voglio sapere chi, come, quando, perché ha deciso la sua morte. Mio fratello Nando non ha mai smesso di combattere per averla».
Dopo il suo omicidio molti dalle istituzioni vi hanno manifestato affetto.
«Molto apparentemente. I livelli alti no. Quando mio fratello Nando scrisse “Delitto imperfetto” dove faceva nomi e cognomi la Rai non gli aprì mai le porte. Per tutti era una responsabilità troppo grande. L’unico ad ospitarlo fu Maurizio Costanzo. Gli altri non volevano sapere, vedere, ascoltare».
Il capitano Ultimo su Twitter ha pubblicato una sua foto al funerale di suo padre. Cosa ricorda di quel giorno?
«Sì, una foto bellissima, in cui io stringo al petto il berretto di mio padre. Ricordo tutto. Bettino Craxi tornò da Hammamet e si sedette dalla parte della famiglia. Giulio Andreotti non c’era. Unico politico. A inviarlo a Palermo furono Giovanni Spadolini, Virginio Rognoni e lui che gli disse: ‘Mi raccomando non indagare sulle correnti politiche’ (che portavano a lui). Rognoni fu l’unico a chiederci scusa».
Lei ha lavorato a lungo per le tv di Silvio Berlusconi. Che effetto le fa vederlo sotto accusa in inchieste di mafia?
«A lui devo una gratitudine immensa. Un anno dopo la morte di mio padre mi disse: “Di qualunque cosa abbia bisogno, chieda”. Questa cosa mi colpì. Non gli chiesi mai nulla. A Mediaset per Forum mi chiamò Arrigo Levi. E gli ascolti sono sempre stati alti. Ma posso dire che non ho mai subìto pressioni o richieste. Poi, la vita di tutti è un punto interrogativo».
Perché Dalla Chiesa è stato dimenticato? Il Generale di Carabinieri venne ucciso a Palermo 37 anni fa, abbandonato dallo Stato. E oggi la sua figura vive un inspiegabile oblio. Lorenzo Del Boca il 3 settembre 2019 su Panorama. Tre settembre 1982, in via Carini, a Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa venne inchiodato da una scarica di pallettoni di kalashnikov. Per tutti era «il generale dei carabinieri» anche se, da qualche mese, si era congedato per assumere l’incarico di prefetto in quell’angolo di Sicilia dove lo Stato - sembrava - aveva ceduto il passo alle bande dei mafiosi. Già da allora, le cronache risultarono scrupolose fino al dettaglio. Gli orologi segnavano le 21,15; a sparare fu un fucile a pompa AK-47; l’auto della vittima era una A112 e lui viaggiava sul sedile di destra. Da subito, si sostenne che si trattava del «delitto più grave della storia della Repubblica». Ma trascorsa la prima ondata di emozione, accompagnata dalla consueta rissa (abbastanza indecorosa) per appropriarsi del morto e della sua fama, Carlo Alberto Dalla Chiesa è finito sepolto nella categoria dei dimenticati. Ingombrante memoria. Niente a che vedere con le celebrazioni plurime e ripetute - ancorché meritate - che, puntualmente vengono dedicate a Falcone, Borsellino, Chinnici e, genericamente, ai «mortammazzati» della mafia. Persino il ricordo pubblico dei familiari sembrerebbe ingombrante. Mentre i parenti di alcune vittime illustri rappresentano - giustamente - una testimonianza di legalità contro i poteri malavitosi, i Dalla Chiesa sono stati presto ricacciati nella privatezza dello loro rispettive professioni. Eppure, al generale-prefetto non mancava niente per essere celebrato. Si poteva persino sostenere che aveva militato con gli antifascisti della prima ora. Nei giorni dell’armistizio dell’otto settembre 1943, prestava servizio nelle Marche. Collaborò con le bande partigiane al punto da finire nella lista nera dei nazisti. Prima che le SS potessero catturarlo, riuscì a fuggire e a entrare nella brigata «patrioti piceni». Alla fine della guerra, gli conferirono il «distintivo dei volontari della guerra di liberazione». Le tradizioni di famiglia indossavano la divisa dei carabinieri. Generale il padre Romano e generale il fratello Romolo. Carlo Alberto Dalla Chiesa era un militare da capo a piedi ma, al rigore della divisa, aggiungeva l’intelligenza dell’intuito. I suoi metodi non piacevano a tutti (nemmeno all’interno dell’Arma). Non era un ufficiale di routine ma proprio quel suo badare al sodo gli consentì di ottenere risultati significativi. Quando c’era qualche grana da sbrogliare, in un modo o nell’altro, dovevano ricorrere a lui. Nella lotta contro il terrorismo rosso, per esempio. Per anni, larghe particelle dello Stato si sforzarono di minimizzare la portata del fenomeno. Gli uomini che sparavano e uccidevano sarebbero stati parte di «sedicenti brigate rosse» o - ancor più inquietante - «compagni che sbagliano». Sembrò che la rivoluzione violenta fosse non solo legittima ma, addirittura, auspicata con il risultato che le due formazioni eversive in attività nel 1969 diventarono 91 nel 1977 e 269 nel 1979 quando «firmarono» 659 attentati. Le Bierre che, nel progetto originario di Renato Curcio e Alberto Franceschini, si erano poste dei limiti nell’uso delle armi, alzarono il tiro con il dichiarare guerra allo Stato. L’evidenza di questo diverso atteggiamento determinò l’attentato nel corso del quale venne preso prigioniero Aldo Moro, destinato ad essere ucciso e abbandonato nella Renault rossa, a Roma, in via Caetani. Chi poteva fermarli? Per affrontarli venne scelto Carlo Alberto Dalla Chiesa, autoritario, coraggioso, eccellente organizzatore, determinato fino ad apparire testardo, che si circondò di una squadretta di uomini opportunamente selezionati ai quali, per raggiungere lo scopo prefisso, dettò la regola fondamentale: «Per batterli, occorre entrare nella testa dei terroristi nel senso che da adesso dobbiamo pensare come loro». Ci vollero anche migliaia ore di lavoro, intuizioni geniali e un briciolo di fortuna. Non sempre gli organi di stampa e l’opinione pubblica si resero conto immediatamente dell’importanza di certe catture tanto che metà dei dirigenti delle Brigate Rosse finì in carcere senza che le autorità ne avessero esatta consapevolezza. Dalla Chiesa inventò la figura del «pentito» e, promettendo sconti di pena al limite dell’impunità, convinse Patrizio Peci, uno dei colonnelli dell’esercito rivoluzionario, a saltare il fosso e a collaborare con gli inquirenti. Con quello, fu scacco matto. Ovvio che, immaginando un personaggio capace di limitare il potere mafioso che stava dilagando, pensassero a lui. Fu l’allora ministro degli interni Virginio Rognoni a proporgli l’incarico di prefetto con sede a Palermo. Dalla Chiesa accettò solo quando gli assicurarono che sarebbe stato dotato di speciali poteri. Inevitabile il rimando a un altro prefetto «di ferro», Cesare Mori, che una cinquantina d’anni prima, era stato inviato a Palermo con uguale proposito e identiche intenzioni. Carlo Alberto Dalla Chiesa era rimasto vedovo di Dora Fabbo, madre dei suoi tre figli e, quasi in concomitanza con il suo trasferimento a Palermo, si risposò con Emanuela Setti Carraro, una ragazza di 32 anni della buona borghesia milanese, infermiera, una trentina d’anni più giovane di lui. Una volta in Sicilia, Dalla Chiesa dovette prendere atto che i vertici dello Stato non stavano mantenendo alcuna promessa e, di fatto, dal momento della nomina (6 aprile 1982) lo lasciarono solo. Si lamentò: «mi hanno mandato a Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì». Eppure, con il niente che aveva a disposizione, riuscì a impensierire i mafiosi. Collaborando con polizia e carabinieri, riuscì a mettere insieme un documento (passato alle cronache come «il dossier dei 162») nel quale indicava le «famiglie» malavitose della città. Si mosse con la consueta disinvoltura, senza guardare in faccia nessuno e senza badare alle «sensibilità» che andava toccando. Quando, per esempio, dichiarò che «la mafia è forte a Catania anzi da Catania viene alla conquista di Palermo». Azzardò che «con l’evidente consenso della “cupola” palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi lavorano a Palermo». Domandò: «Potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?». Se ne risentirono i cavalieri del lavoro Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Geraci e Francesco Finocchiaro titolari, per l’appunto, di imprese di costruzione e l’allora presidente della regione Mario D’Acquisto si sentì in dovere di chiedere una «specificazione» per quelle dichiarazioni. Dalla Chiesa aveva agitato troppo le acque. A fine agosto, una telefonata anonima ai carabinieri (fatta probabilmente dal boss Filippo Marchese) avvertì che «l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa». Quando il 5 settembre, una seconda telefonata, al giornale La Sicilia, sentenziò «l’operazione Carlo Alberto è conclusa», il generale-prefetto era già stato sepolto. Al funerale una folla immensa digrignò i denti nei confronti dei politici e applaudì soltanto il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Un attentato di quella portata poteva essere decretato unicamente dal plenum dei vertici mafiosi. Per l’omicidio Dalla Chiesa, come mandanti, furono condannati all’ergastolo: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Ma per il resto, come rileva la motivazione della sentenza, «persistono ampie zona d’ombra». Dalle carte processuali, sembrerebbe che gli autori materiali del delitto siano stati Pino Greco e Antonino Madonia. Calogero Ganci sarebbe stato al volante della Bmw usata per l’agguato. Ma, periodicamente, spunta un pentito che mette in discussione le ricostruzioni dei magistrati. Un certo Simone Canale, per esempio, affiliato alla cosca Alvaro di Sinopoli (prima), pentito (poi) e ritenuto inaffidabile (infine), rivelò che Nicola Alvaro «’u zoppu» era presente all’omicidio. I fascicoli processuali non possono che dare conto di come «le carte che riguardano il generale Dalla Chiesa rappresentano la certificazione drammatica e autorevole di verità finora negate, nascoste e manipolate». Occorre altro per sostenere che il ricordo è faticoso? E che è meglio dimenticare?
L'ultima estate calda del generalissimo lasciato solo da tutti. Luca Fazzo, Sabato 10/08/2019, su Il Giornale. Mancavano poche settimane alla sua morte. Nell'agosto 1982 i grilli e le cicale facevano da colonna sonora all'ultima estate di Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto di Palermo. Nella grande casa colonica che il generale aveva voluto comprare e ristrutturare, superando le resistenze della moglie, a Prata di Principato Ultra, sulle colline irpine, si ritrovava la famiglia allargata dell'uomo che aveva sconfitto le Brigate Rosse: le figlie Rita e Simona, il figlio Nando, i nipotini. I ricordi di Nando offrono squarci di serenità: le partite di pallone, le magliette di Italia e Brasile comprate dal nonno. Ma se poi si chiede a Nando «te lo sei goduto, tuo padre, in quell'ultima estate?» la risposta gela il sangue. «No. Fu un estate terribile. Si capiva benissimo che sarebbe finita in quel modo. Lui era disperato e inferocito, un leone in gabbia. Chiamava, chiamava, e nessuno gli rispondeva. Nemmeno De Mita, che abitava a pochi chilometri. Chiedeva appoggi, mezzi, qualunque cosa che lo facesse sentire meno solo nella missione che gli avevano rifilato mandandolo a Palermo. Niente». Le vacanze del figlio di un carabiniere sono le vacanze di un apolide, di un bambino e poi di un ragazzo costretto a seguire gli spostamenti del padre. «Nei cinque anni del liceo cambiammo quattro volte città. Le vacanze le passavamo a prepararci al nuovo trasloco e alla nuova scuola. Papà faceva quel che poteva per ammorbidire l'atterraggio, organizzava gli amici che ci venivano a trovare per farci sentire meno soli. Era un padre molto attento». Invecchiando, come a volte accade, Nando inizia a somigliare a Carlo Alberto. Non ha più i baffi, che si era fatto crescere quando era stato arruolato come ufficiale di complemento nei carabinieri, «e quando andavo a fare ordine pubblico mi davano un po' di autorevolezza». L'ingresso del figlio, anche se solo per la naja, nell'Arma aveva tranquillizzato il colonnello, inquieto come tutti i padri dell'epoca sulle tentazioni cui il vento di ribellione di quegli anni esponeva il figlio. «Ma quando a diciott'anni volli andare a vivere da solo a Milano per iscrivermi alla Bocconi, lui, con stupore dei miei amici, aveva detto di sì. Unica condizione: non farti crescere la barba». L'inizio e la fine, nelle vacanze dei Dalla Chiesa, hanno luoghi precisi: Mondello, la spiaggia di Palermo; e, venticinque anni dopo, la casa di Prata, «con le sue incredibili notti stellate e i due carabinieri della scorta che dormivano al pian terreno». A Palermo, Nando e le sue sorelle scendevano da Milano appena finita la scuola, «accompagnati dall'attendente di mio padre, che era siciliano. A Palermo c'era il nonno materno, Ferdinando Fabbo, anche lui ufficiale dell'Arma, che dopo il congedo era rimasto a vivere in Sicilia dove una figlia si era sposata. Per mio padre e mia madre, la vacanza vera forse erano i giorni in cui restavano a Milano, senza doversi più occupare di noi. Poi, a Ferragosto, anche i miei genitori scendevano. Il primo ricordo di papà in vacanza è lì, sulla spiaggia di Mondello. Nuotare gli piaceva, ma non ricordo di averlo mai visto in costume. Un ufficiale dei carabinieri, all'epoca, non andava in giro in mutande da bagno». Fu in quelle estati palermitane che il figlio imparò dal padre cos'era la mafia. «Mi accompagnava a vedere i villini di viale della Libertà che venivano fatti saltare uno dopo l'altro con l'esplosivo per fare largo al sacco di Palermo. Mi indicava le auto posteggiate che venivano distrutte per convincere i proprietari a usare i garage di proprietà dei clan: non era solo per i soldi, serviva a controllare il territorio, sapere chi andava e veniva». Al nord, durante l'anno, era l'epoca in cui Dalla Chiesa scalava i gradi. Il terrorismo era ancora di là da venire, la famiglia abitava nella caserma milanese di via Moscova. Nando giocava a pallone nell'oratorio di Sant'Angelo, e il padre ogni tanto andava a guardarlo di soppiatto. «Il calcio era una sua grande passione, da ragazzo aveva anche giocato nelle giovanili dell'Atalanta, poi si era rotto una gamba e aveva dovuto smettere. Essendo l'unico figlio maschio, ero il suo complice predestinato per andare alla partita. Si andava all'Arena, dove si giocava in notturna, e mi ricordo il Santos di Pelè, questo gioco fantastico di palloni alti. Io ero milanista. Ma nel pieno di una epidemia di influenza si giocò un Milan-Atalanta. L'Atalanta era decimata, chiese di rinviare la partita, il Milan si oppose, giocò, e ovviamente vinse 5 a 1. Mio padre era scandalizzato. Mi costrinse a diventare interista». Il rito delle vacanze siciliane, in quegli anni si interrompe una volta sola. «Nel 1961 mio nonno Ferdinando, che aveva fatto entrambe le guerre mondiali, volle portare la famiglia sui luoghi della Grande Guerra nel centenario dell'Unità d'Italia. Andammo dove il nonno aveva combattuto, sul Piave, sull'Isonzo. Fu un viaggio lungo e carico di emozioni, per noi e soprattutto per papà, che nei confronti del nonno e del suo vissuto aveva una sorta di devozione». Il sogno della casa di Prata prende forma negli anni di fuoco del terrorismo, gli stessi in cui Dalla Chiesa fonda il reparto speciale che sgominerà il nucleo storico delle Br. Il generale è nel mirino, i suoi colleghi vengono ammazzati uno dopo l'altro. Proprio per quello nasce in Dalla Chiesa il bisogno di un luogo dell'anima, un ritiro dove tirare il fiato: e sceglie a Prata, che era il paese di suo suocero, il rudere che diventerà Villa Dora. «La vacanza vera per lui non era il mare, non era la montagna dove in quegli anni non mettemmo piede una volta. La sua vacanza era la campagna, perché suo nonno era di Fornovo, nel Parmense, e con i fratelli le estati le passavano lì, tra birichinate e giochi nei boschi. Questo clima lo aveva cercato di ricreare a Prata. La felicità per lui erano delle famiglie di amici che si trovano, mangiano, parlano tra di loro mentre i bambini scorrazzano in giro». Ma l'estate del 1982 non fu un'estate felice. «Addosso c'era quella sensazione di tragedia incombente. Per tenerci su pensavamo: non possono ammazzarlo davvero, sarebbe troppo scoperto, troppo firmato. Ci sbagliavamo. Il 20 agosto papà scese a Palermo a commemorare il colonnello Russo, che era stato ucciso cinque anni prima alla Ficuzza, e subito infangato in ogni modo. Papà ritornò dalla cerimonia e disse: mi sono impappinato. Il 26 agosto ci salutammo, il 3 settembre uccisero lui ed Emanuela. Lo stesso giorno era uscito il Mondo con una intervista al sottosegretario all'Interno che diceva: Dalla Chiesa? Un prefetto come gli altri». Luca Fazzo
I nemici del generale dalla Chiesa. Non soltanto terroristi e mafiosi. «Dalla Chiesa» (prefazione di Aldo Cazzullo, Mondadori, pagine 324, euro 20). La biografia di Andrea Galli (pubblicata da Mondadori) ripercorre le vicende che portarono all’omicidio del 1982. C’è un vuoto di verità che va colmato, scrive Giovanni Bianconi il 28 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa (1920-1982), assassinato a Palermo da Cosa nostra. Si respira un’atmosfera da Giorno della civetta, quando un giovane capitano dei carabinieri sbarcato a Corleone il 3 settembre 1949 fa emergere a fatica i contorni di un misterioso delitto, nonostante latitanze e assoluzioni a protezione dei colpevoli. E non si fa scrupolo di denunciare le interferenze dei politici che «cercano di sopraffarsi affinché l’uno tragga vantaggi a scopi elettorali a danno dell’altro». Quel capitano — non il Bellodi creato da Leonardo Sciascia, ma l’ufficiale dell’Arma in carne e ossa Carlo Alberto dalla Chiesa — ha toccato con mano la mafia e gli intrecci che la proteggono, e sembrano inseguirlo fino a Milano, dove nella prima metà degli anni Sessanta si trova a indagare sulle propaggini lombarde della guerra fra cosche che ha rotto gli equilibri tra gli «uomini d’onore», con tanto di omicidi in trasferta. Poi dalla Chiesa, divenuto colonnello, torna sull’isola per comandare la Legione della Sicilia occidentale, ed eccolo alle prese con inchieste sui funzionari regionali legati a Cosa nostra, anticamera dei rapporti tra mafia e pubblica amministrazione; e con le calunnie di un Corvo ante litteram, impegnato a spargere veleni contro il comandante che con la sua fissazione per il rispetto delle regole rischia di mettere in pericolo il quieto vivere sul quale i boss hanno costruito il loro potere. Se ne andrà ma tornerà ancora, il carabiniere promosso generale e infine prefetto di Palermo, incaricato di guidare una battaglia che non farà in tempo neppure a cominciare: la mafia chiude i conti ammazzandolo a colpi di kalashnikov, insieme alla giovane moglie e all’inerme guardia del corpo. Era il 3 settembre 1982, trentatré anni dopo il primo incarico a Corleone. E stavolta non c’è lo sfondo arido e assolato da Giorno della civetta, bensì la determinazione cupa e sanguinaria de Il padrino. Tutto questo e molto altro, insieme alla sintesi di un lungo tratto di storia criminale e politica d’Italia, affiora dalle pagine in cui Andrea Galli ha ricostruito la vicenda del «generale dei carabinieri che sconfisse il terrorismo e morì a Palermo ucciso dalla mafia» (Dalla Chiesa, Mondadori, con prefazione di Aldo Cazzullo). Una parabola che comincia e finisce in Sicilia, ma in mezzo attraversa la lunga e drammatica parentesi della lotta armata, contro la quale lo Stato schierò dalla Chiesa due volte: prima agli albori delle Brigate rosse e poi, dopo l’inspiegabile scioglimento del suo Nucleo speciale, all’indomani del sequestro Moro. Il racconto di Galli, ricco di dettagli, suggestioni e episodi inediti o poco conosciuti, aiuta a ricordare che il capitolo più tragico del terrorismo rosso si apre e si chiude con le indagini di dalla Chiesa e dei suoi carabinieri, che tra il 1974 e il 1975 quasi arrivano a smantellare le Brigate rosse e in seguito, fra il 1978 e il 1981, avviano il percorso investigativo che porterà alla loro definitiva sconfitta. Un metodo innovativo più che una struttura organizzata, grazie al quale gli uomini del generale (un manipolo di fedelissimi selezionati e votati alla causa) riescono a infiltrare le bande armate e gli ambienti nei quali reclutano militanti, studiandone abitudini e obiettivi per anticiparne le mosse e riuscire a neutralizzarle. Fino al decisivo aiuto fornito dai terroristi «pentiti», primo fra tutti quel Patrizio Peci che proprio con dalla Chiesa decide di saltare la barricata e passare dall’altra parte. I successi del generale e del suo modo di lavorare — accompagnati dalle perplessità mai nascoste nei confronti di uno Stato che non sembra reagire compatto alla sfida del terrorismo rosso, e soprattutto non usa la stessa determinazione contro l’eversione di marca neofascista — lo trasformano in un obiettivo per i suoi avversari sul «campo di battaglia», ma determinano inquietanti preoccupazioni anche all’interno delle istituzioni, nonché gelosie e attenzioni poco benevole dentro l’Arma. Un quadro poco limpido, nel quale s’inserisce il ritrovamento del suo nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 di Licio Gelli, che accompagna la nomina di dalla Chiesa a vice-comandante dell’Arma e poco dopo, nella primavera del 1982, a prefetto di Palermo, chiamato a contrastare l’emergenza della mafia che ha sferrato un attacco senza precedenti alle istituzioni, con una raffica di «omicidi eccellenti». Lui accetta anche per provare a sfuggire all’isolamento nel quale si sente confinato con il precedente incarico «privo di contenuti», come scrive lui stesso. Pur nella consapevolezza di essere strumentalizzato: «Mi sono trovato al centro di uno Stato che usa il mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti e non ha nessuna volontà di debellare la mafia», pronto a «buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati e compressi», annota nel diario. Al generale promosso prefetto non viene concesso il tempo di verificare la sua amara profezia. I killer mafiosi entrano in azione su ordine di Totò Riina e della Cupola prima ancora che dalla Chiesa possa cominciare a incidere su quegli interessi. Un particolare che ha pesato e continua a pesare sul reale movente del delitto, come avevano già sentenziato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri giudici istruttori del maxi-processo a Cosa nostra: «Persistono zone d’ombra sia nelle modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia (praticamente da solo e senza mezzi) a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia nella consistenza di specifici interessi, anche all’interno delle istituzioni, volti all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». A trentacinque anni di distanza dall’omicidio, il libro di Andrea Galli aiuta a riempire, almeno parzialmente, quel vuoto di verità.
PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.
Nota Biografica dal sito dei carabinieri.it
Saluzzo, cittadina sabauda e piemontese sino al midollo, lo vede nascere il 27 settembre 1920. E' un figlio d'arte: il papà ufficiale dei Carabinieri (Romano), il fratello pure (Romolo). Il primo contatto con la vita militare è la dura guerra nel Montenegro come sottotenente nel 1941. Un anno dopo passa ai Carabinieri e viene assegnato alla tenenza di San Benedetto del Tronto dove resta fino al fatidico 8 settembre 1943. Passa nella provincia di Ascoli Piceno e un bel giorno viene affrontato da un partigiano comunista. I partigiani della zona temevano che lui fosse responsabile del blocco dei rifornimenti di armi che gli alleati di tanto in tanto riuscivano a spedire via mare. Alla domanda "Lei con chi sta, tenente, con l'Italia o la Germania?", Dalla Chiesa risponde offrendo la sua collaborazione e per un certo periodo le cose filano a meraviglia. Poi, purtroppo qualcuno fa la spia e per Dalla Chiesa è meglio cambiare aria e darsi alla macchia insieme agli altri patrioti: diventa un responsabile delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli americani. La guerra si chiude per lui con una promozione e due croci al merito di guerra, tre campagne di guerra, una medaglia di benemerenza per i volontari della II GM, il distintivo della guerra di liberazione ed una laurea in giurisprudenza conseguita a Bari. In quella stessa università prenderà più tardi la laurea in scienze politiche. La Sicilia che lo vede arrivare giovane capitano è immersa nel regno di terrore della mafia agraria, quella di Don Calò Vizzini, di Genco Russo e di Luciano Leggio. E' una mafia che poi verrà rievocata con nostalgia quando emergeranno nuovi e ferocissimi boss, ma in realtà era solo più arcaica, non meno spietata. Cosa Nostra ha stretto un patto di ferro con i più retrivi latifondisti che temono le lotte e le rivendicazioni contadine guidate dai sindacalisti comunisti e socialisti.
Nei covi di Corleone. Per Lucianeddu Leggio (più conosciuto come Liggio), il segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto rappresenta una spina nel fianco. Parla troppo, protesta troppo, intralcia troppo. Rizzotto, un semplice bracciante, cresciuto tra le insidie di una mafia occhiuta ed oppressiva, è un tipo prudente e cauto che non manca di prendere le sue precauzioni. Leggio affida il compito ai suoi giovani cagnazzi, "Binnu" e "Totò u' curtu". Calogero Bagarella, Bernardo Provenzano e Totò Riina sono picciotti fedelissimi, aggressivi, spavaldi, che si mostrano in paese arrancando con il caratteristico incedere mafioso. Sono furbi e si rendono conto che bisogna prendere Rizzotto per tradimento.
Un giuda si trova. Il 10 marzo 1948 il sindacalista viene caricato su una macchina, portato in luogo sicuro, torturato e suppliziato. Il suo cadavere viene gettato in una forra Lo trovano molto tempo dopo e riconoscono i resti da uno scarpone. Dalla Chiesa è chiamato dal colonnello Ugo Luca nel nuovissimo CFRB (Comando Forze Repressione Banditismo), che ha la missione di farla finita con Salvatore Giuliano, il re di Montelepre. A lui viene affidato il comando del gruppo squadriglie, basato a Corleone. Qui il piemontese ha primo impatto con questo tortuoso ambiente. E' un ufficiale abile, duro, inflessibile, gran lavoratore, non meno paziente dei suoi avversari corleonesi. A dispetto dell'omertà e della paura estremamente diffuse riesce insieme ai suoi colleghi a inchiodare tutti gli assassini di Rizzotto e a spedirli sotto processo, incluso Leggio.
Vittoria di Pirro. Il processo si conclude con una serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Il giovane capitano viene opportunamente trasferito. Premio, siluramento, precauzione? Chissà. La Sicilia gli è rimasta dentro al cuore. Da ufficiale superiore è aiutante maggiore della legione e capo ufficio OAIO (Ordinamento Addestramento Informazioni Operazioni) della IV brigata di Roma e della legione di Torino. Poi regge i comandi del nucleo di polizia giudiziaria e del gruppo di Milano.
A caccia di battesimi e nozze. Negli anni Sessanta Carlo Alberto torna nell'isola del suo destino e per oltre 7 anni gli viene affidato come colonnello il Comando della Legione di Palermo (1966-1973). Qualcosa dallo scacco di quindici anni fa l'ha imparata. Bisogna conoscere a fondo la situazione e raccogliere quante più prove possibili, facendo i conti con la realtà del posto. Cosa Nostra non è stata con le mani in mano e si è adeguata rapidamente ai tempi nuovi. Ha progressivamente spostato i suoi interessi dal settore dell'agricoltura in cui aveva operato per oltre un secolo, a quelli industriale e commerciale, specialmente nel campo dell'edilizia e dei lavori pubblici. I tradizionali rapporti di "strusciamento con il potere" si rafforzano specialmente con le istituzioni amministrative e politiche in modo da influire sulle direttrici di sviluppo edilizio delle città, sull'ubicazione delle opere pubbliche, sulle destinazioni dei finanziamenti, sugli appalti. Lo scambio è sempre lo stesso: appoggio politico contro concessioni illegali di licenze e appalti. Il risultato è che gradualmente una serie di politici aiutano l'espandersi delle attività economiche mafiose, quando i rappresentanti mafiosi non sono direttamente inseriti nel tessuto politico ed amministrativo. Alla base dell'organizzazione c'è la "famiglia", rigidamente ancorata al territorio. In essa ci sono gli uomini d'onore o soldati, comandati dai capidecina, guidati da un capo famiglia o rappresentante coadiuvato da un vice e da uno o più consiglieri. Più famiglie sono rette dai capi mandamento che siedono nella cupola o commissione provinciale. Una struttura del genere è difficile da infiltrare, ma qualcosa si può sempre sapere ed è possibile conoscere la struttura attraverso il legame della famiglia. Sentiamo cosa diceva Dalla Chiesa alla commissione antimafia del 1962.
"Onorevole presidente, scoprirli [i capi mafiosi] non è difficile, in quanto i nomi sono sulle bocche di molti. (...) Vorrei mostrare (...) una scheda, che io ho preparato per la mia legione, per tutti i miei collaboratori, dedicata proprio ai mafiosi o indiziati tali.(...) attraverso le parentele e i comparati, che valgono più delle parentele, si può avere una visione organica della famiglia, della genealogia, più che un'anagrafe dei mafiosi. Quest'ultima è limitata al personaggio; la genealogia di ciascun mafioso ci porta invece a stabilire chi ha sposato il figlio del mafioso, con chi si è imparentato, chi ha tenuto a battesimo, chi lo ha avuto come compare di matrimonio; e tutto questo è mafia, è propaggine mafiosa (...) ... è molto più efficace seguire i mafiosi così, cioè non attraverso la scheda solita del ministero dell'Interno, ma da vicino, attraverso i figli, attraverso i coniugi dei figli, attraverso le provenienze, le zone dalle quali provengono, perché anche le zone d'influenza hanno la loro importanza".
Non è una trovata trascendentale, ma è il metodo e la costanza con cui ci si applica che danno i risultati. Nel 1966 un vero e proprio censimento degli uomini d'onore è stato finalmente realizzato e si conclude con l'arresto di 76 boss. Gente come Frank Coppola (Frank Tre dita) e Gerlando Alberti vengono arrestati e spediti al soggiorno obbligato.
Il trionfo sulle Brigate rosse. All'epoca Dalla Chiesa credeva moltissimo al soggiorno obbligato, più tardi si accorgerà che era a doppio taglio: allontanava i boss dalle loro zone e favoriva l'estendersi della piovra altrove. Poi i processi vanificheranno di nuovo la sua opera e un Dalla Chiesa più disilluso dichiarerà alla commissione antimafia riunita il 4 novembre 1970: "Siamo senza unghie, ecco; francamente, di fronte a questi personaggi, mentre nell'indagine normale, nella delinquenza, possiamo far fronte e abbiamo ottenuto anche dei risultati di rilievo, nei confronti del mafioso in quanto tale, in quanto inquadrato in un contesto particolare, è difficile per noi raggiungere le prove...".
Non c'è però tempo per i rimpianti. La lotta al terrorismo coinvolge presto Dalla Chiesa, ormai promosso generale. Dall'ottobre 1973 al marzo 1977 comanda la Brigata di Torino. Poi nel maggio 1977 assume l'incarico di coordinamento del servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena. Prima del suo arrivo le evasioni spettacolari avevano insinuato il sospetto che nelle carceri si potesse fare di tutto. Dopo la "cura" del generale vengono fuori le cosiddette supercarceri dalle quali la fuga è praticamente impossibile. Si tratta di un duro colpo sia per i terroristi che per i mafiosi, come ben sa Totò Riina finito proprio in uno di questi istituti di massima sicurezza. Successivamente (settembre 1978) assume anche le funzioni di coordinamento e di cooperazione tra Forze di Polizia nella lotta al terrorismo. Dallas, come lo soprannominano affettuosamente i suoi con una contrazione, è sempre un militare tutto d'un pezzo. Gira senza scorta perché crede che un ufficiale, all'assalto, non ci va con la scorta, ma sa benissimo coprirsi le spalle dalle insidie dei palazzi romani. Quando riceve i pieni poteri per la lotta alle Brigate Rosse una stampa faziosa lo dipinge come un futuro uomo forte della scena politica italiana. Lui non si muove prima di una discreta e attenta gestione delle pubbliche relazioni, che gli garantisce un segnale di via libera anche da parte delle opposizioni. Solo allora attua la sua controguerriglia urbana, conseguendo prestigiosi successi, celebrati dalla stampa nazionale ed internazionale, arrestando i capi storici delle Brigate Rosse e contribuendo validamente a debellare il fenomeno in Italia. "I nostri reparti dovevano vivere la stessa vita clandestina delle Brigate Rosse. Nessun uomo fece mai capo alle caserme: vennero affittati in modo poco ortodosso gli appartamenti di cui avevamo bisogno, usammo auto con targhe false, telefoni intestati a utenti fantasma, settori logistici ed operativi distanti tra loro. I nostri successi costarono allo Stato meno di 10 milioni al mese". Dal dicembre 1979 al dicembre 1981 comanda la prestigiosa Divisione Pastrengo a Milano per poi arrivare nel 1982 alla massima carica per un carabiniere: vice Comandante Generale dell'Arma. Con le promozioni arrivano altre decorazioni: croce d'oro per anzianità di servizio, medaglia d'oro di lungo comando, distintivo di ferita in servizio, una Medaglia d'Argento al Valor Militare, una di Bronzo al Valor Civile, 38 encomi solenni, una medaglia mauriziana. Al suo fianco compare, dopo la morte dell'amatissima moglie Dora Fabbo, una seconda moglie giovanissima e decisa: Emanuela Setti-Carraro. E' un periodo durissimo, però il futuro sembra sorridergli.
La grande guerra di mafia. Alla nomina a Prefetto di Palermo il ministro degli Interni, Virginio Rognoni, comincia a pensarci poco prima delle festività natalizie del 1981. L'escalation mafiosa è fortissima e l'austero generale sembra la persona giusta per arrestarla. Ne parla prima con l'allora presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, poi con i segretari dei cinque partiti di maggioranza ed infine sonda gli umori delle forze di opposizione. Da tutti un aperto consenso e nel marzo 1982, Rognoni, comunica a Dalla Chiesa la nuova nomina. Dallas non esita a manifestare perplessità, ma suadente Rognoni gli dice: "Caro generale, lei va a Palermo non come Prefetto ordinario ma con il compito di coordinare tutte le informazioni sull'universo mafioso". Il Ministro conta di dargli tutti i poteri in vigore per il suo compito; il generale, che sa quanto sia vana la parola "coordinamento", vuole poteri reali, uomini, mezzi e fondi (saranno concessi solo al suo successore). A maggio 1981, giunto a Villa Whitaker, trova una situazione pesante perché è scoppiata una gran guerra tra le cosche. Il conflitto si scatena a causa di un progetto, ideato da Don Stefano Bontade e Totò Inzerillo (il principe di Villagrazia), che prevedeva la creazione di una nuova Las Vegas ad Atlantic City. Il guadagno netto stimato si aggira intorno ai 130 miliardi di lire all'anno. La raccolta dei fondi per l'operazione si rivela un successo, ma un controllo dei contabili di Cosa Nostra scopre un ammanco di 20 miliardi. Nell'estate in cui c'è Dalla Chiesa a Palermo ci sono 52 morti e 20 lupare bianche.
Poi arriva la morte. Nella lotta a Cosa Nostra la morte è una costante con cui occorre fare sempre i conti. "Purtroppo in questa difficile battaglia gli errori si pagano. Quello che per noi è una professione, per gli uomini di Cosa Nostra è questione di vita o di morte: se i mafiosi commettono degli errori, li pagano; se li commettiamo noi, ce li fanno pagare. (...) Da tutto questo bisogna trarre una lezione. Chi rappresenta l'autorità dello Stato in territorio nemico, ha il dovere di essere invulnerabile. Almeno nei limiti della prevedibilità e della fattibilità". Sono parole del giudice Falcone, tuttora attuali e vere, anche se talvolta Cosa Nostra si è dimostrata più abile e forte: di Chinnici, di Borsellino, dello stesso Falcone. Gli uomini d'onore sanno benissimo di non essere invulnerabili e di doversi proteggere oltre la paranoia. Dalla Chiesa, seguito da cento occhi, ascoltato da cento orecchie, è immerso nei veleni di Palermo e circondato da molti onorevoli e notabili che mal nascondono una viva preoccupazione.
Operazione Carlo Alberto. Significativo uno scambio di battute a distanza sui giornali. Dalla Chiesa: "C'è una crescita della mafia, che va radicandosi anche come realtà politico-malavitosa". Martellucci: "Io ho la vista acuta, eppure non ho mai visto la mafia". Dalla Chiesa, alla commemorazione del Colonnello dei Carabinieri Russo ucciso dalla mafia: "Aveva tutti e cinque i sensi sviluppati, ma la mafia l'ha ammazzato". Il prefetto di Catania: "La mafia, qui da noi, non esiste". Il generale capisce che deve muoversi in fretta, prima che sia troppo tardi. Il primo giorno da Prefetto a Palermo si fa portare a Villa Whitaker da un tassista. Altre volte si fa vedere a sorpresa tra la gente, incontra gli allievi dei licei, gli operai nei cantieri. Vuole scuotere la paura e suscitare il consenso. Non si fa illusioni: "Certamente non sono venuto per sgominare la mafia, perché il fenomeno mafioso non lo si può sgominare in una battaglia campale, in una guerra lampo, un cosiddetto Blitz. Però vorrei riuscire a contenerlo, per poi sgominarlo". Infatti non rinuncia alla richiesta di poteri e mezzi. Quanto ai poteri, l'articolo 31 dello Statuto regionale della Sicilia sancisce che le Forze di Polizia sono sottoposte disciplinarmente, per l'impiego e l'utilizzo, al governo regionale. Come dire che se c'è un governo regionale mafioso, esso ha legalmente più potere del rappresentante dello Stato. Dalla Chiesa chiede fatti e poteri veri, ma a Roma si è restii a conferirgli poteri più significativi di quelli del ministro degli Interni. Anche così, tuttavia, Dalla Chiesa agisce. In due successivi blitz, interrompe con 10 arresti il summit dei vincitori corleonesi a Villagrazia, mentre in via Messina Marine scopre una raffineria di eroina con una produzione di 50 chilogrammi a settimana. Nel giugno 1982 invia il rapporto dei 162, una vera mappa del crimine organizzato. Al vertice ci sono i Greco di Ciaculli, con attività a Tangeri e in Sud America. Insieme ad essi i Corleonesi, il clan di Corso dei Mille. I perdenti Inzerillo, Badalamenti, Bontade, Buscetta sono stati invece massacrati. Per 20 giorni i magistrati tacciono poi spiccano 87 mandati di cattura e 18 arresti, ma restano latitanti una ventina dei più grossi tra cui Michele Greco, il Papa, braccio violento di suo zio Totò Greco detto l'ingegnere. Poi segue un rapporto della Guardia di Finanza sul mondo delle false fatture e dei contributi pubblici finiti nelle tasche di noti esponenti di Palermo e Catania. Inoltre il generale rispolvera l'efficace arma delle indagini su comparati, parentele e amicizie: avvia un'indagine sui registri di battesimo e nozze per vedere quali politici abbiano presenziato a eventi di famiglie mafiose. Riesamina anche vecchie voci di pranzi di ex-ministri con potenti boss e, con dodici agenti della Guardia di Finanza, fa setacciare ben 3.000 patrimoni. Cosa Nostra decide che è il momento di risolvere il problema. Il 3 settembre 1982 trenta pallottole di Kalashnikov falciano Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti-Carraro mentre un altro killer liquida l'agente di scorta, Domenico Russo. Lui tenta di proteggere la moglie col suo corpo, ma il killer spara prima a lei.
Epilogo. Al funerale ci sono molte grida in favore della pena di morte. Solo Pertini ha potuto raggiungere indisturbato la sua auto mentre altre personalità sono state circondate, spintonate e colpite con monetine. Il 5 settembre arriva una telefonata anonima al quotidiano La Sicilia: "L'operazione Carlo Alberto è conclusa". Il Generale Dalla Chiesa siede tra gli eroi che l'Arma dei Carabinieri ha donato al Paese ed al Popolo italiano, ed anche quando si affievolisce il ricordo di lontani eroismi, resta indelebile la nuda, spartana virtù del dovere compiuto in nome di una società civile.
GENERALE PERCHE’ SI PENTE UN TERRORISTA?
E una delle tante domande poste da Enzo Biagi alle quali ha risposto l’alto ufficiale durante l’incontro avvenuto negli studi di Telemond e che sarà trasmesso il 7 marzo 1981 da 23 stazioni televisive. Come combatte le Br? Chi è un mafioso? Perché è stato ucciso Mauro De Mauro? È vero che non si fida dei giudici ? Chi ha contato di più nella sua vita?
Generale Dalla Chiesa, perché un giovane decide di diventare ufficiale dei carabinieri?
«Perché crede e ha bisogno di continuare a credere.»
C’è qualche altro mestiere che le sarebbe piaciuto fare?
«Da piccolo il tranviere, poi mia madre voleva farmi intraprendere la carriera diplomatica, qualcuno mi suggeriva di fare il direttore d’orchestra.»
Quali sono i fatti che hanno contato di più nella sua vita?
«Almeno un paio: sotto il profilo militare quando ufficiale dell’Arma durante la resistenza, mi trovai alla testa di bande di patrioti e responsabile di intere popolazioni. Sotto il profilo umano, l’incontro con mia moglie.»
E suo padre, è per lei una figura che ha significato qualcosa?
«Certamente, è compreso tra i maestri ai quali mi sono ispirato.»
Lei è religioso?
«Sì credo in Dio, nell’Immenso, anche se su questa terra forse perché siamo piccini piccini, qualche volta diventa difficile credere.»
È praticante?
«Anche. Nei limiti che posso.»
Ci sono stati momenti nei quali ha avuto paura?
«Sì. Sono stati forse più frequenti di quanto non si pensi: come quando ho dovuto impiegare dei collaboratori, sapendo che andavano a rischiare la vita; come quando sono in ufficio e, sentendo il suono del telefono, guardo il Cristo perché non so mai che cosa può arrivare.»
Paura per sé?
«No, direi più rassegnazione.»
Io l’ho vista girare un giorno in galleria a Milano, ed era, almeno mi pareva, da solo, perché?
«Giro da solo. Non vedo perché se ne meravigli. In definitiva la situazione me lo consente ho la coscienza di poterlo fare, penso che dia nello stesso tempo, a chi mi vede, la tranquillità, la sensazione che tutto è normale.»
Lei ha combattuto contro la mafia. Chi è un mafioso? Facciamo un ritrattino?
«Un mafioso è uno che lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. E chi lucra è pure capace di uccidere. E, prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è anche capace di usare delle espressioni come : “paternamente, affettuosamente ti consiglio…”»
Che cosa le è rimasto dentro di quella esperienza?
«È stata una grande esperienza, una soddisfazione, direi tutta interiore, per avere conosciuto da vicino risvolti, pieghe, di una società, di un mondo del quale è difficile, molto difficile dire “conosco”.»
Perché allora dichiarò “il nostro rapporto alla magistratura non aveva avuto fortuna. Noi tuttavia siamo radicati nella nostra convinzione”, quale convinzione?
«Lei certamente si riferisce alla scomparsa del povero Mauro De Mauro, il giornalista palermitano, quando cioè gli investigatori concentrarono i loro sforzi su due distinte strade di investigazione. Dissi: “Se avesse avuto più fortuna”. Non ricordo a chi lo dissi, ma certamente lo dissi di un nostro rapporto, perché ritengo ancora oggi che molte cose mi diano ragione. Se quel nostro rapporto avesse avuto più fortuna molto probabilmente le stesse vite del dottor Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo di un bravo funzionario di PS e di un nostro ufficiale dell’Arma, non sarebbero state compromesse, in via definitiva, voglio dire che tra i primi nomi indicati nel rapporto, c’era quello del boss mafioso Gerlando Alberti che, unitamente ad altri troviamo poi nel famoso rapporto dei 114. Quasi tutti arrestati contemporaneamente in ogni parte d’Italia, mentre io ero al comando della Legione di Palermo.»
Perché è morto Mauro De Mauro, secondo lei?
«Secondo me perché aveva appreso molto sui traffici della droga e si riprometteva di fare uno scoop giornalistico.»
Quante volte lei si è sentito sconfitto?
«Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificarla.»
Dicono che le sue inchieste sono minuziose, precise, che lei si fiderebbe poco dei giudici. A proposito di una sentenza di Genova, lei ha detto “una giustizia che assolve!”
«Se minuzioso è inteso per scrupolo, sta bene. Bisogna essere scrupolosi e bisogna pretendere che lo siano anche gli ufficiali di polizia giudiziaria che lavorano alle tue dipendenze. Per raccogliere una messe di dati, di notizie che aiutino il magistrato e perché egli possa essere confortato laddove deve condannare e anche laddove deve assolvere per insufficienza di prove . Perché quando lo scrupolo si spinge a scartare le circostanze fortuite e esaltare le circostanze sintomatiche, si può sempre arrivare ad una insufficienza di prove. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda le dirò che io ho sempre considerato la magistratura un altare. Come cittadino posso anche ammettere che il sacerdote sbagli la liturgia. Come comandante di uomini devo sempre considerare le fatiche, le amarezze, i sacrifici e i rischi che hanno affrontato.»
In un discorso, riferendosi alla battaglia che i carabinieri conducono contro il terrorismo, lei ha accennato, riferisco tra virgolette alla lotta con i denti, “alla rabbia del resistere alla gioia di dare, di donare senza chiedere, alla rinuncia per tutta la vita agli affetti più cari”.
«Lei si riferisce al discorso celebrativo che io tenni il 5 giugno scorso in occasione della festa dell’Arma. Lei non deve dimenticare che nei mesi precedenti erano stati barbaramente assassinati il maresciallo Battaglini e il carabiniere Tosa, il tenente colonnello Tuttobene, l’appuntato Casu e che erano stati feriti altrettanto barbaramente il tenente colonnello Ramundo, il maresciallo Bea. Io dopo questi gravissimi fatti non ho avvertito la minima flessione in nessun reparto e tantomeno in quelli più direttamente interessati. Non ho udito neanche un gemito uscire dalle sale operatorie. E ho visto esaltarsi la dignità sulla pelle delle vedove. Io ritengo che fosse doveroso in quella circostanza di fronte ad una prova così virile ed edificante, dare un riconoscimento a quegli uomini.»
Senta generale, lei ha mai incontrato Curcio o altri terroristi?
«Curcio non l’ho mai incontrato. Qualche altro sì.»
Veniamo all’argomento che preme, chi è un terrorista?
Io vorrei azzardare una distinzione iniziale tra terrorista ed eversore. Terrorista può essere anche un caso isolato, un anarchico. Certamente non iscritto in un processo che abbia alle sue spalle un retroterra culturale e davanti una strategia da condurre in porto. L’eversore invece lo vedo inserito non solo in una retroterra, chiamiamolo ideologico, ma anche innestato in una strategia che con la violenza, vuole affrontare, distruggere le istituzioni dello Stato.»
Chi sono i terroristi che ha incontrato?
«Ho conosciuto Peci e Barbone: perché mi hanno mandato a chiamare.»
Sono loro che hanno convocato lei?
«Non è che mi sia fatto convocare, ma la chiamata di Peci è stata certamente un fatto anomalo, un fatto assolutamente nuovo che mi ha spinto a soppesare per alcuni giorni la sua richiesta; poi, dietro alle insistenze…»
Si può fare una specie di radiografia dei terroristi per vedere se si tratta di figli del sottoproletariato, di delusi del ’68 , dei rampolli della borghesia o dei virgulti di una pseudocultura cattolico- marxista?
«Se si dovesse fare quella radiografia che lei chiede piccola o grande che sia verrebbero ad emergere più marcatamente delle ombre per quanto riguarda gli ultimi tre gruppi da lei indicati.»
Lei ha qualche dato, qualche statistica in proposito?
«Posso dire che ho compiuto un’analisi in questo senso, di carattere sociologico, nel periodo in cui fui a capo di quel particolare organismo preposto dal settembre ’68 al dicembre 1979 alla lotta contro il terrorismo.»
In quell’arco di tempo (una quindicina di mesi) vennero arrestati 197 eversori.
«Di questi 197 eversori soltanto 11 risultavano disoccupati. Oltre 70 erano docenti o studenti universitari. Poi c’erano 33 operai, 9 casalinghe, 19 impiegati, 5 laureati…Insomma un’immagine dell’eversione forse un po’ diversa da quella che normalmente uno si fa.»
Il ’68 è stato o no una fabbrica di terroristi ? Sono molti quelli che provengono dal mondo universitario?
«Ritengo che il ’68 non sia stato né una fabbrica né l’unica matrice del terrorismo. E certo però che molti docenti universitari degli anni successivi, sono nati, provenivano dal ’68 e indubbiamente abbiamo avuto dei docenti che hanno insegnato, hanno prodotto compendi imposti ai loro studenti col consenso anche se tacito, della scala gerarchica. E in quelli si insegnava la guerriglia, si insegnava a rubare e mentre questo accadeva, le aule magna delle università di Stato venivano usate dagli apologeti della forza, della violenza ,per istigare contro le istituzioni dello Stato che concedeva le aule.»
La stampa ha delle responsabilità? Su questo tema?
«Penso di si. Penso di si senza voler fare il polemico a tutti i costi. Penso di si da un punto di vista professionale. Nel senso che, così come un corteo è preceduto da un megafono altrimenti dietro non sentirebbero, altrettanto l’eversore, i gruppi eversivi si propongono di ottenere dalla stampa quella cassa di risonanza che, da soli, per la loro organizzazione logistica e strutturale, non riuscirebbero ad ottenere sull’intero territorio del paese.»
Lei fece accerchiare l’università della Calabria. Ripeterebbe oggi quella operazione ? E quali risultati diede?
«Accerchiare per modo di dire perché se si considera che in poche ore si risolsero 25 perquisizioni che si riferivano all’abitato di Cosenza, all’abitato di Renda e all’intero complesso universitario, io credo che non si possa parlare di accerchiamento. Per quanto riguarda i risultati essi sono ancora al vaglio della magistratura che allora soppesò e diede l’autorizzazione preventiva per quelle 25 perquisizioni. Ripeterei l’operazione se la magistratura confermasse di essere d’accordo.»
Perché il terrorismo è così "italiano"?
«Non è italiano soltanto, perché lo hanno anche altri paesi. Noi aggiungiamo un condimento che è l’emotività: è una specie di droga che ci portiamo dentro, una droga leggera, ma c’è.»
Lei pensa che la centrale, il cervello del terrorismo sia l’estero?
«E’ un argomento che è stato sottoposto a valutazione ben più autorevoli della mia. E quindi mi astengo dal rispondere se non per dire che, quando esistono delle potenze o dei mondi contrapposti sarebbe assurdo pensare che i relativi servizi non siano impegnati nella ricerca di un teatro in cui determinate strategie economico e militare non abbiano da essere raggiunte.»
Si è parlato ad un certo momento e con insistenza del grande vecchio. Lei come lo immagina?
«Potrebbe anche esistere, però io, con le conoscenze che ho acquisito, non sono in condizioni di farmene oggi un’immagine né di prestarne una a lei.»
C’è una figura misteriosa, inafferrabile: Mario Moretti. Ritiene davvero che sia il capo dell’eversione? E perché non ce la fate a prenderlo?
«È certamente un capo, del fronte esterno, ma oggi condizionato dal fronte interno (che sarebbe il carcerario) e della stessa accidentalità del terreno sul quale muove. Mi auguro che la fortuna qualche volta non l’assista!»
Perché qualcuno si "pente"? Come giudica questo fenomeno che si sta tanto intensificando?
«Ci sono le norme politico-legislative che hanno certamente contribuito molto a rendere più attuale il fenomeno del pentimento. Ma non dobbiamo dimenticare che sotto un profilo psicologico, tutto nacque con la confessione di Patrizio Peci. E ciò che più stupisce, ciò che più emerge in un contesto del genere, è quasi il riaffiorare di valori che sembra siano stati a lungo compromessi, contenuti. Fino a porre le forze dell’ordine - e la stessa giustizia - nelle condizioni di prevenire molti omicidi, molti ferimenti, molte altre rapine. E questo, credo, debba essere valutato nella misura più esatta.»
Lei pensa dunque che Peci abbia parlato per una “crisi di coscienza”?
«Una crisi di coscienza che lo ha visto di fronte ad una valutazione, direi onesta, di quello che in quel momento era la disarticolazione che noi avevamo creato in seno all’organizzazione eversiva.»
Senta generale, dicono che una delle sue qualità più spiccate è il segreto. È vero che neppure i suoi figli conoscono il suo numero di telefono diretto?
«È proprio così.»
E le pesa sapere i rischi che corrono i suoi famigliari?
«Molto.»
Lei crede che i brigatisti che confessano siano sinceri?
«Io non ho motivi né ho avuto motivi per pensare diversamente.»
C’è qualcuno di quelli che lei ha conosciuto che l’ha impressionata favorevolmente, da un punto di vista umano? Per esempio, Peci, che impressione le ha fatto?
«Entrambi quelli che ho avuto occasione di contattare, sia Peci, sia Barbone, mi hanno impressionato sotto il profilo umano.»
In che senso ? Per lealtà nel parlare…?
«Per una progressione nella liberazione di qualche cosa che dentro premeva. Questa gente parte con un volantinaggio, una volta reclutata. Parte andando a rilevare le targhe di qualche auto. Parte perché gli viene ordinato di fare l’inchiesta nei confronti di una persona. Tutti comportamenti che non costituiscono reato, se non inquadrati in un’associazione. Ma quando a uno, ad un certo momento, si richiede di fare l’autista per andare a compiere qualche cosa, ed assiste materialmente e funge da trasporto per queste persone, già è coinvolto. Allora lo si usa immediatamente per sparare. La seconda volta deve sparare e colpire. La terza finisce… Insomma è un progredire nel quale qualcuno, ad un certo momento, può desiderare di liberarsi. Di salvare. Di espiare. Di salvare altre vite umane che potrebbero essere coinvolte.»
Senta generale, non ne parliamo da un punto di vista processuale ma da un punto di vista psicologico: che differenza c’è fra un Curcio e un Toni Negri?
«Beh, Curcio andava. Negri invece mandava… ad espropriare. E nello stesso tempo cercava il finanziamento dal Centro nazionale delle ricerche!»
Che differenza c’è fra terrorismo di destra e terrorismo di sinistra?
«Per me nessuna differenza. C’è una differenza in questo senso: che, mentre nel terrorismo di destra noi troviamo un retroterra culturale quasi dai contenuti asmatici, non bene assimilato, tanto che porta a una pericolosità forse più avvertita, quella della estemporaneità e dell’immediatezza, in quello di sinistra c’è invece un filone ideologico. C’è un qualche cosa che viene coltivato, viene intensamente anche insegnato. E quindi si propone come strategia di usare la violenza contro le istituzioni dello Stato.»
Dicono di lei che è poco portato a collaborare. Che tende ad agire da solo. È vero?
«No. Non è vero. È vero nella misura, in cui preferisco lavorare con chi, da persona responsabile, ama il suo lavoro ed ama soprattutto il suo riserbo.»
Qual è stato il momento più difficile della sua carriera?
«Quando ho visto pagare in silenzio, da parte della mia famiglia, quattro trasferimenti di sede in uno stesso anno.»
Come affronta la sconfitta?
«Quand’ero più giovane, con rabbia. Da qualche anno, invece, con maggiore serenità e anche andando ad analizzare gli errori compiuti. Però mi è capitato, mi capita talvolta, di mettermi tranquillo, in riva ad un fiume, ad attendere.»
Hanno scritto che quando considererà esaurito il fenomeno del terrorismo, lei se ne andrà?
«Prima di tutto non vedo il perché. Poi, me ne dovrei andare troppo presto. E poi perché? Non si vive di solo terrorismo, no?»
Ha dei rimpianti? C’è qualche cosa che avrebbe voluto fare e che non ha potuto fare?
«Non ho rimpianti. Avrei voluto soltanto che il mio lavoro non fosse costato tanto ai miei affetti.»
Chi sono i suoi amici?
«Personalmente amo i miei giovani. Li amo perché sono semplici, sono di pasta buona, hanno gli occhi puliti e ne sono spesso ricambiato. Ma amo anche i contadini di “terre lontane”, amo soprattutto i “miei” carabinieri! Di oggi, di ieri, di ogni ordine, di ogni grado, anche quelli che non sono più. E dico miei, nel senso usato nel suo testamento morale dall’amico generale Galvaligi.»
Ha mai provato ad immaginare la sua vita senza divisa? È una domanda che potrebbe apparire cattiva. Ma non ho queste intenzioni…
«Bene, io, in divisa, ho vissuto tutta la mia vita, con l’unico scopo di servire lo Stato, le sue istituzioni, la collettività che mi circonda. Penso però che non mi abbia mai fatto dimenticare di essere un cittadino come tutti gli altri.»
Ma, volevo dire, come può supporre la sua esistenza il giorno che non sarà più in servizio?
«Beh, potrò coltivare gli hobbies più tranquillamente e avrò anche tempo da destinare ad una lettura che fino ad oggi è stata un po’ frammentaria e soprattutto incentrata sull’attualità.»
Quali sono le accusa che l’hanno particolarmente ferita?
«Quelle che, nate da problemi contingenti, relativi al mio incarico o al mio lavoro, sono state poi strumentalizzate e sono scese così in basso da ledere la mia dignità di uomo, la mia dignità di soldato, la mia fede di vecchio democratico.»
Lei parlava di hobbies. Ne ha?
«Sì, quello dei francobolli e, quando ho tempo, quello dei campi, della terra.»
Quando ha un’ora libera, come la passa?
«Mi piace discorrere. Amo soprattutto essere un uomo come tutti gli altri.»
Si parla di un gruppo di 60 uomini (ma c’è chi dice 200) e lei fedelissimi, devotissimi, che vivono al di fuori delle caserme che si muovono in mezzo alla gente, direi quasi misteriosamente.
«In tema di devozione, arrivato al grado che rivesto, potrei presumere di più di 60 o di 200! Ma, a parte l’immodestia, lei si riferisce certamente ad un periodo che non è più. Cioè si riferisce al periodo che ho detto prima. Quando nacque quell’organismo, voluto dal ministero degli Interni nell’agosto-settembre 1978 per la lotta al terrorismo, ebbi effettivamente a disposizione 220-230 persone che venivano da ogni parte d’Italia. In mezzo a loro vi erano certamente alcune decine (20 o 30) provenienti dal famoso nucleo che era stato creato a Torino nel ’74-75 e alla cui esperienza e alla cui cultura attinsi a piene mani. Ma questi 220 elementi, tra i quali anche una quarantina di bravi appartenenti al corpo della Ps, ivi comprese delle validissime assistenti e ispettrici, direi anche coraggiose, vissero una parentesi talmente intensa, talmente inserita nella realtà, che, direi, non avevano una ragione geografica. Non avevano un affetto a cui dedicarsi. Non avevano un terreno a cui ancorarsi ed effettivamente li ho portati a vivere (così come ai tempi delle squadriglie in Sicilia si viveva accanto alla realtà del banditismo) la realtà dell’eversore, cioè mimetizzati, inseriti in modo diverso nella società. E questi uomini, questo gruppo di valorosi, perché tali sono stati hanno condotto a dei risultati che certamente erano nelle attese, soprattutto in un momento delicato, di transizione dei nostri servizi e di una opinione pubblica che non poteva non essere esasperata. Questi uomini si ritrovavano a Milano, magari provenienti da Bari o da Catanzaro; oppure quelli di Genova, di Torino dovevano catapultarsi a Roma o a Catania; questo amalgama è durato pochi mesi: ma già dai primi tempi ha dato la sensazione di essere un magma umano veramente efficiente, entusiasta. Non è che abbia speculato sul loro entusiasmo. Certamente l’ho usato molto. A loro sono molto grato e sono orgoglioso di averli avuti alle mie dipendenze. Quando i risultati venivano raggiunti, non ho mai dimenticato però che parte del merito andava sempre alla struttura dell’Arma. La struttura territoriale che effettivamente mi è stata sempre vicina dando un contributo del massimo rilievo; non soltanto quei 220, quindi, devono essere portati in superficie. È certo, tuttavia, che quando ci lasciammo, nel dicembre ’79, ci siamo sentiti uniti da una esperienza irripetibile; e da una medaglietta che io feci coniare per tutti, in metallo piuttosto vile.»
Lei crede che un terrorista pentito un giorno possa rientrare nella vita normalmente?
«Io penso di sì. Soprattutto se lo Stato lo aiuta a dimenticare e a farsi dimenticare.»
La chiamano il “piemontese di ferro”. Perché?
«Se si tratta di attingere alla coerenza, all’amore per l’ordine e per lo Stato, io sono lieto di essere definito “piemontese”. Per quanto riguarda il “ferro”, sarei presuntuoso pensare ad un collegamento con un famoso duca del 1500. Però è anche vero che, di tanto in tanto, vengono in superficie la estemporaneità, l’impulsività, la fantasia, la trasparenza, anche un po’ di humour, che tradiscono le mie origini emiliane, alle quali sono molto attaccato.»
La capisco! C’è qualche definizione che le piace di più?
«Non è che mi piaccia…Mi chiamano “UFO”, ma non come una sigla che sta per “ufficiale fuori ordinanza”! Proprio come Ufo!»
Che cosa pensa di dovere ai suoi collaboratori?
«Tutto.»
Quando racconterà la sua vita ai suoi nipotini, che cosa dirà?
«Beh, ai bambini si raccontano le favole, le belle favole. E le racconterò anch’io ai miei nipotini. Ma se si riferisce alla mia vita, io penso che la mia vita non sia stata una favola! E se è, come è, una esperienza duramente vissuta, ambisco solo raccontarla ai giovani della mia Arma.»
E Dalla Chiesa disse... di GIORGIO BOCCA (La Repubblica-10 agosto 1982). La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro. Dalla Chiesa è nero: "Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare».
Che arroganza generale?
«A un giornalista devo dirlo? uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo».
Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po' lasciata andare, un po' leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.
Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?
«Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato».
Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve "coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale" la lotta alla Mafia.
«Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati».
Vediamo un po' generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.
«Preferirei l'esplicito».
Se non ottiene l'investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?
«Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più».
No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori?
«Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo».
Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo?
«Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi».
Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde?
Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.
Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de "Il giorno della civetta". Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?
«Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: " Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi».
E oggi ?
«Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. E' finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».
Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania?
«Sì».
E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? E' vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente?
«Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo».
Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?
«E' accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato».
Mi spieghi meglio.
«Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco».
Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?
«Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato».
Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.
«Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa».
Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?
«E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali».
Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del "Giorno della civetta"?
«Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco».
Mi faccia un esempio.
«Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade».
Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo.
«In un certo senso sì, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell' Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia».
Perché sbaglia, generale?
«La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».
E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale?
«Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale».
Generale Dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni?
Mi guarda incuriosito.
Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste, Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliano, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzotto e dei Carnevale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto Dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.
«Ma sì, e con un certo ottimismo, sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati».
Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora Dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.
«Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno, con il punteggio dieci, il massimo. Se non è istigazione ad uccidere questa?».
Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono?
Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: "Eccellenza".
Dalla Chiesa, l'ultimo mistero. Un ufficiale dell' Arma trafugò le sue carte segrete. È destinata ad allungarsi la lista delle prove trafugate dopo gli omicidi eccellenti di Palermo. Da qualche settimana, la Procura indaga sulla scomparsa di una valigetta di pelle marrone appartenuta al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo assassinato dai killer di Cosa nostra il 3 settembre 1983. Di quella borsa, nessun investigatore si era mai interessato: subito dopo l'eccidio di via Carini, il pool di Falcone e Borsellino si era concentrato su un altro mistero legato a Dalla Chiesa, la sparizione di alcune carte dalla cassaforte della residenza privata del prefetto. Poi, all'improvviso, nel settembre 2012, è stato recapitato un anonimo molto ben informato a casa del sostituto procuratore Nino Di Matteo, uno dei pm che indaga sulla trattativa mafia-Stato: in dodici pagine non si parla solo delle carte che alcuni carabinieri del Ros avrebbero portato via dal covo di Totò Riina, nel 1993, ma anche del mistero della borsa di Dalla Chiesa. Ecco cosa scrive l'anonimo nelle prime righe del testo, che ha ribattezzato "protocollo fantasma": «Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che Dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo». Il figlio di Dalla Chiesa, Nando, la ricorda bene quella borsa: «Mio padre la portava sempre con sé» - dice a Salvo Palazzolo su “La Repubblica” - «Era una borsa senza manico, con la cerniera. Dopo l'omicidio, c'eravamo chiesti che fine avesse fatto. In tutti questi anni abbiamo pensato che fosse andata persa, nel trambusto di quei giorni. Evidentemente, non era così». Le parole del professore Dalla Chiesa confermano che l'ultimo anonimo di Palermo è davvero ben informato, perché di quella borsa nessuno ha mai parlato in inchieste giudiziarie o giornalistiche. L'anonimo racconta anche di un ufficio riservato che il generale Dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: «Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono», scrive, sottolineando che in quella stanza c' erano «faldoni, appunti e messaggi» riservati. Tutte carte che Dalla Chiesa avrebbe iniziato a raccogliere dopo il suo ritorno in Sicilia come prefetto. Adesso, i pm di Palermo vogliono dare un nome a chi ha scritto quell' anonimo, e per questa ragione negli ultimi giorni hanno chiesto alla Dia di convocare una decina fra ufficiali e sottufficiali dell'Arma citati nelle dodici pagine. A condurre le audizioni è un pool, di cui fanno parte i sostituti Di Matteo, Sava, Del Bene, Tartaglia e l'aggiunto Teresi. I magistrati sono sempre più convinti che l'anonimo sia stato scritto proprio da un carabiniere. E sperano che alla fine si faccia avanti. Anche l'allora giudice istruttore Giovanni Falcone cercava notizie su alcune indagini riservate svolte da Dalla Chiesa negli ultimi mesi della sua vita. Agli atti del maxi processo è rimasta una lettera indirizzata al «comandante generale dell'Arma dei carabinieri» e per conoscenza «all'onorevole ministro della Difesa» e «al ministro degli Interni». Protocollo riservato "n. 10/6 Ris". Il 20 maggio ' 83, Falcone convocò anche l'allora comandante generale Lorenzo Valditara, per ribadirgli la domanda. L'alto ufficiale disse che Dalla Chiesa era rimasto in contatto con i pm di Bologna, che indagavano sulla strage alla stazione. Quella domanda di Falcone è tornata di attualità.
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
La Torre e la legge che colpì la mafia. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.
Il modo migliore di onorare la memoria del politico ucciso nel 1982 è un efficiente piano di riutilizzo dei beni confiscati alle cosche.
Il 30 aprile di 40 anni fa veniva ucciso dalla mafia, insieme all’amico e autista Rosario Di Salvo, il politico siciliano Pio La Torre. Dalla Chiesa, che ne era stato estimatore e amico, alla domanda di Giorgio Bocca: «Generale, perché fu ucciso il comunista Pio La Torre?», rispose: «Per tutta la sua vita; ma, decisiva, la sua ultima proposta di legge». Qualche «manina» aveva relegato la proposta in un remoto cassetto. Fu recuperata proprio dopo la morte di Dalla Chiesa (3 settembre 1982) per essere convertita — sull’onda dell’indignazione e ribellione degli italiani onesti — nella legge 646 del 13 settembre 1982, intitolata appunto a La Torre, oltre che al ministro Rognoni.
Ed ecco che la mafia, di cui prima si negava spudoratamente l’ esistenza, è finalmente vietata e punita come reato associativo nell’articolo 416 bis del codice penale. Così dotando forze dell’ordine e magistratura di uno strumento di eccezionale importanza, senza del quale (parola di Falcone) pretendere di sconfiggere la mafia era come pensare di fermare un carrarmato con una cerbottana. Nello stesso tempo la proposta di La Torre (fatta propria dalla legge 646/82) inaugurava una «filosofia» ispirata alla necessità di affiancare alle indagini tradizionali interventi sulla accumulazione delle ricchezze derivanti dall’agire mafioso. Di qui i nuovi istituti del sequestro e della confisca dei beni appartenuti, direttamente o indirettamente, ai soggetti indiziati di far parte delle organizzazioni mafiose. Con obiettivi ben precisi. Non solo impedire che le risorse rimaste in possesso di tali soggetti alimentino altri crimini; non solo contrastare il riciclaggio che inquina l’economia legale e danneggia gli operatori onesti; ma anche indebolire in radice il potere e il prestigio delle cosche, posto che boss e picciotti temono sì di finire in galera, ma ancor più di perdere i «piccioli», la ricchezza che è la spina dorsale (con la violenza e l’intimidazione) del loro potere.
La legge La Torre ha poi innescato vari interventi legislativi. Una svolta, decisamente positiva per la sua originalità, si è avuta con la legge n. 109 del 1996, un’iniziativa popolare fortemente sostenuta da Luigi Ciotti e da «Libera» con la raccolta di un milione di firme: una spinta irresistibile che «costrinse» il Parlamento ad approvare la legge all’unanimità, introducendo il riutilizzo a fini sociali e/o istituzionali dei beni confiscati alle mafie. In questo modo — con la restituzione del «maltolto» — l’impegno antimafia ha assunto anche una forte valenza simbolica di compensazione (giustizia riparatoria) delle sofferenze inferte alla comunità. Aprendo nuove prospettive di sviluppo, dal momento che i beni sottratti ai mafiosi possono essere al centro di operazioni di rilancio economico.
Tanto premesso, affinché il ricordo di Pio La Torre non sia solo celebrativo, occorre pure segnalare che le esperienze realizzate devono fare i conti con luci e ombre. Numerosi sono i casi positivi di beni destinati ad assistenza per anziani o per aggregazioni di giovani o per il recupero di tossicodipendenti, oppure sedi di forze dell’ordine; e di aziende, una volta in mano alle mafie, oggi gestite da cooperative che stanno sul mercato. Nello stesso tempo vi sono purtroppo — nella applicazione della legislazione in materia di sequestri e confische — tempi troppo lunghi e zone di grave ineffettività. Occorre essere impietosi nel giudizio e dire che si tratta di casi di sconfitta per lo Stato; anche per non lasciare tale legislazione esposta al rischio di essere travolta da critiche superficiali o interessate.
Il modo migliore per fare memoria di Pio La Torre e delle altre vittime innocenti di mafia è mettere in campo efficienti piani di riutilizzo capaci di intercettare le risorse, in particolare del Pnrr, destinate alla valorizzazione di quanto lo Stato ha acquisito con le confische. Monitorando costantemente la situazione e mappando i bisogni (di uso sociale e/o istituzionale) dei vari territori. Se ai provvedimenti di confisca segue una lunga fase di abbandono, è probabile che molti potranno dire «si stava meglio quando si stava peggio». Non arginare questa sorta di «nostalgia del Faraone» equivarrebbe, di fatto, a svilire il sacrificio di Pio La torre e di tutte le altre vittime di mafia. Un inaccettabile tracollo dell’etica della responsabilità.
UOMINI SOLI. Una vita intera contro la mafia, Pio La Torre quarant’anni dopo. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 28 aprile 2022
È il primo “delitto eccellente” del 1982. L'anno della guerra di mafia, l'anno della Sicilia che cambia padroni, l'anno che uccidono Pio La Torre. Lo aspettano di mattina, poco prima delle nove e trenta dell'ultimo giorno di aprile, vigilia di un Primo Maggio con un popolo in festa che lo attendeva a Comiso per una grande manifestazione per la pace
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
È il primo “delitto eccellente” del 1982. L'anno della guerra di mafia, l'anno della Sicilia che cambia padroni, l'anno che uccidono Pio La Torre. Lo aspettano di mattina, poco prima delle nove e trenta dell'ultimo giorno di aprile, vigilia di un 1º Maggio con un popolo in festa che lo attendeva a Comiso per una grande manifestazione per la pace.
Lì, gli americani volevano costruire una base per puntare più di cento missili contro l'Unione Sovietica. “Cruise” li avevano chiamati, missili da crociera.
I sicari di mafia ammazzano Pio La Torre e Rosario Di Salvo, un amico che era emigrato in Germania e che era tornato in Sicilia per restare al suo fianco.
Sulla scena del crimine ci sono il consigliere istruttore Rocco Chinnici, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il capo della sezione Investigativa della squadra mobile Ninni Cassarà. Negli anni a venire, uno dopo l'altro, anche loro saranno tutti uccisi
Nel pomeriggio del 30 aprile sbarca in Sicilia il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, appena nominato prefetto di Palermo. Gli chiedono: «Quale è il movente del delitto, perché hanno ammazzato Pio La Torre?». Risponde: «Per tutta una vita».
Quattro mesi dopo, il 3 settembre, sarà proprio il generale l'obbiettivo dei killer.
Figlio di contadini, nato nella borgata palermitana di Altarello di Baida, Pio La Torre è prima sindacalista, protagonista dell'occupazione delle terre nell'infuocato dopoguerra siciliano, poi consigliere comunale del partito Comunista Italiano, poi deputato alla Regione Siciliana e infine alla Camera per tre legislature. La legge sull'associazione mafiosa e sui beni confiscati che abbiamo ancora oggi porta il suo nome e quello del ministro dell'Interno del tempo, Virginio Rognoni.
Per una ventina di giorni pubblicheremo sul Blog Mafie ampi stralci tratti da “Uomini Soli”, il libro di Attilio Bolzoni, scritto nel 2012 e ristampato dalla Zolfo Editore. Dentro ci sono le storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. I delitti e le stragi di trenta e quarant'anni, giù a Palermo.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA. Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
E Ninni Cassarà disse: «Siamo tutti cadaveri che camminano per Palermo». TRATTO DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 aprile 2022
Perché uccidono Pio La Torre? Probabilmente perché ha capito che la Sicilia sta cambiando padroni. È mafia quella che spara. Ma non è solo mafia quella che fa di Palermo una sconfinata tonnara. «È una città dove si fa politica con la pistola», dice sempre agli amici Pio La Torre.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Quella mattina sono anch’io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si accende un’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita.
Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: «Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde: «Questa è una città di cadaveri che camminano». C’è un fotografo sulla strada. Aspetta che loro, Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino, siano per un attimo tutti vicini. Poi scatta. Ogni tanto mi capita di rivedere quella foto su qualche vecchio giornale. Dopo trent’anni, ho sempre un brivido.
Perché uccidono Pio La Torre? Probabilmente perché ha capito che la Sicilia sta cambiando padroni. È mafia quella che spara. Ma non è solo mafia quella che fa di Palermo una sconfinata tonnara. «È una città dove si fa politica con la pistola», dice sempre agli amici Pio La Torre.
È laboratorio criminale e terra di sperimentazione per accordi di governo da esportare a Roma, è porto franco, capitale mondiale del narcotraffico, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli.
Palermo è sospesa in una calma irreale, lontana dalle inquietudini e dalle tensioni che in quegli anni attraversano l’Italia. Un mondo ai confini del mondo dove, all’improvviso, l’incantesimo svanisce.
C’è un nuovo patto fra il crimine delle borgate e delle stalle e quell’altro dei salotti e dei palazzi. Un patto per sacrificare qualcuno e salvare qualcun altro. È un’intuizione che porta Pio La Torre verso la morte. Pio La Torre è tenace, intransigente, fiero. È uno che non si piega mai. E poi dentro di sé, palermitano di una poverissima borgata, nasconde un gran sapere, ha i codici per decifrare ciò che sta avvenendo. E tutta l’autorevolezza per rappresentare quella Sicilia in tumulto su, a Roma: a Botteghe Oscure, ai dirigenti del suo partito, al parlamento. Pio La Torre è pericoloso. Parla due lingue. Sa tradurre il siciliano in italiano.
È questo il movente più probabile della sua uccisione. Il suo ritorno nell’isola – è il settembre 1981 – agita, dà fastidio. Lo conoscono. Lo temono. Lo fermano a colpi di mitraglia a pochi chilometri da dov’è nato.
L’OMICIDIO DI PIO LA TORRE. Un delitto eccellente nella città dove si fa politica con la pistola. TRATTO DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 aprile 2022
Chi è? Chi è quell’uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino? Chi è il primo morto di questa giornata di sole, una mattina di primavera siciliana che sembra già estate, il sangue, le mosche, la folla che freme davanti a un altro sparato di Palermo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Chi è? Chi è quell’uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino? Chi è il primo morto di questa giornata di sole, una mattina di primavera siciliana che sembra già estate, il sangue, le mosche, la folla che freme davan[1]ti a un altro sparato di Palermo.
Chi è? «È Pio La Torre», bisbiglia il commissario capo Antonino Cassarà al giudice Falcone. «È Pio La Torre», ripete Giovanni Falcone al suo amico Paolo Borsellino. «È Pio La Torre», sibila con un soffio di voce il consigliere istruttore Rocco Chinnici che alza gli occhi al cielo e si fa il segno della croce.
Sono tutti lì, uno accanto all’altro, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso parlamento dell’isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme. Sono tutti lì, silenziosi e immobili intorno all’ultimo cadavere di una Palermo tragica.
Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista Italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista e capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell’occupazione delle terre. Un nemico di tutte le ingiustizie. Nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del 1° maggio del 1982.
L’OMBRA DI PIO LA TORRE
Gli sparati di Palermo «parlano» sempre. La scena di un crimine di mafia racconta molto e a volte anche tutto. Ma il cadavere di Pio La Torre è muto. Sembra un manichino. Il capo è abbandonato sul corpo insanguinato di Rosario Di Salvo, da ragazzo emigrato in Germania e poi tornato giù anche per lui. Per proteggerlo.
Non era solo il suo autista, Rosario era un amico. L’ombra di Pio. Non ci sono testimoni. Nessuno ha visto. Le tracce che lasciano gli assassini sono una quarantina di bossoli, sparsi sull’asfalto di piazza Generale Turba. I palermitani la chiamano piazza, in realtà è una strettoia dove le auto passano lentamente una ad una, in fila indiana. Sono bossoli di una Singer calibro 45, una pistola quasi sconosciuta in Italia.
E di un fucile mitragliatore di fabbricazione americana, marca Thompson, in dotazione alle forze armate Usa, un’arma che in Sicilia è stata usata una sola volta. Nel 1958. A Corleone. Per uccidere il vecchio patriarca Michele Navarra. «Non abbiamo ancora una rivendicazione e sono già passate quasi tre ore dal delitto», si affretta a far sapere alla stampa Alfonso Vella, il dirigente della Digos, la polizia politica.
Rivendicazioni? E da parte di chi? Delle Brigate Rosse? Dei terroristi neri? Di fantomatici servizi segreti mediorientali o israeliani? Del capo dei capi di Cosa Nostra siciliana Salvatore Riina, detto lo zio Totuccio o Totò il Corto? La scena del crimine confonde. Proprio come volevano i mandanti del delitto.
L’agguato del 30 aprile 1982 non ha una firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale.
Magari – come qualcuno mormora – si dovrebbe esplorare la «pista interna». Indagare dentro il suo partito. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni.
TRATTO DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
ESCLUSIVO. Il documento segreto dei servizi sull’omicidio La Torre: silenzi e omissioni di Stato. ENZO CICONTE, storico, su Il Domani il 28 aprile 2022
Le indagini per l’omicidio di Pio La Torre, deputato e segretario regionale del Partito comunista italiano (Pci) della Sicilia, ucciso assieme a Rosario Di Salvo, lo si capì subito, si rivelarono difficili e complicate a cominciare dalla stranezza delle armi di provenienza militare.
Sulla sua uccisione si è scritto molto. Eppure, dopo tanti anni succede di trovare delle carte inedite che aprono un nuovo scenario.
L’elemento che rende particolare, anzi unico, il documento firmato da De Francesco è il fatto che, annotati a margine ci sono commenti a dir poco singolari che in ogni caso sono molto utili perché svelano un pensiero: ridimensionare l’impegno e l’importanza di La Torre.
Le indagini per l’omicidio di Pio La Torre, deputato e segretario regionale del Partito comunista italiano (Pci) della Sicilia, ucciso assieme a Rosario Di Salvo, lo si capì subito, si rivelarono difficili e complicate a cominciare dalla stranezza delle armi di provenienza militare.
Sulla sua uccisione si è scritto molto. Eppure, dopo tanti anni succede di trovare delle carte inedite che aprono un nuovo scenario. Ho scoperto tra i fondi dell’Archivio Centrale dello Stato di Roma un documento di 31 pagine con un titolo inequivocabile: Mafia: omicidio Pio La Torre. A distanza di due settimane dall’assassinio, il 17 maggio, l’allora direttore del Sisde (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), Emanuele De Francesco, lo inviò al presidente del Consiglio Spadolini e al ministro dell’Interno Rognoni.
Quando, qualche mese dopo, De Francesco riceve da Chinnici, giudice istruttore del Tribunale di Palermo, la richiesta di fornire notizie sull’omicidio La Torre, risponde che «il Sisde non è in possesso di elementi per l’identificazione degli autori dell’omicidio dell’on. Pio La Torre o per l’individuazione del possibile movente». Anche un altro ufficiale del Sisde, Bruno Contrada, all’epoca coordinatore dei centri Sisde della Sicilia, interrogato durante il processo La Torre, dichiara di «non essersene mai occupato». Ricavo le due notizie dal libro di Paolo Mondani e Armando Sorrentino Chi ha ucciso Pio La Torre?, edito da Castelvecchi nel 2012.
Quella di De Francesco è una dichiarazione non veritiera, come non veritiera è quella di Contrada. Alla magistratura si poteva mentire perché, secondo questi due poliziotti di razza, funzionari apicali del Sisde, i magistrati dovevano essere tenuti fuori dalle informazioni in loro possesso quasi fossero un corpo estraneo.
IL DOCUMENTO SEGRETO
Il documento che De Francesco invia a Spadolini è identico a quello trasmesso a lui solo pochi giorni prima da Contrada. Dunque ci sono due testi: quello del 17 maggio che è quello ufficiale, e l’altro del 13 maggio che è indirizzato al direttore del Sisde. Lo scritto di Contrada, però, ha il frontespizio oscurato. Ancora oggi, a distanza di 40 anni, ufficialmente permane il segreto, o mistero che dir si voglia, su chi sia questa fonte che oggi sappiamo essere quella del Sisde di Palermo perché lo ha rivelato Contrada. Perché tenerla ancora segreta?
Ma l’elemento che rende particolare, anzi unico, il documento firmato da De Francesco è il fatto che, annotati a margine ci sono commenti a dir poco singolari che in ogni caso sono molto utili perché svelano un pensiero: ridimensionare l’impegno e l’importanza di La Torre. Chi è l’autore di queste annotazioni a matita? Non si sa. Si possono avanzare delle ipotesi. Potrebbe essere lo stesso direttore che, dopo aver mandato ufficialmente il testo di Contrada, mette nero su bianco il suo pensiero, oppure qualcuno di grado molto elevato perché ha la possibilità di visionare e di annotare un testo di quel tipo.
Le cose più interessanti sono le annotazioni a margine, proprio perché esse ci consentono di far emergere la singolarità del documento. Nella parte descrittiva dei moventi dell’omicidio è detto che una delle cause è la “promozione di una estesa e incisiva campagna politica contro la installazione della base missilistica a Comiso”. Poco dopo questo giudizio troviamo la seguente valutazione: “Egli era divenuto il simbolo della lotta antimafia, non solo nell’ambito del suo partito ma anche in tutti gli altri ambienti cittadini”. A matita, un commento lapidario: Sarà!
È un’affermazione sorprendente perché fa a pugni, tra l’altro, con quanto è detto subito dopo circa l’impegno antimafia del dirigente comunista. «È opinione diffusa in questa città che l’on. La Torre avesse quasi personalizzato il problema della mafia, ne avesse fatta una ragione di vita». Vero, La Torre ne aveva fatto una ragione di vita, ma non aveva “personalizzato” il suo impegno quasi fosse una sua ossessione o questione personale. Tanto è vero che «molti, anche in ambienti qualificati» ritenevano che la stessa campagna contro la base di Comiso fosse «utilizzata per l’obiettivo primario della lotta alla mafia». In modo corretto il documento del Sisde precisa che «negli ultimi due mesi l’attività dell’on. La Torre tendente a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della mafia in Sicilia ed a far sì che divenisse una questione nazionale si era vieppiù intensificata e pubblicizzata».
E allora davvero è incomprensibile quel Sarà! che stride con tutto il resto dello scritto e stride ancor più con l’eco e la risonanza nazionale che l’omicidio ha provocato in tutti gli ambienti. Basti seguire la reazione della stampa di quei giorni per averne una conferma. A Emanuele Macaluso, qualche giorno prima La Torre aveva detto: »Adesso tocca a noi», non immaginando quanto avesse drammaticamente colto nel segno, né tanto meno che potesse essere lui la vittima. Per capire quello che è successo bisognava guardare sia al rapporto mafia-politica sia a quelle che accadeva fuori della Sicilia. È un omicidio italiano non solo siciliano.
LA MATITA DEL DISCREDITO
I giornali mettono in relazione l’uccisione di La Torre e l’arrivo di dalla Chiesa a Palermo come prefetto della città. Di dalla Chiesa si occupa anche il documento firmato da De Francesco. «Non è infine da sottovalutare anche l’opinione piuttosto diffusa in città che nella designazione» del generale dalla Chiesa a Prefetto di Palermo, notizia che aveva allarmato mafiosi e ambienti contigui alla mafia, «avesse avuto una parte determinante anche l’on. Pio La Torre». Commento con la solita matita: «Bah! Tesi poco credibile».
Che senso ha una simile postilla? Era noto, e pubblicizzato sulla stampa, che il 3 marzo Ugo Pecchioli, Pio La Torre e Rita Costa, la vedova del giudice Costa assassinato dalla mafia, erano andati da Spadolini per presentargli proposte sulla lotta alla mafia che avevano elaborato dopo che una delegazione di parlamentari comunisti s’era recata in Sicilia incontrando varie personalità e magistrati. Nel fondo Pecchioli custodito presso la Fondazione Gramsci di Roma, c’è un’ampia documentazione delle proposte avanzate. Pochi giorni dopo il Governo nomina dalla Chiesa prefetto di Palermo. Era evidente che c’era una relazione, o diretta o indiretta, con quell’incontro.
Che La Torre e dalla Chiesa si conoscessero sin da quando La Torre era dirigente sindacale a Bisacquino, che si stimassero e non nascondessero la loro amicizia, e si frequentassero era cosa nota e risaputa. Tra l’altro, il Sismi ha pedinato la Torre per tre decenni, pedinamento che terminò una settimana prima che fosse ucciso. Pura coincidenza? Oppure il pedinamento fu di proposito abbandonato per non essere testimoni di quello che, si sapeva, sarebbe accaduto?
Ancora un giudizio interessante nel documento di De Francesco secondo cui «l’omicidio sia stato perpetrato alla vigilia dell’arrivo a Palermo del nuovo Prefetto» e che l’azione criminale «sia stata fatta eseguire, da chi l’ha demandata, con voluta eclatanza intimidativa». Con la solita matita, un commento non facilmente decodificabile: «Conoscendo l’uomo come lo conosce la Mafia non è molto verosimile».
Due ultime annotazioni è utile segnalare. La prima riguarda un forte disprezzo verso i politici. All’idea di istituire una commissione parlamentare di vigilanza contro il crimine organizzato c’è la solita matita che precisa «lascerei i politici fuori!». La commissione avrebbe dovuto vigilare quando «operazioni finanziarie o procedure d’appalti appaiono legate alla mafia»; il commento a matita non si fa attendere: «soprattutto per questi motivi escluderei i politici». Infine, quando si accenna alla possibile modifica dell’art. 416 del codice penale, inserendo il bis con il reato di associazione mafiosa, la postilla a matita è: «(Associazione per delinquere). Si, ma quale? (forse per la parte che riguarda la permanente colleganza tra gli associati?)». Evidentemente sfuggiva la portata dell’innovazione dirompente della legge.
SOLO E SEMPRE LA MAFIA
Il documento Contrada-De Francesco, (a giusta ragione si potrebbe definirlo così), ha un limite di fondo: suggerisce che gli autori del crimine siano solo mafiosi violenti assetati di sangue. In nessun conto sono tenute le denunce di Pio La Torre sul ruolo del banchiere Michele Sindona e dei suoi molteplici legami mafiosi e finanziari con politici in Sicilia e a livello nazionale, l’individuazione del pericolo di una struttura parallela della Nato, illegale, che all’epoca non aveva un nome e che poi avremmo imparato a chiamare Gladio, la sottolineatura della nuova strategia della mafia e del ruolo di Vito Ciancimino nella Dc diventato più potente dopo l’uccisione di Michele Reina. Solo coppole e niente altro sembra suggerire quello scritto del Sisde.
Nelle carte della Fondazione Gramsci c’è il documento finale del IX congresso regionale del Pci siciliano, l’ultimo a cui partecipò La Torre che nella sua relazione sostenne che «gli omicidi politici compiuti dal terrorismo mafioso in Sicilia nel ‘79 e nell’‘80 non possono essere esaminati come singoli episodi» perché, invece sono “sequenze allucinanti” collegate tra di loro: gli omicidi di Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Reina, Costa.
Nel documento del Sisde c’è scritto invece che questi omicidi «trovano origine e conclusione in ambienti e fatti di mafia», per cui non c’è spazio per un interrogativo che pure aveva posto La Torre per gli altri omicidi e che ora tornava ancora più stringente dopo la sua morte: siamo sicuri che solo e soltanto di mafia si tratti? E siamo sicuri che non ci sia una «matrice politica», quella già individuata da La Torre in un’intervista al “Mondo” del 26 ottobre 1979 già solo per i delitti di Reina, Giuliano e Terranova e che diventava più attuale proprio dopo gli omicidi che precedevano il suo?
Coppole certo, non si discute, ma qualcosa di più e di molto più grande doveva pur esserci per capire il senso dell’omicidio La Torre.
ENZO CICONTE, storico.Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi libri, Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).
UOMINI SOLI – PIO LA TORRE. Altarello di Baida, le radici contadine e le prime minacce mafiose. TRATTO DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 30 aprile 2022
Pio La Torre è un giovane attivista politico. Apre una sezione a pochi passi dalla sua borgata, un’altra a Boccadifalco, la terza ai Chiavelli. In famiglia ci sono sempre discussioni, liti. Il dolore un giorno diventa paura, quando bruciano la piccola stalla dei La Torre. Consigliano ai genitori che quel loro figlio «certi discorsi non li deve fare».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
La borgata di Altarello di Baida è dove finisce il quartiere della Cuba con i suoi laghetti ricchi di pesci – il «paradiso in terra» dei re normanni, che vi costruirono un castello per i loro sollazzi – e dove cominciano le prime alture, attraversate dai viottoli che si arrampicano verso Boccadilfalco e Mezzo Monreale.
Ultimo di cinque figli, tre maschi e due femmine, Pio La Torre cresce fra gli orti e i giardini di limone di una gola della Conca d’Oro. Una Palermo distante dai palazzi barocchi dei Quattro Canti, dalle magnifiche dimore settecentesche dei baroni e dei conti della Piana dei Colli. La sua è una famiglia di braccianti. Il padre Filippo si spacca la schiena dall’alba al tramonto nell’agrumeto, ha anche vitelli, galline e qualche pecora. Sua madre Angela è analfabeta, originaria di Muro Lucano, in Basilicata. Lì ha fatto il militare il padre di Pio.
Il fratello più grande, Luigi, porta le uova al mulino e le baratta con la farina. Pio La Torre ha otto anni quando l’Italia invade l’Abissinia, dodici quando Hitler scatena la seconda Guerra Mondiale. Frequenta la Scuola di Avviamento al Lavoro, va a piedi ogni mattina «ai Leoni», nella piazza davanti all’ingresso del parco della Favorita. Da Altarello di Baida sono più di dieci chilometri. Fa il manovale a 30 lire al giorno per pagarsi le tasse all’Istituto Tecnico Industriale. Si diploma: è la promessa fatta da bambino ai genitori. Qualche mese dopo, non ha ancora diciotto anni, è già iscritto all’Università. Facoltà di Ingegneria. E anche al Partito Comunista Italiano. È il 1945. Scriverà molti anni dopo:
«Mio padre era un contadino povero. A quell’epoca, nel 1927, nel piccolo villaggio di Altarello di Baida e fino a quando non ebbi otto anni, non c’era la luce elettrica, si studiava a lume di candela o di petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andarla a prendere a quasi un chilometro di distanza. I contadini, la domenica mattina, quando si ripulivano, ed andavano in città dicevano: «Vaiu Palermo», come se andassero in un posto lontano. Ho vissuto nelle case dei contadini poveri del Corleonese e delle Madonie. Ho dormito con loro per intere settimane. Mancavano di tutto, del pane e delle strutture igieniche fondamentali. Nella casa di una famiglia di braccianti di Corleone, avevano un secchio che non si sapeva bene se era un secchio o una pentola perché serviva per cucinare la pasta e per lavarsi i piedi. C’era la capra che girava liberamente per la casa come un animale sacro, in quanto solo grazie al suo latte si alimentavano i bambini che altrimenti sarebbero morti di tubercolosi».
La guerra è appena finita, fame, miseria, campagne desolate, le rovine dei bombardamenti che marcano i confini dei quartieri di una città spettrale. Ci sono le vie dritte e tutte uguali che si allungano verso il mare, percorse giorno e notte dai camion e dalle jeep dell’Amgot, il governo militare alleato dei territori occupati.
Soldati al bivacco, ruffiani, borsa nera, la ripresa dei commerci mafiosi con i boss che si scoprono da un giorno all’altro tutti antifascisti. E su c’è Altarello di Baida, aggrappata alla collina, che sembra un villaggio fantasma. Dietro, fra Pioppo e Giacalone, la montagna con i suoi strapiombi fa riecheggiare le scorrerie di banditi che vogliono staccare l’isola dall’Italia. Da quelle parti un comunista in casa non è ben visto.
Pio La Torre è un giovane attivista politico. Apre una sezione a pochi passi dalla sua borgata, un’altra a Boccadifalco, la terza ai Chiavelli. In famiglia ci sono sempre discussioni, liti. Il dolore un giorno diventa paura, quando bruciano la piccola stalla dei La Torre. Consigliano ai genitori che quel loro figlio «certi discorsi non li deve fare». Il padre minaccia di cacciarlo. Pio è costretto a scegliere: o la famiglia o il partito. Sceglie il partito. La Lega dei braccianti, la Federterra, la Cgil. TRATTO DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
I destini incrociati a Corleone: Rizzotto e Liggio, La Torre e Dalla Chiesa. TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'1 maggio 2022
Pio La Torre qualche giorno dopo la scomparsa di Rizzotto, viene inviato dal partito alla Camera del Lavoro di Corleone. Qui un giovane capitano volontario nel Cfbr, il Comando Forze Repressione Banditismo, dal settembre del 1949 è il nuovo comandante del Terzo Gruppo Squadriglie dei carabinieri di Corleone. L’ufficiale si chiama Carlo Alberto dalla Chiesa.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Lascia Altarello di Baida e scende in città, va a vivere in via Gaspare Palermo, in una palazzina fra la via Oreto e la stazione centrale, ospite della famiglia di Pancrazio De Pasquale, il segretario della Federazione provinciale del Pci. In quei mesi conosce una ragazza, Giuseppina Zacco, è figlia di un ufficiale medico dell’Esercito.
S’incontrano un pomeriggio al partito, lei ci va perché vuole la tessera del Pci. Pio chiede a Giuseppina: «Ma tu, l’hai letto L’emancipazione della donna di Lenin? Se vuoi la tessera, torna quando l’avrai fatto». Lei lo guarda e pensa: «È bello, bello assai: questo me lo devo sposare».
È alto, asciutto, i capelli crespi tirati indietro, occhi nerissimi. L’isola è dentro l’arroventata stagione dell’indipendentismo, la mafia punta tutto sulla «sicilianità», boss e agrari insieme a difendere il latifondo, i campieri, il bandito Salvatore Giuliano che scrive al presidente americano Harry Truman e sogna la Sicilia come una stella della bandiera americana.
Intanto «Turiddu» ammazza contadini e sindacalisti in tutti i paesi alle spalle di Palermo. I braccianti scendono dalle vallate di Pioppo e di Borgetto, vanno incontro alle cariche della sbirraglia, cavalcano i muli, sventolano bandiere, vogliono la terra.
Pio La Torre è nei campi. In mezzo a loro c’è anche Giuseppina. Mancano pochi mesi al sangue di Portella della Ginestra, il 1° maggio del 1947, undici morti e ventisette feriti, la prima strage dell’Italia repubblicana. Cadono uno dopo l’altro i segretari delle Camere del Lavoro del Palermitano.
Epifanio Li Puma a Petralia Soprana, Calogero Cangelosi a Camporeale, Giuseppe Casarrubea a Partinico. Sono già 37 i sindacalisti siciliani uccisi dalla mafia e dai sicari della banda Giuliano.
La sera del 10 marzo del 1948 scompare anche Placido Rizzotto, un ex partigiano che è il segretario della Camera del Lavoro di Corleone. Il suo cadavere sarà ritrovato seicentoquarantaquattro giorni dopo in una foiba della Rocca Busambra, la roccia che domina il bosco della Ficuzza e il casino di caccia fatto costruire un secolo e mezzo prima da Ferdinando IV di Borbone.
Lo scheletro del sindacalista è recuperato nell’anfratto della montagna. È l’astro nascente della mafia di Corleone Luciano Liggio a ordinare ai suoi sgherri, i Criscione e i Collura, di ammazzarlo e di farne sparire il corpo. Lo sanno tutti in paese che è stato lui, Luciano Liggio.
Lo sa anche Pio La Torre che, qualche giorno dopo la scomparsa di Rizzotto, viene inviato dal partito alla Camera del Lavoro di Corleone. Lo scopre anche un giovane capitano di stanza nell’isola, un piemontese, che entra volontario nel Cfbr, il Comando Forze Repressione Banditismo.
L’ufficiale si chiama Carlo Alberto dalla Chiesa, dal settembre del 1949 è il nuovo comandante del Terzo Gruppo Squadriglie dei carabinieri di Corleone. Il primo incontro fra quei due uomini, Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa, avviene nel cuore della Sicilia. E nel cuore di una mafia che segnerà il loro destino. TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Quella prima volta a “Tombstone”, come gli americani chiamavano Corleone. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 02 maggio 2022
Un giorno mi hanno indicato un uomo davanti a una scuola. E mi hanno detto:«Quello sarà il nuovo capo mafia del paese». Aveva un grande futuro in Cosa Nostra il professore Leoluca Di Miceli, insegnante alle medie e aspirante Padrino. Ma poi sono cominciate a girare brutte voci su di lui…
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
La piazza è deserta. Oggi non si passeggia a Corleone. Un vento di tramontana piega i cartelloni dove sono incollate immagini in bianco e nero. Morti inchiodati dentro una macchina. Morti a terra. Morti dietro il bancone di marmo delle «carnezzerie», come chiamano le macellerie in Sicilia. Da un vicolo sbucano Letizia Battaglia e Franco Zecchin, i fotografi di Palermo. Sono arrivati qui per fare una mostra sulle stragi di mafia. Sono soli. Non c’è pubblico. Non c’è un solo abitante di Corleone che si avvicina alle loro foto. Poi vedo Joe Marrazzo, il giornalista Rai che va in giro con il microfono in mano e l’operatore che lo segue a un passo.
Nessuno risponde alle sue domande. Fanno i muti. Sono gli ultimi giorni dell’ottobre del 1979 e, trent’anni dopo l’incontro fra Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa nel paese che i siculo americani al tempo conoscevano come Tombstone – pietra tombale – entro per la prima volta a Corleone.
Il salone da barba, il circolo dei Buoni Amici, la chiesa madre, la rocca del Mascaro, l’ex carcere fra le pale di ficodindia, il convento, le cascate dietro la strada che porta a Prizzi.
Parlo con l’arciprete che è cugino in secondo grado di Luciano Liggio, cerco il nipote di Placido Rizzotto che porta il suo stesso nome, mi accompagnano da un vecchio maresciallo della polizia di Stato. Una ventina di anni prima ha arrestato Salvatore Riina, quello che sarebbe diventato il capo dei capi. Mi racconta come andarono le cose quella notte, alla galleria Aldisio, sopra i serbatoi dell’acquedotto comunale.
Sono tornato a Corleone molte altre volte dopo quel pomeriggio di vento dell’autunno del ’79.
Ho sentito tante voci. Di mafiosi, contadini, di vittime, carnefici, complici.
Un giorno mi hanno indicato un uomo davanti a una scuola. E mi hanno detto:«Quello sarà il nuovo capo mafia del paese». Aveva un grande futuro in Cosa Nostra il professore Leoluca Di Miceli, insegnante alle medie e aspirante Padrino. Ma poi sono cominciate a girare brutte voci su di lui. Soprattutto una: «Ragiona di più con la testa di sotto che con la testa di sopra». Gli piacevano le donne. Il professore non è mai diventato un capomafia
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
UOMINI SOLI. Dalle occupazioni delle terre all’Ucciardone, così Pio La Torre rimase solo. TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 maggio 2022
Trascinato in catene negli uffici della Questura, a Palermo, all’alba dell’11 marzo è rinchiuso all’Ucciardone. La sua carcerazione «preventiva» dura un anno e mezzo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
«Da Polizzello si difende la Sicilia», è il grido dei contadini siciliani che invadono i latifondi abbandonati da nobili, tutti andati in città a dilapidare gli ultimi avanzi dei loro patrimoni. Il 10 marzo 1950, Pio La Torre è alla testa di un corteo di seimila uomini, donne e bambini. Quella mattina, si prendono i duemila ettari del feudo di Santa Maria del Bosco del barone Inglese.
Di sera, quando i braccianti tornano nelle loro case a Bisaquino, vengono circondati da tre colonne di poliziotti e carabinieri. Avanzano minacciosi.
Su ordine del prefetto Angelo Vicari, si mettono a sparare. È un’imboscata. Sassaiole, scontri, c’è qualche ferito, in molti riescono a fuggire, in centottanta vengono fermati. Fra loro c’è Pio. È circondato dai poliziotti, gli sputano in faccia.
Trascinato in catene negli uffici della Questura, a Palermo, all’alba dell’11 marzo è rinchiuso all’Ucciardone. Quattro giorni dopo, il 15 marzo, il direttivo provinciale della Federterra si riunisce ed elegge segretario «per acclamazione il compagno Pio La Torre, arrestato a Bisaquino nel corso delle recenti lotte ed attualmente ancora detenuto nelle prigioni del ministro Mario Scelba».
La sua carcerazione «preventiva» dura un anno e mezzo.
Nei camminatoi dell’Ucciardone incrocia i ceffi della banda Giuliano, gente che – nel consegnarsi allo Stato – ha avuto la promessa dall’Ispettorato generale di Pubblica Sicurezza di poter espatriare «all’America». Dopo la resa, però, li schiaffano nel carcere borbonico, davanti al porto di Palermo. Uno è Frank Mannino. Un altro è Antonio Terranova che tutti conoscono come «Cacaova». All’Ucciardone c’è anche Gaspare Pisciotta, il cugino traditore di Salvatore Giuliano, il bandito che sulle colline di Montelepre si è autoproclamato «colonnello» dell’Evis, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia.
Il primo colloquio con sua moglie – Pio e Giuseppina si sono sposati il 29 ottobre del ’49, quattro mesi prima l’occupazione del feudo di Bisaquino – riesce a ottenerlo dopo sessanta giorni in cella di isolamento. È dietro una porta di ferro, per parlare con lei deve incastrare la testa fra le sbarre. Giuseppina è sconvolta. Aspetta già un figlio, Filippo, che nasce il 9 novembre del 1950.
Pio La Torre lo vede per la prima volta nel cortile alberato dell’Ucciardone, tenuto in braccio da una guardia carceraria e infagottato in un sacco di tela. Passano altri mesi e Pio La Torre resta in galera. Abbandonato, dimenticato anche dai suoi compagni di partito. Dentro il Pci siciliano la lotta è aspra. Da una parte la dirigenza regionale con il segretario Girolamo Li Causi, dall’altra la Federazione provinciale di Palermo con Pancrazio De Pasquale, Pio La Torre e altri giovani compagni.
Il primo è accusato di interpretare una linea eccessivamente parlamentarista, gli altri di essere troppo «movimentisti», di pensare solo all’occupazione delle terre, di guardare con simpatia anche a Danilo Dolci, il sociologo pacifista, il sognatore, l’agitatore sociale appena sceso da Trieste per mettersi a capo delle rivolte con i suoi scioperi “alla rovescia” in tutte le campagne della Sicilia occidentale.
Lo scontro è duro. A Palermo si riunisce il comitato regionale, presente anche il vice segretario nazionale Pietro Secchia. È un processo in puro stile staliniano. Contro Pancrazio De Pasquale e tutti gli altri che, nel partito, la pensano come lui. Sono incolpati di «attività frazionistica». De Pasquale viene destituito da segretario della Federazione. Lo spediscono prima alla «scuola di partito» a Frattocchie, poi a Genova. In esilio. Pio La Torre resta solo. E sempre in galera.
TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
UOMINI SOLI. I lunghi mesi passati in carcere, isolamento e punizioni per la rivolta. TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 04 maggio 2022.
La Torre ricorderà così i mesi passati all’Ucciardone: “La famiglia di mia moglie, inoltre, si preoccupava di farmi pervenire qualche cosa anche in carcere. Non ricevevo quasi nulla invece dalla famiglia di mio padre. Mia madre si era ammalata seriamente e morì mentre io ero in carcere”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Ricorderà così i mesi passati all’Ucciardone: «Accadeva che mentre imperversava la repressione poliziesca contro il movimento contadino, la segreteria regionale prendeva provvedimenti disciplinari contro De Pasquale. Era passata, in qualche misura, la tesi di Armando Fedeli che aveva condotto l’inchiesta. Dopo l’allontanamento del segretario di Palermo, andava dicendo che noi giovani, che eravamo stati collegati con De Pasquale, non avevamo più avvenire nel partito. Una sera egli disse a mia moglie che era bene che utilizzassi la mia permanenza in carcere per prepararmi alla laurea, poiché la mia prospettiva nel partito era incerta. Dopo l’arresto e la destituzione di De Pasquale, si verificò la dispersione di gran parte dei giovani quadri emersi nel corso della lotta e la federazione palermitana attraversò un periodo di seria difficoltà. Una delle conseguenze fu che noi detenuti restammo, di fatto per lunghi mesi, privi di qualsiasi assistenza. Meno male che mio suocero provvedeva al sostentamento della figlia che attendeva un bambino. La famiglia di mia moglie, inoltre, si preoccupava di farmi pervenire qualche cosa anche in carcere. Non ricevevo quasi nulla invece dalla famiglia di mio padre. Mia madre si era ammalata seriamente e morì mentre io ero in carcere».
Alla fine del 1950 Palmiro Togliatti nomina Paolo Bufalini vicesegretario regionale del partito in Sicilia. Di fatto, il Pci dell’isola viene commissariato. E la linea «corretta». Solo allora, a Palermo, comincia la mobilitazione per far uscire Pio La Torre dal carcere.
Con i ceppi ai polsi, compare una mattina in uno stanzone dello Steri, l’antico palazzo dell’Inquisizione di piazza Marina. Si celebra il processo per i «disordini» nel feudo di Santa Maria del Bosco. La prima di dieci lunghissime udienze. In cella La Torre studia, cambia facoltà, comincia a preparare esami per laurearsi in Scienze Politiche. È sempre un detenuto in attesa di giudizio.
I suoi avvocati ne chiedono la scarcerazione, i magistrati della procura della repubblica di Palermo gliela negano. La concedono però in quei giorni a tre mafiosi della borgata di Resuttana, accusati di omicidio ed estorsione. I boss escono dalla settima sezione e sulla via di casa vengono massacrati dalla lupara. In Sicilia, l’altra giustizia non perdona.
Il sostituto procuratore generale Pietro Scaglione – sarà ucciso dalla mafia nel 1971 – vieta a Pio la Torre un secondo colloquio con la moglie Giuseppina «per il carattere politico del processo». Deve restare in isolamento.
Durante le ultime udienze, quando cominciano ad affiorare le false testimonianze dei poliziotti che l’hanno accusato, Pio La Torre viene assolto «in ordine al delitto di lesione in offesa del tenente Caserta e altri» ma condannato a 4 mesi e 15 giorni di reclusione per l’occupazione del feudo del barone Inglese.
È all’Ucciardone già da un anno e mezzo, ha scontato la sua pena per quattro volte. Il 23 agosto del 1951 torna libero. Il carcere non lo dimenticherà mai. Gli resterà per tutta la vita quell’abitudine presa nei diciotto mesi trascorsi in una cella di due metri e mezzo per due: camminare nervosamente avanti e indietro, due passi e mezzo avanti, altri due passi e mezzo indietro. Farà sempre così anche nelle burrascose riunioni di partito, fra le stanze piene di fumo della Federazione di Palermo in fondo a corso Calatafimi.
Due passi e mezzo avanti e due passi e mezzo indietro. Come un leone in gabbia.
TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Contro i boss del cemento, la battaglia contro il “sacco” di Palermo. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 05 maggio 2022.
«Palermo è bella, facciamola più bella», promette alla folla straripante il sindaco Salvo Lima, alla fine di un comizio. Lo stato maggiore della Dc siciliana è tutto schierato in piazza Politeama. E, in mezzo a tutti loro, il cardinale Ernesto Ruffini che benedice i notabili e i mafiosi di Palermo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
«Palermo è bella, facciamola più bella», promette alla folla straripante il sindaco Salvo Lima, alla fine di un comizio. Lo stato maggiore della Dc siciliana è tutto schierato in piazza Politeama. Fasce tricolori, mani sudate, panze, fanfare, baci, mezze frasi sussurrate all’orecchio.
E, in mezzo a tutti loro, il cardinale Ernesto Ruffini che benedice i notabili e i mafiosi di Palermo. Alle spalle del sindaco c’è l’assessore ai Lavori Pubblici Vito Ciancimino, il figlio di un barbiere di Corleone che ormai è uno dei padroni della città. Pio La Torre li vede arrivare tutti e due sul palcoscenico della politica palermitana, Salvo Lima e Vito Ciancimino, il primo massiccio e con gli occhi da tigre e l’altro piccolo e smilzo con la faccia furba di un saraceno.
Li vede entrare per la prima volta al consiglio comunale, li vede iniziare l’irresistibile scalata che li porterà al potere per un trentennio. È il 1959 e da sette anni Pio La Torre è consigliere comunale a Palazzo delle Aquile. Ci resterà fino al 1966. Dopo la mafia del feudo comincia a conoscere quella dei mercati generali. E quella dell’acqua. E dell’edilizia.
A PALERMO SI COSTRUISCE DAPPERTUTTO.
Fra le principesche residenze di tufo giallo, a San Lorenzo. Dentro i parchi. In via Libertà e in via Notarbartolo di notte, con la dinamite, fanno saltare le ville liberty e la mattina dopo aprono i cantieri. Buttano giù con le ruspe anche Villa Deliella, in piazza Croci, un capolavoro architettonico progettato da Ernesto Basile. La politica e gli affari si decidono tutti in via Sciuti numero 85 R. In via Sciuti numero 85 R c’è la casa di don Vito Ciancimino. È il «sacco» di Palermo.
In quattro anni il Comune concede 4205 licenze edilizie. In un solo mese ne rilascia 3011 a cinque pensionati nullatenenti: Salvatore Milazzo, Lorenzo Ferrante, Michele Caggeggi, Francesco Lepanto, Giuseppe Mineo. C’è una società che si accaparra tutti gli appalti pubblici. È la Va.li.gio, le iniziali di tre personaggi molto noti a Palermo.
Il primo è Francesco Ciccio Vassallo, un carrettiere che non sa nemmeno mettere la sua firma ma che all’improvviso diventa il primo costruttore della città e uno fra i primi contribuenti siciliani. Il secondo è Salvo Lima, il sindaco. Il terzo è Giovanni Gioia, sottosegretario di Stato alle Finanze e poi ministro della Marina Mercantile. Li chiamano i «giovani turchi». I mafiosi più potenti sono loro amici. Soprattutto due, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera. Costruttori. È battaglia in consiglio comunale.
Pio La Torre è fra i banchi dell’opposizione, senza paura punta il dito contro i boss del cemento. Ogni epoca ha la sua mafia. Quella siciliana è sempre la stessa e sempre diversa. Si adatta, si trasforma, a volte si nasconde, a volte si mostra con violenza. A seconda delle sue necessità. Pio La Torre è il testimone oculare della prima mutazione mafiosa.
Dai campi di Corleone ai piani particolareggiati, le varianti, gli espropri, le zone agricole che diventano foreste di palazzi, mappe catastali falsificate, carte contraffatte. In Comune fanno ricchi se stessi e fanno ricchi gli amici mafiosi. Sono tutti d’accordo, quelli che comandano. C’è un partito «trasversale» che si spartisce il bottino. Palermo è stravolta.
Volta le spalle al mare. E si allarga a dismisura verso l’interno. Si progetta anche il suo futuro. Viale Strasburgo, via Svizzera, via Svezia, via Spagna, via Olanda, piazza Europa. Ogni abitante ha intorno a sé 285 metri di cubi di cemento – tre volte tanto i limiti di legge – e un metro e mezzo di verde.
Una casba moderna, fatta di torri e di grattacieli per accogliere l’esercito della Regione, migliaia di assunzioni pilotate, i quadri delle municipalizzate, i dirigenti degli ispettorati, gli impiegati del Banco di Sicilia.
Sono i figli e i nipoti della burocrazia isolana, una piccola borghesia invisibile e indifferente deportata in pochi anni in questa nuova Palermo silenziosa e ordinata, in apparenza isolata da quell’altra Palermo che ci macera nei suoi drammi. La prima inchiesta giudiziaria sul «sacco» di Palermo si apre venticinque anni dopo lo sfacelo. Nel gennaio del 1989 una requisitoria della Procura della Repubblica viene depositata alla cancelleria dell’ufficio istruzione. Girano voci che, all’ultimo momento, sono state tagliate una ventina di pagine dove «è più volte citato un potentissimo uomo politico siciliano».
Nessuno osa fare quel nome. Per caso, incontro fuori dal Palazzo di Giustizia un sostituto procuratore. Mi spiega cosa è accaduto: «C’è stato qualche colpo di lima…». Salvo Lima, nell’inverno del 1989, è europarlamentare a Strasburgo.
Il capo della chiesa siciliana, Sua Eminenza Ernesto Ruffini santifica la razzia: «Sono sorti a Palermo, per il popolo, quartieri che nulla avrebbero da perdere nel confronto con le città più progredite». Il cardinale inaugura cantieri e dice che «la mafia è un’invenzione dei comunisti» come Pio La Torre «per colpire la Democrazia Cristiana e la moltitudine dei siciliani che la votano».
Ma tace quando s’infiamma la guerra fra le «famiglie». Da una parte i Greco e dall’altra i fratelli La Barbera, Palermo come la Chicago degli Anni Trenta. Sulle strade raccolgono morti su morti, automobili imbottite di tritolo, sparatorie in pieno centro, assalti nelle case dei boss.
«Tanto si ammazzano fra di loro», si consolano in una città sempre più impassibile. L’arcivescovo di tanto in tanto fa visita al papa della mafia, Michele Greco, un signorotto che nella sua masseria - la Favarella, nella borgata di Ciaculli – riceve la «crema» di Palermo. Procuratori generali, presidenti di corte di appello, alti ufficiali dei carabinieri, questori, conti e principi. È in questa Sicilia brutale che Pio La Torre continua la guerra che ha cominciato a un passo da casa sua, Altarello di Baida.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
L’amicizia con Cesare Terranova, il magistrato che incastrò i “corleonesi”. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 06 maggio 2022
Cesare Terranova fa il giudice istruttore, è uno dei pochi magistrati siciliani che in quegli anni non nega l’esistenza della mafia. È curioso, raffinato, frequenta artisti e intellettuali. Ogni tanto s’incontra anche con un maestro elementare di Racalmuto, Leonardo Sciascia. E con due giovanissimi pittori, Bruno Caruso e Renato Guttuso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Ci sono nomi che attraversano il tempo, che ritornano sempre nella sua vita. Uomini che ha lasciato nei feudi di Prizzi e di Corleone e che ritrova adesso a Palermo. Sono mafiosi.
Come quel Vito Ciancimino, pupillo del ministro Bernardo Mattarella e legato anche a «paesani» i cui nomi Pio La Torre ha sentito pronunciare dai suoi compagni di partito. Quando l’hanno mandato alla Camera del Lavoro di Corleone, dopo la scomparsa di Placido Rizzotto. Uno si chiama Bernardo Provenzano, l’altro Salvatore Riina, il terzo Luciano Liggio. Sono ragazzi, alla fine degli Anni Quaranta. Sono i «canazzi da catena» del vecchio capo Michele Navarra. Gli ritornano in mente i volti e i racconti di tanti anni prima. Come un incubo.
Vicende che conosce bene un suo amico, uno scansato dai colleghi come un animale appestato, rinchiuso tutto il giorno in una stanza del Tribunale di Palermo. È Cesare Terranova, fa il giudice istruttore, è uno dei pochi magistrati siciliani che in quegli anni non nega l’esistenza della mafia.
È curioso, raffinato, frequenta artisti e intellettuali. Ogni tanto s’incontra anche con un maestro elementare di Racalmuto, Leonardo Sciascia. E con due giovanissimi pittori, Bruno Caruso e Renato Guttuso.
Sono nello studio del giudice Terranova. Libri, rapporti giudiziari ingialliti dal tempo, atti parlamentari, profumo di cuoio. Una parete è coperta di quadri. Uno è appeso davanti alla scrivania. Mi avvicino per guardarlo meglio, la signora lo sfiora e mi indica la data: «È del 1964. Bruno ha annunciato la morte di mio marito quindici anni prima».
Giovanna Giaconia è la vedova di Cesare Terranova. Prende lo schizzo di Bruno Caruso e lo appoggia con cura su un tavoli[1]no. C’è il viso del giudice, il naso un po’ schiacciato e alle sue spalle la faccia feroce di Luciano Liggio. Sembra un diavolo.
Racconta ancora la donna: «Il pittore aveva intuito molto tempo prima che Cesare per quell’uomo era un pericolo, che era da eliminare». Sono i primi giorni di ottobre del 1979 e Giovanna Giaconia mi fa entrare nella sua bella casa di via Rutelli, una traversa che collega via Marchese di Villabianca con via Libertà. Cesare Terranova è stato ucciso una settimana prima. «Da Luciano Liggio», dicono tutti. Il boss di Corleone sarà assolto.
Il giudice Terranova sa tutto di Corleone e della sua mafia. Ha istruito il processo per la «guerra» che sconvolge il paese dal 1958. Prima l’uccisione del patriarca Michele Navarra con quel mitragliatore Thompson, poi una settantina di omicidi in successione: tutti i fedelissimi del vecchio capo.
Il processo inizia grazie ai rapporti che quel capitano piemontese, Carlo Alberto dalla Chiesa, gli ha trasmesso da Corleone. Sulla morte del sindacalista Rizzotto, sull’ascesa criminale di Luciano Liggio, sul feudo di Stasatto che adesso sembra diventato il centro di un potere mafioso forte quasi quanto quello dei «mammasantissima» che dominano Palermo dal dopoguerra. «Stanno scendendo in città», svela il giudice Terranova a Pio La Torre.
I Corleonesi stanno arrivando a Palermo per conquistarla. Quel capitano dei carabinieri di Corleone adesso è in attesa del grado di colonnello. Dopo un girovagare fra caserme di mezza Italia – Firenze e Como, Roma e Milano – è tornato in Sicilia. Carlo Alberto dalla Chiesa è il nuovo comandante della Legione di Palermo. Gli Anni Sessanta scivolano via fra colate di cemento e immense fortune venute dal nulla, raìs della politica e sicari tutti insieme a soffocare la capitale della Sicilia.
Governa la Democrazia Cristiana dei Lima e dei Ciancimino. E governa una mafia che è sempre più protetta. Da magistrati. Da poliziotti. Da avvocati, medici, commercialisti, ingegneri, giornalisti, preti, spioni. Tutto è «a posto». È una stagione difficile per chi è fuori dai giochi, per chi sta dall’altra parte. Pio La Torre è ancora consigliere comunale e anche deputato al Parlamento siciliano, a Palazzo dei Normanni.
Nel 1963 diventa segretario regionale del Pci. Sono passati solo quindici anni da quando ha lasciato la sua casa di Altarello di Baida. Per quella tessera del partito che ha in tasca. Nel 1967 ci sono le elezioni regionali in Sicilia. Vanno male per i comunisti. Sul banco degli imputati per la sconfitta, c’è Pio La Torre: da segretario regionale viene retrocesso a segretario provinciale. È ferito ma ubbidisce.
Lo sostituisce Emanuele Macaluso, che torna per la seconda volta in Sicilia a dirigere il partito. Resta solo un anno in Federazione, Pio La Torre. A Palermo arriva Achille Occhetto e lui è chiamato «ad un nuovo incarico» alla Direzione del Pci, a Roma. Alle politiche del 1972 viene eletto alla Camera con 42.325 voti, nella circoscrizione della Sicilia occidentale.
Dopo il latifondo e il carcere, dopo Palermo e le interminabili sedute in consiglio comunale con i mafiosi accanto, comincia per Pio La Torre una terza vita. A Roma. Con la sua famiglia. Con Giuseppina. Con Filippo. E con Franco, l’altro figlio nato nel 1956. Roma sembra lontana da Palermo. Lontanissima dai campi arsi della Sicilia del feudo.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Padrini e padroni di una città malata, mafia e politica che si confondono. TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 07 maggio 2022.
Per oltre sette anni Pio La Torre va e viene dalla sua isola e, ancora una volta, è testimone della seconda metamorfosi della mafia. Dal feudo all’edilizia, dall’edilizia all’infiltrazione in ogni attività economica dell’isola. Ci sono due uomini, in Sicilia, che più di chiunque altro personificano l’incastro perfetto fra il potere politico e quello mafioso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
La sua terza vita comincia dove finisce la seconda. Con Pio La Torre che attacca la mafia in Parlamento. Per tre legislature – nel ’72, nel ’76, nel ’79 – un figlio di braccianti di una borgata palermitana è il protagonista di una battaglia politica che segna una svolta nella storia italiana. È lui a intuire che la mafia siciliana è una «questione» nazionale, lui per primo.
Pio La Torre capisce che bisogna strappare i patrimoni ai boss. Sa bene che portare via la «roba» a un mafioso è alla lunga molto più importante che incarcerarlo o perseguirlo penalmente.
A Roma, dopo alcuni tentativi andati a vuoto verso la metà degli Anni Cinquanta, nasce finalmente una Commissione parlamentare Antimafia. Lì, alla Camera, Pio La Torre si batte per far passare leggi e provvedimenti contro «gli illeciti arricchimenti», i prestanome, le società fittizie che tutto arraffano per conto dei boss della politica e i boss delle «famiglie».
È il 20 dicembre del 1962 quando – con la legge numero 1720 – viene istituita la prima Commissione parlamentare «sul fenomeno della mafia in Sicilia per esaminarne la genesi e le caratteristiche, per proporre le misure necessarie e per reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause».
I lavori della Commissione, formata da quindici deputati e da quindici senatori, durano tredici anni attraversando tre legislature. Si concludono con la stesura di 42 volumi. Dentro c’è la storia mafiosa della Sicilia. Schede sul sindaco Salvo Lima e la sua amministrazione. Biografie di Luciano Liggio e di Vito Ciancimino.
Relazioni prefettizie sullo scempio edilizio. Rapporti giudiziari sugli uomini politici legati ai boss. E centinaia e centinaia di pagine sui nuovi padroni della città. Uno è il conte Arturo Cassina, l’imprenditore che gestisce gli appalti di manutenzione di strade e fogne a Palermo. Gli altri sono i cugini Nino e Ignazio Salvo di Salemi, gli esattori.
La Commissione parlamentare, alla fine dei lavori, si divide: sulla natura dell’organizzazione criminale e sui collegamenti che ha con i pubblici poteri. Così, tutti gli atti sono accompagnati da una relazione di maggioranza del presidente della Commissione Luigi Carraro e da due relazioni di minoranza, una di destra e l’altra di sinistra.
La prima è del senatore Giorgio Pisanò. L’altra ha come primo firmatario l’onorevole Pio La Torre.
PALERMO, CITTÀ MALATA
Palermo è una città malata. Qui, Pio La Torre ha conosciuto quel carrettiere – Ciccio Vassallo – che è diventato ricchissimo. E ha visto burocrati del Comune e della Regione vivere in residenze patrizie, attraccare con le loro barche da trenta metri sui moli di Capo Gallo, acquistare appartamenti a Parigi e a New York, sedere nei consigli di amministrazione di aziende pubbliche e private. E negli enti regionali. Ircac. Esa. Espi. Sochimisi. Escal. Ast. Crias. Irfis. Eas. Eaoss.
Tutte sigle di consorzi e carrozzoni mangiasoldi per ingrassare i soliti noti, affaristi e mafiosi. Novantacinque presidenti, novantacinque segretari, migliaia di consiglieri e altrettanti stipendi da distribuire in giro per la Sicilia. L’orgia del potere. Palermo non è una città ricca ma sfrenatamente ricca. Piena di banche e di denaro.
Nei vent’anni che vanno dal 1952 al 1972 gli istituti di credito popolari crescono in Italia dell’85 per cento e a Palermo del 586 per cento, le società per azioni del 30 per cento in Italia e a Palermo del 202 per cento, le casse rurali del 12 per cento in Italia e del 25 per cento a Palermo. Soldi, soldi, sempre più soldi. La Sicilia è un Eldorado.
Per oltre sette anni Pio La Torre va e viene dalla sua isola e, ancora una volta, è testimone della seconda metamorfosi della mafia. Dal feudo all’edilizia, dall’edilizia all’infiltrazione in ogni attività economica dell’isola. Ci sono due uomini, in Sicilia, che più di chiunque altro personificano l’incastro perfetto fra il potere politico e quello mafioso.
Sono i Salvo di Salemi, un paese in provincia di Trapani. Li conoscono come i vicerè, sono mafiosi figli di mafiosi e padroni di alberghi, aziende agricole, di una banca, tre finanziarie, società turistiche, di cantine che producono dieci milioni di bottiglie l’anno. Soprattutto sono i capi della Satris, la società siciliana per la riscossione delle tasse.
Sono due cugini, Nino e Ignazio Salvo. Il primo è sanguigno, estroverso, ama i lussi. Sul suo yacht ancorato alla Cala di Palermo, alle pareti delle cabine ci sono Van Gogh e Matisse. L’altro è taciturno, freddo, astuto. I Salvo sono i principali finanziatori della corrente della Dc siciliana che fa capo a Giulio Andreotti. Sono intimi di Salvo Lima, che di Andreotti è il console in Sicilia. E di Stefano Bontate, il capomafia di Palermo. E di Gaetano Badalamenti, uno dei personaggi chiave del traffico di eroina fra Palermo e New York.
A loro portano tutti grande rispetto. Le ombre dei due cugini ogni tanto si intravedono dietro i vetri fumé della loro auto corazzata che sfreccia per le vie di Palermo. È l’unica macchina blindata che c’è in Sicilia. Prefetti e questori, quando un ministro è in visita per un comizio o una riunione di partito, contattano i Salvo per avere in prestito la loro auto di «rappresentanza». Sono intoccabili. Corrompono tutti. Nessuno indaga su di loro. Nessuno ha il coraggio di pronunciare neanche il loro nome. La Satris, le esattorie dei Salvo, impongono una gabella ai siciliani del 6,72 per cento. In alcuni anni, il balzello sfiora il 10 per cento. Nel resto d’Italia non supera mai il 3,5 per cento.
È un moderno sistema feudale. Difeso dai loro complici della Regione Siciliana. I due cugini controllano anche fra sessanta e settanta deputati in Parlamento. Prendono tutti ordini da Nino e da Ignazio. Interrogato dal sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Giuseppe Ayala, confesserà anni dopo Nino Salvo: «La legge è la prima cosa che mi sono comprato». Sto salendo le scalinate del Palazzo di Giustizia, a Palermo, quando sento una mano pesante sulla spalla. Mi volto e c’è Nino Salvo. Ho davanti la mafia.
Resto per un attimo immobile, sto per dire qualcosa ma lui mi precede: «Lei ha scritto un paio di articoli pieni di cattiveria su di me e sulle mie esattorie. Perché uno di questi giorni non mi viene a trovare a Salemi che le spiego chi siamo e come siamo diventati quello che siamo?». Sto per rispondere, chiedergli quali sono queste cattiverie, non me ne lascia il tempo: «Lei lavora per il L’Ora, un giornale comunista, ma non sa che in Unione Sovietica non vogliono il vino delle cooperative rosse: vogliono il vino nostro, il vino dei cugini Salvo». Gli chiedo un’intervista «ma non sul vino», su altro.
Mi risponde: «Lo sa che cosa sono per me i giornali? Sono come i jukebox. Suonano la musica che voglio io, sono io che ci metto i gettoni e scelgo sempre io la canzone che voglio sentire». Nino Salvo se ne va sorridendo.
TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
UOMINI SOLI. Le assoluzioni, la mafia che alza il tiro e un boss che se la “canta”. TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'08 maggio 2022
La mattina del 25 settembre 1979 il delitto Terranova. Con lui il suo fedele collaboratore, il poliziotto Lenin Mancuso. Un agguato sotto casa. Winchester e 357 Magnum. I Corleonesi. Fa paura il ritorno del giudice istruttore che ha portato alla sbarra Luciano Liggio e Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
In Commissione Antimafia Pio La Torre è un trascinatore. Racconta cos’è la sua Sicilia, spiega la mafia ai compagni di partito e ai deputati del Nord. Non ha bisogno di ricordarlo ai democristiani di Sicilia. Loro la conoscono bene. Scelgono per quella Commissione Giovanni Matta, uomo di fiducia di Salvo Lima ed ex assessore comunale a Palermo.
Matta comincia la sua carriera politica proprio all’assessorato all’Edilizia e alle dipendenze dirette di Salvino, come si rivolgono a lui gli intimi. Tutti i commissari della sinistra, comunisti e socialisti, si dimettono in massa su proposta di Pio La Torre. È uno scandalo. Il caso finisce sulle prime pagine dei giornali nazionali.
La Commissione si scioglie. Pio La Torre agli inizi degli Anni Settanta vince la sua prima battaglia in Parlamento. È un lottatore ma è pragmatico, onesto, sa bene che non tutta la Dc siciliana è collusa con il potere mafioso. Lui distingue, ragiona, guarda «a quella parte del gruppo dirigente democristiano che sta tentando di avviare nell’isola un processo di risanamento della vita pubblica».
Quando è in Antimafia, ritrova fra gli atti anche tutti i rapporti e le relazioni richieste dai commissari al comandante della Legione dei carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Sulla mafia dentro alla Democrazia Cristiana e sulla mafia di Corleone. Fra la Sicilia e Roma ci sono uomini che s’incontrano sempre, che si allontanano e poi si ritrovano ancora.
Le esistenze di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa e di Cesare Terranova tornano a intrecciarsi. Il giudice istruttore che ha portato alla sbarra i Corleonesi alla fine degli Anni Cinquanta – proprio quando La Torre è sindacalista in paese e alla caserma di Corleone c’è il capitano dalla Chiesa – nel 1976 è anche lui a Roma come parlamentare, eletto fra gli «indipendenti» nelle liste del Pci. E anche lui è in Commissione Antimafia. Accanto al suo amico Pio La Torre. Tutti e tre stanno per tornare a Palermo. Loro non lo sanno ancora, ma per la Sicilia si annunciano anni spaventosi.
Le vecchie istruttorie di Terranova, quella contro la mafia di Palermo e quella contro la mafia di Corleone, si sono concluse intanto con scarcerazioni di massa. Il processo dei «114» (ai Bontate, ai Manzella, agli Gnoffo) e il processo ai «64» (a Luciano Liggio, a Salvatore Riina, a Bernardo Provenzano), vengono celebrati fra il 1968 e il 1969 lontano dalla Sicilia, a Catanzaro e a Bari, per legitima suspicione – legittimo sospetto – e finiscono fra brindisi e festeggiamenti per gli imputati. Più che Corti di Assise sembrano corti dei miracoli. Giudicano ardite se non addirittura «fantasiose» le tesi accusatorie del giudice Terranova, che descrive la mafia «come un’associazione criminale e non come uno stato d’animo».
La formula di assoluzione per i mafiosi è sempre la stessa: insufficienza di prove. Escono tutti. E si riprendono Palermo e la Sicilia. Ma dentro le «famiglie» qualcuno inizia a sentire puzza di bruciato, a fiutare i segni di una tempesta imminente. Alcuni boss tremano.
Uno di loro è Giuseppe Di Cristina, mafioso della vecchia guardia che fra i suoi testimoni di nozze ha voluto anche il senatore della Dc Graziano Verzotto. Giuseppe Di Cristina è di Riesi, un paese costruito fra le pirrere, le zolfare intorno a Caltanissetta, miniere nel ventre delle montagne della Sicilia interna.
I DI CRISTINA
È un mafioso che ha paura di morire. E così nel 1978 diventa un boss «canterino». Incontra in un casolare un capitano dei carabinieri, gli racconta che i Corleonesi stanno assaltando la mafia di Palermo e lo Stato. Dice: «Salvatore Riina e Bernardo Provenzano sono due belve, dovete fermarli. Non sono pericolosi solo per noi, sono pericolosi soprattutto per voi».
Dice ancora: «C’è un piano per uccidere il giudice Terranova. Vogliono ammazzarlo e accollarmi la sua morte, vogliono far credere che sono stato io per vendicarmi di lui perché mi ha inquisito per un delitto. Quelli sono dei tragediatori, i Corleonesi sono le persone più abiette al mondo». Le confidenze di Giuseppe Di Cristina finiscono in un rapporto dell’Arma che, per più di un anno, marcirà in un cassetto della procura della repubblica di Palermo. Dopo pochi mesi dall’incontro con il capitano, il boss muore. Ammazzato. Tutto come previsto.
Nelle informative di polizia e negli atti giudiziari dove c’è il suo nome, viene indicato come il grande capo della mafia di Caltanissetta. Ma chi, come me, vive al centro della Sicilia, lo sa che il vero capo non è lui. Non è Giuseppe Di Cristina. È suo fratello Antonio. I Di Cristina, li ho conosciuti da ragazzino. Giuseppe, prima di trovare un posto come cassiere alla Sochimisi – la Società Chimica Mineraria Siciliana – è impiegato alla Cassa di Risparmio di Caltanissetta, la mia città. Me lo ricordo dietro lo sportello, sempre vestito di nero, una giacca di pelle, la fronte sporgente, il naso grosso, i capelli pettinati all’indietro.
Ogni tanto vado a trovare una mia zia che lavora in banca e incontro lui. Ma già allora tutti sono a conoscenza che la «mente» della famiglia è l’altro, Antonio, ex sindaco di Riesi e vicesegretario provinciale della Democrazia cristiana. Antonio è incensurato, a Caltanissetta lo chiamano «il professore». Chissà se è pigrizia investigativa o c’è dell’altro, ma Antonio Di Cristina nessuno lo menziona mai quando si parla di mafia e di mafiosi.
Il 30 maggio del 1978 uccidono Giuseppe, a Palermo. Antonio vuole presentarsi alle elezioni regionali. I boss del partito gli dicono che è meglio di no, è più prudente che si faccia da parte. Nove anni dopo l’agguato a Giuseppe, nel settembre del 1987 uccidono anche Antonio. Passa un po’ di tempo e tendono un’imboscata anche a un terzo fratello, Angelino. Gli scaricano contro una ventina di pallottole, cinque gli rimangono nella testa.
Con i proiettili nel cranio, immobilizzato, ogni mattina lo trasportano alla scuola media di Riesi dove insegna Lettere. Parla a stento, non si può muovere, ha perso la memoria. Ma è titolare di cattedra. L’ultimo fratello, Totò, per trent’anni lavora come impiegato al Banco di Sicilia. È fuori da tutti gli affari della «famiglia», è una pecora nera: una brava persona. Per paura di possibili vendette un giorno si compra una pistola. Ma non avrà mai occasione di usarla.
Dopo Giuseppe Di Cristina muore anche il giudice Cesare Terranova. Nel giorno del suo insediamento come consigliere istruttore al Tribunale di Palermo, la mattina del 25 settembre 1979. Con lui c’è il suo fedele collaboratore, il poliziotto Lenin Mancuso.Un agguato sotto casa. Winchester e 357 Magnum. I Corleonesi. Fa paura il ritorno del giudice istruttore che ha portato alla sbarra Luciano Liggio e Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Fa paura anche il ritorno di Pio La Torre.
TRATTO DA "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Quella legge che cambia per sempre la storia della lotta alla mafia. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 09 maggio 2022
Pio La Torre è quel deputato che ha appena firmato una proposta di legge che è peggio di un mandato di cattura. È la numero 1581: “Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia e costituzione di una Commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Prima di lui, in Sicilia arriva la sua fama. Palermo è inquieta. Pio La Torre è quel deputato che ha appena firmato una proposta di legge che è peggio di un mandato di cattura. È la numero 1581: “Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia e costituzione di una Commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo”. Il linguaggio burocratico non riesce a nascondere il contenuto micidiale di quel progetto legislativo.
La proposta di Pio La Torre punta a classificare per la prima volta la mafia, tutta la mafia, come «associazione per delinquere». Nel disegno presentato in Parlamento suggerisce norme per il controllo dei patrimoni, per l’assegnazione degli appalti pubblici, per l’abolizione del segreto bancario. E poi c’è un provvedimento finale: la confisca dei beni per tutti coloro che vengono riconosciuti e condannati come mafiosi. È un’«invenzione» che ribalta un secolo di giurisprudenza. È una rivoluzione. Pio la Torre propone qualcosa che segnerà per sempre la storia d’Italia: essere mafioso è reato. I mafiosi sono i primi a capirlo. Si agitano, s’infuriano. «Ma che minchia vuole questo?», si dicono fra loro i boss nelle loro interminabili «mangiate» e «parlate» alla Favarella, la tenuta di Michele Greco detto il papa.
«È tutta colpa di un maresciallo ignorante, se il mio cliente è finito nell’inchiesta, una giustizia cieca e cattiva», mi spiega uno dei più famosi penalisti di Palermo, l’avvocato S.G.M. M’insegue nell’atrio del Tribunale per raccontarmi la vera storia di Michele Greco. Ha il passaporto, ha il porto d’armi, è stato anche campione italiano di tiro al piattello. Ha una concessionaria di motociclette al centro della città, in società con un barone e un conte. Ha un agrumeto dove lavorano centinaia di contadini. Il penalista mi vuole convincere che è tutta colpa di un accento.
Tira fuori dal borsone vecchie carte e comincia: «Un maresciallo di polizia, invece di trascrivere un’informativa su Michele Greco con la dizione corretta del suo nome – cioè come veniva effettivamente chiamato in borgata, «papà», per quanto era buono e generoso – ha segnato quel nome senza accento facendolo diventare papa. Qualcuno ci ha ricamato sopra e poi, il povero Michele Greco, è diventato il papa della mafia».
Lo guardo sbalordito. Dice sul serio o ha voglia di prendermi in giro? Dice sul serio. Passa qualche settimana e incontro ancora l’avvocato in Tribunale. Non mi rivolge il saluto. Chiedo a un suo giovane collega di studio: «Ma perché si è voltato dall’altra parte?». Mi risponde: «È molto offeso perché non hai pubblicato niente di quello che ti ha detto su quell’errore di trascrizione». Meno male. Dopo un paio di mesi si scopre che il «papa» o il «papà» di Ciaculli è il capo della Cupola, il governo di Cosa Nostra.
IL RITORNO A PALERMO
Suo fratello, Salvatore, che va e viene da Roma e non a caso è soprannominato il senatore per i suoi contatti, prova a rassicurare gli altri boss: «I nostri amici là sopra ci fanno sapere che quella proposta di legge non sarà mai approvata e, se sarà approvata, passerà tanto di quel tempo che noi saremo morti».
Tutti, alla Favarella, si sentono sollevati. Tutti tranne uno, Salvatore Riina, il capo di Corleone che da lì a pochi mesi diventerà il capo di tutto. È un sibilo quello dello zio Totò che arriva come una fitta al cervello degli altri: «Se uno ha male a un dito, è meglio tagliare il braccio così stiamo più sicuri». Pio La Torre si prepara a tornare in Sicilia. La sua «legge», trentacinque articoli, si perde nei labirinti del Parlamento. Con l’entusiasmo di un ragazzino – siamo nel 1981, ha appena compiuto cinquantaquattro anni ed è nella segreteria nazionale del Pci – chiede di ricominciare dalla città e dal comitato regionale da dove era stato malamente allontanato alla fine del 1967. Enrico Berlinguer non è del tutto convinto.
La Torre, però, è deciso. Ogni giorno tormenta il suo «maestro» Paolo Bufalini, che nel partito ha un grande peso. Gli dice: «Uno non può stare a galleggiare al vertice se sul fronte decisivo, che poi è carne della mia carne, c’è una battaglia eccezionale». Vuole rientrare a Palermo. Non pensa ad altro. Per i comunisti, le elezioni regionali non sono andate bene neanche nel 1981. Il segretario Gianni Parisi, scuola di partito a Mosca e moglie russa, è stanco. Dalla Sicilia, che sta vivendo una stagione drammatica, i compagni palermitani chiedono l’invio di Gerardo Chiaromonte o di Alfredo Reichlin. La segreteria nazionale del Pci non è d’accordo. Il responsabile dell’organizzazione, Giorgio Napolitano, avvia faticose consultazioni per capire chi può prendere in mano il partito in Sicilia con il consenso di tutti.
Le trattative si arenano per un’estate intera. C’è una parte che vorrebbe segretario regionale Luigi Colajanni, il figlio di Pompeo, il mitico «comandante Barbato» delle brigate partigiane in Piemonte. È un giovane dal profilo aristocratico, colto, molto salottiero. Può anche contare sull’appoggio della direzione e di alcuni notisti politici dell’Ora, il quotidiano della sera di Palermo che è proprietà del Pci. Ma c’è un’altra parte – quella considerata più conservatrice – che vorrebbe il figlio di contadini di Altarello di Baida, che è sempre rimasto nel cuore dei vecchi comunisti siciliani.
La soluzione, per settimane, non si trova. Anche perché La Torre, nonostante la sua passione e la sua irruenza – che mal si conciliano con la moderazione – per le sue frequentazioni interne al partito è indicato come un comunista di «destra». Uno che ai suoi tempi si è battuto per quel governo delle «larghe intese» con la Dc siciliana e poi ha appoggiato con forza il «compromesso storico» e la «solidarietà nazionale». Pio La Torre è un impasto fra impulso e logica, è «governativo» e «ribelle» insieme. È intransigente con se stesso e con gli altri, appartiene a quella razza di siciliani che non si calano mai, che non si arrendono. E poi parla sempre di mafia.
Passa per «rompicoglioni» anche fra i suoi amici. Gli dicono: «Vuoi abolire il segreto bancario? Figurati, non ci riuscirai mai». Anche nella cerchia più stretta del partito, a Roma, non c’è ancora la consapevolezza politica di un fenomeno criminale come Cosa Nostra e della minaccia che costituisce per l’Italia intera. È solo lui che ha quell’assillo: la mafia, i mafiosi. È fissato. Vede solo quello. È un’ossessione.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Le due guerre di Palermo, una dentro Cosa Nostra e l’altra contro lo stato. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 10 maggio 2022
L’altra guerra è fuori, scatenata all’esterno dell’organizzazione criminale. Per la prima volta nella sua storia, la mafia siciliana lancia una sfida violentissima alle Istituzioni. Non sta più con lo Stato ma contro lo Stato. Abbandona la sua antica natura per svelare un’anima «terroristica» mai vista prima.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
C’è molta inquietudine nel Pci siciliano, quando a Botteghe Oscure scelgono finalmente il segretario dell’isola. All’inizio dell’autunno del 1981, Pio La Torre è di nuovo a Palermo. È felice.
Ha qualcosa dentro che lo spinge giù, che lo riporta alla sua prima vita, alla giovinezza, alle lotte contadine del dopoguerra. Forse cerca una rivincita, ma soprattutto ha un fuoco – lo stesso di quando andava in giro nel 1945 ad aprire sezioni fra Altarello di Baida e i Chiavelli – che gli brucia l’anima.
Ricorderà Giorgio Napolitano un quarto di secolo dopo: «Fui colpito e condizionato dalla sua straordinaria determinazione nel chiedere di potere tornare a Palermo, di potere tornare a dirigere in prima linea. Si sentiva come chiamato a una prova, ne faceva un punto d’onore».
È finalmente nella sua Palermo. Ai vecchi compagni sembra quello conosciuto tanti anni prima. Ostinato, sempre pieno di coraggio, con la stessa parlata palermitanissima che ha fin da ragazzino. Alto, con qualche chilo in più, i capelli crespi tirati indietro, gli stessi occhi vivi. Quella che Pio La Torre ritrova è la città dei morti e la Sicilia dei missili. A Palermo è tempo di mattanza. Nell’isola, tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, sono due le «guerre» che si combattono. Una è dentro Cosa Nostra.
Una resa dei conti che comincia con l’uccisione di Stefano Bontate, il più potente mafioso di Palermo. E che prosegue nei mesi successivi con agguati a ripetizione, lupare bianche, nemici di cosca torturati e sciolti nell’acido. Vengono fatti fuori anche i boss più influenti di Trapani, di Agrigento e di Caltanissetta, i don che regnano come califfi nei loro paesi. E i loro figli, fratelli, nipoti, cugini, cognati.
Muoiono anche dall’altra parte dell’Atlantico, sulle strade del New Jersey. È caccia spietata ai Gambino e ai Di Maggio e agli Inzerillo che vivono a Cherry Hill. Uno di loro, Pietro, una mattina del gennaio del 1981 lo trovano nel bagagliaio di una Cadillac abbandonata davanti all’Hilton di Mont Laurel. Assassinato tre giorni prima e lasciato dentro l’auto con una banconota da 5 dollari infilata in bocca e due da un dollaro sui genitali.
«Hai voluto mangiare e peccare troppo», è il messaggio. Ma il cadavere di Pietro Inzerillo un anno dopo rivelerà altre trame. La chiamano «guerra di mafia» ma non è solo guerra di mafia. È sterminio di massa, pulizia etnica, annientamento di intere fazioni di Cosa Nostra – le più ricche e potenti – che custodiscono i segreti di tanti italiani importanti. Gente che abita ai piani alti della politica e del business. A Milano. A Roma. L’aristocrazia mafiosa, che resiste generazione dopo generazione da oltre un secolo, è spazzata via. Non è soltanto odio. È il golpe dei Corleonesi.
LA GUERRA “FUORI”
L’altra guerra è fuori, scatenata all’esterno dell’organizzazione criminale. Per la prima volta nella sua storia, la mafia siciliana lancia una sfida violentissima alle Istituzioni. Non sta più con lo Stato ma contro lo Stato.
Abbandona la sua antica natura per svelare un’anima «terroristica» mai vista prima. È il principio di un attacco che avrà il suo picco molto tempo dopo. Nell’estate del 1992. In quella Palermo cupa e con le sue strade riconosciute per le lapidi e gli altarini, Pio La Torre avverte in anticipo che gli equilibri mafiosi e politici stanno saltando.
Palermo non è più avvolta solo nella sua opulenza e nel suo silenzio. Servono cadaveri nelle pubbliche vie. C’è il coprifuoco, a Palermo. Il terrore. Nel gennaio del 1979 uccidono il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia, Mario Francese. A marzo, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. A luglio, Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile. A settembre, tocca al consigliere istruttore Cesare Terranova. Il 1980 si apre con l’omicidio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella.
A maggio ammazzano Emanuele Basile, il comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale. Ad agosto cade il procuratore capo della repubblica Gaetano Costa. Omicidi «preventivi» e omicidi «dimostrativi», i primi per eliminare pericoli imminenti (è così per il giudice Terranova, l’amico di Pio La Torre), gli altri per minacciare (è così per il segretario provinciale della Dc Michele Reina) e produrre paura. Gli omicidi di Palermo nel 1982 arrivano a quota 148.
L’OMICIDIO DEL PROCURATORE COSTA
È il tardo pomeriggio del 6 agosto 1980, la radio della polizia comincia a far rumore. Voci che si accavallano, ordini concitati. «Codice 9 da centrale operativa a volante due… codice 9 convergere su via Cavour». Codice 9: omicidio. Il vecchio Gianni, Gianni Lo Monaco, cronista di giudiziaria de L’Ora, mi urla: «Via Cavour è il centro di Palermo, il morto è un morto importante».
Scendiamo in piazzale Ungheria, svoltiamo a destra per via Ruggiero Settimo e siamo davanti alla bancarella di libri di via Cavour. C’è un uomo a terra, è ancora vivo. Gianni Lo Monaco, ha quasi sessant’anni, è il giornalista di Palermo più informato sulle cose di mafia. Incontra il procuratore capo della repubblica Gaetano Costa ogni mattina.
Ce l’ha a un metro e non riesce, non vuole riconoscerlo. Si nasconde dietro di me, trema, mi chiede: «Chi è?, Lo sai chi è?». «È il procuratore, Gianni». Gaetano Costa, galantuomo, partigiano in Val di Susa, magistrato senza macchie. Di lui, un collega dice: «È un uomo di cui si può comperare solo la morte». Al Palazzo di Giustizia dicono che è un comunista, lo chiamano con disprezzo il «procuratore rosso»
Il falso sequestro del banchiere Michele Sindona e il tesoro della mafia. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 maggio 2022
È un chiodo fisso quello di Pio La Torre: la messinscena del sequestro di don Michele, l’uomo che il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti ha definito «il salvatore della lira» proprio alla vigilia del crollo del suo impero finanziario sulle due sponde dell’Atlantico
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Pio La Torre mette in fila quei delitti e crede di avere scoperto una trama che li attraversa, un «disegno» criminale che prende corpo quando in Sicilia sbarca, sotto il falso nome di Joseph Bonamico, il banchiere Michele Sindona. Scivola mese dopo mese dentro questa Palermo infetta, ancora più insidiosa di quella conosciuta nei suoi primi anni in consiglio comunale.
Con i Lima e i Ciancimino seduti sui banchi a pochi metri da lui, a Palazzo delle Aquile. Una Palermo dove anche gli uomini dello Stato stanno dall’altra parte e fanno il doppio gioco. Sei mesi prima del suo ritorno in Sicilia, due magistrati milanesi – Giuliano Turone e Gherardo Colombo – hanno scoperto un’organizzazione segreta che è nel cuore delle Istituzioni italiane: la loggia P2 di Licio Gelli. Gli affiliati sono 962.
Quarantaquattro i parlamentari iscritti, tre ministri in carica, un segretario di partito, dodici generali dell’Arma dei carabinieri, cinque della Guardia di Finanza, ventidue dell’Esercito, quattro dell’Aeronautica, otto ammiragli di Marina. Poi ci sono giornalisti, alti dirigenti Rai, funzionari del ministero dell’Interno, editori. C’è anche un imprenditore milanese che diventerà famoso in tutto il mondo: Silvio Berlusconi. E c’è Michele Sindona. Una tessera della P2 è in tasca al capo della squadra mobile di Palermo Giuseppe Impallomeni.
Il suo questore, Giuseppe Nicolicchia, è nella “World Organization of Masonic Thought”, loggia fondata in Sudamerica sempre da Gelli. Sono loro, Impallomeni e Nicolicchia, che stanno indagando sul «fratello» Michele Sindona che si nasconde in Sicilia e che tratta la sua sopravvivenza con il gotha mafioso. Il questore e il capo della squadra mobile indagano su loro stessi. Pio La Torre chiede al ministro degli Interni la rimozione dei due funzionari. Dopo qualche mese, Impallomeni e Nicolicchia vengono promossi e trasferiti. È un chiodo fisso quello di Pio La Torre: la messinscena del sequestro di don Michele, l’uomo che il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti ha definito «il salvatore della lira» proprio alla vigilia del crollo del suo impero finanziario sulle due sponde dell’Atlantico
IL MISTERO SINDONA
Scompare da New York il 2 agosto e vi ricompare il 16 ottobre. L’anno è il 1979. Tutti s’immaginano un rapimento, ma Michele Sindona si nasconde a Palermo. Protetto dai capi della mafia. Gli Spatola e i Gambino, i Di Maggio e gli Inzerillo. Don Michele è sotto inchiesta in Italia per bancarotta fraudolenta, estorsione, concorso in omicidio per l’uccisione dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidato[1]re della Banca Privata italiana, cuore delle scorribande finanziarie di Sindona.
È sotto inchiesta anche negli Stati Uniti per il fallimento della Franklin National Bank, acquistata poco prima del crac. La rivista Time gli ha dedicato la copertina celebrandolo come «l’italiano di maggiore successo dopo Mussolini». Sindona ha amici potenti a Roma, negli Usa, in Vaticano. Il 40 per cento delle operazioni della Borsa di Milano è sotto il suo controllo diretto o indiretto, è padrone di tre catene internazionali di hotel e di quasi 500 società. In quell’estate del 1979 arriva clandestinamente in Europa via Vienna, scende in Grecia, s’imbarca per la Puglia, due siculo-americani lo scortano fino in Sicilia.
E si rifugia nel regno dei boss Di Maggio, fra Palermo e Torretta. E lì che l’amico, Joseph Miceli Crimi, medico della polizia che è anche suo «fratello» di loggia, gli spara a bruciapelo a una gamba. Fa parte della finzione per accreditare la tesi del sequestro. I boss di Palermo lo «custodiscono» perché hanno bisogno di lui: vogliono sapere che fine hanno fatto i loro soldi dell’eroina investiti nelle scatole cinesi dei suoi istituti di credito. Dove ci sono anche i patrimoni di molte personalità italiane. Quelli che prendono Michele Sindona in consegna – i mafiosi – e tutti quelli che indagano sulla sua misteriosa missione siciliana – poliziotti e magistrati – nei mesi successivi saranno uccisi.
«Adesso tocca a noi», svela Pio la Torre a Emanuele Macaluso. È il lunedì di Pasqua del 1982. La Torre è a Roma con sua moglie Giuseppina e il vecchio amico. I tre passeggiano sul Lungotevere, Pio la Torre parla delle sue paure. «Pio aveva la consapevolezza di un disegno della mafia. La mia opinione è che c’era dietro Ciancimino, uno che aveva un rapporto con i Corleonesi e una mente politica per capire quali erano i punti da colpire», ricorda Macaluso.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Pio La Torre si sente in pericolo, capisce che è un bersaglio anche lui. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 maggio 2022
Ai compagni più fedeli, Nino Mannino e Mimì Bacchi, consiglia di «tenere gli occhi aperti». A Rosario Di Salvo fa comprare una pistola per sé e un’altra per lui. Due Smith and Wesson. In quei mesi Pio La Torre si concentra sugli appalti siciliani, sul risanamento del lungomare di Palermo, sulla costruzione di una diga foranea. Tanti affari e tanti soldi.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Pio La Torre si sente in pericolo. Torna in Sicilia. Cerca una casa «sicura» a Palermo, in via Toselli. L’appartamento però non si rivela così protetto come crede e si trasferisce in corso Pisani, dietro piazza Indipendenza e vicino al palazzo Palagonia dove c’è la sede del partito.
Ogni tanto, per precauzione, va a dormire all’improvviso a casa di un amico dei tempi di scuola. Confessa le sue apprensioni a Maria Fais, una di famiglia. Ai compagni più fedeli, Nino Mannino e Mimì Bacchi, consiglia di «tenere gli occhi aperti». A Rosario Di Salvo fa comprare una pistola per sé e un’altra per lui. Due Smith and Wesson.
In quei mesi Pio La Torre si concentra sugli appalti siciliani, sul risanamento del lungomare di Palermo, sulla costruzione di una diga foranea. Tanti affari e tanti soldi. Gli torna sempre in mente Vito Ciancimino, il figlio del barbiere di Corleone che anno dopo anno è diventato sempre più potente .
[…] Ma non c’è solo Ciancimino a manovrare nell’ombra per i grandi lavori pubblici. C’è il solito Cassina, il conte Arturo, quello che da 51 anni ha il monopolio della manutenzione di strade e fogne in città. Pio La Torre viene informato anche di una riunione a Roma fra il presidente della Regione Mario D’Acquisto e i più grossi imprenditori edili di Catania, i Cavalieri – Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro – che si sono accordati per rastrellare tutti gli appalti miliardari di Palermo. A cominciare dal Palazzo dei Congressi, un affare gigantesco nella strada più elegante, via Libertà.
È una novità assoluta lo sbarco di imprenditori catanesi a Palermo. Significa che le «famiglie» di una parte e dell’altra dell’isola sono unite per spartirsi il «pizzo» sui grandi lavori. I Cavalieri sono i signori di Catania. Comandano, controllano, comprano tutto. Anche il silenzio. Quando qualcuno comincia ad accorgersi di loro e ad attaccarli, come fa per primo e da solo il giornalista Pippo Fava, i Cavalieri si scatenano. Sguinzagliano i loro lacchè, vomitano minacce legali, scaraventano offensive contro la «criminalizzazione che ci colpisce».
Ostinato, Pio La Torre cerca di scoprire cosa c’è in fondo all’accordo fra Palermo e Catania. Tocca fili ad alta tensione. Nella primavera del 1982 conosce anche due giovani istruttori. Sono segregati in un ammezzato buio del Tribunale di Palermo. Uno si chiama Giovanni Falcone, l’altro Paolo Borsellino. I due giudici indagano su mafia e banche, mafia e imprese, mafia e Regione. «Pazzi, sono dei pazzi», dicono in città.
La Torre è in confidenza con il loro capo, Rocco Chinnici, il magistrato che ha preso il posto del suo amico Cesare Terranova ucciso qualche anno prima. Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino parla di ciò che sta avvenendo in Sicilia, della guerra che Cosa Nostra ha dichiarato allo Stato, delle misure legislative che occorrono per fermarla. Quegli uomini sanno bene cos’è la mafia. L’hanno vista, respirata fin da bambini.
DESIDERIO DI GIUSTIZIA
Il desiderio di giustizia di Pio La Torre non è condiviso fino in fondo da tutti, nemmeno nel suo partito. Il Pci in Sicilia è dilaniato da faide intestine come sempre. Il 14 gennaio del 1982, al teatro Biondo, si apre il IX Congresso regionale del partito. Tre giorni dopo, il voto a scrutinio segreto è un’umiliazione per Pio.
Tutti i compagni più vicini a lui vengono esclusi dal Comitato regionale. Su una scheda è riportato il nome di uno dei suoi collaboratori più stretti, Gioacchino Iachino Vizzini, accompagnato da una frase: «Iachino statti a Pechino». Vizzini in quei giorni è in Cina con una delegazione del Pci. È un segnale chiaro che parte dai suoi oppositori interni. Pio la Torre, al congresso, rischia addirittura di non risultare – lui, segretario – neanche il primo degli eletti.
Gli sembra rivivere lo smacco di tanti anni prima, nel 1967, quando l’hanno destituito dalla guida del partito in Sicilia. Serpeggiano altre ansie nel Pci di Palermo. A La Torre riferiscono voci su «certi compagni» in società con mafiosi. Vuole fare pulizia. Ordina un’indagine interna sui rapporti di alcune cooperative rosse con piccole imprese della borgata di Ciaculli e di Villabate, dirigenti e amministratori del Pci – uno in particolare, Nino Fontana abile imprenditore soprannominato Mister Miliardo - legati da interessi economici con uomini in contatto con Michele Greco e con prestanome di Bernardo Provenzano. Gli atti della Commissione provinciale di controllo del Pci, sugli agganci delle coop con i boss di Ciaculli e Villabate, spariranno per sempre dagli archivi del partito in corso Calatafimi.
Viene anche sottratta la relazione di Pio La Torre con la denuncia di quelle collusioni. I dirigenti incolpati di contiguità con le cosche vengono tutti prosciolti da un’indagine interna. Punito, invece, è un quadro del partito che li ha indicati. Gli spediscono un richiamo formale «e l’invito perentorio a riconoscere pubblicamente l’infondatezza delle accuse mosse». È un’altra sconfessione per Pio La Torre. L’ala più «consociativa» del partito si muove spregiudicata nelle alleanze, è troppo vicina a grandi imprenditori in odore di mafia. «Non possiamo fare l’analisi del sangue all’aziende», si giustificano.
Pio La Torre è amatissimo da alcuni compagni, contrastato in silenzio da altri, circondato dall’indifferenza di molti dirigenti impegnati a farsi la guerra l’uno con l’altro. Il congresso regionale del 1981 alla fine approva comunque il suo documento. Al teatro Biondo, Pio La Torre dice alla fine: «Gli omicidi politici compiuti dal terrorismo mafioso in Sicilia, nel 1979 e nel 1980, non possono essere esaminati come singoli episodi.
È ridicola la tesi che Piersanti Mattarella sia stato ammazzato soltanto per l’appalto di sei edifici scolastici a Palermo». Piersanti Mattarella – il capo del governo siciliano, da tutti indicato come il delfino di Aldo Moro – si è distaccato dalla tradizione familiare per cambiare le regole del gioco politico nel[1]l’isola. Il giorno dell’Epifania del 1980 lo uccidono. Sotto casa, in via Libertà.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
UOMINI SOLI. I suoi ultimi giorni e quell’incontro a Roma con il Presidente Spadolini. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 13 maggio 2022
Pio la Torre consegna sette cartelle dattiloscritte, un dossier sulla strategia di guerra da mettere in atto contro Cosa Nostra. Chiede al presidente Spadolini d’intervenire «urgentemente». E di considerare la mafia non più solo un problema di ordine pubblico ma una «questione nazionale».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Il 3 marzo del 1982, cinquantasette giorni prima di morire, il segretario del Pci siciliano è a Roma per incontrare il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. È con Ugo Pecchioli, il responsabile dei «problemi dello Stato» del Partito comunista, e con Rita Bartoli, la vedova del procuratore Gaetano Costa.
Al capo del governo, Pio la Torre consegna sette cartelle dattiloscritte, un dossier sulla strategia di guerra da mettere in atto contro Cosa Nostra. Chiede al presidente Spadolini d’intervenire «urgentemente». E di considerare la mafia non più solo un problema di ordine pubblico ma una «questione nazionale».
Suggerisce di mandare un uomo a Palermo: Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo in Italia. Un mese dopo, il 2 aprile, Giovanni Spadolini nomina il generale prefetto di Palermo. Ancora una volta, nella Sicilia dei primi Anni Ottanta si annuncia un nuovo incontro fra quei due uomini che si sono conosciuti nel 1948. A Corleone. Un incontro che non avverrà mai.
La Torre, adesso, non ha gli occhi puntati solo su Palermo, città dei misteri dove non si scoprono mai mandanti e manovratori. Va e viene da Comiso, un paesone in provincia di Ragusa dove il governo italiano, su pressione degli americani e in nome del Patto Atlantico, ha deciso – nell’agosto del 1981, in gran segreto – di trasformare un ex aeroporto militare nella base di missili nucleari più grande d’Europa. Si chiamano «Cruise» perché sono facilmente trasportabili, missili da crociera.
La Nato assicura che sono «intelligenti», leggeri, capaci di sfuggire ai radar sovietici. Ne vuole 112 proprio lì, a Comiso, tutti puntati contro il nemico di Mosca. È la corsa al riarmo delle Grandi Potenze prima del crollo del Muro di Berlino. In Sicilia è sollevazione. Ed è il «vecchio» La Torre che la guida con uno straordinario vigore, ritrovandosi ancora una volta capopopolo come nelle battaglie del feudo. Incrocia i sentimenti di rivolta dei movimenti pacifisti, monaci buddisti e ragazzi che provengono dalla Norvegia e dal Canada, da Londra e Parigi.
Organizza la contestazione nell’isola, coinvolge tutti quelli che può nella battaglia «contro i missili e per la pace». Anche la Dc, anche le associazioni cattoliche. Lancia una petizione per raccogliere un milione di firme e chiedere «la sospensione dell’inizio dei lavori della base».
APPUNTAMENTO A COMISO
Il 4 aprile del 1982, ventisei giorni prima di morire, è davanti all’ex aeroporto militare «Vincenzo Magliocco». Ci sono 100 mila manifestanti. Intorno alla base i mafiosi di Palermo hanno già cominciato ad acquistare terreni, ci sono imprese che si spostano dalla Sicilia occidentale al Ragusano per prepararsi all’arrembaggio dei sub-appalti, l’isola è destinata a diventare ancora terra di spie come lo è stata negli anni della seconda guerra mondiale.
È l’ultima settimana di aprile e Pio La Torre decide che il 1° maggio, festa dei lavoratori, non andrà a Portella della Ginestra per il trentacinquesimo anniversario della strage. Sarà invece a Comiso. «Quest’anno è più giusto stare là», spiega ai suoi. Da alcuni giorni, davanti ai cancelli dell’ex aeroporto militare, dodici pacifisti sono in sciopero della fame. Vuole stare con loro. Palermo lo agita troppo, è teso, angosciato. Nelle riunioni in corso Calatafimi avverte i quadri del partito di «stare molto attenti». Ai militanti dice: «Qualcuno potrebbe farcela pagare». Ma non molla.
Disciplinato e metodico, sveglia tutti i suoi collaboratori alle 7 del mattino per impartire direttive, suggerisce idee, li costringe ai suoi forsennati ritmi di lavoro. E aspetta il suo 1° maggio a Comiso, dall’altra parte della Sicilia. Quando gli dicono che hanno ucciso il suo amico Pio la Torre, apre il cassetto della scrivania e tira fuori la Cobra a cinque colpi. «È stato un gesto istintivo, mi è salito il sangue agli occhi, ho pensato: “Adesso li faccio fuori, tutti e due: Salvo Lima e Vito Ciancimino”.
In quel momento mi è tornato in mente il ghigno di Ciancimino, dieci anni prima, quando aveva parlato di Pio con odio dopo una riunione del consiglio comunale di Palermo. Non l’ho mai dimenticata quell’espressione di disprezzo e, a pelle, l’ho collegata alla morte di Pio».
La mattina del 30 aprile 1982 me la ricorda Nino Mannino, un dirigente del Pci siciliano che per vent’anni è stato sempre vicino a La Torre. A Palermo gira la voce che lui, quella pistola, la voleva usare contro chi nel suo partito aveva osteggiato La Torre con ogni mezzo. «Una menzogna», dice, «sulla vicenda mi ha anche interrogato il giudice Falcone e gli ho raccontato esattamente come erano andate le cose». Dopo l’omicidio di Pio La Torre, per molto tempo Nino Mannino camminerà per le strade di Palermo con la sua Cobra avvolta in un foglio di giornale.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Primo Maggio, la piazza di Palermo si tinge di rosso per l’ultimo saluto. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 maggio 2022
Piazza Politeama è rossa di bandiere. Il 1° maggio del 1982 Pio La Torre non è fra le rocce di Portella della Ginestra e nemmeno davanti alla base dei missili a Comiso. È dentro una bara che, il giorno dopo, sfila per le vie di Palermo. Partigiani e corone di fiori, amici e nemici. Tutti insieme per l’ultimo saluto.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
Piazza Politeama è rossa di bandiere. Il 1° maggio del 1982 Pio La Torre non è fra le rocce di Portella della Ginestra e nemmeno davanti alla base dei missili a Comiso. È dentro una bara che, il giorno dopo, sfila per le vie di Palermo. Partigiani e corone di fiori, amici e nemici. Tutti insieme per l’ultimo saluto. Forse sono centomila, forse di più. Funerali di rabbia e di dolore. Sul palco sale il Capo dello Stato Sandro Pertini, seguito dal segretario del Pci Enrico Berlinguer. Poi ci sono il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e la presidente della Camera Nilde Jotti.
Dietro di loro, pallidi in volto, sono schierati i ministri della Repubblica. Toghe eccellentissime, presidenti di corte di appello e procuratori generali. Sembrano mummie. E tutti i capi storici del Pci. In fondo al palco c’è anche Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale. Il presidente del Consiglio e il ministro degli Interni Virginio Rognoni gli hanno chiesto di insediarsi come prefetto di Palermo una settimana prima della data prevista. Pio La Torre è morto. Davanti alla folla c’è Mario D’Acquisto, il presidente della Regione Siciliana, un maggiordomo di Salvo Lima. Fa tutto quello che il capo gli dice di fare.
Il presidente D’Acquisto si avvicina al microfono, la piazza esplode. Urla: «Lima, D’Acquisto, Ciancimino, chi di voi è l’assassino?». Poi sul palco avanza un altro grande vecchio di una Sicilia in putrefazione, Salvatore Totò Lauricella, presidente del parlamento regionale e, anni prima, potentissimo ministro socialista dei Lavori Pubblici. In migliaia tirano fuori dalle tasche banconote da mille lire. Le sventolano sotto il palco, gridano: «To-tò car-ta-da-mil-le, To-tò-car-ta-da-mil-le…».
Sono sudato, stravolto, impaurito. L’Internazionale e L’inno alla gioia di Beethoven, la ressa, le urla. Sventolo anch’io una banconota da mille lire, come tutti gli altri. «Non dovevi farlo, un giornalista è un giornalista e non partecipa mai», mi rimprovera il direttore Nicola Cattedra quando torno in redazione. «E poi c’erano anche brave persone là sopra, sul palco», mi sussurra uno dei notisti politici che passa le sue giornate a strusciarsi con i potenti del parlamento siciliano. Mi sto zitto. Ho ventisette anni e faccio il giornalista solo da quattro. Non so niente, lui sa tutto. Forse anche troppo.
La piazza è ostile. C’è molta sofferenza e tanta paura. Enrico Berlinguer comincia a parlare, lentamente: «Siamo qui a rivolgere l’ultimo saluto al compagno Pio la Torre e al compagno Rosario Di Salvo…». Ripercorre la storia di un eroe contadino e dell’amico fedele che l’ha accompagnato sino alla fine: «Rosario era mosso da un’assoluta fedeltà al partito, con una soddisfazione che lo ripa[1]gava delle pene e dei rischi che egli valutava bene, come dimostra il fatto che ha estratto la sua pistola ed ha sparato cinque colpi, che forse hanno ferito uno dei killer». È in quel momento, quando Berlinguer svela quel particolare sulla Smith and Wesson di Rosario che ha fatto fuoco, che la piazza esplode un’altra volta. Un applauso liberatorio. E lacrime. Piangono in migliaia a Palermo, quel mezzogiorno del 2 maggio 1982. Piange anche Rosolino Cottone, nome di battaglia «Esempio».
LA STORIA DI ROSOLINO COTTONE
Mi chiamo Rosolino Cottone, di Palermo, ho 80 anni. Ho fatto il partigiano nella guerra di liberazione sull’Appennino tosco-emiliano con la 31° Brigata Garibaldi. Per quell’esperienza mi hanno fatto fare la guardia del corpo prima a Li Causi e poi a La Torre… Con Pio abbiamo cresciuto insieme. Io gli andavo sempre dietro. Ero armato, certo, ma l’arma non me la vedevano mai. Con La Torre eravamo due fratelli. Lui era uguale a noi, era un combattente.
Poi io sono diventato anziano. La cosa che più ricordo di lui quella mattina a Palermo, che lui non si meritava di morire. In che senso mi ricordo? L’autista di La Torre si chiamava Di Salvo, e a lui non ci arrivò nella mente che quando camminava con la macchina, quella mattina un’altra macchina ci andava dietro. La Torre abitava in corso Pisani e la sera prima mi dice a me: “Cottone, mi raccomando, domani mattina verso le 8 a casa mia”. Alle 8 ero lì, ma che ne sapevamo che gli assassini erano già lì anche loro? Erano giù. In casa La Torre dice a Di Salvo: “Fai il caffè a Rosolino, che deve andarmi a fare delle commissioni”.
Io ho preso il caffè e sono andato. Arrivo in federazione verso le nove e mezzo e il portiere appena mi vede mi urla: “Cottone! Ammazzarono a La Torre e a Di Salvo”. “Ma cosa dici?”, urlai io, ma corsi via come un dannato, la polizia cercò di bloccarmi, ma urlavo dalla rabbia e mi fecero passare e arrivai alla macchina tutta insanguinata. La Torre è sepolto qui, ai Cappuccini. Si può entrare ai Cappuccini, sulla lapide c’è scritto il suo nome. Era un bravissimo compagno, duro e forte. Mi dice a me, eravamo a Comiso, la mattina del grande comizio.
C’erano tanti contadini, tanti operai venuti a Comiso per il discorso di La Torre, erano più di cinquemila anche dai paesi attorno. Allora La Torre mi dice a me: “Comandante ma pecché sono accussì poco?”, così mi parlava, e io gli faccio: “Scusa La Torre, sono più di cinquemila. Tu quanti ne vuoi?”, ci faccio io a lui. Non si contentava mai, voleva sempre di più nella lotta popolare.
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
Delitto politico? Delitto mafioso? I mandanti sono sempre invisibili. TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 15 maggio 2022
Chi ha ucciso Pio La Torre? La sua «legge» sul reato di associazione mafiosa? I grandi appalti di Palermo? I missili di Comiso? Le ipotesi sul suo omicidio si allungano da una parte e dall’altra, s’intrecciano, sbiadiscono. Delitto politico. Delitto politico mafioso. È sempre così a Palermo. Omicidi eccellenti e mandanti invisibili. Solo loro, solo quelli di Corleone.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.
I colpi esplosi dalla pistola di Rosario sono cinque, ma sono andati tutti a vuoto. Le pallottole sono rimbalzate su un muro. Gli assassini se ne sono andati «tranquilli», come erano venuti. Una moto e un’auto, mitragliatori e revolver. Sicari di mafia. Salvatore Cocuzza, Giuseppe Lucchese detto U’ Lucchiseddu, Nino Madonia e Pino Greco detto Scarpazedda.
L’ultimo, Pino Greco, poco tempo dopo viene strangolato in un magazzino sulla marina. Il primo, Salvatore Cocuzza, si pente e racconta che c’era anche lui, quel giorno, in piazza Generale Turba. E che l’ordine di uccidere Pio La Torre è venuto dall’alto: dallo zio Totò. Dall’alto. Dalla Cupola. Dal capo dei capi Salvatore Riina.
È sempre la Cupola a decidere sulla vita e sulla morte degli altri. Sono sempre delitti di «coppole». Come per quei quattro uomini che, la mattina del 30 aprile, sono tutti insieme intorno all’auto di Pio La Torre. Il commissario capo Ninni Cassarà. Il giudice Falcone. Paolo Borsellino. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Fermi e ripresi così, come statue, in una sola immagine che raccoglie tutte le pagine del romanzo nero di Palermo. Una foto. Loro e la berlina di Pio La Torre. Loro vivi. Ancora vivi. Chi ha ucciso Pio La Torre? La sua «legge» sul reato di associazione mafiosa? I grandi appalti di Palermo? I missili di Comiso? Le ipotesi sul suo omicidio si allungano da una parte e dall’altra, s’intrecciano, sbiadiscono.
Qualcuno, in un rapporto giudiziario, fa acrobazie lessicali per nascondere il niente: «È vittima per avere recato o potuto recare gravi pregiudizi ad una pluralità disomogenea di centri d’imputazione di interessi illeciti». Non si capisce nulla. Buio totale. Non s’indaga sul delitto La Torre. A Palermo c’è chi non vuole indagare. Dopo tanti tentativi che puzzano di ricatto, si arena anche l’inchiesta per le contiguità affiorate dentro il Pci. La pista «interna».
Sviscerata più volte nel corso delle investigazioni, si rivela per quella che è apparsa fin dall’inizio: una bufala. Una delle tante invenzioni sbirresche per depistare e confondere. «Pio non può essere stato ammazzato da un qualunque ladruncolo di cooperativa», si indigna la moglie Giuseppina. Delitto mafioso. Delitto politico. Delitto politico mafioso. È sempre così a Palermo. Omicidi eccellenti e mandanti invisibili. Solo loro, solo quelli di Corleone.
L’INDAGINE DEL GIUDICE FALCONE
Il resto è mistero. È il giudice Giovanni Falcone a indicare un sentiero diverso: «Omicidi come quello di Pio La Torre sono fondamentalmente da ritenere di natura mafiosa, ma al contempo sono delitti che trascendono le finalità tipiche di un’organizzazione criminale, anche se del calibro di Cosa Nostra.
Qui si parla di omicidi politici, di omicidi, cioè, in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica: fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti». Mese dopo mese, Pio La Torre è rotolato in quel «disegno» criminale che lui stesso ha riconosciuto per primo al suo ritorno in Sicilia. È finito anche lui nella tonnara. Davanti a tutti e davanti a nessuno.
Per ventisette anni, dal 1949 al 1976, Pio la Torre è sotto sorveglianza dell’intelligence italiana come «agente sospetto di spionaggio a favore di un’organizzazione politica asservita agli interessi dell’Unione Sovietica». Gli agenti segreti lo pedinano, sono convinti che lui passi informazioni al Kgb. Riempiono schedari sui suoi movimenti, sui suoi incontri, sui suoi viaggi. Dopo un quarto di secolo sospendono la caccia. Un fantomatico reparto «D» del servizio militare ferma i controlli: «Dalla documentazione in nostro possesso, l’attività di La Torre non appare come conseguente a mandato conferito da servizio straniero».
Gli spioni certificano che Pio non è un agente sovietico. Ricominciano a tallonarlo quando torna in Sicilia, nel settembre del 1981. Giorno e notte. A Palermo. A Comiso. Nei paesi della Sicilia interna. A Roma. Ma una settimana prima del 30 aprile 1982 all’improvviso decidono che può restare solo. Senza testimoni. Chiedono i giornalisti al nuovo prefetto che si è appena insediato in Sicilia: «Perché, secondo lei, hanno ucciso Pio La Torre?». Risponde il generale Carlo Alberto dalla Chiesa: «Per tutta una vita».
TRATTO DAL LIBRO "UOMINI SOLI", DI ATTILIO BOLZONI
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.
Centinaia di trapiantati di rene non lo sanno, ma c'è chi scartabella fra le pieghe delle loro cartelle sanitarie cercando Matteo Messina Denaro. Perché dal 2017 una parte del sistema informatico del Centro nazionale trapianti è stato controllato da un reparto dei servizi di sicurezza.
Anche a caccia delle ricette dei costosissimi farmaci antirigetto necessari in questi casi, come si scopre arrivando in coda al romanzo appena scritto da Gaetano Pecoraro, uno dei cronisti più efficaci delle Iene.
Un romanzo con lo scoop di un trapianto forse eseguito sotto falso nome o all'estero. Un'ipotesi inedita mentre si continua a cercare lo stragista di Cosa Nostra finora descritto come uno scattante criminale senza acciacchi. Una nuova pista sulla lunga latitanza del numero uno di Cosa Nostra che nei fascicoli i suoi cacciatori chiamano MMD.
Come fa anche Pecoraro, protagonista di tante inchieste per la squadra di Davide Parenti su Mediaset, adesso autore del thriller pubblicato da Sperling&Kupfer, Il male non è qui, dal 7 giugno in libreria.
È il frutto di due anni di incontri con un magistrato senza nome nel testo, di riscontri cercati fra investigatori che nel romanzo acquistano identità non immediatamente riconoscibili e di verifiche sulle numerose inchieste che hanno portato all'arresto di fiancheggiatori, parenti e imprenditori vicini al figlioccio di Totò Riina.
Perché fu il padre, Francesco Messina Denaro, il boss morto nel suo letto, 'U zu Cicciu, ad affidarglielo: «Tratta Matteo come fosse tuo figlio». E così fece il «viddano» di Corleone eleggendolo ad erede, come i fratelli Graviano di Brancaccio, tutti protagonisti delle grandi stragi fra il '92 e il '93.
Ma proprio mentre Pecoraro s' addentrava nella giungla dei verbali su una infinita sequenza di orrori mafiosi, fra sentieri in cui campeggia la presenza di un fantasma dai contorni indefiniti, ecco la soffiata su una operazione al rene.
Con le conferme trovate al vertice di quel Centro dove due agenti arrivarono, già cinque anni fa, presentati dalla moglie di un medico ucciso dalla 'ndrangheta in Calabria.
Dettagli indirettamente ammessi da un ex direttore del Centro: «No comment. Ho preso con le "istituzioni" un impegno che va rispettato...».
Dettagli sfumati in un libro che ripropone la ricostruzione di una terribile epopea. Una storia di lutti che comincia con gli omicidi di Emanuele Basile e Mario D'Aleo, i due capitani dei carabinieri uccisi nel 1980 e nel 1983.
La tecnica del romanzo e dei dialoghi agevola la lettura degli eventi e la messa a fuoco di profili come quello di Riina, il «viddano» che Pecoraro immagina impegnato a curare le piante in giardino o a ordinare un omicidio («Per lui, la stessa cosa»).
Tante le storie di innocenti che cadono. Dal giudice suicida, accusato senza prove, al direttore di un albergo di Castelvetrano che s' innamora di una cameriera austriaca senza sapere che è la donna di MMD. E le indagini approdano a Vienna. Con un buco nell'acqua. Come succede quando si trova Roberta, la donna che con lui ha avuto una figlia, Lorena. Tutti sotto controllo.
A cominciare da Mary, l'ultima fidanzata. Seguita nell'appartamento degli incontri. Sospesi al momento giusto. Con il sospetto che le soffiate arrivino con inquietante regolarità a MMD, che qualcuno negli apparati dello Stato remi contro.
Lo lascia intendere l'autore scavando nell'ambiguità di alcuni investigatori «forse impegnati ad annullare il lavoro dei loro colleghi». Appunto, un sospetto per quella che finora viene proposta come la storia di una sconfitta.
«Al medico va fatta una doccia». Un’intercettazione riapre il caso della morte di Attilio Manca, il medico che visitò il boss Provenzano. Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2022.
Fabio Repici, legale della famiglia del medico la cui morte nel 2004 venne derubricata come suicidio: «Consegneremo alla Procura di Roma una denuncia con nuovi elementi che avvalorano la tesi dell’omicidio da parte della mafia con apparati statali deviati».
«Arriva - adesso - la pubblicazione di un’intercettazione nella quale si afferma che nel cerchio ristretto che accudiva il boss Bernardo Provenzano si discuteva della necessità di uccidere un medico (a quel medico «va fatta una doccia» dicono nell’intercettazione gli uomini di Provenzano). È la conferma alle rivelazioni già fatte da numerosi collaboratori di giustizia. E la conferma delle inspiegabili falle istituzionali che si sono verificate a protezione della latitanza di Provenzano»: parole all’Agi di Fabio Repici, legale della famiglia di Attilio Manca, l’urologo siciliano morto nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, la città in cui lavorava da meno di due anni.
Una morte archiviata come suicidio, che però nel tempo è stata oggetto di numerosi dubbi. Mai approfondita la tesi, supportata da elementi di rilievo, per cui Attilio sarebbe stato ucciso perché avrebbe visitato Bernardo Provenzano per il suo tumore alla prostata, e soprattutto perché sarebbe stato un testimone scomodo della rete di protezione attorno al boss eretta da una parte deviata dello Stato. È un’ipotesi che ha preso sempre più piede in questi anni, nel 2013 oggetto di una relazione di una minoranza parlamentare. Nel corpo di Manca venne rilevata la presenza di alcol e barbiturici. Gli investigatori della prima ora puntarono immediatamente sulla tesi del suicidio, concentrandosi nel documentare i rapporti tra Attilio Manca e una donna romana con precedenti per droga, Monica Mileti, accusata in primo grado per aver ceduto sostanze a Manca. Poi assolta, però, «perché il fatto non sussiste».
La domanda è rimasta per tanti anni sospesa: Manca si rese conto che uomini dello Stato affiancavano la malavita? Nell’intercettazione ambientale, ora pubblicata dai giornalisti Tobias Follett e Antonella Beccaria, sei o sette uomini varie volte avrebbero ripetuto la condanna a morte, senza tuttavia pronunciare mai il nome del destinatario della minaccia, affermando che al medico «andava fatta una doccia», ovvero doveva essere eliminato. «È esattamente quanto ha spiegato il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico. Nelle sue dichiarazioni sull’omicidio di Attilio Manca, recentemente dichiarate attendibili anche dalla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha condannato per associazione mafiosa Rosario Cattafi - commenta l’avvocato Repici - ha spiegato che l’assassinio dell’urologo barcellonese è un delitto compiuto in sinergia da Cosa Nostra e da apparati deviati dello Stato, in uno scenario tipicamente piduista. Lo stesso generale dei carabinieri tirato in ballo dal pentito D’Amico, se si guarda l’elenco dei soci onorari del circolo Corda Fratres, era uno dei più celebri affiliati alla loggia P2». Il legale invoca: Ora non ci sono più alibi per la Procura di Roma. Nelle prossime settimane chiederemo un appuntamento al procuratore Lo Voi e consegneremo nelle sue mani una denuncia nella quale compariranno tutti gli elementi raccolti in questi ultimi tempi».
Il legale va all’attacco: «La verità sul caso Manca è nascosta anche fra le pieghe degli archivi giudiziari nei quali riposano sotto tonnellate di polvere i misteri sulla latitanza di Bernardo Provenzano, protetta da settori istituzionali. Bisogna solo dissotterrare le informazioni insabbiate per decenni. A partire da quelle riguardanti la presenza di Bernardo Provenzano in provincia di Messina». Una ferita ancora aperta per Angela Gentile Manca, madre di Attilio: «Ho i brividi, come quando vidi le foto del cadavere di Attili o. Non ho potuto fare a meno di pensare all’Olocausto, quando gli ebrei internati, con la scusa di fare la doccia, venivano indirizzati alle camere a gas. Attilio fu vittima della stessa crudeltà. Il pensiero che questa intercettazione risalga al 2003 e che la Procura di Roma non ne abbia mai fatto uso mi toglie il sonno».
La rivelazione di 'Antimafiaduemila'. Rifiutò di curare Provenzano, riaperto il caso del medico Attilio Manca: “Fategli una doccia”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 5 Giugno 2022.
Il giovane urologo Attilio Manca venne trovato morto il 12 febbraio 2004 a Viterbo, dove lavorava da poco meno di due anni all’ospedale Belcolle. E ora il caso legato alla sua scomparsa potrebbe arrivare a una svolta. Stando alle rivelazioni del portale Antimafiaduemila, pubblicate dai giornalisti Tobias Follett e Antonella Beccaria, in un’intercettazione ambientale di fine 2003– finora inedita- gli uomini di Bernardo Provenzano, allora ancora latitante, dissero che era necessario “fare una doccia” a un medico per aver negato le cure al boss. Ossia avrebbero dovuto eliminarlo. Quel medico, sebbene non venga nominato, sarebbe appunto Attilio Manca.
Il tumore alla prostata e l’intervento in Costa Azzurra
Secondo quanto ricostruito, Provenzano aveva bisogno di un medico a causa del suo tumore alla prostata. Prima del viaggio in Costa Azzurra, dove sarebbe stato operato, i suoi gregari avevano chiesto la disponibilità a un dottore che però negò il suo aiuto con un secco ‘no’. In questa intercettazione- inserita nel fascicolo che venne aperto dalla Procura di Roma- si sentono le voci di sei o sette uomini, tra cui anche quella di Giuseppe Lo Bue, fedelissimo di Provenzano, che ribadivano la loro sentenza di morte.
Da quel giorno, e per oltre 18 anni, i genitori di Attilio Manca si sono battuti per cercare la verità sulla morte del figlio e ora presenteranno un nuovo esposto. La rilevanza della notizia, si legge sul sito, è stata confermata anche dall’avvocato Fabio Repici, che assiste Gioacchino Manca e Angela Gentile. Secondo i familiari il brillante medico di 34 anni non si tolse la vita con un’overdose da eroina, aggravata dall’assunzione di uno psicofarmaco a base di benzodiazepine. Ma venne coinvolto a sua insaputa nelle cure al ‘boss’ Bernardo Provenzano e quindi ucciso con un’iniezione di sostanza stupefacente: per la famiglia e i legali non fu altro che una messinscena.
Infatti i due fori da siringa erano nel braccio sinistro. Attilio Manca, che comunque non era un tossicodipendente, era mancino e anche secondo le testimonianze di colleghi e conoscenti non era in grado di svolgere delle attività con la mano destra.
“Vent’anni di indagini a vuoto”
“Intanto bisogna verificare se questa intercettazione esiste, se così fosse e se fosse vera anche la collocazione temporale di questa intercettazione, che è antecedente alla morte dell’urologo Attilio Manca. Se fosse così, la prima domanda che mi faccio è: questa intercettazione chi l’ha fatta? E cosa ne è stato fatto?” ha dichiarato all’Adnkronos l’avvocato Antonio Ingroia, ex Procuratore aggiunto di Palermo e altro legale della famiglia di Attilio Manca.
Nel corso degli anni, cinque collaboratori di giustizia – Giuseppe Setola, Carmelo D’Amico, Stefano Lo Verso, Giuseppe Campo e Antonino Lo Giudice – avevano rivelato ai magistrati che quello del medico 34enne era stato in realtà un omicidio. Adesso Ingroia chiede chiarezza: ”Mi chiedo, gli ufficiali di Polizia giudiziaria che avrebbero fatto questa intercettazione l’hanno consegnata alla Procura di Palermo? Su quale scrivania l’hanno consegnata? E che sorte ha avuto? Se fosse vero, sarebbe una notizia enorme. Significa anche che Attilio Manca poteva essere salvato, se si fosse intervenuti tempestivamente”.
Il legale ha poi sottolineato che la famiglia aveva subito parlato di ‘fatti strani’ collegati al capomafia Provenzano, oltre che a Marsiglia. “Avremmo certamente risparmiato 20 anni di indagini a vuoto, se qualcuno le avesse tempestivamente segnalato. Il primo a cui chiedere qualcosa sarebbe l’allora Procuratore capo di Palermo Pietro Grasso, che seguiva da vicino questa vicenda. Io c’ero in quel periodo in procura e mi chiedo sulla scrivania di quale pm è andata questa intercettazione?” ha aggiunto.
“Una notizia da brividi”
“Questa notizia mi ha fatto venire i brividi, come quando vidi le foto del cadavere di Attilio. Non ho potuto fare a meno di pensare all’Olocausto, quando gli ebrei internati, con la scusa di ‘fare la doccia’, venivano indirizzati alle camere a gas. Attilio fu vittima della stessa crudeltà” ha dichiarato all’Agi Angela Gentile, madre dell’urologo siciliano Attilio Manca. “ll pensiero che questa intercettazione risalga al 2003 e che la Procura di Roma non ne abbia mai fatto uso mi toglie il sonno”. Mariangela Celiberti
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Così diceva Pippo Fava: ''I mafiosi sono ai vertici della Nazione''. Giorgio Bongiovanni il 05 Gennaio 2022 su antimafiaduemila.com.
A 38 anni dalla sua uccisione, commemoriamo un uomo libero, un romantico guerriero, un “profeta” armato di penna e arte. “I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”.
Mai come in questo momento, le parole profetiche di Pippo Fava, rilasciate in un’intervista condotta da un altro grande giornalista come Enzo Biagi (che riproponiamo nel nostro giornale in due parti), si sono vestite di così tanta concretezza. Riteniamo che non vi sia modo migliore di commemorare il 38° anniversario dell’omicidio del giornalista catanese, assassinato da Cosa nostra nella provincia ai piedi dell’Etna il 5 gennaio 1984, se non riproponendo tali affermazioni.
Pippo Fava faceva riferimento ad un “equivoco di fondo”, ovvero che “non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale”. “Questa - diceva - è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l'Italia”.
A distanza di quasi quarant’anni dalla sua uccisione, non possiamo che fare nostre le sue parole e testimoniare come e quanto siano state puntuali nell’indicare in Cosa Nostra un potere che va molto al di là di quello che la solita propaganda vuole far credere all’opinione pubblica.
Cosa Nostra era ed è tuttora un comodo braccio armato e un braccio economico di una parte dello Stato che con la mafia, con le mafie ha scelto di convivere.
Ma tutto ciò assume una valenza maggiore alla luce degli ultimi avvenimenti: le nuove indagini a Firenze sui madanti esterni delle stragi di Via d’Amelio e di Capaci; l’esito di primo grado del processo ‘Ndrangheta stragista; piuttosto che quello sulla Trattativa Stato-mafia (del quale attendiamo ancora le motivazioni della sentenza - parzialmente assolutoria - della Corte d’Assise d’appello di Palermo); per non parlare dei processi in corso come quello del duplice omicidio Agostino. Ma la parole di Pippo Fava risultano profetiche anche se allargate all’attuale Parlamento: basti pensare alle indagini su corruzione, concussione e peculato (tipici delitti della pubblica amministrazione e dei colletti bianchi) ostacolate dalla nuova riforma della Giustizia firmata dalla Ministra Marta Cartabia; piuttosto che alla possibilità (anche solo apparente) che si prospetti come futuro capo dello Stato Silvio Berlusconi: un pregiudicato per frode fiscale, nonché ex premier che da imprenditore pagava mazzette a Cosa nostra ed attualmente indagato a Firenze come mandante occulto delle stragi di mafia del 1993.
Ecco, dinnanzi a questo scenario - che rischia di soffocare sempre più il respiro democratico della nostra Repubblica - il quadro descritto al tempo dal direttore de I Siciliani si palesa in tutta la sua fatalità in quanto oggi, come ieri e più di ieri, viviamo ciò che Fava denunciava: la mafia è in Parlamento, nelle banche e nei vertici della nazione.
DA UN’IDEA DI ATTILIO BOLZONI, CON L’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA.
Pippo Fava, il giornalista ucciso nella città dove “la mafia non esiste”. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 26 dicembre 2021.
Le indagini partono male, malissimo. Gli investigatori seguono anche una fantomatica e calunniosa pista “passionale”. Un classico nei delitti firmati da Cosa Nostra. Perché l'omicidio di Giuseppe “Pippo” Fava, è un omicidio di Cosa Nostra. Ma a Catania “la mafia non esiste”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Gli scivolano alle spalle, nel buio. E lo uccidono, alle 21.30 del 5 gennaio 1984, a Catania.
Lo uccidono i mafiosi. Ma le indagini partono male, malissimo. Indagini confuse, gli investigatori seguono anche una fantomatica e calunniosa pista “passionale”. Un classico nei delitti firmati da Cosa Nostra. Perché l'omicidio di Giuseppe “Pippo” Fava, è un omicidio di Cosa Nostra.
Ma a Catania “la mafia non esiste” e Pippo è un visionario, un raccontatore di favole, un corpo estraneo nella città dove il prefetto inaugura le attività commerciali del boss Nitto Santapaola, dove il comandante dei carabinieri ha rapporti con quei “galantuomini”, dove i più grandi imprenditori sono al servizio del crimine o dal crimine traggono enormi vantaggi. Pippo Fava li chiama “I Cavalieri dell'Apocalisse”.
Pippo Fava lascia “La Sicilia”, giornale paludato e organo ufficiale del potere, per fondare “Il Giornale del Sud” e poi “I Siciliani”, laboratorio di giornalismo in una Sicilia sonnacchiosa e promiscua dove i cronisti erano i suoi “carusi”, i suoi ragazzi, una generazione di giornalisti che segnerà la storia dell' "altra Catania” dopo la sua morte.
Ci vorrà molto tempo per scoprire (e provare) chi ha davvero ucciso Pippo - giornalista, ma anche drammaturgo, scrittore, sceneggiatore, uomo di teatro, pittore - che era una voce nel silenzio cupo di una Sicilia che ingoiava ogni nefandezza e ogni mistero. La sua condanna a morte Pippo Fava l'ha firmata quando ha iniziato a scrivere di quella Sicilia e di quella Catania.
Da oggi e per venti giorni, sul Blog Mafie pubblichiamo la sentenza d'appello che ha condannato all'ergastolo il capomafia Nitto Santapaola e il suo parente Aldo Ercolano come mandanti, mentre ha assolto Marcello D'Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola, condannati in primo grado come esecutori. La sentenza è stata confermata in Cassazione nel 2003.
Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. Sul mensile “I Siciliani” l’intreccio fra mafia-politica-affari a Catania. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 27 dicembre 2021.
La denuncia fatta da Fava dell’intreccio mafia politica affari con la rivista “I Siciliani” era iniziata il 22 dicembre 1982. Pippo Fava dimostrava di essere un fine conoscitore del fenomeno mafioso che operava sul territorio di Catania.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
La difesa di Santapaola Benedetto e quella di Ercolano Aldo hanno rilevato in chiave critica, nell’atto di impugnazione ed in sede di discussione, che nessuna originalità vi sarebbe nella denuncia fatta da Fava dell’intreccio mafia politica affari con la rivista “I Siciliani” il cui primo numero era uscito in edicola il 22 dicembre 1982, poiché già in precedenza sia in alcuni quotidiani e settimanali a tiratura nazionale (Corriere della Sera, Repubblica e L’Espresso) sia sul quotidiano locale “La Sicilia” erano stati pubblicati degli articoli, versati in atti, aventi per oggetto la medesima denuncia.
Orbene osserva la Corte che nessun rilievo ha, ai fini di minare il suindicato movente dell’omicidio di Fava, la pubblicazione di tali articoli sulla stampa a tiratura nazionale ad opera di giornalisti che vivevano lontano dal fenomeno mafioso locale, al di fuori di ogni possibile contatto con gli ambienti in cui il detto fenomeno prosperava, per cui la campagna di stampa portata avanti dai giornali suddetti non poteva essere oggetto di una attività intimidatoria da parte della organizzazione mafiosa che operava sul territorio di Catania.
Diversa era ovviamente la situazione degli articoli pubblicati sul quotidiano “La Sicilia” a diffusione meramente locale nella stessa zona in cui era radicata la detta organizzazione mafiosa, e quindi parimenti esposto ad eventuali atti di intimidazione.
Ma devesi rilevare però che in realtà l’approccio alla problematica fu completamente diverso nella rivista “I Siciliani” e negli articoli pubblicati sul quotidiano La Sicilia.
Va innanzi tutto considerata una sostanziale differenza che è ravvisabile in seno ai due giornali in ordine alla genuinità ed alla autenticità dell’interessamento mostrato nei confronti del fenomeno mafioso.
Ed, invero, la pubblicazione degli articoli in questione sul quotidiano La Sicilia avvenne solo a partire dal momento dell’omicidio del generale Dalla Chiesa (commesso il 3 settembre 1982) e trattavasi di pubblicazione a quel punto inevitabile per qualsiasi organo di informazione, che necessariamente doveva fare i conti con l’evento suddetto, da subito ricollegato ad una matrice mafiosa.
E’ noto che la uccisione del generale Dalla Chiesa fece scoprire il fenomeno mafia a tutti, anche a coloro i quali ritenevano che il detto fenomeno a Catania fino a quel momento non fosse esistito e che la stessa denuncia fatta da Fava nei confronti dei Cavalieri del Lavoro finisse in realtà per compromettere i livelli occupazionali.
IL QUOTIDIANO “LA SICILIA”
In questa situazione non c’è dubbio che l’interessamento del quotidiano La Sicilia al fenomeno mafioso fu necessitato dagli eventi e seguì per così dire una moda (e non a caso le copie del giornale La Sicilia prodotte dalla difesa di Ercolano si riferiscono ad un’epoca successiva al 3.9.1982), mentre l’impegno di Fava su questo versante era del tutto genuino e per così dire di origine controllata, risalendo ad un epoca assolutamente non sospetta, e precisamente ai tempi della esperienza presso il Giornale del Sud iniziata da Fava nel 1979 e conclusasi con il traumatico licenziamento dell’ottobre del 1982.
Ed ancora va notato che, mentre il tono delle pubblicazioni effettuate in ordine al fenomeno mafia sul quotidiano La Sicilia era del tutto sporadico, blando, asettico, di stretta informazione e senza l’ausilio di fotografie e di colori, per cui la refluenza sulla opinione pubblica era sostanzialmente molto limitata, il giornalismo di Fava condotto sulle pagine della rivista “I Siciliani” era assolutamente diverso, per come si deduce anche dalle dichiarazioni rese dal proprietario del giornale La Sicilia, Mario Ciancio, e da un noto giornalista (Tony Zermo): trattavasi infatti di una campagna di stampa aggressiva, sistematicamente ed assiduamente articolata sul tema del fenomeno mafioso, confortata da immagini, titoli e fotografie a colori di grande presa sui lettori e, soprattutto, con un tono di appassionata, forte e veemente denuncia dell’intreccio mafioso-affaristico-politico, che non poteva assolutamente restare ininfluente per un lettore disinteressato e dotato di un minimo di apertura mentale.
Non c’è dubbio poi che, mentre il giornale La Sicilia era un quotidiano di informazione generale e quindi doveva coprire ogni settore del servizio di comunicazione (dalla cronaca politica a quella sportiva, giudiziaria, dello spettacolo, nera, rosa e quant’altro), la rivista “I Siciliani” aveva un carattere per così dire monotematico, e cioè la denuncia del suindicato intreccio.
In questa situazione è ovvio che la pubblicazione dell’articolo sulla mafia in seno al giornale “La Sicilia”, sporadica e con toni blandi, finiva per disperdersi nell’ambito dello stesso giornale ed aveva di conseguenza una minore presa sulla opinione pubblica, a differenza della denuncia pubblicata, in via pressoché esclusiva, sistematica e con toni forti sulla rivista “I Siciliani”, che ben altro effetto produceva sull’opinione pubblica.
Reputa la Corte infine che vi è un altro aspetto che caratterizza inequivocabilmente la denuncia di Fava condotta sulla rivista “I Siciliani” rispetto alla pubblicazione che del fenomeno mafia poteva farsi sul quotidiano “La Sicilia”.
Ed, invero, la pubblicazione siffatta operata nell’ambito del quotidiano La Sicilia era certamente spersonalizzata tra i diversi giornalisti firmatari dei pezzi che trattavano dell’argomento in questione (peraltro blandamente e sporadicamente), il direttore responsabile e l’editore, per cui, agli occhi del lettore eventualmente interessato a reagire mafiosamente, veniva a disperdersi qualsiasi tipo di collegamento in ordine alla riferibilità ed imputabilità della singola pubblicazione e, conseguentemente, diveniva praticamente impossibile la esatta individuazione del soggetto fisico da intimidire ed eventualmente da eliminare.
Nel caso della rivista “I Siciliani” la situazione era affatto diversa, perché Fava riassumeva nella propria persona praticamente tutto, dal proprietario all’editore e dal direttore responsabile al giornalista firmatario del singolo pezzo o dell’articolo di fondo: egli diventava chiaramente ed inequivocabilmente il bersaglio da colpire da parte di chi intendeva reagire alla denuncia condotta sulle pagine della rivista suddetta.
UN GIORNALISMO “DI PROVOCAZIONE”
Il fatto poi evidenziato dalla difesa di Ercolano che illustri storici, come il prof. Giarrizzo dell’Università di Catania, avessero definito “generiche” le denunce di Fava, le quali “si spegnevano appiattite tra le ceneri del giornalismo di provocazione”, non fa venire meno la valenza di quanto suesposto, sia perché l’opinione del prof. Giarrizzo era un giudizio, seppure autorevole, ma pur sempre meramente personale, discutibile e certamente apodittico, che poteva anche non essere condiviso, tenuto conto che non era accompagnato da elementi precisi e specifici a supporto del giudizio espresso (che appare in realtà più una petizione di principio), sia perché soprattutto il giudizio suddetto è stato espresso dall’angolo visuale dello storico di professione, che non è esattamente coincidente con quello del giornalista e quello di un lettore-medio e che, in particolare, è lontano mille miglia dal punto di vista di un lettore-mafioso, per il quale quelle denunce potevano non essere appiattite ed in realtà non lo furono affatto.
Va anche osservato che la causale dell’omicidio di Giuseppe Fava è ancorata a precisi e puntuali riferimenti ad elementi acquisiti agli atti del processo (per come può evincersi chiaramente dalla trattazione del tema che è stata fatta in seno alle sentenze impugnate alle pagine suindicate) e non si tratta, invece, per come è stato sostenuto dalla difesa di Ercolano, di un dato che, in conseguenza dell’effetto perverso provocato dai mass media sulla opinione pubblica, è entrato ormai a fare parte della coscienza comune ovvero è divenuto di dominio pubblico ovvero ancora più riduttivamente è oggetto di una semplice voce corrente nel pubblico.
Va rilevato poi che, sul piano meramente processuale, la detta causale non è stata, per come invece è stato sostenuto in seno all’atto di appello presentato dalla difesa di Benedetto Santapaola, “ricavata soltanto per processi mentali e preconcetti di natura socio-politico” e che il contesto storico di riferimento non è affidato a semplici “giudizi dati dai testimoni ascoltati senza un minimo di riscontro materiale”.
Ed, infatti, vi sono agli atti del processo sul tema del movente degli elementi rappresentativi inequivocabili e pienamente convergenti sul punto rivenienti dalle propalazioni dei collaboranti Avola Maurizio, Grancagnolo Carmelo, Pattarino Francesco e Amato Italia.
Avola ripetutamente e costantemente (al pm il 10 e 16.3.1994, nel dibattimento di primo grado, nel processo Santapaola Benedetto +3 e nel processo Aria Pulita) ha detto che Fava è stato ucciso perché parlava male dei Cavalieri del Lavoro e parlava male di coloro che stavano bene con la famiglia Santapaola (“perché i Cavalieri del Lavoro richiedevano che questo qui parlava male di questa cosa tra costruttori, faceva delle interviste bruttissime su questi costruttori”).
Grancagnolo ha detto al pm il 20.3.1993: “devo dire che nel nostro ambiente già da tempo si parlava del Fava come un uomo che dava fastidio, in quanto molto spesso nei suoi scritti parlava male della mafia”.
Pattarino ha detto al pm il 13.12.1993: “nel nostro ambiente il movente di tale delitto era noto……spesso Nitto Santapaola manifestava dei motivi di risentimento nei confronti del giornalista proprio per gli articoli che lo stesso scriveva contro di lui, contro la mafia catanese e contro gli imprenditori catanesi collusi con il gruppo Santapaola”.
Amato Italia ha detto al pm 9.12.1993: «Nitto si adirava particolarmente quando leggeva gli articoli di Pippo Fava, anzi cercava gli articoli in questione per verificare se il Fava continuava a parlare contro la mafia, contro Santapaola e contro i Cavalieri del Lavoro legato a Nitto».
Non c’è dubbio che, anche a volere considerare come fonte unica quella costituita dalla Amato e dal Pattarino (data la possibilità di contatti reciproci, essendo la Amato madre del Pattarino), sussiste una pluralità di indicazioni assolutamente convergenti ed autonome l’una dall’altra (ad eccezione di quella riveniente dalla fonte Amato-Pattarino), essendo state fatte dai collaboranti suddetti all’inizio delle rispettive collaborazioni in un momento in cui nessun contatto era affatto ipotizzabile tra gli stessi (ad eccezione, ripetesi, della Amato e del figlio Pattarino). A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. Le voci infami e i depistaggi, ma il mandante è Nitto Santapaola. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 26 dicembre 2021.
Nel 1995 Benedetto Santapaola veniva condannato quale mandante del delitto, Aldo Ercolano quale mandante organizzatore ed esecutore materiale del delitto, Marcello D’Agata Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola quali esecutori materiali del reato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Con riferimento alla uccisione di Giuseppe Fava avvenuta a Catania il 5.1.1984 la Corte di Assise di Catania ha affermato, in seno alle due sentenze impugnate emesse rispettivamente il 18.7.1998 ed il 23.7.1998, la penale responsabilità, a titolo di concorso nel reato di omicidio pluriaggravato così come contestato al capo A) del decreto che fissava il giudizio del 6.6.1995, di Benedetto Santapaola quale mandante del delitto, di Aldo Ercolano quale mandante organizzatore ed esecutore materiale del delitto, di D’Agata Marcello Giammuso Francesco e Santapaola Vincenzo quali esecutori materiali del reato, e di tutti i suddetti imputati anche per il concorso nei reati satelliti di detenzione e porto illegale di una pistola calibro 7,65.
Hanno proposto appello i difensori di tutti gli imputati suindicati, assumendo in estrema sintesi che dalle risultanze processuali non emergeva la prova della responsabilità degli stessi nonché la parte civile costituita “I Siciliani di Sebastiano Gulisano & C. s.a.s.”, dolendosi che in seno alla sentenza appellata era stata omessa la liquidazione delle spese giudiziali in favore di detta parte civile.
NITTO SANTAPAOLA E GLI AFFARI CON I CAVALIERI DEL LAVORO
Il movente in seno ad entrambe le sentenze impugnate è stato individuato, a seguito di una analisi completa e pregevole delle risultanze processuali, nella necessità avvertita da Benedetto Santapaola di stroncare la denuncia dell’intreccio mafia politica ed affari che il giornalista Giuseppe Fava faceva all’opinione pubblica dalle pagine della rivista “I Siciliani”, con attacchi continui, diretti e senza veli ai cavalieri del lavoro ed a Benedetto Santapaola, tra i quali era stato stipulato un contratto di protezione con prestazioni sinallagmatiche, denuncia che aveva irritato notevolmente Benedetto Santapaola.
In tema la Corte, al fine di evitare inutili riproduzioni che avrebbero solo l’effetto di appesantire la trattazione, si riporta a tutto quanto sul punto è stato detto nelle due sentenze impugnate, e precisamente in quella emessa il 18.7.1998 da pag. 638 a pag. 687 ed in quella emessa il 23.7.1998 da pag. 21 a pag. 23, che in questa sede deve intendersi integralmente riprodotto e trascritto, in aderenza peraltro ad un principio giurisprudenziale ormai acquisito (v. per tutte Cass. 5.1.2002 n. 176 ric. Beber).
E, infatti, sul punto è stato affermato che la motivazione per relationem è legittima (come nel caso in esame) allorché si faccia riferimento ad un atto legittimo del procedimento, come la sentenza di primo grado, la cui motivazione sul tema del movente dell’omicidio di Giuseppe Fava, elaborata con assoluto rigore logico, dovizia di riferimenti specifici e aderenza massima alle risultanze processuali, si appalesa ineccepibile ed è pienamente condivisa dalla Corte e ritenuta del tutto impermeabile alle censure che, peraltro estremamente generiche, sono state sollevate sul punto in seno ai motivi di appello; non c’è dubbio poi che l’atto di riferimento è conosciuto dalle parti in tutto il suo contenuto, onde diviene facilmente esercitabile la facoltà di valutazione ed eventualmente di gravame e, conseguentemente, di controllo da parte del giudice dell’impugnazione.
LA SCARSA ATTENDIBILITÀ DI MAURIZIO AVOLA
La Corte provvederà ad analizzare solo le poche censure specifiche che in tema sono state svolte in seno ai motivi di appello formulati dai difensori degli ed in sede di discussione.
Va poi aggiunto che la uccisione di Fava realizzò pure qualcosa di gradito negli ambienti di cosa nostra palermitana, per il fatto che Fava nei suoi scritti aveva pure censurato l’arroganza di Luciano Liggio anche nei rapporti personali (per via della relazione che Liggio avrebbe intrattenuto con la fidanzata del sindacalista ucciso Placido Rizzotto), donde la soddisfazione dei palermitani per la eliminazione del giornalista (senza peraltro che essi all’uopo avessero dato preventivamente alcun mandato), di cui è traccia nella dichiarazione di Avola, il quale ha riferito come nell’immediato post factum, allorché il commando omicida era confluito nella casa in cui si trovava Francesco Mangion, dopo un brindisi a base di champagne, quest’ultimo ebbe a dire che con la uccisione del giornalista si erano presi due piccioni con una fava.
Scarsamente attendibile appare invece il riferimento fatto da Avola in occasione della dichiarazione resa al pm il 16.3.1994, sulla base di una notizia rivelatagli da D’Agata, ad un incontro con i palermitani al quale aveva partecipato Salvuccio Marchese quale rappresentante provinciale della famiglia catanese, al cui esito i palermitani, tramite appunto il Marchese, chiesero a Santapaola di eliminare Fava, che aveva scritto della relazione di Liggio con la fidanzata del sindacalista Rizzotto.
E, invero, sulla base delle risultanze processuali acquisite agli atti, appare dubitabile che Salvuccio Marchese abbia potuto partecipare all’incontro suddetto come rappresentante provinciale della famiglia, carica che egli in quel momento non aveva, essendo la stessa invece ricoperta da Giuseppe Ferrera.
Orbene le dichiarazioni sul punto rese dall’Avola, in effetti, sono inattendibili, non solo perché contraddittorie, ma anche perché smentite da quelle di altri collaboranti.
In un primo tempo, infatti, nell’interrogatorio dell’11/3/94, il predetto collaborante aveva sostenuto che la carica di rappresentante provinciale prima che scoppiasse la guerra con i Ferrera ( fine 88, inizio 89) era ricoperta da Pippo Ferrera, il quale era subentrato a Salvuccio Marchese; che, successivamente, per un dissidio tra il Ferrera ed il Malpassotu, tale carica era stata affidata direttamente da Santapaola Benedetto a suo fratello Salvatore.
Nell’interrogatorio del 17/3/94 Avola aveva sostenuto che nel 1984 rappresentante provinciale era Salvuccio Marchese; nel corso dell’interrogatorio del 15/4/94 Avola aveva invece sostenuto che nel 1984 la carica di rappresentante provinciale era di Giuseppe Ferrera e che a questi era subentrato Salvuccio Marchese, che aveva mantenuto la carica per circa due anni e l’aveva lasciata quando si era diffusa la notizia della collaborazione di Calderone, cioè nel 1987; che a quel punto le funzioni di rappresentante provinciale erano state di fatto svolte, per circa due tre mesi, prima dal D’Agata e da Galea e dopo da Pippo Mangion.
Palese è, quindi, la contraddizione tra le due dichiarazioni del collaborante, il quale, sentito successivamente nel procedimento Santapaola +3, all’udienza del 17/2/95 a specifica domanda su chi avesse ricoperto la carica di rappresentante provinciale, in un primo momento ha dichiarato che “la provincia era dei Ferrera” e che dopo Ferrera Giuseppe la carica era stata ricoperta da Salvatore Santapaola ed Eugenio Galea e solo in un secondo momento ha sostenuto che a Ferrera Giuseppe era subentrato Salvuccio Marchese e dopo di questi provvisoriamente il D’Agata.
Nel corso dell’udienza del 13-5-96, nel procedimento Orsa 1, l’Avola ha ulteriormente modificato le proprie dichiarazioni, sostenendo che il Ferrera era stato rappresentante molto prima del 1984 e che nel 1983-84 il rappresentante provinciale era stato Salvuccio Marchese.
A parte le altalenanti contraddizioni di tali affermazioni, che le rendono del tutto inattendibili, deve osservarsi che gli altri collaboranti hanno reso sul punto dichiarazioni nettamente contrastanti con quelle dell’Avola.
Innanzi tutto Calderone Antonino, che meglio di ogni altro conosceva le vicende del Marchese Salvuccio, suo parente, ha riferito che questi, pur essendo uomo d’onore, non aveva mai rivestito alcuna carica nell’ambito della famiglia e che rappresentante provinciale negli anni settanta era stato suo fratello Giuseppe e che alla morte di questi, nel 78, la carica era stata data a Salvatore Ferrera.
Anche Pulvirenti Giuseppe, all’udienza del 5-12-96, ha dichiarato che il Marchese non aveva mai rivestito cariche, ma che era solo uomo d’onore e che Ferrera Giuseppe era l’interprovinciale.
Ulteriore conferma del fatto che il Marchese non avesse mai rivestito cariche nell’ambito della famiglia proviene da Natale Di Raimondo.
Questi ha, infatti, costantemente affermato che il Salvuccio Marchese non aveva mai avuto cariche all’interno di Cosa Nostra e che la carica di rappresentante provinciale era stata di Ferrera Giuseppe, che l’aveva mantenuta sino alla data del suo arresto nel 1989 e che prima la medesima carica era stata rivestita dal di lui padre Ferrera Salvatore.
Il favore fatto con la uccisione di Fava alla famiglia palermitana, riferito da Avola, non appare neppure essere stato riscontrato dagli stessi collaboranti di area palermitana, che nessuna indicazione hanno fatto in ordine ad una richiesta espressa di uccisione del Fava siccome proveniente dagli ambienti palermitani.
Deve rilevarsi comunque che la inattendibilità del riferimento di Avola al presunto favore fatto ai palermitani non incide sugli altri segmenti della dichiarazione di Avola relativi al reale movente della uccisione di Fava (e tanto più alla fase esecutiva del delitto), in ossequio al principio della valutazione frazionata della dichiarazione dei collaboranti quando vengano in rilievo dei segmenti autonomi sul piano fattuale e logico. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. Omicidio ordinato dalla latitanza, il messaggero è Aldo Ercolano. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 31 dicembre 2021.
Il ruolo fondamentale svolto nella vicenda è quello di Aldo Ercolano, quello cioè di avere assicurato il tramite necessario ed indispensabile tra Benedetto Santapaola e la sua organizzazione, per potere far arrivare il proprio messaggio di morte ai suoi uomini.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Innanzi tutto è stato accertato che Benedetto Santapaola, seppure fosse latitante, continuava ad essere al centro della vita associativa ed organizzativa della famiglia catanese di cosa nostra, ed in particolare per quanto riguardava per così dire gli atti di straordinaria amministrazione, per come è stato costantemente verificato in numerosi episodi del processo: d’altra parte egli trascorreva la latitanza in località facilmente raggiungibili da Catania, per cui agevolmente e celermente gli affiliati maggiormente vicini al loro capo supremo potevano raccordarsi con lo stesso, allorché trattavasi di assumere decisioni di un certo rilievo per la vita associativa.
Si pensi alla visita che Avola fece a Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto il 27/2/1993 al fine di informarlo degli sviluppi connessi alla attuazione del piano di pulizia dopo la uccisione di Pinuccio Di Leo ovvero alle visite fattegli a Mascalucia a casa di Grasso “delle Bombole” per discutere in ordine alle vicende Standa e Sigros.
Nel caso in esame si trattava di assumere una iniziativa eclatante per stroncare quella che era divenuta una denuncia insopportabile, anche perché cointeressati alla repressione di detta denuncia erano niente meno che i cavalieri del lavoro, con i quali la famiglia catanese di cosa nostra aveva stipulato il contratto di protezione, di cui è cenno nella parte relativa alla trattazione del novente dell’omicidio di Giuseppe Fava.
Non c’è dubbio quindi che occorreva il raccordo con il capo ed anzi, dalle dichiarazioni di Pattarino e della Amato, si deduce che fu proprio Santapaola che nella fattispecie esigeva il contatto con la sua organizzazione, avendo necessità assoluta di fare pervenire a quest’ultima l’imput omicidiario, che nel suo animo si era sempre più radicato nei confronti del Fava alla lettura della rivista “I Siciliani”, alla quale Santapaola sempre attendeva (e che peraltro affondava le sue origini remote nella vicenda del Giornale del Sud), dato che il giornalista sistematicamente e vibratamente non faceva altro che denunciare all’opinione pubblica l’intreccio mafia politica affari.
Sintomatici sono all’uopo alcuni dati emergenti dal processo, e cioè, da un canto, l’abitudine acquisita da Benedetto Santapaola (riferita da Pattarino) per cui egli segnava le pagine della rivista “I Siciliani” contenenti le censure più gravi ed i passi più salienti da mostrare agli affiliati che andavano a trovarlo, al fine di dimostrare documentalmente a costoro il fatto che gli articoli di Fava erano divenuti tanto devastanti per la famiglia da imporre una repressione immediata, irreversibile e radicale e, dall’altro canto, al fine di supportare documentalmente la espressione spesso ripetuta a coloro i quali andavano a trovarlo a Siracusa (“ma non vedete cosa scrive Fava?”), la quale al contempo suonava da accorato grido di allarme, da ordine categorico ed irrevocabile di reprimere la denuncia portata avanti da Fava ed infine da grave e violento rimprovero per la organizzazione che remorava ingiustificatamente nella attuazione materiale della repressione.
Al fine di potere evidenziare il sommo interesse che nella specie aveva Santapaola a stroncare quella denuncia che emergeva dagli articoli di Fava pubblicati sulla stampa, va rilevato che Santapaola era soggetto di per se stesso estremamente attento a ciò che sulla stampa veniva pubblicato sul conto suo e della sua organizzazione: all’uopo va ricordato l’intervento censorio che era stato praticato sul Giornale del Sud attraverso l’inserimento di un legale quale “garante” della tutela del buon nome dei cavalieri del lavoro e di Benedetto Santapaola ed anche in tempi ordinari l’imputato mostrava di essere molto attento in ordine a quanto diceva la stampa sul suo conto (per come si deduce dalle risultanze della trascrizione della intercettazione ambientale fatta a Barcellona, dalla quale emerge che l’interlocutore di Santapaola diceva a quest’ultimo: «Oggi sono tre giorni che non si parla di lei».
IL RUOLO DI ALDO ERCOLANO
In questa situazione preme alla Corte evidenziare quello che appare essere il ruolo fondamentale svolto nella vicenda da Aldo Ercolano, quello cioè di avere assicurato il tramite necessario ed indispensabile tra Benedetto Santapaola e la sua organizzazione, al fine di consentire a Santapaola di potere veicolare il proprio messaggio di morte alla consorteria.
In altri termini va notato che, avendo Santapaola deciso di uccidere Fava e non potendo egli direttamente comunicare ciò alla organizzazione, trovandosi in quel momento latitante per sottrarsi ai provvedimenti restrittivi emessi a seguito della uccisione del generale Dalla Chiesa, vi era la necessità assoluta che vi fosse qualcuno che facesse da portavoce ufficiale della volontà del capo supremo nei confronti della organizzazione e costui fu dal Santapaola scelto nella persona del nipote Aldo Ercolano.
Trattasi di scelta non affatto casuale, ma che trova il suo fondamento in motivazioni sottili e sofisticate.
Occorreva innanzi tutto che il soggetto che facesse da portavoce ufficiale riscuotesse la massima ed incondizionata fiducia da parte di Santapaola.
Ed, infatti, costui acquisiva, così facendo, la conoscenza del luogo in cui Santapaola trascorreva la sua latitanza, con tutti i gravissimi rischi conseguenti facilmente ipotizzabili, e tale conoscenza era certo prerogativa di pochissimi eletti, se è vero che proprio nel processo de quo è risultato che Santo Battaglia, dopo avere “spostato lo zio” a Barcellona in occasione della collaborazione di Samperi, ritenne di non fare presente tale circostanza neppure a Natale Di Raimondo, che aveva ceduto al Battaglia financo la gestione della carta degli stipendi ed era peraltro personaggio di grande spessore all’interno della famiglia e capo del gruppo di Monte Po; ed inoltre il portavoce suindicato veniva implicitamente abilitato a compartecipare all’attività organizzativa dell’omicidio in questione ed un ruolo siffatto (data la importanza strategica dell’omicidio programmato anche in considerazione della caratura della vittima) non poteva non essere attribuito ad un personaggio nel quale Santapaola riponeva la massima fiducia.
Parimenti era assolutamente necessario che il portavoce ufficiale designato potesse validamente presentarsi agli affiliati in tale veste ed esprimere alla organizzazione niente di meno che la volontà del capo supremo, rendendosi al contempo credibile all’esterno, tanto più ove si consideri che si trattava di farsi portavoce di un mandato omicidiario che investiva un personaggio di spicco nella vita pubblica catanese, in deroga peraltro ad una precisa strategia che Santapaola aveva con puntiglio e coerenza massima cercato di perseguire, e cioè quella di evitare di colpire personaggi pubblici e delle istituzioni (cui nel tempo fu derogato solo nel caso della uccisione dell’ispettore Lizzio).
Al fine di soddisfare tali variegate esigenze, la scelta di Santapaola cadde su Aldo Ercolano, che quindi divenne nella vicenda in esame il portavoce ufficiale di Santapaola presso la consorteria.
Osserva la Corte che alla base della scelta suddetta vi fu la necessità, avvertita da Santapaola, di avvalersi dell’opera di un parente stretto, il quale appunto sulla base del vincolo di sangue (il quale, nell’ambito delle associazioni mafiose in genere e della famiglia catanese di cosa nostra in particolare, è elemento della massima importanza) assicurasse la massima fiducia (soprattutto in funzione della esigenza di massima sicurezza avvertita dallo stesso Santapaola) e che al contempo si potesse presentare all’organizzazione per rappresentare validamente la volontà omicidiaria di Benedetto Santapaola e fosse dalla stessa creduto come legittimo portavoce del capo supremo.
In questa situazione, a fronte dei vantaggi rivenienti dal vincolo parentale, scarso rilievo aveva agli occhi di Santapaola il fatto che Ercolano fosse all’epoca un giovane di ventiquattro anni (peraltro già uomo di onore, sufficientemente accreditato nell’ambito della consorteria e destinato a fare una rapida e folgorante carriera, che l’avrebbe portato a rivestire la carica di vice rappresentante della famiglia), tenuto conto che la scelta si giustificava esclusivamente in funzione del vincolo di sangue ed avuto riguardo al fatto che in concreto trattavasi di incombenza cui non era affatto necessaria la prerogativa della esperienza, poiché Ercolano doveva solo riferire alla consorteria la volontà omicidiaria di Santapaola e cooptare nella organizzazione qualcuno degli elementi di maggior spicco della associazione, cui in sostanza delegare i relativi profili. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. I primi appostamenti a Palazzolo Acreide, il paese di Pippo. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it l'1 gennaio 2022.
In sostanza il compito affidato ad Aldo Ercolano fu quello di rendere palese al clan quella che era stata la decisione del capo supremo e di far sì che si passasse celermente agli aspetti organizzativi ed operativi dell’omicidio.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
In sostanza il compito affidato ad Aldo Ercolano fu quello di rendere palese alla consorteria quella che era stata la decisione del capo supremo e di far sì che si passasse celermente agli aspetti organizzativi ed operativi dell’omicidio.
E un compito siffatto Ercolano espletò subito già nell’immediato, cooptando nella esecuzione del delitto Cortese Antonino, che venne direttamente presentato a Santapaola in occasione dell’incontro avvenuto a Siracusa nella casa della Amato: per come si è detto sopra, la autoaccusa di Cortese in ordine alla partecipazione all’omicidio di Fava (confidata a Pattarino e da questi rivelata) appare scarsamente attendibile e quindi non è noto agli atti del processo quale sia stata in concreto l’attività spiegata dal Cortese, ma è verosimile che egli abbia svolto degli appostamenti in quel di Palazzolo Acreide, dove si era in un primo tempo cercato di eseguire l’omicidio di Fava, che era nativo di quelle parti (per come si deduce proprio dalla dichiarazione della Amato) e dove avrebbe potuto essere sfruttato il rapporto di frequentazione che vi era tra Santapaola Piera e Filloramo Francesco (rispettivamente sorella di Benedetto Santapaola e cognato dello stesso) con Nigro Maria, che lavorava quale domestica in casa di Fava Elena (figlia di Giuseppe Fava) ed era originaria anch’essa di Palazzolo Acreide.
Venuta meno e comunque sfumata la opzione Cortese per motivi che non sono noti agli atti, Aldo Ercolano pensò bene di riferire ad Avola Maurizio che «lo zio si lamentava che si doveva portare a compimento l’omicidio», con ciò implicitamente officiando lo stesso Avola in ordine al compito di organizzare l’omicidio e sollecitando lo stesso ad eseguire il delitto, per come nel processo è stato riferito chiaramente dallo stesso Avola, il quale ha dichiarato in maniera del tutto inequivoca che Aldo Ercolano si fece portatore presso di lui appunto di una impellente volontà di Benedetto Santapaola di procedere alla uccisione di Fava, anche perché nel frattempo a seguito del venir meno della opzione Cortese si era perso del tempo prezioso e la uccisione di Fava era divenuta assolutamente improcrastinabile, ragion per cui Aldo Ercolano ritenne appunto di cooptare Avola, il quale, a scapito della giovane età, era già divenuto, sia pure da poco tempo, uomo d’onore e mostrava già all’epoca doti certamente superiori alla media nella organizzazione ed esecuzione di piani omicidiari.
DICHIARAZIONI ATTENDIBILI
Nessun dubbio può nutrirsi con riferimento alla attendibilità intrinseca della dichiarazione della Amato e del Pattarino, che grande rilievo hanno in ordine alla posizione di Santapaola ed Ercolano.
Ed, invero, innanzi tutto deve rilevarsi, in ordine alla autonomia di dette dichiarazioni, che trattasi di contributo narrativo assolutamente originale, dato che nessuno prima aveva mai riferito dei contatti intercorsi tra Santapaola ed Ercolano aventi per oggetto l’omicidio di Fava.
Nessuna conoscenza potevano avere la Amato e Pattarino della dichiarazione resa il 20.3.1993 da Grancagnolo Carmelo, il quale peraltro nulla aveva detto di specifico sul tema del movente (a parte una generica indicazione, per cui Fava in ambito associativo era ritenuto un uomo che dava fastidio in quanto nei suoi scritti spesso parlava male della mafia, ed un altro riferimento ancora più evanescente ad un input dato dai palermitani) e niente affatto sul tema dei rapporti intercorsi tra Santapaola ed Ercolano (perché il suo racconto prende le mosse dal pomeriggio del 5.1.1984 nella campagna di Alfio Longo).
Preme alla Corte poi evidenziare che le dichiarazioni suddette sono state rese dalla Amato e dal Pattarino in un momento in cui Avola Maurizio (che è l’altro collaborante le cui dichiarazioni vengono utilizzate con riferimento alla posizione degli imputati suddetti) non aveva neanche iniziato a collaborare ed era detenuto in carcere a seguito dell’arresto effettuato il 28.2.1993.
Nessun contatto quindi era ipotizzabile neanche in astratto tra Avola, la Amato ed il Pattarino.
Peraltro va notato che il contenuto della propalazione di Avola, anche limitatamente alla posizione di Santapaola ed Ercolano, è diverso da quello relativo alle dichiarazioni della Amato e di Pattarino in coerenza assoluta con i rispettivi segmenti del fatto riferiti.
Ed, invero, mentre la Amato e Pattarino hanno riferito in ordine ai comportamenti di Santapaola ed Ercolano tenuti nell’arco temporale compreso tra settembre 1982 e Aprile 1983 in coincidenza della permanenza di Santapaola a Siracusa in casa della Amato e del Pattarino, il racconto di Avola prende le mosse da un’epoca successiva, e cioè da quando (a seguito del venir meno della opzione Cortese) egli venne cooptato da Aldo Ercolano nella organizzazione del delitto.
I due racconti però (quello della Amato e di Pattarino prima e quello di Avola dopo), pur riferendosi ad archi temporali diversi in quanto succedutisi l’uno all’altro, con riferimento alla posizione di Santapaola quale mandante dell’omicidio e di Ercolano quale portavoce ufficiale della volontà omicidiaria di Santapaola ed intermediario tra quest’ultimo e gli affiliati in libertà, si coniugano perfettamente, saldandosi il secondo al primo, attingendo ad un unico comune denominatore, costituito dalla decisione omicidiaria ricollegabile alla volontà di Santapaola rimasta assolutamente ferma nel tempo (da dicembre del 1982 al 5.1.1984), della quale (permanendo, si badi bene, sempre immutato lo stato di latitanza del Santapaola con tutti gli effetti conseguenti in ordine alla necessità oggettiva di un raccordo tra il capo supremo ed i vertici associativi in libertà) Aldo Ercolano con pari fermezza e uguale costanza si fece portavoce ufficiale ed intermediario in seno alla consorteria, riferendo sempre inequivocabilmente la decisione omicidiaria di Benedetto Santapaola e la motivazione della stessa, officiando all’uopo prima Nino Cortese e poi Maurizio Avola e mantenendo sempre i contatti con Santapaola, che andava sempre a trovare nei luoghi in cui questi trascorreva la latitanza, informandolo che si stava “curando l’omicidio Fava”, per come riferito da Avola.
E trattasi di riferimento che, in ordine alla posizione di Ercolano, appare rilevantissimo, perché sta a significare che questi mantenne sempre il suo ruolo di tramite tra il latitante Santapaola ed i vertici associativi delegati di organizzare l’omicidio di Fava, tanto da consentirgli di poter riferire a Santapaola che nella consorteria si stava «curando l’omicidio Fava». A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO FAVA. I pentiti che dicono e non dicono, che ammettono e ritrattano. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 03 gennaio 2022.
L’incontro coi parenti potrebbe essere avvenuto con il primo numero della rivista “I Siciliani” sul tavolo in bella mostra per i presenti, il 23 o il 24 dicembre 1982 in occasione degli auguri di rito per la festività natalizia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
La difesa di Aldo Ercolano ha fatto constare che il primo numero della rivista “I Siciliani” (quello relativo ai cavalieri della apocalisse mafiosa) è andato in edicola il 22/12/1982, mentre Pattarino ha riferito che l’incontro tra Santapaola Ercolano e Cortese sarebbe avvenuto prima di Natale 1982, per cui non ci sarebbe lo spazio temporale sufficiente tra i due eventi.
Ora, a parte la considerazione di una eventuale, e peraltro giustificata, inesattezza del ricordo del Pattarino in ordine alla collocazione temporale dell’incontro suddetto se prima o dopo di Natale a distanza di ben oltre dieci anni, devesi notare che comunque, anche collocando l’incontro de quo prima di Natale, lo stesso ben potrebbe essere avvenuto perfettamente, con il primo numero della rivista “I Siciliani” sul tavolo in bella mostra per i presenti, il 23 ovvero il 24 dicembre 1982 in occasione degli auguri di rito per la imminente festività natalizia.
Pattarino Silvana ha confermato pienamente la circostanza della permanenza di Santapaola nella casa della madre Amato Italia sita in via Monteforte di Siracusa.
Reputa invece la Corte che, in ordine alla riconducibilità del delitto a Benedetto Santapaola ed al suo gruppo e sul tema relativo al movente omicidiario, non possa essere utilizzata la dichiarazione resa da Pulvirenti Giuseppe all’udienza del 4/12/1996, allorché il collaborante ha riferito di avere appreso dal genero Piero Puglisi, due giorni dopo l’omicidio di Fava nel 1981, 1982, 1983 (!), che lo stesso era stato deliberato nell’ambito della famiglia Santapaola, pur non sapendo chi fossero stati gli esecutori materiali dell’omicidio e che la causale dell’omicidio consisteva nel fatto che il giornalista aveva scritto degli articoli contro la mafia ed i cavalieri del lavoro.
Ed, invero, devesi rilevare che Pulvirenti Giuseppe, interrogato all’inizio della sua collaborazione dal pm in data 19 e 22.9.1994, ripetutamente invitato dal pm a riferire quanto fosse stato a sua conoscenza in ordine all’omicidio di Fava, ha risposto sempre chiaramente di non sapere assolutamente nulla in proposito.
Così infatti il Pulvirenti ha risposto al pm che lo interrogava espressamente ed insistentemente sull’omicidio di Fava: «di questo non so niente….non mi è stato detto mai niente……non ne abbiamo parlato mai, se no lo dicevo….millanterie (con riferimento alla contestazione del pm, che gli faceva constare che altro collaborante aveva riferito che il Pulvirenti fosse a conoscenza del delitto) perché non me l’hanno fatto capire mai a me mai….penso che è venuto dal lato di Santapaola questo delitto, però è una mia opinione, un mio inquadramento…..secondo il mio intuito….basato su quello che si sente dire in giro…..Piero (Puglisi) non mi diceva niente, quello non mi diceva niente…..completamente, una cosa per dire che non la so, non la posso imbrogliare…..sul fatto di Pippo Fava non mi hanno confidato niente loro….che io ho parlato con Grancagnolo non mi ricordo va di questo fatto, perché di questo fatto non ho avuto mai capienza di sapere come è stato completamente….. Grancagnolo non mi ha detto niente mai…mai al mondo niente come è stato...allora lo dicevo… non la posso dire una cosa che io non conosco».
Ed al PM, che lo invitava a dire le cose che erano a sua conoscenza, Pulvirenti rispose: «dottore le dico proprio la verità, di fava non mi hanno fatto capire mai niente”. Indi al pm, che gli contestava espressamente se fosse stato a sua conoscenza il fatto che il giorno prima dell’omicidio egli avesse detto a Grancagnolo di mettersi in contatto con qualcuno ed il giorno dopo la uccisione di Fava avesse commentato con Grancagnolo l’accaduto, così testualmente ha risposto il collaborante in seno alla originaria dichiarazione resa al PM all’inizio della collaborazione: “ma non può essere mai, mai, mai dottore, gliela faccio io la contestazione, mai».
E’ proprio il caso di dire: in claris non fit interpretatio.
LE DICHIARAZIONI DI PULVIRENTI
In questa situazione non c’è dubbio alcuno che all’inizio della sua collaborazione, e quindi in uno stato di assoluta genuinità e spontaneità, Pulvirenti Giuseppe ha detto e ripetuto in tutti i modi, rispondendo ad un pressante interrogatorio del pm condotto espressamente sul tema dell’omicidio di Fava, che su questo versante egli non sapeva proprio nulla.
Ciò premesso reputa la Corte che quanto poi successivamente dal Pulvirenti medesimo riferito all’udienza del 4.12.1996 sulla riconducibilità dell’omicidio a Santapaola Benedetto e sul movente del delitto sia assolutamente inattendibile, non tanto per il riferimento erroneo all’epoca in cui ebbe ad apprendere i fatti dal genero Puglisi (poiché la indicazione degli anni 1981, 1982 e 1983 è del tutto inconsistente, essendo il delitto stato consumato il 5/1/1984), quanto piuttosto per una carenza evidente e gravissima del requisito della spontaneità, genuinità ed autonomia della propalazione, non potendosi negare che, se effettivamente quanto detto il 4/12/1996 avesse fatto parte del patrimonio di conoscenze originario del Pulvirenti, il collaborante tali circostanze avrebbe dovuto riferire il 22/9/1994 quando, in uno stato di assoluta verginità e di mancanza totale di condizionamenti di sorta, venne letteralmente incalzato dal PM sul tema dell’omicidio Fava.
Sorge quindi il sospetto inquietante che Pulvirenti il 4/12/1996 abbia inteso adeguarsi al dictum di altri collaboranti dei quali nel frattempo era venuto a conoscenza.
E non convince affatto la giustificazione che all’udienza del 5.12.1996 Pulvirenti ha dato, in sede di contestazione mossagli dalla difesa di Santapaola Vincenzo, del suo ricordo sopravvenuto.
Il collaborante ha detto all’uopo che egli aveva la speranza che Piero Puglisi ed i suoi figli si fossero decisi a collaborare anch’essi con la giustizia e che fossero stati a questo punto loro a rivelare i fatti in questione ed, alla ovvia contestazione fattagli dalla difesa del motivo per cui il Pulvirenti, pur avendo riferito di circa sessanta omicidi, proprio in ordine all’omicidio di Fava aveva sperato che ne avessero parlato il genero Puglisi ed i figli ove mai costoro avessero deciso anch’essi a collaborare, il collaborante così ha risposto: «sì, il riferimento….qualche 60 omicidi già avevo detto, non è che….però nella maggior parte della nostra parte. Di quella parte, di Ercolano avevo detto un omicidio….però la verità insomma è questa vah, perché io speravo, che per dire, Piero veniva con me».
Trattasi, a parere della Corte, di giustificazione assolutamente insostenibile.
Ed, invero, non c’è dubbio che, se così fosse stato, l’atteggiamento che il Pulvirenti avrebbe consapevolmente assunto il 22/9/1994 all’inizio della propria collaborazione, non rivelando agli inquirenti quanto era a sua conoscenza in ordine alla uccisione di Fava, è già di per se stesso estremamente commendevole dal punto di vista della deontologia per così dire del collaborante, che tutto deve rivelare agli inquirenti senza alcuna esclusione e senza aluna riserva mentale in ossequio ad un preciso obbligo riveniente dalla stipula del contratto di protezione con lo Stato; non ha senso alcuno la reticenza avuta all’epoca dal Pulvirenti sull’omicidio Fava, determinata dalla speranza che di ciò avesse parlato il genero allorché questi si fosse in futuro deciso a collaborare, senza che di tale evenienza peraltro vi fosse alcun sintomo esteriore al di là di una segreta ed intima convinzione del Pulvirenti; questi era tenuto a riferire tutto quanto in sua conoscenza in ordine all’omicidio Fava, perché il pentimento del genero era un evento futuro ed incerto e parimenti non era certo che il genero, pentendosi, di ciò avesse parlato.
Ma c’è di più.
Anche a volere seguire la logica giustificativa del Pulvirenti, non può fare a meno la Corte di rilevare che la reticenza del collaborante, che è già grave e commendevole il 22/9/1994 quando egli venne inutilmente incalzato dal PM, diventa assolutamente imperdonabile in seguito, nella misura in cui il Pulvirenti, se effettivamente fosse stato depositario del patrimonio conoscitivo poi esposto il 4/12/1996, una volta preso atto che la propria speranza segreta relativa al pentimento del genero era definitivamente tramontata, avrebbe dovuto senza remora alcuna chiedere di potere conferire con il PM e rivelargli quanto egli sapeva sull’omicidio Fava, memore peraltro del notevole interesse investigativo con il quale lo stesso PM lo aveva interrogato il 22.9.1994 e necessariamente consapevole perciò che il patrimonio di conoscenze di cui egli era portatore era prezioso per gli inquirenti e riguardava poi un fatto delittuoso gravissimo e rilevante.
Nulla invece ha fatto Pulvirenti di tutto ciò ed ha aspettato il 4/12/1996 per parlare per la prima volta dell’omicidio Fava, dopo che cinque giorni prima Avola aveva riferito in un pubblico dibattimento analiticamente sul punto.
Sorge così spontaneo il sospetto che quella fornita sia stata una giustificazione di facciata e che invece il Pulvirenti abbia inteso il 4/12/1996 adeguarsi al dictum di altri collaboranti che avevano riferito sul punto, come per esempio Avola che era stato esaminato a lungo alla precedente udienza del 28/11/1996.
Tutto ciò premesso, ritiene la Corte che la propalazione di Pulvirenti del 4/12/1996 relativa all’omicidio Fava sia gravemente carente sotto il profilo della immediatezza, autonomia, genuinità e spontaneità, per cui non può essere utilizzato quanto dal collaborante riferito in ordine alla causale dell’omicidio ed alla riferibilità dello stesso alla consorteria mafiosa facente capo a Benedetto Santapaola.
Del tutto inutilizzabili ai fini della incolpazione di Santapaola, quale mandante dell’omicidio di Fava, sono le dichiarazioni che sul punto hanno reso Pino Orazio e Malvagna Filippo, i quali hanno riferito in maniera del tutto generica (ed il secondo peraltro sulla base di una propria personale deduzione) in ordine alla riconducibilità dell’omicidio di Fava alla associazione mafiosa facente capo a Benedetto Santapaola.
Tirando le fila del discorso, reputa la Corte che dalle dichiarazioni di Avola, Amato e Pattarino (della cui attendibilità intrinseca sul punto è stato detto) emerge una indicazione assolutamente convergente sul ruolo spiegato nella vicenda in esame da Benedetto Santapaola, che diede l’input originario alla uccisione di Fava, mantenuto sempre fermo fino alla esecuzione dell’omicidio avvenuta il 5/1/1984, e sul ruolo fondamentale spiegato da Aldo Ercolano di intermediario tra il capo supremo latitante Benedetto Santapaola e gli affiliati in libertà, nei cui confronti egli si fece portavoce ufficiale della volontà omicidiaria di Santapaola: sul punto le dichiarazioni dei collaboranti suddetti si riscontrano reciprocamente in maniera assolutamente individualizzante, non essendoci dubbio alcuno che le indicazioni accusatorie in questione riguardano gli imputati suddetti e l’omicidio di Giuseppe Fava e ciò costituisce prova idonea, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., in ordine alla responsabilità degli imputati con riferimento al reato di concorso nell’omicidio pluriaggravato di Giuseppe Fava. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. Dalla mafia catanese ai Corleonesi, un omicidio che trovava tutti d’accordo. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 28 dicembre 2021.
La riconducibilità dell’omicidio di Giuseppe Fava alla famiglia catanese di Cosa nostra ed, in particolare al suo capo supremo Benedetto Santapaola, ha trovato una importante conferma a posteriori. Inoltre l’interesse di Fava nei confronti di Luciano Liggio ebbe l’effetto di agevolare la esecuzione del delitto, per potere agire in tutta tranquillità
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Il contesto storico di riferimento del movente, così come è stato ricostruito puntualmente e scrupolosamente dalla Corte di Assise di Catania nelle sentenze di primo grado (a cui si fa integrale riferimento), è stato fondato esclusivamente sulla base di quanto è emerso nel processo dalle dichiarazioni rese dai numerosissimi testimoni escussi e dalla cospicua documentazione acquisita agli atti e funge da riscontro certo, inequivocabile ed indiscutibile rispetto alla indicazione dei collaboranti.
E la riprova di ciò è costituita dal fatto che nessuna censura specifica è stata sollevata con riferimento al contesto storico di riferimento del movente ad eccezione della vicenda relativa alla acquisizione della disponibilità del Lido dei Ciclopi da parte di Placido Aiello (genero del cavaliere del lavoro Gaetano Graci), acquisizione che, secondo la difesa di Santapaola Benedetto, non sarebbe avvenuta da potere (o comunque per intermediazione) di alcuni esponenti della famiglia catanese di cosa nostra, ma bensì sotto il controllo dell’Autorità Giudiziaria.
In tema va notato che Aiello Placido, imputato del reato di cui all’art. 416 bis cp per appartenenza alla consorteria de qua, ha definito il giudizio mediante patteggiamento della pena e che l’intervento dell’Autorità Giudiziaria (di cui ha riferito lo stesso collaborante Castelli Salvatore) fu relativo esclusivamente ai rapporti che Placido Aiello ebbe con tale Panebianco Dario, cui l’immobile de quo era stato da Aiello promesso in vendita sulla base di un contratto preliminare, che formalmente riguardava solo il Panebianco e non anche eventuali soci occulti dello stesso affiliati alla famiglia, contratto del quale Aiello richiese la risoluzione per inadempimento del Panebianco (di poi peraltro dichiarato fallito), donde la necessità della nomina di un custode giudiziario in pendenza del giudizio di risoluzione, essendo controverso il possesso dell’immobile ed essendo stata ravvisata la opportunità di provvedere alla gestione temporanea dello stesso, che era sede di uno stabilimento balneare in piena attività.
Conclusivamente va peraltro osservato che la riconducibilità dell’omicidio di Giuseppe Fava alla famiglia catanese di cosa nostra ed, in particolare al suo capo supremo Benedetto Santapaola, ha trovato una importante conferma a posteriori.
LE DICHIARAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA
Ed, invero, è risultato dalla dichiarazione resa il 2.12.1996 da Licciardello Giuseppe (il c.d. “pasticcino” pentitosi l’indomani dell’omicidio di Pinuccio Di Leo, della cui credibilità non può dubitarsi minimamente, per come esposto in occasione della trattazione del suddetto omicidio) che la pistola calibro 9 munita di silenziatore adoperata da Barcella Salvatore per uccidere Di Leo il 26.2.1993 avrebbe dovuto essere adoperata dallo stesso Barcella in una precedente occasione.
Ha precisato Licciardello, infatti, che nella circostanza del nono o decimo anniversario della morte di Giuseppe Fava (ma deve trattarsi evidentemente del nono, posto che Licciardello si è pentito il 27.2.1993, per cui l’anniversario in questione è quello caduto il 5.1.1993), in cui era prevista una pubblica manifestazione davanti al Teatro Stabile nel punto in cui venne ucciso Giuseppe Fava con l’intervento del di lui figlio Claudio (il quale, seguendo la traccia segnata dal padre, aveva continuato, nell’ambito della attività giornalistica e politica espletata, a svolgere una incessante opera di forte e veemente denuncia all’opinione pubblica dell’intreccio tra mafia politica ed affari), egli era stato da Barcella cooptato assieme a Pavone Emanuele per recarsi appunto davanti al Teatro Stabile al fine di uccidere Claudio Fava; avvenne che i tre a bordo di due macchine (la Fiat Uno di Pavone e quella di Licciardello) armati con la suddetta pistola calibro 9 munita di silenziatore andarono sul posto per una sorta di sopralluogo, ma nell’occasione vi era un notevole spiegamento di forze dell’ordine e Barcella (che era un ex poliziotto) riconobbe un dirigente della Polizia di Stato presente a tutela dell’ordine pubblico, per cui il commando, tenuto conto anche che Claudio Fava aveva tardato ad intervenire, preferì desistere dall’impresa criminale progettata, spostandosi peraltro verso l’Hotel Baia Verde, dove Claudio Fava era atteso dopo la manifestazione in onore del padre, ma anche lì vi era grande spiegamento di forze dell’ordine ed i tre si ritirarono in buon ordine.
Il racconto di Licciardello è stato pienamente riscontrato da quello di Avola, il quale ha dichiarato all’udienza del 28.11.1996 che nell’anno 1992 aveva «attenzionato il figlio del giornalista, che per ordine di Aldo Ercolano si doveva assassinare….perché questo qui cominciava a rompere, qua, là, faceva dibattiti contro la mafia»; Avola, che di ciò aveva parlato con D’Agata ed all’uopo era stato incaricato assieme a Santo Battaglia, girò l’incarico però a Barcella, che voleva fare qualcosa di eclatante per diventare uomo di onore ed al quale Avola suggerì di agire per uccidere Claudio Fava il giorno dell’anniversario della morte del padre; Avola poi venne a sapere da Barcella che questi era andato con Pavone e Licciardello il giorno dell’anniversario in via dello Stadio, ma che non aveva potuto agire perché Claudio Fava quella sera non si sarebbe recato sul posto della commemorazione; Avola però non era rimasto convinto di ciò, avendo constatato dal giornale La Sicilia che invece Claudio Fava era in testa al corteo, per cui riparlò del fatto con Barcella, che gli disse di non avere potuto agire perché quella sera vi era uno spiegamento notevole di forze dell’ordine ed, a sua giustificazione, aggiunse che aveva seguito Claudio Fava poi fino alla Baia Verde ovvero al ristorante Selene, ma anche in tali posti vi era “un sacco di poliziotti” e ciò aveva impedito di fare l’omicidio.
Ed, anche D’Aquino, esaminato all’udienza del 6.12.1996, ha confermato di avere saputo da Barcella che era in programma un attentato nei confronti di Claudio Fava; nell’occasione il Barcella si era mostrato deciso a compiere l’attentato nonostante D’Aquino l’avesse sconsigliato per via della presenza delle forze dell’ordine che sarebbero intervenute sul posto; il collaborante (ex poliziotto) poi seppe che l’attentato non era stato posto in essere.
UN GIORNALISTA “ATTENZIONATO” DALLA MAFIA
Non c’è dubbio alcuno, per come è stato evidenziato dal PG in discussione, che l’episodio narrato, in maniera assolutamente convergente, dal Licciardello, D’Aquino ed Avola testimonia inequivocabilmente la reiterata attenzione che la famiglia catanese di cosa nostra aveva per la famiglia Fava, mal sopportando la denuncia assidua che prima il padre e poi il figlio avevano portato avanti con ostinazione contro la mafia: è evidente che si è trattato di un tentativo di attentato legato all’omicidio di Giuseppe Fava da un nesso inscindibile in ordine alla causale e da una assoluta identità del disegno criminoso.
E’ stato infine dedotto in seno all’atto di appello spiegato dal difensore di Benedetto Santapaola che nulla è emerso nel processo in ordine alla causale aggiuntiva e concorrente relativa al favore fatto ai palermitani e nulla hanno mai saputo in proposito i collaboranti di area palermitana esaminati.
Ora di tale presunta causale aveva riferito, per come sopra detto, Avola in seno alla dichiarazione resa al PM il 16.3.1994 e si è già detto che la detta indicazione appare scarsamente attendibile, sia per la inesattezza relativa alla riferita carica di rappresentante provinciale della famiglia che sarebbe stata ricoperta da Salvuccio Marchese sia per la mancanza assoluta di conferme da parte dei collaboranti di area palermitana.
In realtà era avvenuto (per come si deduce dalle dichiarazioni rese da Antonino Calderone nel processo Santapaola +3 ed in Orsa 1) che dopo la strage di viale Lazio, data la molteplicità dei controlli cui era sottoposto Luciano Liggio a Palermo, Gaetano Badalamenti aveva chiesto ai fratelli Antonino e Giuseppe Calderone, il quale ultimo all’epoca era il rappresentante provinciale della famiglia catanese di cosa nostra, di sistemare Liggio a Catania, il che avvenne puntualmente; Liggio, durante il periodo in cui fu latitante a Catania nei primi mesi del 1970 (allorchè venne presentato a Benedetto Santapaola, il quale “si era legato maledettamente ai Corleonesi”), aveva maturato un notevole astio per Fava ed aveva pure chiesto ai fratelli Calderone di ucciderlo, il che non era avvenuto per la opposizione di Giuseppe Calderone, il quale aveva risposto che “queste cose a Catania non si facevano, perché Fava faceva il giornalista e noi i mafiosi”; l’astio suddetto era fondato sulla feroce critica che Fava aveva ripetutamente espresso nei confronti di Luciano Liggio e delle guerre di mafia delle quali Liggio si era reso protagonista, evidenziata già in tutta la saggistica che è stata versata in atti ed in particolare ribadita in seno al libro intitolato “Processo alla Sicilia” edito nel 1967 in cui si dava, tra l’altro, specifico risalto alla riconducibilità al Liggio della uccisione del sindacalista Placido Rizzotto (la cui donna Leoluchina Sorisi era diventata poi l’amante di Liggio, il quale tra l’altro era stato arrestato in casa della donna, che da parte sua aveva giurato, al momento in cui era stato ucciso il Rizzotto, di mangiare il cuore dell’assassino del proprio fidanzato) e da ultimo manifestata da Fava in seno alla intervista concessa ad Enzo Biagi ed andata in onda alla TV il 29.12.1993, nella quale Fava aveva riferito della vicenda sentimentale suindicata a riprova della arroganza manifestata da Luciano Liggio anche nella gestione delle vicende strettamente personali.
Dalla documentazione versata in atti si deduce pure che Liggio nel 1981, pur essendo detenuto, aveva presentato una querela nei confronti di Fava per un servizio televisivo andato in onda su RAI 3 sulla vicenda sentimentale predetta, per cui Fava era stato processato a Roma.
Orbene reputa la Corte che la suindicata animosità manifestata da Fava nei confronti di Luciano Liggio, pur non avendo costituito un fattore determinante e scatenante per la uccisione di Fava, nel senso che nessun input era provenuto in tal senso espressamente da Palermo, ebbe l’effetto comunque di agevolare la esecuzione del delitto, nel senso che venne garantita agli esponenti della famiglia catanese di cosa nostra la possibilità di operare nella vicenda relativa alla uccisione di Fava in tutta tranquillità, senza che (pur essendo stato commesso un omicidio eccellente, per cui la famiglia palermitana avrebbe potuto fare valere in astratto il diritto ad interloquire, sotto il profilo della necessità di un preventivo raccordo delle due famiglie, quella palermitana e quella catanese) si venisse minimamente a determinare reazione alcuna negli ambienti palermitani, peraltro estremamente sensibili, appunto perché era stata eliminata una persona che aveva espresso sistematicamente feroci critiche nei confronti della mafia e di Luciano Liggio in particolare, non solo con il riferimento alla sua vicenda personale con Leoluchina Sorisi.
In tal senso pertanto va interpretata la c.d. causale aggiuntiva della uccisione di Fava, connessa al favore fatto nell’occasione ai palermitani, di cui ha riferito in particolare Avola con il riferimento alla espressione profferita nell’immediato post factum da Francesco Mangion, nel senso che con la uccisione di Giuseppe Fava si erano presi due piccioni con un fava, e della quale vi è cenno pure nella dichiarazione resa il 20.3.1993 da Grancagnolo, il quale, sia pure tra qualche dubbio, ha detto che l’input per eliminare Fava sarebbe provenuto dai palermitani.
Ed, inoltre, dalle dichiarazioni rese da Brusca Giovanni e Francesco Marino Mannoia si desume che in epoca successiva all’omicidio di Fava si era verificato a Palermo un silenzio assoluto, il che stava a significare che il detto omicidio era avvenuto con il consenso implicito di cosa nostra palermitana, e che a Palermo nessuno degli affiliati catanesi aveva chiesto mai informazione sulla matrice dell’assassinio, per cui era evidente che esso era riconducibile alla famiglia catanese di cosa nostra, per come peraltro a Giovanni Brusca ebbe a confidare espressamente il di lui padre Bernardo.
Deve ritenersi quindi che la uccisione di Fava aveva (sia pure a posteriori) soddisfatto pure un interesse dei palermitani, se è vero che la denigrazione fatta da Fava nei confronti di Luciano Liggio non aveva creato la necessità di alcun chiarimento tra palermitani e catanesi, seppure in astratto ce ne sarebbe stata la necessità.
Brusca ha evidenziato pure la differente situazione venutasi a creare dopo due omicidi eccellenti commessi a Catania, quali la uccisione di Minniti Carmela (moglie di Benedetto Santapaola) e quella dell’Avvocato Serafino Famà, allorché si era verificato che gli affiliati catanesi, non appena si recavano a Palermo, chiedevano informazioni sulla matrice degli omicidi suddetti, per cui chiaramente se ne escludeva la riconducibilità alla famiglia catanese di cosa nostra (per come poi è stato accertato nelle competenti sedi giudiziarie).
Va infine fatta menzione delle dichiarazioni che sul punto hanno reso Pino Orazio e Malvagna Filippo, i quali hanno riferito in maniera del tutto generica (ed il secondo peraltro sulla base di una propria personale deduzione) in ordine alla riconducibilità dell’omicidio di Fava alla associazione mafiosa facente capo a Benedetto Santapaola.
Pino Orazio ha pure aggiunto che lo stesso era stato determinato dalla reazione alla provocazione giornalistica di Fava.
Di giudizi negativi espressi nei confronti di Fava in ambienti palermitani hanno riferito Angelo Siino e Mutolo Gaspare. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO. Le denunce di Pippo Fava e le lamentele di Nitto Santapaola. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 29 dicembre 2021.
La Corte di Assise di Catania ha affermato la penale responsabilità di Santapaola Benedetto per il concorso, quale mandante, nel reato omicidiario pluriaggravato e di Aldo Ercolano quale mandante, organizzatore ed esecutore materiale del delitto, oltre che per il concorso di entrambi gli imputati nei reati satelliti di detenzione e porto illegale di arma
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Con riferimento alla uccisione di Giuseppe Fava, avvenuta in Catania il 5/1/1984, la Corte di Assise di Catania ha affermato la penale responsabilità di Santapaola Benedetto per il concorso, quale mandante, nel reato omicidiario pluriaggravato e di Aldo Ercolano quale mandante, organizzatore ed esecutore materiale del delitto, oltre che per il concorso di entrambi gli imputati nei reati satelliti di detenzione e porto illegale di arma.
Hanno proposto ritualmente e tempestivamente appello i difensori degli imputati suddetti.
Il difensore di Santapaola Benedetto ha dedotto che di tutta la causale del delitto, ricavata solo da processi mentali e preconcetti di natura socio-politica, non esisteva un solo riscontro probatorio certo; che le dichiarazioni rese da Avola e Grancagnolo in ordine alla fase esecutiva del delitto erano inattendibili e tra loro in contrasto; che nessuno dei collaboranti palermitani esaminati ha detto di conoscere il movente concorrente relativo al favore fatto ai palermitani.
Il difensore di Aldo Ercolano, per quanto in questo momento interessa (e quindi trascurando per ora le censure sollevate con riferimento alla fase esecutiva del delitto), ha rilevato che la indicazione sul movente del delitto sarebbe smentita dalla constatazione che altri giornali a tiratura nazionale e locale avevano, prima della rivista “I Siciliani”, pubblicato degli articoli di denuncia dell’intreccio mafia politica affari; che le dichiarazioni rese da Avola, Grancagnolo, Amato e Pattarino erano inattendibili; che la causale prossima, rappresentata dalla intervista concessa da Fava ad Enzo Biagi e trasmessa dalla TV il 29.12.1993, era generica ed ininfluente.
Chiedevano i difensori appellanti che gli imputati fossero assolti dai reati loro rispettivamente ascritti per non avere commesso il fatto.
Il PG concludeva per la conferma della sentenza appellata ed i difensori degli imputati per l’accoglimento dei rispettivi gravami proposti.
La Corte di Assise di Catania ha ritenuto, in estrema sintesi, che dalle risultanze processuali emergesse la prova di un preventivo specifico mandato del Santapaola in ordine alla uccisione di Fava in coerenza al movente suindicato e, con riferimento alla posizione di Aldo Ercolano, la prova di un ruolo composito e variegato di mandante organizzatore ed esecutore materiale.
Reputa la Corte che la pronuncia emessa sul punto dal primo giudice sia esente da censura alcuna con riferimento alla posizione di Benedetto Santapaola, il cui ruolo di mandante dell’omicidio è emerso chiaramente dalle risultanze processuali sulla base delle indicazioni accusatorie assolutamente convergenti fatte da Avola Maurizio, Amato Italia e Pattarino Francesco e dalla considerazione che il movente dell’omicidio riconduce univocamente e chiaramente a Benedetto Santapaola.
IL RUOLO DI ERCOLANO
Ed, invece, in ordine alla posizione di Aldo Ercolano si ritiene che, pur dovendosi affermare che dalle risultanze processuali non emerge la prova piena relativa al ruolo di esecutore materiale del delitto (per come si dirà in seguito), siano acquisiti agli atti del processo elementi sufficienti per potere riconoscere che Ercolano ebbe un ruolo, fondamentale e causalmente efficiente, di intermediazione tra il mandante Benedetto Santapaola e gli esecutori materiali, per cui in definitiva va confermata l’affermazione di responsabilità degli imputati, anche se per Ercolano con un percorso argomentativo completamente diverso.
In ordine alla doglianza mossa in seno agli atti di appello suddetti ed in sede di discussione con riferimento al movente del delitto ed alla c.d. causale aggiuntiva relativa al favore fatto ai palermitani si fa rinvio a quanto è stato sopra detto nella parte in cui è stato trattato il tema del movente dell’omicidio.
Per quanto riguarda, poi, il contrasto (evidenziato in seno all’appello proposto nell’interesse di Santapaola) tra la dichiarazione di Avola e quella di Grancagnolo in ordine alla fase esecutiva del delitto, si fa rinvio a quanto sarà detto in occasione della trattazione della posizione relativa agli esecutori materiali del delitto.
Ci si limita a rilevare in questa sede che in ogni caso le divergenze suindicate nessuna refluenza possono avere in ordine alla posizione di Benedetto Santapaola, chiamato a rispondere dell’omicidio di Fava quale mandante dello stesso, e neppure con riferimento al ruolo espletato da Aldo Ercolano per effetto della intermediazione svolta tra il mandante Ercolano e gli esecutori materiali, di cui si dirà appresso.
E si aggiunge che nessuna interferenza ha il segmento relativo alla fase esecutiva dell’omicidio con quanto i due collaboranti hanno riferito sul tema del movente del delitto, sicché va fatta applicazione del principio della valutazione frazionata delle dichiarazioni dei collaboranti, per cui l’eventuale giudizio di inattendibilità intrinseca in ordine al racconto della fase esecutiva nessuna incidenza può avere sul dictum dei collaboranti medesimi in ordine al movente del delitto.
Osserva, poi, la Corte che dalle risultanze processuali acquisite agli atti emerge chiaramente la prova piena che la uccisione di Giuseppe Fava, avvenuta il 5/1/1984, sia specificamente riconducibile ad un input preciso ed inequivocabile emesso in tal senso da Benedetto Santapaola al fine di stroncare definitivamente la denuncia forte che il giornalista lanciava all’opinione pubblica dell’intreccio mafia affari politica dalle pagine della rivista “I Siciliani”, per come sopra detto.
Ed, invero, Avola Maurizio all’udienza del 28.11.1996, in sede di contro esame della difesa del Santapaola, ha detto chiaramente che, pur non avendo egli ricevuto direttamente dal Santapaola il mandato ad uccidere Fava, cionondimeno Aldo Ercolano ebbe a riferirgli che «lo zio si lamentava che si doveva portare a compimento l’omicidio» di Giuseppe Fava, con ciò confermando la indicazione fatta sin dalla originaria dichiarazione resa al pm il 16/3/1994, con la quale egli così disse: «Ogni qualvolta Aldo Ercolano sollecitava il D’Agata ad organizzare la eliminazione del giornalista riferiva i commenti negativi che il Santapaola faceva sul conto di Fava».
La suddetta indicazione di Avola è, senz’altro, attendibile intrinsecamente siccome assolutamente immediata (perché effettuata proprio all’inizio della collaborazione), autonoma (poiché in pm è stata ribadito al dibattimento), esente da contraddizioni palesi ed anzi pienamente coerente con tutte le risultanze processuali inerenti alla tematica del movente di cui si è detto sopra. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. La mafia catanese sempre più “arrabbiata” per gli articoli su “I Siciliani”. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 30 dicembre 2021.
Alla Amato, Santapaola confidava tante cose, tanto da costringerla ad andare a letto tardi la notte; la donna provvedeva ad acquistare i giornali a Santapaola, il quale “voleva specificatamente acquistato il giornale “I Siciliani” ed era “molto arrabbiato” con Fava
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
La chiamata in correità da Avola è stata pienamente confermata da Amato Italia, la quale (per come è stato pienamente confermato da Antonino Calderone) fu a lungo legata sentimentalmente con Francesco Mangion (personaggio rilevantissimo della famiglia catanese di cosa nostra), con il quale avrebbe procreato il figlio Pattarino Francesco, mai legittimato dal Mangion; sulla base di quanto riferito dalla Amato in seno alla dichiarazione resa al pm il 9/12/1993 ed in dibattimento all’udienza del 30/1/1997 si deduce che la donna (proprio su richiesta del Mangion) ebbe ad ospitare Santapaola nella propria casa di Siracusa sita in via Monteforte 66, mentre questi era latitante dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa per circa sette mesi da settembre del 1982 ad aprile del 1983 ed in tale periodo Santapaola riceveva la visita di numerosi esponenti della famiglia catanese di cosa nostra (Giuseppe ed Aldo Ercolano, Nello Nardo, Vincenzo Santapaola, Marcello D’Agata, Tuccio Salvatore ed altri ancora); la Amato era amica della famiglia di Benedetto Santapaola ed in particolare con la moglie di quest’ultimo Carmela Minniti, con la quale era in visita e, durante il periodo in cui Santapaola venne ospitato a Siracusa, “aumentò il rapporto fiduciario che Nitto aveva” con la Amato, alla quale Santapaola confidava tante cose, tanto da costringerla ad andare a letto tardi la notte; la donna provvedeva ad acquistare i giornali a Santapaola, il quale “voleva specificatamente acquistato il giornale “I Siciliani” ed era “molto arrabbiato” con Fava per quello che questi scriveva su detta rivista contro la mafia, contro Santapaola e contro i cavalieri del lavoro legati a Santapaola, il quale di tutto ciò si era molto lamentato con le persone che venivano a trovarlo ed, in particolare, rivolgendosi al nipote Aldo Ercolano, gli diceva: «questo qua ci sta rompendo, questo si sta comportando male….ma voi non li leggete i giornali di quello che c’è scritto»; un articolo in particolare aveva determinato in Santapaola una reazione violenta e lo aveva fatto esplodere (esattamente quello sui cavalieri del lavoro, definiti come i cavalieri “dell’apocalisse”, uscito il 22 dicembre 1982); in epoca successiva a queste lamentele avvenne che proprio tra la fine del 1982 e l’inizio del 1983 (in coincidenza con le feste natalizie) venne a trovare Santapaola il nipote Aldo Ercolano, che era in compagnia di Antonino Cortese (mentre i due giovani che li accompagnavano non salirono in casa, ma suonarono il citofono per dire che non avevano trovato il parcheggio) ed in tale occasione i due parlarono di Fava con Benedetto Santapaola e la Amato fu molto attratta dalla discussione, poiché spesso Santapaola le aveva parlato male del Fava: in tale contesto, avvenuto pure in presenza di Pattarino Francesco, figlio della Amato, Santapaola si manifestò siccome “seccatissimo” ed Aldo Ercolano disse a Benedetto Santapaola che gli avrebbe fatto un regalo, eliminandogli il giornalista Pippo Fava che stava diventando eccessivamente pericoloso per le sue prese di posizione pubbliche nei confronti della mafia, dello stesso Santapaola e dei cavalieri del lavoro, aggiungendo che Nino Cortese gli avrebbe fatto questo piacere, nel senso che si sarebbe dato carico di provvedere alla eliminazione di Giuseppe Fava (“zio non ti preoccupare che questa cortesia te la fa Nino; ta fa Ninuzzo”); Ercolano diceva al Santapaola pure che Fava era di Palazzolo Acreide e che sarebbe stato opportuno fare degli appostamenti nella casa ove Fava si recava a Palazzolo Acreide.
Amato Italia ha aggiunto che una volta, dopo circa venti giorni dall’incontro con Ercolano, il Santapaola ebbe a dirle: «lo sai che il giornalista è paesano tuo?», con ciò alludendo al fatto che la Amato e Fava erano originari della stessa provincia di Siracusa e che era intenzione del Santapaola uccidere Fava a Palazzolo Acreide per fare credere che l’omicidio avese avuto una matrice siracusana, ragion per cui vennero fatti degli appostamenti in detta località.
Altra visita Santapaola ricevette nella casa della Amato due mesi prima di andare via nell’aprile del 1983 da parte di Aldo Ercolano, Cortese, Nardo ed Enzo Santapaola.
La Amato ha poi riferito che, dopo l’omicidio del Fava, nella primavera del 1984 ebbe a recarsi una volta presso l’ufficio di Ercolano Aldo, sito al Corso Sicilia di Catania, per incontrare Francesco Mangion ed in quella occasione, in presenza di quest’ultimo, essa ebbe ad accennare ad Ercolano della morte di Fava nel senso che questi aveva fatto un brutta fine (“ammazzanu macari a questo?); Ercolano con aria soddisfatta ebbe a rispondere che «Pippo Fava si era meritata quella fine per tutto quello che aveva detto contro di loro….chi sbaglia paga, si meritava così perché ha parlato troppo», al che la Amato ebbe a soggiungere: «allora loro l’hanno fatto», senza che Ercolano avesse a sua volta detto nulla in risposta.
Con riferimento alla posizione di Antonio Cortese, la Amato in sede di dichiarazione resa al pm il 9/12/1993 aveva indicato quest’ultimo come uno degli autori dell’omicidio del Fava, ma in dibattimento ha precisato che in realtà trattavasi di una sua deduzione fondata sulla considerazione che in sua presenza nella casa di Siracusa Cortese era stato indicato da Ercolano come colui che avrebbe fatto al Santapaola la cortesia di uccidere Fava e che a ciò aveva fatto poi seguito la conferma e la assicurazione ricevuta da Ercolano nella primavera del 1984 negli uffici del Corso Sicilia; in sostanza la Amato ha detto di avere “abbinato” i due segmenti e di avere dedotto che Cortese avesse ucciso il Fava.
LE DICHIARAZIONI DI PATTARINO
Pattarino Francesco il 13/12/1993 ha così espressamente riferito al pm che lo interrogava: «posso affermare che nel nostro ambiente il movente di tale delitto era noto. Aggiungo che di Fava si era pure parlato a casa mia a Siracusa, qualche tempo prima dell’omicidio, ed esattamente quando a casa mia si nascondeva Nitto Santapaola, tra il settembre 1982 e l’aprile 1983. Spesso Nitto Santapaola manifestava dei motivi di risentimento nei confronti del giornalista proprio per gli articoli che lo stesso scriveva contro di lui, contro la mafia catanese e contro gli imprenditori catanesi collusi con il gruppo Santapaola. Ricordo che zio Nitto leggendo i giornali controllava sempre le firme degli articoli contro la mafia per verificare se essi fossero stati scritti da Giuseppe Fava. In particolare Santapaola non tollerava gli articoli di stampa che denunciavano pubblicamente le collusioni tra i cavalieri del lavoro di Catania e la sua organizzazione criminale. Santapaola in realtà aveva cominciato a meditare la uccisione di Giuseppe Fava sin dalla pubblicazione dei primi numeri del giornale “I Siciliani”. Tanto è vero che, assieme ad Aldo Ercolano, Santapaola aveva cominciato a progettare un piano concreto di esecuzione del delitto. Lo studio e la realizzazione del piano suddetto dovevano essere curati da Aldo Ercolano, il quale aveva il compito di osservare gli spostamenti del giornalista, i suoi orari ed in particolare i luoghi ove Fava normalmente si recava. Fu in tal modo che Aldo Ercolano apprese che Pippo Fava era originario di Palazzolo Acreide.
A queste discussioni ho assistito io personalmente perché esse sono avvenute a casa mia quando, come ho già detto, vi era nascosto Nitto Santapaola. In quel periodo Aldo Ercolano veniva a casa mia frequentemente e spesso parlava con Nitto Santapaola dei fatti che riguardavano l’organizzazione. Ricordo che di Fava i due parlavano spesso perché i suoi articoli mandavano zio Nitto su tutte le furie. Santapaola arrivava al punto di mettere un segnale nei fogli di giornale che riportavano gli articoli di Fava, per poterli poi mostrare ad Ercolano quando questi veniva a trovarlo. Per tale ragione ho detto pocanzi che nel nostro ambiente era noto il movente dell’omicidio di Giuseppe Fava.
Santapola non aveva nessuna difficoltà a parlare di questi fatti in mia presenza, sia perché si fidava di me e di mia madre, sia perché la “famiglia” aveva per me dei progetti, sia perché egli mi ha cresciuto sin da bambino. Per tutto il periodo in cui Santapaola rimase nascosto a casa mia a Siracusa egli dormì nella mia stanza a assieme a me, che all’epoca avevo circa sedici anni».
Il Pattarino, esaminato all’udienza dibattimentale del 28/1/1997, ha confermato sostanzialmente lo stesso racconto.
Va poi accennato ad un segmento della propalazione di Pattarino, nel quale il collaborante ha riferito de relato, a differenza di quanto egli ha dichiarato con riferimento a quanto invece era avvenuto in casa della madre.
Il Pattarino ha detto che, mentre era detenuto a Brucoli, fece il suo ingresso in detta Casa Circondariale nel 1989 o 1990 Cortese Antonino ed egli aveva saputo da Aldo Ercolano che era persona avvicinata alla famiglia; nel corso di detta codetenzione il Cortese gli aveva confidato di essere riuscito a farsi scagionare dalla accusa mossagli da Pellegriti di avere ucciso il Fava, per il fatto che lo stesso Pellegriti lo aveva accusato di avere commesso un duplice omicidio ad Adrano, che sarebbe stato consumato nello stesso contesto temporale alla distanza di venti minuti.
In dibattimento all’udienza del 28/1/1997 il Pattarino ha poi chiarito che nella occasione suddetta il Cortese non aveva ammesso esplicitamente di essere stato l’autore dell’omicidio di Fava (per come aveva dichiarato in seno alla dichiarazione resa al pm il 13/12/1993), quanto piuttosto “gli aveva fatto capire” di essere stato l’autore dell’omicidio di Fava («il modo di come mi spiegò e con quale fierezza mi spiegava questo fatto era come se fosse stato lui l’autore di questo omicidio») e “si vantava del fatto” di essere scampato all’ergastolo per l’omicidio Fava, grazie alla rabbia di Pellegriti che lo aveva accusato di due fatti criminosi commessi nello stesso tempo.
CONFIDENZE IN CARCERE
In sostanza, per come chiarito nel corso del dibattimento (e comunque già con la dichiarazione resa al pm il 10/5/1994), la originaria versione della confidenza ricevuta dal Cortese era stata fortemente ridimensionata, avendo il Pattarino detto: «non posso sapere se Cortese si sia vantato con me di un fatto che non aveva commesso: posso dire che egli sottolineava in maniera particolare la circostanza che era stato scagionato per l’omicidio Fava solo per le ragioni temporali di cui ho detto…».
Sulla base di tutto ciò può ritenersi che il Cortese abbia effettivamente inteso rappresentare al Pattarino solo il grave rischio corso di subire una condanna all’ergastolo sulla base di una chiamata in reità fattagli da Pellegriti con riferimento a due episodi omicidiari commessi nello stesso contesto temporale in due luoghi diversi, rischio coniugato con il vanto di essere scampato alla duplice chiamata del Pellegriti, ex capo di un clan avverso sul territorio di Adrano.
Pattarino ha confermato anche in dibattimento che Cortese gli aveva detto che Aldo Ercolano, in una riunione, gli aveva chiesto la cortesia relativa alla uccisione di Fava in cambio della autorizzazione datagli di potere fare la guerra sul territorio di Adrano contro il clan di Pellegriti, ma poi ha soggiunto: “però in verità non posso dire se poi in effetti l’ha commissionato lui, l’ha commesso lui l’omicidio o è stata una vanteria”.
In definitiva reputa la Corte che l’autoaccusa del Cortese in relazione all’omicidio Fava, riferita da Pattarino, appare scarsamente attendibile, perché trattasi di indicazione già di per se stessa equivoca (in cui sono frammiste una rappresentazione di dati oggettivi, una espressione di dati valutativi ed una deduzione personale), incostante nel tempo, assolutamente priva di particolari ricostruttivi del fatto e peraltro isolata nel processo.
Ed, invero, a parte la considerazione che la suindicata autoaccusa del Cortese si pone in contrasto con la dichiarazione di Avola relativa alla fase esecutiva del delitto, devesi rilevare che anche Grazioso Giuseppe ha detto, in ordine alla incriminazione di Cortese (arrestato e poi prosciolto), che all’interno della organizzazione si commentava il fatto nel senso che trattavasi di persona innocente.
Va comunque osservato che nessuna refluenza può avere il giudizio siffatto di inattendibilità in ordine alla riferita autoaccusa di Cortese con riferimento alla valutazione della attendibilità della restante parte della dichiarazione del Pattarino, contrariamente a quanto è stato sostenuto dalla difesa di Ercolano.
Ed, invero, non c’è dubbio alcuno che trattasi di caso scolastico in cui viene in rilievo il principio della valutazione frazionata delle dichiarazioni dei collaboranti.
Il giudizio di inattendibilità investe un segmento della dichiarazione di Pattarino (la confidenza di Cortese) che è autonomo fattualmente e logicamente rispetto all’altro relativo all’incontro tra Santapaola, Ercolano e Cortese in casa della Amato a Siracusa, poiché non c’è dubbio che, anche a volere ritenere che (a seguito della cortesia promessa da Ercolano e Cortese a Santapaola) il Cortese sia stato incaricato di eseguire l’omicidio di Fava (magari a Palazzolo Acreide), nessuna certezza può comunque inferirsi in ordine alla avvenuta esecuzione dell’omicidio da parte dello stesso Cortese.
E poi devesi rilevare che Pattarino si è limitato a riferire de relato circostanze apprese da Cortese Antonino (il quale, peraltro, al pari del padre, si è rifiutato di sottoporsi ad esame nella qualità di imputato in procedimento connesso) ed è fin troppo evidente che, anche sotto questo profilo, la inattendibilità di quanto confidato dalla fonte primaria nessun rilievo può avere in ordine alla valutazione sulla attendibilità delle circostanze, peraltro autonome, riferite dal collaborante per scienza diretta siccome cadute sotto la sua diretta osservazione.
La indicazione accusatoria riveniente dalla propalazione di Amato Italia e di Pattarino Francesco a carico di Benedetto Santapaola e di Aldo Ercolano è, a parere della Corte, rilevantissima. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. Catania, giornalisti che scrivono e giornalisti che tacciono. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 02 gennaio 2022.
Vi era il quotidiano “La Sicilia” che si limitava ad un’opera di mera informazione, assolutamente inidonea a svolgere un’azione di denuncia all’opinione pubblica. E vi erano anche personaggi autorevoli delle istituzioni pubbliche che nessun problema avevano a farsi fotografare in cerimonie ufficiali assieme a Benedetto Santapaola
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Tra l’altro tali rassicurazioni servivano a tranquillizzare Santapaola, che da parte sua continuava a leggere sulla rivista “I Siciliani” tutti gli articoli che nel tempo vennero, con sempre maggiore schiettezza, veemenza ed assiduità, pubblicati da Fava per denunciare all’opinione pubblica il vergognoso intreccio che regnava a Catania in quell’epoca tra mafia politica ed affari, di cui non si erano ancora accorti (rectius: voluti accorgere) né la stampa né molti autorevoli personaggi delle istituzioni pubbliche né, forse per un effetto meramente indotto, la maggior parte della collettività catanese.
Ed, all’uopo, vanno ricordati i numeri della rivista, versati in atti, con i quali vennero evidenziati l’assassinio del generale Dalla Chiesa, ricollegato subito tra gli altri anche a Benedetto Santapaola; quei numeri che rivelarono la guerra cruenta combattuta a quell’epoca tra le varie cosche mafiose che si contendevano il predominio su Catania ed il ruolo svolto in quest’ambito da Benedetto Santapaola con il prezzo di un centinaio di uomini uccisi mediamente per ogni anno; quei numeri con i quali, espressis verbis, vennero rappresentati, nella loro realtà triste ed al contempo ignobile, il c.d. “caso Catania” relativo ad una ispezione svolta dal Csm sull’attività della locale Procura della Repubblica, in particolare per il fatto che ai cavalieri del lavoro venivano rilasciate delle certificazioni che consentivano loro di partecipare alle gare di appalto, seppure in alcuni rapporti di polizia fossero emersi degli indizi di reato a loro carico (caso che coinvolse anche alcuni esponenti di spicco della magistratura catanese); la vicenda relativa ai contributi per miliardi assegnati dall’ispettorato provinciale dell’Agricoltura, con il beneplacito dell’assessore regionale competente Aleppo ai cavalieri del lavoro (a seguito della quale il detto assessore fu costretto a dimettersi ed i contributi non vennero erogati); l’inchiesta sul sistema bancario siciliano, che chiamava in causa i cavalieri Graci e Costanzo, proprietari di istituti di credito in rapida espansione grazie al rapporto privilegiato con l’Assessore Regionale alle Finanze; l’inchiesta sull’appalto relativo al palazzo dei congressi di Palermo aggiudicato al cavaliere Costanzo, che disvelava il sistema di spartizione degli appalti in Sicilia governato dalla mafia, oltre a tutti gli altri articoli con i quali per esempio si denunciava la sistematica aggiudicazione da parte dei cavalieri del lavoro degli appalti di opere pubbliche per importi miliardari, che i mass media additavano invece come strumento fondamentale ed ineludibile per il mantenimento dei livelli occupazionali in favore dei cittadini catanesi in particolare.
A fronte di un quadro tanto devastante nella sua realtà, vi era il quotidiano “La Sicilia” che si limitava ad un’opera di mera informazione tanto asettica e formalmente ineccepibile, quanto assolutamente inidonea nella sostanza a svolgere un’azione di denuncia all’opinione pubblica (che necessitava indubbiamente di toni forti, vibranti, assidui, veementi e sistematici, tutti assenti in seno alla informazione fornita sul punto dal quotidiano “La Sicilia”, per come sopra detto), e vi erano contestualmente personaggi autorevoli delle istituzioni pubbliche che nessun problema avevano a farsi fotografare in cerimonie ufficiali assieme a Benedetto Santapaola, mentre il Csm, per come sopra detto, era costretto a fare una ispezione negli uffici della locale Procura della Repubblica (in quel momento retta dal Procuratore Aggiunto in mancanza del Procuratore Capo) per accertamenti in ordine alla corretta gestione di alcuni procedimenti che interessavano i cavalieri del lavoro.
Vennero fatti anche dei tentativi per fare recedere Fava dalla azione di denuncia suindicata: Graci offrì la somma di L. 250.000.000 per l’acquisto della testata relativa alla rivista “I Siciliani” e propose a Fava di riprendere la direzione del Giornale del Sud, mentre l’onorevole Andò fece presente a Fava la possibilità di rivestire un ruolo di rilievo nell’ambito della televisione privata di proprietà del cavaliere del lavoro Costanzo.
Tutto fu inutile ed ogni profferta venne sdegnosamente rifiutata da Fava, pur avendo egli avvertito chiaramente un clima fortemente ostile nei suoi confronti, che gli procurò una sensazione di paura, di angoscia e di grande preoccupazione confidata ai propri familiari.
In questa situazione, perdurando da un lato ostinatamente ed incessantemente da parte di Fava l’azione di denuncia dell’intreccio mafia politica ed affari e risultando del tutto impotente dall’altro lato qualsiasi tentativo rivolto a fare recedere Fava medesimo da detta azione, indubbiamente la rabbia e la insofferenza che Benedetto Santapaola aveva manifestato già quando si trovava in casa della Amato a Siracusa a Natale 1982 (allorché andò in edicola il primo numero della rivista “I Siciliani”, e cioè quello riguardante i c.d. cavalieri dell’apocalisse), in maniera tanto ferma, decisa e radicale da fargli maturare la decisione di uccidere Giuseppe Fava (decisione tosto rappresentata ad Aldo Ercolano, che della stessa si fece portavoce ed intermediario in seno alla consorteria e per la cui attuazione concreta venne in quella prima fase officiato Nino Cortese), con il passare del tempo si accrebbero vieppiù, tanto da rendere ormai assolutamente improcrastinabile la uccisione di Fava ed al contempo assolutamente furibondo Benedetto Santapaola per il ritardo con il quale si evolvevano gli sviluppi organizzativi dell’omicidio, per come testualmente rappresentato ad Avola dal portavoce ufficiale di Benedetto Santapaola, e cioè da Aldo Ercolano, il quale stava sempre “curando l’omicidio”.
Reputa piuttosto la Corte che, seppure i racconti della Amato e del Pattarino per certi versi siano tra loro autonomi l’uno dall’altro (per il mancato richiamo della Amato alla confidenza fatta dal Cortese al Pattarino e per la presenza del Mangion alla visita di Ercolano e Cortese riferita da Pattarino e negata dalla Amato oltre che per alcuni particolari relativi al prelevamento del Santapaola ad Agnone Bagni), non può non riconoscersi che, dati i rapporti che intercorrevano tra la Amato ed il Pattarino (rispettivamente madre e figlio), trattasi di una fonte di conoscenza che va considerata unitaria, essendo del tutto naturale in questa situazione la esistenza di un flusso di informazioni reciproche tra i due.
È stato dedotto dalle difese di molti imputati e da Benedetto Santapaola personalmente in sede di dichiarazioni spontanee come deve ritenersi del tutto inverosimile il fatto che egli avesse parlato del proposito omicidiario nei confronti di Fava in presenza di una donna (la Amato) e di un ragazzo di anni sedici (il Pattarino).
Va però rilevato che all’interno della casa di via Monteforte in Siracusa si era creato un clima di grande familiarità tra il Santapaola e la Amato, tra i quali intercorreva un rapporto di amicizia, fondato evidentemente sui rapporti che entrambi avevano con Francesco Mangion (amante della Amato e vice rappresentante della famiglia e quindi vicario in quel momento di Santapaola), e la riprova di ciò è data anche dalla frequentazione che la Amato aveva con la moglie di Santapaola (Minniti Carmela) e dai rapporti di grande solidarietà che vi era tra le due donne, tanto che la Amato si allontanava dalla sua casa quando la Minniti andava a trovare il marito: in questo contesto e tenuto conto poi che il clima di familiarità in tali situazioni viene di per se stesso ad essere favorito, è ben possibile che Santapaola e la Amato stessero a conversare fino a notte fonda per come dalla Amato riferito.
In questa situazione è poi naturale che il figlio della Amato, Pattarino Francesco, convivendo con la madre, si fosse trovato nella possibilità materiale di ascoltare le conversazioni intrattenute dalla madre con l’illustre ospite e peraltro, una volta captato all’origine il tema della discussione assolutamente piccante, che certamente avrà eccitato la fantasia del ragazzo, è naturale che questi fosse andato successivamente proprio alla ricerca di ogni occasione possibile, anche furtiva (come in occasione della visita di Ercolano e Cortese avvenuta poco prima di Natale del 1982), per orecchiare i discorsi relativi al proposito omicidiario del Santapaola che investivano un giornalista famoso, direttore peraltro di quella stessa rivista che il ragazzo certamente avrà avuto modo di vedere spesso in quel periodo in casa, se non addirittura di acquistarla su commissione della madre a sua volta delegata da Santapaola.
È stato rilevato dalla difesa di D’Agata Marcello che inattendibile sarebbe il riferimento fatto dalla Amato ad una conoscenza del D’Agata (il quale nel racconto della Amato si sarebbe recato a volte nella casa della Amato per visitare Santapaola), poiché la descrizione che la collaborante aveva fatto del D’Agata in dibattimento non corrisponderebbe affatto alla realtà, mentre il riconoscimento fotografico effettuato il 9/12/1993 sarebbe stato agevolato dal fatto che la Amato aveva avuto modo di osservare una foto del D’Agata che era stata pubblicata pochi giorni prima sul giornale “La Sicilia” in occasione del blitz c.d. Viale Ionio.
Ebbene, a parte che non è stato rinvenuto il riscontro documentale di quest’ultima circostanza, rileva la Corte che la Amato all’udienza del 30/1/1997, con riferimento alla capigliatura del D’Agata, ha escluso in realtà che egli avesse capelli lunghi ed ha riferito di capelli ricci, castani, tagliati ed ordinati e dalla fotografia in atti risulta che il D’Agata non fosse affatto completamente calvo (per come trovasi ora), ma solo leggermente stempiato e riccioluto, mentre con riferimento al modo di esporre verbalmente la Amato ha detto solo che il D’Agata parlava il dialetto catanese, il che non è incompatibile con la balbuzie da cui sarebbe affetto D’Agata.
E poi è da considerare che la frequentazione della Amato con D’Agata risale agli anni 1982-1983-1984, per cui è ovvio che la descrizione che la Amato fece delle fattezze fisiche del D’Agata è fondata sulla frequentazione suddetta e non può essere certo influenzata dal mutamento che naturalmente di tali fattezze interviene fatalmente in ogni persona umana nel giro di dieci anni, per cui è ben possibile (ed anzi è estremamente probabile) che D’Agata nel 1982 non fosse neanche leggermente stempiato, per come è ritratto nella foto del 1993: non c’è dubbio alcuno che D’Agata (come molti) è andato progressivamente incontro al fenomeno della perdita dei capelli, per cui egli ora è completamente calvo, nel 1993 era leggermente stempiato e dieci anni prima all’età di trentacinque anni ben poteva avere ancora i suoi capelli corti ed ordinati per come puntualmente osservati dalla Amato e per come dalla stessa riferito; in ordine alla balbuzie che non sarebbe stata osservata dalla Amato, ma neppure esclusa (per avere la Amato detto solo che D’Agata parlava il dialetto catanese), non vi è prova in atti che essa si fosse manifestata con carattere di grande evidenza già negli anni 1982-1983-1984 quando il D’Agata e la Amato si frequentarono assiduamente. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO PIPPO FAVA. Pippo Fava si meritava quella fine perché “parlava troppo”. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 04 gennaio 2022.
Il nipote di Santapaola, Aldo Ercolano si confida: «Chi sbaglia paga, si meritava così perché ha parlato troppo». Queste le parole ascoltate e poi riferite in aula da Italia Amato, che nella primavera del 1984, aveva incontrato Ercolano e Francesco Mangion a Catania.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Sulla base delle suddette indicazioni accusatorie è emerso pertanto che la uccisione di Fava è ricollegabile all’input originario di Benedetto Santapaola e sul punto va rimarcato che una affermazione siffatta va intesa nel senso che Santapaola decise in maniera assolutamente cosciente e volontaria di uccidere il Fava.
E si badi bene che in atti è stata raggiunta la prova positiva di un atteggiamento cognitivo-deliberativo pienamente ravvisabile nel comportamento del Santapaola, in coerenza assoluta alla presunzione di non colpevolezza ed al carattere personale della responsabilità penale, che è ben diverso dall’automatismo probatorio, certamente superato ed affatto inadeguato, riveniente dalla inaccettabile affermazione di una responsabilità per mera posizione ovvero per assunzione di carica nei confronti di colui il quale riveste un ruolo apicale in seno ad una associazione.
In tal senso osserva la Corte che, in ordine alla integrazione della prova suddetta, le considerazioni che Benedetto Santapaola era all’epoca (anche durante la latitanza) il capo indiscusso della famiglia catanese di cosa nostra; che trattavasi di delitto eccellente per cui occorreva il consenso del vertice associativo e che Santapaola era interessato alla uccisione del Fava per stroncare definitivamente la denuncia che questi faceva dell’intreccio mafioso-affaristico sono servite (soprattutto quest’ultima) solamente a fungere da elemento di supporto alla indicazione convergente riveniente dalle dichiarazioni di Avola, Pattarino ed Amato.
In questa situazione probatoria viene ad essere assorbita qualunque questione relativa alla cogenza estrema ovvero alla inderogabilità assoluta delle regole vigenti all’interno della famiglia catanese di cosa nostra ed al fatto che queste ultime siano state nella specie concretamente osservate; del tutto ininfluente si appalesa il fatto che nessuna prova è in atti in ordine ad un rigorismo formale deliberativo previsto, per così dire, a pena di nullità assoluta nell’ambito della famiglia catanese di cosa nostra, a differenza di quanto avveniva in seno alla famiglia palermitana con riferimento alla necessità assoluta di convocazione di organi collegiali quali la Commissione in funzione di determinate deliberazioni.
In altri termini vi è in atti la prova positiva che l’omicidio di Giuseppe Fava è stato deciso e voluto da Benedetto Santapaola, la cui condotta perciò si connota dei requisiti tipici del concorso di persone nel reato, nella specie del concorso morale per avere egli fornito un contributo cosciente e volontario all’azione criminosa, causalmente efficiente rispetto all’evento verificatosi, determinando la insorgenza del proposito criminoso ed istigando i compartecipi alla esecuzione dell’omicidio di Giuseppe Fava, a prescindere completamente da qualsiasi utilizzo di scorciatoie probatorie quali il ricorso al ruolo apicale, alla funzione strategica del delitto ed alla causale dello stesso, al di là di supportare legittimamente con tali elementi un risultato probatorio pieno acquisito a carico di Benedetto Santapaola e riveniente esclusivamente dal materiale probatorio esistente agli atti del processo.
Il fatto che Avola abbia detto espressamente di non avere avuto alcun incontro con Santapaola in epoca immediatamente antecedente o successiva all’omicidio, per cui deve escludersi che il collaborante abbia intrattenuto un rapporto diretto con Santapaola (che all’epoca forse neanche conosceva personalmente) al momento della emissione del mandato, è assolutamente ininfluente a fronte della prova certa del fatto che Benedetto Santapaola decise la uccisione di Fava e rilasciò ad Aldo Ercolano il mandato di organizzare e gestire l’omicidio medesimo, in forza del quale Aldo Ercolano ebbe poi ad incaricare operativamente Avola della organizzazione ed esecuzione del delitto.
In altri termini il committente Santapaola diede incarico ad Ercolano e quest’ultimo, così legittimatosi, diede l’incarico operativo ad Avola.
In questa situazione nessuna necessità vi era affinchè Santapaola ed Avola dovessero avere un contatto diretto e personale.
Ciò che rileva, ai fini della responsabilità di Santapaola, è il fatto che la sua decisione ed il mandato dallo stesso conferito ad Ercolano si pongano come condicio sine qua non rispetto all’incarico poi conferito da Ercolano ad Avola, il che nel processo è un dato certo ed inequivocabile, emergente da quanto dichiarato dallo stesso Avola, per cui Ercolano ebbe a dirgli espressamente: «lo zio si lamentava che si doveva portare a compimento l’omicidio».
LA VOLONTÀ DEL CAPO
E tanto basta per rendere palese che Ercolano stava trasmettendo ad Avola ed agli altri esecutori una volontà non sua ma di Benedetto Santapaola, del quale egli si rendeva mero portavoce ufficiale soprattutto in ragione dei rapporti di parentela intercorrenti tra i due. D’altra parte lo stesso Avola ha dichiarato che era noto all’interno della consorteria che Aldo Ercolano, durante la latitanza di Santapaola, si recava a trovare lo zio Benedetto Santapaola informandolo che si stava curando l’omicidio Fava.
Chiarissimo era a questo punto per gli esecutori del delitto che l’input originario era da ricollegare direttamente a Santapaola.
Se quindi a Benedetto Santapaola va ricollegato l’input originario dell’omicidio ed un ruolo di istigatore dei compartecipi, reputa la Corte che ad Aldo Ercolano, sulla base delle dichiarazioni assolutamente convergenti sul punto rese dalla Amato, da Pattarino e da Avola, vada senza alcun dubbio attribuito il ruolo di portavoce ufficiale della volontà di Benedetto Santapaola, rimasto sempre latitante, con una funzione tipica di intermediazione, assolutamente indispensabile, tra quest’ultimo ed i vertici associativi in libertà al fine di veicolare la volontà del capo supremo a questi ultimi e passare così dalla fase meramente ideativa e deliberativa del delitto al profilo organizzativo e di poi a quello esecutivo dell’omicidio.
Per come è stato sopra detto, si è trattato di un ruolo assolutamente infungibile, siccome voluto direttamente da Santapaola in persona e fondato su un rapporto fiduciario che affondò le sue radici esclusivamente nel vincolo di sangue per le motivazioni suesposte, a riprova ulteriore del fatto che, nello espletamento della funzione di intermediazione assegnatagli in questa vicenda da Santapaola, Aldo Ercolano non poteva essere sostituito da alcuno degli affiliati.
Trattasi senza dubbio alcuno di un ruolo assolutamente determinante e causalmente efficiente rispetto all’evento omicidiario verificatosi il 5.1.1984, essendo di evidenza solare il fatto che senza il tramite assicurato da Ercolano la volontà omicidiaria di Santapaola sarebbe rimasta fine a se stessa e non sarebbe stata portata a conoscenza della consorteria e quindi non sarebbe stata portata ad esecuzione.
Ed, all’uopo, occorre fare una puntualizzazione rilevante con riferimento alla posizione di Santapaola ed Ercolano e rimarcare come dalle risultanze processuali acquisite emergano degli elementi sufficienti per potere affermare che la uccisione di Fava eseguita il 5.1.1984 sia da ricollegare comunque, a prescindere dalla pronuncia assolutoria emessa nel presente giudizio nei confronti di coloro ai quali è stato contestato il concorso nell’omicidio come esecutori materiali del delitto, all’input originario di Benedetto Santapaola ed alla intermediazione fondamentale ed infungibile svolta da Aldo Ercolano tra quest’ultimo e la consorteria di cui Santapaola era il capo supremo.
Ed, invero, osserva la Corte che anche in ordine al suddetto collegamento sia emersa nel processo una indicazione sufficientemente convergente.
Innanzi tutto devesi notare che Avola è stato ritenuto responsabile in ordine all’omicidio di Fava, quale esecutore dello stesso, con sentenza del GIP presso il Tribunale di Catania del 16.1.1996 e condannato alla pena di anni sei mesi tre di reclusione così come determinata nel giudizio di secondo grado dalla sentenza della Corte di Assise di Appello del 5.3.1997 passata in cosa giudicata (acquisita in atti così come quella di primo grado).
Il collegamento siffatto è palese poi nel dictum di Avola, che ha riferito specificamente in ordine a tutto lo snodo della fase esecutiva dell’omicidio, che dal collaborante è stata espressamente e direttamente posta in relazione al mandato omicidiario di Santapaola ed alla intermediazione di Ercolano, il quale peraltro nel racconto di Avola ebbe pure un ruolo meramente esecutivo, avendo materialmente sparato all’indirizzo di Fava.
Il riscontro alla fase esecutiva così come descritta da Avola non può essere fornito dalla dichiarazione di Grancagnolo, per come si vedrà in seguito, né dalla dichiarazione di Pulvirenti, che in occasione della originaria dichiarazione al PM del 19 e 22.9.1994 ha detto testualmente di non sapere nulla in ordine all’omicidio di Fava.
Il collegamento suindicato emerge, invece, dalla dichiarazione di Amato Italia sulla base di quel segmento relativo all’incontro avuto dalla collaborante con Ercolano nel post factum (che per quanto ora interessa si appalesa fondamentale).
Ebbene Amato Italia ha riferito che, dopo l’omicidio del Fava, nella primavera del 1984, essa ebbe a recarsi una volta presso l’ufficio di Ercolano Aldo sito al Corso Sicilia di Catania per incontrare Francesco Mangion ed in quella occasione, in presenza di quest’ultimo, essa ebbe ad accennare ad Ercolano della morte di Fava nel senso che questi aveva fatto un brutta fine dicendo: «ammazzanu macari a questo?»; Ercolano con aria soddisfatta ebbe a rispondere che «Pippo Fava si era meritata quella fine per tutto quello che aveva detto contro di loro….chi sbaglia paga, si meritava così perché ha parlato troppo», al che la Amato ebbe a soggiungere: «allora loro l’hanno fatto», senza che sul punto Ercolano avesse a sua volta detto alcunchè in risposta.
Reputa la Corte che senza alcun dubbio dalla suindicata dichiarazione si trae una indicazione del tutto univoca nel senso che, dopo l’omicidio di Fava, Ercolano in un contesto assolutamente impegnativo per la presenza di Francesco Mangion ebbe a rappresentare una causale della uccisione di Fava assolutamente coerente con quella che era stata la motivazione che aveva fatto insorgere la volontà omicidiaria del Santapaola e ad imputare la morte di Fava alla consorteria cui egli apparteneva, tanto da indurre la Amato a formulare la conclusione suindicata e chiarissima in tal senso («allora loro l’hanno fatto»), cui non fece seguito alcuna controdeduzione da parte di Ercolano.
Trattasi di segmento dichiarativo molto rilevante, perché consente alla Corte di potere affermare, pur non ravvisando in atti un valido riscontro esterno alla dichiarazione di Avola sul versante relativo alla fase strettamente esecutiva del delitto, che una convergenza invece sia stata raggiunta in atti sulla riferibilità dell’omicidio consumato in danno di Fava il 5.1.1984 alla famiglia catanese di cosa nostra, ed in particolare all’input originario di Benedetto Santapaola ed alla intermediazione fondamentale di Ercolano Aldo in coerenza assoluta con la causale del delitto.
E la attendibilità intrinseca del segmento dichiarativo suddetto in seno alla propalazione della Amato non è minimamente discutibile.
Esso è autonomo al cento per cento perché costituisce un dato che non era stato fino al 9.12.1993 (giorno della dichiarazione resa dalla Amato al PM) rappresentato da alcuno.
E’ pure costante e reiterato nel tempo perché confermato pienamente dalla Amato al dibattimento.
LE PAROLE DELLA AMATO CONTRO ERCOLANO
La Amato ha dichiarato poi in sede di controesame che nessun sentimento di astio o rancore aveva nei confronti di Ercolano per avere saputo dal figlio Pattarino che l’imputato gli aveva dato incarico di ucciderla buttandola giù dal balcone.
E’ noto che anche l’eventuale sentimento di astio o rancore che il collaborante nutrisse verso gli accusati non può, di per se stesso, essere ritenuto aprioristicamente come sintomo di carenza di credibilità del collaborante, dato che l’intenzione di nuocere alla persona verso cui si nutre rancore è perfettamente compatibile con una esposizione veritiera dei fatti ed anzi quest’ultima circostanza costituisce solitamente la migliore garanzia per un collaborante che volesse nuocere ad una persona chiamandola in reità ovvero in correità.
Devesi poi rilevare che nessun dubbio può essere nutrito sulla effettività della confidenza fatta da Ercolano nella occasione de qua alla Amato nonché sulla verosimiglianza e sulla logica interna del dato rappresentato.
All’uopo va innanzi tutto disattesa la censura specifica mossa dalla difesa di Ercolano relativa alla attendibilità della dichiarazione della Amato sul punto in esame per il fatto che la sede sociale della società CO.P.P. srl sita al Corso Sicilia (presso la quale la Amato avrebbe incontrato Ercolano nella primavera del 1984) era stata ivi trasferita da Acicastello solo il 7.7.1986, come da verbale di assemblea straordinaria prodotto in atti: è agevole replicare che la sede di corso Sicilia ben poteva essere nel 1984 una sede effettiva e non formale ovvero comunque un semplice locale nella disponibilità di fatto di Ercolano.
Osserva poi la Corte che la confidenza è stata fatta da Ercolano alla Amato in presenza di Francesco Mangion, che era legato sentimentalmente alla donna sulla base di una relazione extraconiugale iniziata nel lontano 1962 ed era personaggio di grandissimo spessore in seno alla consorteria (e peraltro in quel momento era colui il quale rappresentava Santapaola, per come riferito da Avola).
Trattavasi quindi di una presenza rilevantissima che vale a connotare sensibilmente in termini di effettività la risposta che in quel contesto Ercolano diede alla domanda per la verità impertinente della Amato, cui Ercolano medesimo non avrebbe potuto esimersi dal rispondere, sia perché avrebbe provocato un notevole disappunto del Mangion nel vedere che nessuna risposta veniva data da Ercolano alla propria donna, sia perché il silenzio di Ercolano alla domanda della Amato sarebbe stato inspiegabile proprio agli occhi di Mangion che (nel racconto di Avola) era a conoscenza di quanto avvenuto il 5.1.1984 per avere ospitato nell’immediato post factum in casa di tale Licciardello in maniera non preventivata il commando omicida (di cui avrebbero fatto parte, secondo il dictum di Avola, sia quest’ultimo che Ercolano) ed avere commentato, dopo un brindisi a base di champagne, l’accaduto, dicendo che con quell’omicidio erano stati presi due piccioni con una Fava, così alludendo al duplice favore fatto attraverso la uccisione di Fava ai cavalieri del lavoro ed ai palermitani.
Per gli stessi motivi Ercolano non avrebbe mai potuto permettersi di rispondere in maniera inesatta per non correre il rischio di essere immediatamente smentito dallo stesso Mangion.
Ma c’è di più.
Sorge a questo punto spontanea la domanda: ma se la Amato era la compagna di Mangion, come mai essa non si è rivolta proprio a Mangion per chiedere la suddetta informazione?
La risposta è agevole e sta nella considerazione che la Amato ben sapeva, per averlo sentito direttamente a casa sua in quel di Siracusa, a Natale del 1982 ed anche dopo, che Ercolano era stato officiato da Santapaola della intermediazione con la consorteria per la uccisione di Fava, per cui proprio Ercolano venne ragionevolmente ritenuto dalla donna come il soggetto maggiormente informato dei fatti.
E tale riflessione induce la Corte a rafforzare ulteriormente il proprio convincimento circa la verosimiglianza della confidenza fatta nell’occasione da Ercolano alla Amato.
QUELL’INCONTRO A SIRACUSA
Orbene Aldo Ercolano, da parte sua, ben sapeva che la Amato conosceva perfettamente l’antefatto vissuto a Siracusa e che la stessa aveva rapporti confidenziali con Santapaola, per cui mai avrebbe potuto permettersi di fare una confidenza alla Amato che non fosse stata esattamente rispondente alla reale entità dei fatti: ed, infatti, ben poteva immaginare Ercolano che la Amato, al fine di sapere (anche al solo fine di soddisfare una curiosità tipicamente femminile) se la uccisione di Fava avvenuta il 5.1.1984, che essa aveva appreso dai mass media, fosse o meno ricollegabile in un modo o nell’altro alle discussioni che in tema si erano fatte a casa sua in Siracusa ed in presenza della stessa, avrebbe potuto interpellare Mangion e, (tramite quest’ultimo o forse anche direttamente, data la confidenza che si era venuta creare tra i due) financo Benedetto Santapaola, i quali avrebbero potuto smentire clamorosamente lo stesso Ercolano, che in una ipotesi siffatta avrebbe subito una istantanea caduta verticale di credibilità soprattutto agli occhi di Santapaola, che tanta fiducia aveva riposto nel nipote.
Reputa la Corte quindi che effettiva e verosimile sia stata la confidenza fatta da Aldo Ercolano alla Amato di cui si è detto sopra.
In conclusione va confermata l’affermazione di responsabilità di Benedetto Santapaola e di Aldo Ercolano in ordine al concorso nell’omicidio pluriaggravato di Giuseppe Fava, il primo quale mandante dell’omicidio ed il secondo con il ruolo suesposto di intermediario, indispensabile ed infungibile, tra lo zio Benedetto Santapaola (che, latitante, aveva dato l’input originario per la uccisione di Fava) ed i vertici associativi in libertà, che curarono la organizzazione e la esecuzione del delitto consumato il 5.1.1984.
In conseguenza della assoluzione, per non avere commesso il fatto, di D’Agata Marcello, Giammuso Franco e Santapaola Vincenzo dal reato loro contestato di concorso, quali esecutori materiali, nell’omicidio di Giuseppe Fava e dai reati satelliti di detenzione e porto illegale di arma (per come tosto si dirà), va esclusa nei confronti di Santapaola Benedetto ed Aldo Ercolano in ordine ai reati di cui ai capi A) e B) del decreto che disponeva il giudizio del 6.6.1995, loro contestati, la circostanza aggravante di cui all’art. 112 comma primo n. 1 cp, poiché il numero delle persone che sono concorse nei reati diventa, a questo punto, inferiore a cinque.
Va invece dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Benedetto Santapaola ed Aldo Ercolano in ordine ai reati di detenzione e porto illegale di una pistola cal. 7,65 loro ascritti al capo B) del decreto che fissava il giudizio del 6.6.1996 per intervenuta prescrizione.
Ed, invero, essendo stata esclusa dalla contestazione (per come sopra detto) la circostanza aggravante del numero dei compartecipi superiore a cinque a seguito della assoluzione di D’Agata Marcello, Giammuso Franco e Santapaola Vincenzo per non avere commesso il fatto dai reati in questione, devesi rilevare che questi ultimi, essendo stati consumati il 5.1.1984, si sono prescritti in data 5.1.1999, per cui si impone la pronuncia di non doversi procedere. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
LE INDAGINI SULL’OMICIDIO FAVA. L’incontro in quel motel di periferia prima dell’agguato.
Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 05 gennaio 2022. La Corte di Assise di Catania ha affermato la responsabilità degli imputati Aldo Ercolano, Marcello D’Agata, Vincenzo Santapaola e Franco Giammuso quali esecutori materiali dell’omicidio pluriaggravato in danno di Giuseppe Fava ed inoltre per i reati satelliti di detenzione e porto illegale di una pistola cal. 7,65.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
La Corte di Assise di Catania ha affermato la responsabilità degli imputati Aldo Ercolano, Marcello D’Agata, Vincenzo Santapaola e Franco Giammuso quali esecutori materiali dell’omicidio pluriaggravato in danno di Giuseppe Fava ed inoltre per i reati satelliti di detenzione e porto illegale di una pistola cal. 7,65.
I difensori degli imputati suddetti hanno proposto appello, assumendo in estrema sintesi (posto che l’analisi specifica dei gravami sarà fatta via via in seguito) che le chiamate in correità di Maurizio Avola e di Carmelo Grancagnolo non sono attendibili intrinsecamente e che tra le stesse non è ravvisabile alcuna convergenza, e chiedendo l’assoluzione degli imputati medesimi per non avere commesso il fatto.
Premesso che le posizioni degli imputati suddetti sono tutte uguali, si passa ora alla analisi delle dichiarazioni di Carmelo Grancagnolo e di Maurizio Avola e poi sarà trattato il tema del preteso riscontro incrociato tra le suddette dichiarazioni.
LA TESTIMONIANZA DI GRANCAGNOLO
Carmelo Grancagnolo così testualmente ha riferito al pm in seno alla dichiarazione del 20.3.1993, che si riporta integralmente per la importanza e rilevanza della stessa nella economia della valutazione del quadro probatorio relativo all’omicidio di Fava.
“Ricordo che un giorno, recandomi in campagna a Paternò, nel podere di tale “Affiu Giamma”, ivi incontrai Giuseppe Pulvirenti, Angelo Grazioso e Pappalardo Giuseppe, quest’ultimo ucciso nell’estate del 1989 all’interno dell’Etna Bar. Preciso che tutti costoro erano al tempo latitanti. Dopo essermi soffermato a parlare con costoro di argomenti vari, Piero Puglisi mi incaricò di andare al Motel Agip di Ognina per vedere se gli altri avevano bisogno di me. Preciso che il Motel Agip era il luogo ove si incontravano abitualmente Marcello D’Agata e gli altri, così come ho avuto modo di riferire nel corso di un mio precedente interrogatorio. Portatomi al Motel Agip ivi incontrai Marcello D’Agata, in compagnia di Enzo Santapaola, Aldo Ercolano, Franco Giammuso, Tuccio Salvatore ed Maurizio Avola. Io mi rivolsi al Tuccio e ad Aldo Ercolano dicendo che mi mandavano “Piero” e “Zu Pippu” e che ero a loro disposizione; il Tuccio e l’Ercolano mi dissero che non avevano bisogno di me e mi ringraziarono. Successivamente Enzo Santapaola si rivolse a Maurizio Avola dicendo: «O pigghia i pezzi».
Da lì a qualche momento, sebbene io abbia inteso che Enzo Santapaola si era riferito a delle armi che sapevo erano nascoste allo interno dello stesso bar del Motel Agip, anzi dico meglio all’esterno del bar, nel locale ove vi è un ponte per sollevare le autovetture, tornò Maurizio Avola portando con se due pistole, una calibro 9, e una calibro 7,65.- Entrambe le armi erano avvolte in una pezza di colore bianco, ma allorché Avola arrivò all’interno del bar tolse la pezza, così che rese visibili a noi che eravamo presenti le armi in questione. Preciso che Maurizio Avola posò le armi sul banco frigorifero e tutti noi andammo attorno per vedere. Fu lo stesso Maurizio Avola a dire che si sarebbero portate quelle, in particolare si trattava di una pistola calibro 9 corto, tipo guerra. Entrambe le armi non avevano caratteristiche particolari che io ricordi. Successivamente Marcello D’Agata e tutti gli altri andarono via a bordo di due auto, tra cui una Renault 18, colore metallizzato, di Franco Giammuso, che partecipava alla spedizione assieme agli altri. Prima di andare via gli chiesi ancora se avevano bisogno di me e loro mi dissero che non avevano bisogno e che era tutto a posto. Naturalmente avevo ben compreso che il gruppo stava partendo per compiere un omicidio e consapevolmente mi ero messo a loro disposizione proprio perché questo era stato che mi era stato impartito da u “Zu Pippu Pulvirenti”. Quella sera stessa non seppi più niente. Il giorno dopo appresi dello omicidio del giornalista Pippo Fava e subito collegai detto fatto di sangue a quanto era accaduto al Motel Agip di Ognina la sera prima. Ebbi ulteriore conferma di ciò allorché mi portai la stessa mattina nella campagna di “Affiu Giamma Giamma” a Paternò per trovare il Pulvirenti e Piero Puglisi. In particolare feci ad entrambi un resoconto di quanto era avvenuto la sera prima e cioè del fatto che ero andato, obbedendo alle loro indicazioni, al Motel Agip che mi ero messo a disposizione di Marcello D’Agata e degli altri, i quali mi avevano detto che non avevano bisogno di me. Alla fine mi lasciai andare nei confronti del Pulvirenti e del Puglisi ad una considerazione, dicendo: «u ficiru stautru purpettu»; né il Pulvirenti né il Puglisi mi risposero, anche se entrambi si misero a ridere, di fatto annuendo a quanto io avevo detto. Devo dire infatti che come regola all’interno della nostra organizzazione non si parla mai, ne tanto meno si chiedono notizie in ordine ai delitti commessi. Infatti chi chiede notizie in ordine a detti fatti viene giudicato persona poco seria, così da far venir meno il rapporto fiduciario con gli altri componenti dell’organizzazione. Per lo stesso motivo successivamente non si parò più dell’omicidio del Fava. Soltanto allorché gli organi di stampa diffusero notizie in ordine alle dichiarazioni rese in merito da pentiti, il commento fatto da tutti quelli che lo sapevano era che si trattavano di stupidaggini.
Tutti coloro che io incontrai all’interno del Motel Agip, e cioè Marcello D’Agata, Enzo Santapaola, Aldo Ercolano, Franco Giammuso, Maurizio Avola e Salvatore Tuccio presero posto a bordo delle loro autovetture e partirono dirigendosi verso Catania, percorrendo la circonvallazione. Questo avvenne intorno alle ore 19,00 – 19,30 e comunque tra le ore 19,00 e le ore 20,00 della sera in cui venne ucciso Pippo Fava.
Ho appreso dalla stampa della utilizzazione per la commissione dell’omicidio del Fava di una pistola calibro 7,65; ma non anche della pistola calibro 9 corto che io vidi quella sera nella disponibilità del gruppo di fuoco. Posso ritenere pertanto che detta ultima arma non sia stata utilizzata. Nulla so della dinamica dell’omicidio perché, come ho già detto, non mi furono riferite né io potevo chiedere, indicazioni in merito. Non ricordo quale fosse l’altra autovettura a bordo della quale il D’Agata e gli altri partirono dal Motel Agip verso Catania”.
TUTTE FALSITÀ?
[...] Il problema che riguarda la dichiarazione di Grancagnolo non è l’autonomia, ma ben altro: innanzi tutto la effettiva valenza della stessa in funzione di una accusa individualizzante nei confronti dei soggetti chiamati in reità come autori materiali del delitto e poi la veridicità di quanto riferito, che deve essere analizzata ed accertata a fronte dell’unico ma grave sospetto che potrebbe in astratto sorgere e profilarsi, e cioè quello di un tentativo fatto da Grancagnolo, ad un mese e mezzo dall’inizio della sua collaborazione, di accreditarsi presso gli inquirenti di un contributo collaborativo rilevante [...]: e nella specie il contributo collaborativo del Grancagnolo avrebbe potuto essere rilevantissimo, sia per il fatto che l’omicidio di Giuseppe Fava era stato eclatante, sia perché erano state del tutto fallimentari le rivelazioni di chi prima di lui aveva riferito sul punto.
Orbene, per quanto riguarda il profilo della costanza e della reiterazione della propalazione, osserva la Corte che in seno alla dichiarazione resa al dibattimento all’udienza del 21.1.1997 il racconto fatto dal Grancagnolo non ha subito modificazioni rilevanti sul piano quantitativo, salvo però che in due punti altamente qualificanti ed assolutamente fondamentali, concernenti i contatti con Pulvirenti Giuseppe, che assumono grande rilievo perché incidono su un versante della dichiarazione che è rilevantissimo, alla luce del dictum di Pulvirenti, in ordine alla valutazione della attendibilità intrinseca della dichiarazione resa da Grancagnolo.
Ed, infatti, al dibattimento Grancagnolo ha riferito che il 5.1.1984 l’ordine di mettersi a disposizione al Motel Agip gli venne conferito solo da Puglisi e non anche da Pulvirenti e che il giorno dopo, allorché egli tornò nella campagna del Longo, ebbe a riferire la battuta del “purpettu” solo al Puglisi (che si mise a ridere), mentre Pulvirenti non era presente e quindi non ebbe a ridere.
Va subito notato, con la massima fermezza, che su questi due punti il dictum dibattimentale del Grancagnolo diverge profondamente e diametralmente da quello originario, nel quale, con pari fermezza, va evidenziato invece che il collaborante al Motel si era rivolto a Tuccio ed a Ercolano dicendo loro che era stato mandato da “Piero” e da “Zu Pippu” (da identificarsi senza alcun dubbio con Pulvirenti Giuseppe) e che era a loro disposizione; ed anzi a pag. 49 del verbale del 20.3.1993 Grancagnolo ha detto testualmente che, allorché vide che i componenti del commando si erano allontanati verso Catania con due autovetture, si rese conto che essi stavano andando a fare un omicidio e consapevolmente si era messo a disposizione loro “proprio perché questo era stato l’ordine che gli era stato impartito da “u zu Pippu Puvirenti”.
[…] La divergenza di queste affermazioni rispetto a quelle dibattimentali suindicate è assolutamente insanabile (dato che attiene alla presenza ovvero alla assenza di Pulvirenti in due precisi contesti storici) né può ritenersi che la rievocazione del ricordo effettuata al dibattimento è quella esatta, poiché la dichiarazione dibattimentale già di per se stessa è scarsamente compatibile con un ricordo sopravvenuto rispetto alla dichiarazione originaria avvenuta circa quattro anni prima, e comunque la divergenza suddetta non è stata giustificata affatto dal collaborante: essa si appalesa, a parere della Corte, fortemente e gravemente sospetta per come in seguito sarà detto. […].
LA CLAMOROSA SMENTITA DI PULVIRENTI
La dichiarazione di Grancagnolo subisce invece una clamorosa smentita per effetto della dichiarazione di Pulvirenti Giuseppe sul versante degli eventi relativi al pomeriggio del 5.1.1984, quando il Grancagnolo si sarebbe recato nella campagna di Alfio “Giamma”, dove avrebbe trovato Pulvirenti Giuseppe e Piero Puglisi che lo avrebbero mandato al Motel Agip di Ognina, per mettersi a disposizione di quanti stavano ivi, sia pure senza una indicazione precisa di cosa si dovesse fare.
Ebbene Pulvirenti Giuseppe, interrogato dal PM il 22.9.1994, proprio all’inizio della sua collaborazione (e quindi in un stato di assoluta genuinità, spontaneità ed autonomia, perché nessun contatto poteva ancora avere avuto con altri collaboranti), ebbe a riferire con la massima chiarezza e precisione che egli, mentre era latitante, ebbe a trovarsi una volta nella campagna di Alfio Longo (dove pernottò all’interno di una autovettura, “una centoventisette” intestato alla moglie) assieme ai due generi Grazioso Angelo e Piero Puglisi, pure latitanti, oltre che a Grancagnolo (che “è venuto e si è accattato il vino”), e che in tale frangente vi fu una irruzione dei carabinieri in occasione della quale egli scappò.
[…] Il PM poi il 22.9.1994 chiese al Pulvirenti se, il giorno in cui egli si trovava nella campagna di Alfio Giamma allorché ci fu la irruzione dei carabinieri (cioè il 6.1.1984 il giorno successivo alla uccisione di Fava), il genero Puglisi ebbe ad accennargli qualcosa sull’evento suindicato ed il Pulvirenti rispose: «non me lo ricordo dottore, dico una cosa…per dire…”hanno ammazzato ad uno a Fava” può essere magari che me lo hanno detto questo….certo se, per dire, avevano ammazzato a questo, è Sucasangu (cioè Grancagnolo) ce l’avrà potuto venire a dire Sucasangu, se nui altri eravamo in campagna coricati, per dire “hanno ammazzato a questo” sarà potuta uscire magari questa discussione, io però….ma ora non ci penso ora, non è che posso….ma però io non sono venuto mai a conoscenza chi è stato e chi non è stato…mai…mai».
Il pm a questo punto incalzò e chiese testualmente al Pulvirenti: «in questo momento non si tratta appunto di contestarle l’omicidio fatto, cui sappiamo che lei è estraneo, in questo momento il problema è che lei ci deve, perché se decide di collaborare, deve dirci, perché questo è tra gli obblighi del collaborante, tutto quello che sa su questo omicidio»; come si vede il PM, in maniera assolutamente ineccepibile, mise il Pulvirenti con le spalle al muro dinanzi alle sue responsabilità di neo collaborante, ricordando espressamente al Pulvirenti i precisi doveri che egli aveva in quel momento; ed il Pulvirenti (che in quel momento aveva certo tutto l’interesse ad assecondare l’intento investigativo del pm espressamente manifestato, poiché egli era ancora detenuto con un programma di protezione tutto da concedere) così testualmente rispose: «e “ddocu” non so niente» (cioè: su questo punto non so niente); a questo punto il PM, che conosceva ovviamente la dichiarazione resa il 20.3.1993 da Grancagnolo, inchiodò il Pulvirenti sul dato specifico chiedendogli: «ma lei per esempio, sappiamo che il giorno dopo (l’omicidio di Fava) si incontra con Grancagnolo ed avete commentato il fatto, ed il giorno prima lei aveva detto qualcosa a Grancagnolo di mettersi in contatto con qualcuno, questa è la contestazione che io le faccio, perché lei ha dato delle indicazioni a Grancagnolo, cose sull’omicidio» e Pulvirenti così testualmente rispose: «ma non può essere mai, mai, mai dottore, gliela faccio io la contestazione, mai»; ed infine sul punto (che, ripetesi, è decisivo in ordine alla valutazione della attendibilità intrinseca della dichiarazione di Grancagnolo in ordine al segmento fondamentale dell’incontro pretesamente avvenuto nel pomeriggio del 5.1.1984 tra Grancagnolo e Pulvirenti nella campagna di Alfio Giamma) il pm incalzò chiedendo al collaborante: «rispetto a questo momento (quello della irruzione dei CC del 6.1.1984) la volta prima che aveva visto Grancagnolo quando è stata?» e Pulvirenti rispose: «Ma io penso che era molto tempo prima, non è vero che il giorno prima io avevo visto Grancagnolo. Non esiste. Non esiste. Non esiste. Io posso anche fare il confronto con Grancagnolo, perché non esiste questo fatto che è successo. Completamente. Perché se la cosa non è giusta».
[...] Ed a questo punto sorge spontaneo il rilievo come non sia affatto vero che i collaboranti hanno supportato in tutto e per tutto, in maniera per così dire istituzionale, l’impianto accusatorio eretto dal pm, per come spesse volte invece è stato detto dai banchi della difesa nel corso del processo.
DIVERGENZE INSANABILI
Nel caso in esame infatti Pulvirenti ha detto e ripetuto (rectius: ha gridato) che egli è arrivato nella campagna di Alfio Giamma il giorno della irruzione dei CC (e cioè il 6.1.1984) e che, in epoca antecedente a tale giorno, egli era stato in detta campagna un anno-due prima (il che già esclude che vi possa essere stato il giorno precedente 5.1.1984); e comunque, per chiudere in maniera decisiva e definitiva l’argomento ed eliminare qualunque residua incertezza, Pulvirenti il 22.9.1994 ha detto al pm espressamente (a pag. 63 del verbale relativo) che il giorno precedente a quello della irruzione dei carabinieri nella campagna di Alfio Giamma egli non si era affatto visto con Grancagnolo (“non esiste, non esiste, non esiste”).
E una rappresentazione siffatta (rimasta assolutamente ferma al dibattimento) smentisce clamorosamente la dichiarazione di Grancagnolo proprio al “cuore” della stessa, nel suo segmento per così dire costitutivo di tutta la impalcatura della propalazione: non è assolutamente vero che il pomeriggio del 5.1.1984 Grancagnolo si sia incontrato nella campagna di Alfio Giamma con Giuseppe Pulvirenti e che da questi sia stato quindi mandato al Motel Agip di Ognina per mettersi a disposizione di altri affiliati che ivi si trovavano, per come dallo stesso Grancagnolo dichiarato.
[...] In altri termini tra il racconto di Grancagnolo e quello di Pulvirenti non vi è incompatibilità sul versante del 6.1.1984, ma bensì su quello del giorno cinque pomeriggio. [...] La incompatibilità evidenziata tra la dichiarazione di Grancagnolo e quella di Pulvirenti sul versante del 5.1.1984 è ben più grave, perché la valenza indiziante sul piano accusatorio della dichiarazione di Grancagnolo (anche se minima sul piano della attendibilità intrinseca di altri segmenti, per come sarà esposto, ed assolutamente nulla sul piano del riscontro individualizzante a carico degli imputati, per quello che si dirà in seguito) è riveniente esclusivamente dalla presenza di Grancagnolo al Motel Agip alle ore 19/19,30 circa del 5.1.1984 e tale presenza appare già fortemente dubbia, se uno dei due committenti che gli avrebbero dato l’incarico di recarsi ivi (e cioè Pulvirenti Giuseppe) ha escluso categoricamente di avere dato una commissione siffatta.
RACCONTI SOSPETTI
Si comprende a questo punto quanto sia piena di sospetto la dichiarazione resa da Grancagnolo al dibattimento (il 21.1.1997) nella parte in cui il collaborante ha riferito che a mandarlo al Motel Agip il pomeriggio del 5.1.1984 sarebbe stato solo Piero Puglisi (e non anche Pulvirenti), e per mera coerenza logica nella parte in cui la battuta sul “purpettu” sarebbe stata fatta solo a Puglisi dopo che i due si sarebbero appartati (e non anche al Pulvirenti).
Quanto paradigmatica era stata la dichiarazione di Pulvirenti al PM il 22.9.1994, tanto emblematica di un tentativo di adeguamento va reputata la dichiarazione dibattimentale di Grancagnolo del 21.1.1997 nella parte suindicata, perché a questo punto è verosimile che Grancagnolo, una volta acquisita la libertà, nelle more tra il 20.3.1993 ed il 21.1.1997 era venuto a sapere che Pulvirenti (il quale peraltro era stato esaminato in un pubblico dibattimento all’udienza del 4.12.1996) aveva escluso il suo avvento nella campagna di Alfio Giamma il pomeriggio del 5.1.1984, onde era necessario, al fine di rendere compatibili i due racconti, che egli fosse stato incaricato di andare al Motel Agip solo da Puglisi e, per coerenza, a questo punto anche che il Pulvirenti (non avendo dato al Grancagnolo alcun incarico di recarsi al Motel Agip il giorno precedente) scomparisse dalla scena della discussione sul “purpettu” del giorno sei mattina.
Peraltro devesi rilevare che, in base alla dichiarazione di Pulvirenti del 22.9.1994, anche la presenza del solo Piero Puglisi nella campagna di Alfio Giamma il pomeriggio del 5.1.1984 (tanto da potere incaricare da solo Grancagnolo di andare al Motel Agip, per come riferito da Grancagnolo al dibattimento in maniera sfacciatamente non genuina) diventa fortemente dubbia: ed infatti Pulvirenti ha detto che ad arrivare la stessa mattina del giorno 6.1.1984 nella campagna di Alfio Giamma fu non solamente il Pulvirenti medesimo, ma questi assieme agli altri, se è vero che lo scandaglio che stava conducendo il pm il 22.9.1994 concerneva l’avvento in detta campagna di tutti i soggetti che prima il collaborante aveva indicato come presenti sul posto, e cioè Pulvirenti, Grazioso, Puglisi e Grancagnolo; ed infatti il pm ha chiesto al collaborante: “rispetto al giorno in cui c’è stata la irruzione di carabinieri, voi da quanto tempo vi trovavate lì?….cioè eravate arrivati in quel posto il giorno prima, quella mattina?” e la risposta del Pulvirenti, per come sopra detto, fu: “niente, poco era….no no era quella mattina stessa quando sono venuti i carabinieri”, onde deve dedursi logicamente che l’avvento verificatosi nella stessa mattinata del 6.1.1984 si riferisce logicamente a tutti i soggetti presenti nella campagna suddetta (ivi compreso perciò Puglisi), e ciò tanto più ove si consideri che lo stesso Pulvirenti ha detto che il genero Puglisi “era latitante insieme con me” (cioè con il Pulvirenti).
Al dibattimento poi all’udienza del 4.12.1996 Pulvirenti ha ulteriormente specificato questo dato dicendo: «(Puglisi) era latitante perché eravamo insieme nella macchina, non avevamo nemmeno un posto. Nuatri ierimu propriu nella macchina ierimu insieme. Mi ricordo questo che aveumu pernottato dentro la macchina, dentro la 127, dentro una campagna così in una campagna però estranea»; quindi Pulvirenti e il genero Puglisi trascorsero la latitanza insieme, per cui appare strano che proprio il 5.1.1984 essi si siano separati.
Ma, ripetesi, una affermazione siffatta non è stata in alcun modo ventilata neanche dallo stesso Grancagnolo in occasione della dichiarazione originaria del 20.3.1993, in seno alla quale i due (Pulvirenti e Puglisi) sono stati menzionati sempre insieme.
Un altro punto sul quale va misurata la attendibilità intrinseca del dictum di Grancagnolo è la incostanza relativa al riferimento fatto alla presenza di Salvatore Tuccio al Motel Agip la sera del 5.1.1984. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Ma chi c’era davvero al summit mafioso prima di uccidere Pippo Fava? Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 06 gennaio 2022.
Nel 1993 Grancagnolo aveva raccontato che, dopo essersi soffermato al Motel Agip, tra le 19.00 e le 20.00 «Marcello D’Agata, Enzo Santapaola, Aldo Ercolano, Franco Giammuso, Maurizio Avola e Salvatore Tuccio»….«andarono via a bordo di due auto, tra cui una Renault 18 colore metallizzato di Franco Gammuso»…«dirigendosi verso Catania percorrendo la circonvallazione»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
In seno alla dichiarazione originaria al pm del 20.3.1993 Grancagnolo ha detto che, appena giunto al Motel Agip, si rivolse proprio a Salvatore Tuccio ed a Aldo Ercolano, dicendo loro che era stato mandato ivi da Piero Puglisi e Pulvirenti Giuseppe, e si mise a loro disposizione, ma il Tuccio ed Ercolano gli avrebbero detto che non avevano bisogno del Grancagnolo e lo ringraziarono; dopo essersi soffermato circa un’ora/un’ora e mezzo al Motel Agip, Grancagnolo ebbe modo di vedere che alle ore 19/19,30/20 «tutti coloro che io incontrai all’interno del Motel Agip, e cioè Marcello D’Agata, Enzo Santapaola, Aldo Ercolano, Franco Giammuso, Maurizio Avola e Salvatore Tuccio»….«andarono via a bordo di due auto, tra cui una Renault 18 colore metallizzato di Franco Gammuso»…«dirigendosi verso Catania percorrendo la circonvallazione»; il collaborante ha precisato poi di non ricordare quale fosse stata l’altra autovettura a bordo della quale i componenti del commando si allontanarono verso Catania e di avere ben compreso che gli stessi stessero partendo per andare a compiere un omicidio.
Quindi non c’è dubbio che nella rievocazione fatta da Grancagnolo il 20.3.1993 Tuccio Salvatore era certamente presente all’avvento del Grancagnolo al Motel e lo stesso Tuccio era uno di quei soggetti che, a bordo di due auto (di cui una era una Renault 18 ed un’altra non era meglio nota al collaborante), partirono alla volta di Catania lungo la circumvallazione per compiere quello che al collaborante sembrò essere un omicidio.
Il Grancagnolo venne poi il 7.12.1994 messo a confronto con Avola (il cui racconto dello stesso accaduto, per come si dirà analiticamente appresso, è totalmente diverso ed esclude financo la presenza dello stesso Grancagnolo nel contesto suddetto oltre che del Tuccio) ed in tale incombente Avola ebbe ad inchiodare Grancagnolo, mettendolo con le spalle al muro in ordine al racconto che questi aveva fatto dell’accaduto (per come si dirà) ed assumendo espressamente che il Grancagnolo quella sera al Motel Agip non c’era stato e che quanto rivelato gli sarebbe stato riferito da Piero Puglisi.
Tra le altre cose Avola contestò chiaramente al Grancagnolo che quella sera Tuccio non era stato affatto presente e di ciò si dirà in seguito allorché sarà analizzato se i due racconti di Avola e di Grancagnolo possono essere ritenuti convergenti, riscontrandosi reciprocamente, per come è stato ritenuto dal primo giudice.
Ebbene il profilo che invece in questa sede si intende ora evidenziare è altro ed è interno al dictum di Grancagnolo.
Questi, in sede di confronto con Avola, ha introdotto una novità in assoluto, che è relativa alla posizione di Tuccio ed è di per se stessa fortemente sospetta, perché sintomatica di un maldestro tentativo di avvicinamento al dictum di Avola, ma da quest’ultimo non recepito affatto.
NUOVI PARTICOLARI
Grancagnolo in sede di confronto ha detto infatti che Tuccio era presente al Motel, ma ha al contempo specificato che il Tuccio “non che era presente all’omicidio, attenzione”; egli poi ha aggiunto che Tuccio era lì con il suo Fiorino bianco e che, quando il commando tra le ore 19 e le ore 20, si mosse verso la circumvallazione, partirono non più due macchine ma tre (le due di cui aveva parlato prima, più il Fiorino guidato da Tuccio) oltre quella dello stesso Grancagnolo; per il collaborante quindi Tuccio partì dal Motel assieme agli altri aggiungendo: “poi non so se Tuccio se ne è andato con loro o ha cambiato strada”.
In sostanza in sede di confronto è stata introdotta da Grancagnolo la novità concernente la presenza del Fiorino di Tuccio e trattasi già di per se stessa di circostanza sospetta (oltre che strumentale per come in seguito si dirà), perché nessuna prova è in atti che Tuccio (ovvero la sua azienda) fosse stato all’epoca proprietario di un Fiorino bianco, mentre è in atti la prova che la ditta di pertinenza del Tuccio ebbe ad acquistare un Fiorino solo il 10.1.1989.
Ma soprattutto preme alla Corte evidenziare che è stata proclamata per ben due volte da Grancagnolo una sorta discolpa di Tuccio, che è sicuramente molto strana ed al contempo sintomatica dei limiti propri della propalazione di Grancagnolo, perché, se il collaborante ha inteso riferirsi al fatto che egli, avendo lasciato la circumvallazione in direzione di Nicolosi al primo bivio all’altezza della concessionaria Alfa Romeo, non era in grado di sapere se il Tuccio poi ha preso parte effettivamente all’omicidio, avrebbe dovuto proclamare la medesima discolpa per tutti i soggetti dallo stesso collaborante menzionati (che si trovavano nella stessa identica situazione agli occhi di Grancagnolo, che ha lasciato per la strada il corteo delle tre macchine), mentre, se il collaborante ha in realtà inteso tirare fuori ed estromettere il Tuccio dal novero di coloro i quali uccisero Fava (per come sembrerebbe dal tenore letterale della dichiarazione), si sarebbe trattato di un palese tentativo di avvicinamento al dictum di Avola (per il quale Tuccio era del tutto assente), rispetto al quale era strumentale l’inserimento del Fiorino che consentiva al Tuccio di defilarsi rispetto alle due macchine con a bordo i killers.
Insomma vi è stata da parte di Grancagnolo, in sede di confronto con Avola, una difesa di ufficio, spontanea ed accalorata, della posizione di Tuccio del quale è stata proclamata la estraneità, che, se non estesa alla posizione degli altri soggetti chiamati in reità da Grancagnolo, non ha fondamento alcuno sulla base dei fatti così come sono stati allegati dal collaborante, i quali erano tali da coinvolgere (rectius: interessare ovvero meramente riguardare) Tuccio nella stessa identica misura degli altri.
Ma allora è evidente che Grancagnolo ha inteso avvicinarsi in sede di confronto con Avola alla posizione di quest’ultimo, il quale è stato da parte sua irremovibile nella sua prospettazione dei fatti, per cui Tuccio quella sera non si vide affatto al Motel Agip, ove non si vide affatto pure Grancagnolo (per come si dirà).
DICHIARAZIONI SOSPETTE
È d’uopo a questo punto analizzare la logica interna della dichiarazione di Grancagnolo ed anche su questo versante insorgono alla Corte gravi perplessità.
Innanzi tutto appare già strano che Pulvirenti e Puglisi abbiano potuto dare al Grancagnolo l’ordine di recarsi al Motel per mettersi a disposizione di D’Agata e “gli altri”, senza che in quel contesto i committenti avessero minimamente reso edotto Grancagnolo dell’affare per cui questi doveva mettersi a disposizione: non si capisce la logicità di un ordine siffatto, che sarebbe stato assolutamente indeterminato sia con riferimento all’oggetto sia con riferimento alla indicazione degli stessi soggetti nei confronti dei quali Grancagnolo avrebbe dovuto mettersi a disposizione.
Sorgono a questo punto spontanee le domande: ma che cosa avrebbe dovuto fare Grancagnolo al Motel Agip secondo i committenti Pulvirenti e Puglisi? Partecipare ad un omicidio, ad una rapina, ad una estorsione, ad un sequestro, ad un incendio ovvero semplicemente prendere parte ad una riunione mafiosa? E Grancagnolo accettò l’ordine dei suoi commitenti senza chiedere minimamente di cosa si sarebbe trattato? E come doveva recarsi Grancagnolo al Motel armato o no? E non avrebbe potuto Grancagnolo sospettare che dietro quel misterioso incarico si celasse un tranello mortale nei suoi confronti, egli che sotto questo profilo aveva le “fisse” e soffriva di un vera e propria mania di persecuzione? Ma, poi, il sospetto suddetto non diventava angosciante per Grancagnolo per effetto della ignoranza assoluta dei soggetti nei cui confronti avrebbe dovuto mettersi a disposizione, senza peraltro avere chiesto di essere per lo meno accompagnato da qualcuno (perché se era vero che egli doveva andare a Motel Agip, che era il luogo tradizionale di ritrovo degli affiliati che gravitavano nella zona di Ognina, era altrettanto vero che Grancagnolo non era uno di costoro ed egli doveva sapere, o per lo meno sospettare, per esempio di non essere molto amato e neppure benvoluto da Avola, per come è emerso chiaramente dal confronto tra i due)? E perché di tutto ciò, che certamente era avvolto da un alone di mistero, non ha parlato affatto con il cognato e confessore Samperi, del quale conosceva peraltro la vicinanza con Puglisi, per cui avrebbe potuto indirettamente cercare di conoscere il motivo di quel misterioso incarico?
Sono tutti interrogativi che non trovano una agevole risposta nel processo.
Ma c’è di più.
Grancagnolo arrivò al Motel e si mise a disposizione “in incertam destinationem” e Tuccio ed Ercolano gli dissero che non avevano bisogno per quella sera di lui e lo ringraziarono sentitamente.
Una logica appena media vuole che, se fosse stato vero che Ercolano e compagni al Motel Agip si stessero preparando per andare ad eseguire l’omicidio di Giuseppe Fava (la cui eclatanza era certo nota a costoro), essi avrebbero dovuto immediatamente invitare Grancagnolo cortesemente a togliere il disturbo e ad allontanarsi da quel posto.
Ed, infatti, ciò era imposto con forza dalla esigenza di assicurare una certa riservatezza necessaria in quel momento al fine di evitare che del piano omicidiario in itinere fosse venuto a conoscenza un soggetto che nell’ambito della associazione era totalmente squalificato e disistimato da tutti, oltre che privo di un qualunque appoggio politico, ed anche al fine di favorire la concentrazione del commando in vista di un durissimo impegno: osserva la Corte che nessun senso ha avuto, per un consesso di uomini di onore in procinto di partire per andare ad uccidere Giuseppe Fava, stare al Motel Agip per fare salotto per circa un’ora e mezzo con Carmelo Grancagnolo, prendendo financo il caffè al bar, quando proprio la circostanza relativa all’avvento di Grancagnolo quella sera al Motel Agip avrebbe dovuto lasciare fortemente perplessi ed al contempo preoccupati Ercolano e compagni, essendosi in sostanza Grancagnolo (che, ripetesi, era nessuno dal punto di vista associativo) autocandidato a partecipare al più eclatante degli omicidi compiuti dalla famiglia catanese di cosa nostra, senza che ciò fosse stato minimamente richiesto ovvero sollecitato da alcuno dei presenti.
Ma il profilo della incredibilità logica non è finito qui nel dictum di Grancagnolo.
Egli ha affermato che, mentre tutti i presenti si trovavano all’interno del locale bar annesso al distributore di benzina gestito da D’Agata e sito vicino al Motel Agip, Avola, su richiesta di Enzo Santapaola, sarebbe uscito per andare a prelevare nelle vicinanze due pistole avvolte in una pezza bianca ed, una volta ritornato all’interno del bar (che è notoriamente a Catania un vero e proprio porto di mare, con un flusso continuo ed ininterrotto di avventori) intorno alle ore 19,30 circa del 5 gennaio (e quindi ancora in un periodo abbastanza vicino alle festività di inizio anno), lo stesso Avola avrebbe aperto la pezza e dispiegato le pistole su un banco frigorifero ubicato all’interno del locale bar, per fare bella mostra di se stesse dinanzi a D’Agata e compagni (tra cui ovviamente anche Grancagnolo) e soprattutto, ma incredibilmente, dinanzi a tutti gli avventori del bar, con il rischio molto concreto che per esempio un poliziotto in libera uscita con la fidanzata fosse entrato dentro il bar per sorbire un buon caffè ovvero per comprare le sigarette ed al contempo avesse notato, vicino alle Marlboro ed alle Muratti Ambassador, una pistola calibro 9 ed una pistola calibro 7,65 brillanti e lucenti, in bella mostra di sé, esposte su una bellissima pezza bianca!
UNA RICOSTRUZIONE INATTENDIBILE
È un racconto che ha semplicemente dell’incredibile, che connota di palese inattendibilità il dictum di Grancagnolo anzicchè accreditarlo (per come invece è stato detto), perché sarebbe bastato un incidente di percorso, così banale ma altrettanto probabile, per fare naufragare ad un consesso autorevolissimo, composto da ben cinque uomini di onore che costituivano il gotha della famiglia catanese di cosa nostra, il più eclatante degli omicidi commessi dalla famiglia suddetta e per mettere tutti costoro praticamente alla berlina degli affiliati alla consorteria, non appena fosse trapelata la notizia dell’eventuale arresto per la detenzione delle due pistole esposte, che sarebbe scattato in danno dei soggetti presenti, oltre che di D’Agata quale gestore del bar.
E tale, peraltro, si badi bene, è stata la sensazione avuta non solo e non semplicemente dalla Corte, perché anche Avola Maurizio, cui ovviamente non fa difetto né l’arguzia né l’intelligenza e che ovviamente tale circostanza ha ferocemente (!) negato (anche perché indubbiamente egli, quale esibitore delle pistole nel contesto incredibile suddetto, avrebbe fatto una figura certo mediocre sul piano della propria reputazione criminale), in sede di confronto ha letteralmente irriso e devastato Grancagnolo, così dicendo a quest’ultimo a riprova di quanto dallo stesso Avola fermamente sostenuto, e cioè che Grancagnolo quella sera al Motel non vi era stato affatto e che egli riferiva notizie ricevute da Puglisi e quindi storpiate nel loro passaggio da una fonte all’altra: “non possono uscire le armi là, dottore, è impossibile perché è un porto di mare, entrano carabinieri, poliziotti, di tutto entra e lui lo sa, è impossibile uscire un’arma là…..e allora come le hai visto tu, le potevano vedere tutti…..là arrivano le guardie ogni due minuti, tu lo sai, ma quale frigorifero, Carmeleddo, finiscila per davvero, frigorifero, Marcello (D’Agata), Aldo (Ercolano), mi facevano prendere le pistole e me le facevano mettere là sopra va, ma che stiamo scherzando, dentro il bar di Marcello non lo sai quanto era camurriusu (alias: pignolo)”.
In claris non fit interpretatio!
Ed, infine, preme alla Corte evidenziare un dato che appare decisivo e che attiene alla esatta determinazione della valenza accusatoria della dichiarazione di Grancagnolo a carico di Ercolano, D’Agata, Santapaola Vincenzo e Giammuso quali presunti esecutori materiali dell’omicidio di Giuseppe Fava.
Ebbene, prescindendo per mera ipotesi di lavoro da tutto quanto è stato finora detto in ordine alla attendibilità intrinseca della dichiarazione di Grancagnolo (dal quale in verità non può prescindersi affatto), osserva la Corte che in realtà, a ben vedere, dalla dichiarazione di Grancagnolo (ove la stessa fosse in ipotesi emendabile di tutti i rilievi suesposti relativi al profilo di attendibilità intrinseca) nessun elemento concreto è desumibile per potere inferire con certezza l’affermazione (in ordine alla quale poi eventualmente ricercare il riscontro esterno) che furono costoro i soggetti che si recarono il 5.1.1984 dinanzi al Teatro Stabile, dove alle ore 22 circa essi uccisero Giuseppe Fava.
Ed, infatti, dal racconto di Grancagnolo emerge solamente che il commando composto da Ercolano, D’Agata, Avola, Enzo Santapaola, Giammuso e Tuccio, armato con le due pistole suddette, intorno alle ore 19/19,30/20 partì dal Motel Agip di Ognina a bordo di una Renault 18, di un’altra auto non meglio identificata e del Fiorino di Tuccio in direzione di Catania, imboccando la circumvallazione in direzione del Tondo Gioeni; Grancagnolo intuì ex sé che il commando era diretto a commettere un omicidio e si mosse pure lui in macchina seguendo il corteo delle tre auto, ma giunto praticamente alla prima uscita della circumvallazione all’altezza della concessionaria Alfa Romeo in prossimità del Villaggio Dusmet, ebbe a girare a destra per dirigersi verso casa sua a Nicolosi, mentre il corteo proseguì la sua strada lungo la circumvallazione; null’altro è a conoscenza diretta ovvero anche de relato di Grancagnolo, il quale l’indomani mattina apprese dai giornali della uccisione di Fava e collegò il fatto con quanto aveva visto la sera precedente; Grancagnolo si recò quindi nella campagna di Alfio Giamma a Paternò ed ivi ebbe ad incontrare Pulvirenti Giuseppe e Piero Puglisi, ai quali fece un resoconto di quello che la sera precedente aveva fatto su commissione degli stessi e disse loro: “u ficiru stautru purpettu”; né il Pulvirenti né Puglisi risposero ma entrambi si misero a ridere, di fatto annuendo a quanto egli aveva detto.
Questo è il racconto di Grancagnolo ed a questo punto sorge spontaneamente e drammaticamente alla Corte la necessità di porsi un angoscioso interrogativo: ma chi lo ha detto e dove è scritto nel dictum di Grancagnolo che i soggetti suindicati, dopo che Grancagnolo ebbe a lasciare la sede stradale della circumvallazione in direzione di Nicolosi, in un’ora che è collocabile intorno alle ore 20,15 circa, abbiano proseguito tutti, ad eccezione di Tuccio Salvatore, per un lungo tragitto lungo la circonvallazione di Catania, per poi immettersi (dopo una lunga peregrinazione attraverso Gravina e Sant’Agata Li Battiati, dove sarebbe stato intercettato il Fava) all’interno della città, fino ad arrivare in via dello Stadio dinanzi al Teatro Stabile ed ivi tutti (sempre, si badi bene, con la esclusione di Tuccio) abbiano in concorso tra loro ucciso Giuseppe Fava intorno alla ore 22?
Quel “buco nero” che lascia dubbi sugli autori materiali del delitto. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 7 gennaio 2022.
Nel racconto di Grancagnolo c’è un enorme “buco nero” che parte dalla concessionaria Alfa Romeo ubicata sulla circonvallazione di Catania e finisce in via della Stadio davanti al Teatro Stabile e trattasi di un buco enorme lungo diversi chilometri.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Così come è puntualmente avvenuto per il rilievo relativo alla inverosimiglianza della circostanza, riferita da Grancagnolo, relativa alle pistole esposte da Avola sopra il banco frigorifero all’interno del bar annesso al rifornimento Agip, l’interrogativo suindicato prima della Corte se lo è posto lo stesso Avola Maurizio, in seno al confronto con Grancagnolo del 7.12.1994.
[…] Nella specie il tanto vituperato Avola, pur avendo espressamente appreso dalla viva voce del pm quale era stata la dichiarazione resa da Grancagnolo (che peraltro conosceva perfettamente, perché riportata in seno alla ordinanza di custodia cautelare notificatagli in carcere il 17.12.1993, con la quale gli era stato contestato il reato associativo, e perchè depositata presso il Tribunale della Libertà di Catania adito da Avola in sede di riesame), ad appena nove mesi dall’inizio della collaborazione non solo si è guardato bene dall’assecondare e dall’adeguarsi al dictum di Grancagnolo, ma ha sottoposto il racconto di quest’ultimo ad una analisi critica, tanto spietata quanto logica e puntuale, quale ci si sarebbe aspettati che fosse provenuta solo dai banchi della difesa più accanita e non pure da colui che è stato definito come il maestro degli adeguamenti e degli infingimenti più sofisticati ed acrobatici.
Ebbene Avola Maurizio il 7.12.1994 ha detto a Grancagnolo, che insisteva nella sua rappresentazione degli eventi relativi a quella sera del 5.1.1984 al Motel: “dove c’eri tu ?” ed, avendo Grancagnolo risposto: “non nell’omicidio attenzione, quando vi ho visto partire, Maurizio”, Avola in maniera veramente brillante, a parere della Corte, ebbe a replicare così: “ma potevamo andare anche a prenderci un caffè….tu lo sai….che ne sai dove siamo andati?”.
[…] Orbene non c’è dubbio che Grancagnolo ha visto solo partire dal Motel Agip di Ognina sei persone armate con tre macchine in un orario che è non è incompatibile con quello della uccisione di Fava, ma null’altro ha visto e neanche detto per scienza diretta o anche de relato in ordine a quanto i sei personaggi, che aveva visto partire, avessero fatto appena un secondo dopo avere superato la concessionaria Alfa Romeo sita sulla circonvallazione e comunque più in genere nulla ha saputo dire sulla fase strettamente esecutiva del delitto, e cioè con riferimento alla uccisione di Fava ed ai momenti immediatamente precedenti alla stessa.
E’ proprio il caso di dire che nella propalazione di Grancagnolo è ravvisabile un enorme “buco nero” che parte dalla concessionaria Alfa Romeo ubicata sulla circonvallazione di Catania e finisce in via della Stadio davanti al Teatro Stabile e trattasi di un buco enorme lungo diversi chilometri.
Va a questo punto precisato, in punto di diritto, che la concreta e reale incidenza di una determinata dichiarazione sul piano della accusa, per di più individualizzante, nei confronti dell’imputato deve essere trovata ed analizzata esclusivamente all’interno della stessa dichiarazione, la quale in questa fase deve essere considerata assolutamente autarchica e non può essere vicariata ovvero anche solo supportata da altri elementi esterni, con i quali solamente in un secondo momento (e, cioè, all’esito della analisi relativa alla attendibilità intrinseca della stessa dichiarazione, che si compie e si esaurisce all’interno dello stesso dichiarato) potrà essere posta a confronto per accertare se sussiste o meno una ipotesi di convergenza del molteplice rilevante ai sensi dell’art. 192 comma terzo cpp.
DUBBI E INTERROGATIVI SENZA RISPOSTA
Ora, ciò premesso, è bene porsi un interrogativo drammatico: chi può escludere, sulla base della sola propalazione di Grancagnolo, che il commando dopo avere superato la concessionaria Alfa Romeo (e cioè in un momento successivo a quello in cui Grancagnolo ebbe a separarsi dal corteo di macchine) nella sua composizione soggettiva originaria di sei persone si sia progressivamente ovvero anche istantaneamente frazionato e disciolto, nel senso che (per esempio) due delle tre macchine abbiano preso una strada ed una direzione lontane mille miglia da via dello Stadio, lasciando che ivi si fosse recato solo Avola (il quale è stato ritenuto responsabile in ordine all’omicidio di Fava con sentenza del gip presso il Tribunale di Catania del 16.1.1996 e condannato alla pena di anni sei mesi tre di reclusione così come determinata nel giudizio di secondo grado dalla sentenza della Corte di Assise di Appello del 5.3.1997 passata in cosa giudicata) ed, analogamente, è bene interrogarsi anche per accertare (nel caso in cui - in via di mera ipotesi - il commando non si fosse disciolto integralmente ed Avola fosse stato accompagnato in via dello Stadio da alcuno ovvero da alcuni dei componenti del commando nella sua composizione originaria partita dal Motel Agip) quale indicazione è lecito inferire dalla dichiarazione di Grancagnolo al fine di potere affermare che Avola è stato accompagnato ed aiutato in via dello Stadio, per esempio, da Tizio e Caio mentre Sempronio Filano e Martino sono andati a prendersi il caffè di cui ha parlato Avola ovvero in pizzeria ovvero ancora in discoteca ovvero ancora più semplicemente a casa per dormire.
Sono interrogativi certamente drammatici a cui la dichiarazione di Grancagnolo non consente affatto di rispondere e paradossalmente è lo stesso interrogativo che ha indotto il medesimo Grancagnolo in sede di confronto del 7.12.1994 ad estromettere il Tuccio dai soggetti indicati siccome “presenti all’omicidio”, solo che sarebbe stato il caso di chiedere a Grancagnolo un chiarimento in ordine alla motivazione che lo ha indotto, per così dire, a “stralciare” la posizione di Tuccio da quella degli altri componenti il commando nella sua composizione originaria.
E se gli interrogativi suddetti rimangono purtroppo desolatamente senza risposta alcuna, devesi necessariamente concludere, a parere della Corte, che la indicazione accusatoria riveniente sul piano individualizzante dalla dichiarazione di Grancagnolo con riferimento alla fase esecutiva dell’omicidio di Fava è, non evanescente, ma assolutamente pari a zero, e cioè del tutto nulla, mancando un riferimento anche solo di carattere minimale ad un qualunque intervento materialmente spiegato dal singolo imputato, che possa consentire al giudice di ritenere che questo singolo imputato (e non altro ovvero altri ancora) abbia tenuto anche solo un misero segmento di condotta di partecipazione nell’omicidio di Giuseppe Fava, segmento che possa connotarsi siccome dotato di una efficacia causale rispetto all’assassinio di Fava avvenuto in via dello Stadio alle ore 22 circa.
Ora reputa la Corte che in nessun caso, ma proprio in nessun caso, anche a volere aderire alla più accanita delle logiche accusatorie, il segmento della condotta di partecipazione suindicato possa essere ravvisato in un comportamento che sia consistito, per ciascuno degli imputati chiamati in reità da Grancagnolo, nell’essere partito armato di una pistola cal. 7,65 (uguale a quella dalla quale furono esplosi i colpi mortali) dal Motel Agip in un orario non incompatibile con quello della uccisione di Fava e nell’avere percorso la circumvallazione di Catania fino alla concessionaria Alfa Romeo, quando nulla ha detto Grancagnolo di ciò che è avvenuto dopo nel c.d. “buco nero” di cui si è detto.
Ed infine osserva la Corte che anche il tipo di scandaglio effettuato dal pm in sede di confronto avvenuto il 7.12.1994 tra Avola e Grancagnolo nella fase delle indagini preliminari appaia emblematico della considerazione svolta, per cui il racconto di Grancagnolo in ordine alla partenza del commando dal Motel Agip si presta a qualunque sviluppo possibile ed immaginabile (ferma restando, ovviamente, la considerazione che pistola cal. 7,65 mostrata a tutti nel bar del Motel Agip non era certo l’unica circolante a Catania in quel periodo).
LE DOMANDE DEL PM
Ebbene in quella sede (di elevatissimo profilo investigativo) lo stesso pm (mostrando di essere indubbiamente alla ricerca della verità sostanziale), alla luce anche delle divergenze profonde emerse, con riferimento allo stesso evento, tra il dictum di Grancagnolo e quello di Avola, ha specificamente invitato Grancagnolo a riflettere su una ipotesi (in cui è, pregevolmente, compendiata tutta la tematica svolta in questa sede) che così è stata formulata, a pag. 17 del verbale, dallo stesso pm: «potrebbe essere accaduto che lei si trovasse al rifornimento Agip allorché sia partita un’altra spedizione per andare a compiere un altro omicidio. Come fa lei ad essere certo che si sia trattato proprio dell’omicidio Fava?», per poi chiedere al collaborante ancora più espressamente: «ma in effetti è sicuro che quella sera non furono commessi altri omicidi?».
Anche il rappresentante della Pubblica Accusa ebbe il dubbio, avvertito subito in sede di confronto e lealmente esternato al Grancagnolo, che questi potesse essersi trovato quella sera al Motel Agip allorché partì un commando destinato a commettere un omicidio diverso da quello di Fava.
Non c’è dubbio alcuno in conclusione: il dictum di Grancagnolo sulla partenza del commando dal Motel, pur volendo prescindere da tutte le ombre in tema di attendibilità intrinseca di cui si è fatto cenno in precedenza, più che contenere una vera e propria indicazione accusatoria, per di più individualizzante, nei confronti degli imputati in ordine alla esecuzione dell’omicidio di Giuseppe Fava avvenuto in via dello Stadio alle ore 22 circa, si appalesa, per usare una metafora, come un vestito buono per ogni stagione e per qualsiasi circostanza, e fuori di metafora, come il segmento iniziale di una spedizione omicidiaria della quale però si sconosce assolutamente lo sviluppo successivo ed ovviamente l’esito.
Avola si autoaccusa dell’omicidio e racconta del brindisi dopo l’agguato. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it l’8 gennaio 2022.
Maurizio Avola ha dichiarato che gli esecutori materiali erano stati lui stesso, Aldo Ercolano, Marcello D’Agata, Enzo Santapaola e Franco Giammuso. La sera del delitto il gruppo era arrivato vicinissimo alla redazione de “I Siciliani” per eseguire un sopralluogo. Avendo visto Fava uscire da solo, prendere l’auto e dirigersi verso Catania, con le loro macchine lo avevano seguito
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Avola Maurizio ha dichiarato che gli esecutori materiali erano stati lui stesso, Aldo Ercolano, Marcello D’Agata, Enzo Santapaola e Franco Giammuso.
Nel 1982-1983, all’interno dell’organizzazione, era maturato il progetto di uccidere il Fava e si era incominciata anche un’attività di individuazione del giornalista e di acquisizione di notizie circa le sue abitudini, il luogo di abitazione, la sua attività lavorativa, i movimenti.
Le prime notizie sul Fava le aveva avute Marcello d’Agata, tramite un suo amico di Faenza, tale Claudio Balsamo, del cui apporto si avvaleva per commettere rapine a Bologna. Era stato proprio Claudio Balsamo che aveva informato D’Agata della presenza del Fava al palazzo di Giustizia di Catania e lo stesso D’Agata insieme a Claudio Balsamo aveva individuato il giornalista.
Successivamente D’Agata aveva rivisto il Fava al Motel Agip. Il collaboratore ha fornito puntuali dichiarazioni in ordine a Claudio Balsamo e, pur mostrando di non ricordarne esattamente il cognome - indicato come “Balsamo”- ha specificato che abitava vicino al Selene, nello stesso immobile dove abitava, all’epoca, il gioielliere Avolio e che, prima di trasferirsi in tale immobile, aveva abitato in un appartamento sito dopo la Costa Azzurra. Ha descritto il “Balsamo” indicandolo come soggetto un pò più alto di lui, capelli lunghi, sfrontato, brizzolato, bianco. Ha aggiunto che era cognato del titolare di un esercizio di vendita di ceramiche e arredamenti per bagni, la ditta Eldford sito in via Asiago, e ha, anche, precisato ulteriormente che era a conoscenza di questa particolare attività del cognato del Balsamo, perchè, nel 1983, questi aveva chiesto al D’Agata di collocare un ordigno esplosivo alla Eldford, in modo che, poi, sarebbe stato lo stesso Claudio “a sistemare l’estorsione”.
Sempre il Claudio aveva fatto da basista per una rapina a Bologna, organizzata da Avola. Il Claudio, infatti, che era originario di Faenza, aveva parenti a Bologna. Avola ha aggiunto che, prima della consumazione dell’omicidio, c’erano stati altri tentativi di uccidere il Fava e che lui stesso vi aveva preso parte insieme al D’Agata. Una prima puntata era stata effettuata alla fine del 1983, nel Bar “La Villetta”, sito nella piazza centrale di Sant’Agata Li Battiati, vicino alla redazione de “I Siciliani”. In quell’occasione, l’Avola si trovava insieme a Marcello D’Agata, ma non si era fatto niente, perchè, nel momento in cui Avola stava entrando all’interno del Bar, aveva visto uscire un carabiniere. Una seconda volta, il solo Avola aveva visto il giornalista mentre si trovava al Ristorante “Il Palmento” sito sul lungomare di Catania.
Avola ha puntualmente descritto il locale, dichiarando: “c’erano delle scale esterne, sono salito, c’era la sala, c’era la bocca diciamo della pizzeria ed entrando il Fava era seduto a capotavola sulla destra, che mi dava le spalle entrando dalla porta io. Ho girato verso la pizzeria e l’ho visto di fronte”. In quella circostanza, si era accorto della presenza del Fava perché aveva visto la sua auto posteggiata di fronte al ristorante, accorgendosi anche che dentro la macchina del giornalista c’era il giornale dei “I Siciliani”. Era andato ad informare Marcello D’Agata al Motel e, poi, era ritornato sul posto con una pistola cal. 38, ma l’omicidio non era stato commesso perché c’era troppa confusione e poteva essere rischioso. Il D’Agata era rimasto ad aspettarlo in una traversina nei pressi del locale.
In sede di controesame, ha chiarito di avere visto l’auto del Fava nel posteggio del ristorante, percorrendo la strada che è sopraelevata rispetto al locale. In quell’occasione, la certezza che si trattasse della macchina del Fava era derivata anche dal ricordo del primo numero della targa che era il 39. Seduta accanto al Fava, all’interno del ristorante ed esattamente alla destra del giornalista, c’era una donna, forse sua moglie. Dopo il fallimento dei primi tentativi, finalmente si era incominciato ad organizzare l’operazione definitiva.
Avola era in possesso di una pistola cal. 7,65, rubata da tale Fresta Salvatore, un ragazzo vicino al gruppo di Ognina, poi, morto per malattia. È stato contestato all’Avola che, nelle dichiarazioni rese il 10/3/1993, aveva indicato tale Di Giacomo come la persona che gli aveva consegnato l’arma e sul punto il collaboratore di giustizia ha precisato che aveva parlato del Di Giacomo per non coinvolgere il Fresta, malato di Aids in fase terminale e, poi, infatti, deceduto. Il D’Agata era in possesso di un silenziatore artigianale che già era stato utilizzato per l’omicidio di Andrea Finocchiaro, verificatosi tre mesi prima dell’omicidio Fava.
LA RICOSTRUZIONE DELL’OMICIDIO
Si trattava di un silenziatore artigianale che D’Agata teneva custodito presso un garage di sua pertinenza sito in via Feudo Grande ad Ognina (di proprietà di tale Macaluso, amico del D’Agata). Avola si era, quindi, recato da un meccanico, tale Sgroi, titolare di un’officina sita in via Messina, per portargli la canna della pistola e il silenziatore artigianale e lo Sgroi aveva provveduto alla filettatura della canna; dopo qualche giorno, Avola insieme al D’Agata, si era recato dallo Sgroi per ritirare la canna. In ordine allo Sgroi, Avola ha specificato che lo conosceva da tempo, perché si trattava del meccanico del quartiere e che, comunque, si trattava di persona amica del D’Agata, il quale spesso si rivolgeva a lui per fare riparare i motorini delle proprie figlie.
Lo Sgroi, anzi, aveva già predisposto la filettatura di un’altra canna ma Avola non ha ricordato in quale occasione. Avola, in compagnia del D’Agata, si era, quindi, recato a Cannizzaro, dove si era verificata la funzionalità dell’arma, esplodendo due colpi contro un cartello autostradale. Era pomeriggio ma già si era fatto buio. Nonostante la predisposizione del silenziatore, l’arma si era rivelata rumorosa, sicché, per ovviare a quest’inconveniente, lo stesso Avola e il D’Agata avevano messo, all’interno del silenziatore, un po’ di ovatta e qualche gommino.
Avola, nel corso dell’esame, ha puntualmente descritto le modalità di fabbricazione di un silenziatore artigianale e, poi, proseguendo nel suo racconto, ha descritto le fasi salienti dell’omicidio. Ha dichiarato che, nel pomeriggio (prima serata), si era incontrato con Aldo Ercolano e Santapaola Vincenzo presso il rifornimento Agip e, all’interno dello scantinato, Ercolano aveva effettuato una prova di sparo esplodendo due colpi contro il muro.
Dopo la prova di sparo anzi erano rimasti due buchi nel muro, tanto che lo stesso Avola, anni dopo, esattamente nel 1990, aveva consigliato al D’Agata di far ripulire la parete per eliminare eventuali tracce, anche perché, essendo il periodo in cui erano iniziate alcune collaborazioni con l’autorità giudiziaria, si era creato, in ambito associativo, un clima di tensione.
D’Agata aveva fatto ripulire il muro da tale Cannavò, un amico dello stesso D’Agata, con il quale anzi era in rapporti societari, ma aveva informato Avola che tracce di proiettili non ne erano state rinvenute.
Quanto ai movimenti della serata del 5/1/1984, immediatamente precedenti l’uccisione del Fava, Avola ha ricordato che, dopo l’effettuazione della prova di sparo, al Motel era sopraggiunto Giammuso, che ancora non era a conoscenza del piano, ma che, informato dal D’Agata, aveva messo immediatamente a sua disposizione la sua autovettura, una Renault 18 bianca.
L’altra autovettura utilizzata dal gruppo omicidiario era la Fiat 131 del D’Agata. Il gruppo era partito dal rifornimento verso le ore 20.00.
Avola, a specifica contestazione del Pm, ha, poi, precisato che la partenza era avvenuta intorno alle ore 19.00-20.00. Circa la composizione degli equipaggi a bordo delle due autovetture, Avola ha specificato che, sulla Fiat 131, avevano preso posto lui stesso e il D’Agata, mentre sulla Renault 18 di Giammuso, il quale era al posto di guida, Santapaola Vincenzo e Aldo Ercolano. Durante il tragitto, Ercolano aveva proposto una sosta presso la salumeria di sua zia, Piera Santapaola, sposata con Franco Filloramo. Il gruppo si era fermato presso la salumeria per circa un quarto d’ora per, poi, spostarsi nell’appartamento dei Filloramo, sito in una traversa distante circa un chilometro dalla salumeria e, comunque, raggiungibile a piedi in cinque minuti.
Nella casa dei Filloramo, Aldo Ercolano aveva provveduto alla sostituzione dei proiettili. Avola ha, anzi, specificato di avere, poi, saputo, dopo la commissione dell’omicidio, che la sig.ra Santapaola si era lamentata con il nipote perché quella sera c’era stato troppo movimento. La zia di Aldo Ercolano aveva manifestato soprattutto preoccupazione per il fatto che persone della zona avessero potuto vedere il gruppo sotto casa sua e potessero essersi insospettite per il movimento di macchine che c’era stato.
COSÌ I SICARI INSEGUIRONO FAVA
Proseguendo nel suo racconto, Avola ha aggiunto che il gruppo era arrivato vicinissimo alla redazione de “I Siciliani” intorno alle ore 21.00. D’Agata e Avola erano scesi dalla macchina e si erano messi in una traversa, nelle vicinanze di una pizzeria, mentre gli altri erano rimasti in macchina. Avola, dopo avere precisato di essere già stato, prima dell’omicidio presso la redazione de “I Siciliani”, allo scopo di eseguire un sopralluogo, ha così descritto l’esterno dell’edificio: «c’è una scivola e....c’è un cortile, uno spiazzo e poi ci sono tipo due banchine, una più bassa, che fa parte della strada e una più alta, che va verso “I Siciliani”, tipo uno spiazzo, dove si posteggiano le macchine la sera diciamo quelli che abitano nello stabile».
Avevano visto il Fava uscire da solo, prendere l’auto, posteggiata lungo una scivola all’interno del cortile della redazione e dirigersi verso Catania e, con le loro macchine lo avevano seguito. Fava aveva, quindi, posteggiato l’auto di fronte al teatro sulla sinistra con due ruote sul marciapiedi. L’autovettura, a bordo della quale si trovavano D’Agata e Avola era stata posteggiata un paio di metri prima del teatro, dopo la Renault di Fava, sulla destra e in doppia fila. Avola ha, poi, fornito ulteriori indicazioni circa i movimenti successivi del gruppo di fuoco.
In particolare, ha così dichiarato: «Noi altri (Avola e il D’Agata) ci siamo messi un po’ più avanti, quasi vicino il teatro e, invece, Giammuso posteggia la macchina nella traversina sulla destra (a circa 10/15 m. di distanza), diciamo che costeggia lo stabile del teatro e da lì vedo sbucare Aldo e svoltandoci si vede che lui sale sulla panchina ed esplode il primo colpo, si sente più forte perché manda in frantumi il vetro e poi gli altri molto proprio silenziosi, che neanche si capiva che erano colpi di pistola. Sempre Aldo se ne torna indietro, frazione di secondi è stata, noialtri spostiamo con la macchina e lui con la Renault 18 con Giammuso verso un’altra strada».
In sede di controesame, Avola ha chiarito che Ercolano gli aveva riferito di avere esploso esattamente cinque colpi e ha confermato che aveva udito il primo colpo più forte e gli altri più attutiti.
Da Aldo Ercolano o da Marcello D’Agata aveva saputo, la stessa sera dell’omicidio o l’indomani, che Fava, prima di essere ucciso, stava per estrarre le chiavi dal cruscotto.
Nella circostanza Ercolano era vestito con un giubbotto verde, un pantalone verde scuro, una camicia chiara e una cravatta sul verde, lo stesso abbigliamento con cui era ritratto in una foto esposta nella casa di sua madre, in via dei Villini a mare.
Prima dell’omicidio, Avola aveva seguito i movimenti di Ercolano e, voltandosi, lo aveva visto passare dalla strada e dirigersi verso la macchina del Fava.
DOPO L’AGGUATO
Dopo l’agguato, le autovetture si erano divise: l’auto guidata dal Giammuso aveva proseguito la sua marcia lungo la traversina ove era posteggiata, mentre Avola aveva percorso il v.le M. Rapisardi e si era disfatto dei proiettili che deteneva e che erano rimasti nella sua disponibilità dopo il cambio avvenuto in casa del Filloramo; temeva, infatti, un controllo della polizia che, tra l’altro, aveva visto arrivare, quando, una volta consumato l’omicidio, insieme al D’Agata, si era fermato all’incrocio, prima di imboccare il v.le M. Rapisardi.
Dopo l’omicidio, si erano, poi, incontrati in casa del Licciardello, cognato di Mangion, che, in quel periodo, ospitava quest’ultimo durante la sua latitanza. Il Mangion aveva commentato l’omicidio dicendo che “con una fava si erano presi due piccioni, nel senso che avevamo fatto questo favore ai Palermitani e l’altro ai Cavalieri”.
In quella stessa circostanza era stata aperta una bottiglia di champagne per brindare e successivamente il Licciardello si era disfatto della pistola compresa di silenziatore e di tutto, dicendo poi, quand’era ritornato nell’appartamento, che l’aveva buttata in un tombino vicino casa sua. Dopo circa un’ora, i partecipi alla spedizione omicidiaria erano andati via. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Sull’agguato una lunga confessione ma senza riscontri. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 9 gennaio 2022.
Punto per punto, ecco tutte le dichiarazioni di Avola che non hanno portato riscontri. Eppure il suo racconto “originale” sconfessa apertamente ed in maniera insanabile le parole del pentito Grancagnolo, finendo per infliggere una vera e propria picconata all’impianto accusatorio in quello che è l’omicidio più eclatante ricollegato alla famiglia catanese di Cosa Nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Per quanto riguarda il profilo della attendibilità intrinseca della propalazione di Avola osserva, innanzi tutto, la Corte che l’autonomia del dictum di Avola rispetto alle dichiarazioni degli altri collaboranti non può essere minimamente posta in discussione, poiché egli, pur conoscendo espressamente la dichiarazione di Grancagnolo fatta al pm il 20.3.1993 riportata in seno alla ordinanza di custodia cautelare notificatagli in carcere il 17.12.1993 per il reato associativo e peraltro integralmente depositata presso il Tribunale della Libertà di Catania adito da Avola in sede di riesame della misura restrittiva, ha fatto un racconto che, per la gran parte, è assolutamente originale, mentre con riferimento al segmento fattuale rappresentato da Grancagnolo (e cioè l’incontro al Motel Agip e la partenza dei killers) Avola si è posto in un contrasto dirompente con quanto era stato riferito da Grancagnolo, ribadito vibratamente in sede di confronto effettuato il 7.12.1994 a Torino con toni financo irridenti nei confronti di Grancagnolo per come si vedrà dettagliatamente in seguito.
Non c’è alcun dubbio che, se Avola avesse voluto adeguarsi al dictum di Grancagnolo, avrebbe cercato di coniugare il suo racconto con quello di Grancagnolo, anziché sconfessarlo apertamente ed in maniera assolutamente insanabile, finendo per infliggere (anche per via della esclusione della partecipazione di Cortese) una vera e propria picconata all’impianto accusatorio in quello che è l’omicidio più eclatante ricollegato alla famiglia catanese di cosa nostra.
E trattasi di rilievo che è bene memorizzare allorché si discetta della credibilità soggettiva del collaborante Avola, per sgombrare il campo dalla insinuazione, costantemente ribadita dalle difese, per cui egli non avrebbe fatto altro che adeguarsi alle dichiarazioni degli altri collaboranti e secondare le tesi accusatorie.
Per quanto riguarda il profilo della autonomia del dictum di Avola rispetto alla stampa, osserva la Corte come lo stesso Avola abbia ammesso senza riserva alcuna di avere letto il giornale “La Sicilia” del 6.1.1984 (il quale riferiva, oltre che della pioggia che la sera dell’omicidio cadeva su Catania, anche i dati di cronaca relativi all’omicidio avvenuto la sera precedente, ivi comprese le notizie sul killer solitario e sulla pistola cal. 7,65 munita di silenziatore, con la quale erano stati esplosi dal lato sinistro della Renault 5, attraverso il vetro frantumato dello sportello, i cinque colpi che avevano attinto Fava, il quale aveva appena spento il motore e si accingeva a scendere dalla macchina), pur negando espressamente di avere ivi appreso il particolare del silenziatore della pistola cal. 7,65, ma non c’è dubbio che il racconto fatto da Avola è così analitico, preciso, specifico e dettagliato sull’antefatto, sulla fase esecutiva in senso stretto e sul post factum che non può, nella sua interezza, essere fondato esclusivamente sulla lettura di quanto pubblicato sulla stampa: è certamente impossibile che Avola abbia potuto apprendere dal giornale quanto egli ha riferito sui tentativi fatti in precedenza alla Villetta di S. Agata Li Battiati ed al ristorante sito sul lungomare di Catania, sull’appostamento effettuato davanti alla sede de “I Siciliani” in attesa della uscita di Fava, sul fatto che l’auto del Fava aveva quella sera uno degli stop posteriori non funzionanti; sul passaggio dalla salumeria della zia Piera, sul parcheggio della Renault 18 in via dei Cosmi, sul brindisi fatto in casa di Licciardello dove trovavasi Francesco Mangion e sulla espressione da quest’ultimo profferita per cui con la uccisione di Fava si erano presi due piccioni con una fava e quant’altro è stato dal collaborante riferito con dovizia di particolari assolutamente inediti.
Sarà esaminato in seguito il profilo relativo alla genuinità del riferimento fatto dal collaborante alla intervista rilasciata da Fava a Biagi ed alla notizia che di tale intervista venne riportata sul giornale “La Sicilia” del 18.12.1994.
Venendo poi all’esame delle censure specifiche che dalle difese degli imputati sono state avanzate in ordine alla attendibilità intrinseca della dichiarazione di Avola si osserva quanto segue.
LA RAPIDA CARRIERA CRIMINALE DI AVOLA
È stato innanzi tutto rilevato da più parti che, al momento dell’omicidio di Fava, Avola era un ragazzo di 22 anni, il quale era stato scarcerato nell’estate del 1983 da appena quattro mesi; che in carcere egli era stato oggetto financo di violenza fisica da parte di altri detenuti più anziani (a riprova del fatto che Avola in quel momento non aveva alcun peso specifico nell’ambito della famiglia catanese di cosa nostra e più in genere della criminalità catanese), che poi in seguito per vendetta sarebbero stati uccisi; che la nomina di Avola ad uomo di onore della famiglia catanese, pur a volere dare seguito alla dichiarazione dello stesso Avola del 13.5.1996, era recentissima, risalendo alla fine del 1983 inizio del 1984 e comunque prima dell’omicidio di Fava (anche se poi, stranamente, all’udienza del 27.10.1999 dinanzi al Tribunale di Catania nel processo Ercolano Aldo +4 il collaborante non indicherà tale evento nel novero di quelli importanti che nella sua vita si erano verificati a fine del 1983 inizio del 1984 e pur a volere prescindere dalla indicazione fatta da Natale Di Raimondo, per cui Avola sarebbe divenuto uomo di onore solo nel 1987, indicazione quest’ultima che forse era strettamente dipendente dal fatto che Di Raimondo era stato nominato uomo d’onore nel 1987 e solo allora aveva avuto notizia ufficiale della composizione della famiglia; che tutto ciò era scarsamente compatibile con il fatto riferito da Avola di essere stato egli cooptato nella esecuzione dell’omicidio più eclatante commesso dalla famiglia catanese di cosa nostra, che peraltro era rimasto riservatissimo anche a livello informativo, costituendo patrimonio conoscitivo di pochissimi soggetti (che, per detta dello stesso Avola, non eccedevano il numero corrispondente alle dita di una mano).
Ora tutto ciò, seppure corrisponde a verità, non può essere di per se stesso indice di una aprioristica inattendibilità intrinseca della dichiarazione di Avola, perché nulla di strano vi è nel fatto che Avola, le cui doti di killer efferato e spietato evidentemente erano già emerse tanto prepotentemente nell’ambito della famiglia (in occasione della sua partecipazione all’omicidio di Andrea Finocchiaro commesso tre mesi circa prima dell’omicidio di Fava) da consentirgli di fare poi una carriera criminale rapidissima, possa essere stato, non appena nominato uomo di onore, cooptato nella esecuzione del delitto in esame da D’Agata Marcello, che era personaggio di assoluto rilievo in seno alla consorteria e che (nel dictum di Avola) aveva curato la organizzazione dell’omicidio: egli certamente conosceva bene Avola, il quale (anche se a quel tempo non erano stati ancora costituiti i vari gruppi territoriali in cui si venne poi ad articolare sul territorio la organizzazione della famiglia catanese di cosa nostra) gravitava indubitabilmente intorno al Motel Agip, di cui era gestore D’Agata stesso, il quale, da autentico scopritore di talenti emergenti, aveva intravisto in Avola le doti di killer superiori alla media ed il notevole spessore criminale dello stesso, il che lo aveva convinto ad avvalersi dell’opera del giovane talento per la esecuzione dell’omicidio di Fava, essendo stato deciso in sostanza nell’ambito della strategia organizzativa dell’omicidio di operare una giusta miscellanea tra l’esperienza (assicurata dalla presenza di D’Agata e di Enzo Santapaola) e la efficienza, assicurata dalla presenza di Avola e di Ercolano, altro giovane elemento destinato ad un cursus velocissimo.
LE PRIME INFORMAZIONI RACCOLTE SU FAVA
[…] Si è discusso molto tra le parti in ordine alla circostanza riferita da Avola, per cui D’Agata ed Ercolano avevano acquisito le prime informazioni sul conto di Fava (e cioè sul luogo di residenza anagrafica e sui movimenti dello stesso) a mezzo di un certo Claudio Balsamo, che il collaborante aveva indicato come un soggetto romagnolo più alto di Avola e con i capelli lunghi e brizzolati, amico di D’Agata e cognato del titolare del negozio di arredamento per bagni denominato Belford (rectius: Elford) sito in via Asiago; che abitava prima ad Ognina vicino il ristorante Costa Azzurra e poi in via Mollica di Cannizzaro vicino al ristorante Selene; che aveva fatto da basista per una rapina commessa a Bologna, cui aveva partecipato lo stesso Avola; che aveva avuto un ruolo nella estorsione subita dal cognato e che una volta aveva incontrato il Fava in Tribunale e lo aveva indicato a D’Agata.
Ora in tema va detto che, nel corso delle indagini, gli inquirenti mostrarono alla moglie di Fava (Corridore Elena) un album contenente le fotografie di vari soggetti aventi per cognome Balsamo e venne individuato in un primo tempo dalla Corridore un certo Stefano Balsamo, che frequentava il Club della Stampa ed una sera aveva aveva accompagnato la moglie di Fava dal Club della Stampa a casa della stessa, sita al Corso Italia n. 213 di Catania, per come dalla stessa Corridore dichiarato al pm l’1.12.1994, ma tale ricognizione in effetti (per come dedotto dalla Pubblica Accusa) è del tutto irrilevante perché lo Stefano Balsamo riconosciuto dalla Corridore non ha nulla a che vedere con il soggetto indicato da Avola, che da parte sua il 7.12.1994 ha espressamente negato che lo Stefano Balsamo fosse la persona cui egli aveva fatto riferimento.
In data 6.5.1995 venne sentito dagli inquirenti Stella Salvatore, titolare del magazzino Elford, e tale dichiarazione consentì di individuare il soggetto indicato da Avola (ed anche da Grancagnolo) come “Claudio Balsamo” in Claudio Bassi. Stella ha ammesso di conoscere Marcello D’Agata; di avere un cognato di nome Claudio Bassi che a sua volta era amico del D’Agata, il quale veniva nel suo negozio e chiedeva lo sconto adducendo di essere amico del Bassi; che egli aveva subito una estorsione preceduta dalla collocazione di un ordigno davanti al suo negozio; di essere stato socio del Club della Stampa dal 1989 grazie alla presentazione del giornalista Filippo Galatà e di Tony Zermo (il che non esclude che lo Stella abbia frequentato il detto Club della Stampa come ospite anche in epoca precedente, dati i rapporti di amicizia che intercorrevano tra lo Stella ed il figlio di Filippo Galatà, socio di detto Club e conoscente di Fava oltre che di Benedetto Santapaola, se è vero che risulta essere stato fotografato assieme a quest’ultimo).
Ciò premesso reputa la Corte che dalle risultanze processuali acquisite non emerga un riscontro pieno al dictum di Avola, ma neppure può dirsi che il racconto di Avola sia stato smentito.
[…] In questa situazione può concludersi solamente che, sulla base della dichiarazione di Avola, non può essere affatto esclusa la circostanza che D’Agata abbia sfruttato la sua conoscenza con il Bassi per ottenere informazioni, sia pure minimali, sul conto del Fava ed avere, in occasione dell’incontro al Tribunale, una certa contezza sull’aspetto fisico del Fava, di poi visto anche al rifornimento Agip del D’Agata, il tutto in funzione dello svolgimento di una attività di controllo dei movimenti del Fava, senza però che sulla eventualità suddetta vi sia stato riscontro oggettivo pieno in atti.
La difesa di D’Agata ha poi osservato che quanto riferito da Avola in ordine alla perlustrazione fatta assieme a D’Agata nei pressi del palazzo sito al Corso Italia 213, dove Fava abitava, sarebbe smentito dal fatto che già nell’ottobre 1983 il giornalista si era separato dalla moglie e viveva altrove assieme ai genitori in via Generale San Marzano (per come è emerso dalle dichiarazioni rese dai testi Mario Giusti, Claudio Fava e Quasimodo Giovanna).
Ora in tema devesi rilevare che la separazione personale dei coniugi Fava-Corridore non era affatto nota alla consorteria, trattandosi di una separazione di fatto risalente peraltro a poco tempo prima e d’altra parte Fava aveva mantenuto ancora al Corso Italia 213 la residenza per così dire formale ed ufficiale (quale si poteva evincere agevolmente per esempio dall’elenco telefonico ovvero dai nominativi segnati sui pulsanti dei citofoni), per cui è perfettamente logico che ivi vennero fatte le perlustrazioni ed è anche provato il fatto che Fava, pur essendosi separato dalla moglie, spesso si recasse lo stesso in Corso Italia 213 per ivi incontrare la moglie (con la quale intratteneva buoni rapporti) ed i figli: se quindi il dato ufficiale si coniugava perfettamente (tenuto conto ovviamente del fatto che gli appostamenti presso l’abitazione del Corso Italia 213 erano saltuari) con la circostanza che il Fava veniva pur sempre notato a volte al Corso Italia 213, non si comprende perché mai Avola ed i suoi amici avrebbero dovuto sospettare che il Fava si fosse separato dalla moglie e di conseguenza dirottare le perlustrazioni nel luogo in cui il Fava si era trasferito (via Generale San Marzano) che verosimilmente era rimasto ignoto alla cosca.
L’INTERVISTA RILASCIATA AD ENZO BIAGI
Va esaminato poi il segmento della dichiarazione di Avola relativo alla intervista che Giuseppe Fava aveva rilasciato ad Enzo Biagi il 17.12.1983 negli studi televisivi di Lugano di Retequattro in occasione di un dibattito cui avevano partecipato Nando Dalla Chiesa ed il difensore dei fratelli Greco, intervista andata in onda su detta rete televisiva il 29.12.1983, che da Avola è stata indicata come l’evento che ha costituito la causa ultima dell’omicidio di Giuseppe Fava.
[…] Contrariamente a quanto è stato sostenuto dalla difesa di Aldo Ercolano la intervista de qua non è stata affatto generica e non può dirsi che non conteneva nulla che non avesse potuto turbare gli animi dei soggetti chiamati in causa.
Ed, invece, si era trattata di una intervista che indubbiamente aveva lasciato il segno, poiché Fava aveva trattato duramente il tema della mafia infiltrata nel sistema bancario come strumento di riciclaggio delle ricchezze acquisite illecitamente ovvero penetrata all’interno del Parlamento e della politica, tanto da auspicare sotto questo profilo una rifondazione del sistema politico, con l’avvento di una seconda Repubblica che avesse solo delle leggi ed una struttura democratica, in cui il politico non fosse più succube di se stesso o della ferocia degli altri, ma solo un professionista della politica; nella intervista de qua Fava poi trattò la vicenda sentimentale di Luciano Liggio e Leoluchina Sorisi (di cui si è detto sopra) come emblematica della arroganza di un mafioso come Liggio manifestata anche nell’ambito dei rapporti personali.
L’intervista era stata per certi versi dirompente ed era stata tale da irritare i protagonisti delle consorterie mafiose, e ciò è reso palese da quanto affermato da Fava in chiusura della intervista: “in questo tipo di società la protezione è indispensabile se qualcuno non vuole condurre la vita di lupo solitario, che può anche essere una scelta, può anche essere affascinante per essere soli nella vita e non avere né aderenze né protezioni di alcuna, parte orgogliosamente soli fino all’ultimo”.
La suddetta intervista poi non fu assolutamente la causa scatenate dell’omicidio in quanto essa ha avuto solamente la funzione di accelerare (rendendola assolutamente improcrastinabile) la fase strettamente esecutiva dell’omicidio, che già da tempo era stato concepito, deciso e programmato (sin da quando Benedetto Santapaola era molto arrabbiato e furibondo in casa della Amato a Siracusa a dicembre del 1982 per la lettura della rivista “I Siciliani”, che denunciava all’opinione pubblica l’intreccio mafia politica affari), decisione omicidiaria che era rimasta sempre valida, efficace ed attuale in seno alla consorteria, tanto che tra gli affiliati non si perdeva occasione per boicottare ed insultare Fava; il disprezzo che in seno alla famiglia catanese e palermitana si era diffuso nei confronti di Giuseppe Fava è un dato certo nel processo, avendo di ciò riferito tutti i collaboranti esaminati nel processo (ivi compresi i palermitani Siino e Mutolo) ed Avola in particolare ha detto che Ercolano e D’Agata “già da diverso tempo parlavano della necessità di eliminare il giornalista per i suoi articoli contro la mafia” ed inoltre che D’Agata, ogni qual volta leggeva la rivista “I Siciliani”, diceva che Fava era un “fituso” perché parlava male della mafia e doveva essere eliminato.
La difesa di D’Agata poi ha rilevato che il riferimento di Avola alla intervista de qua non sarebbe affatto genuino ed autonomo, perché Avola non avrebbe riferito un dato che si apparteneva al suo patrimonio conoscitivo genetico, ma si sarebbe solo appropriato di una circostanza che era stata pubblicata nel giornale “La Sicilia” del 18.12.1993, ed esattamente il giorno successivo a quello in cui era stata eseguita la operazione Orsa Maggiore.
[…] Un segmento della narrazione di Avola sul quale è stata misurata la attendibilità intrinseca della dichiarazione del collaborante suddetto è costituito dai tentativi di uccisione del Fava effettuati presso il bar La Villetta di S. Agata Li Battiati e presso il ristorante “Grand Canyon” sito sul lungomare di Catania.
[…] In seno alle dichiarazioni rese al pm il 10 e 16.3.1994 Avola ha collocato chiaramente i due episodi suddetti dopo l’intervista concessa dal Fava ad Enzo Biagi ed andata in onda su Retequattro il 29.12.1983, che avrebbe costituito la causa scatenante dell’omicidio, per come ora detto.
In sede di esame dibattimentale del 28 e 29.11.1996 a seguito del controesame della difesa di D’Agata, che fece constare al collaborante come la suindicata intervista fosse stata trasmessa in televisione il 29.12.1983, Avola dichiarò di ricordare meglio, assumendo che i tentativi in questione si erano verificati prima della intervista suddetta, per poi tornare infine alla versione originaria allorché il PM ebbe a contestargli le dichiarazioni originarie, inducendo così la difesa a rilevare che tra il 29.12.1983 ed il 5.1.1984 vi sarebbe una eccessiva concentrazione di eventi scarsamente credibile.
LA PISTOLA SILENZIATA
[…] Un’altra circostanza sulla quale si è discusso a lungo e molto vivacemente tra le parti, con riferimento al tema della attendibilità intrinseca della dichiarazione di Avola, è stata quella relativa all’utilizzo di una pistola silenziata con la quale sarebbe stato consumato l’omicidio, secondo quanto è stato riferito dal collaborante sin dalla dichiarazione resa al pm il 16.3.1994.
Va subito detto che il quotidiano “La Sicilia” del 6.1.1984 riportò subito, riferendo della dinamica dell’agguato fatto la sera precedente a Giuseppe Fava, la notizia che l’assassino solitario aveva sparato con una pistola cal. 7,65 munita di silenziatore (verosimilmente sulla base della constatazione del fatto che le persone compulsate nell’immediato avevano dichiarato di avere sentito poco o nulla).
Avola ha ammesso di avere letto il giornale suddetto, ma di non avere letto invece del silenziatore, il che è dato inverosimile perché del silenziatore suddetto si faceva cenno in seno al vistoso sottotitolo di un articolo a nove colonne, che è versato in atti.
[…] Avola al dibattimento ha precisato che l’opera di silenziamento fu realizzata in tempi molto rapidi e che non era assolutamente certo che la detta opera fosse stata concretamente realizzata da Sgroi ovvero da altra persona cui lo stesso Sgroi si fosse rivolto.
Le risultanze processuali acquisite non consentono di potere affermare che la dichiarazione di Avola in ordine al segmento relativo alla pistola silenziata sia stata riscontrata e confermata dalle stesse, ma le stesse non consentono neppure di potere affermare che il dictum del collaborante sia stato smentito.
Orbene Sgroi Cosimo, esaminato in dibattimento, ha smentito l’assunto di Avola ed i due sono stati posti a confronto all’udienza del 7.3.1997, all’esito del quale ognuno dei due ha confermato la propria versione.
[…] Non c’è dubbio quindi che il dictum di Avola in ordine all’attività svolta per ottenere il silenziamento della pistola cal. 7,65 non è stato riscontrato e parimenti nulla è emerso con riferimento all’arma usata in occasione dell’omicidio di Andrea Finocchiaro commesso appena tre mesi prima dell’omicidio di Fava, per il quale Avola ha detto che sarebbe stato usato lo stesso silenziatore, seppure la filettatura sulla canna non sarebbe stata fatta da Sgroi, non risultando dagli atti del processo che siano stati sottoposti ad alcun accertamento peritale eventuali reperti relativi all’omicidio di Andrea Finocchiaro e che sia stato opportunamente investigato, sul punto del silenziamento dell’arma, il soggetto che viaggiava in macchina accanto ad Andrea Finocchiaro; il fatto che Sgroi non fosse stato officiato per la filettatura della pistola usata per detto omicidio non appare un elemento significativo, poiché è naturale che la consorteria avesse a sua disposizione diversi artigiani a cui rivolgersi per la filettatura a seconda dei casi, delle necessità e delle contingenze.
L’utilizzo di una pistola silenziata è stata poi esclusa dalla perizia che nella immediatezza del fatto, in sede di indagini preliminari, è stata espletata su incarico del PM dal Prof. Compagnini, il quale ha detto chiaramente che i proiettili repertati non avevano traccia di silenziatore [...] seppure il giornale “La Sicilia” del 6.1.1984 avesse espressamente parlato di un killer solitario armato di pistola munita di silenziatore. […] Parimenti ritiene la Corte che nessun dato certo possa dedursi sul punto del silenziamento della pistola dalla prova testimoniale espletata, poiché le risultanze emergenti da detta prova appaiono tra loro contrastanti e non univoche. A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
I pentiti si smentiscono a vicenda, così i presunti sicari vengono assolti. Attilio Bolzoni e Francesco Trotta. A cura dell'associazione Cosa Vostra su editorialedomani.it il 10 gennaio 2022.
Le dichiarazioni di Carmelo Grancagnolo non portano ad una accusa certa, per di più individualizzante, nei confronti degli imputati a cui è stato contestato il concorso materiale nell’omicidio di Giuseppe Fava; sul racconto di Maurizio Avola, invece, rimangono zone d’ombra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.
Sono state nel corso della precedente trattazione prese in esame prima la dichiarazione di Carmelo Grancagnolo, che, a parere della Corte, per come già detto, nessuna concreta incidenza può avere ai fini di potere integrare una vera e propria accusa, per di più individualizzante, nei confronti degli imputati a cui è stato contestato il concorso materiale nell’omicidio di Giuseppe Fava e comunque la detta dichiarazione non supera la soglia minima della attendibilità intrinseca, e poi quella di Maurizio Avola, che, invece, contiene una indicazione accusatoria puntuale, specifica e pienamente individualizzante a carico dei soggetti a cui è stato contestato il concorso, quali esecutori materiali, nell’omicidio di Giuseppe Fava, ma che, a parere della Corte, sul piano della attendibilità intrinseca presenta delle zone di ombra, per come già visto.
[…] Ciò premesso la Corte invece non può non evidenziare che, in tema di riscontro incrociato delle due dichiarazioni in questione, sussistono numerose, gravi ed insuperabili divergenze tra il racconto di Avola e quello di Grancagnolo, che incidono pienamente sul nucleo essenziale delle rispettive propalazioni.
Una prima fondamentale divergenza tra il racconto di Grancagnolo e quello di Avola attiene alla presenza di Salvatore Tuccio al Motel Agip la sera del 5.1.1984 in un fascia oraria compresa tra le 17,30/18 e le 19/19,30/20.
Grancagnolo ha detto che Tuccio era lì presente ed anzi, al suo arrivo al Motel Agip, egli ebbe a rivolgersi proprio allo stesso Tuccio e ad Aldo Ercolano, per comunicare loro di essere stato mandato da Pulvirenti e da Puglisi e che egli era a loro completa disposizione; Tuccio ed Ercolano risposero che quella sera non avevano bisogno di Grancagnolo e lo ringraziarono sentitamente.
[…] Avola invece, da parte sua, ha sempre negato decisamente che Tuccio nella circostanza suindicata il pomeriggio - sera del 5.1.1984 fosse stato presente anche un solo momento al Motel Agip ed in sede di confronto con Grancagnolo del 7.12.1994 Avola non è arretrato di un solo centimetro da tale affermazione.
[…] Il punto fondamentale è, invece, costituito dalla considerazione assolutamente ineluttabile per cui la presenza di Tuccio, se questi effettivamente fosse stato fisicamente presente quella sera al Motel, non poteva essere assolutamente indifferente e marginale agli occhi di Avola, tanto da essere oggetto di una operazione di rimozione mnemonica da parte dello stesso Avola, per come è stato affermato dal primo giudice e dalla Pubblica Accusa.
[…] In questa situazione, a parte la particolare connotazione che (secondo il racconto di Grancagnolo) avrebbe avuto nella specie in punto di fatto il comportamento di Tuccio, il ruolo e la figura di quest’ultimo erano tali che mai e poi mai Avola avrebbe potuto rimuovere dalla sua memoria la presenza di Tuccio perché marginale e casuale; Tuccio in quel contesto ed in quel momento era il personaggio più autorevole assieme a D’Agata e la sua presenza, anziché essere rimossa dalla memoria, doveva restare letteralmente scolpita nella memoria di Avola, il quale in quel frangente avrebbe dovuto rendere conto proprio a Tuccio, il quale rappresentava la famiglia.
Non può, perciò, convenirsi affatto con quanto sostenuto dalla Pubblica Accusa per cui vi sarebbe compatibilità nel racconto dei due collaboranti, nel senso che entrambi erano presenti al Motel quella sera ed entrambi hanno avuto la possibilità di vedere Tuccio, che era pure in realtà presente, per come è stato rappresentato da Grancagnolo e per come invece sarebbe stato solamente dimenticato da Avola, ipotesi quest’ultima assolutamente insostenibile (per come sopra detto).
[…] In conclusione per quanto riguarda la posizione di Tuccio vi è profonda ed insanabile divergenza nel racconto di Avola ed in quello di Grancagnolo e trattasi di divergenza che, ripetesi, nella economia della dichiarazione di Grancagnolo, non incide affatto su un elemento marginale, ma bensì sul nucleo fondamentale della stessa dichiarazione, che è costituito dalla partenza dal Motel Agip alle ore 19/19,30/20 di sei soggetti armati (compreso Tuccio) a bordo di tre auto, avviatesi poi lungo la circumvallazione in direzione di Catania, dalla quale Grancagnolo uscì al primo semaforo, così finendo per ignorare nel dettaglio quale fosse stato il successivo iter delle tre autovetture e sopratutto la destinazione finale delle stesse, per cui sotto questo profilo non può farsi alcuna distinzione tra le due auto, da un lato, che egli vide avere proseguito lungo la circumvallazione ed il Fiorino di Tuccio, dall’altro lato, che fu invece perso di vista perché procedeva più lentamente e che lo stesso Grancagnolo non ha escluso affatto che potesse avere proseguito parimenti lungo la circumvallazione.
Ciò che invece (purtroppo per l’accusa) accomuna le tre auto nello stesso nucleo c.d. fondamentale della dichiarazione di Grancagnolo è il fatto che per tutte tre le autovetture suindicate Grancagnolo non conosca affatto la destinazione finale.
UN’ALTRA DIVERGENZA
Una seconda profonda e dirompente divergenza ravvisabile nella narrazione di Avola ed in quella di Grancagnolo è quella relativa alla esposizione delle due pistole cal. 7,65 e cal. 9 sulla pezza bianca poggiata sul banco frigorifero ubicato all’interno del bar annesso al distributore di benzina Agip, che Avola avrebbe effettuato secondo il racconto di Grancagnolo e che Avola stesso ha invece sempre decisamente negato, evidenziando la estrema inverosimiglianza della circostanza, per come sopra si è detto allorché è stata esaminata la attendibilità intrinseca della dichiarazione di Grancagnolo.
[…] Ed, ancora maggiori perplessità sorgono dalla constatazione che Grancagnolo, in sede di confronto del 7.12.1994, alla contestazione di Avola se quella sera avesse visto la pistola cal. 7,65 con il silenziatore già montato ovvero se la detta pistola non era ancora munita di silenziatore ed alla precisa domanda che sul punto gli è stata fatta dal PM, ha risposto espressamente escludendo di avere visto quella sera all’interno del bar alcun silenziatore (né montato sulla pistola cal. 7,65 né smontato) seppure il detto silenziatore avesse la lunghezza di venti centimetri ed un diametro di una moneta da cento lire.
E non c’è dubbio che, per quanto Grancagnolo non fosse un intenditore in tema di armi [...], assolutamente inescusabile è per il Grancagnolo il fatto di non essersi accorto né che la pistola cal. 7,65 era munita di silenziatore già in canna né che lo stesso silenziatore si trovasse a parte ancora non montato sulla canna della detta pistola.
La divergenza di cui si è detto è dirompente, perché la esibizione delle pistole di cui ha detto Grancagnolo fa parte di uno spaccato che nel suo complesso è del tutto assente nel racconto di Avola, in cui - si badi bene - non c’è spazio alcuno per una permanenza dei sette soggetti suindicati all’interno del bar annesso al distributore di benzina del D’Agata, nel corso della quale ci sarebbe stata prima la uscita di Avola per andare a prelevare fuori le armi e poi, al ritorno dello stesso, la incredibile esibizione delle pistole (posto che le vicende che quel pomeriggio si erano succedute hanno, nel racconto di Avola, uno sviluppo completamente diverso ed incompatibile, tanto da potersi affermare che si è in presenza di due scenari distinti, per come si vedrà tra poco).
La divergenza è poi assolutamente non conciliabile perché la tesi della rimozione mnemonica da parte di Avola, sposata dalle sentenze impugnate, in questo caso verrebbe ad investire, non tanto la presenza di un terzo ovvero un fatto esterno al dichiarante Avola, quanto lo stesso comportamento tenuto dal collaborante medesimo, il quale avrebbe dimenticato la sua permanenza al bar, l’invito fattogli da Enzo Santapaola di andare a prendere le pistole, la sua fuoriuscita per prelevare le armi ed infine il rientro immediato all’interno del bar con la incredibile esibizione delle pistole sulla pezza bianca posizionata sul banco frigorifero.
È mai credibile che Avola abbia potuto dimenticare tutto ciò?
Ma c’è di più!
Nel caso in esame Avola non solo, in funzione per così dire negativa, avrebbe rimosso dalla propria memoria tutto quanto sopra detto ma, in positivo, avrebbe costruito tutto uno sviluppo dei fatti, sostitutivo di quello dimenticato, in maniera del tutto diversa da quello descritto da Grancagnolo.
In conclusione per quanto riguarda il segmento del racconto di Grancagnolo relativo alla prelievo ed alla successiva esposizione sul banco frigorifero del bar delle due pistole, vi è profonda ed insanabile divergenza nel racconto di Avola ed in quello di Grancagnolo e trattasi di divergenza che, ripetesi, nella economia della dichiarazione di Grancagnolo, non incide affatto su un elemento marginale ma sul nucleo fondamentale della stessa dichiarazione, che è costituito dalla partenza dal Motel alle ore 19/19,30/20 di sei soggetti armati di due pistole a bordo di tre auto, avviatesi poi lungo la circumvallazione in direzione di Catania.
Una terza profonda (e già preannunziata) divergenza tra il racconto di Grancagnolo e quello di Avola attiene allo snodo degli eventi di quel pomeriggio del 5.1.1984 ed, inoltre, al ruolo di Franco Giammuso in particolare.
[…] E, per finire sul tema in esame, va rimarcata quella che è la divergenza tra la dichiarazione di Avola e quella di Grancagnolo avente per così dire carattere assorbente, quella cioè che consentirebbe già di per se stessa di chiudere sull’argomento in esame con l’affermazione che nessuna convergenza vi può essere, mai e poi mai, già in partenza tra i due racconti.
Avola ha detto e ripetuto (anche con toni visibilmente irridenti nei confronti di Grancagnolo in sede di confronto del 7.12.1994) che Grancagnolo quel pomeriggio al Motel non fu assolutamente presente; Avola ha inoltre inteso supportare il suo dictum riferendo che ciò peraltro era avvenuto in altri tre episodi delittuosi, in cui Grancagnolo aveva rivendicato un suo ruolo operativo, pur essendo stato del tutto assente agli stessi, e precisamente in occasione dell’omicidio di Ignazio c.d. “Tranquillo”, della estorsione in danno della Mediterranea Mobili e dell’omicidio di un tale Pistorio nella zona di San Berillo Nuovo.
E, peraltro, a riprova del fatto che Grancagnolo è reiteratamente recidivo nella autoattribuzione pretestuosa di ruoli operativi in occasioni di imprese delittuose, va ricordato il caso dell’omicidio di tale Calandra Sebastianello Pasquale (oggetto del processo Ariete 1), in ordine al quale in sede di confronto con Grazioso Giuseppe, Leonardi Giuseppe e Licciardello Alfio è rimasto clamorosamente smentito il ruolo partecipativo che Grancagnolo si era autoattribuito.
Grancagnolo, pertanto, non poteva riferire sui fatti così come rappresentati sulla base di scienza diretta, ma solo sulla base di informazioni ricevute da terzi, e precisamente da Piero Puglisi, per come riferito da Avola.
[…] La Corte reputa di non potere condividere i tentativi fatti dai primi giudici di potere coniugare le indicazioni fatte da Avola con quelle fatte da Grancagnolo.
Orbene non c’è dubbio, sulla base di quanto finora detto, che il nucleo fondamentale delle dichiarazioni suddette, anziché registrare la convergenza, evidenzia le suindicate gravi dirompenti ed insanabili divergenze.
[…] Tutto ciò premesso, in riforma delle sentenze impugnate ed in accoglimento degli appelli spiegati nell’interesse di Marcello D’Agata, Vincenzo Santapaola e Franco Giammuso, i detti imputati vanno assolti, per non avere commesso il fatto, dal reato loro ascritto di concorso, quali esecutori materiali, nell’omicidio pluriaggravato in danno di Giuseppe Fava e di concorso nei reati satelliti di detenzione e porto illegale di una pistola cal. 7,65, loro rispettivamente contestati ai capi A) e B) del decreto che fissava il giudizio del 6.6.1995.
A CURA DELL'ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
L’UCCISIONE DEL SINDACO DI PALERMO. Il sindaco Giuseppe Insalaco e la città marcia. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani l'11 gennaio 2022.
Era segnato. Quando la sera de 12 gennaio del 1988 cade a terra, colpito da quattro pallottole di una 357 Magnum, Giuseppe Insalaco era un uomo braccato. Dai sicari mafiosi e dai potenti della città.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Era segnato. Quando la sera de 12 gennaio del 1988 cade a terra, colpito da quattro pallottole di una 357 Magnum, Giuseppe Insalaco era un uomo braccato. Dai sicari mafiosi e dai potenti della città.
Sindaco di Palermo per cento giorni e poi latitante con l'accusa di avere intascato una tangente, era solo e disperato. Non aveva più un amico. L'avevano abbandonato tutti, minacciato, scaricato soprattutto dai boss del suo partito - la Democrazia Cristiana - dove allora comandavano Vito Ciancimino e Salvo Lima, entrambi in intimità con Cosa Nostra. Personaggio molto scomodo Insalaco, pericoloso per una Palermo sprofondata nel silenzio.
Un omicidio ”strano”, tracce anomale sul luogo del delitto, un Vespone bianco abbandonato insieme a un casco. Il movente della sua morte? Avere denunciato il sistema di potere al Comune, svelato alla Commissione parlamentare Antimafia come funzionavano i grandi appalti, aver fatto i nomi di padroni e padrini.
Le indagini sul delitto sono andate a vuoto per molto tempo, fra piste passionali e sospetti fino a quando sono stati individuati i due killer, Domenico Ganci e Domenico Guglielmini, mafiosi della famiglia della Noce. Inchiesta chiusa. Un po' poco per spiegare la morte di un ex sindaco di Palermo che aveva puntato il dito contro l'alta mafia e la corruzione nei palazzi palermitani.
Giuseppe Insalaco ha lasciato un lungo memoriale con una lista di nomi divisa in due colonne, i due volti di Palermo. Da una parte il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il cardinale Salvatore Pappalardo, Pio La Torre, il giudice Cesare Terranova.
E dall’altra Vito Ciancimino e Salvo Lima, il ministro repubblicano Aristide Gunnella, gli esattori mafiosi di Salemi Nino e Ignazio Salvo e infine il conte Arturo Cassina, il "re” degli appalti a Palermo per oltre mezzo secolo. Un documento che, al tempo, in Sicilia provocò un terremoto.
La storia dell'ex sindaco di Palermo è raccontata da Bianca Stancanelli nel libro “La città marcia” (Marsilio editore). Da oggi e per quasi un mese il Blog Mafie ne pubblicherà ampi stralci.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA. Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.
L’uomo che osa sfidare il potere di Palermo. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI su Il Domani l'11 gennaio 2022.
Chi era quest’uomo? Un ribelle, un infame, un illuso, un traditore, un opportunista, un idealista? Era un ex sindaco democristiano rimasto in sella 101 giorni come un cowboy in un rodeo. Era un perdente intorno al quale era stato scavato un fossato di disprezzo e solitudine e che sognava inutilmente la rivincita.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Lavoravo allora a Palermo, in un piccolo giornale dalla grande storia, L’Ora. Qualcuno dei nostri amici, dei nostri colleghi, tornava a volte stranito tra noi, perché aveva visto il capo dei nemici in pasticceria, l’aveva incontrato dal dentista.
E che razza di guerra era questa, se il nemico comprava i pasticcini dove noi li compravamo, se andava dal nostro stesso dentista? In quale guerra i buoni e i cattivi entrano insieme nello stesso momento nella stessa pasticceria? Ma la guerra c’era, e noi lo sapevamo. C’era, delle guerre, il sangue, la paura, le armi, i sospetti, i tradimenti. C’erano i cadaveri per terra, i proiettili e le bombe. C’era la guerra. E ci fu chi la guerra se la portò nel cuore e la combatté dilaniandosi, e divise la sua vita in un prima e in un dopo che non si assomigliavano.
Ci furono talmente tanti morti ammazzati che ciascuno negli anni a venire poté scegliere quali celebrare e quali dimenticare, a chi dedicare targhe parchi piazze monumenti e chi seppellire per sempre. E ora sono qui, tra quaderni di appunti, libri, carte, fotocopie, sentenze, e provo a mettere a fuoco l’immagine di un uomo: Giuseppe Insalaco, detto Peppuccio o Pippo, e mi domando chi era. In un giorno di gennaio, l’ultimo della sua vita, nella trattoria di un paese sul mare, disse a una donna, l’ultima della sua vita: «Quando avrò sessant’anni, ti dirò tutta la verità su di me». Immagino che l’avrà detto ridendo, con l’aria un po’ misteriosa, giocando con la meraviglia della sua compagna come succede nei giochi innocenti dell’amore. E la sera di quel giorno, riverso sul volante della sua macchina, con quattro proiettili in corpo, era un uomo che non avrebbe mai compiuto sessant’anni. Chi era quest’uomo? Un ribelle, un infame, un illuso, un traditore, un opportunista, un idealista? Non era un politico impegnato nel fuoco di una battaglia, come Pio La Torre, il segretario del Pci che si batteva contro la mafia e contro i missili.
Non era l’erede di una dinastia, il politico aureolato di carisma, un presidente della Regione siciliana destinato a una brillante carriera nazionale, come Piersanti Mattarella. Non era neppure un quadro di partito in ascesa sulla scena pubblica di Palermo, un politico spregiudicato pronto a spiccare il salto per il Parlamento nazionale, come Michele Reina, segretario della Dc provinciale.
Era un ex sindaco democristiano rimasto in sella 101 giorni come un cowboy in un rodeo, che in quei giorni aveva provato a fare una rivoluzione, ed era stato fatto fuori con brutalità dal potere, bruciato da una storiaccia giudiziaria di truffa e corruzione, fiaccato dall’abbandono del suo partito.
Era un perdente intorno al quale era stato scavato un fossato di disprezzo e solitudine e che sognava inutilmente la rivincita. E aveva una particolarità speciale: che aveva attraversato la nera palude del potere e voleva lasciarsela alle spalle lanciando una sfida temeraria, tentando l’azzardo della denuncia. In quella palude a Palermo sguazzavano politici e mafiosi, burocrati e avvocati d’affari, professionisti e imprenditori.
CHI HA ORDINATO DI UCCIDERLO?
Di tutti questi, chi ordinò di ucciderlo? Una Corte d’Assise e una d’Appello, con l’ultimo sigillo della Cassazione, hanno detto che fu la mafia a toglierlo di mezzo. Ma fu il potere a espellerlo. Perché aveva osato l’inosabile, aveva sfidato il tabù supremo che la mafia condivide con il potere, qualunque volto il potere assuma: il divieto di cambiare le cose. Insalaco era un traditore. Perché chiunque voglia cambiare, in Sicilia, è un traditore.
Oggi mi dico che se la Sicilia è lo specchio fatato in cui si riflette il futuro dell’Italia, questo cadavere sepolto con troppa fretta e troppo fango deve significare qualcosa. E quel qualcosa è che la storia del potere a Palermo è stata una storia di complici, legati da un patto con il diavolo. E l’hanno ucciso perché il potere non si lascia processare.
Dopo Insalaco, mai più un politico di Palermo ha provato a raccontare il romanzo nero del potere. Democristiano o no, mai più un politico ha tentato quell’azzardo. Insalaco è stato un unicum: un uomo che sembrava deciso a descrivere dall’interno il marciume della città. Un illuso, un pazzo, un ribelle determinato a rischiarare con le torce il cuore di tenebra della politica. Questo era il cuore della politica italiana, a Palermo: tenebra e marciume, paura e menzogna.
Ed ecco che un uomo decide di attraversare quella tenebra impugnando una torcia accesa. E corre e la luce squarcia il buio. Bisogna fermarlo, e per fermarlo bisogna ucciderlo. E sul cadavere rovesciare fango, una slavina di fango, perché tutto si confonda, perché il morto taccia. Perché in Sicilia, recita il proverbio, il morto giace e il vivo si dà pace. Rileggo i fatti, li metto in ordine: c’è un incastro di coincidenze che colpisce.
La fulminea sindacatura Insalaco, dall’aprile al luglio del 1984, quei cento e uno giorni tra l’elezione e le dimissioni, tra il trionfo e la caduta – 101 giorni in pubblico, sotto i riflettori – coincidono con la decisione di Tommaso Buscetta di collaborare con Giovanni Falcone, una decisione segreta, destinata a cambiare la storia di Cosa Nostra.
Mentre Insalaco, come un acrobata sul filo, sfidava in pubblico i padroni di Palermo, un mafioso e un magistrato cominciavano a tracciare in segreto la strada verso il maxiprocesso, l’evento che ha cancellato i troppi anni delle assoluzioni per insufficienza di prove e ha trasformato questo paese in un paese in cui la mafia può essere processata e condannata, anche all’ergastolo. Ventisette giorni dopo la sentenza del maxiprocesso, Insalaco viene ucciso.
Morto lui, ecco che uno dopo l’altro, magistrati, poliziotti, gli eroi civili che l’Italia ama piangere quando muoiono e ignora o combatte finché sono in vita, gli eroi civili che avevano costruito il maxiprocesso vengono dispersi, umiliati, sconfitti, allontanati. Ma non dalla mafia: dallo Stato. E il primo a essere sconfitto, umiliato, è Giovanni Falcone. C’è un nodo in questa storia, ed è un nodo che non si riesce ancora a sciogliere.
È il rapporto che tutti noi, cittadini di questo paese, abbiamo con la verità e con la verità che riguarda la mafia e il potere: i loro legami, le loro complicità, le loro trattative, i loro patti segreti. Giuseppe Insalaco aveva raccontato alcune verità indicibili, altre ancora minacciava di rivelarne.
Aveva pronunciato ad alta voce nomi che venivano solo sussurrati, o taciuti addirittura. Era un ribelle. Contro un potere che tollera solo complici. E la sua morte, il suo assassinio gronda di simboli come una sciarada. Metto insieme i pezzi del puzzle, le tessere di quella sera del 12 gennaio 1988, la sera del delitto.
Insalaco muore a settecento metri dalla casa di Vito Ciancimino, l’emblema di una politica che ha fatto patti col diavolo. È un caso? Chi lo uccide semina dietro di sé un formidabile numero di indizi, come mai è accaduto in un omicidio di mafia.
È un caso? Tra quegli indizi, c’è il mezzo scelto per l’agguato: una Vespa bianca, la stessa utilizzata dalla squadra di fuoco che andò a uccidere Ninni Cassarà. Cassarà era un poliziotto; Insalaco era stato l’uomo-ombra di un ministro di polizia, Franco Restivo.
UOMO OMBRA DI UN MINISTRO DELL'INTERNO
È un caso? Gli assassini si portarono dietro due pistole; una era stata usata, cinque anni prima, per assassinare un capitano dei carabinieri, Mario D’Aleo, che insidiava, con un’abilità e una tenacia che la mafia giudicò intollerabile, i capi della cosca di San Giuseppe Jato. Insalaco era figlio di un maresciallo dei carabinieri ed era nato a San Giuseppe Jato.
I mafiosi che lo uccisero disponevano di un arsenale intero. Perché scelsero proprio quella pistola? È un caso? Attenzione: quell’arma non sparò nel delitto Insalaco, ma venne portata sulla scena – sul palcoscenico, forse – di quell’esecuzione, e abbandonata con sei proiettili nel tamburo, gettata a terra come un guanto di sfida. È un caso? Il giorno dopo i quotidiani scrissero che l’arma sembrava la stessa usata per assassinare il capitano D’Aleo.
Eppure, dopo il delitto, per più di un anno la pistola venne messa da parte: nessuno la sottopose a perizia per stabilire se e quando avesse sparato prima. È un caso? I due assassini, fuggendo, lanciarono a terra i caschi. I giornali scrissero che nei caschi c’erano molti capelli e analizzandoli si sarebbe potuto ricavare il dna dei killer. Ma la polizia assicurò che quei capelli non sarebbero stati analizzati.
È un caso? Quando, anni dopo, si fece davvero l’analisi del dna sui capelli – e c’erano già due mafiosi indicati come gli assassini, e uno di loro aveva confessato – si constatò che non uno di quei capelli coincideva con quelli dei sospetti killer. È un caso, si disse, può succedere.
Davvero è un caso? La Vespa abbandonata, i caschi buttati a terra, le pistole gettate sotto le macchine in sosta: ce n’era abbastanza perché Raffaele Ganci, patriarca di una famiglia di macellai e uomini d’onore, convocasse i killer e li coprisse di insulti. Si era consegnata agli investigatori, si infuriò il patriarca, la chiave del delitto. Ma nessuno usò quella chiave. E per anni la sgangheratezza dell’agguato venne invocata per sostenere che era il crimine di due balordi, che non c’entravano niente con la mafia. Perché la mafia è esatta, inesorabile; la mafia non fa errori.
Ed era di mafia, invece, l’agguato. Ma ci vollero anni per saperlo, ci volle un rapinatore scalcagnato che ai magistrati disse: «Volete che vi parli di Insalaco?» Otto anni ci vollero per cominciare uno straccio di indagine. E nel frattempo si inseguirono solo abbagli e false piste, e ogni volta che le indagini approdavano a un risultato credibile, si scatenava un depistaggio. È un caso? Non amo la dietrologia e detesto il complottismo: sono fratello e sorella, figli immaturi di una democrazia fragile, che avanzano abbracciati in un paese che ha paura della verità.
Ma se questi fatti non sono accaduti a caso, chi era allora Giuseppe Insalaco e perché si è fatto di tutto per non sapere per quale ragione è stato assassinato? C’è un politico, a Palermo, che è stato eletto sindaco per quattro volte. Si chiama Leoluca Orlando. Mi ha detto che Insalaco è stato ucciso «con il consenso dei salotti politici palermitani».
Ma solo i killer sono stati condannati e sui mandanti è calato il sipario. È un caso? C’è stato un momento in cui questo libro mi è sembrato necessario. È successo una sera del novembre 2013, a Palermo. Stavo per concludere due settimane di ricerca, di interviste, di incontri. Andai a cena da un’antica amica. Suo figlio, un trentenne di smagliante intelligenza che vive in Brasile, era tornato in vacanza nella sua città. Parlammo di molte cose e su molte cose scherzammo.
Poi madre e figlio mi chiesero che cosa stessi facendo a Palermo. Risposi che lavoravo su Insalaco. E quel trentenne che sapeva di politica e di economia, dell’Italia e del mondo, ripeté quel nome con esitazione: non ricordava di averlo mai sentito.
Dunque, pensai, ce l’hanno fatta: sono riusciti a cancellarlo dalla memoria di questa città. Anche la politica ha le sue lupare bianche, i suoi scomparsi – «fatti scomparsi», si dice a Palermo, per intendere che non è da sé, per loro scelta, che scompaiono. Ma quale futuro ha un paese che dimentica il passato?
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI
LA CITTÀ MARCIA. San Giuseppe Jato, lì dove si mescolano “galantuomini” e politici. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 12 gennaio 2022.
Bisogna partire dai luoghi: dal posto dove si è venuti al mondo. Lì si cominciano ad annodare i fili del destino. Il tempo. Il luogo. Dove e quando. Giuseppe Insalaco nasce a San Giuseppe Jato il 12 ottobre 1941. È domenica.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Bisogna partire dai luoghi: dal posto dove si è venuti al mondo. Lì si cominciano ad annodare i fili del destino. Il tempo. Il luogo. Dove e quando.
Giuseppe Insalaco nasce a San Giuseppe Jato il 12 ottobre 1941, domenica. Anno xix dell’era fascista, secondo anno di guerra. Quel giorno il Corriere della Sera annuncia trionfalmente in prima pagina: «Due armate sovietiche annientate».
Un trafiletto seminascosto informa che nel Mediterraneo, tra Sardegna e Sicilia, è stata avvistata una nave nemica: batteva bandiera inglese. Il padre, Eugenio, è un carabiniere, un uomo severo. Chiuderà la carriera con il grado di maresciallo.
La madre, Ernesta Crociata, aveva partorito i suoi primi due figli là dove l’Arma aveva chiamato suo marito: il primo al Nord, il secondo nella Sicilia orientale. Per dare alla luce il terzo, in tempo di guerra, aveva deciso di tornare al suo paese, ai piedi del monte Jato.
Situato a trenta chilometri da Palermo e a ventisette da Corleone, come al vertice di un ideale triangolo, San Giuseppe Jato è uno dei luoghi dove sono passati la luce e il buio del Novecento siciliano. Paese di lotte contadine e santuario di mafia.
È qui, nella borgata di Quarto Molino, che il 2 settembre 1943 il contadino Salvatore Giuliano si fa bandito, ammazzando un carabiniere che voleva sequestrargli un carico di grano di contrabbando. Ed è da San Giuseppe che, il primo maggio 1947, partono famiglie intere di contadini per andare a celebrare la Festa del lavoro a Portella della Ginestra. Hanno una buona ragione per festeggiare: in aprile, nelle prime elezioni regionali, socialisti e comunisti, uniti nel Blocco del Popolo, hanno vinto; si parla di riforma agraria, di terra ai contadini. Ma la festa finisce in tragedia: appostati sulle rocce tutt’intorno, i banditi di Giuliano mitragliano la folla.
È la prima strage dell’Italia repubblicana. «Una strage modello», scriverà il giudice Giuseppe Di Lello: destinata a fare da esempio alle stragi che seguiranno, impunite tutte, frutto di un «groviglio di collusioni tra politici, servizi deviati (anzi, orientati), criminali comuni, centri istituzionali».
In luoghi come San Giuseppe Jato, nel convulso dopoguerra, la mafia impara che, quando i regimi crollano e la politica cerca faticosamente un nuovo assetto, l’omicidio politico, la strage, sono strumenti per inserirsi nel gioco grande del potere.
E capisce che quel potere è pronto a ricompensare il delitto con l’impunità. È una lezione, uno schema di gioco che Cosa nostra replicherà in tutte le fasi di passaggio della storia della repubblica. Fino alle stragi degli anni Novanta.
GOVERNARE CON LA MAFIA
A Portella della Ginestra si decide che la politica, in Sicilia, bisogna scriverla con il sangue. Muoiono a decine nel dopoguerra i sindacalisti, i capilega, gli amministratori comunali – e sono comunisti e socialisti che si battono contro gli agrari e la mafia.
Ma muoiono anche i democristiani, e sono sindaci e segretari di sezione, assessori e attivisti. Solo che, spesso, i democristiani uccisi sono mafiosi. E che la Dc non abbia mai rivendicato il proprio tributo di vite umane nell’insanguinata Sicilia della metà del Novecento, molto dice dell’imbarazzo riguardo a quei morti – e della volontà di far finta di nulla. Delitti senza colpevoli.
Anche perché trovare traccia degli assassini e dei mandanti avrebbe significato rendere pubblico il potente insediamento della mafia nel seno del maggior partito di governo. Bisognerà che crolli il Muro di Berlino e che le macerie seppelliscano, con il comunismo, anche lo scudo crociato, perché i più onesti uomini di quel partito si decidano ad ammettere di aver stretto patti con il diavolo.
All’alba degli anni Duemila, Giuseppe Alessi, che fu tra i fondatori della Dc siciliana e divenne il primo presidente della Regione, confida al giornalista Francesco Merlo: «Dovevamo fermare il comunismo, a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio cogovernare con i mafiosi piuttosto che consegnare il paese ai comunisti di Stalin».
Cogovernare è una parola enorme. Scivolerà nell’Italia della Seconda Repubblica con la leggerezza di una piuma. Nel maggio 2012 l’Istituto Gramsci Siciliano ha pubblicato in volume alcuni atti dei processi sui delitti degli anni Quaranta e Cinquanta. Li aveva dissepolti dal silenzio degli archivi l’avvocato Salvo Riela.
C’è anche il nome di un giovane di San Giuseppe Jato in quelle pagine: un piccolo proprietario, Calogero Caiola, che il giorno della strage di Portella della Ginestra aveva incontrato – e probabilmente riconosciuto come suoi compaesani – un gruppo di assassini che tornavano a casa con la lupara in spalla e la mitragliatrice sottobraccio. Sfortunato incontro. Sei mesi dopo, Caiola fu assassinato.
Delitto d’onore, stabilì senza esitazioni l’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza per la Sicilia. Il morto – accusarono gli inquirenti – era «donnaiolo» e «pederasta attivo»: un mostro di perversione. La politica non c’entrava. Scrive l’avvocato Riela nella prefazione al volume: «È stato giustamente osservato che nel caos della Sicilia del dopoguerra, distinguere tra omicidi comuni e delitti politico mafiosi non era facile. Rimane il fatto, però, che il primo obiettivo che gli inquirenti perseguivano era quello di escludere il movente politico [... ] Le piste che si battevano per prime erano quelle della vendetta per ragioni personali o di interesse e quella che portava ad una presenza femminile [...] Inoltre – e questo è forse l’aspetto peggiore – si tentava di sminuire la figura della vittima, descrivendola nel migliore dei casi come un poveraccio, incapace di una militanza politica o di partito; in altri indicandolo come un poco di buono, dedito ad affari loschi e imprecisati che gli avevano attirato l’altrui vendetta. Si concludeva, quindi, che la politica non c’entrava nulla con il delitto».
Sembra paradossale ma, quarant’anni dopo, un identico schema sarà adottato per spiegare l’assassinio di Giuseppe Insalaco. Quel paese di nascita è un nodo fatale.
GIOVANNI BRUSCA E ANGELO SIINO, I COMPAESANI
Di San Giuseppe Jato è il mafioso che pronuncerà su Insalaco i giudizi più sprezzanti. Il suo nome è Giovanni Brusca, in Cosa nostra lo avevano soprannominato “scannacristiani”, superfluo spiegare perché.
Erede di una dinastia di mafia che a San Giuseppe ha significato terrore e sudditanza, Brusca è il mafioso che, il 23 maggio 1992, a Capaci, preme il tasto del telecomando per far saltare in aria la macchina di Giovanni Falcone e uccide, con il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
Neppure quattro anni dopo, l’11 gennaio 1996, è ancora Brusca a ordinare di uccidere il canuzzo, il piccolo Giuseppe Di Matteo: sequestrato a undici anni, tenuto prigioniero per 779 giorni per convincere il padre, Santino Di Matteo, a ritrattare le sue rivelazioni ai magistrati sulla strage di Capaci. Di Insalaco, Giovanni Brusca parla con ostilità, addirittura con disprezzo.
Gli rimprovera di non aver reso a suo padre i favori che la famiglia gli aveva chiesto. Avrebbe dovuto farlo, secondo Brusca, se non altro perché, per essere nato a San Giuseppe, poteva considerarsi «un mezzo paesano».
Con Insalaco, Brusca avrebbe potuto dire d’aver condiviso anche la militanza di partito. Negli elenchi degli iscritti alla sezione della Democrazia cristiana di San Giuseppe Jato per l’anno 1978, Giovanni Brusca figura con la tessera numero 5554614 e con lui, con la tessera numero 5539398, compare il nonno, Emanuele, che in paese veniva evocato col soprannome ’a Muntagna.
Manca, in quell’elenco, il figlio di Emanuele e padre di Giovanni, Bernardo Brusca, storico alleato di Totò Riina: probabilmente perché nel 1978 era già latitante e includerlo tra gli iscritti alla Dc sarebbe sembrato di cattivo gusto.
Un altro compaesano, che apparirà con frequenza nella storia di Insalaco, è Angelo Siino. Nelle cronache su Cosa Nostra sarà indicato per anni come «il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina».
Dalla metà degli anni Ottanta ai primi Novanta fu il gran maestro degli appalti in Sicilia, in nome e per conto della cosca corleonese: l’incaricato d’affari che manovrava le offerte e trattava con le più grandi imprese nazionali e siciliane. Più giovane di Insalaco di tre anni, Siino ha conosciuto Cosa Nostra, per così dire, fin dalla culla: la famiglia della madre, i Celeste, dominava la mafia di San Cipirello, un paese attaccato a San Giuseppe Jato come la metà di una mela.
Il nonno, Giuseppe Celeste, fu ucciso nel 1921. Suo fratello Salvatore, lo zio di Angelo Siino, vegliò amorevolmente sull’educazione del nipote. Di Insalaco, Siino si è dichiarato «amico d’infanzia». Anche lui, come Brusca, una volta finito in carcere, constatata la fine della lunga dittatura di Riina, scelse di collaborare con la giustizia. E anche lui avrebbe potuto rivendicare la comune militanza di partito con Insalaco.
Consigliere comunale della Dc per due legislature, talmente spavaldo da votare, una volta, un sindaco comunista, una donna, offrendo il proprio voto come un gesto di galanteria, Siino frequentava a San Giuseppe lo stesso circolo delle Acli del quale, per cinque anni, Giuseppe Insalaco fu presidente.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
"Non c'è la prova che sia cambiato". Ecco perchè il pentito Brusca viene ritenuto "socialmente pericoloso". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 28 Luglio 2022.
Le motivazioni del provvedimento con cui il tribunale di Palermo ha imposto la sorveglianza speciale all'ex capomafia di San Giuseppe Jato. Per un anno avrà l'obbligo di soggiorno nella località segreta dove vive sotto scorta dal maggio dell'anno scorso.
Giovanni Brusca scarcerato dopo 25 anni non può restare del tutto libero, dicono i giudici della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Perché è «scemata, ma tuttora esistente la sua pericolosità sociale». E perché «non può radicalmente escludersi una possibile ricaduta nel reato». Ecco le motivazioni della sorveglianza speciale imposta al “boia” di Capaci, il mafioso che ha azionato il telecomando della strage Falcone e ha poi ordinato la morte del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 29 luglio 2022.
Toh, Giovanni Brusca è «socialmente pericoloso». Il fedelissimo di Totò Riina, quello che ha mandato al Creatore i giudici Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, il responsabile (per sua stessa ammissione) del sequestro e della morte di Giuseppe Di Matteo, che nel gennaio del 1996 aveva appena 12 anni; "u' verru", cioè "il porco", come lo chiamavano quando faceva parte di Cosa Nostra; ecco, lui, detto anche "lo scannacristiani", non è davvero uno stinco di santo. Ma va'? In ogni caso, se n'è accorto il questore di Palermo Leopoldo Laricchia, che ha firmato una (nuova) valutazione che dice proprio così. Dice che Brusca è «socialmente pericoloso».
E se n'è accorta pure la sezione Misure di prevenzione del tribunale del capoluogo siculo, che quella valutazione l'ha accolta e ha deciso di riattivare, per Brusca, la sorveglianza speciale che aveva anche prima, quando era un mafioso e tutti se lo ricordavano con quei nomignoli agghiaccianti. Solo che se ne sono accorti ieri. E Brusca, nel frattempo, è uscito dal carcere (lo scorso maggio), è un uomo libero (da un anno e qualche mese), si è ripulito (quantomeno) la fedina penale.
È un cortocircuito paradossale, il faldone di Brusca. Perché da un lato c'è la vicenda giuridica (fatta di carte, processi, condanne, presunti pentimenti e collaborazioni, e poi sconti di pena e rigetti di scarcerazione anticipata), e dall'altra quella umana, che riguarda più che altro le sue vittime, o meglio i familiari di queste vittime. «Sono indignata, lo Stato ci rema contro», sbottava nel 2021, per esempio, la vedova Tina Montinaro, moglie del caposcorta di Falcone.
Partiamo dunque dalla giurisprudenza. Brusca esce dal penitenziario romano di Rebibbia il 31 maggio del 2021 con 45 giorni di "sconto". «Fine pena», recita il foglio che gli consegnano ai cancelli: è fuori per effetto di una legge del 13 febbraio del 2000 che consente ai collaboratori di giustizia di mutare le proprie condanne dall'ergastolo ostativo (quello che dura per sempre, per intenderci) all'ergastolo normale (quello che, invece, consente di ottenere permessi e che non può protrarsi fino alla morte).
«Il principio che sta alla base di quella norma è che le pene devono rieducare, chiudere una persona in cella senza possibilità di farla uscire non va in questa direzione», ci spiega Marco Biagioli, avvocato penalista di Grosseto che conosce a menadito i cavilli del Codice penale.
È la legge, quella che fonda lo Stato di diritto. Vale per tutti, anche per Brusca. Nel maggio del 2021, però, sul suo capo scatta anche la libertà vigilata per quattro anni. «Una forma di estensione della pena- continua l'esperto, - misura che generalmente, in casi come questo, viene accordata». Bene.
E adesso arriviamo alla seconda questione: a Palermo, 14 mesi dopo, la giustizia, in un certo senso, tira il freno a mano. Questa sorveglianza speciale («sanzione amministrativa ulteriore») durerà fino al 2023. E l'uomo normale, quello che non è obbligato a conoscere a fondo i codici, si chiede: ma come, lo avete messo fuori, e ora ci dite che è socialmente pericoloso? Che senso ha? Poco, verrebbe da dire. Ma nello specifico, in cosa consiste?
«È una forma di controllo aggiuntivo. Chi la subisce non può frequentare soggetti condannati, deve restare a casa la sera, deve comunicare alle autorità il suo luogo di residenza, viene privato del passaporto», risponde il legale. Non avrà dunque le pattuglie sotto casa, "u verru". Non ci saranno i piantoni che lo terranno d'occhio giorno e notte. Ci saranno comunque gli uomini della scorta che lo seguono già da quando ha messo un piede per strada, l'anno scorso.
Lo hanno arrestato il 20 maggio 1996, Giovanni Brusca. In carcere ha passato 25 anni. Non un ladro di caramelle: è responsabile di decine di omicidi. Certo, ha collaborato con la giustizia, permettendo di capire aspetti di Cosa Nostra che senza di lui sarebbero rimasti oscuri. Ma è anche uno che «non ha mostrato pieni segni di resipiscenza», scrissero i giudici quando, nel 1999, rigettarono la sua richiesta di scarcerazione anticipata.
Così come fece la Cassazione vent' anni dopo, nel 2019, quando lui avanzò una domanda per gli arresti domiciliari. «Umanamente è una notizia che mi addolora», aveva detto nel 2021 la sorella di Falcone, Maria, quando Brusca era stato rilasciato in via definitiva, «ma questa è la legge e va rispettata». Anche se, nel passaggio dalle carte alla realtà, sconfina nel paradosso.
LA CITTÀ MARCIA. La Palermo innominabile dei boss e dei ministri. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO. Il Domani il 13 gennaio 2022.
Insalaco cresce in città, non in paese. È la città dove i mafiosi come Tommaso Buscetta giocano ai tavoli della roulette al Circolo della Stampa con professionisti, giornalisti, politici rampanti. È la città dove al Gonzaga, il liceo dei gesuiti, il più prestigioso della città, studia Stefano Bontate, figlio di don Paolino, capomafia di Santa Maria di Gesù
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
A differenza di Siino, Insalaco cresce in città, non in paese. Gli anni sono quelli dei quali Giuliana Saladino ha scritto nel suo bellissimo Romanzo civile: «Palermo degli anni ’50 era un mostro con dentro, in gestazione, il mostro peggiore che sarebbe in seguito diventata».
È la città dove i mafiosi come Tommaso Buscetta giocano ai tavoli della roulette al Circolo della Stampa con professionisti, giornalisti, politici rampanti, e salgono gli scaloni del Teatro Massimo, presidiati dai magnifici e inoffensivi leoni di bronzo, per pavoneggiarsi alle prime dell’opera con i biglietti regalati dal sindaco Salvo Lima.
È la città dove un mafioso come Michele Greco è socio rispettato del Tiro a volo, un circolo d’élite che si affaccia sul mare dell’Addaura. È la città dove al Gonzaga, il liceo dei gesuiti, il più prestigioso della città, studia Stefano Bontate, figlio di don Paolino, capomafia di Santa Maria di Gesù, una borgata a est della città. Non c’è simbolo migliore, per mettere a fuoco la Palermo di quegli anni, di quel liceo dove si forgia la classe dirigente della città, che ha tra gli iscritti il giovane Bontate e il principe Alessandro Vanni Calvello di San Vincenzo, famiglia di antica aristocrazia, la stessa che aprirà a Luchino Visconti i saloni del settecentesco Palazzo Gangi per girare il valzer del Gattopardo e accoglierà la regina Elisabetta, in visita a Palermo.
Non c’è da stupirsi se i due compagni di scuola si ritroveranno insieme in Cosa Nostra: Bontate per diritto ereditario, Vanni di San Vincenzo per libera scelta.
IL RICORDO DEL MAFIOSO PENNINO
Un ricordo di Insalaco ragazzo affiora nelle testimonianze di Gioacchino Pennino, medico e mafioso, che avrà una lunga e fortunata carriera nella Dc palermitana fino alla rovina degli anni Novanta. Erede di un nonno e di uno zio capimafia nel quartiere palermitano di Brancaccio, Pennino ha conosciuto il giovanissimo Pippo e i suoi fratelli frequentando i gesuiti di Casa Professa. Ma si ricorda di Insalaco ragazzo anche un intellettuale impegnato a sinistra, Umberto Santino, fondatore del Centro Peppino Impastato, autore della prima storia dell’Antimafia e di saggi importanti su Cosa Nostra: «Giocavamo a ping pong nell’oratorio di Santa Chiara. Eravamo entrambi nell’Azione Cattolica come aspiranti – così venivano definiti i ragazzi. Correvano gli anni Cinquanta: lui, ricordo, era già democristiano; aveva ancora i calzoni corti e bazzicava nell’entourage di Restivo».
Franco Restivo, professore universitario di Diritto, tra i fondatori della Democrazia Cristiana in Sicilia e dell’Autonomia siciliana, è negli anni Cinquanta un politico potente. È stato eletto deputato all’Assemblea costituente nel 1946, ma ha preferito tornare a far politica a Palermo, dove è stato assessore e presidente della Regione. Insalaco entra nella sua segreteria dalla porta di servizio, come ultima ruota del carro. È la madre, che per quel figlio dimostra una predilezione, a metterlo sulla strada di Restivo. Devotissima donna, Ernesta Crociata milita nei comitati civici della Dc, frequenta parrocchie e scuole salesiane.
Nell’ambito del cattolicesimo palermitano incontra Concettina Restivo, moglie di Franco. E le raccomanda il figlio. Il ragazzo è sveglio, servizievole, sa come farsi benvolere, non si tira mai indietro. Basta uno sguardo per capire che brucia di ambizione. È magro, né alto né basso, ha riccioli bruni e occhi furbi, scuri e tondi come olive.
Non ha voglia di perdere tempo sui libri. Quando comincia a frequentare la segreteria politica dell’onorevole professore Restivo, l’unico suo titolo di studio è la licenza media. Penserà a diplomarsi molto tempo dopo, a trent’anni compiuti: nel 1972 otterrà la maturità magistrale all’istituto Serena Juventus di Africo, in Calabria, il diplomificio fondato da don Giovanni Stilo, il prete-padrone ritratto da Corrado Stajano in Africo.
IL PRESIDENTE RESTIVO
Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta. Dopo l’assassinio di Insalaco, Emanuele Macaluso, storico dirigente della sinistra, disegnerà su l’Unità questo rapido ritratto di Restivo: «Un uomo della borghesia scettico e colto, che ostentava disprezzo sociale e intellettuale per i Lima e i Ciancimino. Sapeva tutto di tutti e in nome degli interessi superiori della Dc, e soprattutto della sua classe, mediava interessi diversi convivendo però con i Lima, i Gioia, i Ciancimino e altri.
Era un uomo di governo e al tempo stesso un uomo del potere democristiano». Quando Insalaco comincia a frequentarla, la segreteria di Restivo nella centralissima via Dante è un porto di mare. La distruzione dei partiti e l’irrompere sulla scena della schiera dei “nominati”, deputati e senatori scelti dai leader nazionali, senza alcun legame con un territorio, hanno cancellato perfino il ricordo delle vecchie segreterie degli onorevoli dove, soprattutto al Sud, gli uomini accorrevano a chiedere favori, mentre le donne andavano in chiesa, a domandare – col medesimo fervore – la grazia ai santi.
È in questo mondo antico, sbrigando faccende di piccola clientela, che il giovane Insalaco impara il mestiere della politica. Credevo che a San Giuseppe Jato avrei trovato molte persone disposte a parlarmi di lui: amici di partito, avversari, semplici conoscenti.
Per rintracciarle, chiesi aiuto a un giovane storico, Pierluigi Basile, che in politica poteva vantare una doppia competenza: per averla studiata con passione, laureandosi con una tesi diventata poi un saggio su Piersanti Mattarella, e per aver accettato di fare l’assessore nella giunta di sinistra appena eletta. L’incarico si rivelò subito complicato.
Dei molti personaggi sondati da Basile, nessuno voleva parlarmi. Qualcuno accampava motivi di salute, qualcuno obiettava che era passato molto tempo. I più sostenevano che Insalaco aveva vissuto a Palermo tutta la sua esperienza politica: col suo paese natale non aveva mantenuto quasi nessun rapporto. Era un bel paradosso: nella Palermo politica, tra persone che, per dirla col principe di Lampedusa, si considerano il sale della terra, la nascita in paese aveva impresso su Insalaco il marchio indelebile di provinciale; e a San Giuseppe Jato, eccolo bollato come «uno di città». Un uomo doppio.
Ovunque straniero Alla fine Basile rintracciò un vecchio democristiano disposto a incontrarmi e in un piovoso pomeriggio di novembre si offrì di farmi da guida da Palermo a San Giuseppe. Doveva essere un viaggio breve, sul percorso di quella che viene chiamata «la scorrimento veloce»: la statale da Palermo a Sciacca. Ma appena usciti dalla città, ecco apparire uno sbarramento, l’avviso di una deviazione verso la vecchia via serpeggiante che risale le colline a sud di Palermo.
La strada a scorrimento veloce era chiusa: all’uscita da una galleria, nell’infuriare di un temporale, due macchine si erano scontrate. Cinque i morti: un bambino di due anni, sua madre, sua nonna e una coppia di anziani coniugi. Il giorno dopo avrei letto sui giornali che, nell’urto, il corpo del piccolo era stato talmente straziato che i vigili del fuoco non riuscivano a capire se fosse un maschio o una bambina. La Palermo-Sciacca è pericolosa, una delle molte strade che, a ogni nuovo incidente, i giornali bollano come le «strade della morte».
L’AMBIZIONE DI INSALACO
Negli anni in cui fu costruita, nel paese dei Brusca il numero delle imprese edili esplose in un boom inaspettato. «Nel 1987, all’Albo nazionale dei costruttori del ministero dei Lavori pubblici risultavano iscritte 84 imprese di San Giuseppe Jato. Ce n’era una ogni 100 abitanti, vecchi e bambini compresi».
Nessuno disse nulla. Sapere, tacere: la mafia è una cultura del silenzio. Di Insalaco, a Palermo, ancora oggi si dice che parlava troppo. Che l’hanno ucciso per questo. L’uomo che Basile mi presentò quel pomeriggio, Francesco Messeri, aveva del giovane Peppuccio (Peppuccio o Pippo: Giuseppe mai, per nessuno) il ricordo di «un picciotto svelto», «un picciotto d’oro»: «Non c’era persona che non aiutava».
Con molto entusiasmo, nella moderna sede di un patronato costruita come una torre con una sola stanza per piano, Messeri mi consegnò il ritratto di un democristiano della Prima Repubblica, un uomo di potere abilissimo nel distribuire favori e posti di lavoro. Un ritratto convenzionale.
Se non per un dettaglio, che il vecchio democristiano aggiunse alla fine, cesellandolo in forma di sentenza: «L’ambizione del sindaco fu pericolosa». E nel pronunciare quella frase, ripetendo l’aggettivo e quasi sillabandolo, pe-ri-co-lo-sa, alzava l’indice ammonitore della mano destra e stringeva le labbra a fessura, rifiutando di dire di più. Con maggiore malizia un ingegnere appassionato di storia, studioso attento delle cose di Cosa Nostra, Gioacchino Nania, rappresentò Insalaco in un pamphlet che riconduce al paesello dello Jato più o meno tutte le misteriose vicende del Novecento, non solo siciliane.
Nania descrisse Insalaco come un imbattibile raccoglitore di voti al servizio del «Presidente», Franco Restivo: «A San Giuseppe Jato e San Cipirello non v’era elezione in cui il primo degli eletti non fosse il candidato di Insalaco. E se il secondo racimolava più della metà delle preferenze rispetto a quelle del Presidente, allora la parola più pronunciata, tra gli intristiti sostenitori restiviani, risultava debacle: il cui significato, ai più, era sconosciuto».
Devo a Pierluigi Basile la visita a un isolato casolare di campagna che è un monumento a ricordo della ferocia di Cosa Nostra. Immerso nel verde di una campagna rigogliosa, quel casolare è stato l’ultima prigione del ragazzo Giuseppe Di Matteo e il luogo della sua morte.
Oggi, sull’accidentata trazzera che conduce alla solitaria contrada Giambasio, arrivano le scolaresche in visita: scendono nella cella sotterranea che fu il carcere di Giuseppe (una nuda stanza, con un lettuccio in ferro e un bagno), osservano il complesso meccanismo che consentiva di chiudere e aprire la botola che dava accesso alla cella.
All’ingresso del casolare, su un grande foglio bianco, appoggiato su un cavalletto come un dipinto, c’è il lungo elenco dei bambini e degli adolescenti uccisi dalla mafia. A Portella della Ginestra, la mattina del primo maggio 1947, su undici vittime, quattro ne morirono che avevano tra gli otto e i quindici anni. Ed era solo l’alba della Repubblica.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
LA CITTÀ MARCIA. Il matrimonio da favola e la fulminante carriera al Viminale. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 14 Gennaio 2022.
La cerimonia sancisce il successo mondano del giovane Insalaco. Testimone per lo sposo è il ministro Restivo. «E il secondo testimone» ricorda Piera Salamone, «fu il sindaco di Palermo, Francesco Spagnolo». Al ricevimento un mare di invitati. «C’era il capo della polizia, Angelo Vicari, e c’era il generale dei carabinieri Enrico Mino. E c’era Carlo Alberto Dalla Chiesa, ancora colonnello»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Dopo una lunga gavetta, il primo agosto 1968 il giovane segretario ottiene la sua consacrazione ufficiale nello staff del ministero: viene inquadrato nel gabinetto del Viminale come collaboratore del ministro dell’Interno Franco Restivo. Un anno dopo si sposa. La sposa è andata a trovarsela in paese. L’ha incontrata durante una campagna elettorale. Si chiama Piera Salamone. Quando si conoscono lei ha quattordici anni, lui ventuno. Una lontanissima parentela li unisce. Per sposarsi, aspettano che lei compia la maggiore età.
Le nozze si celebrano a Palermo, nella cappella del Gonzaga, l’istituto dei gesuiti. Evento privatissimo, che ha però un suo eclatante risvolto pubblico. La cerimonia sancisce il successo mondano del giovane Insalaco. Testimone per lo sposo è il ministro Restivo. «E il secondo testimone» ricorda Piera Salamone, «fu il sindaco di Palermo, Francesco Spagnolo». È un giorno di luglio; al cocktail di ricevimento, nei giardini del Gonzaga, arriva un mare di invitati. «C’erano cinquecento persone al nostro matrimonio. Tanti venivano da Roma. C’era il capo della polizia, Angelo Vicari, e c’era il generale dei carabinieri Enrico Mino. C’era Emanuele De Francesco, che era allora il vicario del questore Mangano, e c’era Carlo Alberto Dalla Chiesa, ancora colonnello»
L’UOMO OMBRA DI RESTIVO
Negli album di nozze colpisce il contrasto tra la giovinezza degli sposi e l’anzianità degli autorevoli invitati. Lo sposo appare raggiante, forse appena intimidito dalla folla di divise e di grisaglie. La sposa, nel suo abito bianco, è bellissima: bionda, minuta, con i capelli raccolti in uno chignon.
Dopo la morte di Insalaco, gli album di nozze verranno sequestrati. E minuziosamente controllati. Si voleva capire – spiegarono gli inquirenti alla moglie, ormai separata – se tra gli invitati c’erano mafiosi. Mafiosi? A brindare nel giardino dei gesuiti con il capo della polizia e il ministro dell’Interno? La carriera romana di Restivo è cominciata nel 1958, con l’elezione a deputato nazionale.
Lo storico Francesco Renda l’ha descritta come un esilio: l’esodo dalla Sicilia di una generazione di democristiani che venne detta di «notabili», spodestati dai «giovani turchi» che si riconoscevano nella segreteria di Amintore Fanfani, primi fra tutti Giovanni Gioia e Salvo Lima. Una forma di rottamazione ante litteram, sia pure di lusso. Nel passaggio dalla generazione di Restivo a quella di Gioia e Lima cambiano i rapporti con gli uomini di Cosa nostra.
Ecco l’analisi che, di quel passaggio, fa la relazione di minoranza del Pci nella Commissione antimafia: «Giovanni Gioia passa dalla linea restiviana di alleanza soltanto elettorale e governativa con forze di destra che erano espressione organica di cosche mafiose, ma che restavano distinte e separate dal partito democristiano, a una concezione che mirava ad assorbire all’interno della Dc quelle stesse forze».
Più efficace è l’immagine che di quella trasformazione offre Giuseppe Campione, segretario della Dc siciliana alla metà degli anni Ottanta: «La generazione dei notabili aveva sì rapporti con la mafia, ma avendo cura che i mafiosi sedessero dall’altra parte del tavolo. Con l’avvento dei fanfaniani, uomini nuovi, senza carisma, tutto cambiò: l’intimità con i mafiosi diventò normale». Ci si cominciò a sedere dalla stessa parte del tavolo, insomma. Rottamato a Palermo, dove era stato per sei anni presidente della Regione, Restivo inaugura a Roma una lunga carriera come ministro. Comincia dall’Agricoltura, nel 1966.
LA STRAGE DI VIALE LAZIO
Nel giugno del 1968, la nomina a ministro dell’Interno. Sono anni di fuoco per la democrazia italiana. Letteralmente. Per capirlo, basta ricordare due stragi. La prima porta la firma di Cosa Nostra: Palermo, 10 dicembre 1969, un commando di uomini travestiti da poliziotti irrompe negli uffici del costruttore Girolamo Moncada, in viale Lazio, e comincia a sparare. La vittima designata è Michele Cavataio, detto «il Cobra», un mafioso che si è lanciato nel business dell’edilizia.
Con lui, muoiono altri tre mafiosi. Quarantott’ore dopo, il 12 dicembre, a Milano una bomba esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. I morti sono diciassette, 84 i feriti. È la strage di piazza Fontana. Terrorismo al Nord, mafia al Sud: è un binomio che si ripresenterà più volte nella storia d’Italia. In quel 1969 le due stragi parallele segnano ognuna un passaggio. Piazza Fontana è il punto d’inizio della strategia della tensione, la miscela torbida di estremismo nero, terrorismo, servizi segreti, apparati dello Stato specializzati in depistaggi che per anni insanguinerà l’Italia. Strage senza colpevoli, come Portella della Ginestra.
Il massacro di viale Lazio segna il debutto dei corleonesi sulla scena palermitana: nel commando omicida c’è Bernardo Provenzano e, tra i morti, il cognato di Totò Riina, Calogero Bagarella. Nell’angoscia che atterrisce l’Italia in quel lugubre dicembre, Palermo è considerata una frontiera minore: il luogo dove si ammazzano tra loro, secondo la formula che servirà a lungo come alibi per giustificare la disattenzione, il rifiuto di ogni impegno contro la mafia. A Insalaco, da segretario del ministro, tocca presidiare questa frontiera periferica.
È un incarico che manterrà fino al 17 febbraio 1972, quando Restivo traslocherà – per quattro mesi soltanto – al ministero della Difesa. Nasce in quegli anni la fama di Insalaco come uomo dei servizi, conoscitore di segreti, collezionista di dossier. Mai nulla di provato, mai un documento – piuttosto, un chiacchiericcio costante, un sussurro insistente.
È una leggenda? E Insalaco la subisce? O è lui stesso ad alimentare i dubbi – per incutere timore, per ottenere rispetto? Angelo Siino sostiene che Insalaco si vantò con lui di appartenere a un «servizio supersegreto» del ministero dell’Interno. Era una vanteria senza fondamento? Dopo il delitto, si fece il nome di Gladio, la rete di resistenza anticomunista – che non dipendeva comunque dal Viminale. I capi dei servizi segreti smentiranno tutti e sempre che Insalaco appartenesse a qualunque struttura. Ma le smentite, su argomenti del genere, per come vanno le cose in Italia, a torto o a ragione, suonano sempre come conferme.
Sull’inquadramento ufficiale di Insalaco negli organici del Viminale fornirà un quadro minimalista, dopo l’assassinio, il ministro dell’Interno Amintore Fanfani. Con la prudenza che l’aver a che fare con un morto ammazzato ispira, il 26 gennaio 1988 il ministro riferirà alla Commissione Affari costituzionali della Camera che il politico palermitano era sì inserito nel gabinetto ministeriale, ma «senza espletare», cioè senza mettere piede a Roma, «essendo utilizzato nella segreteria particolare del ministro Restivo con soggiorno a Palermo».
E così completerà il ritratto: «Insalaco chiese poi di essere inquadrato come dipendente non di ruolo con la qualifica di diurnista. Gli venne richiesto il titolo di studio; non lo fece pervenire. Nel 1974 la sua domanda fu definitivamente respinta». Non era poi una grande pretesa: il diurnista – secondo il dizionario Devoto-Oli – è il dipendente di un’amministrazione statale, assunto per lavori saltuari, che ha diritto a essere pagato a giornata per un trentesimo dello stipendio mensile di un avventizio. Poco più di un precario. Nessuna sorpresa che Insalaco abbia deciso di lasciar perdere. Aveva scelto un altro mestiere: la politica.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
LA CITTÀ MARCIA. Il suo battesimo di fuoco nei misteri di Palermo. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 15 Gennaio 2022.
In quell’inizio di anni Settanta il giovane Insalaco fa il suo debutto ufficiale sulla scena dei misteri di Palermo. Il ministro Restivo lo invia in avanscoperta per missioni delicate. L’occasione è la scomparsa di Mauro De Mauro, grande cronista e abilissimo cacciatore di scoop per L’Ora. Nell’autunno di quell’anno Vito Ciancimino decide di candidarsi a sindaco. È una provocazione destinata a fare scandalo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Nel giugno del 1970 viene eletto per la prima volta consigliere comunale. È il suo battesimo del fuoco. Non ha ancora trent’anni; la sua vita e la sua carriera sembrano andare a gonfie vele.
Nel suo Quando eravamo comunisti, corposo saggio sulla «singolare avventura del Partito Comunista in Sicilia», Elio Sanfilippo, che di quel partito è stato militante e dirigente fino al suo scioglimento, ha annotato un ricordo malizioso sul debutto politico di Insalaco. Lo descrive mentre si «compiace nel ricevere pubblicamente, appena eletto consigliere comunale, gli apprezzamenti affettuosi di Michele Greco, in occasione di una sua “visita” a Palazzo delle Aquile».
Palazzo delle Aquile è la sede del Municipio. Così l’antico Palazzo Senatorio è conosciuto fin dall’Ottocento. Deve il nome alle numerose aquile che lo decorano dentro e fuori. L’aquila è il simbolo della città di Palermo. È un nome che si presta a fin troppe ironie, considerando la levatura del personale politico che frequentava quel palazzo. Verrebbe da dire che, con le aquile, svolazzava in quelle stanze anche più di un avvoltoio.
MICHELE GRECO E LE VISITE IN MUNICIPIO
Il Michele Greco del 1970 non è ancora il «papa» della mafia, il boss che si professa appassionato lettore della Bibbia e che, afferrandosi alle sbarre della sua gabbia, nell’aula del maxiprocesso, augura ambiguamente «la pace» a giudici e giurati che stanno per riunirsi in camera di consiglio.
È invece un ricco possidente, un agricoltore che ha il vezzo di ospitare nella propria tenuta, la Favarella, nella borgata di Ciaculli, alti magistrati e ufficiali dei carabinieri, politici e professionisti. Che sia mafioso, s’intende, lo sanno tutti. Ma non lo dice nessuno. Non a voce alta, almeno. Si sfogherà, anni dopo, in uno dei molti processi per le stragi degli anni Novanta, un mafioso di Brancaccio, Tullio Cannella: «A Palermo, pure ’u gnuri, quello che porta la carrozzella, sa chi è mafioso e chi è una persona comune. Finiamola con questa storia della grande segretezza di Cosa Nostra». Nel quadretto disegnato da Sanfilippo c’è più di un dettaglio da sottolineare.
Il primo è il libero accesso che al mafioso Michele Greco è garantito nelle stanze del Municipio e la deferenza che deve essergli riservata se un consigliere alle prime armi, per giunta notoriamente al servizio del ministro dell’Interno, può compiacersi di ricevere le sue lodi in pubblico. Il secondo dettaglio interessante è l’affettuosità che Sanfilippo sottolinea. Non è difficile intuirne le ragioni.
Da segretario del ministro, Insalaco maneggia pratiche delicate, e per i mafiosi preziose: porti d’armi, patenti, licenze di caccia, per non dire delle misure di polizia, diffide, soggiorni obbligati. Che Michele Greco voglia tenersi buono quel giovane democristiano, è comprensibile. Più ambiguo – ma in pieno accordo con lo spirito del tempo – è il compiacimento del neoconsigliere comunale per il favore manifesto di un mafioso. In quell’inizio di anni Settanta il giovane che, pur «senza espletare», figura nella pianta organica del ministero dell’Interno, fa il suo debutto ufficiale sulla scena dei misteri di Palermo. Il ministro lo invia in avanscoperta per missioni delicate.
L’occasione è la scomparsa di Mauro De Mauro, grande cronista e abilissimo cacciatore di scoop per L’Ora. De Mauro scompare la sera del 16 settembre 1970, dopo essere salito in macchina con tre uomini che l’hanno raggiunto sotto casa.
E scompare proprio nei giorni in cui aveva detto in giro di aver in mano uno scoop da far tremare l’Italia. In bassa fortuna al giornale, stava lavorando per il regista Francesco Rosi, che lo aveva incaricato di procurargli materiale per un film su Enrico Mattei, il patron dell’Eni, morto nella misteriosa esplosione dell’aereo che lo riportava a casa da un viaggio in Sicilia. Qualche giorno dopo la scomparsa, si presenta a casa De Mauro, per «porgere i saluti del ministro», «un tal Insalaco». È Elda De Mauro a evocarlo con quella formula di sbrigativa sufficienza in un colloquio con gli inquirenti.
La moglie del giornalista ha chiesto aiuto a Restivo, amico di famiglia. Ed ecco spuntare, invece del ministro, un giovanotto: «un tal Insalaco», appunto. Alla donna, torturata dall’angoscia per la sorte del marito, la scelta del ministro di inviare il segretario sembra uno sgarbo o, peggio, un modo obliquo per prendere le distanze, per suggerire che, della scomparsa di De Mauro, Restivo non intende occuparsi. Cattivo segno. E fondato timore. Nel gennaio 2014 la magistratura getterà la spugna: assolto Totò Riina, indicato come possibile mandante nell’ultima delle molte inchieste sul caso De Mauro, si è stabilito una volta per tutte che il mistero resterà tale.
CIANCIMINO SINDACO DI PALERMO
Al di là del ricordo di Sanfilippo, non c’è traccia dell’esordio di Insalaco sulla scena politica palermitana. Ma c’è una buona ragione per ricordarsi dell’anno 1970 nella storia politica della città. Nell’autunno di quell’anno Vito Ciancimino decide di candidarsi a sindaco. È una provocazione destinata a fare scandalo.
Don Vito ha già una sua fosca fama: figura negli atti della Commissione parlamentare antimafia come l’assessore del sacco di Palermo, il responsabile dei lavori pubblici che, d’accordo col sindaco Salvo Lima, ha consentito a una genia di costruttori venuti su dal nulla di stuprare e distruggere la splendida città liberty.
Nei primi anni Sessanta, da assessore, Ciancimino ha distribuito migliaia di licenze edilizie a prestanome, ha fatto la fortuna di costruttori mafiosi («in odor di mafia», si diceva allora: come se la mafia avesse un suo odore speciale). Da Roma il presidente della Commissione antimafia, il senatore Luigi Cattanei, che pure è un democristiano, critica con durezza la candidatura a sindaco di Ciancimino. Ma don Vito non si arrende.
Nella Dc palermitana comincia una fronda sotterranea per sbarazzarsi dell’ingombrante candidato. E chi più briga per sbarrare la strada a Ciancimino è lo stesso perso[1]naggio che, da sindaco, l’aveva avuto accanto nel sacco di Palermo: Salvo Lima, che ha da poco abbandonato la corrente fanfaniana e ha stretto un’alleanza con Giulio Andreotti destinata a durare fino alla sua morte. Troppo prudente per esporsi in prima persona, Lima invia il suo braccio destro, Michele Reina, a trattare con Achille Occhetto, segretario provinciale del Pci, per affondare la candidatura di Ciancimino.
Nel suo libro Sanfilippo ricostruisce un inquietante retroscena di quella trattativa. Il democristiano e il comunista si incontrano in segreto nelle stanze malandate del Sunia, il sindacato inquilini, in via xx Settembre.
È uno strano luogo per convocare appuntamenti riservati, nel cuore della città. Occhetto è diffidente, ha paura di essere usato nei giochi di corrente della Dc, chiede a Reina garanzie. E la garanzia che il democristiano gli offre – scrive Sanfilippo – è il rischio che egli stesso corre in quegli incontri: è in gioco, confida, la sua «incolumità personale». Nel ricordo di chi la sentì riferire da Occhetto, la frase di Reina è sincera fino alla brutalità: «Voi comunisti fate politica, ma io qui rischio la vita».
La perderà davvero, la vita, Michele Reina, e sarà la mafia a to[1]gliergliela, ma nove anni dopo, nella campagna di sterminio di un anno fatale e misterioso, il 1979. Eppure quella consapevolezza di giocarsi la pelle sui tavoli della politica, quella frase drammatica lanciata nel campo neutro di una scalcagnata sede sindacale, tra due avversari politici che dovevano solo decidere come mandare a casa un sindaco, fa davvero impressione.
Significa che i democristiani sapevano di avere una pistola puntata alla tempia. Sapevano che, a Palermo, le scelte della politica erano questione di vita o di morte. E lo sapevano prima ancora che si aprisse la stagione dei cadaveri eccellenti, come li chiamò il regista Francesco Rosi.
Il delitto che apre ufficialmente quella stagione è l’assassinio del procuratore della Repubblica Salvatore Scaglione. La data è il 5 maggio 1971. Dunque, quando nelle stanze del Sunia il democristiano Reina confida le sue paure al comunista Occhetto, il procuratore Scaglione è ancora ben vivo e non sa che non vivrà un’altra estate.
Non c’è storia della mafia che non ricordi, con una sorta di preoccupata sollecitudine, che don Vito fu sindaco solo per 56 giorni. È una mezza verità, sostenuta con tale foga da somigliare a un esorcismo: come se si volesse dimostrare a tutti i costi che Ciancimino fu una meteora, la sua sindacatura un incidente subito archiviato.
Con maggiore fedeltà alla cronaca e una curiosa imprecisione, il sito del Comune di Palermo lo indica in carica dal 25 novembre 1970 al 27 aprile 1971, che fa un totale di 153 giorni. È un errore, perché Ciancimino venne eletto sindaco il 13 ottobre, non a fine novembre. E sarà certo un caso, un banalissimo errore di trascrizione, ma è curioso che quell’errore equivalga a cancellare un mese e mezzo di sindacatura cianciminiana dagli annali del Comune.
Acciuffata l’elezione per un pelo, con un solo voto in più rispetto al candidato delle sinistre, Ciancimino si dimise il 7 dicembre, travolto dalle polemiche. A impallinarlo, provvide anche il capo della polizia, Angelo Vicari. Volato da Roma a Palermo col pretesto dell’ennesimo omicidio di mafia, Vicari trovò l’occasione per dichiarare alla stampa che, sul nuovo sindaco, condivideva le riserve espresse dall’Antimafia. Parole pesanti, se a pronunciarle è il capo della polizia: un avviso di sfratto. E don Vito dovette intravedere, dietro quella pubblica sconfessione, il profilo del ministro dell’Interno, Franco Restivo, il protettore del giovane Insalaco.
Nel gioco oscuro di coincidenze che segna la storia siciliana, il 7 dicembre, giorno delle dimissioni di Ciancimino, è una data da ricordare. Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, a Roma, un’avanguardia di golpisti in armi entrò nei sotterranei del Viminale, salvo poi ritirarsi, per motivi destinati a restare ignoti. Era il golpe Borghese, dal nome dell’uomo che lo guidò: Junio Valerio Borghese, il principe nero – un fascista, sia detto per inciso, al quale il giornalista De Mauro, in gio[1]ventù repubblichino, fu legato da ammirazione e affetto.
Di quel tentativo abortito di colpo di Stato, l’Italia seppe un anno dopo, e in versioni edulcorate, come di un golpe da operetta, un’opera buffa messa in scena da un manipolo di guardie forestali e di nostalgici del duce. Ma Cosa Nostra ne era stata informata in anteprima. Si dovranno aspettare gli anni Ottanta per ascoltare, in pieno maxiprocesso, dalla viva voce di Luciano Liggio una versione dei fatti sorprendente. Atteggiandosi a difensore della democrazia, Liggio racconterà che Cosa Nostra era stata interpellata dai golpisti perché fornisse uomini e armi all’impresa di Borghese, ma si era tirata indietro.
Ed è lecito il dubbio che lo scoop clamoroso che De Mauro non riuscì mai a pubblicare fosse, appunto, la storia di un progetto di golpe a doppia firma: mafia e fascisti. Ma l’alleanza saltò. In misteriosa sincronia, tutti si tirarono indietro, quel 7 dicembre 1970: Ciancimino dimettendosi dalla carica di sindaco; Cosa Nostra rifiutando l’offerta di partecipare al golpe; i golpisti arretrando dai sotterranei del Viminale. Indecifrabili coincidenze
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
LA CITTÀ MARCIA. Affari e fortune di don Vito, da Bernardo Mattarella al conte Cassina. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 16 gennaio 2022.
È noto che la fortuna del figlio del barbiere cominciò con la concessione del trasporto dei carri. Ed è noto che, a garantirgliela, fu il sottosegretario ai Trasporti Bernardo Mattarella. Il 30 dicembre 1970, riunisce la giunta e fa approvare due provvedimenti. Il primo riconosce ad Arturo Cassina «maggiori oneri di manutenzione» per 3 miliardi, 433 milioni, 762 mila 645 lire.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Giuseppe Insalaco non votò per Ciancimino, ma lo fece nel segreto dell’urna. Il giorno dell’elezione, solo due consiglieri democristiani rifiutarono pubblicamente di esprimersi a favore dello spavaldo corleonese. Si chiamavano Alberto Alessi e Salvatore Galante.
Qualche tempo dopo, a Galante incendieranno la macchina. Quanto ad Alessi, comincerà a ricevere telefonate di minaccia e si brucerà per dieci anni la carriera: denunciato ai probiviri della Dc, privato della tessera, escluso per due legislature dalle liste elettorali. Ma né le trame sotterranee di Salvo Lima né l’esplicito dissenso dei due consiglieri riuscirono a impedire che Ciancimino venisse eletto e conservasse la carica per 196 giorni, ben oltre la data delle dimissioni.
Un periodo breve, forse, se paragonato alla sua ambizione, ma abbastanza per mettere a punto due affari che appesteranno l’aria fino agli anni Ottanta. E che affari! I due maggiori appalti comunali: la manutenzione delle strade e delle fogne e la pubblica illuminazione. Il primo, il più ricco, era da anni monopolio di un imprenditore di origini comasche, Arturo Cassina, arrivato a Palermo negli anni del fascismo e che in città aveva trovato la sua fortuna. L’appalto per l’illuminazione pubblica era invece appannaggio della Icem di Roberto Parisi.
Quattordici anni dopo, quando entrambi gli appalti andranno a scadenza, la dura contesa scatenata dai vecchi padroni, decisi a non lasciarsi mandar via, costerà la poltrona a tre sindaci, silurati l’uno dopo l’altro. Il terzo sarà Giuseppe Insalaco. L’ostinazione di Ciancimino nel rivendicare la carica di sindaco, sfidando l’opinione pubblica nazionale e perfino il suo stesso partito, venne attribuita a cialtronaggine.
La tracotanza del personaggio era così esplicita, così spudorata da far apparire ragionevole l’idea che quella pretesa fosse dovuta a pura ambizione o a un capriccio. Più saggio sarebbe stato seguire il precetto che Giovanni Falcone mutuò dagli americani, indicandolo come la stella polare nelle indagini sulla mafia: «Follow the money». E solo a voler seguire la pista del denaro, l’ambizione dello spavaldo corleonese rivela un suo robusto fondo di realismo. Ciancimino ha alternato, o mescolato, affari e politica fin da quando, a ventisei anni, ottenne la concessione del trasporto dei carri ferroviari nella disastrata Palermo del dopoguerra.
Era allora lo spiantato figlio di un barbiere di Corleone. Diventò il prototipo di un modello destinato a un largo seguito nell’Italia repubblicana: il politico che usa gli affari per fare politica e la politica per fare affari, senza mai venir meno alla convinzione che il fine ultimo della politica siano gli affari.
IL MINISTRO MATTARELLA
È noto che la fortuna del figlio del barbiere cominciò, appunto, con la concessione del trasporto dei carri. Ed è noto che, a garantirgliela, fu il sottosegretario ai Trasporti Bernardo Mattarella. Ma a Ciancimino, la benevolenza di Mattarella non sarebbe bastata se la Questura non gli avesse dato una mano a ottenere il suo primo, decisivo appalto, certificandolo laureato in Ingegneria e assicurando che fosse più che benestante, capace di poter spendere, a prezzi del 1950, sedici milioni di lire per acquistare le attrezzature necessarie al trasporto dei carri ferroviari.
Erano due menzogne in un colpo solo. E lo slancio con cui la Questura fornì notizie false a sostegno delle ambizioni dello spiantato corleonese avrebbe bisogno di una spiegazione. Sarà un caso, ma il ministro dell’Interno, in quel 1950 in cui la Questura di Palermo si mostrava così attenta alla sorte di Ciancimino, era un altro siciliano, Mario Scelba.
E viene da domandarsi quali benemerenze il giovane corleonese potesse vantare con la polizia. Un piccolo, possibile indizio appare in una relazione su mafia e politica presentata al Parlamento nel maggio 1993 dal deputato Alfredo Galasso, che accredita Ciancimino come interprete, a Corleone, per il tenente colonnello Charles Poletti, l’ufficiale italoamericano che fu governatore della Sicilia per gli affari civili dopo lo sbarco degli Alleati nel luglio 1943.
Furono quei contatti a spianare la carriera del giovane corleonese? Vent’anni dopo aver fatto, letteralmente, carte false per consentire a Ciancimino di farsi una posizione, nel marzo 1970 la Questura di Palermo gli ritira ogni credito: mette nero su bianco che Ciancimino è sospettato di collusione con soggetti mafiosi, che si è arricchito con molta rapidità ed è imputato di interesse privato in atti d’ufficio.
Per effetto di quelle informazioni, don Vito perde l’appalto che gli aveva consentito di diventare ricco. Quando questo accade, c’è ancora una volta un siciliano alla guida del ministero degli Interni, ed è Franco Restivo, mentre nella Questura di Palermo si muove con gran disinvoltura il giovane Giuseppe Insalaco.
C’è il desiderio di vendicarsi di quello smacco nell’ostinazione con cui Ciancimino pretende di farsi eleggere sindaco? Oppure lo guida il bisogno di trovare nuove fonti di guadagno? È un fatto che, conquistata l’elezione alla guida del Comune, Ciancimino mette in cantiere nuovi affari.
GLI APPALTI PER IL CONTE CASSINA
Il 30 dicembre 1970, nonostante abbia dovuto annunciare le dimissioni, riunisce la giunta e fa approvare due provvedimenti. Il primo riconosce ad Arturo Cassina «maggiori oneri di manutenzione» per 3 miliardi, 433 milioni, 762 mila 645 lire. Una cifra enorme: in moneta corrente più di 31 milioni di euro.
La seconda delibera che don Vito fa approvare alla sua giunta è un «atto di sottomissione» – e mai termine burocratico fu più azzeccato – a favore dell’impresa d’illuminazione pubblica: si trattava di modificare il sistema di calcolo della revisione prezzi. Bastarono quattro anni ai funzionari del Municipio per accorgersi che, con i conteggi eseguiti secondo il nuovo metodo, la Icem incassava il 131 per cento dei costi sostenuti, perché il meccanismo escogitato da Ciancimino consentiva all’impresa di farsi pagare due volte le spese per le lampade.
Vent’anni dopo saranno i giudici del Tribunale a scrivere in una sentenza che l’«atto di sottomissione» del 1970 aveva prodotto per il Comune «disastrose conseguenze economiche». Quando i nodi verranno al pettine, sindaci e funzionari si giustificheranno dicendo che c’erano stati errori. Ma quegli errori – annoteranno i giudici – «stranamente» hanno avvantaggiato sempre l’impresa, mai il Comune. E non faticheranno a trovarne il bandolo: azionista occulto della Icem è un democristiano legato a filo doppio a Ciancimino, Giovanni Matta. Nei giorni in cui don Vito siede alla guida del Comune, il 17 novembre 1970, sette democristiani spediscono a Oscar Luigi Scalfaro, che a Roma dirige l’organizzazione del partito, una denuncia di una durezza impressionante.
I sette scrivono che «nella Dc palermitana non si fa politica», le tessere sono false, non c’è democrazia, ci sono solo commissari, il tesseramento fasullo è l’occasione per grosse operazioni finanziarie. Chiedono «pulizia». È un attacco neppure troppo segreto a Ciancimino, che per sedici anni è stato commissario della Dc. La lettera è una serrata requisitoria contro la sua gestione. Verrà ignorata.
Quindici anni dopo l’invio di quella denuncia, dei sette firmatari, uno, Michele Reina, sarà morto ammazzato e un altro, Rosario Nicoletti, morto suicida – e fa già un po’ impressione. Fa ancora più impressione sapere che un altro dei sette, Ferdinando Brandaleone – secondo la testimonianza di Gino Pennino, mafioso e democristiano – era un uomo d’onore. Il che situa la doppia militanza nella mafia e nell’antimafia molto lontano nel tempo, molto più lontano di quanto le cronache di questi anni siano disposte a riconoscere.
Pur con le sue firme ambigue, quella denuncia rivela una verità che troppo spesso passa sotto silenzio: che non fu solo l’omertà dei siciliani a favorire la mafia. Ci fu quanto meno una complicità più alta, il silenzio romano, l’inerzia di chi poteva intervenire e non lo fece. Palermo, la Sicilia, andavano consegnate agli assassini.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
Eroina e fiumi di denaro cambia Cosa Nostra e cambia la politica a Palermo. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 17 Gennaio 2022.
Nell’autunno del 1979 Bontate è uno dei capi più temuti e rispettati di una Cosa Nostra che è appena diventata la prima potenza criminale al mondo. È in quella stagione che comincia la più violenta mattanza che mai Cosa Nostra abbia condotto contro i suoi nemici nelle istituzioni, nella politica, nella società civile.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Ci sono giorni che ci cambiano la vita e noi li attraversiamo ignari, inconsapevoli: nessun segno, nessun annuncio, nessuno squillo di tromba ci avverte della possibile felicità o del baratro imminente.
Il 9 novembre 1979 Giuseppe Insalaco firma la propria rovina, e non lo sa. Da due anni è stato nominato commissario dell’Istituto statale per i sordomuti, un incarico di sottogoverno di quelli che il partito al potere assegna con generosità a chi vive di politica.
Quel giorno d’autunno, nello studio del notaio Giuseppe Maniscalco, Insalaco firma l’atto di vendita di un terreno di ventimila metri quadri, che da quindici anni l’Istituto possiede nella borgata di Falsomiele. Gli acquirenti sono due cugini, entrambi costruttori, Gaetano e Michele Saccone. Il prezzo viene fissato in cento milioni di lire. A versarli, però, non sono gli acquirenti, ma un terzo Saccone, rispettivamente zio e cugino di Michele e Gaetano.
Si chiama Orazio, anche lui è un costruttore. Qualche anno dopo figurerà negli atti del maxiprocesso come uomo d’onore della famiglia di Santa Maria di Gesù, un fedelissimo di Stefano Bontate. Falsomiele, con quel nome ingannevolmente dolce, è una borgata di mafia, in quell’area orientale di Palermo che è il tradizionale dominio della famiglia Bontate.
E proprio un’agenzia bancaria di Falsomiele, una filiale della Cassa Rurale e Artigiana di Monreale, per ordine di Orazio Saccone, il 9 novembre 1979 emette due assegni per un importo di 166 milioni. Cento vanno al commissario dell’Istituto Sordomuti, Giuseppe Insalaco, e sono il prezzo per la vendita del terreno, gli altri sessantasei sono destinati a una donna, Maria Vittoria Agnello.
Bionda, elegante, moglie separata di un notaio, la baronessa Agnello è la nuova compagna di Insalaco, che da un anno si è separato dalla consorte. Il 12 novembre, tre giorni dopo la vendita del terreno, quei sessantasei milioni vengono dirottati su un conto privato di Insalaco. Sulla girata dell’assegno, figura la firma della baronessa.
Anche a uno sguardo superficiale, l’operazione appare turbinosa: ci sono due tipi che comprano e un terzo che paga; chi sborsa i soldi firma, contemporaneamente, due assegni, intestati l’uno a un uomo pubblico, l’altro alla sua compagna. Cinque anni dopo, nel febbraio 1984, l’affare del terreno venduto ai Saccone verrà ricostruito in una lettera anonima inviata alla Procura della Repubblica, un attimo prima che Giuseppe Insalaco diventi sindaco. È un anonimo dettagliato, scritto da qualcuno che sembra aver conservato in un dossier tutti i passaggi di quell’operazione, compreso il numero di serie degli assegni. Servirà prima per minacciare Insalaco, poi per affondarlo.
LA MORTE DI RESTIVO E LA “NUOVA” AVVENTURA POLITICA
In un duello pubblico con Piercamillo Davigo, inflessibile magistrato del pool Mani Pulite, nei primi anni Novanta, Giuliano Ferrara lanciò, come un guanto di sfida, una massima che è un capolavoro di cinismo: «Chi non è ricattabile non può fare politica». Anche a voler prendere per buona la provocazione, tocca domandarsi dove si trovi la centrale operativa del ricatto.
Quale archivio conserva le carte, i dossier che serviranno per ricattare un politico? E chi può dare l’ordine di aprire gli archivi al momento giusto? Nell’autunno del 1979, per Insalaco, insidie e minacce anonime sono ancora lontane. Quel democristiano non ancora quarantenne appare nel pieno di una fortunata scalata al potere. Il 17 aprile 1976 è morto improvvisamente Franco Restivo.
Rimasto orfano del suo padre politico, Insalaco ha dovuto scegliere una corrente: si è accampato tra i fanfaniani. È una scelta che alcuni suoi compagni di partito hanno giudicato sorprendente: Giovanni Gioia, il capo dei fanfaniani, è stato rivale di Restivo e alleato di Vito Ciancimino.
Insalaco dovrebbe considerarlo un avversario, se non un nemico. Ma è noto che la coerenza non rientra tra le virtù apprezzate in politica. La scelta frutta a Insalaco un premio. Il 24 novembre 1978, a trentasette anni, viene nominato assessore all’Annona nella giunta del sindaco Salvatore Mantione, un pacioso farmacista che milita tra gli andreottiani di Salvo Lima e che ha lasciato di sé un unico, patetico ricordo: la sua sollecitudine per il leone di Villa Giulia, un macilento felino che trascorreva tristi giornate chiuso in gabbia nel bellissimo giardino di corso Tuköry.
Il giovane assessore capisce al volo come farsi notare. Lancia una sfida all’abusivismo commerciale, fa chiudere più di trecento esercizi che non sono in regola con le norme annonarie. C’è della furbizia in quella crociata. È un modo per ottenere titoli sui giornali e garantirsi visibilità, intestandosi una battaglia di moralizzazione.
Ma è anche un ottimo stratagemma per costringere i commercianti a venire a patti con il nuovo assessore, sfilando rassegnati nel suo ufficio per contrattare la riapertura. Ci sono scelte più segrete, in quegli stessi anni. Secondo Antonino Calderone, un mafioso catanese che apparirà sulla scena dopo il maxiprocesso come un collaboratore di giustizia di prima grandezza, Insalaco, dalla seconda metà degli anni Settanta è sotto la protezione di Stefano Bontate, il capomafia che ha studiato dai gesuiti. L’11 novembre 1992, al presidente della Commissione antimafia, Luciano Violante, che gli domanda seccamente: «Insalaco?», Calderone risponde: «So che Tanino Fiore, un uomo d’onore di Palermo, gli ha fatto la campagna elettorale con Stefano Bontade e dicevano: “Dobbiamo fare la campagna elettorale per il figlio di uno sbirro...” perché suo padre era maresciallo dei carabinieri o di pubblica sicurezza».
Chi sa come avrebbe reagito il capomafia se avesse saputo che il «figlio dello sbirro» teneva in una cassapanca, in camera da letto, l’uniforme di gala del padre maresciallo e aveva l’abitudine di spazzolarla spesso, in un gesto di devozione che appare molto siciliano.
E chi sa quali erano i pensieri del giovane democristiano che aveva scelto di raccomandarsi a un capomafia mentre tirava a lucido la divisa del padre carabiniere.
Nell’autunno del 1979 Bontate è uno dei capi più temuti e rispettati di una Cosa Nostra che è appena diventata la prima potenza criminale al mondo. In un saggio datato 1990 sulla mafia siciliana e i suoi traffici mondiali, Claire Sterling, giornalista con ottimi agganci negli apparati di sicurezza Usa, racconta come sia stata una decisione americana a favorire l’ascesa dei siciliani.
È accaduto che il presidente Richard Nixon, nei primi anni Settanta, prima di fini[1]re triturato dallo scandalo Watergate, abbia dichiarato guerra al business della droga e abbia insediato una commissione speciale, la Task Force One, affidandone la guida a Henry Kissinger, con l’incarico di sbaragliare i trafficanti. Condotta con l’energia di una crociata, la guerra voluta da Nixon modifica l’assetto mondiale del commercio di stupefacenti in una fase in cui il numero di consumatori di eroina nel mondo, grazie alle politiche mafiose di moltiplicazione della clientela, va esplodendo.
La pressione americana porta alla distruzione della French connection, mandando a picco gli affari dei clan corsi di Marsiglia che erano allora i maggiori raffinatori di eroina al mondo, e costringe la mafia turca, che controlla l’importazione della morfina base dall’Oriente, a cercare nuovi alleati sulle sponde del Mediterraneo.
La scelta cade sui siciliani: legati ai padrini d’oltre Atlantico da solide reti di parentela, i mafiosi dell’isola sembrano i più capaci di impadronirsi delle nuove rotte del traffico, anche perché possono sfruttare le sperimentate vie del contrabbando di tabacchi. Non che i siciliani siano gli ultimi arrivati nel traffico di stupefacenti: se ne occupano da decenni.
Ma una cosa è smerciare il prodotto finito e un’altra cosa controllare tutti i passaggi della raffinazione, acquistando la materia prima e trasformandola in eroina. I guadagni schizzano alle stelle. Tommaso Buscetta data al 1978 «l’ingresso massiccio della mafia nel mercato dell’eroina». Un fiume di denaro inonda la Sicilia.
IL BUSINESS DELLA DROGA E LA STAGIONE DEGLI OMICIDI ECCELLENTI
Nel 1979 la Dea, l’agenzia antidroga americana, calcola che il business della droga nel mondo equivalga a trentamila miliardi di lire. Quasi cinque volte di più del fatturato che poteva allora vantare la Fiat – e una Fiat che contava duecentomila dipendenti. È in quella stagione che comincia la più violenta mattanza che mai Cosa Nostra abbia condotto contro i suoi nemici nelle istituzioni, nella politica, nella società civile.
Gli assassinii, a Palermo, si succedono con lugubre cadenza. L’elenco è impressionante: nel 1979 muoiono un giornalista, Mario Francese (26 gennaio), il segretario provinciale della Dc, Michele Reina (9 marzo), il capo della Squadra Mobile, Boris Giuliano (21 luglio), un magistrato, Cesare Terranova, insieme con il maresciallo Lenin Mancuso che gli fa da scorta (25 settembre); nel 1980 cadono il presidente della Regione, Piersanti Mattarella (6 gennaio), il capitano dei carabinieri, Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale (4 maggio), il procuratore della Repubblica, Gaetano Costa (6 agosto).
In più di trent’anni nessuno ha spiegato in maniera convincente perché un’associazione criminale che aveva praticato una più che secolare cultura della cautela nel rapporto con le istituzioni, badando a usare l’assassinio di persone estranee all’organizzazione come estrema arma di difesa e di offesa, abbia deciso improvvisamente di inaugurare una martellante campagna di sterminio e perché lo abbia fatto prima di scatenarsi in una guerra che porterà una cosca a prevalere sulle altre.
Come se la mattanza di (certi) uomini delle istituzioni fosse la logica premessa alla possibilità di regolare i propri conti interni e di affermare la propria supremazia senza incontrare alcuna resistenza. Nessuno, soprattutto, ha spiegato perché questa campagna sia stata condotta in condizioni di totale impunità. Come se gli squadroni della morte mafiosi, e soprattutto i capi che nell’ombra li manovravano, sapessero di poter contare sull’arrendevolezza dei poteri dello Stato, su un tacito accomodamento.
Soltanto dieci anni prima, negli anni Sessanta, le stragi avevano prodotto blitz, invii al confino, spettacolari repressioni: una reazione dello Stato, magari scomposta e inutile, ma esibita nello sforzo di mostrare una maschera di fermezza, un simulacro di vitalità. Alla fine degli anni Settanta, nulla succede. Al più, si conia una formula nuova: si parla di «terrorismo mafioso».
A sinistra, si inserisce un aggettivo: «terrorismo politico-mafioso». È una formula studiata per suggerire un’analogia tra gli assassinii siciliani e quanto va accadendo nel resto d’Italia. In soli due anni, dal 1979 al 1980, il terrorismo rosso uccide 52 persone – e sono poliziotti e carabinieri, giornalisti e magistrati. E poliziotti e carabinieri, magistrati e giornalisti vengono ammazzati a Palermo.
GLI OBIETTIVI DELLA MAFIA
Ma sparare alle stesse persone – o meglio, alle stesse categorie di persone – non significa avere gli stessi obiettivi. A differenza dei brigatisti, Cosa Nostra non vuole abbattere lo Stato. Il più diabolico dei suoi talenti, da sempre, sta nell’allearsi con il potere, qualunque potere, avendo cura di schierarsi dalla parte del più forte.
E mentre la costellazione del terrorismo rosso stila volantini, produce documenti, rivendica i delitti e chiede che i propri proclami siano pubblicati dai giornali, la mafia tace. Se rivendica, lo fa per depistare. Quando il democristiano Michele Reina viene ucciso, un uomo telefona in questura per rivendicare l’assassinio a nome di Prima Linea, una sigla della galassia brigatista.
Ci vorranno anni per scoprire che a fare quella telefonata è stato un mafioso. Ma le formule, in politica, non sono mai innocenti. Tracciare un’equivalenza con i terroristi significa indicare i mafiosi come for[1]ze estranee al sistema, suggerire che vogliano sovvertire il corso del potere.
Un’operazione che somiglia a un esorcismo. Almeno due persone dissero d’intravedere in quella sequenza di uccisioni un disegno, e un disegno politico – e furono un magistra[1]to, Rocco Chinnici, e un segretario di partito, il comunista Pio La Torre. Anche loro saranno assassinati.
Negli anni le loro intuizioni sono state accantonate e l’interpretazione prevalente della mattanza si è spostata sulla bestialità mafiosa, come se criminali che mano[1]vravano, in quegli anni, centinaia di miliardi e avevano rapporti d’affari dall’Oriente all’Occidente potessero consentirsi il lusso di comportarsi da animali.
Scriverà in Romanzo civile Giuliana Saladino: «Non esiste città o cittadina o villaggio d’Europa che possa vantare – senza golpe, senza eserciti in armi, né assedio e irruzione entro le mura – l’intero establishment politico burocratico militarpoliziesco massacrato: capo della Procura, vice questore, capo dell’opposizione, capo della regione, medico legale, generale prefetto.
In quest’era nostra forse è accaduto – ma non è detto – in qualche villaggio georgiano sotto Stalin, forse accade – non sappiamo con precisione – in qualche Macondo dell’America centrale o meridionale, forse, supponiamo, in qualche insediamento del centro dell’Africa. In Europa, nazismo eccettuato, non accade, credo, da oltre due secoli».
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
Giochi di potere in Sicilia, la base militare di Comiso e la Guerra Fredda. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 18 Gennaio 2022.
Ha annotato Arrigo Levi, un giornalista estraneo ai sensazionalismi, a proposito della scelta di insediare in Sicilia la base per gli euromissili: «Non credo siano molti gli italiani consapevoli del fatto che quella nostra decisione [...] contribuì in modo straordinario, forse perfino decisivo, alla caduta dell’impero sovietico e alla fine del comunismo»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Qualcosa di straordinario, in quel fatale anno 1979, sta davvero per succedere in Sicilia. Per capirlo, bisogna andare a 7596 chilometri da Palermo: in una piccola isola delle Antille, Guadalupa. Lì, il 5 e il 6 gennaio 1979, si riuniscono le grandi potenze d’Occidente. Al summit partecipano il presidente Usa, Jimmy Carter, il premier inglese James Callaghan, il presidente della Repubblica francese, Valéry Giscard d’Estaing e il cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, Helmut Schmidt. L’Italia manca: non è stata invitata. Ufficialmente il vertice è stato convocato per discutere di economia. In realtà si parla di tutt’altro. Di missili.
La ragione vera dell’incontro è che la Nato è allarmata dallo squilibrio di forze con l’Urss sul teatro europeo. Già dal 1977 i servizi segreti occidentali hanno segnalato che Mosca sta schierando sul suolo sovietico missili SS20 a testata nucleare, capaci di raggiungere qualunque bersaglio nell’Europa occidentale. Le analisi dell’intelligence convergono nell’indicare quei missili come un cuneo destinato a dividere l’Europa dagli Usa.
Per riequilibrare i rapporti di forza, la Nato vuole schierare in risposta una nuova generazione di missili: il punto è decidere quale paese dovrà accoglierli. Il cancelliere Schmidt chiede che la Germania non sia la sola nazione europea a ospitare le basi missilistiche; teme rappresaglie; ha paura che Mosca piloti eventuali azioni terroristiche, come del resto suggeriscono i servizi occidentali.
Ma se la Germania non li vuole, chi si prende gli euromissili? Quella riunione nell’esotico scenario di un’isola dei Caraibi è il primo atto della trasformazione della Sicilia nella sede della base militare nucleare più grande d’Europa. Bisognerà aspettare il novembre 1979 perché il presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, dichiari ufficialmente che l’Italia ha accettato di installare i missili – gli euromissili – sul proprio territorio e addirittura l’agosto 1981 perché il governo della Repubblica italiana – il primo nel dopoguerra guidato da un non democristiano – spieghi che il luogo scelto per ospitare la base è Comiso, nella Sicilia sudorientale. Ma la scelta è stata fatta molto tempo prima.
E a rivelarlo è il diplomatico che l’Italia designò a rappresentarla nel «gruppo di esperti ad alto livello» che doveva elaborare il programma degli euromissili. Quest’uomo, Antonio Ciarrapico, ha pubblicato nel 2012, in un saggio dal titolo suggestivo, Le ombre della storia, una ricostruzione della vicenda euromissili che merita di essere letta con attenzione.
Nel luglio del 2013 la rivista Affari esteri ha ristampato quella ricostruzione con un titolo ancora più accattivante: La storia poco conosciuta degli euromissili. Con l’accuratezza del testimone e la disinvoltura di chi si sente ormai svincolato dall’obbligo di segretezza sugli eventi cui ha partecipato, Ciarrapico spiega come la scelta di puntare sulla Sicilia gli venne anticipata dagli americani nei primi mesi del 1979.
E indica la data e il luogo in cui venne informato delle preferenze Usa. Seguiamo il racconto dell’ambasciatore Ciarrapico. La data: mercoledì 28 febbraio e giovedì 1 marzo 1979. In quelle quarantott’ore, a Colorado Springs, contea di El Paso, nello stato americano del Colorado, l’Hlg (High Level Group), il gruppo degli esperti che da due anni si incontrano periodicamente, si riunisce per continuare a discutere degli euromissili.
LA BASE AMERICANA A SIGONELLA
Prima di partire per gli Usa, l’ambasciatore Ciarrapico, che è profondamente convinto della necessità che l’Italia si candidi a ospitare la nuova base ma conosce le perplessità dello stato maggiore della Difesa, ha consultato il governo.
Non ha parlato con il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, ma con due ministri di primo piano, entrambi democristiani. Uno è il responsabile degli Esteri, Arnaldo Forlani.
L’altro è un mantovano eletto nella Sicilia Occidentale, il ministro della Difesa Attilio Ruffini, nipote di un famoso cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, celebre per aver definito la mafia un’invenzione dei comunisti. A sorpresa, nei suoi colloqui riservati, l’ambasciatore ha ottenuto dai due ministri un cautissimo, segreto benestare.
Senza consegnargli nulla di scritto, Forlani e Ruffini hanno autorizzato Ciarrapico a far trapelare nella riunione di Colorado Springs l’interesse italiano a intestarsi la titolarità della nuova base. Con le cautele del caso, l’ambasciatore lo accenna al vicesegretario alla Difesa americano David E. McGiffert. Bostoniano e democratico, McGiffert ha un curriculum di tutto rispetto. Il suo primo incarico nell’amministrazione Usa risale al 1962. Ha lavorato con il presidente John Kennedy e con il suo successore, Lyndon Johnson.
Dalla plancia di comando del Pentagono, nel 1968 ha fronteggiato in patria le proteste pacifiste contro la guerra in Vietnam. Quando il neopresidente Carter lo richiama in servizio, ha una robusta conoscenza della macchina militare Usa.
Ciarrapico racconta che il negoziatore americano, appena informato delle cautissime avances italiane, lo prende in disparte per parlargli con maggior franchezza: «A titolo di anticipazione aggiunse che, nelle prospettive del Pentagono, si escludeva di utilizzare una base nel Veneto, come forse ci si attendeva da parte italiana, e si pensava alla possibilità di schierare un certo numero di missili di crociera basati a terra in Sicilia, preferibilmente a Sigonella, ove gli Stati Uniti erano già presenti ed ove esistevano già delle infrastrutture aeroportuali adeguate». Dunque, il disegno del Pentagono era chiarissimo – e bell’e pronto.
È bastato che da parte italiana si manifestasse un barlume di disponibilità perché gli americani svelassero un piano già definito, che riguardava la Sicilia. «Preferibilmente», Sigonella. Sarà Comiso, invece, a settanta chilometri di distanza. Nel pieno della guerra fredda, con la decisione di puntare sull’isola per installare i missili che, nelle intenzioni dell’Alleanza atlantica, dovranno riequilibrare il rapporto Est-Ovest sul fronte delle armi di teatro, la Sicilia torna a essere decisiva sullo scenario geostrategico mondiale.
È un ruolo che l’isola non riveste dai giorni dello sbarco alleato, nel luglio 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale. Nella valutazione dell’ambasciatore Ciarrapico, quella scelta «avrebbe indotto qualche anno più tardi il governo sovietico [...] ad accogliere la proposta occidentale di totale azzeramento, da entrambe le parti, delle armi di teatro a lungo raggio». Come dire che i missili di Comiso hanno influito in maniera determinante sulle trattative per il disarmo, segnando una svolta per l’Occidente.
Nella storia della fine della guerra fredda, un capitolo è stato scritto in Sicilia.
Curioso che se ne parli così poco. Ha annotato Arrigo Levi, un giornalista estraneo ai sensazionalismi, a proposito della scelta di insediare in Sicilia la base per gli euromissili: «Non credo siano molti gli italiani consapevoli del fatto che quella nostra decisione [...] contribuì in modo straordinario, forse perfino decisivo, alla caduta dell’impero sovietico e alla fine del comunismo». Il primo ad ammetterlo, del resto, è stato un americano, Richard Gardner, ambasciatore a Roma dal 1977 al 1981: l’installazione dei missili a Comiso, ha scritto nelle sue memorie, «avrebbe avuto un peso decisivo nel convincere Gorbaciov ad adottare una politica estera più illuminata e di conseguenza nel determinare il crollo del comunismo e la caduta del Muro di Berlino». E viene da pensare ai timori tedeschi: che accogliere i nuovi missili sul proprio territorio esponesse al rischio di dover affrontare esplosioni di terrorismo.
In quei primi mesi del 1979, dunque, la Sicilia si avvia a diventare uno snodo fondamentale della strategia difensiva della Nato, candidandosi a ospitare la sede della più grande base nucleare d’Europa. È un progetto che gli americani perseguono non senza preoccupazioni. Secondo l’ambasciatore Ciarrapico, due sono le ragioni più forti di inquietudine per gli Usa: la presenza dei movimenti pacifisti e la forza del partito comunista in Italia. Ha scritto l’ambasciatore Gardner che, negli anni della presidenza Carter (gennaio 1977-gennaio 1981), l’Italia era «considerata dagli Stati Uniti “il problema politico potenzialmente più grave in Europa”».
Le ragioni sono presto dette: tra le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976 il Pci ha segnato una straordinaria avanzata elettorale. Nel 1976 il settimanale americano Time ha dedicato una copertina al segretario comunista Enrico Berlinguer, bollandolo come «Pericoloso».
Se non è un Wanted, come nei vecchi manifesti western per la caccia ai criminali, poco ci manca. E proprio la Sicilia è stato il laboratorio politico dove, a partire dal 1975, si è sperimentata in anteprima, con la formula dell’unità autonomista, la politica del compromesso storico tra la Dc di Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer.
Dal 1976 al 1978, per il governo dell’isola si sono varate le «larghe intese», formula che periodicamente riemerge nella politica italiana.
IL MISTERIOSO CASO SINDONA
Sarà un caso ma è nel 1979, in estate, che il banchiere Michele Sindona, in fuga da New York – dove è stato arrestato con l’accusa di bancarotta – arriva in Sicilia, scortato da mafiosi e massoni, e si nasconde a Palermo, dove incontra Stefano Bontate e gli espone il progetto di un golpe anticomunista, sostenendo di parlare a nome di ambienti americani.
Tommaso Buscetta attribuisce a Bontate una rude replica a quell’offerta: «Gli disse: “Lei mi sembra pazzo, sono stanco di colpi di Stato. Se li vada a fare lei”». Aggiunge: «L’hanno mandato via, l’hanno cacciato. Gli hanno detto: “vai via”». E val la pena di notare che, se la storia è vera, è la seconda volta in meno di dieci anni che qualcuno chiede l’appoggio della mafia per un golpe: i congiurati del principe Borghese nel 1970, Sindona nel 1979. C’è un altro personaggio legato a Cosa Nostra che sostiene di aver saputo nel 1979 di un progetto separatista per la Sicilia.
È Angelo Siino, il geometra di San Giuseppe Jato che si professa amico d’infanzia di Insalaco. Il 14 luglio 1997, Siino, da collaboratore di giustizia, riferisce di un piano separatista, organizzato dalla masso[1]neria d’intesa con la mafia nei tardi anni Settanta, con l’appoggio degli Stati Uniti, in funzione anticomunista.
Ma dice di aver saputo di quel progetto prima della venuta di Sindona e ne parla come se si trattasse di un piano differente. Notizie campate in aria? Nel giudizio corale dei magistrati, Siino è un collaboratore di giustizia più che attendibile. E in tema di massoneria, può vantare una certa competenza.
A ventott’anni, nel 1972, è stato ammesso nel Grande Oriente d’Italia, nella loggia Dante Alighieri. Poi è passato alla Camea, il misterioso Centro di attività massoniche ed esoteriche accettate che incrocerà il cammino della P2. Siino, che è un massone di grado 33, sostiene di aver conosciuto «in quell’ambiente» Licio Gelli. Suo fratello di loggia, nella Camea, era Bontate.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. Stefano Bontate, “principe” della mafia e frequentatore di salotti romani. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 19 Gennaio 2022.
È venuto il momento di guardarlo più da vicino, Stefano Bontate. Le cronache lo definiscono «il principe di Villagrazia». C’è chi sostiene che il soprannome appartenesse al padre di Stefano, Francesco Paolo Bontà, don Paolino, sanguigno capomafia. Meno ricordato è che la sorella di don Paolino, Margherita Bontade, zia di Stefano, fu per vent’anni, dal 1948 al 1968, deputata democristiana
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
È venuto il momento di guardarlo più da vicino, Stefano Bontate – o Bontade, secondo le mutevoli preferenze di cancellieri, magistrati, saggisti, giornalisti, storici –, il capomafia che il pentito Calderone indica come primo sponsor mafioso di Giuseppe Insalaco.
Le cronache giornalistiche, che amano applicare alle cose di mafia lo stile del feuilleton, lo definiscono «il principe di Villagrazia». Padre Ennio Pintacuda, il gesuita che fu padre spirituale e consigliere di Leoluca Orlando, studioso della politica e conoscitore profondo di uomini e cose di Palermo, sostiene che il soprannome appartenne al padre di Stefano, Francesco Paolo Bontà (o Bontate o Bontade), don Paolino, sanguigno capomafia, celebre per aver schiaffeggiato, negli anni Cinquanta, un onorevole disobbediente nel cortile del Palazzo dei Normanni, la sede dell’Assemblea regionale siciliana.
Gesto famoso, assurto a emblema del rapporto tra la mafia e la politica. Meno ricordato è che la sorella di don Paolino, Margherita Bontade, zia di Stefano, fu per vent’anni, dal 1948 al 1968, deputata democristiana. Pintacuda lo scrive in un’accurata ricostruzione della storia politica palermitana: «Paolino Bontade, mafioso e massone, soprannominato il principe di Villagrazia, fece eleggere la sorella deputato nazionale Dc».
L’ONOREVOLE ZIA MARGHERITA
Altrove, anche in testi di autorevoli studiosi di mafia, il legame di sangue tra l’onorevole e il capomafia stinge in una più blanda parentela e spesso scolorisce nelle nebbie della probabilità. Immagino che il poter contare su tre grafie diverse del cognome – l’antico Bontà, poi Bontate e Bontade – abbia avuto il suo peso nel rendere poco decifrabili i legami di parentela.
Eppure Margherita Bontade (così sempre indicata dal sito della Camera dei deputati) fu personaggio di rispetto nella costellazione democristiana del dopoguerra. Nell’aprile 1948, unica donna tra i venticinque deputati che la Sicilia occidentale elegge alla Camera, ha 41 anni e un curriculum di devotissima donna di Chiesa: la sua biografia da parlamentare la indica come militante dell’Azione cattolica, delegata diocesana per i fanciulli, fondatrice delle Acli, le associazioni cattoliche dei lavoratori. Insignita della croce d’oro Pro Pontifice et Ecclesia, attivissima nella comunità diocesana su cui domina il cardinale Ernesto Ruffini, lo zio del ministro che per primo spezzò una lancia a favore degli euromissili.
Da deputata al Parlamento nazionale, con una tenacia insolita in una donna che tiene a descriversi tutta intenta a occuparsi di Chiesa e opere di bene, sceglierà di farsi nominare per quindici anni di fila nella Commissione Lavori pubblici e di farne anche da segretaria.
È degno di nota che questa sua irriducibile militanza coinciderà con gli anni del sacco di Palermo, l’assalto dei costruttori mafiosi alla città sotto la guida del Comune affidato al sindaco Salvo Lima e all’assessore Vito Ciancimino. L’ultima legislatura di donna Margherita, che coinciderà con l’insediamento della prima Commissione parlamentare antimafia, vedrà un’improvvisa sterzata nei suoi interessi: archiviati i lavori pubblici, l’onorevole democristiana virerà sulla Commissione industria e commercio.
La Navicella, il catalogo generale degli eletti, autorevole bussola di navigazione nelle biografie dei parlamentari prima dell’irruzione di Wikipedia, tratteggia la carriera di questa donna come una marcia trionfale: di elezione in elezione, Margherita Bontade moltiplica i consensi, passando da trentacinquemila a settantunmila preferenze, scala le posizioni fra gli eletti, salendo da undicesima a quinta, salvo poi precipitare al quattordicesimo posto nel maggio del 1968.
Quattro anni prima il suo potente fratello, don Paolino, è morto. Al momento del voto, la sorella non ce la fa: è la seconda dei non eletti. La sua carriera parlamentare finisce lì. Sarà stata una coincidenza, si capisce. Nella fotografia pubblicata dalla Navicella, Margherita Bontade ha uno sguardo profondo, un volto rotondo, i capelli raccolti in una crocchia, un’aria da maestra all’antica. Il sito della Camera enumera i suoi numerosi interventi in favore del risanamento del centro storico di Palermo (argomento che starà poi molto a cuore a Vito Ciancimino).
I SALOTTI ROMANI
Spesso, nell’elenco dei firmatari dei disegni di legge, il suo nome figura appaiato a quello di un altro palermitano, Giovanni Gioia, fanfaniano e ministro potentissimo, il primo democristiano di Sicilia che venne definito mafioso con sentenza.
Difficile dire quale eredità i vent’anni di militanza democristiana della zia abbiano lasciato al nipote Stefano, grande frequentatore di salotti mondani. Quel che è certo è che il giovane capomafia ha amicizie influenti, una rete segreta di relazioni. Il 20 agosto 1997, in un interrogatorio, Siino dirà di lui: «Bontate sapeva sempre tutto, a ogni livello, sia di polizia che di giustizia. Non so come facesse, ma in molte occasioni riuscì a comunicare in anticipo ai diretti interessati provvedimenti di polizia o di giustizia che li riguardavano».
A giudicare dai racconti dei collaboratori di giustizia, il quadro dei rapporti tessuti da Stefano Bontate è vasto e interessante. Nel 1974 è lui il capodelegazione della comitiva di siciliani che, tra il 16 e il 29 maggio, va a Milano per incontrare un giovane costruttore di gagliarde ambizioni: Silvio Berlusconi. È una comitiva di mafiosi pieni di soldi e decisi a fare affari.
A Berlusconi li presenta un palermitano che farà carriera, Marcello Dell’Utri. La discussione, per usare la meravigliosa formula che la Corte di Cassazione adotterà nella sentenza sulla mafiosità di Dell’Utri, si conclude con «un accordo di reciproco interesse» Cinque anni dopo, nella primavera del 1979, Bontate è il ruvido interlocutore che, secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, discute con Giulio Andreotti la sorte di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione che vuole una Sicilia «con le carte in regola».
Dopo il suo assassinio, sostiene Marino Mannoia, Bontate tornerà a incontrare il leader democristiano e gli dirà brutalmente: «Qui in Sicilia comandiamo noi». C’è su Bontate una battuta misteriosa di Buscetta. Una battuta che colpì Sciascia, che la definì «impagabile».
La scena si svolge nell’aprile 1986, nell’aula bunker dove è in corso il maxiprocesso: Buscetta siede sulla sedia dei testimoni. Un avvocato ricorda la fuga di Sindona a Palermo, la conversazione del bancarottiere con Bontate sul progetto di golpe e domanda a Buscetta: «Bontate non era preoccupato di essere custode di simili segreti?» E Buscetta: «I segreti di Sindona! Erano una piuma, in confronto ai segreti che aveva Bontate». Annota Sciascia, con una vena di malinconica ironia: «Una piuma, i segreti di Sindona.
Si può immaginare di qual piombo fossero i segreti della vecchia, buona, nobile mafia, che Bontade custodiva». Nota a margine: Sciascia scriveva «Bontade», riproducendo la for[1]ma del cognome dell’onorevole zia, non «Bontate» – che è la grafia preferita dai magistrati.
Eppure, con tutta la sua astuzia, la sua ricchezza, le sue conoscenze, Stefano Bontate non coglie un segnale inquietante di debolezza della sua famiglia di mafia. Succede durante il sequestro Moro, nella primavera del 1978, quando il figlio di don Paolino riunisce la commissione per riferire che alcuni politici hanno chiesto l’aiuto di Cosa Nostra per ottenere la liberazione del leader Dc, prigioniero delle Br. E Pippo Calò, il boss palermitano che in quegli anni è saldamente insediato a Roma, situato all’incrocio dei più influenti poteri criminali della capitale, dalla banda della Magliana all’estremismo nero, lo rimbecca bruscamente: «Stefano, ma ancora non l’hai capito! Uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero».
È Francesco Marino Mannoia a riferire la dura replica di Calò alla richiesta di Bontate, la sottolineatura brutale che sono «i suoi», i compagni di partito di Moro, a non volerlo libero. Nell’arroganza con cui Calò striglia Bontate, trattandolo come uno sprovveduto provinciale, ignaro dei grandi giochi romani del potere, si avverte l’avviso sinistro di un cambio di stagione.
È il segno che i collegamenti politici di Bontate non sono più solidi come un tempo, i suoi riferimenti nelle stanze del potere sono con le persone sbagliate, i perdenti. È l’annuncio che un nuovo gruppo di mafia, il gruppo nel quale Calò milita, ha rapporti politici più forti e affidabili. È strano che un mafioso come Bontate, che aveva respirato fin dalla nascita l’aria di Cosa Nostra, non abbia sentito rintoccare in quel momento una campana a morto.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO GIUSEPPE INSALACO. Tutto cambia per non cambiare, riecco Vito Ciancimino nella Dc palermitana. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 20 gennaio 2022.
E sarà pure uno strano pensiero, ma è un fatto che dal 1979 Cosa Nostra appare in sintonia con il pendolo misterioso che regge le sorti dell’Occidente, un pendolo che in quegli anni va spostandosi irresistibilmente a destra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
In una splendida pagina di Furore, John Steinbeck spiega come gli americani sottrassero al Messico la California: «I messicani erano deboli e sazi. Erano incapaci di reagire, perché non volevano niente al mondo con la stessa ferocia con cui gli americani volevano la terra».
È la spiegazione che viene data più spesso della guerra con cui Totò Riina sbaragliò la mafia dei Bontate e degli Inzerillo: un duello rusticano tra i peri ’ncritati («i piedi incretati», sporchi di fango, i contadini di Corleone) e i padrini imborghesiti di Palermo; una manifestazione elementare di ferocia per la conquista dell’immensa ricchezza accumulata con il traffico di stupefacenti.
In realtà la cosca corleonese ha di corleonese i capi, Riina e Provenzano, ma schiera al loro fianco mafiosi di città, dai Ganci ai Marchese ai Graviano: è a Palermo che recluta il grosso del suo esercito. E la brutale replica di Calò a Bontate lascia intravedere scenari più complicati di un regolamento di conti tra mafiosi di paese e di città. Dunque, sul finire degli anni Settanta, qualcosa si è rotto negli equilibri di mafia.
Ma qualcosa si è rotto nella società palermitana, se la mafia deve riaffermare il proprio potere con la violenza. Per un azzardo del destino, proprio quando una serie di eventi internazionali consegnano a Cosa Nostra siciliana il ruolo di prima organizzazione criminale al mondo, l’evoluzione della società italiana fa sì che a Palermo, nel territorio che i boss considerano di proprio esclusivo sfruttamento, la quieta tana del lupo, arrivino in luoghi strategici personaggi che contro la mafia hanno posizioni limpide, nette, di rigorosa opposizione.
Personaggi cui il privilegio dell’intelligenza consente di leggere i nuovi affari delle cosche e la ragnatela delle loro relazioni – e che sono decisi a combatterle senza compromessi.
ANNO 1979, CAMBIA TUTTO
È così per il giornalista Mario Francese, che intuisce il groviglio di interessi imprenditoriali dei corleonesi nell’appalto per la costruzione della diga Garcia ben prima che le indagini della magistratura lo certifichino: le sue inchieste, pubblicate sul Giornale di Sicilia, sono una sfida e una provocazione.
E sono una sfida le indagini del capo della Mobile, Boris Giuliano, che è stato il primo a intuire la nuova potenza di Cosa Nostra nel traffico internazionale di eroina e sta ricostruendo, grazie agli assegni trovati in tasca a un mafioso assassinato, il filo che dalla mafia conduce al mondo degli affari. Come è una sfida che il procuratore Costa ordini l’arresto di Rosario Spatola, un costruttore che ha ripulito il proprio passato di venditore ambulante di latte, col vizietto di annacquarlo, diventando il quinto contribuente siciliano, un uomo davanti al quale, nel Municipio di Palermo, si spalancano le porte. Insidiata nel giardino di casa con un’intelligenza, un’abilità, una tenacia per il passato impensabili, Cosa Nostra si fa largo con il kalashnikov, impunemente.
Come è accaduto nell’immediato dopoguerra, quando morivano sindacalisti e capilega, le vittime hanno un legame con la sinistra. Michele Reina viene ucciso la sera stessa in cui si è presentato al congresso del Pci per proporre ai comunisti la collaborazione con la Dc al Comune. Cesare Terranova è appena rientrato a Palermo dopo due legislature come deputato indipendente eletto nelle liste comuniste e ha in tasca, praticamente certa, la nomina a capo dell’Ufficio istruzione, il centro pulsante delle inchieste.
Ha lasciato la commissione antimafia, a Roma, scoccando al missino Giorgio Pisanò una battuta fulminante: «Ma non ti rendi conto che mafia e politica sono la stessa cosa?» Piersanti Mattarella è un moroteo, forse il solo vero erede di Aldo Moro in Italia.
Da presidente della Regione, è stato lui a guidare il primo governo che ha incluso nella maggioranza i comunisti. Il capo della Procura della Repubblica, Gaetano Costa, nel Palazzo di Giustizia di Palermo ha fama di «procuratore rosso» perché ha combattuto come partigiano nella Resistenza, salvo poi rinunciare alla tessera del Pci per entrare in magistratura.
E sarà pure uno strano pensiero, ma è un fatto che dal 1979 Cosa Nostra appare in sintonia con il pendolo misterioso che regge le sorti dell’Occidente, un pendolo che in quegli anni va spostandosi irresistibilmente a destra. È Margaret Thatcher a salire al potere in Inghilterra e a piegare sindacati e laburisti.
È Ronald Reagan, nel 1981, a diventare presidente degli Stati Uniti e lanciare la sfida all’Impero del male, l’Urss. Mentre sulla Chiesa, dall’ottobre del 1978, si staglia la figura potente del nuovo papa, Giovanni Paolo II, il guerriero anticomunista.
SENZA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA
La prima domanda è: perché è successo? La seconda: perché non è successo? Perché lo Stato italiano resta immobile? Non c’è mafioso pentito che non dica come l’organizzazione sappia che a ogni delitto eccellente seguono repressioni dure; per questo occorre il consenso della commissione per deciderli.
Ma sul finire degli anni Settanta, Cosa Nostra si lancia nell’avventura spericolata di una sequenza di esecuzioni come se avesse la certezza di restare impunita. Chi dà alla mafia questa certezza? Questo è il punto. Nel 1963, quando una Giulietta riempita di tritolo, nella borgata di Ciaculli, ammazzò sette uomini tra carabinieri e militari dell’esercito, lo Stato reagì dando slancio alla Commissione parlamentare antimafia e varando una nuova legge sul confino per i mafiosi.
Nel 1971, dopo l’assassinio del procuratore capo Scaglione, decine di mafiosi vennero mandati al confino. Perché dal 1979 in poi niente succede? E per quale ragione, a Palermo, la polizia viene messa praticamente sotto il controllo della loggia P2, con un massone, Giuseppe Nicolicchia, «iscritto alla World organization of masonic thought (l’organizzazione fondata da Licio Gelli, all’inizio degli anni ’70, per esportare all’estero le trame della P2)», insediato come questore mentre, a capo della Squadra mobile, per sostituire Boris Giuliano dopo il suo assassinio, viene chiamato Giuseppe Impallomeni, tessera 2213 della loggia di Gelli? Degno di nota è che a Roma, negli anni della mattanza, non esiste più la Commissione parlamentare antimafia.
Nata nel 1962, con il primo centrosinistra al governo, la Commissione bicamerale d’inchiesta sul fenomeno mafioso si è estinta nel 1976. Dopo aver prodotto corpose relazioni sulla mafia, la sua espansione al Nord, i condizionamenti che esercita sulla politica, la Commissione conclude quattordici anni di lavori sostenendo che l’organizzazione criminale è indebolita, Ciancimino – il simbolo stesso del rapporto tra mafia e politica – alle corde. Generosa illusione.
Perché la Commissione rinasca, ci sarà bisogno che muoia il generale prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre 1982. Sei anni di vuoto, che coincidono con il forsennato assalto mafioso a uomini delle istituzioni. Se ne stupisce uno storico come Nicola Tranfaglia, nient’affatto un dietrologo professionale.
Ecco il suo ragionamento, a proposito della conclusione dei lavori dell’Antimafia nel 1976: «L’espansione della mafia nel Nord è [...] ancora più chiara di quanto fosse risultato ai commissari nel 1972 ma, nonostante i segni evidenti di un pericolo che cresce di giorno in giorno, governo e parlamento sciolgono la commissione e troncano un lavoro che [...] andrebbe continuato e intensificato. Il tutto avviene mentre i terrorismi [sic, al plurale, e significa il rosso e il nero, N.d.A.] attaccano lo Stato e i partiti varano i governi Andreotti di solidarietà nazionale. C’è da chiedersi, ancora una volta, se ci sia un nesso e quale tra tutti gli avvenimenti di questo periodo».
IL RITORNO DI DON VITO
A Palermo c’è un personaggio che nei due anni tra il 1975 e il 1976 ha tremato per le vittorie comuniste e nel 1979 torna sulla scena con clamore. È Vito Ciancimino.
Nell’aprile 1976 ha mandato in Canada due dei suoi figli, Sergio e Giovanni, che non conoscono una parola d’inglese né di francese, con l’incarico di acquistare immobili per milioni di dollari. Ai magistrati, anni dopo, dirà che lo ha fatto per paura di una vittoria elettorale del Pci.
Temeva per “la roba” – e ne aveva tanta da difendere. Nel 1978 si è concesso una parentesi come imprenditore al Nord e l’ha reclamizzata con la consueta tracotanza, dichiarando ai giornali di essere «il cervello di molte operazioni finanziarie sui mercati lombardi».
Nel giugno 1979 la Dc lo esclude dalle liste per la Camera e lui reagisce facendo campagna elettorale per Attilio Ruffini, il ministro della Difesa che ha preso a cuore la vicenda degli euromissili. In campagna elettorale, Ruffini è l’ospite d’onore a una cena elettorale con gli Spatola, i mafiosi che vigileranno sul viaggio siciliano del bancarottiere Michele Sindona (e negherà d’aver mai saputo chi fossero quei suoi commensali, così prodighi di brindisi augurali).
Alle elezioni, Ruffini sarà il primo degli eletti. In un’intervista al settimanale economico Il Mondo, nell’ottobre 1979, il comunista Pio La Torre indica in Ruffini «il nuovo protettore» di don Vito. In quell’autunno Ciancimino riscuote il premio del suo impegno: torna a occupare l’ufficio di responsabile degli Enti locali per la Dc palermitana. Significa poter decidere chi governa in tutta la provincia: nomi di sindaci e assessori, alleanze di partito, tutto va discusso con lui.
E perché sia chiaro che vuole comandare sul serio, don Vito entra da padrone nella stanza del sindaco, il farmacista Mantione, e si siede al suo posto. Nessuno ha il coraggio di cacciarlo. È in quegli anni che Insalaco, il «figlio dello sbirro», comincia a dare segni di dissenso. Sono piccoli segni, sottotraccia, difficili perfino da registrare, difficili da interpretare.
Succede, per esempio, dopo l’assassinio di Gaetano Costa, il procuratore capo che i suoi sostituti avevano lasciato solo a firmare gli ordini di cattura per il potente clan Spatola-Inzerillo-Gambino. Il 6 agosto 1980, appena si diffonde la notizia della morte del procuratore, il gruppo consiliare della Dc al Comune si riunisce.
«Sconvolgente riunione» la definirà, dieci anni dopo, un testimone diretto, Leoluca Orlando, che così ricostruirà le posizioni espresse quel giorno dai suoi compagni di partito: «Si discutevano i contenuti di un documento che avrebbe dovuto esprimere sdegno e condanna, quand’ecco levarsi una voce, quella di un cianciminiano, ad opporsi all’uso della parola “mafia” nel testo. Giuseppe Insalaco [...] mi confidò il suo stupore: “Dopo l’uccisione di Costa è intollerabile non usare la parola mafia”. E poi, con quella puntina di cinismo che era parte del suo carattere, commentò: “Gli amici dei mafiosi hanno pudore di usare quella parola. In quest’aula c’è sempre qualcuno che deve rendere conto a qualche ‘don Peppino’ persino dell’uso delle parole; del perché, in un documento votato dal Consiglio comunale, si è parlato di mafia”».
I RICORDI DI ORLANDO
Al processo per l’assassinio Insalaco, Leoluca Orlando correggerà il suo ricordo. Il 29 settembre 1998, rievocando quella tesa riunione d’agosto dei consiglieri comunali democristiani, dirà alla Corte d’Assise: «Ricordo che Insalaco ebbe a dire: ma se adesso anche u zu Peppino vuole che si parli di mafia, come fanno questi a non capire che un documento politico non può non prevedere la parola mafia?».
La correzione non è indolore. Nella prima versione, Insalaco appare un democristiano poco obbediente, cinico forse, ma insofferente del servaggio imposto dai “don Peppino”.
Nella seconda versione diventa un disinvolto opportunista pronto a saltare sul carro dell’antimafia, sapendo di poter contare sulla benedizione dei boss. Le confidenze appartengono a chi le fa e a chi le riceve. Non c’è modo di controllarle. Soprattutto se chi le ha fatte è morto. Ma viene da chiedersi quale delle due versioni sia esatta.
Ha ragione il Leoluca Orlando del 1990, democristiano eretico che ha ingaggiato una lotta a viso aperto contro Lima e Andreotti, il sindaco della «Primavera di Palermo» che l’Italia intera guarda con ammirazione e con speranza? O è vera la versione dell’Orlando del 1998, ancora sindaco ma di minor smalto, uscito con clamore dalla Dc, fondatore della Rete, un movimento politico destinato a sfiorire rapidamente?
Sbaglierò, ma a me sembra che sia più vera la versione del 1990, ispirata da un ricordo più fresco dei fatti, più vicino. Da cronista, ricordo la data e il luogo in cui la Dc decise che la parola «mafia», fino ad allora taciuta, andava gridata a squarciagola: accadde nel febbraio 1983, ad Agrigento. Era il congresso regionale in cui, per accattivarsi i favori del nuovo segretario nazionale, Ciriaco De Mita, che aveva lanciato la parola d’ordine del rinnovamento, si mise all’angolo Vito Ciancimino, lasciandolo solo a presentare una sua lista di delegati. Ricordo ancora l’atmosfera di angoscia e di paura nell’albergo dove, nella notte, i delegati si chiudevano nelle riunioni di correnti, nascondendosi come congiurati.
E ricordo che alla luce del giorno, uno dopo l’altro, i democristiani di Sicilia andarono alla tribuna del congresso per esibire il proprio sdegno contro la mafia, pronunciando con voluttà la parola proibita. Impagabile spettacolo. Solo nella città di Pirandello si poteva mettere in scena una commedia simile.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO DI PALERMO. Mafia e politica, il feroce “j’accuse” di Giuseppe Insalaco. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO. Il Domani il 21 gennaio 2022.
In un’intervista concessa a Corrado Stajano, Insalaco delinea le relazioni tra mafiosi e politici. «Il capomafia Stefano Bontate, mi dice, ha un’assoluta dipendenza e subalternità da Lima. Michele Greco da Gioia. Io lo guardo perplesso. Non arrivava alcuna voce, allora, dall’interno della zona grigia e tantomeno dalla mafia».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il più misterioso tra i gesti di Insalaco risale a un pomeriggio di febbraio del 1981. È l’incontro con un famoso giornalista, Corrado Stajano, arrivato a Palermo col progetto di girare un documentario per la Rai sul risanamento del centro storico.
Stajano è un giornalista del Nord, ha fama di uomo di sinistra. Insalaco, che non lo conosce, briga per incontrarlo ma non gli chiede direttamente un appuntamento – non è questo lo stile democristiano né tanto meno palermitano.
Gli fa sapere, piuttosto, che vorrebbe parlargli. Stajano si informa. Non sa nulla di quel democristiano che insiste per vederlo. Il ritratto che gliene fanno è pieno d’ombra. L’uomo che vuole parlargli, gli dicono, «non aveva una buona reputazione»; come segretario di Restivo, «si diceva possedesse molte carte segrete».
Gli riferiscono un’opaca biografia politica: «Nell’orbita di Fanfani e di Gioia, nemico giurato di Vito Ciancimino, era uno che conosceva i meandri più oscuri del suo partito e conosceva anche i misteri dei rapporti tra istituzioni, potentati economici e mafia». È un uomo che appartiene alla «zona grigia, la terra di nessuno, o di molti, che sta tra la mafia e la società onesta».
L’INCONTRO ALL’HOTEL DELLE PALME
Sembra un personaggio partorito dalla fantasia di un Le Carré mediterraneo. Nessuna sorpresa che Stajano, incuriosito, accetti di incontrarlo. Per precauzione gli fissa un appuntamento in campo aperto: al bar del Grand Hôtel et des Palmes, tra gli stucchi e gli specchi dell’albergo più fascinoso della città.
Anni di frequentazioni siciliane hanno insegnato a Stajano che «a Palermo non bisogna mai nascondersi. E se si viene a conoscere qualche notizia rischiosa, non bisogna tenerla per sé, ma riferirla subito a qualcuno». Raccomanda alla troupe Rai di tener d’occhio sia lui che il suo interlocutore – come se, invece che a un assessore, avesse dato appuntamento a un killer. L’incontro durerà più di un’ora. Insalaco lo trasformerà in un monologo parlando sempre e solo lui, badando che il giornalista prenda diligente nota di ogni sua parola. Ma se davvero si aspettava di veder stampato quel diluvio di analisi, informazioni e considerazioni, resterà deluso.
Stajano aspetterà dodici anni per rendere pubblico ciò che ascoltò. Lo farà in un libro pubblicato nei giorni in cui la Prima Repubblica si sfalda e muore e Insalaco è ormai sepolto e dimenticato. Descriverà senza simpatia l’uomo «attento come un barracuda a quel che gli si muove intorno» che gli squaderna davanti «una mappa dei poteri mafiosi». Sfotterà le ingenuità del personaggio, certe ricercatezze impacciate che denunciano in lui il provinciale, il politico di seconda fila che vuole far colpo sulla grande firma.
Ma ciò che Insalaco dice è tutt’altro che banale – e lo prova il fatto che per dodici anni Stajano abbia conservato gli appunti. È un documento eloquente del genere di cose che quello strano democristiano avrebbe potuto rivelare su mafia e politica se non lo avessero ammazzato: neppure nelle testimonianze rese alla magistratura – almeno, per la parte che è stata resa nota – sarà mai così esplicito. Il monologo parte da una constatazione: «Sulla scena è tornato l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia di cui si sente parlare dai tempi dell’armistizio dell’8 settembre 1943».
Guarrasi è, per antonomasia, l’uomo dei misteri: evocato per ogni intrigo palermitano, ma come una presenza sfuggente, inafferrabile. È un avvocato civilista, esperto in Diritto societario; i suoi clienti sono i padroni dell’economia siciliana e non solo: dall’Eni di Enrico Mattei ai proprietari delle miniere, dai finanzieri esattori Salvo al signore degli appalti Cassina, Guarrasi è il consulente più ascoltato dei potenti.
La scena è quella di una città dove, secondo Insalaco, «sono in cantiere progetti speciali per 2500 miliardi di lire e lo scontro, come è sempre successo a Palermo, è sugli appalti».
En passant, l’assessore butta lì una chiave inedita sull’assassinio Mattarella: «La Regione Siciliana è in grado di aprire sportelli bancari e Mattarella, presidente del governo regionale, si era opposto all’apertura di una banca dei Salvo e questo gli ha segnato la vita, gliel’ha tolta, anzi». Ipotesi mai affacciata in alcuna indagine giudiziaria.
Nel dubbio che Stajano non sappia chi sono i cugini Nino e Ignazio Salvo, Insalaco gli illustra «la forza economica degli esattori di Salemi, dall’agricoltura alle costruzioni, dai terreni all’imbottigliamento dei vini, oltre alle famose esattorie per le quali lo Stato italiano ha concesso loro di prelevare sulle somme riscosse un aggio del 10 per cento, mentre la media nazionale è del 3,3 per cento».
LA MAFIA E LE AMICIZIE A ROMA
La parte più sorprendente di quell’alluvione di parole è la brutalità con cui il giovane democristiano delinea le relazioni tra mafiosi e politici. Riferisce Stajano: «Il capomafia Stefano Bontate, mi dice, ha un’assoluta dipendenza e subalternità da Lima. Michele Greco da Gioia. Io lo guardo perplesso.
Non arrivava alcuna voce, allora, dall’interno della zona grigia e tantomeno dalla mafia». E poi, il colpo di teatro: «Giuseppe Insalaco si guarda intorno, anche all’indietro, verso il bancone del bar e per la prima volta abbassa la voce. Sta per rivelarmi l’organigramma della mafia, la piramide.
Sopra tutto, mi racconta, c’è a Roma Giulio Andreotti. Franco Evangelisti fa da tramite tra il presidente e Salvo Lima [...] Lima fonda il suo potere sui cugini Salvo. Sotto ci sono politici minori e poi i capifamiglia, i boss, i soldati, i gregari». Il resto del discorso è una carrellata sul potere palermitano. Così Stajano lo riassume: «Insalaco, nel bar dell’albergo [...] parla di nuovo di quei 2500 miliardi che non vengono spesi perché manca l’accordo tra classe politica e mafia, parla di come è articolato il potere politico locale: Giovanni Gioia e Salvo Lima addetti alle grandi intese romane, Vito Ciancimino addetto alle operazioni pratiche, Rosario Nicoletti agli accordi assembleari. Parla delle responsabilità di Lima nella morte di Michele Reina, delle responsabilità dei Salvo nella morte di Vito Lipari, uomini della Dc, parla delle modalità di distribuzione del “bottino”, come lui lo chiama».
Prima di andarsene, il loquace assessore affida al giornalista una frase che, col senno di poi, suona come una micidiale premonizione: «Si sa che lo sgarro si paga col piombo». Quella frase pronunciata sulla porta – il luogo ultimo delle confidenze – è il sigillo di mistero sull’incontro.
Perché un democristiano di destra, un uomo spregiudicato e furbo, sussurra informazioni così delicate a un giornalista del quale non può non indovinare la diffidenza, forse perfino l’avversione? Insalaco non è un ingenuo, mostra di sapere che a Palermo la politica ha una pistola puntata alla tempia. Perché si espone, e con un giornalista, che potrebbe riferire le sue incaute confidenze alla persona sbagliata?
Quando Insalaco chiede udienza a Stajano, la Dc ha già cominciato a contare i suoi lutti. È morto ammazzato Michele Reina. È morto ammazzato Piersanti Mattarella. È morto ammazzato il sindaco Dc di Castelvetrano, Vito Lipari, un protetto dei Salvo. Il «piombo» è una minaccia reale, non una metafora.
Perché rischiare? A Stajano resta l’impressione di «un uomo ossessionato da qualcosa, non solo dal rovello della carriera politica e dal potere». E il dubbio che cercasse «un’impossibile liberazione». Più ancora che il contenuto del colloquio, è il momento che Insalaco sceglie a rendere misterioso quel torrente di confidenze.
Perché, nel febbraio del 1981, tutti i nomi pronunciati tra le tende e gli stucchi dell’Hotel delle Palme sono pesanti, e potenti.
Primo fra tutti, quello di Stefano Bontate, che non sa di camminare con la morte addosso ed è ancora il «principe di Villagrazia», il più giovane e invidiato esponente della commissione che governa Cosa Nostra. Morirà due mesi dopo, il 23 aprile, nel giorno del suo compleanno, tradito dai suoi guardaspalle, che si sono alleati con lo schieramento corleonese.
E con quell’assassinio prenderà l’avvio la guerra di mafia, condotta da Totò Riina per impadronirsi del governo di Cosa Nostra. Michele Greco è un boss di prima grandezza ma bisognerà aspettare almeno un anno per trovare il suo nome in un rapporto di polizia.
Il poliziotto che lo scriverà, Ninni Cassarà, finirà mitragliato. Vito Guarrasi, con i suoi capelli candidi e i penetranti occhi azzurri, è un intoccabile del potere palermitano. E i cugini Nino e Ignazio Salvo sono una potenza finanziaria che ancora nessuno ha il coraggio di sfidare. Nella Dc, il loro partito – e il partito di Insalaco – possono costruire e distruggere carriere politiche.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. La mattanza di mafia e le grandi manovre per regnare su Palermo.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 22 Gennaio 2022.
Mentre, fra città e provincia, le famiglie di mafia si combattono a colpi di kalashnikov, nell’aula del Consiglio comunale le correnti democristiane si fanno la guerra a colpi di agguati segreti. Curiosa coincidenza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Nell’estate 1984, parlando con il giudice Falcone, Tommaso Buscetta attenuerà e cesellerà ogni parola sui legami tra la mafia e la politica, dichiarando che è un terreno minato sul quale è facile saltare in aria. Insalaco, che è cresciuto in quel mondo, perché si mostra così imprudente?
Non può essere l’ambizione a muoverlo – e anzi sarebbe un buon motivo per tacere.
Il 24 luglio 1980 è diventato assessore all’Igiene e Sanità. È il premio per un notevole successo elettorale. Alle elezioni comunali di giugno è risultato il secondo degli eletti, il più votato dopo Nello Martellucci, l’avvocato che Salvo Lima ha scelto come sindaco. Su ottanta consiglieri comunali, in quella tornata elettorale, la Dc è riuscita a eleggerne trentanove. Ne recupererà presto altri due, fino a diventare il partito di maggioranza assoluta. Mai i consiglieri democristiani sono stati così numerosi. E mai la Dc sarà così debole, divisa.
Mentre, fra città e provincia, le famiglie di mafia si combattono a colpi di kalashnikov, nell’aula del Consiglio comunale le correnti democristiane si fanno la guerra a colpi di agguati segreti. Curiosa coincidenza.
LA PALERMO DI MARTELLUCCI
Il sindaco Martellucci è un avvocato che parla in modo forbito, si preoccupa del verde e delle fontane, ordina che si rimettano in ordine le aiuole. Ha fama di persona perbene. E forse ha perfino voglia di cambiare le cose. Fa scelte di rottura. Per esempio, toglie alla Cassa centrale di Risparmio per le province siciliane la gestione della tesoreria comunale e la assegna alla Banca Nazionale del Lavoro.
Per il Comune è un affare: la Cassa di Risparmio pretendeva un aggio del 10 per cento per custodire i soldi dell’amministrazione; la Bnl offre gratis il servizio. Solo che nel consiglio d’amministrazione della Cassa c’è un consigliere di nome Vito Ciancimino che evidentemente non gradisce la decisione. E la Banca Nazionale del Lavoro deve fare una veloce retromarcia; scendere a patti con la banca siciliana e spartire la gestione della tesoreria.
Martellucci fa anche altro: s’impegna a rendere più trasparente una gara da settantacinque miliardi di lire per acquistare case da assegnare agli sfrattati, modificando il sistema d’appalto. Il risultato è che nessun costruttore presenta al Comune un’offerta, in una città che pure è affamata di lavoro. Poi il sindaco comincia a occuparsi del risanamento del centro storico, l’intervento che stava tanto a cuore a Margherita Bontade. Attenzione alle date: il 10 dicembre 1980 il sindaco chiede ai consulenti del Comune di presentare una relazione sul piano per il risanamento; una settimana dopo, nella sua casa di campagna a Giacalone, sulle colline a sud di Palermo, esplode una bomba. In una villa della borgata di Villagrazia quella bomba è un argomento di conversazione tra due mafiosi. Uno è Tommaso Buscetta, l’altro Stefano Bontate.
Buscetta racconta che Bontate è furente per l’attentato e commenta a voce alta: «Questo gran cornuto di Totò Riina se la prende con Martellucci solo perché non è amico di Vito Ciancimino». Secondo Buscetta, Bontate aveva una stima profonda, una vera e propria ammirazione per Nello Martellucci
È il ricordo di quell’esplosione a provocare in Insalaco l’ansia da «nuotatore scomposto» che Stajano avverte nelle sue parole? È la consapevolezza che la mafia sta stringendo al collo della politica un cappio che rende impossibile respirare? È un’ipotesi. Ma non spiega perché, nello schema disegnato dal giovane assessore, al vertice della piramide del potere ci sia la politica, non la mafia.
Per quale ragione ha detto a Stajano che è il potere romano, è Giulio Andreotti, a consegnare alla mafia il dominio sull’isola? Quando Stajano pubblica quelle confidenze, Andreotti è in disgrazia: indagato per mafia. Ma nel febbraio del 1981 è un leader potente a Roma e in Sicilia, grazie a Lima, onnipotente: un capo corrente che ha appena dovuto rinunciare alla presidenza del Consiglio, ma si è insediato alla guida della Commissione Esteri della Camera e sta per ottenere l’incarico di ministro degli Esteri.
Sono anni in cui Insalaco scalpita. Si capisce che vuol farsi notare. Lo fa con uno stile un po’ guascone, lo stesso che sfodera nell’incontro con Stajano. Da assessore all’Igiene, smaschera l’ipocrisia del circolo più esclusivo della città, il Lauria, facendo chiude[1]re le cucine, e proprio la sera in cui il sindaco Martellucci è atteso per una cena di gala. Fa sbarrare le porte dell’Ufficio di Igiene perché troppo sudicio.
Ordina la chiusura di esercizi commerciali. Riesce a ottenere che la stampa si occupi continuamente di lui. E sui giornali si presenta come un politico diverso. Cerco di immaginarlo, questo quarantenne concitato che spiega i segreti della città marcia a un giornalista che sa ostile. Penso che c’è voluto del coraggio per fare quel gesto. Che cosa si aspettava, mi domando. Voleva candidarsi a essere una fonte attendibile per una grande firma? Era un sos lanciato da un avamposto perduto all’Italia distratta, incapace di reagire? O pesavano in lui la sensazione che qualcosa di nuovo stesse maturando, nell’insanguinato pantano della politica, e il desiderio di non restare indietro?
Se c’è un luogo dove la crisi del partito democristiano si è manifestata con la potenza di una profezia, temuta e inascoltata com’è delle profezie, questo luogo è la Palermo dei primi anni Ottanta. Insalaco lo aveva capito? È un movimento di cattolici, Città per l’uomo, a segnare la prima crepa nel monolite democristiano.
È stato tenuto a battesimo nelle stanze della Curia dal cardinale Salvatore Pappalardo. È possibile stabilire anche la data: febbraio 1980. Sette mesi prima, il 23 luglio 1979, celebrando i funerali di Boris Giuliano, capo della Squadra mobile, il cardinale ha citato nell’omelia un versetto del profeta Ezechiele: «Il paese è pieno di assassini». Ha detto che «troppi mandanti, troppi vili esecutori e favoreggiatori sono liberi e circolano alteri e sprezzanti per le nostre strade ed è difficile raggiungerli perché variamente protetti». Parole dure.
IL PESO POLITICO DEL CARDINALE PAPPALARDO
Il potere della città le ha ascoltate immobile come una maschera di pietra. Nulla è cambiato. E sono venuti altri agguati, altri cadaveri. Fino all’Epifania del 1980, quando un killer dallo sguardo gelido e dalla mira infallibile ha sparato a Piersanti Mattarella. Un mese dopo, la commissione sociopolitica della Consulta diocesana per l’apostolato dei laici si riunisce nel palazzo della Curia.
Discute delle elezioni per i consigli di quartiere, una novità assoluta, il primo passo del decentramento. Decide di far appello ai cattolici perché partecipino a quelle elezioni. Se non se la sentono di schierarsi tra i partiti esistenti, nulla vieta che si riconoscano in una nuova lista. È il battesimo del secondo partito cattolico: per la Dc, un incubo.
Padre Ennio Pintacuda racconta d’aver assistito al nascere di quel movimento e di aver custodito le correzioni autografe che il cardinale appose sul documento di nascita di Città per l’uomo E ricorda come Lima accorse dal cardinale, portandosi dietro il presidente della Regione, Mario D’Acquisto, per scongiurare la presentazione della nuova lista cattolica e come chiese anche a lui di intervenire per sentirsi rispondere: «Il movimento è autonomo».
Maliziosamente Pintacuda spiega che era stato lo stesso cardinale Pappalardo a suggerirgli quella risposta. La nascita di Città per l’uomo è il primo, sordo brontolio che annuncia la formidabile crisi destinata a concludersi negli anni Novanta con la scomparsa del partito democristiano.
Come gli animali sentono il terremoto in anticipo, così ci sono terre – e popoli – che avvertono con anticipo lo scorrere della Storia. La Sicilia è tra queste. È quest’inquietudine che Insalaco ha percepito? E la sua ansia da «nuotatore scomposto» era l’ansia di chi sente che la marea sta montando e vuole mettersi in salvo su una nuova riva?
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. Entrano in scena “il papa” e il “senatore”, i fratelli Greco dei Ciaculli. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 23 gennaio 2022.
In Cosa Nostra i due fratelli si sono divisi i ruoli: Michele è il «papa», suo fratello Salvatore, detto Totò, è il «senatore». È l’uomo che tiene i rapporti con la politica e con le banche. Il collaboratore di giustizia Giuseppe Marchese sostiene che fosse massone e che i legami di loggia lo rendessero particolarmente potente.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Nei primi anni Settanta, commentando i Pentagon Papers, monumentale rassegna dei documenti segreti del governo americano sulla guerra in Vietnam, la filosofa Hannah Arendt5annotò: «L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche, e le bugie sono sempre state considerate strumenti giustificabili negli affari politici».
A Palermo, in tema di mafia, l’arte di mentire in politica venne sollevata a vertici di assoluta eccellenza. Un esempio? Il 22 novembre 1981 il cardinale Pappalardo convoca una messa solenne in Cattedrale «per invocare dal Signore la pace per questa città pervasa dall’odio e dalla follia omicida». I giornali la battezzano «messa antimafia». Il cardinale respinge la definizione: la messa, dice, non è mai «anti», mai contro nessuno. Non è un modo per tirarsi indietro.
Nell’omelia il prelato non esita a scagliarsi contro «ladri delinquenti assassini disonesti e mafiosi di ogni risma». Alla messa è stato invitato il sindaco della città, Martellucci: tocca a lui aprire la celebrazione. E il sindaco prende la parola, perché non può rifiutarsi, non può dire di no al cardinale, ma si destreggia in ardite acrobazie pur di non pronunciare l’impronunciabile parola – e parla del «fenomeno delittuoso», e invoca «la presenza del male», e accusa «il fenomeno», e se la prende con «gruppi dediti al malfare», e poi ancora «il fenomeno» e «la criminalità» e «la fenomenologia delittuosa».
Mafia no; quelle cinque lettere, quelle due sillabe che Insalaco ha scandito con tanta naturalezza nel suo incontro con Stajano, non si possono pronunciare. E il sindaco non le pronuncia. È prudenza? È una forma di viltà? Martellucci è il sindaco che farà scandalo perché, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa, negherà che il Comune abbia il dovere istituzionale di combattere la mafia. Ma sa bene di che cosa si tratta. Simona Mafai, che fu capogruppo comunista al Comune negli anni dal 1980 al 1985, lo ricorda mentre scorre l’elenco dei proprietari di pozzi privati che vendono l’acqua all’azienda municipalizzata dell’acquedotto: «Era venuta fuori una legge sull’esproprio di quei pozzi. E lui aveva tra le mani quest’elenco e mi disse: “Signora, questi sono nomi che fanno tremare”. Provai a replicare qualcosa, mi interruppe, disse: “Guardi che sono in pericolo più io di lei”». Tra i proprietari di pozzi che vendono l’acqua all’Amap ci sono anche i fratelli Michele e Salvatore Greco.
I GRECO DI CIACULLI
In Cosa Nostra i due fratelli si sono divisi i ruoli: Michele è il «papa», suo fratello Salvatore, detto Totò, è il «senatore». È l’uomo che tiene i rapporti con la politica e con le banche. Il collaboratore di giustizia Giuseppe Marchese sostiene che fosse massone e che i legami di loggia lo rendessero particolarmente potente. Sempre Marchese dice d’aver saputo da Leoluca Bagarella che, con suo fratello Michele, Salvatore il «senatore» riceveva alla Favarella «magistrati, carabinieri, poliziotti».
Anni dopo, ormai in galera, sarà lo stesso Michele Greco a fare l’elenco di marescialli, tenenti, capitani di carabinieri, e di qualche magistrato, che frequentavano la sua tenuta, per dimostrare d’essere stato uno specchiato cittadino, onorato e riverito dal potere costituito. Così come ammetterà d’aver sempre votato per u Signuruzzu, che è il nome con cui la devozione siciliana indica Gesù Cristo e, per estensione, il partito democristiano, che ha la croce nel simbolo.
Quanto a suo fratello, Salvatore Greco non si è limitato a votare. Negli anni Settanta è stato il segretario della sezione democristiana di Ciaculli. Indimenticabile la pennellata con cui il medico mafioso Gioacchino Pennino dipinge lo zelo di quel segretario: «Ho saputo che in quella sezione tutti venivano iscritti da Totò Greco, detto il senatore». Un solerte reclutatore per la Dc. Anche Pennino fu per due anni segretario della sezione di Ciaculli. Ricorda una sola riunione di partito: era stata convocata alla Favarella, nella tenuta dei Greco.
E ricorda la distribuzione delle deleghe per il congresso provinciale della Dc nel 1979: due toccarono a Pennino, che in quell’anno rappresentava Ciancimino, e tre alla corrente fanfaniana, quella del «senatore», appunto. Secondo Pennino, «Totò Greco le avrebbe poi cedute a Insalaco, di cui era un accanito sostenitore».
Nelle elezioni comunali del 1980, sostiene Pennino, il «senatore» Totò Greco si prodigò per sostenere Insalaco. Chi era quest’uomo che accettava l’appoggio elettorale dei Greco e sussurrava al giornalista del Nord le verità inconfessabili sui legami tra mafia e politica? E come bisogna interpretare quel lungo sfogo con Stajano? Era un’operazione di sabotaggio, la sua, contro il suo stesso partito? Un doppiogioco rischioso e ambiguo? La ribellione di Insalaco è il segno che la Dc come partito omnibus, un gran corpaccione capace di contenere la mafia e il suo contrario, non regge più.
Metto in fila i fatti, le date di quell’anno 1981. A marzo, a Firenze, in una perquisizione nella villa di Licio Gelli, saltano fuori le liste della P2: l’elenco comprende ministri e generali, parlamentari e capi dei servizi segreti. A maggio il governo di Arnaldo Forlani è costretto a dimettersi.
A giugno la Dc, per la prima volta nel dopoguerra, viene sgomberata da Palazzo Chigi: giura come presidente del Consiglio un repubblicano, Giovanni Spadolini. Due mesi dopo, in agosto, toccherà a lui annunciare che i missili della Nato saranno collocati a Comiso, in Sicilia.
Il presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, aveva provato già nel 1979, nel marasma del dopo Moro, ad affidare l’incarico di formare il governo a un non democristiano: aveva convocato prima un repubblicano, Ugo La Malfa, poi il socialista Bettino Craxi, ma il tentativo era fallito.
ARRIVANO I “CORLEONESI”
Anni dopo, sull’onda dello scandalo P2, l’operazione riesce. È un colpo di maglio a un assetto di potere stabilito nel dopoguerra. Trentasei anni di ininterrotta permanenza a Palazzo Chigi da parte della Dc si interrompono di colpo. Ed ecco che a Palermo, in quegli stessi mesi, una feroce mattanza mette fuorigioco quella che i palermitani chiamano la mafia borghese, Bontate prima di tutto, al comando dal dopoguerra. Cambia la mappa del potere a Roma. Cambia la mappa della mafia in Sicilia.
Nuove cordate si insediano nei ministeri, negli apparati. E una nuova cosca arriva al comando di Cosa Nostra. È una coincidenza, d’accordo. Ma mette i brividi. Anche perché lo schieramento corleonese interviene con violenza nella politica. E contro chi disturba, usa il kalashnikov.
Nell’autunno del 1981 arriva in Sicilia, con l’incarico di segretario regionale del Pci, Pio La Torre, deciso a impegnarsi su due fronti: contro le cosche, per la confisca dei patrimoni mafiosi, e contro la base nucleare di Comiso. Non arriva all’estate: il 30 aprile 1982 La Torre e il giovane comunista che guida la sua macchina, Rosario Di Salvo, cadono in un agguato.
Neppure un mese prima, il 4 aprile, il segretario siciliano del Pci aveva marciato, a Comiso, alla testa di un’imponente manifestazione contro la base Nato. I cambi di potere non sono mai indolori. Con Spadolini a Palazzo Chigi, il generale Dalla Chiesa viene inviato a Palermo con l’incarico di prefetto.
Con il socialista Rino Formica al ministero delle Finanze, la Guardia di Finanza entra nelle esattorie dei Salvo: i militari chiedono carte, sequestrano documenti. È un inaudito cambio di stagione.
Non ci vorrà molto perché il potere disturbato manifesti la sua collera. Nel luglio del 1982 L’Espresso pubblica un’intervista esclusiva con Nino Salvo. L’esattore si presenta come vittima di una manovra orchestrata dal Pci e lancia il guanto della sfida al suo partito: «Alla Dc poniamo un problema di ordine generale: può ancora consentire le sistematiche persecuzioni nei confronti delle forze imprenditoriali che le sono più vicine?»
I RICORDI DEL MAFIOSO PENNINO
Se c’è un uomo che può raccontare che cosa significa il controllo della mafia sulla politica in quei primi anni Ottanta, è Gioacchino Pennino, medico radiologo e politico democristiano.
Un minimo di biografia: Pennino nasce nel 1938, ha tre anni più di Insalaco, col quale si incontrava da ragazzo dai gesuiti di Casa Professa. Ha alle spalle una dinastia di mafia, che ha radici a Brancaccio, uno dei luoghi simbolo della mafia palermitana. Suo nonno era il capomafia del quartiere e capomafia è stato suo zio Gioacchino.
Nel 1994, quando Pennino avvierà una collaborazione con la giustizia, la Procura di Palermo celebrerà con enfasi l’evento: «Per la prima volta nella storia [...] si pentiva un uomo d’onore in grado di conoscere, per esperienza personale e diretta, la natura, le moda[1]lità e i processi di evoluzione dei rapporti tra Cosa Nostra e il mondo politico».
La carriera politica e professionale di Pennino, così come lui stesso l’ha ricostruita per i magistrati, è un esempio da manuale del potere che Cosa Nostra esercita nella società palermitana.
A ventitré anni si laurea in Medicina, poi si specializza in Igiene e in Radiologia. Ha venticinque anni quando apre un laboratorio d’analisi in via Roma, nel centro della città. Due anni dopo vince un concorso come medico dell’Inam, l’Istituto nazionale per l’assicurazione malattie, un colosso di quel sistema delle mutue che fu l’antenato del servizio sanitario nazionale.
Da collaboratore di giustizia, sarà lui stesso ad ammettere che l’aiuto di Cosa Nostra è stato determinante per vincere il concorso. E che quell’aiuto segnerà ogni passaggio della sua carriera, spianandogli la via verso il successo professionale. Sarà dunque un mafioso a procurargli una convenzione con la Coldiretti per la Medicina generica e un altro mafioso a fargli ottenere una convenzione per la Medicina specialistica. Pennino gioca anche la carta del sindacato: diventa segretario dei medici nella Cisl siciliana.
Dal 1965 al 1978 lavora all’Inam. Dovrà dimettersi perché, di promozione in promozione, è stato nominato ispettore sanitario per la provincia di Palermo e i suoi “coassociati” – ovvero i mafiosi – non possono tollerare un ispettore tra le loro file. Parallela alla carriera professionale, inaugura la scalata alla politica. Nel 1970 si iscrive alla Dc nella sezione di Ciaculli, quella controllata da Salvatore Greco.
Nel 1978 ne diventa il segretario; nel 1984, il commissario. Controlla almeno cinquemila voti. Alla fine degli anni Settanta, Cosa Nostra decide che è venuto il momento di farlo diventare uomo d’onore, ma con un’affiliazione riservata, perché solo in pochi sappiano della sua iniziazione. I medici sono riferimenti preziosi per la mafia: servono per curare i latitanti, per falsificare cartelle cliniche per i detenuti, per inventare patologie che attenuino il regime carcerario o favoriscano il ricovero in infermeria. Proprio la loro utilità suggerisce di ridurre a pochi, scelti uomini d’onore la conoscenza dell’affiliazione dei medici.
Come qualunque uomo d’onore, Pennino prende ordini dalla mafia; anche le sue scelte politiche sono decise da Cosa Nostra. Nel 1980 è il capo della cosca di Brancaccio, Giuseppe Di Maggio, a ordinargli di iscriversi nella corrente di Ciancimino, che in quella fase si professa andreottiano. Un anno dopo, quando don Vito si sgancia da Andreotti, Pennino vuole smarcarsi: un conto è riconoscersi nel divo Giulio, tutt’altro essere al traino di don Vito. Ed è allora che accade un episodio esemplare.
Il riottoso medico viene convocato a Bagheria per un misterioso appuntamento. Viene preso in consegna da diversi intermediari; Pennino passa dall’uno all’altro, infine condotto in un magazzino di agrumi. Lì trova ad aspettarlo il «ragioniere», Bernardo Provenzano. L’incontro è durissimo: Provenzano sottopone Pennino a una “aggressione”, lo investe di rimproveri; alla fine lo manda via con l’intimazione di stare zitto, cioè di non ribellarsi a Ciancimino. Pennino obbedisce.
Non può fare altro. Ha capito perfettamente la lezione: dietro Ciancimino, si erge il profilo di Provenzano, l’uomo che i corleonesi chiamano u tratturi, «il trattore», per significare l’impeto con cui travolge gli ostacoli. Ha capito, soprattutto, che è con Provenzano che bisogna trattare per decidere la propria collocazione negli schieramenti interni alla Dc.
Dopo il congresso democristiano di Agrigento, quando Ciancimino viene isolato da tutte le correnti, Pennino capisce che il vento è cambiato e decide di riprovare a separarsi da don Vito. Stavolta è lui stesso a preoccuparsi di chiedere il permesso a Provenzano.
Per ottenere un nuovo incontro con il «ragioniere» si rivolge a un killer, Giuseppe Greco, detto «Scarpa». L’intercessione del killer serve a Pennino per ottenere che Provenzano non abbia più l’atteggiamento «aggressivo e arrogante» che aveva manifestato due anni prima.
Più arrendevole, il capo corleonese gli dà il permesso di abbandonare la corrente cianciminiana. C’è solo un dettaglio da rispettare – ed è il killer a svelarglielo, accompagnandolo alla porta: Pennino non deve provare a convincere nessun altro a seguirlo. Il giorno dopo Pennino comunica a Ciancimino l’addio alla sua corrente. E quello diventa pallido e con un filo di voce gli domanda: «Con chi hai parlato?» «Con nessuno» mente Pennino.
L’OMICIDIO DALLA CHIESA
Così, dunque, andavano le cose nella Dc allo sbocciare degli anni Ottanta. Ma nel racconto che della politica palermitana Insalaco ha fatto a Stajano, non c’è traccia di Provenzano. E neppure di Riina. E dire che, secondo Pennino, già allora Bernardo Provenzano «aveva grandissima influenza nella gestione della vita politica palermitana, della quale sembrava dirigere le sorti».
Di più: nella carrellata sui legami di mafia dei politici palermitani, Insalaco ha appena sfiorato Ciancimino, come se non sapesse che è in tale intimità con Riina e Provenzano da incontrarli nel castello sul mare del principe di San Vincenzo, a San Nicola l’Arena. E, con i capi corleonesi, Ciancimino è in tale confidenza da portare con sé agli appuntamenti perfino due dei suoi figli, ancora bambini.
Verrebbe da pensare che l’uomo che conosceva tanti segreti ne ignorasse altrettanti. È vero che la fotografia del potere palermitano che Insalaco scatta, la foto di famiglia di Dc e mafiosi, risale a un tempo precedente allo scatenarsi della guerra.
Ma è giusto sottolineare un dettaglio: tra la descrizione dei rapporti tra la mafia e la politica fatta da Pennino e quella di Insalaco, c’è una differenza interessante. Secondo Pennino, Provenzano comanda e la politica obbedisce. Nella visione di Insalaco, è Bontate a subire il condizionamento di Lima, non viceversa. Quel medesimo Bontate che, secondo Francesco Marino Mannoia, ha sibilato a Giulio Andreotti, dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella: «In Sicilia comandiamo noi». Se Pennino ha ragione, è più facile capire l’ispida accoglienza che il Comune di Palermo avrebbe riservato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nei suoi cento giorni da prefetto, il vuoto che gli si scavò intorno.
Unica eccezione, tra i democristiani, Insalaco. Alla Commissione antimafia, nell’audizione del 3 ottobre 1984, racconterà di aver incontrato più di una volta il generale: «Sul piano personale, ho ricevuto una visita del generale Dalla Chiesa, da Prefetto, mentre ero assessore all’Igiene e sanità. Proprio in quell’occasione egli venne in una zona – l’assessorato che dirigevo era ubicato nell’area di San Lorenzo – dove è risaputo che vi è una grossa presenza mafiosa, perché voleva ad ogni costo che proprio in quella zona si istituisse un centro per la lotta alle tossicodipendenze. Ma quello fu un rapporto personale: tanto è vero che ci siamo incontrati più volte per altre situazioni, che riguardavano anche l’amministrazione comunale».
Quell’«anche» è una porta aperta, un invito ad approfondire le «altre situazioni» in cui il prefetto e il politico si sono incontrati. Tra i parlamentari dell’Antimafia, nessuno lo raccoglierà. Nel settembre 1982 il «figlio dello sbirro» dà un altro piccolo segnale di insubordinazione.
Lo fa distinguendosi dalle proteste sdegnate dei democristiani dopo l’assassinio Dalla Chiesa. Quando il figlio del generale, Nando Dalla Chiesa, indica nella Dc siciliana i mandanti del delitto e fa i nomi di Lima, Nicoletti, Martellucci e D’Acquisto, Insalaco dichiara a L’Ora di riconoscere qualche ragione a chi attacca il suo partito. Ha annotato Saverio Lodato: «Forse fu l’unico che non si unì al coro dell’“onore dc offeso”».
La dichiarazione di Insalaco suona come una sorta di prudente appello a una conversione dell’intera Dc: «Si può anche avere il coraggio di dire: “sì, abbiamo sbagliato, c’è qualcosa che non va”. Il problema del resto non è del partito, ma di alcuni tra gli uomini che lo gestiscono. Bisogna avere il coraggio di spezzare questo coagulo di debolezze».
Passano pochi mesi, cade la giunta, se ne insedia un’altra e, per la prima volta in tredici anni, Insalaco non è chiamato a fare l’assessore. È la vendetta contro quel commento fuori dal coro? La punizione per aver rotto le righe sul generale Dalla Chiesa? Il 26 giugno 1983 si vota per il nuovo Parlamento. La Dc paga il conto: un conto doppio, che riguarda sia le compromissioni con la mafia che il tentativo di staccarsene.
Nella Sicilia occidentale perde più del 5 per cento. Cinquantamila voti si dissolvono. E i quattro quinti di quei voti, quarantamila in tutto, spariscono a Palermo, dove l’astina elettorale, tutta in caduta, si ferma a meno 7 per cento. È un disastro. Con un’eccezione: Corleone, la patria di Vito Ciancimino. Nel paese simbolo della mafia, la Dc segna un più 6 per cento. Chi vuol capire, capisca.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DI INSALACO. A Palermo trionfa Elda Pucci, la prima donna sindaco di una grande città. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 24 gennaio 2022.
A Elda Pucci resterà impressa la battuta con cui don Vito annuncia, insieme, il suo addio al partito e la scelta di restare comunque sulla scena: «Non mi posso dimettere dagli amici né da amico». È un modo beffardo per rifare il verso a una celebre formula che rappresenta il mafioso come «l’amico degli amici», ma la parte più interessante è quell’accenno all’impossibilità di separarsi dagli «amici».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Un mese prima dell’elezione di Insalaco, l’11 marzo, Raiuno manda in onda la prima delle sei puntate della Piovra. Il successo è clamoroso: otto milioni di spettatori si incollano al video per la puntata d’esordio; diventeranno quindici milioni per l’ultima. Ambientata a Trapani (mai nominata ufficialmente), la serie ricostruisce le disavventure dell’onesto commissario Corrado Cattani in un mondo dove mafia e droga non sono solo un affare di padrini con la coppola, ma il segreto di una città marcia.
La piovra segna l’epifania della mafia nella mente dell’italiano medio. C’è voluta la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per far vibrare di indignazione l’Italia. Fino a quel 3 settembre del 1982, quando il generale prefetto è stato assassinato con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, lo scontro tra la mafia e i suoi avversari somigliava a una guerra civile a bassa intensità: siciliani gli assassini, siciliane le vittime.
Con l’uccisione del piemontese Dalla Chiesa, tutto è cambiato: quando ha visto cadere l’eroe della guerra al terrorismo, l’Italia intera si è ribellata, e ha preteso che lo Stato reagisse. Anche la Rai si è svegliata da un lungo sonno.
A Palermo, per il debutto della Piovra, viene organizzata una visione d’élite nell’elegante sede invernale del circolo Roggero di Lauria. Segue dibattito con gli ospiti in studio. Tra gli invitati c’è un celebre penalista, l’avvocato Ottavio Seminara.
Gli domandano di viale Lazio, la strage del 1969 che segnò il debutto delle pistole corleonesi a Palermo. «Viale Lazio?» si interroga Seminara, come posto di fronte a un astruso quesito di toponomastica. E non risponde. Insalaco è il terzo sindaco in quattro anni, il primo che di mestiere fa il politico. Lo ha preceduto l’avvocato Martellucci, l’uomo che Stefano Bontate ammirava e Totò Riina detestava.
Compunto e compito, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa, ha dichiarato in tutta serietà che il Comune non ha il dovere istituzionale di combattere la mafia. Travolto dalle polemiche, ha dovuto andarsene. Dopo di lui, è stata eletta una pediatra, Elda Pucci.
LE ELEZIONI...
La prima donna sindaco di una grande città. Nell’inventare novità, la Dc palermitana ha del genio. La scelgono perché la ritengono un’ingenua, un’Amélie della politica. Sbagliano i conti perché la pediatra Pucci, fanfaniana legatissima a Giovanni Gioia e convinta che quel ministro, accusato di aver traghettato la mafia nella Dc, sia stato vittima di una persecuzione, è una persona perbene.
Tanto da denunciare alla Procura della Repubblica, senza chiedere il permesso a nessuno, lo scandalo di una scuola privata che ha saccheggiato le casse comunali. È uno sgarro che non le viene perdonato. Nel giudicare «sbirro» chiunque si rivolga alla magistratura, i padroni della politica e i padrini della mafia sono identici. Li accomuna quel che si chiama un idem sentire. Ma Elda Pucci ha fatto di peggio. Ha pensato – e dichiarato ai quattro venti – che bisognava applicare la legge per rinnovare i grandi appalti, e bandire pubbliche gare.
Questa è appunto la questione per eccellenza, il piano inclinato su cui sono destinate a rotolare le teste dei sindaci: il rinnovo degli appalti per l’illuminazione e, soprattutto, per la manutenzione di strade e fogne. Sono i più grandi affari della città; da soli, valgono la metà del bilancio comunale. L’appalto per la luce è scaduto nel giugno 1980, quello per strade e fogne nel dicembre 1983. Si va avanti di proroga in proroga, ma è un regime che non può durare. Facciamo un po’ di conti.
A Palermo si spendono per l’illuminazione pubblica dodici miliardi l’anno. A Roma tredici. A Torino dieci. Per strade e fogne, cinquantotto miliardi a Palermo, trentuno a Roma e a Torino ventiquattro. Il sostituto procuratore della Repubblica Paolo Giudici calcolerà che, in quattordici anni, Lesca e Icem hanno incassato 1.070 miliardi di lire. Un’enormità.
I diabolici meccanismi di revisione prezzi escogitati da Vito Ciancimino nella sua breve stagione da sindaco regalano agli appaltatori profitti record. Non c’è da sorprendersi se quei signori sono disposti a tutto pur di tenersi il malloppo. Anzi, pretendono che il comune serva a Lesca e Icem gli appalti su un piatto d’argento, assegnandoli con il metodo della trattativa privata, ovvero senza nessuna concorrenza, senza gara. C’è un piccolo, modesto ostacolo: la legge.
Lo dichiara candidamente Elda Pucci: la legge vieta di ricorrere alla trattativa privata per importi così elevati. Bisogna bandire una gara pubblica, chiamare le imprese a concorrere, scegliere l’offerta migliore. È una banalità che passa per rivoluzionaria. E al sindaco pediatra basta annunciare quel proposito per essere fatta fuori. Con un pretesto, naturalmente.
...E LE DIMISSIONI
In virtuosa triangolazione con gli intrighi di palazzo, la Procura della Repubblica fornisce lo spunto per le dimissioni di un assessore, inviando al socialdemocratico Giacomo Murana una comunicazione giudiziaria per un’inchiesta vecchia di otto anni. Il suo partito rifiuta di sostituirlo; a quel punto la maggioranza dichiara che la giunta Pucci deve essere mandata a casa. Ricomincia così la caccia al sindaco. Con la preoccupazione di scovarne uno più addomesticabile dell’inflessibile pediatra.
Tutti sanno che, dietro i giochi di potere sui grandi appalti, c’è Vito Ciancimino. Su ottanta consiglieri comunali – rivelerà Insalaco – don Vito ne controlla almeno venti, e non solo democristiani, dato che ha avuto cura di arruolare suoi fedelissimi in quasi tutti i partiti della maggioranza.
È la stessa tecnica che i corleonesi hanno adottato per sbaragliare gli avversari: avere almeno un infiltrato in ogni famiglia di mafia. Come per sfilarsi dai giochi, un attimo dopo che il sindaco pediatra ha annunciato le dimissioni, Ciancimino fa sapere di non avere più la tessera della Dc.
A Elda Pucci resterà impressa la battuta con cui don Vito annuncia, insieme, il suo addio al partito e la scelta di restare comunque sulla scena: «Non mi posso dimettere dagli amici né da amico». È un modo beffardo per rifare il verso a una celebre formula che rappresenta il mafioso come «l’amico degli amici», ma la parte più interessante è quell’accenno all’impossibilità di separarsi dagli «amici».
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO DI PALERMO. Intrighi e sospetti, Giuseppe Insalaco e la sua “rivoluzione” mancata. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 25 gennaio 2022.
Il 13 aprile 1984, un venerdì, nella Sala delle Lapidi, l’aula del Consiglio comunale, il ragazzo di San Giuseppe Jato diventa sindaco di Palermo. C’è una fotografia che lo ritrae la sera dell’elezione. Insalaco è ripreso di tre quarti, su uno sfondo in ombra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il 13 aprile 1984, un venerdì, nella Sala delle Lapidi, l’aula del Consiglio comunale, il ragazzo di San Giuseppe Jato diventa sindaco di Palermo. C’è una fotografia che lo ritrae la sera dell’elezione. Insalaco è ripreso di tre quarti, su uno sfondo in ombra. Indossa un doppiopetto scuro, camicia chiara, cravatta scura, tiene gli occhi rivolti in basso, la mano sinistra sulla destra, ha un sorriso quasi infantile, appena accennato, e un lampo furbo negli occhi.
Colpisce, a guardarlo, il suo apparire insieme candido e scaltro. Un uomo doppio.
Il Municipio di Palermo, nel tempo in cui Insalaco ne diventa sindaco, è in apparenza un disastrato baraccone: mancano un terzo dei dipendenti, il bilancio non è stato ancora approvato, non c’è un soldo per finanziare opere pubbliche, nel centro storico resistono le macerie del dopoguerra, quasi metà delle aule scolastiche sono infilate in locali in affitto. A uno sguardo superficiale, quel disastro sembra frutto di incapacità e di sciatteria, se non addirittura la prova provata di un’inferiorità genetica dei meridionali.
Ma a guardarlo con attenzione, il caos risulta sapientemente organizzato, studiato da una regia astuta e subdola.
L’immobilismo della burocrazia serve a inculcare nei cittadini la cultura del favore, a costringerli all’obbedienza obliqua: chiunque abbia bisogno di qualcosa, che sia un certificato o un contributo, deve trovarsi un padrino. Le voragini nella pianta organica sono un vantaggio per una politica specializzata in clientele: servono a illudere migliaia di persone col miraggio del posto e a catturare i voti di famiglie intere.
L’abbandono del centro storico, dove a ogni pioggia gli antichi palazzi si sbriciolano – e spesso qualcuno muore sotto le macerie – è la premessa ideale a un nuovo assalto della speculazione: se tutto crolla, si può costruire tutto da capo. E l’affitto del 48,3 per cento delle aule scolastiche serve al Comune per pompare soldi nell’economia mafiosa. Ogni anno, per quegli affitti – calcola una minuziosa relazione della Commissione antimafia – i costruttori incassano quindici miliardi di lire. Anche i rubinetti asciutti nelle case sono un’occasione per favorire i privati, per lo più mafiosi. La sete di Palermo è un classico tormentone estivo.
Quando nei quartieri popolari casalinghe inferocite si scatenano nei blocchi stradali per chiedere provvedimenti, chi può scandalizzarsi se i dirigenti dell’Amap, l’azienda municipalizzata dell’acquedotto, che ha per presidente un uomo di Ciancimino (il cugino, tanto per render chiaro che sono affari di famiglia), si affrettano a comprare l’acqua dai privati proprietari di pozzi? Tra i maggiori creditori dell’Amap – certifica nel 1984 un’inchiesta giudiziaria – figurano i fratelli Michele e Salvatore Greco. Il loro credito ammonta a due miliardi di lire.
SOSPETTI
[…] Quanto è costato a Insalaco ottenere l’investitura a sindaco? Quante promesse e quanti compromessi? È certo che, come tutti, ha fatto il giro delle sette chiese del potere. È andato, per esempio, da Leoluca Orlando, per sincerarsi che quel giovane avvocato, così apprezzato a Roma, dove la segreteria De Mita ha intenzione di giocare la carta del rinnovamento, non pensasse di candidarsi. Poi ha consultato Vito Ciancimino.
Ma il sì finale tocca a Salvo Lima, il più potente dei democristiani di Sicilia. E qui bisogna lasciare la parola a un uomo che dice di essere stato testimone dell’incontro decisivo tra Lima e l’aspirante sindaco: Angelo Siino. Che sostiene, anzi, di essere stato l’artefice del successo della candidatura.
Il capo degli andreottiani – rivela Siino – diffidava di Insalaco, lo considerava «ladro e sbirro»: «ladro» perché conosceva e frequentava mafiosi come Stefano Bontate e Salvatore Greco; «sbirro» perché conosceva e frequentava prefetti di polizia come Emanuele De Francesco, generali dei carabinieri come Carlo Alberto Dalla Chiesa ed Enrico Mino (che dell’Arma fu comandante generale dal 1973 al 1977) e alti ufficiali come il colonnello Antonio Subranni. Il vero timore del capo andreottiano – ricostruisce Siino – era che Insalaco, una volta eletto sindaco, si rivelasse inaffidabile nel gestire alcuni grandi appalti. A Lima ne stavano a cuore tre: il risanamento del centro storico, gli appalti banditi dall’Amap e soprattutto la manutenzione di strade e fogne.
Siino sostiene di aver placato i timori di Lima assicurandogli di avere su Insalaco una grande influenza: «Grazie alla mia amicizia, ero in condizione di poterlo condurre a consigli ragionevoli». Sull’incontro a tre, conviene lasciare a Siino la ricostruzione di ciò che si disse: «L’Insalaco manifestò la sua piena disponibilità a curare gli interessi del Lima ed il Lima manifestò particolare interesse soprattutto nella tutela di un gruppo che avrebbe dovuto coinvolgere Cassina e le cooperative rosse e che si sarebbe dovuto occupare della gestione dei grandi appalti di Palermo. chiese garanzie perché i vantaggi che sarebbero derivati al gruppo fossero riconosciuti a lui e non, come era stato in passato, soprattutto a Ciancimino.
Parlando di vantaggi, il Lima fece riferimento anche al profilo economico degli affari e assicurò vantaggi economici anche all’Insalaco». I «vantaggi», sembra di capire, sono né più né meno che tangenti. Concludere l’accordo è una ragione di soddisfazione per Siino: «Sapevo che avrei potuto ottenere l’aggiudicazione di alcuni appalti e soprattutto che ne sarei uscito con un’accresciuta credibilità da spendere sia sul piano degli affari nell’imprenditoria, che sul piano dei miei rapporti con il mondo politico e mafioso».
Nel momento in cui lo racconta alla magistratura, nell’autunno del 1997, Siino è l’unico testimone ancora in vita dell’incontro. Gli altri due sono morti ammazzati. A volerla immaginare, la scena è irresistibile: due politici – un deputato europeo e un promesso sindaco – intenti a negoziare un accordo di affari e di potere per la guida della sesta città d’Italia sotto lo sguardo benedicente dell’uomo di collegamento con la mafia corleonese, che di quell’accordo si candida a essere il garante.
Ma più che cedere al fascino della ricostruzione, può essere utile ragionare brevemente sul senso del racconto. Nessuna sorpresa che Lima potesse tentare di sbarazzarsi del più che ingombrante Ciancimino: in quella primavera 1984 don Vito è troppo compromesso, troppo «chiacchierato» – come allora si diceva – perché il capo della Dc siciliana voglia ancora averlo tra i piedi. E il progetto di sbarazzarsene è forse perfino più antico. Si direbbe che per anni Lima abbia tentato di liberarsi di Ciancimino.
Ne è buon testimone Tommaso Buscetta, che riferì di un suo incontro a Roma con l’eurodeputato siciliano, datandolo all’estate del 1980 e ambientandolo nell’atrio dell’Hotel Flora, sulla strada della dolce vita, via Veneto. In un angolo appartato di quell’atrio, secondo il racconto di Buscetta, Lima gli sussurra che Ciancimino è un problema. Una laconica confidenza, accompagnata da una spiegazione altrettanto laconica: Ciancimino controlla troppi voti e pretende troppo potere.
Buscetta sostiene di aver incassato l’informazione senza domandare perché Lima avesse sentito il bisogno di fornirgliela. Assisteva all’incontro l’esattore Nino Salvo. Toccò a lui, che era un mafioso come Buscetta, fornire a don Masino, in separata sede, l’interpretazione autentica delle parole di Lima. Stabilito che Ciancimino era un problema – decifrò l’esattore – toccava a lui, Buscetta, risolverlo. Era, insomma, una richiesta d’aiuto: di un politico a un mafioso per sbarazzarsi di un politico mafioso. Buscetta la ignorò.
Quattro anni dopo, ecco Lima rivolgersi a Insalaco perché spinga Ciancimino giù dalla giostra miliardaria degli appalti. Quanto a Siino, è possibile che fosse divertito all’idea di fare uno sgambetto a don Vito. Il geometra di San Giuseppe Jato non doveva aver dimenticato che, quando il suo compaesano Giovanni Brusca lo aveva raccomandato a Ciancimino perché gli facesse ottenere qualche appalto, quello aveva risposto che non ci pensava neppure perché Siino «è stato amico del colonnello Russo [ufficiale dei carabinieri ucciso dalla mafia nel 1977, N.d.A.]». Dettaglio: a presentare il colonnello Giuseppe Russo a Siino era stato Insalaco.
MISTERI
Restano da capire due misteri. Perché, conclusa quell’intesa, e con l’ingombrante presenza del geometra imprenditore di San Giuseppe Jato come garante, Insalaco – l’uomo che al giornalista Stajano aveva detto, tre anni prima, che a Palermo gli sgarri si pagano col piombo – fece tutt’altro rispetto a quello che aveva promesso.
E perché Siino, che dall’aver patrocinato l’accordo sul nuovo sindaco di Palermo si aspettava affari e potere e venne giocato dal voltafaccia del suo amico d’infanzia, non risulti aver mai ripudiato la sua simpatia per lui, arrivando a prestargli dei soldi negli ultimi mesi della sua vita.
C’è un’altra difficoltà: Siino, che è sempre apparso come il collaboratore di giustizia più informato sui risvolti d’affari delle vicende mafiose, sostiene che negli anni Ottanta sorse un dissidio tra Riina e Provenzano a proposito della scelta di aprire alle cooperative rosse il grande mercato siciliano degli appalti.
Riina, nella ricostruzione di Siino, non voleva «i comunisti intra», a differenza di Provenzano, che invece era deciso a includerli. Ma l’affare che Lima andava prospettando a Insalaco era appunto questo: manovrare per favorire un’intesa che assicurasse alle coop, in solida alleanza con Cassina, il ricco appalto della manutenzione di strade e fogne. Una possibile spiegazione sta nel fatto che il Siino negoziatore non è ancora il procuratore d’affari di Totò Riina, ma un imprenditore quarantenne con molte amicizie nello schieramento corleonese di Cosa Nostra e una rete di relazioni mondane che comprende baroni e principesse.
Dopotutto i rocamboleschi giochi della politica sono materia per prestigiatori, e in una terra complicata come la Sicilia, con la mafia di mezzo, lo sono ancora di più. L’unica cosa chiara è che quel che da Insalaco si voleva, e si riteneva di poter ottenere, era che si prestasse docilmente ai giochi del potere.
E che ubbidisse agli ordini. Con l’intuito delle donne, sia la madre che la moglie fiutarono nell’offerta della sindacatura una trappola. Ernesta Crociata – secondo la nipote – non era contenta che suo figlio diventasse sindaco, e questo fu per lui ragione di sconcerto e delusione. Anche la moglie, che dopo la separazione restò comunque la confidente e la consigliera più fidata di Insalaco, gli sconsigliò di accettare.
E si sentì rispondere: «Se non mi lancio è finita. Sarò sempre una persona che rimane terra terra, e io non ci voglio restare». Testimonierà al processo Piera Salamone: «Voleva assolutamente dimostrare che, una volta diventato qualcuno, poteva fare qualcosa di diverso rispetto a quello che si stava facendo e che lui non approvava, e che comunque non poteva contestare perché non era nessuno». «E che cosa voleva fare?» le domandano in Corte d’Assise. «Un po’ di rivoluzione»
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
OMICIDIO GIUSEPPE INSALACO. La guerra ai padroni di Palermo, così il nuovo sindaco ha sfidato i Cassina. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 26 gennaio 2022.
Insalaco è stato eletto da dieci giorni appena quando il ragioniere generale gli comunica che il Comune ha un debito di almeno ottanta miliardi con la Lesca-Farsura, l’azienda di Cassina. Forse, aggiunge il capo della ragioneria, i miliardi sono cento. Forse, corregge, sono centoquarantadue: gli uffici comunali non lo sanno con precisione. Non è un debito: è un abisso.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Fu forse per progettare la rivoluzione che Insalaco provò a tessere una rete spericolata di alleanze. Paolo Agnilleri, che in quegli anni era consigliere comunale del Pci, ricorda le frequenti visite del candidato sindaco nelle stanze del settecentesco Palazzo Calatafimi, la sede della federazione comunista: «Cercò una sponda nel Pci.
Ebbe incontri riservatissimi con tutti i maggiori dirigenti del partito: con Michele Figurelli, con Elio Sanfilippo, con Simona Mafai. Garantiva che nella Dc c’era una fronda, che sui grandi appalti si poteva arrivare a soluzioni nuove. Il disegno era smontare Lima e i grandi padroni».
Il giorno stesso dell’elezione di Insalaco, un gruppo di consiglieri comunali del Pci presentò alla Procura della Repubblica un esposto sul mancato rinnovo dei grandi appalti. Sembrò uno sgambetto dell’opposizione al nuovo sindaco. Ma quella mossa – rivelerà anni dopo il comunista Elio Sanfilippo – era stata concordata con Insalaco: facendosi scudo della minaccia di un’inchiesta giudiziaria, si voleva costringere la riottosa maggioranza del Consiglio comunale ad affrontare al più presto la questione dei grandi appalti.
Si trattava, insomma, di una manovra di machiavellismo spicciolo. Ma Insalaco non doveva essere il solo a pensare di poter usare la magistratura per raggiungere i propri scopi. Quasi per un ironico contrappasso, un attimo dopo aver concordato con i comunisti una mossa per piegare la maggioranza ai suoi disegni sventolando la minaccia di un’inchiesta, il nuovo sindaco viene a sapere che la Procura della Repubblica ha ricevuto una lettera anonima contro di lui. Riguarda la vendita del terreno dell’Istituto Sordomuti ai costruttori Saccone. Se è lecito leggere i fatti di mafia in controluce, in una città che dalla mafia è dominata, occorre dire che è un tempo di mutamenti e turbolenze anche per Cosa Nostra.
I GRECO E I CUGINI SALVO
La domenica precedente all’elezione di Insalaco, Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi spodestato dai corleonesi, è stato catturato a Madrid. Gli Usa ne hanno chiesto l’estradizione per processarlo come trafficante d’eroina. Badalamenti è un perdente, come Buscetta.
Negli anni Settanta è stato il capo della commissione di Cosa Nostra. Negli anni Ottanta è dovuto andarsene dalla Sicilia per sfuggire alla caccia all’uomo scatenata dagli uomini di Riina. Ma anche gli alleati dei corleonesi non possono riposare sugli allori. A Caltanissetta, in quei primi mesi del 1984, si svolge il processo per l’assassinio di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio istruzione assassinato con un’autobomba il 29 luglio 1983. Siede sul banco dei testimoni il capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini.
I Greco, accusa, sono i capi carismatici della mafia. Michele Greco, il rispettato possidente che aveva dato le chiavi dell’incantevole tenuta della Favarella a una sfilza di carabinieri, da colonnelli in giù, da un anno è un latitante. Chinnici – aggiunge il capitano Pellegrini – voleva arrestare i cugini Salvo, «me l’aveva confidato subito prima di essere ucciso». Si scatena un putiferio.
In questa città inquieta, Insalaco fa davvero una rivoluzione. Comincia dalla burocrazia: gli intoccabili. Appena eletto, trasferisce d’autorità cinque dipendenti comunali, sotto inchiesta per reati che vanno dal traffico di droga alla truffa. Ordina la rotazione di tutti i capi-ripartizione, un modo per schiodare clientele consolidate e incrostazioni d’affari. Rimuove l’alto funzionario che da solo, uno e trino, dirige il macello, il mercato ittico e quello ortofrutticolo; lo sostituisce con tre nuovi direttori.
Richiama i vigili urbani in servizio nelle segreterie degli assessori e li rimette al lavoro sulle strade, nel traffico. Ordina che le auto blu servano «solo per motivi di ufficio» e ne limita l’uso ad assessori, segretario generale e capo di gabinetto, togliendole all’alta burocrazia. Le auto blu, i dipendenti infedeli, la rotazione dei dirigenti: è l’eterno ritorno del sempre uguale nella politica italiana. Ma per una volta, c’è un uomo che sembra fare sul serio. È forse quell’inspiegabile esuberanza a convincere i padroni di Palermo a tirare le briglie al nuovo sindaco.
L’AZIENDA DEI CASSINA
Insalaco è stato eletto da dieci giorni appena quando il ragioniere generale gli comunica che il Comune ha un debito di almeno ottanta miliardi con la Lesca-Farsura, l’azienda di Cassina che cura con tanto zelo la manutenzione di strade e fogne da custodire nei propri uffici la mappa delle fognature di Palermo, rifiutando di consegnarla al Municipio. Forse, aggiunge il capo della ragioneria, i miliardi sono cento. Forse, corregge, sono centoquarantadue: gli uffici comunali non lo sanno con precisione. Non è un debito: è un abisso.
Insalaco reagisce ordinando che si blocchino i pagamenti all’impresa. Scrive a tutti gli uffici interessati, dalla ragioneria generale all’ufficio legale, chiedendo che gli vengano mostrati, se esistono, i documenti che giustificano quel debito colossale. Sollecita, sempre per iscritto, una riunione tecnica per valutare il contenzioso con l’impresa. La lettera semina il panico. Non avrà risposta.
Nel suo Anatomia di un istante, serrata ricostruzione dell’attimo che, il 23 febbraio 1981, segnò insieme l’esordio e il fallimento del golpe tentato dal tenente colonnello Antonio Tejero nel Parlamento spagnolo, Javier Cercas annota: «Borges dice che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”». Io credo che per Insalaco quel momento sia venuto allora. Capì che lo avevano scelto perché lo credevano capace di tutto. E diventò davvero capace di tutto. Ma per orgoglio, non più per ambizione. E se il tutto di cui lo credevano capace era il piegarsi e servire, il tutto di cui divenne capace fu la ribellione. Non era una scelta facile.
Quando il nuovo sindaco scrive un perentorio «non si paghi» sui mandati intestati alla Lesca, Arturo Cassina è una potenza. Ha il pacchetto azionario di aziende che operano in Italia, in Svizzera, in Libia, in Medio Oriente. Possiede due banche e una società di assicurazione.
Figura tra i fondatori della Cross Air, la seconda linea aerea elvetica. Ed è il luogotenente per la Sicilia dell’Ordine del Santo Sepolcro, fondato all’epoca delle Crociate da Goffredo di Buglione per custodire a Gerusalemme la chiesa del Santo Sepolcro e diventato, quasi mille anni dopo, a Palermo, sotto la guida accorta di Cassina, una sorta di club esclusivo che riunisce l’élite della città – i poteri forti, si sarebbe detto qualche anno più tardi.
Nell’aprile 2014 un’ordinanza cautelare del gip di Roma sintetizzerà così i confini dell’impero, ormai in rovina: «Negli anni ’80 alla famiglia Cassina era riconducibile un gruppo imprenditoriale costituito da ben 67 società, attive nei settori dei pubblici appalti, trasporti, turistico-alberghiero e finanziario». Un uomo ricco e potente, con amicizie e protezioni che dalla politica si estendono fino alla Curia e al Palazzo di Giustizia.
Mettersi contro un colosso di queste dimensioni, per il sindaco di Palermo, equivale a un suicidio. È impossibile che Insalaco non se ne renda conto. E che non sappia che ogni suo gesto sarà pesato sulla bilancia storta della calunnia Il socialista Gaspare Saladino era in quegli anni un membro della direzione del suo partito. La sua sede di lavoro si trovava a Roma, in via del Corso; tornava in Sicilia per i fine settimana.
Racconta: «Con Insalaco ci incontravamo a volte in aeroporto, per caso. Aleggiava intorno al suo nome una certa ambiguità. Quando bloccò i pagamenti a Cassina, gli assessori socialisti della giunta vennero a dirmelo. Era un momento un po’ drammatico. C’era il dubbio che fosse per ricattare...» Nel novembre del 2013 una sentenza della Corte d’Appello di Palermo condannerà la Lesca-Farsura, da tre anni dichiarata fallita, a risarcire al Comune di Palermo circa centotrenta milioni di euro (in vecchie lire, poco più di duecentocinquanta miliardi), certificando «il modus operandi truffaldino dell’appaltatore». È un bollo d’infamia sui conti dell’impresa. Quando quella sentenza sarà pronunciata, nessuno ricorderà che il primo a bloccare i pagamenti, sospettando che i conti fossero truccati, fu Insalaco.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
OMICIDIO DEL SINDACO GIUSEPPE INSALACO. La svolta antimafia di Insalaco in memoria del “comunista” Pio La Torre. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 27 Gennaio 2022.
Il 30 aprile, per il secondo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre, il sindaco fa affiggere un manifesto che proclama «l’impegno della pubblica amministrazione a costituirsi scrupolosa custode dei valori di libertà di cui La Torre fu impareggiabile alfiere nella lotta per la pace e per la giustizia sociale nonché contro ogni organizzazione mafiosa eversiva».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
In un enorme, polveroso magazzino di Ciaculli, in un giorno di vento gelido, tagliente, ho consultato i faldoni che custodiscono le delibere approvate dalla giunta Insalaco. C’è tutta l’ironia di Palermo nell’aver scelto di collocare l’archivio degli atti del Comune – di un Comune che per anni i corleonesi tennero in uno stato di soggezione – in un disadorno capannone nella borgata che fu il feudo dei Greco. La prima delibera dispone che si invii a Roma una delegazione, con il gonfalone del Comune, per la marcia antimafia del 5 maggio.
La seconda riguarda l’installazione di un radiotelefono sulla macchina del sindaco. Ottocentomila lire la spesa. Il primo ad avere il telefono in macchina, a Palermo, era stato Arturo Cassina.
La marcia del 5 maggio, la prima organizzata contro la mafia dagli studenti di tutta Italia, fu «un mezzo fallimento». O così apparve a Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale assassinato, che andò all’appuntamento in piazza con molte speranze. Dalla Sicilia partì un treno carico di ragazzi. A Roma si ritrovarono a sfilare spaesati in una città distratta. Finirono a urlare in corteo: «Roma Roma capitale / non stare lì a guardare». A piazza Farnese, punto d’arrivo della marcia, trovarono sotto il palco un solo leader di partito.
Era Enrico Berlinguer, il segretario del Pci. I giornalisti gli chiesero un commento. Berlinguer sorrise, non disse una parola e se ne andò. Il giorno dopo il quotidiano romano il Messaggero dedicò alla manifestazione una fotonotizia in prima pagina e un titolo anodino: «15mila contro la droga». La parola mafia si maneggiava ancora con cautela.
Un commento di Giancarlo Caselli, allora giudice istruttore a Torino, pubblicato in cronaca di Roma, dà l’idea dello spirito del tempo. Così comincia: «Per riuscire a vincere (o quanto meno a contenere) la criminalità organizzata...» Un progetto fin troppo cauto per il magistrato che, dieci anni dopo, nella rovina della Prima Repubblica, metterà sotto accusa per mafia il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
FARE “ANTIMAFIA”
«Fare l’antimafia», come allora si diceva, non era ancora un modo per garantirsi una carriera; al contrario, rischiava di bruciarla. Eppure è su quel fronte che Insalaco si sbilancia in gesti senza precedenti. Sabato 21 aprile, vigilia di Pasqua, va di buon mattino a deporre una corona in via Isidoro Carini, nel luogo dell’agguato al generale Dalla Chiesa. Mezz’ora dopo si sposta a Brancaccio per fare gli auguri di Pasqua al personale del commissariato.
È un gesto che ha il sapore di una sfida: un anno prima, l’inaugurazione del presidio di polizia è stata salutata dalla mafia del quartiere con un attentato. Il sindaco scrive a Leonardo Sciascia, gli chiede di incontrarlo. In un’intervista lo scrittore ha appena definito Palermo «una città di padroni e servi», immutata da quel secolo diciottesimo in cui «era residenza di duemila famiglie nobili (di più o meno probabile nobiltà)». Una città retta da «un governo invisibile, che non è quello dello Stato. Efficiente, tutto sommato».
Sciascia lo riceve, parlano– forse più Insalaco che il taciturno scrittore – il sindaco lascia di sé una buona impressione. Dopo l’assassinio, sarà Sciascia a rievocare quell’incontro: «Mi aveva scritto una lettera piena di fervore, appena eletto sindaco; era poi venuto a trovarmi. Mi era parso sincero nelle sue buone intenzioni».
Il 30 aprile, per il secondo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre, il sindaco fa affiggere un manifesto che proclama «l’impegno della pubblica amministrazione a costituirsi scrupolosa custode dei valori di libertà di cui La Torre fu impareggiabile alfiere nella lotta per la pace e per la giustizia sociale nonché contro ogni organizzazione mafiosa eversiva».
Sono parole che non si sono mai viste stampate sui muri della città col simbolo dell’aquila di Palermo. Due giorni prima, il Comune ha dato la sua adesione a una manifestazione contro l’installazione dei missili della Nato a Comiso. I primi Cruise sono arrivati il 31 marzo. Pacifista. Antimafioso. Il neosindaco sembra irrefrenabile.
Assume per chiamata diretta al Comune la vedova di Paolo Giaccone, il medico legale assassinato perché ha rifiutato di aggiustare una perizia su un’impronta che inchiodava un mafioso.
Consegna personalmente al comunista Paolo Agnilleri un attestato di benemerenza firmato dal ministero dell’Interno. Poco più di un anno prima, nel marzo del 1983, Agnilleri è stato picchiato a Brancaccio, in un agguato «a opera di ignoti». Insalaco viene eletto con i voti di Brancaccio. Non può non sapere che il pestaggio di Agnilleri è opera della mafia del quartiere, e soprattutto dei fratelli Graviano, i pupilli di Totò Riina, che vogliono punire il giovane comunista per la sua insistenza nelle denunce contro la mafia.
L’attestato di benemerenza è una sfida e, venendo da un politico che in quelle zone ottiene centinaia di preferenze, somiglia a una provocazione. Perché lo fa?
LA MISSIVA SULLA STRAGE DI USTICA
Il 2 maggio scrive al presidente del Consiglio, Bettino Craxi, il primo socialista insediato a Palazzo Chigi, per chiedergli di non opporre il segreto di Stato sulla strage di Ustica.
Nella lettera, per quel po’ che se ne saprà dai giornali, il sindaco ipotizza un legame tra «i misteri di Palermo» e la sorte del Dc9 partito da Bologna e diretto a Punta Raisi, precipitato in mare il 27 giugno 1980, al largo dell’isola di Ustica [81 vittime]. Quando Insalaco prende carta e penna per scrivere a Craxi, indiscrezioni di stampa sostengono che alcune perizie effettuate dai laboratori dell’Aeronautica militare avrebbero accertato, nel relitto del Dc9, tracce di T4. Il T4 – ha subito avvertito il presidente dell’Associazione italiana dei magistrati militari, Vito Maggi – serve per fabbricare le testate dei missili aria-aria e le mine.
La presenza di quell’esplosivo lasce[1]rebbe pensare che l’aereo sia caduto mentre erano in corso nel Tirreno manovre militari. Significa avvalorare l’ipotesi che sia stato abbattuto da un missile. Non c’è notizia di una risposta di Craxi.
È abbastanza ovvio supporre che il presidente del Consiglio non abbia tenuto in nessun conto l’appello dell’oscuro sindaco di Palermo. Per puro scrupolo ho chiesto agli archivi di Palazzo Chigi di controllare se fosse stata conservata la lettera spedita da Palermo; non se ne è trovata traccia.
Più misterioso è il fatto che quel testo sia scomparso anche da Palazzo delle Aquile. E non da oggi, se nel luglio del 1990 il giornalista Sandro Acciari potrà scrivere su l’Espresso che la lettera di Insalaco, protocollata con il numero 865 dalla segreteria generale del Comune, è irrintracciabile. E potrà aggiungere: «Quel poco che si conosce dell’iniziativa del sindaco, lo si deduce da un altro documento, un comunicato destinato alla diffusione interna alla Dc palermitana».
Il documento è una protesta, firmata da Luigi Calderone, uno dei consiglieri comunali legati a Vito Ciancimino, che accusa Insalaco di «grave scorrettezza» per aver ipotizzato «un abbinamento tra la tragedia del Dc9 e i misteri di Palermo» e giudica una «indebita pressione psicologica, un ricatto morale» l’appello del sindaco al premier.
L’opinione dei cianciminiani è nettissima: «È certo che se l’onorevole Craxi, nell’esercizio di un diritto-dovere che gli conferisce la legge, dovesse adottare la dolorosa decisione del segreto di Stato, lo fareb[1]be certamente costretto dalla necessità di tutelare i supremi interessi della nazione». Si fa fatica a immaginare gli scudieri di Ciancimino così in ansia per «i supremi interessi della nazione». L’accenno di Insalaco ai misteri di Palermo non era forse del tutto fuori luogo.
L’avvocato Alfredo Galasso, che è stato parte civile per le famiglie delle vittime di Ustica, ricorda uno strano episodio: «All’indomani della tragedia, comparve sul giornale L’Ora un necrologio firmato da Gheddafi nel quale il leader libico esprimeva la propria vicinanza al popolo siciliano per la sciagura».
In realtà, il necrologio, listato a lutto, che L’Ora pubblica il 2 luglio del 1980 (un mese esatto prima della strage alla stazione di Bologna: coincidenza golosa per gli appassionati di cabale complottiste) così recita: «Il Consolato Generale della Giamahiriah Araba Libica Popolare Socialista partecipa sinceramente al dolore che ha colpito i familiari delle vittime della sciagura aerea di ustica e manifesta tutta la sua solidarietà al Presidente della Regione e al Presidente dell’ars per questo nuovo lutto che ha colpito la Sicilia». Misterioso necrologio, con tutte le sue roboanti maiuscole.
È noto che una delle ipotesi più accreditate sulla sciagura di Ustica è che il Dc9 sia stato colpito da un missile durante un duello di jet militari per abbattere l’aereo libico sul quale viaggiava Gheddafi. E che di missile si trattasse lo ha stabilito una volta per tutte, nell’aprile 2015, la Corte civile d’Appello di Palermo.
Trent’anni prima, il pittoresco necrologio era un messaggio in codice di chi sapeva già tutto? Un modo per far capire a chi doveva e poteva intendere che il leader libico era ben consapevole di essere stato il bersaglio mancato di un agguato nei cieli? Nell’autunno del 2013 ho chiesto copia della lettera di Insalaco alla segreteria generale del Comune: mi è stato risposto che, dopo attenta ricerca negli archivi, si era molto spiacenti di comunicare che la lettera «non risulta».
Non hanno avuto miglior fortuna né la Procura della Repubblica di Palermo né il giudice istruttore Rosario Priore, autore di una accurata, documentatissima indagine giudiziaria sul disastro aereo di Ustica. Nella monumentale sentenza-ordinanza sulla strage firmata da Priore, ho trovato traccia della lettera di Insalaco, e dello scacco subito nel cercare di rintracciarne il testo.
Nel capo sei di quel documento, al primo capitolo, intitolato «Documentazione acquisita presso la Segreteria Speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri», si legge di un tentativo fallito della Procura palermitana di ottenere copia della lettera. Annota il giudice Priore: «Ignote, pertanto, sono rimaste le motivazioni sull’invio della missiva a Craxi da parte di Insalaco».
Tra i molti misteri di Ustica, dunque, c’è pure la scomparsa di una lettera ufficiale, debitamente protocollata, del sindaco di una città di seicentomila abitanti al presidente del Consiglio del suo paese a proposito di una sciagura aerea che è costata la vita a 81 cittadini di quel paese. L’archivio del gabinetto dei sindaci di Palermo si trova a Palazzo Galletti, un elegante edificio neogotico che sorge su un lato di piazza Marina, davanti alla cancellata che il 12 marzo 1909 vide crollare al suolo, colpito da quattro proiettili alla schiena, Joe Petrosino, il poliziotto italoamericano sbarcato in Sicilia per indagare sui capi della Mano nera. C’è un’altra città europea la cui geografia sia così potentemente segnata dal delitto? E dal delitto impunito, se nel 2014, dopo più di un secolo, si arriverà ad azzardare un nuovo nome per il possibile colpevole dell’assassinio di Petrosino?
LA CARPETTA ROSSA SEMIVUOTA
A Palazzo Galletti la carpetta rossa che contiene i documenti della stagione Insalaco è semivuota. Sembra messa assieme con grande svogliatezza. Neanche qui c’è alcuna traccia della lettera a Craxi: né di una prima bozza né di un testo definitivo.
E le uniche due copie delle dichiarazioni programmatiche del sindaco devono la loro sopravvivenza a un errore: erano state infilate nelle buste destinate a due presidenti di consigli di quartiere il cui indirizzo risultò sbagliato e che dunque vennero restituite al mittente.
Per il resto, ci sono decine di copie dell’elenco degli assessori: democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici, liberali, tutti insieme in una giunta di pentapartito, secondo la formula in voga all’epoca.
Ci sono i documenti di accettazione dell’incarico da parte di quei medesimi assessori. Scorro l’elenco: c’è il vecchio e il nuovo. Alle manutenzioni, l’assessorato che sovrintende ai grandi appalti, un cianciminiano, Salvatore Midolo. Al decentramento, Leoluca Orlando.
Il diavolo e l’acquasanta. Nella carpetta rossa, altre poche carte: la brutta copia del saluto di Insalaco al presidente della Repubblica Sandro Pertini insignito di una laurea ad honorem nell’Università di Palermo, gli appunti di un discorso rivolto al direttore del giornale Il progresso italoamericano in visita in città... Lette dal sindaco nell’aula del Consiglio comunale il 7 maggio, le dichiarazioni programmatiche consistono di venti pagine dattiloscritte. Sulla prima figura un titolo che sembra più adatto a un manifesto o a un editoriale: «La mafia, la violenza e il malcostume».
Trapela dalle prime righe la traccia di un’umiliazione: «Dai giornali a tiratura nazionale, ma anche dai servizi televisivi della Rai, questa amministrazione, con il sindaco in testa, è stata messa a confronto con la precedente. In buona sostanza si è detto: dopo la strage di via Carini c’è stato il sindaco del rinnovamento, ora c’è quello dell’apparato».
E subito, come per difendersi da quel sospetto: «Fin dal primo momento ci siamo impegnati a fare della lotta alla mafia un vessillo dietro il quale, compatti, si porranno l’amministrazione e il Consiglio comunale di questa città».
Poi il sindaco richiama il dovere di osservare la legge e «prima fra tutte, la Rognoni-La Torre», quella che manda in bestia i capi di Cosa Nostra perché li colpisce nella roba, col sequestro e la confisca dei patrimoni illeciti.
Fa ragionamenti di mafiologia elementare, che in quell’aula, però, possono risultare fastidiosi: «Ormai il mafioso con la coppola e la giacca di velluto ritengo non esista più e abbia indossato il vestito grigio, cercando di mettere sempre più le mani sull’apparato Sta a noi scovarlo e allontanarlo, isolarlo. Attenzione e trasparenza, insieme all’utilizzo della legislazione antimafia, potranno ridare fiducia ai cittadini».
Trent’anni dopo, è facile sostenere che fu una scelta di puro opportunismo proiettarsi sulle trincee dell’antimafia. Ma nella prima metà degli anni Ottanta, non era affatto certo che fosse una battaglia popolare. Né a Palermo né a Roma.
Lo stato della lotta a Cosa Nostra è evidente l’8 maggio, quando arriva in città una delegazione della Commissione antimafia per incontrare i parenti delle vittime. Su quaranta commissari, si presentano in diciassette, neanche la metà, e questo dà già un’idea dell’interesse.
A Palazzo dei Normanni, la sede dell’antico parlamento siciliano, deputati e senatori incontrano la moglie e il fratello del poliziotto Boris Giuliano, la vedova del procuratore Gaetano Costa, la vedova del colonnello Russo, la vedova del medico legale Giaccone, la vedova del giudice Terranova. Ascoltano le denunce accorate dei ritardi, delle omissioni, delle inerzie, degli errori grossolani che costellano le indagini. Emanuele Giuliano, fratello di Boris, e Rita Bartoli Costa, vedova del procuratore Gaetano, dicono addirittura di non fidarsi di quelle indagini.
Ed è una sconsolata confessione, la testimonianza di una delusione senza riscatto. Nel 1952 don Primo Mazzolari annotò nel suo Viaggio in Sicilia: «La sete di giustizia dei siciliani, spesso, è vera arsura». Nulla di più vero per i parenti delle vittime di mafia. Allora come oggi.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO DI PALERMO. L’ora della disfatta, le dimissioni dopo cento giorni da sindaco. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 28 gennaio 2022.
È Il Giornale di Sicilia a intimare a Insalaco lo sfratto: il 12 luglio scrive che è sotto inchiesta, «sospettato di interesse privato». Quel giorno stesso il sindaco si dimette. E’ il primo sindaco di una grande città che si trova nei guai con la giustizia. A suo modo, un precursore. In quel lontano 1984 la bufera di Tangentopoli era ancora di là da venire e la corruzione italiana era ancora un segreto taciuto.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Nei giorni del potere, Insalaco si barrica nel suo ufficio. Trasforma la sua stanza da sindaco – un’enorme sala tappezzata di damaschi rossi che confessa di non amare – in un archivio. Ricopre di atti amministrativi i sei sofà addossati alle pareti, come se volesse disporre il puzzle degli intrighi e degli affari. Trascorre ore rintanato lì dentro, in una sorta di condizione da assediato liberamente scelta. Vive di sospetti. Si sente circondato da gente infida.
Alla moglie confida che gli capita di trovare nella posta ordinaria i mandati di pagamento per la Icem e la Lesca: gli venivano infilati di soppiatto nella corrispondenza perché in un momento di distrazione li firmasse. Vive nel terrore di firmare carte compromettenti. Martedì 3 luglio si varano i nuovi vertici delle municipalizzate. All’Amat, l’azienda dei trasporti, viene designato Nicola Graffagnini, segretario provinciale della Dc; all’Amnu, nettezza urbana, Umberto Di Cristina, docente universitario di Urbanistica; al Gas, Ignazio Romano Tagliavia, docente universitario di Elettronica. All’Amap, acquedotto, Gaspare Mistretta, ex presidente dell’ospedale Villa Sofia.
La commissione provinciale di controllo annullerà tutto. Nella notte tra venerdì 6 e sabato 7 luglio il Consiglio comunale discute le dimissioni del cianciminiano Midolo. Capelli ravviati all’indietro, baffetti a triangolo, corpulento, un’aria da guappo, Midolo pronuncia la sua orazione anti Insalaco in un silenzio carico di tensione.
Legge sette cartelle. Attacca il sindaco per la «mancata trasparenza», alla quale «si è aggiunta la mancata chiarezza nei rapporti umani». Dice di Insalaco: «Istituzionalizzando il mendacio nei rapporti interpersonali, instaurando un clima di sospetto su tutto e su tutti, minacciando denunzie a destra e a manca, ha finito con il creare una barriera di incomunicabilità che non mi consente più di poter ulteriormente collaborare con lui».
Accusa il sindaco di aver predisposto «un equivoco capitolato» e sostiene che tutti e tre gli ultimi sindaci di Palermo hanno manifestato una «irresistibile tendenza all’avocazione». Il giovane assessore al decentramento Leoluca Orlando lo ascolta prima con stupore, poi con divertimento: si è accorto che Midolo si riferisce all’avocazione pronunciando «la vocazione», con uno stacco sensibile tra l’articolo e il sostantivo, come se non capisse quello che dice o come, più semplicemente, se stesse recitando un testo che qualcuno ha scritto per lui, un copione concordato. Conclusa la lettura, Midolo si alza, si avvicina lentamente alle pesanti tende di velluto rosso che oscurano le finestre dell’aula, ne scosta una che nasconde un telefono. Solleva la cornetta, compone un numero, parla brevemente e chiude.
È una perfetta scena teatrale. Dall’altra parte del filo, c’è Vito Ciancimino. Anch’io, mandata dal giornale, andai a una di quelle sedute di Consiglio comunale quando sembrava che Insalaco si dovesse dimettere. Avrei dovuto scriverne, se il sindaco avesse gettato la spugna. Ma quella sera non lo fece. Ricordo il frastuono dell’aula e i giochi grotteschi dei consiglieri: Insalaco, sulla poltrona di sindaco, era bianco come un lenzuolo e si guardava attorno con occhi straniti.
Non appena si voltava, dai banchi dei consiglieri c’era chi lo additava e subito si metteva le mani sulle orecchie o stringeva le labbra per emettere suoni gutturali, grugniti, in un’indecente imitazione dei sordomuti. Un consigliere missino mi parlò a lungo dei guai giudiziari del sindaco. Andai via prima che la seduta finisse e a quel punto sapevo già tutto della segretissima inchiesta sull’Istituto dei sordomuti. Tutti sapevano tutto.
LO SCOOP DEL GIORNALE DI SICILIA
È Il Giornale di Sicilia a intimargli lo sfratto: il 12 luglio scrive che Insalaco è sotto inchiesta, «sospettato di interesse privato». Quel giorno stesso il sindaco si dimette. Sarà la donna che ha con lui un legame sentimentale, Elda Tamburello, a raccontare la reazione dell’uomo che ha la delicatezza di chiamare il suo «fidanzato», nel momento in cui il sostituto procuratore Carmelo Carrara gli consegna una comunicazione giudiziaria per truffa. Lo descrive stupito, turbato.
Dopotutto è il primo sindaco di una grande città che si trova nei guai con la giustizia. A suo modo, un precursore. In quel lontano 1984 la bufera di Tangentopoli era ancora di là da venire e la corruzione italiana – la vasta, diffusa, pervasiva corruzione italiana – era ancora un segreto taciuto. Non che non ci fosse.
E colpisce che il sindaco confidasse alla sua compagna di aver trovato in Municipio il “marciume”, come se per dimensioni e imponenza lo avesse stupito – lui, Insalaco, che non era un santo –, come se avesse guardato per la prima volta nel pozzo del potere e lo avesse scoperto pieno di fango. In pubblico Insalaco non parla di marciume. Usa parole più caute. Trascrivo da una sua intervista rilasciata in quei giorni a Giuseppe Cerasa, cronista del giornale L’Ora: «Io credo che la vicenda del rinnovo degli appalti, oltre che delle municipalizzate, abbia finito col paralizzare l’attività della giunta oltre misura.
E questa è la riprova che al Comune di Palermo è difficile, quasi impossibile governare in libertà. Se uno ci prova, scattano dei comportamenti che a prima vista potrebbero sembrare inspiegabili, slegati fra loro. Poi viene fuori una logica precisa e ci si accorge che la filippica affidata in Consiglio comunale all’ex assessore Midolo aveva un preciso significato». In quell’«affidata» c’è un messaggio in codice, rivolto al puparo che dietro Midolo si intravede La conclusione è sconsolata: «In questi tre mesi ho capito quanto sia veramente difficile fare il sindaco a Palermo».
In quei giorni partono da Punta Raisi i funzionari di polizia giudiziaria che dovranno prendere in consegna Tommaso Buscetta e portarlo in Italia. Lo aspetta, a Roma, il giudice istruttore Giovanni Falcone. Per quarantacinque giorni, in una stanza della Criminalpol, Buscetta racconterà i segreti di Cosa Nostra a Falcone. Venerdì 20 luglio arriva a Palermo il segretario nazionale della Dc Ciriaco De Mita. Partecipa per la prima volta a una riunione del comitato regionale del suo partito.
Al dimissionario Insalaco è stata dichiarata la solidarietà del gruppo, con quella rumorosa unanimità che, in politica, è il segno più certo del tradimento imminente; il senatore Silvio Coco, commissario della Dc, gli assicura che deve continuare a fare il sindaco. Quattro giorni prima, in segreto, ha provveduto a silurarlo, trasmettendo all’alto commissario antimafia, che lo girerà alla procura, un secondo esposto anonimo sulla storia del terreno venduto dall’Istituto Sordomuti.
In un salone di Villa Igiea, la splendida residenza liberty dei Florio diventata l’albergo più affascinante della città, girando lo sguardo sugli uomini del suo partito, un De Mita preoccupato domanda in un sussurro al segretario regionale, Giuseppe Campione: «Secondo te, quanti mafiosi ci sono qua dentro?»
IL GIORNO DELLE DIMISSIONI
Lunedì 23 luglio il Consiglio comunale discute le dimissioni del sindaco. Dalla sua elezione, il 13 aprile, sono trascorsi 101 giorni. Insalaco è dimagrito di otto chili e invecchiato di dieci anni. Le dimissioni vengono accolte con 53 sì e 3 no. In uno slancio di galanteria, il sindaco consegna alle consigliere comunali grandi mazzi di strelitzie. Quando i fiori arrivano in Municipio, i commessi strabuzzano gli occhi: pensano a uno scherzo macabro, immaginano che siano corone per un funerale. Al giornalista Gabriello Montemagno, che gli domanda se ha paura, Insalaco risponde: «Sì, certo, ho paura».
Un’ora dopo, le manifestazioni di protesta cessano. Come obbedendo a un comando concordato, gli operai di Lesca e Icem tornano a casa. E poiché nella storia di Palermo misteriose coincidenze legano i fatti, proprio in quei giorni Buscetta rende al giudice Falcone la sua testimonianza forse più celebre – l’unica, in quella stagione, che alluda a un legame tra la mafia e la politica. Racconta che nel 1980, quando, da detenuto in semilibertà, era fuggito da Torino con l’intenzione di rifugiarsi all’estero, Pippo Calò gli aveva suggerito di restare in Italia, perché a Palermo si potevano fare montagne di soldi con i finanziamenti per il risanamento del centro storico, «operazione, questa, gestita da Vito Ciancimino, corleonese, che era, secondo le testuali parole di Calò, nelle mani di Totò Riina».
L’epilogo è nel segno dello sfinimento e del terrore. Il 26 luglio, nella piazza Pietro Micca di Boccadifalco, si inaugura la Settimana culturale della borgata. Insalaco è invitato: è pur sempre il sindaco, sia pure dimissionario. Ma si presenta l’assessore al Decentramento, Leoluca Orlando. Così ricorda quel giorno: «Era stato Insalaco a chiedermi di andarci. A cerimonia quasi finita, arrivò lui. Stravolto. Mi disse: “non ce la faccio, sono finito, veramente finito. Mia figlia è malata, ho mandato mio figlio a Londra, io non reggo più perché, alla fine, io sono Peppuccio Insalaco, non mi chiamo Luca Orlando. Tu alzi un telefono e a Roma qualcuno ti risponde; a me non risponde nessuno”. Disse anche: “me la faranno pagare”». A fine luglio diventa ufficiale la notizia che la Guardia di Finanza ha consegnato al Parlamento un rapporto sui patrimoni sottratti ai mafiosi.
L’Espresso pubblica un inserto di ventiquattro pagine «sui beni mobili e immobili sequestrati o confiscati agli uomini dei clan» da Milano a Palermo. Scrive che sono 450 i miliardi già sequestrati o confiscati dal 1982, data di entrata in vigore della Rognoni-La Torre, e che in virtù di quella legge sono state censite ventitremila persone sospette, compilate quattromila schede economiche e altre seimila sono in via di compilazione.
Nell’elenco, per la parte che riguarda la Sicilia, il più corposo numero di proprietà risulta intestato a Michele e Salvatore Greco. I due fratelli sono miliardari: hanno terreni immensi, feudi interi, possiedono quote di società come la Dea, che si occupa di derivati agrumari. Michele Greco ha anche una Ferrari e quote di una società cinematografica, fondata da suo figlio Giuseppe. Manca in quell’elenco il nome di uno degli uomini più ricchi di Palermo: Vito Ciancimino. Nell’autunno 1984 una perizia bancaria gli attribuirà redditi per 700 milioni di lire l’anno (909.222 euro a valori 2011) e un flusso di introiti, costante da almeno dieci anni, pari a 55-56 milioni al mese, più di settantunmila euro.
Nei dodici anni dal 1972 al 1984, Ciancimino ha versato sui propri conti, in Italia, cinque miliardi 629 milioni di vecchie lire. E sempre nel novembre 1984 risulta titolare di un conto canadese per più di un milione di dollari. Arriva a conclusione il processo sulla strage Chinnici. Con l’accusa di esserne i mandanti, Michele e Salvatore Greco sono condannati all’ergastolo; assolti i presunti esecutori, Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi. La sentenza che condanna i mandanti di un attentato che non si sa chi abbia eseguito sembra fatta apposta per essere ribaltata in appello e travolta in Cassazione, come difatti accadrà. Il presidente della Corte d’Assise che l’ha emessa è un anziano magistrato. Si chiama Antonino Meli.
Farà parlare di sé quattro anni dopo, quando sconfiggerà Giovanni Falcone nella nomina a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Scontento della sentenza, il procuratore capo di Caltanissetta, Sebastiano Patané, affida ai microfoni del Tg3 una frase inquietante e oscura: «È giusto che i cittadini sappiano che lo Stato italiano non è nelle condizioni di svolgere una buona lotta alla mafia. Ci sono nello Stato italiano carenze e intromissioni di una certa rilevanza che noi abbiamo dovuto constatare anche in questo processo». Inutilmente gli verrà chiesto di spiegarsi meglio. Non tutti i magistrati sono così sconsolati. In quei giorni anche Paolo Borsellino dà un’intervista a L’Ora. Dice due cose importanti.
La prima è che già dopo gli omicidi del presidente della Regione, Piersanti Mattarella, e del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, Chinnici aveva raggiunto la convinzione che ci si trovasse di fronte a «un attacco della mafia alle istituzioni»: «Non più, cioè, a delitti dovuti a motivi specifici, ma a un piano criminale organizzato». La seconda osservazione di Borsellino è una stupefacente professione di ottimismo: «Possiamo guardare con fiducia al futuro.
Per la prima volta si intravede la possibilità di dare un colpo decisivo al fenomeno mafioso. C’è un calo degli omicidi, non passa settimana che non venga preso un latitante pericoloso... La pax non è un buon motivo per esultare. Gli arresti dei latitanti, però, sono il segnale che qualcosa sta scricchiolando nell’organizzazione criminale. Poi ci sono i pentiti». E propone di adottare anche per loro premi e sconti di pena, come si fece con il terrorismo. I pentiti di quella stagione si chiamano Stefano Calzetta, Vincenzo Sinagra, Vincenzo Marsala: figure minori, che la storia ha dimenticato. Di Buscetta, nessuno sa. Per quarantacinque giorni Giovanni Falcone ha verbalizzato con la pazienza di un amanuense ogni sua dichiarazione, riuscendo a mantenere il segreto.
È possibile che l’intervista di Borsellino sia stata concordata con Falcone: un modo per cominciare ad aprire un nuovo capitolo nella lotta alla mafia. Lunedì 6 agosto cala definitivamente il sipario sull’avventura di Insalaco a Palazzo delle Aquile. Venticinque consiglieri comunali della Dc, d’accordo con i repubblicani di Aristide Gunnella e con due socialdemocratici, scelgono come sindaco Stefano Camilleri, un ex dipendente del Municipio che è andato in pensione a quarantacinque anni per farsi eleggere consigliere comunale.
Il nuovo sindaco durerà in carica solo due mesi. Gli basteranno per firmare mandati di pagamento per nove miliardi a favore della Lesca di Cassina. Nei giorni della caduta, Insalaco va a pranzo, «in un locale lussuoso di via Libertà», con un giornalista de l’Unità, Ugo Baduel, che è incuriosito dall’«ardore» del personaggio e lo descrive «scatenato contro la mafia e contro il potere Dc che le stava alle spalle».
Dopo l’assassinio, Baduel rievocherà quell’incontro: «Mi disse di avere ancora l’auto blindata “finché me la lasciano” e di avere mandato la famiglia fuori Palermo in una località segreta. Ma di che cosa hai paura? chiesi (mi aveva pregato di dargli il tu “come segno di fiducia”). “Di fare la fine di Mattarella” disse secco». Sabato 11 agosto, alle tre del pomeriggio, in via Ludovico Muratori, una silenziosa traversa dalle parti del Policlinico, un killer di mafia, Francesco La Marca, ruba un Vespone bianco. Quattro anni dopo, su quello scooter saliranno i killer di Insalaco.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMCIDIO DEL SINDACO INSALACO. La sfida ai padrini della politica e la sua automobile salta in aria. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 29 gennaio 2022.
Il giorno dopo l’audizione dei sindaci, giovedì 4 ottobre, la Repubblica stampa in prima pagina la foto di Insalaco, con la fascia da sindaco addosso, e il titolo: «Ciancimino Lima Gioia. “Ecco chi sono i padrini della Dc siciliana”. Svelati i torbidi affari di Palermo». Rientrato a Palermo, Insalaco trova nella buca delle lettere una lettera anonima.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il 29 settembre 1984 Palermo si sveglia in un infuriare di sirene. Centinaia e centinaia di mafiosi vengono arrestati, inviati nelle carceri di massima sicurezza di tutta Italia. È il frutto delle confessioni di Buscetta: la più grande retata che l’Antimafia ricordi. Un’operazione militare imponente. I mandati di cattura sono 366.
A Vito Ciancimino viene notificata una comunicazione giudiziaria: è poco, ma è qualcosa. Quattro giorni dopo, il 3 ottobre, gli ultimi tre sindaci della città si presentano alla Commissione parlamentare antimafia. Dei tre, il più famoso è Giuseppe Insalaco. A Roma, sulle scale di Palazzo San Macuto, i fotografi lo abbagliano con i flash. Quel mattino d’ottobre la Repubblica arriva in edicola con un inserto di otto pagine: il testo del mandato di cattura contro i mafiosi. È, né più né meno, che il lungo racconto di Buscetta.
A Palermo, per prepararsi all’audizione, Insalaco si è consultato a lungo con un dirigente comunista, Michele Figurelli. Paziente e tenace come un coach, Figurelli ha discusso con quel democristiano, che ai democristiani comincia a sembrare un traditore, i possibili temi dell’audizione.
Figurelli ricorda con divertimento quegli incontri: «Ogni tanto si impuntava, mi interrompeva, protestava: questo non posso dirlo, sono un democristiano io! Era un uomo furbo, ambizioso. Conosceva i sotterranei del potere. A Cattedra, direttore de L’Ora, svelava i retroscena della politica. E anche ai consiglieri del gruppo comunista dava suggerimenti, spiegava che cosa andava muovendosi nel gioco delle correnti democristiane.
Così ci consentiva di anticipare le mosse degli avversari, di studiare per tempo le contromisure. Da sindaco, credo che avesse maturato con velocità accelerata una consapevolezza diversa del potere a Palermo». Prima di partire per Roma, Insalaco ha ricevuto una lettera anonima, l’ennesima.
L’AUDIZIONE IN COMMISSIONE ANTIMAFIA
Il testo somiglia a un telegramma: Gli amici di Dalla Chiesa, De Francesco e Falcone fanno la fine che meritano. Il prefetto Emanuele De Francesco è il successore di Dalla Chiesa, il capo dell’Alto commissariato antimafia. Insediandosi a Palermo, non ha rinunciato al suo precedente incarico: direttore del Sisde. Con naturalezza ha deciso di continuare a essere, insieme, il capo delle spie e il capo dell’Antimafia. Dei tre personaggi evocati per minacciare Insalaco, è l’unico che morirà di morte naturale. L’audizione di Insalaco all’Antimafia dura tre ore e mezzo. Basta rileggerla per capire la minaccia rappresentata dall’ex sindaco.
Dei tre convocati, è il più esplicito. Usa parole dure, dirette. Dice che, in Comune, «la mafia la si respira». Spiega che quella mafia pilota «svolte politiche e amministrative». Fa nomi e cognomi di politici, di alti burocrati, racconta che un funzionario del Municipio si presentò festante al portone del carcere dell’Ucciardone per stringere la mano al costruttore mafioso Rosario Spatola che veniva scarcerato.
Descrive i suoi incontri con Vito Ciancimino. Spiega come quell’uomo tenga in scacco il Consiglio comunale, manovrando una forza d’urto di venti consiglieri. Parla di Cassina, del suo «grandioso peso», delle sue conoscenze, del suo potere. Si definisce «orgoglioso di essere democristiano» ma dà del suo partito un’immagine avvilente, lo descrive impantanato in un rinnovamento che è una formula vuota.
Gli capita di rispondere con circospezione a qualche domanda, su alcuni temi appare fumoso e reticente, ma rispetto al modello del democristiano che viene da Palermo è fin troppo esplicito – tanto da impressionare un parlamentare di Democrazia proletaria, sigla ormai scomparsa dell’estrema sinistra, Guido Pollice, e da apparire un esempio di lealtà e chiarezza al senatore socialista Domenico Segreto. A paragone con Insalaco, Nello Martellucci sembra il testimonial dell’omertà.
L’anziano avvocato, che è stato appena rieletto sindaco in un disperato, fallimentare tentativo di impedire lo scioglimento del Consiglio comunale, è compito e sfuggente. Premette: «Non conosco la mafia perché mai ho avuto con essa alcun rapporto». Scivola come un’anguilla. I parlamentari della commissione gli chiedono dei costruttori mafiosi, gli fanno i nomi di Rosario Spatola e Francesco Bonura, l’uno e l’altro finiti agli arresti, gli domandano se abbiano mai ottenuto appalti pubblici. Martellucci vacilla, tenta di schivare la domanda, ostenta una specie di schizzinosa superiorità: come può un sindaco conoscere queste minuzie? I commissari dell’Antimafia insistono.
Il sindaco prende tempo: «Appalti? Spatola? Ritengo di no». Ed era uno dei maggiori appaltatori del Comune, l’unico che riuscisse a farsi saldare le fatture anche quando l’amministrazione era a corto di quattrini. Gli domandano di Ciancimino. Martellucci si affretta a spiegare che Ciancimino ha dichiarato pubblicamente di aver rinunciato a parlargli, giudicandolo un uomo di malocarattere. Esorta i commissari: «Bisogna ricordare questo giudizio».
Come a suggerire: non gli piacevo, come pensate che possa avere avuto a che farci? Trent’anni dopo è difficile perfino immaginare la compatta ipocrisia che faceva ammutolire legioni di politici e amministratori quando si parlava di mafia. Le cautele. I silenzi. I distinguo.
Così l’esercizio migliore, per capire quanto c’era di straordinario – forse perfino di rivoluzionario – nell’audizione di Insalaco, consiste nel metterla a confronto con quelle dei capigruppo del pentapartito, anche loro convocati a Palazzo San Macuto, il 12 ottobre. C’è un prudentissimo repubblicano, Luigi Aricò, talmente evasivo che un parlamentare spazientito gli domanda: ma la mafia esiste? E lui, accomodante: «Sì, ritengo che esista».
C’è il liberale Benedetto Cottone, che esordisce scusandosi di essere poco informato sulle vicende di Palermo perché da trent’anni vive a Roma, benché a Palermo continui a farsi eleggere, e prosegue dicendo che conosce la letteratura sulla mafia, ma la mafia – direttamente – no. C’è il capogruppo del partito socialista, Giuseppe Albanese: la mafia in Municipio? Se sapessimo, denunceremmo. La paralisi? Colpa della Dc che non governa. Ciancimino? Si sapeva che aveva una sua corrente; ora non ce l’ha più. C’è il capogruppo democristiano, Toni Curatola. Ciancimino? So chi è, ma non ho mai avuto a che fare con lui. I sindaci caduti sugli appalti? Sciocchezze, invenzioni malevole dei giornali: gli appalti non c’entrano, Martellucci ha pagato «un difetto di collegialità»; la Pucci si è dimessa perché i socialdemocratici non avevano rimpiazzato un assessore; Insalaco perché aveva guai giudiziari.
È tutto un evitare, un minimizzare, un farsi piccoli, un ignorare. La mafia a Palermo? Sì, ma c’è anche in altre città, controlla interi gruppi economici. L’assassinio di Piersanti Mattarella? L’omicidio La Torre? Terribili eventi, certo, ma se sapessimo qualcosa, lo diremmo. Il costruttore Vassallo che era un boss e affittava scuole al Comune, infilandole nei sottoscala dei suoi palazzi? Che nome ha fatto: Vassallo? Dove: al Comune? No, forse alla Provincia; al Comune sicuramente no.
LA COMMEDIA DELL’IPOCRISIA
Anche i parlamentari dell’Antimafia fanno la loro parte in questa commedia dell’ipocrisia. Si alza il senatore democristiano Claudio Vitalone e domanda come sia stato possibile che un «fenomeno Ciancimino» abbia potuto consolidarsi senza che scattasse alcun intervento istituzionale. E nessuno, nella solenne, austera aula di Palazzo San Macuto, ha il coraggio di ricordargli che quel fenomeno di Ciancimino si era accampato nella stessa corrente in cui milita Vitalone, nell’abbraccio protettivo di Giulio Andreotti – e negli anni in cui Andreotti era presidente del Consiglio, ai vertici delle istituzioni.
Il giorno dopo l’audizione dei sindaci, giovedì 4 ottobre, la Repubblica stampa in prima pagina la foto di Insalaco, con la fascia da sindaco addosso, e il titolo: «Ciancimino Lima Gioia. “Ecco chi sono i padrini della Dc siciliana”. Svelati i torbidi affari di Palermo». Rientrato a Palermo, Insalaco trova nella buca delle lettere una lettera anonima. Gli annuncia che farà la fine di Michele Reina: morto ammazzato.
Da quel momento cominciano a piovere agli indirizzi più disparati, dalla procura della Repubblica all’Alto commissariato antimafia, dalla Guardia di Finanza alla presidenza della Commissione regionale antimafia, una sfilza di anonimi in cui si denunciano presunte malefatte dell’ex sindaco e si spiega come il presunto moralizzatore sia un corrotto. Ho anch’io una di queste lettere.
Era indirizzata al giornale L’Ora, oltre che a una serie di altri destinatari, prima fra tutti la Procura della Repubblica. Il direttore, Nicola Cattedra, deve aver conservato la lettera nel suo archivio; la moglie, Marilena, me l’ha regalata quando le ho detto che stavo lavorando a questa storia. Sono due paginette scritte a macchina, con errori forse intenzionali, seminati ad arte in un testo che si apre con un impeccabile congiuntivo («È una vergogna che Giuseppe Insalaco si sieda al posto del povero Saro Nicoletti»).
Le accuse sono scontate: acquisti di ville e appartamenti, tangenti da commercianti e costruttori, una frecciata su Ciancimino («Insalaco è diventato sindaco per volontà anche di Ciancimino che assicurò i voti»). La chiusa è contorta: «State attenti all’onorevole trasparentemente corrotto, correte dietro di lui e non lo lasciate solo, così non si trova la sua auto rubata sotto la casa di Falcone, bruciacchiata, pochli (sic) metri dopo e senza scasso». La formula «trasparentemente corrotto» è affascinante nella sua ricercatezza.
LA MACCHINA BRUCIATA
La macchina bruciata di cui parla l’anonimo segna l’ultima stagione di notorietà di Insalaco come paladino antimafia. Il 16 ottobre l’ex sindaco è in partenza per Roma. La redazione di Tg2 Dossier lo ha invitato per un’intervista, insieme con il presidente della commissione antimafia Abdon Alinovi. Quel mattino la macchina di Insalaco viene rubata e data alle fiamme.
Potrebbe essere un atto di intimidazione qualunque, in una città inquieta e violenta come Palermo, se non fosse che la macchina è parcheggiata davanti alla garitta blindata occupata dagli uomini che vigilano sulla sicurezza di Giovanni Falcone. Alle domande dei cronisti, Insalaco risponde come se fosse confuso, incerto: «A Palermo non si riesce a capire più nulla. È difficile anche fare politica, tutto è diventato talmente complicato che viene voglia di mollare ogni cosa e andare via».
I giornalisti gli domandano se non abbia paura. Risponde: «Sono profondamente turbato, non impaurito. Anche perché credo di non aver usato cattiveria contro alcuno. Ho fatto un discorso politico di rinnovamento, spinto a fondo d’accordo, ma sempre circoscritto in un ambito rigorosamente politico». Quell’insistere sulla politica è un segnale? È un modo per difendersi dal sospetto di aver affidato alla magistratura la propria vendetta? Tre giorni dopo, alla prefettura di Palermo viene recapitata una lettera.
Anonima, ovviamente: «Signor Prefetto, ho saputo da fonti attendibili che il dr. Insalaco è stato condannato a morte. Mi creda, non è uno scherzo; predisponga per lui una scorta vera e non un palliativo come quello attuale». Difficile credere che l’autore fosse preoccupato dell’incolumità dell’ex sindaco. L’obiettivo sembra piuttosto fargli sapere che possono ammazzarlo facilmente, che la sua protezione è uno scudo di carta. Terrorizzarlo.Per ogni passo che Insalaco fa, per ogni testimonianza che rende, un anonimo provvede a segnalare alla magistratura che l’accusatore è un mascalzone. Va avanti così per mesi. Il 6 novembre, convocato a Palazzo di Giustizia, Insalaco parla di Ciancimino e di Cassina, descrive «un miscuglio tra mafia e altri interessi occulti che rende la città realmente ingovernabile». Tre settimane dopo, un anonimo telefona alla cancelleria dell’Ufficio istruzione: suggerisce di invitare il giudice Falcone a indagare sui rapporti tra Insalaco e i fratelli Greco.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
Diventa onorevole alla Regione Siciliana ma è già un morto che cammina. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 30 gennaio 2022.
Chiamato a sostituire un morto suicida, Insalaco percorre i corridoi di Palazzo dei Normanni come un morto vivente. Nel gruppo democristiano, tutti lo schivano. Del suo impegno di parlamentare regionale, restano poche testimonianze.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il mistero dell’uomo Insalaco è tutto concentrato in quei mesi. Perché si ribella? Perché sfida così platealmente i suoi nemici? Elio Sanfilippo è convinto che quel comportamento fosse suggerito dall’ambizione: «Era una seconda fila che ambiva a diventare una prima. Il suo disegno era sostituire Gioia a capo della corrente fanfaniana. Esperto di tattica, fece un errore di valutazione politica: pensò che, utilizzando i comunisti, sarebbe riuscito a colpire la vecchia guardia e a passare alla storia come l’uomo del rinnovamento. Non capì che la Dc si stava sbriciolando. L’élite lo considerava un parvenu, la città lo giudicava una parentesi, i suoi ne diffidavano, dicevano che fosse un ricattatore, che avesse le schede di tutti fin dai tempi di Restivo. Alla fine, quando venne fuori la storia dell’Istituto Sordomuti, anche il Pci fu in imbarazzo nel sostenerlo».
Nonostante la durezza del giudizio, Sanfilippo è convinto della sincerità di Insalaco: «Era un ambizioso e un uomo di potere, ma credeva davvero in quel che faceva. Negli anni a venire, tutti parleranno di Leoluca Orlando come di un campione del rinnovamento, ma chi ha iniziato a rompere il sistema di potere a Palermo è stato Insalaco, non Orlando».
Umberto Santino, storico del movimento antimafia, legge un sentimento diverso dall’ambizione nella ribellione di Insalaco: «Ebbe uno scatto d’orgoglio. Era un uomo che sapeva un mucchio di cose. A un certo punto decise di parlare». Silurato come sindaco, ridotto al rango di semplice consigliere comunale, Insalaco sembra destinato a uscire rapidamente di scena. Ma il caso, che a Palermo indossa spesso i panni della tragedia, decide diversamente. Il 27 novembre 1984 diventa deputato regionale.
IL SUICIDIO DI NICOLETTI
Tre anni prima, si era candidato all’Assemblea, aveva ottenuto 38.452 preferenze ed era risultato il primo dei non eletti a Palermo. Così tocca a lui subentrare a Rosario Nicoletti, l’ex segretario della Dc siciliana. Il 17 novembre Nicoletti si è ucciso lanciandosi dal balcone della sua casa. Quella morte suggella una storia tragica, segnata dall’ambiguità.
Negli anni Settanta Nicoletti era stato, con Piersanti Mattarella, lo stratega della politica di unità autonomista, come si chiamò allora la versione siciliana del compromesso storico. Anche gli avversari lo hanno sempre additato come una delle intelligenze più lucide della Dc siciliana. Nel settembre 1982 Nando Dalla Chiesa lo include, con Lima Martellucci e D’Acquisto, tra i mandanti morali dell’assassinio di suo padre. Nicoletti non si dà pace.
Emanuele Macaluso lo ricorda dieci anni prima, a Milano, al congresso del Pci che elesse alla segreteria nazionale Enrico Berlinguer: «Seguì i lavori come ospite. Andammo a pranzo io, lui e Domenico La Cavera, che era il presidente degli industriali siciliani. A tavola ci fece un racconto da uomo spaventato che diceva e non diceva e a noi chiedeva “io che devo fare?”. Per molto tempo La Cavera tornò a ricordarmi quell’incontro e domandava: ma che cazzo voleva? Si capiva che era un uomo che aveva partecipato a qualcosa e subiva il ricatto». Macaluso crede che, nella Dc siciliana, esistessero due livelli: «C’erano quelli che organicamente partecipavano a tutto; altri erano e non erano dentro: nel senso che sapevano, conoscevano, avevano partecipato, ma con timidezza, con distacco e, quando tentavano di riscattarsi, venivano ricattati».
Ho un ricordo molto netto di Nicoletti in un giorno speciale: il giorno dell’assassinio di Piersanti Mattarella. Era l’Epifania del 1980, una domenica. L’Ora non avrebbe dovuto essere in edicola, ma il direttore, Nicola Cattedra, decise per un’edizione straordinaria. Venni mandata a casa Mattarella.
Nelle sbrigative istruzioni che si usa dare in cronaca, a me toccava «raccontare la vedova». Avevo ventitré anni e una passione sconfinata per il mestiere, ma l’idea di andare da una donna che poche ore prima aveva tentato di proteggere il marito mentre un killer gli sparava addosso, facendogli scudo con il proprio corpo, e di rivolgerle anche soltanto una domanda, mi ripugnava. Ma un cronista è un soldato: deve portare a casa il pezzo, non può rifiutarsi.
A casa Mattarella la porta era aperta: entrai, mi fermai di fronte al divano su cui era seduta la signora Irma, restai per ore immobile, a osservare il fiume di gente che le scorreva davanti. Condoglianze, baci, abbracci, brevi parole sommesse. Arrivò anche Nicoletti, pallido, gli occhi gonfi, la grande testa che ricordava un elefante stanco.
Si lasciò cadere sul divano, accanto alla vedova. Disse, e parlava più a se stesso che a lei: «Hanno lanciato in aria una moneta; su un verso, c’era la mia faccia, sull’altro quella di Piersanti. È uscito lui». Molti anni dopo un pentito di mafia, Francesco Marino Mannoia, raccontò di una sfuriata di Stefano Bontate a Nicoletti, una sfuriata per strada, in una traversa di via Libertà, forse proprio davanti alla sede della Dc di via Isidoro La Lumia. Disse che Bontate, salendo in macchina, aveva sibilato: «Questo crasto (“cornuto”), se non mette la testa a posto, lo dobbiamo ammazzare».
E aggiunse un corollario sconcertante: che era stato Nicoletti a svelare a Bontate l’intenzione di Mattarella di condurre una lotta rigorosa contro Cosa Nostra, spezzando tutte le vecchie complicità. L’angoscia di Nicoletti, in quell’Epifania di sangue, era rimorso? Un documento impressionante su Nicoletti è la relazione che tenne al convegno regionale che, il 13 e il 14 novembre 1982, la Dc organizzò a Palermo sulla lotta alla mafia. La rintraccio in un volume di scritti custodito nell’archivio dello storico Pierluigi Basile. Dalla Chiesa era stato ucciso tre mesi prima.
Nella sua ultima intervista aveva raccontato a Giorgio Bocca la propria solitudine, i poteri negati, gli impegni disattesi. Dopo l’assassinio del generale, la Dc siciliana, sotto accusa, aveva deciso di difendersi: il convegno sulla lotta alla mafia segnava l’avvio di una strategia di contrattacco. Nicoletti lo inaugura rivendicando il ruolo e la potenza del suo partito: una forza politica che ha il consenso di un milione e duecentomila siciliani, il 43 per cento dell’elettorato, e schiera un formidabile apparato di dirigenti periferici. Il passaggio più ardito del discorso è un’arrogante dichiarazione di innocenza: «Fino ad oggi, su diecimila persone che costituiscono i quadri del partito, nessuno è stato in condizione di indicare anche un numero esiguo di persone alle quali fondatamente possa attribuirsi la qualificazione di mafioso».
Si parla della Dc dei Salvo, di Ciancimino, di Pennino, di Salvatore Greco «il senatore». E il segretario del partito dice: non ci sono mafiosi tra noi. È l’estrema concessione di un uomo ricattato, che sa di non potersi concedere il lusso della verità? La politica è un’arte delle parole.
Qui, il trucco illusionista è tutto in quell’avverbio: «fondatamente». Quando Nicoletti parla alla platea del convegno, nessuno di quei signori può essere fondatamente indicato come mafioso: le indagini giudiziarie, le condanne, gli arresti sono di là da venire. Questo banale artificio consente al segretario di evocare l’Aldo Moro che nell’aula di Montecitorio, nei giorni dello scandalo Lockheed, reagiva alle accuse di corruzione scandendo: «Non ci faremo processare sulle piazze».
Il segretario della Dc siciliana ripete quella formula, adattandola allo scenario dell’isola. Ed è una macabra citazione, perché quando Nicoletti pronuncia quella frase, Moro è già stato processato: e non sulle piazze, ma nella prigione del popolo delle Br. Processato e condannato a morte.
ALL’ASSEMBLEA REGIONALE
Chiamato a sostituire un morto suicida, Insalaco percorre i corridoi di Palazzo dei Normanni come un morto vivente. Nel gruppo democristiano, tutti lo schivano. Del suo impegno di parlamentare regionale, restano poche testimonianze. Gli archivi di Palazzo dei Normanni registrano a suo nome soltanto tre incolori proposte di legge: una per il riconoscimento giuridico del lavoro casalingo, un’altra per l’istituzione di una Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna, l’ultima per l’introduzione di nuove norme per il calendario scolastico in Sicilia.
L’unico guizzo del deputato Insalaco è un’interpellanza nella quale si chiede conto alla Regione del ritardo nel nominare il commissario prefettizio per il Comune di Palermo dopo lo scioglimento del Consiglio. Presentata quando il governo regionale è dimissionario, l’interpellanza costringe il presidente, Modesto Sardo, l’andreottiano che aveva guidato l’assedio istituzionale al sindaco Insalaco, a nominare il prefetto Gianfranco Vitocolonna, un onesto funzionario dello Stato che non ha nulla a che vedere con gli intrighi palermitani.
Nelle carte di Insalaco, dopo il suo assassinio, si troverà un’autocritica desolata su quell’interpellanza. Averla presentata, scrive l’ex sindaco, è stato «un altro grande errore»: il successo politico ottenuto con la nomina del commissario al Comune ha dimostrato come Insalaco sia ancora in condizione di nuocere. Per i suoi nemici diventa urgente toglierlo di mezzo una volta per tutte. Ho chiesto all’Assemblea regionale siciliana di avere copia dell’interpellanza. Mi è stato risposto: «Il registro di interrogazioni e interpellanze non ha dato risultati su Insalaco». Nessuna traccia di quel documento. Sparito. Come la lettera a Craxi su Ustica, ingoiata da un buco nero.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. I due volti di Palermo e il “memoriale” di Insalaco che fa tremare tutti. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 31 gennaio 2022
L’ultimo fotogramma che Insalaco consegna al suo memoriale è il ricordo di un incontro in una galleria d’arte del centro di Palermo con il più potente repubblicano della Sicilia, Aristide Gunnella: «Mi conferma che Cassina ha decretato la mia fine». Gunnella ha negato di aver mai pronunciato quella frase.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Di quei giorni convulsi c’è una cronaca scritta dallo stesso Insalaco: il «memoriale», come venne chiamato, che fu trovato dopo il delitto nel piccolo ufficio che l’ex sindaco aveva ricavato in un locale in via Papireto, un mezzanino che si affacciava sul mercatino delle pulci di Palermo. Chiuso in una busta con la dicitura «Riservato.
Da aprire solo in casi eccezzionali (sic)», il documento sembra risalire al 1985, quando l’ex sindaco fu arrestato per la vicenda dell’Istituto Sordomuti. E dovette certo essere scritto con angoscia se, nel compilare la busta, Insalaco incappò in quell’errore da matita blu, raddoppiando le z di «eccezionali» con uno svarione che, nella lapidazione post mortem, attizzò malevoli ironie.
Nel memoriale c’è il ritratto di una città dove politici e magistrati sono in continuo contatto e si scambiano favori e notizie, i politici sanno in anticipo che cosa scriveranno i quotidiani del giorno dopo, i leader di partito possono convocare alti magistrati per chiedere intercessioni e i magistrati ricorrono ai politici per fare carriera.
È il resoconto spaventoso, e spaventato, di una città dove ogni colloquio, anche il più riservato, trapela, gli interlocutori sono tutti inaffidabili, i giochi di potere perfidi e misteriosi. In questo labirinto di contatti sotterranei, di relazioni segrete tra pezzi di istituzioni, Insalaco si descrive come un seminarista entrato per sbaglio in un collegio di killer.
Dovunque si aggiri, chiunque incontri, qualunque discorso gli facciano, ha la sensazione di essere la pedina di un grande gioco di potere: il pezzo mosso da esperti giocatori di scacchi in una partita che lo scavalca. E sa, lucidamente sa, che alla fine del gioco sarà stritolato.
Tanto che in calce al memoriale scrive il proprio epitaffio, parlando di sé in terza persona: «Insalaco è stato scomodo, andava buttato via e visto che politicamente non era affidabile, bisognava distruggerlo». Onestamente, non si può dire che non abbia colto nel segno. Conviene seguire il filo di quel racconto: il “dietro le quinte” ricostruito dalla vittima.
Sapendo che chiunque scriva di sé, offre al lettore il proprio lato migliore. Dunque, Insalaco rivela di aver saputo, appena eletto sindaco, che la procura della Repubblica aveva ricevuto una lettera anonima sulla vendita ai Saccone del terreno dell’Istituto Sordomuti.
Non spiega chi gli abbia soffiato quell’informazione. È una comprensibile omissione: il memoriale si chiude con una professione di fede nella magistratura; sarebbe stato sconveniente annotare in premessa che il Palazzo di Giustizia è pieno di spifferi. Più stravagante è che gli sfugga un dettaglio, una coincidenza davvero singolare: l’anonimo approda a Palazzo di Giustizia il 15 febbraio del 1984.
Proprio quel giorno, in Consiglio comunale, viene messa a punto la trappola che affonderà la giunta del sindaco Elda Pucci: la mancata sostituzione dell’assessore socialdemocratico, incappato in una vicenda giudiziaria.
Nessuno, quel 15 febbraio, può giurare che Insalaco sarà il successore della Pucci, ma il suo nome gira con insistenza e qualcuno – evidentemente – pensa bene di chiudere una cambiale in cassaforte, consegnando alla magistratura un anonimo su un affare di cinque anni prima. È un’arma di ricatto pronta a sparare contro Insalaco, se sarà necessario.
Il compito di azionare il grilletto è affidato alla Procura. Il neoeletto dev’essere ben consapevole del potere di minaccia dell’anonimo se, appena entrato in carica, approfitta delle visite di cortesia a Palazzo di Giustizia per parlarne al procuratore della Repubblica e al procuratore generale. Il capo della Procura, Vincenzo Pajno, lo invita a non preoccuparsi: arrivano anonimi su chiunque, spiega amabilmente, perfino su di lui.
Più o meno un mese dopo l’elezione, Insalaco viene a sapere che il sostituto procuratore Carmelo Carrara ha chiesto alle banche notizie sui suoi possibili rapporti con il mafioso Nino Sorci, ucciso nella guerra di mafia, e con i Saccone, i protagonisti dell’affare concluso con l’Istituto Sordomuti. Ancora una volta, nel suo memoriale, evita di spiegare chi lo informi di ogni passo dell’inchiesta.
Preoccupato, il sindaco chiede udienza al procuratore generale, Ugo Viola, che in sua presenza convoca il procuratore della Repubblica, Pajno. I due magistrati lo invitano a parlare con il sostituto procuratore che segue l’indagine, per chiarire tutto. Insalaco esegue. Ma appena si presenta al pm Carrara, il magistrato gli consegna una comunicazione giudiziaria per truffa e corruzione. Scrive Insalaco nel memoriale: «Rimasi di stucco, non sapevo più cosa dire, mi confusi».
IL PALAZZO DI GIUSTIZIA DI PALERMO
Da quel momento tutto si accelera. E nel racconto che l’ex sindaco ne fa, il Palazzo di Giustizia appare come il crocevia degli intrighi, il luogo nel quale si regolano le grandi partite del potere. Insalaco si consulta con il capo della sua corrente, il fanfaniano Luigi Gioia, che gli spiega come Carrara sia il genero di un alto magistrato, Salvatore Palazzolo, a quel tempo presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Gioia aggiunge che Palazzolo mira alla poltrona di primo presidente della Corte d’Appello di Palermo.
Qualche giorno dopo, sarà proprio il leader fanfaniano a rassicurare Insalaco sostenendo di aver parlato con Palazzolo, che ha raccomandato al genero di esaminare «con obiettività» la pratica relativa all’affare dell’Istituto Sordomuti. Nel frattempo è stata avviata un’altra inchiesta: quella sui grandi appalti comunali. Insalaco ne parla con Arturo Cassina. Si aspetta che il padrone della Lesca sia preoccupato. Ma si sente rispondere che il procuratore Pajno è cavaliere del Santo Sepolcro, l’antico ordine religioso del quale Cassina è il luogotenente per la Sicilia, come se questa fosse una buona ragione per non temere nulla. Per il sindaco è un colpo.
Come un pendolo impazzito Insalaco comincia a muoversi tra le stanze dei magistrati, le segreterie politiche, il suo ufficio di sindaco, finché si convince di essere entrato in un gioco più grande di lui, in una faida tra magistrati che si disputano la presidenza della Corte d’Appello, il posto di maggior potere nell’organigramma della giustizia palermitana, e che le sue vicende sono solo un pretesto per regolamenti di conti tra i candidati.
Sempre più inquieto, cerca un’altra strada per arrivare al pubblico ministero dell’accusa. E continua a cercarla nelle segreterie politiche dei capi democristiani. Chiede aiuto a Salvo Lima, chiede aiuto a un altro andreottiano eminente, l’ex presidente della Regione Mario D’Acquisto. L’uno e l’altro gli assicurano che parleranno con Palazzolo. Mentre si presenta, con la fascia da sindaco, alla processione in onore di Santa Rosalia, la patrona di Palermo, il segretario comunista Elio Sanfilippo lo avverte che il Giornale di Sicilia sta preparando un articolo pesantissimo contro di lui.
Insalaco si precipita al giornale, porta con sé «i documenti», ottiene «un pezzo equilibrato». Ma capisce che «potentati si muovevano» per farlo fuori. E fa il nome di Guarrasi, che gli consegna «una memoria a difesa della Lesca». Sente che il cerchio si stringe: «Avevo i giorni contati ma volevo cadere bene».
Nei suoi andirivieni da Palazzo di Giustizia, convocato come teste nelle inchieste sugli affari del Comune, un giorno, nel chiuso di una stanza, faccia a faccia con un magistrato, Insalaco testimonia «la verità e la notorietà di un’amicizia con Ciancimino del presidente Palazzolo», il suocero del magistrato che lo indaga. Dovrebbe essere una testimonianza riservata, ma la notizia trapela: si scatena un vespaio. La candidatura di Palazzolo alla presidenza della Corte d’Appello di Palermo affonda.
IL POTENTE ARISTIDE GUNNELLA
L’ultimo fotogramma che Insalaco consegna al suo memoriale è il ricordo di un incontro in una galleria d’arte del centro di Palermo con il più potente repubblicano della Sicilia, Aristide Gunnella: «Mi conferma che Cassina ha decretato la mia fine».
Gunnella ha negato di aver mai pronunciato quella frase. E nessuna delle persone citate nel memoriale ha confermato alcuna delle affermazioni di Insalaco. Lo aveva previsto lui stesso: «Tutti si precipiteranno a smentire». Così è stato. Nella galleria di personaggi evocati nel memoriale, spicca una delle figure più controverse della storia palermitana di quegli anni, Bruno Contrada, il funzionario di polizia e dirigente dei servizi segreti che dopo le stragi degli anni Novanta sarà arrestato e condannato a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
Napoletano d’origine, Contrada ha percorso a Palermo un intenso cursus honorum; è stato capo della Squadra mobile, poi capo della Criminalpol per approdare infine al Sisde, a Roma, e diventare il numero tre del servizio segreto civile. Salvo poi rientrare a Palermo, nel 1982, come capo di gabinetto del prefetto De Francesco.
Insalaco racconta di averlo incontrato a Villa Whitaker, la sede dell’Alto commissariato antimafia: «Gli feci confidenze che scaturivano dalla mia fiducia nelle forze dello Stato, facendogli capire che molti personaggi, tutti collegati al conte Cassina dall’Ordine del Santo Sepolcro, erano contro di me, lui (lo, N.d.A.) escluse. Poi, dopo poco tempo, apprendo che anche lui viene iniziato all’Ordine».
Un elenco ufficiale dei cavalieri dell’Ordine del Santo Sepolcro stampato nel 1983 certifica che il «cav.uff.dr.» Bruno Contrada è stato «ammesso il 22 novembre 1982». Poteva dunque fregiarsi delle insegne di cavaliere da quasi due anni quando l’angosciato Insalaco gli confidò di ritenersi una vittima degli adepti a quella antica congrega, senza sapere che anche lui ne faceva parte.
È probabile che Insalaco lo abbia scoperto leggendo il Giornale di Sicilia. Il 2 novembre 1984, festa dei defunti, il quotidiano della città pubblica, sotto il titolo a sei colonne Spada, speroni e croce ai nuovi cavalieri, la cronaca della cerimonia che ventiquattr’ore prima si è tenuta nel Duomo di Monreale per l’investitura dei nuovi membri dell’Ordine.
Un riquadrato informa: «In 39 hanno detto: sono pronto» ed elenca generali e prefetti, questori e magistrati, alti ufficiali dei carabinieri e deputati. Due nomi devono colpire Insalaco: il primo è quello di Bruno Contrada, il secondo quello del procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno. La cronaca dell’investitura gronda un pathos neogotico: «Nella chiesa, a destra del coro, le dame in mantello nero sul quale pareva bruciassero le cinque croci rosse di Gerusalemme, a sinistra i cavalieri in uniforme bianca e rossa o in abito nero sotto una candida mantella».
Su questo sfondo, si staglia la figura del padrone della Lesca: «A rilanciare l’Ordine nella nostra Isola è stato Arturo Cassina, la cui opera è stata premiata prima con l’istituzione della Delegazione Magistrale e dopo, il primo dicembre 1981, con il ripristino di un’unica luogotenenza».
La rappresentazione solenne che va in scena nella cornice del Duomo di Monreale ha al centro un Cassina potente, circondato da potenti e davanti al quale i potenti si inginocchiano. È curioso che quest’esibizione di sfarzo e di potere coincida con la stagione in cui il padrone della Lesca è stato sfidato dai sindaci Pucci e Insalaco. Sarà pure una coincidenza, ma è una strana coincidenza.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. Il giudice Falcone e quegli enigmatici Cavalieri del Santo Sepolcro. DA LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani l'1 febbraio 2022
Impegnato in una società con un parente dei Salvo, Ignazio Lo Presti, per costruire palazzine in quella borgata di Uditore che era allora controllata dal boss Salvatore Inzerillo, il «conte», come Cassina amava farsi chiamare, aveva liquidato Lo Presti non appena Inzerillo era stato assassinato e lo aveva sostituito con un nuovo socio
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Uno dei ricordi più disturbanti dei miei anni di cronista a L’Ora riguarda l’Ordine del Santo Sepolcro. Erano i primi mesi del 1983. Il direttore, Nicola Cattedra, mi aveva affidato un’inchiesta sul potere in Sicilia – ardua impresa, specialmente in quegli anni. Ero stata a Messina e a Catania. A Palermo andai a parlare anche con Giovanni Falcone. Lo trovai impegnato nel trasloco dall’ufficio dove fino a quel momento aveva lavorato, situato al piano terra di Palazzo di Giustizia, a un’area più protetta dell’edificio. La stanza aveva una grande vetrata sulla strada, a un passo dal mercato popolare di Porta Carini.
Erano gli anni del sangue e della furia: la guerra di mafia aveva seminato cadaveri e lupare bianche. I morti ammazzati si contavano a decine. Per tutto il tempo del colloquio Falcone non smise mai di andare avanti e indietro, spostando fascicoli e faldoni dalla scrivania agli armadi. E per tutto quel tempo io continuai a pensare che, da quella grande vetrata, chiunque avrebbe potuto sparargli nella schiena e continuai a domandarmi che Stato era questo, che lasciava i suoi uomini migliori con le spalle scoperte nella città mattatoio.
Domandai, dunque, a Falcone chi comandava a Palermo. La sua risposta fu ispida e breve: «Comandano i cavalieri, ma sul suo giornale lei questo non può scriverlo». Ricordo la fitta improvvisa di sorpresa, di indignazione. Vivevamo allora, noi giornalisti di quel piccolo, glorioso quotidiano, come in trincea, sentendoci schierati tra le forze del Bene nell’assedio del Male che dilagava. «I cavalieri?» vacillai. Non capivo. A Catania mi ero occupata dei cavalieri del lavoro, i Costanzo, i Rendo, i Graci, i potenti imprenditori che avevano costruito le loro fortune sugli appalti pubblici.
Nella sua ultima, celebre intervista con Giorgio Bocca, il generale Dalla Chiesa aveva indicato nei cavalieri di Catania i protagonisti di un nuovo accordo con la mafia. «I cavalieri del lavoro?» azzardai. Falcone sembrava spazientito: «Che c’entrano i cavalieri del lavoro?» Non sapevo che dire. Sbocciata dal nulla, mi si affacciò un’insperata intuizione: «I cavalieri del Santo Sepolcro, allora?» «Esatto» confermò. «Ma sul suo giornale non può scriverlo». Lo sfidai.
Mi consegnò una storia esemplare sul Cassina imprenditore: impegnato in una società con un parente dei Salvo, Ignazio Lo Presti, per costruire palazzine in quella borgata di Uditore che era allora controllata dal boss Salvatore Inzerillo, il «conte», come Cassina amava farsi chiamare, aveva liquidato Lo Presti non appena Inzerillo era stato assassinato e lo aveva sostituito con un nuovo socio. Il senso dell’operazione l’aveva chiarito Falcone stesso, nelle carte che mi consegnò: «In occasione dell’attuale guerra di mafia, si sono verificati mutamenti di amministratori in società del settore edilizio, che sono così passate sotto il controllo di membri delle “famiglie” vincenti». Al giornale condussi una dura, faticosa battaglia per raccontare quella storia. Riuscii a spuntare una formula esangue: scrissi che Lo Presti era alleato di «uno dei maggiori gruppi imprenditoriali di Palermo». Di Cassina, neanche il nome.
DUE ELENCHI DI CAVALIERI
Conservo, dei miei anni palermitani, due elenchi di cavalieri del Santo Sepolcro in Sicilia. Il primo, datato 1981, è un Annuario su cui figura il simbolo della confraternita, lo scudo con le cinque croci, e il perentorio motto «Dio lo vuole». Il secondo è un elenco dei cavalieri della sezione di Palermo che dà conto delle ammissioni fino al dicembre del 1983. Nell’uno e nell’altro appare l’élite della città: parlamentari e professionisti, alti burocrati del Comune e docenti universitari, medici e gioiellieri, banchieri, vescovi e industriali.
E una quantità di generali, colonnelli, questori, prefetti. Dal 1980 al 1983 Arturo Cassina sembra dedicarsi a un frenetico reclutamento nei ranghi dell’esercito, della Guardia di Finanza, dei carabinieri, della polizia, con qualche sortita nella magistratura. Nell’elenco del 1983 risultano in tutto trentacinque esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura – e di quei trentacinque, ventuno sono stati ammessi all’Ordine negli ultimi tre anni. Gli anni della guerra di mafia. Gli anni dei missili a Comiso. Gli anni degli assassinii eccellenti.
Tra i cavalieri di vecchia e nuova investitura, ci sono pure due alti ufficiali dei carabinieri comparsi negli elenchi della P2: uno è il generale Giuseppe Siracusano, che ricevette le insegne di cavaliere del Santo Sepolcro il 21 giugno del 1982, quando già il suo nome era apparso negli elenchi di Gelli; l’altro risulta nell’Ordine fin dal maggio del 1961 ed è il colonnello Manlio Del Gaudio, che nel 1993 verrà condannato con l’accusa di aver depistato le indagini sull’ennesima strage italiana, l’eccidio di Peteano – tre carabinieri uccisi –, per coprire due estremisti di destra.
Il 3 ottobre 1984, nell’audizione davanti alla Commissione antimafia, un deputato comunista, Nino Mannino, domanda a Insalaco una sua «valutazione» sui cavalieri del Santo Sepolcro, la «strana organizzazione religiosa e massonica» cui appartiene Arturo Cassina. L’ex sindaco risponde: «È notorio a Palermo che si tratta di un’organizzazione religiosa alla quale aderiscono, su designazione, rappresentanti dell’apparato dello Stato, della finanza e dell’imprenditoria. Tale organizzazione ha carattere parareligioso; credo che abbia come assistente religioso il vescovo di Monreale. Altre notizie precise non so darvi». È la risposta più imbarazzata che dà in quella giornata
DA LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. La latitanza, il carcere e poi quella sentenza che lo bolla come corrotto. DAL LIBRO "LA CITTÀ DI CARTA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 02 febbraio 2022.
Bisognerà aspettare il 17 aprile 1989 perché la magistratura pronunci la sua prima sentenza sulla vendita del terreno dell’Istituto Sordomuti. Giuseppe Insalaco è già stato ucciso; è morto convinto di poter demolire le accuse al processo. Ma la sentenza non lo assolve. Anzi lo bolla come un corrotto e definisce i sessantasei milioni una «tangente»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
La stella di Insalaco come paladino antimafia si spegne in una cella dei Cavallacci, il carcere di Termini Imerese. E si spegne proprio un attimo dopo che la sua battaglia contro i padroni degli appalti si è conclusa con una vittoria. Il 4 febbraio 1985 il prefetto Gianfranco Vitocolonna si insedia in Municipio come commissario straordinario.
Sarà lui ad avviare le procedure perché si arrivi alle gare pubbliche per l’assegnazione dei lavori di manutenzione di luce, strade e fogne: Cassina e Parisi stanno per uscire di scena. Il 5 febbraio la procura della Repubblica spicca un mandato di cattura contro Giuseppe Insalaco per i reati di peculato, falso e corruzione. Nel pomeriggio di quel giorno l’ignaro ex sindaco si unisce al pubblico che, in un’aula dell’Università, ascolta Nando Dalla Chiesa, venuto a presentare un libro sull’assassinio di suo padre, Delitto imperfetto. «Fu un gesto visibile, che non poteva non avere un significato: il libro era stato accusato del suicidio di Nicoletti» ricorda Dalla Chiesa. «Alla fine della presentazione Insalaco mi attese, si fece avanti in una marea di folla e venne a salutarmi. Questo mi colpì molto».
Passano poche ore e i militari della Guardia di Finanza incaricati di eseguire il mandato di cattura si presentano al portone di via Notarbartolo. Hanno un breve diverbio con gli uomini di guardia al giudice Falcone. È un malinteso banale: la scorta del giudice è insospettita dall’arrivo di un drappello di uomini in divisa, non sarebbe la prima volta che i mafiosi si travestono per un agguato. Poi tutto si chiarisce e i finanzieri entrano nel palazzo. Salgono fino all’appartamento di Insalaco, non trovano nessuno. Non sanno che l’ex sindaco scende spesso a casa della madre per cenare. Se ne vanno a mani vuote. Da quel momento, ufficialmente, Insalaco è un latitante. La mattina dell’8 febbraio il Giornale di Sicilia gli dedica l’editoriale di prima pagina.
Il compassato quotidiano del mattino, che fa del garantismo la propria bandiera, infilza con disinvoltura l’ex sindaco: «A lungo sostenuto dal Pci e dalla grande stampa come un campione di rinnovamento, è accusato dai giudici di essere un ladro». Finiscono in carcere, per l’affare del terreno venduto, la baronessa Maria Vittoria Agnello e i cugini Saccone. La baronessa dichiara che la sua firma sull’assegno di sessantasei milioni, per dirottare la somma sui conti di Insalaco, è falsa: non ha mai visto l’assegno né mai lo ha girato al suo ex compagno. Viene scarcerata.
Qualche giorno dopo una donna si presenta in Procura, chiede di essere ascoltata: sostiene di aver incontrato la baronessa a cena, subito dopo la scarcerazione, in un ristorante alla moda. Non era sola: al suo tavolo sedeva Bruno Contrada, l’uomo dei servizi segreti, il capo di gabinetto dell’alto commissario antimafia Emanuele De Francesco. Contrada smentirà con forza. Dirà che la sua amicizia con la baronessa Agnello dura da vent’anni, ma che non ha mai cenato con lei in quei mesi del 1985. La testimone si è sbagliata, assicura Contrada: deve averla confusa con un’altra donna.
LA LATITANZA
Il 16 febbraio l’introvabile Insalaco fa recapitare alla procura della Repubblica un memoriale in cui si dichiara «vittima di una manovra tendente a screditarmi come uomo e come politico». Un mese dopo il settimanale Panorama pubblica un’intervista con l’ex sindaco. Insalaco attacca a testa bassa il capo della procura, Vincenzo Pajno, «magistrato brillantissimo, che però è stato nominato cavaliere del Santo Sepolcro dal conte Cassina». Attacca il pm Carmelo Carrara, presentandolo come genero di Salvatore Palazzo[1]lo, «notoriamente amico di Vito Ciancimino».
Attacca Cassina: «Ha distribuito montagne di soldi [...] mi risulta che sborsi una cinquantina di milioni al mese da dividere tra politici e funzionari compiacenti». Attacca Ciancimino, «il vero padrone dell’isola, il signore degli appalti, il boss politico capace di decretare la vita e la morte dei governi cittadini». Attacca l’alta burocrazia comunale, elencando con nome e cognome «ingegneri capo delle ripartizioni tecniche: urbanistica, edilizia, lavori pubblici, manutenzioni». Si definisce «un ingenuo»: «Volevo combattere mafia e corruzione. A Palermo non si può fare». L’intervista deflagra con la potenza di una bomba. Continuando a restare nascosto, Insalaco la smentisce: mai parlato con i giornalisti, mai dette quelle cose. Ma nel testo ci sono tali e tanti dettagli e tali e tanti nomi da rendere la smentita inverosimile.
E c’è pure un’osservazione che sembra anticipare una possibile linea di difesa: «Se mi fossi lasciato corrompere, non avrei accettato un titolo bancario in pagamento. Soltanto uno sciocco si sarebbe comportato così. E io stupido non sono mai stato». Il 23 febbraio viene ucciso Roberto Parisi, il padrone della Icem, l’impresa che sta per perdere l’appalto per l’illuminazione pubblica. Non è il primo e non sarà l’ultimo imprenditore assassinato a Palermo. Tra il 1985 e il 1988, calcolerà la Commissione antimafia, in dodici muoiono ammazzati, in uno stillicidio di esecuzioni.
La Cosa Nostra di Totò Riina stringe la presa sugli imprenditori. Angelo Siino userà parole pesanti per definire la condizione delle imprese: la Sicilia occidentale, dirà, è «assoggettata». È la stessa formula che, prima di essere assassinato con un’autobomba, aveva usato il giudice Rocco Chinnici. Gli dettero del comunista. A Siino è dura dare del comunista.
IN CARCERE
Il 28 marzo Insalaco si consegna. Nel suo primo interrogatorio in carcere rivela di essere sempre rimasto nell’edificio di via Notarbartolo, spostandosi tra il suo appartamento e quello della madre. La città si riempie di sussurri. Latitante nello stesso palazzo in cui abita Falcone – si maligna – l’ex sindaco, per vendicarsi, ha raccontato al più famoso giudice istruttore d’Italia tutti i segreti dei legami tra mafia e politica. È una menzogna, ma diffonde il panico.
Il ricordo della lunga audizione di Insalaco all’Antimafia rende quella bugia terribilmente credibile. Il tempo dell’impunità sembra finito. Buscetta ha trascinato nel fango gli intoccabili: Vito Ciancimino è al confino; i cugini Nino e Ignazio Salvo in galera. I potenti vivono nel terrore che arrivi il giorno del giudizio. In carcere Insalaco riferisce ai magistrati la sua versione. Sostiene che Maria Vittoria Agnello gli aveva affidato la gestione del proprio patrimonio; aggiunge che la baronessa aveva acquistato da Orazio Saccone due appartamenti, poi non li aveva più trovati di proprio gusto e aveva rinunciato ad acquistarli. Il costruttore le aveva restituito la caparra con un assegno.
I famosi sessantasei milioni, assicura Insalaco, non sono altro che quella caparra. Ma la baronessa dice tutt’altro: l’acquisto degli appartamenti non c’è mai stato; Insalaco le aveva fatto firmare un documento nel quale si sosteneva che lei avesse avuto rapporti d’affari con i Saccone, ma era tutto falso. È una delicata partita tra un uomo e una donna – lei abbandonata, e questo aggiunge pathos alla storia, la rende una vicenda di possibili vendette, la inquina di rancore. Mentre Insalaco è in cella gli arriva una condanna a otto mesi, per detenzione illegale di munizioni: si tratta di quattro cartucce trovate a casa sua durante una perquisizione. «Erano vecchie cartucce del nonno» ricorda la figlia. Collezionista di armi con regolare licenza, Insalaco non era autorizzato a possedere munizioni. La giustizia, quando vuole, è solerte, veloce, meticolosa. Il 12 agosto Insalaco esce dal carcere.
Nel ricordo di sua figlia Ernesta, «Era distrutto moralmente, ma non voleva dimostrarlo»: «Era bianchissimo quando tornò a casa. Aveva comprato la lampada abbronzante, ci teneva a dimostrare che non l’avevano demolito. Io lo vedevo incattivito col mondo, diceva che alcune persone che credeva amiche non lo erano state e che altri, da cui non si aspettava nulla, gli avevano dato dimostrazioni di solidarietà. Non erano persone del suo partito, perché mi faceva nomi che non conoscevo». Al processo la moglie riferirà una confidenza di quei giorni: «Mi ha detto: “sono entrato in un gioco più grande di me; forse, se avessi accettato determinate cose, oggi sarei un uomo ricco e sicuramente non braccato come sono ora, costretto a difendermi continuamente”».
LA SENTENZA
Bisognerà aspettare il 17 aprile 1989 perché la magistratura pronunci la sua prima sentenza sulla vendita del terreno dell’Istituto Sordomuti. Giuseppe Insalaco è già stato ucciso; è morto convinto di poter demolire le accuse al processo. Ma la sentenza non lo assolve. Anzi lo bolla come un corrotto e definisce i sessantasei milioni una «tangente» (così, tra virgolette). Eppure è una ben strana storia quella che la sentenza ricostruisce.
È la storia di un terreno incolto di ventimila metri quadri che l’Istituto Sordomuti acquista a Falsomiele a metà degli anni Sessanta con l’intenzione di costruirvi la nuova sede. Passano gli anni, la nuova sede non si fa: dal 1971 l’Istituto prova a vendere il terreno e non ci riesce. Nell’aprile del 1977, quando Insalaco si insedia come commissario governativo, il legale dell’Istituto gli consiglia di disfarsi del terreno. Insalaco chiede una valutazione all’Ute, l’Ufficio tecnico erariale. Nel giugno del 1978 arriva la risposta: una prima valutazione, fatta da un geometra, per un importo di settanta milioni viene corretta in novanta da un funzionario di grado superiore. Il 30 giugno 1978 Insalaco mette in vendita il terreno per la cifra massima stabilita dall’Ute. Ci vuole più di un anno perché spunti un acquirente, e sono i cugini Gaetano e Michele Saccone, imparentati con quell’Orazio Saccone che – scrivono i giudici – Insalaco conosce molto bene, perché è legato a Stefano Bontate.
Il 9 novembre 1979 si firma il contratto dal notaio: il prezzo è di cento milioni di lire. L’Ute, chiamato a giudicare se la cifra sia congrua, dà parere positivo. Quel 9 novembre Orazio Saccone ordina alla Cassa Rurale e Artigiana di Monreale di emettere i famosi due assegni circolari: cento milioni per il commissario e sessantasei per la baronessa Agnello. Tre giorni dopo, Insalaco deposita su un suo conto i soldi della Agnello. Una perizia accerterà che la firma della baronessa sull’assegno da sessantasei milioni è falsa. La donna, scrivono i giudici, è stata «vittima inconsapevole» del suo compagno «che si servì del suo nome per occultare attività che gli avevano arrecato esclusivo vantaggio».
La spiegazione che, di quei sessantasei milioni, l’ex sindaco aveva dato – che si trattasse, cioè, della restituzione della caparra per due appartamenti che la baronessa aveva acquistato da Orazio Saccone e che poi non le erano più piaciuti – non viene neppure presa in considerazione. D’altra parte, non c’è alcuna spiegazione del fatto che la caparra, se di caparra davvero si trattava, sia finita sui conti privati di Insalaco. Quei soldi, scrivono i giudici, sono la prova della corruzione del commissario dell’Istituto, che ha venduto per cento milioni un terreno che, secondo una perizia d’ufficio, ne valeva dai centoquaranta ai centottanta. Ma non spiegano che vantaggio avrebbe avuto Orazio Saccone nello sborsare comunque centosessantasei milioni per aggiudicarsi un terreno che, nella migliore delle ipotesi, valeva dodici milioni in più e, nella peggiore, ventisei in meno né dicono perché hanno ritenuto di assolvere i due alti funzionari dell’Ute che stimarono congruo un prezzo di cento milioni.
Pronunciata poco più di un anno dopo l’assassinio di Insalaco, quando il delitto è ancora avvolto dal mistero, la sentenza lascia cadere una pietra tombale sulla memoria dell’ex sindaco, consegnandolo alle cronache come un corrotto. Come a suggerire che la tacita damnatio memoriae che contro di lui è stata pronunciata è, al più, una dimostrazione di pietà.
DAL LIBRO "LA CITTÀ DI CARTA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
Così la Cupola di Cosa Nostra decide l’omicidio di un sindaco di Palermo. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 03 febbraio 2022.
Nei primi mesi del 1987, Giuseppe Insalaco entra nelle liste di Cosa Nostra come un uomo da uccidere. Da un anno ha lasciato ogni incarico pubblico. Non è stato lui ad abbandonare la politica, ma la politica ad abbandonare lui.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Nei primi mesi del 1987, Giuseppe Insalaco entra nelle liste di Cosa Nostra come un uomo da uccidere. Da un anno ha lasciato ogni incarico pubblico. Non è stato lui ad abbandonare la politica, ma la politica ad abbandonare lui. Il primo maggio 1986 l’Assemblea regionale si è sciolta per fine legislatura; si va a nuove elezioni, nessuno gli offre una candidatura.
Nei venti mesi che gli restano da vivere coltiverà propositi di rivincita, si esalterà nella certezza di poter tornare in gioco, mediterà vendette e resurrezioni, ma inutilmente. Dovrà trovare altri modi per tirare avanti, lui che è sempre vissuto di politica. Prende in affitto dalle suore un mezzanino in via Papireto, all’angolo del mercato delle pulci, dietro la Cattedrale. Avvia un commercio di oggetti d’antiquariato.
A Roma va a trovare Nicola Cattedra, che ha lasciato la direzione de L’Ora, gli domanda consigli sugli indirizzi di antiquari a Londra: «Ho un negozietto dove vendo piccole cose antiche, tabacchiere d’argento che a Palermo sono molto ricercate, vecchi Rolex, gemelli e spille liberty. Roba piccola, mi serve per campare...».
Si arrangia come può. Intorno a lui, tutto è cambiato. De Mita ha affidato la Dc palermitana alla tranquilla fermezza di Sergio Mattarella ed è riuscito a insediare al Comune il suo pupillo Leoluca Orlando alla guida di un rissoso pentapartito. Orlando è l’asso che la Dc di De Mita vuole giocare sulla scena nazionale per riguadagnare i consensi perduti. E il sindaco si rivela un ciclone. La sua fama come campione dell’antimafia oscura di colpo quella di tutti i suoi predecessori.
Compie gesti impensabili per il passato: si presenta al maxiprocesso per chiedere che il Comune possa costituirsi parte civile contro Cosa Nostra, invita in Municipio i sindaci di 57 città italiane per far sentire ai palermitani la solidarietà del paese, dichiara che Palermo, da capitale della mafia, è diventata anche la capitale dell’antimafia. E quando Leonardo Sciascia lo prende di mira, disegnando la sua silhouette in un articolo sul Corriere della Sera contro i «professionisti dell’antimafia», si scatena un putiferio: ma contro Sciascia. Cosa Nostra ha messo a tacere le pistole.
Per tutti i lunghi mesi del maxiprocesso osserverà una tregua. L’enorme emozione che ha accompagnato l’apertura di quel dibattimento si è consumata in fretta. Nel febbraio 1986, quando l’aula bunker costruita a tempo di record nel perimetro dell’Ucciardone ha aperto le sue gabbie a centinaia di mafiosi, un famoso giornalista, Giampaolo Pansa, l’ha paragonata a un’astronave. Il processone fa la fine del marziano a Roma nel celebre racconto di Flaiano: all’inizio, entusiasmo alle stelle; poi indifferenza e noia. Se a Palermo non si spara, per l’opinione pubblica lo spettacolo è finito. Nel silenzio delle armi, Cosa Nostra cerca nuove alleanze: in politica, negli affari, nel vischioso mondo dei pubblici appalti. Si prepara a battere un colpo nelle elezioni del giugno 1987. E mette in cantiere l’assassinio di Giuseppe Insalaco.
IL RUOLO DEI GANCI
L’istruttoria sul futuro omicidio comincia con la richiesta di Domenico Ganci a un rapinatore del quartiere della Noce di tener d’occhio ogni movimento dell’ex sindaco. Il rapinatore si chiama Aurelio Neri, ha trent’anni, vive nel sogno di essere iniziato come uomo d’onore e nel culto del maggiore dei suoi fratelli, Salvatore. Di quel fratello – confesserà ai magistrati – Aurelio Neri è «innamorato»: di lui e del suo ricordo. Più grande di lui di dieci anni, Salvatore è stato un uomo d’onore della famiglia della Noce: è stato ammazzato nel novembre 1982, nella guerra di mafia. Aurelio Neri lo ricorda così: «Era una persona molto distinta, io lo ammiravo, cercavo di imitarlo in tutto quello che faceva».
Al suo sguardo adolescente, il fratello maggiore appariva circonfuso dallo splendore di Cosa Nostra: «Mi sono reso conto che era uomo d’onore dal suo giro di denaro, dalla sua eleganza, dal fatto che era benvoluto da tutti». Dopo l’assassinio di Salvatore, Raffaele Ganci ha mandato a chiamare Aurelio Neri, gli ha detto di essere molto dispiaciuto per la morte di suo fratello. Questo semplice gesto ha conquistato Aurelio. Quando il maggiore dei figli di Ganci lo ha chiamato per chiedergli un favore, lui si è messo a disposizione.
Il favore che sta a cuore alla famiglia Ganci è molto semplice: uno dei fratelli Neri, Franco, ha una bottega da rigattiere nel mercatino delle pulci. Da quella postazione è facile tenere sotto controllo Insalaco. È appunto questo che Domenico Ganci chiede ad Aurelio Neri: che lui e suo fratello Franco riferiscano i movimenti di Insalaco, «di sapere più cose possibile su questa persona», e senza far parola con nessuno dell’incarico ricevuto. Neri può datare quell’incarico con una certa precisione: risale ai primi mesi del 1987. Sa dirlo perché nel mese di giugno 1987 è stato arrestato per scontare una vecchia condanna.
E ricorda che, prima del suo arresto, Mimmo Ganci ha comunicato a lui e a suo fratello il contrordine: «Tutto a posto, non ci pensate più, il problema è già stato risolto». “Il problema”, in realtà, in quei mesi, è ancora vivo. Quale soluzione gli sia stata data, non può certo saperlo un rapinatore che deve chiedere il permesso alla mafia per fare le rapine. Neri non sa neppure che l’ordine viene da molto in alto: dal capo supremo di Cosa Nostra.
IL RACCONTO DEL PENTITO GALLIANO
Lo racconta un altro collaboratore di giustizia, Antonino Galliano, il nipote di Raffaele Ganci. Anche lui fa risalire la decisione di uccidere Insalaco ai primi mesi del 1987. E ricostruisce il giorno in cui seppe di quella condanna a morte. La scena si svolge in una delle macellerie dei Ganci: in via Lancia di Brolo, non lontano da quel largo Mariano Accardo dove Totò Riina dava appuntamento ai suoi uomini. Galliano passa per caso, vede nel negozio suo cugino Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, si ferma con loro; i due gli dicono che l’altro cugino, Domenico Ganci, è andato a una riunione della commissione. Galliano decide di aspettarlo. Il patriarca della famiglia, il macellaio capo, Raffaele Ganci, in quei mesi è in carcere.
In assenza del titolare, Riina in persona ha affidato l’incarico di reggere il mandamento ad Anzelmo, che era il vice di Raffaele Ganci, e al maggiore dei suoi figli. È mezzogiorno quando Domenico Ganci torna dalla riunione dei capi mafiosi e riferisce ai presenti che si è parlato di Insalaco come di un «uomo dei servizi segreti civili» che «dà disturbo a persone». Basta quell’accenno al «disturbo» perché Galliano capisca, senza bisogno che nessuno lo dica, che Insalaco deve morire. Le persone disturbate, secondo Galliano, sono «persone esterne a Cosa Nostra». Neppure quando Mimmo Ganci lo convocherà per l’assassinio, Galliano saprà chi sono i “disturbati”, né mai si azzarderà a chiederlo.
L’accenno alle «persone esterne a Cosa Nostra» è una novità interessante. Cosa Nostra ha sempre rifiutato di essere considerata un’agenzia di killer al servizio di mandanti estranei all’organizzazione. Con l’eccezione della misteriosa Entità evocata da Buscetta come ispiratrice di alcuni delitti eccellenti, lo sforzo costante dei collaboratori di giustizia è sempre stato quello di circoscrivere ogni crimine, ogni delitto al cerchio ristretto degli uomini di Cosa Nostra. Ma Galliano sa bene che l’orizzonte delle relazioni dell’organizzazione è molto più vasto. Lo sa per diretta esperienza, perché è stato allevato per diventare il messaggero dei contatti con la zona grigia degli affari, delle professioni. Per questo suo zio Raffaele ha disposto che la sua affiliazione restasse riservata. Chi ordinò l’assassinio di Insalaco?
LE PAROLE DI ANZELMO
Un altro collaboratore, Francesco Paolo Anzelmo, il numero due nella gerarchia di comando della cosca della Noce, attribuisce quella decisione all’intera commissione. Ma lo fa sulla base di una supposizione. Parte dalla constatazione che i Ganci hanno agito fuori zona, organizzando il delitto nel quartiere di Resuttana, territorio di un’altra famiglia, i Madonia, e nessuno si è ribellato. L’assenza di reazioni – è il ragionamento di Anzelmo – significa che l’autorizzazione ad agire veniva dal vertice. Nella commissione provinciale di Cosa Nostra, nel tempo in cui viene deciso l’assassinio Insalaco, sedeva Antonino Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo, il paese che Giovanni Falcone definì la «Svizzera di Cosa Nostra». Giuffrè esclude che si sia discusso di Insalaco in commissione provinciale, ma ammette di aver sentito parlare di quel delitto, anzi di averne parlato – e non con personaggi di secondo piano: con Bernardo Provenzano e con uno dei Ganci, non saprebbe precisare se Raffaele o Domenico, il padre o il figlio. Dalle risposte che gli furono date, Giuffrè trasse la convinzione che uccidere Insalaco era «un discorso che andava fatto perché era importante andarlo a fare».
Tortuoso giro di frase, che sembra alludere più a un servizio reso che a un progetto pensato in proprio, e fa dell’esecuzione dell’ex sindaco una scelta pesante di Cosa Nostra. Anzelmo ricostruisce l’intera catena di comando: «Totò Riina aveva stabilito che si doveva uccidere il dottor Insalaco e il compito ce l’aveva affidato a noi della Noce». Latore del messaggio è Domenico Ganci. Anzelmo non sa se sia stato ammesso alla riunione in cui la decisione venne presa; forse, semplicemente, ne è stato informato dopo. In ogni caso è Raffaele Ganci, agli arresti domiciliari nella sua casa di Borgo Molara, a stabilire i dettagli. E il capo dei Ganci decide che l’assassinio venga eseguito da suo figlio Calogero e da Francesco Paolo Anzelmo. Al figlio Domenico assegna un ruolo di secondo piano. È sempre Anzelmo a spiegare: «Raffaele Ganci disse a Mimmo di organizzare, di tenere d’occhio il dottore Insalaco e di riferire a me e a Calogero in modo che ci saremmo organizzati».
La versione di Anzelmo è interessante perché accenna a un primo piano d’azione, secondo il quale si era pensato di tendere un agguato a Insalaco sotto il suo negozio al Papireto, in un’area che rientrava nel mandamento di Porta Nuova, dunque nella zona sotto il controllo di Salvatore Cancemi. Nelle decisioni di Cosa Nostra il luogo è parte del messaggio. Un soldato obbediente come Francesco La Marca, fidatissimo killer, sa bene che è «per simbolo» che i cadaveri vengono lasciati in un posto piuttosto che in un altro. Gli è capitato di dover spostare i morti, caricandoli su un furgone per poi «buttarli in mezzo alla strada», in tutt’altra parte della città rispetto a quella in cui erano stati uccisi, perché chi doveva capire capisse il messaggio. Anzelmo è persuaso che Cancemi debba sapere molto del progetto d’omicidio perché avrebbe dovuto avvenire nel suo territorio e anche perché frequentava assiduamente la casa di Raffaele Ganci a Borgo Molara.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. I pentiti confessano ma non sanno spiegare il movente del delitto Insalaco. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 04 febbraio 2022.
Sulle ragioni del delitto, buio completo. Francesco Paolo Anzelmo sostiene di aver sentito dire che Insalaco era vicino a Cosa Nostra. Non spiega che ragione c’era allora di sbarazzarsene. Antonino Galliano, che pure andrà a ucciderlo, afferma che non gli risultano contatti tra l’ex sindaco e Cosa Nostra...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Il killer di fiducia di Salvatore Cancemi si chiama Francesco La Marca, è un meccanico che lavora in un’officina di via dei Cipressi, la strada dove venne ucciso il procuratore Scaglione (così è Palermo: un’intricata mappa di delitti).
È La Marca ad aggiungere nuovi dettagli sul progetto per assassinare Insalaco. Sostiene che alla fine di novembre del 1987 Cancemi, che ha il vezzo di chiamarlo «Cicciuzzu», gli chiese di accompagnarlo da Faluzzo Ganci in una macelleria situata in una traversa di via Notarbartolo. «Faluzzo» è un vezzeggiativo per Raffaele, come «Cicciuzzu» per Francesco. Capita che i nomi con cui i mafiosi si rivolgono l’un l’altro grondino dolcezza come i pupi di zucchero allineati sugli scaffali delle pasticcerie di Palermo.
Andarono tutti insieme a prendere un caffè, alle nove del mattino, da Ciro’s, un frequentatissimo bar di via Notarbartolo. E lì, al bancone del bar, i due capimafia chiesero al giovane killer se avrebbe ucciso un uomo, uno che abitava in quella stessa strada. «T’a firi?» gli domandano, formula che si potrebbe approssimativamente tradurre: se se la fida, ovvero se pensa di potercela fare.
Gli spiegano che l’uomo da uccidere abita nello stesso, vigilatissimo palazzo in cui ha casa il giudice istruttore Giovanni Falcone. La Marca risponde che sì, s’a fira, le uniche cose che gli servono sono una motocicletta potente e un silenziatore3 . Non domanda neppure chi sia l’uomo da uccidere. Il giorno dopo Cancemi gli comunica che si tratta di Giuseppe Insalaco. «Per me era uno come gli altri», dice La Marca. E qui va segnalato che, dalla primavera all’autunno, il piano d’azione dev’essere stato cambiato: dal Papireto, dietro la Cattedrale, la scena dell’esecuzione si è spostata a via Notarbartolo, par di capire addirittura sotto casa di Falcone.
È un progetto ad alto rischio, tanto che i due boss avvertono il bisogno di parlarne al killer. E se il luogo è parte del messaggio, il cambio di scenario avrebbe bisogno di una spiegazione. Che nessuno darà. La Marca è un assassino che, al momento di collaborare con la giustizia, confessa di poter riferire di «30-35 omicidi» con un’imprecisione che la dice lunga sull’importanza che avevano per lui quei delitti. Già dalla seconda volta che gli è toccato uccidere, non conosceva né il nome della vittima né la ragione per cui era stato deciso che dovesse morire: «Mi hanno chiesto di spararci e basta».
È un docile operaio dell’industria della morte; sa che l’organizzazione per cui lavora non ama i curiosi. C’è un episodio, nella sua carriera criminale, che sfiora l’incredibile. Accade il 6 agosto 1985. Dopo tre giorni di turbinose riunioni in cui ha capito solo che bisogna uccidere qualcuno, ma non ha capito chi, La Marca viene convocato e corre sul Vespone bianco, che è il suo mezzo di trasporto preferito, all’appuntamento con altri mafiosi in via della Croce Rossa, tra i palazzoni della Palermo nuova. Arriva, parcheggia, viene fatto entrare in fretta in un palazzo, si accorge che ci sono killer disposti su più piani, vede kalashnikov avvolti in pezze bianche; capisce, dalla quantità di armi e dall’eccitazione dei mafiosi, che il bersaglio dev’essere importante. Lo incaricano di passare le armi a Nino Madonia.
La Marca esegue con lo scrupolo consueto. Chino sui fucili, concentrato nel ruolo, non vede niente, ma sente scatenarsi una tempesta di colpi, un inferno. Quando tutto è finito, fila via. Si presenta al suo capo, Salvatore Cancemi. Gli riferisce il poco che sa, il poco che ha fatto. «Dovevi sparare» lo rimprovera Cancemi. E La Marca, che non ha il coraggio di replicare, se ne va mugugnando tra sé e sé “ma che è pazzo, questo?”. Alle sei del pomeriggio, apprende dal telegiornale che la vittima è Ninni Cassarà, il numero due della Squadra Mobile. E resta di sasso: «Minchia, dissi, questo un commissario era».
Nel caso di Insalaco, ha il vantaggio di sapere prima a chi dovrà sparare. Ma mentre ancora si sta ragionando su quell’omicidio, La Marca viene arrestato. È il 10 dicembre 1987. Tre settimane dopo, nel carcere dell’Ucciardone, sente in televisione la notizia dell’assassinio, riconosce il Vespone bianco che lui stesso aveva rubato e che gli è rimasto nel cuore come se fosse una creatura di carne («Ne ha fatti tanti, di omicidi, quel Vespone»). Un paio di mesi dopo, uscito dal carcere, va a trovare il capo della sua famiglia e gli domanda: com’è finita con Insalaco? E Cancemi risponde brusco: «A picca i pigghiavanu a tutti». Per poco non li hanno presi tutti. Fin qui il racconto del mancato killer. Ma Cancemi nega che quel colloquio sia mai avvenuto, nega d’aver mai parlato di Insalaco con La Marca, giura che non ne parlò mai neppure con Raffaele Ganci.
Ed è una smentita sorprendente perché Cancemi è un collaboratore di giustizia, un caso unico nel suo genere: il capo di un mandamento storico (lo stesso, per capirci, al quale apparteneva Tommaso Buscetta), un componente della commissione che si consegna ai carabinieri alla vigilia delle stragi del 1993, convinto che Provenzano abbia deciso di ammazzarlo, e che da allora fino alla morte collabora con la giustizia, ma con lampi di ambiguità, esitazioni, indecifrabili vuoti di memoria.
IL RUOLO DI TOTÒ CANCEMI
La smentita di Cancemi è così ostinata, così coriacea che, al processo per il delitto Insalaco, la Corte d’Assise decide di mettere a confronto il boss e l’obbediente soldato della famiglia di Porta Nuova.
Lo scontro tra il killer fedele e il suo ambiguo capo resta una pagina misteriosa. La Marca, credendo di dovere soltanto rievocare alla memoria del suo capofamiglia un episodio che quello non ricorda più nitidamente, si preoccupa di mettere a fuoco ogni dettaglio. Dice che il mandato era di uccidere Insalaco dentro il bar Ciro’s. Dice che «questo scendeva la mattina alle otto per prendersi il caffè» – e questo, ovviamente, è Insalaco. Durante il confronto Cancemi sembra nervoso, imbarazzato. Cicciuzzu La Marca insiste, ricostruisce frammenti di conversazione, rievoca le sue richieste, nel linguaggio sbrigativo del killer: «Ci vuole la motocicletta per farci Insalaco, non ti ricordi? Dovevo preparare io la motocicletta». E Cancemi lo interrompe, lo scongiura: «Ciccio, ascolta, non esiste». Insiste il capo, insiste il picciotto. «Era un posto molto delicato, c’era la scorta di Falcone...», dice La Marca.
E Cancemi si infuria: «Ma che stai a dire? Tu, con le tue bugie, mi hai fatto prendere l’ergastolo». La palpabile ansia di Cancemi, il suo tentativo ostinato di stare alla larga da quel delitto qualcosa vorrà dire. Perché Cancemi era un capomafia, non un semplice killer come La Marca. Sedeva nella commissione di Cosa Nostra. Parlava con Raffaele Ganci da pari a pari. Se ammettesse di aver saputo dell’ordine di morte contro Insalaco, non potrebbe cavarsela dicendo che non sa chi e perché decise di chiudere i conti con quell’ex sindaco in disgrazia.
Meglio farsi giudicare reticente da una Corte d’Assise piuttosto che infastidire Cosa Nostra – e dar noia alle persone “disturbate” da Insalaco e rimaste senza volto. È Calogero Ganci, il figlio prediletto di Raffaele, a fissare la data in cui l’istruttoria mafiosa può dichiararsi conclusa: dicembre 1987. Una ventina di giorni prima dell’omicidio, Totò Riina conferisce l’incarico finale a Mimmo Ganci e a Francesco Paolo Anzelmo. È un’indicazione che fa coincidere il mandato di Riina con la sentenza del maxiprocesso, che viene emessa appunto il 16 dicembre: Insalaco verrà ucciso 27 giorni dopo.
È probabile che l’esecuzione fosse stata rimandata per non aggravare con un omicidio eclatante la posizione dei mafiosi processati: per non mettere giudici e giurati di cattivo umore. Con la lettura della sentenza, la tregua delle armi è finita. Insalaco è il primo della lista.
IL RACCONTO DI BRUSCA
L’unica voce dissonante, tra i collaboratori che hanno parlato del delitto, è quella di Giovanni Brusca, che fa risalire addirittura ai tardi anni Settanta la decisione di assassinare l’ex sindaco: «Si voleva eliminare nel ’78, ’79, ’80...» Ai Brusca di San Giuseppe Jato, che lo consideravano “un mezzo paesano” perché originario del paese e sposato con una donna di San Giuseppe («cosa nostra», dunque, nel più stretto senso etnico), Insalaco risultava insopportabile perché «si riteneva confidente di polizia e non ci si poteva chiedere niente».
Se il progetto non è andato a segno, ricostruisce Brusca, la colpa – o il merito – è di Salvatore Greco, il «senatore», massone e democristiano. Il 3 febbraio 1998, testimoniando al processo per l’omicidio, Brusca dice che «questo doveva morire da un bel pezzo di tempo, solo che non sapevo quando». Questo, ancora una volta, è Insalaco. E doveva morire perché «si comportava male, più che altro (il suo vizio) era quello di prendere in giro le persone, vendeva – si dice – fumo, ma poi si faceva sempre i fatti suoi».
[…] Infine Giovanni Brusca sostiene che nell’86-’87 Insalaco cercò Siino e attraverso Siino gli fece sapere di essere «a disposizione», ma lui lasciò cadere quell’offerta perché «non interessava». Il 31 marzo 2000, in un nuovo interrogatorio, un infastidito Giovanni Brusca torna a parlare di Insalaco: «Mio padre gli aveva chiesto una cortesia e lui lo prendeva in giro per il fatto del confine...» E nell’astio del figlio che ha visto offendere suo padre, si capisce che il confine è un provvedimento di confino, per Bernardo Brusca, ma per Insalaco è probabilmente il confine oltre il quale non ci si può spingere per compiacere un mafioso.
In quella stessa deposizione, Brusca fa un’osservazione curiosa: «C’era il sospetto» dice «che faceva parte dei servizi segreti». Lo dice come se questa fosse stata una buona ragione per sbarazzarsi di Insalaco. Eppure, a giudicare dai racconti dei collaboratori di giustizia, avere rapporti con i servizi era normale per un gran numero di mafiosi, specialmente tra i corleonesi. […].
UN DELITTO OSCURO
Sulle ragioni del delitto, buio completo. Francesco Paolo Anzelmo sostiene di aver sentito dire che Insalaco era vicino a Cosa Nostra. Non spiega che ragione c’era allora di sbarazzarsene. Antonino Galliano, che pure andrà a ucciderlo, afferma che non gli risultano contatti tra l’ex sindaco e Cosa Nostra; sa solo che Insalaco prese parte all’inaugurazione del negozio di un uomo d’onore, Franco Sciaratta.
Il negozio era una bottega d’antiquario in via Libertà e l’inaugurazione risale al tempo in cui Insalaco era assessore al Commercio. Calogero Ganci, che avrebbe dovuto essere, per decisione di suo padre, uno dei killer, non ha mai sentito parlare di Insalaco in Cosa Nostra. Antonino Giuffrè ha saputo che Cosa Nostra lo riteneva affidabile, poi lo giudicò inaffidabile perché «cominciò a parlare troppo, una volta eletto».
Le chiacchiere che Giuffrè ascoltò su Insalaco potevano riassumersi in una considerazione: «Era cambiato completamente e aveva un pochino, come si dice in gergo di Cosa Nostra, sballato». Può sembrare strano che proprio sul finire del 1987 la mafia abbia ordinato di uccidere un uomo che, nello sbrigativo ritratto del capo della Squadra mobile Antonio Nicchi, era «a terra, solo, senza soldi, abbandonato da tutti». Un uomo – scriverà nella sentenza la Corte d’Assise – «che all’epoca dell’omicidio, nulla poteva garantire alla mafia in termini di “favori” nell’esercizio dell’attività politica».
Ma le decisioni di Cosa Nostra rispondono a una logica particolare. È un trafficante di droga come Gaspare Mutolo a spiegare la tecnica dell’assassinio mafioso: «Naturalmente, come in tutti gli omicidi che riguardano giudici, politici, persone importanti, si aspetta il momento in cui quella persona è meno in auge: appena si trova un po’ nella bassa fortuna, gli danno il colpo, appunto per non essere attaccati eccessivamente».
Cosa Nostra è paziente: sa aspettare. Ancora Mutolo: «Si aspetta il momento in cui la persona può essere un po’ denigrata». La calunnia è un’arma, come una pistola 357 Magnum. Per Insalaco si useranno l’una e l’altra. [...].
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
Da "Oggi" il 20 aprile 2022.
«Se ripenso ai pericoli che ho corso, alla vita che ho fatto, a tutti i mafiosi ammazzati che ho conosciuto, mi sembra impossibile di essere arrivato vivo a 82 anni… Comunque, sono ancora vivo. Hanno ragione i miei amici: godo di una protezione superiore. Perché la missione non è ancora finita».
Gaspare Mutolo, pentito di mafia, uscito di recente dal Programma di protezione e rivelatosi con il suo volto per la prima volta dopo 30 anni con fotografie e intervista esclusiva sul settimanale OGGI, nel numero in edicola da domani parla dei suoi rapporti con Falcone e Borsellino, rivela che «la mia non è stata una scelta per difendermi o per vendicarmi, come quella di Tommaso Buscetta o di altri.
L’ho fatto perché, dopo averci pensato a lungo, mi sono convinto di dover cambiare vita e ci ho messo tutto me stesso», racconta come in carcere è diventato pittore («Liggio espose i miei quadri con la sua firma. Ci metteva mezz’ora a scrivere il suo nome, in stampatello. Ne vendette uno anche in Svizzera. Mio, naturalmente. Ho insegnato a dipingere anche a Salvatore Provenzano e Leoluca Bagarella»).
E parla soprattutto della moglie Santina, da lui chiamata Marò, morta nel 2016: «Nel ’65 abbiamo fatto la fuitina a Catania, in casa dell’amico Condorelli, mafioso... Io avevo 25 anni, lei 16. Poi nel ’73, quando sono stato combinato, Riina mi ha imposto di sposarla. Ora che non ho più mia moglie, mi sento solo...
Qualsiasi cosa facessi, c’era; qualsiasi cosa avessi bisogno, c’era. Sapeva chi ero. Se le davo una camicia sporca di sangue da lavare o da bruciare non faceva domande. Mi ha seguito in ogni latitanza, in ogni confino con i nostri figli… Ma quando la mafia ha ucciso il figlio di Nino Badalamenti, ha reagito e per la prima volta mi ha affrontato: “Voi siete pazzi!”. Marò mi ha dato la forza di pentirmi».
Di lei, non un ricorda un momento felice, un viaggio, una vacanza… «È questo il rimorso che mi tortura: io non ce li ho i momenti che mi chiede. Io sono sempre stato in galera o latitante. Avevo i soldi per fare tutto quello che avremmo voluto, ma non avevo la testa. Pensavo solo alla mafia e alle persone da uccidere».
E conclude nell’intervista a OGGI: «Sono consapevole del male che ho fatto e del dolore che ho dato ai parenti delle mie vittime ai quali chiedo perdono ogni giorno… Sono sereno perché sono tornato un uomo libero, libero di mostrare la mia faccia. (Dopo la morte della moglie, ndr) stavo pensando al suicidio, poi mi sono convinto che ho una missione da portare a termine». La denuncia della mafia e dei suoi crimini.
Non è l'Arena, il killer sconvolge Giletti: "Chi è per me Toto Riina". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2022.
Una puntata sensazionale, quella di Non è l'arena in onda ieri sera, sabato 5 novembre. Una puntata speciale condotta da Massimo Giletti su La7 e tutta dedicata alla mafia. Tra i momenti più significativi, l'intervista faccia a faccia, in studio, a Gaspare Mutolo, il feroce killer di Cosa Nostra e fedelissimo di Totò Riina.
Ed è proprio quando parla del "capo dei capi" che Mutolo si spende in frasi che sconcertano Giletti così come tutto il pubblico a casa davanti alla televisione. "Io a Salvatore Riina lo ho conosciuto nel 1965-64, avevo già fatto tre anni di galera, ero uscito. Poi rientro per una rapina. Ero un po' ribelle e dalla sezione giovani mi portano in quelli grandi. Allora mi portano nella cella di questo Salvatore Riina, con cui c'era anche Rocco Semiglia, detto Testa di ferro, che mi conosceva da quando ero ragazzo. E dopo con Riina trovo un fascino... reciproco, nasce un rapporto veramente bello", ricorda.
"Ma cosa aveva di bello e speciale, Riina?", chiede Giletti. E Mutolo: "Aveva il carisma, non si arrabbiava mai. Non capivo, ma vedevo che molte persone più anziane di lui rischiavano per andare a salutarlo. E lui sempre tranquillo, pacifico. Stando sempre con lui si conosce veramente il suo carattere". Che carattere aveva? "Io ho trovato un carattere dolce, docile, saggio. Io ero birichino con lui, quando si giocava a dama lui perdeva con tutti e vinceva soltanto con me. Lo facevo apposta? Logico... non solo a dama, anche a carte. Era un uomo deciso ed è diventato feroce perché altri mafiosi intorno a lui erano feroci. Per me è stato come un padre", conclude Mutolo.
Giletti, speciale su Mutolo e la trattativa Stato-mafia. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2022.
Sabato nello Speciale di «Non è l’Arena», a cui partecipa anche Salvatore Baiardo.
«La trattativa Stato-mafia non si è mai fermata ed è probabile che in un mese o due si arrivi alla cattura di Matteo Messina Denaro». Lo dice Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese, oggi 65 enne, che per anni ha coperto la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, intervistato da Massimo Giletti nella puntata speciale di «Non è l’Arena» in onda sabato 5 novembre (21.15, La7). Una rivelazione sulla quale Baiardo è pronto a mettere la faccia, dicendo di essere disponibile a farsi intervistare di nuovo se quanto da lui affermato non dovesse verificarsi: «È stato lui a chiedermi di incontrarci e mi ha detto, “se non andrà come le ho detto, potrà darmi del bugiardo” — racconta Giletti — Comunque lo si voglia intendere è sicuramente un messaggio mandato verso l’esterno. Lo stesso Baiardo, solo un anno fa, si rifiutò di parlarmi dell’argomento: qualcosa forse è cambiato».
La supposta trattativa sarebbe da mettere in relazione, secondo quanto sembra far intendere Baiardo, con la imminente decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo (l’8 novembre la Corte Costituzionale torna a riunirsi sull’argomento, anche alla luce del decreto firmato pochi giorni fa dal governo Meloni), la possibilità per Graviano di maturare dei «crediti» per essere scarcerato e lo stato di salute di Messina Denaro all’alba del trentesimo anno di latitanza.
Nel corso della puntata, intitolata «Gli spettri della mafia», parlerà (per la prima volta a volto scoperto in tv e presente in studio) anche Gaspare Mutolo, 82 anni, memoria storica di Cosa Nostra e oggi libero da ogni pena dopo una lunga collaborazione con la giustizia (sue, tra le altre, le rivelazioni su Lima, Andreotti, Berlusconi): «Per me non era una tragedia uccidere (si è attribuito alcune decine di omicidi, ndr), me lo chiedeva Riina e mi andava bene», è uno dei passaggi della sua intervista, realizzata in parte in Sicilia. Proprio a Palermo, in via D’Amelio, sotto l’abitazione della mamma di Paolo Borsellino, dove il magistrato fu ucciso con una autobomba, Mutolo ha incontrato casualmente Salvatore, suo figlio, scambiandosi con lui un abbraccio: «So che ci saranno polemiche per questo gesto — dice Borsellino, che accompagnava una scolaresca sul luogo dell’attentato — ma so che Mutolo è un pentito sincero».
Non è l'arena, Giletti faccia a faccia col killer: uno scoop sensazionale. Libero Quotidiano il 04 novembre 2022
Una puntata speciale di Non è l'Arena, annunciata tempo fa e molto attesa. Una puntata speciale in onda domani, sabato 5 novembre, dalle 21.15 su La7. Massimo Giletti indaga sugli spettri della mafia e promette grandi rivelazioni, già anticipate la scorsa estate.
Quali spettri? "Quelli di ieri come Gaspare Mutolo che oggi decide di uscire dal buio e mostrare per la prima volta il suo volta in tv", spiega la redazione di Non è l'arena. Il feroce killer di Cosa Nostra e autista di Totò Riina poi collaboratore di giustizia, infatti si racconterà proprio Giletti in un'intervista esclusiva che promette rivelazioni pesantissime.
Poi, "gli spettri di oggi, come Matteo Messina Danaro il mafioso più ricercato, che dopo quasi 29 anni di latitanza resta ancora un fantasma, ma sul quale le rivelazioni shock di Salvatore Baiardo, persona di fiducia dei fratelli Graviano, potrebbero aprire nuovi scenari".
Nella lunga intervista a Giletti, Mutolo - l’ex mafioso palermitano autore di 20 omicidi e complice di altri 70 -, ripercorrerà la sua vita: trent’anni a servizio della mafia da killer e altrettanti a combatterla da collaboratore di giustizia. Un percorso di pentimento, da Totò Riina a Paolo Borsellino. Condannato infatti a trent’anni di carcere, dopo una latitanza altrettanto lunga, il primo luglio del 1992 decise di collaborare affidando le sue dichiarazioni a Paolo Borsellino. È stato, dopo Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Francesco Mannoia, il collaboratore che ha contribuito non solo a raccontare le dinamiche interne a Cosa Nostra ma anche a fare luce su chi ha tradito lo Stato. Il 7 aprile del 2021 ha rinunciato al programma di protezione, tornando di fatto un uomo libero.
Ma non è tutto. In una puntata imperdibile, anche Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese che gestiva la latitanza dei Graviano negli anni delle bombe, rilascerà in un’intervista esclusiva a Giletti. Parole che suonano come un allarme contro le ombre lunghe del passato e le contraddizioni del presente e non permettono ancora di fare piena luce sugli avvenimenti di allora, sui misteri di quella oscura e inquietante pagina della nostra storia.
Biografia da gasparemutoloarte.it.
Nato a Palermo nel 1940, ex mafioso. Collaboratore di giustizia e pittore.
Chiamato “Gasparino”, inizialmente fu meccanico, poi si dedicò alla malavita. Da giovane si occupava solo di piccoli furti, fino a quando fu arrestato nel '65 per associazione a delinquere. In carcere conobbe Totò Riina, compagno di cella per otto mesi e suo maestro nel gioco della dama. Fu lui a consigliare la lettura de “I Beati Paoli” di William Galt, romanzo cult dei mafiosi, ma anche a suggerire l'uscita dalla microcriminalità e l'ingresso nella mafia (“più facile uccidere che rubare”, sosteneva Riina), raccomandandolo a Rosario Riccobono - boss dei quartieri Partanna e Mondello - non appena uscito dal carcere.
Dopo una serie di arresti e scarcerazioni, nel '73 incontrò Riccobono e Riina, nel frattempo in libertà, ed entrò in Cosa Nostra attraverso i riti della “pungintina” e della “Santina bruciata” (ragazza arsa dai partigiani perché spia dei fascisti). “Le cose essenziali sono queste: se un uomo d'onore sbaglia con una donna di un uomo d'onore, con una figlia o una sorella, il padre, anche con le lacrime agli occhi, deve strangolare il figlio. Non ci deve essere mai perdono, anche se passano trenta o quarant'anni: se uno fa la spia, nel letto sicuramente non ci muore, ma viene ammazzato dalla mafia, anche se ha cento anni. È un principio e si fa di tutto per non farlo morire nel proprio letto”, spiegò Riccobono dopo il giuramento.
Sposatosi su suggerimento (pratica obbligatoria dei mafiosi), divenne in breve tempo il più stretto collaboratore di entrambi (di Riina anche fidato autista). Mutolo fu figura operativa, non di dialogo: omicidi, estorsioni, intimazioni, sequestri (nel '74 fu incaricato di rapire Berlusconi). Divenne poi un grosso trafficante di droga, in contatto con il singaporegno Koh Bak Kin. Un lavoro remunerativo, che gli permise di possedere in poco tempo un appartamento e di costruire una palazzina.
Nel 1982 fu salvato da Riina dalla mattanza dei Riccobono, ma non dall'arresto e dalla reclusione nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano. Fu proprio tra le mura del penitenziario fiorentino che Mutolo si avvicinò all'arte. E grazie all'ergastolano Mungo, detto l'Aragonese, di cui ammirava la pittura durante l'ora d'aria. Finirono in cella insieme e per il mafioso siciliano fu l'inizio di un nuovo modo di comunicare, con colori e pennelli. In carcere conobbe anche Luciano Liggio e a sua firma dipinse alcune tele.
Nel 1986 venne coinvolto nel Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, dopo la sentenza di primo grado (dicembre '87), fu condannato a dieci anni di reclusione. Nel '91 Falcone gli propose di collaborare. “Gaspare, qua la dobbiamo finire, non lo vedi cosa stanno combinando!” Sia le pressioni del magistrato - che iniziò a vedere con fiducia e rispetto -, sia l'attentato al mafioso Giovanni Bontade, che coinvolse anche la moglie - precedente sconvolgente e non in linea con l'ideale mafioso -, sia l'arresto della consorte, spinsero Mutolo a parlare, ma a patto che ad ascoltarlo fosse il solo Falcone. Rivelazioni che però il magistrato non ascolterà mai, poiché trasferito dal ministro Martelli alla direzione del dipartimento degli Affari penali. Mutolo si ritrovò così ad affidare le proprie rivelazioni, solo all'indomani della strage di Capaci, a Borsellino, che lo interrogò per l'ultima volta due giorni prima della strage di via D'Amelio.
Durante gli interrogatori, però, si susseguirono strane telefonate, in primis quella del ministro Mancino (imputato nel 2012 per falsa testimonianza nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia) a Borsellino, proprio durante un colloquio con Mutolo. Telefonata che fece andare su tutte le furie il magistrato, così nervoso da presentarsi davanti al pentito con una sigaretta nella sinistra e una, appena accesa, sulla bocca. “Questi sono pazzi! Ma che vogliono dire, cosa vogliono fare”, imprecava Borsellino, riferendosi al coinvolgimento di personaggi istituzionali, tra cui uomini appartenenti a Carabinieri e Servizi segreti, attivi nelle relazioni con la mafia (“dissociazione”) nel patto tra Stato e mafia.
Nel 1993, grazie agli sconti di pena previsti, Mutolo venne condannato dal Tribunale di Livorno a nove anni di reclusione. Tra le dichiarazioni rilasciate a Borsellino e poi a Vigna, i ruoli di Lima, Andreotti, Conti, Barreca, Mollica, D'Antoni, Signorino e Contrada.
Oggi è un uomo libero, pur sotto il Servizio Sociale di Protezione, e vive di pittura.
Il pentito Gaspare Mutolo si toglie la maschera: «Soffro per il male fatto, con il mio volto sfido i clan». Carlo Verdelli su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.
Wikipedia, l’enciclopedia digitale del tempo presente, lo presenta così: «Gaspare Mutolo, detto Asparinu (Palermo, 5 febbraio 1940), ex mafioso, collaboratore di giustizia e pittore italiano». Dietro questa sintesi, c’è una notevole biografia criminale e un volto che risale agli anni Settanta, con baffoni neri e sguardo cupo. L’Asparinu che trovate nella nostra copertina è per la prima volta a volto scoperto, senza la maschera bianca che l’ha tutelato nel lungo periodo della protezione dello Stato dopo la scelta di pentirsi e denunciare i tanti complici.
Il viaggio a Palermo contro la mafia
Da qualche giorno è un uomo libero e senza più alcun tipo di tutela. Ha da poco compiuto 82 anni ed è un’altra persona, fuori e dentro. Lo è da tempo, adesso però in maniera esibita, e anche così segnata dal male che ha fatto da progettare un percorso di espiazione che comprende un per lui rischiosissimo viaggio a Palermo, a implorare le madri siciliane di sottrarre i loro figli dalla trappola senza scampo della mafia. E se qualcuno volesse saldare i conti con lui? «Ormai sono diventato un simbolo e a Cosa nostra questi simboli non piacciono», dirà nella lunga intervista che troverete al centro di questo numero di (la seconda puntata la potrete leggere nel prossimo, ed è, se possibile, ancora più emotivamente sconvolgente). Due giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prima di venire inghiottiti dalla furia di Totò Riina e soci, avevano avuto fiducia nell’onestà del pentimento di Mutolo, e dopo di loro il procuratore Gian Carlo Caselli, che mise ad ulteriore frutto le informazioni messe a disposizione da Asparinu, mandando in carcere non soltanto centinaia di capibastone e affiliati ma anche insospettabili professionisti (avvocati, medici, funzionari di banca), la zona grigia che infiltra società e Stato per minarli dall’interno.
Da braccio armato di Riina a pentito di mafia
Luogotenente e anche autista di Totò Riina, l’ultimo e sanguinario Capo dei capi il cui testimone sembra passato nelle mani dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, Mutolo non è mai stato un boss, a differenza di Tommaso Buscetta che collaborò con i magistrati per vendetta contro la cosca vincente dei Corleonesi. Lui, Asparinu, era un operaio specializzato della violenza, cresciuto delitto dopo delitto fino ad arrivare nel cuore della Cupola, assassino e trafficante di droga, braccio armato e sicario di fiducia del despota, da lui servito con dedizione canina finché qualcosa si è rotto e comincia un’altra storia, anche per la mafia stessa. I perché di questa conversione sono spiegati nell’incontro con Luigi Garlando. E reggono ancora oggi, rafforzati dalla convinzione che c’è ancora molto da fare per la missione che si è dato e che il tempo a disposizione può non bastare.
Una seconda vita
«Le cose essenziali sono queste: non ci deve essere mai perdono. Se uno fa la spia, nel letto sicuramente non ci muore ma viene ammazzato, anche se ha cento anni», gli spiegò Rosario Riccobono, boss di Partanna-Mondello dopo il giuramento che lo rese mafioso. Mutolo lo sa bene, ma come scoprirete leggendo le sue memorie non sembra questo il fantasma più temuto, quanto il tormento di una colpa troppo enorme per essere espiabile. Disse una volta il presidente Sandro Pertini: «A un uomo non chiedo da dove viene ma dove va». Gaspare detto Asparinu viene dall’inferno, si consola dipingendo, e idealmente è già in cammino verso quella Palermo dove tutto è sciaguratamente cominciato. Una seconda vita, a 82 anni, lasciandosi alle spalle una maschera bianca accartocciata.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2022.
Già faceva schifo, anni fa, vedere il camorrista Carmine Schiavone che pontificava nei talkshow: 70 volte assassino, mandante di 500 altri, cassiere della malavita, grossista di droga, estorsore, schiavista di prostitute, mescolatore di sabbia col cemento (ci hanno costruito ponti e strade), seppellitore di rifiuti tossici e avvelenatore di falde acquifere; poi si era pentito e nel 2013 era uscito: 10 anni anziché 8 ergastoli. È morto nel 2015, all'inferno l'anima sua.
Lo stesso vale, oggi, per Gaspare Mutolo, mafioso grazie a Totò Riina («più facile uccidere che rubare», fu l'argomento) con un giuramento che recitava: «Se un uomo d'onore sbaglia con una donna di un uomo d'onore, deve strangolare il proprio figlio. Se fa la spia, nel letto non ci muore, anche se ha cento anni». Autista di Riina, trovò il tempo per omicidi, lupare bianche, sequestri e traffici di droga che gli permisero di farsi una Ferrari e un palazzo.
Arrestato da Giovanni Falcone, fu condannato, ma poi si pentì dopo l'arresto di sua moglie. Rivelò molte cose vere più moltissime false e screditò innocenti anche notissimi. L'ultimo caso, due anni fa, lo vide calunniare l'eroe del Maxiprocesso Giuseppe Ayala: si è beccato due anni, ma ora è libero, ed è comparso sorridente sulla copertina di Oggi, settimanale popolare per famiglie. Almeno se ne restasse come il suo cognome.
Gaspare Mutolo mostra il suo volto su Oggi: l’esclusiva raccontata dal direttore Carlo Verdelli. Carlo Verdelli su Oggi il 14 Aprile 2022.
Gaspare Mutolo mostra per la prima volta dopo 30 anni il suo volto. In esclusiva su Oggi.
Da qualche giorno è un uomo libero e senza più alcun tipo di tutela. Ha da poco compiuto 82 anni ed è un’altra persona, fuori e dentro. Una seconda vita, lasciandosi alle spalle una maschera bianca accartocciata.
Wikipedia, l’enciclopedia digitale del tempo presente, lo presenta così: «Gaspare Mutolo, detto Asparinu (Palermo, 5 febbraio 1940), ex mafioso, collaboratore di giustizia e pittore italiano». Dietro questa sintesi, c’è una notevole biografia criminale e un volto che risale agli anni Settanta, con baffoni neri e sguardo cupo. L’Asparinu che trovate nella nostra copertina è per la prima volta a volto scoperto, senza la maschera bianca che l’ha tutelato nel lungo periodo della protezione dello Stato dopo la scelta di pentirsi e denunciare i tanti complici.
Gaspare Mutolo mostra per la prima volta il suo volto
HA 82 ANNI – Da qualche giorno è un uomo libero e senza più alcun tipo di tutela. Ha da poco compiuto 82 anni ed è un’altra persona, fuori e dentro. Lo è da tempo, adesso però in maniera esibita, e anche così segnata dal male che ha fatto da progettare un percorso di espiazione che comprende un per lui rischiosissimo viaggio a Palermo, a implorare le madri siciliane di sottrarre i loro figli dalla trappola senza scampo della mafia. E se qualcuno volesse saldare i conti con lui? «Ormai sono diventato un simbolo e a Cosa Nostra questi simboli non piacciono», dirà nella lunga intervista che troverete al centro del numero di Oggi in edicola (la seconda puntata la potrete leggere nel prossimo, ed è, se possibile, ancora più emotivamente sconvolgente).
FALCONE E BORSELLINO GLI CREDETTERO – Due giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prima di venire inghiottiti dalla furia di Totò Riina e soci, avevano avuto fiducia nell’onestà del pentimento di Mutolo, e dopo di loro il procuratore Giancarlo Caselli, che mise ad ulteriore frutto le informazioni messe a disposizione da Asparinu, mandando in carcere non soltanto centinaia di capibastone e affiliati ma anche insospettabili professionisti (avvocati, medici, funzionari di banca), la zona grigia che infiltra società e Stato per minarli dall’interno. Luogotenente e anche autista di Totò Riina, l’ultimo e sanguinario Capo dei capi il cui testimone sembra passato nelle mani dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, Mutolo non è mai stato un boss, a differenza di Tommaso Buscetta che collaborò con i magistrati per vendetta contro la cosca vincente dei Corleonesi. Lui, Asparinu, era un operaio specializzato della violenza, cresciuto delitto dopo delitto fino ad arrivare nel cuore della Cupola, assassino e trafficante di droga, braccio armato e sicario di fiducia del despota, da lui servito con dedizione canina finché qualcosa si è rotto e comincia un’altra storia, anche per la mafia stessa. I perché di questa conversione sono spiegati nell’incontro con Luigi Garlando. E reggono ancora oggi, rafforzati dalla convinzione che c’è ancora molto da fare per la missione che si è dato e che il tempo a disposizione può non bastare.
IL TORMENTO DI UNA COLPA – «Le cose essenziali sono queste: non ci deve essere mai perdono. Se uno fa la spia, nel letto sicuramente non ci muore ma viene ammazzato, anche se ha cento anni», gli spiegò Rosario Riccobono, boss di Partanna-Mondello dopo il giuramento che lo rese mafioso. Mutolo lo sa bene, ma come scoprirete leggendo le sue memorie non sembra questo il fantasma più temuto, quanto il tormento di una colpa troppo enorme per essere espiabile. Disse una volta il Presidente Sandro Pertini: «A un uomo non chiedo da dove viene ma dove va». Gaspare detto Asparinu viene dall’inferno, si consola dipingendo, e idealmente è già in cammino verso quella Palermo dove tutto è sciaguratamente cominciato. Una seconda vita, a 82 anni, lasciandosi alle spalle una maschera bianca accartocciata. Carlo Verdelli
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. Due sicari e quattro colpi di pistola per chiudergli la bocca per sempre. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 05 febbraio 2022.
Martedì 12 gennaio 1988 è l’ultimo giorno nella vita di Giuseppe Insalaco. Su Palermo pesa un cielo grigio, senza pioggia. Sul Giornale di Sicilia l’oroscopo del suo segno, la Bilancia, somiglia a un malizioso avvertimento: «Tenete gli occhi ben aperti. Non rischiate se non avete fatto i debiti calcoli».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Martedì 12 gennaio 1988 è l’ultimo giorno nella vita di Giuseppe Insalaco. Su Palermo pesa un cielo grigio, senza pioggia. Sul Giornale di Sicilia l’oroscopo del suo segno, la Bilancia, somiglia a un malizioso avvertimento: «Tenete gli occhi ben aperti. Non rischiate se non avete fatto i debiti calcoli». In prima pagina, il quotidiano pubblica una corrispondenza da Corleone che molto dice delle timidezze e delle difficoltà della lotta antimafia.
È la storia di un professore di matematica che risulta aver accumulato un patrimonio personale di quattro miliardi di lire. Carabinieri e Guardia di Finanza sostengono che quella ricchezza è ingiustificata, accusano il professore di essere un prestanome di Riina. Lui nega e si difende: «I soldi li ho guadagnati dando lezioni private agli studenti di Corleone». I giudici della sezione Misure di prevenzione mostrano di credergli: niente sequestro, il patrimonio è salvo. In cronaca, l’ultima impresa del sindaco Orlando: è entrato nella gabbia delle tigri al circo Medrano, per la gioia dei bambini dei quartieri più poveri. Altre tigri continuano a sbranare la città.
La giunta comunale ha appena pagato ventidue miliardi di lire alla Lesca di Cassina, a saldo di un debito del 1974. E in Municipio ci si dispera ancora sulla manutenzione di strade e fogne. La Cosi (Cozzani & Silvestri), l’impresa che nel novembre del 1985 si è aggiudicata l’appalto offrendo un ribasso monstre del 25,69 per cento, pretende che il Comune versi sei miliardi in più della cifra concordata. Dietro la Cosi, si scoprirà col tempo, c’è Vito Ciancimino. Angelo Siino spiegherà divertito ai magistrati che, «con un gioco ben fatto», don Vito ha resuscitato «un’impresa in disarmo», la Cozzani & Silvestri appunto, e l’ha scaraventata nel gran gioco degli appalti per le manutenzioni di Palermo, per vendicarsi di Cassina che voleva farlo fuori dall’affare alleandosi con le cooperative rosse.
Chi sa se Siino ha confidato a Insalaco il trucco perfido di Ciancimino. Forse no. L’ex sindaco è ormai fuori da tutti i giochi, estraneo alle partite sotterranee del potere. Un uomo in disgrazia che tenta di mantenere le abitudini del passato, che non si rassegna a rinunciare alla vita brillante di un tempo. A metà mattina chiede alla sua compagna di andare a pranzo fuori. Aspettano che il figlio di lei esca da scuola, poi vanno a Bagheria, da don Ciccio, la trattoria più nota del paese. Ed è lì che Insalaco pronuncia quella strana battuta, «Quando avrò sessant’anni ti dirò chi sono veramente», che per anni continuerà a risuonare nella memoria della sua compagna. Il 12 dicembre 1997, ripetendo quella frase nell’aula della Corte d’Assise, Elda Tamburello concluderà: «Era un uomo sibillino».
Tornano in città nel pomeriggio, ognuno a casa sua. Insalaco non deve avere alcun sospetto se mezz’ora prima di morire, telefona da casa alla ex moglie; vuole passare a prendere suo figlio Luca, per ritirare con lui un computer mandato a riparare. Ma Luca non ha finito i compiti, il padre dice che è meglio che studi, andrà da solo al negozio.
Scende da casa, passa davanti alla garitta blindata della scorta di Falcone. Risale a piedi il marciapiede di via Notarbartolo, gira a destra su via Francesco Lo Jacono, passa davanti alla macelleria dei Ganci, si dirige verso la sua macchina, una Fiat 132 blu. Forse non bada neppure al Vespone bianco che parte non appena lui mette in moto e che lo segue.
A bordo, due giovani: entrambi portano il casco, ed è strano, per le abitudini palermitane. Insalaco percorre via Gioacchino Di Marzo, al primo incrocio svolta a destra su via Nunzio Morello; supera altri quattro incroci, poi svolta di nuovo a destra, su via Giovanni Alfredo Cesareo, una strada a senso unico.
Una macchina, una Opel, è ferma allo stop, all’incrocio con via Leopardi. La Fiat 132 di Insalaco le si accoda. Ed è allora che un giovane scende con un balzo dal Vespone, si avvicina allo sportello dal lato di guida, spara quattro colpi con una 357 magnum. Tre proiettili colpiscono Insalaco tra il collo e la testa, il quarto lo ferisce al braccio. Una perizia stabilirà che i primi proiettili sono stati esplosi da dietro in avanti, l’ultimo è quasi orizzontale – come se il killer si fosse mosso, avanzando, continuando a sparare. Insalaco cade in avanti, poi lentamente il suo corpo scivola di lato; libera dal freno, la sua macchina urta contro la Opel.
I killer abbandonano la Vespa, fuggono a piedi. Sulla pedana verrà trovata una piuma, tracce di fieno, trucioli di legno e sterco di gallina. Come se gli assassini fossero usciti da un pollaio. O da una stalla. Come animali. Dopo, è il solito inferno: folla di curiosi, impazzare di sirene, il traffico bloccato. Le prime due volanti della polizia arrivano alle 19.45. Cominciano i rilievi. Si ascoltano i testimoni. Viene interrogato l’uomo che guidava l’auto tamponata dalla macchina di Insalaco.
È un professore di liceo, non ha visto quasi niente. Ha sentito gli spari alle sue spalle. Ha avvertito l’urto della macchina, un urto debole, si è girato, ha notato due giovani che tentavano di fuggire su una Vespa e non ce la facevano a districarsi tra le macchine parcheggiate a spina di pesce, li ha visti fuggire a piedi «facendo molta attenzione a coprirsi il viso». Dei caschi, il professore non parla. Né sa descrivere i due assassini.
I TESTIMONI OCULARI
Altri testimoni forniscono alla polizia notizie sull’agguato. La prima è una ragazza. Ha diciassette anni. Sta studiando, in una stanza al primo piano, in un palazzo di via Cesareo 33, qualche metro più indietro rispetto al luogo dell’agguato. Sente il rumore degli spari, si affaccia alla finestra, vede due persone scappare: uno lancia un casco integrale che alla ragazza, nella distanza, sembra bianco.
Dirà alla polizia che potevano essere alti 1,70-1,75 e di corporatura normale. Li giudica giovani dall’energia con cui correvano. Dall’altra parte della strada, oltre l’incrocio tra via Cesareo e via Leopardi, c’è un ragazzino di nemmeno quindici anni. Aiuta suo cognato che ha un chiosco di fiori all’angolo. Quando sente gli spari, è seduto in macchina, in una Fiat 126 parcheggiata su via Leopardi. Scende di corsa, vede un uomo con un casco in mano, in piedi accanto allo sportello di una berlina di colore blu, dal lato del guidatore.
Vede anche un altro uomo, dalla parte opposta della macchina. Vede che tenta di tirare su qualcosa, un «motore» (così a Palermo, per sineddoche, si definiscono scooter, moto e motorini). L’uomo in piedi accanto alla macchina, un tizio alto un metro e ottanta, una trentina d’anni all’apparenza, quell’uomo lì si avvicina all’altro, che è più basso e ha le mani sul manubrio della Vespa, e lo tira per il braccio. Poi, insieme, «con le braccia abbassate», l’uno vicino all’altro, attraversano via Leopardi e corrono giù per la prosecuzione di via Cesareo. Il professore tamponato dall’auto di Insalaco ha detto il contrario: che i due assassini si riparavano il volto con le mani. Accade spesso che i testimoni oculari si contraddicano. Un altro ragazzino ricostruisce frammenti della scena del delitto.
È l’aiutante benzinaio di via Cesareo. Ha quattordici anni. Alla polizia racconta di aver visto due uomini: uno con un casco bianco, accanto alla macchina, che sparava, dal lato del guidatore; l’altro dal lato opposto, con un Vespone bianco. Fuggono a piedi, quello del Vespone zoppica e correndo scivola. Poi buttano i caschi, tutti e due: li buttano mentre corrono. E girano in via Prati, la prima traversa a destra dopo l’incrocio con la via Leopardi.
C’è un piccolo mondo di ragazzini, nel cuore ricco di Palermo, in quella sera di gennaio, ragazzini che dovrebbero essere a casa, al caldo, e invece sono lì, a badare ai chioschi di fiori, alle pompe di benzina, alle salumerie, il piccolo mondo dei ragazzi sfruttati. E ci sono due adulti. Il primo è il benzinaio di via Cesareo.
È in salumeria quando sente quattro spari, si affaccia alla porta, vede due giovani correre, gli sembra che uno abbia gli occhiali da vista. C’è poi il proiezionista del cinema Ariston, che si trova in via Pirandello, due traverse più in là del luogo dell’assassinio. È un cinema di prima visione, quella sera danno Salto nel buio, regista Joe Dante, produttore Steven Spielberg, un fanta-thriller che racconta la storia di un pilota miniaturizzato iniettato per sbaglio nel corpo di un impiegato. Alle 19.30, all’inizio del secondo tempo, il proiezionista, un uomo di 42 anni, scende dalla sua cabina per andare a fare due chiacchiere con la cassiera. Sente sparare. Esce, si avvia verso via Cesareo, vede persone correre – donne, uomini, ragazzi.
Ne mette a fuoco due in particolare, che corrono verso via Prati. È mezzanotte quando il proiezionista entra negli uffici della Questura. Prima ha dovuto aspettare che finissero gli spettacoli, chiudere il cinema. Racconta che, dei due che correvano, uno lui l’ha visto rallentare su via Prati, chinarsi e buttare qualcosa sotto una macchina, forse una pistola. L’uomo con la pistola era alto un metro e settanta circa, indossava una giacca di montone chiaro, con il collo di pelliccia bianco, e aveva capelli ricci castani. L’altro era più basso, l’ha visto da lontano, non sa dire di più.
DIECI ANNI DOPO LE TESTIMONIANZE CAMBIANO
Dieci anni dopo, convocati come testimoni al processo, tutti cambiano versione. I ricordi sbiadiscono, è naturale, ma non dev’essere solo questo. Il ragazzino che vendeva fiori, ormai un giovane di ventiquattr’anni, dichiara di non ricordare più niente. «Ero piccolo» balbetta «ho avuto un’infanzia un pochettino particolare...» L’aiutante benzinaio, che torna da Ravenna per testimoniare, perché è lì che vive e lavora, non ricorda nulla neanche lui. «Avevo dodici, tredici anni: vedere tanto sangue, a quell’età, è stato un trauma». Gli rileggono la sua testimonianza e lui arriva a dire che da piccolo era «un po’ bugiardo».
In aula gli contestano che, quella sera di gennaio del 1988, disse alla polizia di aver raccontato tutto ciò che aveva visto a Toni il fioraio e a suo padre. Oh sì, questo lo ricorda, ma di Toni non conosce il cognome e papà è morto
Anche il proiezionista cambia versione. Se dieci anni prima aveva testimoniato di aver visto uno dei killer in fuga rallentare e chinarsi per buttare qualcosa, forse la pistola, sotto una macchina, al processo nega: «L’avrò detto, ma non l’ho visto». Sostiene di aver incontrato un ragazzino che gli ha raccontato del giovane in fuga e della pistola. Il pubblico ministero gli domanda perché allora disse d’averlo visto lui. «Magari per spavalderia». Aveva fatto mettere a verbale che il killer che aveva gettato qualcosa sotto una macchina indossava un giaccone di montone chiaro col collo di pelliccia.
In aula gli domandano: anche questi particolari glieli ha suggeriti il ragazzino? No, risponde, non me l’ha detto. E lei, allora, perché ha parlato del giaccone di montone, se davvero non ha visto quell’uomo? «Vabbè, sarà stato un caso». Sorrido leggendo le testimonianze, penso al dramma dell’oralità nei processi di mafia in città come Palermo. Non succede spesso che un testimone dichiari di aver raccontato frottole alla polizia, la sera di un delitto, per «spavalderia».
Poi incontro Ernesta Insalaco, che di quel processo non ha voluto perdere neppure un’udienza perché si parlava della morte di suo padre, e mi racconta il fastidio di dover cercare un posto, nel settore del pubblico, tra i parenti degli assassini, e lo stupore di vedere in gabbia, indicati come i killer, i volti che le erano noti: il macellaio che le serviva le fettine di vitello quando andava a fare la spesa con suo padre, nella macelleria girato l’angolo di casa, quell’altro che stava alla cassa... E capisco i silenzi dei testimoni, gli imbarazzi, l’arrampicarsi sugli specchi: perché una cosa è testimoniare nel chiuso di una stanza di questura, fidando nella discrezione della polizia; tutt’altra cosa è ripetere ciò che si è detto in un’aula di Corte d’Assise, con gli occhi dei mafiosi puntati addosso e, soprattutto, gli occhi dei parenti dei mafiosi che ti scrutano, dietro la transenna del pubblico, tutti in libertà.
E una cosa è raccontare di un delitto quando sembra un’impresa talmente maldestra da poter essere solo opera di balordi e tutt’altra cosa è parlarne quan[1]do diventa chiaro che lo ha eseguito la mafia di obbedienza corleonese, e parlarne dopo che quella mafia ha fatto saltare in un pezzo di autostrada per assassinare un giudice e ha bombardato un palazzo per ammazzarne un altro.
Tra i testimoni convocati al processo ne manca uno: il benzinaio che aveva detto d’aver notato sulla faccia di uno dei killer un paio di occhiali. È l’unico che abbia visto gli assassini corrergli incontro mentre, richiamato dagli spari, si affacciava alla porta della salumeria. Del terzetto che si riunisce per l’assassinio, il solo a portare gli occhiali è Domenico Ganci. Suo fratello Calogero sa che è stato lui a sparare a Insalaco.
IL RACCONTO DEL PENTITO GALLIANO
La sentenza dirà che si è sbagliato. A smentirlo, del resto, è suo cugino, l’uomo dal casco blu, quello che guidava la Vespa, Antonino Galliano, che negli anni Novanta è diventato collaboratore di giustizia. Questa è la sua ricostruzione dell’agguato.
Le cinque del pomeriggio del 12 gennaio. Galliano è a casa di sua nonna, nella palazzina popolare di largo Mariano Accardo. Studia. È un giovane di 29 anni, iscritto alla facoltà di Agraria, fuoricorso. Non riuscirà mai a laurearsi. Nell’ottobre del 1986 è stato combinato uomo d’onore. La sua affiliazione è rimasta riservata per volere di suo zio, Raffaele Ganci.
Nelle intenzioni del boss della Noce, il nipote Galliano dovrà tenere i contatti con personaggi esterni all’organizzazione: il ragioniere Pino Mandalari, il commercialista Piero Di Miceli. Professionisti che hanno bisogno di avere a che fare con mafiosi che si presentino bene, non con un killer.
Non che Galliano sia tenuto lontano dalla linea del sangue. Prima d’essere ammesso in Cosa Nostra, ha partecipato al suo primo omicidio: aveva venticinque anni, gli hanno chiesto non di sparare, ma di guidare un Vespone con a bordo l’assassino; si è dimostrato bravo. Dopo quella prima volta, le missioni di fuoco sono toccate anche a lui. Dunque, martedì 12 gennaio, alle cinque del pomeriggio, Galliano riceve la telefonata di suo cugino, Domenico Ganci, che gli chiede di raggiungerlo subito nella macelleria di via Lo Jacono.
Galliano sale in macchina e va. In macelleria, con il cugino Mimmo, trova Domenico Guglielmini, un mafioso della famiglia di Altarello che tutti conoscono col nome di Giovanni u siccu. Guglielmini è un killer sperimentato. Ha 35 anni, moglie, tre figli e un impiego di copertura come operaio alle dipendenze del Comune. Il suo lavoro consiste nel riparare strade e marciapiedi.
Che chiamino proprio lui per sparare al sindaco che s’era giocato il posto sull’appalto per la manutenzione delle strade sembrerebbe una beffa. Ma Guglielmini, prima di essere imbarcato nel pattuglione dei precari assunti al Comune grazie a un provvidenziale decreto legge sull’e[1]mergenza Palermo, è stato dipendente della Lesca. Prendeva, cioè, un regolare stipendio dai Cassina.
E questo potrebbe essere un dettaglio interessante, ma sembra che, nelle indagini, nessuno ci abbia badato. Quando Galliano arriva dal cugino, Mimmo Ganci gli indica una macchina blu, «le vecchie ammiraglie che si usavano allora», ferma all’angolo tra via Gioacchino Di Marzo e via Lo Jacono. E gli ordina di seguire quella macchina guidando il Vespone bianco parcheggiato davanti alla macelleria. Guglielmini salirà dietro. L’ordine è secco: «Quando Giovanni ti dice di fermarti, tu ti devi fermare».
La Vespa bianca è per Galliano una vecchia conoscenza: è la stessa che aveva guidato quattro anni prima, per la sua prima missione di killer. E lavorare in coppia con Guglielmini è una consuetudine: insieme hanno ammazzato almeno altre due persone prima di essere convocati per uccidere Insalaco. Mimmo Ganci ha pensato a tutto, anche ai caschi: li consegna ai due. Dice Galliano: «Dopo pochi minuti vedemmo il dottor Insalaco che stava mettendo delle valigie nella macchina». Quando Insalaco parte, i due mafiosi in Vespa lo seguono; Mimmo Ganci si accoda, in macchina, col ruolo di staffetta.
Il percorso, nel traffico del tardo pomeriggio, si snoda tra le strade eleganti del centro. È l’orario di chiusura dei negozi, la gente torna a casa, c’è la solita confusione, auto in doppia fila, passanti. La macchina di Insalaco avanza lentamente. Quando si ferma su via Cesareo, dietro una Opel Kadett che aspetta forse di inserirsi su via Leopardi o di attraversare l’incrocio, Guglielmini ordina a Galliano di bloccare la Vespa, poi scende, raggiunge il finestrino del guidatore, spara quattro colpi in successione.
Insalaco crolla sul volante, la macchina scivola in avanti. Il killer torna verso la Vespa per fuggire, ma Galliano viene «preso dal panico» (parole sue), perde il controllo del mezzo, che scivola a terra; lo lascia andare e scappa, attraversa via Leopardi, arriva alla prima traversa sulla destra e si sbarazza del casco, lo butta in un cassonetto, o almeno così ricorda, e corre, corre alla disperata fino alla macelleria di via Lo Jacono.
Non si preoccupa di controllare se Guglielmini lo segue. I due si incontrano in macelleria e lì Guglielmini gli confessa di aver buttato anche lui il casco e perfino le pistole, gli domanda perché ha perso il controllo del motore. Galliano si giustifica: la Vespa si era andata a incastrare sotto le ruote di una macchina, impossibile tirarla su. Subito dopo arriva Domenico Ganci, si fa raccontare tutto, ascolta pazientemente. «Ci ha tranquillizzati e rincuorati» sostiene Galliano. E li manda via.
Galliano torna a casa con la stessa macchina con cui era arrivato. Il dettaglio più stridente di tutto il racconto è nella tranquillità della conclusione. I killer hanno abbandonato la Vespa sul luogo dell’agguato, hanno buttato via i caschi, lanciato per strada le pistole: si sono comportati come due sprovveduti, non come due soldati di mafia. Perché Mimmo Ganci li manda via senza un rimprovero, accettando con olimpica calma quel disastro?
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
L’OMICIDIO DEL SINDACO INSALACO. L’assassino che porge le sue “sentite condoglianze” alla madre di Insalaco. DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO su Il Domani il 06 febbraio 2022.
Al telegiornale della sera Ernesta Crociata ascoltò un giornalista dire che suo figlio Giuseppe, Peppuccio, il bambino che aveva partorito negli anni della guerra, era morto ammazzato. Il giorno dopo il macellaio che forniva la carne alla famiglia presentò alla madre in lutto le sue più sentite condoglianze. Era Domenico Ganci, l’assassino.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
[…] Il primo verbale stilato dalla polizia dirà che la Vespa usata dai killer è stata trovata a due metri e dieci centimetri dalla fiancata destra dell’auto di Insalaco. Era appoggiata con il manubrio su una Fiat 124 parcheggiata a spina di pesce. «Appoggiata», si legge nel verbale: non «incastrata».
Uno dei caschi, di colore blu, è accanto alla Vespa; l’altro, bianco, viene trovato dall’altra parte della strada, sul marciapiede di via Cesareo, oltre via Leopardi. Delle valigie che Galliano sostiene di aver visto nelle mani di Insalaco, nel verbale non c’è traccia. Dietro il sedile di guida, viene trovata una borsa di stoffa che contiene indumenti e giornali. Quanto al portabagagli, non risulta che sul momento qualcuno abbia controllato se contenesse qualcosa.
E nessun verbale, né prima né dopo, parla di valigie. Nel giudizio della Corte d’Assise, la «affrettata quanto maldestra esecuzione [...] mise in pericolo l’intera cosca della Noce». È bizzarro che i giudici siano di questa opinione solo a voler considerare che la sentenza di primo grado risale al 19 aprile 1999, undici anni e tre mesi dopo l’omicidio. Se la cosca della Noce davvero fu messa in pericolo da due assassini pasticcioni, chi la salvò da ogni conseguenza per un periodo così lungo? E come mai i giudici non se lo domandano? Dalla relazione introduttiva del pubblico ministero al processo: «In via Giovanni Prati, all’altezza del civico 26, sotto una Fiat 126 di colore verde, la polizia giudiziaria rinveniva una pistola marca Smith & Wesson di colore nero con guanciolo di legno chiaro. Poco più tardi, sotto un’altra Fiat 126 parcheggiata all’altezza del civico n. 28 della stessa v. Prati, veniva rinvenuto un altro revolver marca Smith & Wesson, cal. 41 Magnum, con sei colpi nel tamburo inesplosi».
Via Prati è lunga una quarantina di metri. Per scrupolo di cronista, ho voluto controllare in una qualunque giornata d’inverno quante macchine possono parcheggiare lungo quella strada: ne ho contate diciannove, allineate lungo il marciapiede, sul lato che, ai killer in fuga, si prospettava come il destro; trenta sul lato opposto, parcheggiate a spina di pesce. Ci vuole molta fortuna per trovare una pistola finita sotto una macchina.
E ancora di più per trovarne due sotto due macchine diverse. La prima pistola, la 357 Magnum, l’arma che ha sparato, viene ritrovata a poche ore dall’agguato. Il ritrovamento della seconda pistola, abbandonata con i sei colpi nel tamburo, è davvero misterioso. Chi o che cosa abbia condotto la polizia a rintracciarla, è difficile dire. Al processo il dirigente della Squadra Omicidi della polizia, Biagio Agnello, dirà che la seconda pistola venne trovata «a qualche ora» di distanza dalla prima, «a seguito di altre segnalazioni». Chi siano stati i cittadini esemplari così solleciti da mettere la polizia sulle tracce della seconda pistola, né Agnello lo dice né alcuno glielo domanda.
Resta a verbale una sua affermazione: che quella 41 magnum lo aveva sorpreso, non aveva mai visto una pistola di quel calibro. Negli atti del processo risulta che fu un maresciallo a trovare l’arma. In aula non compare. È andato in pensione, non si riesce a rintracciarlo. I giudici si accontentano di sentire che la macchina della giustizia non sa trovare un pensionato dello Stato. Un peccato, perché sarebbe stato interessante capire come, in una sera d’inverno, e nell’affanno per un delitto appena accaduto – e che delitto: un ex sindaco ucciso a Palermo, per la prima volta nel Novecento – il maresciallo abbia avuto il talento di rintracciare la seconda pistola, infilata sotto una 126 in sosta, tra decine di macchine parcheggiate. E, soprattutto, come abbia avuto il sospetto, una volta rintracciata la prima pistola, che dovesse essercene un’altra. Ricapitoliamo: Domenico Guglielmini, detto Giovanni, un mafioso che non diventerà mai collaboratore di giustizia, porta con sé due pistole in via Cesareo quella sera.
Pare che sia una precauzione comune per un killer. Una delle due pistole, un revolver con sei proiettili nel tamburo, non spara. Ma viene gettata a terra, sotto un’automobile, a poche decine di metri dal luogo dell’omicidio. La pistola che non spara è l’arma che, nel giugno del 1983, sparò contro il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo. In occasione di quel delitto la impugnava Domenico Ganci. Per quasi cinque anni l’arma è rimasta nell’arsenale della cosca della Noce, poi viene portata in via Cesareo, dove non spara ma viene gettata a terra. Perché?
TRACCE DI UN DELITTO
In poche ore la polizia si trova squadernata davanti una quantità di materiale prezioso: ha il mezzo usato per l’agguato, ha le armi, ha i caschi – e uno in particolare, quello bianco, che secondo i testimoni era il casco indossato dall’uomo che ha sparato, contiene diciassette capelli. Si potrebbe ragionevolmente supporre che le indagini partano di slancio.
È esattamente quello che pensano i mafiosi. «Furono commessi errori molto pericolosi per noi» è il giudizio di Francesco Paolo Anzelmo, che fu convocato d’urgenza a Borgo Molara, a casa del suo capo, Raffaele Ganci, il giorno dopo il delitto. Questa è la lista degli errori secondo Anzelmo: sulla Vespa «c’erano sicuramente le impronte di Nino Galliano», nei caschi «potevano esserci capelli miei, capelli di Calogero, capelli di qualche altro perché erano cose che avevamo noi e quindi li usavamo noi», infine è andata perduta la pistola «che aveva sparato nel capitano D’Aleo».
Conclude il vice di Raffaele Ganci: «Se una situazione di questa l’avrei fatta io, già non ci sarei più, mentre diciamo la fece lui, è sempre il figlio e non è successo niente». Proprio niente, no: «Ci furono discussioni a non finire, un manicomio». Le discussioni cominciarono dal giorno successivo all’omicidio. Ecco il racconto di Antonino Galliano. Il 13 gennaio passa nella macelleria dei Ganci di via Lancia di Brolo, quella stessa in cui per la prima volta aveva sentito parlare del «disturbo» creato da Insalaco. Suo cugino, Stefano Ganci, gli ordina di presentarsi il pomeriggio a casa dello zio Raffaele che gli deve parlare.
Galliano capisce al volo che lo aspetta «una grossa lavata di capo», sa che non può evitarla. Dopo le 14 si presenta allo zio. C’è pure Domenico Ganci, convocato anche lui per render conto del disastro. Alla presenza del figlio, il patriarca striglia il nipote: lo «rimprovera in maniera energica», gli dice che non doveva dare retta a Mimmo, che non doveva eseguire i suoi ordini, che Mimmo ha fatto «di testa sua», che l’incarico di uccidere Insalaco era già stato affidato all’altro figlio, Calogero, e ad Anzelmo.
Galliano ascolta senza replicare, Mimmo tenta di difendersi: non ha trovato né Calogero né Anzelmo, ha capito che «il dottore Insalaco stava partendo», per questo ha deciso di agire. È un figlio che deve giustificarsi davanti a suo padre, in una famiglia di mafia che coincide con il vertice di una cosca. Ma per[1]ché la sua autodifesa abbia un senso, il dettaglio delle valigie è decisivo. Se Insalaco era in fuga, la fretta è stata ragionevole. Ma nulla dice che Insalaco fosse in fuga.
STRANEZZE
È strano che, nella scena della sfuriata del patriarca, manchi Guglielmini. È stato lui a commettere l’errore più grossolano sbarazzandosi delle pistole, una leggerezza incredibile per un killer di mafia. E suo è stato il comportamento più incomprensibile. Doveva uccidere un uomo, lo ha ucciso. Ordinaria amministrazione, per un assassino di vasta esperienza. L’uomo non ha reagito, nessuno ha reagito: perché quell’eccesso di emozione? Perché quel panico da ragazzini? O perché, allora, lo sforzo di lasciare un numero enorme di tracce? Di una strigliata a Guglielmini, non parla nessun pentito della cosca della Noce. Singolare impunità, che sembra non incuriosire nessuno fra quanti hanno indagato sulla vicenda. Ancora più singolare è che quell’incomprensibile leggerezza non impedisca a Guglielmini di far carriera.
Nel maggio del 1992 eccolo sulla scena della strage di Capaci: è Guglielmini – racconterà Giovanni Brusca – il mafioso incaricato di comprare lo champagne per brindare all’assassinio di Giovanni Falcone. Anche Galliano continuerà la sua carriera mafiosa, come se sulla sua reputazione il disastro dell’assassinio Insalaco non avesse lasciato alcuna macchia. E viene da dire che Raffaele Ganci deve nutrire una paradossale fiducia nell’efficienza delle forze dell’ordine e nell’intelligenza dello Stato. Questo spiega la sua collera contro il trio di maldestri assassini. È una fiducia di antica data.
Nel 1986 il capo dei Ganci viene arrestato mentre ha in tasca il telecomando del cancello principale e dell’ingresso privato della villa dove Totò Riina abita da un anno con tutta la famiglia. La stessa villa di via Bernini 54, nella borgata dell’Uditore, dalla quale il capo dei capi uscì, il mattino del 15 gennaio 1993, diretto a una riunione della commissione di Cosa Nostra, quando i carabinieri lo arrestarono.
Sette anni prima, catturato con il telecomando in tasca, Ganci temette a lungo di aver messo nei guai il suo capo e pensò che le forze dell’ordine potessero arrivare al numero 54 di via Bernini. Più ottimista del boss della Noce, Riina – che pure sarà stato subito avvertito della disavventura toccata a Ganci – se ne restò tranquillo nella villa e continuò ad abitarvi per anni. Avrà forse fatto cambiare la lunghezza d’onda del telecomando.
Esattamente come, dopo la cattura, fece smontare anche i termosifoni perché non restasse testimonianza alcuna dei suoi otto anni in quella villa, mentre – com’è noto – i carabinieri desistevano da ogni attività di vigilanza. Eppure la fretta nell’organizzare l’agguato deve avere una spiegazione. Per giustificarla, Domenico Ganci parla a suo padre delle valigie e inventa la favola di una possibile fuga di Insalaco. Galliano, assecondandolo, racconta che Insalaco posa le valigie in macchina.
C’è solo un terzo riferimento alle valigie di Insalaco: è nelle cronache pubblicate dal Giornale di Sicilia e da La Stampa la mattina dopo il delitto. «Pare che [Insalaco, N.d.A.] stesse per lasciare la città, nel portabagagli aveva alcune valigie» si legge sulla prima pagina del giornale palermitano il 13 gennaio. E anche: «Forse [i killer, N.d.A.] lo hanno tallonato da quando sotto casa aveva caricato le valigie in macchina». Aggiunge La Stampa: «Aveva molte persone da temere: quelle valigie in macchina fanno davvero crede[1]re che se ne stesse andando». Dieci anni dopo, la sentenza stabilirà che nessuna valigia venne trovata nella macchina dell’ex sindaco, solo una borsa con giornali e indumenti. Mimmo Ganci aveva una buona ragione per inventarsi un bagaglio più ingombrante, Galliano può essere stato tratto in inganno dal cugino.
Ma chi suggerì quella notizia falsa, la sera stessa del delitto, al quotidiano della città e all’inviato del giornale torinese? Quanto a Galliano, forse nell’ansia di escogitare una spiegazione convincente, sbaglia i tempi e così racconta che, quando Insalaco arriva con le valigie, gli assassini sono già nella macelleria, convocati da Domenico Ganci. Che doveva avere dunque altre ragioni per sbrigarsi. Quali? «Io non so che cosa vuole dimostrare» urla Raffaele Ganci, nella scenata del giorno dopo, descritta dai collaboratori di giustizia. Per Galliano, il gesto di suo cugino si spiega con l’ambizione, col bisogno di mostrare i muscoli.
Secondo la sua ricostruzione, con l’arresto di Raffaele Ganci, nel 1986, si era creata una spaccatura nella famiglia: Domenico, che era un «tipo molto pieno di sé, voleva dimostrare che lui era capace». Ma a chi doveva dimostrare le sue capacità, Domenico Ganci? Voleva forse convincere suo padre, che aveva indicato come killer di Insalaco l’altro figlio, Calogero, di essere l’assassino più bravo in famiglia? O voleva far vedere a Riina, che aveva ordinato l’omicidio, di essere il più abile nell’eseguirlo? Sperava forse, con la sua prova di forza, di liberarsi dallo scomodo condominio di potere con Anzelmo al comando della famiglia della Noce, la cosca favorita del capo di Cosa Nostra? Voleva garantirsi la successione al padre, o addirittura accelerarla? Che sia stato per orgoglio, per ambizione o per rivalsa, di certo la precipitazione di Domenico Ganci ha l’effetto di collocare l’omicidio in un momento strategico. L’8 gennaio 1988 il Consiglio superiore della magistratura si è riunito per nominare il nuovo capo dell’Ufficio istruzione di Palermo.
Si tratta di scegliere il successore di Antonino Caponnetto, lo straordinario regista del pool antimafia che ha costruito il maxiprocesso, ormai in procinto di rientrare nella sua Firenze. Caponnetto ha indicato come suo erede Giovanni Falcone, è sicuro che il Csm rispetterà quell’indicazione. Ma a sorpresa, all’ultimo momento, ecco farsi avanti un anziano magistrato con un’onorata carriera senza scosse. Si chiama Antonino Meli, è il presidente della Corte d’Assise che nel 1984 ha condannato i fratelli Greco per la strage Chinnici con una sentenza così debole da venire travolta in appello e cancellata in Cassazione.
Meli può vantare una lunga anzianità di servizio, Falcone la competenza – e una meravigliosa intelligenza, dote che in Italia è un sommo ostacolo a ogni possibile carriera. Il pronostico è incerto, ma Falcone è ragionevolmente convinto di farcela. Sette giorni dopo l’assassinio di Insalaco, il 19 gennaio, il Consiglio superiore della magistratura si pronuncia. Vince Meli con quattordici sì, dieci no, cinque astensioni. Dopo la strage di Capaci, Antonino Caponnetto dirà che Giovanni Falcone cominciò a morire quel giorno.
IL RICORDO DI BIANCA STANCANELLI
[...]Seppi dell’assassinio di Giuseppe Insalaco alle otto di sera, in una piazzetta romana tra il Pantheon e Montecitorio. Tornavo a casa dal giornale a piedi. Traversò di corsa la piazza un collega siciliano, Alberto Spampinato, che in quegli anni lavorava alla redazione romana de L’Ora. Gli feci un cenno allegro di saluto. «Hanno ucciso il sindaco di Palermo» mi lanciò al volo, continuando a correre. Il sindaco di Palermo era Leoluca Orlando. Provai un brivido di orrore. Non esisteva ancora il magico mondo di Internet, dove le notizie arrivano a te dovunque, ti raggiungono, ti inseguono, ti avvo lgono. Corsi a cercare un televisore, un telegiornale, un televideo. Seppi così che il morto era Giuseppe Insalaco. «Ah, Insalaco» pensai. Ancora oggi ricordo con vergogna il mio sollievo. Anche sua madre lo seppe così. Al telegiornale della sera Ernesta Crociata ascoltò un giornalista dire che suo figlio Giuseppe, Peppuccio, il bambino che aveva partorito negli anni della guerra, era morto ammazzato. Il giorno dopo il macellaio che forniva la carne alla famiglia presentò alla madre in lutto le sue più sentite condoglianze. Era Domenico Ganci, l’assassino.
DAL LIBRO "LA CITTÀ MARCIA" DI BIANCA STANCANELLI. EDIZIONI MARSILIO
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.
Il delitto Saetta, la ricostruzione di una tragedia dimenticata. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 26 Ottobre 2022.
Il documentario di Rai Storia ricostruisce una tragica e dimenticata pagina del nostro passato
È il 25 settembre 1988. Siamo sulla strada statale 640, quella che da Agrigento porta a Palermo. È notte e un’auto sfreccia lungo la strada in direzione del capoluogo siciliano. A bordo ci sono Antonino Saetta e il figlio Stefano. Sono di ritorno a casa dopo una giornata trascorsa a Canicattì. Quel giorno era stato battezzato il nipote. All’improvviso, una Bmw scura si affianca all’auto guidata da Antonino. I finestrini si abbassano e una pioggia di proiettili calibro 9 viene esplosa da una mitraglietta leggera. Antonino e Stefano muoiono abbracciati, sulla stessa strada in cui troverà la morte due anni dopo Rosario Livatino. Ma chi è Antonino Saetta? Per saperlo dobbiamo vedere «L’Abbraccio. Storia di Antonino e Stefano Saetta» di Davide Lorenzano, fotografia di Daniele Ciprì (Rai Storia) che ricostruisce questa tragica e dimenticata pagina del nostro passato. Saetta guidava l’auto di famiglia perché, come Rosario Livatino, non aveva mai chiesto né scorta né vettura blindata.
Il documentario, attraverso interviste e ricostruzioni animate, racconta questo efferato delitto di mafia ai danni di un giudice che non si era mai piegato alle intimidazioni. Per l’uccisione del capitano Emanuele Basile (1980), nonostante minacce e intimidazioni, Saetta aveva decretato la condanna di Giuseppe Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia. Proprio per questo, era il candidato più probabile a ricevere la nomina di presidente del Maxiprocesso di Palermo a Cosa Nostra. Saetta è stato il primo magistrato giudicante ucciso dalla mafia. Nel 1995, dopo una prima archiviazione e ulteriori indagini svolte a seguito dell’acquisizione di nuovi elementi investigativi, grazie all’impegno dei pubblici ministeri della Procura di Caltanissetta, Antonino Di Matteo e Gilberto Ganassi, i responsabili del duplice omicidio vengono individuati in Totò Riina, Francesco Madonia e Pietro Ribisi.
Il coraggio di scegliere La storia dell’unico testimone dell’omicidio di Rosario Livatino. Mario Calabresi su L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.
L’ultimo libro di Mario Calabresi, “Una volta sola”, edito da Mondadori, è dedicato a coloro che cambiano irrevocabilmente la propria vita e quella degli altri, spesso per un fortuito passaggio del caso
Piero aveva 41 anni, vendeva porte blindate, era il responsabile per tutto il Sud Italia di una grande azienda piemontese. I suoi clienti erano in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, e quella settimana era in viaggio nell’isola. Aveva preso casa prima a Ischia e poi a Giffoni, in provincia di Salerno, e copriva tutto il suo territorio in macchina. Si era appena comprato una Lancia Thema station wagon color canna di fucile, ricorda che l’aveva presa con un leasing a Bologna e che quell’ultimo modello non l’aveva ancora nessuno, in Sicilia tutti si fermavano a guardargliela. Un dettaglio che avrà il suo peso in questa storia.
«Ero quasi al bivio per Favara, erano le otto e venti, e mi mancava ormai solo un quarto d’ora di strada, andavo piano e sorpassai un’Ape che trasportava dell’uva, ricordo che era bianca e con gli acini grossi, l’uva Italia che producono nelle vigne intorno alla Valle dei Templi. Due ragazzi con la moto mi sfiorarono e io mi incazzai moltissimo pensando che mi avessero rigato la Thema, guardai la targa ma non si poteva leggere perché era coperta da del nastro adesivo, quello usato dai carrozzieri. Percorsi un rettilineo, poi due curve e vidi la moto ferma e una macchina con il vetro dietro rotto. Pensai: “Si sono schiantati”. Invece, quando arrivai lì accanto, vidi una camicia azzurra che scappava in un campo, un ragazzo con il casco bianco fermo sulla moto e l’altro che saltava il guardrail con la pistola in pugno. Ricordo anche la camicia e gli anfibi
del killer e le Timberland di quello sulla moto».
La camicia azzurra era di Rosario Livatino, magistrato alla Procura di Agrigento. Aveva solo 37 anni, ma si era fatto notare per il suo coraggio e per la sua fede nella legalità: aveva lavorato alla prima inchiesta sulla mafia agrigentina, che avrebbe portato a condannare quaranta persone, e aveva osato confiscare i beni delle famiglie mafiose. Per questo venne condannato. Quel 21 settembre 1990 viaggia solo e senza scorta sulla sua utilitaria, arriva come ogni giorno da Canicattì, il paese dove è nato e dove abita con i genitori. Viene sorpassato da una Uno bianca, che lo stringe e lo manda fuori strada, dal finestrino esce una mitraglietta che comincia a sparare, alcuni colpi bucano la fiancata, uno lo colpisce a una spalla.
Rosario Livatino ha con sé una pistola ma non riesce a prenderla. Va a sbattere contro il guardrail eppure ha la prontezza di mettere la retromarcia, prova a scappare indietro, non sa che alle sue spalle ci sono quei due ragazzi in moto. Sparano anche loro e gli fanno saltare il lunotto posteriore. Ha ancora la lucidità di aprire la portiera, saltare fuori dalla statale 640 e cominciare a correre tra le sterpaglie del dirupo. L’inseguimento dura un tempo lunghissimo, gli sparano più volte, percorre quasi un centinaio di metri e quando cade gli sparano un’ultima volta, un colpo simbolico e definitivo: con la lupara.
Il giorno dopo, nella cronaca pubblicata da «Repubblica», si leggerà: «Questo drammatico racconto dell’agguato e dell’inseguimento sotto la scarpata sarà ricostruito ai poliziotti da un testimone oculare.
Un testimone che ha visto tutto, uno che non ha paura di parlare. Ha descritto i volti dei killer e nei laboratori di polizia scientifica stanno già ricostruendo i loro identikit. Gli investigatori naturalmente non forniscono l’identità del testimone, dicono solo che è un signore del Nord che casualmente ha assistito al massacro. È stato lui a lanciare l’allarme, a raccontare ogni particolare ai primi magistrati che sono arrivati risalendo la strada verso Caltanissetta».
Quell’uomo è Piero. Quel 22 settembre si chiamava ancora Piero Nava. «Avevo già il telefono in macchina, sono stato tra i primi a metterlo, ma in quel punto, come in gran parte della Sicilia, non funzionava, così ho accelerato per arrivare dal mio cliente. Sono entrato, gli ho raccontato in pochi secondi quello che avevo visto e ho chiesto di farmi telefonare in questura per dare l’allarme. Ho detto soltanto: “È successo qualcosa prima del bivio per Favara. Correte a vedere”.
«Poi ho pregato il mio cliente di riaccompagnarmi là con la sua macchina. Lui restava fermo, come paralizzato, pensava che fosse la cosa più sbagliata e mi ha detto soltanto: “Guarda che sei in Sicilia”. Ho insistito: “Non importa dove sono, portami indietro, perché ho visto una cosa che mi fa stare male”. Sono salito, me lo ricordo perfettamente, sul suo Suzuki Jimny e siamo arrivati sul luogo. Era già pieno di persone, gli ho chiesto se conoscesse qualcuno. Mi ha indicato un poliziotto, un ispettore di cui era amico, gli ho detto di chiamarlo, non volevo essere io a presentarmi là in mezzo a tutti. Lui, prima di scendere, mi ha toccato il braccio e ha ripetuto: “Guarda che sei in Sicilia”.
Ho scosso la testa: “Io ho visto tutto e devo dirlo”. È andato a chiamare l’ispettore, che si è avvicinato al finestrino e mi ha detto: “C’è una macchina verde laggiù, tu scendi tranquillamente, vai là e sali, poi arrivo io”. Tornammo nell’ufficio del mio cliente, feci lì la mia prima testimonianza e ricordo che usarono la sua macchina da scrivere e che a batterla fu la figlia. Quando capirono quanti dettagli avevo notato mi chiesero di andare in Questura per una seconda testimonianza.» Sul luogo dell’omicidio, poche ore dopo, quando il corpo era ancora sotto un lenzuolo bianco in fondo alla scarpata, dove nei giorni di pioggia scorre un torrente, arrivarono due giudici con cui Rosario Livatino aveva lavorato: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
Sarà proprio Falcone a interrogare Piero. «Con Falcone ho avuto uno scontro, forse sarebbe meglio dire una tensione, durante l’interrogatorio alla Questura di Agrigento. Si meravigliava di tutti i dettagli e i particolari che mi ricordavo, era molto scettico, più dicevo e più era perplesso. Probabilmente pensava che fossi un mitomane o un depistatore. Gli dissi che il killer era mancino, lui scosse la testa, gli spiegai che avevo notato il calcio della pistola mentre scavalcava il guardrail e che se fosse stato destro non lo avrei potuto vedere, perché sarebbe stato coperto dalla mano.
Quando individuarono il killer, alla fine del riconoscimento gli lanciarono un pezzo di carta appallottolato e lui istintivamente lo prese con la sinistra. Poi gli descrissi la camicia, il maglione rosso, le Timberland. Si meravigliavano tutti di tutto. Poi mi chiesero che moto era. Risposi: “Era una moto enduro, sicuramente una moto enduro, tipo un Ténéré della Yamaha”. È lì che Giovanni Falcone perse la pazienza: “Ma come fa a dire che è una enduro, pure il modello, non mi sembra possibile”. Gli risposi: “Guardi, è molto semplice: io ho due motociclette, sono due Guzzi, e si sta seduti in un certo modo. Su una enduro invece si sta seduti in un modo totalmente diverso. Non c’è possibilità di confondersi”.
In quel momento entrò un colonnello dei carabinieri. Mi ricordo ancora che, mentre parlava Falcone, si aprì la porta: “Hanno trovato la moto, l’hanno bruciata in un campo di Favale, era una moto da enduro e c’era anche una Uno”. Giovanni Falcone mi guardò e si scusò. Io risposi semplicemente: “Non si deve scusare, io quello che ho visto lo testimonio. Quello che non ho visto, non l’ho visto e non dico niente”.
«Quando finì l’interrogatorio, presi le mie chiavi dal tavolo e dissi: “Signori, avete la mia carta di identità in fotocopia, il mio numero di telefono di casa, il mio numero di cellulare. Dovrei andare a lavorare, sono già in ritardo per un appuntamento che ho a Sciacca. Se non lavoro non mangio, mi spiace, ma me ne andrei”. Mi risposero soltanto: “Ma dove crede di andare?”. Mi chiusero in una stanzetta con due agenti davanti alla porta e rimasi alla Questura di Agrigento fino alle due e mezzo di notte.
«Ricordo che avevo una camicia di seta grigia che aveva cambiato colore tanto era inzuppata di sudore. Quella notte non sapevano dove mettermi, non esisteva un protocollo di protezione dei testimoni, così l’ispettore che per primo mi aveva interrogato mi portò a dormire a casa sua, mi mise a letto nella camera del figlio. Il giorno dopo mi fecero vedere una montagna di fotografie e io ne tirai fuori alcune, erano persone che facevano tutte parte della Stidda, la mafia dei pastori di Agrigento, che sarà poi riconosciuta responsabile dell’omicidio».
Questo brano è tratto dal capitolo “Per cosa saremo giudicati” da Una volta sola, Mario Calabresi, Mondadori, 180 pagine, 18 euro
La mafia uccide il giudice Livatino. Sarà il primo magistrato ad essere beatificato. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2022.
È il 22 settembre 1990: l’Italia si sveglia con una drammatica notizia. «La mafia dà una risposta di sangue all’annunciata offensiva dello Stato: il giudice Rosario Livatino è stato assassinato ieri mattina alle porte di Agrigento. Otto killer hanno fatto fuoco contro la sua vettura; poi quando il magistrato, ferito, ha cercato di fuggire, lo hanno raggiunto e finito con una pistolettata in bocca. Il giudice Livatino, che da un anno si occupava di misure di prevenzione contro esponenti mafiosi, in passato aveva condotto le indagini più scottanti. Stava per colpire i boss. Dura la reazione della magistratura: per il presidente dell’Anm, Raffaele Bertoni, “questo giovane collega ha pagato per le inerzie di una classe politica che lo ha lasciato solo”», si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno».
In prima pagina compare la foto dell’auto, la vecchia Ford speronata dalla Fiat Uno dei killer, con i vetri infranti. Rosario Livatino era nato nel 1952 a Canicattì, aveva 38 anni: un «giudice ragazzino», per citare l’espressione infelice del presidente della Repubblica Cossiga, che poi negherà di averla usata per riferirsi al magistrato siciliano. Dopo aver studiato a Palermo e aver compiuto i primi passi professionali a Caltanissetta, come sostituto procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, Livatino si era occupato fin da subito di indagini antimafia e di episodi di corruzione. Quel 21 settembre percorreva la Statale 640 che da Canicattì conduce ad Agrigento. La stessa strada lungo la quale due anni prima il giudice Antonino Saetta era stato colpito a morte insieme a suo figlio Stefano.
Cossiga è volato in Sicilia, prima a Palermo per un vertice in Prefettura, poi ad Agrigento insieme al segretario del Psi Bettino Craxi, per rendere omaggio alla salma del magistrato. «Lo Stato sente la lotta alla mafia come una questione nazionale che deve essere affrontata e risolta», sono le parole del capo dello Stato. Il presidente del Consiglio Andreotti ha anticipato il Comitato di Sicurezza. «In 21 anni uccisi otto magistrati» è il bilancio che compare sulla «Gazzetta»: l’elenco tragico degli assassini compiuti da mano mafiosa inizia nel 1969, con l’omicidio del giudice Pianta, e arriva, appunto, a quelle giornate di settembre di trentadue anni fa. Non è ancora cominciata la stagione più tragica, quella che culminerà negli attentati ai giudici Falcone, Morvillo, Borsellino. Livatino verrà definito da papa Giovanni Paolo II «martire della giustizia ed indirettamente della fede»: nel 2021, primo magistrato nella storia della Chiesa cattolica, è stato beatificato.
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Ilaria Alpi, quel mistero lungo 28 anni tra depistaggi ed errori giudiziari. Ancora nessuna verità sull’omicidio della giornalista del Tg3 e dell’operatore Miran Hrovatin. Ecco cosa sappiamo finora. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 marzo 2022.
Negli ultimi giorni lo hanno ripetuto in tanti, che se Ilaria Alpi fosse viva di certo il suo posto sarebbe in Ucraina. Magari insieme ai colleghi del Tg3, gli inviati che raccontano il conflitto dal terreno di guerra, e tutti gli altri che lo scorso 20 marzo l’hanno ricordata nell’anniversario della sua morte. Perché la guerra Ilaria l’aveva vista da vicino, a più riprese, fino all’ultima missione che gli è costata la vita, 28 anni fa, quando ne aveva soli 33. La storia è nota. Meglio, è noto che non c’è alcuna storia ufficiale. Sappiamo che il 20 marzo 1994 Ilaria Alpi è stata assassinata a Mogadiscio, in Somalia, insieme al suo operatore di fiducia Miran Hrovatin, 45 anni.
I loro corpi furono trovati nei pressi dell’ambasciata italiana, dove si consumò l’agguato: una scarica di kalashnikov li aveva raggiunti a bordo di una Toyota diretta all’hotel Hamana, senza lasciargli scampo. Mentre chi aveva esploso i colpi, un commando di almeno sei o sette uomini, sparì nel nulla a bordo di una Land Rover. Sembrò subito un’esecuzione, un’operazione mirata. Anche se poi si parlò di un tentativo di rapina, di un sequestro finito male. Neanche sulle cause della morte, tra certificati spariti e perizie incrociate, c’è una versione univoca che abbia certificato se i colpi (o il colpo) alla tempia fossero partiti da vicino, come in un’esecuzione, oppure da lontano, come in un “agguato casuale”.
A ripercorrere gli ultimi 28 anni di inchieste, commissioni parlamentari, indagini e processi – nei quali hanno sfilato dirigenti e funzionari della Digos, del Sismi e del Sisde – viene il mal di testa. I mandanti di quel duplice omicidio restano ignoti, impuniti. Non ci sono risposte, alle domande che Ilaria non aveva smesso di porre. Di certo c’è solo l’esito del processo di revisione a Perugia che nel 2016 ha assolto definitivamente il cittadino somalo Omar Hashi Hassan, precedentemente indicato come componente del commando dal “supertestimone” Gelle e condannato a 26 anni di carcere nel 2002.
Un tassello, un errore giudiziario costato ad Hassan 17 anni di carcere, che si aggiunge a una sequenza di testimonianze contrastanti e depistaggi. Una catena di ipotesi e teorie in cui si fa strada la certezza che Alpi avesse scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l’esercito e altre istituzioni italiane. E che per questo sia stata silenziata. Ma come ci era finita, Ilaria, dentro questo mistero che dura ancora? «1.400 miliardi di lire. Dove è finita questa impressionante mole di denaro? Alcune opere come la conceria e il nuovo mattatoio di Mogadiscio sono semplicemente inattivi », si legge tra i suoi appunti.
In Somalia ci era arrivata nel 1992. Si trattava di seguire, come inviata del Tg3, la missione di pace Restore Hope, promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991. Ma Ilaria aveva una pista, e aveva deciso di seguirla fino in fondo. In poco tempo il suo volto era diventato il volto delle donne assediate dai conflitti, la voce di chi la guerra la subisce sulla propria pelle. Ed è per questo che non è così difficile immaginarla oggi lì, in Ucraina, dove si pesca a fatica la verità tra bombe, macerie e colpi di propaganda incrociata. «Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità», ha ripetuto negli anni la mamma di Ilaria, Luciana Alpi. Che nel 2018 invece è morta senza aver ottenuto neanche un briciolo di ciò per cui si è battuta senza sosta.
UCCISI DUE VOLTE. 42 ANNI FA L’OMICIDIO DI ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 18 Marzo 2022.
Ventidue anni dal tragico assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, massacrati a Mogadiscio il 20 marzo 1994.
Uccisi due volte, non solo da quei killer e soprattutto dai mandanti ‘eccellenti’ rimasti regolarmente a volto coperto: ma anche da una giustizia che ha solo depistato in modo clamoroso e, soprattutto, vergognoso.
La Voce ha dedicato decine di inchieste al caso. Potete rileggerne alcune cliccando sui link in basso.
Trascorrono anni e anni di indagini ‘scientificamente’ a vuoto, con decine di inquirenti che si rimbalzano, in modo macabro, i fascicoli bollenti.
Solo il primo magistrato incaricato delle indagini, Giuseppe Pititto, aveva visto giusto e cominciato a percorrere le piste ad hoc: molto pericolose, perché arrivavano a toccare ambienti istituzionali. Quella toga, perciò, andava subito rimossa: ed è così che, per incanto, Pititto diventa ‘ambientalmente incompatibile’ e viene trasferito in un altro distretto giudiziario.
Indagini sciatte e intenzionalmente fuorvianti alla fine vengono indirizzate unicamente contro un giovane somalo, Hashi Omar Assan, che non c’entra niente con la vicenda.
Ma tanto serve a ‘sbattere il mostro in prima pagina’, ‘far bella figura’ e fregarsene di cercare i veri esecutori e mandanti.
Ed è così che la giovane vittima designata dalla giustizia (sic) di casa nostra finisce nel tritacarne, condannato nei tre gradi di giudizio senza prove (anzi con prove taroccate) e si becca una condanna senza fine.
Che sconta per ben 17 anni, quando succede, una volta tanto, il miracolo.
Un’inviata di “Chi l’ha visto”, Chiara Cazzaniga, fa quel che le nostre forze dell’ordine e soprattutto gli inquirenti non hanno mai voluto fare. Cioè trovare l’unico teste d’accusa servito a far condannare Omar Assan: si tratta di Ali Rage, alias Gelle. Il quale – incredibile ma vero – non solo non ha mai testimoniato in aula, ma è stato ‘gentilmente’ invitato a fuggire all’estero!
Per mesi ha vissuto tranquillamente a Roma, occupato in un’officina meccanica, addirittura accompagnato al lavoro con un’auto della nostra polizia di stato. Quindi si è provveduto ad organizzare la fuga, padròn la partenza. E’ stato accompagnato alla stazione, messo su un treno e spedito in Germania. Qualche mese di vacanza in terra tedesca, quindi il trasferimento in Inghilterra. Un’organizzazione meticolosa, da perfetta agenzia di viaggi.
Ed è proprio a Londra che l’ha trovato la coraggiosa e benemerita Cazzaniga. Lo ha intervistato e Gelle ha vuotato il sacco: è stata tutta una montatura, Omar Hassan non c’entra niente, lui è stato costretto a raccontare quella versione costruita da altri e ad indicare nel giovane somalo – che neanche conosceva – l’autore del duplice delitto.
IL COLOSSALE DEPISTAGGIO DI STATO
A questo punto il legale di Omar Hassan chiede la riapertura del caso.
Ed il tribunale di Perugia non fa fatica ad accertare la totale estraneità di Omar Hassan all’eccidio di Mogadiscio, assolvendolo da ogni accusa e rimettendolo in libertà: ma attenzione, dopo aver scontato 17 interminabili anni di galera. Lo Stato italiano, però, è generoso, e dopo pochi mesi l’ingiusta (sic) detenzione verrà ‘risarcita’ con 3 milioni e 180 mila euro. Spiccioli per una vita distrutta.
La sentenza di Perugia dovrebbe essere letta non solo in tutte le aule di tribunale di un paese nel quale la giustizia è ormai una pura utopia: ma anche in tutte le scuole e in quelle tivvù che (in buona compagnia della carta stampata) fanno solo autentica disinformazione, infarcendo di bufale e fake news i cittadini, come plasticamente e drammaticamente si vede in queste settimane con il conflitto in Ucraina.
Una sentenza, quella perugina, che parla senza mezzi termini di “depistaggio di Stato”, di indagini taroccate, di false piste: insomma, un vero museo degli errori & degli orrori, dal quale sarebbero dovuti scaturire un’inchiesta, e quindi un processo, proprio a carico di quei depistatori: che hanno nomi, cognomi e indirizzi ben precisi e chiaramente desumibili dall’imperdibile testo della sentenza, che fa – è proprio il caso di dire – storia.
Ma eccoci agli ennesimi paradossi.
DA PERUGIA AL PORTO DELLE NEBBIE
Non solo non è stato aperto alcun fascicolo giudiziario per accertare fino in fondo le responsabilità dei depistatori e portarli finalmente alla sbarra.
Ma addirittura il fascicolo perugino trasmesso alla Procura di Roma, affinché venisse riaperto il caso di Ilaria e Miran, sta ancora ammuffendo negli uffici di quel ‘porto delle nebbie’, oggi tale più che mai.
Ecco, infatti, cosa è incredibilmente successo dopo la sentenza di Perugia.
Il fascicolo è stato assegnato al pm capitolino Elisabetta Ceniccola, che non ha ravvisato, nei materiali perugini, elementi tali e sufficienti da giustificare la riapertura del caso e l’avvio di un nuovo processo.
Incredibile ma vero.
Quindi Ceniccola ha chiesto l’archiviazione del caso. La sua richiesta è stata controfirmata, come succede nelle vicende di maggior peso, dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone.
A questo punto manca solo la decisione del gip. Si tratta di Andrea Fanelli che tiene tra le sue mani il fascicolo per mesi e alla fine chiede al pm di approfondire alcuni punti, ben precisi, e li elenca: una dozzina di fatti circostanziati.
Ma che succede? Ceniccola sbriga presto il lavoro e, a suo giudizio, non ravvisa elementi utili a proseguire con ulteriori indagini. Tutto, secondo lei, è chiaro. Quindi chiede, per una seconda volta, l’archiviazione. E anche stavolta la richiesta viene controfirmata, quindi pienamente avallata, da Pignatone. Praticamente l’ultimo ‘atto’ compiuto da Pignatone in qualità di procuratore capo: va infatti in pensione. Ma presto è chiamato ad occupare una nuova, prestigiosa poltrona: quella di Presidente del Tribunale della Città del Vaticano.
Ma torniamo al caso Alpi-Hrovatin, dove il copione si ripete.
Il fascicolo torna al gip Fanelli che deve convalidare la richiesta di archiviazione oppure decidere di proseguire. La prosecuzione delle indagini, ritualmente, viene ottenuta di sei mesi in sei mesi.
Ebbene, Fanelli ne ha ottenuta una, poi delle altre non si ha più notizia.
Tutto finisce nelle solite nebbie capitoline.
Ad oggi, infatti, tutto è ancora fermo.
Firmato Franz Kafka.
P.S. Strenuamente continua, quasi nel deserto, la battaglia di ‘Ossigeno per l’informazione’, la coraggiosa associazione fondata e animata una quindicina d’anni fa da Alberto Spampinato, fratello del giornalista dell’Ora di Palermo Giovanni Spampinato, ammazzato il 27 ottobre 1972 dal fascista Roberto Campria, figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa
‘Ossigeno’ svolge una meritevolissima opera di informazione e monitoraggio sulle minacce ricevute quotidianamente dai giornalisti, non solo di tipo mafioso, ma anche ‘giudiziario’, cioè attraverso querele penali e citazioni civili che spesso e volentieri sono una vera e propria intimidazione contro giornalisti colpevoli solo di fare il loro dovere, spesso in territori border line e in contesti ad alto tasso criminale.
ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN. GIUSTIZIA NEGATA, E’ DEPISTAGGIO DI STATO. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 22 Gennaio 2017.
Depistaggio. L’impossibilità, fino ad oggi, di arrivare a una verità per la tragica morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assicurando alla galera esecutori e soprattutto mandanti di quella esecuzione, è dovuta a precisi depistaggi di Stato (italiano, in combutta con quello somalo). Depistaggi che hanno teso unicamente a coprire i reali responsabili, sbattendo invece in prima pagina e in galera un innocente, Omar Assan Hashi, che non c’entrava niente e che soltanto adesso, dopo aver scontato ben sedici anni di ingiusta detenzione, a 42 anni è tornato libero.
Le motivazioni della sentenza pronunciata il 19 ottobre dalla Corte d’Appello di Perugia e ora note rappresentano un pesantissimo j’accuse sia verso le tante inchieste fin qui portate avanti senza cavar un ragno dal buco (anzi, insabbiando regolarmente) che verso apparati dello Stato che hanno prima inventato e poi coperto il teste taroccato, Ahmed Alì Rage, alias Gelle, sulla cui unica versione s’è basata la condanna di Hashi: teste-base che peraltro non ha mai verbalizzato davanti ad una corte. Ai confini della realtà. Così come lo è l’assordante silenzio dei grossi media nazionali, tutti embedded (tranne un articolo de il Fatto e un altro del Secolo XIX di Genova) perchè la tragica fine di Ilaria e Miran sia per sempre dimenticata. E i responsabili continuino ad agire indisturbati.
DOPO 23 ANNI IL PRIMO SPIRAGLIO
Commenta Luciana Riccardi, la madre di Ilaria. “Finalmente un primo spiraglio dopo ventitrè anni di sofferenza per una verità calpestata e una giustizia negata. E’ incredibile come solo ora si arrivi al proscioglimento di un imputato del tutto estraneo all’omicidio di Ilaria e Miran, come noi abbiamo sempre sostenuto. Quindi adesso si ricomincia da capo. Ne ho viste di tutti i colori, con mio marito che da sette anni non c’è più ho lottato allo spasimo per la verità, dalle autorità solo parole ma nessun fatto concreto, sei magistrati che si sono alternati e l’unico che aveva subito capito che c’era sotto qualcosa di grosso, Giuseppe Pititto, è stato estromesso dall’inchiesta”.
Ed è stata la madre di Ilaria, mesi fa, a puntare i riflettori su uno dei personaggi chiave che ora emerge con chiarezza dalla pagine della sentenza di Perugia, l’ambasciatore italiano a Mogadiscio Giuseppe Cassini. Queste le sue parole subito dopo la sentenza del 19 ottobre che assolve Hashi: “sono furibonda per quello che hanno fatto e disfatto per coprire gli assassini e i mandanti del duplice omicidio. I giudici non hanno ascoltato i veri protagonisti di questo lungo depistaggio”. E poi: “dai verbali delle udienze emerge che l’ambasciatore Giuseppe Cassini ha portato in Italia il testimone Gelle, il quale accusa Hashi di aver sparato a Ilaria e Miran. Ma non c’è mai stato un giudice o una corte che lo abbiano interrogato. Hanno condannato un giovane sulla base di una sola dichiarazione”. Tenace nella ricerca della verità, in questi ventitrè anni, l’avvocato della famiglia Alpi, Domenico D’Amati, una vita in difesa dei principi di legalità.
Vediamo, a questo punto, cosa scrivono i giudici della corte d’Appello di Perugia, presidente del collegio Giancarlo Massei, giudici a latere Andrea Battistacci (relatore della sentenza) e Franco Venarucci.
In primo luogo, viene sottolineato che già anni fa, nel 2008, Hashi aveva presentato un’istanza di revisione del processo, basato sulla totale inattendibilità dei due testi, quello ‘oculare’, Gelle, e l’autista dei due giornalisti, Sid Abdi, accusati di calunnia nei confronti di Hashi dai suoi legali, Douglas Duale, che l’ha seguito fin dalle prime battute, e Natale Caputo. “Gli atti – scrivono le toghe perugine – erano stati trasmessi alla procura di Roma che aveva dato corso ad un’accidentata attività processuale a carico dei due testi: dopo alterne vicende, e dopo una iniziale richiesta di archiviazione non accolta, si era alla fine svolto un giudizio dibattimentale all’esito del quale Ahmed Alì Rege era stato assolto dal reato di calunnia con sentenza del 9 ottobre 2012, mentre il coimputato Sid Abdi era nel frattempo deceduto”.
IL TESTE CHIAVE SPARITO? LO TROVA CHI L’HA VISTO
Ma ecco che, man mano, arrivano “nuove prove”, che costituiranno la base della seconda richiesta di revisione avanzata dai legali di Hashi. In primo luogo l’intervista al “teste oculare”, Gelle, realizzata da Chiara Cazzaniga per Chi l’ha visto e andata in onda il 18 febbraio 2015. Mai ascoltato nel corso del processo, Gelle, perchè “sparito” e soprattutto mai cercato dagli inquirenti, che ne hanno anzi favorito il breve soggiorno in Italia e poi la fuga in Germania prima e in Inghilterra poi.
E infatti Chiara Gazzaniga non ha grandi difficoltà – tramite la comunità somala romana – a trovarlo a Birmingham e a farsi rilasciare le dichiarazioni-bomba, che così sintetizzano i giudici della corte d’Appello di Perugia: “Rage risultava risiedere da anni in Inghilterra e non era mai stato escusso quale testimone nel corso del dibattimento a carico di Hashi. Rage aveva riferito come, all’epoca dei fatti, non fosse stato presente nel luogo dell’attentato ma come si trovasse presso l’Ambasciata americana a Mogadiscio e come nulla sapesse dell’omicidio. Dopo alcuni anni dal fatto gli era stato chiesto di indicare nell’Hashi uno degli autori dell’omicidio in quanto l’Italia aveva interesse a chiudere in fretta la vicenda e come in cambio di tale ‘bugia’ gli fosse stato promesso denaro e protezione”. Più chiari di così, si muore…
Chiara Cazzaniga di Chi l’ha visto?
Secondo. Viene sottolineato che diversi soggetti, mai sentiti nel corso del dibattimento, e invece ascoltati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpi, “avevano negato che tra gli appartenenti al commando che aveva perpetrato il duplice omicidio facesse parte Hashi, soggetto che conoscevano personalmente”. E precisano: “Uno di tali soggetti a nome Ali Hassan Ossobow si era addirittura riconosciuto nell’immagine del filmato relativo alla scena dell’omicidio ripresa da un operatore di una televisione svizzera presente sul posto, immagine che era stata attribuita al teste Rage e che era stata utilizzata per effettuare la perizia antropometrica disposta dalla corte d’Assise di Appello di Roma che aveva costituito ulteriore elemento di riscontro della ‘presenza’ del teste sul luogo del duplice omicidio”.
Altri nuovi elementi emergono dalle dichiarazioni di due giornalisti, Massimo Alberizzi, all’epoca inviato del Corriere della Sera a Mogadiscio, e il corrispondente dalla Somalia per la Bbc, Aden Mohamed Sabrie. Autore di numerose inchieste su lavori & appalti gestiti dal Fai e della cooperazione italiana (suo un reportage sugli affari targati Techint del gruppo Rocca), Alberizzi “aveva smentito quanto riferito in merito all’attentato dall’autista della giornalista, Abdi. Costui, infatti, interrogato dall’Alberizzi dopo l’attentato, aveva affermato di non ricordare nulla dell’episodio e di non sapere chi fosse Hashi Omar Hassan”.
Nell’istanza di revisione dei legali di Hashi, poi, viene ricostruita la vicenda di una telefonata tra Sabrie “e un soggetto qualificatosi come ‘Gelle’ di cui il giornalista aveva parlato nella trasmissione ‘Veleni di Stato’, andata in onda il 21 marzo 2004. Telefonata di contenuto identico a quanto Rage aveva riferito alla giornalista Chiara Cazzaniga, nel corso della quale il presunto ‘teste oculare’ aveva negato di essere stato presente sul luogo dell’omicidio”. Altra testimonianza da novanta, mai prima presa in alcuna considerazione. E altra picconata al folle impianto accusatorio della sentenza che venne pronunciata in Appello e confermata in Cassazione.
I DIRETTORI DELLA TRAGICA SCENEGGIATA
Ma eccoci allo snodo fondamentale. Chi ha orchestrato la verità taroccata di Gelle? Chi l’ha ispirato? Quale regia? Ecco che, dalle pagine di Perugia viene fuori, a tutto tondo, la sagoma dell’ambasciatore tricolore. Esplicite le parole della sentenza e complessa ma chiara la ricostruzione di quel tragico scenario. “Emerge così la figura dell’ambasciatore Cassini, il quale si era recato in Somalia con l’incarico di tentare una riappacificazione tra i clan somali ed aveva ricevuto dal vicepresidente del consiglio dei ministri anche la raccomandazione di acquisire informazioni circa i responsabili del duplice omicidio. Nell’ambito di tale attività, a luglio del 1997 un funzionario dell’Unione Europea a Mogadiscio di nome Ahmed ‘Washington‘, somalo con passaporto tedesco, soggetto da lui ritenuto assolutamente affidabile, lo aveva messo in contatto con un altro individuo, di nome Andisaiem Shijno, persona altrettanto affidabile, che conosceva un teste oculare che si era trovato avanti all’hotel Hamana al momento del fatto, il cui soprannome era ‘Gelle’. (…)Nell’ottobre 1997 Gelle era giunto in Italia ed era stato sentito dalla Digos di Roma il giorno 10”.
In un’inchiesta del 30 ottobre scorso (vedi link in basso), la Voce ha dettagliato alcuni particolari sulle connection americane nel giallo Alpi: e in particolare su alcuni agenti della Cia, come Ibrahim Hussein, alias Malil, e il suo capo Mike Shankin: i due ‘mariti’ (morto in circostanze misteriose il primo, addirittura espulso dalla stessa Cia il secondo) della nostra Stefania Pace, dal 1988 a Mogadiscio con una sua Ong, CISP, che stranamente si era occupata dall’ultimo trasporto di Ilaria e Miran, sempre scortati dal servizio ufficiale Unisom. “La cordata di compagni di merende scrive la Voce – non è ancora finita. C’è anche John Spinelli, al secolo Leopard: Shankin e Spinelli saranno poi coinvolti anche nell’affare Abu Omar. Nel team figura un altro uomo targato Cia, e ben nascosto dietro un nome di battaglia, Hamed Washington. Ed è proprio l’amico di Shankin e Spinelli, Washington, a portare su un piatto d’argento all’ambasciatore Cassini il superteste taroccato, Gelle”. Un bell’ambiente di affaristi, spioni & 007.
Riferendosi anche alla relazione finale della Commissione d’inchiesta, vengono ora sottolineate dai giudici di Perugia “le anomale modalità attraverso le quali l’ambasciatore Cassini aveva rintracciato Gelle. (…) Il Cassini aveva ritenuto le affermazioni di Gelle del tutto attendibili avendo totale fiducia in Ahmed Washington, tramite il quale lo aveva rintracciato, tanto che aveva riferito le modalità della sua individuazione al procuratore della repubblica di Roma Vecchione, specificando come si trattasse dell’autista del giornalista dell’Ansa Remigio Benni, circostanza che aveva probabilmente appreso dallo stesso Gelle e che si era dimostrata del tutto infondata”. Da rammentare che fu proprio il procuratore capo Salvatore Vecchione a scippare l’inchiesta a Pititto, genesi di tutte le non inchieste successive.
Torniamo al collaboratore somalo della Bbc, Sabrie, che racconta di essere stato “contattato per telefono da un soggetto che si era qualificato come Gelle il quale gli aveva manifestato la propria sorpresa per la condanna di Hashi basata principalmente sulle sue dichiarazioni che non aveva mai riprodotto in dibattimento. L’interlocutore telefonico affermava inoltre come avesse formulato una falsa accusa nei confronti di Hashi, in ciò stimolato dall’ambasciatore Cassini che lo aveva allettato con la prospettiva di un ingresso in Italia in cambio di un ‘aiuto’ per chiudere la vicenda relativa al duplice omicidio. Tanto che, in cambio delle sue dichiarazioni, aveva ottenuto un ‘visto’ su un passaporto falso che si era procurato. Specificava il suo interlocutore come proprio per evitare di dover ripetere le false accuse davanti ai giudici si era reso irreperibile, convinto che Hashi sarebbe stato assolto”.
Spunta anche un interrogatorio di polizia in cui l’onnipresente Ali Rage Gelle parla di come lo stesso “Ahmed Washington era interessato alla sua storia ed era perfettamente a conoscenza della falsità della sua ricostruzione. (…) In altra circostanza sembra dare conto di una effettiva consapevolezza anche dell’ambasciatore Cassini in merito alla falsità della sua ricostruzione. (…) Soggetto che ben potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata di cui non era in alcun modo consapevole, essendo all’epoca interessato solo a lasciare la Somalia. Attività di depistaggio che ben possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate ricerche”.
AUTISTI DI POLIZIA PER IL TESTE TAROCCATO
Non solo il già incredibile “volo” in compagnia dell’ambasciatore Cassini, che si mostra quanto mai ospitale con il fuggiasco. Ma per le ancora più incredibili fasi successive, quando le nostre autorità gli trovano un comodo lavoro in un’officina meccanica, lo accompagnano e lo vanno a prendere in auto blu, quando ha altro da fare e fa filone telefonano per giustificarne l’assenza. Ecco in che modo commentano le toghe perugine quanto dichiarato dal datore di lavoro temporaneo nel nostro Paese, Giuseppe Scomparin. “Il teste ha confermato in primo luogo la sua conoscenza diretta con il dottor Masia, funzionario del ministero dell’Interno, a motivo del fatto che la sua officina si occupava della blindatura delle autovetture di servizio presso lo stesso ministero ed il Masia era il responsabile della motorizzazione della polizia. Approfittando di tale rapporto di conoscenza Masia gli aveva chiesto di poter tenere presso la sua azienda il Gelle, vi era necessità infatti che il cittadino somalo non rimanesse ‘in mezzo alla strada’ durante il suo soggiorno in Italia”.
Continua la story: “Scomparin non aveva idea di chi fosse Gelle, né il motivo del suo soggiorno in Italia; all’epoca non sapeva neppure il suo nome né gli aveva fatto domande, credeva di fare un favore personale ad un qualche ‘pezzo grosso’ della Polizia. Ha specificato come il Gelle veniva portato in officina da personale della polizia che lo veniva a riprendere a fine giornata; si trattava di persone che all’apparenza avevano un controllo costante sugli spostamenti del cittadino somalo tanto che, quando un giorno non veniva condotto presso la sua officina, riceveva una telefonata che gli preannunciava la sua assenza”.
A bocca aperta le toghe della Corte d’Appello davanti a questa ricostruzione. Così notano: “osserva la Corte come, ancora una volta, ci si trova di fronte a condotte che generano sconcerto: Gelle era il teste chiave di un dibattimento che aveva avuto, e che all’epoca ancora aveva, estrema risonanza in relazione alla vicenda sulla quale doveva tentare di far luce; era stato rintracciato in Somalia e appositamente fatto venire in Italia con le modalità segnalate, era costantemente sotto controllo dopo che aveva reso le sue dichiarazioni alla polizia e al pm, tanto che dall’ottobre 1997 erano state a lui costantemente consegnate somme di denaro per le sue necessità di vita; e malgrado ciò, di punto in bianco, era scomparso, all’apparenza senza lasciare traccia, eludendo la sorveglianza e senza che risultino essere state effettuate delle ricerche mirate per cercare di rintracciarlo. Ricerche che sono state proficuamente svolte anni dopo, senza neppure particolari difficoltà, non dalle forze di Polizia ma da giornalisti della Rai che non avevano certo le possibilità investigative di cui all’epoca si disponeva per le ricerche!”.
Sbigottiti i giudici della Corte d’Appello di Perugia. Per questo e per tutti i buchi neri di cui l’omicidio di Ilaria Ali e Miran Hrovatin è regolarmente disseminato.
E ora? Si comincia da capo. Ma ci sarà mai la volontà autentica di identificare killer e mandanti, svelare collusioni e complicità, alzare il velo su quel duplice delitto di Stato?
I CASI DI ILARIA ALPI E PAOLO BORSELLINO. DEPISTAGGI DI STATO & MURI DI GOMMA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 9 Giugno 2018.
Quando è lo Stato a depistare. Quando sono alte istituzioni a calpestare la verità. Quando alcuni magistrati fanno a pezzi quel poco che ormai resta della giustizia.
Succede in modo sempre più clamoroso in due vicende che hanno segnato il tragico destino del nostro Paese: la strage di via D’Amelio in cui sono stati trucidati Paolo Borsellino e la sua scorta; e l’assassinio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Tutto succede nel più totale silenzio da parte delle massime autorità, con il Capo dello Stato Sergio Mattarella fino ad oggi muto, spettatore assente. Nel tombale silenzio di tutte le forze politiche impegnate a spartirsi le poltrone di sottogoverno, mentre le opposizioni sono ormai in via di liquefazione. E nel più assordante silenzio mediatico.
Autentici muri di gomma.
A levarsi, solitarie, le voci di Luciana Riccardi, madre di Ilaria, e di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo. Due donne coraggio nel deserto.
ROMA E PERUGIA, PROCURE CONTRO
Partiamo dalla freschissima, ennesima richiesta di archiviazione tombale ribadita l’8 giugno al tribunale di Roma dal pm Elisabetta Ceniccola e super avallata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone.
Il caso Alpi-Hrovatin, secondo loro, deve sparire per sempre nel dimenticatoio. Assassini e mandanti non esistono: di certo si è trattato di un suicidio provocato dalla calura somala.
Uscendo dai paradossi ed entrando nelle spirali della giustizia di casa nostra, la imperturbabile pm Ceniccola se ne frega delle ultime acquisizioni arrivate dalla procura di Firenze e relative alle intercettazioni di alcuni somali che nel 2012 parlavano di “quei due italiani ammazzati a Mogadiscio”. Inutili.
Se ne sbatte della montagna di documenti portata in giudizio dai legali di Luciana Riccardi, ossia Giovanni D’Amati, Giuseppe D’Amati e Carlo Palermo.
E soprattutto se ne fotte della sentenza cardine pronunciata dal tribunale di Perugia poco più di un anno fa, con la quale è stato scagionato il povero Hashi Omar Hassan (16 anni di galera da innocente) e soprattutto in cui è stato messo nero su bianco che la costruzione del teste taroccato a tavolino, Ahmed Ali Rage, al secolo Gelle, ha rappresentato un vero e proprio “Depistaggio di Stato”.
Raramente capita di leggere una sentenza tanto chiara, inequivocabile e densa di contenuti come quella scritta a Perugia. In cui viene ricostruito per filo e per segno il Grande Depistaggio, minuto per minuto, settimana per settimana, mese per mese. Con un Gelle nel motore, addestrato a puntino per mentire davanti ad un pm; per fuggire con l’aiuto della polizia di stato, per trovare un lavoro grazie alla stessa polizia che addirittura lo ha accompagnato in una officina meccanica romana per due mesi andandolo pure a prendere con l’auto di servizio; e infine agevolandone la fuga in Germania prima e in Inghilterra poi.
Ai confini della realtà.
Gelle non ha mai testimoniato in dibattimento, eppure – caso più unico che raro, il teste chiave che non ribadisce in aula le sue accuse – la vittima predestinata è stata condannata a 26 anni, di cui 16 scontati. Perchè un mostro andava comunque sbattuto in prima pagina e un colpevole a tutti i costi trovato.
Se ne sono altamente fregate, le autorità tutte, di andare a cercare Gelle. Che se la spassava libero come un fringuello a Londra. Dove non lo hanno trovato gli 007 di casa nostra né l’Fbi, ma l’inviata di “Chi l’ha visto” Chiara Cazzaniga, con i non eccelsi mezzi di cui può disporre un normale giornalista.
Chiara Cazzaniga
Le parole di Gelle sono state la chiave del processo di Perugia, dove le toghe non hanno avuto difficoltà a capire la trama, svelare le alte connection, comprendere fino in fondo il meccanismo del clamoroso “Depistaggio di Stato”.
Un perfetto assist per la procura di Roma. La quale non doveva fare altro che leggere e capire la sentenza, riaprire il caso, fare un po’ di indagini e scovare killer e mandanti. Impresa non titanica, visto che moltissimi elementi probatori erano contenuti proprio nella sentenza perugina.
Come mai Ceniccola e Pignatone non hanno pensato di interrogare quei poliziotti depistatori, di cui nella sentenza di Perugia vengono fatti nomi e cognomi? Perchè non hanno richiamato a verbalizzare l’allora ambasciatore italiano a Mogadiscio? Perchè non hanno ‘invitato’ a deporre i tanti che hanno chiuso gli occhi e voltato la sguardo dall’altra parte?
Niente, alla procura di Roma hanno pensato bene di incrociare le braccia. E ora mettono insieme quattro frasi: “Non c’è alcuna prova di presunti depistaggi legati alla gestione in Italia del teste Ali Rage”. Alcuna prova? Prove colossali che solo chi non vuol vedere non vede.
E aggiungono: “C’è improbabilità di raggiungere dei risultati, anche alla luce della complessa situazione politica dello Stato africano, della divisione in clan ostili tra loro, dell’inesistenza di forze di polizia che potessero dare affidamento e dell’assenza, ancor oggi, di relazioni diplomatiche”.
Capito? Tutta colpa dei somali!
E sulle ultime indagini fiorentine: “le nuove intercettazioni – viene sostenuto – sono sostanzialmente irrilevanti e non rappresentano uno spunto solido per avviare nuovi accertamenti. Non modificano di una virgola il quadro probatorio”.
E chissenefrega della sentenza di Perugia! Ai confini della realtà.
Oserà dire una qualcosa, adesso, il Csm? O come al solito resterà muto, sordo e cieco?
L’ultima parola, comunque, spetta al giudice Andrea Fanelli, che dovrà pronunciarsi in modo definitivo sulla richiesta di archiviazione firmata dal suo capo, Pignatone, e dalla pm Ceniccola. Staremo a vedere.
UN ALTRO PENTITO TAROCCATO E L’AGENDA DEI MISTERI
Da un depistaggio all’altro eccoci alla strage di via D’Amelio. Siamo arrivati al Borsellino quater, con un percorso processuale caratterizzato dal taroccamento del pentito di turno, Vincenzo Scarantino, che esattamente nello stesso modo di Gelle è stato addestrato di tutto punto dagli inquirenti.
Sandro Provvisionato, sulle colonne della Voce, negli scorsi anni ha ricostruito in modo perfetto quel depistaggio, con una serie di inchieste da far tremare le vene e i polsi. Facendo nomi e cognomi, anche stavolta, degli artefici della connection.
Contro i quali si è più volte scagliata Fiammetta Borsellino, la coraggiosa figlia del grande magistrato che alcune settimane fa ha incontrato in carcere i fratelli Graviano, e con i quali avrebbe voluto un secondo incontro, invece negato dai vertici della magistratura, sia locale che nazionale.
Ha appena ribadito le accuse in occasione del festival “Una marina di libri”. Ecco le sue accorate parole: “Oggi la ricerca della verità è ancora più difficile perchè è connessa alla ricerca delle ragioni della disonestà di chi questa verità doveva scoprirla. Io non smetto di chiederla. Il contributo di onestà non devono darlo solo i mafiosi, ma anche le persone delle istituzioni che sanno”. E non parlano.
A proposto del falso pentito Scarantino, la figlia di Borsellino chiama in causa non solo i poliziotti ma anche diversi magistrati che sin dalle prime battute avrebbero avallato le tante deviazioni. “Sono stati loro stessi autori di un processo caratterizzato da grossolane anomalie. Neanche il CSM ha saputo dare delle risposte”. Tanto per cambiare.
Continua il j’accuse di Fiammetta: “Mafia e politica si fanno guerra o si mettono d’accordo. In quei giorni evidentemente si misero d’accordo. Mentre tutti sussurravano a mio padre che il tritolo per lui era arrivato. Lo sapeva anche il procuratore Pietro Giammanco che però non lo avvertì. E nessuno ha mai sentito il bisogno di avvertirlo”.
Per la storia, pochi giorni prima della strage di via Capaci Giammanco partecipò ad una cena a casa di Paolo Borsellino. L’ultima cena. Erano presenti alcune toghe ‘amiche’, tra cui Anna Maria Palma.
Anna Maria Palma ha istruito i primi processi Borsellino, coadiuvata dall’icona antimafia (allora giovane virgulto fra le toghe siciliane) Nino Di Matteo: insieme hanno diretto “l’operazione Scarantino”. A rivelarlo, nel corso di un’udienza del Borsellino quater, lo stesso pentito taroccato. Che non ha mancato di ricordare come i ‘suggeritori’ gli fossero sempre vicino: anche nel corso delle stesse udienze. Quando non ricordava una ‘battuta’, chiedeva di andare in bagno, dove trovava chi (il poliziotto o lo 007 di turno) gli rammentava la parte.
La giornalista e scrittrice Roberta Ruscica, in occasione della presentazione a Napoli del suo libro “I Boss di Stato – I protagonisti, gli intrecci e gli interessi dietro la trattativa Stato-Mafia”, ha ricordato: “Ho conosciuto Anna Maria Palma e ho creduto anche io in quella pista che si è poi rivelata del tutto sbagliata. E ricordo un particolare che mi raccontò Palma: era entrata in possesso della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. L’aveva avuta nelle sue mani. Non mi ha detto a chi poi l’aveva consegnata o che fine avesse fatto”.
Una storia sulla quale nessuno, fino ad oggi, ha mai pensato di far luce.
Come mai? Un mistero tra i misteri.
ILARIA ALPI. 3 MILIONI AL SOMALO INNOCENTE. MA GIUDICI & DEPISTATORI NON PAGANO MAI. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci l'1 Aprile 2018.
Sapete quanto spazio hanno dedicato i big della carta stampata al risarcimento record assegnato dalla procura di Perugia ad Hashi Omar Hassan, il somalo che si è fatto 17 di galera da innocente per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? 5 righe a pagina 17 il Corriere della Sera, 9 righe a pagina 19 la Repubblica.
Una vergogna che continua da anni, un silenzio che più assordante non si può, un saracinesca calata sulla tragica morte di due colleghi, vittime di un “omicidio di Stato”: o meglio, di Stati, visto che è ormai chiara la connection tra servizi segreti italiani e somali.
E vittime di un clamoroso depistaggio, come è arrivata a stabilire l’ultima sentenza di Perugia che ha scagionato Hashi e dettagliato i contorni di un depistaggio perfetto, messo in piedi da pezzi dello Stato, ben compresi i vertici della nostra Polizia che hanno ‘inventato’ a tavolino il teste d’accusa Ali Rage, alias Gelle, poi dandogli un lavoro per tre mesi a Roma, infine coprendone la fuga in Inghilterra: senza muovere un dito – of course – per ritrovarlo. C’è riuscita, senza troppi intoppi, la giornalista di Chi l’ha visto Chiara Cazzaniga, che lo ha intervistato e si è fatta raccontare come si è realmente svolto quel depistaggio.
UNA SFILZA DI GIUDICI ADDORMENTATI
Ma partiamo dalle ultime notizie. Il tribunale di Perugia ha appena stabilito a favore di Hashi la cifra del risarcimento per “ingiusta detenzione”, 3 milioni 181mila euro. Una media di 500 euro al giorno per i 6.363 giorni che l’innocente somalo ha scontato (a quanto pare il doppio rispetto ai circa 250 euro previsti, perchè compresi i danni morali). Resta in piedi un interrogativo: chi restituirà quei 17 anni di vita a Hashi, entrato in galera da ragazzo e uscito con un’esistenza distrutta?
E sorge subito spontaneo un altro interrogativo. Perchè non sono chiamati a pagar dazio i magistrati (ben sette) che si sono avvicendati per risolvere (sic) il giallo non cavando un ragno dal buco, anzi in svariati casi contribuendo in modo concreto a depistare? E qualora non si fossero accorti di manovre tese a depistare, andrebbero interdetti dalle funzioni per manifesta incapacità.
Del resto, è stata la mamma di Ilaria Alpi, Luciana Riccardi, a lanciare più volte accuse da novanta contro quelle toghe che non hanno mai cercato verità e giustizia, insabbiando tutto.
Una emblematica vicenda: quella del procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Quando c’è stata l’ultima riapertura del fascicolo, Pignatone ha convocato Luciana Riccardi e, candido come un giglio, le ha domandato: “Mi dica, signora, chi vuole che le interroghi?”.
Un copione già scritto, la precisa non-volontà di riprendere le indagini e di far luce su quelle tragiche esecuzioni. Perfino dopo che la sentenza di Perugia aveva finalmente alzato il coperchio su misteri & cullusioni ai vertici più alti. Bastava solo seguire quelle tracce, dar seguito alla sentenza di Perugia, avere la volontà di cercare: invece niente, il silenzio più tombale. Tanto da far pensare che la procura di Roma sia ripiombata in quelle nebbie che l’hanno storicamente avvolta.
Dicevamo di inquirenti e giudici. Come mai nessuno paga il fio per le non-indagini? Per aver ostacolato il corso della giustizia? Non esiste una “responsabilità civile” per la quale gli italiani hanno votato in un preciso referendum? Ma quella responsabilità, in pratica, non esiste; o meglio resta solo sulla carta. Perchè a giudicare è la sezione disciplinare del Csm, composta, ovviamente, da toghe: e, si sa, toga non morde toga. Per cui la norma è rimasta lettera morta.
DOPO PITITTO, IL DILUVIO
Solo il primo inquirente, Giuseppe Pititto, aveva cercato realmente di indagare. Era entrato in contatto con la Digos di Udine, la quale aveva raccolto una mole di notizie bollenti. Lui, Pititto, aveva subito deciso di vederci chiaro e stava acquisendo elementi da non poco. Poi, ovviamente, il disco rosso: quel magistrato non deve più ficcare il naso tra certe faccende, bisogna sottrargli il caso. D’improvviso, infatti, diventò “ambientalmente incompatibile” con la procura di Roma: il solito strumento usato dal Csm per levarsi di torno quei pochi magistrati scomodi, quelle mosche bianche che vogliono fare sul serio il loro lavoro.
Pititto se ne va, passa in un tribunale tranquillo del centro Italia a lavorare tra scartoffie e furti di bestiame. Poi esce dalla magistratura, disgustato. E finisce in un cimitero degli elefanti, la partecipata della provincia di Roma Ater, che si occupa di gestione degli immobili pubblici. Alcuni anni fa ha scritto un libro di fanta-politica, “Il Grande Corruttore”: il caso di una giornalista che indaga su traffici internazionali di armi tra l’Italia e lo Yemen e scopre quelli organizzati dal ministro degli Interni. In controluce, naturalmente, il caso Alpi. Da mesi è stata annunciata una ri-edizione, ma non se ne hanno notizie: fa paura a qualcuno?
Gli anni trascorrono producendo il nulla, neanche topolini. Nel frattempo viene costruita a tavolino la gola profonda ‘Gelle‘, che verbalizza solo davanti alla polizia e al pm, ma non testimonierà mai in dibattimento. Incredibile ma vero, quella ricostruzione farlocca servirà a condannare Ashi a 17 anni. La storia fa il paio con quella per la strage di via D’Amelio e un pentito costruito anche allora a tavolino da polizia e inquirenti, Vincenzo Scarantino: e anche in quel caso 9 innocenti sconteranno 16 anni di galera. E come allora – almeno fino ad oggi – i responsabili del depistaggio non sono neanche stati sfiorati dall’ombra di una indagine!
Torniamo di nuovo ai giorni nostri. Il 17 aprile il gip del tribunale di Roma dovrà pronunciare la parola definitiva sulla richiesta di archiviazione del pm Elisabetta Cennicola, controfirmata dal procuratore capo Pignatore. Tanto più incredibile, quella richiesta, proprio perchè è arrivata alla luce della sentenza di Perugia che denuncia i depistaggi. E proprio per questo i legali di Luciana Riccardi hanno chiesto lo spostamento del processo a Perugia.
All’udienza del 17 aprile assisterà anche Omar Hashi. “Non posso dimenticare quei 17 anni di carcere – osserva – e il 17 aprile sarò a Roma davanti al tribunale. Anch’io voglio la verità come la madre di Ilaria”. Dal canto suo il somalo dopo vent’anni ha potuto incontrare sua madre, che vive in Svezia.
UN AVVOCATO PER TUTTE LE STRAGI
Parlavamo dei quotidiani di casa nostra e del loro silenzio assordante. E mamma Rai, dove Ilaria e Miran lavoravano e per la quale hanno dato la vita, che fa? Sit in di qualche ora a parte, poi un radunetto sotto il cavallo Rai, per il resto zero assoluto.
Anche la Rai si è costituita parte civile nel processo. E sapete a quale principe del foro si sono affidati? Ad Alfonso Stile. Che intervistato dalla Voce all’indomani della sentenza di Perugia sull’innocenza di Hashi, così rispose alla domanda se finalmente si riaprivano speranze di giustizia: “Sarei molto cauto – dichiarò il 22 gennaio 2017 – una cosa è l’assoluzione di Hashi, un’altra cosa è risolvere il caso. Una cosa è parlare di depistaggi, un’altra trovare i responsabili del duplice omicidio”.
Ci sarà una nuova inchiesta fatta sul serio? “Sa, sono passati 23 anni…”.
Esperto di stragi, Alfonso Stile. Al processo per la strage del sangue infetto in corso da due anni a Napoli, difende ex dirigenti e funzionari del gruppo Marcucci, accusati di non aver effettuato i dovuti controlli su sangue e derivati immessi in commercio fino al 1991 che hanno causato migliaia di vittime (ma solo 9 parti civili sono oggi presenti al processo partenopeo).
Non basta: Stile difende anche l’ex numero uno di Rete Ferroviaria Italiana Michele Elia, condannato in primo grado (come Mauro Moretti) per la strage di Viareggio nella quale bruciarono vivi 33 innocenti.
Sono sempre gli innocenti a pagare. E lorsignori a farla franca.
ILARIA ALPI. LA GIORNALISTA CHE VENNE UCCISA DUE VOLTE. NEL PIU’ TOTALE SILENZIO. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 6 Febbraio 2019.
Uno dei più colossali depistaggi di Stato trova oggi la sua ennesima archiviazione. Per il caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, infatti, il gip del tribunale di Roma, Andrea Fanelli, dopo la richiesta avanzata dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, ha messo la pietra tombale su quell’omicidio e su quel depistaggio.
Non bastavano le ultime news su un altro omicidio e un altro clamoroso depistaggio, quello di Paolo Borsellino: ora la giustizia (sic) di casa nostra concede il bis.
Un’altra vergogna che suona come un ceffone in faccia a tutti gli italiani che ormai vedono la Giustizia quotidianamente calpestata, senza che nessuno ad alcun livello, tantomeno politico, si alzi per dire qualcosa.
Totali muri di gomma, emblematizzati dagli omertosi e complici silenzi dei media.
Avete letto un rigo su Repubblica o il Corriere della Sera per Alpi e Borsellino?
IL BUIO DOPO PERUGIA
Sintetizzamo le ultime vicende del giallo Alpi. Partiamo dalla clamorosa sentenza di Perugia, che due anni fa ha permesso di riaprire il caso. Una sentenza che ha scagionato Hashi Omar Assan, il giovane somalo che aveva scontato 16 anni di galera ingiustamente: il mostro sbattuto in prima pagina dai media e soprattutto dagli inquirenti.
Proprio come nel caso Borsellino, anche questa volta la condanna di un innocente e la non-caccia ai veri esecutori e mandanti, è stata prodotta da un teste taroccato, Ali Rage, alias Gelle, preparato di tutto punto della polizia per fornire una versione fasulla, inventata da cima a fondo.
Gelle, infatti, verbalizzò davanti a un pm ma non fu mai presente al processo: nonostante ciò Hashi Assan venne condannato, basandosi solo su quel teste, senza alcun altro riscontro. Ai confini della realtà.
Quel teste, che era stato preparato dalla polizia a fornire quella versione accusatoria contro Hashi Assan – proprio come Vincenzo Scarantino per i primi processi Borsellino – dopo ebbe paura, trascorse un paio di mesi a Roma sotto protezione della polizia, dai cui agenti veniva accompagnato in un’officina auto e la sera riportato nel suo rifugio. Poi Gelle partì in tutta tranquilltà per la Germania, quindi traslocò in Inghilterra.
Nel frattempo le forze dell’ordine neanche lo hanno cercato, pur dovendo testimoniare al processo, che comunque è andato incredilmente in porto, con la condanna di Hashi Assan.
Chi invece riesce a trovare Gelle con facilità e senza ovviamente poter contare sui mezzi di cui dispongono gli investigatori, è l’inviata di “Chi l’ha visto” Chiara Cazzaniga. Si informa presso la comunità somala di Roma, ottiene alcuni recapiti londinesi, vola lì e dopo alcune perlustrazioni trova senza tanti problemi Gelle. Il quale le rilascia una lunga intervista, in cui tira fuori la verità: certo non quella che fu costretto a raccontare al pm romano che la bevve d’un fiato, ma tutta un’altra storia. Dove Hashi Assan non c’entra assolutamente niente.
Racconta il suo “taroccamento”, la versione che venne obbligato a recitare, e il dopo, con la protezione della polizia, il lavoro presso l’officina della quale fornisce tutti i dettagli, la comoda fuga e il quieto soggiorno londinese.
L’intervista consente all’avvocato del giovane somalo, Douglas Duale, di far riaprire il caso, competente per territorio Perugia, visto che vi sono implicati magistrati romani.
Una sentenza che fa storia, quella perugina, perchè si parla a chiare lettere di depistaggio di Stato. Nella sentenza viene ricostruito tutto il depistaggio mossa per mossa, azione per azione. Vengono fatti i nomi dei poliziotti – anche eccellenti – coinvolti, vengono forniti fortissimi elementi probatori, tracciate alcune solide piste.
A questo punto è un gioco da ragazzi, per la Procura di Roma, proseguire su quel solco tracciato da Perugia. I legali della famiglia Alpi (Antonio D’Amati, Giovanni D’Amati e Carlo Palermo) e soprattutto la madre di Ilaria, Luciana Riccardi, vedono finalmente uno squarcio nel buio e ovviamente chiedono la riapertura delle indagini.
Ma nonostante quella stradocumentata sentenza alla quale basterebbe dare un seguito, il pm Elisabetta Ceniccola della procura romana incredibilmente chiede l’archiviazione del caso, perchè a suo parere non vi sono elementi tali da proseguire nelle indagini, anche perchè sarebbe ormai trascorso troppo tempo. A controfirmare, quindi avallare in toto, quella richiesta di archiviazione è il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Siamo sempre più ai confini della realtà.
Eccoci agli ultimi mesi. Ad un certo punto sembra aprirsi un altro spiraglio, perchè dalla procura di Firenze arrivano dei materiali. Nel corso di un’indagine su altri fatti, i procuratori gigliati si imbattono in alcune intercettazioni telefoniche tra somali del 2011. In esse si parla anche dell’omicio di Ilaria e Miran.
A Roma quindi si riapre il caso: o almeno sembra. Ma trascorono solo pochi mesi e di nuovo il pm Ceniccola chiede l’archiviazione, nonostante i legali di Ilaria abbiano nel frattempo prodotto altre memorie e presentato altri elementi. Niente, la procura capitolina ormai sembra tornata quel porto delle nebbie di tanti anni fa.
La richesta del pm Ceniccola a questo punto passa al vaglio definitivo del gip, Andrea Fanelli. Che inizia ad esaminare carte e documenti, poi chiede altro tempo prima di pronunciarsi.
La sua decisione, per l’archiviazione finale, arriva il 6 febbraio, e nei prossimi giorni verrà notificata alle parti, le quali potranno capire le motivazioni di tale scelta.
LA MAGISTRATURA GUARDA
Recapitolando. E’ noto e stranoto che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio all’epoca stavano indagando sui traffici di armi e rifiuti super tossici.
Che avevano scoperto i fili di quei traffici, i quali vedevano come protagonisti faccendieri italiani in combutta con i Servizi segreti sia somali che, soprattutto, italiani.
Che la Somalia era diventata un’ottima discarica per interrare enormi quantità di rifiuti in cambio di armi.
Che la rotta principale per l’interramento era la superstrada Mogadiscio-Bosaso, dove venivano ammassati e poi nascosti centinaia e centinaia di bidoni tossici.
Che quei traffici venivano addirittura agevolati dai soldi della cooperazione internazionale e del Fai (fondo aiuti internazionali)
Che vi erano impegnate imprese anche “eccellenti” le quali non verranno mai toccate e anzi negli anni vedranno aumentare i loro fatturati. La circostanza è tra l’altro documentata in altri procedimenti giudiziari in cui vengono tirate in ballo.
Che l’ambasciatore italiano dell’epoca sapeva – anche delle inchieste di Ilaria – ed è stato a guardare. Nè ha collaborato con le autorità italiane che dal canto loro facevano finta di indagare.
Che 7 magistrati si sono alternati nelle inchieste senza mai cavare un ragno dal buco.
Che solo il primo magistrato impegnato, Giuseppe Pititto, aveva imboccato la pista giusta. Per questo l’indagine gli è stata sottratta senza alcun motivo, la rituale “incompatibilità ambientale”. Dopo alcuni anni Pititto, nauseato, ha lasciato la magistratura, è passato a fare il dirigente alla Provincia di Roma e ha scritto un thriller che ricalca in modo perfetto il caso-Alpi: “Il grande corruttore”, dove viene descritto il delitto di una giornalista, un omicidio di Stato in piena regola (il mandante è addirittura un ministro che diventerà presidente della repubblica…).
Che all’epoca la Digos di Udine aveva raccolto molto materiale che già indicava la pista giusta (rifiuti-armi-cooperazione).
Che il Consiglio superiore della magistratura non ha mia detto una parola su quei magistrati.
E’ altrettanto noto che la famiglia Alpi non ha mai smesso di denunciare l’inerzia dei magistrati e la totale assenza della politica nel chiedere verità. Hanno rinunciato a portare avanti il “Premio Alpi” che ogni anno si teneva a Rimini, delusi dai colpevoli silenzi dei media. La madre di Ilaria ha sempre detto: “Lotterò fino alla fine dei miei giorni perchè sia fatta giustizia per mia figlia”. Non ce l’ha fatta, è morta un anno fa.
Ed è soprattutto evidente che la giustizia italiana ormai è morta e sepolta. Le ultime due picconate sono state inferte per il caso Borsellino e per quello di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Uccisi due volte.
PAOLO BORSELLINO E ILARIA ALPI. IL DEPISTAGGIO DI STATO CONTINUA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 24 Agosto 2021.
I due più clamorosi “Depistaggi di Stato”, per la strage di via D’Amelio e per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, dopo tanti anni ancora avvolti nel mistero, esecutori e soprattutto mandanti sempre ‘a volto coperto’.
Due ‘suicidi’ che hanno la rituale impronta dell’omicidio perfetto (o quasi), ossia quelli del capo-comunicazioni al Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, e del campione di ciclismo Marco Pantani, sepolti sotto una lapide che si chiama ‘archiviazione’.
Due stragi, sempre di Stato, quelle di Ustica e del Moby Prince, ugualmente senza risposta, gli autori liberi come fringuelli, le vittime uccise due volte, i familiari privati anche di uno straccio di verità giudiziaria.
E’ questa la giustizia di casa nostra. Capace di calpestare la memoria, di massacrare l’elementare diritto a conoscere i nomi dei colpevoli, di veder passare il tempo senza che una foglia si muova.
E la politica? Tace, in modo sempre più complice e omertoso. In grado solo di prodursi in vomitevoli commemorazioni che hanno sempre più il sapore di una beffa. E al massimo (come nel caso Moby Prince) nella creazione delle consuete, inutili commissioni parlamentari d’inchiesta.
Poco più d’un anno fa, a maggio 2020, abbiamo effettuato una ricognizione su quei gialli, su quei buchi neri nella storia del nostro martoriato Paese. Solo la punta dell’iceberg, casi emblematici di fronte ad una montagna di gialli irrisolti, di morti senza giustizia, famiglie destinate a soffrire per il resto delle loro esistenze.
Aggiorniamo qui di seguito quella ricognizione. Che si fa sempre più desolante e umiliante, perché è trascorso – inutilmente – un altro anno.
Pesante come un macigno.
IL PIU’ GRANDE DEPISTAGGIO DI STATO
Eccoci al più grande ‘Depistaggio di Stato’ nella nostra storia: la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Quattro processi farsa sull’eccidio e un processo per depistaggio che vede alla sbarra tre poliziotti, i quali all’epoca lavoravano con l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, il quale è morto da 15 anni e non più replicare alle accuse.
Abortito, invece, il possibile processo a carico dei magistrati che guidarono le prime inchieste, vale a dire Anna Maria Palma e Carmelo Petralia; nessuna ombra giudiziaria ha mai sfiorato l’icona antimafia Nino De Matteo, subentrato nelle indagini strada facendo ma da sempre nel mirino dei j’accuse di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice trucidato.
E abortito anche il possibile processo a carico del maggiore dei carabinieri Giovanni Arcangioli, il primo ad aver tenuto tra le sue mani l’Agenda rossa che apparteneva a Paolo, la chiave di tutti i misteri.
Eccoci ai veri nodi: l’Agenda rossa e il taroccamento del pentito-chiave di tutta la story, Vincenzo Scarantino, la cui falsa testimonianza, costruita dagli inquirenti (quali?) a tavolino è servita a far condannare (hanno scontato 16 anni) degli innocenti e, soprattutto, a depistare, facendo perdere anni e anni preziosi.
Sentiamo le ultime parole pronunciate da Salvatore Borsellino, il fratello del giudice, pronunciate il 19 luglio scorso, in occasione dell’ennesimo anniversario di quella strage senza colpevoli e raccolte dall’Adn Kronos.
“La verità su via D’Amelio si saprà, purtroppo, solo quando tutti gli attori di questa scellerata storia saranno morti”.
“Tante volte si dice che lo Stato non può processare se stesso. E sono stati proprio pezzi deviati dello Stato che hanno intavolato la trattativa”.
“Il depistaggio comincia nel momento in cui un capitano dei carabinieri si allontana dalla macchina di Paolo con la sua borsa che poi viene rimessa sul sedile, sperando in un ritorno di fiamma dell’inferno che c’era in via D’Amelio. E sperando che andasse tutto perduto, compresa la borsa. Ma su questo non si è mai veramente indagato, perché se è vero che il capitano Arcangioli è stato assolto dal reato di aver sottratto l’agenda, a mio avviso si sarebbe dovuto indagare su che fine abbia fatto l’agenda di mio fratello e che fine ha fatto prima che la borsa venisse restituita alla moglie e alla figlia”.
“Probabilmente anche il Castel Utveggio ha avuto un ruolo. Se non è stato azionato il telecomando da lì, sono state coordinate le operazioni, come dimostrano le telefonate intercorse tra il Castello e via D’Amelio”. Perché – si chiede Salvatore – le indagini di Gioacchino Genchi furono fermate?
Guarda cosa, in entrambe le vicende (Agenda rossa e Castel Utveggio), fa capolino una presenza: quella di Anna Maria Palma.
Secondo la testimonianza di una ottima giornalista d’inchiesta, Roberta Ruscica, autrice de “I Boss di Stato” (Sperling & Kupfer, 2015), l’agenda è passata (anche) per le mani di Palma.
Come mai della vicenda non è trapelato mai nulla?
Come mai nessun inquirente ha chiesto a Palma conto di tutto ciò? Misteri.
Più volte, nelle cronache su via D’Amelio, s’è intravista la sagoma di Castel Utveggio, ritenuto un avamposto dei servizi segreti. Da lì, secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato azionato il telecomando. Secondo altri (come rammenta Paolo Borsellino) avrebbe quantomeno svolto un ruolo di ‘coordinamento operativo’. Sta di fatto che a Castel Utveggio, per alcuni anni, ha trovato sede il ‘CERISDI’, un misterioso centro studi. E chi ha presieduto, in quegli anni, il CERISDI? Adelfio Elio Cardinale, un pezzo da novanta della politica siciliana, sottosegretario alla Salute nel governo Monti, big della radiologia sicula e – udite udite – marito di Anna Maria Palma.
Quella stessa Palma che anni fa ha querelato la Voce proprio per le sue ricostruzioni sulla strage di via D’Amelio (già allora delineavamo il netto profilo di un Depistaggio di Stato) e, nelle pagine della sua querela, arrivava a sostenere che la pista di Castel Utveggio non ha mai trovato alcun riscontro e per questo è stata subito abbandonata dagli inquirenti.
Come mai, oggi, non un signor nessuno, ma addirittura Salvatore Borsellino, ‘riesuma’ quella pericolosa pista?
E’ in grado, qualche toga, di chiarire l’ennesimo arcano?
COME TI TAROCCO UN ALTRO TESTE CHIAVE
Passiamo all’altro colossale Depistaggio di Stato, viste le tantissime indagini e inchieste taroccate in occasione dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Non s’è più riuscito a tenere il conto, col passar degli anni, circa il numero dei magistrati che hanno avuto tra le mani il bollente fascicolo.
Solo uno ci aveva subito visto giusto: e proprio per questo motivo è stato presto sostituito, fatto fuori – udite udite – per ‘incompatibilità ambientale’: si trattava di Giuseppe Pititto(dopo alcuni anni ha lasciato la magistratura e scritto un libro dove si parla senza mezzi termini di pressioni istituzionali), il quale aveva immediatamente intuito, e cominciato a suffragare con prove e riscontri, che l’affare era grosso, toccava il maxi business dei fondi per la cooperazione internazionale e soprattutto innominabili traffici di armi e rifiuti super tossici. Insomma, un mix davvero esplosivo: in grado prima di eliminare due presenze diventate troppo ingombranti e scomode, Ilaria e Miran. Poi tale da consigliare l’uscita precoce di scena dell’inquirente altrettanto scomodo: il quale rischiava sul serio di alzare il velo sui pupari di quei traffici e di quegli affari.
Per questo si rendeva necessario, poi, indagare per finta, come hanno fatto le toghe che si sono susseguite nel tempo; quindi ‘Depistare’ a tutto spiano.
E’ così che spunta, anche stavolta, un provvidenziale teste, da truccare e taroccare al punto giusto. Si chiama Ahmed Ali Rage, alias Gelle, un somalo che racconta alla polizia una storia tutta da bere, e capace di sbattere il mostro in prima pagina: un altro somalo, Hashi Omar Hassan, che proprio sulla scorta di quella sola testimonianza, senza alcun altro riscontro e mai confermata in dibattimento (circostanza che ha dell’incredibile) viene condannato in tutti i tre gradi di giudizio, e si fa 16 anni – anche lui – di galera da perfetto innocente!
Ci vorrà solo un miracoloso reportage dell’inviata di ‘Chi l’ha visto’, Chiara Cazzaniga, a far emergere la totale innocenza di Hashi. Cazzaniga, infatti, riesce a rintracciare Gelle a Londra, lo intervista e ne ottiene una candida confessione: “Hashi non c’entra niente, mi sono inventato tutto. L’ho fatto perché sono stato obbligato dalla polizia”.
E fa nomi, cognomi e indirizzi di tutti coloro i quali hanno partecipato alla combine.
Il copione del maxi depistaggio è descritto punto per punto, dettaglio per dettaglio, nella sentenza pronunciata quattro anni fa dal tribunale di Perugia. Che non solo scagiona totalmente Mohamed, ma indica con chiarezza la pista, tutta ‘istituzionale’, da seguire per individuare i veri responsabili del duplice omicidio.
Ma cosa succede a questo punto?
L’inchiesta su quel tragico, duplice omicidio passa per competenza alla procura di Roma. La quale ha la strada spianata: basta seguire le tracce perugine, le piste indicate in quella sentenza, lavorarci sopra, effettuare ulteriori riscontri, sentire tutti i testimoni che occorre sentire e ci sono ottime chance per scoperchiare il pentolone dei misteri.
E invece no.
Il pm incaricato delle indagini, Elisabetta Cennicola, chiede ben presto l’archiviazione del caso. A questo punto la decisione spetta al gip: che chiede ulteriori indagini. Ma Ceniccola, anche questa volta, risponde picche e vuole a tutti i costi l’archiviazione: la sua richiesta viene controfirmata da procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Il quale dopo poche settimane va in pensione: che non comincia neanche, perché il 3 ottobre 2019 viene subito catapultato su un’altra poltrona eccellente, quella di Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Cin cin.
Ma torniamo al gip, Andrea Fanelli, il quale per la seconda volta si rifiuta di firmare per quella archiviazione. E ordina ulteriori indagini: elencando, per filo e per segno, tutti i punti da chiarire.
Il termine è scaduto oltre un anno fa, il 4 maggio 2020.
Da allora il silenzio è calato su tutta la vicenda. I legali della famiglia Alpi (Carlo Palermo e Giovanni D’Amati, figlio dello storico avvocato degli Alpi, Giuseppe D’Amati) hanno più volte sollecitato il gip ma non è arrivata alcuna risposta.
Siamo in un clima perfettamente kafkiano. Con un’inchiesta che s’è letteralmente avvitata su se stessa e persa nelle consuete nebbie del porto giudiziario capitolino.
Possibile che la memoria di Ilaria e Miran non venga degnata neanche dello straccio di una risposta?
Possibile continuare a vivere solo di sterili commemorazioni, mentre esecutori e mandanti se la godono da decenni in beata pace?
Possibile che nessun depistatore istituzionale venga nemmeno sfiorato da un’inchiesta – per una buona volta seria – e venga sbattuto davanti ad una corte?
ANCHE PIER PAOLO PASOLINI “DOVEVA MORIRE”
Dicevamo del famigerato porto delle nebbie, quella procura romana in cui, nel corso dei decenni, sono state insabbiate inchieste e processi a bizzeffe.
Come in un altro caso, non meno clamoroso. Quello sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, riaperto cinque anni fa dopo le rivelazioni di Pino Pelosi, il presunto killer, prima di morire, e la richiesta del test sul DNA avanzata dai legali della famiglia Pasolini.
Un test che ha rivelato fatti e circostanze che più inquietanti non si può: ossia che sulla scena del delitto non c’erano solo Pasolini e Pelosi, come sempre ritenuto, ma almeno altri due soggetti. Con un contesto che cambia radicalmente: non omicidio a sfondo sessuale, ma assassinio in piena regola. Per la serie: Pasolini “Doveva morire”, così come è successo per Aldo Moro (da qui il titolo del libro firmato da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato).
Pasolini – la Voce lo ha scritto più volte – venne ammazzato per motivi ‘politici’. Aveva infatti scoperto troppo – da autentico giornalista d’inchiesta – sull’omicidio del giornalista palermitano Mauro De Mauro, sull’affaire ENI, su un altro omicidio eccellente (quello dell’allora presidente del Cane a sei zampe, Enrico Mattei), e sulle acrobatiche imprese del suo successore, Eugenio Cefis, il protagonista di quella ‘Razza Padrona’ che dominerà la scena economico-finanziaria degli anni seguenti.
Anche stavolta il copione è lo stesso. Hai individuato la pista giusta, quella fornita dal DNA, devi solo percorrerla, continuare nelle indagini.
E invece cosa succede? Niente. Il pm incaricato delle indagini, Francesco Minisci, non muove un dito. Non si ha notizia di alcun concreto atto istruttorio mai effettuato nei mesi di presunte indagini. E quindi il caso passa sotto la rituale naftalina.
Ancora in campo, battagliera come sempre, un’amica storica di Pasolini, Dacia Maraini. La quale un paio di mesi fa, nel corso di un’intervista rilasciata sempre all’Adn Kronos in occasione di una festa del libro a Palermo, dichiara: “L’inchiesta sulla morte di Paolini va riaperta. Adesso ci sono gli strumenti tecnologici avanzati, rispetto a 50 anni fa. Si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli, o macchie di sangue non viste. Perché certamente non è stato Pelosi a uccidere Pier Paolo ma un gruppo di persone, questo sembra certo. Ma chi erano non lo sappiamo. Evidentemente fa comodo che la morte di Pasolini rimanga un enigma, un enigma storico…”.
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
GIORGIO AMBROSOLI: UN VERO AVVOCATO SENZA FRONTIERE! A cura di Lavinia Lys Brera (Studentessa di Giurisprudenza) su Lavocedirobinhood.it sabato 31 luglio 2010
L’11 luglio 2010 sono passati 31 anni dell’omicidio di stato dell’Avv. Giorgio Ambrosoli.
Un uomo libero e incorruttibile che può definirsi a tutti gli effetti un vero Avvocato senza Frontiere con la “A” maiuscola, dal cuore puro e nobile.
Come ci ha ricordato il figlio Umberto, è morto per difendere la propria libertà e gli interessi della collettività.
“Difendere la propria libertà diventa il modo per rappresentare gli interessi della collettività”. Uomini liberi si nasce e, spesso, si muore.
Un avvocato come pochi, un maestro di vita, che merita di essere annoverato tra i più significativi e generosi esponenti della battaglia contro il perverso connubio tra mondo criminale e mondo politico finanziario nell’Italia degli anni ’70.
Nel settembre del ’74 Giorgio Ambrosoli assume l’incarico di commissario liquidatore della Banca privata italiana, una delle banche di Michele Sindona, noto banchiere della mafia, che gode di altolocate amicizie e protezioni.
Per i successivi cinque anni, fino al suo omicidio avvenuto il 12 luglio 1979, a Milano, dedicherà il suo impegno professionale e la sua stessa vita a cercare di fare luce sul crac dell’uomo d’affari siciliano, che progressivamente rivela il coinvolgimento di noti mafiosi, politici, magistratura, P2, Vaticano, servizi segreti e ambienti criminali statunitensi.
Dopo essere stato oggetto di vari tentativi di corruzione e promesse di fulgide carriere nell’ambito dei circoli stessi contro cui stava cercando di combattere, l’avv. Ambrosoli comincia a ricevere sempre più frequentemente minacce di morte. Gli viene fatta terra bruciata intorno e l’avvocato dal cuore generoso e incorruttibile comincia a sapere con certezza che verrà ucciso, come testimonia la lettera-testamento che scrive alla moglie nel 1975: “Anna carissima, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I. (Banca Privata Italiana n.d.r.) atto che ovviamente non soddisfarà molti e che è costato una bella fatica.
Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese.
Ricordi i giorni dell’Umi (Unione Monarchica Italiana n.d.r.) , le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo.
I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [… ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa.”
La notte del 12 luglio 1979, dopo anni di minacce e paure, infatti, viene freddato con quattro colpi di pistola sulla via di casa, dopo una cena con amici, da un killer americano, ingaggiato dallo stesso Sindona, che confesserà l’omicidio nel 1984.
Al funerale non parteciperà alcuna personalità politica né vi saranno manifestazioni di particolare solidarietà da parte delle istituzioni, nonostante le circostanze della sua morte non siano un mistero per nessuno. Negli anni che seguono la sua scomoda vicenda sarà insabbiata, il suo nome mai pronunciato, finché, dal 1992 in avanti, la sua figura comincia invece ad essere celebrata come modello di onestà e la sua vicenda ad essere guardata come un esempio di impegno civile.
Come spiega il figlio Umberto nell’intervista rilasciata al blog di Beppe Grillo, Giorgio Ambrosoli ha servito lo Stato, nella sua qualità di liquidatore della Banca di Sindona, con la stessa diligenza e rettitudine che avrebbe riservato ai suoi clienti, rifiutandosi di piegarsi alla norma della dilagante corruzione con l’accettazione delle reiterate proposte degli ambienti politici di salvare la banca dissestata, così scaricando il peso finanziario delle operazioni dei “grandi” sui cittadini contribuenti.
Induce alla riflessione la scelta di questo avvocato senza frontiere che ha dato la vita pur di difendere la propria moralità, la propria fede nel principio di legalità e la propria coscienza civile.
Seduta tra i banchi dell’Università Statale di Milano, cui sono iscritta in quanto studentessa di Giurisprudenza, mi guardo intorno e mi domando quanti di noi sarebbero, o meglio saranno, capaci di seguire questo coraggioso esempio. Lavinia Lys Brera
Giorgio Ambrosoli. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Giorgio Ambrosoli (Milano, 17 ottobre 1933 – Milano, 11 luglio 1979) è stato un avvocato italiano.
Nominato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana e delle attività finanziarie del banchiere Michele Sindona, fu assassinato l'11 luglio 1979 da un sicario ingaggiato dallo stesso Sindona.
Biografia
Origini e formazione
Nato da una famiglia borghese di forte impronta cattolica e conservatrice, figlio dell'avvocato Riccardo Ambrosoli (impiegato all'ufficio legale della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde) e Piera Agostoni, dopo aver ricevuto "un'educazione fondata su una robusta fede cattolica", frequentando il Liceo - Ginnasio Alessandro Manzoni di Milano, Ambrosoli si lega a un gruppo di studenti monarchici e finisce per militare nell'Unione Monarchica Italiana. Seguendo le orme del padre, nel 1952, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano e, dopo il conseguimento della laurea nel 1958, con una tesi in diritto costituzionale sul Consiglio Superiore della Magistratura e l'esame da procuratore, inizia l'attività professionale nello studio dell'avvocato Cetti Serbelloni.
Nel 1962 sposa, nella chiesa di San Babila a Milano, Anna Lorenza Gorla, per tutti Annalori. Dal matrimonio nasceranno tre figli: Francesca (nel 1968), Filippo (1969-2009) e Umberto (nel 1971). Dopo alcuni anni di attività, nel 1964, inizia a specializzarsi nel settore fallimentare delle liquidazioni coatte amministrative e viene chiamato a collaborare con i commissari liquidatori della Società Finanziaria Italiana.
Il crack della Banca Privata
Nel settembre 1974 fu nominato dall'allora governatore della Banca d'Italia Guido Carli commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, guidata sull'orlo del crack finanziario dal banchiere siciliano Michele Sindona, al fine di esaminarne la situazione economica prodotta dall'intricato intreccio tra politica, alta finanza, massoneria e criminalità organizzata siciliana.
I sospetti sulle attività del banchiere siciliano nascono già nel 1971, quando la Banca d'Italia, attraverso il Banco di Roma, inizia a investigare sulle attività di Sindona nel tentativo di evitare il fallimento degli istituti di credito da lui gestiti: la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria. L'allora governatore Guido Carli, chiaramente motivato dalla volontà di non provocare il panico nei correntisti, decide quindi di accordare un prestito a Sindona, anche in virtù della benevolenza dell'amministratore delegato dell'istituto romano Mario Barone. Quest'ultimo fu cooptato come terzo amministratore, modificando appositamente lo statuto della banca stessa, che ne prevedeva solo due: nel caso specifico, Ventriglia e Guidi.
Tale prestito fu accordato con tutte le modalità e transazioni necessarie e fu incaricato il direttore centrale del Banco di Roma, Giovanbattista Fignon, di occuparsi della vicenda. Le banche di Sindona vennero fuse e prese vita la Banca Privata Italiana di cui Fignon divenne vicepresidente ed amministratore delegato. Contro tutte le aspettative, Fignon andò a Milano a rivestire la carica e comprese immediatamente la gravità della situazione. Stese numerose relazioni, ricostruì le operazioni gravose e il sistema societario messi in piedi da Sindona e dai suoi collaboratori e ne ordinò l'immediata sospensione. In effetti Sindona, falsificando le scritture contabili e usando la Fasco AG come uno schermo per le sue avventure finanziarie, aveva usato indebitamente la liquidità depositata presso le due Banche milanesi (Banca unione e Banca privata finanziaria) che all'epoca in cui venne nominato Ambrosoli erano state da poco fuse - anche se solo sul piano formale - nella Banca privata italiana, come mostra la Prima relazione del commissario liquidatore redatta da Ambrosoli nel 1975.
Nel settembre del 1974, Fignon consegnò a Giorgio Ambrosoli la relazione sullo stato della Banca. Fignon continuò nel suo operato, tanto da essere citato anche nelle agende dell'avvocato Ambrosoli, che nulla poteva immaginare di ciò che sarebbe seguito. Ciò che emerse dalle investigazioni indusse, nel 1974, a nominare un commissario liquidatore che venne individuato nella figura di Giorgio Ambrosoli.
Le minacce e le pressioni
In questo ruolo, Ambrosoli assunse la direzione della banca e si trovò ad esaminare tutta la trama delle articolatissime operazioni che il finanziere siciliano aveva intessuto, principiando dalla controllante società "Fasco", l'interfaccia fra le attività palesi e quelle occulte del gruppo. Nel corso dell'analisi svolta dall'avvocato emersero le gravi irregolarità di cui la banca si era macchiata e le numerose falsità nelle scritturazioni contabili, oltre alle rivelazioni dei tradimenti e delle connivenze di ufficiali pubblici con il mondo opaco della finanza di Sindona.
Contemporaneamente a questa opera di controllo Ambrosoli cominciò ad essere oggetto di pressioni e di tentativi di corruzione. Queste miravano sostanzialmente a ottenere che avallasse documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se si fosse ottenuto ciò lo Stato Italiano, per mezzo della Banca d'Italia, avrebbe dovuto sanare gli ingenti scoperti dell'istituto di credito. Sindona, inoltre, avrebbe evitato ogni coinvolgimento penale e civile.
Ambrosoli non cedette, sapendo di correre notevoli rischi. Nel 1975 indirizzò una lettera alla moglie in cui scrisse: «Anna carissima, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente dì ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il paese. Ricordi i giorni dell'Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il paese e non per i partiti: ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l'incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato - ne ho la piena coscienza - solo nell'interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: ed hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo. I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto [... ] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell'altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi [...] Giorgio»
Nel corso dell'indagine emerse, inoltre, la responsabilità di Sindona anche nei confronti di un'altra banca, la statunitense Franklin National Bank, le cui condizioni economiche erano ancora più precarie. L'indagine, dunque, vide coinvolta non solo la magistratura italiana, ma anche l'FBI. Ai tentativi di corruzione fecero presto seguito minacce esplicite. Malgrado ciò, Ambrosoli confermò la necessità di liquidare la banca e di riconoscere la responsabilità penale del banchiere. Nella sua indagine sulla banca di Sindona, Ambrosoli poté contare solo su Ugo La Malfa come referente politico, mentre il maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre gli fece da guardia del corpo.
Nonostante le minacce di morte, infatti, ad Ambrosoli non fu accordata alcuna protezione da parte dello Stato. In Bankitalia, poté contare sul sostegno di Paolo Baffi, il governatore, e di Mario Sarcinelli, capo dell'Ufficio Vigilanza, ma solo fino al marzo del 1979, quando entrambi furono incriminati per favoreggiamento personale e interesse privato in atti d'ufficio nel corso di un'inchiesta sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti di credito legata al caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano. Entrambi furono però integralmente prosciolti in istruttoria nel 1981. Baffi si dimise il 16 agosto 1979, lasciando l'incarico di Governatore a Carlo Azeglio Ciampi, mentre per Sarcinelli fu eseguito il mandato di arresto in carcere. Silvio Novembre, il maresciallo della Guardia di Finanza che fu stretto collaboratore e amico di Ambrosoli, parlerà "dell'isolamento nel quale eravamo costretti a vivere".
In questo periodo Ambrosoli ricevette una serie di telefonate intimidatorie anonime nelle quali il suo interlocutore, indicato da Ambrosoli con il termine convenzionale di "picciotto", per via del suo accento siciliano, gli intima, via via sempre più in maniera esplicita, di ritrattare la sua testimonianza resa ai giudici statunitensi che indagavano sul crack del Banco Ambrosiano, fino a minacciarlo di morte. Solo nel 1997, nell'ambito del processo al senatore Giulio Andreotti, a Palermo, grazie alle rivelazioni del pentito Giacomo Sino, l'autore delle telefonate anonime fu identificato in Giacomo Vitale, massone e uomo d'onore, nonché cognato del boss mafioso Stefano Bontate, il quale poi scomparve misteriosamente inghiottito dalla "lupara bianca" nel luglio 1989. In un clima di tensione e di pressioni anche politiche molto forti, Ambrosoli concluse la sua inchiesta. Avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale il 12 luglio 1979.
L'omicidio
La sera dell'11 luglio 1979, rincasando dopo una serata trascorsa con amici, Ambrosoli fu avvicinato sotto il portone della sua casa, in via Morozzo della Rocca 1, da uno sconosciuto. Questi si scusò e gli esplose contro quattro colpi 357 Magnum. A ucciderlo fu il malavitoso statunitense William Joseph Aricò, la pistola l'aveva comprata da Henry Hill (Il pentito, sulla cui vita reale si basa il film di Martin Scorsese del 1990, Quei bravi ragazzi) che era stato dal 1974 al 1977 suo compagno di cella nel penitenziario di Lewisburg insieme a Robert Venetucci. Nessuna autorità pubblica presenziò ai funerali di Ambrosoli, ad eccezione di Paolo Baffi, all'epoca Governatore della Banca d'Italia.
Le indagini giudiziarie
«Giornalista: "Secondo lei perché Ambrosoli è stato ucciso?" Giulio Andreotti: "Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi 'se l'andava cercando'".»
(Intervista a La storia siamo noi, 8 settembre 2010)
Il killer fu pagato da Sindona con 25 000 dollari in contanti ed un bonifico di altri 90 000 dollari su un conto bancario svizzero; a mettere in contatto Aricò con Sindona era stato il suo complice Robert Venetucci (un trafficante di eroina legato a Cosa Nostra americana) mentre, nei pedinamenti ad Ambrosoli per preparare l'omicidio, Aricò era stato accompagnato da Giacomo Vitale, l'autore delle telefonate anonime.
Nel 1981, con la scoperta delle carte di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, si ebbe la conferma del ruolo della loggia massonica P2 nelle manovre per salvare Sindona. Il 18 marzo 1986, a Milano, Michele Sindona e l'italo-americano Robert Venetucci furono condannati all'ergastolo per l'uccisione dell'avvocato. Restano invece ancora sconosciuti i mandanti, sebbene sia stata più volte accreditata l'ipotesi di Giulio Andreotti.
Omaggi postumi
Giorgio Ambrosoli non ebbe grandi riconoscimenti, nonostante il sacrificio estremo con cui aveva pagato la sua onestà e il suo zelo professionale. Secondo Carlo Azeglio Ciampi, «Ambrosoli era il cittadino italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità il suo compito e il suo dovere». Giulio Andreotti ha invece dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi "se l'andava cercando"», rivelando così indirettamente il suo mancato appoggio politico all'avvocato; in seguito, mutò la precedente affermazione dicendo di voler «fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto».
Il primo omaggio alla figura di Ambrosoli fu il libro di Corrado Stajano, intitolato Un eroe borghese. Dal libro è stato tratto nel 1995 il film omonimo diretto da Michele Placido. Due anni più tardi, nel 1997, furono raccolti per iniziativa del comune di Ghiffa in Ambrosoli. Nel rispetto di quei valori, con prefazione di Gherardo Colombo, la lettera-testamento, il ricordo della moglie Annalori e una serie di testimonianze (Marco Vitale, Giampaolo Pansa, Alberto Mazzuca, Umberto Ambrosoli, Maurizio De Luca, Corrado Stajano, Giuliano Turone, Silvio Novembre). Nel 2000 il comune di Milano, durante il primo mandato del sindaco Gabriele Albertini, dedicò una piccola piazza a Giorgio Ambrosoli in zona Corso Vercelli, e tre borse di studio.
Il Comune di Milano nel 2014 ha posto una targa in via Morozzo della Rocca 1, luogo in cui abitava Ambrosoli e luogo in cui fu ucciso la targa così recita:
GIORGIO AMBROSOLI, AVVOCATO
Milano, 17 ottobre 1933 – Milano, 11 luglio 1979
Medaglia d'oro al valor civile
"Commissario liquidatore di un istituto di credito, benché fosse oggetto di pressioni e minacce, assolveva all'incarico affidatogli con inflessibile rigore e costante impegno. Si espose, perciò, a sempre più gravi intimidazioni, tanto da essere barbaramente assassinato prima di poter concludere il suo mandato. Splendido esempio di altissimo senso del dovere e assoluta integrità morale, spinti sino all'estremo sacrificio.”
Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica – 12 luglio 1999
Milano, 19 MARZO 2014
Nel 2009, Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, anch'egli educato nella fede cattolica, tanto che i genitori lo avevano mandato a studiare presso i Padri Rosminiani di Domodossola, pubblicò Qualunque cosa succeda, ricostruzione della vicenda del padre «sulla base di ricordi personali, familiari, di amici e collaboratori e attraverso le agende del padre, le carte processuali e alcuni filmati dell'archivio RAI» (dalla quarta di copertina). Nello stesso anno è morto l'altro figlio, Filippo, a causa di un malore.
Nel 2014 Rai Uno manda in onda la mini-serie TV in due puntate "Qualunque cosa succeda. Giorgio Ambrosoli, una storia vera" per la regia di Alberto Negrin, con Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista. Il film è tratto dall'omonimo libro, di cui esce nello stesso anno la seconda edizione, con postfazione della presidente RAI Annamaria Tarantola, che all'epoca dei fatti narrati lavorava in Banca d'Italia (di cui è stata anche vicedirettrice generale).
Nel 2015 il disegnatore Gianluca Buttolo pubblica per l'editore ReNoir Comics il fumetto La scelta, con prefazioni di Umberto Ambrosoli e Gianpaolo Carbonetto, che ripercorre le vicende legate alla figura del commissario liquidatore della Banca Privata Italiana fino al suo assassinio.
Il comune di Roma, durante il primo mandato del sindaco Walter Veltroni, gli dedicò un Largo, in zona Nomentana. Ad Ambrosoli hanno dedicato vie, piazze e larghi anche altri comuni, tra cui Acireale, Alessandria, Amelia, Arcene, Baronissi, Bolzano, Catania, Cernusco sul Naviglio, Corbetta, Cornate d'Adda, Desio, Eboli, Firenze, Forlì, Fossano, Landriano, Monza, Nova Milanese, Portogruaro, Ravenna, Rodano, Reggiolo, Salerno, San Donato Milanese, Scanzorosciate, Scandicci, Seveso, Treviso, Varese, Volvera.
In occasione del 40º anniversario dell'uccisione, il comune di Montegridolfo ha ricordato la figura e l'insegnamento dell'avvocato Ambrosoli in Consiglio Comunale.
Il comune di Ghiffa (sul Lago Maggiore), dove Giorgio Ambrosoli è sepolto, ha dedicato all'avvocato milanese il proprio lungolago.
A Giorgio Ambrosoli sono intitolati:
l'Associazione Civile Giorgio Ambrosoli, con sede a Milano, che promuove la Giornata della Virtù Civile;
l'Associazione Giorgio Ambrosoli Salerno, che tramanda l'esempio dell'Avvocato con iniziative culturali di stampo giuridico e sociale e cui si deve l'intitolazione di "Largo Giorgio Ambrosoli" a tre piazze: la prima, nel centrale quartiere Torrione, a Salerno; la seconda, alle spalle dell'importante Chiesa di San Bartolomeo, a Eboli (SA); la terza, a Baronissi (SA).
l'Istituto Secondario Superiore in Viale della Primavera 207, Roma Centocelle;
la Scuola Primaria Statale in Via di Mantignano 154 Firenze
la Scuola Media Statale in Via Bellini Vincenzo 106, Vicenza;
la Scuola Media Statale di Tromello;
la biblioteca dell’Ordine degli avvocati di Milano
la Scuola di Formazione Forense della Facoltà di Giurisprudenza della Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" (Alessandria);
l'Istituto Professionale di Stato per l'Industria e l'Artigianato di Codogno;
l'aula 311 di via Festa del Perdono dell'Università degli Studi di Milano;
un'aula d'udienza del Tribunale di Vallo della Lucania;
l'aula delle udienze penali del Tribunale di Trento (dedicata a Fulvio Croce e Giorgio Ambrosoli)
l'aula 14 delle udienze (spesso dedicata alle procedure fallimentari) del Tribunale di Ravenna
l'aula magna del Liceo Scientifico e Classico Ettore Majorana di Desio;
la biblioteca dell'Ordine degli Avvocati di Milano;
il parco dinanzi alla entrata del palazzo di Giustizia di Arezzo;
un premio di laurea assegnato dal Comune di Milano;
una targa commemorativa nell'aula magna del Liceo classico Manzoni di Milano;
il presidio di "Libera" di Verbania;
il presidio di "Libera" di Arese.
il Centro Studi Sociali contro le mafie "Progetto San Francesco" di Cermenate (Co)
Filmografia
Cinema
Un eroe borghese, regia di Michele Placido (1995)
Televisione
Qualunque cosa succeda - miniserie TV, regia di Alberto Negrin (2014)
Giorgio Ambrosoli - Il prezzo del coraggio - docu-drama, regia di Alessandro Celli (2019)
Cortometraggi
Servo di verità - regia di Gaetano Troiano (2017)
Onorificenze
Medaglia d'oro al valor civile
«Commissario liquidatore di un istituto di credito, benché fosse oggetto di pressioni e minacce, assolveva all'incarico affidatogli con inflessibile rigore e costante impegno. Si espose, perciò, a sempre più gravi intimidazioni, tanto da essere barbaramente assassinato prima di poter concludere il suo mandato. Splendido esempio di altissimo senso del dovere e assoluta integrità morale, spinti sino all'estremo sacrificio. Milano, 12 luglio 1979.» — Milano, 12 luglio 1999.
Milano, 43 anni fa l'omicidio di Giorgio Ambrosoli: chi era e perché è stato ucciso. Il Giorno l'11 luglio 2022.
La sera dell'11 luglio 1979 il liquidatore della Banca Privata Italiana viene freddato sotto casa da un killer di Sindona. Alle 22 fiaccolata in suo ricordo
1979 – Viene ucciso Giorgio Ambrosoli non voleva essere un eroe
Era la sera dell'11 luglio 1979, una sera trascorsa in casa a vedere la boxe con gli amici. Poi la decisione riaccompagnarli a casa in macchina, questione di pochi minuti e il ritorno in via Morozzo della Rocca 1, zona Sant'Ambrogio, cuore della borghesia di Milano. Qui un uomo si avvicina: "Il signor Ambrosoli?". "Sì". "Mi scusi signor Ambrosoli". Quattro colpi di pistola al petto con una 357 Magnum mettono fine alla vita di Giorgio Ambrosoli, a soli 44 anni.
Chi è stato Giorgio Ambrosoli
Ci affidiamo alle parole del collega Mario Consani che così lo ha descritto in un articolo sul Giorno: "Un professionista onesto la cui unica colpa era quella di svolgere con competenza il delicato compito, conferitogli dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli, di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, la banca di Michele Sindona. Quando il sicario lo raggiunse sul portone di casa, la sorte di Ambrosoli era segnata da tempo e il primo a saperlo era lui", come scrisse in una lettera alla moglie poco prima del suo omicidio" "Non era certo un sovversivo l’avvocato Ambrosoli - ancora Consani - ma un moderato di simpatie monarchiche che non aveva mai vissuto fino a quel momento la politica in prima persona. Però mettere le mani nel crac da 400 miliardi di un banchiere che solo pochi anni prima Giulio Andreotti aveva gratificato del titolo di «benefattore della lira», non poteva che risultare impresa ad altissimo rischio, visto l’intreccio di interessi - dalla mafia alla P2, dallo Ior alla politica - che l’avvocato Ambrosoli andava a intaccare. Un’impresa da eroe borghese, come lo definì Corrado Stajano".
"Assunto l’incarico di commissario liquidatore, cominciò a scoprire piano piano la rete di protezione e i segreti del banchiere siciliano amico dei potenti. Più l’avvocato dimostrava che le banche di Sindona erano vicine all’insolvenza, più certi suoi amici come Licio Gelli e altri ancor meno presentabili facevano pressioni sul presidente Andreotti affinché al «benefattore» venissero risparmiati guai finanziari e giudiziari. «Ho dovuto pestare i piedi a troppa gente che sta nel Palazzo», rispose una volta Ambrosoli a un giornalista. A saldare il conto provvide per 25mila dollari William J. Aricò, con quei quattro colpi di pistola e le sue mezze scuse mentre premeva il grilletto".
La condanna di Sindona
Con la scoperta delle carte della Loggia P2 nella casa di Licio Gelli in Toscana, arriva la conferma del ruolo della loggia massonica nelle manovre per salvare Sindona. Il 18 marzo 1986, a Milano, il banchiere siciliano Michele Sindona - cui Ambrosoli non voleva fare sconti affinché non fossero tutti i contribuenti a pagare il crac della Banca Privata ma solo il vero responsabile - viene condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio dell'avvocato milanese. Due giorni dopo viene trovato morto in cella per avvelenamento da cianuro.
Certe ricorrenze negli anni con il 9 finale, di Giovanni Caprara, Antonio Carioti, Marco Imarisio, Federico Fubini, Aldo Grasso, Giangiacomo Schiavi, Paolo Valentino del 1 gennaio 2018 su Il Corriere della Sera.
1979-Ambrosoli, l’eroe borghese che vive ancora. È la notte dell’11 luglio 1979 quando l’avvocato Giorgio Ambrosoli paga con la vita i suoi no a un certo modo di fare finanza, a un certo modo di fare politica, a un certo modo di fare economia. Nel buio di via Morozzo della Rocca, a Milano, insieme ai bossoli di una 357 Magnum, resta sull’asfalto il coraggio di un uomo solo, di quelli che contraddicono la società in cui vivono, i suoi vizi e le sue paure. Era un avvocato serio, intransigente, il commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona. Da cinque anni lavorava sui conti truccati del finanziere siciliano alleato di mafiosi, massoni, ministri, generali e cardinali. Aveva scoperchiato intrecci occulti, speculazioni, finanziamenti sporchi, benedetti dalle istituzioni finanziarie e coperti dalla politica. Sapeva di essere in pericolo. Ma aveva cancellato dal suo codice le parole compromesso e accomodamento, cosciente di quel che faceva, in nome dell’onestà e della legge, ha scritto Corrado Stajano nel memorabile libro sul delitto Ambrosoli, intitolato L’eroe borghese, quasi un ossimoro in un Paese costretto a definire eroe chi fa il proprio dovere. Assassinato dalla mafia, da un killer venuto dall’America su mandato di Sindona, l’avvocato Ambrosoli è il simbolo di quella resistenza civile che si oppone a ogni malaffare. In un anno tremendo, avvolto da altre tenebre che si chiamano terrorismo, Brigate rosse, piste nere, P2, collusioni infami, il suo nome è una eccezione luminosa che evoca un’altra Italia, più civile, onesta, perbene. Ai funerali di un servitore dello Stato e della legge non ci sono uomini delle istituzioni: Andreotti dirà che un po’ se l’è cercata. Ma quarant’anni dopo quella morte annunciata Ambrosoli vive nelle piazze, nelle strade e nelle scuole: è una bandiera civile da alzare con orgoglio, la bandiera dell’onestà e della democrazia. (Giangiacomo Schiavi)
Ambrosoli, l’eroe borghese che l’Italia non ha dimenticato. Testo e Video di Antonio Castaldo del 10 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera/Tv. Ucciso a Milano l’11 luglio 1979. Il ricordo del figlio Umberto: «Per lui Paese si scriveva con la maiuscola». Il mese di luglio a Milano è sempre uguale. L’aria brucia sotto un sole martellante, ma il traffico, la gente, il ciclo continuo della metropoli in movimento è lo stesso di sempre. È estate piena, ma non è ancora tempo di vacanze. Era così Milano anche l’11 luglio del 1979, la sera in cui Giorgio Ambrosoli venne ammazzato. Il 29 gennaio di quello stesso 1979 i militanti di Prima Linea avevano ucciso a Milano il giudice Emilio Alessandrini. Il 20 marzo, a Roma, il delitto di Mino Pecorelli, giornalista depositario di molti segreti. E poi agenti di polizia e carabinieri caduti per mano del terrore. Solo un anno prima, l’8 maggio del 1978, il sequestro Moro si chiudeva con il ritrovamento del corpo dello statista in via Caetani. Sono gli anni di piombo. Ogni giorno qualcuno spara, assalta sedi politiche, uccide, minaccia, lancia bombe o progetta attentati. Ed è per questo motivo che, sebbene più volte minacciato, anche Ambrosoli girava per Milano senza scorta. Quella sera si disputava un incontro di pugilato. Ambrosoli aveva invitato nella sua casa di via Morozzo della Rocca alcuni amici per vedere il match. Finito il quale li aveva accompagnati a casa. Sceso dall’auto si sentì chiamare: «Avvocato Ambrosoli?». Ebbe il tempo di rispondere «sì». Poi William J. Arico, noto negli ambienti della «comunità italo-americana» di New York come Bill lo sterminatore, disse solo: «Scusi avvocato». E gli esplose contro 4 colpi di 357 magnum. Il «Corriere della Sera» del 29 settembre 1974 titolava a pagina 6: «Da domani sportelli chiusi alla Banca Privata di Sindona». Il giorno prima Ambrosoli aveva ricevuto dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli l’incarico di commissario liquidatore. Telefonando alla moglie Annalori per comunicarle la notizia, dirà: «Sono solo». Un solo commissario liquidatore per un fallimento da centinaia di miliardi. Non era raro a quei tempi, ma neppure comune. E soprattutto era anomalo considerando le forze in gioco. Per i cinque anni successivi Ambrosoli, che all’epoca aveva 41 anni e un’unica esperienza nel settore fallimentare, fronteggerà Michele Sindona, personaggio potente e spericolato, con alle spalle Giulio Andreotti e mezza Dc, con relazioni che spaziavano dalla finanza internazionale alla P2 di Licio Gelli, fino al gotha della mafia siciliana. «Per quattro anni e mezzo mio padre lavorò duro alla liquidazione della Banca Privata. I primi tempi, rimaneva in ufficio tutto il giorno. Lo vedevamo a casa solo i primi tempi», aggiunge Umberto Ambrosoli, avvocato a sua volta e da qualche anno anche consigliere regionale in Lombardia per il Pd. Nel 2009 ha scritto «Qualunque cosa succede», un libro che ricostruisce la vicenda del coraggioso genitore. Fin dai primi tempi tentarono di blandirlo, di convincerlo ad assumere un atteggiamento morbido nei confronti della proprietà, ovvero di Sindona. Che contro l’evidenza legale di un crac multimiliardario, tentò in ogni modo di ottenere un accordo con la Banca d’Italia. Voleva fare salva la sua banca e con questo obiettivo mobilitò tutti i suoi contatti: da Andreotti a Gelli, dal ministro Gaetano Stammati al sottosegretario Franco Evangelisti, fino ai vertici di Bankitalia ed a Enrico Cuccia, già all’epoca influente tessitore di trame finanziarie, che finì per minacciare nei modi più espliciti. «Poi un giorno papà viene in possesso fortuitamente di un telex inviato agli uffici della banca. Scopre così l’esistenza di alcune società estere. Erano le cassaforti di Sindona. In qualità di commissario liquidatore, ne assume la guida. Un’operazione che qualcuno definì avventata, ma che gli consentì di recuperare i denari frutto di operazioni illecite che il banchiere aveva occultato». Ponendosi a capo della Fasco, Ambrosoli entra nella cabina di regia del gruppo sindoniano, svelando l’intreccio di partecipazioni e il traffico di fondi che fluttuano per l’Europa, da una banca all’altra. Sono coinvolti lo Ior di Marcinkus e la Democrazia Cristiana, esposizioni con coperture scarse o nulle e interessi girati «a nero» ai diretti, potentissimi, investitori. Ambrosoli non si ferma, non ha paura dei nomi grossi che incontra lungo la strada, la sua è una marcia decisa, senza tentennamenti. E quando circa sei mesi dopo consegna alla Banca d’Italia il primo frutto del suo lavoro, lo stato passivo della Banca Privata (che tra l’altro taglia fuori lo Ior), acclude un biglietto per il governatore: «Con i migliori sentimenti di devozione per avermi dato modo di servire in qualche modo il Paese». La strategia adottata per fermare Ambrosoli è un crescendo rossiniano. Dagli ammiccamenti si passa ai messaggi intimidatori, alle visite in studio di strani personaggi, poi alle minacce a lui e ai suoi collaboratori, primo fra tutti Silvio Novembre, il maresciallo della Guardia di Finanza che gli fu vicino fino all’ultimo e che rischiò il trasferimento sul Monte Bianco a motivo della sua leale collaborazione. A maggio, due mesi prima dell’agguato, trova nel parcheggio della banca, proprio davanti alla sua Alfetta blu, una pistola rubata dalla cassaforte del suo ufficio. Ambrosoli va avanti. In contatto costante con i magistrati che indagano sul crac e protetto dalla sola Banca d’Italia, prosegue il suo lavoro. Non si ferma neppure quando la voce anonima dall’accento siculo che lui ormai amichevolmente chiama «il picciotto» per le continue chiamate, gli urla: «Lei è degno soltanto di morire come un cornuto e un bastardo». La mattinata del 11 luglio 1979, poche ore prima di spirare sulla barella di un’ambulanza con quattro proiettili in corpo, aveva terminato la lunga audizione per la rogatoria che di lì a cinque anni riporterà in Italia Sindona. L’uomo che tre gradi di giudizio riconosceranno come mandante materiale del suo omicidio. In Italia esistono 8 «vie Giorgio Ambrosoli», tre «piazza» o «largo Giorgio Ambrosoli», innumerevoli scuole, spazi universitari, biblioteche, aule di tribunali. Non si tratta dell’omaggio a un funzionario diligente. A un rispettoso servitore dello Stato. Non è solo questo. Con le targhe, le medaglie, le celebrazioni, l’Italia onora un uomo coraggioso, un uomo libero. Ambrosoli ha fatto molto più di quanto in realtà gli era umanamente chiesto. Se si fosse limitato all’ordinario, se avesse portato a termine la liquidazione senza infastidire i potenti, nessuno lo avrebbe biasimato. Anzi, per lui si sarebbero spalancate le porte di una luminosa carriera. Gherardo Colombo, il magistrato che con Giuliano Turone indagò sull’omicidio, confidò un giorno ad Umberto: «Gli sarebbe bastato un sì talmente piccolo che nessuno se ne sarebbe accorto. E se qualcuno lo avesse notato, non avrebbe potuto opporre argomenti al fatto che si era trattato di un atto dovuto». Ma come con condivisibile ammirazione ama ripetere suo figlio, Giorgio Ambrosoli era «un uomo libero, persino dalla preoccupazione per la sua stessa incolumità». «L’eroe borghese», lo aveva definito Corrado Stajano nel libro ancora oggi celebrato come esempio di giornalismo d’inchiesta. Borghese forse perché non indossava divise e non aveva bandiere se non il tricolore cui era devoto. O forse perché, in un momento di forte contrapposizione sociale, ha dimostrato di essere il migliore tra quelli come lui. Un giurista, un avvocato, un professionista «eroe». Ha fatto il suo dovere e non si è fermato neppure di fronte alla morte.
«Masse di denaro a ignoti». La prima relazione ai pm di Ambrosoli su Sindona. Le carte dell’eroe borghese: complesso liquidare una banca. La ricostruzione delle operazioni per trasferire all’estero «enormi masse di denaro», scrive Sergio Bocconi il 12 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il 22.10.1974 il sottoscritto ha reso alla S.V. deposizione sui fatti emersi da un primo esame (...) ed ora è in grado di offrire una prima relazione...». Così Giorgio Ambrosoli, che ha assunto il 29 settembre 1974 le funzioni di unico commissario liquidatore della Banca Privata italiana, il cuore dell’impero in dissesto di Michele Sindona, scrive in apertura delle 14 pagine che compongono la «Prima relazione» al Procuratore della Repubblica (il pm che segue la bancarotta è Guido Viola, e Ovidio Urbisci è giudice istruttore) datata 21 marzo 1975. Il documento, inedito e che precede il primo rapporto inviato a Banca d’Italia il 26 giugno (Governatore è Guido Carli fino all’agosto 1975, poi gli succede Paolo Baffi), fa parte dell’archivio della Banca Privata riordinato, reso ora consultabile e conservato dalla Camera di commercio di Milano per conto dell’Archivio di Stato. Un «tesoro» composto da 8.944 fascicoli, dei quali 6.300 riguardano l’attività degli istituti che nel 1974 sono diventati la Privata mentre gli altri sono relativi all’attività liquidatoria di Ambrosoli e di chi ne proseguirà il lavoro dopo che l’11 luglio l’«eroe borghese» verrà ucciso dal killer William Arico su mandato di Sindona, agli interrogatori e agli atti della «scatole» societarie costruite dal bancarottiere. Colpiscono nella relazione le righe che definiscono tratti caratteriali e professionali di Ambrosoli come il senso del dovere e di responsabilità. «Per quanto dal 27.9 siano decorsi quasi sei mesi, il sottoscritto ha potuto dedicare poco tempo alle indagini ai fini della relazione, occupato dalla gestione quotidiana dell’azienda: se invero chiudere un’azienda è relativamente facile, assai più complessa e lunga è la liquidazione di un’azienda di credito la cui “vita” continua anche dopo la messa di liquidazione per i molteplici rapporti in essere soprattutto con l’estero». Il commissario sottolinea «la convinzione» che la Procura, disponendo delle relazioni degli ispettori di Bankitalia, abbia già elementi «per procedere nei confronti dei responsabili». Perciò ha dedicato l’attenzione «ai problemi più urgenti per svolgere le operazioni di liquidazione»: dalla formazione dello stato passivo alla «sistemazione presso altri istituti del personale dell’azienda». L’entità del dissesto che emerge dalla contabilità raggiunge 531 miliardi di lire, ma Ambrosoli spiega di aver «contenuto» il passivo in 417 miliardi «contestando crediti ed effettuando compensazioni». Nella relazione il commissario già traccia i meccanismi fraudolenti messi in atto dal bancarottiere: «Operazioni di affidamento a società estere per il tramite di poche banche straniere tutte o quasi strettamente collegate al gruppo Sindona». Così «enormi masse di denaro sono trasmesse all’estero e buona parte di tali importi è stata trasferita a beneficiari sconosciuti». Dai primi mesi del 1974 il gruppo ha «operato nella prospettiva del dissesto». Ambrosoli descrive poi perdite da prestiti “diretti” a società estere «non previste dal consiglio», «distorsioni contabili di gravità tale da alterare la veridicità dei bilanci». E si sofferma sulle operazioni in cambi non contabilizzate che portano alla «falsificazione di documenti contabili, all’occultamento di costi e ricavi»: sono pervenute «domande di tre creditori» fra cui lo Ior, l’Istituto del Vaticano, per «ingenti depositi in dollari», contabilizzati «invece come depositi di una banca estera presso la Privata». Le responsabilità? Fanno carico «a chi amministrava la banca, o meglio, disponendo della maggioranza azionaria, era l’ispiratore di ogni attività». A Sindona dunque. Sebbene «non meno gravi» sono quelle di «amministratori, sindaci, dirigenti che hanno passivamente ordinato, disposto ed eseguito». Nelle 14 pagine c’è già dunque tutto, o quasi, ciò che porterà al sacrificio di Ambrosoli. Il quale, pochi giorni prima, aveva scritto alla moglie Annalori: «Pagherò a molto caro prezzo l’incarico. Qualunque cosa succeda tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo».
E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.
Dai delitti delle Br alle trame della P2: la storia italiana negli archivi del tribunale di Milano. Nell'ufficio corpi di reato sono custoditi i volantini delle Br, i nastri con le telefonate minatorie a Giorgio Ambrosoli, la bici del terrorista Alunni e tantissimi documenti legati alle inchieste sugli anni di Piombo. Massimo Pisa il 07 luglio 2019 su La Repubblica. Il pacco 51186 è alto e largo come una risma di carta. E quella contiene, grosso modo. Volantini, appena più di un migliaio: "nr. 320 rinvenuti in data 25.4.78 alle ore 7,00 in piazza S.Babila; nr. 188 in Piazza Beccaria...". Così usava allora, con le rivendicazioni degli omicidi delle Brigate Rosse lasciate a mazzi in vari punti della città. Per dimostrare, anche in questo modo, che loro - i brigatisti - la città la controllavano e si muovevano come volevano. In quel mattino di martedì, con Milano e l'Italia appese da quaranta giorni alle sorti di Aldo Moro, l'omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo della Penitenziaria di San Vittore era già vecchio di cinque giorni, già dimenticato. Quei deliri con la stella a cinque punte lo additavano come "torturatore" della colonna Walter Alasia. Non era vero, lo sapevano soprattutto i detenuti. Digos, carabinieri e vigili raccolsero quei 1.025 fogli. Divennero un unico corpo di reato da conservare fino al processo. Divennero questo pacco ancora annodato con lo spago e sigillato a piombo, con l'elenco del contenuto battuto a macchina in puro "poliziottese", che dorme da quarantun'anni con migliaia di altri reperti nella stanza quattro di uno dei corridoi dell'Ufficio corpi di reato del tribunale. Due scaffali enormi, sono quelli su cui sono appoggiati i reperti degli Anni di piombo. I pezzi superstiti. Quelli non ancora reclamati da nessuno, non restituiti agli aventi diritto, non ancora consegnati a un museo, a una fondazione, alla storia. Giacciono, affidati alle metodiche cure del magistrato Alfredo Nosenzo, del funzionario Giannino Talarico e della mezza dozzina di impiegati chiamati a gestire enormi spazi e volumi di oggetti per contro del presidente del tribunale, Roberto Bichi. Questo pezzettino di archivio è quello storicamente più prezioso. Di qui si dice che sia transitato per anni l'originale della scheda di affiliazione di Silvio Berlusconi alla Loggia P2. Qui, di certo, di quell'intreccio infernale di massoneria, poteri deviati e criminalità che marchiò la storia d'Italia, sono custodite le voci. Reperto 56979: "una cassetta con nastro registrato della prima e della seconda telefonata minatoria a Enrico Cuccia il 28/ 3/ 1980; una cassetta con nastro registrato della telefonata minatoria a Giorgio Ambrosoli il 9/1/1979". L'ombra di Michele Sindona e di quel milieu atlantico e cattolico, che travolgerà la vita dell'eroe borghese e sfiorerà quella del gran capo di Mediobanca. Busta 55129: altre due telefonate di avvertimento a Cuccia e Ambrosoli, e una piantina di Milano sequestrata a William J. Aricò, il killer mafioso dell'avvocato milanese assoldato da Sindona. Plico 54746: agenda, rubrica e corrispondenza sequestrate alla Giole di Castiglion Fibocchi, la fabbrica di camicie di Licio Gelli che di quelle trame era il sommo tessitore. Pacchi numero 57055 e 57061, con le firme in calce dei giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo: foto e negativi portati via da Villa Wanda, sempre in quel fatidico 17 marzo 1981, il giorno in cui i vertici dello Stato compromessi con grembiuli e compassi cominciarono a tremare. E ancora, dagli armadi e dai registri originali del tribunale, catalogati a penna e con quelle antiche etichette battute a piombo, riaffiorano documenti bancari, schede, biglietti: fonti di prova che entrarono in quei processi e da allora sono in attesa di destinazione. Ma almeno, adesso, hanno un loro posto. "Per decenni - spiegano all'Ufficio - in questi corridoi e nelle stanze ogni scaffale era stracolmo di materiale lasciato lì senza nessun criterio. In alcuni ambienti non si poteva nemmeno entrare". L'idea, spiega Nosenzo, è "di ragionare tra qualche mese con Archivi e fondazioni pubbliche per capire cosa fare di questo materiale". Ritroverebbero una casa le videocassette di Mistero Buffo e delle altre rappresentazioni teatrali di Dario Fo trasmesse in tv, che qualche zelante ufficiale periodicamente registrava in caso di futura denuncia. Ritroverebbe un suo spazio la Legnano nera col cestello e "col freno posteriore rotto" (ricorda il cartellino) portata via il 13 settembre 1978 dal covo di via Negroli di " Massimo Turicchia", nome di Corrado Alunni, ex fondatore delle Br e ideatore delle Formazioni Comuniste Combattenti. Sarebbero visibili ai feticisti del genere le macchine da scrivere e i ciclostile portati via dalle varie basi del terrorismo rosso. Le valigie con gli striscioni originali che venivano appese nelle fabbriche dai fiancheggiatori: alla Breda, alla Pirelli, alla Magneti Marelli. Il 759 volantini con la rivendicazione del sequestro del generale statunitense Lee Dozier, ritrovate nel 1982 in un appartamento di via Verga. I nastri dei sequestratori di Renzo Sandrucci, le telefonate dei killer di Prima Linea. Passato remoto, vicinissimo, ancora inciso nella carne della città.
Giulio Andreotti. Da Wikipedia.
Rapporti con Michele Sindona e Licio Gelli. Secondo la Corte di Perugia e il Tribunale di Palermo «Andreotti aveva rapporti di antica data con molte delle persone che a vario titolo si erano interessate della vicenda del banchiere della Banca Privata Italiana ed esponente della loggia massonica P2 Michele Sindona, oltre che con lo stesso Sindona.» Tali rapporti si intensificarono nel 1976, al momento del crac finanziario delle banche di Sindona: Licio Gelli, capo della loggia P2, propose un piano per salvare la Banca Privata Italiana all'allora Ministro della difesa Andreotti. Quest'ultimo incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d'Italia. In seguito, Andreotti si giustificò sostenendo che il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana era solo di natura istituzionale. Tuttavia, anche durante la lunga latitanza di Sindona all'hotel Pierre di New York, Andreotti continuò a mantenere contatti con l'avvocato del banchiere, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l'estradizione. Solo dopo il falso rapimento di Sindona, la sua estradizione e il conseguente arresto per bancarotta fraudolenta e per l'omicidio del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli, Andreotti se ne distanziò pubblicamente. Su Ambrosoli, Andreotti ha in seguito dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando».., per poi precisare: «... intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto». Nel 1984 la Camera e il Senato votano respingendole delle mozioni presentate dalle opposizioni che avrebbero impegnato il governo ad assumere decisioni sulle responsabilità di Andreotti relative al caso Sindona. Sindona morì avvelenato da un caffè al cianuro il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera, due giorni dopo essere stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ambrosoli. La sua morte fu giudicata essere un suicidio, poiché le prove e le testimonianze riguardo al veleno utilizzato e al comportamento di Sindona stesso fecero supporre un tentativo di auto-avvelenamento: tale atto sarebbe stato compiuto nella speranza di una re-estradizione negli Stati Uniti, paese con il quale l'Italia aveva un accordo sulla custodia del banchiere legato alla sicurezza e incolumità di quest'ultimo. Sindona, quindi, avrebbe messo in scena un avvelenamento e sarebbe morto a causa di un errore di dosaggio. Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che sia stato Andreotti a far pervenire una bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest'ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d'appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «... fino alla sentenza del 18 marzo 1986Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall'ergastolo. Nel processo d'appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto». Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona. Ancora nel 2010, Giulio Andreotti dava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Il fatto «che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene». Inoltre nel 1988 Clara Canetti, la vedova del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra nel 1982), affermò che il marito le avrebbe confidato poco tempo prima di morire che il vero capo della loggia P2 era Andreotti, da cui Licio Gelli prendeva ordini: di tale affermazione però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili ed Andreotti negò le accuse della vedova, rispondendo ironicamente: «Se fossi un massone non mi accontenterei di essere a capo di una loggia soltanto». A questo proposito, in un'intervista concessa il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli dichiarò: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero "padrone" della Loggia P2? Per carità.. io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l'Anello»: l'Anello (o più propriamente chiamato «Noto servizio») sarebbe stato un servizio segreto parallelo e clandestino usato come anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile. Il settimanale Oggi chiese subito un commento ad Andreotti, il quale fece sapere di non volere rispondere alle dichiarazioni di Gelli».
Ambrosoli imitò il folle volo di Ulisse e morì cercando “virtute e conoscenza”. Eroe civile e simbolo dell’avvocatura, morì assassinato a Milano nel luglio 1979. Renato Luparini il 21 Dicembre 2019 su Il Dubbio. È di questi giorni una rievocazione televisiva di Giorgio Ambrosoli, eroe civile e simbolo dell’avvocatura. Nella ricostruzione della torbida vicenda del suo assassinio sono state ricordate le parole di Giulio Andreotti : “Se le è andata a cercare...”. Spesso, in modo del tutto arbitrario quella frase infelice è stata usata come una sorta di concorso morale nell’omicidio, addossando ad Andreotti l’ennesimo ipotetico misfatto. In realtà quelle parole scolpiscono in modo icastico tutta la differenza tra il modo di pensare di un politico e quello di un avvocato. Già gli antichi l’avevano compreso con l’adagio Fiat iustitia, pereat mundus, che già in epoca romana criticava l’impostazione di chi, pur di affermare un principio giuridico, non ne misura le conseguenze in altri campi. La politica nasce dalla constatazione dell’inevitabilità del male e del disordine. E’ l’arte del possibile, non del giusto e dell’equo. Uno statista non ha remora a stringere la mano di un dittatore o andare a pranzo con un tiranno sanguinario: sa che in quel momento quello è il suo referente e con cui lui deve parlare. Poi, a distanza di qualche giorno, può decidere di radere al suolo il suo Paese e di farlo ammazzare, se le circostanze lo rendono utile. L’avvocato è invece immerso in un mondo di perfezioni, che per quanto provvisorie e artificiali (come ha ricordato Gianrico Carofiglio), tendono a eliminare il disordine. La pena ma anche il processo e la stessa norma giuridica in sé hanno il compito di liberarci dal male. Le liti si compongono attraverso le prescrizioni delle leggi, che orientano gli uomini verso la buona fede, la diligenza, la correttezza. Quando le norme non bastano ci sono i contratti, che vanno interpretati sulla base degli stessi principi, come se gli uomini con il loro odio reciproco fossero esseri puramente razionali. E poi il processo: la grande purificazione delle passioni, dove anche i nomi delle persone si mutano in quelli di parti di una rappresentazione. Infine, se proprio serve, la pena che espia il peccato e ristora la pace sociale. L’avvocato è totalmente in mezzo al diritto, molto più del giudice e del pubblico ministero che sono espressione di un Potere e quindi sono anche, in senso lato, dei politici. Accecato da questo amore per il buono e l’equo, l’avvocato, se è un uomo di valore, è naturalmente a disagio in politica. Non gli sfuggono certo, a livello intellettuale, le conseguenze del suo agire, ma è inevitabilmente attratto dall’osservanza delle regole, dalla norma eretta a costume di vita. Il destino di Ambrosoli che andò incontro alla morte consapevolmente è paragonabile al “folle volo” di Ulisse nella Divina Commedia: un viaggio incontro ai mostri, intrapreso per la necessità di seguire “virtute e conoscenza”. Con ironia Giulio Andreotti all’esordio dei suoi problemi giudiziari, notò che la sua laurea in Giurisprudenza era ormai arrivata a prescrizione. Da uomo acuto qual era si rendeva conto che il tempo è un fattore essenziale nella vita, ma in realtà involontariamente fece trapelare tutta la sua estraneità al mondo del diritto, fatto di regole precise e di scontri in campo aperto. Si sarebbe voluto laureare in medicina e scelse gli studi giuridici solo per convenienza e necessità. Due sostantivi che hanno sempre orientato le sue decisioni. Davanti al male, inevitabilmente nascosto negli arcana imperi, nei segreti di ogni Stato, non è prudente politicamente aprire veli o guardare negli occhi la Medusa, piuttosto serve sfuggirle con sagacia. Sono riflessioni che si materializzano nell’Aula Magna della Corte di Cassazione, dove si vede , alto nel soffitto , Giustiniano che, sulla sommità del suo trono, getta per terra alcuni ricorsi e ne accoglie altri con braccio solenne. Procopio, che ne fu lo storico, di lui ci fa due profili: uno bello e intonato alla decorazione, un altro, nella Storia Segreta, decisamente più prosaico e avvilente. Ma nell’Aula Magna della Suprema Corte conviene vederlo con il suo diadema da Imperatore giusto, immaginando che i ricorsi accolti siano i più meritevoli. Forse è un’illusione, come l’effetto ottico dell’aula, ma se quella decorazione non ci fosse bisognerebbe dipingerla.
Ambrosoli, la vita di un uomo normale. Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 su Corriere.it. L’11 luglio del 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli veniva ucciso da un sicario mandato da Sindona. Cinque anni prima era stato nominato dalla Banca d’Italia commissario liquidatore della Banca Privata Italiana: aveva scoperto spaventose attività criminali ma anziché — chissà quanti lo avrebbero fatto — lasciar perdere, proseguì nel suo lavoro. Ai suoi funerali, nessuna autorità pubblica. In seguito, è diventata celebre la frase di Andreotti; l’agghiacciante: «Se l’andava cercando». Ecco perché, 40 anni dopo, è bene ricordare questo eroe borghese (così lo aveva definito Stajano). La Rai lo farà in autunno con una nuova docu-fiction prodotta da Stand By Me (Ercolani: «Sono orgogliosa di aver contribuito a riportare in tv la storia di Ambrosoli: un uomo normale ed eccezionale»), in collaborazione con Rai Fiction (Andreatta: «Per il servizio pubblico è un progetto necessario; è la storia di un uomo dello Stato»), che si basa sul racconto del figlio, Umberto. Nella parte di fiction, invece, c’è la dimensione privata dell’uomo, con il volto di Alessio Boni. «È stato un onore — dice —. Lui non era un poliziotto, un carabiniere o un magistrato. Era un tecnico, che, pur capendo i rischi, ha fatto quello che doveva solo per etica, perché era suo dovere. Che esempio». La difficoltà per l’attore è stata cercare materiali video su Ambrosoli: «Non ci sono: curioso no? Anche nelle Teche Rai è tutto sparito. Fa paura. Ho trovato solo un’intervista. Per fortuna ci sono i figli, le persone che l’hanno conosciuto, che spiegano chi fosse». Dopo aver scoperto le magagne dello Ior, «lui che era molto credente, aveva smesso di andare in chiesa: accompagnava moglie e figli a messa e lui stava fuori a fumare». Un uomo «che è un esempio in un’Italia in cui pensi di doverti sempre arrabattare. Lui no: ha fatto, serenamente, il suo. Sembra poco italiano». Sul perché da noi funzioni spesso così, Boni ha un’idea: «Non siamo maleducati ma ineducati. Non abbiamo mai avuto un governo forte che ci ha insegnato le regole. Sta a noi singoli dover fare, a turno, gli Ambrosoli». E il ricordo va alla nonna Maddalena: «Avevamo fatto un pic nic, negli anni 70. Ero un ragazzino e ho buttato la carta di una caramella per terra: era tutto lercio. Mi ha dato uno scappellotto. “Ma nonna, non vedi che è tutto sporco?” Mi ha risposto con una lezione di vita: “Tu devi fare il tuo”. Ambrosoli lo ha fatto. Dobbiamo ricordarci che siamo figli anche suoi. Di Dalla Chiesa, Falcone... Come vorrei che fossero loro a rappresentarci». Siamo distanti da quel modello, invece? «I politici dovrebbero lavorare per “noi”, invece è tutto un discorso sull’“io”. Un gioco di esposizione e vanità, dicendo anche tante cose non vere per un voto». Che pensa dei film sulle vite di mafiosi e criminali? «Che gli diamo troppo credito. Bisognerebbe avere coraggio e lasciarli nell’indifferenza».
40 anni fa l'omicidio di Giorgio Ambrosoli. Ucciso da un killer pagato da Michele Sindona, l'avvocato milanese aveva scoperto la rete di affari tra finanza, massoneria, politica e mafia senza mai cedere alle minacce. Edoardo Frittoli l'11 luglio 2019 su Panorama. Milano, via Morozzo della Rocca (zona Magenta). Ore 23:45 del 10 luglio 1979. Aveva immediatamente messo le mani avanti Michele Sindona, minacciando dalla latitanza dorata all'Hotel Pierre di New Yorkchiunque avesse osato collegare la morte dell'avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana con il suo ruolo di mandante. Mentre il finanziere siciliano tuonava, il corpo dell'avvocato milanese Giorgio Ambrosoli era ancora sotto i flash della Scientifica a Milano, in via Morozzo della Rocca, a due passi dal carcere di San Vittore. Era stato colpito poco prima della mezzanotte del 10 luglio 1979 da un sicario accompagnato da due complici a colpi di 38 special. L'avvocato crollava a terra di fianco alla sua Alfetta, ancora vivo. Con l'ultimo filo di voce riferiva ai primi soccorritori di essere stato colpito da tre sconosciuti, di cui uno soltanto l'esecutore materiale. Ambrosoli andò all'appuntamento con la morte da solo, perché non gli era stata assegnata alcuna scorta da parte dello Stato, nonostante gli evidenti rischi dovuti al delicatissimo incarico.
Morte annunciata di un'eroe borghese. Finiva così la vita di un'"eroe borghese": sull'asfalto di una via di un quartiere (anch'esso borghese) di Milano. Con lui se ne andavano le speranze di chi ancora aveva creduto nell'opera di un servitore dello Stato e della Giustizia. Pochi ma influenti erano stati i suoi sostenitori durante la meticolosa opera di raccolta delle prove a carico di Sindona e dei suoi uomini, in particolare l'ex presidente dell'ABI Tancredi Bianchi, il governatore di Bankitalia Paolo Baffied il suo vice Mario Sarcinelli. Loro conoscevano bene la professionalità di Ambrosoli e la sua disinteressata rettitudine in occasione della liquidazione coatta della SFI, uno scandalo finanziario che aveva coinvolto una rete di imprenditori in Lombardia. Ambrosoli ebbe l'incarico di Commissario liquidatore della BPI nel mese di ottobre del 1974, dopo che l'allora governatore Guido Carli bocciò la proposta di salvataggio dell'istituto in mano a Sindona, decretandone il "crack" e il successivo mandato di cattura per il finanziere di Patti assieme al suo braccio destro Carlo Bordoni. L'avvocato (allora quarantenne) si rimboccò le maniche, accettando l'incarico pur consapevole dei possibili rischi ai quali un affare così intricato avrebbe potuto esporlo. Per quattro lunghi anni Ambrosoli lavorò per 12 ore al giorno per ricostruire un infinito puzzle di documenti e operazioni che avrebbero portato ad un altrettanto ingarbugliata rete di relazioni tra decine di società fantasma dell'ex-impero Sindona. Ambrosoli dovette recuperare tutta la documentazione che fu fatta sparire all'atto della messa in liquidazione della BPI, sia in Italia che all'estero. In Svizzera l'operazione risultò complicatissima perché le banche elvetiche, che avevano avuto relazioni con Sindona, negarono categoricamente ogni forma di collaborazione. Nel frattempo l'iter giudiziario sul fallimento dell'istituto di credito rese nota l'entità del buco, che superò la cifra astronomica di 200 miliardi di lire. Mentre lavorava sui documenti, l'affare BPI si gonfiava tra le mani del liquidatore, coinvolgendo ambianti del Vaticano, molti politici e imprenditori, la Massoneria, la mafia americana. Il 9 novembre 1977 il giudice Ovilio Urbisci emette l'ordine d'arresto per Mario Baroni, amministratore delegato del Banco di Roma e amico di Giulio Andreotti. Parallelamente parte l'inchiesta americana condotta dall'FBI per il fallimento della Franklin National Bank, passata nelle mani di Sindona nel 1972 e travolta dalle operazioni spregiudicate del finanziere. Il 19 marzo 1979 la magistratura di New York incrimina Sindona e ne blocca l'estradizione in Italia. In questi mesi si moltiplicano le pressioni su Bankitalia affinché si proceda alla derubricazione del finanziere siciliano e a svariati tentativi di corruzione nei confronti dello stesso Ambrosoli, che a a quell'epoca aveva raccolto una mastodontica quantità di documenti probatori (12 mila pagine raccolte in 30 volumi) che l'avvocato milanese avrebbe dovuto portare in tribunale. Negli ultimi mesi le intimidazioni si moltiplicarono e Ambrosoli fu ripetutamente minacciato di morte al telefono da interlocutori dal forte accento siculo. Contemporaneamente i difensori di Sindona, in particolare per bocca dell'avvocato Rodolfo Guzzi, iniziarono una campagna di discredito dell'operato del liquidatore, dipinto come un "persecutore" di Sindona. Atto ugualmente determinante per l'isolamento di Ambrosoli fu il coinvolgimento dei suoi principali sostenitori Baffi e Sarcinelli dietro la pressione di Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti. I due erano stati accusati dalla Procura di Roma di interesse privato in atti d'ufficio e favoreggiamento e sollevati dagli incarichi.
Un uomo rimasto solo. Nonostante in Giorgio Ambrosoli fosse cresciuta la consapevolezza del grave rischio personale a cui si era esposto, non lasciò mai le carte che raccolse in 5 anni di lavoro incessante, senza cedere mai alle minacce e neppure ai numerosi tentativi di corruzione. Il 12 luglio l'avvocato aveva appuntamento in Tribunale con il giudice Giovanni Galati, al quale avrebbe dovuto presentare le carte dello scandalo, che avrebbero certamente aperto un vaso di Pandora nel mondo politico e finanziario internazionale. Mentre Ambrosoli riordinava le ultime carte che inchiodavano definitivamente Sindona e i suoi collaboratori alle proprie gravissime responsabilità, il finanziere pagava con 25.000 dollari d'anticipo (a cui se ne sarebbero aggiunti altri 90 mila) il sicario dell'eroe borghese, il killer italoamericano William J. Aricò che la notte tra il 10 e l'11 luglio 1979 eseguì gli ordini di Sindona e dell'esponente di Cosa Nostra a New York Robert Venetucci. La mattina dell'11 luglio la stanza n.33 al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Milano, quella del giudice Galati, rimase vuota. La figura eroica di Giorgio Ambrosoli emergerà tardivamente, quando il mandante del suo assassinio era già morto avvelenato in carcere e si era da tempo consumata la tragedia di Roberto Calvi e di un altro crack, quello del Banco Ambrosiano. Due giorni dopo la condanna definitiva di Michele Sindona all'ergastolo per l'omicidio Ambrosoli, il finanziere siciliano moriva avvelenato dal cianuro contenuto nel suo caffè. Nel 2010 Giulio Andreotti, intervistato durante la trasmissione Rai "La Storia Siamo Noi" dichiarava cinicamente che Ambrosoli "se l'era andata cercando".
«La lezione di mio padre? L’avvocato è al servizio di tutta la collettività». Umberto Ambrosoli ricorda il padre Giorgio: «La sua morte è una testimonianza del fatto che la nostra professione può contribuire a migliorare la condizioni del Paese nel quale viviamo. Nella quotidianità le insidie possono essere molto meno drammatiche, ma non per questo meno insidiose. Anche la pigrizia diventa un’insidia contro l’esercizio della responsabilità di avvocato». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 14 agosto 2022.
«Il senso della professionalità, cioè subordinare la propria fetta di potere, piccola o grande che sia, agli scopi dell’ordinamento, dell’istituzione, della propria arte o professione all’interesse pubblico». Queste parole del giornalista Marco Vitale vennero dedicate a Giorgio Ambrosoli all’indomani della sua morte. L’avvocato milanese venne nominato nel 1974 commissario liquidatore della Banca Privata Italiana per far luce sugli interessi torbidi tra politica, alta finanza, massoneria e criminalità organizzata siciliana messi in piedi da Michele Sindona. Giorgio Ambrosoli venne ucciso l’ 11 luglio 1979 sotto la sua abitazione a Milano. A distanza di quarantatré anni il figlio Umberto lo ricorda ancora con emozione.
Avvocato Ambrosoli, la figura di suo padre continua ad essere un punto di riferimento per l’avvocatura. Le doti umani e professionali sono alla base di questa grande considerazione?
Sì e questa cosa fa sicuramente piacere. Sono trascorsi 43 anni dall’uccisione di mio padre. Sotto certi punti di vista è una vita. Gli avvocati sono stati i primi a rendersi conto del significativo lavoro che mio padre stava facendo e della gravità di quello che si verificò. L’Ordine degli avvocati di Milano, per primo, ha voluto prendere una posizione nel 1979, all’indomani dell’assassinio di mio padre. Penso anche all’intitolazione della biblioteca dell’Ordine, nel Tribunale di Milano, molto prima di tutti gli altri riconoscimenti istituzionali. Esiste una ragione di vicinanza anzi di colleganza che porta ad una maggiore attenzione e sensibilità.
Quali insegnamenti ha lasciato all’avvocatura l’insegnamento di Giorgio Ambrosoli?
Fare l’avvocato non significa andare contro chi tutela gli interessi in prospettiva istituzionale. L’avvocato è per definizione al servizio della collettività. Mio padre ha interpretato con naturalezza i principi del nostro codice deontologico. Ricordo pochi giorni dopo l’omicidio di mio padre un articolo sul “Giornale” di Marco Vitale in cui si evidenziava il ruolo del professionista, ovvero colui che subordina tutto sé stesso ai fini della sua professione e agli interessi che è chiamato istituzionalmente a rappresentare. Voglio ricordare, inoltre, che lo stesso Sindona era avvocato. La morte di Giorgio Ambrosoli ha lasciato la testimonianza del fatto che, attraverso la propria professione, si può contribuire a migliorare la condizioni del paese nel quale viviamo, difendendo la propria libertà. Nella nostra quotidianità le insidie possono essere molto meno drammatiche ma non per questo meno insidiose. Sotto certi punti di vista anche la pigrizia diventa un’insidia contro l’esercizio della responsabilità di avvocato.
Gli avvocati sono i primi difensori della legalità…
Gli anni nei quali si è sviluppata la vicenda di mio padre offrono più di una testimonianza. Si pensi, per esempio, alla figura di Fulvio Croce. Il coraggio di Croce rappresenta quello che hanno avuto tanti altri avvocati. La competenza tecnica e la missione di guardare con occhi antitetici rispetto a quelli di una accusa è strumentale a fare in modo che il giudice possa comprendere che cosa è successo. E giudicare in senso pieno.
Perché lei ha deciso di fare l’avvocato e seguire le orme di suo padre?
Non vorrei sembrare blasfemo, ma la “colpa” è di… Perry Mason. Di quel meraviglioso telefilm in bianco e nero, già vecchio quando lo guardavo da bambino. La prima idea di che cosa volesse dire fare l’avvocato nell’ambito penale l’ho avuta prima che mio padre prendesse le scelte che ha adottato per seguire ciò che riteneva essere il fine della sua vita. Mia madre ha fatto di tutto perché io non mi sentissi in dovere di fare quello che aveva fatto mio padre. Ha cercato di valorizzare al massimo il mio interesse per l’attualità, per il giornalismo, per la scrittura. Quando sono arrivato per la pratica nello studio nel quale lavoro tuttora, quello dell’avvocato Lodovico Isolabella, la prima domanda fu: “Perché vuoi fare l’avvocato?”. Le parole che mi sono uscite furono più o meno queste: perché voglio esserci nel momento in cui una persona è chiamata a confrontarsi con una responsabilità che ha avuto o che gli si imputa di aver avuto.
Il coraggio si può trasferire con esempi positivi o è una parte che ognuno di noi ha dentro di sé e può sfoderare all’occorrenza?
Io propendo per la prima ipotesi. Gli esempi di coraggio generano coraggio. Dovremmo entrare, sotto certi versi nella psicoanalisi, ma non è il caso e non ho le competenze. Quello che vedo è che chi non ha avuto la fortuna di incontrare degli esempi di coraggio è sconfortato. È rinunciatario. Chi invece ha avuto esempi di coraggio pensa di poter dar prova nel caso in cui è chiamato a darne testimonianza.
Lei viene invitato spesso nei Coa, ma anche nelle scuole e nelle università, per ricordare la figura di Giorgio Ambrosoli. Quali sono le testimonianze d’affetto che più la confortano?
Sono le testimonianze di chi non ha nessun legame con la storia di mio padre. Non ha un legame cronologico, perché troppo giovane, non ha un legame territoriale, perché vive in un’altra città o regione. Mi colpisce come tante persone abbiamo la capacità di arrivare al punto dei problemi. All’anima della vicenda. Da un altro lato mi colpisce come tante persone riescano a cogliere nella vicenda di mio padre ciò che scalda il loro cuore e li fa sentire protagonisti nel desiderio di voler conoscere la storia di una vita.
Si può vivere, prendendo spunto dal titolo di un suo libro di qualche anno fa, “Liberi e senza paura”?
La storia di mio padre mi porta a rispondere affermativamente. Non vorrei però dare l’idea di un papà imprudente. La paura è uno strumento che ci serve per decidere meglio. Io ricordo Ardito Desio in una meravigliosa intervista televisiva, con dei bianchi e neri ormai sgranati, che ad un certo punto risponde al giornalista. Quest’ultimo esaltava le sue imprese. Ardito Desio si è quasi offeso per come veniva presentato e disse che chi non ha paura in montagna muore. La paura ci serve per poter superare ciò che la genera nella maniera migliore.
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
Giancarlo Siani, penna e taccuino per combattere il malaffare. L’hanno ucciso la sera del 23 settembre ’85 sotto casa sua a Napoli perché smettesse di parlare e smettesse di scrivere. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 28 marzo 2022.
La sola guerra combattuta da Giancarlo Siani nella sua pur breve vita, è stata quella contro l’ingiustizia e il malaffare. Le sue sole armi, una penna e un taccuino. Quando oggi, a più di 36 anni dal suo omicidio, dobbiamo ancora fare i conti con un conflitto che lascia sul campo mamme e bambini, giovani e vecchi, militari e civili, non possiamo esimerci dal constatare che una volta di più anche i giornalisti sono obiettivi sensibili.
Uccisi certo in circostanze diverse, dal potere camorristico- mafioso Siani e dalla sete di guerra i reporter rimasti sul terreno in Ucraina, ma accomunati da una fine tragica: morire per raccontare. Che siano le faide tra famiglie rivali di Napoli o i bombardamenti degli aerei russi su Kiev, oggi come allora i reporter vengono uccisi perché non si sappia la verità. Perché nulla si sappia degli affari tra i “Nuvoletta” e i “Bardellino” e perché non si raccontino le atrocità di chi deve scappare da casa sotto i colpi dei mortai. Perché un capo clan alle pendici del Vesuvio non storca il naso leggendo il giornale e perché la gente di Russia non conosca la reale devastazione portata dal suo esercito con l’obiettivo di annientare il nemico.
Che si voglia raccontare la verità pubblicando a 26 anni articoli sul Mattino o girando a 50 immagini che poi vengono mandate in onda da Fox News, poco cambia. Giancarlo Siani, in fondo, la sua guerra l’ha vinta. Non è qui con noi a raccontarla, è vero, oggi che avrebbe poco più di 60 anni e tanti pezzi ancora da scrivere. Ma sono gli articoli che ha scritto ad aver squarciato il velo di omertà e ipocrisia che c’era negli anni 80, e in parte c’è ancora oggi, quando si parla di camorra e guerra tra clan.
Dopo la formazione classica Siani inizia a collaborare con alcuni periodici napoletani, fondando tra l’altro il “Movimento democratico per il diritto all’informazione”, simbolo della sua voglia di raccontare non solo sulla carta ma anche per le strade di Napoli ciò che velandola di criminalità rendeva opaca la brillantezza di quella città. Dopo alcuni articoli scritti per Il lavoro nel Sud, testata della Cisl, è con le corrispondenze da Torre Annunziata, scritte per la redazione di Castellammare di Stabia del Mattino, che comincia il suo viaggio nei meandri delle organizzazioni mafiose. Mattone dopo mattone, costruisce il ponte sul quale accompagnerà i napoletani a conoscere la verità sulle faide più nascoste. Quelle che stanno dall’altra parte del fiume, quelle che in fondo «sì, sappiamo quello che succede, ma non ci riguarda». E invece Giancarlo prima scava e le porta in superficie, poi prende appunti e unisce gli indizi, fino a scoprire la verità e rivelarla alla sua gente. Come in una riedizione in salsa partenopea del celebre mito della caverna, illumina Napoli di una luce nuova, mostrando la realtà dei fatti e descrivendola passaggio per passaggio.
Nello specifico, quello che lo porterà alla morte è un articolo pubblicato il 10 giugno 1985, in cui informa l’opinione pubblica che l’arresto del boss Valentino Gionta è stato possibile grazie a una soffiata degli alleati Nuvoletta, che lo tradirono in cambio di una tregua con i nemici storici, i Casalesi. Dodici anni dopo, il 15 aprile 1997, la seconda sezione della corte d’Assise di Napoli ha condannato all’ergastolo i mandanti dell’omicidio (i fratelli Lorenzo e Angelo Nuvoletta, e Luigi Baccante) e i suoi esecutori materiali (Ciro Cappuccio e Armando Del Core). L’hanno ucciso con 10 colpi di pistola alla testa la sera del 23 settembre 1985 sotto casa sua a Napoli. Ucciso perché smettesse di parlare, perché smettesse di scrivere. Perché smettesse definitivamente di combattere la sua guerra e deponesse per sempre le sue armi. Gli avevano chiesto di arrendersi, lui non l’ha mai fatto. E noi, oggi, abbiamo il dovere di continuare a combattere quella stessa guerra con le sue stesse armi. Una penna e un taccuino.